Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’AMMINISTRAZIONE
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’AMMINISTRAZIONE
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Insicurezza.
La Burocrazia.
La malapianta della Spazzacorrotti.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Ponte sull’Italia.
La Sicurezza: Viabilità e Trasporti.
La Strage del Mottarone.
Il Mose.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Disuguaglianza.
I Bonus.
Il Salario Minimo.
Il Reddito di Cittadinanza.
Quelli che…meglio poveri.
Quelli che …dei call-center.
Le Pensioni.
L’Assistenza ai non autosufficienti.
Gli affari sulle malattie.
Martiri del Lavoro.
Il Valore di una Vita: il Capitale Umano.
Manovre di primo soccorso: Il vero; il Falso.
L'attività fisica allunga la vita.
La Sindrome di Turner.
Il Sonno.
Attenti a quei farmaci.
Le malattie più temute.
Il Dolore.
I Trapianti.
Il Tumore.
L’Ictus.
Fibromialgia, Endometriosi, Vulvodinia: patologie diffuse ed invisibili.
La Sla, sclerosi laterale amiotrofica.
La Sclerosi Multipla.
Il Cuore.
I Polmoni.
I calcoli renali.
La Prostata.
L'incontinenza urinaria.
La Tiroide.
L’Anemia.
Il Diabete.
Vampate di calore.
Mancanza di Sodio.
L’Asma.
Le Spine.
La Calvizie.
Il Prurito.
Le Occhiaie.
La Vista.
La Lacrimazione.
La Dermatite.
L’ Herpes.
I Denti.
L’Osteoporosi.
La Lombalgia.
La Sarcopenia.
La fascite plantare.
Il Parkinson.
La Senilità.
Depressione ed Esaurimento (Stress).
La Sordità.
L’Acufene.
La Prosopagnosia.
L’Epilessia.
L’Autismo.
L’Afasia.
La disnomia.
Dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia.
La Balbuzie.
L’Insonnia.
I Mal di Testa.
La Flatulenza.
La Pancetta.
La Dieta.
Il Ritocchino.
L’Anoressia.
L’Alcolismo.
L’Ipotermia.
Malattie sessualmente trasmesse.
Il Parto.
La Cucitura.
INDICE QUARTA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.
L'Endemia. L’Epidemia. La Pandemia.
Le Epidemie.
Virus, batteri, funghi.
L’Inquinamento atmosferico.
HIV: (il virus che provoca l'Aids).
L’Influenza.
La Sars-CoV-2 e le sue varianti.
Alle origini del Covid-19.
Le Fake News.
Morti per…Morti con…
Il Contagio.
Long Covid.
Da ricordare…
Protocolli sbagliati.
Io Denuncio…
I Tamponati…
Le Mascherine.
Gli Esperti.
INDICE QUINTA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Vaccini e Cure.
Succede in Svezia.
Succede in Inghilterra.
Succede in Germania.
Succede in Cina.
Succede in Corea del Nord.
Succede in Africa.
Il Green Pass e le Quarantene.
Chi sono i No Vax?
Gli irresponsabili.
Covid e Dad.
Il costo.
Le Speculazioni.
Gli arricchiti del Covid.
Covid: Malattia Professionale.
La Missione Russa.
Il Vaiolo delle scimmie.
Il virus del Nilo occidentale (West Nile virus, in inglese).
Gli altri Virus.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’AMMINISTRAZIONE
TERZA PARTE
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Antonio Giangrande: L’Italia è un parassitario senza fondo, dove i soldi non bastano mai. Reso così dai catto-comunisti, dissimulati anche sotto mentite spoglie (5 Stelle-Lega). Quei catto-comunisti che se governano loro è democrazia, se governano gli altri è dittatura. Quei catto-comunisti che, pur minoritari affetti dalla sindrome della Resistenza, impongono il loro pensiero ideologico con manifestazioni di piazza, anche violente, disconoscendo l’opera, addirittura, dei loro stessi rappresentanti parlamentari portatori dei loro medesimi interessi. Quei catto-comunisti che vogliono il lavoro, ma non vogliono le imprese che creano lavoro. Per loro il lavoro è inteso ancora come il posto fisso statale parassitario. Oggi il lavoro si inventa, non lo si subisce o lo si cerca senza trovarlo. Si agevoli, allora, l’invenzione dell’impresa.
La differenza tra uguaglianza ed equità. Tre ragazzi di differenti altezze dietro una staccionata, intenti a seguire la partita di calcio della loro squadra del cuore. Sono poveri e non possono permettersi il biglietto di ingresso allo stadio. A tutti e tre lo Stato, per il diritto di uguaglianza, dà a disposizione una identica cassetta di legno ciascuno, per guardare oltre la staccionata. Il primo da sinistra è avvantaggiato: essendo già “alto” di suo, ha i requisiti necessari per poter vedere la partita senza l’ausilio della cassetta. Il secondo, quello al centro, ha bisogno di quella cassetta per vedere lo spettacolo e con quella ci riesce benissimo. Il terzo a destra, molto più piccolo di statura rispetto agli altri due, anche con quel supporto, non arriva a vedere oltre l’ostacolo: non le basta una cassetta per poter vedere la partita. Con l’equità il primo dei tre può fare a meno del supporto e, offrendolo al terzo in aggiunta al suo, riesce a fornirgli la possibilità di raggiungere l’altezza necessaria per vedere la partita. In Italia con i catto-comunisti c'è il diritto di uguaglianza, non di equità. Non siamo tutti uguali e non ci può essere diritto di uguaglianza, ma dare a tutti la possibilità di vedere il futuro, specie ai più meritevoli, allora sì che si ha l’equità sociale.
Mirko Giangrande: “Il Festival delle Illazioni”
Come tutti ben sanno l’intera mia famiglia è stata vittima, chi in modo più grave chi in modo più lieve, del Covid - 19. Un nemico invisibile e infido che ha colpito in modo violento, repentino e simultaneo. Un fulmine a ciel sereno che si è abbattuto su gente sempre diligente e rispettosa di ogni regola: mascherina, distanziamento, tamponi, ecc. Tutto ciò, purtroppo, non è bastato ma alla fine, uniti come sempre, ne siamo usciti più forti di prima. Combattendo anche contro la “malasanità pugliese”, ma su tale argomento ormai tanto è stato detto e scritto, sebbene ancora qualcuno, accecato dalla partigianeria politica, esalta qualcosa che esiste solo nella propria mente e continua ad inondarci di belle parole su una situazione invece tragica e sotto gli occhi di tutti.
Ma cosa ci è rimasto di questa esperienza? Il letame. Esatto, tutta la “merda” che buona parte (ovviamente non tutta) del nostro paese ci ha tirato addosso. Non supportandoci ma trattandoci da “untori del paese”, che “il virus ce lo siamo meritato”, “che non dovremmo più farci vedere in giro per un bel po’”, “che ci siamo infettati partecipando a delle feste”. Ma la stronzata numero uno è che l’untore degli untori sono stato io, il principio della pandemia avetranese. Io avrei infettato i miei familiari e poi sarei scappato via. Ovviamente tralasciando il fatto che è dal primo ottobre che sto a Parma senza mai tornare e che nessuno dei miei familiari ha partecipato a nessuna festa. Tali illazioni non posso che partire dalle bocche di criminali e che non possono che far leva solo sui COGLIONI creduloni. Tutto ciò condito da un alto tasso di codardia, dato che chi mette in giro queste voci lo fa di nascosto, conscio che fa bene a non esporsi, rischiando tantissimo in termini legali...
Se la povertà bussa alla porta. Redazione L'Identità su L'Identità il 16 Dicembre 2022
di ANNAMARIA DE FALCO
I soldi per le bollette non ci sono. Per un italiano su dieci si tratta di una realtà, non di un rischio. La povertà bussa, insieme al freddo e all’indigenza. L’esclusione sociale non è un pericolo ma il pane quotidiano per cinque milioni di italiani, per ben due milioni di famiglie, il 44% delle quali vive al Sud. I dati dell’osservatorio sul debito con banche e finanziarie sono drammatici. E fin troppo eloquenti. Gli italiani non ce la fanno più. Le parole di Francesco Cacciola, presidente dell’Osservatorio, non lasciano spazio a nessun dubbio: “Il tasso di povertà assoluta è aumentato in modo devastante con oltre due milioni di famiglie che non arrivano a fine giornata, delle quali oltre il 44% vive al Sud e più del 30% ha bisogno di sussidi. Cinque milioni di persone non sono state in grado di pagare le bollette e altri tre milioni sono a rischio. Tutto ciò alla vigilia di una nuova stangata delle bollette energetiche che rischia di far rimanere tutte queste persone prigioniere dei loro debiti. Servono misure urgenti da parte del governo per ridurre i costi dell’energia, per favorire nuova occupazione, per fronteggiare il calo demografico per il quale nel 2035 il numero dei pensionati sarà superiore a occupati”. L’osservatorio, pertanto, ha promesso di assistere “in maniera gratuita tutti coloro che si trovano a dover affrontare la malattia di un proprio figlio e non possono pagare i debiti con banche e finanziarie. Li seguiremo per la ripianificazione dei propri impegni finanziari rendendoli sostenibili economicamente”.
Una mano, un aiuto importante arriverà anche dalla Chiesa. Padre Enzo Fortunato, già direttore della sala stampa e portavoce del Convento di Assisi, è già in prima fila, con i volontari cattolici, per far fronte a un’emergenza invisibile: “Di fronte a questa crisi per ora si è mossa solo la rete dei corpi intermedi fatta di associazionismo e volontariato. Caritas, Comunità di Sant’Egidio e tante altre strutture si stanno facendo carico delle difficoltà dei cittadini. Ma da soli non si va molto lontano. Serve un’azione di governo che sia in grado di dare una nuova visione al Paese”. E dunque: “Basta con leggi di bilancio che non impattano sulla vita reale dei bisognosi. Serve un welfare più concreto, a partire dall’aumento delle pensioni minime e dalla revisione del Reddito di cittadinanza che va assolutamente mantenuto seppur con i dovuti accorgimenti. Quando sento dire che vogliono abolire il reddito, significa non accorgersi del grido d’aiuto dei poveri”.
Padre Fortunato ha quindi sottolineato: la necessità di rivedere le dinamiche economiche di questi anni, di arrivare a elaborare un nuovo sistema che, davvero, non lasci indietro nessuno: “Interroghiamoci, infine, su questo modello di capitalismo che, come ha detto Papa Francesco, ci impone un modello di economia che uccide. Di fronte a questa situazione c’è un lato positivo. Cresce la voglia degli italiani di aiutare il prossimo. Lancio allora un’iniziativa: per queste feste educhiamo i nostri figli alla bellezza invitando a casa nostra i poveri. Facciamoli sentire meno esclusi, diamo un segnale forte che noi crediamo nell’umanità”.
Lodovico Poletto per "La Stampa" il 2 dicembre 2022.
Senza tetto. Disperati. Persone con gravi problemi di carattere psichiatrico. E «senzatetto economici». Provvisori, verrebbe da dire. Che vengono in città per far denaro. E poi ripartire e tornare a casa, all'estero, nel giro di qualche tempo. Quanto? «Non so, qualche mese. Ma adesso molti di loro se ne andranno via nel periodo del Natale romeno» dice Gioele, 74 anni, cane al seguito grosso un pugno, cappottone grigio. E una storia personale che forse è vera o forse no.
Origini montenegrine. Baracca dalle parti di piazza Sofia. Lontano da casa, da un paese dal nome impronunciabile e inscrivibile, sulle montagne sopra Podgorica. La capitale. «Sono scappato da lì quando è morto mio figlio e non sono più ritornato», racconta. Gioele, la storia dei senzatetto «a tempo determinato» - oppure economici come li chiama qualcuno - la conosce bene. O almeno così dice. Dove stanno? «Al fondo di via Roma. Ma anche in centro adesso. Io con loro non voglio avere nulla a che fare». Ma sono violenti? «Non so».
La questione dei senzatetto per finta è stata sollevata l'altro giorno dal sindaco Lo Russo, nel corso di un incontro pubblico: «La situazione torinese è anche figlia del racket, portato avanti da una comunità etnica molto precisa». Un'accusa chiara. Oltre che un problema in più che rischia di inceppare la macchina degli aiuti, distrarre risorse. Ciò che il sindaco ha detto è soltanto la coda di una questione che è già finita sul tavolo della Prefettura.
Non ieri, o ieri l'altro, ma nel corso di uno degli ultimi incontri del Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica. E adesso ne parlano apertamente anche quelli della polizia municipale: «Ci sono senzatetto professionisti che vengono qui, o magari anche in altre città, soltanto per fare la stagione». I rom la chiamano «vanghela». Carità. Ed è un modo per guadagnarsi uno stipendio.
Chi viene campa per strada o dove capita: un dormitorio, una fabbrica abbandonata, un pezzo di cartone appoggiato su un materasso di fortuna, nelle vie del centro. Mangiano come e dove capita: nelle mense dei poveri oppure con gli aiuti che portano le associazioni di volontariato che operano in città. E di giorno fanno il lavoro per cui sono arrivati: chiedono la carità.
Un euro sull'altro, accumulati senza mai spendere nulla diventa stipendio, da mandare a casa, alla famiglia e ai figli. Ne hanno discusso, si diceva, al Comitato in Prefettura. Argomento riservato. Qualcuno ha parlato dell'arrivo di un furgone, o forse due, stracarichi di senzatetto per finta. E allora s' è acceso un faro. Che per ora non si è ancora trasformato in un fascicolo da inviare in Procura, perché di reati ufficialmente non ce ne sono. Ma che ha alzato la soglia di attenzione da parte di tutti. E Gioele, stretto nella sua palandrana grigia, conferma: «Stanno laggiù, al fondo dei portici.
Se li cerchi li trovi». Di dove sono? «Romania. Ma sono strani, meglio non stare lì con loro».
E allora parte la ricerca. La mappa dei vigili dice che non stavano nelle strade del centro più stretto. Ma che poi si sono spostati. E adesso lì trovi un po' ovunque: da via Po a via Roma. Ecco, potrebbe esserlo Ernest che alle 11 del mattino se ne sta in via Roma, quasi all'angolo con piazza Cln. Non pronuncia una parola che sia una in italiano, e l'unico modo per riuscire a dialogare con lui è adoperare il traduttore dello smartphone. Origini romene. Un altro posto sperso in montagna e dal nome inscrivibile. Da quando sei in città? «Ho la famiglia povera».
D'accordo, ma da quanto tempo sei in Italia? La risposta non è comprensibile. Vox populi dice che arrivino dalla Transilvania. E che, con una buona dose di aggressività, scaccino i senzatetto storici, quelli che davvero vivono di carità e non hanno mezzi, dai posti «migliori». Ernest conferma: «Meglio stargli lontano: non voglio problemi». Ma tu lo sai quanto incassano? «Io con quelli non parlo. Ma prima di Natale saranno un bel po' di soldi». È mezzogiorno. Tu oggi quanto hai preso? Ernest mette la mano in tasca e tira fuori solo monetine: «Tre euro».
(ANSA il 16 novembre 2022) - Povertà e disuguaglianze, soprattutto dopo la pandemia, incidono sulla salute e sul benessere psicologico dei minori in Italia: un bambino che nasce a Caltanissetta ha 3,7 anni in meno di aspettativa di vita rispetto a chi è nato a Firenze e la speranza di vita in buona salute segna un divario di oltre 12 anni tra Calabria e provincia di Bolzano.
Tra le bambine la forbice è ancora più ampia, 15 anni in meno in Calabria rispetto al Trentino. È l'allarme lanciato da Save The Children presentando la XIII edizione dell'Atlante dell'Infanzia a rischio in Italia 2022.
“Uguali per Costituzione” di Ernesto Maria Ruffini ovvero, l’amore verso il diritto. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 14 Novembre 2022
Càpita ogni tanto di trovarsi per le mani un testo fondamentale che non ha ottenuto la giusta attenzione mediatica. E’ il caso del saggio di Ernesto Maria Ruffini, attuale capo dell’Agenzia delle entrate, col suo Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 a oggi (Feltrinelli, 2022, 378 pp., 25€).
Una passione che nasce a 18 anni
L’autore è un avvocato tributarista, ma in queste pagine ha messo il cuore e una passione venticinquennale verso il diritto e la Costituzione, da quando i suoi genitori gli regalarano, per il diciottesimo compleanno, gli otto volumi dove sono raccolti i lavori dell’Assemblea costituente della nostra Repubblica. Da allora, ormai nell’altro secolo, Ruffini ha studiato, analizzato, soppesato, ponderato il significato giuridico, politico, sociale della nostra Legge fondamentale. Il risultato è questo libro, incredibilmente di agile lettura, rivolto ai non specialisti e tuttavia arricchente come pochi altri. In queste pagine troviamo dunque la storia di una Repubblica che cerca di realizzare, nella sua ottuagenaria vita, il concetto basilare giuridico di “uguaglianza” declinandolo in tutti i modi possibili.
Si parte dalla base: il principio di uguaglianza davanti alla legge. Lo si guarda dal punto di vista sincronico e diacronico, storico e dell’oggi. Lo si eviscera rispetto ai suoi nemici: le leggi ad personam e quelle ad categoriam. Si analizzano gli strumenti di quella uguaglianza: il diritto al gratuito patrocinio nel processo e la parità delle parti nel processo.
Un’uguaglianza di tutti e di ciascuno
Poi si passa all’uguaglianza delle opinioni. Nell’informazione e nella libertà di stampa. L’uguaglianza religiosa e la laicità dello Stato. L’uguaglianza tra uomo e donna. Nella famiglia. Tra i figli. Degli studenti. Dei malati. Dei lavoratori. Degli stranieri. Dei detenuti. Del voto. Dei partiti e nei partiti. Dei contribuenti. Diciotto capitoli col complemento di un apparato di note e di suggerimenti bibliografici che soddisferanno gli specialisti.
Il punto di forza di questo saggio è che l’autore parte dalla Costituzione, per poi espandere l’analisi in due direzioni: all’inizio la genesi, il dibattito in assemblea costituente da parte dei padri e delle madri costituenti che portò alla determinazione e al lessico di quel dato articolo in quel dato modo, spiegando le alternative, i valori, i principi che si sono ponderati e inclusi. Dall’altro il dibattito politico successivo, lungo la vita di una Repubblica che ha certamente avuto alti e bassi, ma che ha continuato a camminare hegelianamente verso un traguardo di via via maggiore uguaglianza, maggiore pluralismo, maggiore inclusione.
Dalla Costituente al governo Draghi
In alcuni casi questo dibattito si fa attualità perché i temi scelti portano a che l’autore spieghi le conseguenze sull’oggi, citando fino al governo Draghi in carica al momento della pubblicazione. La forza di Ruffini credo stia nella franca chiarezza espositiva, nel desiderio di risultare comprensibile anche al lettore comune a digiuno di studi giuridici.
Ruffini non è un costituzionalista, non si perde in gerghi giuridici di dubbia utilità o in citazioni colte valide solo per far vedere di aver fatto le giuste letture. Va al nòcciolo della questione e dipana la eventuale polemica con un’analisi legislativa, più che di filosofia politica. Ripercorre le riforme, le leggi e la ratio che portò a quelle determinazioni nel tempo.
In questo modo la Costituzione viene davvero fuori come quell’organismo vivente di cui parlò Paladin, se non sbaglio, e l’autore ti prende per mano fino a portarti a spiegare le conseguenze del dettato costituzionale e i tentativi di avvicinamento allo spirito della Legge da parte di Parlamenti che, in diverse epoche, han fatto quel che potevano, non sempre in modo lineare o razionale.
La centralità assoluta della scuola pubblica secondo Calamandrei
Un manuale eccezionale, che dovrebbe essere adottato in tutte le scuole per spiegare il midollo della nostra Costituzione. E proprio alla Scuola Ruffini dedica una delle citazioni più pregne, di Pietro Calamandrei, sulla funzione della Scuola come formatrice delle classi dirigenti. Una citazione lunga, che vale la pena riportare per intero in questi malerrima tempora in cui la Sinistra italiana e tanti intellettuali ammantano il concetto di merito e meritocrazia come un disvalore, o addirittura un valore di “destra”. Sentite un po’ cosa diceva in proposito il padre della patria Calamandrei, azionista, sulla funzione della scuola:
«La scuola pubblica è un organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazione: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società. […] A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali. […] la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente» (pp. 126-7).
Da “la Repubblica” il 31 ottobre 2022.
Il biglietto spezza il cuore. Poche righe ed entri nel dramma di un'esistenza appesa, emarginata, spinta all'angolo da chissà quali circostanze. Magari non sta bene, è solo uno sbandato. O un depresso che è rimasto intrappolato in se stesso. Chi passa vicino all'auto si sofferma e pensa questo, che si tratti di un disagiato. Succede, mormorano, la città è piena di sbandati.
Alcuni escono dal ristorante di pesce intorno piazza Navona: la serata calda li incoraggia a fare due passi distensivi per chiudere sereni il giorno. Tutti buoni motivi per ignorare l'auto con quel cartello sul parabrezza e lasciar stare. «Però aspetta. Quel biglietto è scritto bene - dice una signora al suo accompagnatore - è misurato, gentile».
Eccolo, il biglietto: «Vivo in macchina. Se avete bisogno di fare la spesa io ve la faccio e ve la porto a casa per uno o due euro (quello che potete). Sono anche un amante dei cani e se vi può far piacere porto il vostro amico a quattro zampe a fare i bisogni. E un bel giretto. Naturalmente col sacchetto per raccogliere la cacca. Spero di conoscervi e di esservi utile. Grazie. Giuliano».
Leggi e rileggi, la coppia cede e si avvicina alla Lancia grigia. Dentro Giuliano sta guardando un film sul cellulare, va verso il sonno sul sedile reclinato. Sono le 23 passate. La signora bussa al finestrino. Niente. Riprova. Niente. Prova ancora. Il finestrino si abbassa. «Guardi che non voglio niente. Se le do fastidio mi sposto, ma non attacchi con la carità che a me non serve la compassione di nessuno».
Una delle storie di ordinaria emarginazione romana comincia così, con quel finestrino a metà. Giuliano resta in auto e risponde composto e paziente alla signora, in piedi vicino al finestrino: «Ero un manager di un'azienda fornitrice di acqua ed energia. Avevo una famiglia e con mia moglie abbiamo due bambini. Poi il terremoto. Sono finito tra gli accusati di un giro di tangenti di cui non ho mai saputo nulla, ho provato a difendermi ma non c'è stato verso. Sono stato licenziato. Anche mia moglie non ci poteva credere.
Poi sono scivolato in una spirale depressiva e ho perso anche lei. Ora vivo qui, questa macchina è tutto quello che ho. Grazie del suo interessamento, ma non voglio niente» . Giusto il tempo di tornare con una pizza e una birra: la signora si ripresenta con la cena: «Scusi, ma se non ha mangiato accetti», Giuliano scende dall'auto. T- shirt nera consunta e stinta, maglioncino di lana sintetica, jeans scuri, scarpe da ginnastica senza lacci.
Barba lunga, 50 anni circa. Accetta di parlare. «Ho due lauree, avevo tutto e in un attimo ho perso tutto. Pure mia moglie prima di lasciarmi mi ha accusato di essere stato un padre assente e ha ragione, ma lavoravo dodici ore al giorno e avevo poco tempo per i bambini. Ora sto così. Faccio lavoretti, campo con poco. In auto mi devo spostare sennò i vigili mi fanno la multa.
Alla Caritas non vado perché mi vergogno. Sento tanta gente in difficoltà. Ma questa crisi è molto più grave di quanto pensiate. Qualcosa da fare capita sempre. Lavoretti semplici da aggiungere a chi mi chiede di fargli la spesa o di far uscire i cani. Mi tengo sempre intorno al centro, raramente mi spingo in periferia. Io chiedo poco, perché mi basta poco per vivere. Per sopravvivere».
Da repubblica.it il 21 ottobre 2022.
"Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli". Parola della Cassazione.
Tradotto: nonni e parenti prossimi devono mettere mano al portafogli se i genitori non sono in grado o non hanno la possibilità economica di mantenere i propri figli. Un principio che i giudici hanno stabilito lo scorso 17 ottobre, spiegando che i parenti sono tenuti a "fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli". Il tutto "in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo".
Dunque non basterà accompagnare i nipotini al parco o prenderli a scuola, ma anche mantenerli. Attenzione: non significa elargire denaro ai piccoli, ma aiutare i genitori. Il tutto secondo tre criteri ispirati all’articolo 316 bis del codice civile.
I parenti prossimi devono intervenire "se il genitore obbligato a versare il contributo di mantenimento dei minori si rende inadempiente", ovvero dopo un pignoramento o nel caso in cui sia impossibilitato a svolgere un'attività lavorativa. E ancora "se il genitore presso cui sono collocati i minori sia privo di reddito o abbia un reddito insufficiente a provvedere al loro sostentamento". Sempre se i nonni possiedono "le risorse reddituali o patrimoniali, per provvedere al mantenimento dei nipoti che versano in stato di bisogno". Dunque occorre prima capire anche le condizioni economiche in cui versano i nonni.
Paolo Lambruschi per “Avvenire” il 18 ottobre 2022.
La pandemia economica e sociale non è finita, soprattutto al sud le conseguenze sull'occupazione del Covid hanno approfondito i solchi per gli ultimi. E oltre a una povertà minorile da record, sono aumentate le probabilità che una famiglia numerosa non arrivi a fine mese.
Le statistiche dell'"Anello debole", il rapporto sulla povertà della Caritas Italiana presentato come da tradizione il 17 ottobre, giornata mondiale di lotta all'indigenza, raccontano il 2021 nero dell'Italia nascosta, che lotta ogni giorno con una povertà assoluta schizzata ai massimi storici e che si mettono in fila alla Caritas per mangiare, pagare le bollette e l'affitto.
Questo paese degli ultimi l'anno scorso si è ulteriormente ingrandito fino a contare 1 milione 960mila famiglie in povertà assoluta, pari a 5.571.000 persone che sono il 9,4% della popolazione residente. L'incidenza è più forte nel Mezzogiorno (10%) mentre scende significativamente in particolare nel Nord-ovest (6,7% da 7,9%).
Tra il 2020 e il 2021 l'incidenza della povertà è cresciuta più della media per le famiglie con almeno 4 persone, con persona di riferimento di età tra 35 e 55 anni, le famiglie degli stranieri e quelle con almeno un reddito da lavoro.
I livelli di povertà continuano ad essere inversamente proporzionali all'età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori, ovvero quasi 1,4 milioni bambini e ragazzi, scende all'11,4% fra i giovani di 18-34 anni e all'11,1% per la classe 35-64 anni e cala al 5,3% per gli over 65.
Gli immigrati tornano ad essere la maggioranza degli assistiti dalle Caritas parrocchiali le quali hanno ricevuto quasi l'8% in più di richieste di aiuto nel 2021, Gli stranieri ascoltati dalle Caritas sono il 55% a livello nazionale con punte del 65,7% e del 61,2% nel Nord-Ovest e nel Nord-Est dove la presenza degli stranieri è superiore e la vita più cara. Nel Sud e nelle Isole prevalgono gli assistiti italiani, rispettivamente il 68,3% e il 74,2% dell'utenza. Metà degli assistiti sono donne con 46 anni di età media. Il 47% del totale è disoccupato o inoccupato.
Le persone supportate sono state 227.566, il 7,7% in più rispetto al 2020 per i quali gli interventi della rete Caritas sono stati quasi un milione e mezzo. Non si tratta solo di nuovi poveri, ma anche di "equilibristi" che entrano ed escono dallo stato di bisogno. Tre quarti degli interventi sono stati beni e servizi materiali per il cibo mentre mentre il 4,7% ha ricevuto sussidi economici per il pagamento di affitti e bollette assorbendo, però, oltre il 76% delle spese.
Già l'anno scorso con la transizione energetica i prezzi erano saliti alle stelle. Solo nel primo semestre 2022, come dimostra il caso pilota della Caritas di Potenza, la spesa per le bollette è passata dal 50 al 63% della spesa del centro di ascolto, riducendo le risorse per altri tipi di aiuto. Un indicatore di quel che sta accadendo in questi giorni. Sempre più netto il collegamento tra povertà e livello di istruzione.
Cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media, che passa dal 57,1% al 69,7. Nell'Italia dove la mobilità sociale è bloccata, il primo studio sui beneficiari della Caritas conferma che chi nasce povero nella metà dei casi resta povero, la eredita. Complessivamente i casi di povertà intergenerazionale pesano per il 59% e nelle Isole e nel Centro il dato risulta ancora più marcato.
Sono i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente. Al contrario tra i figli di laureati, oltre la metà arriva a un diploma superiore o alla laurea. Più del 70% dei padri degli assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione mentre 7 madri su 10 sono casalinghe.
Da un'altra indagine condotta in collaborazione con Caritas Europa e i salesiani di Don Bosco International, risulta che quattro studenti su 5 dei corsi professionali sono stati impoveriti dal Covid. Per rendere più efficace ol reddito di cittadinanza per i poveri assoluti, Caritas propone di rafforzare la capacità di presa in carico dei Comuni. Inoltre richiama l'attenzione sui nuovi progetti in partenza, finanziati dal Pnrr, occasione da sfruttare al massimo sui territori.
(ANSA il 17 ottobre 2022) - Nel campione di sangue di un trentenne che vive in condizioni di svantaggio socio-economico sono già visibili le alterazioni biologiche da cui, una volta più in là con gli anni, avranno origine malattie croniche come quelle cardiovascolari, polmonari, reumatiche, demenze. È quanto emerge da uno studio internazionale coordinato dall'Università di Zurigo e pubblicato sulla rivista dell'Accademia nazionale delle scienze statunitense (Pnas).
Gli effetti dei determinanti sociali della salute sono ben noti: chi ha un basso livello di istruzione, un reddito più basso, peggiori condizioni di vita tende ad ammalarsi di più. Tuttavia non sono completamente chiari tutti i meccanismi biologici attraverso cui ciò avviene, né quando questi inizino a instaurarsi. I ricercatori, nell'ambito di un ampio progetto di ricerca americano che segue oltre 4.500 giovani adulti da più di 20 anni, hanno sottoposto i loro campioni di sangue a una serie di indagini molecolari alla ricerca di marcatori biologici (in particolare una serie di Rna) tipici di diverse malattie croniche.
Hanno quindi scoperto che già tra i 30 e 40 anni, quindi decenni prima della comparsa della malattia conclamata, erano rilevabili le alterazioni che predispongono alla malattia. Inoltre, queste seguivano un gradiente che rifletteva il grado di svantaggio sociale. "Le disparità nelle malattie della tarda età adulta riflettono probabilmente le disparità nel rischio molecolare nella giovane età adulta", scrivono i ricercatori, che sottolineano che tra i diversi marcatori, particolare impatto sembrano avere quelli legati all'obesità.
Secondo gli scienziati, questi dati "evidenziano la necessità di politiche e interventi che prendano di mira i fattori di stress e i meccanismi obesogenici già nelle prime fasi della vita, prima che questi meccanismi a base sociale sfocino in danni alla salute". (ANSA).
Il senzatetto senza nome e il suo tutto: il suo cane. Redazione CdG 1947 e Valeria Randone su Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2022.
Questa è una storia d’amore e di cura, di rispetto e di protezione, quegli ingredienti magici che non dovrebbero mai mancare quando si ama davvero. Il suo cane non si allontana mai da lui, non ha catene né guinzagli, ha un legame di cuore, di pelle e di pelo, fatto di rispetto e silenzio. È sempre al suo fianco.
Questa è una storia d’amore di un uomo, che nel non avere niente ha tutto, e del suo tutto: il suo cane. Abita su un marciapiede, a Catania. Il suo giaciglio è un cartone. È sprovvisto di scarpe e di coperte. Non è in affanno, non mendica, non è ubriaco; sembra non mancargli niente, sta bene così. La sua vita semplice fatta di navigazioni a vista, di albe e tramonti, di pioggia e di sole, senza progetti e talvolta senza pasti, è impreziosita dalla vicinanza di corpo e di cuore del suo inseparabile quattrozampe.
Ha scelto un cane per amico e anche per famiglia. Non lo utilizza per chiedere l’elemosina o per impietosire i passanti, lo ha promosso a compagno e anche a famiglia. Quel cane è tutto per lui.
Il senzatetto è allergico al rumore della vita, ma non a quello del mare; sposta il suo cartone, le sue buste piene di niente e il suo amato cane in base al suo umore, e quando può sosta di fonte al mare. Ama sentire la brezza marina sulla sua pelle. Ama respirare il mare, fare incetta di salsedine e di libertà. Il suo cane non si allontana mai da lui, non ha catene né guinzagli, ha un legame di cuore, di pelle e di pelo, fatto di rispetto e silenzio. È sempre al suo fianco.
Il senzatetto senza nome abita a Catania tra il portone di una chiesa accanto al mio studio e il lungomare. Vive abbracciato dal sole siciliano durante i mesi caldi, che per fortuna al sud sono tanti, e dal suo cane durante quelli freddi.
Dei suoi dolori non si sa granché, si intravedono ferite profonde – non parla con nessuno e sembra avere paura di tutto -, un cuore solitario e sofferente, un corpo defedato dagli stenti e dalle intemperie meteorologiche e della vita. I suoi occhi sono scuri, cerchiati da solchi olivastri che tendono al nero quando è ancora più stanco di sempre. Gli angoli delle labbra virano verso il basso, sono sprovviste di timidi sorrisi – cambiano angolazione e si mettono in orizzontale quando guarda negli occhi e nel cuore il suo cane -, e i denti sono spesso digrignati come se li erigesse a protezione dal mondo esterno.
La pelle è macchiata dal sole ed erosa dal vento. Le mani sono mani di chi un tempo ha lavorato molto, piene di callosità e macchie. I capelli sono incolti, increspati dalla salsedine e dalla polvere, lunghi e trasandati. La barba ricorda un nido appena fatto. E la postura racconta tutto il peso della sua sofferenza e misteriosa storia di vita.
Il senzatetto senza nome sembra essere stato adottato dagli abitanti della zona dove c’è il mio studio; è chiaro che lo considerano uno di famiglia. Continuiamo a turno a sincerarci che ci sia, che non gli sia successo nulla, che lui e il cane non stiano male, soprattutto durante questi mesi torridi e particolarmente pericolosi per chi vive in strada.
Il suo cane è un grosso cane nero, reso sale e pepe dagli anni che passano. Ha una postura incerta perché zoppica da una zampa, ma fiera. Non ama le coccole dei passanti, ma non si ritrae se qualche passante temerario si attarda in una carezza. Non ha mai mostrato segni di insofferenza o aggressività. È sempre vigile anche quando dorme, veglia sul suo amato padrone, controlla tutto e tutti.
I suoi occhi hanno il potere straordinario di parlare al suo posto, sono profondi e luminosi, anche quando tutto intorno è buio. È chiaro che quel cane è un privilegiato: vive con l’uomo che ama di più al mondo e da cui è amato più di ogni bene prezioso. Il loro legame è visibile, inscindibile, prioritario rispetto a tutto.
Quando il quartiere che li ha adottati, con garbo, discrezione e rispetto gli porta il pranzo, il cane non brama affamato e richiedente, rimane silenzioso e immobile, e aspetta.
Il primo gesto che il senzatetto fa è dargli da mangiare, prendere dell’acqua pulita alla fontana, riempire la sua ciotola – quando c’è troppo caldo è sua abitudine bagnargli le tempie -, donargli gran parte del suo cibo e guardarlo con immenso amore e cura mentre mangia. Quello che rimane lo mangia lui. È un rituale lento e rodato che noi della zona osserviamo tutte le volte.
Questa è una storia d’amore e di cura, di rispetto e di protezione, quegli ingredienti magici che non dovrebbero mai mancare quando si ama davvero.
P.S: una mattina, la mia vicina di casa di studio mi ha telefonato allarmata perché il nostro senzatetto era sparito. Siamo subito andate a cercarlo, e per fortuna era al mare. Sembravano un dipinto olio su tela che si sarebbe potuto intitolare “intimità”. Erano seduti sul loro cartone-divano, l’uno accanto all’altro. Le loro schiene si sfioravano immobili. La ciotola del cane era piena d’acqua pulita. E i loro sguardi erano rivolti al mare.
*Valeria Randone è psicologa, specialista in sessuologia clinica, a Catania e Milano (valeriarandone.it) e autrice del libro “L’aggiustatrice di cuori – Le parole che riparano”
Strage dei senza dimora, un morto ogni giorno dall'inizio dell'anno. Luca Liverani su Avvenire l'11 agosto 2022.
Un morto ogni giorno dall’inizio dell’anno. Dal 1° gennaio a oggi in Italia 224 persone senza dimora hanno perso la vita in 223 giorni. Diverse le cause, sempre uguale il luogo: la strada. Tragedie che trovano qualche riga nelle cronache solo d’inverno, quando si attribuisce alle temperature rigide il motivo del decesso. Ma i numeri dicono che non c’è differenza tra bella e brutta stagione: a maggio-giugno 61 morti, a gennaio-febbraio 57. Non esiste l’emergenza freddo, o caldo, esiste l’emergenza strada.
I dati dell’ultima rilevazione della Fiopsd, la Federazione degli organismi per le persone senza dimora, sfatano dunque un solido luogo comune, per ribadire che la durezza della vita senza un tetto abbrutisce e uccide tutto l’anno. Fiopsd ricorda che le sue rilevazioni «non pretendono di avere carattere di scientificità», ma i dati parziali del 2022 preannunciano – con 224 morti in otto mesi appunto – un anno ben peggiore dei precedenti: nel 2021 erano stati 246, e 208 nel 2020. Il primo morto di quest’anno, il 3 gennaio, è stato Giuseppe Gargiulo, 47 anni, che si è spento per un malore a Piana di Sorrento (Na). L’ultimo – per ora – l’8 agosto è Hamed Mustafe, somalo di soli 22 anni, investito ad Ancona da un’auto.
Gli homeless dunque muoiono tutti i mesi e per le cause più diverse: nelle ultime quattro stagioni 79 sono deceduti d’inverno, 53 in primavera, altri 53 in estate e 60 in autunno. Secondo la Fiopsd «il 60% dei decessi è per incidente, violenza, suicidio, e il 40% per motivi di salute». Chi muore per strada è nel 92% dei casi maschio, due volte su tre straniero, età media 49 anni. Varie le cause di morte, ma tutte legate all’emarginazione più dura: 73 per malore, 20 investite, 19 per violenza, 16 da overdose, 14 per annegamento, 14 da ipotermia, 12 i suicidi. «Chiunque di noi viva una situazione di difficoltà fisica o psicologica – dice Michele Ferraris, responsabile comunicazione della Fiopsd – a casa troverà un rifugio in cui riprendersi. Chi vive in strada è a rischio: è solo e vedrà acuirsi il suo problema. Chi ha patologie cardiocircolatorie d’estate rischia l’infarto, un’influenza d’inverno può degenerare in polmonite».
Dormitori e ostelli servono, ma non bastano: «Vanno lasciati al mattino e i gli ospiti passano la giornata inseguendo orari e luoghi in tutta la città dove trovare pasti, docce, vestiti. Il pubblico deve impegnarsi in progetti seri per la casa. Di soldi ne arriveranno, anche col Pnrr, vanno usati in progetti non assistenzialistici, creando reti di comunità tra pubblico e privato. Come l’housing first, che abbiamo avviato dal 2014». Cioè case per tre o quattro persone aiutate da volontari a riconquistare l’autonomia: «Quasi il 90% di successo a due anni dall’avvio». Le persone coinvolte sono 1.013 in 74 progetti, costo a persona di 26 euro al giorno.
Per Giustino Trincia, direttore della Caritas diocesana di Roma, «è uno scandalo che si ripete da anni e va affrontato impiegando il vasto patrimonio pubblico abitativo inutilizzato». I dormitori «sono risposte per la prima accoglienza, ma non ci si può vivere per mesi o anni, va recuperata un’autonomia di vita». I progetti di housing first «sono una goccia nell’oceano, senza la disponibilità di un adeguato patrimonio immobiliare restano esperienze pilota». Il volontariato ha un ruolo ineludibile, su cui però Trincia ha idee chiare: «Si smetta di pensare che il volontariato possa sostituire le responsabilità della politica e delle amministrazioni. Non deve fare supplenza, né fornire alibi. Sono problemi sistemici che chiedono un concorso di sforzi, in direzione di una vera sussidiarietà orizzontale».
«D’inverno col freddo c’è più attenzione mediatica al problema, ma le morti delle persone che vivono per strada sono costanti tutto l’anno. La bella stagione purtroppo non risolve questo dramma», afferma Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio, uno dei responsabili del servizio ai senza dimora. «I dati dicono che le vittime sono in maggioranza stranieri. Va ripensata una strategia di protezione di queste persone che hanno un accesso ridotto ai servizi socio-sanitari, per mancanza di documenti o di residenza». L’altro è un appello a tutti alla vigilanza: «A volte per salvare una vita basta un po’ di attenzione, una bottiglia di acqua fresca, una telefonata al 112. L’attenzione di chi resta nelle città deserte di questi giorni – avverte D’Angelo – può essere risolutiva. L’estate per certi versi è peggio dell’inverno: molti servizi chiudono e diventa ancora più difficile mangiare e lavarsi».
IL DIBATTITO SULLA TEORIA DELLA GIUSTIZIA SOCIALE. La favola bella della meritocrazia che giustifica le disuguaglianze. NADIA URBINATI, politologa su Il Domani l'11 giugno 2022
Il problema della disuguaglianza è quello della sua giustificazione: deve esserci un equilibrio tollerabile tra le favole belle e la realtà esperita dalla larga maggioranza – diversamente la porta della ribellione è aperta.
Assistiamo oggi a una rinascita in grande stile di una politica che non corregge le condizioni che tendenzialmente determinano la disuguaglianza. Non ci può essere merito meritato se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le disuguaglianze di opportunità di accesso e poi non si monitorano la formazione, strada facendo, di nuove disuguaglianze.
Quanti ragazzi non si chiedono perché l’essere nati in una parte dell’Italia invece che in un’altra, si traduce in esiti di vita e opportunità così diversi? Il discorso sul merito è un inganno se ignora queste domande.
Pierangelo Sapegno per “la Stampa” l'8 giugno 2022.
Ci sono storie di una miseria umana che facciamo sempre fatica a capire. Come questa di Giovanni Vezzali, 85 anni, che in una cascina di Gambolò, nella campagna pavese arsa dal sole sulla sponda destra del Terdoppio, ha sparato due colpi con il fucile da caccia a Thomas Achille Mastrandrea, figlio della sua badante, solo perché aveva chiesto per sua madre un contratto in regola.
Lei, Graziella Casnici, di origini albanesi naturalizzata italiana, ha 59 anni, e da tre lavorava a servizio dall'anziano padrone, retribuita - pare - in nero, con un compenso di 150 euro a settimana.
Il delitto è già abbastanza osceno di suo, ma è tutto quello che ci sta attorno che racconta questa umanità dolente e sconosciuta, svelata ogni tanto dalle macerie della cronaca. Giovanni Vezzali guarda i campi dalle sue finestre, chiuso nella sua casa al tramonto della vita, assieme alla figlia disabile, che ha bisogno di cure e attenzioni speciali: era di lei che si occupava Graziella. La vittima, Thomas Mastrandrea, 43 anni, senza un lavoro fisso, s' era sposato tre mesi fa con una donna affetta da una grave forma di sclerosi multipla.
Per di più, la suocera ha avuto un ictus e adesso è costretta in carrozzella. Lui badava a loro due, in pratica era quella la dimensione della sua esistenza. Vivevano insieme in un rudere fatiscente nella frazione di Nicorvo, che oggi il sindaco, Michele Ratti, fa persino fatica a ritrovare nelle mappe catastali e indicare ai giornalisti che sono venuti a cercarlo, perché quelle mura cadenti e diroccate non sono neppure segnate.
In quest' incontro di sventure, ai margini della nostra vita di tutti i giorni, la disperazione può diventare accecante. Qualche tempo fa, Giovanni ha preso in disparte Graziella: «Io sono vecchio», ha detto, «e mia figlia ha solo me. Ma io non so quanto mi resti ancora da vivere. Tu le sei vicino da tre anni e sei brava con lei. Ora, devi promettermi che continuerai a badare a lei pure quando non ci sarò più io. Se lo farai, potrai venire a vivere qui con la tua famiglia».
La donna lo ha ascoltato ed è rimasta in silenzio per un po', prima di chiedergli che cosa volesse dire esattamente. «Che vivrai qui, in questa casa», ha ripetuto lui. «Ma in che senso? Cioè, la casa diventa mia?». E lui ha risposto: «Sì. Ti lascio la casa, se resti assieme a mia figlia». Dal giorno che Giovanni ha fatto questo discorso è passato qualche mese, e ogni tanto Graziella è tornata alla carica, per avere la conferma che non fosse stata solo la promessa di un momento, e lui tutte le volte ha ripetuto le stesse cose, che quella era la scelta più giusta, che era logico che lei vivesse assieme a sua figlia se doveva badare a lei.
Negli ultimi tempi, però, Graziella ha cominciato a chiedere di avere qualche garanzia in più, qualcosa di scritto che formalizzasse la proposta. Solo che a questo punto Giovanni stava nel vago, sì, vediamo, ci penso.
Lei ne ha parlato a suo figlio, che ormai ci aveva fatto dei sogni all'idea di andare a vivere in un posto normale, via dalla catapecchia dove passava i giorni a guardare le sue donne senza altra vita che quella del loro dolore.
Così domenica ha deciso di andare dal vecchio per chiarire la faccenda. La cronaca dei verbali dice che è arrivato alle 18,30. Che loro due parlavano nella sala, e che la madre era nella stanza della figlia, accanto a lei.
Giovanni deve aver difeso la sua promessa rifiutando però di sottoscrivere un regolare contratto o qualsiasi altra cosa che la rendesse più concreta, negando anche un anticipo in danaro che tutelasse Graziella nel caso che dopo la sua morte quella proposta restasse solo una nuvola di fumo e di vane parole, come a un certo punto deve avergli chiesto Thomas, con voce alterata.
Giovanni adesso è vecchio e gli anni che sono passati l'hanno lasciato davanti a queste finestre a guardare i giorni che restano. Ma da giovane non era così, lui era un gran cacciatore, e questa è una terra che viveva di quello da sempre, un rifugio sui dossi del Terdoppio, il torrente che vaga nella Lomellina, fra una roggia, i balzi e le distese di campi, prima di confluire in sua Maestà Po.
Il fucile da caccia, lui ce l'ha ancora. E ce l'ha a portata di mano. Graziella dice di aver sentito lo sparo e di essere corsa in sala a vedere cosa succedeva, e c'era Thomas in un lago di sangue. Solo quello ha visto, Thomas che rantolava.
Mentre piangeva, ha detto «Perché l'hai ucciso?». Perché un disperato uccide un altro disperato che è a mani nude? Perché uno come Vezzali si è sentito padrone del destino di un uomo che non ha mai avuto niente dalla vita?
In Procura, nella notte di interrogatori, ha detto che ha avuto paura. La paura dei vecchi. Ma in questo incrocio di sventure il dolore non è finito. Ora Graziella deve badare alla vedova malata di Thomas. E la suocera l'hanno portata in una casa di riposo.
Ancora una volta, sono le cose senza senso che facciamo più fatica ad accettare. Il male ha una sua malvagità inesplicabile, una violenza che non riconosce il dolore degli altri, tutta la pena delle loro esistenze.
Aldo Faraoni, storico questore di Torino, prima di andare in pensione e di lasciare questo mondo, radunò i suoi uomini per un brindisi di saluto, e levò in alto il calice: «A noi», disse. «A tutti noi. Che abbiamo conosciuto la malvagità del mondo». Perché quelli come lui sono stati costretti a incontrarla quasi sempre. Feroci banditi, gente normale e disperata, come Giovanni Vezzali, accomunati dallo stesso gesto. E loro tutte le volte a cercare un senso a cose che un senso non hanno.
Da fanpage.it il 31 maggio 2022.
L'attrice Claudia Gerini, seguendo le foto di qualche ora prima di Elena Santarelli, ha pubblicato sulle stories del suo profilo Instagram i video del centro della capitale, tra immondizia abbandonata e cestini stracolmi. "Questa città è sporca non soltanto perché le persone sono incivili, ma perché nessuno la pulisce", ammonisce.
La telecamera si sofferma su carte e cartacce usate e lasciate fra i sampietrini, cartoni di pizza buttati per terra e bottiglie di vetro abbandonate agli angoli della strada, ha inquadrato anche due persone, due senza fissa dimora, mentre stavano sistemando le loro cose vicino a dei giacigli di fortuna. "Qui c'è degrado", ha detto Gerini, inquadrandosi nella fotocamera con alle spalle i due senza casa, per poi tornare a parlare dei materiali abbandonati per strada.
Sette secondi più tardi, l'attrice sta già passando nuovi punti dell'elenco dei rifiuti da proporre ai suoi follower, riprendendo altre bottiglie appoggiate al muro sul ciglio della strada. Come se anche quelle due persone fossero rifiuti fra i rifiuti, gli ultimi cittadini della città additati come degrado da far sparire dalle strade centro della città, da buttare o da nascondere altrove perché poco decorosi.
Gli esseri umani, però, non sono cose da far sparire dalla vista dei cittadini perbene (perché più hanno), o dei turisti, ma andrebbero al contrario presi in carico dalle istituzioni perché abbiano un tetto e non dormano in strada arrangiandosi come possono: per parlare di loro non si può usare lo stesso vocabolario utilizzato per l'immondizia. Pensiamo all'acqua ghiacciata lanciata alla Stazione Termini per allontanare i senza tetto o alle fioriere "antiuomo" della Stazione Tiburtina.
A Claudia Gerini, e non solo lei, consigliamo di leggere il rapporto dedicato ai senza fissa dimora dell'associazione Nonna Roma. Storie, numeri, cifre ma soprattutto proposte e risposte. Lo si può scaricare liberamente da internet. Perché pulire le strade è importante sicuramente, ma dare un tetto a tutte e tutti anche.
Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 30 maggio 2022.
L'Italia è un Paese "diseguale". Questo profilo non riguarda solo l'Italia. Ma il nostro Paese appare particolarmente segnato, da questo "squilibrio". I dati di Eurostat mostrano come l'Italia, alcuni anni fa, fosse il secondo Paese, per grado di diseguaglianza, in Europa Occidentale.
Preceduto, in questa graduatoria (poco prestigiosa), solo dalla Spagna. I dati oggettivi sono, peraltro, sostenuti da quelli soggettivi, dettati dalle percezioni dei cittadini. Secondo un recente sondaggio di Demos, infatti, più di 3 italiani su 4 considerano gravi le diseguaglianze, in Italia, sul piano della distribuzione del reddito e della ricchezza.
Ma quanti lamentano differenze profonde rispetto all'accesso ai servizi, alle libertà e ai diritti civili sono pochi di meno, come coloro che denunciano la difficoltà di venire ascoltati. In politica.
Insomma, la diseguaglianza, in Italia, non costituisce solo un problema statistico, perché coinvolge la società. Ne influenza e condiziona la visione e le immagini del "mondo intorno". In modo generale e generalizzato. Anche se delinea una scena colorata con diversi gradi di grigio (e scuro).
Infatti, secondo una larga maggioranza di italiani, la "diseguaglianza" non riguarda in modo "uguale" la società, ma "investe", in modo particolare e con maggiore intensità, alcune categorie di persone.
I disabili, per primi. E, subito dopo, i lavoratori precari. Soprattutto i più giovani. E le donne. Ma "investe", con forza, anche altri gruppi sociali. Segnati - e svantaggiati - dalla residenza in alcune zone specifiche del Paese, storicamente "svantaggiate". Il Mezzogiorno, i piccoli centri, le periferie.
La diseguaglianza appare, inoltre, collegata alla provenienza territoriale e nazionale delle persone. Coinvolge soprattutto gli stranieri. Gli immigrati. Tanto più se caratterizzati da una "fede religiosa" diversa da quella prevalente nel Paese.
Agli occhi degli italiani, dunque, si delinea una "geografia della diseguaglianza" ampia e articolata, nella quale le componenti, o meglio, le "regioni", non comprese nell'area degli svantaggiati, se non degli esclusi, sono circoscritte.
Tuttavia, questo sguardo sul nostro mondo rivela prospettive e angolazioni diverse. Le diseguaglianze, in altri termini, non appaiono necessariamente un "male oscuro" e, tantomeno, incurabile.
Perché attraversano da tempo la nostra vita, la nostra realtà. E di conseguenza, ci siamo, abituati a considerarle come problemi senza soluzione. Ai quali ci dobbiamo "rassegnare". Così, divengono parte ("regioni") di un mondo ri-conosciuto e, per questo, "dato per scontato".
Infatti, la diseguaglianza, meglio le diseguaglianze, sono considerate "accettabili" da quasi i due terzi degli italiani. Mentre circa metà le ritiene "inevitabili" e perfino "utili". In una certa misura, necessarie. Meccanismi di un sistema che premia e promuove "il merito". Le componenti più capaci ed efficienti. Per lo stesso motivo, le diseguaglianze appaiono un "motore dello sviluppo". Sul piano generale e individuale.
Per questa ragione, le possiamo valutare - anzi, le valutiamo - in modo negativo. Ma, alla fine, le accettiamo. Anche se con molte riserve. Con distacco e distinzioni. Perché si preferisce "predicare l'uguaglianza" senza rinunciare ai benefici prodotti dalla diseguaglianza, che appare un canale e un moltiplicatore di efficienza e produttività. Si tratta di una contraddizione apparente, che non riguarda solo l'Italia.
Una figura importante e autorevole, nel campo delle scienze storiche e sociali, come Pierre Rosanvallon, commentando una ricerca condotta in Francia alcuni anni fa, osservava che «una larghissima maggioranza dei cittadini esprime un giudizio schiacciante nel condannare le diseguaglianze e nel formulare un ambizioso concetto della giustizia».
Ma ritiene, al tempo stesso, «che le disparità di reddito sono accettabili qualora riconoscano i diversi meriti individuali». In altri termini, «si condannano le diseguaglianze di fatto mentre si riconoscono implicitamente come legittime le cause della diseguaglianza che le condizionano».
Perché ci aiutano a conseguire risultati concreti. Ci permettono di realizzare i nostri progetti, i nostri obiettivi. Senza entrare in contraddizione e in contrasto con noi stessi. Con i nostri valori e le nostre idee.
Le diseguaglianze, in altri termini, diventano mezzi per superare i limiti e i problemi che vediamo e incontriamo, incontro a noi. Per "andare oltre". Noi, uguali e diversi. Uguali perché diversi. Non per legge o per obbligo. Ma per "merito". Per superare e contrastare le diseguaglianze è, dunque, necessario anzitutto partire da noi. Dal nostro sguardo sul mondo. Sugli altri. È, importante, per questo, convincersi e convincere che l'uguaglianza di opportunità, diritti, condizioni, non è solo giusta. Ma utile. A migliorare la nostra società. E la nostra vita.
Luca Cifoni per “Il Messaggero” il 23 maggio 2022.
Niente più Isee gratis dalla metà di giugno. Il rischio è concreto e si materializzerebbe a ridosso della scadenza per fare domanda per l'assegno unico e universale, senza perdere gli arretrati. E in piena stagione delle dichiarazioni dei redditi. L'allarme viene dai Caf, i centri di assistenza fiscale che si occupano anche di questa incombenza per conto delle famiglie italiane. Le dichiarazioni Isee sono necessarie per l'accesso ad una serie di prestazioni sociali, a partire dal reddito di cittadinanza. Servono per le tariffe agevolate di asili nido, mense scolastiche e università ma anche per una serie di bonus entrati in vigore negli ultimi tempi. Questo indicatore, che tiene conto dei redditi della famiglia ma anche del patrimonio, compresa la casa di abitazione, è poi utilizzato per quantificare l'importo dell'assegno unico e universale (Auu), che ha fatto il suo debutto nel marzo scorso.
Niente di strano quindi che di Isee ne vengano chiesti e compilati sempre di più: per la verità è anche possibile procedere in autonomia sul sito dell'Inps, ma molti italiani preferiscono tuttora affidarsi ai Caf. Che da gennaio ad oggi ne hanno già fatti circa 7.800.000, il 42 per cento in più rispetto allo scorso anno. La previsione è di arrivare almeno a 10 milioni.
Ma c'è un problema: oggi per i cittadini la compilazione è gratuita, perché lo Stato riconosce ai centri di assistenza 16 euro per ciascuna dichiarazione. Ma con questi numeri, le risorse stanziate si esauriranno nei primi giorni del prossimo mese. Cosa succederà a quel punto?
«C'è un tavolo di monitoraggio - spiega Giovanni Angileri, presidente della Consulta nazionale dei Caf - quando sarà confermato che la convenzione deve essere sospesa noi non potremo che fermarci». Per gli utenti la scelta sarà tra rinunciare al servizio oppure pagarlo, ad un prezzo che sarà fissato autonomamente da ciascun centro di assistenza ma che molto difficilmente sarà inferiore a 20-25 euro. «Se non ci saranno fatti nuovi il pericolo è che vada a finire così - argomenta ancora Angileri - e non possiamo nemmeno escludere che singoli centri chiedano corrispettivi ancora più alti».
I prossimi giorni dunque saranno decisivi: dopo le interlocuzioni tecniche con l'Inps, la palla è ai ministeri competenti: per mercoledì è in programma un colloquio con la responsabile della Famiglia Bonetti, mentre si attende ancora l'appuntamento con il ministero del Lavoro.
Dovrà essere comunque poi il dicastero dell'Economia a reperire le risorse necessarie, una volta presa la decisione politica. Il rischio è pure quello di una disparità tra i cittadini che ancora in questi giorni riescono ad accedere al servizio gratuitamente (tuttora se ne fanno circa 20 mila al giorno, che è un numero molto alto) e quelli che se lo ritroverebbero a pagamento. Per questo si ragiona anche su una soluzione-ponte.
Come accennato, i nuclei familiari che entro il 30 giugno presenteranno la richiesta di assegno unico e universale avranno diritto agli arretrati da marzo: dopo questa data spetteranno solo le rate correnti. All'appello mancano ancora varie centinaia di migliaia di potenziali beneficiari, ai quali nella maggior parte dei casi servirà l'Isee (altrimenti l'Auu sarà riconosciuto solo nella misura minima). È prevedibile che almeno una parte di loro si decida a provvedere negli ultimi giorni disponibili. La compilazione dell'Isee richiede l'acquisizione di una serie di dati, da quelli reddituali a quelli relativi agli immobili eventualmente posseduti, fino alle giacenze sui conti bancari e agli investimenti.
Genova, disabili costretti a scendere dal treno: «Ora daspo ai passeggeri incivili». L'episodio accaduto ieri alla stazione ligure ha scatenato un putiferio tra interrogazioni parlamentari ed esposti in procura. Toti: «Fatto totalmente esecrabile». Il Dubbio il 19 aprile 2022.
L’episodio accaduto ieri alla stazione di Genova Principe, quando 27 persone diversamente abili, con i posti regolarmente prenotati, non hanno potuto viaggiare sul treno regionale fino a Milano perché chi li aveva occupati si è rifiutato di liberarli, ha scatenato il dibattito politico, con tanto di interrogazioni parlamentari.
Il convoglio è arrivato in stazione con un ritardo di 40 minuti e a Genova sono saliti numerosi viaggiatori che hanno occupato tutti i posti, compresi quelli tenuti e rimasti fino a quel momento liberi per la comitiva di persone diversamente abili. A quel punto il personale di Trenitalia ha invitato le persone che avevano occupato i posti, tutte con regolare biglietto, a scendere, ma nessuno l’ha fatto. Il presidente della Liguria, Giovanni Toti, lo ha definito un episodio «totalmente esecrabile», tanto da chiamare il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, e definire un incontro in settimana, «perché lo sfondo di tutto questo è la necessità di programmare un servizio di treni interregionale, che dipende dal ministero». Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno comunque condannato gli eventi, esprimendo più di una critica anche, e forse soprattutto, alla gestione dei fatti da parte di Trenitalia e della Polizia ferroviaria. Il punto è che, stando a quanto riportato dalla Polfer, nessuno degli agenti presenti è stato contattato da Trenitalia, che invece insiste nel dire di aver chiesto l’intervento, per poi provvedere a trovare un’alternativa alla comitiva facendola salire in un autobus sostitutivo.
Se la leader di FdI, Giorgia Meloni, parla di «gesto miserabile» annunciando un’interrogazione «per arrivare a fondo di questa vergogna indegna di una Nazione civile», il M5S risponde con una nota del deputato ligure Sergio Battelli. «Quanto successo è di una gravità inaudita e denota inciviltà e meschinità – scrive l’esponente M5S – Trovo inoltre assurdo che il personale Trenitalia, insieme alla Polfer, non siano riusciti a far rispettare le regole: spero che venga fatta al più presto luce su questa vicenda aberrante e che i responsabili vengano individuati e denunciati». Di «vergogna» parla anche il numero uno della Lega, Matteo Salvini, che confessa di «non avere parole». Ma il Carroccio si è mosso in anticipo e ha già presentato la sua interrogazione. «Abbiamo presentato come Lega un’interrogazione ai ministri Lamorgese e Giovannini perché riteniamo doveroso un chiarimento sugli estremi di questa vicenda – sottolinea Luigi Augussori, senatore della Lega – Chiediamo al ministro Giovannini se non ritenga, come noi riteniamo, fondamentale mettere in atto azioni incisive per garantire i diritti dei passeggeri con disabilità e far sì che i trasporti siano, nei fatti, accessibili a tutti; chiediamo inoltre al ministro Lamorgese quali siano le motivazioni che hanno spinto la Polizia ferroviaria a non intervenire con risolutezza nella vicenda per affermare che le basilari norme di comportamento civile devono essere rispettate».
Sul piede di guerra Assoutenti che ha depositato un esposto alle Procure di Genova e Milano, chiedendo un «daspo» a vita sui treni italiani per i passeggeri che non hanno lasciato i posti riservati ai disabili. A seguire Codacons ha fatto sapere di voler presentare denuncia/querela. Trenitalia, tramite la direttrice regionale della Liguria, Giovanna Braghieri, ha spiegato che le persone che non hanno voluto alzarsi dai posti riservati per il gruppo di disabili «avevano un regolare biglietto, che gli permetteva di viaggiare sia seduti che in piedi. I viaggiatori – ha affermato – sono stati controllati e possedevano un regolare biglietto. Ricordiamo che per viaggiare su un treno regionale è possibile acquistare un biglietto che permette di avere la garanzia del viaggio che può essere effettuato sia in piedi che seduto con il ritorno alla capienza al 100%. Abbiamo anche una app che permette, con una sorta di semaforo rosso, giallo e verde di monitorare lo stato di disponibilità dei posti a bordo per i viaggiatori che vogliono avere questo tipo di informazioni». I viaggiatori, a quanto spiegato da Braghieri, «sono stati invitati più volte dal nostro personale a lasciare liberi quei posti, sottolineando che erano riservati ad una comitiva di ragazzi disabili, ma nessuno si è alzato. La nostra richiesta non è stata minimamente accolta». A quel punto, secondo quanto ricostruito dalla direttrice regionale di Trenitalia, «è stato chiesto l’intervento della Polfer che era presente in stazione ma – ha aggiunto Braghieri – non sappiamo poi le scelte della Polfer da cosa siano state dettate».
Monica Serra per “la Stampa” il 20 aprile 2022.
Alla fine di una giornata di polemiche, a dare a tutti una lezione è stato uno dei passeggeri «speciali» che non è riuscito a salire sul treno per Milano. In un post su Facebook, il ragazzo ha ringraziato gli educatori e accompagnatori dell'associazione Haccade che «hanno gestito alla grande una situazione difficile e complicata». Poi, si è rivolto alle «persone che non volevano scendere dal treno» spiegando che, fosse stato per lui, quel regionale veloce non sarebbe proprio dovuto partire, «così vediamo chi vince, se noi o loro. Il treno avrebbe potuto anche fare un ritardo di venti ore, ma quel che proprio non sopporto è la mancanza di onestà e la maleducazione. Non tollero chi frega gli altri in questo modo».
A ridimensionare, però, le accuse nei confronti dei passeggeri «già ammassati» sul treno 3075 delle 15,48 è Flavia Neri, la responsabile degli educatori che accompagnavano i venticinque ospiti con disabilità cognitiva e psichica tra i 25 e 50 anni costretti a tornare a Milano da Genova con un pullman messo subito a loro disposizione: «La colpa non è di chi viaggiava in una situazione di forte disagio, ma di Trenitalia che non ha saputo garantire il servizio.
Abbiamo acquistato dei biglietti con posti assegnati che però non erano stati riservati o delimitati in alcun modo. Il treno è arrivato in ritardo già stracolmo di gente anche tra una carrozza e l'altra. A queste persone, che ci hanno manifestato il loro dispiacere, è stato chiesto di scendere senza prospettargli un'alternativa, per questo si sono arrabbiate. E anche gli agenti della Polfer intervenuti hanno capito la delicatezza della situazione e provato a tutelare la serenità dei nostri ospiti».
Ma i «disservizi» non sono finiti qui. Come racconta Neri, «l'alternativa offerta è stata un pullman privo di bagni, con condizioni climatiche inadeguate, che ha raggiunto Milano con due ore di ritardo e senza fornirci informazioni sul luogo preciso di arrivo in Centrale, che erano invece necessarie per le famiglie delle persone del gruppo».
Una volta in città, tra l'altro, «il bus si è bloccato a una fermata dell'Atm in piazza Duca D'Aosta dove era impossibile recuperare le valigie in sicurezza, perché il portellone dei bagagli era affacciato sulla strada e non sul marciapiede. Per di più - aggiunge Neri - nessuno ci ha dato una mano: non era presente il personale di assistenza, come da prenotazione».
A nulla sono servite le numerose telefonate a Trenitalia e Polfer di Giulia Boniardi, presidente dell'associazione Haccade che aveva organizzato il viaggio culturale di quattro giorni a Genova nell'ambito del progetto Turisti per kaos: «Da undici anni portiamo avanti queste iniziative di turismo accessibile e mai ci è capitata una cosa del genere. Non ero con il gruppo, ho coordinato tutto da remoto. Sgradevole è stato anche il comportamento dell'autista del bus che si è addirittura lamentato per i disordini che noi avremmo generato a bordo nell'attesa di un qualche intervento. Siamo riusciti a risolvere la situazione solo grazie alla collaborazione delle famiglie dei nostri ospiti che ci hanno aiutato con i bagagli».
Mentre «la procura di Genova attende gli esposti annunciati per valutare l'eventuale apertura di un fascicolo d'inchiesta», come spiega il procuratore Francesco Pinto, la ricostruzione delle vittime coincide solo parzialmente con quella di Trenitalia che ha già avviato accertamenti interni e verbalizzato le testimonianze dei dipendenti presenti.
Esprimendo «vivo dispiacere e sdegno per l'accaduto» e annunciando il «rimborso integrale del biglietto», l'azienda di trasporti sostiene che ai passeggeri con disabilità sarebbe stata garantita «la massima assistenza, consegnando kit con snack e bevande, accompagnandoli ai servizi igienici e, successivamente, al pullman per raggiungere Milano».
Soluzione alternativa che «era già stata predisposta per via del normale affollamento ipotizzabile nel giorno di Pasquetta a cui si sono aggiunti atti vandalici che hanno ulteriormente ridotto il numero di vagoni del regionale. Dove, in ogni caso, è previsto che una quota parte di passeggeri viaggi in piedi». Dalle foto circolate sui social però, almeno a occhio, sembrano un po' troppi.
Eppur si muove. L’ascensore sociale in Italia funziona, ma solo al Nord. Lidia Baratta su L'Inkiesta il 12 febbraio 2022.
Per la prima volta, uno studio di tre economisti italiani smentisce la fotografia dell’Italia come Paese immobile. In alcune province del Nord Est, le possibilità che hanno i figli di guadagnare più dei genitori superano anche gli Stati scandinavi e molte città americane. Ma al Sud la mobilità tra generazioni è paralizzata. E gli uomini hanno sempre più opportunità delle donne
«Eppur si muove». Per la prima volta, uno studio condotto da un trio di economisti italiani dimostra che l’ascensore sociale nel nostro Paese non è del tutto bloccato. Anzi, in alcune parti d’Italia, in particolare nel Nord Est, le possibilità che hanno i figli di guadagnare più di padri e madri superano addirittura anche i più virtuosi Paesi scandinavi e molte città americane. Diverso è invece il caso del Sud Italia, dove la mobilità tra generazioni è del tutto paralizzata e lo status familiare resta determinante per il futuro dei figli. A meno che non si decida di emigrare altrove.
La ricerca, pubblicata sull’American Economic Journal: Applied, è firmata da Paolo Acciari, dirigente dell’ufficio statistico del ministero dell’Economia, Alberto Polo, economista alla Bank of England, e Gianluca Violante, professore di economia a Princeton.
La novità, rispetto alle ricerche precedenti e alle classifiche che hanno sempre posizionato l’Italia in coda per la mobilità sociale dei giovani, sono i dati che i tre economisti hanno utilizzato. Ovvero le dichiarazioni dei redditi di genitori e figli di circa 2 milioni di famiglie italiane, di cui sono state osservate le variazioni nel tempo.
«Finora i lavori di ricerca accademici si erano basati sulle indagini sulle famiglie condotte dalla Banca d’Italia, in cui non si possono collegare i redditi di genitori e figli», spiega Gianluca Violante. «Il nostro studio parte invece dai dati amministrativi delle dichiarazioni dei redditi, che sono il gold standard dell’analisi empirica. Su questi dati si basano infatti le rilevazioni sulla mobilità negli Stati Uniti, in Canada e in gran parte dei Paesi scandinavi». In Italia, invece, questi dati sono «difficilmente accessibili dai ricercatori, soprattutto per via della legislazione sulla privacy che è estremamente restrittiva».
Ora, comparando il 730 dei genitori e quello dei figli arrivati all’età di trentacinque anni, i tre economisti hanno potuto osservare che la mobilità intergenerazionale verso l’alto esiste anche in Italia. In più, considerato l’alto tasso di economia sommersa esistente soprattutto in alcune aree del Paese, le cifre sono state anche corrette rispetto alle stime di Bankitalia sul lavoro nero. Ma i risultati non cambiano.
Certo, chi nasce da genitori ricchi è avvantaggiato, con il 33% di possibilità di mantenere lo status sociale di famiglia. Mentre un figlio nato da genitori nella fascia reddituale più bassa ha solo l’11% di probabilità di arrivare da adulto nella fascia più alta.
Una grande asimmetria. Ma questa percentuale varia, e non di poco, anzitutto in base alla provincia e regione di nascita. «I tassi di mobilità verso l’alto sono molto più elevati nel Nord Italia, dove incidono la presenza di scuole di maggiore qualità, famiglie più stabili e condizioni del mercato del lavoro più favorevoli», spiega Violante. «Ma anche nel Settentrione ci sono differenze notevoli: il Nord Est è più mobile rispetto al Nord Ovest».
Il risultato, del tutto inaspettato, è che in alcune città italiane la possibilità di realizzarsi nel lavoro, guadagnando più dei propri genitori, sono anche maggiori di alcune aree metropolitane degli Stati Uniti, da sempre considerati la terra promessa del sogno americano. «Quando li metti a confronto», dice Violante, «si vede che in Italia la possibilità di passare dalle fasce di reddito più basse a quelle più alte è maggiore che negli States. Negli Stati Uniti, invece, c’è maggiore possibilità di superare i padri dalla middle class in poi».
Nello studio, si trova anche una classifica delle province italiane dove l’ascensore sociale funziona meglio. In cima alla top ten ci sono Bolzano, Monza-Brianza e Bergamo. Le peggiori, nella parte più bassa della classifica, sono invece Catania, Palermo e, per ultima, Cosenza. In questo caso, il livello di mobilità è molto simile ad alcune delle città americane in cui l’ascensore sociale è del tutto bloccato, come Atlanta e Charlotte.
«La scarsa mobilità del Sud viene alterata nel momento in cui i figli si muovono dal Sud al Nord», spiega Violante. «In questo caso si hanno tassi di mobilità verso l’alto molto alti. Ma la scarsa propensione a spostarsi, lasciando famiglie e regioni di origine, fa sì che il livello di mobilità intergenerazionale resti comunque basso».
Ma a essere determinante è anche il genere. Dai dati dello studio, emerge che la mobilità verso l’alto è maggiore per i figli maschi. «Questo risultato è dovuto alla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia», spiega Violante. «L’altro dato interessante è che i primogeniti hanno maggiori probabilità di guadagnare più dei genitori se confrontati con i fratelli. Probabilmente perché si investe di più e si pone maggiore attenzione nell’istruzione del primo figlio».
Conta anche la professione dei genitori: chi è figlio di imprenditori e lavoratori autonomi ha maggiore possibilità di risalire la scala sociale. Tra le variabili considerate dagli economisti ci sono i tassi di disoccupazione, l’incidenza di divorzi e separazioni, la presenza della criminalità e il capitale sociale.
Ma il fattore decisivo resta la qualità del sistema scolastico. La scuola, osservando le correlazioni statistiche, è quella che più delle altre determina il futuro dei giovani in termini di posizioni professionali e guadagni futuri. In particolare, sottolinea Violante, «sono decisive le scuole materne e le elementari, ancora più delle scuole superiori. I primi anni di formazione del bambino nella fascia 0-7 hanno effetti permanenti su quanto guadagnerà in futuro».
Marche, dopo il terremoto chiama la madre ma era morta da due mesi. Redazione Cronaca su La Repubblica il 10 Novembre 2022.
Il cadavere dell’anziana, che viveva da sola ad Ancona, era in avanzato stato di decomposizione
Ha chiamato la madre dopo aver sentito in televisione della forte scossa di terremoto che ieri ha fatto tremare di nuovo le Marche, ma l'anziana, 78 anni, non rispondeva alle ripetute telefonate. Così ha deciso di dare l'allarme al 112, convinta che il terremoto potesse aver creato problemi alla donna che viveva sola. Quando la polizia è arrivata all'indirizzo fornito la macabra scoperta: l'anziana era morta da almeno due mesi.
Il cadavere decomposto
Il corpo della 78enne era nella camera da letto del suo appartamento in via della Ricostruzione: era in avanzato stato di decomposizione. Il medico legale intervenuto sul posto ha ipotizzato che il decesso possa risalire ad almeno due mesi fa: nessuno in queste lunghe settimane ha cercato la donna né si è accorto della sua assenza.
Il rapporto conflittuale tra madre e figlia
Stando a quanto si apprende la donna, originaria di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, viveva ormai da anni ad Ancona, ma nella cittadina marchigiana non aveva parenti. Viveva sola nel suo appartamento e con l'unica figlia che era rimasta nella terra d'origine, i rapporti si erano ormai freddati, a causa, sembra di divergenze caratteriali.
Vittorio Feltri, "era solo carne in putrefazione": il dramma che tutti ignorano. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 novembre 2022
Giovanni Rinaldo, 82 anni, nato ad Ancona e ancora lì residente sebbene campasse nel capoluogo pugliese già da un bel pezzo, è passato su questa terra e questa terra ha lasciato senza fare il benché minimo rumore. I vicini, i parenti, lo Stato, con il dispiegamento di tutte le sue forze di polizia, dal nucleo volanti alla scientifica, passando per vigili del fuoco e medici del sistema sanitario nazionale, e anche noi giornalisti, pure noi, ci siamo improvvisamente accorti di Giovanni Rinaldo in un pigro e noioso pomeriggio domenicale, nel mese di novembre, anno 2022. Ci siamo accorti di Giovanni Rinaldo quando questi non era più una persona bensì un ammasso di carni e viscere in putrefazione - anzi, dovrei dire, in avanzato stato di decomposizione -, già invaso massicciamente da larve e vermi.
