Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

L’AMMINISTRAZIONE

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Burocrazia.

La malapianta della Spazzacorrotti.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Ponte sull’Italia.

La Sicurezza: Viabilità e Trasporti.

La Strage del Mottarone.

Il Mose.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Disuguaglianza.

I Bonus.

Il Salario Minimo.

Il Reddito di Cittadinanza.

Quelli che…meglio poveri.

Quelli che …dei call-center.

Il Lavoro Occasionale.

Le Pensioni.

L’Assistenza ai non autosufficienti.

Gli affari sulle malattie.

Martiri del Lavoro.

Il Valore di una Vita: il Capitale Umano.

Manovre di primo soccorso: Il vero; il Falso.

L'attività fisica allunga la vita.

La Sindrome di Turner.

Il Sonno.

Attenti a quei farmaci.

Le malattie più temute.

Il Dolore.

I Trapianti.

Il Tumore.

L’Ictus.

Fibromialgia, Endometriosi, Vulvodinia: patologie diffuse ed invisibili.

La Sla, sclerosi laterale amiotrofica.

La Sclerosi Multipla.

Il Cuore.

I Polmoni.

I calcoli renali.

La Prostata.

L'incontinenza urinaria.

La Tiroide.

L’Anemia.

Il Diabete.

Vampate di calore.

Mancanza di Sodio.

L’Asma.

Le Spine.

La Calvizie.

Il Prurito.

Le Occhiaie.

La Vista.

La Lacrimazione.

La Dermatite. 

L’ Herpes.

I Denti.

L’Osteoporosi.

La Lombalgia.

La Sarcopenia.

La fascite plantare.

Il Parkinson.

La Senilità.

Depressione ed Esaurimento (Stress).

La Sordità.

L’Acufene.

La Prosopagnosia.

L’Epilessia.

L’Autismo.

L’Afasia.

La disnomia.

Dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia.

La Balbuzie.

L’Insonnia.

I Mal di Testa.

La Gastrite.

La Flatulenza.

La Pancetta.

La Dieta.

Il Ritocchino.

L’Anoressia.

L’Alcolismo.

L’Ipotermia.

Malattie sessualmente trasmesse.

Il Parto.

La Cucitura.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.

L'Endemia. L’Epidemia. La Pandemia.

Le Epidemie.

Virus, batteri, funghi.

L’Inquinamento atmosferico.

HIV: (il virus che provoca l'Aids).

L’Influenza.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Alle origini del Covid-19.

Le Fake News.

Morti per…Morti con…

Il Contagio.

Long Covid.

Da ricordare… 

Protocolli sbagliati.

Io Denuncio…

I Tamponati…

Le Mascherine.

Gli Esperti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

Succede in Svezia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Germania.

Succede in Cina.

Succede in Corea del Nord.

Succede in Africa.

Il Green Pass e le Quarantene.

Chi sono i No Vax?

Gli irresponsabili.

Covid e Dad.

Il costo.

Le Speculazioni.

Gli arricchiti del Covid.

Covid: Malattia Professionale.

La Missione Russa.

Il Vaiolo delle scimmie.

Il virus del Nilo occidentale (West Nile virus, in inglese). 

Gli altri Virus.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Disuguaglianza.

Antonio Giangrande: L’Italia è un parassitario senza fondo, dove i soldi non bastano mai. Reso così dai catto-comunisti, dissimulati anche sotto mentite spoglie (5 Stelle-Lega). Quei catto-comunisti che se governano loro è democrazia, se governano gli altri è dittatura. Quei catto-comunisti che, pur minoritari affetti dalla sindrome della Resistenza, impongono il loro pensiero ideologico con manifestazioni di piazza, anche violente, disconoscendo l’opera, addirittura, dei loro stessi rappresentanti parlamentari portatori dei loro medesimi interessi. Quei catto-comunisti che vogliono il lavoro, ma non vogliono le imprese che creano lavoro. Per loro il lavoro è inteso ancora come il posto fisso statale parassitario. Oggi il lavoro si inventa, non lo si subisce o lo si cerca senza trovarlo. Si agevoli, allora, l’invenzione dell’impresa.

La differenza tra uguaglianza ed equità. Tre ragazzi di differenti altezze dietro una staccionata, intenti a seguire la partita di calcio della loro squadra del cuore. Sono poveri e non possono permettersi il biglietto di ingresso allo stadio. A tutti e tre lo Stato, per il diritto di uguaglianza, dà a disposizione una identica cassetta di legno ciascuno, per guardare oltre la staccionata. Il primo da sinistra è avvantaggiato: essendo già “alto” di suo, ha i requisiti necessari per poter vedere la partita senza l’ausilio della cassetta. Il secondo, quello al centro, ha bisogno di quella cassetta per vedere lo spettacolo e con quella ci riesce benissimo. Il terzo a destra, molto più piccolo di statura rispetto agli altri due, anche con quel supporto, non arriva a vedere oltre l’ostacolo: non le basta una cassetta per poter vedere la partita. Con l’equità il primo dei tre può fare a meno del supporto e, offrendolo al terzo in aggiunta al suo, riesce a fornirgli la possibilità di raggiungere l’altezza necessaria per vedere la partita. In Italia con i catto-comunisti c'è il diritto di uguaglianza, non di equità. Non siamo tutti uguali e non ci può essere diritto di uguaglianza, ma dare a tutti la possibilità di vedere il futuro, specie ai più meritevoli, allora sì che si ha l’equità sociale.

Mirko Giangrande: “Il Festival delle Illazioni”

Come tutti ben sanno l’intera mia famiglia è stata vittima, chi in modo più grave chi in modo più lieve, del Covid - 19. Un nemico invisibile e infido che ha colpito in modo violento, repentino e simultaneo. Un fulmine a ciel sereno che si è abbattuto su gente sempre diligente e rispettosa di ogni regola: mascherina, distanziamento, tamponi, ecc. Tutto ciò, purtroppo, non è bastato ma alla fine, uniti come sempre, ne siamo usciti più forti di prima. Combattendo anche contro la “malasanità pugliese”, ma su tale argomento ormai tanto è stato detto e scritto, sebbene ancora qualcuno, accecato dalla partigianeria politica, esalta qualcosa che esiste solo nella propria mente e continua ad inondarci di belle parole su una situazione invece tragica e sotto gli occhi di tutti.

Ma cosa ci è rimasto di questa esperienza? Il letame. Esatto, tutta la “merda” che buona parte (ovviamente non tutta) del nostro paese ci ha tirato addosso. Non supportandoci ma trattandoci da “untori del paese”, che “il virus ce lo siamo meritato”, “che non dovremmo più farci vedere in giro per un bel po’”, “che ci siamo infettati partecipando a delle feste”. Ma la stronzata numero uno è che l’untore degli untori sono stato io, il principio della pandemia avetranese. Io avrei infettato i miei familiari e poi sarei scappato via. Ovviamente tralasciando il fatto che è dal primo ottobre che sto a Parma senza mai tornare e che nessuno dei miei familiari ha partecipato a nessuna festa. Tali illazioni non posso che partire dalle bocche di criminali e che non possono che far leva solo sui COGLIONI creduloni. Tutto ciò condito da un alto tasso di codardia, dato che chi mette in giro queste voci lo fa di nascosto, conscio che fa bene a non esporsi, rischiando tantissimo in termini legali...

Se la povertà bussa alla porta. Redazione L'Identità su L'Identità il 16 Dicembre 2022

di ANNAMARIA DE FALCO

I soldi per le bollette non ci sono. Per un italiano su dieci si tratta di una realtà, non di un rischio. La povertà bussa, insieme al freddo e all’indigenza. L’esclusione sociale non è un pericolo ma il pane quotidiano per cinque milioni di italiani, per ben due milioni di famiglie, il 44% delle quali vive al Sud. I dati dell’osservatorio sul debito con banche e finanziarie sono drammatici. E fin troppo eloquenti. Gli italiani non ce la fanno più. Le parole di Francesco Cacciola, presidente dell’Osservatorio, non lasciano spazio a nessun dubbio: “Il tasso di povertà assoluta è aumentato in modo devastante con oltre due milioni di famiglie che non arrivano a fine giornata, delle quali oltre il 44% vive al Sud e più del 30% ha bisogno di sussidi. Cinque milioni di persone non sono state in grado di pagare le bollette e altri tre milioni sono a rischio. Tutto ciò alla vigilia di una nuova stangata delle bollette energetiche che rischia di far rimanere tutte queste persone prigioniere dei loro debiti. Servono misure urgenti da parte del governo per ridurre i costi dell’energia, per favorire nuova occupazione, per fronteggiare il calo demografico per il quale nel 2035 il numero dei pensionati sarà superiore a occupati”. L’osservatorio, pertanto, ha promesso di assistere “in maniera gratuita tutti coloro che si trovano a dover affrontare la malattia di un proprio figlio e non possono pagare i debiti con banche e finanziarie. Li seguiremo per la ripianificazione dei propri impegni finanziari rendendoli sostenibili economicamente”.

Una mano, un aiuto importante arriverà anche dalla Chiesa. Padre Enzo Fortunato, già direttore della sala stampa e portavoce del Convento di Assisi, è già in prima fila, con i volontari cattolici, per far fronte a un’emergenza invisibile: “Di fronte a questa crisi per ora si è mossa solo la rete dei corpi intermedi fatta di associazionismo e volontariato. Caritas, Comunità di Sant’Egidio e tante altre strutture si stanno facendo carico delle difficoltà dei cittadini. Ma da soli non si va molto lontano. Serve un’azione di governo che sia in grado di dare una nuova visione al Paese”. E dunque: “Basta con leggi di bilancio che non impattano sulla vita reale dei bisognosi. Serve un welfare più concreto, a partire dall’aumento delle pensioni minime e dalla revisione del Reddito di cittadinanza che va assolutamente mantenuto seppur con i dovuti accorgimenti. Quando sento dire che vogliono abolire il reddito, significa non accorgersi del grido d’aiuto dei poveri”.

Padre Fortunato ha quindi sottolineato: la necessità di rivedere le dinamiche economiche di questi anni, di arrivare a elaborare un nuovo sistema che, davvero, non lasci indietro nessuno: “Interroghiamoci, infine, su questo modello di capitalismo che, come ha detto Papa Francesco, ci impone un modello di economia che uccide. Di fronte a questa situazione c’è un lato positivo. Cresce la voglia degli italiani di aiutare il prossimo. Lancio allora un’iniziativa: per queste feste educhiamo i nostri figli alla bellezza invitando a casa nostra i poveri. Facciamoli sentire meno esclusi, diamo un segnale forte che noi crediamo nell’umanità”.

Lodovico Poletto per "La Stampa" il 2 dicembre 2022.

Senza tetto. Disperati. Persone con gravi problemi di carattere psichiatrico. E «senzatetto economici». Provvisori, verrebbe da dire. Che vengono in città per far denaro. E poi ripartire e tornare a casa, all'estero, nel giro di qualche tempo. Quanto? «Non so, qualche mese. Ma adesso molti di loro se ne andranno via nel periodo del Natale romeno» dice Gioele, 74 anni, cane al seguito grosso un pugno, cappottone grigio. E una storia personale che forse è vera o forse no.

Origini montenegrine. Baracca dalle parti di piazza Sofia. Lontano da casa, da un paese dal nome impronunciabile e inscrivibile, sulle montagne sopra Podgorica. La capitale. «Sono scappato da lì quando è morto mio figlio e non sono più ritornato», racconta. Gioele, la storia dei senzatetto «a tempo determinato» - oppure economici come li chiama qualcuno - la conosce bene. O almeno così dice. Dove stanno? «Al fondo di via Roma. Ma anche in centro adesso. Io con loro non voglio avere nulla a che fare». Ma sono violenti? «Non so».

La questione dei senzatetto per finta è stata sollevata l'altro giorno dal sindaco Lo Russo, nel corso di un incontro pubblico: «La situazione torinese è anche figlia del racket, portato avanti da una comunità etnica molto precisa». Un'accusa chiara. Oltre che un problema in più che rischia di inceppare la macchina degli aiuti, distrarre risorse. Ciò che il sindaco ha detto è soltanto la coda di una questione che è già finita sul tavolo della Prefettura.

Non ieri, o ieri l'altro, ma nel corso di uno degli ultimi incontri del Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica. E adesso ne parlano apertamente anche quelli della polizia municipale: «Ci sono senzatetto professionisti che vengono qui, o magari anche in altre città, soltanto per fare la stagione». I rom la chiamano «vanghela». Carità. Ed è un modo per guadagnarsi uno stipendio.

Chi viene campa per strada o dove capita: un dormitorio, una fabbrica abbandonata, un pezzo di cartone appoggiato su un materasso di fortuna, nelle vie del centro. Mangiano come e dove capita: nelle mense dei poveri oppure con gli aiuti che portano le associazioni di volontariato che operano in città. E di giorno fanno il lavoro per cui sono arrivati: chiedono la carità.

Un euro sull'altro, accumulati senza mai spendere nulla diventa stipendio, da mandare a casa, alla famiglia e ai figli. Ne hanno discusso, si diceva, al Comitato in Prefettura. Argomento riservato. Qualcuno ha parlato dell'arrivo di un furgone, o forse due, stracarichi di senzatetto per finta. E allora s' è acceso un faro. Che per ora non si è ancora trasformato in un fascicolo da inviare in Procura, perché di reati ufficialmente non ce ne sono. Ma che ha alzato la soglia di attenzione da parte di tutti. E Gioele, stretto nella sua palandrana grigia, conferma: «Stanno laggiù, al fondo dei portici.

Se li cerchi li trovi». Di dove sono? «Romania. Ma sono strani, meglio non stare lì con loro».

E allora parte la ricerca. La mappa dei vigili dice che non stavano nelle strade del centro più stretto. Ma che poi si sono spostati. E adesso lì trovi un po' ovunque: da via Po a via Roma. Ecco, potrebbe esserlo Ernest che alle 11 del mattino se ne sta in via Roma, quasi all'angolo con piazza Cln. Non pronuncia una parola che sia una in italiano, e l'unico modo per riuscire a dialogare con lui è adoperare il traduttore dello smartphone. Origini romene. Un altro posto sperso in montagna e dal nome inscrivibile. Da quando sei in città? «Ho la famiglia povera».

D'accordo, ma da quanto tempo sei in Italia? La risposta non è comprensibile. Vox populi dice che arrivino dalla Transilvania. E che, con una buona dose di aggressività, scaccino i senzatetto storici, quelli che davvero vivono di carità e non hanno mezzi, dai posti «migliori». Ernest conferma: «Meglio stargli lontano: non voglio problemi». Ma tu lo sai quanto incassano? «Io con quelli non parlo. Ma prima di Natale saranno un bel po' di soldi». È mezzogiorno. Tu oggi quanto hai preso? Ernest mette la mano in tasca e tira fuori solo monetine: «Tre euro».

(ANSA il 16 novembre 2022) - Povertà e disuguaglianze, soprattutto dopo la pandemia, incidono sulla salute e sul benessere psicologico dei minori in Italia: un bambino che nasce a Caltanissetta ha 3,7 anni in meno di aspettativa di vita rispetto a chi è nato a Firenze e la speranza di vita in buona salute segna un divario di oltre 12 anni tra Calabria e provincia di Bolzano. 

Tra le bambine la forbice è ancora più ampia, 15 anni in meno in Calabria rispetto al Trentino. È l'allarme lanciato da Save The Children presentando la XIII edizione dell'Atlante dell'Infanzia a rischio in Italia 2022.

“Uguali per Costituzione” di Ernesto Maria Ruffini ovvero, l’amore verso il diritto. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 14 Novembre 2022

Càpita ogni tanto di trovarsi per le mani un testo fondamentale che non ha ottenuto la giusta attenzione mediatica. E’ il caso del saggio di Ernesto Maria Ruffini, attuale capo dell’Agenzia delle entrate, col suo Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 a oggi (Feltrinelli, 2022, 378 pp., 25€).