Giovanni Rinaldo non viveva da eremita, sul cucuzzolo di una montagna remota, in una località sperduta dove non si aggira anima viva e il telefonino diventa irraggiungibile. Egli dimorava nel pieno centro di Bari, tra un ammasso di appartamenti, pianerottoli, porte, finestre, negozi, tra vociferare di gente di ogni età, pianti, urla, risate e brulicare forsennato di individui ad ogni ora del giorno e della notte, nessuno dei quali però si è accorto che Giovanni Rinaldo era morto poiché nessuno si era mai accorto che Giovanni Rinaldo era stato vivo. Vivo ma invisibile. Vivo ma impercettibile. Così, quando nessuno lo ha più visto uscire di casa, passeggiare nei dintorni, recarsi al mercato o in farmacia, andare a ritirare la pensione, semplicemente passare per strada, nessuno ci ha fatto caso. Non una visita, non una chiamata, non un appuntamento. Non un amico, non un familiare, di primo, secondo o ventesimo grado, si è preoccupato di quel silenzio tombale, di quella assenza improvvisa, di questa anomalia. Almeno fino a domenica pomeriggio, quando la figlia ha allertato il 118 in quanto il babbo non rispondeva alle sue telefonate insistenti. Ma erano trascorsi già oltre due mesi, oltre sessanta giorni, oltre otto settimane dal trapasso di Giovanni.
Dunque, allorché gli agenti sono piombati in quella abitazione, sita nel cuore di Bari, hanno trovato ad accoglierli un cadavere rinsecchito, rigido come un vecchio pezzo di legno, fermo lì ad attendere da oltre due mesi, oltre sessanta giorni, oltre otto settimane, da tutta quanta una vita in verità, che qualcuno di accorgesse di lui. Ignoriamo se Giovanni Rinaldo sia stato solo o meno nel corso della sua esistenza, se si sia sentito solo, come capita ad ognuno di noi, pure a quelli che soli, almeno in apparenza, non sono, però sappiamo che è stato in totale solitudine nella sua vecchiaia e nel momento del decesso. E questa è una delle tragedie più gravi che possano accadere ad un essere umano. Drammi sempre più frequenti e non solamente perché cresce di anno in anno il numero delle persone che vivono da sole, magari vedove, ma anche perché cresce di anno in anno l'indifferenza collettiva.
A fine ottobre un altro ottantenne è stato ritrovato nell'appartamento in cui abitava, a Cavagnolo, Torino, in stato di decomposizione. Era deceduto da almeno una settimana. Stavolta a dare l'allarme sono stati i vicini a causa del cattivo odore che invadeva gli spazi comuni dello stabile. Qualche giorno dopo una scoperta simile è avvenuta a Bordighera. I primi di novembre, invece, a Scalea, Cosenza, il corpo decomposto di un settantacinquenne è stato rinvenuto nella casa dove l'uomo, separato, abitava. Il 19 ottobre, a Treviso, un pensionato di settant' anni, Dorino Dupré, è stato trovato tra le mura domestiche dopo parecchio tempo dalla sua morte. E qui mi fermo.
Torino, cadavere mummificato in casa: è di un uomo di 48 anni morto da almeno sei mesi. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 14 giugno 2022.
Mario viveva da solo nell’alloggio di famiglia in Barriera di Milano: dopo la scomparsa dei genitori si era chiuso in se stesso.
Mario, 48 anni, era un uomo solitario e con molti problemi. Disoccupato, pochissimi amici, viveva nell’alloggio di famiglia in Barriera di Milano. Martedì pomeriggio (14 giugno) i vigili del fuoco, dopo la chiamata allarmata dei vicini che non lo vedevano (almeno) da prima di Pasqua, hanno sfondato la porta dell’appartamento al terzo piano di via Leinì e lo hanno trovato senza vita, in avanzato stato di decomposizione, praticamente mummificato. Secondo il medico legale era morto da diversi mesi, probabilmente per cause naturali, ma nessuno si era preoccupato per la sua assenza .
«Lui in questo palazzo era cresciuto — raccontano i vicini —. Il padre è mancato da qualche anno e con la madre c’erano stati parecchi dissapori. La signora Maria era il collante di quella famiglia, ma da quando è andata in una casa di riposo la situazione è precipitata. Lo incontravamo ogni tanto per le scale, quando scendeva per andare a buttare la spazzatura o comprare la solita pizza in corso Vercelli. Lui non dava confidenza a nessuno, buongiorno e buonasera e la conversazione era finita lì».
Qualcuno racconta che in passato Mario abbia provato a fare il bidello in una scuola, ma da tempo non lavorava più: percepiva un sussidio che gli permetteva di arrivare alla fine del mese. Dopo la morte della madre, di cui nessuno aveva avuto notizia, Mario si era chiuso in se stesso. Gli inquilini della vecchia casa di ringhiera non hanno fatto troppo caso alla buca delle lettere, piena di bollette e avvisi di notifica. La sorella maggiore, con la quale aveva interrotto ogni rapporto, ha continuato a pagare in anticipo tutte le spese condominiali, ma nei giorni scorsi il cattivo odore proveniente dall’alloggio ha messo in allarme i vicini. L’amministratore ha avvisato il 112 e in via Leinì sono arrivati i vigili del fuoco, assieme alla polizia e a un’ambulanza della Croce Verde di Villastellone a sirene spiegate.
Purtroppo per Mario non c’era più niente da fare. È morto da solo, come ha vissuto quasi tutta la sua vita e nessuno se ne è accorto. La porta era chiusa dall’interno e nell’appartamento e sul corpo non sono state trovate tracce violenza o colluttazione. Sulla vicenda indaga la Questura, ma non sembra esserci nessun giallo. Solo l’ennesimo dramma della solitudine, consumato in un palazzo di periferia.
Famiglia morta in casa, l’autopsia: padre ucciso da un malore, madre e figlio dalla fame. Chiara Nava il 05/05/2022 su Notizie.it.
L'autopsia sui corpi della famiglia morta in casa ha rivelato che il padre è stato ucciso da un malore, mentre la madre e il figlio sono morti di fame.
I risultati dell’autopsia effettuata sui corpi della famiglia morta in casa a Macerata, hanno rivelato che il padre è stato ucciso da un malore, mentre la madre e il figlio sono morti di fame.
Le conclusioni a cui sono arrivati Roberto Scendoni, medico legale, e Rino Froldi, tossicologo forense, dopo l’autopsia condotta sui corpi della famiglia morta in casa a Macerata, svelano che Eros Canullo è morto a causa di un malore, mentre la moglie Angela Maria Moretti e il figlio Alessandro sono morti di fame. Si tratta di un tassello essenziale per ricostruire quanto è accaduto. La famiglia era molto conosciuta. Eros Canullo, di 80 anni, era stato un imprenditore a Santa Croce.
Angela Maria Moretti, di 76 anni, era stata una logopedista per l’Anffas. Il figlio Alessandro, di 54 anni, da ragazzo era stato vittima di un terribile incidente stradale che lo aveva reso invalido.
Una storia di isolamento e solitudine
La famiglia, con il passare del tempo, si era chiusa in se stessa, in un isolamento che l’aveva allontanata da amici e parenti. A settembre 2020, Angela Maria aveva avuto un ictus, che l’aveva bloccata a letto.
Il marito si occupava di tutto, chiedendo aiuto alla Croce Verde quando il figlio cadeva e lui non riusciva ad alzarlo. Sanitari e un amico di famiglia avevano fatto segnalazione per il degrado crescente della casa in cui l’80enne si prendeva cura dei due invalidi. La scorsa estate Eros aveva deciso di mettere in vendita una casa e si era rivolto all’agenzia. Dopo un po’ di tempo, non riuscendo più a rintracciarlo, i dipendenti dell’agenzia avevano contattato i carabinieri.
Il 5 agosto una pattuglia è andata a controllare, ma nessuno ha risposto al citofono. I titolari della pizzeria avevano spiegato che la famiglia trascorreva sempre l’estate al mare, per cui le ricerche si erano chiuse.
Famiglia trovata morta a Macerata
A settembre, la sorella di Angela Maria, che vive a Milano, dopo aver cercato di parlare con la sorella per settimane, aveva segnalato la sua scomparsa. Il 6 settembre erano stati trovati i tre corpi senza vita in avanzato stato di decomposizione nella villetta in cui vivevano. Mentre la squadra mobile avviava le indagini, il sostituto procuratore Ciccioli aveva incaricato il medico legale Scendoni e il professor Froldi per scoprire le cause del decesso e la data. I consulenti hanno stabilito che Eros Canullo è stato ucciso da un malore, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. Per la moglie e il figlio non ci sono tracce di lesioni o sostanze tossiche, per cui l’ipotesi è che siano morti di fame, rimasti senza l’unica persona che si prendeva cura di loro. La procura dovrà valutare se ci siano responsabilità per quanto accaduto.
Padre morto di ictus, madre e figlio disabili morti di fame. Un vicino: “Forse avremmo potuto aiutarli”. Ilaria Minucci il 09/05/2022 su Notizie.it.
Padre morto per ictus, madre e figlio disabili morti di fame e sete: tragedia a Macerata per la famiglia Canullo. La testimonianza di un vicino.
Padre morto per ictus, madre e figlio disabili morti di fame e sete: tragedia a Macerata per la famiglia Canullo. Sul drammatico accaduto, è intervenuto un vicino delle tre vittime.
Padre morto di ictus, madre e figlio disabili morti di fame e sete
I corpi senza vita di Ennio Canullo, di Maria Angela Moretti e di Alessandro Canullo sono stati rinvenuti a circa due dalla loro morte, avvenuta presso la villetta di Macerata in cui la famiglia Canullo viveva.
Sulla base delle ricostruzioni sinora effettuate, pare che Ennio Canullo, 80 anni, sia stato stroncato da un improvviso malore mentre sua moglie Maria Angela Moretti, 77 anni, e suo figlio Alessandro Canullo, sarebbero morti per inedia.
Madre e figlio, infatti, erano entrambi affetti da gravi disabilità.
La drammatica scoperta dei tre cadaveri risale a settembre 2021, quando la sorella di Maria Angela ha contattato le forze dell’ordine non riuscendo a mettersi in contatto con la donna per settimane.
Dopo aver ricevuto la segnalazione, le autorità locali si sono recate a borgo Santa Croce nella giornata del 6 settembre 2021 e hanno rinvenuto i corpi senza vita dei tre componenti della famiglia Canullo in ormai avanzato stato di decomposizione.
I resti di padre, madre e figlio, poi, sono stati sottoposti ad autopsia. In questa fase, il medico legale Roberto Scendoni e il tossicologo Rino Fro hanno confermato che l’80enne Ennio Canullo è morto per un ictus mentre madre e figlio disabili sono morti di fame e sete. La disabilità della 77enne si era manifestata nel 2020 a seguito di un ictus mentre, per quanto riguarda il figlio della coppia, il 54enne era rimasto invalido dopo essere rimasto vittima di un incidente stradale da giovane.
In seguito alla morte dell’80enne, né la madre né il figlio sono riusciti a chiedere aiuto e nessuno ha mai bussato alla loro porta per sapere come stessero.
La testimonianza di un vicino: “Forse avremmo potuto fare qualcosa per aiutarli”
La tragica vicenda è stata recentemente affrontata a Storie Italiane, programma televisivo trasmesso su Rai 1. Ai microfoni della trasmissione, è intervenuto uno dei vicini della famiglia Canullo che, commentando l’accaduto, ha ammesso: “Siamo i vicini più prossimi, mi chiedo se avremmo potuto fare qualcosa in più. Ancora adesso provo dispiacere e mi commuovo perché è una tragedia che ci ha toccato da vicino”.
L’uomo ha anche raccontato che, con il trascorrere del tempo, la famiglia Canullo si era isolata e viveva il proprio quotidiano con estrema difficoltà. A proposito dei coniugi Canullo e del figlio Alessandro, poi, il vicino ha aggiunto: “Non so se potevamo fare qualcosa per aiutarli. Vedevamo sempre tutto chiuso e le luci esterne che la notte si accendevano. Per questo motivo non ci siamo posti l’interrogativo sul perché non li vedessimo. Erano soliti in estate andare al mare a Porto Recanati per poi spostarsi alla casa in montagna e tornavano a fine agosto. Eros faceva la spesa, cucinava, puliva, portava il figlio a fare riabilitazione. Faceva tutto lui, era una brava persona, era l’uomo di casa e, posso dire, non si è mai lamentato della situazione familiare, era una persona molto riservata, così come la famiglia. Una volta, a febbraio, mi telefonò perché suo figlio era caduto e lo aiutai a rimetterlo su. Ho visto un po’ di abbandono in quella casa. Gli suggerii di farsi dare una mano in casa da una signora, ma lui mi rispose che ce la faceva tranquillamente da solo”.
La tragica fine della famiglia di Macerata: ictus al padre, moglie e figlio disabili muoiono di fame. Il Tempo il 06 maggio 2022.
«Vivevano in uno stato di abbandono psicofisico e andavano aiutati»: così l’avvocato Maurizio Gabrielli, dopo aver letto la perizia autoptica, disposta dalla procura di Macerata e firmata dal medico legale Roberto Scendoni con il quale ha collaborato il tossicologo Rino Froldi, sui corpi di Eros, Angela Maria e Alessandro Canullo, ritrovati in avanzato stato di decomposizione nella loro abitazione di Borgo Santa Croce a Macerata il 6 settembre ma morti «tra la fine di giugno e i primi di luglio».
Il legale assiste Nazzareno Russo, figlio di Silvana e sorella di Eros, morta a inizio dello scorso anno. Marito, moglie e figlio sono morti per cause naturali: Eros, 80enne, è stato stroncato da un ictus ma non è morto subito, mentre il figlio Alessandro, 54 anni, vittima di un incidente stradale per le cui conseguenze necessitava di cure continue, e la moglie Angela Maria, 76enne immobilizzata a letto, sono morti di inedia. «Tutti e tre i familiari sono morti per cause naturali», ribadisce l’avvocato Gabrielli, che nei prossimi giorni potrebbe chiedere il dissequestro della villetta dove vivevano i Canullo.
A dare l’allarme era stata, il 6 settembre scorso, la sorella di Angela Maria, che vive a Milano: nessuno le rispondeva al telefono e ha chiamato i soccorsi. Una volta in casa, i vigili del fuoco hanno trovato i tre corpi senza vita: Eros in bagno, la moglie Angela Maria sul suo letto e il figlio Alessandro ai piedi del letto della madre. Nel corso delle indagini, condotte dal capo della squadra mobile di Macerata, Matteo Luconi, e coordinate dal sostituto procuratore Stefania Ciccioli, è emersa anche la storia dei Canullo: una famiglia benestante diventata poi fragile e isolata per via dell’incidente del quale è stato vittima Alessandro, all’epoca poco più che ventenne: prima il coma e poi una complicata riabilitazione, che gli aveva consentito di riprendere a camminare ma sempre con l’aiuto del padre.
Macerata, madre e figlio disabili morti in casa di fame e sete. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 6 Maggio 2022.
Sei mesi dopo il ritrovamento in una villetta di Borgo Santa Croce dei corpi senza vita di due anziani coniugi e del figlio, l'autopsia racconta una storia drammatica di solitudine: il padre, che si occupava della famiglia, sarebbe morto per cause naturali lasciando senza alcuna assistenza i familiari di cui nessuno ha mai cercato notizie.
La storia è ancora più tragica di quanto sembrava a settembre quando, in una villetta di Borgo Santa Croce, a Macerata vennero trovati i corpi senza vita di tre persone, l'ottantenne Eros Canullo, la moglie Angela Maria Moretti, 76 anni e il figlio Alessandro, 54 anni, questi ultimi due invalidi. Morti non si sa bene perchè. Avvelenamento da monossido di carbonio, si ipotizzò. Ma ora l'autopsia e gli esami tossicologici ordinari dalla Procura di Macerata rivelano una storia drammatica di abbandono e solitudine e affermano che, morto per primo il padre ottantenne che si occupava dei due congiunti, madre e figlio ( senza alcuna assistenza e senza che nessuno si mettesse mai in contatto con loro) sono morti, giorni dopo, di fame e di sete.
Adesso toccherà alla Procura di Macerata andare avanti nell'inchiesta e valutare se ci sono responsabilità per la fine di questa famiglia le cui condizioni di isolamento erano state segnalate da un conoscente ai servizi sociali del Comune a maggio dello scorso anno senza che, però, a quanto sembra, nessuno sia intervenuto.
Quello che a questo punto appare assai probabile dunque è che Eros Canullo, l'ottantenne imprenditore molto conosciuto in zona per la fonderia di cui era stato titolare, sia morto per cause naturali lasciando senza più alcuna assistenza la moglie costretta a letto dopo l'ictus che l'aveva colpita diversi mesi prima e il figlio Alessandro impossibilitato a muoversi per le gravi conseguenze di un incidente stradale che aveva avuto a metà degli anni Novanta. Dopo alcuni mesi in coma si era ripreso ma era costretto sulla sedia a rotelle ed era l'anziano padre ad occuparsi di tutto e di tutti in quella villetta in cui da molto tempo non entrava più nessuno. Amici e familiari della famiglia si erano allontanati ormai da tempo.
A dare l'allarme a settembre scorso era stato da Milano un familiare dei Canullo che da mesi non riusciva a mettersi più in contatto con loro. Da qui l'intervento dei vigili del fuoco e la tragica scoperta dei corpi degli anziani coniugi e del figlio, probabilmente morti da prima dell'estate visto che in casa i riscaldamenti erano ancora accesi.
Sulla vicenda anche il Comune di Macerata ha aperto un'inchiesta interna per valutare eventuali responsabilità dei servizi sociali.
Dal giornale.it il 7 maggio 2022.
Tre corpi senza vita. C'è il dramma della solitudine dietro alla morte di Eros Canullo, 80 anni, della moglie Angela Maria Moretti, di 76 anni e del figlio Alessandro, di 54 anni, trovati cadaveri nella loro villetta di Borgo Santa Croce, a Macerata.
Dopo mesi di indagine si è scoperto, infatti, che non si è trattato di avvelenamento da monossido di carbonio. Mamma e figlio sono stati stroncati dalla fame e dalla sete, dopo che Eros, ucciso da un malore, non poteva più occuparsi di loro. Il corpo dell'uomo a settembre era stato trovato a terra in bagno, mentre quello della moglie sul letto e di Alessandro ai piedi del letto della madre. «Tutti e tre i familiari sono morti per cause naturali», ha detto ieri l'avvocato Gabrielli.
A dare l'allarme era stata, il 6 settembre scorso, la sorella di Angela Maria, che vive a Milano: nessuno le rispondeva al telefono e così ha chiamato i soccorsi. Una volta in casa, i vigili del fuoco hanno trovato i tre corpi. Nel corso delle indagini, condotte dal capo della squadra mobile di Macerata, Matteo Luconi, è emersa anche la storia di questa famiglia benestante, diventata poi fragile e isolata per via dell'incidente del quale è stato vittima Alessandro, all'epoca poco più che ventenne: prima il coma e poi una complicata riabilitazione, che gli aveva consentito di riprendere a camminare ma sempre con l'aiuto del padre, noto imprenditore della zona.
La mamma, invece, era costretta a letto dopo l'ictus che l'aveva colpita mesi prima. «Vivevano in uno stato di abbandono psicofisico e andavano aiutati», spiega l'avvocato Gabrielli, dopo aver letto la perizia autoptica firmata dal medico legale Roberto Scendoni sui cadaveri, ritrovati il 6 settembre in avanzato stato di decomposizione. I tre molto probabilmente erano morti tra la fine di giugno e i primi di luglio. Sulla vicenda ora il Comune di Macerata ha aperto un'inchiesta interna per valutare eventuali responsabilità dei servizi sociali.
Ivan, 30 anni, che dormiva in tenda al Parco Nord: aveva perso tutto, il quartiere lo salva. Elisabetta Andreis su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.
Un giorno una ragazza si è fermata ad ascoltare la sua storia e gli ha creduto. Ha organizzato per lui un crowdfunding e da quel momento si è scatenata l’onda di solidarietà con le social street in prima linea.
Tatuata sulle dita della mano la scritta «Life». Non è uno che aspetta passivo l’aiuto degli altri Ivan Lorusso, 30 anni. Ha troppa voglia di riprendersi e di vivere, anche se per i casi del destino due anni fa è finito a terra. Perso il lavoro, persa la casa, rotti anche i legami familiari.
Il trentenne ha dormito in tenda nel mezzo del parco Nord fino a quando — l’inverno scorso — una famiglia non gli ha prestato un camper. Pochi giorni fa, poi, si è fatta avanti una signora che, senza chiedere nulla in cambio, l’ha ospitato a casa sua. Se lo sono presi sotto l’ala lei, la social street San Gottardo Meda Montegani e il gruppo Noi di Niguarda. Se il passaparola funziona oggi più che mai, è perché il lockdown ha insegnato la duplice lezione: il territorio è sensibile a chi ha bisogno, e chi ha bisogno ha imparato a chiedere in modo efficace.
Quanto a Ivan, la storia è presto detta. Abbandonato dalla mamma quando era bambino, è stato cresciuto da una famiglia affidataria che gli ha voluto bene. A 18 anni, però, lui sente la necessità di ritrovare la sua madre biologica. Sceglie di tornare a vivere con lei. Le cose drammaticamente non funzionano. Ivan lascia Milano, parte per la Puglia dove vive il padre, ma la situazione è complicata anche lì e lui risale verso Nord. «Ho fatto più lavori di quanti sono i miei anni — dice — e c’è poco da scherzare: erano tutti impieghi in nero, senza contratto. Scaffalista, magazziniere, lavapiatti, aiuto cuoco, panettiere. C’è gente che si scoccia a lavorare il sabato, la domenica o le notti (qui l’articolo sul personale introvabile, ndr). Io, al contrario, faccio carte false perché mi prendano anche per i turni più scomodi. Magari sono anche retribuiti un po’ di più». All’ultimo aveva trovato posto in un supermercato milanese e lì è restato parecchio tempo. Ma in pieno lockdown il punto vendita ha chiuso e lui si è trovato senza paracadute. Dopo mesi di insolvenza viene sfrattato. La mamma biologica, visti i rapporti freddi, gli toglie la residenza e lui resta d’un tratto senza lavoro e senza casa.
La prima notte all’addiaccio se la ricorda con un brivido. Dopo un po’ riesce a procurarsi una tenda azzurra, la monta nel mezzo del Parco Nord. «Mi isolavo da tutti perché mi vergognavo — racconta —. Volevo farcela da solo ma un giorno ho detto: adesso basta». Una ragazza che portava da quelle parti i cani a passeggiare si è fermata ad ascoltare la sua storia e gli ha creduto. Ha organizzato per lui un crowdfunding e da quel momento si è scatenata l’onda di solidarietà con le social street in prima linea.
«Fino a un secondo prima non esistevo e, come per magia, in un attimo c’era gente che si prodigava per me. Mi riconoscono per strada, è emozionante». Qualcuno lo ha aiutato con le pratiche per i documenti, altri gli hanno offerto taglio di capelli e vestiario pulito, altri ancora gli hanno regalato una bicicletta, la famiglia gli ha prestato il camper e adesso una signora addirittura una casa in cui abitare.
Ivan cerca di ricambiare e racconta: «Aiuto con tutto quello che posso offrire, le mie braccia. Faccio la spesa, cucino, chiedo in cosa posso rendermi utile. Nel tempo restante cerco lavoro». L’esperienza trasversale non gli manca, la volontà ancora meno. Sul gruppo Facebook della social street ha scritto: «Volevo ringraziarvi tutti per starmi vicino. Se vedete annunci di lavoro oppure qualcuno vi chiede personale me lo fate sapere? È una cortesia che vi chiedo, grazie di cuore». Degli altri, dice che si fanno in quattro per lui. Ma, a sentire la social street, è anche lui che si fa in quattro per loro.
Dramma a Como, Marinella Beretta morta sulla sedia della cucina: la scoperta dopo due anni. Il Tempo il 07 febbraio 2022.
Morta in casa da sola nella sua villetta vicino Como dopo essere stata colta probabilmente da un malore. Marinella Beretta, 70 anni e originaria di Erba, era seduta sulla sedia della cucina quando si è sentita male e lì è rimasta per due anni. L'anziana non aveva parenti, né amici. Viveva da sola e i vicini di casa non la vedevano da mesi ma - secondo le prime testimonianze - avevano pensato che con la pandemia si fosse trasferita. Gli accertamenti della polizia di Como sono ancora in corso, ma l’ipotesi è quella di un dramma della solitudine. Quando i poliziotti e i vigili del fuoco sono entrati nell’appartamento hanno trovato il corpo ormai mummificato della donna, ancora seduta sulla sua sedia in cucina. Sul corpo della donna saranno effettuati i necessari accertamenti, ma gli inquirenti sembrano convinti che la settantenne sia morta per cause naturali. Pare che nessuno avesse avuto più avuto notizie della pensionata dal settembre del 2019.
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.
Per due anni Marinella Beretta è rimasta seduta sulla sedia del suo tinello, in una villetta alle porte di Como. Per due anni nessuno l'ha disturbata. Non un venditore di pentole, un vicino di casa, un parente alla lontana. Nessuno.
Marinella era la solitudine fatta persona. Come tanti anziani nella sua situazione, aveva ceduto la nuda proprietà e tenuto per sé l'usufrutto. In un giorno imprecisato dell'autunno del 2019 si è seduta su quella sedia, dove un malore le ha staccato la spina. La morte istantanea che tutti sognano, la morte solitaria che tutti temono.
Qualche mese dopo è arrivata la pandemia e i vicini hanno pensato che Marinella si fosse trasferita, ma evidentemente la conoscevano talmente poco da ignorare che non aveva altri affetti presso cui rifugiarsi. C'è voluto il vento di questi giorni per attirare l'attenzione non tanto su di lei, ma sugli alberi del suo giardino.
Temendone la caduta, qualcuno ha chiamato il nudo proprietario, lui ha cercato Marinella e i vigili del fuoco hanno scassinato la porta, trovando sulla sedia del tinello quel che ne restava.
In molti di noi è ancora presente la memoria delle famiglie ramificate e caotiche dell'Italia contadina, al cui interno le solitudini si sopportavano e accudivano a vicenda. Invece la famiglia moderna è ridotta a un pugno sempre più stretto: due coniugi e un paio di figli, quando va bene. E quando non ci sono nemmeno i coniugi e i figli, resta Marinella. Si muore soli. E si vive soli, che è quasi peggio.
Marco Ventura per "il Messaggero" l'8 febbraio 2022.
Grazie al vento. L'hanno scoperta grazie al vento. La bufera rischiava di far schiantare gli alberi del giardino in quella villetta di una frazione di Como. A guardarla dall'alto, una casetta in mezzo a una miriade di altre casette, incastonata nella città con la sua vita minuziosa che scorre, un tessuto sociale di persone le cui esistenze sono intrecciate in mille modi.
Ma non quella di Marinella Beretta, 70 anni, pensionata: l'hanno trovata seduta in cucina, o nel salotto, a seconda delle cronache discordi, morta da più di due anni. Nessuno se n'era accorto. È successo che il vento soffiava forte e minacciava i fusti, i cespugli, e i vicini si sono preoccupati, e uno di loro ha avvertito lo svizzero che aveva comprato la casa.
Lei, Marinella, aveva conservato l'usufrutto, il diritto di restare tra le mura domestiche fino alla fine dei propri giorni. Nel settembre 2019 Conte formava il Conte bis, non c'era ancora la Brexit, il Covid covava in Cina senza che nessuno lo sapesse.
Marinella è morta prima di tutto questo, fulminata da una morte che gli inquirenti definiscono naturale, non vittima di una rapina, omicidio, o suicidio. Il semplice scorrere della vita che mentre continua a srotolare gli eventi pubblici, si interrompe così, all'improvviso, e ferma il tempo attraversato da ciascuno in solitudine. Montaigne diceva che si muore non perché si è malati, ma perché si è vivi.
Ma si può anche morire in vita, e questa è la tristezza più grande. Nessuno si è chiesto perché Marinella non andasse più al supermercato a fare la spesa, o avesse cessato di pagare le bollette e fosse scomparsa dal radar di quanti le abitavano a un passo. E solo la delicatezza verso gli alberi, non verso di lei, ha indotto qualcuno a telefonare allo svizzero. E poi ai vigili del fuoco. Viveva da sola nella sua villetta, Marinella.
Forse, quando è morta, la televisione era accesa, forse è rimasta accesa a lungo. Come capitò anni fa a un americano che fu trovato davanti al televisore acceso dopo un anno in cui era successo di tutto. La storia non si ferma, i cambiamenti si succedono nei notiziari davanti agli occhi spenti di chi non è più in grado di vedere, sentire, pensare Nelle cronache questa morte, e altre simili, diventano tragedie della solitudine.
Con il Covid, con l'abitudine alle barriere protettive e alla vita dissociata, dev' esser sembrato naturale che Marinella si fosse rifugiata nella propria casa senza più mettere il naso fuori. Lo sappiamo: la pandemia ha reso la vita delle persone sole, e anziane, ancora più invisibile. Marinella a quanto pare non aveva più parenti, né amici. A Londra, fece scalpore la notizia di una donna trovata pure lei morta da due anni.
Persiane e vetri delle finestre blindati. Posta e bollette accumulate davanti alla porta. Si chiamava Joice Vincent e l'immagine plastica della sua solitudine è l'ortopanoramica che ne ha certificato la morte, perché lei ormai era diventata uno scheletro e fu riconosciuta solo dai denti.
Le storie di solitudine, e di morte, laddove la morte, evento solitario per eccellenza, lo diventa ancora di più per via della graduale rottura di tutti i residui legami con la società, sono in realtà più comuni di quanto non s' immagini. Ci chiediamo a volte che fine ha fatto qualcuno che conoscevamo, e scopriamo per caso le vicissitudini di vecchi amici che abbiamo perso di vista.
Per caso, grazie al vento, sappiamo oggi che due anni fa ci ha lasciati la povera Marinella. Di lei leggiamo che era originaria di Erba, che aveva venduta la casa in via privata Comun Oppidum a Prestino, periferia di Como, e che la bufera aveva preoccupato i vicini perché piegava i fusti secolari, mentre lei non finiva più di morire perché nessuno ancora sapeva che era morta. E al termine della storia, il mistero della vita invisibile di Marinella dietro il cancello chiuso della sua villetta, ci impartisce una lezione terribile: la vera tristezza non è che gli altri non si siano accorti della sua morte. È che non si siano accorti che Marinella Beretta era viva.
Altro caso dopo quello di Marinella Beretta, trovata mummificata dopo 2 anni. Il dramma della solitudine della “maestra di tutti”: Ada trovata morta in casa in stato di decomposizione. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.
Assicurano che nessuno l’avesse mai dimenticata, nessun collega e nessun alunno. La maestra Ada era stata per 41 anni una figura di riferimento della scuola dell’infanzia Ilaria Alpi di Piazza Amendola a Oste di Montemurlo, in provincia di Prato. È stata rinvenuta morta in casa, da alcune settimane almeno, a 67 anni. Nessuno aveva avuto notizie da lei da tempo. Un altro “dramma della solitudine”, come li chiamano i giornali – soltanto una settimana fa il caso di Marinella Beretta, 70enne trovata mummificata in casa, a Como.
Faia era andata in pensione da quattro anni e da allora viveva una vita piuttosto riservata. Aveva perso suo marito da tempo. La coppia non aveva avuto figli. A quanto pare si vedeva poco in giro. Manteneva comunque un contatto, anche se probabilmente saltuario, con le sue ex colleghe. A Il Corriere Fiorentino alcune di queste hanno raccontato di aver provato a contattare la donna in occasione delle festività natalizie. Nessuna risposta. Così è partito l’allarme, anche se dopo parecchi giorni.
Non è escluso quindi che Faia sia morta anche oltre un mese fa. Il corpo è stato ritrovato dai vigili del fuoco in stato di decomposizione, nel pomeriggio di martedì scorso. Sul posto sono intervenute anche le volanti della polizia. Ada Faia era molto nota a Oste. Benvoluta. Aveva cominciato giovanissima come insegnante di ruolo nel 1977 ed era sempre rimasta alla Ilaria Alpi. Amava molto gli animali, viveva con diversi gatti. Aveva ricevuto nel 2018 un riconoscimento dal Comune di Montemurlo per la sua attività.
E proprio il sindaco del Comune di Montemurlo, Simone Calamai, ha espresso il proprio cordoglio tramite i social: “Tutti coloro che hanno conosciuto Ada in questi decenni la ricordano come una persona e un’insegnante speciale, sempre solare, sorridente e allegra. Amava tanto i bambini e con loro ci sapeva davvero fare, come mi hanno riferito commosse tante sue ex colleghe. Indubbiamente Ada è stata una figura importante per la crescita di tante generazioni di ostigiani e mancherà a tutta la nostra comunità. Dispiace sapere che Ada sia morta da sola, anche se nessuna delle sue colleghe l’aveva dimenticata, ma, purtroppo dopo la pensione, Ada si era molto chiusa in sé stessa”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da tgcom24.mediaset.it il 31 marzo 2022.
Dopo aver suonato inutilmente alla porta per diversi minuti, alcuni funzionari Inps, incaricati di un controllo in un appartamento in centro a Trieste, insospettiti, hanno allertato i soccorsi e polizia locale. Entrati in casa, la macabra scoperta: all'interno c'era il cadavere mummificato di una donna, nata nel 1933, e del suo gatto.
La donna sarebbe morta anni fa. Il corpo trovato, infatti, era irriconoscibile. La donna aveva una sorella con la quale da tempo i rapporti si erano interrotti. I medici hanno trovato alcuni prodotti alimentari scaduti nel 2018, un dettaglio che può aiutare nel risalire a una data orientativa del decesso.
Donna trovata morta in casa dopo 2 anni: tre parenti rinunciano all’eredità. Debora Faravelli il 02/04/2022 su Notizie.it.
Non c'è ancora un erede della donna trovata morta nella sua villa dopo due anni: i tre parenti che si erano fatti avanti hanno rinunciato all'eredità.
I tre parenti che si erano fatti avanti per l’eredità di Marinella Beretta, la donna di settant’anni trovata morta in casa a Como a distanza di due anni dal decesso, hanno deciso di rinunciarvi per motivi non noti.
Il proprietario della villetta a cui era stato lasciato l’usufrutto a vita alla donna si è lasciato come termine ultimo Pasqua per trovare un altro erede.
Donna trovata morta in casa: parenti rinunciano all’eredità
A renderlo noto è stato l’avvocato Alberto Timponi, legale del proprietario dell’abitazione. Dopo la rinuncia dei tre lontani parenti (forse hanno ritenuto i costi per incassare l’eredità fossero maggiori dei benefici), ci sarebbe ora un altro possibile erede di cui bisogna però verificare, tra i vari uffici anagrafici, l’esistenza reale di un legame parentale con Marinella.
Se ciò non avvenisse e nessuno si sarà fatto avanti per l’eredità entro il 17 aprile, sarà chiesto al Tribunale di Como di nominare un curatore.
Il ritrovamento
Dai sopralluoghi nel frattempo effettuati nell’appartamento di via Privata Oppidum sono emersi alcuni dettagli che confermano l’isolamento in cui viveva la donna, come i 25 sacchi della spazzatura trovati nell’interrato che indica la fatica ad uscire anche per le minime necessità.
Il suo ritrovamento, a due anni dalla morte, è avvenuto dopo che un vicino di casa, a causa della presenza di alcuni alberi pericolanti, aveva allertato il proprietario di casa che vive in Svizzera.
Quest’ultimo aveva tentato di mettersi in contatto con lei e, non riuscendoci, aveva allertato le forze dell’ordine che hanno poi effettuato la scoperta. Alcuni giorni dopo i fatti, l’avvocato del proprietario ha ricevuto le chiavi dell’immobile e aveva lanciato un appello a chiunque fosse legato a lei di farsi avanti.
Roma, vietato sfamare i senzatetto: identificati e allontanati i volontari a Termini. Il Quotidiano del Sud il 6 Febbraio 2022. La stazione Termini di Roma è uno dei punti di attrazione per tutti coloro che sono in difficoltà e si trovano a dormire in strada, dai senza tetto più longevi a chi si trova momentaneamente in difficoltà. Un welfare fatto di numerose associazioni di volontariato si ritrova tutte le sere a Termini per portare cibo, vestiti, coperte e una parola di conforto.
Termini però è cambiata, a causa dell’aumento delle misure di sicurezza dopo gli attentati terroristici in Europa, ma anche a causa della metamorfosi della stazione che ospita negozi sempre più eleganti, Termini sta diventando sempre più ostile ai clochard e adesso i volontari non possono più portare cibo alle persone che stazionano all’interno.
Giovedì sera l’ultimo episodio in cui i volontari della Casa Famiglia Ludovico Pavoni sono stati identificati e allontanati dai Carabinieri. FS risponde che l’azienda è impegnata in azioni per i senza fissa dimora con i 18 help center in Italia e l’Osservatorio Nazionale Solidarietà nelle Stazioni, ma sottolinea che ci sono delle regole da rispettare (fonte Ansa).
Sergio Mattarella, Vittorio Feltri: "Che stupidaggini sulle disuguaglianze, sono il motore della crescita". Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 06 febbraio 2022.
Ieri la Repubblica in un titolo dedicato al discorso fiume di Sergio Mattarella rivolto al parlamento, afferma che "le disuguaglianze frenano la crescita". Immagino che si tratti di evoluzione economica. Ognuno ha le sue idee, spesso sbagliate eppure legittime. E quella espressa dal redivivo presidente della Repubblica, nel caso specifico, mi sembra una stupidaggine. Infatti se nel mondo vivono 6 miliardi di individui, è accertato che ciascuno di essi è diverso dai suoi simili, simili ma non uguali. Quindi la disuguaglianza è tipica dell'umanità e non solo: non ho mai visto neppure due gatti fotocopia, neppure due cavalli, neppure due imbecilli bipedi.
Ogni uomo è un pianeta a sé, una bottiglia che contiene liquido diverso. Questo concetto è una ovvietà e non comprendo perché il vecchio e rinnovato presidentissimo lo ignori. La crescita di un Paese qualcuno la promuove e la realizza, mentre altri la sfruttano e altri ancora ne fanno le spese perché poverini non sono attrezzati. La vita sociale è come una gara podistica, c'è chi corre veloce e chi arranca. Chi arriva primo e chi ultimo. Non mi pare una novità. Infatti il pianeta è abitato da gente ricca o almeno benestante e da gente strapelata. Non si possono incolpare i signori se qualcuno fatica a tirare avanti. Il principio della selettività governa anche gli animali, figuriamoci se trascura noialtri. Non tocca allo Stato stabilire chi merita di più o di meno. Io ho avuto cinque figli, uno diverso dall'altro. C'è chi nel corso degli anni ha ottenuto di più per meriti suoi o per fortuna, chi lo sa?, e chi ha ottenuto di meno.
Eppure in famiglia valevano per tutti le stesse regole. Uomini e donne devono accettare il proprio destino e adattarsi alla realtà, dato che la realtà non si adatta mai a noi. Pertanto, caro Mattarella, lasci perdere le disuguaglianze che sono il motore della crescita perché aiutano la società a non adeguarsi allo status quo, ma a superare le difficoltà di ogni genere. Se non ci fossero stati gli scienziati a scoprire il vaccino anticovid saremmo morti tutti. E lei spero non mi vorrà dire che essi hanno lo stesso valore dei manovali, ai quali non va negato un salario adeguato ma non pari a quello di un medico che ci ha salvato la pellaccia. Signor presidente, non mi vorrà dire che tra lei e gli addetti alle pulizie del suo Palazzone dorato non corre alcuna differenza. Poi esiste la fortuna. Io sono nato in una famiglia sfigata, per caso e non per mia scelta, ciononostante oggi sono un borghese che campa bene, finché campa, perché non sono schiavo delle mie origini, ma della mia volontà.
La riscossa delle classi lavoratrici. Scene da Anni Settanta. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 15 gennaio 2022.
È vero, Elon Musk e Apple sono diventati ancora più ricchi. Ma i dipendenti rialzano la testa. Negli Stati Uniti, dove si registra il fenomeno Grandi Dimissioni, come in Cina.
Una violenta protesta di lavoratori dell’automotive negli Usa, nel 1975: alcuni operai distruggono un’auto giapponese importata degli States (foto Ap)
Elon Musk ha aumentato il proprio patrimonio del 75% nel 2021, a quota 273 miliardi di dollari. Apple ha sfondato la soglia dei tremila miliardi, un record storico per il valore di Borsa. La pandemia è stata generosa con i miliardari, soprattutto quelli di Big Tech. Ma solo con loro? In realtà l’era del Covid non è stata un remake del tradizionale peggioramento delle diseguaglianze. In particolare nelle due superpotenze che sono anche le maggiori economie mondiali, America e Cina, abbondano i segnali di riscossa delle classi lavoratrici. Paradosso: i miliardari si sono arricchiti più che mai, ma i loro dipendenti rialzano la testa. E la rinascita di un conflitto tra capitale e lavoro si manifesta nell’inflazione.
Cominciamo dagli Stati Uniti. Tre manovre di spesa pubblica (due firmate Donald Trump, una Joe Biden) hanno rovesciato sull’economia americana una quantità di dollari paragonabile in proporzione a quanto fu speso per la Seconda guerra mondiale. In buona parte sono stati aiuti ai cittadini. I lavoratori hanno accumulato risparmi e sono diventati più esigenti verso i padroni. Di qui il fenomeno chiamato la Grande Dimissione: ogni mese oltre quattro milioni di dipendenti si licenziano, spesso sbattendo la porta, perché sanno di poter trovare di meglio. Infatti le assunzioni e i salari salgono. A rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori contribuisce il rallentamento dell’immigrazione, che riduce la concorrenza nelle mansioni più basse. A guadagnarci sono soprattutto le buste paga di camerieri, fattorini, autisti, commesse.
Dall’altra parte del mondo la Cina si riscopre comunista. Nei discorsi di Xi Jinping rispuntano nostalgie del maoismo, un messaggio chiaro. Il presidente è un nazionalpopulista, ce l’ha con i miliardari, promette di ridurre le diseguaglianze. Per quanto possa sembrare una ridondanza, il regime di Pechino ha imboccato una svolta di sinistra, è meno benevolo verso il capitalismo privato, più attento alle condizioni degli operai. Le maggiori economie del mondo contribuiscono a riaccendere il conflitto redistributivo: la battaglia per la ripartizione della ricchezza nazionale tra capitale e lavoro. Negli Anni Settanta, all’apice di lotte sociali, ci furono fiammate d’iperinflazione. È uno scenario che potrebbe ripetersi: un’esperienza nuova per le fasce d’età che vanno dai Millennial a Generazione X, cresciute in un mondo senza inflazione.
Un altro paragone con gli Anni Settanta riguarda il confronto tra Nord e Sud del pianeta. Le nazioni povere hanno sofferto per la carenza di vaccini, il “divario farmaceutico” si è scavato. Si sono sfidati un modello privatista - Big Pharma made in Usa - e uno a direzione statale. Quest’ultimo ha perso: i giganti cinesi hanno sfornato vaccini mediocri, così si è infranto il sogno di Pechino di usare la diplomazia sanitaria come strumento di egemonia. Dall’Africa all’America latina non ci sono solo perdenti. Chi ha materie prime — minerali e terre rare — può prendersi una rivincita: l’inflazione premia i detentori di risorse naturali. Non tutti hanno un brutto ricordo degli Anni Settanta; furono segnati da un trasferimento di denaro dal Nord a una parte del Sud, all’epoca dei due shock energetici targati Opec, il cartello petrolifero. La vera sfida, oggi come allora, riguarda l’uso delle nuove ricchezze da parte delle classi dirigenti locali.
LA STORIA. «Vivevo al Vomero a Napoli, studiavo medicina. Ho sperperato 500 mila euro e ora dormo in strada». Michelangelo ha 43 anni, i genitori sono morti di cancro. «Avevo una bella Audi, una casa di proprietà e tanti amici. Ho perso tutto nei locali notturni e le persone che aiutavo ora fanno finta di non conoscermi». Claudio Mazzone su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2022.
La storia di Michelangelo è simile a quella di tanti uomini senza fissa dimora e che dormono in strada. Ha scelto di raccontarla. «Perchè ho dignità», dice. Michelangelo aveva tutto. Era giovane, bello, intelligente e ricco. Uno studente di medicina, figlio della cosiddetta “Napoli bene”. Un ragazzo che non aveva mai dovuto confrontarsi con le durezze della vita. Un figlio di papà con le tasche piene e quella sensazione di avere il tutto mondo ai sui piedi. Girava per i locali di lusso, nei ristoranti gourmet con la sua audi sportiva. Oggi Michelangelo non ha più nulla. È un uomo di 43 anni portati male. Vive in strada, dormendo dove può, qualche settimana fa anche in quella Galleria Umberto I di Napoli che poi è diventata il centro di quelle scene di sgombero che hanno sollevato la polemica sulla contrapposizione tra decoro e solidarietà.
Michelangelo cosa ci fa in strada?
«Dormo, mangio quando posso. E osservo. Mi passano davanti tante vite e mi soffermo sulla mia, sulle tante scelte sbagliate che ho fatto. Avevo tutto, non ho più niente. Ho sperperato tutto quando sono rimasto solo, non avevo guide, non avevo modelli, mi mancava tutto. No ci vuole molto, se è capitato a me può capitare a tutti».
In che senso?
«Non sono nato povero, non sono nato barbone. Ero ricco, alta borghesia. Vivevo al Vomero, nel cuore del quartiere dei “chiattilli”. La mia era una famiglia di professionisti, avevo davvero tutto. Motorino sin da ragazzino, moto quando sono diventato 16enne, auto sportive da maggiorenne, l’ultima era un’audi nera. Amavo i ristoranti di lusso. Ci andavo pazzo. La cucina gourmet, i piatti con l’oro alimentare, gli chef stellati. Poi tutto è imploso».
Cosa è successo?
«Quando avevo 24 anni in pochi mesi ho perso sia mia madre che mio padre, entrambi per un cancro. Anche mia sorella, più grande di me, dopo appena un anno, è morta. Forse si è lasciata andare, non so dirlo. Non avevo nonni o zii. A quel punto mi sono ritrovato da solo a gestire quello che mi avevano lasciato».
Cosa ti avevano lasciato?
«Cinquecentoventimila euro sui conti bancari e una casa di lusso nel cuore del Vomero. A 25 anni è come se avessi vinto la lotteria. In più non c’era più nessuno a dirmi cosa fare e cosa non fare. Ho vissuto anni pazzeschi. Ero iscritto a Medicina, ma non sono più andato neanche un giorno a lezione. La notte giravo per i locali notturni. Donne, droga, quella buona però, quella costosa, alcol a fiumi, gioco d’azzardo e amici ovunque. Beh proprio amici no, quando poi avevo bisogno nessuno mi ha dato una mano. Li rivedo spesso in giro ancora oggi, fanno finta di non riconoscermi. Io però li saluto, così giusto per metterli in difficoltà».
Come ha iniziato a vivere per strada?
«Ero pieno di debiti. Quando i creditori, non quelli legali, non le banche, anzi non solo, ma quelli brutali che non ascoltano le tue lagne, ti hanno in pugno sei finito. Diventano padroni di tutto. La casa dei miei l’ho ceduta a loro con una vendita fittizia. Per anni ho solo speso senza incassare neanche un centesimo. Alla fine i conti arrivano e se non li può pagare allora sono problemi».
La prima notte in strada?
«La prima sera che mi sono trovato a dormire in strada non avevo realizzato cosa mi stesse scucendo. Giravo dalla mattina in cerca di qualcuno che mi prestasse dei soldi. Niente. Gli amici erano scomparsi tutti. Non trovai nessuno disposto a darmi una mano, solo porte chiuse in faccia. Eppure io quei 520mila euro mica me li ero spesi da solo. Mi sono seduto su una panchina di via Morghen, precisamente sopra le scalette che stanno a piazzetta Fuga, e mi sono messo a piangere. Poi mi sono steso. Era luglio, faceva caldo. Mi sono addormentato e quando ho aperto gli occhi era mattina. C’era un’anziana che mi guarda con lo sguardo pietoso. Allora ho capito cosa avevo combinato. In quegli occhi ho visto cosa ero diventato».
Come vivi ora?
«Sopravvivo, mi vedi. Ho addosso i vestiti smessi di chissà chi. Le scarpe non le cambio da mesi. La notte grazie ai dormitori, quando trovo posto, riesco a dormire al caldo e ad avere una colazione decente. La sera mi faccio il giro dei centri per avere un po’ di cibo. All’inizio mi ero stanziato nel mio quartiere d’origine, al Vomero. Mi conoscevano un po’ tutti. I portieri dei palazzi ricchi mi davano una mano, bastava fare qualche servizietto tipo svuotare i bidoni della differenziata. Poi le cose sono cambiate e non solo per la pandemia che ha veramente reso la situazione più drammatica. Ho iniziato a vedere più diffidenza negli occhi di chi passava. I portieri non erano più così cordiali e le vecchiette mi guardavano con paura e non più con compassione. A quel punto ho iniziato a girovagare per la città. In questi anni in strada ho dormito ovunque, nella Galleria come in stazione, nei pachi chiusi, nei vagoni, nelle metro».
Cosa rimpiangi e cosa ti aspetti dal futuro?
«Rimpianti forse non ne ho. Doveva andare così. Mi sono perso e può capitare a tutti. Ora però vorrei ritrovarmi, vorrei riuscire a rimettermi in sesto, vorrei davvero un’altra occasione. Ora voglio tornare a vivere. Non dico che farò il medico, però vorrei potermi almeno rimettere a posto i denti».
Dagotraduzione da Fast company il 16 gennaio 2021.
La pandemia globale ha innescato una lunga scia di sconvolgimenti, la stragrande maggioranza dei quali negativi: tassi di inflazione in aumento, devastazione delle piccole imprese e un bilancio delle vittime che è superiore a quello provocato dall’influenza negli ultimi 10 anni. Ma secondo un nuovo rapporto del World Economic Forum (WEF), non è la cosa peggiore: ciò che dovremmo temere di più è «l'erosione della coesione sociale». Questa è la minaccia in più rapida crescita per il nostro pianeta da quando è scoppiata la crisi del COVID.
Che cos'è esattamente l'erosione della coesione sociale?.
Se pensi che suoni spaventoso, non sei solo. Secondo il WEF, è «percepita come una minaccia critica per il mondo in tutti i periodi di tempo - a breve, medio e lungo termine - ed è considerata tra le più potenzialmente dannose per i prossimi 10 anni». La coesione sociale peggiora a causa delle crescenti divisioni e della polarizzazione nella società, poiché le disuguaglianze di reddito sono esacerbate dalla ripresa sbilenca della pandemia, ad esempio, con 51 milioni di persone che si prevede vivranno in condizioni di povertà estrema entro il 2030 mentre i miliardari diventeranno più ricchi che mai. L'erosione si annida anche nelle fessure create da punti di vista opposti sui vaccini e dagli obblighi di maschine facciali, e nelle grida di protesta per la tanto attesa giustizia razziale nelle comunità storicamente oppresse.
In parole povere, è il crollo della società civile, fratturata da forze divergenti dall'interno. Si consideri l'attacco al Campidoglio degli Stati Uniti guidato dai sostenitori di Donald Trump un anno fa; questa è «una manifestazione dell'instabilità che la polarizzazione politica rischia di creare», afferma il rapporto. Nello scenario pessimistico, è solo un presagio di ciò che verrà. E gli elettori sembrano sentirlo incombere: in un recente sondaggio, hanno definito la "divisione nel paese" la loro più grande preoccupazione e hanno affermato che si aspettavano che aumentasse nel 2022.
Non è nemmeno un problema solo domestico. La sfilacciatura sociale mette in pericolo le popolazioni globali, poiché cresce in vaste aree del mondo un senso di privazione dei diritti civili, soprattutto a causa della mancanza di collaborazione tra i governi potenti, che in gran parte non sono riusciti ad aiutare le nazioni in via di sviluppo a uscire dalla pandemia, a risolvere le crisi umanitarie o a combattere i disastri naturali provocati dai cambiamenti climatici. Anche l'abbandono ambientale, il clima estremo e la perdita di biodiversità sono stati citati tra i principali rischi che dobbiamo affrontare oggi.
Un cupo diagramma di flusso nel rapporto del WEF elenca la possibile progenie dell'erosione della coesione sociale, tra cui:
disillusione giovanile
crollo della sicurezza sociale
crisi di sussistenza
Abbina questo al «deterioramento della salute mentale», altro effetto collaterale della pandemia, e diventa ancora più spaventoso. Tutto ciò potrebbe arrivare lentamente, con ricadute che coprono il prossimo decennio.
Tuttavia, esistono sforzi di mitigazione del rischio, compresi quelli per alleviare la povertà, le crisi sanitarie umane e la sicurezza delle risorse di base, che il WEF afferma, sono efficaci per quasi il 50%.
Altri rischi citati dal rapporto includono rivalità geopolitiche, come la crescente concorrenza tra Stati Uniti e Cina e l'affollamento nello spazio mentre le forze armate leader corrono per controllare i cieli con armi anti-satellite e ipersoniche. Ma, come per molti dei mali del mondo, il WEF osserva che a quest'ultimo si potrebbe ancora superare a patto che «i paesi si uniscano per garantire benefici comuni» e lavorino insieme per condividere quella che dovrebbe essere una risorsa universale.
I risultati provengono dal Global Risks Perception Survey 2021-2022 del WEF, realizzato con il contributo di circa 1.000 "esperti e leader globali".
Il mondo è diseguale come nell’800. E non è una buona notizia. Stefano Feltri su Il Domani il 9 Gennaio 2022.
L’ultimo giorno del 2021 abbiamo scritto per tutto quest’anno Domani si occuperà di disuguaglianza: poche cose destabilizzano una società organizzata in modo democratico come lo squilibrio di redditi, benessere e opportunità.
Per cominciare questo viaggio bisogna affrontare una questione delicata: la disuguaglianza sta aumentando? O è solo la nostra sensibilità che è cambiata? Alcune risposte si trovano in un lavoro di Lucas Chancel e Thomas Piketty. Lascia intravedere una spiegazione di quel che sta accadendo.
Tra 1820 e 1910 i paesi occidentali hanno costruito il loro benessere grazie al colonialismo, garantendo ai propri cittadini livelli di reddito che sarebbero stati impensabili senza poter sfruttare risorse (fisiche, ambientali, umane) sottratte ad altri.
STEFANO FELTRI. direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.
La disuguaglianza corrode la democrazia: Domani inizia un’inchiesta lunga un anno. Stefano Feltri su Il Domani il 31 dicembre 2021.
Tutti dicono di essere contro la disuguaglianza, ma solo finché non tocca i loro interessi: vogliamo redistribuire la ricchezza, con imposte regolari sul patrimonio, sulla casa o sull’eredità? Oppure vogliamo redistribuire opportunità, tra quote rosa, discriminazione positiva, assunzioni selettive di giovani e persone da zone disagiate? E dobbiamo preoccuparci solo di allineare i punti di partenza o anche quelli di arrivo, in termini di carriera e redditi? Domani inizia un percorso lungo un anno per affrontare queste questioni decisive
Ci sono civiltà che muoiono per shock esterni, altre che crollano corrose dall’interno. La nostra affronta questa doppia minaccia: lo shock esterno, la pandemia, ha reso evidente una malattia a lungo rimossa, cioè la disuguaglianza. È forse la parola più abusata dopo resilienza, così ripetuta a vuoto da aver perso ogni significato.
In pandemia, però, la disuguaglianza ha tornato ad avere una misurazione percepibile: è la differenza tra chi può pagare un tampone a domicilio molecolare 150 euro ed evitare la quarantena e chi deve inseguire quelli forniti della sanità pubblica; è l’abisso che divide chi approfitta del nuovo tempo domestico per guardare film arretrati o frequentare qualche corso di specializzazione online e chi impazzisce tra spazi angusti, bambini sempre a casa da scuola e opportunità professionali che svaniscono.
La disuguaglianza più netta è quella tra chi negli ultimi due anni ha continuato a lavorare, guadagnando soldi che non sapeva più come spendere, e chi ha perso ogni reddito: il tasso di risparmio degli italiani è passato dal 2,39 per cento del reddito disponibile nel 2019 al 10,81 nel 2020 (dati Ocse). Segno che durante la pandemia si è accumulata ricchezza privata mentre lo stato generava debito pubblico, passato dal 134,4 per cento del Pil nel 2019 al 160 per cento del 2021.
La politica monetaria delle banche centrali ha permesso all’Italia, e a molti altri paesi, di sommare enormi quantità di debito con una spesa per interessi che scendeva invece che aumentare. Ma non durerà per sempre.
Ora sta arrivando un’inflazione che sembra sempre meno provvisoria, e anche questa tassa occulta avrà impatti molto diseguali, nulli o quasi su chi potrà adeguare i propri ricavi a prezzi in crescita, pesanti sui redditi fissi.
Questo contesto costringe ad affrontare domande che abbiamo ignorato nell’ultimo quarto di secolo, mentre l’Italia accettava un livello di disuguaglianze feudale senza neppure ottenere in cambio il dinamismo che certi liberisti considerano un beneficio sufficiente a compensare gli effetti negativi di ogni squilibrio.
Per anni abbiamo lasciato che l’Italia diventasse un paese di rendite, dove il 10 per cento più ricco della popolazione possiede il 48 per cento della ricchezza delle famiglie e può trasmetterla quasi senza imposte di successione, in modo da perpetrare e aggravare la concentrazione di benessere.
Tutti dicono di essere contro la disuguaglianza, ma solo finché non tocca i loro interessi: vogliamo redistribuire la ricchezza, con imposte regolari sul patrimonio, sulla casa o sull’eredità? Oppure vogliamo redistribuire opportunità, tra quote rosa, discriminazione positiva, assunzioni selettive di giovani e persone da zone disagiate? E dobbiamo preoccuparci solo di allineare i punti di partenza o anche quelli di arrivo, in termini di carriera e redditi?
Con lo speciale di oggi, curato dal nostro data editor Filippo Teoldi, Domani inizia un percorso lungo un anno per affrontare queste questioni decisive: sarà il nostro contributo per far in modo che il 2022 sia un po’ meglio del 2021. Buon anno.
STEFANO FELTRI direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.
L’INCHIESTA SULLA DISUGUAGLIANZA DI DOMANI. Nel 2021 in Italia c’è stato il grande sorpasso del malessere sul benessere. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 16 gennaio 2022.
Il numero di famiglie in condizione di debolezza ha toccato il picco nel 2020 passando da 7,4 milioni a 8,3 milioni, mentre ha registrato un calo quest’anno, un andamento uguale e contrario a quello registrato nella fascia del benessere che quest’anno è tornata a crescere.
Nel 2021 il numero di famiglie che è in condizione di autosufficienza è per la prima volta uguale a quelle appartenenti al livello medio.
Il risultato è che oggi le famiglie in condizioni di debolezza sono oltre un milione in più rispetto a quelle mediane, il 28,8 per cento dei nuclei contro il 23,9
GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43.
L’INCHIESTA DI DOMANI LUNGA UN ANNO. Disuguaglianze, la questione meridionale non è solo il divario tra nord e sud. EMANUELE FELICE, economista, su Il Domani il 15 gennaio 2022.
La questione meridionale, il più grande nodo irrisolto del nostro paese, non è solo un problema di disuguaglianze fra Nord e Sud. Ma è anche un problema di disuguaglianze dentro il Mezzogiorno, sin dalle origini.
Le classi dirigenti «estrattive» meridionali, trasformatesi nel tempo (dai possidenti terrieri ai mediatori politici), sono storicamente le principali responsabili dell’arretratezza del Mezzogiorno.
Il miracolo economico è stato anche l’unico periodo di convergenza del Sud Italia. Negli ultimi decenni, l’arenarsi e la deriva del Mezzogiorno si accompagnano al declino del paese.
EMANUELE FELICE, economista.
Professore ordinario di politica economica all'università "G. D'Annunzio" di Chieti-Pescara.
Disuguaglianze, è ora di cambiare rotta: ecco dieci soluzioni possibili. Lavoro precario. Oneri di cura che gravano sulle donne. Inaccessibilità delle conoscenze. L’anno che si chiude sarà ricordato per il divario che si è allargato. Dieci esperti di diversa provenienza culturale scattano le istantanee della disparità. E indicano come si potrebbe uscirne. Fabrizio Barca e Gloria Riva su l'Espresso il 27 dicembre 2021. La pandemia ha inflitto e sta infliggendo sofferenza a noi tutti. Ma in questa sofferenza, grandi sono le disuguaglianze: nell’accedere a cure e vaccini; nelle conseguenze economiche, da chi ha perso tutto fino a chi in realtà si è arricchito; negli effetti sociali e psicologici, a seconda del contesto famigliare e comunitario e del proprio genere, razza o classe; nella capacità di adattarsi a improvvisi cambiamenti. Queste disuguaglianze si sono manifestate lungo faglie esistenti, cresciute nell’ultimo quarantennio, da noi come in tutto l’Occidente: forte diffusione del lavoro precario e irregolare; oneri di accudimento primariamente gravanti sulle donne; disuguaglianze territoriali nella qualità di scuole, sanità, servizi sociali, copertura digitale, mobilità, salubrità dell’aria; inaccessibilità e concentrazione della conoscenza; mancato ascolto di voce e aspirazioni di larghe fasce di popolo. Ecco un lungo l’itinerario che L’Espresso e il Forum Disuguaglianze Diversità, ForumDD, hanno scelto di percorrere assieme, dieci figure del nostro tempo raccontano queste disuguaglianze e quanto deludente sia finora la capacità di contrastarle.
Nicoletta Dentico, responsabile del programma di salute globale della Society International Development, ci dice che il 2021 non sarà di ricordato come l’anno in cui è stato debellato il Covid-19, ma come quello in cui i paesi ricchi si sono accaparrati la maggior parte dei vaccini, lasciando alla deriva il Sud del mondo, in quella che definisce «l’arrogante insipienza dei governi».
L’anno che si sta per chiudere, nelle parole dell’attivista e scrittore Ben Phillips, non verrà ricordato neppure per la vittoria dei diritti umani, schiacciati da una deriva autoritaria, figlia delle disuguaglianze.
Sul fronte italiano, c’è uno Stato che tratta gli anziani più vulnerabili come un problema, scaricandone il peso sulle famiglie, come racconta il sociologo Cristiano Gori.
È lo stesso Stato che alle aspirazioni dei giovani sa offrire solo promesse e belle parole: il demografo Alessandro Rosina descrive quel terzo di persone sotto i 35 anni che non studia, non lavora e vive male.
mentre il maestro elementare Franco Lorenzoni scrive che anche sui più piccoli si sta abbattendo una «spietata sottrazione di futuro», con un balzo negli atti di autolesionismo.
La sociologa Chiara Saraceno lancia l’allarme dei lavoratori poveri, che pur avendo un impiego, non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. E anche qui l’intervento del governo langue, perché neppure sul Reddito di cittadinanza si è saputo intervenire per migliorarne efficacia e giustizia.
Parla di donne e tecnologia l’economista Francesca Bria, avvertendo che «se metà del mondo non va avanti, allora l’intera umanità si ferma», riferendosi al divario di genere, grave in tutte le sue forme, ed esponenzialmente preoccupante nell’ambito tecnologico.
L’urgenza di porre un freno al dilagare della disuguaglianza viene da culture e pensieri assai diversi, abbracciando il senatore Mario Monti con la ricercatrice Marta Fana e il poeta Franco Arminio.
Marta Fana racconta che «l’Italia quest’anno aggancia una ripresa del 6 per cento, ma non un centesimo finisce nelle tasche di chi, quell’extra ricchezza, l’ha prodotta. Perché testa e braccia di questo miglioramento sono per il 70 per cento lavoratori a termine o in affitto».
Mario Monti parla di «due distorsioni ottiche che paralizzano il sistema politico italiano quando si tratta di intervenire concretamente per ridurre le disuguaglianze»: la tassazione vista come «un abuso, se non un furto», che porta un premier a rigettare «un lieve aumento delle tasse di successione ai più ricchi che finanzi una dotazione significativa per i giovani»; e la tutela della concorrenza, sottovalutata nel suo potere di erosione delle rendite.
Una distorsione ottica universale è messa in luce da Franco Arminio: essa affligge il sistema politico mondiale, incapace di riconoscere e rispondere con radicalità all’ansia di tutti gli abitanti della terra per gli effetti del tempo impazzito, di capire che «l’ecologia non è un partito, è una necessità»: sta qui la «muta desolazione» con cui assieme a tanti altri egli ha accolto gli esiti del vertice sul clima di Glasgow.
Le dieci istantanee delle disuguaglianze 2021 non sono una lista di lamentele, ma una chiara indicazione dei punti chiave su cui intervenire. Emerge allora una forte corrispondenza con le proposte di tante organizzazioni, movimenti sociali e del ForumDD, riassunte a chiosa di ogni contributo. Non si dica dunque che non sappiamo che fare. Si tratta piuttosto di volontà politica: cessare di nascondersi dietro tecnica e tecnici, scegliere priorità, aprirsi a un confronto acceso e informato, costruire accordi. La pandemia, scriveva già nell’aprile 2020 Arundhati Roy, «è un portale tra un mondo e un altro. Possiamo attraversarlo con le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso; e lottare per averlo». Rischiamo di restare inchiodati nella prima strada, usando i soldi del Piano di Ripresa e Resilienza per fare spesa, sgocciolando i fondi nei vecchi canali. Ma esiste nel paese un formicolio sociale e operoso pronto a osare la seconda strada. Che chiede di cambiare rotta. Questa è la partita del 2022.
2021, un anno senza diritti. Rimosso il dibattito sullo Ius soli, affossata la legge contro l’omotransfobia, ignorata quella di iniziativa popolare sul fine vita. Nonostante piazze piene, proteste e raccolta firme. Che hanno solo evidenziato la distanza tra l’Italia e chi la governa. Simone Alliva su l'Espresso il 28 dicembre 2021. Non è successo niente. Un anno di mobilitazioni; piazze e banchetti, discussioni e proteste hanno soltanto avuto il pregio di illuminare la distanza tra l’Italia e chi la governa. Il Parlamento italiano saluta il 2021 senza nessuna legge approvata sul fronte dei diritti. Nessuna per la comunità Lgbt, mentre le piazze di tutta Italia si mobilitavano. Nessuna su eutanasia e cannabis mentre dai banchetti si raccoglievano milioni di firme. Nessuna per gli italiani senza cittadinanza, lo Ius Soli ridotto a un colpo di sole di fine agosto, evocato per qualche ora sulle prime pagine e subito rimosso.
«Il Parlamento non è arrivato a nulla» dice Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. «Sul fine vita come sulla cannabis, le leggi di iniziativa popolare sono state ignorate. Sul fine vita c’era il richiamo della Corte Costituzionale a prendere delle decisioni ma hanno preferito approvare in Commissione un testo che restringe le possibilità previste dalla Corte».
Non è tranquillizzato dalle parole del relatore della legge Alfredo Bazoli (PD): «Abbiamo scelto di seguire le orme tracciate dalla Consulta perché è l’unica via che può portare all’approvazione». Anzi, l’ex radicale le raccoglie e le smonta pezzo per pezzo: ««Alla patologia irreversibile è stata aggiunta una nuova cognizione di prognosi infausta, vuol dire che Dj Fabo, Welby, per fare qualche esempio, non erano allo stato terminale». Le norme in discussione non migliorerebbero il testo ma: «escludono chi non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, come i malati di tumore, e non fissano tempi certi. Anzi, fanno dei passi indietro su obiezione di coscienza, sofferenza psichica e cure palliative».
Ma allora cos’è questa legge discussa nell’Aula semivuota della Camera? «Uno spauracchio. Un modo per mandare un messaggio politico alla Corte Costituzionale e dire: il Parlamento sta cercando di fare qualcosa, se non abbiamo il referendum di mezzo è meglio». L’iter della legge sul fine vita racconta di una politica che va in direzione contraria e ostinata rispetto al mondo fuori e che trema di fronte a quella data cerchiata in rosso nel calendario 2022: 15 febbraio. Giorno dell’udienza della Corte costituzione chiamata a esprimersi sull’ammissibilità del referendum che conta un milione e duecentomila firme. «Noi siamo pronti, pancia a terra porteremo 25 milioni di italiani al voto». Il voto, che potrebbe tenersi a fine giugno, servirà all’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale: la reclusione da sei a quindici anni chi procura la morte di una persona con il suo consenso.
«Anche sulla cannabis questo è un parlamento totalmente distante dai cittadini». A dire che tutto è immobile è la deputata del PD, Enza Bruno Bossio, tra le fondatrici dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis: «In Commissione Giustizia si parla sostanzialmente di autoconsumo. Ho proposto degli emendamenti che andassero nella direzione del referendum, cioè della legalizzazione ma non credo che saranno approvati. Per fortuna il referendum va avanti. Mentre noi parlamentari restiamo indietro». Il suo partito non ha ancora espresso una posizione ufficiale: «La maggioranza è su questa linea. I nostri elettori sono d’accordo. Il problema è quella parte del Pd che confonde legalizzazione con liberalizzazione. E non capisce che legalizzare la cannabis equivale a un colpo importante alle mafie». Basta scorrere i dati dell’ultima relazione annuale del governo al Parlamento (dati Istat 2020) per capirlo: le sostanze psicoattive illegali sono stimate intorno ai 16,2 miliardi di euro, di cui il 39% (quindi circa 6,3 miliardi) attribuibile al consumo dei derivati della cannabis. Stime, perché gran parte del mercato resta nascosta alle forze dell'ordine. Ma la questione resta sulla graticola delle aule parlamentari e delle segreterie di partito, fino a bruciare, mentre fuori il referendum sulla legalizzazione supera le 600 mila firme.
La questione Ius Soli invece somiglia alla trama di un giallo. Perché la legge per gli italiani senza cittadinanza non riparte? Per mano di chi? Pochi ricordano che si trova ancora in Commissione Affari costituzionali dove le numerose audizioni si sono concluse nel marzo del 2020. Sulle cronache di quest’anno è riapparsa in maniera dirompente durante un agosto afoso, inserendosi tra l’incandescente dibattito sul ddl Zan e le medaglie conquistate dall’Italia multietnica alle Olimpiadi. Era stato il segretario Enrico Letta a tirarla a lucido: «Dopo le Olimpiadi la consapevolezza credo sia divenuta più generale. Per questo rivolgo un appello a tutte le forze politiche ad aprire una discussione in Parlamento e a trovare una soluzione sullo ius soli». Addirittura, il deputato PD Enrico Borghi aveva azzardato: «Sarà legge entro l’anno». Alla Camera la prima proposta porta la firma della ex presidente Laura Boldrini nasce da una richiesta portata avanti da una trentina di sindacati, associazioni e Ong: «L’Italia sono anche io». C’è poi quella di Renata Polverini, ex deputata di Forza Italia che ha lasciato il gruppo proprio per le differenze di vedute sul tema e si basa sullo Ius Culturae. Infine il disegno di legge a firma del dem Matteo Orfini, un mix tra ius culturae e ius soli «temperato». «La mia legge - dice Orfini – sostanzialmente riprende quella che approvammo già alla Camera la scorsa legislatura. Frutto di una mediazione molto avanzata». La legge saltò definitivamente al Senato poco prima di Natale 2017. Un epilogo prevedibile ma che ancora scotta per Orfini, all’epoca reggente del Pd: «Chiesi sia privatamente che pubblicamente a Gentiloni di mettere la fiducia, eravamo a fine legislatura. Lui disse che non serviva e che l’avremmo approvata». Adesso si potrebbe ripartire. O forse no. La discussione intorno a questa legge riporta a una serie di enigmi e un’assenza, quella del presidente della Commissione Affari Costituzionali, il cinquestelle Giuseppe Brescia: «Si era fatto avanti come relatore. Aveva detto: lavorerò su un testo che possa diventare una sintesi di quelli presentati. Sono passati due anni. Siamo in attesa che Brescia lo tiri fuori dal cassetto». Il pentastellato Brescia però contattato da L’Espresso ha così risposto: «Quando qualcuno chiederà la calendarizzazione ce ne occuperemo senz'altro. Se il dibattito diventa concreto noi siamo pronti su ius scholae». Una posizione che lascia «stupito» Orfini: «Difficile chiedere la calendarizzazione di un testo che non esiste» e annuncia: «Il nostro capogruppo in Commissione Affari Costituzionali Stefano, Ceccanti chiederà la calendarizzazione al primo ufficio di presidenza. Sperando che Brescia abbia il testo».
Insistere e non mollare, giacché l’ordine di scuderia di Enrico Letta è andare avanti sui diritti e pazienza per gli umori degli alleati di governo; su una legge contro l’omotransfobia si affida nuovamente al testo Zan, morto in Senato nel mese di novembre. «Bisogna provarci fino all’ultimo», è sicuro il deputato Pd Alessandro Zan. «Si può ripartire da aprile dal mio testo, mettiamo che passi al Senato con piccole modifiche ma senza togliere l’identità di genere e le scuole. La Camera può approvarlo così com’è». Tempi? «Prima dell’estate al Senato e in autunno alla Camera». Anche Alessandra Maiorino, senatrice del M5s ha annunciato di voler «presentare ad aprile un nuovo testo che oltre ai reati di odio fondato sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, preveda percorsi educativi nelle scuole». Qualcosa si muove. È una questione di tempistica e prospettive: «Se ci sarà ancora questa legislatura», ironizza un senatore di Fdi.
Ma non è forse tutto da buttare questo 2021. La tampon tax, ad esempio. Quest’anno l’aliquota sarà ridotta dal 22% al 10. «Una vittoria per i diritti delle donne», dice la dem Lia Quartapelle firmataria insieme ad altre deputate dell'emendamento che riduce l’iva sugli assorbenti: «La portiamo avanti dal 2018. Nel 2019 è stata data l’esenzione solo a quelli compostabili. Nel 2020 non siamo riusciti ad ottenere nulla. Quest’anno possiamo parlare di una vittoria». Ma non la pensa così Beatrice Brignone, segretaria di Possibile, fu lei a porre la questione nell’ormai lontano 2016: «La direzione è giusta. Ma proprio sono beni prima necessità bisogna chiedere l’aliquota giusta cioè il 5%. Non codici sconto».
Alla debolezza della politica si aggiunge la debolezza del Parlamento. Lo evidenzia Openpolis con un dato: il governo Draghi è riuscito a far approvare 38 disegni di legge in circa 7 mesi. Nello stesso periodo le leggi di iniziativa parlamentare approvate sono state 6. Vuol dire che senza la spinta del Presidente del Consiglio il processo legislativo non va a buon fine. Recuperare la centralità del Parlamento per approvare diritti di libertà e colmare la differenza antropologica con il paese. Cancellare la distanza che separa i cittadini senza diritti, dalle risa sguaiate di chi esulta solo quando una legge muore. È una lunga strada e porta inevitabilmente alla prossima legislatura.
La testimonianza. Vitaliano Trevisan: "Io, un matto trattato senza pietà". Vitaliano Trevisan su La Repubblica il 5 novembre 2021. Dopo il ricovero coatto in psichiatria, lo scrittore vicentino racconta la sua esperienza. E denuncia le condizioni in cui si tengono i pazienti. Un uomo che cammina in piena luce, in Italia, è scoperto, nudo, indifeso. \[…\] Cammina come una vittima, e come un colpevole. \[…\] È lì, scoperto, inerme, esposto ai colpi, alle indagini, alle accuse. Non si può né schermire, né difendere. È una condizione terribile: noi Italiani, non ci possiamo difendere, mai, da nulla, né dall’assassino né dal giudice» (Curzio Malaparte, Misura della Francia, Il Tempo, 4 dicembre 1952).
Ma che, sei matto? Giordano Di Fiore su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.
Questo è matto. Questo è da camicia di forza. Matto col botto. Questo è da TSO. Lei è un disturbato. Eccetera, eccetera.
Destra o sinistra, non fanno differenza. Non c’è Basaglia che tenga.
Abbiamo imparato a rispettare gli omosessuali, a non parlare di razza, a non toccare argomenti sessisti, a distruggere statue, a censurare libri, film, cartoni animati.
Abbiamo tentato di far passare (ne siamo sicuri?) la legge Zan, dedicata ad omotransfobia e disabilità.
Ma per le fragilità psichiche non c’è tregua. Siamo sempre al medioevo, alla caccia alle streghe, agli schizofrenici legati nella cuccia del cane. Dare del malato di mente al proprio avversario dialettico e sempre più in auge, dato che gli altri epiteti sono stati vietati dal politically correct.
Ma vietare le parole non significa vietare le coscienze, o vietare l’ignoranza ed il pregiudizio. Il nostro istinto ferino, mischiato con un pizzico di cattiveria, non è stato per nulla intaccato.
E così ci ritroviamo all’ennesima beffa: i bonus per la ristrutturazione sono considerati preferibili ai bonus psicologici. L’Italia, il Paese che si vanta di avere la miglior sanità al mondo (tutto da verificare, vista la mortalità da Covid così imponente), che copre qualsiasi specialità medica, non copre le psicoterapie. Che sono relegate al settore privato, a beneficio soltanto di coloro che se lo possono permettere. Lo Stato passa solo la psichiatria, curare l’anima una volta al mese è il massimo della concessione.
Perché, appunto, andare dallo psicologo è roba da matti. E dunque fa paura. Oppure è da complessati, da deboli, da sfigati, da viziati, nella migliore delle ipotesi un lusso che non serve a nulla.
E’ incredibile come anche il mondo privato si allinei con il pregiudizio: prendiamo le assicurazioni salute. Alcune, costosissime, davvero rimborsano ogni sorta di visita e di operazione. Ma le cure psicologiche, quelle no.
Quindi il fragile psichico è truffato due volte: non solo paga le tasse come gli altri per non essere curato, ma deve oltretutto nascondersi, fare finta di essere “normale”. Per non essere giudicato, per non essere classificato e messo ai margini.
Una società curiosa, la nostra, che ha pena per i malati di tumore e pregiudizio per l’infermità psichica.
E nulla è in grado di bucare questa patina di conformismo. Nonostante il consumo di psicofarmaci sia in vertiginoso aumento, nonostante il consumo di droghe sia in vertiginoso aumento, nonostante il Covid ci abbia scoperti tutti più fragili. Il disagio psichico va bene per gli artisti, i pittori, i musicisti, ma se tocca a qualcuno di noi, ahimé, non c’è nient’altro da fare che nascondersi, per non essere ripudiati da una società ferma ancora all’anno zero dell’umana comprensione.
Ma possiamo sempre cambiare gli infissi o i condizionatori.
Tutto quello che dovete sapere. Assegno unico per i figli 2022, a chi spetta e come fare la domanda. Redazione su Il Riformista il 3 Gennaio 2022.
Facciamo chiarezza. L’assegno unico va alle famiglie con figli minorenni a carico, anzi, già alle future mamme al settimo mese di gravidanza, o con figli maggiorenni fino ai 21 anni, se frequentano corsi di formazione scolastica o professionale o l’università o lavorano ma guadagnando meno di 8000 euro annui.
L’assegno universale spetta inoltre a chi ha figli disabili, senza limiti di età. Ne hanno diritto tutte le categorie di lavoratori dipendenti (sia pubblici sia privati), gli autonomi, i pensionati, i disoccupati e gli inoccupati, che siano cittadini italiani o di uno Stato dell’Ue, o titolari del diritto di soggiorno.
La domanda si può fare già adesso e per tutto febbraio. L’assegno unico è annuale e comprende le mensilità da marzo a febbraio dell’anno successivo. Il versamento avviene mediante accredito su conto corrente bancario o postale oppure scegliendo la modalità del bonifico domiciliato. Disposizioni specifiche riguardano i casi di genitori separati o divorziati.
La domanda di assegno unico può essere presentata dai genitori o dal tutore attraverso il sito dell’Inps o il contact center o rivolgendosi a un patronato. I figli maggiorenni possono provvedere da sé.
Un indicatore della condizione economica (Isee) inferiore ai 40.000 euro dà diritto all’assegno di importo massimo, mentre se l’Isee supera quella soglia o non viene presentato si ha comunque diritto alla prestazione ma in misura ridotta.
Per ottenere l’Isee ci si rivolge agli intermediari abilitati all’assistenza fiscale (Caf) oppure direttamente al sito internet dell’Inps mediante credenziali Spid, carta di identità elettronica o carta nazionale dei servizi.
L’assegno varia in base a diversi parametri. Si va da un massimo di 175 euro per ciascun figlio minore con Isee fino a 15 mila euro, a un minimo di 50 euro per ciascun figlio minore in assenza di Isee o con Isee pari o superiore a 40.000 euro. Gli importi dovuti per ciascun figlio possono essere maggiorati nelle ipotesi di nuclei numerosi, di madri di età inferiore a 21 anni o di figli affetti da disabilità.
L’assegno unico sostituisce: il premio alla nascita o all’adozione (il cosiddetto “bonus mamma domani”); l’assegno di natalità (“bonus bebè”); i vari tipi di assegni di sostegno alle famiglie con figli; e le detrazioni fiscali a favore dei nuclei con figli fino a 21 anni. Invece il nuovo assegno non integra né limita il bonus asilo nido.
Una quota a titolo di maggiorazioni sarà pagata per compensare l’eventuale perdita economica subita dal nucleo familiare, se l’importo dell’assegno unico dovesse risultare inferiore alla somma dei contributi economici e delle detrazioni fiscali a cui si avrebbe avuto diritto con le regole precedenti (così si evita la beffa).
L’assegno unico non concorre a formare il reddito complessivo ai fini Irpef ed è compatibile con altri eventuali sostegni economici a favore dei figli a carico da parte di Regioni, Province e altri enti locali.
L’assegni unico è compatibile col reddito di cittadinanza, e anzi ma ai percettori del reddito l’assegno per i figli viene corrisposto d’ufficio dall’Inps, senza bisogno di presentare domanda.
Antonio Giangrande: Il reddito si crea. Il reddito non si sostenta dallo Stato. Perché se nessuno produce e nessuno commercia, da chi si prendono i soldi per i consumi o mantenere una società?
Ed una società funziona se sono i capaci e competenti a farla funzionare, altrimenti si blocca.
In questa Italia cattocomunista non puoi fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato con tasse, tributi e contributi, per mantenere i parassiti nazionali ed europei.
In questa Italia cattocomunista non puoi avere nulla, perché si fotte tutto lo Stato con accuse strumentali di mafiosità e con i fallimenti truccati, per mantenere i profittatori.
In questa Italia parlano di sostegno al lavoro, ma nulla fanno per incentivarlo a crearlo, come agevolare il credito, o come detassare, o come sburocratizzare, con eliminazione di vincoli e fardelli.
I giovani in questo modo possono inventare e creare il proprio lavoro, senza essere condannati alla dipendenza di stampo socialista.
I giovani hanno bisogno di libertà d’impresa non di elemosine.
Lavoro quanto mi costi. Cristiana Flaminio su L’Identità il 15 Dicembre 2022
Il costo del lavoro, in Italia, resta alto perché pesano i contributi ma il cuneo fiscale tricolore non è il più alto dell’Eurozona. Anzi, forse è tra i più bassi. Lo ha stabilito l’Istat che ieri ha pubblicato un report sulla struttura del costo del lavoro aggiornato al 2020, snocciolando dati e cifre sul prezzo delle retribuzioni nel nostro Paese. Il sistema è poco omogeneo e ci sono diverse disparità che si rivelano in veri e propri divari presenti tra i diversi settori economici.
Innanzitutto i numeri: il costo medio del lavoro per dipendente è pari a 41.018 euro all’anno. A fronte di 1.398 ore lavorate (in media) da ciascuno (il dato sale a 1.519 ore a tempo pieno e scende a 895 oer per gli assunti a part time), il prezzo orario è di 29,4 euro, un valore più alto del 5,3 per cento rispetto a quello registrato nel 2016. La statistica dice questo. La realtà, invece, offre un quadro differenziatissimo. Che oscilla tra i 51,6 euro all’ora per i dipendenti nel settore finanziario e assicurativo e i 18,8 euro per quello che ingloba le agenzie di viaggio, di noleggio e di servizi di supporto alle imprese. Pesa, e non poco, anche la dimensione delle aziende: le unità economiche più grandi pagano 33,3 euro l’ora. Un valore superiore di ben dieci euro in più rispetto alle pmi fino a 50 dipendenti che, invece, corrispondono ai loro dipendenti 23,1 euro l’ora.
Una delle voci più pesanti nelle retribuzioni riguarda i contributi. In particolare, secondo i dati medi rilevati dagli analisti dell’Istat, a fronte di 29,4 euro per ora, ben otto vanno spesi per i contributi mentre dieci centesimi se ne vanno in costi intermedi. Il conto, dunque, è presto fatto: se la media annua per gli stipendi è pari a 41.081 euro a dipendenti, di questa somma il 72% viene corrisposto in ragione di retribuzione lorda (dunque 29.591 euro) mentre il 27,7% va in contributi sociali a carico del datore di lavoro (11.366 euro) e tra formazione e spese intermedie vengono, infine, conteggiati 123 euro annui. Il costo del lavoro è più alto nell’industria mentre invece risulta più basso nel settore delle costruzioni; si tratta dei due comparti dove, peraltro, si riscontra il maggior numero di ore lavorate per dipendente (1.557 per le costruzioni e 1.512 per le industrie).
È interessante, infine, il confronto tra i dati italiani e quelli europei. Dalle analisi Istat, infatti, emerge che la media del costo del lavoro italiano è più bassa di quella dell’area euro (Ae-19) che si attesta a 32,1 euro l’ora. Risulta più alta, invece, se si allarga il parametro all’Ue a 27 membri, per cui la media scende a 28,3 euro. Le differenze tra gli Stati sono talmente enormi da fare impressione: si va da 6,7 euro della Bulgaria ai 47,5 euro del Lussemburgo. In mezzo, l’Italia con il valore di 29,1 si piazza all’undicesimo posto, superiore a quello spagnole ma più basso di quello medio che si registra in Francia e Germania. La retribuzione oraria lorda colloca l’Italia all’undicesimo posto. Dai lati opposti di questa classifica ci sono, agli ultimi posti, Bulgaria e Romania (rispettivamente 5,7 e 7,8 euro) e ai primi Lussemburgo e Danimarca (41,3 e 39,2).
Il peso dei contributi, in Italia, è alto anche su scala comunitaria. Eppure, secondo i rilievi degli analisti dell’istituto nazionale di statistica, risulta inferiore non solo a quello svedese (al top in Europa con il 30%) ma anche a quelli francesi (29,4%).
I Paesi in cui il peso dei contributi è minore sono gli stessi che vantano la retribuzione lorda più alta, ovvero Danimarca (10,7%) e Lussemburgo (13,1%).
Ritornano i voucher: cosa sono, come funzionano e chi potrà usarli. Nella legge di Bilancio ritornano i voucher, una forma di pagamento a fronte di prestazioni professionali saltuarie o di lavoro occasionale. Giuditta Mosca il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.
Nella Manovra per la legge di Bilancio ricompaiono i voucher. Il consiglio dei Ministri ha così introdotto nuovamente i buoni lavoro che l’ex premier Paolo Gentiloni aveva abolito – almeno in linea teorica - nel 2017 dopo un dibattito molto acceso con le parti sociali.
Sono stati introdotti per la prima volta con il decreto legislativo 276/2003 (la cosiddetta Legge Biagi) nel 2003 ma diventati di uso effettivo soltanto nel 2008.
Cosa sono i voucher
Sono un metodo di pagamento alternativo applicabili al lavoro occasionale o alle prestazioni saltuarie.
Hanno un valore nominale di 10 euro lordi, ossia 7,50 euro netti e a partire dal mese di gennaio 2023 potranno essere utilizzati dagli imprenditori del settore agricolo, della ristorazione e del comparto del turismo. Inoltre, potranno essere remunerati con i voucher anche i lavoratori che si occupano della cura della persona come, per esempio, i lavoratori domestici.
Come funzionano i voucher
Il datore di lavoro che intende retribuire i collaboratori con i voucher, li acquista presso l’Inps (se ne possono acquistare anche in banca, alle Poste e in alcuni casi anche in tabaccheria) e il lavoratore che li riceve può riscuoterli presso l’Inps stessa, ricevendo a fronte di ogni buono l’importo di 7,50 euro, quindi 2,50 euro in meno rispetto al valore nominale de voucher che, come detto, è di 10 euro.
In questo modo al lavoratore viene applicata una trattenuta da destinare ai contributi Inps e all’assicurazione Inail.
Il governo Meloni ha voluto reintrodurre i voucher per regolarizzare il lavoro stagionale e quello occasionale, alzando il limite di retribuzione mediante buoni fino a 10mila euro annui contro i 5mila euro fissati in precedenza. Tutto ciò garantendo però controlli stretti per scongiurare un abuso da parte dei datori di lavoro.
I sindacati hanno espresso preoccupazione per l’innalzamento del tetto di retribuzione ma anche perché le retribuzioni mediante voucher non garantiscono ai lavoratori coperture in caso di malattia, di maternità e altre forme di welfare considerate nelle più diffuse forme contrattuali.
Il voucher in sé presenta meno aggravi fiscali per i datori di lavoro e il timore che alcuni di questi possano abusarne è un tema ormai datato che aveva contribuito a mettere al bando i buoni già nel 2017.
Il governo però ha valutato la situazione tenendo presente il quadro nel suo insieme: regole perfettibili sono comunque preferibili in un contesto - quello del lavoro occasionale e stagionale - difficile da monitorare e al cui interno i lavoratori potrebbero essere vittime di storture contrattuali.
Così in 60 anni crollato il valore degli stipendi. Il Corriere della Sera il 12 settembre 2022
Oggi a Firenze un neoassunto nella pubblica amministrazione prende 1.400 euro al mese, ma cosa può permettersi con quei soldi? Nel 1960 l’affitto incideva per il 25% sulla paga, oggi per oltre il 68%
Quanto guadagnava un ragazzo italiano nel corso degli anni Sessanta? E cosa riusciva a pagare con lo stipendio mensile? Quanto guadagna, invece, oggi? E cosa può comprare con quello che prende? La risposta a queste domande chiarisce le motivazioni dell’ormai cronica difficoltà delle aziende a trovare personale. Quest’estate il confronto sulla mancanza di lavoratori stagionali per bar, ristoranti e servizi turistici in generale ha assunto toni pi aspri che in passato: a seguito del Coronavirus, si dice, e con il reddito di cittadinanza, i giovani preferiscono stare a casa piuttosto che andare a lavorare. Spiegazioni per riferibili solo ad una parte dei giovani lavoratori. Ma consultando l’ultimo rapporto Excelsior della Camera di commercio di Firenze — che analizza il cosiddetto mismatch fra domanda e offerta di lavoro — si vede che in realtà le imprese cercano (e non trovano) principalmente figure con profili professionali medio-alti, giovani laureati con specializzazioni specifiche, non tanto e non solo lavapiatti e cucinieri: le stime del centro studi camerale dicono che la ripresa di settembre vede mancare circa 4 mila lavoratori all’ricorso nell’area metropolitana fiorentina. In termini percentuali significa che le…
Esplode nel 1962 la rabbia degli edili. E a Torino la rivolta dei metalmeccanici. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Agosto 2022.
«Bloccato per tre ore un tratto nel corso Vittorio Emanuele»: la «Gazzetta del Mezzogiorno» del 24 agosto 1962 dedica un trafiletto ad una manifestazione svoltasi il giorno prima nel centro della città di Bari. A poco più di un mese dalla rivolta dei metalmeccanici torinesi in Piazza Statuto, migliaia di edili pugliesi iniziano un lungo sciopero per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento del minimo sindacale (fermo a quattro anni prima, nonostante l’aumento del costo della vita), la tutela dagli infortuni.
La Puglia, così come l’intero Paese, sta vivendo una grande espansione economica: le città, e Bari in particolare, sono protagoniste di un boom edilizio che muta rapidamente la fisionomia urbana, attraverso demolizioni e sopraelevazioni troppo spesso selvagge.
Si tratta di una febbre edilizia che arricchisce piccoli e grandi costruttori, costringe gli operai ad un aumento ingiustificato dei ritmi di lavoro e sconvolge gli equilibri sociali delle città. La vertenza è promossa dalla Federazione italiana lavoratori legno edili e affini: gli industriali ignorano ogni richiesta di incontri sindacali e rifiutano la trattativa.
Per questo motivo, il 23 agosto gli operai si radunano sotto la sede dell’Associazione degli industriali. «Ieri un buon cinquanta per cento dei soliti rumori molesti ha disertato le orecchie dei baresi: niente montacarichi cigolanti, niente martelli pneumatici assordanti, niente colpi di piccone. Gli edili hanno scioperato, ostacolando il traffico in corso Vittorio Emanuele, dopo aver percorso le principali vie cittadine con motorette, fischietti, cartelli di protesta. Una commissione è stata ricevuta in Prefettura. La manifestazione è cominciata a primo mattino: gli scioperanti erano circa 700. S’è formato un corteo autorizzato, che ha percorso alcune delle principali vie cittadine. Ogni tanto gli scioperanti si fermavano sotto un cantiere in cui il lavoro procedeva regolarmente ed invitavano a gran voce i loro colleghi a scendere e a smettere».
Alcuni negozi hanno tenuto le saracinesche abbassate per tutto il corso della manifestazione, ma fortunatamente non si sono verificati incidenti. Il Prefetto affida all’Ufficio regionale del lavoro l’incarico di svolgere un’opera di mediazione tra industriali ed edili: ancora una volta non ci sarà nessun dialogo. Il giorno successivo, venerdì 24 agosto, esploderà però la rabbia degli operai. Nel cuore del capoluogo pugliese avrà luogo uno scontro violentissimo tra le forze dell’ordine e i manifestanti, che culminerà in oltre 200 arresti e più di 100 feriti.
La guerriglia degli edili del 1962. La guerriglia degli edili sulla «Gazzetta» del 25 agosto 1962. Sulla «Gazzetta» del 25 agosto compare la foto-notizia degli incidenti verificatisi a Bari durante la seconda giornata dello sciopero degli operai. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Agosto 2022.
In prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 25 agosto 1962 compare la fotonotizia dei gravissimi incidenti verificatisi a Bari durante la seconda giornata dello sciopero dei lavoratori edili. La foto dello studio Ficarelli mostra le camionette della Polizia nel corso principale della città con gli idranti in azione nel tentativo di disperdere i manifestanti. Il bilancio finale è di cento feriti: sessanta tra le forze dell’ordine, quaranta tra gli operai. Sei gli arresti.
«Vetri infranti alle finestre ed ai portoni di un palazzo di corso Vittorio. Danni notevoli anche a molte auto in sosta, due delle quali sono state capovolte, e a cinque negozi tra via Melo e corso Cavour. Il Traffico è rimasto bloccato per ore».
Dalla provincia erano arrivati circa 4000 lavoratori, che si erano poi uniti agli scioperanti baresi: con fischietti e cartelli avevo compiuto il giro dei cantieri rimasti attivi. Sulle colonne della Cronaca di Bari si ricostruisce nei dettagli quanto avvenuto: «Il caos è cominciato alle 10. Un migliaio di lavoratori edili – chiedono, in sede provinciale, modifiche al contratto nazionale di lavoro – dopo aver occupato la sede stradale del primo isolato di corso Vittorio, come avevano già fatto l’altro ieri, hanno manifestato il proposito di assalire la sede dell’Associazione industriali.
Ai ripetuti inviti delle forze dell’ordine a calmarsi e a sgombrare, gli scioperanti hanno risposto con lanci di pietre contro le finestre del palazzo in cui ha sede l’Associazione ed aggredendo con le biciclette una camionetta della polizia che aveva iniziato un cosiddetto carosello, per disperderli. [...] Ma come mai disordini così gravi, incidenti che non si ricordavano da tempo, astio così profondo contro le forze dell’ordine? Non è facile dare una risposta a questi interrogativi. Parte della spiegazione degli incidenti è nella cronaca, nella dinamica degli avvenimenti, nell’incontrollabilità delle reazioni di una folla eterogenea, ma anche nell’infiltrazione tra le fila dei dimostranti di gente decisa a tutto».
Il cronista raccoglie le reazioni dei cittadini, estranei alle vicende: «Caspita, non ricordo una cosa del genere se non quattordici anni fa. Piazza Prefettura fu invasa da circa cinquemila braccianti agricoli. Arrivarono persino le autoblindo e i carri armati del IX Fanteria al completo: uno spiegamento di uomini che faceva paura. Che tempi!», è il commento di un anziano. Lo sciopero dei lavoratori edili non si fermerà: è il caldissimo agosto di sessanta anni fa.
Operai in rivolta: Bari «bruciava». Bilancio pesante con i cortei del 1962. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Agosto 2022.
La protesta dei lavoratori edili non si arresta. È il 26 agosto 1962: gli operai, che da alcuni giorni scioperano nel capoluogo pugliese per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento salariale e la tutela dagli infortuni, non intendono cedere ai ricatti. Bari, così come moltissime altre città italiane, è in preda ad una inarrestabile speculazione edilizia, che ne sta modificando inesorabilmente la fisionomia: demolizioni e sopraelevazioni selvagge devasteranno per sempre la fisionomia originale del centro murattiano. Per far fronte al boom del mattone, gli imprenditori sfruttano il più possibile le maestranze. Da qui nasce la protesta dei lavoratori, sostenuta dalla Fillea, Federazione italiana lavoratori legno edili e affini.
Dopo la calda giornata del 24, anche il giorno dopo Bari è stata turbata da gravi incidenti tra dimostranti e forza pubblica. Si legge nella didascalia della foto che ritrae carabinieri che affrontano una sassaiola, in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno»: «Gli scontri, ai quali hanno dato vita gruppi di facinorosi, che ben poco hanno in comune con i lavoratori edili, si sono protratti per tutta la giornata. Si sono avuti complessivamente 40 feriti. Le forze dell’ordine hanno tratto in arresto 216 persone». Tra i feriti, si riporta nelle pagine interne, c’è anche il reporter della «Gazzetta» Angelantonio De Tullio. «È stato colpito alla nuca con un corpo contundente da un dimostrante che sarà purtroppo ben difficile identificare. Il nostro De Tullio era davanti alla sede dell’Associazione degli industriali. S’è accasciato al suolo svenuto: soccorso da altri colleghi è stato trasportato al Policlinico dov’è ora ricoverato in patologia chirurgica per un trauma cranico e stato di choc. Era lì per seguire, così come aveva fatto l’altro giorno, gli avvenimenti: per attingere cioè dal vivo, minuto per minuto, le notizie per la Gazzetta. Stava svolgendo il suo lavoro con impegno e serietà professionale. Non faceva dunque male a nessuno quando è stato aggredito alle spalle».
Il prefetto Gira ha dichiarato che è stata segnalata la presenza di «sobillatori specializzati», di alcuni «professionisti della rivolta», arrivati addirittura da Milano. I 216 arrestati – il cui elenco completo è pubblicato nelle pagine interne del quotidiano – sono stati denunciati per adunata sediziosa: tra di loro moltissimi minorenni. Non c’è posto per tutti a Bari: cinquanta di loro sono trasferiti al carcere di Trani. Si annuncia un processo per direttissima: i migliori penalisti della città – tra di loro Muciaccia, Gironda, Papalia, Russo Frattasi e molti altri– si schiereranno a difesa dei lavoratori, ma occorreranno tre anni per ottenere la sentenza finale. A quasi tutti gli imputati si applicherà il provvedimento di amnistia del gennaio 1963.
«Non speculiamo sui fatti di Bari». Così Oronzo Valentini sugli scontri del ‘62. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2022.
È il 30 agosto 1962. Sono passati pochi giorni dal movimentato sciopero promosso dalla Fillea, Federazione italiana lavoratori legno edili e affini, che ha infiammato la città di Bari. Gli operai sono scesi in piazza per protestare contro lo sfruttamento e per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento salariale e la tutela dagli infortuni. Gli scontri violenti tra manifestanti e forza pubblica, avvenuti il 24 e 25 agosto 1962, si sono conclusi, però, con 216 arresti e mille polemiche.
Oronzo Valentini firma un editoriale su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dal titolo eloquente: «Non esageriamo con i “fatti di Bari”».
Il giornalista parte dalla posizione assunta dall’”Avanti!”, che ha ammonito quegli uomini politici e giornali di destra che in ogni manifestazione di operai vogliono vedere il proposito dei lavoratori di aggredire la polizia e di turbare l’ordine pubblico.
«Esistono anche dirigenti degli industriali edili che, di fronte a richieste dei miglioramenti salariali, a rivendicazioni contrattuali ed economiche, si rifiutano di riunirsi attorno a un tavolo, sia pure per dire alla controparte che non possono accettare le sue richieste. Tale fu la situazione verificatasi a Bari, ad essa risale la prima vera responsabilità di quel che è poi accaduto. I lavoratori edili erano esasperati non solo dal rifiuto di migliorarne i salari, ma anche da quello di discuterne» è la premessa di Valentini.
«Sono accadute, stanno accadendo e forse accadranno ancora le più varie deformazioni dei fatti di Bari. Si specula dall’estrema destra, la quale certamente vede il cEntro-sinistra come il fumo negli occhi, ma, probabilmente, non c’entra nulla in questi ultimi episodi. Si specula dall’estrema sinistra, la quale al centro-sinistra guarda con altrettanta ostilità, anche se spesso con più sottile gioco, ed è veramente responsabile di aver determinato gli incidenti di venerdì e sabato, infiltrando tra sparute schiere di edili agitatori noti ed individuati. [...] Nei fatti di Bari ci sono molte cose da deplorare, compresi alcuni eccessi individuali di agenti e carabinieri, nel pomeriggio del sabato, quand’essi ormai avevano sbaragliato il campo e s’erano assicurate le loro posizioni. Sono comunque da deplorare altresì le mille bugie che sono state dette in pochi giorni, le accuse indiscriminate che sono state lanciate. [...]
Auguriamoci che il dibattito alla Camera possa far emergere congruamente la verità e che nel frattempo gli edili possano tornare al lavoro per continuare a dare il loro contributo allo sviluppo della nostra città, con la soddisfazione di avere ricevuto per esso un più equo riconoscimento», conclude il direttore della “Gazzetta”.
Stipendi dei top manager: 649 volte quello di un operaio. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera l'11 Luglio 2022.
Sono 21 i Paesi europei che applicano per legge il salario minimo universale, altri sei (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) lo applicano settore per settore, attraverso la contrattazione collettiva. Ora l’Unione Europea ha stabilito che i salari minimi debbano essere aggiornati ogni due anni o al massimo ogni quattro per i Paesi che utilizzano un meccanismo di indicizzazione automatica. Il salario minimo, secondo Bruxelles, deve essere una tutela garantita per tutti i lavoratori. Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio annuale medio del 2,9%. Nessuno invece si pone il problema del salario massimo, e se deve esserci un rapporto fra lo stipendio dei top manager e quello dei loro dipendenti.
Da Olivetti a Tavares
Adriano Olivetti diceva che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso». In quegli anni di boom economico per il nostro Paese, l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta guadagnava 12 volte un operaio. L’ultimo stipendio di Sergio Marchionne a Fca nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico. Stiamo parlando cifre lorde, dove la remunerazione di un top manager è composta da quota fissa e quota variabile, in parte legata ai risultati, alle quali si aggiungono spesso le stock option e la buonuscita quando se ne va. Decisioni che vengono prese dal Cda o dall’assemblea dei soci all’atto della nomina.
Oggi l’azienda si chiama Stellantis, e nel 2021 l’ad Carlos Tavares ha percepito 19,10 milioni di euro: stipendio giustificato dai risultati (+14% dei ricavi), ma pesantemente criticato dallo Stato francese che detiene il 6,1% del gruppo e bocciato il 13 aprile 2022 dal voto consultivo del 52% dei soci. Tavares prende più del doppio di Herbert Diess, capo del Gruppo Volkswagen (circa 8 milioni di euro), e il quadruplo di Oliver Zipse di Bmw (5,3 milioni) e di Ola Källenius di Mercedes-Benz (5,9 milioni). Guadagna sulla carta 758 volte un suo metalmeccanico. Sulla carta perché la ex-Fiat fa un massiccio uso della cassaintegrazione che da una parte diminuisce lo stipendio reale degli operai e dall’altra migliora gli utili dell’azienda. Marco Tronchetti Provera incassa 8,1 milioni (296 volte quello di un operaio Pirelli), grazie a un utile passato da 44 a 216,6 milioni. L’operaio però non ha beneficiato di quell’utile che ha contribuito a creare e, infatti, il suo stipendio medio è rimasto tale e quale: 27.374 euro.
Stipendi operai: meno 4%
Nel 1980 gli amministratori delegati più pagati prendevano 45 volte un loro dipendente. Nel 2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41 milioni di euro, 416 volte lo stipendio medio annuo di un operaio; nel 2020 è stata di 9,59 milioni, cioè 649 volte. Nella traccia indicata da Olivetti si colloca invece la media degli stipendi dei dirigenti intermedi. Nel 2008 ci volevano 8,3 stipendi di un operaio per fare quello di un dirigente medio, nel 2020 si è passati a 10. Mentre in questi dodici anni lo stipendio medio di un operaio è sceso del 4%.
L’indecenza delle buonuscite
Eppure non sempre c’è correlazione tra risultati e stipendi. Nel 2021 Andrea Orcel, ad di Unicredit, ha ricevuto una remunerazione di 7,5 milioni di euro: 2,5 milioni di euro di quota fissa e 5 milioni di quota variabile, integralmente incassata, agganciata per il 70% a target finanziari e per il 30% alle priorità strategiche, a partire dalla sostenibilità. UniCredit ha confermato la remunerazione di Orcel, giunto in Italia per la fusione con Mps mai avvenuta, anche per il 2022. Questo nonostante la stessa UniCredit abbia calcolato un’esposizione passiva delle sue attività russe per 5,2 miliardi. Nel 2021 Luigi Gubitosi lascia Tim, e l’azienda che sta perdendo 8,7 miliardi gli riconosce una buonuscita da 6,9 milioni. Poca cosa rispetto ai 25 milioni del suo predecessore Flavio Cattaneo per aver amministrato per poco più di un anno, o i 40,4 milioni ad Alessandro Profumo per i 12 anni in Unicredit. Dopo la sua uscita sono emerse perdite nette pari a 9,2 miliardi. Ma non tutti sono uguali. Vincenzo Maranghi, per 15 anni amministratore delegato e direttore generale di Mediobanca, lascia il comando nel 2003 rinunciando all’indennità di uscita. Considerava gli incentivi finanziari amorali. Infatti non ha mai voluto stock option perché «quando mi faccio la barba prima di entrare in banca – diceva – non posso neanche per un istante pensare che durante quella giornata io possa prendere una decisione che possa sembrare nel mio interesse e non in quello della banca».
Chi va in controtendenza
In Banca Etica i supermanager non vengono premiati con stipendi di platino. La componente variabile non può superare il 15% della retribuzione annua lorda fissa e il rapporto tra lo stipendio più basso e quello più alto è al massimo di sei volte. Nel 2020 il direttore generale e la presidente hanno percepito, rispettivamente, un compenso totale di 157.368,48 e 74.481,56 euro. L’esercizio 2021 si è chiuso con l’utile in forte crescita rispetto al 2020: 16,7 milioni di euro, quasi triplicato rispetto al 2020. Stessa politica per le altre 13 banche etiche europee dove il rapporto tra la remunerazione più bassa e quella più alta arriva al massimo a 12,6 volte.
Cosa succede negli Stati Uniti
Negli Stati Uniti la differenza salariale la chiamano «pay gap» e, dal 2018, per tutte le aziende quotate è obbligatorio renderla nota alla Sec, la Consob americana. Lo prevede una legge promulgata nel 2010 sull’onda della crisi finanziaria del 2008 e più volte rivista. Dovrebbe servire a promuovere la stabilità finanziaria degli Stati Uniti, proteggere i contribuenti e i consumatori, migliorando la trasparenza del sistema, ma non ha inciso di una virgola sulla disparità salariale. Secondo l’America Federation of Labor nel 2020, ultimo dato disponibile, la retribuzione media degli amministratori delegati delle aziende quotate allo S&P 500 è stata di 299 volte superiore a quella mediana dei lavoratori. Con delle eccezioni: Kevin Clark, Ceo della società di componenti automobilistici Aptiv PLC, con i suoi 31,2 milioni di dollari ha guadagnato 5.294 volte lo stipendio mediano. David Goeckeler (Western Digital Corporation): 35,7 milioni di dollari, 4.934 volte quello mediano. Sonia Syngal (The Gap): 21,9 milioni di dollari, con un divario di 3.113. Nella top ten troviamo anche Christopher Nassetta del Gruppo Hilton (55,9 milioni di dollari, 1.953 di divario), John Donahoe II della Nike (55,5 milioni di dollari, 1.935 di divario) e James Quincey della Coca Cola (18,4 milioni, 1.621 volte). Ma cosa succede per esempio ad Elon Musk? Il suo stipendio annuo ufficiale è di appena 23.760 dollari, addirittura più basso dello stipendio mediano del suo gruppo. Però il patron di Tesla e SpaceX è l’uomo più ricco del pianeta. Nel 2021 ha chiuso l’anno al primo posto sia del Bloomberg Billionaires Index, sia del ranking Billionaires di Forbes, che gli accreditano una ricchezza di oltre 270 miliardi di dollari, 117 in più rispetto al 2020. Eppure al comparire della crisi economica globale, schiacciata da inflazione e incertezze, non ha esitato ad annunciare 10 mila licenziamenti (il 10% di Tesla).
Il senso del limite
Lo studio dell’Economic Policy Institute mostra che dal 1978 al 2018 le remunerazioni dei Ceo sono cresciute del 940% e quelle dei manager del 339,2%, contro l’11,9% del salario del lavoratore tipo. Una escalation che ha ampliato il divario tra i redditi del 10% della popolazione più ricca rispetto all’altro 90%.
Secondo la prestigiosa Organizzazione indipendente statunitense l’economia non subirebbe alcun danno se gli amministratori delegati fossero pagati di meno e suggerisce:
1) adottare soluzioni politiche che limitino stipendi e incentivi per gli amministratori delegati;
2) introdurre imposte più elevate sui redditi ai massimi livelli;
3) fissare aliquote d’imposta più alte per le aziende che hanno un gap più elevato tra la retribuzione di Ceo e lavoratore;
4) consentire agli azionisti di votare il compenso dei massimi dirigenti.
Anche la Francia, dopo la contestazione a Tavares, ha chiesto maggiori regolamentazioni europee in materia. Mentre la Svizzera, patria dei segreti bancari, degli anonimati e delle fiduciarie, già nel 2013 ha vietato per legge premi di benvenuto, le buonuscite e indennità di intermediazione in caso di acquisto di un’azienda da parte della concorrenza. Chi sgarra rischia tre anni di carcere. Ora più che mai le grandi imprese devono stabilire dei limiti massimi non scandalosi e limiti minimi che diano dignità agli ultimi anelli della catena, poiché nessuna azienda prospera senza il loro lavoro.
Il salario minimo ha senso solo se tutela anche gli autonomi. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 19 Luglio 2022.
Quando si parla di lavoro in Italia si pensa sempre ai dipendenti. Ma i 5 milioni di partite Iva sono più a rischio povertà. La presidente di Acta: «Il ddl di Fratelli d'Italia? Meglio che non venga approvato. Una legge sbagliata è peggio dell’assenza di una legge».
In Italia è povero anche chi lavora. Un occupato su dieci ha un reddito inferiore a quello che sarebbe necessario per vivere dignitosamente, secondo i dati che il ministro del Lavoro Andrea Orlando e l’economista Ocse Andrea Garnero hanno presentato a inizio 2022. Tra questi, coloro che versano nelle condizioni peggiori sono i lavoratori autonomi.
Come si legge nel report di Oxfam Disuguitalia, il 17 per cento degli indipendenti fa parte dei working poor, cioè di coloro che pur avendo un’occupazione, sono a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo, dell’incapacità di risparmio. Non conta solo lo stipendio percepito, perché anche il nucleo familiare e le ore lavorate hanno un peso. Anche per questo pensare a una legge sul salario minimo che non tenga in considerazione le partite Iva significa non voler risolvere il problema della povertà.
Perché, sebbene il numero sia in diminuzione, il nostro rimane il paese degli autonomi, che sono circa 5 milioni. Il 16,3 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha una partita Iva, contro il 9,2 per cento della media europea, visto quanto emerso dallo studio elaborato da La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Eppure, il lavoro indipendente è rimasto escluso dall’agenda politica e dal dibattito che si è aperto in seguito all’accordo trovato dall’Unione europea per promuovere l'adeguatezza dei salari minimi legali negli Stati membri, lasciando a ciascuno la possibilità di legiferare in proposito.
C’è una proposta di legge avanzata da Fratelli d'Italia in discussione al Parlamento da ottobre 2021, che dovrebbe garantire alle partite Iva retribuzioni adeguate. Ma, per Anna Soru, Presidente di Acta, l’associazione dei freelance italiani, ovvero di tutti i professionisti indipendenti che operano prevalentemente con la partita Iva ma non solo, «è meglio che non venga approvata. Perché una legge sbagliata è peggio dell’assenza di una legge. Il ddl trasmette l’idea che siano i lavoratori colpevoli di accettare compensi non equi attribuendo agli ordini professionali la facoltà di adottare sanzioni deontologiche nei confronti degli iscritti che accettano una parcella troppo bassa. Inoltre, non prende in considerazione tutti gli autonomi ma solo i professionisti che lavorano per banche, assicurazioni, pubblica amministrazione e per imprese con ricavi superiori a 10 milioni di euro o con più di 50 dipendenti. Mentre gli autonomi sono un gruppo eterogeneo e molto più vasto».
Per Soru il fatto che in un momento di crisi generalizzata del mondo del lavoro le partite Iva siano tra coloro che vivono la situazione peggiore dipende da più ragioni: il trattamento fiscale, la scarsa presenza di bonus e agevolazioni. Ma soprattutto la mancanza di parametri su cui basare la richiesta di retribuzione. Che troppo spesso è conseguenza dalla volontà del cliente più che dalle reali capacità contrattuali del lavoratore. «Per questo, un salario minimo legale unico fungerebbe da limite chiaramente riconoscibile. Tutti saprebbero che pagare un lavoratore sotto quella soglia è illegale. Perché il mercato del lavoro è lo stesso e le condizioni di subordinati e indipendenti si influenzano reciprocamente». E perché per contrastare il lavoro sottopagato è necessario agire dove questo si annida. Dove mancano le tutele.
Rapporto Inps, un lavoratore su 4 guadagna meno del reddito di cittadinanza. Gianluca Zapponini su Il Tempo il 12 luglio 2022
In Italia oltre due lavoratori su dieci guadagnano meno di 780 euro, ovvero l’importo che porta il nome di Reddito di cittadinanza. Non sono calcoli buttati giù alla rinfusa, ma cifre esatte contenute nell’ultimo rapporto annuale dell’Inps, presentato ieri mattina dal presidente Pasquale Tridico.
Il 23% dei lavoratori italiani percepisce meno di 780 euro al mese, considerando anche i part-time. Per contro, «l’1% dei lavoratori meglio retribuiti ha visto un ulteriore aumento di un punto percentuale della loro quota sulla massa retributiva complessiva», è la sentenza di Tridico, risuonata nelle stanze di Montecitorio. «La distribuzione dei redditi all’interno del lavoro dipendente si è ulteriormente polarizzata, con una quota crescente di lavoratori che percepiscono un reddito da lavoro inferiore alla soglia di fruizione del reddito di cittadinanza», ha spiegato il numero uno dell’Istituto.
«La crisi ha lasciato strappi vistosi nella distribuzione dei redditi lavorativi. Se si considerano i valori soglia del primo e dell’ultimo decile nella distribuzione delle retribuzioni dei dipendenti a tempo pieno e pienamente occupati, per operai e impiegati (escludendo dirigenti, quadri e apprendisti), emerge che il 10% dei dipendenti a tempo pieno di tale insieme guadagna meno di 1.495 euro, il 50% meno di 2.058 euro e solo il 10% ha livelli retributivi superiori a 3.399 euro lordi». La retribuzione media delle donne nel 2021 «risulta pari a 20.415 euro, sostanzialmente invariata rispetto agli anni precedenti e inferiore del 25% rispetto alla corrispondente media maschile».
E proprio sul reddito di cittadinanza è intervenuto direttamente il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, secondo il quale «i beneficiari non scappano dal mercato del lavoro. Ricordo che nel complesso i beneficiari di questo strumento costituiscono una platea con scarse esperienze lavorative pregresse, spesso saltuarie, anche a causa di livelli di istruzione mediamente molto bassi». Ma c’è un altro dato che fa rabbrividire. E cioè che sono oltre 4,3 milioni i lavoratori che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora.
«Se il quadro occupazionale appare promettente, segnali più preoccupanti vengono dalla dinamica retributiva». Ad ottobre 2021 i 27 contratti collettivi nazionali di lavoro principali occupavano circa l’80% dei dipendenti totali. Nel biennio 2019-2021 sono aumentati significativamente i dipendenti con Ccnl riguardanti poche decine o centinaia di dipendenti. Il salario mensile corrispondente a un salario lordo di 9 euro all'ora è pari a poco più di 1.500 euro e viene percepito da 4.532.476 dipendenti che rientrano in 257 contratti collettivi nazionali.
Guardando poi alle questioni di genere, la percentuale di part-time è al 46% tra le donne, il dato più alto nella Ue, contro il 18% tra gli uomini, e una parte prevalente di questo part-time è considerato involontario. Tornando alle parole del ministro Orlando, il responsabile del Lavoro ha puntato il dito contro le diseguaglianze. «Il complessivo quadro di tenuta del sistema del welfare è anche il risultato dello sforzo che, come Paese, abbiamo profuso nell'affrontare la crisi legata all'emergenza sanitaria. Purtroppo, la guerra in Ucraina e i processi di transizione in atto nell'economia non ci consentono di stare tranquilli e il tema del contenimento e del contrasto alle diseguaglianze e ai rischi di esclusione sociale sono sempre più centrali. Quella del Pnrr attraverso il Next Generation Eu è stata una risposta importante dell’Europa a un problema comune ed è un paradigma da non abbandonare anzi da consolidare, soprattutto in questa fase. In questo quadro emergenziale che ci accompagna da oltre due anni, all'Inps oltre ai suoi tradizionali compiti è stata affidata la responsabilità di soggetto attuatore delle misure di sostegno varate dal governo».
I numeri del 'sistema Italia' in crisi. Salari da fame e pensioni vuote, l’Inps certifica la crisi: un lavoratore su 4 guadagna meno del Reddito di cittadinanza. Redazione su Il Riformista l'11 Luglio 2022
Lo aveva certificato l’Istat nei giorni scorsi nel suo rapporto annuale, lo ribadisce oggi l’Inps: l’Italia è un paese in crisi, sempre più povero e dove le diseguaglianze crescono a spesso spedito, mentre il sogno di una pensione dignitosa per le generazioni future appare come un miraggio.
La fotografia impietosa del “sistema Italia” arriva dal rapporto annuale elaborato dall’Inps e presentato questa mattina alla Camera dei deputati dal suo numero uno Pasquale Tridico davanti anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Una Italia che diventa il regno dei redditi bassi, del precariato o, peggio, del lavoro povero: il tutto si traduce in pensioni da fame, o da incubo per la generazione X, i nati tra il 1965 e il 1980. A dirlo non sono le ‘Cassandre’ ma i numeri: la percentuale di lavoratori sotto la soglia di nove euro lordi l’ora è del 28 per cento, ovvero oltre 4,3 milioni di persone, e quasi un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro al mese, considerando anche i part-time.
Numeri che evidenziano un ulteriore paradosso: sono quasi quattro milioni i lavoratori che percepiscono un reddito inferiore alla soglia del Reddito di cittadinanza: nel dettaglio il 23% dei lavoratori guadagna meno di 780 euro al mese mentre il 10 per cento dei dipendenti a tempo pieno guadagna meno di 1.495 euro, il 50 per cento meno di 2.058 euro e solo il 10 per cento ha livelli pari a 3,399 euro lordi.
La questione del lavoro povero è, per così dire, una ‘eccellenza’ nostrana: nel Belpaese la povertà lavorativa interessa l’11,8% degli occupati, contro una media europea che scende al 9,2 per cento secondo i dati Eurostat. E come sottolineato da Tridico nel rapporto, “chi è povero lavorativamente oggi sarà un povero pensionisticamente domani”.
Il capitolo pensioni è infatti l’ennesimo bubbone da affrontare. Il 40 per cento dei sedici milioni di pensionati ha percepito meno di 12mila euro l’anno, mille euro al mese, dato che scende al 32% se consideriamo integrazioni al minimo, trasferimenti e maggiorazioni. Nel rapporto l’Inps ha inserito anche una proiezione sulla ‘pensione tipo’ della generazione X. Il lavoratore nato tra il 1965 e il 1980, se ha versato 9 euro l’ora per 30 anni di lavoro, quando andrà in pensione a 65 anni riceverà 750 euro al mese. Una cifra che, come sottolineato dallo stesso Tridico, è “superiore al trattamento minimo”. ad oggi di 524 euro.
Una delle soluzioni proposte da Tridico probabilmente non farà piacere alla destra sovranista del duo Salvini-Meloni. Per il numero uno dell’Inps la regolarizzazione di cittadini stranieri è “una strategia aggiuntiva per rafforzare la sostenibilità del sistema“, un metodo che permetterebbe di coprire posti di lavoro non sostituiti a causa dell’invecchiamento della popolazione e della loro scarsa attrattività. In particolare già le regolarizzazioni del 2020 si sono mostrate efficaci per coprire il fabbisogno in settori come lavoro domestico o agricolo.
CHI PUÒ BENEFICIARE DELLA RIFORMA. Badanti, guide e vigilantes. L’esercito del salario minimo. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 08 giugno 2022
Sono in totale quattro milioni e mezzo i dipendenti che in Italia guadagnano meno di nove euro all’ora. E due milioni e mezzo percepiscono una cifra inferiore agli otto euro.
L’impatto maggiore della riforma si avvertirebbe nel settore dei servizi per le imprese. Alta l’incidenza anche per il settore turistico: uno su quattro è sotto la soglia prevista dal ddl Catalfo.
Lavoratori domestici e operai agricoli fanno storia a sé. L’associazione delle colf chiede che la proposta di legge, sottolineando la specificità della categoria, come evidenziato anche dall’Inps.
STEFANO IANNACCONE. Giornalista professionista, è nato ad Avellino, nel 1981. Oggi vive a Roma, collaborando con varie testate nazionali tra cui Huffington Post, La Notizia, Panorama e Tpi. Si occupa principalmente di politica e attualità. Ha scritto cinque libri, l'ultimo è il romanzo Piovono Bombe.
Salari e tasse sul lavoro. Perché in Italia i salari sono bassi, di chi è la colpa. Michele Prospero su Il Riformista il 9 Giugno 2022.
Le cifre, che impietose documentano la realtà del lavoro povero, smentiscono una trita retorica per cui i lavoratori italiani hanno goduto sinora di una ricchezza schizzata ben al di sopra delle proprie possibilità di vita. Nel Bengodi dell’opulenza i salari in trent’anni sono addirittura scesi, mentre altre economie europee registravano crescite significative nelle retribuzioni. Quando si guarda sbigottiti al populismo, al fenomeno dell’operaio che vota a destra, si trascura di considerare i rapporti di produzione. L’essere sociale modellato sugli schemi della precarietà, dell’incertezza e dello sfruttamento non ha rappresentanza politica. Perché mai i ceti operai dovrebbero collocarsi a sinistra nella ginnastica dell’alternanza che, nel mutare del personale di governo, assume come variabile indipendente proprio la marginalizzazione del lavoro?
La rinuncia al radicamento sociale ha reso friabile il sistema politico, esposto alle intemperie dell’antipolitica populista, ha condannato alla povertà il lavoro, con una giungla contrattuale proliferata per fiaccare la resistenza della forza lavoro, e ha condannato ad essere scarsamente innovativo il meccanismo produttivo. La scomposizione della soggettività politica del lavoro non è solo l’effetto di grandi trasformazioni, è anche la causa di fenomeni regressivi che, nel regime della decrescita trentennale, accentuano l’alienazione politica e il ribellismo antipolitico. L’illusione che il test dell’alternanza di governo, e l’apprendistato delle più sofisticate ricette di ingegneria costituzionale comparata che ha suggerito di cambiare cinque leggi elettorali in trent’anni, garantisse il consolidamento della Seconda Repubblica è caduta. Nessun regime politico riesce a stabilizzarsi, e a superare le periodiche crisi di legittimazione, senza le condizioni della crescita, della redistribuzione, dell’inclusione sociale. Il politicismo di partiti svuotati nelle idee e negli interessi materiali ha dimenticato, assieme alla critica dell’economia politica e al progetto di una alternativa di società, anche il governo della modernizzazione per soddisfare gli imperativi della divisione internazionale del lavoro.
Il disegno su cui è nata la Seconda Repubblica è quello del vincolo esterno (le “scadenze imperative” di Maastricht) come lo strumento del destino per indurre all’accettazione passiva delle “riforme” liberiste le quali, per uscire dalla vecchia economia mista, esigevano, così si esprimeva Michele Salvati, processi competitivi con “una dinamica contenuta dei salari monetari e una elevata flessibilità nelle condizioni di lavoro”. Questo modello di riforme, per creare economie dinamiche attraverso “lo si voglia o no, la flessibilità salariale e tutte le altre flessibilità del rapporto di lavoro e delle relazioni industriali”, è fallito politicamente (reiterati “crolli di regime” nel 2013 e nel 2018) e socialmente (generazioni perdute, trentennio di decrescita e stagnazione). La retorica del “grande accordo del 23 luglio 1993” si sgonfia anch’essa dinanzi ad una moderazione salariale (e alla rinuncia ad ogni forma incisiva di indicizzazione in rapporto all’inflazione) che, in un trentennio poco glorioso, da emergenziale è diventata uno strutturale dato di sistema.
Si impone una riforma di sistema del capitalismo italiano per arrestare il declino, ma mancano le culture e gli attori necessari per abbozzare un compromesso politico e di classe. La Confindustria sostiene che i salari non possono essere sganciati dalla produttività. Ma la scarsa produttività del sistema è stata provocata dall’alleanza tra politica post-ideologica, senza una vaga idea di socialismo, e impresa siglata nei primi anni ’90. Con essa si imposero privatizzazioni, svendite del pubblico, delocalizzazioni, frammentazioni normative e moltiplicazione delle tipologie contrattuali, fuga dalle grandi sfide per acciuffare l’innovazione tecnologica nei settori strategici dello sviluppo. Se la produttività in Italia dal 1995 ad oggi è cresciuta di appena 10 punti, mentre nell’Eurozona la cifra è superiore al 40%, ciò si spiega per il fallimento storico delle classi dirigenti dell’economia e della politica nel disegnare un modello efficace per favorire l’aggancio dell’apparato produttivo italiano ad un competitivo tempo di economia della conoscenza.
La produttività ha dei limiti strutturali a decollare nel micro-capitalismo dei territori, che guarda soprattutto al mercato estero per badare alla soddisfazione della domanda interna, e nella diffusione di attività commerciali a basso contenuto tecnologico-cognitivo. La deflazione salariale, l’incertezza contrattuale, la precarietà hanno scandito le tappe di una economica della de-crescita e della stagnazione trentennale. Non basta, come sostiene il Pd, prevedere meno tasse sul lavoro per migliorare le condizioni di vita. In Francia e in Germania le tasse sul lavoro sono addirittura più elevate di quelle italiane, e però i salari sono ugualmente cresciuti di oltre il 30%. Il limite di molte proposte oggi in discussione è quello di concepire il miglioramento del salario solo grazie all’intervento creativo del governo nelle aliquote fiscali. Senza un recupero significativo dei capitali caduti nell’evasione fiscale, la pura manutenzione delle aliquote e la pioggia dei bonus occasionali si riverberano però nella decurtazione dei fondi per i beni pubblici.
Con bonus, tagli, esenzioni si concede qualche briciola in più nella busta paga, ma tagliando le risorse della fiscalità generale, e cioè contraendo i fondi essenziali per la progettazione di un nuovo modello di crescita. Il sindacato deve recuperare una vocazione conflittuale: non è il pubblico la controparte, quasi che il salario fosse una determinazione politica statica, che solo maneggiando il fisco si può smuovere. La contrattazione (la legge sulla rappresentanza effettiva delle organizzazioni a questo dovrebbe puntare) non può che colpire anche la controparte, e cioè erodere la quota di profitto per incrementare la fetta del salario.
L’appalto al governo tecnico del compito di recupero della modernizzazione si arena tra gli scogli della guerra, che ne enfatizza i limiti politici e l’assenza di una capacità di destinazione qualitativa degli investimenti (sperperi in bonus facciate, invece che investimenti per beni pubblici, innovazione, politiche industriali). Il pendolo della Seconda Repubblica, oscillante tra momenti di populismo, con coalizioni della decrescita (Quota 100, flat tax, bonus e sussidi improduttivi), e fasi di tecnicismo con interventi di salvataggio-risanamento della finanza pubblica ispirati dal vincolo esterno, svela una carenza storica organica: mancano un partito del socialismo, un’impresa dell’innovazione, un sindacato del conflitto. Michele Prospero
Il salario minimo, ecco la situazione in Europa: dai 332 euro in Bulgaria agli oltre 2.200 in Lussemburgo. Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.
I salari più alti sono quelli dei Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale
Raggiunto l'accordo tra Consiglio, Parlamento e Commissione Ue sulla direttiva per il salario minimo. L'intesa dovrà ora essere approvata in via definitiva sia dal Parlamento sia dal Consiglio Ue, Poi toccherà ai Paesi membri recepirla. Ma qual è l'attuale situazione nell'Unione Europea? Si tratta di un quadro estremamente disomogeno. Sono 21 dei 27 i Paesi dell'Unione in cui è previsto. L'Italia resta fuori con Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. La forchetta va dai 332 euro al mese della Bulgaria ai 2.256 del Lussemburgo. I salari più alti sono quelli dei Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale, proporzionati tanto allo standard degli stipendi in generale che al costo della vita. Gli importi più bassi sono quei dei Paesi Baltici e dell'Europa orientale e centrale a seguire quelli degli Stati dell'Europa Meridionale. Bisogna però segnalare che negli ultimi 10 anni i Paesi dell'Europa orientale hanno fatto registrare il miglioramento più considerevole In testa c'è la Romania che, secondo Eurostat, ha visto aumenti dell'11,1%. Nell'Europa Nord-Occidentale gli incrementi dei salari sono stati invece più contenuti ma sono comunque aumentati in tutti i Paesi che ne sono provvisti. Unica eccezione quella che riguarda la Grecia dove invece si è registrato un calo dell'1,4%. A variare, tra i paesi Ue, non è soltanto l’entità del salario minimo nazionale ma anche il suo rapporto con i redditi medi. In 5 paesi Ue il salario minimo ammonta a più della metà del reddito medio.
Stipendi, che cosa cambia? L’ipotesi dei 9 euro all’ora. Rita Querzé e Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.
Perché in Italia non c’è il salario minimo legale?
Perché in Italia è molto diffusa la contrattazione. I contratti nazionali stipulati da sindacati e imprese coprono, secondo l’Inapp (fa capo al ministero del Lavoro), l’88,9% dei dipendenti di imprese del settore privato extra-agricolo con almeno un dipendente. Proprio per questo le parti sociali hanno tradizionalmente ritenuto inutile una legge che introducesse il salario minimo, se non dannosa, perché avrebbe ridotto il loro ruolo.
Quanti guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora?
Se si fissasse un salario minimo di 9 euro lordi l’ora, come diverse proposte in Parlamento, ci sarebbe (dati Inps) il 18,4% di lavoratori sotto questa soglia, considerando salario base più la tredicesima. Quota che scende al 13,4% se la soglia fosse di 8,5 euro e al 9,6% se a 8 euro. Pur sempre tanti, ma generati soprattutto dai rapporti di lavoro precari, più che dai minimi dei contratti. I dati Istat, nonostante siano riferiti al 2019, mostrano che già allora il valore medio delle retribuzioni contrattuali orarie era di 14 euro e quello mediano di 12,5 euro.
A chi si applicherebbe il salario minimo?
Secondo una ricerca Adapt di Michele Tiraboschi e Silvia Spattini, utilizzando dati Inps e Istat, i contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil coprono 12,5 milioni di lavoratori dipendenti privati, cioè il 97% della platea potenziale (escluso i settori agricolo e domestico). Quelli cui non risulta applicato un contratto sono 700-800mila. Gli stessi ricercatori evidenziano che proprio in agricoltura e nel lavoro domestico c’è il più alto tasso di «irregolarità pari rispettivamente al 39,7% e al 58,6% delle unità di lavoro equivalente a tempo pieno». La retribuzione oraria lorda media è di 9,2 euro in agricoltura e di 7,3 euro per il lavoro domestico, i valori più bassi di tutti i settori.
Quali effetti avrebbe il salario minimo?
Il salario minimo legale, nella versione di cui si discute in Italia, potrebbe costituire un paracadute per tutti i lavoratori non coperti dai contratti: una minoranza, come abbiamo visto. Diverso sarebbe se fissasse un valore minimo orario per qualunque tipo di lavoro dipendente o parasubordinato e se questo venisse applicato, per esempio, anche a tirocinanti, collaboratori, lavoratori occasionali, indipendentemente dalla categoria e dal contratto di appartenenza.
Che succede ora con la direttiva Ue?
Nell’immediato poco o nulla. Di fatto la direttiva non impone il salario minimo per legge. Dove la contrattazione è forte, come da noi, si potrà andare avanti definendo i minimi salariali nei contratti nazionali di categoria. Ma in Italia ce ne troppi: 935. Di questi solo la metà utilizzati e poco meno di 200 firmati da Cgil, Cisl e Uil. Nella giungla si nascondono anche intese firmate al ribasso da associazioni datoriali e sindacati dalla dubbia rappresentatività. La direttiva in realtà non impone interventi per disboscare. Ma fissa dei parametri di riferimento: nei Paesi dove si introduce il salario minimo per legge, questo non potrà essere più basso del 50% della retribuzione media o della retribuzione mediana. Rispettivamente 10,59 euro o 7,65 euro, secondo i calcoli dell’ex ministra Nunzia Catalfo.
Adesso quali saranno i prossimi passaggi?
La direttiva deve essere approvata dalla plenaria del Parlamento europeo e poi dal consiglio. Quindi sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Da quel momento gli Stati avranno due anni per recepirla.
Quale è la proposta del ministero del Lavoro?
Secondo la proposta del ministro Andrea Orlando, il salario minimo potrebbe coincidere col «Trattamento economico complessivo» definito dai contratti. Da notare: il Tec tiene dentro un po’ tutto: il minimo più compensi legati al recupero di produttività e anche il welfare. Il lavoratore con una retribuzione inferiore, per vedersi riconosciuta la differenza, dovrebbe rivolgersi al giudice. Che dovrebbe prendere come riferimento il Tec. Non un Tec qualunque: quello fissato dai contratti firmati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. E toccherebbe al giudice definire quali sono.
Quali sono le proposte in Parlamento? Come si schierano i partiti?
Il M5S è favorevole al salario minimo legale, nel Pd prevale l’idea di un salario minimo definito dai contratti. La proposta Catalfo punta a tenere insieme queste posizioni: il salario minimo è definito dai contratti, si eliminano i contratti pirata individuando i criteri per misurare sindacati e organizzazioni delle imprese maggiormente rappresentativi, e si stabilisce che in ogni caso il salario orario minimo legale non possa essere più basso di 9 euro lordi.
Giusy Franzese per “il Messaggero” il 7 giugno 2022.
A guardare le tabelle Istat relative alla retribuzione oraria media per tipologia di contratto, si resta sorpresi: nel settore privato in pratica le cifre orarie sono tutte già sopra ai 9 euro lordi di cui tanto si discute per il salario minimo. Niente paghe da fame, come invece denuncia il leader dei Cinquestelle Conte.
Anzi. In queste tabelle ci troviamo di fronte a stipendi decisamente dignitosi, pari anche a due volte e mezzo il salario minimo pentastellato. È il caso ad esempio dei dipendenti del comparto fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata: la retribuzione oraria media per chi ha un contratto a tempo indeterminato è pari a 23 euro e 34 centesimi.
I colleghi del comparto estrazione di minerali da cave e miniere prendono ancora di più: 23,58 euro all'ora. Ovvero 3.772 euro al mese (su 40 ore a settimana). Il valore medio nell'industria, senza il settore costruzioni, è di 16,34 euro, quasi il doppio rispetto al salario minimo fissato a 9 euro. Le costruzioni stanno quasi a 13 euro (12,91).
Ma anche le attività del commercio, dei trasporti, dei servizi, dell'alloggio e della ristorazione - stando a queste tabelle - viaggiano tutte abbondantemente sopra i 9 euro con valori che vanno da 11,5 euro ai 15 euro lordi all'ora.
E quindi? Davvero nessuno in Italia prende meno di 9 euro? No, non è così. Le tabelle Istat fanno riferimento ai valori medi e, come insegna Trilussa, se io mangio un pollo intero e tu niente, la media è metà pollo a testa, ma tu non hai mangiato nulla e io ho invece lo stomaco strapieno.
In realtà sono tanti i lavoratori in Italia a stomaco semivuoto. Il 21% di tutti i lavoratori dipendenti del settore privato, con l'esclusione di operai agricoli e domestici, secondo i dati Inps relativi sempre al 2019 (così da poterli comparare con le tabelle Istat relative sempre ai dati 2019). Un lavoratore su cinque.
Sono sotto i 9 euro lordi il 52% dei dipendenti degli artigiani, il 34% del terziario, e il 10% dell'industria. Stando a quest' ultimo dato, bisogna riconoscere che quindi ha ragione il presidente Bonomi quando sostiene che in realtà le imprese del sistema confindustriale sono tutte posizionate sopra i 9 euro. Diverso è il discorso per gli artigiani, le piccole imprese, il turismo e la ristorazione.
Per i pubblici esercizi e il turismo sono sotto i 9 euro l'ora i cuochi, i camerieri di ristorante, i barman, i pizzaioli e i gelatieri (al quarto livello con 8,77 euro), il personale di pulizia e fatica addetto alla sala o alla cucina (settimo livello, 7,28 euro), i giardinieri, i centralinisti, i camerieri ai piani e anche le guardie giurate (quinto livello, 8,21 euro). Numerose le qualifiche sotto i nove euro nel contratto del commercio: dalle commesse ai magazzinieri. Il minimo retributivo del livello più basso del contratto del commercio è infatti pari a 1273 euro al mese, che all'ora significano 7 euro e 95 centesimi.
Si posizionano sotto i 9 euro l'ora anche gli autisti del noleggio e i dipendenti delle agenzie di viaggio. Ovviamente il fenomeno delle paghe basse spopola al Sud e nelle isole (il 31% dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lordi all'ora) ; è molto presente al Centro (26%), ma si presenta corposo (19%) anche al Nord. Sulla platea complessiva il 9% dei lavoratori è al di sotto anche degli 8 euro orari lordi (sono comprese nel calcolo Tfr e tredicesima, le festività cadenti la domenica, indennità e scatti di anzianità).
Caso a parte sono gli apprendisti: il 56% - dice l'Istat - lavora per meno di 9 euro l'ora. Un apprendista nel settore costruzioni riceve in media 8,62 euro l'ora; uno del settore ristorazione e alloggio 8,91; qualche centesimo in meno per l'apprendista del settore sanità, assistenza sociale, spettacolo, divertimento; fino a 6,52 euro l'ora per l'apprendista di altre attività di servizi. Secondo alcune stime, quindi, se la proposta Cinquestelle dovesse diventare legge, a beneficiare dell'aumento sarebbero 2,9 milioni di lavoratori per un incremento medio annuo di 1.073 euro pro-capite.
Da leggo.it il 23 giugno 2022.
«Voi ragazzi non avete voglia di lavorare», questa la frase ripetuta troppo spesso ai giovani che rifiutano un lavoro. Ma quando le offerte di lavoro proposte sono indecorose spesso i giovani, senza voler fare polemica, rispondono con il silenzio o si limitano a sparire. Non è il caso di Francesca Sebastiani, napoletana di 22 anni, che su TikTok ha voluto denunciare la sua esperienza, mostrando la sua risposta a tono a un datore di lavoro troppo furbo che proponeva 280 euro al mese per un lavoro di 10 ore al giorno.
«Salve buonasera, ho visto che cercate nuovo personale», scrive la giovane su Facebook in risposta a un annuncio di lavoro. Con educazione, Francesca chiede ulteriori dettagli sulla proposta di lavoro, a Secondigliano, periferia nord di Napoli. E così il datore spiega le specifiche richieste: «Da lunedì a venerdì 9-13.30. Il negozio apre alle 16, però alle 15-15.30 apriamo per le pulizie. Chiudiamo alle 20.30 a volte 21 Il sabato 9-20-30 orario continuato, se c’è molta gente chiudiamo alle 21».
«Ok, grazie e per quanto riguarda lo stipendio?», la domanda è legittima, la risposta lascia senza parole: 70 euro a settimana, dunque 280 euro mensili per un lavoro di 10 ore. La ragazza rifiuta con molta educazione ed è qui che arriva la fatidica frase sulla poca voglia di lavorare dei giovani che fa infuriare la giovane.
«Voi giovani d’oggi non avete voglia di lavorare». E qui la risposta di una giovane che ha bisogno di lavorare e cerca disperatamente un'offerta di lavoro adeguata: «Siete voi che non ci fate lavorare, perché non avresti mai accettato per 70 euro a settimana. E ad un figlio non avresti mai detto di accettare», dice Francesca che ha deciso di raccontare tutto su Tik Tok. «Penso di essere anche io una persona, posso vivere come gli altri?», chiede.
Il video su TikTok è diventato subito virale. Molti altri giovani hanno commentato raccontando le loro esperienze negative e il video è stato condiviso anche da Francesco Emilio Borrelli sul proprio profilo Facebook e rendendo ancor più popolare il video denuncia di Francesca.
Antonio E. Piedimonte per “la Stampa” il 25 giugno 2022.
Francesca Sebastiani, vicino alla sua mamma in un angolo di un gigantesco bar della periferia nord di Napoli, sembra molto più piccola dei suoi 22 anni. Dopo il video social in cui, con ironia e sarcasmo, ha denunciato lo sfruttamento dei ragazzi in cerca di lavoro, il web l'ha incoronata come una guerriera 3.0. Ma Francesca, aria mite e occhiali da sole che mascherano la timidezza, appare quasi sopraffatta dall'ondata di reazioni indignate che ha suscitato: «Non pensavo si scatenasse tutto questo», dice con un tono che le fa sembrare quasi delle scuse, quasi come se avesse creato un fastidio, un problema.
Francesca, come ti sei sentita quando la commerciante che avevi contattato ti ha proposto 280 euro al mese per lavorare 10 ore al giorno?
«Arrabbiata e indifferente al tempo stesso».
In che senso?
«Nel senso che mi ha fatto innervosire quando mi ha scritto "Voi giovani non volete lavorare", ma che alla fine sono rassegnata da tempo. Ero preparata all'idea che fosse un altro buco nell'acqua e senza quelle parole sarebbe finita lì. L'avevo anche già salutata. E pure con un'amarezza in più...».
Quale?
«Il fatto che a dire quella cosa non era stata una persona anziana ma una giovane poco più grande di me. Avevo visto il profilo, è una giovane pure lei, che tristezza».
Rassegnata è una parola forte.
«Quando ho dovuto lasciare la scuola, nel 2018, per la malattia di mamma, avevo trovato un negozio che rispettava i lavoratori, prendevo duecento euro a settimana, poi purtroppo ha chiuso. E dopo è andata sempre peggio».
Che scuola facevi?
«Il liceo statale "Elsa Morante" di Scampia».
Una scuola in una zona non facile. Come andava?
«Facevo il quarto anno. Andavo bene. Oddio, qualche problemino con la Filosofia c'era, ma per il resto tutto ok, mi piaceva. Poi mamma si è ammalata. Insieme con papà e mio fratello abbiamo dato la priorità alla famiglia (tocca con la mano il braccio della madre, ndr) ovviamente».
Torniamo alla ricerca del lavoro.
«Un disastro. L'unica cosa che saltò fuori era un posto da 45 euro a settimana, uno schifo. Lo lasciai subito».
E poi?
«Poi niente. Oggi faccio le consegne, il fattorino per il delivery, ma non ho il motorino e così, anche se non è guarita, mi accompagna mamma con la macchina. Sono 5 euro a consegna, netti 3,90. La media è di 3-4 consegne a settimana, faccia lei il calcolo. E poi capisce perché alla fine uno si arrende».
Da calcolare c'è poco ma per arrendersi c'è tempo. Cosa vorrebbe fare?
«Io sono pronta ad adattarmi. Ma sono le possibilità, quelle vere, a mancare. L'amarezza nasce da qui».
E se il genio della lampada le chiedesse un desiderio?
«Ah, ho capito, il sogno nel cassetto, quelle cose lì. Beh, che dire, sin da piccolina ho sempre avuto una grande passione per la fotografia, avrei voluto studiarla e magari farne un lavoro... Ho anche preso qualche lezioni di canto, poi sono finiti i soldi».
E quando sei a casa e non metti alla berlina gli sfruttatori?
«Cioè sempre... dove vuole vada? Leggo libri, quelli gratuiti sul tablet. Poi ci sono i tre amori: Lilli, Chiara e Stella, le nostre tre cagnette. E il sabato sera il pub con gli amici, tutto qui...».
A questo punto interviene la signora Susi: «Anche se ha scatenato una mezza rivoluzione è solo una brava ragazza, pure troppo, pensi che le ripeto sempre di trovare un po' di cazzimma. Ma le verità è che la situazione è sempre terribile: quando lei era piccola, io per arrotondare lo stipendio di mio marito andavo a caricare gli scaffali di un grande supermercato, di notte, ci davano tre euro all'ora. Quando minacciai di andarmene mi risposero che c'era la fila per pendere il mio posto. Ecco l'eredità che stiamo lasciando ai nostri figli: ingiustizie e mortificazioni». E stavolta è lei a mettere la mano sul braccio della figlia.
Valeria D' Autilia per “la Stampa” il 5 agosto 2022.
Lui è indagato per lesioni personali, furto e minacce. Lei prova a curarsi le ferite, mentre un'onda di solidarietà la travolge: varie offerte di impiego per allontanarla definitivamente da quel datore di lavoro accusato di averla picchiata solo perché aveva chiesto di essere pagata. Voleva che le ore effettive le fossero riconosciute. Ne aveva tutto il diritto.
Sull'accaduto la procura di Catanzaro ha aperto un'inchiesta.
Nigeriana 25enne con un impiego come lavapiatti nel lido-ristorante «Mare Nostrum» di Soverato, Beauty Davis ha trovato il coraggio di filmare quell'aggressione e trasmetterla in diretta sui social. Forse pensava anche a sua figlia di 4 anni: le ha dato forza in quel momento e quando si è presentata in caserma per la denuncia. «Alla ragazza - spiega il suo avvocato - è stato inviato un bonifico di 200 euro, ma era stato pattuito un compenso di 600». Anche il presunto autore delle violenze, Nicola Pirroncello, ha fornito la sua versione dei fatti: titolare 53enne della struttura, è incensurato e figlio di un carabiniere in pensione.
Insulti, schiaffi, minacce: nel giro di pochissimo tempo il video è diventato virale. «Dove sono i miei soldi?» si sente nel filmato. E poi la replica del titolare: «Non ti preoccupare, adesso arrivano i carabinieri, qui è casa mia». A quel punto le botte e, in sottofondo, le grida. Tutto degenera quando si accorge che lei sta riprendendo tutto. Beauty prova a difendersi e, fin quando ce la fa, tiene saldo il suo smartphone. Sa che è una prova.
Di quell'uomo sembra non si fidasse, ma probabilmente non avrebbe immaginato un simile epilogo. I sindacati parlano di turni infiniti, di un'ora di lavoro al giorno prevista sulla carta, ma a cui se ne aggiungevano almeno altre dieci. Era stanca Beauty, ma non si è mai tirata indietro. Ogni estate lavorava come lavapiatti in questa località tra le più apprezzate del turismo balneare calabrese. Era arrivata in Italia da alcuni anni: prima in un centro di accoglienza, poi il tentativo di essere indipendente.
Ma questa ragazza è solo uno dei tanti sfruttati di un comparto dove oltre il 55% dei lavoratori è a chiamata. Turismo e cultura troppo spesso significano precarietà.
Stando ai dati dell'Ispettorato del lavoro, solo il 59% è assunto a tempo indeterminato, contro l'82% del totale dell'economia. Questo settore registra il 46% delle violazioni totali e il 12% sull'orario di lavoro.
Poi retribuzioni basse, orari ridotti (almeno sulla carta) e mansioni poco qualificanti. Finti part-time, mancati riposi, obbligo agli straordinari sono spesso l'altra faccia di villaggi, hotel, stabilimenti e ristoranti. Ma anche di eventi, come dimostra l'ispezione delle ultime ore nel cantiere del concerto del «Jova Beach Party» a Lido di Fermo. Trovati 17 lavoratori in nero, italiani e stranieri, e 4 ditte sono state sospese. Intanto c'è la protesta del sindacato Usb con uno striscione lasciato all'ingresso del lido dove lavorava Beauty. «Questo locale sfrutta chi lavora». Non è l'unico, dicono altre voci dal resto d'Italia.
Da ANSA il 4 agosto 2022.
"Il titolare del lido Mare Nostrum, affranto e dispiaciuto dell'accaduto, intende respingere con fermezza le ignobili accuse rivolte nei suoi confronti; pur dando atto della reciproca animosità dell'episodio ripreso dalla ex dipendente, deve darsi parimenti contezza di quanto effettivamente accaduto prima delle riprese". E' quanto si afferma in una nota divulgata dagli avvocati Gianni Russano e Salvatore Giunone, legali di Nicola Pirroncello, accusato di avere aggredito, provocandole lesioni, Beauty Davis, di 25 anni, sua ex dipendente che chiedeva di essere pagata per il lavoro svolto.
"L'ex dipendente - è detto nella nota - si era portata all'interno dei locali, sedendosi al centro sala, da diverse ore e nonostante già regolarmente remunerata a mezzo bonifico, impediva, in buona sostanza il regolare svolgimento dei servizi di balneazione e ristorazione, e con ingiustificata fermezza reiterava, urlando, la infondata pretesa di pagamento in verità già assolta. Ci si vedeva costretti ad allertare il 112 che tuttavia ritardava per altre ragioni di servizio.
Nel tentativo di spostarle la sedia ci si accorgeva che la stessa (Beauty ndr), nel chiaro tentativo di precostituirsi una prova, con l'utilizzo del telefono cellulare stava videoregistrando l'episodio e, nella concitazione del momento e sfiancato dai rifiuti dell'ex dipendente ad allontanarsi dai locali, il Pirroncello sollecitava l'ex dipendente ad interrompere le riprese con il telefono, che finiva in terra. Ne scaturiva un'aggressione della ragazza nei confronti del titolare del locale".
Per i legati del ristoratore, "la vicenda mediatica, con argomentazioni evidentemente distorte, rispetto alle quali ci si riserva di agire nelle opportune sedi, ha devastato il titolare, che oltre all'evidente danno economico è stato raggiunto da insulti e minacce per le quali si è reso necessario sporgere querela". "Si respingono inoltre con fermezza - affermano ancora i legali di Pirroncello - le accuse di razzismo rivolte al titolare, conosciuto da tutti ed indistintamente come persona perbene e rispettosa del prossimo e che ha alle proprie dipendenze cittadini italiani ed extracomunitari".
Beauty Davis, il ristoratore: "Non pagata? Ecco la verità". Libero Quotidiano il 04 agosto 2022.
Qualcosa non torna nella storia di Beauty Davis, la 25enne nigeriana che ha raccontato di essere stata aggredita dal suo datore di lavoro quando ha chiesto di essere pagata. Il video-denuncia della ragazza in poco tempo ha fatto il giro dei social. Ma adesso in questa storia che riguarda da vicino lo stabilimento balneare calabrese Mare Niostrum, prende la parola proprio il datore di lavoro della ragazza che racconta una versione dei fatti opposta attraverso i suoi legali: "Il titolare del lido Mare Nostrum, affranto e dispiaciuto dell'accaduto, intende respingere con fermezza le ignobili accuse rivolte nei suoi confronti; pur dando atto della reciproca animosità dell'episodio ripreso dalla ex dipendente, deve darsi parimenti contezza di quanto effettivamente accaduto prima delle riprese", spiegano gli avvocati Gianni Russano e Salvatore Giunone che difendono il titolare dello stabilimento, Nicola Pirroncello.