Una passione che nasce a 18 anni

L’autore è un avvocato tributarista, ma in queste pagine ha messo il cuore e una passione venticinquennale verso il diritto e la Costituzione, da quando i suoi genitori gli regalarano, per il diciottesimo compleanno, gli otto volumi dove sono raccolti i lavori dell’Assemblea costituente della nostra Repubblica. Da allora, ormai nell’altro secolo, Ruffini ha studiato, analizzato, soppesato, ponderato il significato giuridico, politico, sociale della nostra Legge fondamentale. Il risultato è questo libro, incredibilmente di agile lettura, rivolto ai non specialisti e tuttavia arricchente come pochi altri. In queste pagine troviamo dunque la storia di una Repubblica che cerca di realizzare, nella sua ottuagenaria vita, il concetto basilare giuridico di “uguaglianza” declinandolo in tutti i modi possibili.

Si parte dalla base: il principio di uguaglianza davanti alla legge. Lo si guarda dal punto di vista sincronico e diacronico, storico e dell’oggi. Lo si eviscera rispetto ai suoi nemici: le leggi ad personam e quelle ad categoriam. Si analizzano gli strumenti di quella uguaglianza: il diritto al gratuito patrocinio nel processo e la parità delle parti nel processo.

Un’uguaglianza di tutti e di ciascuno

Poi si passa all’uguaglianza delle opinioni. Nell’informazione e nella libertà di stampa. L’uguaglianza religiosa e la laicità dello Stato. L’uguaglianza tra uomo e donna. Nella famiglia. Tra i figli. Degli studenti. Dei malati. Dei lavoratori. Degli stranieri. Dei detenuti. Del voto. Dei partiti e nei partiti. Dei contribuenti.  Diciotto capitoli col complemento di un apparato di note e di suggerimenti bibliografici che soddisferanno gli specialisti.

Il punto di forza di questo saggio è che l’autore parte dalla Costituzione, per poi espandere l’analisi in due direzioni: all’inizio la genesi, il dibattito in assemblea costituente da parte dei padri e delle madri costituenti che portò alla determinazione e al lessico di quel dato articolo in quel dato modo, spiegando le alternative, i valori, i principi che si sono ponderati e inclusi. Dall’altro il dibattito politico successivo, lungo la vita di una Repubblica che ha certamente avuto alti e bassi, ma che ha continuato a camminare hegelianamente verso un traguardo di via via maggiore uguaglianza, maggiore pluralismo, maggiore inclusione.

Dalla Costituente al governo Draghi

In alcuni casi questo dibattito si fa attualità perché i temi scelti portano a che l’autore spieghi le conseguenze sull’oggi, citando fino al governo Draghi in carica al momento della pubblicazione. La forza di Ruffini credo stia nella franca chiarezza espositiva, nel desiderio di risultare comprensibile anche al lettore comune a digiuno di studi giuridici.

Ruffini non è un costituzionalista, non si perde in gerghi giuridici di dubbia utilità o in citazioni colte valide solo per far vedere di aver fatto le giuste letture. Va al nòcciolo della questione e dipana la eventuale polemica con un’analisi legislativa, più che di filosofia politica. Ripercorre le riforme, le leggi e la ratio che portò a quelle determinazioni nel tempo.

In questo modo la Costituzione viene davvero fuori come quell’organismo vivente di cui parlò Paladin, se non sbaglio, e l’autore ti prende per mano fino a portarti a spiegare le conseguenze del dettato costituzionale e i tentativi di avvicinamento allo spirito della Legge da parte di Parlamenti che, in diverse epoche, han fatto quel che potevano, non sempre in modo lineare o razionale.

La centralità assoluta della scuola pubblica secondo Calamandrei

Un manuale eccezionale, che dovrebbe essere adottato in tutte le scuole per spiegare il midollo della nostra Costituzione. E proprio alla Scuola Ruffini dedica una delle citazioni più pregne, di Pietro Calamandrei, sulla funzione della Scuola come formatrice delle classi dirigenti. Una citazione lunga, che vale la pena riportare per intero in questi malerrima tempora in cui la Sinistra italiana e tanti intellettuali ammantano il concetto di merito e meritocrazia come un disvalore, o addirittura un valore di “destra”. Sentite un po’ cosa diceva in proposito il padre della patria Calamandrei, azionista, sulla funzione della scuola:

«La scuola pubblica è un organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazione: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società. […] A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali. […] la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente» (pp. 126-7).

Da “la Repubblica” il 31 ottobre 2022.

Il biglietto spezza il cuore. Poche righe ed entri nel dramma di un'esistenza appesa, emarginata, spinta all'angolo da chissà quali circostanze. Magari non sta bene, è solo uno sbandato. O un depresso che è rimasto intrappolato in se stesso. Chi passa vicino all'auto si sofferma e pensa questo, che si tratti di un disagiato. Succede, mormorano, la città è piena di sbandati.  

Alcuni escono dal ristorante di pesce intorno piazza Navona: la serata calda li incoraggia a fare due passi distensivi per chiudere sereni il giorno. Tutti buoni motivi per ignorare l'auto con quel cartello sul parabrezza e lasciar stare. «Però aspetta. Quel biglietto è scritto bene - dice una signora al suo accompagnatore - è misurato, gentile». 

Eccolo, il biglietto: «Vivo in macchina. Se avete bisogno di fare la spesa io ve la faccio e ve la porto a casa per uno o due euro (quello che potete). Sono anche un amante dei cani e se vi può far piacere porto il vostro amico a quattro zampe a fare i bisogni. E un bel giretto. Naturalmente col sacchetto per raccogliere la cacca. Spero di conoscervi e di esservi utile. Grazie. Giuliano».

Leggi e rileggi, la coppia cede e si avvicina alla Lancia grigia. Dentro Giuliano sta guardando un film sul cellulare, va verso il sonno sul sedile reclinato. Sono le 23 passate. La signora bussa al finestrino. Niente. Riprova. Niente. Prova ancora. Il finestrino si abbassa. «Guardi che non voglio niente. Se le do fastidio mi sposto, ma non attacchi con la carità che a me non serve la compassione di nessuno».  

Una delle storie di ordinaria emarginazione romana comincia così, con quel finestrino a metà. Giuliano resta in auto e risponde composto e paziente alla signora, in piedi vicino al finestrino: «Ero un manager di un'azienda fornitrice di acqua ed energia. Avevo una famiglia e con mia moglie abbiamo due bambini. Poi il terremoto. Sono finito tra gli accusati di un giro di tangenti di cui non ho mai saputo nulla, ho provato a difendermi ma non c'è stato verso. Sono stato licenziato. Anche mia moglie non ci poteva credere.  

Poi sono scivolato in una spirale depressiva e ho perso anche lei. Ora vivo qui, questa macchina è tutto quello che ho. Grazie del suo interessamento, ma non voglio niente» . Giusto il tempo di tornare con una pizza e una birra: la signora si ripresenta con la cena: «Scusi, ma se non ha mangiato accetti», Giuliano scende dall'auto. T- shirt nera consunta e stinta, maglioncino di lana sintetica, jeans scuri, scarpe da ginnastica senza lacci. 

Barba lunga, 50 anni circa. Accetta di parlare. «Ho due lauree, avevo tutto e in un attimo ho perso tutto. Pure mia moglie prima di lasciarmi mi ha accusato di essere stato un padre assente e ha ragione, ma lavoravo dodici ore al giorno e avevo poco tempo per i bambini. Ora sto così. Faccio lavoretti, campo con poco. In auto mi devo spostare sennò i vigili mi fanno la multa. 

Alla Caritas non vado perché mi vergogno. Sento tanta gente in difficoltà. Ma questa crisi è molto più grave di quanto pensiate. Qualcosa da fare capita sempre. Lavoretti semplici da aggiungere a chi mi chiede di fargli la spesa o di far uscire i cani. Mi tengo sempre intorno al centro, raramente mi spingo in periferia. Io chiedo poco, perché mi basta poco per vivere. Per sopravvivere».

Da repubblica.it il 21 ottobre 2022.

"Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli". Parola della Cassazione. 

Tradotto: nonni e parenti prossimi devono mettere mano al portafogli se i genitori non sono in grado o non hanno la possibilità economica di mantenere i propri figli. Un principio che i giudici hanno stabilito lo scorso 17 ottobre, spiegando che i parenti sono tenuti a "fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli". Il tutto "in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo".

Dunque non basterà accompagnare i nipotini al parco o prenderli a scuola, ma anche mantenerli. Attenzione: non significa elargire denaro ai piccoli, ma aiutare i genitori. Il tutto secondo tre criteri ispirati all’articolo 316 bis del codice civile.

I parenti prossimi devono intervenire "se il genitore obbligato a versare il contributo di mantenimento dei minori si rende inadempiente", ovvero dopo un pignoramento o nel caso in cui sia impossibilitato a svolgere un'attività lavorativa. E ancora "se il genitore presso cui sono collocati i minori sia privo di reddito o abbia un reddito insufficiente a provvedere al loro sostentamento". Sempre se i nonni possiedono "le risorse reddituali o patrimoniali, per provvedere al mantenimento dei nipoti che versano in stato di bisogno". Dunque occorre prima capire anche le condizioni economiche in cui versano i nonni.

Paolo Lambruschi per “Avvenire” il 18 ottobre 2022.

La pandemia economica e sociale non è finita, soprattutto al sud le conseguenze sull'occupazione del Covid hanno approfondito i solchi per gli ultimi. E oltre a una povertà minorile da record, sono aumentate le probabilità che una famiglia numerosa non arrivi a fine mese. 

Le statistiche dell'"Anello debole", il rapporto sulla povertà della Caritas Italiana presentato come da tradizione il 17 ottobre, giornata mondiale di lotta all'indigenza, raccontano il 2021 nero dell'Italia nascosta, che lotta ogni giorno con una povertà assoluta schizzata ai massimi storici e che si mettono in fila alla Caritas per mangiare, pagare le bollette e l'affitto.

Questo paese degli ultimi l'anno scorso si è ulteriormente ingrandito fino a contare 1 milione 960mila famiglie in povertà assoluta, pari a 5.571.000 persone che sono il 9,4% della popolazione residente. L'incidenza è più forte nel Mezzogiorno (10%) mentre scende significativamente in particolare nel Nord-ovest (6,7% da 7,9%). 

Tra il 2020 e il 2021 l'incidenza della povertà è cresciuta più della media per le famiglie con almeno 4 persone, con persona di riferimento di età tra 35 e 55 anni, le famiglie degli stranieri e quelle con almeno un reddito da lavoro. 

I livelli di povertà continuano ad essere inversamente proporzionali all'età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori, ovvero quasi 1,4 milioni bambini e ragazzi, scende all'11,4% fra i giovani di 18-34 anni e all'11,1% per la classe 35-64 anni e cala al 5,3% per gli over 65.

Gli immigrati tornano ad essere la maggioranza degli assistiti dalle Caritas parrocchiali le quali hanno ricevuto quasi l'8% in più di richieste di aiuto nel 2021, Gli stranieri ascoltati dalle Caritas sono il 55% a livello nazionale con punte del 65,7% e del 61,2% nel Nord-Ovest e nel Nord-Est dove la presenza degli stranieri è superiore e la vita più cara. Nel Sud e nelle Isole prevalgono gli assistiti italiani, rispettivamente il 68,3% e il 74,2% dell'utenza. Metà degli assistiti sono donne con 46 anni di età media. Il 47% del totale è disoccupato o inoccupato.

Le persone supportate sono state 227.566, il 7,7% in più rispetto al 2020 per i quali gli interventi della rete Caritas sono stati quasi un milione e mezzo. Non si tratta solo di nuovi poveri, ma anche di "equilibristi" che entrano ed escono dallo stato di bisogno. Tre quarti degli interventi sono stati beni e servizi materiali per il cibo mentre mentre il 4,7% ha ricevuto sussidi economici per il pagamento di affitti e bollette assorbendo, però, oltre il 76% delle spese. 

Già l'anno scorso con la transizione energetica i prezzi erano saliti alle stelle. Solo nel primo semestre 2022, come dimostra il caso pilota della Caritas di Potenza, la spesa per le bollette è passata dal 50 al 63% della spesa del centro di ascolto, riducendo le risorse per altri tipi di aiuto. Un indicatore di quel che sta accadendo in questi giorni. Sempre più netto il collegamento tra povertà e livello di istruzione.

Cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media, che passa dal 57,1% al 69,7. Nell'Italia dove la mobilità sociale è bloccata, il primo studio sui beneficiari della Caritas conferma che chi nasce povero nella metà dei casi resta povero, la eredita. Complessivamente i casi di povertà intergenerazionale pesano per il 59% e nelle Isole e nel Centro il dato risulta ancora più marcato.

Sono i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente. Al contrario tra i figli di laureati, oltre la metà arriva a un diploma superiore o alla laurea. Più del 70% dei padri degli assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione mentre 7 madri su 10 sono casalinghe.

Da un'altra indagine condotta in collaborazione con Caritas Europa e i salesiani di Don Bosco International, risulta che quattro studenti su 5 dei corsi professionali sono stati impoveriti dal Covid. Per rendere più efficace ol reddito di cittadinanza per i poveri assoluti, Caritas propone di rafforzare la capacità di presa in carico dei Comuni. Inoltre richiama l'attenzione sui nuovi progetti in partenza, finanziati dal Pnrr, occasione da sfruttare al massimo sui territori.

(ANSA il 17 ottobre 2022) - Nel campione di sangue di un trentenne che vive in condizioni di svantaggio socio-economico sono già visibili le alterazioni biologiche da cui, una volta più in là con gli anni, avranno origine malattie croniche come quelle cardiovascolari, polmonari, reumatiche, demenze. È quanto emerge da uno studio internazionale coordinato dall'Università di Zurigo e pubblicato sulla rivista dell'Accademia nazionale delle scienze statunitense (Pnas).

Gli effetti dei determinanti sociali della salute sono ben noti: chi ha un basso livello di istruzione, un reddito più basso, peggiori condizioni di vita tende ad ammalarsi di più. Tuttavia non sono completamente chiari tutti i meccanismi biologici attraverso cui ciò avviene, né quando questi inizino a instaurarsi. I ricercatori, nell'ambito di un ampio progetto di ricerca americano che segue oltre 4.500 giovani adulti da più di 20 anni, hanno sottoposto i loro campioni di sangue a una serie di indagini molecolari alla ricerca di marcatori biologici (in particolare una serie di Rna) tipici di diverse malattie croniche.

Hanno quindi scoperto che già tra i 30 e 40 anni, quindi decenni prima della comparsa della malattia conclamata, erano rilevabili le alterazioni che predispongono alla malattia. Inoltre, queste seguivano un gradiente che rifletteva il grado di svantaggio sociale. "Le disparità nelle malattie della tarda età adulta riflettono probabilmente le disparità nel rischio molecolare nella giovane età adulta", scrivono i ricercatori, che sottolineano che tra i diversi marcatori, particolare impatto sembrano avere quelli legati all'obesità.

 Secondo gli scienziati, questi dati "evidenziano la necessità di politiche e interventi che prendano di mira i fattori di stress e i meccanismi obesogenici già nelle prime fasi della vita, prima che questi meccanismi a base sociale sfocino in danni alla salute". (ANSA).

Il senzatetto senza nome e il suo tutto: il suo cane. Redazione CdG 1947 e Valeria Randone su Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2022.  

Questa è una storia d’amore e di cura, di rispetto e di protezione, quegli ingredienti magici che non dovrebbero mai mancare quando si ama davvero. Il suo cane non si allontana mai da lui, non ha catene né guinzagli, ha un legame di cuore, di pelle e di pelo, fatto di rispetto e silenzio. È sempre al suo fianco.

Questa è una storia d’amore di un uomo, che nel non avere niente ha tutto, e del suo tutto: il suo cane. Abita su un marciapiede, a Catania. Il suo giaciglio è un cartone. È sprovvisto di scarpe e di coperte. Non è in affanno, non mendica, non è ubriaco; sembra non mancargli niente, sta bene così. La sua vita semplice fatta di navigazioni a vista, di albe e tramonti, di pioggia e di sole, senza progetti e talvolta senza pasti, è impreziosita dalla vicinanza di corpo e di cuore del suo inseparabile quattrozampe.

Ha scelto un cane per amico e anche per famiglia. Non lo utilizza per chiedere l’elemosina o per impietosire i passanti, lo ha promosso a compagno e anche a famiglia. Quel cane è tutto per lui.

Il senzatetto è allergico al rumore della vita, ma non a quello del mare; sposta il suo cartone, le sue buste piene di niente e il suo amato cane in base al suo umore, e quando può sosta di fonte al mare. Ama sentire la brezza marina sulla sua pelle. Ama respirare il mare, fare incetta di salsedine e di libertà. Il suo cane non si allontana mai da lui, non ha catene né guinzagli, ha un legame di cuore, di pelle e di pelo, fatto di rispetto e silenzio. È sempre al suo fianco.

Il senzatetto senza nome abita a Catania tra il portone di una chiesa accanto al mio studio e il lungomare. Vive abbracciato dal sole siciliano durante i mesi caldi, che per fortuna al sud sono tanti, e dal suo cane durante quelli freddi.

Dei suoi dolori non si sa granché, si intravedono ferite profonde – non parla con nessuno e sembra avere paura di tutto -, un cuore solitario e sofferente, un corpo defedato dagli stenti e dalle intemperie meteorologiche e della vita. I suoi occhi sono scuri, cerchiati da solchi olivastri che tendono al nero quando è ancora più stanco di sempre. Gli angoli delle labbra virano verso il basso, sono sprovviste di timidi sorrisi – cambiano angolazione e si mettono in orizzontale quando guarda negli occhi e nel cuore il suo cane -, e i denti sono spesso digrignati come se li erigesse a protezione dal mondo esterno.

La pelle è macchiata dal sole ed erosa dal vento. Le mani sono mani di chi un tempo ha lavorato molto, piene di callosità e macchie. I capelli sono incolti, increspati dalla salsedine e dalla polvere, lunghi e trasandati. La barba ricorda un nido appena fatto. E la postura racconta tutto il peso della sua sofferenza e misteriosa storia di vita.

Il senzatetto senza nome sembra essere stato adottato dagli abitanti della zona dove c’è il mio studio; è chiaro che lo considerano uno di famiglia. Continuiamo a turno a sincerarci che ci sia, che non gli sia successo nulla, che lui e il cane non stiano male, soprattutto durante questi mesi torridi e particolarmente pericolosi per chi vive in strada.

Il suo cane è un grosso cane nero, reso sale e pepe dagli anni che passano. Ha una postura incerta perché zoppica da una zampa, ma fiera. Non ama le coccole dei passanti, ma non si ritrae se qualche passante temerario si attarda in una carezza. Non ha mai mostrato segni di insofferenza o aggressività. È sempre vigile anche quando dorme, veglia sul suo amato padrone, controlla tutto e tutti.

I suoi occhi hanno il potere straordinario di parlare al suo posto, sono profondi e luminosi, anche quando tutto intorno è buio. È chiaro che quel cane è un privilegiato: vive con l’uomo che ama di più al mondo e da cui è amato più di ogni bene prezioso. Il loro legame è visibile, inscindibile, prioritario rispetto a tutto.

Quando il quartiere che li ha adottati, con garbo, discrezione e rispetto gli porta il pranzo, il cane non brama affamato e richiedente, rimane silenzioso e immobile, e aspetta.

Il primo gesto che il senzatetto fa è dargli da mangiare, prendere dell’acqua pulita alla fontana, riempire la sua ciotola – quando c’è troppo caldo è sua abitudine bagnargli le tempie -, donargli gran parte del suo cibo e guardarlo con immenso amore e cura mentre mangia. Quello che rimane lo mangia lui. È un rituale lento e rodato che noi della zona osserviamo tutte le volte.

Questa è una storia d’amore e di cura, di rispetto e di protezione, quegli ingredienti magici che non dovrebbero mai mancare quando si ama davvero.

P.S: una mattina, la mia vicina di casa di studio mi ha telefonato allarmata perché il nostro senzatetto era sparito. Siamo subito andate a cercarlo, e per fortuna era al mare. Sembravano un dipinto olio su tela che si sarebbe potuto intitolare “intimità”. Erano seduti sul loro cartone-divano, l’uno accanto all’altro. Le loro schiene si sfioravano immobili. La ciotola del cane era piena d’acqua pulita. E i loro sguardi erano rivolti al mare.

*Valeria Randone è psicologa, specialista in sessuologia clinica, a Catania e Milano (valeriarandone.it) e autrice del libro “L’aggiustatrice di cuori – Le parole che riparano”

Strage dei senza dimora, un morto ogni giorno dall'inizio dell'anno. Luca Liverani su Avvenire l'11 agosto 2022. 

Un morto ogni giorno dall’inizio dell’anno. Dal 1° gennaio a oggi in Italia 224 persone senza dimora hanno perso la vita in 223 giorni. Diverse le cause, sempre uguale il luogo: la strada. Tragedie che trovano qualche riga nelle cronache solo d’inverno, quando si attribuisce alle temperature rigide il motivo del decesso. Ma i numeri dicono che non c’è differenza tra bella e brutta stagione: a maggio-giugno 61 morti, a gennaio-febbraio 57. Non esiste l’emergenza freddo, o caldo, esiste l’emergenza strada.

I dati dell’ultima rilevazione della Fiopsd, la Federazione degli organismi per le persone senza dimora, sfatano dunque un solido luogo comune, per ribadire che la durezza della vita senza un tetto abbrutisce e uccide tutto l’anno. Fiopsd ricorda che le sue rilevazioni «non pretendono di avere carattere di scientificità», ma i dati parziali del 2022 preannunciano – con 224 morti in otto mesi appunto – un anno ben peggiore dei precedenti: nel 2021 erano stati 246, e 208 nel 2020. Il primo morto di quest’anno, il 3 gennaio, è stato Giuseppe Gargiulo, 47 anni, che si è spento per un malore a Piana di Sorrento (Na). L’ultimo – per ora – l’8 agosto è Hamed Mustafe, somalo di soli 22 anni, investito ad Ancona da un’auto.

Gli homeless dunque muoiono tutti i mesi e per le cause più diverse: nelle ultime quattro stagioni 79 sono deceduti d’inverno, 53 in primavera, altri 53 in estate e 60 in autunno. Secondo la Fiopsd «il 60% dei decessi è per incidente, violenza, suicidio, e il 40% per motivi di salute». Chi muore per strada è nel 92% dei casi maschio, due volte su tre straniero, età media 49 anni. Varie le cause di morte, ma tutte legate all’emarginazione più dura: 73 per malore, 20 investite, 19 per violenza, 16 da overdose, 14 per annegamento, 14 da ipotermia, 12 i suicidi. «Chiunque di noi viva una situazione di difficoltà fisica o psicologica – dice Michele Ferraris, responsabile comunicazione della Fiopsd – a casa troverà un rifugio in cui riprendersi. Chi vive in strada è a rischio: è solo e vedrà acuirsi il suo problema. Chi ha patologie cardiocircolatorie d’estate rischia l’infarto, un’influenza d’inverno può degenerare in polmonite». 

Dormitori e ostelli servono, ma non bastano: «Vanno lasciati al mattino e i gli ospiti passano la giornata inseguendo orari e luoghi in tutta la città dove trovare pasti, docce, vestiti. Il pubblico deve impegnarsi in progetti seri per la casa. Di soldi ne arriveranno, anche col Pnrr, vanno usati in progetti non assistenzialistici, creando reti di comunità tra pubblico e privato. Come l’housing first, che abbiamo avviato dal 2014». Cioè case per tre o quattro persone aiutate da volontari a riconquistare l’autonomia: «Quasi il 90% di successo a due anni dall’avvio». Le persone coinvolte sono 1.013 in 74 progetti, costo a persona di 26 euro al giorno.

Per Giustino Trincia, direttore della Caritas diocesana di Roma, «è uno scandalo che si ripete da anni e va affrontato impiegando il vasto patrimonio pubblico abitativo inutilizzato». I dormitori «sono risposte per la prima accoglienza, ma non ci si può vivere per mesi o anni, va recuperata un’autonomia di vita». I progetti di housing first «sono una goccia nell’oceano, senza la disponibilità di un adeguato patrimonio immobiliare restano esperienze pilota». Il volontariato ha un ruolo ineludibile, su cui però Trincia ha idee chiare: «Si smetta di pensare che il volontariato possa sostituire le responsabilità della politica e delle amministrazioni. Non deve fare supplenza, né fornire alibi. Sono problemi sistemici che chiedono un concorso di sforzi, in direzione di una vera sussidiarietà orizzontale».

«D’inverno col freddo c’è più attenzione mediatica al problema, ma le morti delle persone che vivono per strada sono costanti tutto l’anno. La bella stagione purtroppo non risolve questo dramma», afferma Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio, uno dei responsabili del servizio ai senza dimora. «I dati dicono che le vittime sono in maggioranza stranieri. Va ripensata una strategia di protezione di queste persone che hanno un accesso ridotto ai servizi socio-sanitari, per mancanza di documenti o di residenza». L’altro è un appello a tutti alla vigilanza: «A volte per salvare una vita basta un po’ di attenzione, una bottiglia di acqua fresca, una telefonata al 112. L’attenzione di chi resta nelle città deserte di questi giorni – avverte D’Angelo – può essere risolutiva. L’estate per certi versi è peggio dell’inverno: molti servizi chiudono e diventa ancora più difficile mangiare e lavarsi».

IL DIBATTITO SULLA TEORIA DELLA GIUSTIZIA SOCIALE. La favola bella della meritocrazia che giustifica le disuguaglianze. NADIA URBINATI, politologa su Il Domani l'11 giugno 2022

Il problema della disuguaglianza è quello della sua giustificazione: deve esserci un equilibrio tollerabile tra le favole belle e la realtà esperita dalla larga maggioranza – diversamente la porta della ribellione è aperta.

Assistiamo oggi a una rinascita in grande stile di una politica che non corregge le condizioni che tendenzialmente determinano la disuguaglianza. Non ci può essere merito meritato se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le disuguaglianze di opportunità di accesso e poi non si monitorano la formazione, strada facendo, di nuove disuguaglianze.

Quanti ragazzi non si chiedono perché l’essere nati in una parte dell’Italia invece che in un’altra, si traduce in esiti di vita e opportunità così diversi? Il discorso sul merito è un inganno se ignora queste domande.

Pierangelo Sapegno per “la Stampa” l'8 giugno 2022.

Ci sono storie di una miseria umana che facciamo sempre fatica a capire. Come questa di Giovanni Vezzali, 85 anni, che in una cascina di Gambolò, nella campagna pavese arsa dal sole sulla sponda destra del Terdoppio, ha sparato due colpi con il fucile da caccia a Thomas Achille Mastrandrea, figlio della sua badante, solo perché aveva chiesto per sua madre un contratto in regola. 

Lei, Graziella Casnici, di origini albanesi naturalizzata italiana, ha 59 anni, e da tre lavorava a servizio dall'anziano padrone, retribuita - pare - in nero, con un compenso di 150 euro a settimana. 

Il delitto è già abbastanza osceno di suo, ma è tutto quello che ci sta attorno che racconta questa umanità dolente e sconosciuta, svelata ogni tanto dalle macerie della cronaca. Giovanni Vezzali guarda i campi dalle sue finestre, chiuso nella sua casa al tramonto della vita, assieme alla figlia disabile, che ha bisogno di cure e attenzioni speciali: era di lei che si occupava Graziella. La vittima, Thomas Mastrandrea, 43 anni, senza un lavoro fisso, s' era sposato tre mesi fa con una donna affetta da una grave forma di sclerosi multipla.

Per di più, la suocera ha avuto un ictus e adesso è costretta in carrozzella. Lui badava a loro due, in pratica era quella la dimensione della sua esistenza. Vivevano insieme in un rudere fatiscente nella frazione di Nicorvo, che oggi il sindaco, Michele Ratti, fa persino fatica a ritrovare nelle mappe catastali e indicare ai giornalisti che sono venuti a cercarlo, perché quelle mura cadenti e diroccate non sono neppure segnate.

In quest' incontro di sventure, ai margini della nostra vita di tutti i giorni, la disperazione può diventare accecante. Qualche tempo fa, Giovanni ha preso in disparte Graziella: «Io sono vecchio», ha detto, «e mia figlia ha solo me. Ma io non so quanto mi resti ancora da vivere. Tu le sei vicino da tre anni e sei brava con lei. Ora, devi promettermi che continuerai a badare a lei pure quando non ci sarò più io. Se lo farai, potrai venire a vivere qui con la tua famiglia». 

La donna lo ha ascoltato ed è rimasta in silenzio per un po', prima di chiedergli che cosa volesse dire esattamente. «Che vivrai qui, in questa casa», ha ripetuto lui. «Ma in che senso? Cioè, la casa diventa mia?». E lui ha risposto: «Sì. Ti lascio la casa, se resti assieme a mia figlia». Dal giorno che Giovanni ha fatto questo discorso è passato qualche mese, e ogni tanto Graziella è tornata alla carica, per avere la conferma che non fosse stata solo la promessa di un momento, e lui tutte le volte ha ripetuto le stesse cose, che quella era la scelta più giusta, che era logico che lei vivesse assieme a sua figlia se doveva badare a lei.

Negli ultimi tempi, però, Graziella ha cominciato a chiedere di avere qualche garanzia in più, qualcosa di scritto che formalizzasse la proposta. Solo che a questo punto Giovanni stava nel vago, sì, vediamo, ci penso. 

Lei ne ha parlato a suo figlio, che ormai ci aveva fatto dei sogni all'idea di andare a vivere in un posto normale, via dalla catapecchia dove passava i giorni a guardare le sue donne senza altra vita che quella del loro dolore. 

Così domenica ha deciso di andare dal vecchio per chiarire la faccenda. La cronaca dei verbali dice che è arrivato alle 18,30. Che loro due parlavano nella sala, e che la madre era nella stanza della figlia, accanto a lei. 

Giovanni deve aver difeso la sua promessa rifiutando però di sottoscrivere un regolare contratto o qualsiasi altra cosa che la rendesse più concreta, negando anche un anticipo in danaro che tutelasse Graziella nel caso che dopo la sua morte quella proposta restasse solo una nuvola di fumo e di vane parole, come a un certo punto deve avergli chiesto Thomas, con voce alterata.

Giovanni adesso è vecchio e gli anni che sono passati l'hanno lasciato davanti a queste finestre a guardare i giorni che restano. Ma da giovane non era così, lui era un gran cacciatore, e questa è una terra che viveva di quello da sempre, un rifugio sui dossi del Terdoppio, il torrente che vaga nella Lomellina, fra una roggia, i balzi e le distese di campi, prima di confluire in sua Maestà Po. 

Il fucile da caccia, lui ce l'ha ancora. E ce l'ha a portata di mano. Graziella dice di aver sentito lo sparo e di essere corsa in sala a vedere cosa succedeva, e c'era Thomas in un lago di sangue. Solo quello ha visto, Thomas che rantolava.

Mentre piangeva, ha detto «Perché l'hai ucciso?». Perché un disperato uccide un altro disperato che è a mani nude? Perché uno come Vezzali si è sentito padrone del destino di un uomo che non ha mai avuto niente dalla vita? 