Poi il racconto si fa più dettagliato e il ristoratore afferma di aver pagato regolarmente la ragazza: "L'ex dipendente - è detto nella nota - si era portata all'interno dei locali, sedendosi al centro sala, da diverse ore e nonostante già regolarmente remunerata a mezzo bonifico, impediva, in buona sostanza il regolare svolgimento dei servizi di balneazione e ristorazione, e con ingiustificata fermezza reiterava, urlando, la infondata pretesa di pagamento in verità già assolta. Ci si vedeva costretti ad allertare il 112 che tuttavia ritardava per altre ragioni di servizio. Nel tentativo di spostarle la sedia ci si accorgeva che la stessa (Beauty ndr), nel chiaro tentativo di precostitursi una prova, con l'utilizzo del telefono cellulare stava videoregistrando l'episodio e, nella concitazione del momento e sfiancato dai rifiuti dell'ex dipendente ad allontanarsi dai locali, il Pirroncello sollecitava l'ex dipendente ad interrompere le riprese con il telefono, che finiva in terra. Ne scaturiva un'aggressione della ragazza nei confronti del titolare del locale", affermano sempre i legali in una nota.
Infine aggiungono: "Si respingono inoltre con fermezza - affermano ancora i legali di Pirroncello - le accuse di razzismo rivolte al titolare, conosciuto da tutti ed indistintamente come persona perbene e rispettosa del prossimo e che ha alle proprie dipendenze cittadini italiani ed extracomunitari".
Da ANSA il 4 agosto 2022.
E' una vera e propria gara di solidarietà con offerte di lavoro e di sostegno quella che è partita nei confronti di Beauty, la giovane donna di origini nigeriane, madre di una bambina, dopo l'aggressione subita per avere chiesto il pagamento delle spettanze dovute per il lavoro di lavapiatti in un lido-ristorante di Soverato, in Calabria. A sottolinearlo è l'avvocato Filomena Pedullà, legale della ragazza. "Sono tante e si stanno moltiplicando - aggiunge il legale - le offerte di occupazione pervenute per mio tramite a Beauty a distanza di poche ore dalla diffusione della notizia. Un coro di disponibilità, anche immediate, provenienti non solo da questa zona ma anche dal resto della Calabria". Da cinque anni in Italia, Beauty, con la propria bambina, vive in un comune del litorale ionico catanzarese non distante da Soverato.
Da ANSA il 4 agosto 2022.
Lesioni personali, furto e minacce: sono concentrate su queste ipotesi di reato, al momento, le indagini avviate dai carabinieri a seguito dell'aggressione subita da Beauty, la venticinquenne di origini nigeriane, madre di una figlia di 4, aggredita a Soverato dal datore di lavoro, Nicola Pirroncello, di 53 anni, titolare di un lido-ristorante, al quale aveva chiesto il pagamento per le ore di lavoro svolte. A darne notizia è il legale della ragazza, Filomena Pedullà.
"Sono in corso delle valutazioni contabili - ha aggiunto l'avvocato Pedullà -. Gli inquirenti stanno vagliando i dati relativi al contratto e dell'accordo verbale tra le due parti. Alla ragazza è stato inviato un bonifico di 200 euro quando era stato pattuito un compenso di 600 euro". Alla base della protesta della donna e della successiva aggressione c'è stato proprio il mancato pagamento della somma rimanente.
A seguito della reazione del datore di lavoro davanti alla richiesta di pagare quanto pattuito, Beauty, precisa il legale a seguito di quanto accaduto, "ha riportato una lesione alla mano, testimoniata da un'unghia sanguinante, contusioni alla spalla e strappo del cuoio capelluto".
Grazia Longo per “La Stampa” il 4 agosto 2022.
Il video, diventato virale in poche ore, è drammaticamente eloquente. Una giovane nigeriana, martedì pomeriggio, chiede il suo giusto compenso per il lavoro di lavapiatti, e il titolare del ristorante Lido Mare Nostrum di Soverato (in provincia di Catanzaro) la ricopre di botte, insulti e bestemmie.
È stata proprio Beauty David, ventiquattro anni, mamma di una bimba di 4 anni, a riprendere la scena con il suo telefonino. Dopo una settimana trascorsa a lavorare per Nicola Pirroncello, 53 anni, in condizioni di totale mancanza di rispetto, subendo una lunga serie di umiliazioni e vessazioni, sospettava una reazione non proprio serena del suo datore di lavoro.
E ha quindi deciso di filmare la richiesta del pagamento di tutte le ore. Oltre all’orario pattuito nel regolare statino, la ragazza aveva infatti lavorato molto di più e quindi esigeva giustamente il giusto stipendio.
Ma Pirroncello ha subito reagito male, anzi malissimo. Forte del fatto che una parte del servizio prestato da Beauty David era stato regolarmente registrato le ha intimato: «Non ti preoccupare, ci sono gli avvocati e adesso arrivano i carabinieri, qui è casa mia», e poi le ha riversato addosso una scarica di schiaffi, pugni e parolacce.
Ha anche cercato di strapparle il cellulare di mano per evitare di essere ripreso in quell’atteggiamento violento e aggressivo. Lei, nonostante le botte, continuava a chiedere «Dove sono i miei soldi?», poi le immagini diventano sfocate, è tutta una confusione con l’uomo che cerca di afferrare il cellulare.
La ragazza è subito andata a segnalare l’accaduto ai carabinieri dopo di che si è fatta curare al Pronto soccorso per le escoriazioni subite e la mano sinistra ferita per il parziale distacco di un’unghia. Dal canto suo anche Nicola Pirroncello ha allertato i carabinieri, raccontando loro di aver avuto un litigio con una dipendente che avrebbe preteso più soldi rispetto a quelli stabiliti dallo statino paga.
Gli accertamenti dell’Arma proseguono per ricostruire interamente la vicenda, ma intanto c’è quel video che invoca giustizia. Non a caso la vicenda è stata divulgata e rilanciata sui social dal gruppo «Il pagamento? Poi vediamo-Osservatorio sullo sfruttamento in Calabria», e ha provocato una marea di reazioni sia da parte del mondo politico sia di quello sindacale. Il sindaco di Soverato, Daniele Vacca, dichiara di prendere «categoricamente le distanze da questo grave episodio di violenza. Ci riserviamo, in caso di processo, di costituirci parte civile per tutelare l’immagine della nostra città simbolo dell’accoglienza».
Bipartisan le critiche da tutti i partiti, sia di destra sia di sinistra. «Solidarietà e vicinanza a Beauty» viene espressa dalla senatrice Valeria Valente (Pd), presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, che aggiunge come «la giovane nigeriana ha saputo trasformare condizioni di vulnerabilità multiple, l’essere donna, nera, lavoratrice precaria, madre single, straniera, nel coraggio di raccontare pubblicamente la brutale aggressione subita».
La deputata di Fratelli d’Italia Wanda Ferro afferma: «La violenza ai danni della ragazza nigeriana è intollerabile, così come non sono accettabili le condizioni di sfruttamento a cui si trovano costretti molti lavoratori stagionali».
La segretaria regionale Uil Tucs Caterina Fulciniti stigmatizza «l’accaduto che evidenzia la mancanza di cultura etica e del lavoro da parte dell’imprenditore. Peccato che la giovane, forse perché straniera, non sapesse che i sindacati possono aiutare anche a livello preventivo per la tutela dei diritti».
La Filcams Cgil Calabria incalza: «È un fatto indecente: la Calabria ed il turismo non decolleranno mai se la sua economia continuerà ad essere fondata sul lavoro nero, su imprenditori casalinghi che non pagano le tasse e non rispettano i contratti di lavoro». Anche la Fipe-Confcommercio, Federazione italiana dei pubblici esercizi, annuncia che «se le indagini confermassero quanto emerso ci costituiremo parte civile contro il gestore dello stabilimento». Il governatore della Calabria Roberto Occhiuto conclude: «Il lavoro, che non deve in alcun modo somigliare alla schiavitù, si paga sempre». Si è fatto sentire anche il leader della Lega, Matteo Salvini: «Non conosco la vicenda. Ma se uno aggredisce un’altra persona è un delinquente. Punto».
Lavoro, giovani in fuga: «Non cerco più un’azienda, mi vogliono a X Factor». Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022
In ufficio con Camilla, collocatrice a Modena: «Artigiani introvabili». Aste al rialzo sugli stipendi
Camilla Rocca, responsabile ricerca e selezione del personale della Confederazione nazionale artigiani della provincia
Camilla Rocca ha iniziato a sospettare che stesse accadendo qualcosa quando ha visto i curriculum di certe candidate: titolo di studi, data di nascita, residenza, poi il peso e l’altezza. A volte anche il profilo di Instagram. Per contratti impiegatizi o d’apprendistato in piccole imprese artigiane della dinamica, prospera, ordinata e magari anche lievemente perbenista provincia di Modena.
Ma non era sfrontatezza, erano altre generazioni. «Una ragazza si era candidata come amministrativa, età sui ventidue. Avevo un’offerta e l’ho chiamata. Mi ha detto: “La fermo subito, ho passato le selezioni di X Factor”» racconta Rocca, che di mestiere fa la collocatrice. Detto più propriamente, è responsabile di ricerca e selezione del personale della Confederazione nazionale artigiani della provincia. Un’arte da psicologi, di cucitura quotidiana fra il tessuto delle imprese che continua a crescere e il tessuto della manodopera, che continua a decrescere e comunque a cambiare profondamente.
«Ci sono ordini che non riesco a chiudere per mancanza di candidati. Nessuno è adatto. Gli idraulici o i tornitori poi valgono oro, se solo si trovassero». Se dunque le giornate della collocatrice sono diventate dure, non è per nessuna delle ragioni di una certa letteratura (peraltro corretta) sui giovani sfruttati e il lavoro regolare e tutelato che non si trova più. Perché ad essere introvabili — malgrado il Covid, lo choc dell’energia e la guerra, o forse in parte a causa di tutto questo — sono i lavoratori. Soprattutto, ma non solo, i più giovani. Non vogliono lasciarsi mettere il sale sulla coda, non vogliono sentirsi sposati con una tipica piccola azienda familiare del Centro Nord, di quelle che fanno il nerbo d’Italia da tre generazioni e cercano nuovi addetti da formare per i prossimi trent’anni.
«Sono un mercenario»
«Un ragazzo del ‘97 si è candidato per un posto di amministrativo-contabile — racconta Camilla Rocca — ma pretendeva il part-time per fare volontariato. Un altro, metalmeccanico, voleva flessibilità oraria per gestire il suo e-commerce. Ma qui le imprese dei dipendenti a metà non sanno che farsene». Se dunque la giornata della collocatrice a Modena è complicata e a volte frustrante, è almeno per due ragioni. La prima è che proprio non si trovano i lavoratori, perché ci sono più imprese che cercano gente da mettere al tornio, in cantiere o anche in ufficio che persone disposte a farsi assumere a costi sostenibili. Iniziano così le aste al rialzo. Un verniciatore di auto d’epoca — mestiere molto serio nella Motor Valley emiliana — arriva a 2.750 euro netti al mese. Un neodiplomato può esordire così, nei colloqui con la collocatrice: «Sotto i 1.500 euro netti non mi muovo da casa». E un idraulico così: «Le dico subito che sono un mercenario». A entrambi Camilla Rocca ha detto che avrebbe fatto sapere, poi li ha depennati.
Gli apprendisti mollano
Ma in fondo anche risposte del genere portano al secondo problema, che non è solo di Modena perché ne va di gran parte del tessuto produttivo italiano: i giovani non stanno più al gioco, non sono pronti a calarsi in un modello di azienda, relazioni di lavoro e carriera disegnato da altri senza di loro. Lavorare per la piccola impresa meccanica, o di ceramica o di mobili non lo trovano più sexy. Paola Vezzelli gestisce l’attività di falegnameria e arredamenti fondata dal padre nel ‘55 a San Cesario sul Panaro e mette le mani avanti: «Se non trovo un apprendista adesso, tra cinque o sei anni vado in pensione e liquido l’azienda». Vezzelli ha sette dipendenti, sei squadre di montaggio esterno e un notevole showroom di mobili fatti a mano e su misura. Artigianato puro, alto livello. Offre 25 mila euro lordi l’anno per contratti di apprendistato triennali e ha già fatto diversi buchi nell’acqua. «Uno è venuto per un po’, poi all’improvviso è andato via con la motivazione che si fa troppa fatica: ora è metalmeccanico. Un altro già al secondo giorno non si è presentato, spiegando che un ginocchio gonfio lo obbligava a lasciare». A quel punto era giugno e Vezzelli ha chiesto a tutti gli istituti professionali della zona — province di Modena e Bologna — se c’erano studenti che acconsentissero a condividere l’indirizzo email. Ha scritto a 233 ragazzi, ha avuto 25 risposte e due soli consensi a presentarsi a un colloquio. «Non sono irritata, sono delusa. Non capisco perché non colgano l’opportunità di imparare un mestiere», dice.
Chi studia...
Ma non si può liquidare tutto solo con la futilità di X Factor o la pancia piena e lo smartphone carico che incatenano il diplomato medio al divano di casa dei suoi. Perché in Italia c’è anche una questione di numeri, incrociata a una culturale. In primo luogo i giovani oggi sono semplicemente troppo pochi. Quelli fra i venti e i trenta per ogni anno di nascita sono poco più di mezzo milione: la metà dei baby boomer che ora vorrebbero attirarlo nelle loro imprese. Di quei giovani quasi un terzo — il doppio di una generazione fa — prosegue negli studi perché aspira a una laurea e diventa troppo qualificato per inserirsi nelle piccole e medie imprese che restano la spina dorsale del Paese.
...e chi emigra
In più da una decina di anni se ne vanno all’estero almeno in 120 mila all’anno. Resta dunque una base demografica minima da cui le aziende artigiane possono attingere e, appunto, il problema è anche culturale: i ragazzi decidono di fare l’università o partire all’estero — o entrambe le cose — perché non si identificano più con quel modello produttivo familiare, ostinato, creativo e di provincia. Per loro non è cool, non ha brand — non ha volto — e non promette crescita. Non è un caso se dall’Italia si tende a emigrar di più dalle province più ricche e a più alta occupazione, in proporzione: più da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività come Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento. Fra le prime venti province per incidenza di abbandono del Paese, solo tre hanno meno occupati della media. Le altre di più, spesso molti di più: accade per esempio a Treviso, Pordenone o Bolzano. Questa gente non va via, al ritmo di almeno diecimila al mese anche nel 2022, perché non trova lavoro. Dev’esserci altro: una crisi sentimentale fra i giovani e le imprese italiane.
«Il ricambio non c’è»
Non è un problema da poco, perché per queste ultime rischia di mancare la prossima generazione. «Il mio timore è che gli anni passano, i dipendenti invecchiano e tra dieci o quindici anni avremo un bel buco», ammette Mirco Forlani, 48 anni, responsabile dell’ufficio tecnico di Idrotecnica, un’azienda di Savignano sul Panaro che occupa 60 persone e fa sistemi idraulici e di refrigerazione per il locale distretto della carne. «La mancanza di personale è uno stress — dice — è come far funzionare un motore fuori giri». In giugno Idrotecnica ha investito 800 euro in due settimane di pubblicità in una radio locale («Vuoi imparare un mestiere? Vi paghiamo noi per insegnarvi»). «Ha risposto uno solo, era un cuoco, non giovanissimo. Non l’abbiamo preso in considerazione», fa la capa del personale Erica Bertoloni. L’Italia ha due milioni di disoccupati e il tasso di occupazione più basso d’Europa assieme alla Grecia. Ma alla Cna Camilla Rocca, la collocatrice, ha sviluppato le sue tecniche per sbarcare la giornata: «Guardo i siti di offerta di lavoratori come InfoJobs, giro sulle piattaforme online come LinkedIn, faccio screening per chiamare le persone prima che trovino altro — fa —. Ma i nomi sono sempre gli stessi».
Angelo Allegri per “il Giornale” il 17 agosto 2022.
In un rapporto di lavoro non è detto che si debba lavorare. O meglio, lavorare bisogna, ma solo se l'azienda provvede a farlo sapere a tutti e in maniera ben visibile. In pratica ai dipendenti, tramite esposizione di un apposito regolamento, è necessario ricordare nella maniera più chiara possibile quanto segue: siamo qui per lavorare e chi non lavora avrà dei problemi. Che possono consistere in provvedimenti disciplinari nei casi meno gravi, e in quelli più estremi, perfino nel licenziamento.
Se l'azienda si dimentica di avvisare i dipendenti, non si lamenti poi della loro scarsa produttività. Per chi ha una certa età, quanto raccontato fin qui riporta alla mente deliziose tranche de vie degli anni Settanta del secolo scorso, quando la vita di molte grandi aziende italiane assumeva tratti a volte perfino surreali. Invece si tratta di una sentenza della Corte di Cassazione pubblicata pochi giorni fa e resa nota dal sito del Sole 24 Ore.
Con la decisione viene annullato il licenziamento di un dipendente (tutto è avvenuto nel 2013, con buona pace dei proclami sullo «snellimento» dei tempi della giustizia civile) che da anni aveva una produttività inferiore al 50% di quella dei suoi colleghi.
Nel corso del tempo, per la «voluta lentezza nel svolgere la mansione affidata» aveva ricevuto sei sanzioni disciplinari diverse, fino alla punizione più grave, quella, appunto dell'allontanamento. Non influisce, dicono i giudici, che il lavoratore fosse invalido al 50%: il compito ricevuto era del tutto compatibile con le sue condizioni. Stringi stringi il problema era uno solo: nessuno l'aveva avvisato della necessità di lavorare.
Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 19 agosto 2022.
Contrordine: ritirate l'espressione "Great Resignation" e abbracciate il "Quiet Quitting". Che poi in sostanza significa sempre mettere la vita davanti al lavoro, senza però rinunciare allo stipendio, ma facendo solo il minimo indispensabile per conservarlo.
È la nuova tendenza che sta emergendo ovunque, soprattutto fra i giovani millennial e quelli della Generation Z, e accomuna anche le grandi superpotenze rivali del futuro, come Usa e Cina, dove si chiama "mo yu", ossia la filosofia di "toccare i pesci".
Tutto è partito dal Covid, che da una parte ci ha messi davanti alla realtà della vita, breve e fragile, e dall'altra ci ha obbligati a sperimentare le meraviglie dello smart working. All'inizio ciò ha spinto milioni di persone verso la "Great Resignation", ossia le dimissioni di massa, perché il pericolo immanente di morire ha spinto tutti a rivedere le priorità, e magari dedicare più tempo alle cose che ci piace davvero fare.
Col passare dei mesi però questo concetto si è evoluto, andando oltre l'emergenza dell'epidemia, e saldandosi con modi di pensare e tendenze di lungo termine. I giovani in particolare non vedono più l'utilità di mettere il lavoro e la carriera davanti a tutto il resto, per almeno due motivi: primo, impegnarsi così tanto non paga più, e passare intere giornate davanti al computer o seduti in ufficio raramente corrisponde poi agli avanzamenti di carriera e di stipendio sognati; secondo, anche se così fosse, non è detto che ne valga la pena.
Quindi è meglio tirare il freno e rinunciare alle ambizioni più complicate, facendo il meno possibile sul lavoro, senza però spingersi fino al punto di perderlo, perché poi senza soldi il cane si morde la coda e diventa difficile realizzare i veri desideri.
La Gallup ha realizzato uno studio intitolato "State of the global workplace 2022 Report", da cui risulta che solo il 21% dei dipendenti è davvero coinvolto nelle proprie mansioni, e solo il 33% si considera in una condizione di crescita e benessere. Il 44% si sente stressato, record di sempre, e la maggioranza non ritiene che la sua occupazione abbia davvero uno scopo o un significato profondo. In Paesi come la Gran Bretagna la situazione è drammatica, al punto che solo il 9% dei lavoratori si considera "engaged" o entusiasta.
Negli Stati Uniti va un po' meglio, cioè il 31%, ma Gen Z e millennial sono particolarmente sfiduciati, e queste non sono percentuali su cui è possibile costruire la prosperità futura di una superpotenza. Il fenomeno però è globale, e neppure i rivali cinesi si salvano. Anzi, secondo un'inchiesta pubblicata da Quartz, i giovani della Repubblica popolare pensano di aver definitivamente perso il treno e la possibilità di salire sulla scala sociale come i loro genitori.
Lavorare duro non porta più al successo, come predicava il fondatore di Alibaba Jack Ma, perché il Paese ha già raggiunto il picco demografico, la manodopera a basso costo non è più così importante, e i modelli dello sviluppo globale stanno già cambiando verso una direzione che non favorisce più Pechino. Perciò, invece di sprecare tutte le energie per una fatica sostanzialmente inutile, i giovani cinesi preferiscono "toccare i pesci".
Arrivano al lavoro il più tardi possibile, prendono lunghe pause pranzo, staccano appena il contratto glielo consente, e magari sfruttano lo smart working per fingere di essere occupati, quando in realtà stanno leggendo un libro o schiacciando un pisolino. Magari qualcuno in Italia si chiederà dov' è la novità, visto che noi abbiamo perfezionato tecniche simili da un paio di millenni, ma il punto qui non è solo l'elogio della pigrizia. È un radicale cambio di mentalità, che riguarda anche chi va a fare onestamente il proprio lavoro, senza però sforzarsi più di tanto, perché la vita viene prima.
Lavoro, nei primi sei mesi un saldo positivo di 946 mila contratti. Boom di dimissioni sul 2021. I dati dell'Osservatorio sul precariato dell'Inps: "I flussi del mercato del lavoro hanno completato la ripresa dei livelli pre-pandemici". La Repubblica il 15 Settembre 2022
Quasi un milione di contratti in più nei primi sei mesi di quest'anno. I flussi di assunzioni e licenziamenti sul mercato del lavoro italiano hanno riassorbito lo choc della pandemia, quando un po' tutto si era bloccato per il contraccolpo economico dei lockdown ma anche per i provvedimenti che - dalla cassa integrazione straordinaria al blocco dei licenziamenti - avevano congelato la situazione.
Lo certifica l'Osservatorio dell'Inps sul precariato, nel quale si mette nero su bianco che "nel primo semestre 2022 i flussi nel mercato del lavoro (assunzioni, trasformazioni, cessazioni) hanno completato la ripresa dei livelli pre-pandemici, compromessi nel biennio 2020-2021 dall'emergenza sanitaria con le connesse chiusure e restrizioni, segnalando anzi incrementi rispetto al 2018-2019 sia nelle assunzioni e nelle trasformazioni come pure nelle cessazioni". E nel frattempo si registra anche il boom delle dimissioni, con una crescita di oltre un terzo rispetto all'anno precedente
Quasi un milione di contratti in più
Nei primi sei mesi dell'anno - spiega l'Istituto - i datori di lavoro privati hanno fatto 4.269.179 assunzioni e 3,322.373 cessazioni di contratto di lavoro per un saldo positivo che supera i 946 mila contratti. La variazione dei contratti a tempo indeterminato (assunzioni più trasformazioni meno cessazioni da contratti a tempo indeterminato) è stata positiva per 255.341 unità, di molto superiore a quella registrata nei primi sei mesi del 2021 (erano 113.042). Sono esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli mentre sono incusi i dipendenti degli enti pubblici economici. Nel solo mese di giugno invece il saldo positivo annualizzato (ovvero la differenza tra assunzioni e cessazioni negli ultimi dodici mesi) è di 682 mila contratti, di cui 247mila indeterminati e 436mila di altro tipo (prevalentemente a termine).
Part time in crescita
Se si guarda al dettaglio delle assunzioni, l'aumento del +26% nel semestre sul 2021 "ha interessato tutte le tipologie contrattuali, risultando accentuata sia per i contratti a tempo indeterminato (+36%), sia per le diverse tipologie di contratti a termine (intermittenti +40%, apprendistato +27%, tempo determinato +24%, stagionali +22%, somministrati +17%)". L'Inps nota una cresicta del part time verticale (+22%) mentre risulta in flessione il part time misto (-2%).
Anche le trasformazioni da tempo determinato nel primo semestre 2022 sono cresciute nettamente: 377.000, in aumento rispetto allo stesso periodo del 2021 del 74%. Nello stesso periodo le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo - pari a 61.000 - risultano essere aumentatedell'11% rispetto all'anno precedente.
Il boom delle dimissioni
Nel capitolo delle cessazioni si vede una altrettanto forte risalita: nei primi sei mesi del 2022 sono state 3.322.000, in aumento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente (+36%) per tutte le tipologie contrattuali: contratti stagionali (+64%), contratti intermittenti (+57%), contratti in apprendistato (+34%), contratti a tempo determinato (+33%), contratti a tempo indeterminato e contratti in somministrazione (+31%).
Tra le ragioni di fine del contratto, spicca il boom delle dimissioni. A guardare le tabelle Inps si tratta di oltre 1 milione di casi con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021.
Se si prendono le sole dimissioni da tempi indeterminati si ha un altrettanto importante aumento (+22% e +28% rispetto ai corrispondenti periodi del 2021 e del 2019): "Il livello raggiunto (oltre 600.000 dimissioni nel primo semestre 2022) sottende il completo recupero delle dimissioni mancate del 2020, quando tutto il mercato del lavoro era stato investito dalla riduzione della mobilità connessa alle conseguenze dell'emergenza sanitaria", dice l'Inps.
I licenziamenti
Nello stesso periodo sono raddoppiati i licenziamenti di natura economica (da 135.115 a 266.640). Il confronto con il 2021 risente - avverte l'Osservatorio - del fatto che nei primi sei mesi era ancora in vigore il blocco dei licenziamenti per fare fronte alla crisi economica scatenata dalla pandemia.
«Sono laureata ma servirò i panini»: a Monopoli e Fasano caccia a un posto nei nuovi Mc Donald’s. Tutti a caccia di un lavoro dal McDonald's. Le aspirazioni dei giovani pugliesi a caccia di un posto di lavoro dal magnate degli hamburger. Alle selezioni per i nuovi fast food a Fasano e Monopoli. Tommaso Vetrugno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2022.
Si sono presentati in 200 per la caccia alle 100 assunzioni previste dalla McDonald’s in occasione dell’apertura dei due nuovi ristoranti a Fasano e Monopoli. Nella centralissima piazza Ciaia i candidati si mostrano raggianti e ben motivati ad inseguire quel posto di lavoro che potrebbe anche rappresentare un futuro stabile. La mansione che ogni assunto svolgerà potrebbe anche essere lontana dalla propria preparazione culturale, ma allo stesso tempo nessuno ne fa un dramma.
«Sono laureando in scienza della formazione - afferma Dorina di Monopoli, in provincia di Bari - e inseguo questo posto perché è molto correlato con la mia università, comodo per gli orari e per una nuova esperienza lavorativa, dove potrò relazionarmi con il pubblico e i clienti». Non pochi sono coloro che inseguono una nuova esperienza lavorativa. «Sono diplomata al liceo delle scienze umane - racconta Sara di Pezze di Greco, in provincia di Brindisi - e sono qui perché questa è un’azienda che mi incuriosisce e mi dà l’idea di un posto dove poter crescere e realizzarmi. In una parte del mio futuro ci potrebbe essere quest’esperienza».
A Napoli anche 1.232 laureati per 500 posti da netturbino. Su ilsole24ore.com il 13 settembre 2022
Il bando per lavorare ad Asìa, l’azienda di igiene urbana del Comune. Tra i candidati, oltre ai laureati, 10.445 hanno un diploma di scuola media superiore, mentre il bando richiede la sola licenza media
C’è chi rinuncia alla toga da avvocato per la tuta da netturbino. Come Maria: «Qualche amico si è sorpreso, ma la mia professione è in crisi e questo concorso per me è abbordabile», spiega a Repubblica Napoli, che dà conto di come siano 1.232 i laureati tra i 26.114 candidati al concorso di Asìa, l’Azienda di igiene urbana del Comune.
Al via le selezioni
Alla Mostra d’Oltremare, sono cominciate le selezioni per 500 posti da operatore ecologico: i partecipanti dovranno sottoporsi a 50 domande a risposta multipla, dai mari che bagnano la Grecia alle canzoni di Ligabue, al codice dell’ambiente. I test si svolgeranno fino al 30, suddivisi su tre turni giornalieri.
Il 10% dei concorrenti ha oltre 50 anni
Tra i candidati, oltre ai laureati, 10.445 hanno un diploma di scuola media superiore, mentre il bando richiede la sola licenza media. Inoltre, oltre il 10 per cento dei concorrenti, vale a dire 2.731 iscritti, ha un’età superiore ai 50 anni (anche se 200 posti su 500 sono riservati ai contratti di apprendistato, quindi ai giovani tra i 18 e i 29 anni).
Le reazioni sui social
Una situazione che fotografa “la fame di lavoro” che c’è in Campania. A centinaia i commenti apparsi sui social dopo la prima giornata di selezione. «Dunque i giovani non sono scansafatiche, cercano un lavoro che sia pagato in maniera dignitosa e non 4 euro l’ora», si legge in un post che in pochi minuti ha avuto centinaia di like e condivisioni. Un posto “appetibile”, quello che offre Asìa, anche perché «è otto casa - si legge in un commento - e non sei costretto a trasferirti altrove, fuori regione, dove con uno stipendio di 1.300 euro devi spenderne 800 per il fitto».
L’altro “concorsone”
C’è poi un altro “concorsone” bandito da Comune e Città metropolitana di Napoli che ha fatto finora numeri record. Sono infatti quasi 120 mila (119.658) le domande presentate per 1.394 posti relativi a vari profili professionali, dalla maestra all’assistente amministrativo, all’agente della polizia locale. Ma si cercano anche agronomi, contabili, informatici, insomma nuovo personale che dovrà anche affrontare le sfide per l’attuazione dei progetti che saranno finanziati con i fondi del Pnrr. Dai dati si evince che il 76 per cento di chi ha presentato domanda è residente nel Comune di Napoli, il 16,2 per cento in altra provincia della Campania e il 7,8 per cento in altra regione italiana o all’estero.
(ANSA il 26 agosto 2022) - Lui è un giovane cuoco vicentino, Yuri Zaupa, e la sua storia sta rimbalzando sui social: per il suo lavoro da gennaio a giugno 2022 è stato pagato 100-200 euro al mese per 80 ore settimanali di lavoro a Cornedo Vicentino.
Quando ha chiesto di essere messo in regola, secondo le sue parole, il titolare gli avrebbe risposto che "i giovani vanno sfruttati". Ora Yuri, come riporta il Corriere del Veneto dopo aver raccontato l'accaduto in un lungo post su Facebook, è pronto a fare causa.
Nel commentare amaramente il suo caso, non manca di fare cenno alle parole dello chef Alessandro Borghese che aveva lamentato la poca voglia di sacrificio delle nuove promesse dell'alta cucina. "Borghese ci ha visto lungo: i giovani non hanno voglia di lavorare - chiosa ironico il giovane - e, dopo questa esperienza, io sicuramente ne ho persa un po'".
E' lui stesso a raccontare la sua storia. "Nel mese di settembre 2021 comincio la mia nuova esperienza in un locale di recente concezione a Cornedo Vicentino. Propongo la MIA cucina, con il MIO punto di vista sulla cucina Veneta, o più in generale, Mediterranea - scrive sulla sua pagina Fb - . Il mio unico requisito? Essere in regola e avere un contratto che mi permetta di vivere serenamente, per il resto a me basta cucinare".
Per i primi 4 mesi "decido di accettare un contratto ridicolo: 16 ore part-time, nonostante il mio monte ore settimanale si aggirasse intorno alle 80. Stringo i denti: dopotutto ho cominciato la gavetta all'età di 14 anni - prosegue - . Mi faccio prendere dalla novità, il posto mi piace e acconsento, ancora una volta, alle condizioni del titolare: mantenere basse le spese per il personale per i primi 4 mesi e poi alzare le retribuzioni e pensare di offrirmi un contratto a tempo indeterminato".
Poi la scoperta: "naturalmente non è andata così: da gennaio a giugno 2022 vengo pagato 100-200 euro al mese, su mia richiesta ovviamente, poveraccio, 'mica ti spetta la busta paga di diritto'. Da tenere a mente: 80 ore settimanali, cucina gestita solo da me, dalla colazione alla cena". Yuri alla fine deve rinunciare al suo sogno. "La stessa passione che mi ha accecato per 6 mesi senza una busta paga mi ha portato a cercare lavoro altrove - riferisce - .
Immaginate la faccia del titolare quando ho comunicato la mia partenza: tradito, preso per i fondelli, i giovani sono inaffidabili". Il titolare si sarebbe espresso in modo inequivocabile: "i giovani vanno sfruttati, non ho mai preso più di 1200 euro al mese - racconta ancora Yuri - quindi non li prenderai nemmeno te, poco importano le tue capacità".
Estratto dell'articolo di Andrea Bassi per “il Messaggero” il 25 settembre 2022.
La sequenza è più o meno questa. Ci si candida al concorso, si studia, ci si presenta il giorno degli esami e, se va bene, si finisce in una posizione in graduatoria che dà diritto al posto. Fisso in questo caso, perché i concorsi di cui parliamo sono quelli pubblici. Finita questa trafila l'amministrazione che ha messo a bando il posto manda una lettera e indica il giorno in cui bisognerà presentarsi per firmare il contratto di assunzione e prendere servizio. Ebbene, sempre più candidati arrivati al fatidico momento di mettere la sigla in calce all'assunzione a tempo indeterminato nella Pubblica amministrazione, si tirano indietro. Non si presentano.
L'ultimo caso, eclatante, è quello del concorso per gli Ispettori del lavoro dell'Inl. Più di 1.500 posti in tutta Italia. A Roma, ha rilevato la Flp, la Federazione dei lavoratori pubblici, su 52 posti assegnati si sono presentati in 15.
A Milano e Lodi su 76 posti a prendere servizio sono stati solo 33, meno di uno su due. A Torino 9 su 39, a Padova 6 su 17. Persino al Sud, dove il lavoro pubblico ha sempre avuto un bacino ampio di aspiranti, non è andata meglio. A Bari solo 3 dei 16 vincitori del concorso si sono presentati a firmare il contratto. A Napoli 19 su 32.
Quello dell'Ispettorato del lavoro non è un caso isolato. Qualche giorno fa i sindacati, in una nota congiunta, hanno rivelato che all'Inail, l'Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro, solo 304 vincitori, meno della metà dei posti messi a concorso, si sono presentati a prendere servizio. [...]
Il ministero dell'Istruzione aveva bandito un concorso unico per 159 posti. È riuscito ad assumere soltanto 110 persone ...]
Qualche settimana fa un grido di allarme era arrivato dal ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini. Anche lui aveva dovuto prendere atto di un clamoroso flop del concorso per assumere giovani nelle Motorizzazioni civili. [...] C'è sicuramente un tema di retribuzioni. La Pubblica amministrazione ha difficoltà a reperire soprattutto i profili più specializzati [...] «Bassi salari e scarse prospettive di carriera», spiega Marco Carlomagno, segretario generale di Flp, «spingono i laureati a rinunciare a un impiego sicuro nella pubblica amministrazione».
[...] La difficoltà di reperire dipendenti, [...] riguarda soprattutto i profili più specializzati. [...]
Secondo Bruno Giordano, direttore dell'Inl, a pesare è anche «la concomitanza di molti concorsi pubblici. Le graduatorie», spiega, «sono gonfiate da candidati che sono risultati vincitori in più selezioni e questo gli consente di scegliere il posto meglio retribuito e più vicino alla propria residenza». [...]
[...] il 63,9% dei candidati erano residenti nelle regioni del Sud e nelle Isole, il 24,1% nel Centro e solo l'11,5% nel Nord.[...]
Hoara Borselli e la polemica su Twitter: «A 15 anni lavoravo in un bar per un gelato, sacrificio ragazzi». Interviene anche Bonaccini. Valentina Baldisserri su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
Reazioni ironiche ma anche rabbiose sui «sacrifici» evocati dall’opinionista, ex modella ed ex di Walter Zenga. Il presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini: «Se la sua proposta è lavorare gratis, allora siamo messi male».
Toccare l’argomento lavoro sui social, invitare i giovani ai sacrifici, citare le proprie esperienze «a titolo gratuito» , può essere esercizio molto pericoloso. Soprattutto se è un personaggio noto a farlo.
Hoara Borselli (ex modella e attrice, ex fidanzata di Walter Zenga, oggi opinionista nei talk di Mediaset) è finita nel tritacarne social, massacrata dagli utenti di Twitter per aver pubblicato la seguente riflessione: «A 15 anni in estate alcuni giorni lavoravo in un bar mentre i miei amici andavano al mare. Poche ore, dalle 12 alle 16. Finito il turno mi regalavano un gelato e se andava bene delle patatine. Si parte sempre dal basso ragazzi. Sacrificio e “fame”. Credo sia ciò che manca oggi».
A 15 anni in estate alcuni giorni lavoravo in un bar mentre i miei amici andavano al mare. Poche ore, dalle 12 alle 16.
Finito il turno mi regalavano un gelato e se andava bene delle patatine.
Si parte sempre dal basso ragazzi.
Sacrificio e ?fame?.
Credo sia ciò che manca oggi
Centinaia le reazioni. C’è chi ha ironizzato: «Hoara vieni a pulirmi casa ti do una pizzetta», «Gli straordinari venivano pagati a granite?», e chi si è molto arrabbiato: «Il problema non è lei che pagano per dire queste p..., il problema sono i c... che pensano che dica cose giuste».
C’è chi ha rinfacciato a Hoara il passato di fidanzata di Zenga che «di sacrifici non ne ha fatti troppi», chi ha resuscitato i suoi calendari o i film di scarso successo. Scrive Filippo Rossi, barman: «L’Italia è quel fantastico paese, dove la morale sui giovani che “non lavorano” viene fatta da una che può permettersi di stare a scrivere minch... su twitter, perché ha fatto un calendario ed è stata la ex di Zenga. Mentre io a 24 anni faccio due lavori».
Duro l’intervento del presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini: «Un conto è sacrificio e umiltà, che aiutano sempre, ma se la sua proposta è lavorare gratis, solo perché si è giovani, allora siamo proprio messi male. Roba da matti».
Un conto è sacrificio e umiltà, che aiutano sempre, ma se la sua proposta è lavorare gratis, solo perché si è giovani, allora siamo proprio messi male. Roba da matti.
Reazione polemica anche del giornalista Rai Riccardo Cucchi: « Il lavoro si paga, a 15 anni o a 60, per due ore o per otto. La schiavitù è stata abolita. E anche il “pane e acqua”, o se preferisce, “gelato e patatine”».
Attaccata, Hoara Borselli si è vista costretta a intervenire con un secondo tweet: «Scrivere che per divertimento a 15 anni lavoravo in un piccolo bar sulla spiaggia, senza obblighi, impegno, ma solo voglia di imparare qualcosa in cambio di gelati ha sollevato clamore. Ragazzi se è per questo ho fatto pure 2 anni di radio a rimborso spese. Così vi scatenate». Detto, fatto. Borselli è diventata di tendenza su Twitter (cosi come il suo ex Zenga).
Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 25 giugno 2022.
Un lavoro precario, spesso a chiamata, oppure mascherato da tirocinio. Contratti di facciata, che spesso non raccontano tutto delle condizioni e dell'orario di lavoro. Stipendi a volte umilianti, tra i più bassi a livello europeo, non sufficienti a raggiungere una vera autonomia economica. A questo può andare incontro un ragazzo italiano che cerca lavoro nel 2022. Soprattutto se non è laureato o, magari, nemmeno diplomato. Spesso ci si concentra sul tasso di disoccupazione giovanile, che nell'ultimo anno è calato, ma nella fascia 15-34 anni resta sopra il 15%, più alto della media europea.
Nel primo trimestre 2022, dati del ministero del Lavoro, gli under 35 disoccupati o inattivi sono oltre 6 milioni e 800 mila. Oppure si guarda alla platea dei cosiddetti Neet, i ventenni e trentenni che non lavorano, non studiano, non sono inseriti in nessun percorso di formazione: sono più di 2 milioni, il 24% dei ragazzi in quella fascia d'età. Percentuale aumentata durante la pandemia, stabilmente la più elevata dell'Unione europea.
Loro stanno a casa, senza una prospettiva. Ma gli altri, quelli che lavorano, non sempre se la passano meglio. Non deve ingannare il fatto che nel 2021 oltre il 40% dei lavoratori che hanno visto trasformare il proprio contratto di lavoro in un tempo indeterminato aveva un'età compresa tra i 15 e i 34 anni.
Per tutto lo scorso anno, e ancora nel primo trimestre 2022, è stata registrata anche una forte crescita dei lavoratori in somministrazione (reclutati attraverso un'agenzia esterna) e di quelli intermittenti o a chiamata: in entrambe queste categorie più della metà dei contratti riguardano under 35.
Secondo i dati Inps, i lavoratori a chiamata hanno svolto in media 10,1 giornate retribuite al mese. «In realtà spesso sono di più, ma non dichiarate - spiega l'economista Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt - Tanti ragazzi si trovano di fronte a contratti irregolari, con paghe orarie bassissime: accordi ufficialmente da 10 ore a settimana con una retribuzione congrua, più altre 30 o 40 ore pagate in nero, con una quota oraria molto più ridotta».
Non è l'unica modalità di sfruttamento, c'è un'altra eccezione molto italiana rappresentata dai tirocini, che «vengono usati massicciamente, anche grazie ai fondi europei, ma con indennità minime molto basse, da 400-500 euro al mese - sottolinea Seghezzi - sono una forma alternativa di lavoro, dove l'attenzione alla formazione scompare e i giovani vengono inseriti nei turni, trattati come dipendenti a tutti gli effetti». Stipendi da fame Quelli che sono, invece, inquadrati correttamente, spesso hanno una busta paga troppo leggera.
Secondo i dati Eurostat, in Italia lo stipendio medio per la fascia tra i 18 e i 24 anni è di 15.858 euro. In apparenza vicino alla media europea di 16.825, ma la prospettiva cambia se lo confrontiamo con quello di Paesi che hanno un costo della vita simile al nostro. Tra i 18 e i 24 anni si guadagnano in media 23.858 euro in Germania, 19.482 in Francia, 23.778 nei Paesi Bassi e 25.617 in Belgio. Solo in Spagna i giovani hanno un reddito medio inferiore al nostro: 14.085 euro.
La differenza salariale, però, anche dentro i nostri confini, è strettamente legata al livello di istruzione. I laureati trovano più facilmente lavoro e con stipendi più dignitosi. Secondo l'ultimo rapporto Almalaurea, riferito al 2021, la retribuzione mensile netta, a un anno dal titolo di studio è, in media, di 1.340 euro per i laureati di primo livello e di 1.407 euro per i laureati di secondo livello. Con un aumento, rispettivamente, del 9% e del 7% in confronto all'indagine del 2019.
Molto dipende, ovviamente, anche dal tipo di posto lavoro che si riesce a raggiungere. Seguendo una rielaborazione Inapp su dati Istat, tra i mestieri più "giovani" ci sono il tecnico del web, il bagnino, il cameriere e, in generale, tutte le attività legate a servizi ricreativi e culturali. Poi, in ordine di preferenza, barista, steward o hostess, commesso/a nei negozi di vendita al dettaglio, addetto dei call center, operaio per l'installazione di ponteggi, venditore a domicilio. Più in giù, tra i mestieri ricercati, ci sono i cuochi, i cassieri del supermercato, le baby sitter e i corrieri per le consegne.
Molti sono lavori stagionali, quelli di cui ora c'è gran bisogno e per cui spesso non si trovano candidati. Perché sono anche quelli per cui a volte vengono proposti contratti pirata e paghe misere. «In una realtà come la nostra, con tante piccole imprese sparse sul territorio, i controlli da parte dello Stato sono carenti, soprattutto in estate, quando invece dovrebbero essere più incisivi. - conferma Seghezzi - E la riforma dell'Ispettorato del lavoro, invece di rafforzarne le funzioni, le ha indebolite».
Il far west dei salari in Italia: un dipendente su tre non arriva a mille euro al mese. Gloria Riva su L'Espresso il 20 Giugno 2022.
Paghe da fame, contratti pirata e il fenomeno in espansione dei working poor. Il salario minimo di 9 euro l’ora per molti è un miraggio. Ma, anche se venisse introdotto, senza vigilanza cambierebbe poco.
Martina ha 19 anni e pensa all’estate, quando gli esami di maturità saranno finiti: «Andrò a Dublino a imparare l’inglese. Non ripeterò l’errore della scorsa estate».
Martina è di Cesenatico e lo scorso giugno è stata assunta con un contratto di apprendistato in un lussuoso albergo della città. Sulla carta erano 24 ore settimanali alla reception: «In pratica ero occupata otto ore al giorno per sette giorni la settimana. E nessun riconoscimento per l’extra lavoro». La sua reale paga oraria è stata di due euro l’ora lordi, hanno calcolato i sindacalisti della Cgil a cui la giovane si è successivamente rivolta. «Situazioni come questa sono all’ordine del giorno, stagione estiva dopo stagione estiva», racconta Paolo Montalti, segretario generale della Filcams Cgil dell’Emilia Romagna, che continua: «Nel lavoro stagionale e nei pubblici esercizi, come la ristorazione, è un far west. Quasi mai viene rispettato il contratto del settore, che prevede un impegno di 38 ore a settimana. Nella realtà la media è di 70 ore a settimana, gli “extra” sono retribuiti fuori busta, a nero. In altri casi, il datore offre contratti pirata e abbiamo stimato che la media retributiva è di 3,5 euro l’ora, per un impegno di dieci ore al giorno, sette giorni su sette. Questo è ciò che offre il settore del turismo in Italia».
E non succede solo in Riviera. In base ai dati recentemente pubblicati dal “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia”, istituito dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, nell’industria del turismo il 65,5 per cento di chi lavora in alberghi e ristoranti percepisce una busta paga al di sotto della soglia di povertà, peggio di quanto succede nell’agricoltura, dove i lavoratori poveri sono il 30 per cento, o nelle costruzioni, in cui i worker poor sono il 31,7 per cento.
Sarà forse per colpa di queste buste paga da fame che gli imprenditori del turismo non trovano personale? «Le stesse associazioni datoriali hanno chiesto di sedersi a un tavolo per discutere un nuovo modello di sviluppo, forse si sono rese conto che non è più possibile campare dello sfruttamento della manodopera», auspica Fausto Sestini sindacalista Cgil di Cesena.
Negli scorsi giorni l’accordo sulla direttiva europea per un equo salario minimo è stato accolto dall’opinione pubblica italiana e da una certa politica - M5S in testa - come la soluzione alle ingiustizie del mercato del lavoro. In effetti, in Italia quasi un terzo dei lavoratori dipendenti del privato ha una retribuzione bassa, cioè guadagna meno del sessanta per cento del salario mediano italiano, che si aggira attorno ai mille euro. Si calcola che, per l’Italia, il salario minimo non dovrebbe scendere sotto i nove euro orari, mentre oggi – stima il “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia” - si trova in questa situazione il 29,7 per cento dei lavoratori dipendenti italiani.
Basterà una legge che vieta di pagare un lavoratore meno di nove euro l’ora per risolvere il problema? «No», risponde Michele Raitano, professore di Politica Economica alla Sapienza di Roma e membro del gruppo di lavoro, che argomenta: «Nel dibattito pubblico la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti, quando, in realtà, è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda soprattutto i tempi di lavoro. Significa che abitualmente si lavora per troppo poche ore, celando forme di part-time involontario, lavoro grigio e sfruttamento», racconta l’economista, che aggiunge: «Il merito del salario minimo è aver acceso un dibattito sulla povertà degli stipendi».
Il governo, anche alla luce della direttiva europea e delle evidenze emerse dalla commissione istituita da Orlando, nei prossimi giorni sarà chiamato a decidere se istituire un salario minimo o puntare su altre soluzioni, per esempio puntellare la contrattazione collettiva nazionale con una legge sulla rappresentanza sindacale per ridare dignità al lavoro. Se si scegliesse di risolvere il problema semplicemente istituendo il salario minimo, così come chiede l’ex ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, l’effetto potrebbe essere controproducente: «Per com’è strutturato il mercato del lavoro, rischiamo di ritrovarci con un’esplosione del finto lavoro autonomo, così da aggirare la normativa», fa notare Raitano. Mentre non c’è evidenza che l’istituzione del salario possa indurre a un indebolimento dei salari più elevati: «Nei Paesi in cui è già stato istituito il reddito minimo non si è verificata alcuna contrazione degli stipendi medio alti o regolamentati da un contratto collettivo», spiega Raitano.
I dati dell’osservatorio, oltre a raccontare la stretta correlazione fra povertà lavorativa e basso numero di ore lavorate, dicono che esistono settori in cui c’è maggior rischio, come l’alberghiero e la ristorazione, «sui quali sarebbe utile insistere con maggiori controlli mirati», dice Elena Granaglia, docente di Scienza delle Finanze all’università di Roma Tre e membro del Forum disuguaglianze e diversità, che aggiunge: «Eppure il salario minimo potrebbe essere un buon punto di partenza. Ad esempio, con adeguati controlli, retribuzioni quali quelle di Martina a Cesenatico, dei tanti lavoratori con contratto multiservizi o con contratti pirata non potrebbero più essere erogate, con effetti positivi anche nel tempo. Perché il problema dei bassi salari non è un fenomeno relativo all’ingresso nel mondo del lavoro, ma persiste negli anni e ha effetti negativi sulla vita lavorativa e delle pensioni».
Come fa notare un ispettore del lavoro a L’Espresso: «L’istituzione del salario minimo consente agli ispettori che evidenziano situazioni di lavoro grigio o nero di agire più facilmente per far ottenere al lavoratore quanto gli spetta. E gli stessi giudici avranno un parametro cui attenersi. Servirà anche per circoscrivere situazioni riconducibili al caporalato».
Però, da solo, il salario minimo non è sufficiente per risolvere tutti i problemi del lavoro che in gran parte derivano dalla scarsa produttività delle imprese. «Oltre al reddito minimo servono una politica industriale, una governance democratica delle imprese, un investimento profondo nell’istruzione dei giovani», spiega Granaglia, che lancia anche un’idea più radicale: «Resta aperto il problema dell’iniquità delle distribuzioni dei redditi da lavoro. Andrebbe preso in considerazione il pensiero del filosofo belga Philippe Van Parijs, secondo cui sarebbe giusto assegnare a tutti, lavoratori e non, ricchi e poveri, un reddito di base, partendo dal presupposto che spesso il valore aggiunto assegnato a un singolo lavoratore deriva da risorse comuni, ereditate e prodotte dalla cooperazione sociale, rispetto alle quali tutti abbiamo un titolo valido».
La direttiva europea non impone di istituire un salario minimo, piuttosto invita a promuovere retribuzioni adeguate all’interno dell’Unione Europea per ridurre il fenomeno del lavoro povero, cresciuto a dismisura negli ultimi vent’anni, soprattutto in Italia, dove si è passati da 9,4 lavoratori coinvolti su cento nel 2006 a 12,3 dipendenti. Per arginare le disuguaglianze salariali e tutelare le imprese dalla concorrenza sleale derivante dai bassi salari, secondo Bruxelles bisogna anche colmare i divari di genere, migliorare l’equità del mercato del lavoro e aumentare la produttività, grazie all’investimento sulle persone.
Fonti vicine al ministero del Lavoro raccontano che il ministro Orlando intende tralasciare l’entità economica del salario minimo, ovvero evitare di istituire il confine dei nove euro, ma affermare che non sarà possibile stipulare contratti al di sotto del minimo salariale previsto dagli accordi di categoria stipulati tra le parti sociali, ovvero i sindacati e i datori di lavoro. Questo vorrebbe dire ributtare la palla in calcio d’angolo, perché in Italia resta aperta la questione su quali siano i sindacati e le associazioni d’impresa più rappresentativi e quindi i contratti di riferimento. Infatti l’indisponibilità di alcune sigle sindacali e datoriali di contarsi, e quindi di mettere nero su bianco quanto siano effettivamente forti al tavolo contrattuale, impedisce di arrivare a una soluzione della questione.
Il risultato è che in Italia il mercato del lavoro è regolamentato da oltre mille contratti, di cui è pur vero che solo trecento vengono applicati, ma nulla impedisce la nascita di sindacati gialli o di contrattazioni improprie. L’esempio più eclatante è l’accordo che Ugl ha firmato con le piattaforme del delivery food, praticamente ratificando il fatto che i rider dovrebbero essere dei lavoratori autonomi. Un accordo che Cgil, Cisl e Uil stanno tentando di smontare anche per via legale, essendo stato firmato da attori parzialmente rappresentativi del settore. Anche se si riuscisse nell’intento, l’assenza di una normativa sulla rappresentanza sindacale presuppone che altri contratti pirata possano essere replicati in altri settori.
Fra le indicazioni dell’Osservatorio sul lavoro povero istituito da Orlando una delle soluzioni di facile e veloce applicazione è la vigilanza documentale: «Oltre alla fissazione di un minimo salariale per via contrattuale o legale, è essenziale che questo minimo sia rispettato», racconta Raitano, che illustra l’innovativa proposta dell’Osservatorio: «Al di là della fondamentale attività ispettiva, è cruciale potenziare l’azione di vigilanza documentale, cioè basata sui dati che imprese e lavoratori comunicano alle amministrazioni pubbliche, in particolare all’Inps, costruendo indici di rischio a livello di impresa o settore per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate e, in caso di persistenza nel tempo, studiare strategie di intervento interagendo con le imprese oppure guidando la vigilanza ispettiva». Arricchendo le banche dati disponibili il sistema indicherà in automatico le aree di maggiore fragilità e abuso su cui concentrare l’attività ispettiva.
Flavio Briatore dal Crazy Pizza: «Mai visto un povero creare posti di lavoro, rompono invece di ringraziare». BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022.
L'imprenditore piemontese critica un gruppo di manifestanti che nei giorni scorsi avrebbe protestato davanti al Twiga, il beach club di Forte dei Marmi. «In questo Paese c'è una rabbia sociale enorme»
«Non hanno capito che chi crea ricchezza sono le aziende, gli investimenti, io non ho mai visto un povero creare posti di lavoro. E invece loro sui ricchi...Ricchi cosa vuole dire? Chi investe. Il ricco non è uno che va in barca ai Caraibi. Da ricco investi sempre. Continui sempre. Noi siamo partiti con 10milioni di fatturato, adesso fatturiamo 140 milioni di euro e abbiamo 1500 dipendenti. Invece di ringraziarti, ti rompono anche il c****. C’è una rabbia sociale enorme». Flavio Briatore torna a farsi sentire dopo le polemiche sulla pizza troppo costosa del suo ristorante e gli insulti delle persone per i danni causati dal maltempo al Twiga di Forte dei Marmi, di cui è proprietario assieme alla parlamentare di Fratelli d’Italia Daniela Santanchè.
Proprio davanti al beach club della Versilia nei giorni scorsi, racconta l’imprenditore piemontese, un gruppo di manifestanti ha protestato nei giorni scorsi. Ed è a loro infatti che è rivolto questo messaggio, pubblicato sul suo profilo Instagram e parte di un’intervista ben più lunga realizzata da mediawebchannel.it per i 60 anni dalla nascita della Costa Smeralda, il villaggio luxury nato attraverso nel 1962 per iniziativa del principe Karim Aga Khan IV. «Eppure noi lì diamo lavoro a 180 persone. E sono venuti a rompere il c**** a noi. Io non li ho mica capiti. Poi i nostri dipendenti li abbiamo bloccati altrimenti li menavano. È dovuta intervenire la polizia. Ma perché? Se c’è un’azienda che dà lavoro a 180 persone, paghiamo i contributi, non facciamo nero, ma che vadano a protestare a chi fa fare schiavismo, nero e non pagano le tasse».
Flavio Briatore, "ero povero anche io ma...": la frase con cui spazza via le critiche. Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 10 settembre 2022
Ogni sua dichiarazione innesca una polemica. Era lo scorso maggio quando Flavio Briatore disse: «Chi crea ricchezza sono le aziende, non ho mai visto un povero creare posti di lavoro». Il linguaggio mediatico è partito e noi lo abbiamo raggiunto.
Flavio, il tuo nome è in tendenza ovunque. Cosa pensi di aver detto di così terribile per meritare accuse come quelle che ti stanno rivolgendo?
«Non ho detto nulla di terribile se non la verità. Sono le aziende ad offrire lavoro, sono gli imprenditori come me che investono, che possono offrire la possibilità alle persone di lavorare e guadagnare. Non riconoscere questo significa non riconoscere un dato oggettivo e rimanere ancorati all'idea che chi fa impresa sia il male assoluto e per andare avanti ci si debba aggrappare ai sussidi statali tipo il reddito di cittadinanza».
Ti stanno accusando di criminalizzare i poveri.
«È una follia. Io sono l'esempio di una persona nata povera che lavorando si è costruita la sua ricchezza. Potrei mai criminalizzare i poveri quando io lo sono stato? Il primo a essere criminalizzato sarei io».
Hai dichiarato che da ragazzo in estate raccoglievi le mele e le fragole e che oggi è difficile trovare ragazzi con la fame di lavoro, con spirito di sacrificio. Oggi sembra che cerchino il lavoro sperando di non trovarlo.
«Le mie affermazioni non sono accuse infondate ma il risultato di ciò che capita nelle mie aziende. Quando facciamo colloqui di lavoro le prime cose che i ragazzi chiedono sono se hanno i week end liberi, quali sono i giorni off. Vogliono avere più tempo libero. È cambiata la cultura, manca la motivazione. Credo che in loro oggi ci sia la convinzione di non farcela e quindi pensano che tanto vale stare a casa a far niente ed essere sostenuti dal reddito di cittadinanza».
A te questo reddito proprio non va giù.
«Credo che sia doveroso e sacrosanto aiutare gli inabili al lavoro e chi veramente non possiede altri mezzi di sostentamento. Elargire questo sussidio a ragazzi di età compresa fra i venti e i venticinque anni, in un Paese che vive di turismo, nel periodo compreso fra aprile ed ottobre è una follia. Così facendo mettiamo le imprese del settore in ginocchio e non incentiviamo i ragazzi a lavorare».
Ripeti sempre che l'Italia è un Paese dove è difficile investire. Quali sono secondo te le cause?
«L'Italia è un Paese che non investe nelle imprese, che non agevola le aziende. Tra tasse e burocrazia è veramente una guerra. Possibile non capiscano, i governanti in primis, che se le aziende funzionano si possono pagare gli stipendi, si possono generare posti di lavoro e far crescere l'economia? La soluzione non è data dall'elemosina per sopravvivere. Dobbiamo uscire da questa cultura statalista che fa morire le imprese. E se muoiono le imprese, muore il Paese».
Spesso dici che in Italia c'è troppa invidia sociale. Una dimostrazione a questa tesi l'hai avuta ad agosto quando il terribile uragano che ha colpito la Toscana, ti ha devastato il Twiga, il tuo notissimo stabilimento balneare in Versilia. Invece di ricevere solidarietà, la maggior parte delle persone ha gioito.
«È proprio così. Per un giorno abbiamo fatto felici tante persone. Questo è il modo con cui la gente, divorata dalla sua invidia sociale, il suo rancore, dimostra di non sopportare che a qualcuno le cose possano andare bene. Vorrebbero che andasse male per tutti. Se quell'uragano ce lo avesse distrutto completamente lo stabilimento, sarebbero stati ancora più contenti. Invece grazie ai nostri dipendenti che hanno lavorato trentasei ore no-stop, lo abbiamo rimesso in piedi e la sera dopo lo abbiamo riaperto come se nulla fosse accaduto. Sai cosa è accaduto qualche mese fa sempre al Twiga?».
Dimmi
«Sono arrivati i Cobas a manifestare. Non sai la fatica per tenere a bada i nostri ragazzi che volevano uscire per ribellarsi a quello che stava accadendo. Questo perché non è possibile che un'azienda che funziona, che fa lavorare centotrenta persone, che lascia circa sei milioni di euro sul territorio, venga contestata. Che vadano a contestare le aziende che pagano in nero o che non danno lavoro. Sembra veramente che il mondo giri al contrario».
C'è un grande dibattito sul salario minimo, tu cosa ne pensi?
«Io non capisco quando criticano il salario minimo quando hai un governo che paga dottori, carabinieri e poliziotti 1.200/1.300 euro al mese. Sai un'altra criticità per un imprenditore quale è?».
Quale?
«Il licenziamento. Vorrei avere la libertà di poter licenziare chi non lavora bene. Per un manager, quando licenzi un dipendente è un grosso smacco. Noi imprenditori vogliamo assumere le persone non licenziarle. Il licenziamento è una nostra sconfitta».
Flavio, quando abbiamo iniziato questa chiacchierata mi ha molto colpito una frase che hai detto: "Ciò che dico diventa sempre motivo di polemica perché dico la verità, perché sono una persona libera e posso dire ciò che penso".
«È vero, questo è un Paese dove tutti pensano delle cose ma nessuno le dice. Siamo circondati da persone condizionate che in privato ti dicono una cosa e un minuto dopo le vedi in televisione e dicono l'opposto».
Non c'è coerenza.
«Uno dei motivi per cui questo Paese non va avanti è perché è pieno di persone incoerenti che non sono libere».
Il lavoro c'è, le tasse e lo sfruttamento pure. Il cuneo fiscale e contributivo reale sulle retribuzioni è intorno al 60%, ben superiore al 46% indicato dall'Ocse. LIDIA MARASSI su Il Quotidiano del Sud il 27 giugno 2022.
LA scorsa settimana, in collegamento a Metropolis, Flavio Briatore ha sostenuto la necessità di provvedere ad un giusto compenso per i lavoratori. La discussione si è sviluppata contestualmente ad un’intervista sul tema della difficoltà di reperire personale nel campo della ristorazione. Durante il suo intervento, Briatore ha ribadito fermamente la sua contrarietà al reddito di cittadinanza: “Firmerei per la sua abolizione, anzi lo sospenderei da aprile a ottobre per aiutare il turismo”.
Nel criticare il sussidio introdotto dal governo Conte I, non è la prima volta che l’imprenditore si mostra apertamente dubbioso circa l’effettiva voglia di lavorare dei più giovani. “Molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo […] preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera” aveva già dichiarato in precedenza.
Il tema della mancanza di personale è in effetti un problema serio per il mondo della ristorazione italiana, che è oggi in evidente difficoltà nel campo delle assunzioni, proprio nel momento in cui dal settore arrivano i primi segnali di ripresa. Rispetto al reddito di cittadinanza (misura del resto criticata da diverse voci) da pochi giorni l’INPS ha pubblicato l’Osservatorio su Reddito e Pensione di Cittadinanza con gli ultimi dati aggiornati al 14 giugno 2022; dal documento emerge che, in media, l’importo erogato a livello nazionale per il reddito è di 575 euro e la distribuzione per aree geografiche vede 426mila beneficiari al Nord, 317mila al Centro e 1,5 milioni nell’area Sud e Isole.
Eppure, secondo altri, le criticità del reddito di cittadinanza sarebbero tutto sommato piuttosto marginali rispetto ad un fenomeno sentito anche all’estero. In Spagna, come ha di recente segnalato il quotidiano “El Pais”, gli imprenditori lamentano ad esempio “una presunta mancanza di vocazione nel settore”.
D’altra parte, anche nella penisola iberica, i lavoratori denunciano orari eccessivamente lunghi, turni notturni non pagati, tagli al salario e precarietà generalizzata. Qui in Italia, le affermazioni di Briatore – che non differiscono da quelle di altri imprenditori – si riallacciano all’acceso dibattito circa la direttiva europea sul salario minimo, nell’ipotesi di ottenere una soglia minima di 9 euro lordi l’ora.
Se infatti oggi si sta assistendo ad un aumento della disoccupazione, è altrettanto vero che oltre all’assenza di lavoro bisogna innanzitutto fronteggiare anche la diffusione del lavoro povero, ossia quello in cui la retribuzione percepita non consente di superare la soglia della povertà. Secondo i più, tra le priorità dell’attuale Governo dovrebbe esservi proprio quella di prevedere meccanismi in grado di determinare un salario in grado di garantire un’esistenza dignitosa.
D’altra parte, se assicurare un rientro economico onesto sembra un’urgenza, sarebbe ingeneroso non considerare rilevante anche il problema, sottolineato da molti imprenditori, del costo del lavoro. A fronte di 300 miliardi di salari lordi, mediamente corrisposti ogni anno nel settore privato, sono stimati circa 180 miliardi di euro tra oneri fiscali e retributivi. Oggi, il cuneo fiscale e contributivo reale sulle retribuzioni è intorno al 60%, ben superiore al 46% indicato dall’OCSE, rappresentando forse la principale motivazione per l’ allontanamento dalla legalità di tanti imprenditori.
Come molto spesso accade, la verità spesso sta nel mezzo, anche rispetto alle difficoltà incontrate dal mercato del lavoro italiano; così come alcuni lavoratori potrebbero scegliere di sfruttare il reddito di cittadinanza per avere entrate senza fatica, allo stesso modo parecchi imprenditori potrebbero fare appello alle tasse elevate per giustificare un trattamento irrispettoso dei propri impiegati.
Anche per evitare l’incremento di comportamenti disonesti, secondo molti bisognerebbe intervenire sul mercato del lavoro italiano, introducendo innanzitutto un salario minimo, ma tenendo allo stesso tempo in conto che questa misura potrebbe risultare fallimentare se non fosse accompagnata da una riduzione delle tasse sul lavoro.
Oggi, lavorare contemporaneamente su questi due aspetti potrebbe essere la strada giusta per far sì che da un lato i lavoratori riescano a percepire più soldi in busta paga e dall’altro consentire agli imprenditori di essere in grado di avere meno tasse, motivandoli ad investire più agilmente sulla forza lavoro.
LA RIFLESSIONE. «Mancano lavoratori» siamo sicuri che la colpa sia dei lavoratori? Uno dei tormentoni di questa estate siccitosa è la scoperta del lavoro che c’è ma dei lavoratori che mancano. Sì, è proprio così: scarseggiano le braccia. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Luglio 2022
Uno dei tormentoni di questa estate siccitosa è la scoperta del lavoro che c’è ma dei lavoratori che mancano. Sì, è proprio così: scarseggiano le braccia. La voglia di tornare a viaggiare, a incontrarsi, ad andare in vacanza, complici le fake news che il Covid è finito, ha messo in crisi gli imprenditori del settore estivo. Dalle spiagge senza bagnini ai ristoranti senza cuochi né camerieri, dagli alberghi sguarniti alle compagnie aeree senza hostess né steward è un rosario di richieste senza risposte che attraversa tutto lo Stivale.
Il problema è stato subito affrontato sui social e negli immancabili talk show televisivi, naturalmente con quella logica divisiva e inconcludente tipica di una società che ormai ragiona col codice binario: bianco o nero, buono o cattivo. E così alla fine la questione continua a ingrossare le file di chi sostiene che i lavoratori non ci sono perché le paghe sono basse, più basse degli stessi 600 euro garantiti dal reddito di cittadinanza e chi ritiene invece che i giovani non vogliano sacrificarsi, non vogliano sgobbare in ore e giorni in cui gli altri si divertono.
Una parziale verità alberga in entrambe le posizioni, nel senso che molti imprenditori pagano retribuzioni da fame per 8-10 ore di lavoro che si protrae fino a notte o si svolge in giorni festivi. Ma è vero anche che la società dello spritz non incentiva alla fatica né alla disciplina che qualsiasi lavoro richiede.
L’altro giorno è morto Leonardo Del Vecchio, uno degli imprenditori più ricchi del pianeta e che ha dato benessere a centinaia di migliaia di persone. Del Vecchio era cresciuto in orfanotrofio dopo la morte del padre, pochi studi e da subito al lavoro come garzone. Non conosceva l’inglese, ma chiudeva contratti vantaggiosi con i più grandi gruppi industriali del suo settore. Un genio? Senz’altro, ma anche un uomo che non si era arreso né alle difficoltà della vita né alla logica delle raccomandazioni. Nel suo percorso ci sono molti aspetti che dovrebbero far riflettere.
Cominciamo dai giovani. Ci fu un tempo in cui durante le lunghe vacanze estive i ragazzi non stavano seduti ai tavolini davanti ai bar. Ma avevano un’occupazione che offriva loro due opportunità: imparare qualche mestiere e magari scoprire una vocazione nascosta, misurarsi con il lavoro e con la serietà che esso richiede. Si andava a bottega dal falegname, dalla sarta, dal barbiere, si dava una mano nei campi ai genitori o nelle aziende di famiglia, si serviva ai tavoli di bar e ristoranti. Tutto gratis o per compensi simbolici. Si dirà: sfruttamento minorile e oggi quest’accusa rischierebbe l’artigiano che ci provasse. Certo, qualche caso c’era, ma c’era libertà di mollare e di fare altro. In cambio frequentavi una scuola di vita fatta di esperienza e non di smartphone e c’era la trasmissione di un sapere che difficilmente si sarebbe potuta realizzare in altro modo. Quanti ex garzoni, quanti giovani muratori oggi sono imprenditori e mettono a frutto quello che hanno imparato da ragazzini? Ai nostri giorni molti giovani si arrangiano con le consegne a domicilio (in Italiano delivery): ma non imparano nulla, perché nessun sapere viene trasmesso.
Il dramma della scuola è che non riesce a formare né le competenze per le attività più specializzate ma nemmeno quelle per fare l’artigiano. Ergo un idraulico bisogna prenotarlo come se fosse un volo su Marte e pagarlo come il luminare dei trapianti. Eppure, nonostante la rivoluzione digitale, nelle nostre case tubi, rubinetti e wc è prevedibile che restino per parecchio. Così come resteranno a lungo porte e finestre, mentre i serramentisti – soprattutto se installatori – sono più rari di una vittoria della Nazionale. Qualcuno, cioè uno dei tanti ministri e ministrucoli che si sono succeduti in viale Trastevere, si è mai preoccupato di questo?
E veniamo agli imprenditori, una vasta platea che spazia tra i più vari settori produttivi e quindi anche con esigenze diverse. Ma una è diventata comune: l’assenza di personale, sia qualificato che generico. Tutti scaricano le colpe sul reddito di cittadinanza, della serie sempre meglio che lavorare. In certa misura è vero: il reddito di cittadinanza – escluse le truffe dei soliti disonesti – ha reso evidente che le buste paga italiane sono troppo basse. Ma non vale solo per loro. Le compagnie aeree a basso prezzo (e quindi non il pizzaiolo con due dipendenti) pagano stipendi da fame, con un continuo avvicendamento di personale. Nessuno può avere un progetto di vita facendo la hostess low cost: può andar bene per qualche stagione, fare un po’ d’esperienza e perfezionare l’inglese. Stop. Viene in mente una domanda: ma in caso di emergenza, questi equipaggi di venditori di profumi e biglietti di lotterie, sono in grado di aiutare i passeggeri in difficoltà?
Alla fine la constatazione, amara, è una sola: il cambiamento è benvenuto se è governato. Se invece andiamo al suo rimorchio la battaglia è persa e andremo rincorrendo sempre le emergenze. I nostri politici non sembra l’abbiano capito e preferiscono giocare a fare e disfare alleanze, partiti e governi. Salvo poi discettare sui social e in Tv sui problemi di cui sono i maggiori responsabili. Passerà pure questa estate senz’acqua e senza camerieri.
Non sul divano. Dove sono finiti i camerieri italiani? A fare i cassieri, i commessi e i bidelli. Lidia Baratta su L'Inkiesta il 2 Luglio 2022.
Con l’economista Francesco Armillei, Linkiesta ha analizzato l’evoluzione delle comunicazioni obbligatorie degli stagionali pre e post pandemia. I ristoratori non hanno alzato i salari per attrarre i lavoratori, nonostante lamentassero la carenza di manodopera. Ed è aumentata l’area grigia di quelli senza contratto
Alla “Vecchia Bettola” di Firenze, per trovare un cameriere, il proprietario alla fine ha srotolato in strada uno striscione con fondo bianco e caratteri cubitali blu con su scritto «Cercasi cameriere». E dopo qualche giorno, l’ingegno l’ha premiato.
Nell’estate della doppia crisi, tra guerra e pandemia, camerieri, cuochi, baristi e bagnini in Italia sembrano essere tra le materie prime più rare. Non passa giorno in cui non si senta un ristoratore lamentare la carenza di personale. Non passa giorno in cui non ci sia qualcuno che dica che è tutta colpa del reddito di cittadinanza e dei giovani che non hanno voglia di lavorare. Mentre sull’altro lato della barricata si evocano entusiasti la Great Resignation e la Yolo Economy all’americana, nel segno del «mollo tutto e cambio vita».
Senza nessuno che si chieda però: ma dove sono finiti, davvero, questi camerieri? Le risposte, come sempre, si trovano nei dati.
Con Francesco Armillei, assistente di ricerca alla London School of Economics e socio del think-tank Tortuga, che da mesi analizza le transizioni occupazionali legate all’aumento delle dimissioni volontarie, siamo andati a studiare i numeri delle comunicazioni obbligatorie dei lavoratori stagionali (cuochi e aiuto cuochi, camerieri, baristi e bagnini) dal 2019, quindi prima della pandemia, alla fine del 2021 (ultimo periodo in cui abbiamo i dati).
E quello che viene fuori è che la percentuale di assunzioni degli stagionali da maggio in poi tra 2019 e 2021 resta più o meno la stessa. «Nonostante le tante lamentale, alla fine il numero di assunzioni che vanno in porto non ha risentito dell’anno di pandemia», commenta Armillei. Anche i lavoratori che escono dal mercato del lavoro e non ricompaiono quindi più nelle comunicazioni obbligatorie (tranne un aumento dell’1,8% nell’estate del 2020, quella post lockdown), con la ripresa economica tornano in linea – anzi, leggermente più bassi – del periodo pre pandemia.
La prima evidenza quindi è che no, quelli che prima scorrazzavano tra i tavoli per portarci pizze e fritture di pesce non sono tutti sul divano a fare zapping tra i canali tv godendosi l’aria condizionata pagata col reddito di cittadinanza. Anzi.
La novità è che alcuni di loro, tra la crisi dei ristoranti dovuta al Covid e gli stipendi bassi offerti dai titolari di locali e stabilimenti balneari, alla fine hanno scelto un altro lavoro. Certo, alcuni sono anche andati all’estero, approfittando di restrizioni anti-Covid più leggere e salari più alti.
Ma tra pre e post pandemia è aumentata anche dell’1,5% la fetta di quelli che erano stagionali e che ricompaiono nelle comunicazioni come non stagionali. In pratica, hanno cambiato lavoro, magari scegliendone uno più sicuro o pagato meglio.
Ma che lavoro sono andati a fare? “Seguendo” i percorsi degli ex stagionali, viene fuori che sono andati a fare nella maggior parte dei casi i commessi nei negozi e i cassieri nei supermercati. E soprattutto, con i concorsi pubblici banditi per il personale Ata della scuola, si vede un aumento dei ricollocati come bidelli e altro personale negli istituti scolastici.
Non solo. Alcuni si sono spostati pure nel settore agricolo. Dove, per via delle frontiere chiuse a singhiozzo causa pandemia, si lamentava anche la carenza di manodopera per il mancato arrivo dei braccianti stranieri.
Alla faccia dei giovani che non hanno voglia di lavorare. Perché quando si parla di stagionali, si parla soprattutto di loro. Il 48,75% ha tra i 15 e i 29 anni, oltre il 72% ha meno di 40 anni.
E la cosa che salta all’occhio è che, nonostante i titoloni contro i giovani divanisti, proprietari di bar e ristoranti non hanno certo offerto salari più alti per accaparrarsi i lavoratori come accadeva negli States. La media degli stipendi resta di circa 1.000 euro lordi al mese. Si vede solo una leggera crescita di 50 euro lordi al mese circa tra il 2019 e il 2021. Ma sembra più che altro una crescita generalizzata, sia tra chi questi lavori li fa come stagionale sia tra chi stagionale non è. «Quindi potrebbe essere solo un po’ di inflazione», spiega Francesco Armillei. «In generale, non mi sembra che la categoria degli stagionali abbia beneficiato di particolari aumenti salariali».
Al contrario, si vede invece una crescita da un anno all’altro di camerieri e colleghi assunti senza un contratto collettivo nazionale. Sommando le comunicazioni obbligatorie classificate senza contratto nazionale e quelle con “contratto non presente in elenco”, l’estensione di questa area grigia sale dal 18% al 24% tra il 2019 e il 2021. «Un dato che ci dovrebbe far riflettere anche alla luce del dibattito sull’introduzione di un salario minimo per tutelare chi al momento resta fuori dallo “scudo” dei Ccnl», commenta Armillei. Ne usciremo migliori, si diceva. Tutt’altro.
I ricercatori italiani, precari per sempre. Sono oltre 25mila «e la nuova riforma non cambia nulla». Sono iperqualificati ma senza certezze future. Prima di essere stabilizzati aspettano in media 11 anni, per arrivare a stipendi assai inferiori a quelli dei loro colleghi europei o del settore privato. E i soldi del Pnrr e la legge promettono cambiamenti su cui molti restano scettici. Gloria Riva su L'Espresso l'1 Luglio 2022.
Barbara Tomasello, 44 anni, è ricercatrice al dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Catania. A tempo determinato. «Scado a febbraio 2023». Poi? «Il nulla. Se non dovesse presentarsi un concorso per ricercatore, farò i conti con vent’anni dedicati alla ricerca di cure innovative, che non mi hanno portato a una stabilizzazione». La sua storia è simile a quella di altri 25.297
Lettera al “venerdì Di Repubblica” il 6 luglio 2022.
In questi giorni continuo a leggere che i dipendenti stagionali non si trovano. Io l'anno scorso ho fatto lo stagionale in un parco dei divertimenti in Germania finendo di lavorare il 30 novembre, da quando sono tornato quasi tutte le aziende a cui chiedo di lavorare neanche mi rispondono o mi mandano la risposta precompilata per dirmi di no.
Ho appena trovato un altro lavoro, sempre in Germania, 1.400 euro al mese più vitto e alloggio per trenta ore di lavoro alla settimana.
Credo che continuare a dare voce a chi sostiene che la gente si rifiuta di lavorare sia una gravissima mancanza di rispetto nei confronti di tutti quelli che veramente non riescono a trovare lavoro. Questa è una delle risposte che ho ricevuto: "Grazie per l'interesse dimostrato nei confronti del Club Med! Abbiamo esaminato attentamente la sua candidatura, ma al momento non possiamo darle un esito positivo e fissare un colloquio. Tuttavia tale decisione non mette in discussione le sue qualità umane e professionali". Paolo Ferraris
Risposta di Natalia Aspesi
Ho una giovane amica truccatrice, anzi make-up stylist, che ha perso il lavoro in un negozio che ha chiuso col Covid. Adesso lavora per le tante agenzie che forniscono servizi vari ai tanti eventi per ricchi che fortunatamente invadono la nostra bella Italia. Era molto arrabbiata, avvilita.
Con una decina di colleghe era andata in Umbria dove in un castello restaurato si svolgeva l'ennesimo matrimonio di lusso estremo, una coppia messicana con 150 invitati dal loro Paese. Ore di lavoro sulle antipatiche signore, neppure un panino né una bottiglia d'acqua, né il tempo per comprarsele.
La settimana dopo a Roma, al ricevimento con presentazione di borse e cenone per 500 persone, solo russi e coreani, signore villanissime, anche lì niente acqua e neppure un sorriso, una parola. «Mi sono sentita una schiava» mi ha detto. «Ci stanno togliendo la dignità, l'orgoglio per il nostro lavoro, ci pagano sempre meno, forse è meglio se faccio la puttana».
È vero, sta succedendo qualcosa di orribile e nessuno la ferma: è vero che tanti rifiutano il lavoro, ma si tratta di un lavoro che umilia, sottopagato, insicuro, senza orario, che ti chiude nella miseria e nella sottomissione, che ti toglie l'orgoglio di far bene e quindi di migliorare e far carriera. Come si sia arrivati a questo non lo so, non mi pare che chi dovrebbe reagisca, e impedisca ai tanti Briatore, ai tanti "padroni" incivili arricchimenti assurdi e inutili sulla pelle degli altri.
Sandro Bonvissuto, scrittore e filosofo, lavora come cameriere da Candido, la storica hosteria in via Marziale, per “la Repubblica - Edizione Roma” il 6 luglio 2022.
Negli ultimi trent' anni in Italia gli stipendi sono calati. Ma solo in Italia. Hanno lievitato ovunque. Tranne che qui.
Gli analisti si sono avventurati in cerca di spiegazioni, ma ci vorrebbero speranze adesso. La situazione degli stipendi è forse attribuibile al cuneo fiscale? Probabilmente no.
Altrove (Francia, ad esempio) questo indice è più importante che qui, o almeno in linea, e le retribuzioni in quei paesi sono più alte delle nostre.
Entriamo dunque nei grandi misteri dell'economia. Come quello del prezzo della benzina, che nel 2008, quando il petrolio aveva raggiunto la quotazione record per barile di tutta la sua storia, aveva determinato un costo per il carburante che era la metà di adesso. Va a capire. Nel frattempo in tutta Europa trova casa l'idea del salario minimo. Ne hanno parlato anche qui.
Solo che non sono d'accordo su chi debba garantirlo, se lo stato o gli imprenditori. Quindi mo intanto ne abbiamo parlato, poi vediamo, non c'è fretta. Gli imprenditori vorrebbero pagasse lo stato, quindi eleggeranno qualcuno che renderà fattibile tutto questo, mentre gli stipendi più bassi presto cominceranno a produrre pensioni sempre più basse; e questo è un bel vantaggio per lo stato.
E allora davanti ad un'economia ora in crescita, ma che incomprensibilmente si accompagna ad un lavoro che non da prospettive, di fronte a aziende che aumentano i fatturati mentre gli stipendi restano inchiodati, per via di prezzi che salgono a dispetto delle buste paga, alla gente comune non resta altro da fare che emigrare.
Da una parte il capitalismo nazionale dovrebbe farsi un esame di coscienza, ed ammettere di aver sbagliato, almeno negli ultimi tre decenni, di essere andato avanti solo ed esclusivamente grazie ai continui aiuti, sussidi, alle tregue fiscali, concordati e prestiti statali.
Intanto la fine del concetto di sindacato lascerà ogni lavoratore completamente solo nella giungla dell'impiego, con l'unica speranza di imbattersi in un imprenditore lungimirante, un qualche mecenate di quelli che finiscono nei libri di storia, qualcuno che sia capace di migliorare in modo autonomo la condizione di chi ha alle proprie dipendenze. Questo per quello che riguarda gli adulti, i giovani, invece, scapperanno da questo paese.
E non perché i ragazzi siano dei viziati ai quali « non gli va di lavorare». Il problema sono gli stipendi bassi, che è un'invenzione vostra, non che i giovani so ignoranti o scansafatiche o che preferiscano percepire il reddito di cittadinanza. L'idea che si debba lavorare comunque anche con uno stipendio ridicolo altrimenti sei un fancazzista è un'idea fortemente oscurantista e conservatrice.
E prendersela col reddito di cittadinanza è una cosa reazionaria; se un imprenditore soffre la concorrenza del RDC (che per un lavoratore giovane sarà sui 500 euro al mese) mi immagino a quale stipendio la sua azienda stia facendo riferimento.
E così mentre Roma è piena di lavoro, piena di turisti, tanto che pare un unico locale, un'unica e immensa tavola calda, il popolo non può beneficiarne, costretto a pagare i costi di una crisi finanziaria della quale non è responsabile, e il capitalismo italiano rimane ancora in mano alla perfida borghesia nazionale, ammantata di cultura progressista ma di esiti chiaramente conservatori, capace solo di esprimere una classe politica a sua immagine: conservatrice e progressista a seconda delle stagioni e delle convenienze.
E se nessuno vuole andare a lavorare per l'elemosina è perché la gente sta uscendo rinnovata da una profonda crisi esistenziale: la pandemia ha insegnato di nuovo alle persone il valore del proprio tempo, perché va tutto bene finchè una mattina non te sveij sotto a un cipresso co la foto de ceramica. I ragazzi oggi sanno che non è il lavoro a nobilitare l'uomo, ma il contrario.
Il Lavoro nel tempo diventerà una cosa da ricchi, qualcosa che potranno praticare ( per ripulirsi la coscienza) solo i figli di papà, i quali avranno studiato nelle migliori scuole del mondo, ma se non potranno dire sui social di aver lavorato almeno mezza giornata in una catena di montaggio, nella vita non saranno mai nessuno.
Intanto l'Italia, ponte naturale verso il Mediterraneo, ha qualcosa di entrambi i continenti che frequenta: tenore di vita mitteleuropeo, e stipendi africani.
La cricca dei cappuccini. La scomparsa dei baristi e i giovani concentrati a non lavorare. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.
Non si trovano più tassisti, camerieri e cuochi, prima bastavano dieci colloqui per assumerne uno, ora ce ne vogliono venticinque (sempre che si presentino). Pare che nessuno abbia più voglia di avere un'occupazione ai ritmi del capitalismo
Sta succedendo qualcosa nel mondo del lavoro, e se pensate di trovare la risposta a «sì, ma cosa?» in questo articolo, vi avviso subito che esso viene scritto da una che non si accorge delle notizie quando esse notizie accadono sotto casa sua.
A Bologna c’è un posto famoso per il caffè, si chiama Terzi, le mie amiche ne vanno pazze, io meno giacché non bevo caffè, ma Terzi ha il vantaggio di riempirti il caffè di cioccolata e altre cose che lo fanno sapere meno di caffè.
Bevo però il cappuccino, ed è stato così che l’anno scorso ho scoperto quello che nel mio lessico famigliare è divenuto subito «il baracchino». Il baracchino è una dépendance di Terzi dove, se non piove o nevica (cosa che non accade più praticamente mai, non esistendo più non dico l’inverno ma anche solo l’autunno), puoi prendere il cappuccino stando all’aperto. E lo fanno buono come da Terzi, lo garantisce non solo l’insegna ma la lentezza.
Questa cosa della lentezza (una caratteristica che mi esaspera) me l’ha spiegata il barista che c’era lì la scorsa estate: il latte va rovesciato nella tazza entro cinque secondi (o qualcosa del genere: mica penserete abbia memorizzato i secondi del perfetto cappuccino) da quando essa finisce di ricevere l’espresso; ciò non consente al barista di Terzi di fare quel che fanno tutti i baristi del mondo: due cappuccini in contemporanea, o almeno il cappuccino a uno e lo scontrino a un altro.
Quindi se andavi a prendere il cappuccino al baracchino dovevi mettere in conto di non potertela cavare in fretta, e anche – bevendolo in mezzo alla strada – di essere interrotta, nel giro d’un solo cappuccino, da almeno cinque persone che t’avrebbero chiesto la carità (la città più accogliente d’Europa rivaleggia con Nuova Delhi per numero di mendicanti, oltre che per spazzatura fuori dai cassonetti).
Tuttavia facevano il cappuccino buonissimo, e il cappuccino buono fa la differenza: ero disposta persino ad attendere. Il barista che mi aveva svelato la questione dei secondi mi aveva però annunciato che lui ad agosto sarebbe andato a vivere in campagna e non avrebbe più potuto lavorare lì, ma tanto a settembre avrebbero chiuso: mica era un posto che potevi tenere aperto d’inverno, pronosticava.
Poi però il baracchino non ha chiuso, e io non mi sono più fatta domande: mica ti fai domande, finché non sei costretta. Finché non buchi la notizia.
La settimana scorsa parlavo con un amico ristoratore. Mi diceva che ormai passa tre giorni a settimana a fare colloqui: prima trovava una persona da assumere nel giro di dieci colloqui, adesso ce ne vogliono venticinque. Ventiquattro ti diranno che non vogliono lavorare la sera, che vogliono i fine settimana liberi, che si sentono artisti.
Ho pensato che qualcosa sta sicuramente succedendo, ma non è per non farci insultare sui social da gente che dice «è perché non li pagate, schiavisti, sfruttatori» che non lo scriviamo: è perché nessuno ha capito cosa diavolo stia succedendo.
La pandemia? Il reddito di cittadinanza? Già prima di queste concause ricordo uno chef di Milano che mi raccontava di gente che ai colloqui, dopo aver preso appuntamento, non si presentava proprio. Nessuno ha più voglia di lavorare, e come non capirli. La domanda è: come campano? Tutti con la baby pensione della nonna?
Due sabati fa, a Milano, ho passato la giornata a cercare taxi introvabili. Quando finalmente sono salita su uno e ho chiesto al tassista la ragione di questa scarsezza di taxi, mi ha risposto: nessuno vuole più fare i turni nel weekend, i giovani vogliono la qualità della vita. Come fai a dire a un tassista «tu non hai diritto alla qualità della vita». Forse potresti provare a spiegargli che la qualità della vita non è andare all’Ikea di sabato, ma è difficile anche quello.
Qualche giorno dopo, dovendo andare a Roma e non volendomi trovare senza taxi, ho provato a prenotare un autista. Quello che ho chiamato al nord mi ha detto che non poteva prendersi la responsabilità di garantirmi che mi avrebbe portata in stazione, «è una settimana impegnativa e devo stare concentrato»; a quel punto erano talmente saltati i parametri che, quando l’autista romano ha voluto quaranta euro in contanti, non mi sono neanche innervosita: non pagava le tasse ma almeno mi portava a destinazione violando il proprio diritto alla concentrazione.
Mentre ero ovunque tranne che a Bologna, il baracchino ha chiuso, e io l’ho dovuto scoprire dal Resto del Carlino che ha pubblicato il cartello in cui Terzi dice che chiude per mancanza di baristi (non posso neanche mandare il curriculum, non avendo memorizzato il conteggio dei secondi).
Dal Carlino e dall’immancabile polemica di Twitter, che considera milletrecento euro uno stipendio inadeguato (su Twitter è tutt’un sopravvalutare il proprio valore, quello morale e quello di mercato). Da Terzi dicono che non trovano baristi, che nessuno ha voglia di lavorare, che offrono lavoro e nessuno risponde.
Mi sono ricordata dell’ultima volta che mi sono seduta al baracchino, erano le otto meno cinque e loro aprivano alle otto, ma io non avevo dietro il telefono e quindi non sapevo l’ora. Il ragazzo che era dietro al bancone – e che chissà per quante settimane avrà sopportato d’avere un lavoro vero – mi ha sibilato: non siamo ancora aperti. Inspiegabilmente non ha aggiunto: e io devo stare concentrato.
Da repubblica.it il 3 luglio 2022.
Il cartello appeso fuori dalla porta recita: "Chiuso per mancanza di personale. Ma se sei barista e vuoi lavorare chiama, così potremmo riaprire" . Da metà giugno il chiosco del Caffè Terzi di piazza Aldrovandi è fuori servizio, perché i titolari, dopo decine di colloqui andati a vuoto e dopo aver contattato anche il centro per l'impiego, non hanno trovato nessuno disposto a servire caffè, cappuccini e biscotti ogni mattina. Le condizioni? Contratto a tempo indeterminato, stipendio netto di 1300-1400 euro al mese, per 6,40 ore al giorno, sei giorni a settimana, inclusi i weekend.
"È la situazione reale - risponde Elena Terzi, moglie di Manuel, il fondatore - non si trova personale e siamo stati costretti a chiudere. Abbiamo un ragazzo in infortunio, ci sono le ferie. Ma quello che fa più male è vedere tutto questo disinteresse nei confronti del lavoro. Le persone ci chiamano, prendono appuntamento, poi non si presentano al colloquio senza nemmeno avvisare con un messaggio".
Uno dei tasti dolenti, prosegue, è la richiesta di lavorare nel fine settimana. "In generale la gente preferisce non lavorare il weeekend, anche se io penso che un barista dovrebbe essere abituato, no? Senza contare che noi facciamo solo servizio di caffetteria, non ci sono taniche da spostare o altri lavori pesanti da fare, né servizi serali: il chiosco apre dalle 8 alle 18, poi si chiude. Non facciamo un lavoro basato sui numeri, ma sulla qualità. Un barista formato al titolare costa circa 30- 40mila euro all'anno, che per il dipendente significano circa 1300-1400 euro netti".
Ma sembrano non interessare. "Chi ha il reddito di cittadinanza o la disoccupazione dice che preferisce tenersi quelli. Abbiamo avuto anche persone che abbiamo assunto, poi al termine del periodo di prova ci hanno chiesto di non essere confermate per poter avere la disoccupazione. Forse è il Covid che ha abituato la gente ad accontentarsi, a ricevere sussidi.
Ma io mi auguro che le istituzioni si rendano conto che non possiamo continuare indiscriminatamente a sostenere chi ha la forza di lavorare però non vuole farlo. Abbiamo anche chiesto al centro dell'impiego dei nomi di chi è in disoccupazione. Ci hanno fornito cinque nominativi, di cui solo uno aveva un po' di esperienza nel mondo del caffè, anche se non come barista, e l'abbiamo assunto. Un barista esperto non si trova".
La famiglia Terzi è proprietaria dell'attività di via Oberdan fin dai primi anni Duemila, poi, spiega la titolare, "dopo qualche anno abbiamo ripercorso la filiera al contrario, per cercare di ottenere il caffè migliore possibile. E quando abbiamo aperto una nostra torrefazione abbiamo dato in gestione l'attività".
Per dieci anni, fino alla prima ondata di Covid. " Purtroppo la pandemia ha lasciato i suoi danni, così a quel punto il caffè di via Oberdan l'abbiamo ripreso in mano noi - prosegue Elena Terzi - parallelamente, un anno fa, abbiamo acquisito anche questo chiosco in piazza Aldrovandi, dove si fa solo asporto e si consuma all'aperto, perché ci è sembrata una soluzione più confacente al periodo.
Abbiamo anche un altro piccolo locale, a Vignola, dove c'è una piccola tostatrice. In tutto abbiamo dieci dipendenti, tirocinanti inclusi. Ma dovendo scegliere abbiamo preferito usarli per tenere aperto il caffè di via Oberdan, a Bologna, e chiudere il chiosco di piazza Aldrovandi " .
Una soluzione che lascia l'amaro in bocca. " Ci fa molto dispiacere. Il lavoro va bene, il turismo è ripartito alla grande. Avevamo anche pensato di aprire altri locali. Ma in questo contesto non è proprio pensabile".
Claudia Coppellecchia, 22 anni, pagata 2 euro all’ora in uno studio di commercialista di Bari. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Luglio 2022
La rabbia della ragazza esplode sui socialnetwork sfogandosi : "Poi dicono che i giovani non hanno voglia di sacrificarsi e dicono che la colpa sia del reddito di cittadinanza, ma non è così: noi giovani vogliamo lavorare, ma spesso non siamo messi nelle condizioni di farlo dignitosamente"
Questa è l’ennesima storia di sfruttamento denunciata da un giovane alle prime esperienze lavorative. Due settimane di prova retribuite a 2,27 euro l’ora conclusesi con la solita frase: “le faremo sapere” . E’ la storia resa pubblica dalla 22enne Claudia Coppellecchia, 22enne di Molfetta, studentessa universitaria a Bari, che ha deciso di affidare ad un lungo post su Facebook il racconto della sua esperienza di lavoro svolta in uno studio commercialista di Bari nel ricco quartiere residenziale di Poggiofranco .
La giovane Claudia così scrive su Facebook: “Oggi vi racconto la mia “esperienza lavorativa”, durata 11 giorni. È di attualità il tema sulla disoccupazione giovanile, spesso legata allo sfruttamento. Ho vissuto, sulla mia pelle, l’ennesima conferma, come si sente in tv, che questo fenomeno non dipende dalla mancata voglia di lavorare da parte di noi giovani, ma dalla voglia di sfruttamento da parte dei datori di lavoro“.
Claudia Coppellecchia in una foto tratta da Facebook
Claudia racconta di lavorato per 11 giorni nello studio del commercialista, per 4 ore al giorno, per un totale di 44 ore. “Ero carica ed entusiasta, pronta a mettere qualche soldo da parte per togliermi qualche sfizio in più, mentre concludevo comunque i miei studi di lingue all’università di Bari” afferma la giovane ragazza che sostiene di di aver ricevuto inizialmente un’offerta di 1000 euro. La giovane studentessa per poter fare la prova, sostiene un primo colloquio che supera, poi un secondo colloquio incontro con il commercialista titolare dello studio professionale. E quindi viene richiamata: “Mi parlano di circa 1000 euro al mese ma di dover fare una settimana di prova part time” ed allora armata di buona volontà e desiderosa di trovare un lavoro si sottopone alla settimana di prova, che seppure illegale rappresenta un passaggio obbligato per ottenere un impiego.
Alla scadenza della settimana di prova 7 concordata, il test viene prorogato a due settimane, e la volenterosa ragazza accetta “perché il lavoro iniziava ad interessarmi” e così prosegue così per una seconda settimana, ed in totale buona fede non pone mai alcun quesito sulla sua retribuzione “per non dare l’impressione di pensare solo ai soldi”, Tutto ciò nonostante il posto lavoro nel quartiere di Poggiofranco a Bari sia distante ben 35 km dalla sua casa a Molfetta . In pratica 70 km al giorno da percorrere tra andata e ritorno. Ieri termine del periodo di prova, il 30 giugno, le arriva dopo la brutta notizia che suona tanto di beffa: non verrà assunta perché stanno svolgendo la prova anche altre persone: “La segretaria mi riferisce che mi faranno sapere tra 15 giorni consegnandomi una busta, contenente 100 euro. Una prova retribuita ben 2,27€ l’ora” scrive sul post.
La rabbia della ragazza esplode sui socialnetwork sfogandosi : “Poi dicono che i giovani non hanno voglia di sacrificarsi e dicono che la colpa sia del reddito di cittadinanza, ma non è così: noi giovani vogliamo lavorare, ma spesso non siamo messi nelle condizioni di farlo dignitosamente”. Un pensiero su cui riflettere, sopratutto immaginando la trasformazione dell’entusiasmo dei primi giorni, in legittima rabbia e delusione. Con la sensazione di sentirsi sola: “La domanda è: da che parte è lo Stato in tutto questo?” . Purtroppo non glielo spiegherà nessuno.
Pagati 4 centesimi a riga, minacciati e insultati: i giornalisti in Italia sono sempre più precari. Il numero di contrattualizzati continua a calare, come le retribuzioni per i freelance. E la qualità dell’informazione e della democrazia ne risentono. Mentre politica e criminalità approfittano della debolezza del sistema. Lucio Luca su L'Espresso il 20 Giugno 2022.
Anticipiamo qui un estratto del libro “Quattro centesimi a riga, morire di giornalismo” (Zolfo editore) di Lucio Luca
Dunque, sono passati quasi dieci anni. Dieci lunghissimi anni, tremila e cinquecento giorni, da quella maledetta notte di marzo del 2013 nella quale un giovane cronista di provincia, Alessandro Bozzo, decise di farla finita con una vita da precario senza futuro, ostaggio di editori senza scrupoli in una terra, la Calabria, che spesso sembra dimenticata da Dio.
In tutto questo tempo Alessandro purtroppo non è stato l’unico giornalista a fare questa scelta estrema. Ce ne sono stati altri, stremati dall’attesa, dall’incertezza, da quei pochi soldi che non bastano mai, dall’impossibilità di costruirsi una casa, una famiglia. In Puglia, in Trentino, in Veneto. Sì, persino nelle ricche regioni del Nord Est. Perché mica è solo al Sud che migliaia e migliaia di giornalisti fanno la fame. Figuriamoci. Ormai funziona così dappertutto, lo dicono i numeri, sempre più impietosi, che le organizzazioni sindacali snocciolano anno dopo anno. (...)
Dal 2014 al 2021 i lettori dei quotidiani nel giorno medio sono diminuiti del 40,81 per cento: da 19 milioni e 351 mila al giorno siamo passi a 11 milioni e 453 mila. Quasi otto milioni di persone, un numero che fa impressione. E ancor più desolante è il fatto che, nello stesso periodo, sono più che dimezzati i lettori di età inferiore ai 34 anni, ormai appena un quinto del totale. (...)
Va meglio, naturalmente, nel digitale visto che negli ultimi sette anni si è triplicato il numero di chi si informa con il cosiddetto “sfogliatore”. Siamo passati dai 587 mila del 2014 a un milione e mezzo del 2021. Un aumento che però non basta certo a bloccare l’emorragia complessiva. Anche perché se in edicola un giornale costa un euro e mezzo circa, sull’Ipad scende di oltre due terzi. E quindi per le aziende editoriali è un salasso niente male.
E così tra prepensionamenti – quando va bene – e licenziamenti di massa, il giornalismo è praticamente defunto. Lo dimostra il fatto che ci sono zone dell’Italia dove i giornali di carta non arrivano nemmeno più e le edicole sono un lontano ricordo. (...)
Secondo l’Inps, in Italia operano circa 45 mila giornalisti con contratto atipico o liberi professionisti, a fronte di appena 15 mila coperti da un contratto di lavoro dipendente (dati 2019). E tra i freelance, il 45 per cento non riesce a fatturare cinquemila euro lordi l’anno. D’altra parte, anche molti giornali storici hanno tagliato i compensi dei collaboratori, arrivando a proporre 7 euro per un articolo. Quando va bene, aggiungerei. Sul web, poi, la cifra scende ancora. Oggi il giornalista è un rider dell’informazione. I giornali sono diventati come Glovo o Just Eat, ma rispetto a chi ci porta da mangiare a casa, i cronisti non prendono nemmeno la mancia e sui social vengono spesso insultati come fossero degli appestati.
«Nel 2011, con un contratto di collaborazione a progetto, venivo “retribuito” dall’allora editore di Calabria Ora Pietro Citrigno 0,04 euro a riga, quattro centesimi insomma», ha scritto in un blog uno dei “biondini” con i quali ogni giorno lavorava Bozzo. «Il secondo contratto che ho avuto era simile ma con retribuzione fissa di appena 100 euro mensili. Ho continuato a collaborare con altri quotidiani locali e periodici, con retribuzioni occasionali e minime o, in molti casi, gratuitamente. Per fortuna ho smesso in tempo, altrimenti quello che è capitato ad Alessandro sarebbe potuto succedere anche a me».
Emmanuel Raffaele Maraziti, questo il nome del collega da quattro centesimi a riga, ha raccontato che la sua storia, come quella di migliaia e migliaia di altri aspiranti giornalisti, rappresenta un «problema sistemico» che porta dritto, non solo alla scomparsa di una professione essenziale, ma al disastro attuale dell’informazione e, quindi, a una forte distorsione della democrazia. Non è certo un caso se nel 2016, a fronte di oltre 112 mila persone iscritte all’Ordine dei giornalisti, meno di 30 mila erano professionisti (che, di solito, un contratto «vero» riescono a portarlo a casa) mentre ben 75 mila erano pubblicisti. Che, tradotto, significa precari. «I numeri, insomma - conclude Maraziti - ci raccontano che la professione di giornalista sta scomparendo, distrutta dalla precarizzazione e dal mercato senza regole, che non permette di farne una professione vera e di svolgerla con la necessaria serenità».
Difficile dargli torto. Oggi, ogni quattro giornalisti attivi in Italia, tre sono precari. Da anni le assunzioni sono bloccate, i giovani sono sempre più destinati a una condizione di precariato a vita. E la memoria non può che andare a Brindisi, a Paolo Faggiano, collaboratore di una testata locale che a 41 anni - poco prima della vicenda Bozzo - aveva lasciato una lettera alla madre impiccandosi a un albero del suo giardino. Era precario, appunto, non riusciva a trovare una stabilità malgrado lavorasse nell’informazione da quasi vent’anni. «Drammi umani come questo - scrissero i colleghi del sindacato dei giornalisti pugliesi - ripropongono in tutta la loro tragica attualità i problemi del precariato diffuso, che priva di ragionevoli certezze sul futuro umano e lavorativo migliaia di giornalisti».
Ecco perché Alessandro Bozzo si è ucciso, ecco perché la sua storia non poteva restare nell’oblio. Malgrado qualcuno avesse puntato, fin dall’inizio, a farla passare per un dramma familiare, una vicenda privata e niente più. Alessandro non è stato il primo e, purtroppo, nemmeno l’ultimo. E se negli ultimi dieci anni le condizioni sono letteralmente precipitate, non oso pensare cosa ne sarà di questa professione fra altri dieci o vent’anni. Ammesso che esisterà ancora.
C’è il precariato, certo, ci sono poi le querele temerarie, il bavaglio con cui i potenti sfruttano la condizione di instabilità di molti giornalisti. Strumenti intimidatori con i quali si tenta, e molte volte si riesce, a mettere il silenziatore alle notizie scomode minacciando i cronisti con infiniti e costosi processi e comprimendo di fatto il diritto dei cittadini di essere informati. Il rischio sempre più diffuso, e assai comprensibile, è che il giornalista da quattro centesimi a riga - o poco più – prima di qualsiasi inchiesta si faccia la fatidica domanda: «Ma chi me lo fa fare?». E, alla fine, si autocensuri per evitare di spendere una barca di soldi in avvocati e giustizia negata.
Combattere il precariato deve - dovrebbe - essere un obiettivo non solo dei giornalisti ma di un Paese intero. Perché la buona informazione è – dovrebbe essere - uno dei diritti costituzionali più importanti e che va riconosciuto a tutti i cittadini.
Infine il capitolo delle minacce della criminalità a chi, malgrado tutto, non si volta dall’altra parte e continua a scrivere tutto quello che riesce a scoprire. Ossigeno, l’associazione di Alberto Spampinato, fratello di uno dei tanti cronisti siciliani uccisi dalla mafia, tiene il conto da anni. Nel 2020, per dire, in Italia i giornalisti minacciati sono stati 495, il 26 per cento donne. Numeri in aumento questi, a differenza di tutti gli altri indicatori negativi. Come dire, meno si vende e più i criminali si sentono autorizzati a intimidire i cronisti che si occupano di loro.
Torino, l’imprenditore edile: «Provo in tutti i modi ma non trovo personale». Nicolò Fagone la Zita su Il Corriere della Sera il 26 Giugno 2022.
Stefano Vanzini: «In 30 anni non ho mai avuto tanti problemi insieme».
Sono sempre più frequenti i casi di imprenditori che pubblicano offerte di lavoro, anche allettanti, ma che non trovano candidature, nonostante l’ampia percentuale di disoccupazione in Piemonte. È il caso di Stefano Vanzini, 59 anni, proprietario di un’impresa edile torinese con 10 dipendenti e circa 1,5 milioni di fatturato.
«Il vero problema del settore in questo momento è la mancanza di lavoratori qualificati — racconta — proviamo a strapparceli tra aziende, proponendo condizioni più favorevoli, ma la coperta è corta. Eppure non abbiamo lasciato nulla di intentato. Abbiamo usato tutti i canali, dagli annunci sui giornali a quelli sui siti, ci siamo affidati al passaparola, ci siamo rivolti alle agenzie interinali e agli uffici di collocamento. Niente da fare, nessuno risponde, anche le scuole non sfornano più». E così sulla scrivania dell’imprenditore continuano ad accumularsi preventivi, 22 in pochi mesi, ma difficilmente si tradurranno in commissioni concrete.
«Mio padre mi ha consegnato il timone dell’azienda trent’anni fa, ma non mi sono mai trovato in una condizione simile. Dobbiamo gestire troppe difficoltà nello stesso momento, tra rincari di energia e materie prime e l’assenza di manodopera specializzata. Per far fronte a tutto dovrei triplicare il personale, invece sono costretto a rinunciare a decine di nuovi incarichi per garantire la serietà nei tempi di consegna». A mancare sono soprattutto manovali, muratori, capo-cantieri, magari con qualche anno di esperienza alle spalle.
«Abbiamo allargato le ricerche al mondo giovanile — continua Vanzini — ma i ragazzi non sono propensi ad entrare nell’edilizia. Il 20enne preferisce lavorare nel ristorante piuttosto che nel cantiere, eppure la paga è simile se non superiore. E difatti il 70% del personale a Torino è coperto da stranieri. Ho fatto dei colloqui con giovani a cui occorre insegnare tutto, ma mi è stato risposto che per meno di 1.500 euro al mese non si muovono. Una cifra che ritengo esagerata». E poi si aggiunge il problema del rincaro dei materiali, che si ripercuote soprattutto negli appalti privati: «È difficile stipulare un contratto se nessuna delle due parti sa quanto costeranno i lavori — conclude Vanzini — e oggi nemmeno il meccanismo della cessione del credito per i bonus sta funzionando. Ci sono troppe varianti non prevedibili».
Ristorazione, mancanza di personale. La provocazione di un ristoratore: «Ditemi voi quanto volete». Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2022.
«Cerco personale. Lo stipendio lo decidete voi e gli orari anche». Un post provocatorio su Facebook per denunciare mesi di difficoltà nel trovare camerieri, baristi e pizzaioli. Così Pierluigi Lucino, imprenditore leccese di 40 anni, ha deciso di denunciare la carenza di personale per le sue due attività una piccola pizzeria e il nuovo ristorante Riviera Bar Bistrot, a Porto Cesareo in Puglia.
Dice: «In tv e sui social si parla di imprenditori che sfruttano, in realtà io e i miei colleghi in zona non riusciamo a trovare persone disposte a lavorare nonostante stipendi più che dignitosi. Offro dai 1200 euro in su netti al mese e non trovo persone disponibili».
Al post non hanno risposto, al momento, candidati tanto che le posizioni aperte da Lucino sono vacanti da mesi. Per il ruolo di aiuto pizzaiolo la paga può arrivare a 1500-1600 euro netti al mese ma è da mesi che l’imprenditore non trova candidati. Tanto da aver deciso di ridurre il numero di pizze sfornate in una serata. «Non posso far lavorare troppo l’unica persona che ho, non sarebbe giusto. Invece di 150 pizze abbiamo messo il tetto a 100». Lucino spiega di aver anche ricevuto persone che chiedevano di lavorare in nero pur di non perdere il reddito di cittadinanza. «È paradossale ma è successo. In un contesto del genere piuttosto si aiutino gli imprenditori ad assumere in regola, no ai 5 euro l’ora sì ai contratti collettivi nazionali che ci sono e vanno applicati», aggiunge.
Per l’imprenditore il tema è anche che i giovani non considerano il lavoro da camerieri come un’opportunità o un’esperienza utile. «Durante la pandemia molti sono andati a lavorare da altre parti, chi aveva voglia di lavorare ha trovato impiego nella logistica o in azienda. Sono mesi che posto annunci. È una situazione grave che sta mettendo in crisi la ristorazione locale. Che, ci tengo a ribadirlo, non è fatta di disonesti come si sente dire troppo spesso», aggiunge.
Cristiana Lauro per Dagospia il 14 Giugno 2022.
Vi ricordate il ristorante Cencio La Parolaccia a Roma, nel cuore di Trastevere? Il format della serata prevedeva una certa goliardia fra canzoni popolari ben condite da riferimenti piccanti, battute sporcaccione, qualche vaffanculo ai clienti e via dicendo. Si scherzava, lo dice il nome del locale, tutt’ora in attività.
Oggi invece dilaga la maleducazione nei ristoranti, quella vera, altro che Cencio La Parolaccia! C’è poco da ridere perché da un lato la figura del cameriere - oramai introvabile - manca spesso di professionalità e non ha la minima cognizione delle regole di base del servizio di sala, dall’altra i clienti sono sempre più irrispettosi anche sotto il profilo umano. Ecco alcuni episodi che mi sono capitati di recente, dalla birreria con würstel e crauti, all’hotel di lusso con ristorante stellato.
BIRRERIA/PUB CON CUCINA. Seduta per i fatti miei ho chiesto una birra alla spina a una cameriera che non smetteva di chattare sul cellulare. Stavo lavorando sull’I Pad, quando la tipa si è avvicinata per dirmi che aveva mal di pancia perché le erano arrivate “le sue cose” (che essendo sue se le può anche tenere, non vedo perché condividerne il racconto). Lamentava inoltre un forte bruciore e gonfiore alla lingua che, spontaneamente, ha scelto di esibire. Se l’era fatta perforare il giorno prima con un chiodo, volgarmente detto piercing.
Ero senza parole per l’eccesso di confidenza nei confronti di una cliente sconosciuta e di passaggio in quel locale, ma non volevo risponderle male. La ragazza ha poi deciso di sedersi al mio tavolo, per proseguire con le sue lagne. Non sto scherzando, l’ha fatto davvero! A quel punto le ho chiesto di alzarsi ed è arrivato un collega che me l’ha levata di torno. Si è scusato quasi in ginocchio e mi ha spiegato che la ragazza era al terzo giorno di lavoro, senza esperienze precedenti. “Non troviamo camerieri!”
HOTEL DI LUSSO AL BAR. Seduta in giardino ho scelto un cocktail analcolico talmente fresco e piacevole che ho deciso di fare il bis. Il cameriere si è presentato senza vassoio con uno Spritz in mano. Gli ho fatto notare che avevo chiesto un altro drink e per giunta analcolico. L’uomo è tornato, questa volta con la bevanda giusta ma sempre con trasporto a mano senza vassoio. Dopodiché, con nonchalance, è andato via lasciandomi sul tavolo il bicchiere sporco con tutti gli avanzi del cocktail precedente.
CLIENTI MALEDUCATI. Il tavolo era prenotato per quattro, ma si sono presenti in otto senza avvertire. Contesto elegante e ristorante pieno. Nonostante le difficoltà, il disagio per i camerieri e per il pubblico già seduto, il direttore di sala è riuscito ad accontentare la richiesta complicata. Quindi si è recato all’ingresso per accogliere il doppio quartetto che, in leggerezza, lo ha aggiornato sulle scelte consiliari disposte dal collettivo mentre lui si prodigava in sala facendo cambi di set decisamente acrobatici: “Abbiamo deciso di andare da un’altra parte”.
CLIENTE CAFONE E TACCAGNO. In un locale di una certa eleganza si è affacciato uno straniero - nordeuropeo direi - con evidenti disponibilità economiche. Fra orologio, abiti e buste dello shopping aveva più firme di un referendum. Con atteggiamento tutt’altro che cordiale ha chiesto un tavolo nel cortile che però era pieno e, oltretutto, non risultava alcuna prenotazione a suo nome.
La responsabile di sala gli ha offerto un posto all’interno con aria condizionata. L’uomo ha accettato e si è seduto da solo in un tavolo apparecchiato per sei, rifiutando il cambio con uno più piccolo, seppure comodo. Ha preteso e ottenuto di occupare da solo quel tavolo per la vista sul cortile dalla grande finestra di fronte. I camerieri hanno dovuto sparecchiare i cinque coperti e quel cafone ha consumato il pasto - abbinandolo allo Spritz - senza mai staccare gli occhi dal telefonino. Mai! Già, perché il suo obiettivo non era la vista sul cortile, ma il privilegio. Ovviamente non ha lasciato un euro di mancia
Gabriele Principato per corriere.it l'11 giugno 2022.
La mancanza del personale di sala.
La mancanza di personale nel settore della ristorazione è ormai un dato di fatto. Ne discutono quotidianamente tanto imprenditori, chef e maestri pizzaioli di insegne blasonate nelle grandi città, quanto titolari di piccole realtà di provincia. C’è chi sostiene sia un problema generazionale, dovuto alla mancanza di «spirito di sacrificio».
Altri ritengono sia colpa del reddito di cittadinanza. In molti rispondono che la vera ragione di questa carenza sia dovuta ad orari massacranti e salari troppo bassi e che sia necessario ripensare del tutto il modello della ristorazione in Italia, in un’ottica di sostenibilità del lavoro.
Quale che sia la ragione effettiva di questa mancanza di personale, di certo c’è che ad acuire questa crisi — che si percepisce soprattutto oggi che il settore sta velocemente ripartendo — sono stati gli anni di pandemia. «Una forte carenza del personale di sala si sentiva già prima del Covid», racconta Silvio Moretti, direttore servizi sindacali Fipe. Stando ai dati elaborati dal Centro Studi della Federazione Italiana Pubblici su dati Istat e Inps, il personale di sala è quello più ricercato in questo momento: mancano, attualmente, 39.760 camerieri.
In totale, sempre secondo la Fipe, ci sono 200 mila addetti alla ristorazione in meno rispetto al 2019. «Una parte hanno lasciato a causa della chiusura delle attività per cui lavoravano, ma molti professionisti nel — lungo periodo di incertezza fra un lockdown e l’altro — hanno deciso volontariamente di cambiare settore, prediligendo ambiti come la logistica o la grande distribuzione, che garantivano una continuità lavorativa certa e dove è richiesto in forma minore il sacrificio di lavorare nel week end e nei giorni di festa».
A quelli che sostengono che una delle ragioni di questa crisi sia dovuta alle precarietà del lavoro, la Fipe risponde con un dato: «La tipologia di contratto più diffusa in questo settore è il tempo indeterminato — che rappresenta circa il 70% degli occupati, 616mila unità (in totale sono 916 mila, di cui il 63% ha meno di 40 anni) —, perché c’è una forte contesa per accaparrarsi il personale qualificato». Per quanto riguarda la sala, poi, si aggiunge un riconoscimento ancora inadeguato della sua importanza.
«La ristorazione in questo momento deve valorizzare il servizio di sala — spiega Moretti — perché il peso specifico dell’accoglienza è sempre maggiore. I clienti stanno tornando nei ristoranti soprattutto perché legati a determinati luoghi e ad un determinato tipo di accoglienza. La sala vale quanto la cucina». In questo pezzo non entreremo nel dibattito sul modello di lavoro nella ristorazione, ma proveremo a rispondere a una domanda che in questi giorni ci hanno posto molti lettori: quanto guadagna davvero un cameriere?
Quanto guadagna davvero un cameriere in Italia?
Il Contratto collettivo nazionale di lavoro per la ristorazione prevede una retribuzione minima mensile per un cameriere professionista di 1.500 euro lordi (ossia circa 1.250 euro netti), con 14 mensilità e 40 ore di lavoro settimanali.
«Ovviamente — spiega Silvio Moretti, direttore servizi sindacali Fipe — questi sono valori minimi, la domanda di mercato e le esperienze professionali possono far aumentare notevolmente queste cifre e anche il numero di ore di lavoro può essere differente in certi casi».
Questa cifra evidenziata dalla Fipe, in effetti, è anche quella proposta attraverso gli annunci sui siti di recruitment secondo Jobbydoo e calcolata sulla base delle offerte di lavoro per camerieri professionisti pubblicate negli ultimi 12 mesi. Ma, ovviamente, bisogna tenere presente che la forbice della retribuzione è vasta: lo stipendio minimo netto, secondo il portale, è quello del cameriere part time, che prende all’incirca 680 € netti al mese.
Un apprendista cameriere guadagna mensilmente 700 €. Un cameriere professionista prende in media, al mese, 1.250 €. Ma nella stagione estiva la media può arrivare anche a 1.450 €. E, in un ristorante stellato (o comunque di alto livello), la retribuzione in media tocca i 1.750/2.000 €. Nelle pizzerie la paga mensile netta è di 1.200 €, 1.050 € negli agriturismi. Lo stipendio medio di un maitre è di 1.650 € netti al mese (circa 30.600 € lordi all’anno), ma la retribuzione può variare (a seconda dell’esperienza) da uno stipendio minimo di 1.200 € netti al mese a un massimo che può superare i 3.000 € netti al mese.
Quanto guadagna davvero un cameriere all’estero?
Come stipendio netto un cameriere all’estero — stando agli annunci sul portale Jobbydoo — guadagna più che in Italia. Ma è impossibile fare un confronto con gli stipendi del nostro Paese, sia perché la retribuzione è in molti casi parametrata al costo della vita, che per quanto riguarda l’incidenza del cuneo fiscale, uno dei temi più dibattuti anche in Italia. In ogni caso, riguardo al netto mensile, si va dai 3.750€ di New York, ai 3.500€ della Svizzera, passando per i 2.350€ di Londra. Ovviamente le retribuzioni possono variare in base all’esperienza e all’impegno richiesto.
Quanto guadagna un cameriere in base all’esperienza
Un cameriere entry level, ossia con meno di 3 anni di esperienza, può arrivare a uno stipendio medio complessivo — stando agli annunci sul portale Jobbydoo — che si aggira sui 1.080 € netti al mese. Uno con oltre 4 anni di lavoro alle spalle arriva in media a guadagnare circa 1.250 €. Mentre un cameriere senior — attivo da oltre 10 anni — guadagna dai 1.460 ai 1.600 €. Ovviamente le retribuzioni possono variare in base all’esperienza e all’impegno richiesto.
In quali città si cercano più camerieri
Stando agli annunci sul portale Jobbydoo la città in cui c’è maggiore ricerca di camerieri in Italia è Roma. Seguono, poi, Milano, Bologna, Torino, Venezia e Rimini. Anche se il 80,3% della domanda è frazionata in piccole località della provincia Italiana.
Per l’Italia cambia poco. Cosa prevede concretamente la direttiva Ue sul salario minimo. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 7 Giugno 2022.
I Paesi che già ce l’hanno devono adeguarlo al costo della vita, stabilendo standard dignitosi. Gli Stati membri avranno due anni di tempo per trasporre la norma Ue nella loro legislazione nazionale.
Tutti i Paesi dell’Unione europea dovranno presto adeguare il salario minimo al costo della vita. Ma quelli in cui non è previsto, tra cui l’Italia, non sono obbligati a introdurlo. Consiglio e Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo nella notte tra lunedì 6 e martedì 7 giugno su una direttiva proposta della Commissione: ora la norma dovrà essere formalmente confermata dagli ambasciatori dei 27 Paesi membri e dall’Eurocamera in seduta plenaria. Poi gli Stati membri avranno due anni di tempo per trasporla nella legislazione nazionale.
Una paga adeguata
Con questa direttiva, i 21 Stati europei che già presentano salari minimi legali sono tenuti ad aggiornarli secondo una serie di criteri prestabiliti: i ritocchi devono avvenire almeno ogni due anni (quattro anni al massimo in quei Paesi con un meccanismo di indicizzazione automatica) e le parti sociali dovranno essere coinvolte nel processo. Le nuove soglie minime devono assicurare «standard dignitosi di vita, tenendo in considerazione le condizioni socio-economiche, il potere d’acquisto e i livelli di produttività nazionali», si legge nella comunicazione del Parlamento europeo sul tema.
I compensi saranno adeguati se coincidono con almeno il 50% della retribuzione lorda media e il 60% della retribuzione lorda mediana, cioè quella che si trova al centro della forchetta tra il dato più alto e quello più basso. Lo ha scritto in una nota Agnes Jongerius, eurodeputata olandese dei Socialisti e Democratici e negoziatrice per il Parlamento comunitario sulla direttiva. «22 Paesi dovranno alzare le loro soglie attuali», ha spiegato la parlamentare, con un effetto benefico su 24 milioni di lavoratori in tutta Europa.
Un altro punto della direttiva, considerato dai relatori «il secondo pilastro dell’accordo», riguarda la contrattazione collettiva sulla determinazione degli stipendi, anch’essa determinante contro la povertà lavorativa. Quando in un Paese il tasso di lavoratori «coperti» dalla contrattazione collettiva è inferiore all’80%, diventa necessario un piano d’azione nazionale per aumentare progressivamente il numero di persone incluse.
In quest’ambito, gli Stati sono pure obbligati ad agire contro eventuali discriminazioni o pressioni messe in atto dai datori di lavoro contro i rappresentanti sindacali. La protezione dei rappresentanti dei lavoratori è infatti molto importante secondo le istituzioni europee nel garantire che i lavoratori possano beneficiare di salari minimi adeguati.
Per l’Italia cambia poco
Attualmente nell’Unione europea 21 Paesi dispongono di una legge generale sul salario minimo: tutti tranne Italia, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Cipro. Nel nostro Paese non esiste al momento un compenso stabilito per legge, anche se alcuni lo ritengono necessario per adempiere all’articolo 36 della Costituzione, in cui è sancito il diritto del lavoratore «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro».
Se in futuro verrà adottata una norma simile, non sarà in conseguenza di questa direttiva, nonostante il clamore politico suscitato. «Non imporremo un salario minimo all’Italia», ha detto in modo chiaro il commissario europeo al Lavoro e ai diritti sociali Nicolas Schmit, affermando che la norma «rispetta le tradizioni nazionali» in materia.
Paesi come la Danimarca, ha spiegato il commissario, possiedono un ottimo sistema di contrattazione collettiva per le garanzie che assicura ai lavoratori, tanto che la Commissione spera venga «copiato» da altri Paesi.
Per l’Italia, invece, questa direttiva rappresenta piuttosto, secondo Schmit, un «contributo al dibattito nazionale», nell’ottica di una migliore tutela dei lavoratori. Nel nostro Paese, gli effetti concreti sono molto limitati: non si applicherà infatti nemmeno il piano d’azione sulla contrattazione collettiva, visto che secondo le stime i Contratti collettivi nazionali di lavoro riguardano più dell’80% dei lavoratori dipendenti.
La direttiva, comunque, contiene un chiaro messaggio politico sulla protezione salariale dei lavoratori e per Daniela Rondinelli, europarlamentare del Movimento 5 Stelle, ha pure conseguenze pratiche. «In Italia ci sono circa 300 contratti “pirata” con minimi tabellari di 3/4 euro all’ora, questo significa oltre tre milioni di lavoratori con stipendi da fame», dice a Linkiesta l’eurodeputata.
Secondo il Movimento, il livello «reale» della contrattazione è decisamente inferiore al dato stimato, visto che in molti casi le sigle sindacali che hanno firmato i contratti non sono nemmeno riconosciute dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. In Italia, la contrattazione collettiva non funziona bene, al contrario di quanto avviene nei Paesi nordici, dove supplisce efficacemente alla mancanza di una soglia minima per tutti.
Il Movimento 5 Stelle stima che per coincidere con i criteri stabiliti dalla direttiva in quei Paesi che adottano il salario minimo, gli stipendi fissati negli accordi collettivi italiani dovrebbero aggirarsi sugli otto euro, cifra non sempre rispettata.
«Tutti quei contratti che non si adeguano a questi criteri dovranno essere ritoccati al rialzo», afferma l’eurodeputata, convinta che il nostro Paese rischi sanzioni europee. La battaglia per un reddito minimo dignitoso sta a cuore a molti cittadini europei, come emerge anche dalle richieste della Conferenza sul Futuro dell’Europa: resta da vedere se verrà vinta in tutti i 27 Paesi dell’Ue.
Salario minimo, le posizioni dei partiti in Italia. Felice Emmanuele e Paolo de Chiara il 07/06/2022 su Notizie.it.
L’Unione Europea, nella mattinata di oggi, 7 giugno 2022, ha trovato un accordo sul salario minimo, in Italia il dibattito è ancora aperto. I lavori sono fermi al Senato dove però, il ministro del Lavoro Andrea Orlando, vede segnali positivi da tutte le parti politiche.
Non vi è però un’unaminità di pensiero.
Legge sul salario minimo: le posizioni dei partiti in Italia
A far discutere sono state le parole di Renato Brunetta, ministro della Pubblica Amministrazione, che si è schierato contro l’introduzione del salario minimo in Italia. Secondo il ministro, il salario minimo “non va bene per legge perché è contro la nostra storia culturale di relazioni industriali. Il salario non può essere moderato ma deve corrispondere alla produttività“.
Questa affermazione di Brunetta ha scatenato un terremoto politico, soprattutto nell’ala del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle (M5S). Non mancano però politici neutrali.
I favorevoli al salario minimo: Movimento 5 Stelle
Giuseppe conte
Il leader del M5S ha attacco Brunetta affermando che “il salario minimo forse non è nella cultura di alcuni politici. Se per alcuni politici è normale che si prendano paghe da fame, di 3-4 euro lordi l’ora, allora diciamo che la politica del Movimento 5 Stelle non è questa.
Non accetteremo mai fino a quando non approveremo il salario minimo. Queste sono paghe da fame”.
Paola Taverna
La vicepresidente dei pentastellati ha scritto sui Social Network: “Renato Brunetta, anche nel 1760 e nel 1870 c’erano le ‘relazioni industriali’, poi arrivarono le due rivoluzioni e lo status dei lavoratori migliorò notevolmente. Che dici, vogliamo evolverci un pochino e dare dignità ai lavoratori italiani?“.
Laura Castelli
Per il Viceministro dell’Economica, il salario minimo è “un percorso obbligato per chi decide di stare in un’Europa che si dà paletti sociali ed etici.
È indispensabile e non può aspettare“.
I favorevoli al salario minimo: Partito Democratico
Enrico Letta
Non poteva non prendere la parola il leader dem Enrico Letta, che ha dichiarato: “Per noi la questione salariale è fondamentale, accanto a questo c’è ovviamente l’impegno ad arrivare al salario minimo, come fanno in Germania e come fanno in Australia, Paesi che sono simili al nostro e che hanno fatto una scelta che anche noi dovremmo fare”.
Francesco Boccia
L’ex ministro ed attualmente deputato del Partito Democratico Francesco Boccia ha difeso la legge sul salario minimo affermando che “per Brunetta il salario minimo non rappresenta la storia della destra italiana? Per fortuna direi, rappresenta la nostra storia e la realizzeremo, è una battaglia che porteremo a termine insieme all’abbattimento del cuneo fiscale“.
I contrari al salario minimo: il centrodestra
Al di là delle classiche dichiarazioni già fatte da tutto il centrodestra e rappresentate dalla frase di Renato Brunetta, ad esporsi in maniera particolare vi è la presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini. La Bernini ha criticato la legge sul salario minimo dichiarando che: “Copiare il modello tedesco del salario minimo non è la strada idonea per l’Italia. Per un liberale l’imposizione di un salario minimo per legge sarebbe una violazione della libertà contrattuale e rischierebbe di indurre le piccole imprese a recedere dai contratti nazionali applicando un salario più basso di quello fissato dagli accordi. Il problema è diminuire il costo del lavoro per le aziende e assicurare una busta paga più pesante per i lavoratori“.
Legge sul salario minimo: i neutrali
Giancarlo Giorgetti
Il ministro per lo Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti ha sempre detto la sua, non temendo le possibili ripercussioni da parte del suo partito, ossia la Lega. In questo caso, Giorgetti, è rimasto neutrale, anche se sembrerebbe più schierato con il centrodestra, ed ha dichiarato che “il tema dei salari è un problema che va affrontato. Non si può mettere in carico un altro costo su aziende che ne hanno già molti. Il salario minimo non deve essere un tabù, ma bisogna capire cosa si fa, la priorità è il recupero del potere di acquisto. In Italia i salari sono bassi e questo è un dato oggettivo”.
Ignazio Visco
Tralasciando i partiti politici, anche anche personalità come Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, hanno dato una propria opinione. Visco è stato neutrale ed ha dichiarato, sollevando alcune questioni, che il salario minimo: “ha vari effetti positivi. Il rischio sta nel livello, perché se è eccessivo può portare a non occupare persone che potrebbero invece voler lavorare al di sotto di quel livello. Quello che è importante è non legare al salario minimo automatismi“.
Legge sul salario minimo: le parti sociali
Maurizio Stirpe
Il vicepresidente di Confindustria ha dichiarato di essere favorevole ad una legge sul salario minimo, ma solo ad alcune condizioni: “che il salario minimo venga fissato come percentuale compresa tra il 40 e il 60% del salario mediano e che non venga confuso con la retribuzione proporzionale e sufficiente dell’articolo 36 della Costituzione. Terza condizione è che il salario minimo deve operare per tutti i contratti, non solo per le aree in cui non c’è la contrattazione collettiva”.
Pierpaolo Bombardieri
Il segretrario del sindacato Uil ha dichiarato: “Siamo d’accordo con il salario minimo a condizione che coincida con i minimi contrattuali“. Questo ovviamente non deve sostituirsi ai contratti.
Luigi Sbarra
Il segretario della Cisl vorrebbe che il salario minimo fosse “esteso e rafforzato attraverso la contrattazione“. Come riporta SkyTg24 Il sindacalista vede un forte peso fiscale su lavoro e sulle imprese e chiede al Governo di aprire un “confronto sui contenuti della delega fiscale“.
Salario minimo, quali Paesi ce l’hanno già? La situazione in Europa. Vera Monti il 07/06/2022 su Notizie.it.
Con tutte le differenze del caso, sono 21 gli Stati che in Europa hanno un salario minimo stabilito per legge per tutti i lavoratori.
Il salario minimo in Europa
Sono 21 i Paesi dell’Unione Europea che prevedono un salario minimo per legge con notevoli differenze tra loro nell’entità e nel rapporto con i redditi medi. Tra i sei che non lo prevedono figura l’Italia.
L’accordo raggiunto
La presidenza del Consiglio e i negoziatori del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva sui salari minimi adeguati nell’Ue. La nuova legge, una volta adottata definitivamente, promuoverà l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuirà così a raggiungere condizioni di lavoro e di vita dignitose per i dipendenti europei.
Le differenze tra i vari Stati
Il provvedimento fissa delle procedure di riferimento, sono notevoli infatti le differenze-in tema di salari – tra i vari Paesi dell’Unione Europea che emergono dai dati Eurostat.
Una forchetta che va dai circa 300 euro al mese in Bulgaria agli oltre 2000 in Lussemburgo.
I salari più alti si registrano nei Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale. Anche se – sottolinea il Corriere della Sera di oggi – “Sono però i paesi dell’Europa orientale ad aver registrato il miglioramento più considerevole negli ultimi 10 anni. Prima tra questi la Romania, che ha avuto un aumento dell’11,1% negli ultimi dieci anni secondo i dati Eurostat”.
Ovviamente tutto va contestualizzato ai vari parametri di ogni Stato, come il costo della vita. Ma occorreva appunto fornire l’obiettivo comune di un salario minimo collegandolo alla contrattazione collettiva o ad una legge che ne definisca l’importo minimo. Anche perchè il quadro disomogeneo dei salari minimi nell’Unione Europea non riguarda solo l’entità degli stessi ma anche il loro rapporto con i rispettivi redditi medi.
Il salario minimo in Europa
Tra i Paesi Ue, 21 hanno un salario minimo, stabilito per legge per tutti i lavoratori. Sono invece 6 – Austria, Danimarca, Cipro, Finlandia, Svezia e Italia – i salari sono stabiliti attraverso trattative di categoria
Dal primo ottobre il salario minimo in Germania (introdotto nel 2015) salirà a 12 euro l’ora. L’aumento è previsto in due fasi: da 9,82 a 10,45 euro il primo di luglio e poi a 12 euro il primo di ottobre.
Per quanto riguarda la Spagna, a febbraio il governo – dopo gli accordi con le parti sociali – ha fissato il salario minimo del 2022 a 1.000 euro al mese per 14 mensilità. Aumentandolo dunque di 35 euro rispetto al 2021.
Perché in Italia non c’è il salario minimo? Debora Faravelli il 07/06/2022 su Notizie.it.
Il ministro per la Pubblica Amministrazione Brunetta ha spiegato perché in Italia non è ancora in vigore il salario minimo.
In attesa che l’Unione Europea trovasse un accordo sul salario minimo, anche in Italia si è acceso il dibattito sulla retribuzione: il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta si è schierato contro la misura spiegando perché nel nostro paese non è in vigore.
Salario minimo in Italia
Intervenuto al Festival dell’Economia di Trento organizzato dalla Provincia Autonoma e dal Gruppo 24 Ore, l’esponente di Forza Italia ha dichiarato che “il salario minimo per legge non va bene perché è contro la nostra storia culturale di relazioni industriali e non può essere moderato ma deve corrispondere alla produttività“.
Parole che hanno lasciato intendere una contrarietà da parte del centrodestra alla riforma depositata nel 2018 in commissione Lavoro al Senato.
Dall’altra parte, il Commissario europeo per gli affari economici Paolo Gentiloni aveva invece parlato del salario minimo come di una possibile soluzione all’aumento delle diseguaglianze e alla crescente perdita del potere d’acquisto degli stipendi italiani.
Le posizioni di M5S e PD
Anche il Movimento Cinque Stelle si è schierato a favore della misura, definendola una priorità e una battaglia da completare subito. Il leader Giuseppe Conte aveva anche lanciato un appello alle altre forze politiche per aprire un confronto e approvare la legge nell’attuale legislatura.
Se così non fosse, i dem sarebbero comunque intenzionati a presentarla come proposta nel programma per le prossime elezioni politiche: “La questione salariale è fondamentale così come l’impegno ad arrivare al salario minimo come fanno in Germania e in Australia“.
Il loro sistema di sostegno populista aiuta i nullatenenti ritenuti in apparenza onesti, non i poveri, non gli emarginati.
Se, per esempio, un disoccupato riceve dai genitori in eredità un vecchio rudere, che per il fisco valuta più dei limiti di valore dai pentastellati stabiliti, non ha diritto al reddito di cittadinanza, sempre che non rinuncia all’eredità.
Non può accettarlo e cederlo. Se lo vende supera il reddito previsto o la giacenza in banca.
Se, per esempio, una vittima di ingiustizia o oggetto delle circostanze, si ritrova emarginato e bisognoso, ad esso il reddito di cittadinanza è escluso, tanto da reindurlo al crimine per campare.
Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 23 dicembre 2022.
Chi prende il Reddito di cittadinanza «non può aspettare il lavoro dei suoi sogni», avverte Giorgia Meloni. «Se a un laureato viene offerto un posto da cameriere, è giusto che accetti», sentenzia Claudio Durigon. Anche se con gli emendamenti alla legge di Bilancio si è fatta confusione e, a quanto pare, l'aggettivo "congrua", riferito all'offerta di lavoro per i beneficiari del Reddito, non è davvero stato eliminato, la volontà politica del governo emerge con chiarezza.
Ecco il ragionamento della presidente del Consiglio, ospite di Porta a Porta: «Se ti rifiuti di lavorare con un lavoro dignitoso e con tutte le garanzie del caso, perché quello non è il lavoro dei tuoi sogni - spiega - non puoi aspettare che lo Stato ti dia il Reddito di cittadinanza con i soldi di chi paga le tasse, magari senza fare il lavoro dei suoi sogni. È una questione di giustizia».
Poi annuncia una riforma di «tutta la materia», immaginando «un meccanismo in cui, in un Paese dove alcuni lavori si trovano e sono dignitosi, tu vai al Centro per l'impiego che ti indica gli ambiti in cui è richiesto lavoro e ti dice chi ti forma. Ma ci vuole anche la volontà». Insomma, il retropensiero è sempre quello: chi prende il reddito non cerca davvero lavoro, mentre «uno Stato giusto non mette sullo stesso piano dell'assistenzialismo chi può lavorare e chi non può».
Il sottosegretario al Lavoro Durigon, ai microfoni di Radio24, conferma l'intenzione di «portare a casa un decreto sul Reddito di cittadinanza nella seconda metà di gennaio» e sostiene che «se uno prende soldi pubblici non può essere schizzinoso, non può rifiutare nessuna tipologia di offerta che riguardi in contratto collettivo nazionale».
Poi cerca di «tranquillizzare Conte» sul tema della distanza del posto di lavoro dal luogo di residenza: «Il criterio della territorialità resta, anche perché una persona non può andare a Trieste per due giorni se è di Napoli».
Per il presidente del Movimento 5 Stelle, però, è «inaccettabile che si sia trovato il tempo per infierire sul Reddito di cittadinanza, mentre si va incontro alle parte marcia delle società di calcio».
E il capogruppo M5S alla Camera, Francesco Silvestri, accusa il governo di voler creare «mendicanti del lavoro, costretti ad accettare qualsiasi offerta a qualunque costo». A proposito di costi, Durigon parla anche di pensioni e lascia aperto uno spiraglio sul rinnovo di Opzione donna con i vecchi criteri: «Sulla manovra purtroppo non ci sono più margini, le varie coperture della Ragioneria ci hanno bloccato - precisa - ma stiamo lavorando per cambiare nel decreto Milleproroghe. Servono 80 milioni nel 2023, poi aumentano a 250 nel 2024».
Ma a tenere banco è quella che Maurizio Landini definisce «un'operazione molto ideologica» sul Reddito di cittadinanza. «Mi pare chiaro che il disegno del governo sia quello di farlo saltare - dice il leader della Cgil - averlo ridotto a 7 mesi e tolto anche l'offerta congrua, per non parlare di un salario dignitoso, è solo un nodo di fare cassa sulle spalle dei più poveri. C'è una parte consistente di percettori che non lavora da anni, mentre sul mercato si cercano lavoratori qualificati».
In realtà, come detto, il principio della congruità dell'offerta di lavoro ad oggi resta intatto, perché a essere incongruo è l'emendamento presentato da Maurizio Lupi di Noi Moderati e approvato dalla commissione Bilancio della Camera. Interviene sull'articolo 7 della legge del 2019 sul reddito di cittadinanza, «ma non modifica l'articolo 4, che richiama ancora l'offerta di lavoro congrua», ha spiegato il giuslavorista Michele Tiraboschi. Insomma, l'azione legislativa non riesce a seguire la volontà politica, almeno non con questa manovra. Ma la questione sarà ripresa nell'ambito della riforma complessiva delle politiche attive del lavoro, che la ministra Calderone punta a presentare entro la fine di gennaio.
R.Am. per “la Repubblica” il 22 dicembre 2022.
Cadono anche gli ultimi punti fermi del reddito di cittadinanza. Quegli 8 mesi di assegno garantiti ai circa 660 mila "occupabili", poi diventati 7, con gli ultimi emendamenti alla manovra approvati vengono sottoposti ad altri obblighi ancora. Cade l'aggettivo "congrua" dall'offerta che il lavoratore è obbligato ad accettare, per non perdere il beneficio. Significa, denuncia il leader del M5S Giuseppe Conte, «che le persone più indigenti devono accettare qualsiasi proposta di lavoro in qualunque luogo d'Italia: significa distruggere l'ascensore sociale. Siamo alla follia pura».
E i giovani tra i 18 e i 29 anni che non hanno completato il ciclo scolastico sono tenuti a iscriversi a percorsi formativi. «Prima di ricorrere a una misura meramente assistenziale è necessario restituire a questi ragazzi il diritto allo studio che per i motivi più diversi è stato loro negato», sostiene il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara.
«Privano di sostegno i giovani che non hanno completato il percorso scolastico, non curandosi del fatto che magari vivono in una famiglia che non li ha mandati a scuola o hanno dovuto abbandonare il percorso di studi per aiutare i genitori», obietta Alessandra Todde, deputata M5S ed ex vicemistro allo Sviluppo. Ma non è solo il M5S a scagliarsi contro la demolizione del reddito di cittadinanza. Protesta tutto il centro- sinistra, e anche i sindacati accusano il governo di «fare la guerra ai poveri».
Mentre vari istituti di ricerca, tra cui l'Istat nell'ultima audizione parlamentare sulla manovra, hanno sottolineato come sia difficile reimpiegare i cosiddetti "occupabili", per la maggior parte persone prive di competenze professionali e titoli di studio adeguati. Senza un robusto programma di formazione persino gli incentivi all'assunzione (8 mila euro) servono a poco. Il governo in queste ore si è impegnato in questa direzione: fonti del ministero del Lavoro assicurano che da gennaio partirà un progetto, coordinato con il programma Gol per la formazione, per rendere veramente occupabili i percettori e per evitare che, dopo sette mesi, perdano qualunque forma di sostegno.
Già in questi mesi si è lavorato in questa direzione: grazie ai fondi del Pnrr sono stati appena rafforzati 297 centri per l'impiego e si è arrivati a una "presa in carico" di oltre 600 mila disoccupati. A margine dell'Assemblea di Coldiretti, il ministro per il lavoro Marina Elvira Calderone ha assicurato che un decreto subito dopo la pausa festiva ridefinirà l'offerta congrua: «Messa in sicurezza la manovra, ora dovremo lavorare per rendere ancora più efficace la nostra azione sulle politiche attive e sulle attività per accompagnare le persone al lavoro».
Il piano verrà messo a punto con il contributo delle parti sociali, delle organizzazioni imprenditoriali e delle Regioni. La questione però non è tanto quella dell'offerta "congrua", riflette Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro alla Sda Bocconi: «Finora di offerte ai percettori di reddito non ne sono arrivate, di nessun tipo.
Quello che è mancato è un vero percorso di rafforzamento dell'occupabilità. E se il governo vuole intraprenderlo seriamente, non può pensare di concluderlo in sette mesi. Alla formazione va dedicato tutto il tempo necessario, anche due o tre anni se serve, come avviene in Francia o Germania. Serve un esercizio di realtà, altrimenti non si sta parlando di una riforma: è solo un esercizio contabile».
Niente studio né lavoro, ma il 15% prende il reddito di cittadinanza. Maurizio Zoppi su L'Identità il 16 Dicembre 2022
Oltre il 15% dei Neet in Italia riceve il reddito di cittadinanza. Per l’esattezza il 15,5% dei giovani “nulla facenti” dello Stivale, sono i percettori della misura politica fortemente voluta dal Movimento 5stelle. Numeri e dati messi in evidenza dal report “Il reddito di cittadinanza in relazione agli occupati a basso reddito (working poor) e ai giovani inattivi (Neet)”, realizzato nell’ambito del progetto di ricerca Monitor Fase 4, frutto della collaborazione tra AreaStudi Legacoop e Prometeia. Una platea di 395mila e 600 ragazzi di età dai 18 ai 29 anni. Per chi non lo ricordasse: i Neet sono definiti quei giovani non impegnati nello studio, né nel lavoro, né nella formazione. Proprio per queste ragioni non hanno risorse ma possono richiedere il reddito di cittadinanza in quanto rientrano nella categoria degli “occupabili”, almeno per la parte di coloro che hanno concluso il ciclo di studi obbligatorio, tenendo comunque conto che questi Neet non sono necessariamente quelli che richiedono la misura, ma anche componenti di nuclei beneficiari. E subito il pensiero va al termine “bamboccione”. La famiglia, oltre che il reddito di cittadinanza, diventa il proprio datore di lavoro, nel senso che provvede al mantenimento in caso di disoccupazione o di retribuzione a “nero” insoddisfacente. Al di là della misura di sostentamento creata dai grillini, quello che i genitori si concedono è un lusso rischioso in quanto il ragazzo che si trova in questa condizione di limbo potrebbe adagiarsi. E non darsi più da fare, creando col passare del tempo una spirale negativa. “Il legame con l’inserimento lavorativo è reso fragile non solo dalla mancanza di lavoro, non solo da alcune furbizie individuali, ma soprattutto dalla fragilità di quel fondamentale settore che nelle economie avanzate sono le politiche attive del lavoro, specialmente per i giovani”, osserva Mauro Lusetti, presidente di Legacoop. Nel frattempo come è ben noto, la maggior parte dei giovani “nulla facenti”, si trovano al Sud. In Campania, in Sicilia, in Puglia. Al Nord la situazione è più confortante. Soltanto il Piemonte sembrerebbe avere numeri rilevanti. Per essere precisi, il 65% dei percettori del reddito di cittadinanza si trova al Sud, dove si registrano il più alto tasso di disoccupazione (e quindi redditi familiari più bassi) e un più basso livello generale delle retribuzioni per chi è occupato, oltre ad un minor numero di servizi di welfare che consentono una piena conciliazione vita lavoro. E proprio al Sud che il Movimento 5stelle ha uno zoccolo duro dell’elettorato. Fatalità? Caso? Nel frattempo la stima dei voti è solo potenziale. Perché non si può avere nessuna certezza sulle intenzioni di voto di chi percepisce il reddito di cittadinanza. Ma i numeri dicono che sono più di tre milioni i voti espressi dalle persone che lo percepiscono. Tempo fa il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ha parlato apertamente di voto di scambio. “L’operazione sul reddito al Sud è il più grande scandalo per la politica, perché è esattamente un voto clientelare…”. Non sarà che la politica dei bonus e dei sussidi va a deprimere una economia già ferma e dove non c’è voglia di lavorare e di impegnarsi? E allora, oltre al Rdc, qual è la strategia delle forze politiche a livello locale e nazionale per risvegliare i Neet dalla apatia e ridare energia al Mezzogiorno addormentato? Una risposta che dovrebbe arrivare innanzitutto dal Movimento 5 Stelle, che a Palermo, in Campania in Sicilia e in generale nel Sud, ha conservato larga parte del suo consenso alle ultime elezioni politiche.
Fallimento del reddito al Sud: quasi uno su due resta a casa. Inattivi invariati rispetto all'avvio del sussidio grillino. Solo 50mila i percettori coinvolti dal programma Gol. Gian Maria De Francesco il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La consueta rilevazione trimestrale del mercato del lavoro effettuata dall'Istat ha messo ancora una volta in risalto l'inefficacia del reddito di cittadinanza come strumento volto a sostenere il reinserimento dei beneficiari, almeno di quelli occupabili.
Cominciamo, tuttavia, con le buone notizie. Il tasso di disoccupazione in Italia nel terzo trimestre è sceso al 7,9% (-0,2 punti sul trimestre precedente, -1,1 punti sull'anno), il valore minimo dal 2009. Il tasso di occupazione è stabile rispetto al trimestre precedente al 60,2%, sui livelli più alti dal 2004, inizio delle serie storiche. Rispetto al terzo trimestre 2021 il tasso di occupazione è cresciuto di 1,1 punti. I disoccupati nel terzo trimestre erano 1,98 milioni.
Il dato, come al solito, è molto disomogeneo a livello territoriale perché il tasso di occupazione varia dal 68,2% del Nord al 65% del Centro al 46,6% del Mezzogiorno dove è in diminuzione di 0,3 punti percentuali rispetto alla fine di giugno 2022. Ma quello che preoccupa al Sud è il lieve incremento del tasso di inattività che è aumentato al 45,7% ritornando sui livelli del terzo trimestre 2019 anche se in valore assoluto i meridionali di età compresa tra 15 e 64 anni che non hanno un lavoro e non lo cercano sono meno di tre anni fa (5,8 milioni contro 6 milioni).
Sono questi dati a mostrare l'inefficacia del reddito di cittadinanza. Il sussidio grillino, infatti, obbliga il percettore in grado di lavorare a sottoscrivere un patto presso il Centro per l'impiego, rientrando dunque nella categoria dei disoccupati (se non già occupato e titolare del bonus allo scopo di integrare il reddito). Invece, le persone in cerca di lavoro al sud sono passate dagli 1,3 milioni di inizio 2019 ai 976mila di fine settembre. Il tasso di disoccupazione è «miracolosamente» sceso nello stesso periodo dal 18,1% al 13,8%, cioè è accaduto il contrario di quello che si prevedeva.
Il dato, sebbene positivo, è influenzato dalle dinamiche socio-demografiche. Tra inizio 2019 e settembre 2022 la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è calata di 575mila unità, un trend che non si spiega solo con la denatalità ma soprattutto con l'emigrazione interna. Sia al Nord che al Centro la popolazione in età lavorativa è diminuita di 100mila persone circa. È lecito, pertanto, dedurre che la minore flessione sia stata effetto dell'immigrazione dei meridionali andati al Nord o al Centro per studiare e per lavorare. L'ipotesi è in linea con il Rapporto Svimez che indica in 125mila-150mila il numero di meridionali che ogni anno lascia la propria terra in cerca di fortuna nel resto d'Italia.
Ne consegue che chi da Catanzaro, Siracusa e Avellino ha trovato un lavoro molto probabilmente non deve «ringraziare» il reddito grillino. Ma chi è rimasto al Sud che cosa ha fatto? Ricordando che nel Meridione risiedono i due terzi dei nuclei beneficiari del sussidio (689mila per 1,6 milioni di persone coinvolte), in quelle Regioni al 30 giugno 2022 i soggetti al «patto per il lavoro», secondo l'Anpal, erano 495mila. Poiché l'attuazione del Pnrr prevede l'avvio della Gol (garanzia di occupabilità del lavoratore), un percorso formativo mirato, dalla stessa Anpal sappiamo che a inizio ottobre i «presi in carico» percettori di reddito erano solo 50mila. Ne consegue che una spesa di 8-9 miliardi annui (di cui almeno 3,5 per l'inserimento lavorativo) per il reddito è difficile da giustificare.