In Procura, nella notte di interrogatori, ha detto che ha avuto paura. La paura dei vecchi. Ma in questo incrocio di sventure il dolore non è finito. Ora Graziella deve badare alla vedova malata di Thomas. E la suocera l'hanno portata in una casa di riposo.

Ancora una volta, sono le cose senza senso che facciamo più fatica ad accettare. Il male ha una sua malvagità inesplicabile, una violenza che non riconosce il dolore degli altri, tutta la pena delle loro esistenze. 

Aldo Faraoni, storico questore di Torino, prima di andare in pensione e di lasciare questo mondo, radunò i suoi uomini per un brindisi di saluto, e levò in alto il calice: «A noi», disse. «A tutti noi. Che abbiamo conosciuto la malvagità del mondo». Perché quelli come lui sono stati costretti a incontrarla quasi sempre. Feroci banditi, gente normale e disperata, come Giovanni Vezzali, accomunati dallo stesso gesto. E loro tutte le volte a cercare un senso a cose che un senso non hanno.

Da fanpage.it il 31 maggio 2022.

L'attrice Claudia Gerini, seguendo le foto di qualche ora prima di Elena Santarelli, ha pubblicato sulle stories del suo profilo Instagram i video del centro della capitale, tra immondizia abbandonata e cestini stracolmi. "Questa città è sporca non soltanto perché le persone sono incivili, ma perché nessuno la pulisce", ammonisce. 

La telecamera si sofferma su carte e cartacce usate e lasciate fra i sampietrini, cartoni di pizza buttati per terra e bottiglie di vetro abbandonate agli angoli della strada, ha inquadrato anche due persone, due senza fissa dimora, mentre stavano sistemando le loro cose vicino a dei giacigli di fortuna. "Qui c'è degrado", ha detto Gerini, inquadrandosi nella fotocamera con alle spalle i due senza casa, per poi tornare a parlare dei materiali abbandonati per strada.

Sette secondi più tardi, l'attrice sta già passando nuovi punti dell'elenco dei rifiuti da proporre ai suoi follower, riprendendo altre bottiglie appoggiate al muro sul ciglio della strada. Come se anche quelle due persone fossero rifiuti fra i rifiuti, gli ultimi cittadini della città additati come degrado da far sparire dalle strade centro della città, da buttare o da nascondere altrove perché poco decorosi.

Gli esseri umani, però, non sono cose da far sparire dalla vista dei cittadini perbene (perché più hanno), o dei turisti, ma andrebbero al contrario presi in carico dalle istituzioni perché abbiano un tetto e non dormano in strada arrangiandosi come possono: per parlare di loro non si può usare lo stesso vocabolario utilizzato per l'immondizia. Pensiamo all'acqua ghiacciata lanciata alla Stazione Termini per allontanare i senza tetto o alle fioriere "antiuomo" della Stazione Tiburtina. 

A Claudia Gerini, e non solo lei, consigliamo di leggere il rapporto dedicato ai senza fissa dimora dell'associazione Nonna Roma. Storie, numeri, cifre ma soprattutto proposte e risposte. Lo si può scaricare liberamente da internet. Perché pulire le strade è importante sicuramente, ma dare un tetto a tutte e tutti anche.

Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 30 maggio 2022.

L'Italia è un Paese "diseguale". Questo profilo non riguarda solo l'Italia. Ma il nostro Paese appare particolarmente segnato, da questo "squilibrio". I dati di Eurostat mostrano come l'Italia, alcuni anni fa, fosse il secondo Paese, per grado di diseguaglianza, in Europa Occidentale. 

Preceduto, in questa graduatoria (poco prestigiosa), solo dalla Spagna. I dati oggettivi sono, peraltro, sostenuti da quelli soggettivi, dettati dalle percezioni dei cittadini. Secondo un recente sondaggio di Demos, infatti, più di 3 italiani su 4 considerano gravi le diseguaglianze, in Italia, sul piano della distribuzione del reddito e della ricchezza.

Ma quanti lamentano differenze profonde rispetto all'accesso ai servizi, alle libertà e ai diritti civili sono pochi di meno, come coloro che denunciano la difficoltà di venire ascoltati. In politica. 

Insomma, la diseguaglianza, in Italia, non costituisce solo un problema statistico, perché coinvolge la società. Ne influenza e condiziona la visione e le immagini del "mondo intorno". In modo generale e generalizzato. Anche se delinea una scena colorata con diversi gradi di grigio (e scuro).

Infatti, secondo una larga maggioranza di italiani, la "diseguaglianza" non riguarda in modo "uguale" la società, ma "investe", in modo particolare e con maggiore intensità, alcune categorie di persone. 

I disabili, per primi. E, subito dopo, i lavoratori precari. Soprattutto i più giovani. E le donne. Ma "investe", con forza, anche altri gruppi sociali. Segnati - e svantaggiati - dalla residenza in alcune zone specifiche del Paese, storicamente "svantaggiate". Il Mezzogiorno, i piccoli centri, le periferie. 

La diseguaglianza appare, inoltre, collegata alla provenienza territoriale e nazionale delle persone. Coinvolge soprattutto gli stranieri. Gli immigrati. Tanto più se caratterizzati da una "fede religiosa" diversa da quella prevalente nel Paese.

Agli occhi degli italiani, dunque, si delinea una "geografia della diseguaglianza" ampia e articolata, nella quale le componenti, o meglio, le "regioni", non comprese nell'area degli svantaggiati, se non degli esclusi, sono circoscritte. 

Tuttavia, questo sguardo sul nostro mondo rivela prospettive e angolazioni diverse. Le diseguaglianze, in altri termini, non appaiono necessariamente un "male oscuro" e, tantomeno, incurabile. 

Perché attraversano da tempo la nostra vita, la nostra realtà. E di conseguenza, ci siamo, abituati a considerarle come problemi senza soluzione. Ai quali ci dobbiamo "rassegnare". Così, divengono parte ("regioni") di un mondo ri-conosciuto e, per questo, "dato per scontato".

Infatti, la diseguaglianza, meglio le diseguaglianze, sono considerate "accettabili" da quasi i due terzi degli italiani. Mentre circa metà le ritiene "inevitabili" e perfino "utili". In una certa misura, necessarie. Meccanismi di un sistema che premia e promuove "il merito". Le componenti più capaci ed efficienti. Per lo stesso motivo, le diseguaglianze appaiono un "motore dello sviluppo". Sul piano generale e individuale. 

Per questa ragione, le possiamo valutare - anzi, le valutiamo - in modo negativo. Ma, alla fine, le accettiamo. Anche se con molte riserve. Con distacco e distinzioni. Perché si preferisce "predicare l'uguaglianza" senza rinunciare ai benefici prodotti dalla diseguaglianza, che appare un canale e un moltiplicatore di efficienza e produttività. Si tratta di una contraddizione apparente, che non riguarda solo l'Italia.

Una figura importante e autorevole, nel campo delle scienze storiche e sociali, come Pierre Rosanvallon, commentando una ricerca condotta in Francia alcuni anni fa, osservava che «una larghissima maggioranza dei cittadini esprime un giudizio schiacciante nel condannare le diseguaglianze e nel formulare un ambizioso concetto della giustizia». 

Ma ritiene, al tempo stesso, «che le disparità di reddito sono accettabili qualora riconoscano i diversi meriti individuali». In altri termini, «si condannano le diseguaglianze di fatto mentre si riconoscono implicitamente come legittime le cause della diseguaglianza che le condizionano».

Perché ci aiutano a conseguire risultati concreti. Ci permettono di realizzare i nostri progetti, i nostri obiettivi. Senza entrare in contraddizione e in contrasto con noi stessi. Con i nostri valori e le nostre idee. 

Le diseguaglianze, in altri termini, diventano mezzi per superare i limiti e i problemi che vediamo e incontriamo, incontro a noi. Per "andare oltre". Noi, uguali e diversi. Uguali perché diversi. Non per legge o per obbligo. Ma per "merito". Per superare e contrastare le diseguaglianze è, dunque, necessario anzitutto partire da noi. Dal nostro sguardo sul mondo. Sugli altri. È, importante, per questo, convincersi e convincere che l'uguaglianza di opportunità, diritti, condizioni, non è solo giusta. Ma utile. A migliorare la nostra società. E la nostra vita. 

Luca Cifoni per “Il Messaggero” il 23 maggio 2022.

Niente più Isee gratis dalla metà di giugno. Il rischio è concreto e si materializzerebbe a ridosso della scadenza per fare domanda per l'assegno unico e universale, senza perdere gli arretrati. E in piena stagione delle dichiarazioni dei redditi. L'allarme viene dai Caf, i centri di assistenza fiscale che si occupano anche di questa incombenza per conto delle famiglie italiane. Le dichiarazioni Isee sono necessarie per l'accesso ad una serie di prestazioni sociali, a partire dal reddito di cittadinanza. Servono per le tariffe agevolate di asili nido, mense scolastiche e università ma anche per una serie di bonus entrati in vigore negli ultimi tempi. Questo indicatore, che tiene conto dei redditi della famiglia ma anche del patrimonio, compresa la casa di abitazione, è poi utilizzato per quantificare l'importo dell'assegno unico e universale (Auu), che ha fatto il suo debutto nel marzo scorso.

Niente di strano quindi che di Isee ne vengano chiesti e compilati sempre di più: per la verità è anche possibile procedere in autonomia sul sito dell'Inps, ma molti italiani preferiscono tuttora affidarsi ai Caf. Che da gennaio ad oggi ne hanno già fatti circa 7.800.000, il 42 per cento in più rispetto allo scorso anno. La previsione è di arrivare almeno a 10 milioni.

Ma c'è un problema: oggi per i cittadini la compilazione è gratuita, perché lo Stato riconosce ai centri di assistenza 16 euro per ciascuna dichiarazione. Ma con questi numeri, le risorse stanziate si esauriranno nei primi giorni del prossimo mese. Cosa succederà a quel punto?

«C'è un tavolo di monitoraggio - spiega Giovanni Angileri, presidente della Consulta nazionale dei Caf - quando sarà confermato che la convenzione deve essere sospesa noi non potremo che fermarci». Per gli utenti la scelta sarà tra rinunciare al servizio oppure pagarlo, ad un prezzo che sarà fissato autonomamente da ciascun centro di assistenza ma che molto difficilmente sarà inferiore a 20-25 euro. «Se non ci saranno fatti nuovi il pericolo è che vada a finire così - argomenta ancora Angileri - e non possiamo nemmeno escludere che singoli centri chiedano corrispettivi ancora più alti».

I prossimi giorni dunque saranno decisivi: dopo le interlocuzioni tecniche con l'Inps, la palla è ai ministeri competenti: per mercoledì è in programma un colloquio con la responsabile della Famiglia Bonetti, mentre si attende ancora l'appuntamento con il ministero del Lavoro.

Dovrà essere comunque poi il dicastero dell'Economia a reperire le risorse necessarie, una volta presa la decisione politica. Il rischio è pure quello di una disparità tra i cittadini che ancora in questi giorni riescono ad accedere al servizio gratuitamente (tuttora se ne fanno circa 20 mila al giorno, che è un numero molto alto) e quelli che se lo ritroverebbero a pagamento. Per questo si ragiona anche su una soluzione-ponte.

Come accennato, i nuclei familiari che entro il 30 giugno presenteranno la richiesta di assegno unico e universale avranno diritto agli arretrati da marzo: dopo questa data spetteranno solo le rate correnti. All'appello mancano ancora varie centinaia di migliaia di potenziali beneficiari, ai quali nella maggior parte dei casi servirà l'Isee (altrimenti l'Auu sarà riconosciuto solo nella misura minima). È prevedibile che almeno una parte di loro si decida a provvedere negli ultimi giorni disponibili. La compilazione dell'Isee richiede l'acquisizione di una serie di dati, da quelli reddituali a quelli relativi agli immobili eventualmente posseduti, fino alle giacenze sui conti bancari e agli investimenti.

Genova, disabili costretti a scendere dal treno: «Ora daspo ai passeggeri incivili». L'episodio accaduto ieri alla stazione ligure ha scatenato un putiferio tra interrogazioni parlamentari ed esposti in procura. Toti: «Fatto totalmente esecrabile». Il Dubbio il 19 aprile 2022.

L’episodio accaduto ieri alla stazione di Genova Principe, quando 27 persone diversamente abili, con i posti regolarmente prenotati, non hanno potuto viaggiare sul treno regionale fino a Milano perché chi li aveva occupati si è rifiutato di liberarli, ha scatenato il dibattito politico, con tanto di interrogazioni parlamentari.

Il convoglio è arrivato in stazione con un ritardo di 40 minuti e a Genova sono saliti numerosi viaggiatori che hanno occupato tutti i posti, compresi quelli tenuti e rimasti fino a quel momento liberi per la comitiva di persone diversamente abili. A quel punto il personale di Trenitalia ha invitato le persone che avevano occupato i posti, tutte con regolare biglietto, a scendere, ma nessuno l’ha fatto. Il presidente della Liguria, Giovanni Toti, lo ha definito un episodio «totalmente esecrabile», tanto da chiamare il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, e definire un incontro in settimana, «perché lo sfondo di tutto questo è la necessità di programmare un servizio di treni interregionale, che dipende dal ministero». Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno comunque condannato gli eventi, esprimendo più di una critica anche, e forse soprattutto, alla gestione dei fatti da parte di Trenitalia e della Polizia ferroviaria. Il punto è che, stando a quanto riportato dalla Polfer, nessuno degli agenti presenti è stato contattato da Trenitalia, che invece insiste nel dire di aver chiesto l’intervento, per poi provvedere a trovare un’alternativa alla comitiva facendola salire in un autobus sostitutivo.

Se la leader di FdI, Giorgia Meloni, parla di «gesto miserabile» annunciando un’interrogazione «per arrivare a fondo di questa vergogna indegna di una Nazione civile», il M5S risponde con una nota del deputato ligure Sergio Battelli. «Quanto successo è di una gravità inaudita e denota inciviltà e meschinità – scrive l’esponente M5S – Trovo inoltre assurdo che il personale Trenitalia, insieme alla Polfer, non siano riusciti a far rispettare le regole: spero che venga fatta al più presto luce su questa vicenda aberrante e che i responsabili vengano individuati e denunciati». Di «vergogna» parla anche il numero uno della Lega, Matteo Salvini, che confessa di «non avere parole». Ma il Carroccio si è mosso in anticipo e ha già presentato la sua interrogazione. «Abbiamo presentato come Lega un’interrogazione ai ministri Lamorgese e Giovannini perché riteniamo doveroso un chiarimento sugli estremi di questa vicenda – sottolinea Luigi Augussori, senatore della Lega – Chiediamo al ministro Giovannini se non ritenga, come noi riteniamo, fondamentale mettere in atto azioni incisive per garantire i diritti dei passeggeri con disabilità e far sì che i trasporti siano, nei fatti, accessibili a tutti; chiediamo inoltre al ministro Lamorgese quali siano le motivazioni che hanno spinto la Polizia ferroviaria a non intervenire con risolutezza nella vicenda per affermare che le basilari norme di comportamento civile devono essere rispettate».

Sul piede di guerra Assoutenti che ha depositato un esposto alle Procure di Genova e Milano, chiedendo un «daspo» a vita sui treni italiani per i passeggeri che non hanno lasciato i posti riservati ai disabili. A seguire Codacons ha fatto sapere di voler presentare denuncia/querela. Trenitalia, tramite la direttrice regionale della Liguria, Giovanna Braghieri, ha spiegato che le persone che non hanno voluto alzarsi dai posti riservati per il gruppo di disabili «avevano un regolare biglietto, che gli permetteva di viaggiare sia seduti che in piedi. I viaggiatori – ha affermato – sono stati controllati e possedevano un regolare biglietto. Ricordiamo che per viaggiare su un treno regionale è possibile acquistare un biglietto che permette di avere la garanzia del viaggio che può essere effettuato sia in piedi che seduto con il ritorno alla capienza al 100%. Abbiamo anche una app che permette, con una sorta di semaforo rosso, giallo e verde di monitorare lo stato di disponibilità dei posti a bordo per i viaggiatori che vogliono avere questo tipo di informazioni». I viaggiatori, a quanto spiegato da Braghieri, «sono stati invitati più volte dal nostro personale a lasciare liberi quei posti, sottolineando che erano riservati ad una comitiva di ragazzi disabili, ma nessuno si è alzato. La nostra richiesta non è stata minimamente accolta». A quel punto, secondo quanto ricostruito dalla direttrice regionale di Trenitalia, «è stato chiesto l’intervento della Polfer che era presente in stazione ma – ha aggiunto Braghieri – non sappiamo poi le scelte della Polfer da cosa siano state dettate».