Bonus, sussidi e assunti. Il libro dei sogni di Conte a spese dei contribuenti. Il leader 5s attacca la manovra e ne presenta una alternativa basata sull'assistenzialismo. Domenico Di Sanzo il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Paragona Giorgia Meloni alla Trojka e vuole difendere i poveri da una manovra «misera». Giuseppe Conte attacca a tutto campo sulla legge di Bilancio. Lo fa dopo l'intervento di martedì nell'Aula di Montecitorio, un discorso in cui ha continuato a marcare le differenze con la linea di politica estera del governo di centrodestra. E quindi tavolo di pace, stop alle armi a Kiev, mezze aperture alla Russia di Vladimir Putin. Ragionamenti che fanno il paio con le bordate all'indirizzo dell'esecutivo sull'economia. In un modo abbastanza inedito per le altre forze politiche, si spinge a tacciare Meloni di promuovere politiche pro-austerity. «Oggi il problema della Trojka è stato risolto, la trojka ce l'abbiamo qui in Italia e ha il volto del presidente Meloni e del ministro Giorgetti», spiega Conte in conferenza stampa dalla sede grillina, dove ha annunciato una pioggia di emendamenti alla manovra. Poi va sul personale: «Giorgia Meloni era evidentemente troppo impegnata ad urlare mentre noi, al governo, eravamo intenti a imprimere una svolta in Ue per superare politiche di austerity». La strategia di Conte è quella di dipingere Meloni come una pedina del «sistema», un'evoluzione di Mario Draghi più che una pericolosa sovranista con simpatie fasciste. Il leader grillino insiste sull'occupazione di uno spazio a sinistra, un varco lasciato libero da un Pd in attesa del congresso e in crisi di identità.
Conte, già negli scorsi giorni, aveva anticipato una serie di emendamenti per «la giustizia sociale». A partire sempre dalla battaglia per il Reddito di cittadinanza. «Sotto l'albero di Natale Meloni ha messo precarietà, voucher e taglio immediato del Reddito di cittadinanza per oltre 600mila persone fragili», attacca Conte. Gli emendamenti sono una lista da libro dei sogni, con tutti i migliori cavalli di battaglia del grillismo. Dal ripristino del Rdc al salario minimo a 9 euro l'ora lordi. E poi raddoppio del taglio del cuneo fiscale dal 2% al 4%, ma solo per i redditi fino a 35mila euro. Conte poi ha parlato di riscatto della laurea, sempre gratuito, per i giovani under 36 e di agevolazioni per i giovani che vogliono comprare la prima casa. E ancora, a pioggia, di assunzioni nella scuola e fondi per il dissesto idrogeologico.
«Se non l'avessimo vista nero su bianco non avremmo creduto a una manovra così misera. Non avremmo potuto pensare che un governo politico che aveva fatto proclami di senso opposto proponesse una manovra senza visione e senza attenzione verso le fasce più in sofferenza. Da chi si definisce patriota ci saremmo aspettati misure a sostegno dell'Italia», ribadisce il leader del M5s. Con lui i capigruppo di Camera e Senato Francesco Silvestri e Barbara Floridia e i capigruppo in Commissione Bilancio Daniela Torto e Stefano Patuanelli. L'avvocato gioca la carta dell'opposizione dura e parla di manovra «pavida», «iniqua», che colpisce i deboli. Conseguenza dei toni grillini sarà il prevedibile ostruzionismo in Aula. «Ci batteremo per far ascoltare le nostre ragioni, poi, c'è il solito dilemma dell'esercizio provvisorio che non fa bene al Paese», smorza. «Ci batteremo nei limiti temporali propri della manovra affinché le nostre posizioni vengano accolte», dice ancora l'ex premier.
Nel 2022 respinte 240mila domande (il 18%) per il Reddito di cittadinanza. Ecco perché e come. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Dicembre 2022.
Sugli 1,29 milioni di richieste di sussidio pervenute da inizio anno fino ad ottobre, sono circa un quinto quelle rigettate dall’istituto pensionistico. Altre 50mila, invece, sono state sospese e sottoposte ad ulteriori controlli. Mancanza di residenza in Italia oppure errate dichiarazioni sulle posizioni lavorative dei familiari le principali criticità
Nei primi dieci mesi del 2022 l’Inps ha individuato oltre 290mila richieste di reddito di cittadinanza a rischio, su un totale di circa 1,3 milioni. Di queste, 240mila domande per mancanza del requisito della residenza in Italia oppure per false o omesse dichiarazioni relativamente alla posizione lavorativa dei componenti il nucleo familiare, sono state respinte in automatico, prima che la prestazione potesse essere indebitamente percepita, mentre 50mila sono state sospese e sottoposte a ulteriori controlli.
Complessivamente, da quanto si evince da una tabella dell’ente pensionistico, le richieste respinte al 30 settembre 2022 sono 456.331, le ‘posizioni’ decadute 264.964, quelle revocate 60.523. Il che porta il totale complessivo (dal 2019) a 1.735.195 domande rigettate, 871.491 decadute e 213.593 revocate. “Il sistema dei controlli risulta complesso a causa delle molte amministrazioni coinvolte e della tempistica da rispettare per verificare i requisiti, all’atto della presentazione della domanda“, spiegano dall’Inps.
L’Inps ha intensificato i controlli ex ante sul reddito di cittadinanza, nell’ottica di prevenire ed individuare i comportamenti opportunistici e fraudolenti. Un altro scenario di rischio che l’Inps sta da poco utilizzando, in stretta collaborazione con le forze dell’ordine, è quello relativo all’eventuale titolarità di imprese e/o di qualifiche/cariche sociali da parte dei componenti il nucleo familiare richiedente il beneficio. Tale circostanza, infatti, seppure di per sé non incompatibile con la fruizione del beneficio Rdc, è ritenuta sintomatica di potenziali frodi comunque connesse alla fruizione del reddito di cittadinanza oppure a irregolarità concernenti il settore delle aziende, quali, ad esempio, quelle dei ”prestanome” nella titolarità delle stesse. Anche le domande riconducibili a tale scenario vengono intercettate e sottoposte ad ulteriori controlli.
Per omogeneità ed organicità di controllo, l’Inps ha elaborato un’apposita piattaforma informatica che permette alle strutture periferiche di consultare le istanze Rdc che presentano gli indici di rischio selezionati, così da poter svolgere le opportune verifiche sulle domande sospese e sbloccarne l’esito, se positivo, o avviare le conseguenti azioni di recupero, in caso negativo. Gli scenari di rischio elaborati consentono all’Inps di attivare costanti sinergie con le forze dell’Ordine, nel solco della massima collaborazione tra le amministrazioni, ispirata ad una tutela rafforzata della legalità, per conciliare l’inclusione sociale, nei limiti dei veri bisogni da tutelare, e il controllo e contenimento della spesa pubblica. Redazione CdG 1947
L'Inps a guida grillina si accorge soltanto ora delle truffe sul reddito. Nei dati dell'istituto la mole dei raggiri. Solo nel 2022, 240mila domande respinte. Fabrizio Boschi il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Ostinarsi a difendere il reddito di cittadinanza ad ogni costo anche quando è indifendibile. Una misura che non assicura un futuro ma semmai lo toglie e che l'ex premier «Giuseppi» Conte continua a volere, minacciando addirittura una «guerra civile» nel caso venisse tolto.
Eppure, i dati sono chiari. Ora anche quelli delll'Inps presieduta dall'economista Pasquale Tridico, nominato proprio da Conte a capo dell'Istituto. Adesso anche il fedelissimo del M5s si accorge che quel provvedimento ha avuto come effetto solo quello di produrre tante truffe ai danni dello Stato. Sono 240mila le domande per il Reddito di cittadinanza respinte nei primi dieci mesi del 2022. A riportarlo è l'Istat, che nel suo ultimo report evidenzia come si trattTi di quasi un quinto delle richieste totali di sussidio pervenute.
«Gli scenari di rischio elaborati e di relativi allarmi» attivati dall'Inps hanno permesso di individuare su circa 1.290.000 domande di Reddito di cittadinanza pervenute, nei primi dieci mesi del 2022, oltre 290mila a rischio: 240mila sono state respinte in automatico, per mancanza del requisito della residenza in Italia, oppure per omesse dichiarazioni relative alla posizione lavorativa dei componenti il nucleo familiare, o anche per false dichiarazioni. Si tratta del 18,6% delle domande, quasi un quinto, che sono state respinte prima che la prestazione potesse essere indebitamente percepita. Inoltre, 50.000 domande sono state sospese e sottoposte ad ulteriori controlli, pari al 3,8% delle istanze», scrive l'Inps.
Un milione di domande è stato accettato, si tratta del 77,5% delle richieste. Complessivamente, da quanto si evince da una tabella dell'Inps, al 30 settembre 2022: 456.331 sono in totale le domande respinte, 264.964 le posizioni decadute, 60.523 quelle revocate. Il sistema dei controlli risulta particolarmente complesso per il grande numero di amministrazioni coinvolte e per la tempistica da rispettare per la verifica dei requisiti. L'Inps ha attuato un «sistema di controlli centralizzati sulla sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, affiancato da verifiche ex post a cura delle sedi territoriali sulla veridicità delle dichiarazioni», spiega l'Istituto di previdenza sociale nazionale.
Inoltre, si legge nel comunicato stampa, «l'Inps ha intensificato i controlli ex ante nell'ottica di prevenire ed individuare i comportamenti opportunistici e fraudolenti. Pertanto, il sistema dei controlli è stato progressivamente rafforzato con l'obiettivo di accertare la veridicità delle dichiarazioni rese, verificando preventivamente le informazioni in possesso dell'Inps e di altre amministrazioni pubbliche, e anticipando i controlli anche in ottica antifrode. Sono stati, inoltre, individuati scenari di rischio potenziale predefiniti, incrociando le dichiarazioni presenti nelle domande del reddito di cittadinanza e nelle relative dichiarazioni sostitutive uniche con i dati e le informazioni presenti nei propri archivi».
Insomma, proprio mentre il governo lavora con la manovra all'introduzione di forti paletti per ridurre e poi spegnere il Reddito di cittadinanza, l'Inps se ne esce con una nota nella quale fa presente come il suo sistema di controlli abbia portato a sventare potenziali distorsioni nel beneficio di sostegno al reddito. L'Istituto riconosce che spesso il reddito è stato oggetto di «ampio dibattito» e «particolare attenzione mediatica», in particolare all'emergere di truffe e accrediti illeciti. E ricorda di avere via via intensificato i controlli ex ante, di pari passo con l'evoluzione della norma, e in particolare in ottica «antifrode». Conte adesso quali altri argomenti troverà?
Welfare universalistico. L’ingenuità dei Cinquestelle e i difetti del reddito di cittadinanza. Giovanni Perazzoli su L’Inkiesta il 30 Novembre 2022
I grillini hanno sempre presentato la loro misura bandiera come una misura contro la povertà, ma in realtà dovrebbe essere contro la disoccupazione. E soprattutto non è una novità: esiste da decenni più o meno in tutta Europa
Il welfare per la disoccupazione sul modello universalistico di Beveridge, che abbiamo chiamato in Italia “reddito di cittadinanza”, non è mai piaciuto alla sinistra, non piace alla destra e il Movimento 5 Stelle non sa che cosa sia veramente (almeno a sentirli parlare).
Da questa premessa vengono i due peccati originari del “reddito di cittadinanza” italiano: 1) è stato presentato come una misura contro la povertà, mentre è un sussidio per la disoccupazione, e 2) non è stato presentato come una realtà che, più o meno dal dopoguerra, esiste già nel resto d’Europa.
Se si fossero tenuti presenti questi due punti, il percorso della riforma sarebbe stato diverso, ma è anche vero che, se questi punti non sono stati tenuti presenti, è perché una vera riforma, probabilmente, non la si vuole o non se ne immagina il senso.
Il fatto incontrovertibile che misure analoghe (ma ben architettate) esistono negli altri Paesi europei avrebbe costretto sia i critici che i sostenitori del reddito di cittadinanza a confrontarsi con gli altri Paesi. Ma l’assenza dell’ancoraggio all’esperienza europea ha permesso che emergessero proprio quelle arretratezze che ci si aspetta da una sinistra corporativa e da una destra di nuovo corporativa.
I «poveri», invece, mettono d’accordo tutti. Chiedono soldi e non riforme del lavoro. Sono il minimo comune denominatore ideologico che permette di spostare il punto della questione da tutt’altra parte. Segue, per conseguenza diretta, la disinvolta retorica dei pigri sul divano e le piazzate peroniste dai balconi, con annessi annunci trionfali del primo governo che ha deciso di porre fine alla povertà con una legge finanziaria.
La confusione tra povertà e disoccupazione riassume un quadro ideologico antico. È una premessa che conduce verso una sola direzione. Aristotele dice che un errore poco evidente all’inizio del ragionamento diventa un grande errore alla fine. E qui la fine è la fine dello stesso reddito di cittadinanza.
Se sposti il peso dalla disoccupazione alla povertà, la conclusione del presidente del Consiglio Meloni, e di tanti altri, suona sensata: perché dovremmo sussidiare chi può lavorare? Sussidiamo i poveri, invece, che non possono lavorare.
Però l’impostazione del problema rivela l’equivoco. Non si tratta di aiutare i poveri, ma i disoccupati temporanei. I benefit (come dicono gli inglesi) per la disoccupazione nascono storicamente dalla presa d’atto di un fatto: nelle nostre economie esiste la disoccupazione.
Il rilievo che sfugge è che il welfare ha un ruolo, positivo o negativo nel funzionamento delle nostre economie. Non è un aspetto neutrale. I benefit per la disoccupazione coprono, da una parte, i periodi di mancanza di reddito, dall’altra, però, hanno lo scopo, non secondario, di allocare il lavoro dove serve. Non è un utilizzo del welfare che è solo assistenza, ha anche un impatto sull’efficienza del mercato del lavoro.
La flessibilità del lavoro senza sussidi di disoccupazione adeguati significa vivere in un mondo vecchio, pensare in modo vecchio, essere, soprattutto, i rappresentanti di un’economia povera, che ha bisogno di lavoro nero e di bassissimi salari.
L’universalismo è meno distorsivo dei privilegi corporativi. Ma è ingenuo aspettarsi che in Italia si combattano i privilegi corporativi. Per la destra in stile Meloni, peraltro, il welfare corporativo è tradizione e Dna (v. voce “corporativismo”). Una storia che, c’è poco da fare, è stata condivisa, e non per caso, anche dalla sinistra, che dal dopoguerra ha rifiutato il welfare universalistico di Beveridge. Mi ha sempre colpito che il Report di Beveridge sia stato tradotto in italiano dall’esercito occupante inglese.
Il punto è che una cosa è il welfare e un’altra è il lavoro. Nei Paesi poco sviluppati, invece, lavoro e welfare sono la stessa cosa e si crea un’occupazione fittizia.
I sussidi di disoccupazione sono pensati come una rete utile soprattutto, ma non esclusivamente, per i giovani che hanno lavori precari, che non hanno rappresentanza sindacale, che sono fluidi o flessibili. La risposta ideologica è abolire la precarietà, abolire la disoccupazione, nazionalizzare l’economia e via con la saga (la banca che stampa moneta, il sovranismo di destra e di sinistra, e vari rossobruni assortiti). La sinistra italiana ha sempre visto in queste misure dei contentini, e non avrebbe mai accettato il reddito di cittadinanza se il Movimento 5 Stelle non l’avesse scavalcata.
L’esclusione sociale, il recupero alla società delle persone perdute, però, anche qui permette di andare d’accordo. Ma nel mondo che non è rimasto fermo agli anni Cinquanta, una persona perfettamente integrata nella società può essere temporaneamente disoccupata e per questo percepire un sussidio.
A questo punto salta sempre fuori qualcuno a dire che, no, per i disoccupati esiste la Naspi. Sbagliato. La Naspi è un’altra cosa: è un’indennità contro la disoccupazione, è un’assicurazione a cui lo stesso lavoratore contribuisce con dei versamenti mensili, ha la durata di un anno, con un importo pari al settantacinque per cento della retribuzione perduta, e si può chiedere dopo due anni di lavoro. Ma che cosa succede per chi è precario e non mette insieme due anni di contributi, per chi ha diciotto anni e cerca e non trova il primo lavoro, per chi dopo la Naspi non trova un’occupazione?
Facciamo l’esempio di un giovane olandese, inglese, francese, tedesco, irlandese: è in età da lavoro, non ha mai lavorato prima, vuole lavorare, e invece di rivolgersi all’amico influente di turno, entra in un Job Centre per chiedere se è disponibile un lavoro, ad esempio, da camionista (o un altro lavoro coerente con la sua formazione professionale).
Se nessuno al momento ha bisogno di un camionista, allora, dietro la sottoscrizione di un impegno a lavorare come camionista appena possibile (pena la perdita del sussidio), può beneficiare di un modesto sussidio potenzialmente illimitato nella durata. Se dovesse perdere il lavoro da camionista, allora può chiedere un’indennità di disoccupazione (analoga alla Naspi), che una volta terminata senza trovare un’occupazione torna al sussidio di base, quello che in Italia abbiamo chiamato reddito di cittadinanza.
Diamo allora i nomi di questi strumenti così ci capiamo meglio e ognuno può verificare (basta anche Wikipedia). Il “reddito di cittadinanza” tedesco si chiama Arbeitslosengeld II. Già il nome dice che si tratta di soldi (Geld) per i disoccupati (Arbeitslosen). Perché poi segue il numero II? Perché evidentemente esiste un primo sussidio, Arbeitslosengeld I, che è appunto l’indennità di disoccupazione.
In Francia quello che da noi si chiama “reddito di cittadinanza” si chiama Revenue de solidarité active, mentre in Gran Bretagna e in Irlanda si chiama Jobseeker Allowance (anche qui dal nome si vede che non riguarda i poveri ma chi cerca un lavoro).
Come si capisce, questi strumenti hanno una funzione di rete di base per chi non ha ancora una posizione definita o per la disoccupazione di lungo periodo. Certamente è vero che questi sussidi sono anche degli strumenti contro la povertà, ma lo sono in seconda battuta: è evidente che il disoccupato è «a rischio di povertà».
L’altra parte della storia è che un Job Centre che funzioni sarebbe per l’Italia una rivoluzione più grande dello stesso reddito di cittadinanza. Significherebbe che i precari e i disoccupati, che non sanno dove sbattere la testa, non sono lasciati soli. Ma sono cose che non si improvvisano con i navigator.
La realtà è che si sussidiano in Italia tanti settori di economia arretrata, come deriva dall’ipotesi della tassa ad Amazon. Il punto è che, come per le licenze dei tassisti, le concessioni eterne per i balneari, il lavoro nero che pago con cinquemila euro non tracciabili, si preferisce sussidiare un’economia da rendita. È un Paese vecchio, che spende per le pensioni, per le rendite, e toglie la rete per i giovani flessibili, che però pagano per tutta la baracca.
L’idea che si debba sussidiare l’economia da quattro soldi e l’idea che la povertà si possa risolvere con dei sussidi vengono dallo stesso paniere. Sussidiare i poveri appare come una lotta sociale in risposta al sussidio delle rendite. Ma siamo dentro lo stesso orizzonte angusto da economia concettualmente fallita.
Gli addetti ai lavori conoscevano bene la questione del welfare per i lavoratori ben prima del Movimento 5 Stelle. Romano Prodi, ad esempio, aveva istituito una commissione per adeguare il welfare italiano a quello europeo, che è finita nel nulla. Per prendere un altro esempio clamoroso e drammatico – a dimostrazione che la storia della riforma del welfare precede il Movimento 5 Stelle – il volantino di rivendicazione dell’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona lo accusava di lavorare a uno schema di reddito di ultima istanza che avrebbe permesso allo stato, scrivono, di disimpegnarsi sul tema del lavoro.
Se la storia è vecchia, è perché si è perso molto tempo. In altre parole, il sussidio di disoccupazione non è mai piaciuto. Forse perché troppo liberale, troppo poco paternalistico, perché non ti lega a un caporale.
Colpisce, allora, che alcuni liberali europeisti italiani si siano sbracciati a rappresentare i disoccupati come pigri da divano, nonostante il fatto che la riforma sia stata raccomandata nel corso di vari decenni dalle istituzioni europee.
Il fatto che la Caritas si sia occupata di valutare i risultati del reddito di cittadinanza riflette l’equivoco della povertà. Nel suo studio, rileva che il reddito di cittadinanza non incontra tutte le esigenze dei poveri e considera più opportuno che a gestire i fondi siano gli operatori sociali dei comuni. Tutto comprensibile, a patto che il reddito di cittadinanza sia un sussidio per i poveri. Ma come dare torto alla Caritas, se i primi ad averlo presentato come un sussidio per i poveri sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle?
La Cgil, per parte sua, è sempre stata fredda, in linea di massima, verso i sussidi di disoccupazione universalistici. La ragione è che preferisce un welfare corporativo, che offra spazio per la contrattazione e un ruolo maggiore per il sindacato. La stessa diffidenza dei sindacati c’era, se non sbaglio, anche in Olanda, ma fu superata lasciando che fossero i sindacati a gestire il welfare, senza che venisse meno, però, la funzione universalistica.
Ora, si dirà: ma non sono evidenti le storture prodotte dal reddito di cittadinanza? Certo. Ma se si leggessero i giornali stranieri, si scoprirebbe che le stesse polemiche viste in Italia sono fiorite anche in Inghilterra, Germania, Francia. Raccolsi molti casi presi dai tabloid, che sono una buona fonte per la polemica su questa materia che eccita il senso populista della giustizia. Ma questo non mette in dubbio i benefici dell’intero sistema. Sarebbe come smantellare i tribunali a causa degli errori giudiziari.
Va ricordato, nel caso fosse sfuggito, che una delle ragioni della Brexit, una ragione molto sentita dalla gente comune, è stata quella di impedire agli europei (sovente gli europei dell’Est e del Sud) di beneficiare del welfare inglese.
David Cameron ottenne dall’Unione europea, per sostenere il Remain, di potere escludere dal Jobseeker Allowance i cittadini europei per un certo numero di anni. Non può sfuggire che non è un tema marginale. Un’altra cosa c’è da ricordare. Margaret Thatcher chiuse le famose miniere di carbone improduttive, non sospese il Jobseeker Allowance, e la polemica di sinistra era quella rappresentata da Ken Loach: il lavoro di stato era finito, interi quartieri vivevano con il Jobseeker Allowance. Naturalmente, il Jobseeker Allowance non è però per questo responsabile della disoccupazione.
Contro gli abusi sono state varate, negli altri Paesi, delle riforme che hanno reso il sistema più efficiente, e se ci fossimo resi conto, non solo del carattere europeo, ma del suo decennale processo di rodaggio, avremmo potuto trarne giovamento per la nostra riforma. La quale, invece, ha messo insieme tutto quello che non si dovrebbe mai fare: niente Job Centre, niente formazione, nessun controllo. Non si è fatto niente perché non fare niente è nella logica del sussidio contro la povertà.
Viste le premesse, poteva andare molto peggio. In realtà, infatti, in Italia è stato speso meno del previsto per il reddito di cittadinanza.
Mi sbilancio con una previsione. Da decenni l’Unione europea invita l’Italia a cambiare registro, e non (solo) per carità e buoni sentimenti, ma perché il welfare è anche uno strumento per allocare il lavoro dove serve.
Uno dei temi è forse anche quello degli aiuti occulti di stato, che facilita il welfare categoriale. Comunque sia, cito il testo della famosa lettera Draghi-Trichet dove si raccomandava all’Italia «un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi».
La virtù del welfare universalistico non sta solo nella maggiore efficacia rispetto alle politiche corporative, ma è anche un capitolo della limitazione liberale del potere. Beveridge era un liberale non per caso. L’universalismo impedisce che la politica abbia “contatto” con il bisogno che nasce dalla disoccupazione: altrimenti lo farà per cercare voti, consenso settoriale, per garantire rendite.
Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” l’8 novembre 2022.
Che il reddito di cittadinanza vada cambiato ormai lo dicono proprio tutti. Persino Maurizio Landini. Possibile? È così. E non si tratta di una modifica da poco, ma di una svolta radicale che potrebbe cambiare completamente il volto alla misura dei grillini. Sentite qua. Secondo il leader della Cgil «con il reddito di cittadinanza è emersa l'idea che devi accettare qualsiasi proposta di lavoro. Ma non è vero che ogni lavoro proposto è dignitoso e accettabile. Deve essere un lavoro che ha diritti e doveri».
Altro che tagliare l'assegno dopo il primo rifiuto, come sta valutando il governo per stimolare i percettori a darsi da fare e ridurre un po' gli sprechi. Qui stiamo parlando di dare la possibilità al disoccupato che campa a spese dei contribuenti di scegliere il lavoro che più lo aggrada. Già, perché chi lo stabilisce se un lavoro è dignitoso o meno?
In teoria, quando il contratto e regolare e le leggi vengono rispettate, e i centri per l'impiego solo questi possono offrire, tutti lo sono. O forse ci vuole dire il leader della Cgil, sindacato che difende i lavoratori, che alcuni impieghi sono meno dignitosi di altri. Sarebbe una notizia clamorosa. Che non vogliamo però prendere in considerazione. L'alternativa, quindi, è che sia il percettore del reddito a decidere. Il che ha una piccolissima conseguenza: consentirebbe di motivare senza problemi qualsiasi rifiuto. E di continuare ad intascare il sussidio vita natural durante. All'infinito.
Ad un certo punto Landini, durante il suo intervento all'assemblea della Filt-Cgil Lombardia, mescola un po' le carte, mettendo nello stesso calderone il lavoro in nero, quello sottopagato e quello precario. Togliamo il primo perché, come si diceva, è evidente che un ufficio pubblico non può proporti un'attività illegale. Restano gli altri due, che indicano un impiego pagato poco e a termine.
Quindi abbiamo un paio di indizi. Il lavoro dignitoso è il posto fisso con uno stipendio elevato. Ma dove sta scritto che chi campa coi soldi dei contribuenti senza avere impedimenti di sorta possa permettersi di scegliere l'attività da svolgere? Ammettiamo per un attimo che sia così. Il problema, dice Landini, al di là del dignitoso o meno, è che i beneficiari del sussidio non hanno ricevuto proprio offerta.
«Quante proposte di lavoro sono state fatte a chi ha il reddito di cittadinanza? Quanti hanno rifiutato il lavoro?», si è chiesto il sindacalista, aggiungendo che il tema di fondo «è creare il lavoro che non c'è». Una parte, quest' ultima, sacrosanta. Ma che consiglierebbe di abolire seduta stante il reddito di cittadinanza, visto che gli 8 miliardi spesi in buona misura per un esercito di fannulloni potrebbero tranquillamente essere dati alle imprese per creare migliaia di posti di lavoro.
Ma l'errore di Landini sulle due domande poste è macroscopico. Nessuno, e questo è uno dei principali problemi che riguarda l'obolo grillino, sa con esattezza quante proposte abbiano ricevuto i percettori del reddito né quanti lavori abbiano rifiutato perché i dati non confluiscono dai centri per l'impiego alle Regioni e da queste all'Anpal. Qualcosa, però, si sa. E sono dati che rendono la sortita del leader della Cgil non tanto ridicola e fuori dal mondo, quanto completamente inutile.
Dei 920mila beneficiari indirizzati ai servizi per il lavoro, quelli ritenuti occupabili dopo la scrematura degli esoneri sono 660mila. Si tratta di persone che hanno tutti i requisiti per svolgere un'attività e non hanno familiari fragili di cui occuparsi. Ebbene, di questi 660mila volete sapere quanti si sono recati effettivamente ai centri per l'impiego, hanno sottoscritto il patto per il lavoro e sono stati presi in carico? Si tratta di 280mila persone, vale a dire il 42,5% degli occupabili.
Appare chiaro che la questione non è il lavoro dignitoso o il lavoro che non c'è. La realtà è che ci sono 380mila persone (il 57,5%), che incassano ogni mese l'assegno e neanche si sono sforzate di dare un segno della loro presenza, così, tanto per far finta di rispettare le procedure. Ma davvero vogliamo continuare a spendere i nostri soldi per mantenerli? Davvero Landini vuole andare nelle loro case a sentire quale lavoro ritengano abbastanza dignitoso da convincerli ad alzare il loro sedere dal divano?
Estratto dell'articolo di Valerio Valentini per “il Foglio” il 4 novembre 2022.
Viste le premesse, nessuno sa come andrà a finire il pastrocchio. E forse anche per questo, per dissipare l’incertezza o magari per sfruttarla, la toscana Alessandra Nardini ha convocato per lunedì un vertice della commissione, da lei presieduta, di tutti gli assessori regionali al Lavoro.
All’ordine del giorno, la circolare inviata dal ministero del Lavoro il 28 ottobre, con cui si avviava la procedura per la proroga dei navigator fino a fine anno. Il tutto, malgrado poi la ministra Marina Calderone abbia smentito il suo stesso dicastero, specificando che “la proroga non è tecnicamente possibile”. E insomma sembra di essere su “Scherzi a parte”. (..)
Solo che, se da un lato le regioni fanno sapere che attendono chiarimenti da Roma, al ministero del Lavoro ribattono che loro le procedure per varare la proroga le hanno avviate solo dopo aver “considerato l’intendimento già reso noto” dalle regioni di Molise e Basilicata, oltre che “all’esito delle istanze pervenute dalle organizzazioni sindacali”. (...)
E tanta è stata la confusione, che quando si è diffusa la notizia del ripensamento, lunedì pomeriggio, nella chat degli assessori regionali al Lavoro di centrodestra, c’è stato chi s’è lamentato. “Qui il colore delle giunte c’entra poco”, ci dice Filomena Calenda, responsabile Lavoro nella giunta molisana del berlusconiano Donato Toma.
“Da Roma non possono chiederci atti di fedeltà politica, perché qui la questione è oggettiva”. Semmai la divisione, più che ideologica, è geografica, se è vero che le regioni ansiose di ottenere la proroga sono per lo più quelle del sud. Nella Calabria di Roberto Occhiuto, centrodestra, i 120 navigator in scadenza avevano già riconsegnato i loro tablet.
Fine corsa, sembrava. Sennonché, dopo la circolare del 28 ottobre, erano stati reintegrati. “A patto che sia il governo a prorogarli”, disse Occhiuto. Tre giorni dopo, di nuovo nel limbo. Il neo presidente siciliano Renato Schifani, ha già dato l’annuncio: “I nostri 280 navigator restano, avranno i contratti fino a fine anno”. E del resto, a Palazzo dei Normanni rivendicano la linearità della loro condotta: “Dopo la circolare del 28 ottobre, con cui ci si chiedeva di indicare il numero delle persone di cui volevamo avvalerci, lo abbiamo comunicato. Noi di quelle professionalità abbiamo bisogno”.
Prosegue la molisana Filomena Calenda, tra le promotrici dell’istanza: “Se c’è l’intenzione di fare a meno dei navigator, devono anzitutto dirci come intendono metterci nelle condizioni di potenziare le politiche attive, visto che da lì passa anche il raggiungimento di uno degli obiettivi del Pnrr”. Il Molise ne ha nove, al momento, di navigator. “E dal 31 ottobre restano surgelati”.
Non sono i soli. In totale, sono circa 950. “E noi, come regioni, non possiamo certo prorogarli”, dice l’assessore lucano Alessandro Galella, esponente di FdI, ammettendo di essere rimasto “disorientato da indicazioni così contraddittorie, senza che dal ministero ci sia arrivato alcun chiarimento nel merito”.
“Quel che è certo è che la Pubblica amministrazione non può assumere questo navigator dalla sera alla mattina”, ammette Alessia Rosolen, assessore nel Friuli leghista di Massimiliano Fedriga che di navigator “rimasti senza un destino” ne ha 12. “Né dal ministero possono pretendere che noi organizziamo un concorso ad hoc nel giro di qualche settimana. Lo trovo francamente un atto di analfabetismo istituzionale”. E sì che questi sono gli assessori di centrodestra.
Reddito di cittadinanza e “lagnusia”. Michele Gelardi r Redazione L'Identità il 2 Novembre 2022
La saggezza popolare siciliana ha saputo cogliere il nesso fondamentale, che sussiste sempre e in ogni caso, tra la pigrizia umana e l’inclinazione al lamento perpetuo. In dialetto siciliano una sola parola significa le due cose: il pigro viene chiamato “lagnusu”, per indicarne appunto l’attitudine alla lagna, coniugata con l’indolenza. Il prototipo moderno del “lagnusu” percepisce il reddito di cittadinanza e non vuole disfarsene; fa del lamento la sua ragione di vita, giacché deve pur giustificare al suo prossimo e a se stesso la rinuncia al lavoro e all’iniziativa privata; cerca mille pretesti per autoassolversi, vestendo i panni della vittima; dà la colpa alla società, che non gli offre le giuste opportunità, e al governo che non sa gestire la cosa pubblica; ritiene che il “sistema” sia corrotto e per ciò stesso ostile ai puri come lui. Non può cercare le ragioni giustificative della sua pigrizia in quelle dottrine politiche che esaltano la libertà umana e l’iniziativa privata; né cercare rifugio nella fede religiosa che lo pone innanzi alla responsabilità individuale, giacché si ritroverebbe immediatamente nel girone infernale degli ignavi; è attratto inevitabilmente dalle dottrine politiche che prefigurano il “mondo nuovo”. Trova nell’ideologia “perfettista”, che annuncia il futuro radioso dell’umanità, la sua agognata summa teorica, che consola le sue afflizioni e motiva l’inazione. Ovviamente i “perfettisti”, i quali si relazionano all’”uomo come dovrebbe essere”, piuttosto che all”’uomo com’è”, si guardano bene dall’indicare un traguardo più o meno immediato. Come minimo la meta dista 30 anni, giacché la loro agenda è tanto corposa da postulare il compimento nel 2050; ma potrebbe anche essere confinata in un domani indeterminato, chiamato “città del sole” o “sole dell’avvenire“ o “dittatura del proletariato” . Poco importa che il nunzio si chiami Campanella, Proudhon, Marx o perfino Grillo; che sia erudito o abile solamente a fare battute; ciò che veramente attrae il “lagnusu” e non può mancare in alcuna proposta politica, che annuncia la futura “perfezione”, è il sentimento del “gregge”. Le pecore, all’interno del gregge, perdono la loro individualità, sicché uno vale uno; inoltre il gregge non decide da sé la strada da percorrere, è guidato da un pastore, che sorveglia e tutela. Ebbene il “lagnusu” vuole sentirsi parte di un gregge proprio per queste ragioni: si consola, perché può rappresentarsi uguale agli altri; si appaga della tutela altrui, perché rinuncia all’iniziativa personale. Insomma il pigro, al contempo lagnoso, ha bisogno di un “elevato” per coltivare il sentimento del gregge e autoassolversi; e l’elevato di turno può identificarsi in una persona, ma anche in un partito; l’importante è che il programma politico dell’elevato giustifichi l’inazione, proiettando l’annunciata perfezione in un domani lontano. Ovviamente non tutti i percettori del reddito di cittadinanza sono pigri e lagnosi. Non mancano le persone volenterose, che cercano seriamente il lavoro e non si appagano della provvidenza di Stato. Ma indubbiamente il reddito di cittadinanza, nell’attuale configurazione, premia e incentiva la pigrizia, piuttosto che la ricerca di lavoro. Non può stupire dunque che il totem della “difesa” del reddito di cittadinanza, ossia l’intendimento di impedirne qualsivoglia riforma, abbia premiato la forza politica che, meglio e più delle altre, attrae i predisposti alla lagna, perché ne lusinga il loro sentimento del gregge, declinandolo in moralismo dei presunti puri, democrazia plebiscitaria, ispirata alla dottrina di Rousseau, “decrescita felice” e neoegualitarismo (dei poltronari da play station) dell’uno vale uno.
660 mila persone che possono lavorare prendono il reddito di cittadinanza. Linda Di Benedetto su Panorama il 31 Ottobre 2022.
Il Governo Meloni prepara la stretta partendo da un dato: un terzo di chi oggi lo riceve può lavorare, ma non lo fa 660 mila persone che possono lavorare prendono il reddito di cittadinanza
In Italia circa la metà di chi prende il Reddito di cittadinanza potrebbe anzi, dovrebbe lavorare. Per questo motivo il governo Meloni ha deciso di rivedere la misura di contrasto alla povertà dei 5 stelle, limitando dove è necessario la platea dei beneficiari. Infatti la Premier da sempre contraria alla misura è stata chiara da subito e nel suo discorso in Parlamento per la fiducia ha ribadito con forza che il reddito per come è stato pensato: «ha rappresentato una sconfitta per chi era in grado di fare la sua parte per l’Italia».
Una stretta che secondo i dati dell’Anpal riguarderebbe 660.602 percettori del Reddito di Cittadinanza su circa 1.150.152 milioni di famiglie che ne usufruiscono. In questo milione di percettori sono stati individuati 919.916beneficiari indirizzati per il lavoro ma secondo la nota dell’Anpal del 30 giugno 2022 solamente 173mila, ossia uno su cinque pari al 18,8% ha trovato una occupazione. Dati da cui va escluso chi non ha obblighi lavorativi e sono 66.770 soggetti (anziani, disabili e minori), insieme ad altri 19.676 soggetti che sono stati rinviati ai servizi sociali e 172.868 percettori che risultavano già occupati con redditi di basso livello tanto da avere diritto al sussidio. Tutti i potenzialmente occupabili (660.602) hanno comunque ricevuto il Patto per il lavoro dai centri per l’impiego previsto dalla legge per continuare a percepire ancora il reddito. Ma nonostante le premesse a preoccupare è che la maggior parte dei percettori che potrebbero lavorare sono individui che hanno un’età, un livello di istruzione ed una esperienza lavorativa che rende difficile il loro ingresso nel mondo del lavoro, come più volte denunciato dai navigator. Risulta infatti che questa platea di oltre mezzo milione di individui il 73% è lontano dal mercato del lavoro da oltre tre anni, il 36% di chi ha trovato un impiego ha avuto una durata di meno tre mesi, il 78,8% ha un basso livello di istruzione con solamente la licenza media come titolo di studio, il 57% sono donne, il 48% hai più di 40 anni e il 10% è straniero. In più un altro dato significativo è che il 75% di queste persone risiede nelle isole o al sud come Campania e Sicilia. Entrambe le regioni hanno la maggiore percentuale di beneficiari, con valori rispettivamente del 25,6% e del 21,6%. Nell’insieme assommano dunque il 47,2% del totale di chi fa ricorso alla misura. Tutte le restanti aree regionali invece esprimono valori al di sotto del 10%. Alla luce di questi dati sul Reddito di Cittadinanza Matteo Salvini leader della Lega ha proposto di sospendere per sei mesi la misura per finanziare quota 102 che farebbe risparmiare 1 miliardo di euro allo Stato, cifra che permetterebbe il finanziamento di un meccanismo di uscita anticipata dal lavoro a 61 anni, con 41 anni di contributi. La sospensione secondo la proposta di Salvini, vedrebbe coinvolti 900.000 percettori del Reddito di cittadinanza, cioè coloro che sono stati definiti in condizione di lavorare.
Martina Franca, un immigrato con sette mogli dichiara di prendere otto Rdc. Affari Italiani Venerdì, 30 settembre 2022. Oltre ai sette redditi di cittadinanza che prende dalle mogli, il marocchino percepisce anche il suo e i vari bonus.
Martina Franca, un uomo di nazionalità marocchina si vanta di percepire otto redditi di cittadinanza
In un bar della cittadina pugliese di Martina Franca, un uomo di nazionalità marocchina è entrato e si è vantato di percepire ben otto redditi di cittadinanza. Essendo musulmano, egli ha spiegato che è sposato con sette mogli e ognuna ha comunicato un domicilio diverso per percepire il sussidio. Quindi, ogni mese oltre ai vari bonus, sul suo conto corrente finiscono circa seimila euro.
La vicenda è emersa durante la trasmissione "Ti posso offrire un caffè", in onda su Puglia Press e condotta dal direttore Antonio Rubino.
Gioca d'azzardo 300mila euro ma percepisce il reddito di cittadinanza: giudice la assolve. Il caso ad Avellino: la donna percepiva il reddito di cittadinanza ma, allo stesso tempo, aveva l'abitudine di scommettere e giocare online. Il giudice la assolve: "Il reddito è cosa diversa dal gioco". Federico Garau il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Percepisce il reddito di cittadinanza ma, nel frattempo, spende cifre considerevoli nel gioco d'azzardo: il caso ad Avellino, dove la questione è stata portata dinanzi al giudice, il quale ha incredibilmente deciso di assolvere la donna.
I fatti risalgono allo scorso 2019. L'imputata, una donna di 37 anni, aveva fatto domanda e ottenuto il reddito di cittadinanza grillino, ma al contempo impiegava le sue giornate dedicandosi parecchio al gioco. Stando all'accusa, infatti, nello stesso anno della percezione del sussidio dello Stato, il 2019, la 37enne era riuscita a movimentare con carte prepagate l'astronomica somma di 300mila euro. Una cifra enorme, divisa in vincite e perdite ai giochi online e ai centri scommesse.
Da mesi latitante, viene preso mentre ritira il reddito di cittadinanza
Qualcosa di incredibile se si pensa al reale impiego del reddito di cittadinanza, messo a punto, almeno nella teoria, per sostenere i cittadini in difficoltà economica e in cerca di lavoro. La 37enne, a quanto pare, spendeva parecchio nel gioco, un'abitudine che poco si concilia con la natura del reddito.
Il denaro vinto, riferisce Ansa, è stato puntualmente rigiocato e perso. Nel frattempo, dall'anno 2019, la 37enne aveva intascato 12.600 di reddito dall'Inps. Il caso è quindi finito in tribunale, col giudice di Avellino che ha stupito tutti affermando che il fatto non sussiste in quanto "il reddito è cosa diversa dal gioco".
Secondo l'avvocato Danilo Iacobacci, legale che rappresenta la donna, le vincite provenienti dal gioco non possono essere considerate reddito, e i giudici del foro di Avellino Sonia Matarazzo, Pierpaolo Calabrese e Michela Eligiato gli hanno dato ragione. La 37enne è stata pertanto assolta dal reato di acquisizione fraudolenta di erogazioni pubbliche, proprio perché il reato, nel suo caso, non sussiste.
Non è tutto finito. L'Inps, in ogni caso, chiede infatti la restituzione della cifra elargita. Sul caso dovranno nuovamente esprimersi i giudici. La donna, a quanto pare, ha già presentato opposizione tramite il suo avvocato difensore in sede civile Fabiola De Stefano.
Reddito di cittadinanza, truffa da 190 mila euro: 36 denunciati in uno stabile occupato a Tor Cervara. Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2022
Gli indagati, tutti stranieri e residenti all’anagrafe in un palazzo abbandonato di Tor Cervara, a Roma, non avevano il requisito della residenza in Italia da oltre dieci anni
Truffa da più di 190 mila euro allo Stato per il reddito di cittadinanza percepito indebitamente da 36 persone. E adesso è scattata la denuncia per i «furbetti», tutti stranieri e residenti all’anagrafe nello stesso stabile di Tor Cervara, in stato di abbandono. A querelarli, sono stati i carabinieri del nucleo operativo della compagnia Roma centro, con la collaborazione dei militari del Nucleo ispettorato del lavoro.
Dalle indagini avviate con il controllo di una persona domiciliata nello stabile, i militari hanno accertato che nel periodo compreso tra il 2020 e il 2022, la totalità delle persone denunciate non era in possesso del requisito della residenza in Italia da almeno dieci anni. La stessa motivazione che ha fatto scattare la denuncia per undici persone nella provincia di Latina e ventidue nella provincia di Viterbo.
Secondo gli ultimi dati, in totale, in Italia, il reddito di cittadinanza ha subito frodi per 288 milioni che hanno comportato la denuncia di 29mila persone su oltre un milione di percettori.
La truffa di 36 stranieri in uno stabile abbandonato a Roma : sottratti 190mila euro grazie al Reddito di cittadinanza, senza averne diritto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2022
Indagine dei Carabinieri: i soldi percepiti tra il 2020 e il 2022
Scoperta un’altra truffa ai danni dello Stato grazie al Reddito di cittadinanza tanto caro al Movimento 5 Stelle. Trentasei persone, tecnicamente residenti in uno stabile abbandonato a Tor Cervara di Roma, sono state denunciate dai Carabinieri per indebita percezione del reddito.
I denunciati, tutti stranieri e di varie nazionalità, hanno percepito l’emolumento tra il 2020 e il 2022 senza averne diritto, perché non erano effettivamente residenti in Italia da almeno dieci anni: termine imposto dalla normativa quale requisito per l’accesso alla previdenza sociale.
Secondo quanto accertato dai Carabinieri del nucleo operativo della Compagnia Roma Centro e quelli del NIL, il Nucleo Ispettorato del Lavoro, l’importo complessivo erogato indebitamente ammonta in totale a 190.148 euro. Lo stabile di riferimento è un ex centro di accoglienza in disuso in via Armellini. Redazione CdG 1947
Napoli, prosegue l’indagine dei Carabinieri sul reddito di cittadinanza. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2022
Il portafogli si ingrossa ancora, quello nelle tasche dei 662 furbetti del reddito di cittadinanza scovati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Napoli nel periodo che va da aprile a ottobre di quest’anno. Tutti hanno ricevuto denaro dallo Stato senza averne titolo. Per 287 di loro si ipotizza anche la truffa. Nessun commento o plauso politico del M5S di Giuseppe Conte
Primi giorni di ottobre, si chiude il cerchio sul terzo capitolo dell’inchiesta sul reddito di cittadinanza. I carabinieri napoletani, con la preziosa collaborazione del nucleo ispettorato del lavoro e dell’Inps, hanno continuato ad approfondire i controlli sul beneficio intascato indebitamente da chi la soglia della povertà non l’ha mai varcata. Da chi vive in una sorta di limbo sommerso dove il lavoro nero, la delinquenza e l’arte di arrangiarsi (soprattutto a scapito degli altri) sono le uniche leggi riconosciute.
Controlli a tutela di quelle persone che del denaro garantito dal reddito di cittadinanza ne farebbero una fonte (lecita) di sostentamento. Un beneficio che garantirebbe un pizzico di serenità ai veri bisognosi, quelli che con quel ritegno d’altri tempi neanche lo richiederebbero. Si riafferma, dunque, un ciclo simbolicamente durato un anno e 6 mesi, durante il quale i militari hanno scoperchiato una voragine nel bilancio statale che ha assorbito, moneta su moneta, 14 milioni 648 mila e 248 euro e 6 centesimi.
Una cifra spaventosa che in lettere fornisce una dimensione ancora più chiara di un fenomeno ancora ampiamente diffuso su tutto il territorio nazionale. Nessun commento o plauso politico del M5S di Giuseppe Conte sull’operazione di legalità svolta dall’ Arma dei Carabinieri. Ormai i grillini hanno portato a casa i voti…
Quasi 15 milioni di euro sottratti indebitamente da migliaia di persone a cui non manca di certo la pagnotta e che, nonostante tutto, hanno richiesto aiuto al governo. 14.648.248,6 euro che tradotti su base giornaliera (con riferimento ad un periodo di un anno e 6 mesi circa, da giugno 2021 al 6 ottobre 2022: 553 giorni) significano 26.488,69 euro “regalati” ogni 24 ore a chi non ne aveva diritto, 1.103,69 euro l’ora.
Con la terza tornata di controlli, la somma rilevata è di 2.962.551,06 euro. Il campione in vitro è come sempre Napoli con la sua intera provincia, isole comprese. E ancora una volta si è proceduto analizzando il territorio in tre macro-aree: Napoli (con Pozzuoli, Monteruscello, Quarto, Monte di Procida, Bacoli, Ischia, Procida, ndr), comuni della provincia a Nord (area giuglianese compreso litorale, Castello di Cisterna e area a nord del Vesuvio, area maranese, Casoria e comuni limitrofi e area nolana) e sud (vesuviano lungo la costa, area di Torre Annunziata, Torre del Greco, Volla, Ercolano, Cercola, penisola sorrentina, Castellammare di Stabia e Capri).
Ma andiamo nello specifico, individuando quelle aree dove si è registrata una maggiore concentrazione di domande irregolari. Partiamo da Napoli, dove i Carabinieri hanno rilevato il picco di irregolarità tra le municipalità 3, 4 e 6. Per intenderci siamo nei quartieri Stella, San Carlo Arena, San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale, Zona Industriale, Barra, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli.
I conti parlano di 731.973,68 euro intascati senza titolo: il 24.71% del dato provinciale riassunto in 9 quartieri. E oltre la metà (66,7%) dei numeri napoletani che parla di complessivi 1.097.391,52 euro sottratti alle casse statali. Non solo cifre, anche storie. Uno dei percettori risulta essere il 57enne del centro di Napoli, recentemente arrestato sull’isola d’Ischia per truffa ai danni di un’anziana. Il solito trucchetto del finto nipote costato all’uomo le manette. Da accertamenti dei militari intervenuti è emerso che nel novero dei percettori fosse registrato anche il suo nome.
Sussidio statale nelle tasche anche di 3 parcheggiatori abusivi denunciati tra le strade del quartiere Vomero. Non è chiaro quale delle entrate servisse per arrotondare il bilancio familiare, quella del Rdc o quella delle “offerte a piacere” degli automobilisti disperatamente alla ricerca di un parcheggio. Anche un 34enne, raggiunto da un provvedimento dell’Autorità giudiziaria per una rapina commessa in un market in Via Cilea, ne è risultato beneficiario.
A beneficiare indebitamente dei soldi dello stato anche due persone arrestate lo scorso 22 settembre durante operazione dei Carabinieri di Scampia. I due sono gravemente indiziati di aver costretto un 27enne e la madre anziana a lasciare l’abitazione popolare dove vivevano legittimamente.
Lasciamo il capoluogo per spostarci nell’area a nord di Napoli.
1.461.878,27 euro il conto sulla scrivania dei militari. Una cifra che spacchettata fa retrocedere l’area maranese (Marano, Villaricca, Melito, Mugnano e Calvizzano) di 2 posizioni: il conto finale è di 253.166,9 euro concentrati nei portafogli dei percettori illeciti individuati in questi 5 comuni. A guadagnare il posto più alto del podio Acerra con 707.787,49 euro di benefici illeciti, medaglia d’argento per Pomigliano con un buco di 316.336,30 euro. Seguono a ruota i dati di Giugliano in Campania (96.828,19 euro) e Arzano, con 55mila euro tondi.
Quest’ultima somma è stata convogliata nelle tasche di soli 11 soggetti, recentemente coinvolti in un indagine che ha inferto un duro colpo al clan della 167 di Arzano. Tra questi anche il padre di un esponente di spicco della consorteria criminale che in occasione della compilazione dell’autocertificazione ha omesso di indicare nel nucleo familiare uno dei componenti sottoposto a misura cautelare.
Una delle persone arrestate lo scorso 23 settembre nell’ambito di un operazione dei Carabinieri di Giugliano avrebbe ricevuto indebitamente circa 23mila euro dallo Stato. L’uomo è gravemente indiziato di estorsione e turbata libertà degli incanti, per aver interferito nell’aggiudicazione all’asta di un immobile sito a Casaluce.
Nel comune di Calvizzano, invece, i militari hanno denunciato 20 extracomunitari perché avrebbero richiesto il reddito di cittadinanza nonostante non avessero maturato i 10 anni di permanenza nel territorio italiano. Il danno causato al bilancio ammonta a circa 70mila euro.
Il terzo tassello arriva dall’area a sud di Napoli. A conti fatti la somma che è finita in mani sbagliate è di 403.281,27 euro. A dirigere questa “black list” i furbetti di Torre del Greco che hanno incassato 81.533 euro e quelli di San Giuseppe Vesuviano, con 71.502 euro.
Tra le persone che hanno beneficiato di denaro senza imperlarsi la fronte di sudore una donna del ’64, di Cercola, recentemente raggiunta da un ordine di carcerazione. La donna è stata tradotta al carcere di Santa Maria Capua Vetere e sconterà 3 anni, 7 mesi e 16 giorni di reclusione per usura, rapina ed estorsione, reati aggravati dal metodo mafioso. Estorsione il reato ipotizzato anche per 2 persone destinatarie di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Dda partenopea, eseguita dai Carabinieri del nucleo investigativo di torre annunziata, per corruzione elettorale in concorso.
I controlli dell’ Arma dei Carabinieri continueranno anche nei prossimi mesi.
Bilancio da Giugno 2021 al 6 Ottobre 2022:
Totale euro 14.648.248,6 euro;
Totale percettori illeciti 4.307;
Totale persone denunciate 1.556.
Prima inchiesta
5.127.765,71 euro giugno/novembre 2021 – 2441 le persone alle quali è stato revocato il beneficio su tutto il territorio della provincia partenopea, 716 denunciati per truffa ai danni dello Stato
Seconda inchiesta
6.557.931,86 di euro novembre 2021/ aprile 2022 – 1204 percettori illeciti
651 posizioni irregolari, 553 persone denunciate per truffa ai danni dello Stato.
Terza inchiesta
2.962.551,06 euro Aprile/Ottobre 2022 – 662 percettori illeciti – 375 irregolarità, 287 dpl
Questi i dati più recenti delle indagini dei Carabinieri svolte fra agosto ed ottobre 2022 nei quali sono state scovate persone con beneficio percepito indebitamente :
sabato 1 ottobre 2022
Giugliano in Campania, località Varcaturo: lavoro sommerso, controlli dei Carabinieri. In un pub 3 lavoratori “in nero”, 1 col reddito di cittadinanza I carabinieri della stazione di Varcaturo, insieme a quelli del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Napoli hanno svolto controlli in alcune attività commerciali della zona. Attenzione concentrata principalmente su pub e pizzerie. Due le pizzerie nelle quali non sono state rilevate irregolarità. In un pub in via Ripuaria, invece, i militari hanno rilevato e identificato 3 impiegati in nero. Uno di loro percettore indebito del reddito di cittadinanza. Il titolare è stato denunciato e multato per quasi 23mila euro. L’attività è stata sospesa.
sabato 24 settembre 2022
Giugliano e Qualiano: Controlli dei carabinieri in tutela dei lavoratori e dei consumatori. Operazione a largo raggio per i Carabinieri della compagnia di Giugliano che nella grande città a nord di Napoli e a Qualiano hanno effettuato un servizio volto al controllo delle attività commerciali, delle aziende e dei cantieri presenti sul territorio. Obiettivi la tutela del lavoratore e del consumatore.
A Giugliano in Campania i Carabinieri della locale stazione insieme a quelli del Nil di Napoli hanno sospeso le attività in un cantiere edile di via Assisi. I militari hanno controllato i 5 lavoratori presenti e di questi 4 erano in nero. 2 dei 4 percepivano anche il reddito di cittadinanza. Per l’imprenditore una denuncia a piede libero e sanzioni civili e penali per un importo complessivo di 37.500 euro.
venerdì 23 settembre 2022
Controlli dei carabinieri a Grumo Nevano per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Un servizio a largo raggio effettuato a Grumo Nevano dai carabinieri della compagnia di Caivano insieme ai militari del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Napoli. Diverse le aziende controllate e durante le operazioni i militari hanno trovato in un’azienda che si occupa di abbigliamento all’ingrosso 5 lavoratori in nero sui 5 presenti. Dei 5 erano in 3 a percepire anche il reddito di cittadinanza. L’azienda è stata sequestrata e l’imprenditore sanzionato per più di 40mila euro.
Controllata anche un’azienda di Casandrino impegnata nel settore dell’intrattenimento. Contestati illeciti penali e amministrativi in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. Trovato anche un lavoratore in nero. L’attività è stata sospesa e sanzione salata per il proprietario dell’azienda, ben 94mila euro.
sabato 17 settembre 2022
C’è di tutto nei controlli dei Carabinieri al Vomero a Napoli. Dal reddito di cittadinanza alla droga, dai coltelli ai parcheggiatori abusivi. Ha 53 anni la donna denunciata per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche dai Carabinieri della compagnia Vomero per truffa. Ha richiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza nonostante in famiglia il marito fosse impiegato in una società di delivery. Oltre 16mila euro il conto dei danni allo Stato.
venerdì 16 settembre 2022
I Carabinieri hanno arrestano un latitante per omicidio durante la “Prima Faida di Scampia”. Arrestato un 67enne affiliato al clan Amato/Pagano, che aveva anche il reddito di cittadinanza. I carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Napoli hanno arrestato Antonio Pezzella, 67enne di Casavatore ritenuto affiliato al clan Amato/Pagano e latitante dallo scorso gennaio. Pezzella si sottrasse ad un ordine di custodia cautelare in carcere emesso dalla corte di assise d’appello di Napoli ed è ritenuto gravemente indiziato dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere di Gaetano De Pascale. La vittima, cugino di Paolo diLauro, fu uccisa nel novembre del 2004 durante quella che viene convenzionalmente definita la “Prima faida di Scampia”. Il 67enne è stato individuato in un’abitazione di Casavatore al termine di un’articolata e complessa attività di indagine e di un costante monitoraggio del web e dei flussi bancari. E’ risultato anche percettore del reddito di cittadinanza. E’ stato tradotto al carcere di Secondigliano.
giovedì 1 settembre 2022
Portici e San Sebastiano: Carabinieri arrestano tre persone. Due blitz anti-droga per i Carabinieri della compagnia di Torre del Greco e 3 persone arrestate. Una coppia con il reddito e un pusher colto alla sprovvista Il primo episodio avviene a Portici e a finire in manette è Pasquale Lucarella, 47enne del posto già noto alle forze dell’ordine. I militari della locale stazione lo hanno notato e bloccato mentre cedeva una dose di cocaina a un “cliente” all’incrocio tra via Palizzi e Piazzale Brunelleschi. Arrestato, è in attesa di giudizio. Gli altri due arresti sono avvenuti a San Sebastiano al Vesuvio. I carabinieri hanno fatto visita all’abitazione della 34enne Anna Salomone e di Salvatore Ricciardi, 40enne. I due conviventi sono del posto e già noti alle forze dell’ordine. Durante la perquisizione i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato una pianta di marijuana alta circa 3 metri. Un “albero dell’illecito” irrigato grazie ad un allaccio abusivo della rete elettrica. I due, infatti, non solo risponderanno di coltivazione di sostanze stupefacenti ma anche di furto di energia elettrica. La pianta era in coltivazione e alimentata con un sistema automatico collegato al contatore che segnava solo il 30% dei consumi reali. La coppia è in attesa di giudizio ed è stata segnalata anche all’Inps per i provvedimenti del caso: i Carabinieri hanno infatti accertato che i due percepivano il reddito di cittadinanza.
sabato 20 agosto 2022
Accertato lavoro sommerso a Giugliano in Campania:. In un locale 11 impiegati in nero su 19, 4 dei quali con reddito di cittadinanza. Controlli dei Carabinieri in 3 attività di ristorazione Tutela del lavoro e sicurezza al centro dei controlli dei carabinieri in alcuni locali di Giugliano in Campania. Lavoro in nero anche per una pizzeria in zona Lago Patria. Dei 19 lavoratori impiegati ben 11 erano “sommersi”. 4 di questi, hanno scoperto i militari, ricevono mensilmente anche il reddito di cittadinanza. E’ stata richiesta la revoca del beneficio. Denunciati i titolari delle 3 società digestione, sospese le attività di ristorazione.
sabato 20 agosto 2022
A Torre del Greco un 47enne arrestato dai Carabinieri. Quando i militari della sezione operativa di Torre del Greco lo hanno sorpreso con la droga non ha perso tempo a far valere le sue ragioni. Nel marzo scorso, gli stessi militari gli avevano fatto revocare il beneficio del reddito di cittadinanza perché pregiudicato e, ora che quel denaro non era più garantito, doveva pur trovare una nuova fonte di sostentamento. E così la scelta del 47enne di torre del greco è caduta sugli stupefacenti. Durante una perquisizione nella sua abitazione i carabinieri hanno rinvenuto 58 grammi di hashish, un bilancino di precisione e materiale per il confezionamento delle dosi. L’uomo è stato arrestato per detenzione di droga a fini di spaccio. L’arresto è stato convalidato e gli è stata applicata la misura dell’obbligo di presentazione alla pg.
martedì 16 agosto 2022
NAPOLI, BAGNOLI E AGNANO: lavoro nero e percettori illeciti di reddito di cittadinanza. Controlli dei Carabinieri in una pizzeria e in un ristorante Carabinieri della stazione di Bagnoli e quelli del nucleo ispettorato del lavoro di Napoli hanno svolto controlli in due note attività di ristorazione. La prima è nel quartiere Agnano ed è un ristorante. Dei 9 impiegati controllati 2 erano “in nero” e sono risultati anche percettori del reddito di cittadinanza. In una nota pizzeria di Bagnoli, invece, i Carabinieri hanno rilevato 4 lavoratori irregolari e 1 percettore di reddito di cittadinanza sui 16 impiegati. Contestate violazioni penali per importi che vanno oltre i 22mila euro e amministrative per complessivi 28760 euro. Redazione CdG 1947
Le indagini dei carabinieri. Reddito di cittadinanza, scovate a Napoli 662 persone senza diritto: 15 milioni nelle tasche sbagliate. Vito Califano su Il Riformista il 15 Ottobre 2022
I carabinieri di Napoli hanno individuato e denunciato 662 percettori indebiti del reddito di cittadinanza a Napoli, nel periodo da aprile a ottobre del 2022. L’inchiesta dell’Arma sul sussidio ha accertato che in anno e mezzo hanno sottratto quasi 15 milioni di euro dalle casse dello Stato, una media di 1.100 euro all’ora. Soltanto nell’ultima retata i percettori avevano preso somme pari a quasi 3 milioni. Per 287 persone di ipotizza anche la truffa. I carabinieri hanno trovato le maggiori irregolarità tra le municipalità 3, 4 e 6. Ovvero nei quartieri Stella, San Carlo Arena, San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale, Zona Industriale, Barra, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli.
I carabinieri, nella nota del Comando Provinciale di Napoli, facendo sapere dell’operazione annunciano che i controlli continueranno anche nei prossimi mesi. Si legge così nell’ordinanza:
Primi giorni di ottobre, si chiude il cerchio sul terzo capitolo dell’inchiesta sul reddito di cittadinanza. I carabinieri napoletani, con la preziosa collaborazione del nucleo ispettorato del lavoro e dell’Inps, hanno continuato ad approfondire i controlli sul beneficio intascato indebitamente da chi la soglia della povertà non l’ha mai varcata. Da chi vive in una sorta di limbo sommerso dove il lavoro nero, la delinquenza e l’arte di arrangiarsi (soprattutto a scapito degli altri) sono le uniche leggi riconosciute.
Controlli a tutela di quelle persone che del denaro garantito dal reddito di cittadinanza ne farebbero una fonte (lecita) di sostentamento. Un beneficio che garantirebbe un pizzico di serenità ai veri bisognosi, quelli che con quel ritegno d’altri tempi neanche lo richiederebbero. Si riafferma, dunque, un ciclo simbolicamente durato un anno e 6 mesi, durante il quale i militari hanno scoperchiato una voragine nel bilancio statale che ha assorbito, moneta su moneta, quattordici milioni seicentoquarantotto mila e duecentoquarantotto euro e sei centesimi. Una cifra spaventosa che in lettere fornisce una dimensione ancora più chiara di un fenomeno ancora diffuso.
Quasi 15 milioni di euro sottratti indebitamente da migliaia di persone a cui non manca di certo la pagnotta e che, nonostante tutto, hanno richiesto aiuto al governo. 14.648.248,6 euro che tradotti su base giornaliera (con riferimento ad un periodo di un anno e 6 mesi circa, da giugno 2021 al 6 ottobre 2022: 553 giorni) significano 26.488,69 euro “regalati” ogni 24 ore a chi non ne aveva diritto, 1.103,69 euro l’ora.
Con la terza tornata di controlli, la somma rilevata è di 2.962.551,06 euro. Il campione in vitro è come sempre Napoli con la sua intera provincia, isole comprese. E ancora una volta si è proceduto analizzando il territorio in tre macro-aree: Napoli (con Pozzuoli, Monteruscello, Quarto, Monte di Procida, Bacoli, Ischia, Procida, ndr), comuni della provincia a Nord (area giuglianese compreso litorale, Castello di Cisterna e area a nord del Vesuvio, area maranese, Casoria e comuni limitrofi e area nolana) e sud (vesuviano lungo la costa, area di Torre Annunziata, Torre del Greco, Volla, Ercolano, Cercola, penisola sorrentina, Castellammare di Stabia e Capri).
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Messaggi da Bruxelles. Il commissario Schmit spiega come migliorare il reddito di cittadinanza (senza abolirlo). Linkiesta il 29 Settembre 2022
Mentre nella prima settimana post-elettorale già si parla dell’abolizione del sussidio bandiera del Movimento Cinque Stelle, dall’Europa arriva una indicazione chiara a chi vorrebbe eliminarlo: «Se viene abolito poi che si fa con chi non ha alcun reddito? Li mandiamo tutti in parrocchia?»
Il reddito di cittadinanza non va abolito, però va applicato meglio, in tutte le zone d’Italia, per garantire un adeguato reinserimento nel mondo del lavoro dei beneficiari. Mentre nella prima settimana post-elettorale già si parla della possibile abolizione del sussidio bandiera del Movimento Cinque Stelle, dall’Europa arriva un messaggio chiaro a chi vorrebbe eliminarlo. «Se viene abolito poi che si fa con chi non ha alcun reddito? Li mandiamo tutti in parrocchia?», si chiede Nicolas Schmit, commissario europeo al Lavoro, in un’intervista alla Stampa.
Ieri il lussemburghese ha presentato una raccomandazione che invita gli Stati a modernizzare i propri regimi di reddito minimo secondo una serie di criteri in modo da combattere la povertà e favorire l’inclusione sociale. Oggi più di un quinto dei cittadini Ue è a rischio di povertà e di esclusione sociale. Ovviamente, precisa Schmit, «non stiamo parlando di un reddito universale incondizionato perché lo strumento che ci serve è molto diverso. Deve far parte di una più generale politica di inclusione sociale, per aiutare le persone a tornare nel mercato del lavoro».
Ed è proprio questo il problema del reddito di cittadinanza italiano. «Io credo che il reddito di cittadinanza corrisponda più o meno allo schema che proponiamo noi perché prevede l’integrazione nel mercato del lavoro», spiega il commissario. «Dopodiché ci sono anche quelli che pensano che il reddito universale incondizionato sia la soluzione. Dare una somma ai cittadini e dire: “Fatene ciò che volete”, a prescindere dal fatto che lavorino o meno. Ci sono stati esperimenti simili in Canada e in Finlandia, ma queste esperienze sono state interrotte perché non hanno portato risultati. Io sono assolutamente contrario. Ciò che proponiamo noi è diverso. Il reddito minimo deve esser parte di politiche sociali attive più ampie. Può funzionare solo se ti prendi cura delle persone. Bisogna dare loro un reddito minimo per avere una vita decente, ma bisogna mettere in campo gli strumenti giusti per accompagnarle».
L’Italia quindi non dovrebbe abolirlo, «ma ciò che è importante è che sia legato a politiche di accompagnamento e di inclusione nel mercato del lavoro». Nello schema del reddito, in teoria, tutto questo è previsto. Il problema è che non è applicato, ammette il commissario. «La vera questione è la seguente: è applicato correttamente? Io non posso dire che a Milano sia applicato correttamente e a Lecce invece no… Questo non lo so. Ma è chiaro che si tratta di un elemento importante. Dopodiché devo anche dire che se non c’è lavoro non puoi certo integrare la gente nel mercato occupazionale… Per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro bisogna creare i posti di lavoro, altrimenti non può esserci integrazione».
Schmidt parla anche di aprire alla possibilità di cumulare il reddito con una retribuzione iniziale, per evitare distorsioni. «Se uno inizia a lavorare, anche per un periodo limitato, e questo gli fa perdere il suo reddito minimo, a un certo punto si interroga: perché devo andare a lavorare? Credo che serva un approccio molto più flessibile: lo stipendio deve poter essere cumulato, almeno per un certo periodo. Questo sarebbe un incentivo ad accettare un lavoro e probabilmente a mantenerlo».
E magari anche un disincentivo al lavoro nero, «perché diversamente molti percettori del reddito accettano di lavorare solo a patto di farlo in nero per non perderlo. Così però perdiamo tutti: lo Stato, che non incassa i contributi e anche il datore di lavoro perché non può dichiarare lo stipendio come un costo del lavoro».
Centinaia di milioni truffati con il Reddito di cittadinanza che tanto piace a certi elettori. In pochi anni e senza troppa fatica scoperti truffatori del famoso reddito per un totale di oltre 300 milioni di euro sottratti alle casse dello Stato e che non torneranno più indietro.
Linda Di Benedetto il 23/09/22 su Panorama. Il Reddito di cittadinanza, bandiera del Movimento 5 Stelle presentato come una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, si è rivelato uno strumento per truffare lo Stato senza grosse difficoltà. Infatti centinaia di milioni di euro sono stati percepiti da chi non ne aveva diritto (con molta probabilità non verranno mai restituiti) e fanno parte dei 20 miliardi spesi fino ad oggi per sostenere la misura. Proprio così il Reddito di cittadinanza ha prodotto truffe ai danni dello Stato per quasi 300 milioni di euro. Dati resi noti nel rapporto annuale presentato a giugno dalla Guardia di Finanza e svolti in collaborazione con l’INPS che riguardano gli ultimi di 17 mesi (da gennaio 2021 a maggio 2022).
Nel dettaglio sono stati scoperti illeciti per 288 milioni, di cui 171 milioni indebitamente percepiti e 117 milioni fraudolentemente richiesti e non ancora riscossi e sono state denunciate oltre 29.000 persone. Denaro che avrebbe potuto essere di aiuto a chi ne aveva veramente bisogno invece è finito nelle mani di detenuti, trafficanti di schiavi, persone legate alla malavita organizzata e soggetti benestanti. Una frode colossale senza precedenti e che vede impegnati ogni giorno i militari della Guardia di Finanza e non solo, in controlli a tappeto in tutto il Paese. Negli ultimi tre mesi da nord a sud sono state scoperte altre truffe. A Torino addirittura è stato messo in piedi un sistema per far percepire indebitamente il reddito di cittadinanza a cittadini stranieri, che dichiaravano di risiedere nel capoluogo piemontese e invece continuano a vivere all'estero. Una truffa da oltre 1.400.000 euro quella scoperta dalle fiamme gialle ad agosto e che ha portato a cinque misure cautelari. Le indagini coordinate dalla Procura di Torino hanno consentito di individuare la dipendente dell'Istituto di Patronato ente nazionale assistenza sociale ai cittadini/Caf Unione nazionale sindacale imprenditori e coltivatori, che avrebbe inoltrato numerose richieste al portale Inps, finalizzate a consentire l'indebita erogazione del reddito. ù Nella capitale i carabinieri della Compagnia Roma Piazza Dante, al termine di una campagna di controlli svolti tra giugno e agosto 2022, hanno denunciato per truffa ai danni dello Stato e indebita percezione di erogazioni pubbliche 111 soggetti appartenenti a 57 nuclei familiari diversi, privi dei requisiti per la corretta corresponsione del reddito di cittadinanza, causando un danno all’Erario stimato in circa 250mila euro. In provincia di Roma invece i Carabinieri della Compagnia di Castel Gandolfo, al termine di una campagna di controlli condotti tra Gennaio ed Agosto 2022, hanno denunciato per truffa ai danni dello Stato ed indebita percezione di erogazioni pubbliche, 26 cittadini di cui 17 di nazionalità straniera e 9 con precedenti, privi dei requisiti per la corretta corresponsione del reddito di cittadinanza, cagionando un danno all’Erario stimato in circa 250.000 euro. A Napoli nel mese di luglio due soggetti con la tessera del reddito di cittadinanza, fingevano di comprare carne, invece ottenevano denaro contante in cambio di una trattenuta oscillante tra il 10 e il 20 per cento da parte dei titolari, padre e due figli. Sequestrata la macelleria e 92.000 euro in contanti, cambiali e assegni. Sempre nel napoletano la Guardia di Finanza ha scoperto una maxi truffa da 500mila euro. I militari delle Fiamme Gialle del Comando Provinciale partenopeo, nei Comuni di Boscoreale, Torre del Greco, Vico Equense e Poggiomarino, hanno eseguito un provvedimento di sequestro preventivo di beni per oltre mezzo milione di euro nei confronti di 43 persone, indiziati del reato di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, relativo all'indebita percezione del Reddito di Cittadinanza.
Volano stracci tra il leader di Italia Viva e l’avvocato del popolo. Pizza, mandolino e reddito, la campagna elettorale di Conte a Napoli: “E’ voto di scambio”. Francesca Sabella su Il Riformista il 22 Settembre 2022.
Ultime battute di questa campagna elettorale piena di odio e di attacchi più che di idee e programmi elettorali seri e credibili. Ma vabbè. Tutti i leader delle maggiori forze politiche in campo hanno scelto Napoli come ultima tappa del loro tour di comizi. A infiammare gli animi uno dei temi presenti nell’agenda di tutti i partiti: il Reddito di Cittadinanza, ideato dal Movimento 5 Stelle, potrebbe spostare molti voti, soprattutto al Sud dove le condizioni socioeconomiche sono molto più gravi che altrove. Lo sanno bene Giuseppe Conte e Luigi Di Maio che ne parlano come se fosse la panacea a tutti i mali, e lo sa bene anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi che accusa i grillini (giustamente) di voto di scambio.
«Al sud le manifestazioni di giubilo di chi percepisce il reddito, al passaggio di Conte, costituiscono la più scandalosa operazione politica di voto di scambio degli ultimi anni», dice il leader di Italia Viva. L’ex premier si rivolge «ai ragazzi del Sud: non fatevi portar via il futuro. Non è con un assegno da cinquecento euro al mese, dato da un politico, che uscirete dalla povertà». La posizione di Giuseppe Conte è diametralmente opposta. Il leader del Movimento Cinque Stelle da Napoli non solo replica a Renzi, ma tira in ballo anche Giorgia Meloni, che nei giorni scorsi ha detto prima di voler cancellare il reddito di cittadinanza, poi di volerlo riformare. Per Conte, Renzi «ha votato in parlamento l’aumento degli stipendi ai dirigenti di Stato che già guadagnano 10mila euro al mese, a Napoli si dice “nun tenene scuorno” (non hanno vergogna). Ora fa la guerra a chi guadagna 500 euro al mese. Lui vive di politica da quando aveva i calzoni corti e guadagna 500 euro al giorno. E’ davvero un mondo capovolto», dice Conte.
Quanto a Meloni, secondo la quale il reddito di cittadinanza “non è la soluzione alla povertà”, Conte si dice d’accordo. Immediata la risposta di Renzi: «È vero che un parlamentare prende tanti soldi. Ma se vuoi fare uscire dalla povertà le persone, non devi lasciargli 400 euro al mese perché quella persona resterà per sempre nella situazione di povertà. Conte – ha detto ancora Renzi – sta mentendo in modo sciagurato di fronte ai cittadini perché aveva detto che avrebbe creato dei posti di lavoro, invece conosce un navigator che ha trovato un posto di lavoro? Continuare a fare campagna elettorale andando nei Comuni a promettere ancora reddito, minacciando la guerra civile, questo mi dà l’idea dello scandalo squallido a cui è arrivata la politica oggi», ha concluso il leader di Iv. Tra accuse e liti questa campagna elettorale sta volgendo al termine, ma ci sarebbe da chiedersi: valeva il voto di scambio? Vale per i grillini e per la lega di Matteo Salvini che promette la flat tax. A quanto pare la vera sorpresa di queste elezioni è proprio questa: consentito il voto di scambio…
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Nomade con 74 auto intestate (ma senza patente) prendeva il reddito di cittadinanza. Il Tempo il 06 settembre 2022
Possedeva Audi, Maserati, Mercedes e altre auto meno lussuose, per un totale di 74 vetture. Si tratta di una nomade di 40 anni che percepiva regolarmente il reddito di cittadinanza voluto dai grillini.
Una vicenda emblematica e surreale se si pensa che la 40enne fermata dalla Guardia di Finanza non aveva nemmeno la patente di guida. Lo hanno scoperto le Fiamme Gialle in provincia di Padova, a Saonara, dove la donna era titolare di un'attività di commercio di macchine usate.
Come riportato dal Gazzettino, almeno 58 dei 74 veicoli erano stati coinvolti in incidenti stradali con la donna mai menzionata direttamente. Si sospetta quindi che la donna fungesse anche da prestanome per altre persone interessate a quei mezzi e utilizzati per chissà quali scopi.
Il sostituto procuratore Sergio Dini ha aperto un'indagine per "frode assicurativa e intestazione fittizia" nei confronti della nomade. La scoperta si è avuta grazie all'indagine della Guardia di Finanza verso i percettori del reddito grillino della provincia veneta. V.T., queste le iniziali della nomade risiedente nel campo di Vigonza, percepiva indebitamente il sussidio statale nonostante l'essere titolare dell'attività e la condizione economica che non versava certo in stato precario.
È stato scoperto che la donna ha acquisito l'intestazione di tutte quelle vetture in soli tre anni pur non avendo nessuna patente. A quel punto, il pm ha deciso di aprire le indagini ipotizzando numerosi tentativi per truffe alle assicurazioni e l’intestazione fittizia di tutte le automobili. Inoltre, la donna ha già precedenti penali per truffa e l’inchiesta aperta in Procura sta cercando di appurare se le auto coinvolte siano riconducibili a furti, rapine o altri atti illeciti.
Resta poi da capire tutti coloro che ne possono essere rimasti coinvolti negli incidenti delle auto intestate alla quarantenne. È possibile, infatti, che molti di questi sinistri siano stati inscenati ad hoc soltanto per truffare le compagnie di assicurazioni.
Maria Rosa Tomasello per “La Stampa” il 2 settembre 2022.
È vero, non di solo pane vive l'uomo. Ma sostenere che bisogna «interrompere quel circolo vizioso per cui il lavoro è l'unico mezzo di sostentamento» rischia, in tempi di elezioni, di trasformarsi in un gigantesco boomerang: anche se la frase risale a un anno prima ed è stata, non senza perfidia, ripescata e postata su Twitter, ricordando ai candidati che è impossibile sfuggire al temibile setaccio della rete.
Autrice della dichiarazione è Rachele Scarpa, giovane candidata del Pd in Veneto, bacchettata dall'economista di Italia Viva Luigi Marattin. «C'era una volta il partito del lavoro» scrive Marattin, evocando rendite e sussidi. «E in quel caso, chi produce il reddito necessario per creare il sussidio?» domanda.
«Tanti di noi giovani, pur lavorando, rimangono poveri. Immaginare forme di sostegno al reddito universale non deve essere un tabù» replica lei, lanciando una stoccata all'avversario: «Magari lo capisce meno chi ha sempre difeso la precarietà chiamandola flessibilità».
Ha le sue ragioni Scarpa, già finita nella bufera per alcuni post su Israele, ma in un Paese in cui alcuni imprenditori considerano difficile assumere un barista, sarebbe meglio rivendicare salari giusti e contratti regolari. Anche per non prestare il fianco a chi, come fa il leghista Andrea Ostellari, non si fa sfuggire l'occasione: «I soldi non crescono sugli alberi, in Veneto siamo abituati a rimboccarci le maniche, non a chiedere mance». Piccoli Pd crescono? Può darsi, ma hanno molto da imparare.
Francesco M. Del Vigo per “il Giornale” il 2 settembre 2022.
Rachele Scarpa deve sapere qualcosa che noi non sappiamo. Deve essere venuta a conoscenza di uno stratagemma, un trucco tramite il quale si possono far soldi senza aver a che fare con quel plebeo e pedestre impiccio chiamato lavoro. Altrimenti, le sue dichiarazioni di qualche anno fa ripescate dalla rete, sono del tutto inspiegabili.
Partiamo dal principio: largo ai giovani! Rachele Scarpa è uno dei candidati under 35 tanto sbandierati da Enrico Letta, ed è la stessa Rachele Scarpa - purtroppo per lei non è un caso di omonimia - che aveva definito lo Stato d'Israele un «regime di apartheid». Boiata coerente con quella dell'altro giovanissimo candidato dem che aveva sostenuto, salvo poi scusarsi, che fosse più facile credere agli Ufo che alla legittimità del sopraccitato Stato.
Questa volta la piddina è passata dalla politica estera direttamente all'economia, con risultati parimenti sconfortanti. «Dobbiamo interrompere quel circolo vizioso per cui il lavoro è l'unico mezzo di sostentamento», spiega piuttosto convintamente in un filmato che ha fatto il giro di social, siti web e tv scatenando un putiferio di polemiche. Lei si difende dicendo che è un vecchio video, roba di anni fa. Verissimo.
Ma le stupidaggini non diventano intelligenti con il passare del tempo, rimangono sempre stupidaggini. È qualche millennio che l'uomo cerca di sbarcare il lunario senza faticare ma, al momento, pare che nessuno ce l'abbia fatta dignitosamente. Se la Scarpa è in possesso di questo segreto non ce ne tenga in disparte. Ma il vero problema è che non c'è nessuna magia dietro questa teoria, c'è sempre la solita vecchia tara assistenzialista che da anni avvelena il grillismo e che sempre di più ha contagiato il Partito Democratico. L'idea che il lavoro sia una iattura, che sia giusto decrescere stupidamente felici e che si debba sopravvivere con una pioggia di sussidi statali. Il circolo di chi ha un impiego è virtuoso, non vizioso. Se questi sono i giovani, meglio richiamare all'ordine i «vecchi» dal circolo ricreativo. E magari, quello sì, un po' vizioso lo può anche - giustamente - essere.
I dati Inps sul reddito di cittadinanza: quanti beneficiari e quali importi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Agosto 2022.
1,17 milioni di nuclei beneficiari del reddito di cittadinanza o della pensione di cittadinanza a luglio , per 2,49 milioni di persone, con un importo medio di 551 euro
Diffusi i dati dell’osservatorio dell’Inps. A luglio sono stati 1,17 milioni di nuclei beneficiari del reddito di cittadinanza o della pensione di cittadinanza, per 2,49 milioni di persone, con un importo medio di 551 euro. Nei primi sette mesi del 2022 (periodo gennaio-luglio) i nuclei beneficiari di almeno una mensilità di Reddito di Cittadinanza (RdC) o di Pensione di Cittadinanza (PdC) sono stati 1,61 milioni, per un totale di 3,52 milioni di persone coinvolte.
L’Inps spiega che nel mese di luglio i nuclei beneficiari di RdC/PdC sono stati 1,17 milioni (così suddivisi: 1,05 milioni RdC e 117.000 PdC), con 2,49 milioni di persone coinvolte (2,36 milioni RdC e 132.000 PdC) e un importo medio erogato a livello nazionale di 551 euro (582 euro per il RdC e 272 euro per la PdC). La platea dei percettori di reddito di cittadinanza e di pensione di cittadinanza è composta, sempre a luglio 2022, da 2,17 milioni di cittadini italiani, 226.000 cittadini extra comunitari con permesso di soggiorno Ue, 88.000 cittadini europei, 5.000 familiari delle precedenti categorie o titolari di protezione internazionale.
Per i nuclei con presenza di minori (365.000, con 1,3 milioni di persone coinvolte), l’importo medio mensile è di 682 euro, e va da un minimo di 590 euro per i nuclei composti da due persone a 742 euro per quelli composti da cinque persone. I nuclei con presenza di disabili sono quasi 197.000, con 442.000 persone coinvolte. L’importo medio è di quasi 490 euro, con un minimo di 382 euro per i nuclei composti da una sola persona a 702 euro per quelli composti da cinque persone.
La distribuzione per aree geografiche relativa vede 443.000 persone beneficiarie al Nord, 340.000 al Centro e oltre 1,7 milioni nell’area Sud e Isole. Per quanto riguarda gli anni precedenti, dal report trimestrale pubblicato oggi risulta che i nuclei beneficiari di almeno una mensilità di RdC/PdC nell’anno 2019 sono stati 1,1 milioni, per un totale di 2,7 milioni di persone coinvolte; nel 2020 i nuclei sono stati 1,6 milioni, per un totale di 3,7 milioni di persone coinvolte. I numeri sono saliti ulteriormente nel 2021: infatti i nuclei beneficiari di almeno una mensilità sono risultati quasi 1,8 milioni, per un totale di poco meno di 4 milioni di persone coinvolte.
Il reddito di cittadinanza dà fastidio a una classe dirigente ferma all’Ottocento. Manfredi Alberti su L'Espresso il 25 Luglio 2022.
Il sostegno al reddito ha sottratto alla povertà assoluta un milione di persone. Ma nel nostro Paese continua a essere attaccato dalle destre (e non solo)
La crisi del governo Draghi, al di là dei modi e delle forme in cui si è espressa, ha riportato all’attenzione del dibattito pubblico alcune emergenze sociali ed economiche del Paese: i salari che non crescono, l’inflazione che ne erode il potere d’acquisto, la povertà diffusa anche fra chi lavora. In un Paese come l’Italia, l’unico in Europa dove i salari reali sono diminuiti dagli anni Novanta, si è cominciato anche a ragionare del salario minimo, un dispositivo esistente in altri Paesi europei e che potrebbe, a certe condizioni, evitare le forme più esose di sfruttamento del lavoro. Tra le misure più discusse spicca però il Reddito di cittadinanza, introdotto dal primo governo Conte, una misura oggi strenuamente difesa dal Movimento 5 Stelle e altrettanto duramente attaccata dalle destre.
Se è sicuramente legittimo chiedersi quali siano i reali effetti del Reddito di cittadinanza (l’aumento dei salari o viceversa la loro diminuzione, in corrispondenza con la diffusione del lavoro nero), come pure domandarsi quale sia la sua efficacia nel contrasto alla povertà in presenza di truffe e irregolarità nell’assegnazione dei sussidi, non si possono tuttavia negare due circostanze. In primo luogo, la misura in questione ha introdotto per la prima volta un sostegno universale al reddito, in sintonia con i principi costituzionali di dignità e uguaglianza sostanziale tra i cittadini. In secondo luogo, i dati ci dicono che, almeno in parte, la misura ha funzionato. Il Rapporto annuale dell’Istat, presentato a Montecitorio l’8 luglio, ha dimostrato infatti che gli strumenti di sostegno al reddito erogati nel 2020 – incluso il Reddito di emergenza introdotto dopo lo scoppio della pandemia – hanno avuto un ruolo non secondario nella riduzione della povertà. Le somme erogate, secondo l’Istat, hanno permesso a un milione di individui (in 500.000 famiglie) di non trovarsi in condizione di povertà assoluta, con effetti più rilevanti tra i disoccupati e nelle regioni meridionali. Per avere un’idea delle proporzioni, uno sforzo finanziario cinque volte maggiore avrebbe – in linea ipotetica – azzerato interamente il problema.
Nonostante questi fatti, voci tutt’altro che disinteressate, e non da oggi, continuano a chiedere con insistenza l’abolizione del Reddito di cittadinanza, considerato uno sperpero di risorse pubbliche e un disincentivo al lavoro. A lamentarsi non sono solo gli imprenditori della ristorazione o del settore alberghiero, convinti che i sussidi siano un incentivo all’ozio e una minaccia per la redditività della loro impresa. Stando a quanto emerso da alcune indagini sui nuovi fatti di mafia a Palermo (in particolare l’inchiesta sul recente omicidio di Giuseppe Incontrera) anche i boss cittadini sembrerebbero fortemente ostili al provvedimento: renderebbe faticoso trovare “picciuttieddi”, ovvero giovane manovalanza disposta allo spaccio di droga e ad altre attività illecite pur di sfuggire alla miseria.
Se a lamentarsi del Reddito c’è anche la mafia, forse ce ne sarebbe abbastanza per prendere un po’ più sul serio questa misura, per quanto imperfetta. Tocca purtroppo constatare che una parte della nostra classe dirigente sembra ferma al dibattito dell’Inghilterra di inizio Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale, quando la nascente scienza economica, portavoce degli interessi della borghesia imprenditoriale, prendeva di mira il vecchio sistema delle Poor Laws inglesi, accusato di impedire la formazione di un vero mercato del lavoro, mantenendo in condizioni di oziosità legioni di poveri che, spinte dalla fame, avrebbero potuto sostentarsi attraverso il loro lavoro.
Attendiamo con fiducia che il dibattito pubblico possa evolvere almeno verso le categorie novecentesche del Welfare State.
Manfredi Alberti è ricercatore di Storia del pensiero economico. Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali. Università degli studi di Palermo
Rosaria Amato per “la Repubblica” il 25 agosto 2022
Neanche un contratto a tempo indeterminato salva dal lavoro povero. Secondo Eurostat la percentuale dei "working poors" con un rapporto di lavoro stabile in Italia nel 2021 è passata all'8,1% del totale, dal 7,7% del 2020. Non sorprende, quindi, che la nostra quota di lavoratori dipendenti a rischio povertà sia la più alta tra i Paesi Ue, solo la Spagna ha un dato peggiore.
Considerando tutti i tipi di contratto, i lavoratori che guadagnano troppo poco per avere un tenore di vita decente, è passata in Italia dal 10,8% del 2020 all'11,7% del 2021, emerge dalle tabelle aggiornate dall'Istituto Ue di statistica. Naturalmente i working poors con contratto a termine sono molti di più (passati dal 15,4% al 21,5%): una quota simile a quella dei lavoratori part-time, considerato che quasi mai si tratta di una libera scelta.
A rischio di povertà per via degli stipendi troppo bassi sono soprattutto i giovani (15,3% della fascia di età tra i 18 e i 24 anni) e i lavoratori autonomi. Dai dati emerge che la situazione sarebbe peggiore senza gli aiuti statali, che arrivano a sostenere solo le classi di reddito più basse: le classi medie registrano così i peggioramenti maggiori.
Qualcosa non va. Il reddito di cittadinanza non riesce nemmeno a proteggere le famiglie più povere. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 30 Agosto 2022
Tra le distorsioni dello strumento ideato dai Cinquestelle figura il fatto che tra i beneficiari ci siano molti più single (spesso giovani senza lavoro) che nuclei familiari
L’analisi dell’incidenza della povertà in Italia durante e appena dopo la tempesta del Covid presenta alcuni punti fermi chiari. Tra 2020 e 2021 l’indigenza assoluta è leggermente scesa, dal 7,7% al 7,5%, grazie al rimbalzo dell’economia, ma con l’eccezione di alcune categorie già fragili, come quelle delle famiglie numerose e con più figli, dove è invece cresciuta
Tra i nuclei di cinque o più persone è infatti aumentata dal 20,5% al 22,6%. Tra quelli che contano due minori, invece, dal 12,5% al 14%.
Nel Mezzogiorno questa tendenza è ancora più accentuata. Se consideriamo la povertà assoluta individuale, anziché soltanto quella delle famiglie, emerge come nel Sud e nelle Isole quella dei bambini tra i 7 e i 13 anni, per esempio, sia salita dal 13,8% al 16,1%.
Sono dati risaputi, se ne è parlato, e possiamo essere sicuri che in questo 2022 segnato dall’inflazione il trend sia proseguito, peggiorando.
E allora, visto che anche in questa campagna elettorale si discute su come frenare la povertà crescente, sembra utile e forse doveroso capire come stia funzionando lo strumento cui, da alcuni anni, è stata di fatto appaltata la lotta all’indigenza: il Reddito di Cittadinanza.
Il ricorso al Rdc è chiaramente aumentato nel 2020 e 2021. L’anno scorso i nuclei che ne beneficiavano erano 1.771.680, che contenevano 3.956.492 individui. Nel 2022 vi è stata una diminuzione, dovuta alla ripresa e alle riaperture di molte attività, ma i numeri sono ancora superiori a quelli del 2019.
Tutto questo è perfettamente ragionevole. Ad essere degno di nota è altro. Tra il 2019 e il 2022 la crescita delle famiglie beneficiarie del RdC è stata del 47,8%, nonostante il parziale calo dai livelli del 2021, mentre quella delle persone coinvolte è stata decisamente minore, del 29,5%. Cosa vuol dire? Che in questi anni di pandemia il Reddito di Cittadinanza è stato concesso mediamente a nuclei più piccoli di quelli cui veniva dato quando è stato ideato.
Una conferma di questi dati si trova nel divario fra l’incremento delle famiglie beneficiarie senza minori, di solito più piccole, che è stato del 65,4%, e di quelle con figli a carico, del 23,7%
Il risultato è che tra i nuclei che oggi prendono il Reddito di Cittadinanza quelli in cui sono presenti minorenni sono il 32,1%, contro il 37,1% del 2019. Mentre crescono dal 38,1% al 45,1% quelli con un solo componente.
È vero che la recessione provocata dal Covid ha portato nel 2020 e 2021 a soffrire di povertà larghe fasce della popolazione prima appena sopra la soglia di indigenza, e in particolare i giovani, gran parte dei quali ancora senza figli.
Tuttavia questa tendenza all’allargamento del RdC in una direzione precisa, quella delle famiglie piccole e senza minori, è proseguita anche nel 2022, quando l’occupazione ha ripreso ad aumentare e molti di coloro che avevano perso un impiego lo hanno ritrovato.
È facile capire come questi dati siano in controtendenza e in contraddizione con quelli sulla povertà.
Secondo questi ultimi, tra tutti i nuclei senza mezzi per arrivare a fine mese, quelli con figli a carico erano il 38,2% nel 2020 e il 38,9% nel 2022. Fra quanti beneficiano del Reddito di Cittadinanza, insomma, vi sono meno famiglie con minori che fra i poveri.
C’è qualcosa che non va. Ce ne accorgiamo osservando i dati per area geografica. È proprio al Sud e nelle Isole che è maggiore il divario tra la crescita del ricorso al RdC tra chi non ha figli (intorno al 70%) e tra chi ne ha (inferiore al 30%).
Non solo, in particolare al Sud (oltre che nel Nord Est) rispetto al periodo in cui il sussidio è stato creato, addirittura diminuiscono i nuclei beneficiari con sei membri o più. Erano certamente pochi, ma è significativo che siano addirittura calati perché il piccolo segmento delle famiglie molto numerose è proprio quello più colpito dalla povertà.
A incidere è sicuramente il fatto che in queste troviamo molti stranieri. Stranieri che invece costituiscono una porzione piuttosto piccola dei beneficiari del RdC, il 12,3%. Basti considerare che tra tutti i nuclei poveri, invece, quelli con immigrati sono quasi un terzo.
Le limitazioni all’accesso al Reddito di Cittadinanza volute dal governo giallo-verde, il fatto che possono chiederlo solo stranieri residenti da 10 anni, sono solo una delle distorsioni di questa misura.
Un ulteriore elemento di riflessione viene dall’esame dell’importo medio, mediamente cresciuto in questi anni, e di quali fasce di percettori sono aumentate di più.
L’incremento maggiore, in valore assoluto, è quello dei beneficiari single che prendono tra i 400 e 600 euro, diventati in tre anni 103.400 in più, e tra i 600 e gli 800, che sono saliti di 65.700 unità.
In termini sia assoluti percentuali, poi, sono di più soprattutto i segmenti che prendono dai 600 euro in su, ma i nuclei più grandi, quelli di 5 o 6 componenti, non hanno visto gli stessi aumenti delle famiglie meno ampie.
Tutti questi dati ci dicono una cosa semplice: il Reddito di Cittadinanza non riesce ad affrontare la povertà in modo efficiente. Il fatto che alla base della sua concessione vi sia una sorta di autocertificazione dello stato di indigenza, che non si riesca a controllare se non vi siano redditi da lavoro si aggiunge alla difficoltà di procurare lavoro ai beneficiari, visto che viene fatto solo tramite lo Stato. Tutto ciò agevola gli opportunisti.
Inoltre le famiglie con minori non vengono favorite in modo decisivo: per accedere al RdC un nucleo con due persone e due figli deve avere meno di 10.800 euro all’anno. Si tratta di una cifra che è largamente sotto la soglia di povertà anche nelle aree rurali del Mezzogiorno, dove, secondo l’Istat, una coppia con due minori entra nella povertà assoluta con meno di 16mila annui.
La soglia della concessione del RdC a un single, 6mila euro, non è invece lontanissima da quella di povertà dell’Istat, sempre nelle stesse zone, 6.912 euro.
Questo spiega perché per chi ha dei bambini è più difficile accedere al Reddito di Cittadinanza. A questo si aggiunga che forse un padre e una madre si precipitano più facilmente ad accettare qualsiasi lavoro, anche sotto-pagato, pur di sfamare i figli. E questo misero stipendio, magari sotto i 1.000 euro, non basta a uscire dalla povertà ma è sufficiente per vedersi negato il RdC.
La revisione di questo sussidio che tanti partiti chiedono non può limitarsi solo a controlli più stringenti, a un miglior incrocio tra domanda di lavoro delle imprese e beneficiari del RdC, ma dovrà includere anche i meccanismi per la sua erogazione.
Così come tutto il welfare, come la tassazione e il sistema delle detrazioni, non potrà continuare a svantaggiare proprio le categorie più colpite dalle crisi, le famiglie numerose.
Altro che abolizione della povertà, il reddito di cittadinanza non funziona: i numeri del flop. Mario Benedetto su Il Tempo il 25 agosto 2022
38%: è questa la percentuale di percettori del reddito di cittadinanza al di sotto dei 29 anni. Adesso, è un numero che va sicuramente analizzato, ma non pare troppo alto rispetto a una fascia in piena età lavorativa? Questo numero racchiuderà con tutta probabilità persone impossibilitate a lavorare ma, al contempo, c'è da chiedersi quanta forza lavoro inattiva comprenda. Questo per ribadire che non siamo sulla strada giusta: una misura come il reddito di cittadinanza pensata per sostenere chi è in difficoltà ma anche per incentivare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, non funziona. Lo dicono i numeri, lo dicono gli 80 miliardi stanziati di qui fino al 2029 che rischiano di produrre gli effetti dei 20 già spesi in questi 3 anni, ovvero nessuno. Nessun effetto, nessuna abolizione di povertà, a quanto pare, dato che è tuttora confermata, purtroppo, la situazione d'indigenza di molti nuclei familiari. Con addirittura 2.6 milioni di persone, badiamo bene, a rischio alimentare secondo ultimi dati Coldiretti.
Quello del lavoro e delle questioni economiche, da reddito al fisco, è un tema che ha animato nelle scorse ore il dibattito del Meeting di Rimini, sino all'atteso discorso di Mario Draghi. Le reazioni del pubblico, specialmente attento come quello dell'occasione, sono solitamente un indicatore importante. Per di più, se consideriamo il pubblico riminese, ampiamente composto da giovani. Giovani che aspettano proposte, prospettive, opportunità. Non mance o contentini. Dovremmo dire a tutti loro, ed a tutti gli italiani, che non è sui bonus che si sono edificate le architravi economiche e sociali che sorreggono ancora, dalle storiche realtà economiche sino al risparmio dei nostri nonni, le fondamenta della nostra Italia. È arrivato il momento di offrire prospettive, non garantire sopravvivenza, captando consensi. Il consenso vero è quello degli applausi di questi giovani, che non si entusiasmano per soluzioni che permettono loro di sopravvivere, appunto, ma per condizioni che consentano di far camminare le loro idee ed i loro sogni. Allora, abbiamo esempi anche in Europa: perché non differenziare lo strumento reddito di cittadinanza e destinare risorse mirate a favore di chi è effettivamente in condizione d'indigenza e impossibilitato a lavorare?
Una volta tutelato chi ne ha reale necessità, avremmo dunque a disposizione risorse che hanno precisi destinatari: professionisti e imprese. Con la contestuale riforma del fisco, che ci sta facendo assistere a un dibattito altrettanto surreale. La visione partigiana e tribale sta arrivando persino all'assurdo di criticare una misura, che numeri alla mano, avvantaggerebbe tutti come la riduzione della pressione fiscale. Ma davvero si può considerare ricco chi ha un reddito da 15.000 euro in su? Si perché già da questa fascia reddituale di beneficerebbe della riduzione della pressione fiscale sulla scia della flat tax e del principio che intende incarnare. Volendo anche andare oltre, contemplare redditi più alti: possiamo considerare ricco chi ha un reddito anche di 50.000 euro? È disonesto intellettualmente avversare soluzioni solo per prese di posizione, di parte.
Oggi c'è una sola tribù da tutelare: l'Italia tutta. L'Italia che produce, che ha capacità e voglia di farlo. E non può essere proprio la politica la responsabile dello smorzamento di energie che dovrebbe, al contrario, stimolare e convogliare in un comune interesse. Perché produrre valore è un interesse collettivo: la divisione lavoratore - imprese, che anima ancora certi programmi elettorali, è la rischiosa deriva di un pensiero cui va contrapposta non un'altra idea, ma la realtà: le risorse delle imprese, del lavoro, sono quelle che arrivano a famiglie e lavoratori. Chi non riconosce questo meccanismo, e non lo incentiva, mente e sbaglia. Sapendo di farlo. O forse no, ahinoi.
Popolari, non populisti Chi sono i poveri in Italia e perché i Cinquestelle non sanno aiutarli. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 20 Luglio 2022.
I famosi nove punti proposti da Conte riassumono, nello spirito, un modo di agire che preferisce tappare i buchi e non evitare, pensando in modo strategico, che si formino. Lavorare a monte, su istruzione, integrazione o occupazione è la soluzione giusta, ma alle urne non paga.
Aiuti straordinari a famiglie e imprese, ostacoli ai contratti a tempo determinato, salario minimo di nove euro lordi, superbonus 110%, cashback fiscale, reddito di cittadinanza nella versione originale o quasi. Sono solo alcune delle richieste poste dal Movimento 5 Stelle a Mario Draghi nei celebri nove punti, quelli che hanno portato alla crisi di governo dopo essere stati sostanzialmente snobbati dal premier.
La caratteristica di queste richieste non è tanto e solo di essere in gran parte sbagliate. Sì, il superbonus 110% e il cashback non aiutano per nulla i poveri o i conti dello Stato, tutt’altro, ma il punto fondamentale è che si tratta di rimedi dell’ultimo minuto, di una presunta cura dei sintomi e non della malattia. Questa, quella che provoca la povertà e il disagio, viene ignorata, come sempre.
Ora vi è la giustificazione dell’emergenza inflattiva, delle conseguenze della pandemia, ma anche in tempi normali, anche nei programmi delle elezioni le soluzioni di questa larga fascia della politica, che non si riduce ai pentastellati, sono tipicamente improntate a fare da tappa-buchi, e non a impedire la formazione del buco. Fuor di metafora, cosa provoca la povertà? Chi sono i poveri? Perché lo sono? Cosa causa la mancanza di redditi? Non vi è l’analisi delle ragioni a monte. Eppure in alcuni casi sono banali.
A essere in una condizione di povertà assoluta nel nostro Paese sono soprattutto i disoccupati. Nel 2021 lo era il 22,6% di essi, in aumento rispetto al 19,7% del 2020. Per quanto esista il fenomeno dei working poor, coloro che rimangono indigenti pur lavorando, è essere senza un impiego la situazione peggiore da questo punto di vista.
Al contrario essere pensionati protegge dalla povertà molto bene, poco meno che essere dirigenti e imprenditori. Solo il 4,4% di chi si è ritirato dal lavoro non riesce a coprire i bisogni essenziali. Eppure tanto spesso il focus di forze politiche “dalla parte del popolo” è sul reddito invece che sull’occupazione, ovvero solo sull’effetto e non sulla causa.
La povertà è decisamente più alta tra i minori, diminuendo con l’età, e nel 2021 questo divario è diventato ancora maggiore. Sono in una situazione di indigenza il 14,2% di chi ha meno di 18 anni e solo il 5,3% degli over 65.
Tra i motivi vi è la situazione particolarmente miserabile in cui vivono, nel silenzio più completo della politica, gli immigrati, che normalmente hanno più figli della media, e in particolare quelli senza un lavoro, e tra questi quelli che un lavoro lo cercano. Nel 2021 erano un povertà assoluta il 46,4% delle loro famiglie, molti di più che nel 2020 (28,1%). Compongono la categoria che è stata più colpita dalla crisi pandemica, hanno perso il lavoro più di frequente di quanto abbiano fatto gli italiani e con il tempo e l’esaurirsi dei sussidi e dei risparmi la situazione è peggiorata, anche perché quelli che sono in Italia da meno di 10 anni non hanno diritto al Reddito di Cittadinanza, ma solo a quelli di emergenza.
Eppure anche questo aspetto è ignorato, e dell’indigenza degli stranieri si parla, in modo indiretto, sempre solo a valle, quando genera degrado. Ma vi è un dato ancora più importante, è quello che riguarda l’istruzione. È in povertà assoluta più del 10% di chi non è andato oltre la terza media e meno del 4% di chi ha almeno un diploma, se non la laurea.Non solo, la lunghezza degli studi è un parametro così determinante da avere influenza anche sulla probabilità di diventare poveri dei figli, persino una volta che questi sono diventati adulti. Il rischio di essere indigente di un 25-59enne è del 22,7% tra chi ha il genitore più istruito con la terza media o meno, mentre scende al 9% se è laureato. E il divario è aumentato ulteriormente nell’ultimo decennio, tra il 2011 e il 2019. Tra l’altro l’Italia è tra i Paesi in cui questo è più alto. In Francia, Germania, Spagna il rischio di povertà dei figli di coloro che si sono fermati alle medie (o equivalenti) non è così elevato.
Come è facile immaginare lo stesso rischio è ancora maggiore per i minorenni. Il 54% di questi ha un’alta probabilità di diventare povero se si tratta di figli di quanti non sono arrivati al diploma. Ed è così in tutta Europa.
Il punto è che però nel nostro Paese la percentuale di chi si è fermato alle medie è superiore che altrove, persino tra i 25-34enni, l’età in cui si diventa genitori. E non di poco, e non solo tra gli stranieri, tra cui raggiunge il 47,2%, ma anche tra i cittadini italiani. In questo caso arriva al 18,1%, contro il 10% tedesco.
Vi è un dibattito nel Paese, o perlomeno tra le forze politiche che reclamano un “cambiamento”, su questo? L’incremento della percentuale di laureati, o anche solo di quanti riescono a conseguire il diploma, è mai entrato in qualche decalogo? È mai stato l’obiettivo di qualche provvedimento così urgente da essere posto come ultimatum a un governo? Non è accaduto, così come non è accaduto che fosse il tasso d’occupazione, più che il reddito, lo scopo delle politiche proposte.
Occupazione, integrazione, istruzione, competenze, formazione, capitale umano, tutti fattori che determinano un impatto a monte. Molto efficace, ma solo nel lungo periodo. Per chi ha bisogno di consenso le prossime settimane, i prossimi mesi, sono temi assolutamente inutili, lo sappiamo.
A Napoli il “Bancomat” del reddito di cittadinanza: operazioni illecite in una macelleria per 24mila euro al mese. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Luglio 2022.
Il "sistema" truffaldino che è costato ai tre macellati napoletani l’accusa di truffa ai danni dello Stato e un sequestro di beni (due società di macelleria e poco più di 80mila euro in contanti), era molto semplice: gli Iavarone (a secondo di chi era presente in macelleria) effettuavano con persone dotate di card di reddito di Cittadinanza delle transazioni per l’acquisto di carne che in realtà non veniva venduta .
Ogni giorno nel Borgo Sant’Antonio Abate, a Napoli molte delle persone che entravano in una macelleria non lo facevano per acquistare carne ma bensì per trasformare in contanti il Reddito di cittadinanza di cui beneficiavano, attività che è illegale. Gli Iavarone, padre (Domenico) e due figli (Gaetano e Lorenzo), avevano creato un metodo (illegale) per convertire gli importi che per legge possono essere spesi solo a mezzo transazione elettronica e per spese di prima necessità in soldi contanti, lucrando su quelle operazioni.
Il “sistema” truffaldino che è costato ai tre napoletani l’accusa di truffa ai danni dello Stato e un sequestro di beni (due società di macelleria, l’ “Antica Macelleria” ed il “Bisteccaio” e poco più di 80mila euro in contanti), era molto semplice: gli Iavarone (a secondo di chi era presente in macelleria) effettuavano con persone dotate di card di reddito di Cittadinanza delle transazioni per l’acquisto di carne che in realtà non veniva venduta.
Grazie alla disponibilità di liquidità di somme in contanti, i macellai versavano ai finti clienti “complici” l’importo transato che veniva decurtato di una percentuale che oscillava tra il 10 e il 20%, che trattenevano per loro. “Quanto devi fare” chiedeva domanda Domenico Iavarone a una donna dall’accento straniero che lo scorso 28 aprile si presentava in macelleria per effettuare il “cambio’”. la donna diceva «Quattrocento» ed allora il macellaio la invita a digitare il codice sul Pos senza sapere che la ‘cimice’ della Guardia di Finanza registrava persino il fruscio delle banconote che il macellaio iniziava a contare, dicendo “Sono 34″ cioè la somma di 340 euro, consegnata alla donna mentre i restanti 60 euro venivano trattenuti dagli Iavarone.
Una precedente conversazione del 9 febbraio spiegava chiaramente il “sistema” cambio-percentuale , durante la quale Lorenzo Iavarone rendicontava a suo padre l’operazione effettuata: “La carta a questo… al 10 per cento… gli ho fatto due e quattro… due e quattro…”. Il padre non capiva ed allora il figlio gli spiegava che aveva prelevato 3mila euro in banca e poi di aver fatto “quattro carte… tre da 500 e una 900“, per 2400 euro, meno le “spese” pari a 240 euro che venivano trattenute dagli Iavarone. In un caso registrato invece, si è arrivati anche ad applicare il 20% un cliente : “Gli ho fatto 1000 e gli ho dato 800“, diceva Lorenzo Iavarone.
Un business illecito che rendeva. L’“Antica Macelleria” è presa d’assalto, al punto tale che in qualche occasione si esaurisce il denaro contante utile a monetizzare le transazioni. “Sta una signora… sta aspettando te…” dice Gaetano Iavarone a suo fratello Lorenzo nella telefonata del 30 marzo “Ha detto che deve avere quattro e quaranta… gli ho fatto il Pos ma i soldi non ci sono“. Lorenzo Iavarone si irritava: “Embè, gli fai il Pos e non ci sono i soldi? Ora devo portare io i soldi per la signora… dille che sto venendo”.
Il 28 aprile la cimice delle Fiamme Gialle registrava un’altra telefonata importante nel corso della quale Domenico e Lorenzo Iavarone si soffermavano sui conteggi. “Noi abbiamo cacciato 28.280… ventotto due ottanta a trentuno e quattro… sono tremila centoventi di sgobbo“, diceva Lorenzo. Per gli investigatori il contenuto della conversazione era più che chiaro: i due Iavarone stanno ragionando sulla circostanza di avere dichiarato falsi acquisti di carne per 31.400 euro allo scopo di coprire la monetizzazione del Reddito di Cittadinanza e di avere “versato” 28.280 euro ai clienti collusi, incassando illegalmente così 3.210 euro. Un incasso netto che riguarda un breve lasso di tempo.
Come risulta dagli atti dell’indagine “nel periodo dall’11/03/2020 al 9/03/2021 la società (Iavarone n.d.r.) ha effettuato incassi, mediante Pos, di somme provenienti da carte RdC intestate a diverse persone di nazionalità rumena, per un importo complesso di euro 290.167,14“. facendo qualche calcolo ed un pò di conti emerge che venivano effettuate in media operazioni illecite pari a 24mila euro al mese. Che non sono spiccioli. Una truffa allo Stato di cui gli Iavarone sono consapevoli vantandosene al telefono, senza sapere chiaramente di essere intercettati. “Il reddito ci ha salvato… “, diceva il 4 marzo Lorenzo Iavarone mentre parlava al telefono con la madre. “Stiamo avendo un business di 200/210mila euro totali” racconta, spiegando di non avere avuto alcuna difficoltà alcuna a pagare i fornitori.
Tutto bene, per gli Iavarone la cui unica preoccupazione era riuscire a far quadrare i conti, poiché stava diventando un problema sul piano contabile giustificare l’enorme divergenza tra gli incassi tracciati e la reale vendita di carne, ed infatti negli atti di indagine compare puntualmente anche il ruolo di un commercialista sul quale sono in corso accertamenti. Sono numerose le intercettazioni che proverebbero le responsabilità degli indagati. In una si sente Gaetano Iavarone dire al suo interlocutore che gli spiega di avere altri potenziali “clienti”: “Falli venire, ma non devono mai dire al telefono la parola “cambiare”. Tanto qui possiamo cambiare quante carte volete: cinque, dieci, 20 anche 30“.
Le indagini coordinate dalla Guardia di Finanza e condotte dai pm Landolfi e Scarfò della procura della Repubblica di Napoli stanno virando anche sui titolari delle card ‘collusi’ con gli Iavarone e due Caf, uno con sede a Secondigliano (quartiere di Napoli) ed uno a Roma, che ha curato le pratiche per il rilascio delle card ‘strisciate’ nella macelleria al Borgo Sant’Antonio Abate. Dagli accertamenti effettuati Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli guidata dal generale Domenico Napolitano, è emerso che la maggior parte dei titolari delle card è di nazionalità straniera, ma si è fatto anche largo il sospetto che molti titolari in realtà non esistano neppure. Le intercettazioni hanno infatti registrato un cumulo di operazioni con più card fatte però da una sola persona.
Ma non solo in alcuni casi, si legge dagli atti di indagine, i possessori della card non avrebbero neppure maturato tutti i requisiti per poterne beneficiare. Ecco perché i riflettori si sono accesi sui titolari dei due Caf che, guarda caso, conoscevano anche gli Iavarone, e anche su alcuni uffici della seconda e terza municipalità di Napoli, dove lavorava qualcuno che riusciva a fabbricare finti decreti di cittadinanza, per lo più intestati a cittadini extracomunitari, per ottenere poi il reddito di cittadinanza. Una circostanza che lascia pensare ad un ampliamento delle indagini in corso. Redazione CdG 1947
Zafarana (GdF): «Così abbiamo smascherato oltre 29mila falsi poveri con il reddito di cittadinanza». Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.
Con la pandemia e poi la guerra in Ucraina sono stati messi in campo bonus e sostegni vari a imprese e famiglie. Quante truffe e abusi avete scoperto?
«Le indagini più recenti — risponde il Comandante generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana — confermano l’interesse della criminalità per gli aiuti destinati a famiglie e imprese. Emblematico l’esempio dei bonus fiscali: la possibilità illimitata di circolazione dei crediti prevista dalla normativa emergenziale è stata strumentalizzata per scopi illeciti, inducendo il legislatore a intervenire per contrastare il fenomeno. Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, di concerto con l’Agenzia delle entrate, abbiamo scoperto frodi per oltre 5,6 miliardi di euro e sequestrato crediti inesistenti per 2,5 miliardi. Le somme illecitamente ottenute sono state riciclate in società, immobili, preziosi e criptovalute, anche all’estero. Per recuperarle, abbiamo recentemente istituito una task force a livello centrale, dando il massimo impulso all’approfondimento delle segnalazioni per operazioni sospette, all’attività di intelligence e alla cooperazione internazionale».
Esiste lo stesso rischio per i 235 miliardi del Pnrr?
«Nell’ultimo anno e mezzo i nostri reparti hanno posto sotto sequestro beni per oltre 677 milioni. Fondamentale è stata la stretta sinergia con l’autorità Giudiziaria nazionale e con la Procura europea. L’attenzione è massima ma la realizzazione del Pnrr non può confidare solo nella repressione, con la prevenzione si riuscirà a evitare l’utilizzo improprio dei fondi».
In che modo?
«Il governo ha disegnato il sistema di governance prevedendo la possibilità che le Amministrazioni stipulino protocolli d’intesa con la Guardia di Finanza per prevenire e reprimere frodi e irregolarità. Abbiamo già realizzato, a livello centrale e periferico, specifici memorandum e siglato un’intesa, di assoluto rilievo, con la Ragioneria Generale dello Stato, cui hanno aderito le Amministrazioni centrali titolari degli interventi di spesa. Tra le finalità dei partenariati vi è quella di consentirci di disporre di notizie utili a elaborare analisi per selezionare le posizioni a maggior rischio di frode e orientare, conseguentemente, le attività ispettive. Il Corpo parteciperà anche alla “rete dei referenti antifrode”, coordinata dal Servizio centrale per il Pnrr, istituito presso la Ragioneria Generale, con la funzione di monitoraggio e gestione del rischio del Piano con attenzione particolare alle procedure di appalto».
Avete scoperto numerose frodi anche sul Reddito di cittadinanza. Quali sono i dati aggiornati?
«Dall’inizio del 2021, i controlli sul reddito di cittadinanza hanno portato alla denuncia di oltre 29.000 soggetti, per illeciti che, tra somme indebitamente percepite e illecitamente richieste ma non ancora erogate, assommano a circa 290 milioni di euro. La nostra attenzione, in sinergia con l’Inps, è indirizzata soprattutto ai sistemi di frode più strutturati, come quelli che hanno coinvolto anche soggetti collegati ai Caf».
La lotta all’evasione ha conosciuto una tregua durante la pandemia. Si è tornati alla normalità?
«Coerentemente con gli obiettivi di riduzione del tax gap previsti dal Pnrr, abbiamo intensificato la presenza ispettiva, valorizzando le nuove tecnologie per dar corso a interventi “chirurgici”. Continuiamo a riservare un particolare focus alle frodi fiscali, ai fenomeni di evasione internazionale — come le residenze fittizie e le stabili organizzazioni occulte — e alle condotte che alimentano il sommerso anche attraverso il commercio elettronico e i nuovi modelli di business dell’economia digitale».
Qual è il valore dei beni sequestrati in Italia agli oligarchi russi in Italia?
«Dalle prime fasi della crisi russo-ucraina, abbiamo fornito un importante contribuito al Comitato di Sicurezza Finanziaria, competente all’attuazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea. Il Nucleo Speciale di Polizia Valutaria ha eseguito, con il contributo dei reparti territoriali, accertamenti patrimoniali finalizzati a individuare risorse economiche, direttamente o indirettamente, riconducibili ai soggetti sottoposti alle misure restrittive unionali. Questo impegno è testimoniato dai 15 provvedimenti di congelamento, sino ad oggi adottati, su beni, per un valore di circa 1,8 miliardi di euro».
La guerra in Ucraina ha portato in primo piano il fronte dei cyberattacchi, anche all’Italia. La Guardia di Finanza è impegnata a contrastarli e che cosa è emerso finora?
«Il conflitto ha accentuato, inoltre, l’esigenza di resilienza nella transizione digitale e di tutela dai rischi di attacchi informatici. Il Corpo è in campo con un Nucleo specializzato che monitora costantemente il web per anticipare l’evoluzione della minaccia e contribuire a rafforzare il dispositivo di sicurezza cibernetica nazionale».
Lei ha ricevuto il ministro delle Finanze della Repubblica Federale di Germania, Christian Lindner. Quanto investe il Corpo sulla propria proiezione internazionale e con quali obiettivi?
«Nel corso degli anni, la Guardia di Finanza ha progressivamente esteso il proprio network su 75 Paesi e sei organizzazioni internazionali, con esperti e ufficiali di collegamento dislocati presso le principali missioni diplomatiche italiane all’estero, con compiti inerenti al comparto economico-finanziario. Sono stati, inoltre, stipulati protocolli d’intesa con Ocse, Fmi e Unoct (l’ufficio antiterrorismo delle Nazioni Unite), volti anche a promuovere attività formative internazionali, per favorire una comune cultura investigativa. Dal 2015 la nostra Scuola Pef ha ospitato 173 Paesi esteri, erogando corsi, dallo scorso anno, a circa 10.000 discenti stranieri».
Reddito di Cittadinanza, tempo di valutazioni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Giugno 2022.
Per contrastare il disincentivo al lavoro, invece, la Legge di Bilancio 2022 ha stabilito la decadenza del sussidio dopo due (e non più tre) offerte di lavoro respinte, nonché la riduzione di 5 euro mensili a partire dal mese successivo al rifiuto di un’offerta di lavoro congrua.
di Michela Rivellino
Il reddito di cittadinanza ha lasciato un’impronta positiva come misura di contrasto alla povertà, ma si è rivelato insufficiente in qualità di politica attiva del lavoro. Se da una parte ha favorito l’aumento dell’adeguatezza del reddito minimo dal 21,9% della soglia di povertà nel 2018 al 90,7% nel 2019, dall’altra ha manifestato una serie di difficoltà di carattere oggettivo, innestandosi in un mercato del lavoro fragile ed una dimensione occupazionale vacillante.
Basti pensare al destino dei “navigator“, le figure di alta formazione professionale istituite congiuntamente al RdC, a supporto dei centri per l’impiego (Cpi) al fine di favorire il percorso di reinserimento lavorativo dei beneficiari. Trovatisi essi stessi nel vortice della precarietà e delle proroghe difficoltose, i 1800 navigator sono stati temporaneamente ri-contrattualizzati da Anpal Servizi per un periodo di soli due mesi, ma restano in balia di un futuro piuttosto incerto.
È dalla natura volutamente ibrida del RdC che derivano gli scontri e le critiche più aspre al sussidio, polarizzando il panorama politico tra chi lo difende, chi ne chiede la riforma, o addirittura l’abolizione, come nel caso di Italia Viva che il 15 giugno avvierà la raccolta firme per revocare la misura. A far alzare i toni sono soprattutto le controversie in merito al disincentivo al lavoro regolare e alle frodi derivate dal regime stesso.
Contro i “furbetti” della burocrazia si è reso operativo il Protocollo d’intesa tra INPS e Ministero della Giustizia, in vigore dallo scorso 1° giugno, al fine di rafforzare il meccanismo dei controlli su beneficiari e nuovi richiedenti. Per contrastare il disincentivo al lavoro, invece, la Legge di Bilancio 2022 ha stabilito la decadenza del sussidio dopo due (e non più tre) offerte di lavoro respinte, nonché la riduzione di 5 euro mensili a partire dal mese successivo al rifiuto di un’offerta di lavoro congrua.
Appare dunque poco plausibile anche la formula imprenditore avvilito a fronte di beneficiario fannullone, considerando che quest’ultimo, se sottoscritto il Patto per il lavoro e dunque impegnatosi ad accettare offerte di lavoro congrue, finirebbe diversamente per perdere il proprio sussidio. La versione più auspicabile resta quella dei numerosi datori di lavoro che ricercano il personale senza passare dai centri per l’impiego, presso i quali sarebbero tenuti a dichiarare una serie di requisiti, tra cui orari, stipendio, mansioni e contratti collettivi conformi alle norme vigenti.
A smentire la teoria del disincentivo sono anche i dati riportati dall’ ANPAL, l’ Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, che fanbo luce sul reale problema, ben più profondo e strutturato di quello che trapela dal dibattito politico: il mercato del lavoro.
L’analisi, con dati aggiornati al 31.12.2021, ha dimostrato che tra i beneficiari non esonerati dalla sottoscrizione del Patto per il lavoro (PPL), meno della metà è stato effettivamente preso in carico, vale a dire ha intrapreso il percorso di accompagnamento al lavoro. Inoltre, soltanto il 20,1% dei percettori presi in carico è in stato occupazionale, contro il 79,9% non occupato.
Il primo paradosso riguarda la natura contrattuale dei beneficiari occupati, prevalentemente basata su contratti a breve e brevissimo termine ma anche indeterminati e di apprendistato, che lascia ad essi il diritto di percepire il reddito di cittadinanza poiché tale occupazione non incide sul reddito familiare in maniera tale da “emanciparli” dalla misura, rendendoli a tutti gli effetti “working poor”, o lavoratori poveri.
Il quadro si aggrava ulteriormente se si volge lo sguardo agli 843.402 beneficiari non occupati e sottoposti alla sottoscrizione del PPL. Quasi l’80% di essi è considerato lontano dal mercato del lavoro, ovvero senza alcuna esperienza professionale nel triennio precedente (2019-2021) e, oltre la metà, presenta competenze medio basse o basse.
Le analisi confermano che la “falla” del RdC non risiede nella sua incapacità di raggiungere gli obiettivi prefissati, ma piuttosto, nel panorama all’interno del quale opera, ovvero un mercato del lavoro privo di qualità. Per quanto ambizioso, il piano del reddito di cittadinanza non è sufficiente a colmare le lacune fin troppo radicate che dominano il mercato del lavoro italiano. Pertanto, il regime dovrebbe perseguire ed attenersi a parte della sua funzione originaria, quella del contrasto alla povertà e di inclusione degli individui più fragili all’interno della società. Infatti, se da una parte il RdC ha costituito un’àncora di salvezza per milioni di cittadini, tanto che il 77% di essi ha considerato tale sostegno una risorsa indispensabile, l’ancora troppo ampio spettro di vulnerabilità ed esclusione sociale potrebbe fortemente compromettere l’impatto del regime negli anni a venire, come ha evidenziato il Country Report della Commissione Europea.
Estratto dell’intervista di Annalisa Cuzzocrea a Andrea Orlando da “la Stampa” il 31 maggio 2022.
Renzi e Meloni dicono sia tutta colpa del reddito di cittadinanza. Lo fa anche il ministro del Turismo, il leghista Garavaglia, in merito alla crisi di lavoratori che mette a rischio la stagione estiva. È così?
«L'erogazione media del reddito è di 580 euro. Con le modifiche, dopo due chiamate congrue, si perde l'assegno. Stiamo trasferendo i dati alle agenzie per il lavoro e ai centri per l'impiego che avranno questo compito oltre a un riconoscimento economico quando collocano qualcuno. Ma l'ordine di grandezza del fenomeno va raccontato nel dettaglio».
Facciamolo.
«Da dopo la pandemia i percettori di reddito sono costantemente scesi. Negli ultimi tre mesi, di 50 mila unità al mese. In tutto sono tre milioni di persone. Un terzo, sulla base della legge, è occupabile. Sono 900 mila. Di questi, il 20-22% ha già un impiego, che però non gli fa superare la soglia di povertà. Ne restano 750 mila.
Il 55% donne, molte con bambini difficilmente occupabili in settori come edilizia e agricoltura, il 45% uomini. Due terzi sono al Sud. Quindi, nelle aree in cui c'è una carenza di manodopera ci sono 300 mila percettori di reddito. Un numero consistente di loro ha un livello di scolarizzazione che non raggiunge la terza media. Questo è il quadro».
Traduco: il reddito di cittadinanza c'entra poco con la mancanza di manodopera.
«Anche mandando a lavorare tutti non risolveremmo la questione delle vacanze e infatti lo stesso Garavaglia dice che c'è bisogno di un nuovo decreto flussi».
Francesco Bisozzi per “Il Messaggero” il 21 giugno 2022.
Telefoni che squillano a vuoto, mail che non vengono lette, appuntamenti rimandati per carenza di personale. Benvenuti nei centri per l'impiego tricolori, l'anello più debole delle politiche attive per il lavoro, quello che se si spezza rischia di far evaporare i circa 5 miliardi di euro messi a disposizione dal Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, per trovare un impiego ai beneficiari del reddito di cittadinanza, ai percettori della Naspi e ai lavoratori in Cigs. Al 18 maggio le Regioni avevano assunto solo 3.440 professionisti degli 11.600 attesi in entrata nei centri per l'impiego.
Un ritardo che ora rischia di costare caro: queste strutture, al cui potenziamento il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina 600 milioni di euro, sono chiamate infatti a inserire prima della fine dell'anno 300mila disoccupati nel nuovo programma di Garanzia di occupabilità dei lavoratori (Gol). Un traguardo da cui dipende l'erogazione delle prossime tranche di risorse.
Devono ancora arrivare circa 3 miliardi di euro degli oltre 5 messi sul piatto dal Pnrr per il programma Gol e il rafforzamento dei centri per l'impiego. Considerato però che i centri scontano ancora oggi la mancanza di 8mila operatori, difficilmente riusciranno a centrare l'obiettivo richiesto nei tempi stabiliti.
Insomma, l'operazione di potenziamento dei Cpi sembra essersi incagliata. Emblematico il caso della Sicilia, tra le Regioni con più beneficiari del reddito di cittadinanza nella pancia, dove il maxi concorso per rafforzare i centri per l'impiego è stato un flop.
Quasi 60mila candidati per 537 posti messi a bando: appena 200 gli idonei. Quindi oltre la metà dei posti è rimasto scoperto. Pochi, sottodimensionati rispetto a una domanda di servizi in continuo aumento, senza personale qualificato, i centri per l'impiego navigano a vista e per adesso si appoggiano sui pochi navigator rimasti in servizio dopo l'ennesima proroga del loro contratto, più o meno 1700, per cercare di restare aperti.
Al lordo delle 3mila nuove assunzioni, possono contare su circa 10mila unità di personale: l'obiettivo però è di arrivare almeno a 20mila (in Francia sono più del doppio e in Germania addirittura il quadruplo).
Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha più volte bacchettato le Regioni per il ritardo accumulato sul fronte delle assunzioni nei centri per l'impiego, ma nonostante ciò ancora non si vedono progressi significativi.
Più nel dettaglio, il programma di Garanzia di occupabilità dei lavoratori assorbe 4,4 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Entro il 2025 si prevede che il maxi piano per l'occupazione avrà accolto 3 milioni di beneficiari di prestazioni di sostegno al reddito.
Il programma Gol prevede percorsi di accompagnamento al lavoro personalizzati. Un quarto dei beneficiari seguirà corsi di formazione focalizzati sulle competenze digitali. Dal successo del programma di Garanzia di occupabilità dei lavoratori dipende anche la sopravvivenza del reddito di cittadinanza, che oggi vede più di 800mila percettori occupabili senza lavoro, l'80% circa del totale degli attivabili.
A Natale erano invece 212mila i beneficiari con un rapporto di lavoro attivo, ovvero un occupabile su cinque. Lo stock dei percettori attivabili del sussidio che non si attivano va smaltito il prima possibile o la prestazione di sostegno al reddito introdotta dai Cinquestelle rischia di diventare insostenibile per le casse dello Stato.
Il sussidio è costato fin qui più di 22 miliardi di euro e di questo passo l'asticella supererà alla fine dell'anno la soglia dei 25 miliardi. Ad aprile la spesa per il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza è stata pari a 668 milioni euro.
Poveri padroni, rimasti senza lavoratori da schiavizzare. Luca Bottura su su L'Espresso il 6 giugno 2022.
Gli albergatori non trovano gente da sfruttare per la stagione, i gestori dei lidi piangono perché dovranno pagare le concessioni fino a ora regalate, gli industriali se la prendono con i cittadini che non arrivano a fine mese. Che tempi...
Non ho amici Bernabò. Mi piacerebbe, ma i miei amici si chiamano più normalmente Francesco, Leo, Alberto. Ciò detto, Bernabò, è un gran bel nome. Non ho amici Bernabò, eppure immagino quanto possa essere complesso portare un appellativo del genere senza provenire da lombi patrizi. Senza appartenere alle élite. Senza far parte dell’Italietta radical-chic che da sempre gestisce i salotti buoni. Provo perciò istintiva solidarietà nei confronti di Bernabò Bocca, ex deputato di Forza Italia, costretto a salire le scale della vita senza altri strumenti che un diploma in amministrazione aziendale e la catena di alberghi a cinque stelle fondata dal padre, di cui diventò presidente a trent’anni. Della catena, non del padre.
Oggi il self made man Bernabò Bocca, passo passo, fatica dopo fatica, sacrificio dopo sacrificio, è salito al vertice di Federalberghi. Ed è chiaro, quasi fisiologico, che non abbia in simpatia chi pretende di fare la bella vita a sbafo. Chi pretende tutti i privilegi senza addentare il sale del pane altrui. Così, dalle colonne di un quotidiano romano, ha lanciato un grido di dolore contro gli stagionali che stanno lasciando in braghe di tela il comparto da lui sovrinteso. Sfrontati che si permettono addirittura di rifiutare 1300 euro al mese. Per tre mesi. Una cifra con la quale in un albergo di Bernabò Bocca fatichi a permetterti il frigobar, ma che per un poveraccio a chiamata dovrebbe essere fonte di gaudio assoluto. Un regalo da parte del “donatore di lavoro”, come diceva Rosalia Porcaro, che viene incredibilmente respinto al mittente. Non c’è più religione.
Lo stesso giorno, su un altro quotidiano, tale Massimo Mallegni di Forza Italia si esibiva nella strenua difesa del proletariato da bagnasciuga, quelli costretti a pagare 2500 euro l’anno di concessione allo Stato, in cambio di appena 180.000 euro di incassi (dichiarati), e spiegava che, appena smammato Draghi, avrebbe provveduto a cancellare la legge sulla concorrenza, quindi la concorrenza, mantenendo però gli indennizzi previsti per attenuare la legge sulla concorrenza. Mallegni ha uno stabilimento balneare.
Ma soprattutto, a poche pagine da Bernabò Bocca, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi identificava una volta per tutte i responsabili dello sfascio che affligge il Paese: i cittadini. Gentaglia che si permette di ricevere aiuti di Stato e bonus con la scusa che non arriva a fine mese, a differenza delle imprese italiane che mai e poi mai hanno approfittato della mammella pubblica per incassare denari a fondo perduto, casse integrazioni a pioggia, miliardi investiti per la delocalizzazione.
Si parla spesso di dissoluzione della Sinistra. Anzi: della sua inutilità. In effetti, per rappresentare le classi meno abbienti, bastano e avanzano i Bocca, i Mallegni, i Bonomi. Gente che merita ogni riga d’inchiostro ottenuta sui giornali, e senza nemmeno una pastorale di pernacchie in sottofondo. Perché se sei così bravo a sfottere, strumentalizzare, denigrare, chi in democrazia dovrebbe consumare quel che produci tu, dunque dovrebbe quantomeno poterselo permettere, beh: hai certamente vinto tu. Tanto di cappella.
Sette giorni su sette, mille euro, «col Reddito di cittadinanza»: perché non trovano camerieri. SELVAGGIA LUCARELLI E VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 01 giugno 2022
Arriva l’estate e, come ogni anno, si moltiplicano le lamentele da parte delle associazioni di categoria e operatori di settore: non si trovano più lavoratori stagionali, sono diventati tutti troppo esigenti, i giovani si informano prima sui weekend liberi e sui riposi. Selvaggia Lucarelli cerca lavoro a un hotel di Anzio: «Devi lavorare sette giorni su sette, per 1000 euro»
Arriva l’estate e, come ogni anno, si moltiplicano le lamentele da parte delle associazioni di categoria e operatori di settore: non si trovano più lavoratori stagionali, sono diventati tutti troppo esigenti, i giovani si informano prima sui weekend liberi e sui riposi. E poi la motivazione più frequente: colpa del reddito di cittadinanza, troppi preferiscono ricevere il sussidio invece che lavorare.
Basta però chiamare e informarsi su quali sono le condizioni di lavoro offerte per capire come mai il settore turistico non trova personale: richiesta di disponibilità sette giorni su sette, condizioni contrattuali vaghe, promesse ambigue sulla possibilità di cumulare reddito di cittadinanza e stipendio. Selvaggia Lucarelli ha provato a chiamare l’Hotel Parco dei Principi di Anzio chiedendo di farsi assumere: «Ho letto il vostro annuncio».
E l’inserzione diceva: «Cercasi cameriera ai piani tutto fare», 7 ore, 800 euro giugno, 900 luglio, mille agosto. Possibilità di restare tutto l’anno e altri extra. E in più si può mantenere il Reddito di cittadinanza. Ma come?
Uno dei responsabili, al telefono, ha risposto chiedendo il curriculum, una foto e una mattina di prova «non retribuita». Un modo per conoscersi, spiegano dall’albergo. Un giorno libero a settimana, ma ad agosto per mille euro «si lavora sette su sette. L’unico periodo che c’è un buon lavoro».
IL COMMERCIALISTA
Il reddito di cittadinanza è un problema o si può mantenere? Selvaggia Lucarelli dice al telefono che riceve l’assegno e non lo vuole perdere. «Si può vedere un tipo di contratto», risponde il responsabile. Ma quale? Fuori busta cioè in nero? Dall’hotel non vogliono parlarne per telefono, meglio discuterne di persona: «Non me ne occupo io, quando porta il curriculum ne discute con la persona preposta. Se l’hanno messo ci saranno delle soluzioni (..) Non so cosa fanno, fanno tutto legale quello tranquilla».
Il sussidio non è riservato solo ai disoccupati, l'importante è che si rispettino delle regole e si abbiano i giusti requisiti e nello specifico non superare l'Isee stabilito dalla legge.
IL PART-TIME
Abbiamo quindi chiamato l’hotel, presentandoci esplicitamente come giornalisti e chiedendo risposte ufficiali riguardo all’annuncio e alle condizioni di lavoro. Alfredo Buticchi è responsabile della reception e socio dell’hotel. Per mantenere il Reddito di cittadinanza dice che «chi ne ha bisogno può fare un part-time» e ricevere un compenso più basso. Ma con quello stipendio, aggiunge dopo, è possibile persino cumulare: «Il commercialista ci ha spiegato che si può infatti andare a integrare senza perdere i benefici dello stato a seconda della situazione di partenza».
Durante la telefonata di Lucarelli il tempo ridotto però non è stato nemmeno ipotizzato, ma adesso «ci sono duemila esigenze diverse» di cui parla il socio della struttura. E loro vogliono andare incontro a tutte a quanto pare. La stagionalità in questi casi, spiega, scoraggia il personale. Ma il problema negli anni passati a suo dire non si era presentato, si propone adesso: «Potrebbe avere influito il Reddito di cittadinanza», suppone. Lo stipendio, il tempo determinato e l’orario di lavoro per lui invece non sono in questione. Il punto per lui è «mantenere il sussidio».
SORRENTO E ANZIO
Se non si trova la cameriera richiesta dall’annuncio «non è che non apriamo, accettiamo la persona che viene soltanto per tre o quattro ore. Siamo stati obbligati perché sennò non si presentano nemmeno quelli».
Attualmente il personale assunto, spiega Buticchi, non ha il Reddito. E sull’escamotage si giustifica: «Non siamo a Formia o Gaeta. Inutile venire a fare la morale qui. Se si va a Sorrento è un’altra cosa. Da loro si va a sindacare, per gli imprenditori della zona è faticoso». Le «inchieste andrebbero fatte dove le strutture sono piene».
E la differenza giustificherebbe eventualmente una strada illegale? «No no, se vogliono tenere il reddito e cumulare il beneficio, riduciamo l’orario se serve». La stagionalità fa sì che nella maggior parte dell’anno l’affluenza si concentri nel weekend, e nello specifico il sabato. L’hotel si riempie dal 5-6 agosto fino al 20, con un crollo successivo: «Il part-time si può concentrare anche in una settimana». L’esigenza cambia e dipende anche dalla struttura, se ha o no il ristorante, ad esempio.
«Bisogna stare attenti nel criminalizzare le situazioni. A Rimini con gli alberghi pieni ad adottare queste soluzioni sono ladroni. Senza trovare alternative invece gli hotel come i nostri non possono nemmeno aprire. Sulla regolarità, noi non ci mettiamo a rischio nemmeno per uno scontrino», garantisce. E quindi orari di lavoro pesanti e stipendi bassi: «Sulle spiagge danno 600 euro al mese».
Così anche per la prova gratuita c’è di peggio. Da loro il giorno di prova, specifica, «è mezza giornata per stare con il resto del personale, seguono il lavoro. Non è sfruttamento, è legale», e ancora: «C’è gente che tiene per una settimana senza pagare, non credo che ci guadagniamo con due ore la mattina».
Se le aziende devono cercare degli espedienti è per «lo stato che distrugge». Quindi non è colpa degli imprenditori, con dei distinguo a suo dire: «Un conto è se lo fa una struttura che sopravvive, un altro è se guadagna bene. Vanno interpretate le situazioni». E conclude: «Non è sfruttatore uno che non ha la Ferrari» e «se va a vedere gli annunci troverà molto di peggio». Su come funziona l’accordo per il contratto, le condizioni «si trovano quando uno viene». SELVAGGIA LUCARELLI E VANESSA RICCIARDI.
Il reddito di cittadinanza diventa una rendita, è rinnovabile per tutta la vita. Dario Martini su Il Tempo il 25 maggio 2022
«Il reddito di cittadinanza è una riforma complessa, perché è fondata su un patto di lavoro, un patto di formazione e un meccanismo di inclusione sociale». Era il 4 febbraio 2019 quando l’allora premier Giuseppe Conte usava queste parole per presentare la misura bandiera del Movimento 5 Stelle. I beneficiari lo avrebbero dovuto percepire per 18 mesi, durante i quali sarebbero stati aiutati a trovare lavoro. Se non ce l’avessero fatta, avrebbero potuto ottenere un rinnovo di ulteriori 18 mesi. Tre anni in tutto, un tempo sufficiente per uscire da una situazione di difficoltà grazie all’aiuto dello Stato. Nessuno prendeva in considerazione l’ipotesi che il Rdc sarebbe diventato una misura strutturale senza fine. Invece, è andata proprio così. Secondo l’ultimo report dell’Inps di febbraio scorso, il 70% dei nuclei familiari «esordienti» nel corso del 2019 era ancora beneficiari a fine 2021. E proprio in questi giorni l’Istituto nazionale di previdenza sta ricevendo le domande per un secondo rinnovo di altri 18 mesi. La misura, presentata come «temporanea», e a sostegno delle persone in difficoltà economica, diventa così prorogabile all’infinito.
La legge non fissa un limite temporale. Unica condizione è essere ancora in possesso dei requisiti economici e di non percepire l’assegno per un mese. Chi ha usufruito del primo rinnovo, infatti, è stato «in pausa» a ottobre 2020, avendo iniziato a percepire l’assegno ad aprile 2019. Ora, a maggio, sta invece affrontando il secondo stop di 30 giorni. E a giugno inizierà a percepire il sussidio per altri 18 mesi, fino a novembre 2023. È prevedibile, quindi, che il prossimo report dell’Inps registri un’impennata di nuove domande, che in realtà sono richieste di rinnovo, come è accaduto nel quarto trimestre del 2020, quando furono addirittura 784mila. Un numero altissimo se si considera che la media trimestrale di nuove richieste si aggira sulle 200mila. Fonti del ministero del Lavoro fanno notare che la «persistenza» nel tempo di beneficiari del reddito di cittadinanza non deve stupire, perché «è altissima la percentuale di coloro che hanno abbandonato precocemente gli studi (6% senza titolo, 14% licenza elementare, 51% licenza media)». Motivo per cui «sono difficilmente occupabili». Una ricerca recente dell’Inps «sui percettori nel trimestre aprile-giugno 2019, ha evidenziato che su 100 soggetti beneficiari del Rdc, quelli "teoricamente occupabili" sono poco meno di 60. Di questi: 15 non sono mai stati occupati, 25 lo sono stati in passato, e meno di 20 sono "ready to work" (hanno posizione contributiva recente, in molti casi Naspi e part-time)».
Il rischio, però, è che qualcuno ne approfitti. Il governo Draghi ha cercato di porre un correttivo. Rispetto al passato, infatti, il Rdc è stato modificato introducendo il sistema del «decalage», con la perdita progressiva di 5 euro al mese al primo lavoro «congruo rifiutato», e la revoca totale dopo due offerte non accettate, mentre prima erano tre.
Reddito di cittadinanza da vergogna: cosa fa chi ottiene un lavoro. Attilio Barbieri su Libero Quotidiano il 31 maggio 2022.
Più che un sussidio un vitalizio. La platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza non solo tende a crescere col passare del tempo, ma si consolida pure. Ma se l'ampliamento della platea era largamente previsto dagli esperti, era difficile immaginare, invece, che fra i destinatari di lunga data dell'assegno, ben nove su dieci continuino a rifiutare le proposte di lavoro che ricevono. Ma andiamo con ordine. Dall'aggiornamento di maggio sull'andamento della misura ad aprile, è emerso che ad incassare il reddito o la pensione di cittadinanza sono un milione e 191mila nuclei familiari, mentre le persone coinvolte sono ora 2 milioni e 649mila. Con un importo medio di 560,90 euro. E a fare la parte del leone sono in particolare due regioni. Sicilia e Campania, rispettivamente con 560.381 beneficiari la prima e 683.543 la seconda. Nell'insieme il Mezzogiorno assorbe ben più della metà dei sussidi, con 783mila nuclei beneficiari, contro i 231mila del nord e i 175mila del centro. Soltanto nel mese di aprile lo Stato ha speso 668 milioni per finanziare il sussidio. E in cima alla classifica provinciale, ancora una volta, c'è Napoli che conta ben 440mila percettori della misura, contro i 66mila della provincia di Bari, i 178mila di Palermo - si parla sempre di province - i 162mila di Roma e i 63mila di Torino e Milano. Un primato, quello del capoluogo campano, che resta ineguagliato fin dagli esordi del reddito grillino, nel 2019.
OFFERTE RIFIUTATE
Di nuovo, semmai, c'è la percentuale dei destinatari napoletani delle offerte di lavoro che le rifiutano sistematicamente. I Centri pubblici per l'impiego della provincia hanno collezionato il record di «no, grazie», alle offerte sottoposte al beneficiario: nel 90% dei casi i posti offerti agli assistiti sono rimasti vacanti. D'altronde il diniego non comporta nulla. Si rischia la revoca del sussidio soltanto dopo il terzo «no».
Ai primi due non accade nulla.
CONTRATTI A TERMINE
Certo, come riferisce la Repubblica, su 1.170 offerte di lavoro con scadenza a giugno, pubblicate sul portale Cliclavorocampania, ben 1.044 riguardano contratti a termine, tra apprendistato, contratti di collaborazione e lavori stagionali dai 3 ai 6 mesi. Numeri che, fra l'altro, spiegano l'allarme lanciato in settimana dagli esercenti napoletani che lamentano l'assenza di candidati per 5mila posizioni. Un piccolo esercito destinato comunque a crescere. Dopo le polemiche innescate da Renzi con l'annuncio di un referendum per abolire reddito e pensione di cittadinanza, è tornata sul tema ieri pure Giorgia Meloni che non ha mai smesso di puntare il dito sulla misura grillina, definendola da ultimo «diseducativa» perché «non risolve la condizione di povertà di chi percepisce il sussidio e lo lascia stabilmente dipendente dalla politica». Fra l'altro i ripetuti dinieghi alle offerte di lavoro stagionali metterebbero a rischio addirittura 75mila esercizi commerciali- soprattutto bar e ristoranti - in tutta Italia, come ha calcolato lo Studio Susini di Firenze, specializzato in diritto del lavoro. Mentre gli illeciti accertati, con la revoca dell'assegno, crescono a dismisura. Se nel 2019 ne erano stati individuati 10.778 per un importo di 969mila euro, nel 2020 gli illeciti sono stati 18.131 per 5,6 milioni di euro, mentre nel 2021 si parla di 156.822 illeciti per un totale ancora parziale di 41,3 milioni. E riesplodono pure le polemiche per lo scarso utilizzo da parte degli enti locali dei beneficiari nei Progetti utili alla collettività, i Puc. È dei giorni scorsi la denuncia di Dario Nanni consigliere comunale della Lista Civica Calenda a Roma dove il comune, «a fronte dei 67.315 percettori complessivi ne impiega solo 117». Una situazione per altro molto diffusa fra le amministrazioni comunali.
Rosaria Amato per “la Repubblica” il 30 maggio 2022.
«Quando arriva un nuovo collega dal Sud, io gli consiglio subito di trovarsi un fidanzato, o una fidanzata, per dividere le spese, altrimenti è impossibile vivere a Milano. Un affitto per due persone in un quartiere normalissimo come quello in cui vivo io costa 1.250 euro al mese. Con uno stipendio della Pubblica Amministrazione è difficile vivere qui in Lombardia».
Alessandra (nome inventato, ndr), funzionaria pubblica, viene da Salerno, e vive a Milano con la famiglia da 12 anni. Negli ultimi tempi è sempre più frequente, racconta, che i neoassunti si licenzino, proprio come ha spiegato qualche giorno fa in Parlamento il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili Enrico Giovannini e come aveva riferito a febbraio anche il ministro dell'Economia Daniele Franco.
«Aspettavamo un geometra, delle mie parti - racconta Alessandra - Non si è neanche presentato. Un'altra collega, di una regione del Centro Italia, invece è venuta, ha provato, è rimasta un mese, poi si è licenziata e se n'è andata».
Per i profili tecnici la difficoltà di trovare professionisti disponibili è sempre maggiore. Luciano, architetto (anche in questo caso il nome è falso) spiega il perché: «Dopo molti anni sono stato ripescato dagli idonei di un concorso. Sono un esperto di procedure specialistiche che la Pa sta cominciando ad adottare, speravo di poter dare il mio contributo.
Però mi sono ritrovato a dover stipulare contratti per appalti molto complessi, con uno stipendio di 1600 euro al mese che nella città in cui vivo, nel Nord Italia, copre a malapena le spese.
Al massimo posso avere un'integrazione lorda annua di 13 mila euro lordi, mentre nel privato con le stesse competenze potrei guadagnare anche 50 mila euro a contratto. Le procedure sono molto lente, a fronte di un rischio molto elevato di tipo penale e civile. E devo pagare da solo la mia assicurazione e l'iscrizione all'ordine professionale».
Dalle stime di Fpa, la società che organizza il Forum Pa, finora sono stati coperti tutti e 15 mila i posti banditi per i concorsi del Pnrr. Segno che la percezione della Pa sta cambiando in meglio, rileva il direttore Fpa Gianni Dominici: «Soprattutto attrae la nuova quarta area dei quadri, che assicura stipendi e carriere migliori».
Per far capire che la Pa «non è quella di Fantozzi» Antonio Naddeo, presidente dell'Aran, l'Agenzia che stipula i contratti pubblici, lancia una sfida, proponendo «un Open Day aperto alle scuole e alle università, per far capire quello che fanno l'Istat, l'Inps o il Cnr».
Anche perché nei prossimi mesi i posti banditi saranno decine di migliaia, e sarebbe un problema se la tendenza a rifiutare i contratti si consolidasse.
In moltissimi casi, anche per i concorsi ordinari, le amministrazioni, dal Mef al Mims all'Agenzia delle Dogane ai ministeri del Lavoro e della Giustizia, hanno dovuto "scorrere le graduatorie", chiamando uno per uno gli idonei non vincitori.
Con un risultato paradossale, fa notare Marco Carlomagno, segretario generale della Flp: «I vincitori hanno dovuto accettare la sede assegnata, e quindi, se meridionali, si sono dovuti trasferire al Nord, oppure a Roma, come prevedeva il concorso da 500 posti del Mef, e anche in questo caso si tratta di un trasferimento in una città che ha un costo della vita elevato. Mentre gli idonei in molti casi hanno potuto scegliere!».
Molte amministrazioni, a cominciare dall'Agenzia delle Dogane, hanno annunciato che i prossimi concorsi saranno su base regionale, ma questo, rileva Carlomagno, «non risolve la questione, perché le sedi del Nord dove i laureati hanno possibilità di lavoro nel privato ben più remunerative, rimarranno comunque vuote. I giovani non sono attratti da stipendi che crescono poco e carriere che spesso rimangono ferme per 30 anni».
I social media sono pieni di testimonianze di giovani che hanno opposto il "gran rifiuto" alla Pa: «Qualche mese fa ho partecipato ad un bando per un'azienda pubblica - racconta Vincenzo Racca, informatico, 30 anni -. Mi avevano offerto uno stipendio superiore a quello che percepisco adesso nel privato, ma utilizzavano tecnologie molto vecchie, e non prevedevano lo smart working”.
Luca Bottura per “La Stampa” il 30 maggio 2022.
Ieri mattina, ora di colazione. Consumo brioche e cappuccino. Prima di uscire mi avvicino alla cassa per salutare e quelli, a tradimento, battono lo scontrino: 3 euro e 10.
Ovviamente sbotto: «E che, si fa così?». Non comprendono. Allora spiego: «Lei mi chiede subito del denaro senza nemmeno informarsi sui miei interessi, sui miei progetti, sulla mia storia personale». Niente: «Tre euro e dieci».