Monica Serra per “la Stampa” il 20 aprile 2022.  

Alla fine di una giornata di polemiche, a dare a tutti una lezione è stato uno dei passeggeri «speciali» che non è riuscito a salire sul treno per Milano. In un post su Facebook, il ragazzo ha ringraziato gli educatori e accompagnatori dell'associazione Haccade che «hanno gestito alla grande una situazione difficile e complicata». Poi, si è rivolto alle «persone che non volevano scendere dal treno» spiegando che, fosse stato per lui, quel regionale veloce non sarebbe proprio dovuto partire, «così vediamo chi vince, se noi o loro. Il treno avrebbe potuto anche fare un ritardo di venti ore, ma quel che proprio non sopporto è la mancanza di onestà e la maleducazione. Non tollero chi frega gli altri in questo modo».

A ridimensionare, però, le accuse nei confronti dei passeggeri «già ammassati» sul treno 3075 delle 15,48 è Flavia Neri, la responsabile degli educatori che accompagnavano i venticinque ospiti con disabilità cognitiva e psichica tra i 25 e 50 anni costretti a tornare a Milano da Genova con un pullman messo subito a loro disposizione: «La colpa non è di chi viaggiava in una situazione di forte disagio, ma di Trenitalia che non ha saputo garantire il servizio.

Abbiamo acquistato dei biglietti con posti assegnati che però non erano stati riservati o delimitati in alcun modo. Il treno è arrivato in ritardo già stracolmo di gente anche tra una carrozza e l'altra. A queste persone, che ci hanno manifestato il loro dispiacere, è stato chiesto di scendere senza prospettargli un'alternativa, per questo si sono arrabbiate. E anche gli agenti della Polfer intervenuti hanno capito la delicatezza della situazione e provato a tutelare la serenità dei nostri ospiti».

Ma i «disservizi» non sono finiti qui. Come racconta Neri, «l'alternativa offerta è stata un pullman privo di bagni, con condizioni climatiche inadeguate, che ha raggiunto Milano con due ore di ritardo e senza fornirci informazioni sul luogo preciso di arrivo in Centrale, che erano invece necessarie per le famiglie delle persone del gruppo».

Una volta in città, tra l'altro, «il bus si è bloccato a una fermata dell'Atm in piazza Duca D'Aosta dove era impossibile recuperare le valigie in sicurezza, perché il portellone dei bagagli era affacciato sulla strada e non sul marciapiede. Per di più - aggiunge Neri - nessuno ci ha dato una mano: non era presente il personale di assistenza, come da prenotazione». 

A nulla sono servite le numerose telefonate a Trenitalia e Polfer di Giulia Boniardi, presidente dell'associazione Haccade che aveva organizzato il viaggio culturale di quattro giorni a Genova nell'ambito del progetto Turisti per kaos: «Da undici anni portiamo avanti queste iniziative di turismo accessibile e mai ci è capitata una cosa del genere. Non ero con il gruppo, ho coordinato tutto da remoto. Sgradevole è stato anche il comportamento dell'autista del bus che si è addirittura lamentato per i disordini che noi avremmo generato a bordo nell'attesa di un qualche intervento. Siamo riusciti a risolvere la situazione solo grazie alla collaborazione delle famiglie dei nostri ospiti che ci hanno aiutato con i bagagli».

Mentre «la procura di Genova attende gli esposti annunciati per valutare l'eventuale apertura di un fascicolo d'inchiesta», come spiega il procuratore Francesco Pinto, la ricostruzione delle vittime coincide solo parzialmente con quella di Trenitalia che ha già avviato accertamenti interni e verbalizzato le testimonianze dei dipendenti presenti. 

Esprimendo «vivo dispiacere e sdegno per l'accaduto» e annunciando il «rimborso integrale del biglietto», l'azienda di trasporti sostiene che ai passeggeri con disabilità sarebbe stata garantita «la massima assistenza, consegnando kit con snack e bevande, accompagnandoli ai servizi igienici e, successivamente, al pullman per raggiungere Milano». 

Soluzione alternativa che «era già stata predisposta per via del normale affollamento ipotizzabile nel giorno di Pasquetta a cui si sono aggiunti atti vandalici che hanno ulteriormente ridotto il numero di vagoni del regionale. Dove, in ogni caso, è previsto che una quota parte di passeggeri viaggi in piedi». Dalle foto circolate sui social però, almeno a occhio, sembrano un po' troppi.

Eppur si muove. L’ascensore sociale in Italia funziona, ma solo al Nord. Lidia Baratta su L'Inkiesta il 12 febbraio 2022.  

Per la prima volta, uno studio di tre economisti italiani smentisce la fotografia dell’Italia come Paese immobile. In alcune province del Nord Est, le possibilità che hanno i figli di guadagnare più dei genitori superano anche gli Stati scandinavi e molte città americane. Ma al Sud la mobilità tra generazioni è paralizzata. E gli uomini hanno sempre più opportunità delle donne 

«Eppur si muove». Per la prima volta, uno studio condotto da un trio di economisti italiani dimostra che l’ascensore sociale nel nostro Paese non è del tutto bloccato. Anzi, in alcune parti d’Italia, in particolare nel Nord Est, le possibilità che hanno i figli di guadagnare più di padri e madri superano addirittura anche i più virtuosi Paesi scandinavi e molte città americane. Diverso è invece il caso del Sud Italia, dove la mobilità tra generazioni è del tutto paralizzata e lo status familiare resta determinante per il futuro dei figli. A meno che non si decida di emigrare altrove.

La ricerca, pubblicata sull’American Economic Journal: Applied, è firmata da Paolo Acciari, dirigente dell’ufficio statistico del ministero dell’Economia, Alberto Polo, economista alla Bank of England, e Gianluca Violante, professore di economia a Princeton.

La novità, rispetto alle ricerche precedenti e alle classifiche che hanno sempre posizionato l’Italia in coda per la mobilità sociale dei giovani, sono i dati che i tre economisti hanno utilizzato. Ovvero le dichiarazioni dei redditi di genitori e figli di circa 2 milioni di famiglie italiane, di cui sono state osservate le variazioni nel tempo.

«Finora i lavori di ricerca accademici si erano basati sulle indagini sulle famiglie condotte dalla Banca d’Italia, in cui non si possono collegare i redditi di genitori e figli», spiega Gianluca Violante. «Il nostro studio parte invece dai dati amministrativi delle dichiarazioni dei redditi, che sono il gold standard dell’analisi empirica. Su questi dati si basano infatti le rilevazioni sulla mobilità negli Stati Uniti, in Canada e in gran parte dei Paesi scandinavi». In Italia, invece, questi dati sono «difficilmente accessibili dai ricercatori, soprattutto per via della legislazione sulla privacy che è estremamente restrittiva».

Ora, comparando il 730 dei genitori e quello dei figli arrivati all’età di trentacinque anni, i tre economisti hanno potuto osservare che la mobilità intergenerazionale verso l’alto esiste anche in Italia. In più, considerato l’alto tasso di economia sommersa esistente soprattutto in alcune aree del Paese, le cifre sono state anche corrette rispetto alle stime di Bankitalia sul lavoro nero. Ma i risultati non cambiano.

Certo, chi nasce da genitori ricchi è avvantaggiato, con il 33% di possibilità di mantenere lo status sociale di famiglia. Mentre un figlio nato da genitori nella fascia reddituale più bassa ha solo l’11% di probabilità di arrivare da adulto nella fascia più alta.

Una grande asimmetria. Ma questa percentuale varia, e non di poco, anzitutto in base alla provincia e regione di nascita. «I tassi di mobilità verso l’alto sono molto più elevati nel Nord Italia, dove incidono la presenza di scuole di maggiore qualità, famiglie più stabili e condizioni del mercato del lavoro più favorevoli», spiega Violante. «Ma anche nel Settentrione ci sono differenze notevoli: il Nord Est è più mobile rispetto al Nord Ovest».

Il risultato, del tutto inaspettato, è che in alcune città italiane la possibilità di realizzarsi nel lavoro, guadagnando più dei propri genitori, sono anche maggiori di alcune aree metropolitane degli Stati Uniti, da sempre considerati la terra promessa del sogno americano. «Quando li metti a confronto», dice Violante, «si vede che in Italia la possibilità di passare dalle fasce di reddito più basse a quelle più alte è maggiore che negli States. Negli Stati Uniti, invece, c’è maggiore possibilità di superare i padri dalla middle class in poi».

Nello studio, si trova anche una classifica delle province italiane dove l’ascensore sociale funziona meglio. In cima alla top ten ci sono Bolzano, Monza-Brianza e Bergamo. Le peggiori, nella parte più bassa della classifica, sono invece Catania, Palermo e, per ultima, Cosenza. In questo caso, il livello di mobilità è molto simile ad alcune delle città americane in cui l’ascensore sociale è del tutto bloccato, come Atlanta e Charlotte.

«La scarsa mobilità del Sud viene alterata nel momento in cui i figli si muovono dal Sud al Nord», spiega Violante. «In questo caso si hanno tassi di mobilità verso l’alto molto alti. Ma la scarsa propensione a spostarsi, lasciando famiglie e regioni di origine, fa sì che il livello di mobilità intergenerazionale resti comunque basso».

Ma a essere determinante è anche il genere. Dai dati dello studio, emerge che la mobilità verso l’alto è maggiore per i figli maschi. «Questo risultato è dovuto alla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia», spiega Violante. «L’altro dato interessante è che i primogeniti hanno maggiori probabilità di guadagnare più dei genitori se confrontati con i fratelli. Probabilmente perché si investe di più e si pone maggiore attenzione nell’istruzione del primo figlio».

Conta anche la professione dei genitori: chi è figlio di imprenditori e lavoratori autonomi ha maggiore possibilità di risalire la scala sociale. Tra le variabili considerate dagli economisti ci sono i tassi di disoccupazione, l’incidenza di divorzi e separazioni, la presenza della criminalità e il capitale sociale.

Ma il fattore decisivo resta la qualità del sistema scolastico. La scuola, osservando le correlazioni statistiche, è quella che più delle altre determina il futuro dei giovani in termini di posizioni professionali e guadagni futuri. In particolare, sottolinea Violante, «sono decisive le scuole materne e le elementari, ancora più delle scuole superiori. I primi anni di formazione del bambino nella fascia 0-7 hanno effetti permanenti su quanto guadagnerà in futuro».

Marche, dopo il terremoto chiama la madre ma era morta da due mesi. Redazione Cronaca su La Repubblica il 10 Novembre 2022.

Il cadavere dell’anziana, che viveva da sola ad Ancona, era in avanzato stato di decomposizione

Ha chiamato la madre dopo aver sentito in televisione della forte scossa di terremoto che ieri ha fatto tremare di nuovo le Marche, ma l'anziana, 78 anni, non rispondeva alle ripetute telefonate. Così ha deciso di dare l'allarme al 112, convinta che il terremoto potesse aver creato problemi alla donna che viveva sola. Quando la polizia è arrivata all'indirizzo fornito la macabra scoperta: l'anziana era morta da almeno due mesi.

Il cadavere decomposto

Il corpo della 78enne era nella camera da letto del suo appartamento in via della Ricostruzione: era in avanzato stato di decomposizione. Il medico legale intervenuto sul posto ha ipotizzato che il decesso possa risalire ad almeno due mesi fa: nessuno in queste lunghe settimane ha cercato la donna né si è accorto della sua assenza.

Il rapporto conflittuale tra madre e figlia

Stando a quanto si apprende la donna, originaria di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, viveva ormai da anni ad Ancona, ma nella cittadina marchigiana non aveva parenti. Viveva sola nel suo appartamento e con l'unica figlia che era rimasta nella terra d'origine, i rapporti si erano ormai freddati, a causa, sembra di divergenze caratteriali.

Vittorio Feltri, "era solo carne in putrefazione": il dramma che tutti ignorano. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 novembre 2022

Giovanni Rinaldo, 82 anni, nato ad Ancona e ancora lì residente sebbene campasse nel capoluogo pugliese già da un bel pezzo, è passato su questa terra e questa terra ha lasciato senza fare il benché minimo rumore. I vicini, i parenti, lo Stato, con il dispiegamento di tutte le sue forze di polizia, dal nucleo volanti alla scientifica, passando per vigili del fuoco e medici del sistema sanitario nazionale, e anche noi giornalisti, pure noi, ci siamo improvvisamente accorti di Giovanni Rinaldo in un pigro e noioso pomeriggio domenicale, nel mese di novembre, anno 2022. Ci siamo accorti di Giovanni Rinaldo quando questi non era più una persona bensì un ammasso di carni e viscere in putrefazione - anzi, dovrei dire, in avanzato stato di decomposizione -, già invaso massicciamente da larve e vermi.

Giovanni Rinaldo non viveva da eremita, sul cucuzzolo di una montagna remota, in una località sperduta dove non si aggira anima viva e il telefonino diventa irraggiungibile. Egli dimorava nel pieno centro di Bari, tra un ammasso di appartamenti, pianerottoli, porte, finestre, negozi, tra vociferare di gente di ogni età, pianti, urla, risate e brulicare forsennato di individui ad ogni ora del giorno e della notte, nessuno dei quali però si è accorto che Giovanni Rinaldo era morto poiché nessuno si era mai accorto che Giovanni Rinaldo era stato vivo. Vivo ma invisibile. Vivo ma impercettibile. Così, quando nessuno lo ha più visto uscire di casa, passeggiare nei dintorni, recarsi al mercato o in farmacia, andare a ritirare la pensione, semplicemente passare per strada, nessuno ci ha fatto caso. Non una visita, non una chiamata, non un appuntamento. Non un amico, non un familiare, di primo, secondo o ventesimo grado, si è preoccupato di quel silenzio tombale, di quella assenza improvvisa, di questa anomalia. Almeno fino a domenica pomeriggio, quando la figlia ha allertato il 118 in quanto il babbo non rispondeva alle sue telefonate insistenti. Ma erano trascorsi già oltre due mesi, oltre sessanta giorni, oltre otto settimane dal trapasso di Giovanni.

Dunque, allorché gli agenti sono piombati in quella abitazione, sita nel cuore di Bari, hanno trovato ad accoglierli un cadavere rinsecchito, rigido come un vecchio pezzo di legno, fermo lì ad attendere da oltre due mesi, oltre sessanta giorni, oltre otto settimane, da tutta quanta una vita in verità, che qualcuno di accorgesse di lui. Ignoriamo se Giovanni Rinaldo sia stato solo o meno nel corso della sua esistenza, se si sia sentito solo, come capita ad ognuno di noi, pure a quelli che soli, almeno in apparenza, non sono, però sappiamo che è stato in totale solitudine nella sua vecchiaia e nel momento del decesso. E questa è una delle tragedie più gravi che possano accadere ad un essere umano. Drammi sempre più frequenti e non solamente perché cresce di anno in anno il numero delle persone che vivono da sole, magari vedove, ma anche perché cresce di anno in anno l'indifferenza collettiva. 