«Ma lei lo sa la fatica che la mia famiglia ha fatto per me? Lo sa quanto hanno speso per farmi studiare? Io i suoi 3 euro e dieci voglio poterli reinvestire per il progresso del Paese».
Minacciano di chiamare la polizia. Dialogante, mi gioco l'ultima carta: «Guardi, facciamo così: adesso esco e alle prime tre persone che incontro dico che il cappuccino era ottimo e la brioche freschissima. Vi pago in visibilità». A momenti mi menano.
Naturalmente non è successo, perché nessuno sano di mente (anche se questo non mi esclude dal novero) si permetterebbe di dar vita a una scena del genere. Eppure la leggete ogni giorno quasi ovunque, con parole molto simili. Cambiano solo gli attori: imprenditori e imprenditrici, l'ultima Tiziana Fausti, ramo fashion, che lamentano pubblicamente la proattività deficitaria di chi cerca lavoro, specie i giovani.
Questi fannulloni chiedono subito quanto prenderanno, si informano sugli straordinari, su possibili weekend liberi. Invece di empatizzare con chi li assume, che magari si è fatto da sé semplicemente ereditando una valigeria di lusso nel centro di Bergamo.
Ora, non so come dirlo a Fausti e a tanti altri, ma la roba che dicono loro si chiama socialismo. E non nel senso di social. Prevederebbe però che si socializzassero anche gli utili, oltre alla fatica e al rischio di impresa. Ma siccome (se Dio vuole) ha vinto il capitalismo, funziona diversamente. L'imprenditore rischia soldi, salute e posteriore in cambio di denaro frusciante. Ove gli vada bene, ovvio.
L'impiegato non insegue il jackpot. Dunque si regola di conseguenza. Certo, una via di mezzo ci sarebbe. Quella tedesca, dove lavoratori e imprenditori condividono il "goal", come credo direbbe Fausti, in cambio di salari molto più alti - siamo l'unico Paese in cui gli stipendi sono scesi, da vent'anni in qua - e diritti che in Italia abbiamo progressivamente smantellato. Un fordismo alla teutonica che peraltro in Europa fu inventato dagli italiani, cioè da Adriano Olivetti.
Uno che oggi passerebbe come un pericoloso comunista, fuori dal mondo, schiavo dei sindacati. E che, coinvolgendo i dipendenti, creandone il welfare, aveva divorato fior di aziende a stelle e strisce. Mica un benefattore.
Noi però siamo (non sempre, ma troppo spesso) la Repubblica dei Gianluca Vacchi. Talmente abituati a un ecosistema del lavoro tossico che ce la prendiamo coi giovani. Quelli cui abbiamo mangiato futuro e pensioni. E anche la voglia di farsi domande.
Facciamocene lo stesso: se non si trova personale a termine per la stagione estiva, sarà mica che per 800 euro in nero al mese la gente sta a casa? Se c'è chi al Sud preferisce il reddito di cittadinanza a un lavoro, sarà mica perché il lavoro è pagato uguale e forse in nero?
Se la gente si dimette in massa, sarà mica perché il loro tempo ha la stessa dignità di quello delle Fauci e sono stanchi di farselo pagare due spicci? Non rispondete subito. Prendetevi qualche minuto. Intanto pago la colazione.
Altre 478 posizioni al vaglio delle indagini. Maxi truffa da 4 milioni di euro sul reddito di cittadinanza, 140 denunciati senza diritto. Vito Califano su Il Riformista il 13 Maggio 2022.
Denunciate 140 persone per la percezione indebita del reddito di cittadinanza: una truffa dall’importo complessivo di quattro milioni di euro secondo le indagini. Questa volta è stata la Polizia di Cagliari a procedere contro chi avrebbe ottenuto il sussidio a partire dal 2019 tramite dichiarazioni false. Tutti i destinatari della denuncia sono stranieri. E non è finita qui, in quanto sarebbero al vaglio degli investigatori le posizioni di altri 478 stranieri, percettori anche questi del sostegno dal 2019 e che rischiano la denuncia e la revoca del reddito.
Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, leader del Movimento 5 Stelle e ministro dello Sviluppo Economico all’adozione della misura, in un’intervista a Il Foglio aveva dichiarato come sarebbe stato opportuno “ripensare i meccanismi separando nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”. A tre anni dall’introduzione la misura si è infatti dimostrata un efficace strumento assistenziale ma un debole mezzo di incentivo al mercato del lavoro. Secondo i dati della Corte dei Conti al febbraio 2021 le persone che avevano instaurato un rapporto di lavoro dopo la richiesta della domanda erano 152.673, il 14,5% del totale.
La misura introdotta dal governo Conte 1 è stata in parte modificata tramite la legge di Bilancio 2022 da 36,5 miliardi di euro. Proprio per frenare le truffe ai danni dello Stato. Tra le novità, in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro scala subito il reddito di cinque euro per ciascun mese. Al secondo rifiuto, invece che al terzo, il sostegno viene revocato. Ridotta da 100 a 80 chilometri la distanza massima dalla residenza del beneficiario, la seconda può trovarsi ovunque in Italia. Introdotto anche l’obbligo, una volta al mese, ad attività e colloqui in presenza. Allargata inoltre la lista dei reati che fanno decadere il beneficio. La dote complessiva della misura è stata stabilita in poco meno di 8,8 miliardi di euro.
A fine aprile è stato intanto trovato un accordo per rinnovare, anche se per pochi mesi, il contratto dei quasi duemila navigator: i consulenti assunti nel luglio 2019 per il compito di trovare lavoro ai percettori del reddito di cittadinanza. Il contratto scadeva infatti sabato 30 aprile. È possibile che a fine giugno ci sia un ulteriore rinnovo per altri due mesi. A fine agosto il ministero dovrà decidere se prorogare per la quinta volta i contratti o se assumere definitivamente i navigator con contratti a tempo indeterminato. Al momento questi “facilitatori” guadagnano circa 1.700 euro netti al mese di cui 300 euro come rimborso spese forfettario.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Francesco Bisozzi per “Il Messaggero” il 26 aprile 2022.
Navigator al capolinea. Dovevano trovare un impiego ai percettori del reddito di cittadinanza, ma ora sono loro che rischiano di perdere il lavoro e per giunta il primo maggio, quando cade la festa dei lavoratori.
Per salvare dalla disoccupazione gli assistenti voluti da Luigi Di Maio, con il contratto in scadenza tra meno di una settimana, il governo valuta adesso la possibilità di favorirli nei concorsi pubblici. Di più. Si ragiona anche su una nuova mini-proroga del loro rapporto di lavoro. Su tremila navigator assunti nel 2019, ne restano in attività 1.900.
Molti strada facendo hanno trovato occupazioni meglio retribuite e così hanno abbandonato i centri per l'impiego già nei mesi scorsi. In programma domani al ministero del Lavoro un incontro con i sindacati.
Per i navigator si cerca una soluzione che li stabilizzi in via definitiva, anche perché hanno già beneficiato di due proroghe, ad aprile e dicembre dello scorso anno: dovevano uscire definitivamente di scena nel 2021, poi però con la scusa della pandemia, che ha costretto allo smart working totale gli operatori dei centri per l'impiego, il governo ha deciso di concedere loro più tempo.
L'idea è di dare ai navigator che parteciperanno ai prossimi concorsi pubblici un aiutino prezioso. Come? Attribuendo loro in sede di valutazione dei titoli un punteggio aggiuntivo per l'esperienza maturata in questi anni.
Ai sindacati però non basta e chiedono almeno due mesi di tempo, ovvero una nuova proroga, l'ennesima, anche se magari più corta delle precedenti. In questo modo i centri per l'impiego non rischierebbero di restare sguarniti: sono anni che aspettano rinforzi, ma i bandi delle Regioni (che sono state autorizzate ad assumere 11.600 operatori a tempo indeterminato) avanzano al rallentatore e così i posti coperti fin qui sarebbero la metà di quelli a disposizione.
Non è un problema di poco conto. Di mezzo ci sono le milestone da raggiungere sul fronte delle politiche attive per il lavoro per non perdere i soldi del Pnrr. I centri per l'impiego devono prendere in carico entro l'anno fino a 600mila percettori di prestazioni di sostegno al reddito, dal reddito di cittadinanza alla Naspi, nell'ambito del programma Gol, il programma di garanzia di occupabilità dei lavoratori avviato dal governo Draghi e pensato dall'ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, finanziato con 4,4 miliardi del Pnrr.
Un obiettivo ambizioso che difficilmente potrà essere raggiunto se non verranno assunti a tempo indeterminato i quasi 6.000 operatori ancora mancanti nei centri per l'impiego.
Estratto dell'articolo di Valentina Conte per “la Repubblica” il 27 aprile 2022.
Un punteggio di favore nei futuri concorsi regionali per valorizzare l'esperienza dei navigator e un premio alle Regioni che li stabilizzano. Ma nell'immediato la proroga dei 1.874 navigator (quelli rimasti dai 2.980 iniziali) pare non percorribile, a meno di sorprese nel decreto energia e aiuti allo studio del governo.
Assunti a termine per concorso nel 2019 a sostegno dei percettori del Reddito di cittadinanza nei centri per l'impiego, dal primo maggio i navigator saranno disoccupati. Il loro contratto di collaborazione con Anpal Servizi, già prorogato due volte, scade il 30 aprile. E nonostante sostegni parlamentari trasversali (ma con distinguo tra i partiti) non sembra esserci un progetto di conferma.
Le Regioni non ne vogliono sapere. Il ministero del Lavoro si è attivato per trovare risorse nei fondi propri. E comunque nei prossimi anni sono in arrivo 11,5 miliardi per rilanciare le politiche attive del lavoro in Italia, tra Pnrr, ReactEu e Fondo sociale europeo.
Oggi è previsto un incontro dei sindacati con il ministro del Lavoro Andrea Orlando, dopo quello interlocutorio di giovedì. Da ieri Cgil, Cisl e Uil sono in presidio permanente davanti a Palazzo Vidoni, sede del ministero della Pubblica amministrazione (ma ieri il ministro Brunetta non li ha ricevuti e i sindacati l'hanno contestato).
Dicastero coinvolto da Orlando per trovare una formula normativa che possa favorire l'inserimento dei navigator in pianta stabile nei centri per l'impiego. Un'ipotesi vissuta con molto scetticismo, sia dai sindacati che dagli stessi navigator.
E questo perché esiste già una norma (l'articolo 18 del decreto 41 del 2021: «Il servizio prestato costituisce titolo di preferenza») che viene per lo più ignorato dalle Regioni nei bandi in corso per l'assunzione di 11.600 nuovi addetti nei 552 Centri per l'impiego (mezzo miliardo all'anno già stanziato). Non è un obbligo, solo una facoltà. E così resterà.
Il malessere del lavoro pubblico: perché parliamo di giovani che “non vogliono il posto fisso”. Carlo Mochi Sismondi su La Repubblica l'8 Giugno 2022.
No, non c’è una sola causa. E no, non è tutta colpa del reddito di cittadinanza. La questione è più complessa e riguarda cambiamenti epocali a cui il settore pubblico e privato stanno reagendo con estrema lentezza.
Parlare di una sola causa è fuorviante, sia che si parli di Nord-Sud; sia che si parli di reddito di cittadinanza o anche di valutazione sociale del lavoro pubblico, le motivazioni che portano all'abbandono del posto di lavoro stabile sono molteplici e la risposta non può essere univoca.
Ci sono tre aspetti da valutare.
Primo. Siamo di fronte a un cambiamento epocale della stessa collocazione del lavoro nella vita delle persone. Un cambio di prospettiva che ha fortemente cambiato la domanda di lavoro, specie se qualificato, da più punti di vista: la necessità di un maggiore riconoscimento e quindi anche di condizioni economiche più soddisfacenti; la voglia di avere un posto in cui crescere; la necessità di conciliare vita privata e lavoro in un nuovo equilibrio che la pandemia ci ha messo in condizione di apprezzare e ritenere necessario. La maggiore difficoltà ad accettare un posto di lavoro che non garantisce quello che la Costituzione italiana prescrive all’art.36, ossia “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. E questa esistenza libera e dignitose per sé e la propria famiglia non è garantita a Milano dalle 1.300 euro mensili di un primo stipendio da funzionario laureato. Tutto questo ha portato alla cosiddetta great resignation, cioè alle dimissioni volontarie che interessano il 60 per cento delle aziende, riguardano diverse decine di migliaia di posizioni e coinvolgono principalmente le aree dell’informatica e del digitale, la produzione, il marketing e le vendite. A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto gli addetti fra i 26 e i 35 anni e perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia. Nel pubblico, ha portato a quella difficoltà a reperire candidati per i concorsi, specie per posti al Nord, messa recentemente in evidenza da Enrico Giovannini nella sua audizione. Il ministro infatti ha evidenziato che, soprattutto al Nord è difficile assumere attraverso il concorso pubblico. Del resto, nel bando andato deserto, la richiesta era di laureati in materie tecniche (di cui per altro c'è parecchia richiesta da parte delle imprese), assunti in terza fascia con una retribuzione d'ingresso di 1300 euro al mese. Poco se si considera che in base ai dati Istat il costo della vita al Nord per una famiglia è di 2.600 euro circa, contro i 1.800 euro al Sud.
Secondo. Non altrettanto è cambiata l’offerta di lavoro sia privata, vediamo la great resignation e la difficoltà dell’imprenditoria di trovare personale adeguato, sia pubblica, dove ancora deve farsi strada la pratica dell’employer branding, ossia di promuovere la propria organizzazione come un buon posto di lavoro. Non è cambiata l’offerta di lavoro pubblico nei concorsi, ora digitalizzati, ma sempre a quiz e centrati su nozioni e non su capacità e attitudini. Non è cambiata, almeno per ora, dal punto di vista retributivo. Non è cambiata, se non in poche eccezioni positive, nell’organizzazione del lavoro: ancora molto gerarchica e impostata sulla presenza attorno al capo.
Non è cambiata nella possibilità di crescere professionalmente perché la formazione è ridicolamente poca e centrata non sulla crescita delle persone, ma sull’aggiornamento delle norme. Non è cambiata nella possibilità di crescere all’interno di una organizzazione ancora rigida, in cui le aree formano barriere difficilmente sormontabili. Non è cambiata nella percezione dell’opinione pubblica che vede ancora il pubblico impiego, a meno che non sia dirigenziale, come un ripiego.
Terzo. Eppure, nella Pa qualcosa si muove. Il Pnrr ha focalizzato il lavoro pubblico su grandi missioni del paese aumentando la potenziale motivazione. Il nuovo contratto di lavoro prevede il riconoscimento delle elevate professionalità e infatti 15.000 esperti sono stati assunti nella Pa per il Pnrr, seppure quasi tutti a tempo determinato, ma con una selezione spesso, anche se non sempre, meritocratica. Il Governo, nella persona del suo ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta, ha dichiarato che uno degli obiettivi principali della sua azione è la valorizzazione del capitale umano. Il Presidente dell’Aaran, ossia il capo dell’Agenzia che fa i contratti pubblici, Antonio Naddeo, ha proposto un open day per le Pa, sulla scia di quello che fanno le università.
Per concludere: Esiste uno sfasamento temporale, sia nella Pubblica Amministrazione, sia nel mondo privato, tra cambiamento repentino della domanda di lavoro, rivoluzionata da fattori esogeni (pandemia, calo del potere di acquisto dei salari) ed endogeni (ricerca di un maggiore equilibrio di vita) e cambiamento molto più lento dell’offerta che nel privato continua a proporre precarietà e stipendi anticostituzionali e nel pubblico, in cui deve ancor affermarsi una moderna gestione delle persone, che non sono risorse umane, ma appunto persone, ognuna con propri desideri, propri sogni, proprie qualità. È compito della politica, ma anche di una dirigenza attenta alle persone, accorciare questo elastico, prima che si spezzi.
Posto fisso addio, concorsi flop e dimissioni tra i dipendenti pubblici: cosa succede? Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.
Il tessuto economico e lavorativo del Meridione ha sempre spinto a guardare ai concorsi pubblici come a un’ancora di salvezza per chi vive in regioni del Paese dove il tasso di disoccupazione è sempre stato alto (le recenti statistiche di Eurostat hanno messo in evidenza una situazione drammatica: circa quattro giovani su 10 in Sicilia, Campania e Calabria nel 2021 erano senza lavoro: uno dei dati peggiori in Ue). La presenza massiccia di italiani provenienti dalle regioni meridionali negli uffici pubblici e nelle scuole del Nord Italia, dunque, è sempre stata una costante. Eppure, qualcosa sembra stia cambiando. Ora, ciò che era già avvenuto anni fa tra la popolazione delle regioni settentrionali, riguarda anche il Sud: ovvero, la fuga dal lavoro pubblico.
Il rifiuto di spostarsi lontano da casa
A lanciare l’allarme per una situazione che si appresta a diventare decisamente spinosa per la macchina dello Stato, è il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, che il 26 maggio in audizione alla Commissione Trasporti della Camera ha spiegato che «recenti assunzioni per motorizzazioni e provveditorati sono andate in parte deserte, in particolare al Nord». Per dirla senza titubanze: gli ultimi concorsi, soprattutto alcuni legati al Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili, sono stati un mezzo flop. Stando ai dati illustrati da Giovannini, dei 320 funzionari di amministrazione messi a concorso, «una quota consistente ha rinunciato evitando di prendere servizio a meno che non fosse indicata una sede al Sud». E non è finita qui: «La stessa cosa - ha detto il ministro - temiamo che accada per il primo concorso rivolto agli ingegneri».
Stipendi troppo bassi
Insomma, gli italiani non sono più così disposti a spostarsi per lavoro troppo lontano da casa. E così, se da una parte abbiamo ancora frotte di giovani che emigrano in altri Paesi Ue o in altri Continenti alla ricerca di un’attività lavorativa degna delle loro capacità, dall’altra abbiamo un numero crescente di italiani che non se la sentono - per un modesto lavoro impiegatizio - di cambiare neppure regione. Le motivazioni alla base di questo rifiuto sono varie. La prima è di natura economica: le retribuzioni non sono ritenute allettanti, soprattutto considerando il costo della vita che al Nord è decisamente superiore rispetto a quello delle regioni meridionali. Per avere un’idea, secondo un’indagine del Codacons, nel 2021 Milano era la città più cara d’Italia: per mangiare sotto la Madonnina, infatti, bisogna spendere in media il 47% in più rispetto a Napoli. In Italia, infatti, a differenza di quello che accade ad esempio negli Stati Uniti, gli stipendi (del pubblico come del privato) non sono tarati sui costi della vita della città in cui si lavora. E così, la domanda che si fanno gli aspiranti concorsisti è legittima: se 35 mila euro a Milano equivalgono a poco più di 20 mila a Palermo, perché lo stipendio di un dipendente della motorizzazione del capoluogo lombardo deve essere uguale a quello siciliano? Da qui i tanti rifiuti a una scelta di emigrazione interna.
Il flop del Concorso per il Sud
In realtà, nemmeno i concorsi in una Pubblica amministrazione del Sud fanno poi così gola. Il Concorso per il Sud, che doveva assegnare 2.800 posti nella Pa del Mezzogiorno, ha visto una tale scarsa affluenza di partecipanti alle selezioni (meno del 65% a livello nazionale e addirittura inferiore al 50% in alcune regioni) che il ministero della Pubblica amministrazione si è visto costretto a una modifica del bando, superando ed eliminando il limite originariamente fissato per l’ammissione alla prova scritta, pari a tre volte il numero dei posti messi a bando più gli ex aequo. Insomma, anche i candidati giudicati non idonei sono stati ripescati pur di riuscire a coprire i posti vacanti.
La carenza di competenze
E qui arriviamo al rovescio della medaglia. Il problema che lo Stato deve affrontare, ovvero la mancanza di figure professionali dietro gli sportelli pubblici e nei posti da funzionari, problema che, stando a quanto detto da Giovannini, nei prossimi anni prenderà forme preoccupanti, riguarda anche una carenza diffusa di competenze. Bastano due esempi per capirlo. Il primo riguarda il concorso per la scuola, che ha visto un tasso di bocciati che in alcuni casi ha sfiorato il 90%. Delle 230 procedure (circa il 38% di quelle previste) di cui attualmente si conosce il numero di ammessi all’orale, la percentuale di chi è stato bocciato - al lordo di chi non si è presentato alla prova - è dell’87%. Per le discipline STEM è anche peggio: sono 20 i risultati degli scritti attualmente noti delle 75 procedure previste e la percentuale di ammessi all’orale è solo dell’11,3%, dunque quasi l’89% di chi ha tentato la prova è risultato inidoneo. L’altro esempio riguarda i 5.827 candidati al concorso di magistratura del dicembre scorso, dove soltanto 3.797 hanno consegnato la busta con la prova. Risultato? Solo 220 sono stati ammessi alla prova orale. Le ragioni? Il 95% degli esaminati non ha saputo dimostrare di avere una competenza sufficiente in diritto e nemmeno in lingua italiana.
Grandi dimissioni, i lavoratori fuggono dal malessere e dagli stipendi bassi. Marco Cimminella su La Repubblica il 25 Maggio 2022.
Secondo uno studio dell'Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, che analizza il fenomeno in Italia, nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende.
Le aziende hanno bisogno di nuove competenze e di talenti, soprattutto in ambito digitale. C’è però un grosso problema: non solo non riescono ad attrarre candidati, ma hanno anche difficoltà a motivare, trattenere e coinvolgere i loro dipendenti. Il Covid 19 e i lockdown hanno cambiato il modo di lavorare e di vivere la dimensione professionale: la ricerca di maggiore autonomia, flessibilità e del giusto equilibrio con la vita privata sono diventati prioritari per le persone dopo l'esperienza della pandemia, ma questo non basta a spiegare come è mutato il mercato del lavoro. Nel 2021, il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende: e tra chi ha abbandonato il posto in cerca di nuovi orizzonti, quattro su dieci lo hanno fatto senza un'altra offerta al momento delle dimissioni. Il fenomeno della Great Resignation (Grandi dimissioni), infatti, riguarda anche l'Italia: il 45% degli occupati ha dichiarato di aver cambiato lavoro nell'ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Una decisione che non è motivata solo dall'esigenza di migliori stipendi, ma che riflette anche un certo malessere avvertito sul lavoro, un malessere emotivo e psicologico che le organizzazioni non riescono ad affrontare adeguatamente, a volte neppure a comprendere.
A dirlo è una ricerca dell'Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno "Riconquistare le persone ai tempi delle Grandi Dimissioni: alla ricerca dell'equilibrio perduto". Da un lato, lo studio evidenzia come per il 44% delle imprese la propria capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita dopo la pandemia, un'area in cui le direzioni delle risorse umane hanno individuato le maggiori criticità in questo periodo; dall'altro, a preoccupare le organizzazioni sono anche quei dipendenti che vogliono andare via: una tendenza che è più forte per i giovani (dai 18 ai 30 anni) impiegati in determinati settori (come Ict, servizi e finanza) o che svolgono determinati ruoli (soprattutto profili digitali).
Le ragioni che spingono a cercare nuove opportunità sono diverse. Domina il desiderio di maggiori benefici economici (46%), ma è fortemente sentito anche il bisogno di cercare nuove opportunità di carriera (35%). Tuttavia, una buona percentuale di persone cambia lavoro anche per motivi di salute fisica o mentale (24%), per inseguire le passioni personali (18%) o per ottenere una maggiore flessibilità dell'orario di lavoro (18%). In particolare, ansia, stress, stanchezza eccessiva sono tutti esempi di un malessere che logora il lavoratore, con dannose ripercussioni anche a livello fisico, come la difficoltà a riposare bene o l'insonnia. Secondo gli autori della ricerca, se si considerano le tre dimensioni del benessere lavorativo (fisica, sociale e psicologica), solo il 9% degli occupati ha detto di stare bene in tutte e tre. E l'aspetto più critico è quello psicologico: quattro su dieci hanno avuto almeno un'assenza nell'ultimo anno per malessere emotivo. Purtroppo, le organizzazioni non sono consapevoli di queste gravi situazioni, al punto che solo nel 5% dei casi lo considerano un aspetto problematico. Una condizione che aiuta anche a contestualizzare la forte diminuzione del livello di engagement del personale delle aziende, considerando che solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all'interno dell'organizzazione.
"Le dimissioni in Italia sono lo specchio di due fenomeni correlati – spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell'Osservatorio HR Innovation Practice - il crescente malessere dei lavoratori, spesso non adeguatamente identificato dalle organizzazioni, e la volontà di dare un nuovo significato al lavoro, per cui molte persone oggi cambiano anche a condizioni economiche inferiori, per seguire passioni e interessi personali o conseguire maggiore flessibilità". E aggiunge: "Di minor rilievo, rispetto a quanto documentato in altri Paesi come gli Usa, è invece il desiderio di abbandonare del tutto il mondo del lavoro, indicato in Italia come ragione di possibili dimissioni solo dal 6% dei lavoratori. In questo quadro che sta mettendo in crisi il mercato del lavoro e i tradizionali modelli organizzativi è fondamentale il ruolo della Direzione HR, a cui si richiede una funzione guida per portare l'organizzazione a un modello di lavoro 'sostenibile', che metta al centro il benessere dei lavoratori, il loro coinvolgimento e la loro impiegabilità".
"Per migliorare benessere ed engagement bisogna agire in maniera prioritaria su due leve – ha poi sottolineato Martina Mauri, direttrice dell'Osservatorio HR Innovation Practice - Da una parte aumentare la flessibilità, intesa soprattutto come responsabilizzazione e autonomia della persona nella gestione delle proprie attività lavorative. Dall'altra creare un ambiente aperto e inclusivo, capace di valorizzare al meglio le competenze dei lavoratori, ma anche i loro interessi e passioni personali, a cui dare piena cittadinanza all'interno dei confini organizzativi".
Alla ricerca di competenze digitali
Per cavalcare la trasformazione digitale accelerata dalla pandemia, le aziende hanno bisogno di specifiche competenze che faticano a trovare: il 96% delle organizzazioni hanno difficoltà non solo ad attrarre nuove risorse ma anche a sviluppare internamente le professionalità digitali richieste. Anche la riqualificazione della forza lavoro esistente è infatti complessa: come ricorda lo studio, tra uno o due anni il 9% dei dipendenti dovrà essere riallocato perché non ha le competenze adeguate a svolgere il proprio lavoro, percentuale che supera il 15% in oltre una organizzazione su dieci. I lavoratori sono meno preoccupati di questa tendenza, visto che il 74% di loro non teme di rimanere inoccupato a causa dell'evoluzione della propria professione: una situazione che trova una spiegazione anche nella scarsa consapevolezza di questi cambiamenti. Al contempo, le aziende stanno affrontando queste dinamiche con un approccio poco strategico, considerando il fatto che solo il 30% delle organizzazioni mappano le competenze presenti in azienda, e ancora meno sono quelle che si interrogano in maniera costruttiva sulle capacità che saranno fondamentali in futuro per definire azioni di sviluppo.
Tra i profili più ricercati spiccano le figure in ambito tecnologico. Con il passaggio sul cloud di informazioni e software, e la necessità di rafforzare le difese contro gli attacchi informatici cresciuti nel corso della pandemia, le aziende hanno bisogno di esperti di cyber security, ma anche di professionisti specializzati in Big Data e Analytics per analizzare enormi quantità di dati con l'obiettivo di prendere decisioni strategiche migliori. Strumenti e conoscenze che sono fondamentali anche nell'ambito delle risorse umane: il ruolo della Direzione Hr si sta evolvendo verso un approccio di Connected People Care, che si basa su una gestione del capitale umano orientato alle esigenze specifiche di ogni persona attraverso la raccolta e l'elaborazione di dati provenienti da diverse fonti.
Queste trasformazioni richiedono anche fondi e nel 2022 gli investimenti in digitale a sostegno delle iniziative Hr hanno registrato un incremento del 5%. Il 55% delle organizzazioni ha detto di aver aumentato gli investimenti, il 38% non riporta alcuna variazione. I processi in cui si rileva l'aumento maggiore sono la formazione, l'onboarding e l'attrazione di nuovi candidati. E c'è ancora tanta strada da fare, visto che la direzione HR delle aziende è ancora poco data driven: solo il 14% delle organizzazioni ha un approccio maturo alla gestione e all'utilizzo dei dati, con figure specializzate che analizzano le informazioni ottenute da reportistica in real time o predittiva.
La decisione del tribunale del lavoro. Punite lavoratrici in sciopero, Elisabetta Franchi perde in tribunale: è condotta antisindacale. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Maggio 2022.
Le polemiche per il suo intervento sul ruolo delle donne nella sua azienda non è ancora finito, ma per Elisabetta Franchi si apre un nuovo fronte. La stilista ha perso la causa intentata contro la sua azienda, la Betty Blue, venendo condannata dal tribunale del lavoro di Bologna per comportamento antisindacale.
È stato infatti parzialmente accolto un presentato dalla Filcams-Cgil, col giudice Chiara Zompi che ha ritenuto una condotta illegittima e antisindacale inviare contestazioni disciplinari a chi non ha lavorato perché ha aderito a uno sciopero indetto contro gli straordinari.
La decisione riguarda lettere inviate il 23 e 25 novembre 2021 e l’8 aprile 2022. Non è invece antisindacale, per il giudice, la richiesta di fare straordinari, senza consenso, nei limiti delle 250 ore annue.
La Betty Blue, società che ha chiuso il 2021 con ricavi superiori ai 120 milioni di euro, aveva imposto alle lavoratrice dello stabilimento di Granarolo l’allungamento oltre l’orario standard per soddisfare un picco di ordini e a quel punto alcune di loro hanno scioperato.
Secondo Zompi, scrive l’Ansa, dopo aver analizzato le contestazioni disciplinari alle lavoratrici che si sono rifiutate di fare lo straordinario, il giudice ha compiuto un distinguo tra quelle arrivate prima della proclamazione dello sciopero, comunicata il 12 novembre 2021, che appaiono legittime.
Non è così invece per quelle successive, tra fine novembre 2021 e aprile 2022. Per il giudice “la reiterata elevazione di contestazioni disciplinari a carico di un gruppo di lavoratrici che già avevano manifestato la loro volontà di aderire allo stato di agitazione promosso dal sindacato ricorrente” costituisce “di per sé comportamento intimidatorio ed evidentemente finalizzato a scoraggiare l’adesione dei dipendenti allo sciopero dello straordinario, legittimamente proclamato”.
La condotta dell’azienda guidata dalla stilista “comprova un utilizzo sistematico dello strumento disciplinare a fini intimidatori, con effetti che appaiono perduranti nel tempo“. Dunque, oltre a dichiarare l’antisindacalità della condotta, la sentenza del tribunale del lavoro di Bologna ordina di “cessarla, di non dare seguito alle contestazioni e di astenersi per il futuro dall’utilizzare il potere disciplinare per limitare l’esercizio della libertà sindacale”.
L’azienda ha due possibilità: può fare ricorso in tribunale o mettersi d’accordo con i sindacati per chiudere lo scontro sugli straordinari del sabato.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Parla un'impiegata di Elisabetta Franchi: "A noi donne rende la vita impossibile". Caterina Giusberti su La Repubblica il 15 maggio 2022.
La dipendente dell'imprenditrice condannata per condotta antisindacale: "Si è infuriata perché una delle sue assistenti è incinta".
"Lavoro per la Betty Blue da più di dieci anni e gli straordinari li ho sempre fatti, compresi il 25 Aprile, l'8 dicembre e l'Epifania. Mi sento offesa perché ci ha dato delle inadempienti, delle irresponsabili, di quelle che le minano il business. Invece siamo professioniste e abbiamo sempre preso il lavoro molto seriamente: se oggi l'azienda è arrivata a questi livelli è anche merito nostro".
Caterina Giusberti per “la Repubblica” il 15 maggio 2022.
«Lavoro per la Betty Blue da più di dieci anni e gli straordinari li ho sempre fatti, compresi il 25 Aprile, l'8 dicembre e l'Epifania. Mi sento offesa perché ci ha dato delle inadempienti, delle irresponsabili, di quelle che le minano il business.
Invece siamo professioniste e abbiamo sempre preso il lavoro molto seriamente: se oggi l'azienda è arrivata a questi livelli è anche merito nostro».
Sotto accusa c'è Elisabetta Franchi (Betty Blue è la sua azienda), l'imprenditrice al centro delle polemiche per aver dichiarato di assumere donne over 40 («le prendo quando hanno fatto tutti i giri di boa»), che giovedì è stata anche condannata dal tribunale del lavoro di Bologna per condotta antisindacale nella vertenza promossa dalla Filcams-Cgil. A parlare, chiedendo l'anonimato, è invece una delle sue dipendenti, che dopo aver scioperato ha ricevuto giornate di sospensione dal lavoro, lettere di richiamo e ordini di servizio, finché la vicenda non è arrivata in tribunale.
Cos' è successo?
«Siamo state massacrate per esserci rivolte al sindacato, ecco cos' è successo. Prima delle scadenze di campionario abbiamo sempre fatto gli straordinari: chi arrivava prima, chi lavorava il sabato mattina, festività, domeniche incluse, nessuna si è mai tirata indietro. Solo che nel tempo Franchi ha accentrato tutto su di sé, è diventata anche amministratrice delegata dell'azienda e ha perso qualsiasi freno: scartavetra le persone in modo veramente ignobile. Per lei la vita privata non esiste, ha milioni di chat con tutti i gruppi produttivi dove scrive a tutte le ore, inclusa la domenica. E tu devi sempre risponderle».
Come siete arrivate alla vertenza?
«In ottobre ci è arrivata una mail che diceva: dovete fare gli straordinari, o l'azienda prenderà dei provvedimenti disciplinari nei vostri confronti. Quando hanno cominciato ad arrivare le prime lettere di richiamo ci siamo rivolte alla Cgil.
Non è stato un passo facile perché lì dentro la gente ha paura: su 150 dipendenti, siamo in una quarantina ad esserci iscritte al sindacato.
Abbiamo scioperato, rifiutandoci di fare gli straordinari. E il risultato è stato che le nostre settimane erano fatte così: il lunedì mattina ricevevamo la lettera di richiamo per gli straordinari non fatti la settimana precedente, il mercoledì la richiesta di straordinari nuovi, minimo otto ore a settimana. E il venerdì l'ordine di servizio per intimarci di essere presenti al lavoro il sabato. C'è chi ha ricevuto lettere di richiamo per avere fatto mezz' ora di straordinario in meno. Alcune di noi sono in malattia da Natale, con lo psicologo e tutto il resto. A me a dicembre è venuto un attacco di panico e sono finita in ospedale. Ma non esiste che dopo tutto quello che ho dato all'azienda io mi faccia trattare così».
E la polemica sulle over 40?
«Per noi non è niente di nuovo, la pensa proprio così. Adesso per esempio una delle sue assistenti è incinta, e lei è arrabbiatissima. Una collega è appena tornata dalla maternità e le hanno cambiato l'ufficio, proprio come le era successo con la sua prima gravidanza. Tutte le donne che adorano i suoi abiti non se lo immaginano, ma questo è il clima che si respira nell'azienda di Elisabetta Franchi. Di bello, a parte i vestiti che facciamo, lì dentro non c'è proprio niente».
Da corriere.it l'8 maggio 2022.
Elisabetta Franchi non ha mai peli sulla lingua. La stilista, 53 anni, fa della schiettezza un suo vanto, come ha spiegato in una diretta Instagram su Moda Corriere qualche tempo fa. Secondo lei è proprio la sua spontaneità una componente del suo successo. Ma le ultime dichiarazioni che ha rilasciato durante un evento a Milano («Donne e Moda: il barometro 2020», organizzato da PwC Italia e Il Foglio) le hanno attirato una valanga di critiche sui social. In pratica, parlando di donne e lavoro ha spiegato perché nella sua azienda non c'è posto per le under 40 in posizioni di rilievo. Perché se le donne giovani si assentano due anni per una maternità è un problema. Ma alla domanda «anche lei ha fatto figli lavorando» — rimanendo a capo del marchio di moda che porta il suo nome — la Franchi non ha dato una risposta, ed è passata oltre.
Ecco cosa ha detto, come si può vedere in un video postato su Twitter da Stefano Guerrera (che ha dato il via a una discussione con polemiche). «Quando metti una donna in una carica molto importante poi non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta — ha affermato durante l'intervista-incontro —. Un imprenditore investe tempo e denaro e se ti viene a mancare è un problema, quindi anche io da imprenditore responsabile della mia azienda spesso ho puntato su uomini».
E ancora: «Oggi le donne le ho assunte ma sono anta, questo va detto, comunque ancora ragazze ma cresciute. Se dovevano far figli o sposarsi lo hanno già fatto e quindi io le prendo che hanno fatto tutti i giri di boa e lavorano h24, questo è importante». Insomma, chi firma un contratto con la sua azienda deve dare una disponibilità totale, giorno e notte.
Apriti cielo. Su Twitter sono fioccati commenti al vetriolo. Ma ci sono anche le ironie e i commenti di persone che la giustificano. L'argomento tiene banco tra chi inorridisce a tale ragionamento e chi non riesce a crederci.
Eleonora Capelli per repubblica.it il 31 maggio 2022.
Dopo le polemiche sulle donne "anta" e il cortocircuito sui media, Elisabetta Franchi corre ai ripari e cerca un responsabile della comunicazione su Linkedin: in un giorno quasi 700 candidati alzano la mano. L’imprenditrice bolognese del settore della moda è finita nella bufera qualche settimana fa per le sue frasi a proposito del lavoro femminile (“Le donne in azienda sì, ma over 40, così se dovevano fare figli li hanno già fatti, hanno fatto tutti i giri di boa e lavorano tranquille al mio fianco h24”) per poi in parte correggere il tiro in interviste televisive e in comunicati stampa. Nel salotto tv di Bruno Vespa l’imprenditrice ha detto: “Ho calibrato male le parole, ma questa gogna mediatica non me la meritavo”.
Questo approccio al lavoro “h24” però non ha scoraggiato gli aspiranti responsabili della comunicazione che di fatto dovranno essere a stretto contatto con l’imprenditrice. Nelle mansioni previste per l’addetto, infatti si legge nell’offerta di lavoro: “La risorsa sarà di supporto alla proprietà nelle relazioni esterne e in tutte le attività volte alla promozione del brand con partecipazione attiva nelle scelte strategiche”.
Di certo nell’ultimo periodo l’ufficio comunicazione di Elisabetta Franchi si è trovato più volte in trincea. Oltre al caso delle dichiarazioni dell’imprenditrice casse 1968, amministratrice unica del marchio Betty Blue con un fatturato “pre-Covid” di 129 milioni, c’è stata anche la sentenza del tribunale a impensierire le relazioni esterne.
Di fronte a una causa intentata dalla Cgil, il giudice ha infatti parzialmente accolto il ricorso, definendo condotta “illegittima e antisindacale” la pratica di inviare contestazioni disciplinari a chi non aveva fatto lo straordinario perché era stato proclamato lo stato d’agitazione e lo sciopero con blocco degli straordinari da parte del sindacato.
Sicuramente adesso il lavoro per chi si occupa di comunicazione del brand non mancherà, le responsabilità principali della nuova figura sono la gestione e il coordinamento del team e le attività legate al “media plan” su stampa e digitale.
La titolare della casa di moda. “Donne ai vertici dopo 40 anni, hanno già figli o sono separate”, la polemica sulle frasi di Elisabetta Franchi. Vito Califano su Il Riformista il 7 Maggio 2022.
È polemica per le parole dell’imprenditrice Elisabetta Franchi a un evento organizzato dal quotidiano Il Foglio e Pwc. L’imprenditrice titolare dell’omonima etichetta di moda ha spiegato di assumere donne, in particolare ai vertici della sua azienda, soltanto oltre i 40 anni. “Sono già sposate, hanno già avuto figlie o si sono già separate”. Questa è la frase che ha fatto esplodere la bufera.
Nessun passo indietro tutavia da parte dell’imprenditrice e della casa moda. Il video dell’intervento, che ha preso a circolare massicciamente su Twitter, è stato ri-postato dalla stessa manager su Instagram. “Il mondo della moda non è tutto lustrini e paillettes. È un mondo molto duro, fatto di sacrifici, rinunce, ma anche soddisfazioni. Per questo, come dico sempre, non smettete mai di crederci!”.
L’intervistatrice Fabiana Giacomotti, curatrice de Il Foglio della Moda, aveva provato a incalzare. Se insomma le donne non vengono assunte, se si preferiscono gli uomini – come ha detto di aver fatto in passato Franchi -, è “perché una donna non viene aiutata … tu intanto come hai fatto? Perché tu hai allevato due figli”. E quindi la spiegazione della donna: “Io oggi le donne le ho messe perché sono ‘anta’, questo va detto: comunque ancora ragazze, ma cresciute. Se dovevano sposarsi lo hanno già fatto, se dovevano avere figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi, hanno fatto anche quello… per cui io le prendo che hanno fatto tutti e quattro i giri di boa. Sono lì belle tranquille che lavorano con me affianco h24, questo è importante. Cosa che invece gli uomini non hanno. Io che sono una donna emiliana ed emancipata credo che noi donne siamo un dovere, che è quello nel nostro Dna, che non dobbiamo neanche rinnegarlo: i figli li facciamo noi, incinto ancora… no, e comunque il camino in casa lo accendiamo noi. È una grande responsabilità”.
Franchi è una imprenditrice “che è riuscita a conquistare l’universo femminile – si legge sul sito ufficiale – grazie al suo stile e alla sua creatività: un successo frutto di una grande passione, di uno scrupoloso studio del prodotto, di un’assoluta dedizione al lavoro e di una buona dose di concretezza”. È nata nel 1968 a Bologna, quarta di cinque figli, umile estrazione, cresciuta dalla sola madre. La passione per la moda era nata con la sua bambola che poteva vestire come voleva. Ha studiato all’Istituto Aldrovandi Rubbiani di Bologna. Ha aperto il suo primo atelier nel 1995, la Betty Blue Spa è nata nel 1998, dal 2008 il cuore dell’azienda è diventata una ditta farmaceutica dismessa di circa seimila metri quadrati. Il marchio Elisabetta Franchi è nato nel 2012, il primo showroom direzionale è stato aperto a Milano in via Tortona nel 2013. Il brand ha raggiunto 120 milioni di euro di ricavi nel 2019, conta su 1.100 multimarca e 87 boutique monomarca in tutto il mondo.
“L’evoluzione stilistica del brand e la sempre attenta cura nei dettagli, la portano a diventare una tra le firme più richieste dallo Star System, vestendo celebrities internazionali del calibro di Angelina Jolie, Kate Hudson, Jessica Alba, Emily Blunt, Jennifer Lopez, Lady Gaga, Kendall Jenner, Dita Von Teese, Kourtney Kardashian, per citarne alcune”. Il brand è schierato sul fronte animalista: ha eliminato la pelliccia animale dalla prodizione come la piuma d’oca e la lana d’angora. È stata insignita dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
L’intervento ha suscitato anche una certa ilarità in sala. Risatine e sorrisi mentre Franchi spiegava la sua teoria. Il ragionamento era partito dalla constatazione di Franchi: “Parlo dalla parte dell’imprenditore, quando metti una donna in una carica importante, se è molto importante, non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta. E un imprenditore investe tempo, energia e denaro. Se viene a mancare è un problema. E quindi anch’io da imprenditore spesso ho puntato su uomini”.
La replica di Franchi alle polemiche
È arrivata dalle storie Instagram di Franchi la replica alle polemiche per le sue dichiarazioni. “L’80% della mia azienda sono quote rosa di cui il 75% giovani donne impiegate, il 5% dirigenti e manager donne. Il restante 20% sono uomini di cui il 5% manager”, dice la stilista in una storia Instagram. “C’è stato un grande fraintendimento per quello che sta girando sul web, strumentalizzando le parole dette”.
“La mia azienda oggi è una realtà quasi completamente al femminile”, dice ancora Franchi. “L’oggetto di discussione dell’evento a cui ho partecipato è la ricerca di Price ‘Donne e Moda’ da cui è emerso che nella realtà odierna le donne non ricoprono cariche importanti – scrive – Perché? Purtroppo, al contrario di altri Paesi, è emerso che lo Stato italiano è ancora abbastanza assente, mancando le strutture e gli aiuti, le donne si trovano a dover affrontare una scelta tra famiglia e carriera“. “Come ho sottolineato, avere una famiglia è un sacrosanto diritto – prosegue – Chi riesce a conciliare famiglia e carriera è comunque sottoposta a enormi sacrifici, esattamente quello che ho dovuto fare io”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Elisabetta Franchi, le reazioni. Gassmann: «Boicottatela». Bruganelli: «L’azienda è sua, può decidere». Michela Proietti su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2022.
All’indomani della bufera social scatenata dall’intervento della stilista a un convegno durante il quale ha dichiarato di preferire dirigenti donne che hanno compiuto 40 anni, la rete si è popolata di reazioni. Contrarie e in alcuni casi favorevoli.
C’è già chi parla di «epic fail» riguardo al caso Elisabetta Franchi, che al talk organizzato da PWH Italia e Il Foglio sul tema «Le donne e la Moda», ha espresso a chiare lettere la sua visione aziendale legata all’impiego di donne sotto i quaranta anni . L’imprenditrice e stilista 53enne ha dichiarato di aver assunto donne in ruoli dirigenziali, ma solo dopo gli «anta», ovvero quelle che «hanno superato i quattro giri di boa», intesi come matrimonio, gravidanze ed eventuale separazione. La rettifica della stilista non è tardata ad arrivare, sia su suoi canali social che in una intervista esclusiva rilasciata al Corriere della Sera , ma questo non è stato sufficiente a spegnere le polemiche sul web.
La polemica su Twitter
Medioevo, passi indietro in direzione opposta alla parità di genere, persino «schiavismo»: la rete non ha risparmiato parole durissime alla stilista che ha precisato nelle ore successive la sua politica aziendale da sempre dalla parte delle donne, con l’80 per cento della forza lavoro al femminile. Tra le tante voci che si sono sollevate non è mancata quella di Alessandro Gassmann, che ha twittato : «Mi auguro che tutte le clienti under 40 della #Franchi cessino di acquistare i suoi prodotti, perché troppo occupate in altro». Dura la replica anche della politica con la deputata Marianna Madia, che ha scritto su Twitter: «Una somma di stereotipi sciocchi su donne, uomini, giovani, lavoro e impresa. Per fortuna la nostra società è nel complesso più avanti di così, anche se le carenze di welfare sono ancora davvero troppe». Più d’uno ha chiesto un intervento della Ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti («ma @elenabonetti ministra delle Pari Opportunità ha parlato del caso #elisabettafranchi o spera di fare passare la bufera (tanto è domenica, è la #festadellamamma ) senza esporsi con mezza opinione?).
Mi auguro che tutte le clienti under 40 della #Franchi ,cessino di acquistare i suoi prodotti, perché troppo occupate in altro. #lafraintesa
Selvaggia Lucarelli e Myrta Merlino «contro»
Opinioni illustri e punti di vista comuni, come quello di @siriomerenda: «Elisabetta Franchi presenta la collezione autunno-inverno Medioevo... #elisabettafranchi #Medioevo #7maggio» o di Maria Giovanna Gradanti: «Se volete lavorare da #ElisabettaFranchi, venite già "figliate". Mi vergogno per lei e per tutte le donne presenti in sala (intervistatrice compresa) che ridacchiavano e annuivano a questa perla di pensiero aziendale». Per l’attivista Cathy La Torre una scivolata senza scusanti. «Le parole di #ElisabettaFranchi su donne e lavoro lasciano sgomente: come si può pensare alla donna perlopiù in chiave famigliare e/o nel ruolo di madre, e quindi condizionare in base a questo una assunzione? Cara Elisabetta, avere un utero non è una colpa. Diciamolo insieme».
Pareri celebri mescolati a tante riflessioni del popolo del web: «Il prossimo ospite invitato a parlare di donne, lavoro e maternità. #elisabettafranchi», ha twittato Selvaggia Lucarelli postando una foto di Checco Zalone e paragonando l’intervento della Franchi a quello dell’attore nel film «Sole a Catinelle»; Myrta Merlino ha invece parlato di «misere parole di #ElisabettaFranchi l’opposto del necessario. Avremmo bisogno di sorellanza, progresso, femminismo nei fatti. Forza ragazze. Vogliamo e siamo altro. Non molliamo anche quando altre #donne sono il nostro limite». L’utente @RitaVagnarelli ha ricordato - in risposta alla disponibilità illimitata al lavoro auspicata dalla Franchi - un punto di vista opposto: «#elisabettafranchi E a proposito di lavoro h.24 Brunello Cucinelli: «Nessuno dovrebbe lavorare dopo le 17.30».
Il modo di #elisabettafranchi di esprimere la sua politica aziendale non sarà sicuramente stato gradevole ma ricordo che è la SUA azienda, che paga LEI i suoi dipendenti e credo sia libera di assumere CHI REPUTA PIÙ OPPORTUNO. E adesso scatenatevi pure con la vostra demagogia.
Sonia Bruganelli: «demagogia»
Ma non sono mancati i sostenitori della Franchi, come @Gianni_Bitontii, schierato invece dalla parte della imprenditrice: «L’errore di #elisabettafranchi è aver detto la verità in un mondo dominato dai social e da persone incapaci di leggere fino in fondo 5 righe di intervista. Era una critica allo Stato, l’avete trasformata in un attacco alle donne. Ma non sono sorpreso, chissà come mai». Dalla parte della Franchi anche Sonia Bruganelli, che da sempre non ha paura di scontrarsi contro il politically correct. «Il modo di #elisabettafranchi di esprimere la sua politica aziendale non sarà sicuramente stato gradevole ma ricordo che è la sua azienda, che paga lei i suoi dipendenti e credo sia libera di assumere chi reputa più opportuno. E adesso scatenatevi pure con la vostra demagogia».
Sessismo, moda, famiglia e affari in Russia: la caduta dell’intoccabile Elisabetta Franchi. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani l'8 maggio 2022.
Elisabetta Franchi, tradita da un linguaggio dispotico («le donne le prendo, le donne le metto») e parlando sempre di sé al maschile («parlo da imprenditore») snocciola una serie di scempiaggini.
Elisabetta Franchi, forte di pr e di inserzioni pubblicitarie, ha saputo crearsi intorno una patina di intoccabilità che gli stessi titoli riparatori di alcuni giornali oggi raccontano bene.
Forse è la prima volta che una polemica che la riguarda non viene oscurata in poche ore. Anzi, di solito non si apre neppure. Per esempio c’è la questione Russia: mentre la maggior parte dei marchi di lusso e non solo di lusso sono scappati da Mosca, Elisabetta Franchi ha tenuto aperti i suoi 15 monomarca in Russia nel silenzio generale. Compreso il suo (che però il 25 febbraio ha posato per una foto con la scritta NO WAR).
Un sorriso a duecento denti e un serafico “Auguri a tutte le mamme!”. É così che Elisabetta Franchi saluta l’8 maggio dal suo profilo Instagram all’indomani del guaio in cui si è cacciata per l’intervista su donne e maternità rilasciata alla giornalista Fabiana Giacomotti, durante un evento del Foglio in collaborazione con Pwc.
E se la provocazione può lasciare basito chi non la conosce, non stupisce certamente chi è abituato alla sfrontatezza e all’esibizionismo del personaggio che da anni risponde alle critiche facendo cancellare commenti dalle sue pagine (come in questi giorni), smuovendo i suoi legali alla prima polemica, caricando compulsivamente foto e video di una vita felice “alla faccia di”.
Ecco, questa mattina, mentre le sue frasi infelici sulla maternità facevano il giro di stampa e web, lei mostrava la casa addobbata di palloncini rosa e puntava la videocamera del cellulare sui figli piccoli che la celebravano pubblicamente con doni e poesie, in questa specie di Dynasty che è la sua vita in cui anche la felicità sembra di poliestere, come i suoi vestiti.
Ma questa è la fine dell’episodio, partiamo dall’inizio.
L’EVENTO DEL FOGLIO
Il 4 maggio Elisabetta Franchi partecipa all’evento "Donne e moda: il barometro 2022”, evento organizzato dal quotidiano Il Foglio per discutere su «come sia cambiato il lavoro femminile nella moda« e le difficoltà che le donne incontrano ancora nel riuscire ad occupare ruoli apicali.
Denunciata per comportamenti anti-sindacali dalla Cgil, Elisabetta Franchi deve essere sembrata l’ospite più adatto su piazza. Presenti anche il ministro delle Pari opportunità Elena Bonetti, quella che “si fece dimettere” da Matteo Renzi e la vice ministra alla cultura Lucia Borgonzoni, quella che “Non leggo un libro da tre anni”.
Insomma, l’evento prometteva bene fin dall’inizio. E in effetti non ha deluso.
Il compito di intervistare Elisabetta Franchi tocca alla giornalista Fabiana Giacomotti, una che ha più o meno lo stesso piglio ficcante di Giuseppe Brindisi con Sergey Lavrov e l’accoglie in brodo di giuggiole perché grazie a questo incontro ha già 150 follower in più su Instagram. E neppure indiani, pare.
Il resto è già storia. Elisabetta Franchi, tradita da un linguaggio dispotico («le donne le prendo, le donne le metto») e parlando sempre di sé al maschile («parlo da imprenditore») snocciola una serie di scempiaggini che non si sa neppure da che parte iniziare.
In alcuni momenti quello che dice è così surreale da sembrare il discorso di Checco Zalone in Sole a catinelle, quello «Mi parlate di lavoro femminile ma IO IMPRENDITORE quando il marito la mette incinta IO devo pagare gli assegni familiari, io devo pagare la formazione di chi la sostituisce, io devo fare il reintegro. Allora sai che ti dico: operaia te vuoi andare incinta, la botta te la do io!». Ecco, il senso di surrealtà era questo.
Che poi, a dirla tutta, le premesse erano pure interessanti, perché la maternità è un costo importante per le aziende e se per le aziende solide è riassorbibile, per quelle meno solide può essere un ostacolo.
Il problema è che per tutta l’intervista non si sentirà mai parlare di welfare, contratti collettivi, asili nido, congedi parentali, bonus, tutele per il datore di lavoro e il dipendente, gender gap, nulla.
Per quindici minuti si assisterà solo a un processo di colpevolizzazione delle donne la cui maternità è rappresentata, a tratti, come un dovere, un ostacolo, un impedimento e pure uno strazio fisico di cui però non bisogna lamentarsi, se si vuole diventare Elisabetta Franchi.
Quindi l’ormai celeberrimo: «Lo stato non aiuta, io se una donna fa un figlio mi ritrovo per due anni con un posto magari al vertice vuoto, per questo io spesso punto solo su uomini, le donne le ho MESSE solo ANTA, hanno già fatto figli, matrimoni, le PRENDO che hanno fatto tutti i giri di boa e lavorano con me h 24».
E qui già ci sarebbe molto da dire, visto che un’azienda sana come la sua (129 milioni di fatturato pre Covid) potrebbe supplire alle carenze dello stato con un’idea di welfare aziendale e invece, a quanto pare, l’unico welfare aziendale pensato dalla Franchi ad oggi è la “dog hospitality”, ovvero i dipendenti possono portare il cane nella sede di Granarolo. Per il resto, nessuna idea, nessuna proposta, niente.
Il sistema è sbagliato? E io rispondo non rendendo più virtuoso il sistema, ma presentando il conto alle donne. Tagliando le gambe da una parte a quelle giovani che quindi nella sua azienda difficilmente potranno fare carriera e dall’altra assumendo solo donne adulte che nella sua testa sono sempre a sua disposizione (ma poi da quando le donne dopo i 40 anni non fanno più figli e non hanno più pensieri o esigenze personali?). Insomma, la questione fertilità è il primo parametro per lavorare, nel suo mondo. Ma non solo.
FIGLI DA WEEKEND
Sempre in questo devastante processo di colpevolizzazione della donna lavoratrice che si permette pure di fare figli, c’è spazio anche per la considerazioni mediche: «Io talvolta mi ritrovo con un buco in una posizione strategica…beh io ho fatto due tagli cesarei organizzati, dopo due giorni ero a lavorare con i punti che non puoi lavorare, non puoi mangiare, non puoi respirare… un grande sacrificio eh». Capito?
Ora, a parte questa descrizione apocalittica dei postumi del cesareo, il problema quindi non è più il welfare zoppicante, ma il fatto che le donne non programmino le nascite dei figli come l’appuntamento dal parrucchiere per la ricrescita e aspettino pure che i punti siano riassorbiti. Tutte le donne ad eccezione di lei, dunque.
Tra l’altro, il cesareo programmato buttato lì come un’ottima idea per ottimizzare i tempi è un altro passaggio a dir poco osceno. I corpi non sono macchine. A meno che non ci siano problemi specifici, come da linee guida dell’Iss, non c’è alcuna ragione per cui una donna che può partorire naturalmente debba affrontare un’operazione chirurgica che ha costi e rischi sia per la madre che per il nascituro.
E a leggere bene la biografia di Elisabetta Franchi viene fuori che neppure per lei, la super donna, la gravidanza è stata un ritaglio di tempo tra una sfilata e un viaggio a Dubai (quando aspettava suo figlio è stata 40 giorni in ospedale). Ma non è finita qui.
«I figli me li sono fatti, mi piacciono, durante il weekend con loro mi diverto», dice. E poi: “Sono emiliana e nonostante sono così eMMancipata, noi donne abbiamo un dovere che è nel nostro dna, i figli li facciamo noi, il camino lo accendiamo noi. Questi uomini sono dei bambinoni, dei mammoni e non vogliono crescere mai».
Qui c’è tutto il suo pensiero distorto: la deresponsabilizzazione del maschio con l’attenuante benevola “so’ ragazzi”, l’idea che la donna debba sobbarcarsi la genitorialità al cento per cento perché è un soffietto per il camino nel dna.
Fortuna che è emmancipata.
L’intervistatrice ride, poi dice alla vice ministra Borgonzoni che la Franchi «è da applausi». E ancora: «Mi sono accertata che siano ANTA, che abbiano fatto tutto...», ribadendo che le donne per lavorare da lei devono aver fatto tutti i giri di boa, lasciando dunque intendere che in fase di assunzione pretenda di avere informazioni personali da parte delle candidate. Pratica illecita, per la cronaca.
Evidentemente non è proprio rigidissima se si tratta di parenti, visto che sua nipote Naomi Michelini (figlia di sua sorella Catia, oggi protagonista a Uomini e donne) ad appena 27 anni lavora già in azienda in un ruolo, appunto, apicale («E’ più cattiva di me», dice di lei zia Elisabetta). Avrà promesso di non figliare?
Promette bene anche sua figlia, che di anni ne ha 16, e nella sua biografia su Instagram scrive: «Money is the reason we exist».
L’INTOCCABILE
Infine, non poteva che chiudere questa memorabile intervista con la solita stoccata retorica sui giovani «Io di voglia di fare sacrifici in questi giovani non ne vedo tanta!». «Eh ma neppure lo puoi dire perché poi ti si scatenano contro gli hater!», sottolinea sorridendo l’intervistatrice.
Ora, immaginerete che il contenuto di questa intervista sia finito di chat in chat, tipo carboneria, finché non è esploso.
Invece no, lo ha postato fieramente la stessa Franchi sulla sua pagina, segno che c’è un livello di inconsapevolezza della gravità del suo pensiero preoccupante.
E penserete che poi si sia scusata. No, ha detto: «sono stata fraintesa, sono mamma», perché essere mamme è un ostacolo nel lavoro ma un bel supporto al vittimismo prêt-à-porter, quando serve. Ora, ci sarebbe ancora un’infinità di cose da dire. Per esempio sul silenzio di tutte le persone presenti in sala tra giornalisti, politici e rappresentanti di Pwc Italia.
Non ha detto neppure nulla la ministra alle Pari Opportunità Elena Bonetti (che era in collegamento) e questo nonostante siano trascorsi giorni dall’evento.
Nessuno ha alzato la mano e ha pensato bene di interromperla controbattendo, protestando, invitando l’intervistatrice a fare il suo lavoro, anziché sorridere e annuire entusiasta.
La verità è che Elisabetta Franchi, forte di pr e di inserzioni pubblicitarie, ha saputo crearsi intorno una patina di intoccabilità che gli stessi titoli riparatori di alcuni giornali oggi raccontano bene. Perfino il silenzio delle molte influencer che in altri casi non esitano ad esporsi, è indicativo della sua sfera di influenza. Negli anni, le polemiche su di lei si sono sempre spente velocemente.
C’è stato il fratello che l’ha accusata di aver inventato un’infanzia di stenti per romanzare la sua vita, c’è la già citata vertenza sindacale ancora aperta, ci sono ex dipendenti che raccontano di un carattere molto, troppo irascibile, ci sono i suoi frequenti scivoloni sui social (memorabile la sua solidarietà ai terremotati postando una foto in canotta hashtag #sole #montagna), ma la verità è che ha 3 milioni di follower, è cavaliere del lavoro, è stata celebrata in una docu-serie e da numerosi programmi tv, ha vinto il premio EY imprenditore dell’anno.
Forse è la prima volta che una polemica che la riguarda non viene oscurata in poche ore. Anzi, di solito non si apre neppure. Per esempio c’è la questione Russia: mentre la maggior parte dei marchi di lusso e non solo di lusso sono scappati da Mosca, Elisabetta Franchi ha tenuto aperti i suoi 15 monomarca in Russia nel silenzio generale. Compreso il suo (che però il 25 febbraio ha posato per una foto con la scritta NO WAR). Insomma, la guerra no, ma gli affari sì.
Morale: Elisabetta Franchi, cecchè ne dica, è la dimostrazione che dopo gli ANTA non si è fatto tutto. Si possono fare figli come li ha fatti lei, per esempio, specie se come lei si ha un dipendente filippino che ti apre le tende in camera ogni mattino, mentre tu sei ancora a letto. E ci sono ancora molti, moltissimi giri di boa da compiere.
C’è per esempio ancora tempo per una devastante, colossale, irrecuperabile brutta figura. Riuscendo però in un’impresa storica: quella di trasformare l’8 maggio, la festa della mamma, nel primo maggio. Più del concertone.
SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.
LAVORO MOLESTO. «Non corriamo rischi con la maternità: assumiamo donne sopra gli anta, anzi, prendiamo un uomo». Chiara Sgreccia su L'Espresso il 9 Maggio 2022.
Dopo la bufera scatenata con le parole di Elisabetta Franchi raccogliamo la testimonianza di Roberta, che seleziona curriculum per le aziende: «Succede sempre, scegliere i candidati in base al sesso è una pratica comune».
«Ti sono mai state fatte domande sulla tua volontà di sposarti o avere figli durante un colloquio di lavoro?». Il 27 per cento delle donne intervistate ha risposto «sì». Una donna su tre. È quanto emerge dall’indagine La cultura della Violenza realizzata dall’Ong WeWorld in collaborazione con Ipsos. Anche se discriminare un lavoratore in base al genere è scorretto, viola la dignità della persona, i diritti umani fondamentali, la normativa italiana e ha anche un forte impatto negativo su economia e società, succede troppo spesso. «Più o meno nella metà dei casi in cui le aziende ci contattano per la ricerca del personale, mi viene chiesto di indagare sulla vita privata delle candidate», racconta Roberta che lavora come recruiter in un’agenzia per il lavoro che ha sedi in tutta Italia.
Roberta è un nome di fantasia. All’agenzia spetta la pubblicazione e la diffusione dell’annuncio per l’occupazione e la prima fase di selezione: «Le aziende mi dicono che preferiscono uomini, oppure donne molto giovani, che sono più flessibili negli orari, o che abbiano superato i 40 anni. Così credono di evitare il “rischio maternità”. Di solito questo tipo di richieste avviene per l’assunzione di persone con contratto indeterminato o, comunque, per lunghi periodi». Roberta si è sempre rifiutata di fare domande su figli e relazioni personali. Non ha mai tolto a nessuna la possibilità di arrivare al colloquio con l’azienda per il sesso, l’età o lo stato civile. «Ma è l’impresa che prende la decisione finale. In molti casi i feedback ambigui che ho ricevuto sui candidati mi hanno fatto capire quanto spesso le lavoratrici siano valutate con parametri differenti da quelli di un uomo».
In questi giorni di polemica, dopo il discorso che Elisabetta Franchi ha tenuto al convegno di PWC Italia e Il Foglio, qualcuno si è mostrato stupito per la desolante considerazione delle donne che l’imprenditrice della moda ha espresso. Ma, come spiega Roberta, la discriminazione che subiscono le lavoratrici è una pratica che avviene nella normalità e nel tacito assenso generale. Anche il suo. «Quello che faccio, però, è ignorare le condizioni discriminatorie che mi vengono imposte dai datori di lavoro. Sarà pure silente ma la mia è una battaglia quotidiana. Una continua mediazione tra la realtà del settore dell’imprenditoria italiana e il mondo che vorrei, di pari opportunità, con servizi, tutele e garanzie per le donne che vogliono lavorare». Sono pochi, invece, i timori che si fanno i datori di lavoro nell’esplicitare che una trentenne, che magari ha anche un compagno, è meno gradita di un uomo. «Ci è piaciuta molto ma abbiamo delle perplessità», scrive via e-mail all’agenzia il proprietario di un’azienda metalmeccanica, dopo aver fatto il colloquio a una candidata molto qualificata secondo Roberta. Per poi chiarire al telefono: «Ha 37 anni ed è fidanzata, la probabilità che abbia un figlio a breve è alta, no?».
Così mentre una lavoratrice dovrebbe «avere gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», come scritto nella Costituzione (articolo 37), nella vita vera, una donna è un problema perché potrebbe avere dei figli. Poco contano la singola opinione in merito, le aspirazioni personali, le qualifiche. Pare che per tante persone “donna” sia sinonimo di “madre”, meglio se disposta a essere l’unica a sacrificarsi per il bene della famiglia. Eppure, nonostante questo infondato pensiero comune, le condizioni che, sempre secondo l’articolo 37 della Costituzione, dovrebbero garantire alla lavoratrice «l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione» non esistono. In Italia, il 42,6 per cento delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata, con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali, si legge nel report Le Equilibriste di Save The Children.
La fotografia di un Paese che a parole sostiene di voler «liberare il potenziale delle donne per tornare a crescere», come ha detto la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti, ma che nella pratica resta in silenzio quando dovrebbe intervenire. Arrecando danno non solo alla persona singola ma anche alla salute della società, lacerata dalle disuguaglianze, alla crescita economica e al benessere nei luoghi di lavoro sempre più compromessi dalla retorica del sacrificio.
Maria Corbi per "La Stampa" l'8 maggio 2022.
Ha dell'incredibile che quel manifesto antifemminista - in sostanza: non assumo donne perché poi vanno in maternità - sia stato pronunciato proprio da lei, Elisabetta Franchi, una che il suo successo nel difficile mondo della moda se lo è costruita con le unghie partendo dalle bancarelle dei mercati, passando dal fare cappuccini al bar, perdendo un marito e socio con una bambina di pochi mesi da crescere.
E invece quelle parole sono uscite dalla sua bocca, durante il convegno Donne e moda: il barometro 2022 organizzato da PwC con Il Foglio. Si parla di madri lavoratrici e la stilista spiazza tutti confessando di assumere donne dagli «anta» in su: «Se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno già fatti e se volevano separarsi hanno già fatto anche quello. Quindi diciamo che io le prendo quando hanno già fatto tutti i giri di boa e sono lì belle tranquille con me al mio fianco e lavorano h24».
Una dichiarazione che pialla decenni di lotte per la tutela del lavoro delle donne, per le pari opportunità, per la condivisione delle responsabilità genitoriali. Ma non paga di aver condiviso la sua ricetta aziendale ha continuato: «Poi io sono emiliana e, nonostante sia così emancipata, credo che noi donne abbiamo un dovere che è quello scritto nel nostro Dna e non dobbiamo neanche rinnegarlo, cioè che i figli li facciamo noi e comunque il camino in casa lo accendiamo noi, quindi è nostra responsabilità occuparcene».
Diciamo che il mese era già iniziato storto sul suo Instagram dove ha postato una foto di una «ombrellina», una hostess che ripara con un ombrello un pilota di Formula Uno. E sotto la foto il commento: «Voi grandi uomini senza l'aiuto di noi piccole donne cosa sareste.. evviva gli uomini, evviva le donne evviva, l'amore che ci completa».
Selvaggia Lucarelli lo riposta con un laconico: «direttamente dal paleolitico». Si potrebbe derubricare come una delle tante sciocchezze che circolano sui social se non fosse che Elisabetta Franchi su Instagram è molto seguita e una docufiction sulla sua vita, Essere Elisabetta, è diventata un po' un manuale per le ragazze con sogni e voglia di farcela.
Adesso tutte loro sanno che potranno farcela, ma non certo partendo dall'azienda della loro eroina. Anche se quello che ha detto con maldestra sincerità purtroppo sono ancora in tanti a pensarlo, con l'accortezza di non dirlo. Perché se il tasso di occupazione delle donne in Italia è ancora tra i più bassi in Europa, la disparità tra le donne occupate e gli uomini occupati non dipende certo dalla pandemia, ma è legata soprattutto alla genitorialità.
I dati confermano che il ragionamento della Franchi non è poi così solitario: le donne occupate con figli che vivono in coppia sono solo il 53,5%, contro l'83,5% degli uomini a pari condizioni. Per i single, i tassi di occupazione sono 76,7% per maschi e 69,8% per le femmine.
Donne, figli, lavoro. Fiume di critiche dopo la "gaffe" della Franchi. Valeria Braghieri il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.
La stilista aveva dichiarato di preferire collaboratrici sugli anta: impietosi i giudizi.
«La parola parto la uso solo per viaggiare»...
Questa è anche divertente. Ma le altre «battute» che chiosano l'intervento della stilista e imprenditrice Elisabetta Franchi non sono tutte così ironiche. Né quelle che arrivano dal mondo di Internet, né quelle che arrivano dal mondo della Politica.
La Franchi, com'è noto, è intervenuta l'altro giorno durante il convegno «Donne e moda: il barometro 2022» organizzato da PwC Italia e dal quotidiano «Il Foglio». Ha praticamente raccontato ciò che già ci aveva tristemente rivelato, qualche giorno fa, il settimo rapporto di Save the Children sulla condizione della donna nel lavoro, ma le stesse cose, dette da lei, hanno scatenato lo sdegno. Perché è vero, lei le ha dette da imprenditore, anzi da imprenditrice, quindi l'effetto è stato deflagrante. D'altra parte il fatto di non frequentare eufemismi fa parte del suo charme. E anche quel suo accento emiliano pare inadatto alle formule troppo diplomatiche. È una donna che si è fatta da sola e continua a non chiedere permesso. Quindi si è espressa esattamente così: «Quando decidi di mettere una donna in una carica importante, se è davvero un posto molto prestigioso poi non ti puoi permettere di non vedere quella persona per due anni. Io da imprenditrice spesso ho puntato sugli uomini. Io oggi le donne le ho coinvolte ma quelle sopra una certa età, quelle anta, perché se dovevano sposarsi o fare figli o separarsi, hanno già concluso questi passaggi». Poi ha ammorbidito il tiro, ma come spesso accade, forse è stato anche peggio. Ha cercato di spiegare che in effetti una donna ha tutti i diritti di avere dei figli, ma ha anche aggiunto che poi, ovviamente, sparisce dal lavoro perché ha voglia di stare con loro, di fare le vacanze con loro, i week end con loro, ogni tanto ha l'esigenza di andare dal parrucchiere... e insomma non riesce più a lavorare, come l'azienda avrebbe bisogno, «h 24»... E, sempre per attutire il realistico affondo, ha aggiunto che lei i figli li ha fatti, che la diverte il fatto di trascorrere del tempo con loro, che i fine settimana li passa allegramente in compagnia dei suoi bambini. Ed ecco fatto il disastro: involontariamente ha unito la rabbia di genere alla rabbia sociale. Della serie, le donne comuni «non possono coniugare famiglia e lavoro», lei invece sì «perché è Elisabetta Franchi». Dagli inviti «a boicottarla» dell'attore Alessandro Gassman, all'indignazione della deputata Pd Marianna Madia ha ha definito l'intervento della stilista «una somma di stereotipi sciocchi su donne, uomini, giovani, lavoro e impresa»; all'affondo della conduttrice Myrta Merlino che ha parlato di «misere parole, l'opposto del necessario... Avremmo bisogno di sorellanza, progresso, femminismo nei fatti. Forza ragazze. Vogliamo e siamo altro. Non molliamo anche quando altre donne sono il nostro limite». A difendere la stilista, invece, Sonia Bruganelli, moglie di Paolo Bonolis: «Ricordo che è la sua azienda, che paga lei i suoi dipendenti e credo sia libera di assumere chi reputa più opportuno. E adesso scatenatevi pure con la vostra demagogia».
La Franchi respinge ogni accusa e precisa che la sua azienda è piena di quote rosa: «Non accetto strumentalizzazioni. Sono una donna imprenditrice a capo di un’azienda da 131 milioni di fatturato e che ha tirato avanti anche la famiglia, con grande fatica». Ieri, in serata, arriva anche un comunicato nel quale, tra le altre cose, ammette di essersi espressa «in modo inappropriato» ma, numeri alla mano, dimostra che, nella sua azienda, su 300 dipendenti, l'80% sono donne, di cui la maggioranza under 40 e che le donne manager sono il doppio degli uomini. Ma ribadisce che, di fatto, «le donne sono ancora costrette a scegliere tra l'essere madri ed essere lavoratrici». E aggiunge che «invertire la rotta si può e si deve».
Sarebbe interessante se tutta questa indignazione nei confronti delle parole della Franchi sortisse in qualcosa di costruttivo per le donne. Ma in Italia piacciono sempre i linciaggi, e mai le soluzioni.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2022.
Elisabetta Franchi, titolare di una Casa di moda di qualche spessore, è al centro di polemiche brucianti solo perché ha detto pubblicamente una ovvietà. Questa. In qualsiasi azienda, non solo nella sua, se si tratta di assumere una persona in posizione apicale, la scelta cade sempre su una donna ultraquarantenne perché, oltre ad aver maturato una notevole esperienza, ha esaurito il classico percorso femminile. Nel senso che si è sposata, ha già avuto un figlio o due e spesso si è pure separata liberandosi da lacci e lacciuoli. Pertanto costei si dedicherà al lavoro con grande entusiasmo.
Cosa ci sia di strano in queste affermazioni di buon senso sinceramente non capisco. E invece la povera Elisabetta Franchi è stata travolta dalle solite accuse tardofemministe. Non è una novità che a molte donne giovani scatti il cosiddetto orologio biologico, verso i trenta anni sentono impellente l'esigenza di diventare mamme e magari si accoppiano col primo idiota che passa per strada. Poi il bimbo cresce, il marito o il compagno si è rivelato un colossale rompicoglioni, il quadretto famigliare si sfascia e finalmente la signora può essere se stessa, dedicarsi alla professione senza doversi occupare delle mutande del coniuge, e ottenere il successo che merita.
Tutti sanno che le cose stanno esattamente così ma non si possono dire perché esse contrastano non con la realtà bensì con i pregiudizi delle femministe, quasi tutte brutte peraltro. Elisabetta Franchi essendo molto intelligente non si fa intimidire dalle cretine che amano il pensiero unico e dichiara con la nostra totale approvazione che le quarantenni sono equilibrate e capaci. Se si tratta di lavorare posso testimoniare che anche le cinquantenni sono formidabili, di norma più brave dei maschi in ogni campo. Se invece il problema è fare una scopata, allora l'età può scendere fino a diciotto anni. Se lei ci sta.
Elisabetta Franchi nella bufera. Ma il valore della donna va oltre la retorica della sua difesa. Mario Benedetto su Il Tempo il 09 maggio 2022.
Se vi chiedessero un giudizio su Machiavelli come vi esprimereste? Può piacere o meno, ma comunque gli sarebbe riconosciuta da tutti una certa dignità intellettuale. E se vi dicessi che l’autore del Principe, opera che è alla base della sua fama giunta sino ai giorni nostri, reputava la donna una «proprietà» dell’uomo? Immagino cambiereste idea, giustamente. Ma senza demolire tutto il resto dell’eredità che Machiavelli ha consegnato alla storia, dalla cultura generale sino alla scienza politica, della quale si può ritenere un padre.
Attualizziamo il ragionamento