A fine ottobre un altro ottantenne è stato ritrovato nell'appartamento in cui abitava, a Cavagnolo, Torino, in stato di decomposizione. Era deceduto da almeno una settimana. Stavolta a dare l'allarme sono stati i vicini a causa del cattivo odore che invadeva gli spazi comuni dello stabile. Qualche giorno dopo una scoperta simile è avvenuta a Bordighera. I primi di novembre, invece, a Scalea, Cosenza, il corpo decomposto di un settantacinquenne è stato rinvenuto nella casa dove l'uomo, separato, abitava. Il 19 ottobre, a Treviso, un pensionato di settant' anni, Dorino Dupré, è stato trovato tra le mura domestiche dopo parecchio tempo dalla sua morte. E qui mi fermo.

Torino, cadavere mummificato in casa: è di un uomo di 48 anni morto da almeno sei mesi. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 14 giugno 2022.

Mario viveva da solo nell’alloggio di famiglia in Barriera di Milano: dopo la scomparsa dei genitori si era chiuso in se stesso. 

Mario, 48 anni, era un uomo solitario e con molti problemi. Disoccupato, pochissimi amici, viveva nell’alloggio di famiglia in Barriera di Milano. Martedì pomeriggio (14 giugno) i vigili del fuoco, dopo la chiamata allarmata dei vicini che non lo vedevano (almeno) da prima di Pasqua, hanno sfondato la porta dell’appartamento al terzo piano di via Leinì e lo hanno trovato senza vita, in avanzato stato di decomposizione, praticamente mummificato. Secondo il medico legale era morto da diversi mesi, probabilmente per cause naturali, ma nessuno si era preoccupato per la sua assenza .

«Lui in questo palazzo era cresciuto — raccontano i vicini —. Il padre è mancato da qualche anno e con la madre c’erano stati parecchi dissapori. La signora Maria era il collante di quella famiglia, ma da quando è andata in una casa di riposo la situazione è precipitata. Lo incontravamo ogni tanto per le scale, quando scendeva per andare a buttare la spazzatura o comprare la solita pizza in corso Vercelli. Lui non dava confidenza a nessuno, buongiorno e buonasera e la conversazione era finita lì».

Qualcuno racconta che in passato Mario abbia provato a fare il bidello in una scuola, ma da tempo non lavorava più: percepiva un sussidio che gli permetteva di arrivare alla fine del mese. Dopo la morte della madre, di cui nessuno aveva avuto notizia, Mario si era chiuso in se stesso. Gli inquilini della vecchia casa di ringhiera non hanno fatto troppo caso alla buca delle lettere, piena di bollette e avvisi di notifica. La sorella maggiore, con la quale aveva interrotto ogni rapporto, ha continuato a pagare in anticipo tutte le spese condominiali, ma nei giorni scorsi il cattivo odore proveniente dall’alloggio ha messo in allarme i vicini. L’amministratore ha avvisato il 112 e in via Leinì sono arrivati i vigili del fuoco, assieme alla polizia e a un’ambulanza della Croce Verde di Villastellone a sirene spiegate.

Purtroppo per Mario non c’era più niente da fare. È morto da solo, come ha vissuto quasi tutta la sua vita e nessuno se ne è accorto. La porta era chiusa dall’interno e nell’appartamento e sul corpo non sono state trovate tracce violenza o colluttazione. Sulla vicenda indaga la Questura, ma non sembra esserci nessun giallo. Solo l’ennesimo dramma della solitudine, consumato in un palazzo di periferia.

Famiglia morta in casa, l’autopsia: padre ucciso da un malore, madre e figlio dalla fame. Chiara Nava il 05/05/2022 su Notizie.it.

L'autopsia sui corpi della famiglia morta in casa ha rivelato che il padre è stato ucciso da un malore, mentre la madre e il figlio sono morti di fame.

I risultati dell’autopsia effettuata sui corpi della famiglia morta in casa a Macerata, hanno rivelato che il padre è stato ucciso da un malore, mentre la madre e il figlio sono morti di fame. 

Le conclusioni a cui sono arrivati Roberto Scendoni, medico legale, e Rino Froldi, tossicologo forense, dopo l’autopsia condotta sui corpi della famiglia morta in casa a Macerata, svelano che Eros Canullo è morto a causa di un malore, mentre la moglie Angela Maria Moretti e il figlio Alessandro sono morti di fame. Si tratta di un tassello essenziale per ricostruire quanto è accaduto. La famiglia era molto conosciuta. Eros Canullo, di 80 anni, era stato un imprenditore a Santa Croce.

Angela Maria Moretti, di 76 anni, era stata una logopedista per l’Anffas. Il figlio Alessandro, di 54 anni, da ragazzo era stato vittima di un terribile incidente stradale che lo aveva reso invalido. 

Una storia di isolamento e solitudine 

La famiglia, con il passare del tempo, si era chiusa in se stessa, in un isolamento che l’aveva allontanata da amici e parenti. A settembre 2020, Angela Maria aveva avuto un ictus, che l’aveva bloccata a letto.

Il marito si occupava di tutto, chiedendo aiuto alla Croce Verde quando il figlio cadeva e lui non riusciva ad alzarlo. Sanitari e un amico di famiglia avevano fatto segnalazione per il degrado crescente della casa in cui l’80enne si prendeva cura dei due invalidi. La scorsa estate Eros aveva deciso di mettere in vendita una casa e si era rivolto all’agenzia. Dopo un po’ di tempo, non riuscendo più a rintracciarlo, i dipendenti dell’agenzia avevano contattato i carabinieri.

Il 5 agosto una pattuglia è andata a controllare, ma nessuno ha risposto al citofono. I titolari della pizzeria avevano spiegato che la famiglia trascorreva sempre l’estate al mare, per cui le ricerche si erano chiuse. 

Famiglia trovata morta a Macerata

A settembre, la sorella di Angela Maria, che vive a Milano, dopo aver cercato di parlare con la sorella per settimane, aveva segnalato la sua scomparsa. Il 6 settembre erano stati trovati i tre corpi senza vita in avanzato stato di decomposizione nella villetta in cui vivevano. Mentre la squadra mobile avviava le indagini, il sostituto procuratore Ciccioli aveva incaricato il medico legale Scendoni e il professor Froldi per scoprire le cause del decesso e la data. I consulenti hanno stabilito che Eros Canullo è stato ucciso da un malore, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. Per la moglie e il figlio non ci sono tracce di lesioni o sostanze tossiche, per cui l’ipotesi è che siano morti di fame, rimasti senza l’unica persona che si prendeva cura di loro. La procura dovrà valutare se ci siano responsabilità per quanto accaduto. 

Padre morto di ictus, madre e figlio disabili morti di fame. Un vicino: “Forse avremmo potuto aiutarli”. Ilaria Minucci il 09/05/2022 su Notizie.it.

Padre morto per ictus, madre e figlio disabili morti di fame e sete: tragedia a Macerata per la famiglia Canullo. La testimonianza di un vicino.

Padre morto per ictus, madre e figlio disabili morti di fame e sete: tragedia a Macerata per la famiglia Canullo. Sul drammatico accaduto, è intervenuto un vicino delle tre vittime.

Padre morto di ictus, madre e figlio disabili morti di fame e sete

I corpi senza vita di Ennio Canullo, di Maria Angela Moretti e di Alessandro Canullo sono stati rinvenuti a circa due dalla loro morte, avvenuta presso la villetta di Macerata in cui la famiglia Canullo viveva.

Sulla base delle ricostruzioni sinora effettuate, pare che Ennio Canullo, 80 anni, sia stato stroncato da un improvviso malore mentre sua moglie Maria Angela Moretti, 77 anni, e suo figlio Alessandro Canullo, sarebbero morti per inedia.

Madre e figlio, infatti, erano entrambi affetti da gravi disabilità.

La drammatica scoperta dei tre cadaveri risale a settembre 2021, quando la sorella di Maria Angela ha contattato le forze dell’ordine non riuscendo a mettersi in contatto con la donna per settimane.

Dopo aver ricevuto la segnalazione, le autorità locali si sono recate a borgo Santa Croce nella giornata del 6 settembre 2021 e hanno rinvenuto i corpi senza vita dei tre componenti della famiglia Canullo in ormai avanzato stato di decomposizione.

I resti di padre, madre e figlio, poi, sono stati sottoposti ad autopsia. In questa fase, il medico legale Roberto Scendoni e il tossicologo Rino Fro hanno confermato che l’80enne Ennio Canullo è morto per un ictus mentre madre e figlio disabili sono morti di fame e sete. La disabilità della 77enne si era manifestata nel 2020 a seguito di un ictus mentre, per quanto riguarda il figlio della coppia, il 54enne era rimasto invalido dopo essere rimasto vittima di un incidente stradale da giovane.

In seguito alla morte dell’80enne, né la madre né il figlio sono riusciti a chiedere aiuto e nessuno ha mai bussato alla loro porta per sapere come stessero.

La testimonianza di un vicino: “Forse avremmo potuto fare qualcosa per aiutarli”

La tragica vicenda è stata recentemente affrontata a Storie Italiane, programma televisivo trasmesso su Rai 1. Ai microfoni della trasmissione, è intervenuto uno dei vicini della famiglia Canullo che, commentando l’accaduto, ha ammesso: “Siamo i vicini più prossimi, mi chiedo se avremmo potuto fare qualcosa in più. Ancora adesso provo dispiacere e mi commuovo perché è una tragedia che ci ha toccato da vicino”.

L’uomo ha anche raccontato che, con il trascorrere del tempo, la famiglia Canullo si era isolata e viveva il proprio quotidiano con estrema difficoltà. A proposito dei coniugi Canullo e del figlio Alessandro, poi, il vicino ha aggiunto: “Non so se potevamo fare qualcosa per aiutarli. Vedevamo sempre tutto chiuso e le luci esterne che la notte si accendevano. Per questo motivo non ci siamo posti l’interrogativo sul perché non li vedessimo. Erano soliti in estate andare al mare a Porto Recanati per poi spostarsi alla casa in montagna e tornavano a fine agosto. Eros faceva la spesa, cucinava, puliva, portava il figlio a fare riabilitazione. Faceva tutto lui, era una brava persona, era l’uomo di casa e, posso dire, non si è mai lamentato della situazione familiare, era una persona molto riservata, così come la famiglia. Una volta, a febbraio, mi telefonò perché suo figlio era caduto e lo aiutai a rimetterlo su. Ho visto un po’ di abbandono in quella casa. Gli suggerii di farsi dare una mano in casa da una signora, ma lui mi rispose che ce la faceva tranquillamente da solo”.

La tragica fine della famiglia di Macerata: ictus al padre, moglie e figlio disabili muoiono di fame. Il Tempo il 06 maggio 2022.

«Vivevano in uno stato di abbandono psicofisico e andavano aiutati»: così l’avvocato Maurizio Gabrielli, dopo aver letto la perizia autoptica, disposta dalla procura di Macerata e firmata dal medico legale Roberto Scendoni con il quale ha collaborato il tossicologo Rino Froldi, sui corpi di Eros, Angela Maria e Alessandro Canullo, ritrovati in avanzato stato di decomposizione nella loro abitazione di Borgo Santa Croce a Macerata il 6 settembre ma morti «tra la fine di giugno e i primi di luglio».

Il legale assiste Nazzareno Russo, figlio di Silvana e sorella di Eros, morta a inizio dello scorso anno. Marito, moglie e figlio sono morti per cause naturali: Eros, 80enne, è stato stroncato da un ictus ma non è morto subito, mentre il figlio Alessandro, 54 anni, vittima di un incidente stradale per le cui conseguenze necessitava di cure continue, e la moglie Angela Maria, 76enne immobilizzata a letto, sono morti di inedia. «Tutti e tre i familiari sono morti per cause naturali», ribadisce l’avvocato Gabrielli, che nei prossimi giorni potrebbe chiedere il dissequestro della villetta dove vivevano i Canullo.

A dare l’allarme era stata, il 6 settembre scorso, la sorella di Angela Maria, che vive a Milano: nessuno le rispondeva al telefono e ha chiamato i soccorsi. Una volta in casa, i vigili del fuoco hanno trovato i tre corpi senza vita: Eros in bagno, la moglie Angela Maria sul suo letto e il figlio Alessandro ai piedi del letto della madre. Nel corso delle indagini, condotte dal capo della squadra mobile di Macerata, Matteo Luconi, e coordinate dal sostituto procuratore Stefania Ciccioli, è emersa anche la storia dei Canullo: una famiglia benestante diventata poi fragile e isolata per via dell’incidente del quale è stato vittima Alessandro, all’epoca poco più che ventenne: prima il coma e poi una complicata riabilitazione, che gli aveva consentito di riprendere a camminare ma sempre con l’aiuto del padre.

Macerata, madre e figlio disabili morti in casa di fame e sete. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 6 Maggio 2022.  

Sei mesi dopo il ritrovamento in una villetta di Borgo Santa Croce dei corpi senza vita di due anziani coniugi e del figlio, l'autopsia racconta una storia drammatica di solitudine: il padre, che si occupava della famiglia, sarebbe morto per cause naturali lasciando senza alcuna assistenza i familiari di cui nessuno ha mai cercato notizie.

La storia è ancora più tragica di quanto sembrava a settembre quando, in una villetta di Borgo Santa Croce, a Macerata vennero trovati i corpi senza vita di tre persone, l'ottantenne Eros Canullo, la moglie Angela Maria Moretti, 76 anni e il figlio Alessandro, 54 anni, questi ultimi due invalidi. Morti non si sa bene perchè. Avvelenamento da monossido di carbonio, si ipotizzò. Ma ora l'autopsia e gli esami tossicologici ordinari dalla Procura di Macerata rivelano una storia drammatica di abbandono e solitudine e affermano che, morto per primo il padre ottantenne che si occupava dei due congiunti, madre e figlio ( senza alcuna assistenza e senza che nessuno si mettesse mai in contatto con loro) sono morti, giorni dopo, di fame e di sete.   

Adesso toccherà alla Procura di Macerata andare avanti nell'inchiesta e valutare se ci sono responsabilità per la fine di questa famiglia le cui condizioni di isolamento erano state segnalate da un conoscente ai servizi sociali del Comune a maggio dello scorso anno senza che, però, a quanto sembra, nessuno sia intervenuto.

Quello che a questo punto appare assai probabile dunque è che Eros Canullo, l'ottantenne imprenditore molto conosciuto in zona per la fonderia di cui era stato titolare, sia morto per cause naturali lasciando senza più alcuna assistenza la moglie costretta a letto dopo l'ictus che l'aveva colpita diversi mesi prima e il figlio Alessandro impossibilitato a muoversi per le gravi conseguenze di un incidente stradale che aveva avuto a metà degli anni Novanta. Dopo alcuni mesi in coma si era ripreso ma era costretto sulla sedia a rotelle ed era l'anziano padre ad occuparsi di tutto e di tutti in quella villetta in cui da molto tempo non entrava più nessuno. Amici e familiari della famiglia si erano allontanati ormai da tempo.

A dare l'allarme a settembre scorso era stato da Milano un familiare dei Canullo che da mesi non riusciva a mettersi più in contatto con loro. Da qui l'intervento dei vigili del fuoco e la tragica scoperta dei corpi degli anziani coniugi e del figlio, probabilmente morti da prima dell'estate visto che in casa i riscaldamenti erano ancora accesi.

Sulla vicenda anche il Comune di Macerata ha aperto un'inchiesta interna per valutare eventuali responsabilità dei servizi sociali.  

Dal giornale.it il 7 maggio 2022.

Tre corpi senza vita. C'è il dramma della solitudine dietro alla morte di Eros Canullo, 80 anni, della moglie Angela Maria Moretti, di 76 anni e del figlio Alessandro, di 54 anni, trovati cadaveri nella loro villetta di Borgo Santa Croce, a Macerata. 

Dopo mesi di indagine si è scoperto, infatti, che non si è trattato di avvelenamento da monossido di carbonio. Mamma e figlio sono stati stroncati dalla fame e dalla sete, dopo che Eros, ucciso da un malore, non poteva più occuparsi di loro. Il corpo dell'uomo a settembre era stato trovato a terra in bagno, mentre quello della moglie sul letto e di Alessandro ai piedi del letto della madre. «Tutti e tre i familiari sono morti per cause naturali», ha detto ieri l'avvocato Gabrielli.

A dare l'allarme era stata, il 6 settembre scorso, la sorella di Angela Maria, che vive a Milano: nessuno le rispondeva al telefono e così ha chiamato i soccorsi. Una volta in casa, i vigili del fuoco hanno trovato i tre corpi. Nel corso delle indagini, condotte dal capo della squadra mobile di Macerata, Matteo Luconi, è emersa anche la storia di questa famiglia benestante, diventata poi fragile e isolata per via dell'incidente del quale è stato vittima Alessandro, all'epoca poco più che ventenne: prima il coma e poi una complicata riabilitazione, che gli aveva consentito di riprendere a camminare ma sempre con l'aiuto del padre, noto imprenditore della zona.

La mamma, invece, era costretta a letto dopo l'ictus che l'aveva colpita mesi prima. «Vivevano in uno stato di abbandono psicofisico e andavano aiutati», spiega l'avvocato Gabrielli, dopo aver letto la perizia autoptica firmata dal medico legale Roberto Scendoni sui cadaveri, ritrovati il 6 settembre in avanzato stato di decomposizione. I tre molto probabilmente erano morti tra la fine di giugno e i primi di luglio. Sulla vicenda ora il Comune di Macerata ha aperto un'inchiesta interna per valutare eventuali responsabilità dei servizi sociali.

Ivan, 30 anni, che dormiva in tenda al Parco Nord: aveva perso tutto, il quartiere lo salva. Elisabetta Andreis su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.

Un giorno una ragazza si è fermata ad ascoltare la sua storia e gli ha creduto. Ha organizzato per lui un crowdfunding e da quel momento si è scatenata l’onda di solidarietà con le social street in prima linea. 

Tatuata sulle dita della mano la scritta «Life». Non è uno che aspetta passivo l’aiuto degli altri Ivan Lorusso, 30 anni. Ha troppa voglia di riprendersi e di vivere, anche se per i casi del destino due anni fa è finito a terra. Perso il lavoro, persa la casa, rotti anche i legami familiari.

Il trentenne ha dormito in tenda nel mezzo del parco Nord fino a quando — l’inverno scorso — una famiglia non gli ha prestato un camper. Pochi giorni fa, poi, si è fatta avanti una signora che, senza chiedere nulla in cambio, l’ha ospitato a casa sua. Se lo sono presi sotto l’ala lei, la social street San Gottardo Meda Montegani e il gruppo Noi di Niguarda. Se il passaparola funziona oggi più che mai, è perché il lockdown ha insegnato la duplice lezione: il territorio è sensibile a chi ha bisogno, e chi ha bisogno ha imparato a chiedere in modo efficace.

Quanto a Ivan, la storia è presto detta. Abbandonato dalla mamma quando era bambino, è stato cresciuto da una famiglia affidataria che gli ha voluto bene. A 18 anni, però, lui sente la necessità di ritrovare la sua madre biologica. Sceglie di tornare a vivere con lei. Le cose drammaticamente non funzionano. Ivan lascia Milano, parte per la Puglia dove vive il padre, ma la situazione è complicata anche lì e lui risale verso Nord. «Ho fatto più lavori di quanti sono i miei anni — dice — e c’è poco da scherzare: erano tutti impieghi in nero, senza contratto. Scaffalista, magazziniere, lavapiatti, aiuto cuoco, panettiere. C’è gente che si scoccia a lavorare il sabato, la domenica o le notti (qui l’articolo sul personale introvabile, ndr). Io, al contrario, faccio carte false perché mi prendano anche per i turni più scomodi. Magari sono anche retribuiti un po’ di più». All’ultimo aveva trovato posto in un supermercato milanese e lì è restato parecchio tempo. Ma in pieno lockdown il punto vendita ha chiuso e lui si è trovato senza paracadute. Dopo mesi di insolvenza viene sfrattato. La mamma biologica, visti i rapporti freddi, gli toglie la residenza e lui resta d’un tratto senza lavoro e senza casa.

La prima notte all’addiaccio se la ricorda con un brivido. Dopo un po’ riesce a procurarsi una tenda azzurra, la monta nel mezzo del Parco Nord. «Mi isolavo da tutti perché mi vergognavo — racconta —. Volevo farcela da solo ma un giorno ho detto: adesso basta». Una ragazza che portava da quelle parti i cani a passeggiare si è fermata ad ascoltare la sua storia e gli ha creduto. Ha organizzato per lui un crowdfunding e da quel momento si è scatenata l’onda di solidarietà con le social street in prima linea.

«Fino a un secondo prima non esistevo e, come per magia, in un attimo c’era gente che si prodigava per me. Mi riconoscono per strada, è emozionante». Qualcuno lo ha aiutato con le pratiche per i documenti, altri gli hanno offerto taglio di capelli e vestiario pulito, altri ancora gli hanno regalato una bicicletta, la famiglia gli ha prestato il camper e adesso una signora addirittura una casa in cui abitare.

Ivan cerca di ricambiare e racconta: «Aiuto con tutto quello che posso offrire, le mie braccia. Faccio la spesa, cucino, chiedo in cosa posso rendermi utile. Nel tempo restante cerco lavoro». L’esperienza trasversale non gli manca, la volontà ancora meno. Sul gruppo Facebook della social street ha scritto: «Volevo ringraziarvi tutti per starmi vicino. Se vedete annunci di lavoro oppure qualcuno vi chiede personale me lo fate sapere? È una cortesia che vi chiedo, grazie di cuore». Degli altri, dice che si fanno in quattro per lui. Ma, a sentire la social street, è anche lui che si fa in quattro per loro.

Dramma a Como, Marinella Beretta morta sulla sedia della cucina: la scoperta dopo due anni. Il Tempo il 07 febbraio 2022.

Morta in casa da sola nella sua villetta vicino Como dopo essere stata colta probabilmente da un malore. Marinella Beretta, 70 anni e originaria di Erba, era seduta sulla sedia della cucina quando si è sentita male e lì è rimasta per due anni. L'anziana non aveva parenti, né amici. Viveva da sola e i vicini di casa non la vedevano da mesi ma - secondo le prime testimonianze - avevano pensato che con la pandemia si fosse trasferita. Gli accertamenti della polizia di Como sono ancora in corso, ma l’ipotesi è quella di un dramma della solitudine. Quando i poliziotti e i vigili del fuoco sono entrati nell’appartamento hanno trovato il corpo ormai mummificato della donna, ancora seduta sulla sua sedia in cucina. Sul corpo della donna saranno effettuati i necessari accertamenti, ma gli inquirenti sembrano convinti che la settantenne sia morta per cause naturali. Pare che nessuno avesse avuto più avuto notizie della pensionata dal settembre del 2019.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.

Per due anni Marinella Beretta è rimasta seduta sulla sedia del suo tinello, in una villetta alle porte di Como. Per due anni nessuno l'ha disturbata. Non un venditore di pentole, un vicino di casa, un parente alla lontana. Nessuno. 

Marinella era la solitudine fatta persona. Come tanti anziani nella sua situazione, aveva ceduto la nuda proprietà e tenuto per sé l'usufrutto. In un giorno imprecisato dell'autunno del 2019 si è seduta su quella sedia, dove un malore le ha staccato la spina. La morte istantanea che tutti sognano, la morte solitaria che tutti temono.

 Qualche mese dopo è arrivata la pandemia e i vicini hanno pensato che Marinella si fosse trasferita, ma evidentemente la conoscevano talmente poco da ignorare che non aveva altri affetti presso cui rifugiarsi. C'è voluto il vento di questi giorni per attirare l'attenzione non tanto su di lei, ma sugli alberi del suo giardino. 

Temendone la caduta, qualcuno ha chiamato il nudo proprietario, lui ha cercato Marinella e i vigili del fuoco hanno scassinato la porta, trovando sulla sedia del tinello quel che ne restava.

In molti di noi è ancora presente la memoria delle famiglie ramificate e caotiche dell'Italia contadina, al cui interno le solitudini si sopportavano e accudivano a vicenda. Invece la famiglia moderna è ridotta a un pugno sempre più stretto: due coniugi e un paio di figli, quando va bene. E quando non ci sono nemmeno i coniugi e i figli, resta Marinella. Si muore soli. E si vive soli, che è quasi peggio.

Marco Ventura per "il Messaggero" l'8 febbraio 2022. 

Grazie al vento. L'hanno scoperta grazie al vento. La bufera rischiava di far schiantare gli alberi del giardino in quella villetta di una frazione di Como. A guardarla dall'alto, una casetta in mezzo a una miriade di altre casette, incastonata nella città con la sua vita minuziosa che scorre, un tessuto sociale di persone le cui esistenze sono intrecciate in mille modi.

Ma non quella di Marinella Beretta, 70 anni, pensionata: l'hanno trovata seduta in cucina, o nel salotto, a seconda delle cronache discordi, morta da più di due anni. Nessuno se n'era accorto. È successo che il vento soffiava forte e minacciava i fusti, i cespugli, e i vicini si sono preoccupati, e uno di loro ha avvertito lo svizzero che aveva comprato la casa.

Lei, Marinella, aveva conservato l'usufrutto, il diritto di restare tra le mura domestiche fino alla fine dei propri giorni. Nel settembre 2019 Conte formava il Conte bis, non c'era ancora la Brexit, il Covid covava in Cina senza che nessuno lo sapesse.

Marinella è morta prima di tutto questo, fulminata da una morte che gli inquirenti definiscono naturale, non vittima di una rapina, omicidio, o suicidio. Il semplice scorrere della vita che mentre continua a srotolare gli eventi pubblici, si interrompe così, all'improvviso, e ferma il tempo attraversato da ciascuno in solitudine. Montaigne diceva che si muore non perché si è malati, ma perché si è vivi. 

Ma si può anche morire in vita, e questa è la tristezza più grande. Nessuno si è chiesto perché Marinella non andasse più al supermercato a fare la spesa, o avesse cessato di pagare le bollette e fosse scomparsa dal radar di quanti le abitavano a un passo. E solo la delicatezza verso gli alberi, non verso di lei, ha indotto qualcuno a telefonare allo svizzero. E poi ai vigili del fuoco. Viveva da sola nella sua villetta, Marinella.

Forse, quando è morta, la televisione era accesa, forse è rimasta accesa a lungo. Come capitò anni fa a un americano che fu trovato davanti al televisore acceso dopo un anno in cui era successo di tutto. La storia non si ferma, i cambiamenti si succedono nei notiziari davanti agli occhi spenti di chi non è più in grado di vedere, sentire, pensare Nelle cronache questa morte, e altre simili, diventano tragedie della solitudine. 

Con il Covid, con l'abitudine alle barriere protettive e alla vita dissociata, dev' esser sembrato naturale che Marinella si fosse rifugiata nella propria casa senza più mettere il naso fuori. Lo sappiamo: la pandemia ha reso la vita delle persone sole, e anziane, ancora più invisibile. Marinella a quanto pare non aveva più parenti, né amici. A Londra, fece scalpore la notizia di una donna trovata pure lei morta da due anni.

Persiane e vetri delle finestre blindati. Posta e bollette accumulate davanti alla porta. Si chiamava Joice Vincent e l'immagine plastica della sua solitudine è l'ortopanoramica che ne ha certificato la morte, perché lei ormai era diventata uno scheletro e fu riconosciuta solo dai denti.

Le storie di solitudine, e di morte, laddove la morte, evento solitario per eccellenza, lo diventa ancora di più per via della graduale rottura di tutti i residui legami con la società, sono in realtà più comuni di quanto non s' immagini. Ci chiediamo a volte che fine ha fatto qualcuno che conoscevamo, e scopriamo per caso le vicissitudini di vecchi amici che abbiamo perso di vista.

Per caso, grazie al vento, sappiamo oggi che due anni fa ci ha lasciati la povera Marinella. Di lei leggiamo che era originaria di Erba, che aveva venduta la casa in via privata Comun Oppidum a Prestino, periferia di Como, e che la bufera aveva preoccupato i vicini perché piegava i fusti secolari, mentre lei non finiva più di morire perché nessuno ancora sapeva che era morta. E al termine della storia, il mistero della vita invisibile di Marinella dietro il cancello chiuso della sua villetta, ci impartisce una lezione terribile: la vera tristezza non è che gli altri non si siano accorti della sua morte. È che non si siano accorti che Marinella Beretta era viva.

Altro caso dopo quello di Marinella Beretta, trovata mummificata dopo 2 anni. Il dramma della solitudine della “maestra di tutti”: Ada trovata morta in casa in stato di decomposizione. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.

Assicurano che nessuno l’avesse mai dimenticata, nessun collega e nessun alunno. La maestra Ada era stata per 41 anni una figura di riferimento della scuola dell’infanzia Ilaria Alpi di Piazza Amendola a Oste di Montemurlo, in provincia di Prato. È stata rinvenuta morta in casa, da alcune settimane almeno, a 67 anni. Nessuno aveva avuto notizie da lei da tempo. Un altro “dramma della solitudine”, come li chiamano i giornali – soltanto una settimana fa il caso di Marinella Beretta, 70enne trovata mummificata in casa, a Como.

Faia era andata in pensione da quattro anni e da allora viveva una vita piuttosto riservata. Aveva perso suo marito da tempo. La coppia non aveva avuto figli. A quanto pare si vedeva poco in giro. Manteneva comunque un contatto, anche se probabilmente saltuario, con le sue ex colleghe. A Il Corriere Fiorentino alcune di queste hanno raccontato di aver provato a contattare la donna in occasione delle festività natalizie. Nessuna risposta. Così è partito l’allarme, anche se dopo parecchi giorni.

Non è escluso quindi che Faia sia morta anche oltre un mese fa. Il corpo è stato ritrovato dai vigili del fuoco in stato di decomposizione, nel pomeriggio di martedì scorso. Sul posto sono intervenute anche le volanti della polizia. Ada Faia era molto nota a Oste. Benvoluta. Aveva cominciato giovanissima come insegnante di ruolo nel 1977 ed era sempre rimasta alla Ilaria Alpi. Amava molto gli animali, viveva con diversi gatti. Aveva ricevuto nel 2018 un riconoscimento dal Comune di Montemurlo per la sua attività.

E proprio il sindaco del Comune di Montemurlo, Simone Calamai, ha espresso il proprio cordoglio tramite i social: “Tutti coloro che hanno conosciuto Ada in questi decenni la ricordano come una persona e un’insegnante speciale, sempre solare, sorridente e allegra. Amava tanto i bambini e con loro ci sapeva davvero fare, come mi hanno riferito commosse tante sue ex colleghe. Indubbiamente Ada è stata una figura importante per la crescita di tante generazioni di ostigiani e mancherà a tutta la nostra comunità. Dispiace sapere che Ada sia morta da sola, anche se nessuna delle sue colleghe l’aveva dimenticata, ma, purtroppo dopo la pensione, Ada si era molto chiusa in sé stessa”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da tgcom24.mediaset.it il 31 marzo 2022.

Dopo aver suonato inutilmente alla porta per diversi minuti, alcuni funzionari Inps, incaricati di un controllo in un appartamento in centro a Trieste, insospettiti, hanno allertato i soccorsi e polizia locale. Entrati in casa, la macabra scoperta: all'interno c'era il cadavere mummificato di una donna, nata nel 1933, e del suo gatto. 

La donna sarebbe morta anni fa. Il corpo trovato, infatti, era irriconoscibile. La donna aveva una sorella con la quale da tempo i rapporti si erano interrotti. I medici hanno trovato alcuni prodotti alimentari scaduti nel 2018, un dettaglio che può aiutare nel risalire a una data orientativa del decesso.

Donna trovata morta in casa dopo 2 anni: tre parenti rinunciano all’eredità. Debora Faravelli il 02/04/2022 su Notizie.it.

Non c'è ancora un erede della donna trovata morta nella sua villa dopo due anni: i tre parenti che si erano fatti avanti hanno rinunciato all'eredità. 

I tre parenti che si erano fatti avanti per l’eredità di Marinella Beretta, la donna di settant’anni trovata morta in casa a Como a distanza di due anni dal decesso, hanno deciso di rinunciarvi per motivi non noti.

Il proprietario della villetta a cui era stato lasciato l’usufrutto a vita alla donna si è lasciato come termine ultimo Pasqua per trovare un altro erede.

Donna trovata morta in casa: parenti rinunciano all’eredità

A renderlo noto è stato l’avvocato Alberto Timponi, legale del proprietario dell’abitazione. Dopo la rinuncia dei tre lontani parenti (forse hanno ritenuto i costi per incassare l’eredità fossero maggiori dei benefici), ci sarebbe ora un altro possibile erede di cui bisogna però verificare, tra i vari uffici anagrafici, l’esistenza reale di un legame parentale con Marinella.

Se ciò non avvenisse e nessuno si sarà fatto avanti per l’eredità entro il 17 aprile, sarà chiesto al Tribunale di Como di nominare un curatore.

Il ritrovamento

Dai sopralluoghi nel frattempo effettuati nell’appartamento di via Privata Oppidum sono emersi alcuni dettagli che confermano l’isolamento in cui viveva la donna, come i 25 sacchi della spazzatura trovati nell’interrato che indica la fatica ad uscire anche per le minime necessità.

Il suo ritrovamento, a due anni dalla morte, è avvenuto dopo che un vicino di casa, a causa della presenza di alcuni alberi pericolanti, aveva allertato il proprietario di casa che vive in Svizzera.

Quest’ultimo aveva tentato di mettersi in contatto con lei e, non riuscendoci, aveva allertato le forze dell’ordine che hanno poi effettuato la scoperta. Alcuni giorni dopo i fatti, l’avvocato del proprietario ha ricevuto le chiavi dell’immobile e aveva lanciato un appello a chiunque fosse legato a lei di farsi avanti.

Roma, vietato sfamare i senzatetto: identificati e allontanati i volontari a Termini. Il Quotidiano del Sud il 6 Febbraio 2022.  La stazione Termini di Roma è uno dei punti di attrazione per tutti coloro che sono in difficoltà e si trovano a dormire in strada, dai senza tetto più longevi a chi si trova momentaneamente in difficoltà. Un welfare fatto di numerose associazioni di volontariato si ritrova tutte le sere a Termini per portare cibo, vestiti, coperte e una parola di conforto.

Termini però è cambiata, a causa dell’aumento delle misure di sicurezza dopo gli attentati terroristici in Europa, ma anche a causa della metamorfosi della stazione che ospita negozi sempre più eleganti, Termini sta diventando sempre più ostile ai clochard e adesso i volontari non possono più portare cibo alle persone che stazionano all’interno.

Giovedì sera l’ultimo episodio in cui i volontari della Casa Famiglia Ludovico Pavoni sono stati identificati e allontanati dai Carabinieri. FS risponde che l’azienda è impegnata in azioni per i senza fissa dimora con i 18 help center in Italia e l’Osservatorio Nazionale Solidarietà nelle Stazioni, ma sottolinea che ci sono delle regole da rispettare (fonte Ansa).

Sergio Mattarella, Vittorio Feltri: "Che stupidaggini sulle disuguaglianze, sono il motore della crescita".  Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 06 febbraio 2022.

Ieri la Repubblica in un titolo dedicato al discorso fiume di Sergio Mattarella rivolto al parlamento, afferma che "le disuguaglianze frenano la crescita". Immagino che si tratti di evoluzione economica. Ognuno ha le sue idee, spesso sbagliate eppure legittime. E quella espressa dal redivivo presidente della Repubblica, nel caso specifico, mi sembra una stupidaggine. Infatti se nel mondo vivono 6 miliardi di individui, è accertato che ciascuno di essi è diverso dai suoi simili, simili ma non uguali. Quindi la disuguaglianza è tipica dell'umanità e non solo: non ho mai visto neppure due gatti fotocopia, neppure due cavalli, neppure due imbecilli bipedi.

Ogni uomo è un pianeta a sé, una bottiglia che contiene liquido diverso. Questo concetto è una ovvietà e non comprendo perché il vecchio e rinnovato presidentissimo lo ignori. La crescita di un Paese qualcuno la promuove e la realizza, mentre altri la sfruttano e altri ancora ne fanno le spese perché poverini non sono attrezzati. La vita sociale è come una gara podistica, c'è chi corre veloce e chi arranca. Chi arriva primo e chi ultimo. Non mi pare una novità. Infatti il pianeta è abitato da gente ricca o almeno benestante e da gente strapelata. Non si possono incolpare i signori se qualcuno fatica a tirare avanti. Il principio della selettività governa anche gli animali, figuriamoci se trascura noialtri. Non tocca allo Stato stabilire chi merita di più o di meno. Io ho avuto cinque figli, uno diverso dall'altro. C'è chi nel corso degli anni ha ottenuto di più per meriti suoi o per fortuna, chi lo sa?, e chi ha ottenuto di meno. 

Eppure in famiglia valevano per tutti le stesse regole. Uomini e donne devono accettare il proprio destino e adattarsi alla realtà, dato che la realtà non si adatta mai a noi. Pertanto, caro Mattarella, lasci perdere le disuguaglianze che sono il motore della crescita perché aiutano la società a non adeguarsi allo status quo, ma a superare le difficoltà di ogni genere. Se non ci fossero stati gli scienziati a scoprire il vaccino anticovid saremmo morti tutti. E lei spero non mi vorrà dire che essi hanno lo stesso valore dei manovali, ai quali non va negato un salario adeguato ma non pari a quello di un medico che ci ha salvato la pellaccia. Signor presidente, non mi vorrà dire che tra lei e gli addetti alle pulizie del suo Palazzone dorato non corre alcuna differenza. Poi esiste la fortuna. Io sono nato in una famiglia sfigata, per caso e non per mia scelta, ciononostante oggi sono un borghese che campa bene, finché campa, perché non sono schiavo delle mie origini, ma della mia volontà.

La riscossa delle classi lavoratrici. Scene da Anni Settanta. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 15 gennaio 2022. 

È vero, Elon Musk e Apple sono diventati ancora più ricchi. Ma i dipendenti rialzano la testa. Negli Stati Uniti, dove si registra il fenomeno Grandi Dimissioni, come in Cina.  

Una violenta protesta di lavoratori dell’automotive negli Usa, nel 1975: alcuni operai distruggono un’auto giapponese importata degli States (foto Ap)

Elon Musk ha aumentato il proprio patrimonio del 75% nel 2021, a quota 273 miliardi di dollari. Apple ha sfondato la soglia dei tremila miliardi, un record storico per il valore di Borsa. La pandemia è stata generosa con i miliardari, soprattutto quelli di Big Tech. Ma solo con loro? In realtà l’era del Covid non è stata un remake del tradizionale peggioramento delle diseguaglianze. In particolare nelle due superpotenze che sono anche le maggiori economie mondiali, America e Cina, abbondano i segnali di riscossa delle classi lavoratrici. Paradosso: i miliardari si sono arricchiti più che mai, ma i loro dipendenti rialzano la testa. E la rinascita di un conflitto tra capitale e lavoro si manifesta nell’inflazione.

Cominciamo dagli Stati Uniti. Tre manovre di spesa pubblica (due firmate Donald Trump, una Joe Biden) hanno rovesciato sull’economia americana una quantità di dollari paragonabile in proporzione a quanto fu speso per la Seconda guerra mondiale. In buona parte sono stati aiuti ai cittadini. I lavoratori hanno accumulato risparmi e sono diventati più esigenti verso i padroni. Di qui il fenomeno chiamato la Grande Dimissione: ogni mese oltre quattro milioni di dipendenti si licenziano, spesso sbattendo la porta, perché sanno di poter trovare di meglio. Infatti le assunzioni e i salari salgono. A rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori contribuisce il rallentamento dell’immigrazione, che riduce la concorrenza nelle mansioni più basse. A guadagnarci sono soprattutto le buste paga di camerieri, fattorini, autisti, commesse.

Dall’altra parte del mondo la Cina si riscopre comunista. Nei discorsi di Xi Jinping rispuntano nostalgie del maoismo, un messaggio chiaro. Il presidente è un nazionalpopulista, ce l’ha con i miliardari, promette di ridurre le diseguaglianze. Per quanto possa sembrare una ridondanza, il regime di Pechino ha imboccato una svolta di sinistra, è meno benevolo verso il capitalismo privato, più attento alle condizioni degli operai. Le maggiori economie del mondo contribuiscono a riaccendere il conflitto redistributivo: la battaglia per la ripartizione della ricchezza nazionale tra capitale e lavoro. Negli Anni Settanta, all’apice di lotte sociali, ci furono fiammate d’iperinflazione. È uno scenario che potrebbe ripetersi: un’esperienza nuova per le fasce d’età che vanno dai Millennial a Generazione X, cresciute in un mondo senza inflazione.

Un altro paragone con gli Anni Settanta riguarda il confronto tra Nord e Sud del pianeta. Le nazioni povere hanno sofferto per la carenza di vaccini, il “divario farmaceutico” si è scavato. Si sono sfidati un modello privatista - Big Pharma made in Usa - e uno a direzione statale. Quest’ultimo ha perso: i giganti cinesi hanno sfornato vaccini mediocri, così si è infranto il sogno di Pechino di usare la diplomazia sanitaria come strumento di egemonia. Dall’Africa all’America latina non ci sono solo perdenti. Chi ha materie prime — minerali e terre rare — può prendersi una rivincita: l’inflazione premia i detentori di risorse naturali. Non tutti hanno un brutto ricordo degli Anni Settanta; furono segnati da un trasferimento di denaro dal Nord a una parte del Sud, all’epoca dei due shock energetici targati Opec, il cartello petrolifero. La vera sfida, oggi come allora, riguarda l’uso delle nuove ricchezze da parte delle classi dirigenti locali.

LA STORIA. «Vivevo al Vomero a Napoli, studiavo medicina. Ho sperperato 500 mila euro e ora dormo in strada». Michelangelo ha 43 anni, i genitori sono morti di cancro. «Avevo una bella Audi, una casa di proprietà e tanti amici. Ho perso tutto nei locali notturni e le persone che aiutavo ora fanno finta di non conoscermi». Claudio Mazzone su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2022.   

La storia di Michelangelo è simile a quella di tanti uomini senza fissa dimora e che dormono in strada. Ha scelto di raccontarla. «Perchè ho dignità», dice. Michelangelo aveva tutto. Era giovane, bello, intelligente e ricco. Uno studente di medicina, figlio della cosiddetta “Napoli bene”. Un ragazzo che non aveva mai dovuto confrontarsi con le durezze della vita. Un figlio di papà con le tasche piene e quella sensazione di avere il tutto mondo ai sui piedi. Girava per i locali di lusso, nei ristoranti gourmet con la sua audi sportiva. Oggi Michelangelo non ha più nulla. È un uomo di 43 anni portati male. Vive in strada, dormendo dove può, qualche settimana fa anche in quella Galleria Umberto I di Napoli che poi è diventata il centro di quelle scene di sgombero che hanno sollevato la polemica sulla contrapposizione tra decoro e solidarietà.

Michelangelo cosa ci fa in strada?

«Dormo, mangio quando posso. E osservo. Mi passano davanti tante vite e mi soffermo sulla mia, sulle tante scelte sbagliate che ho fatto. Avevo tutto, non ho più niente. Ho sperperato tutto quando sono rimasto solo, non avevo guide, non avevo modelli, mi mancava tutto. No ci vuole molto, se è capitato a me può capitare a tutti».

In che senso?

«Non sono nato povero, non sono nato barbone. Ero ricco, alta borghesia. Vivevo al Vomero, nel cuore del quartiere dei “chiattilli”. La mia era una famiglia di professionisti, avevo davvero tutto. Motorino sin da ragazzino, moto quando sono diventato 16enne, auto sportive da maggiorenne, l’ultima era un’audi nera. Amavo i ristoranti di lusso. Ci andavo pazzo. La cucina gourmet, i piatti con l’oro alimentare, gli chef stellati. Poi tutto è imploso».

Cosa è successo?

«Quando avevo 24 anni in pochi mesi ho perso sia mia madre che mio padre, entrambi per un cancro. Anche mia sorella, più grande di me, dopo appena un anno, è morta. Forse si è lasciata andare, non so dirlo. Non avevo nonni o zii. A quel punto mi sono ritrovato da solo a gestire quello che mi avevano lasciato».

Cosa ti avevano lasciato?

«Cinquecentoventimila euro sui conti bancari e una casa di lusso nel cuore del Vomero. A 25 anni è come se avessi vinto la lotteria. In più non c’era più nessuno a dirmi cosa fare e cosa non fare. Ho vissuto anni pazzeschi. Ero iscritto a Medicina, ma non sono più andato neanche un giorno a lezione. La notte giravo per i locali notturni. Donne, droga, quella buona però, quella costosa, alcol a fiumi, gioco d’azzardo e amici ovunque. Beh proprio amici no, quando poi avevo bisogno nessuno mi ha dato una mano. Li rivedo spesso in giro ancora oggi, fanno finta di non riconoscermi. Io però li saluto, così giusto per metterli in difficoltà».

Come ha iniziato a vivere per strada?

«Ero pieno di debiti. Quando i creditori, non quelli legali, non le banche, anzi non solo, ma quelli brutali che non ascoltano le tue lagne, ti hanno in pugno sei finito. Diventano padroni di tutto. La casa dei miei l’ho ceduta a loro con una vendita fittizia. Per anni ho solo speso senza incassare neanche un centesimo. Alla fine i conti arrivano e se non li può pagare allora sono problemi».

La prima notte in strada?

«La prima sera che mi sono trovato a dormire in strada non avevo realizzato cosa mi stesse scucendo. Giravo dalla mattina in cerca di qualcuno che mi prestasse dei soldi. Niente. Gli amici erano scomparsi tutti. Non trovai nessuno disposto a darmi una mano, solo porte chiuse in faccia. Eppure io quei 520mila euro mica me li ero spesi da solo. Mi sono seduto su una panchina di via Morghen, precisamente sopra le scalette che stanno a piazzetta Fuga, e mi sono messo a piangere. Poi mi sono steso. Era luglio, faceva caldo. Mi sono addormentato e quando ho aperto gli occhi era mattina. C’era un’anziana che mi guarda con lo sguardo pietoso. Allora ho capito cosa avevo combinato. In quegli occhi ho visto cosa ero diventato».

Come vivi ora?

«Sopravvivo, mi vedi. Ho addosso i vestiti smessi di chissà chi. Le scarpe non le cambio da mesi. La notte grazie ai dormitori, quando trovo posto, riesco a dormire al caldo e ad avere una colazione decente. La sera mi faccio il giro dei centri per avere un po’ di cibo. All’inizio mi ero stanziato nel mio quartiere d’origine, al Vomero. Mi conoscevano un po’ tutti. I portieri dei palazzi ricchi mi davano una mano, bastava fare qualche servizietto tipo svuotare i bidoni della differenziata. Poi le cose sono cambiate e non solo per la pandemia che ha veramente reso la situazione più drammatica. Ho iniziato a vedere più diffidenza negli occhi di chi passava. I portieri non erano più così cordiali e le vecchiette mi guardavano con paura e non più con compassione. A quel punto ho iniziato a girovagare per la città. In questi anni in strada ho dormito ovunque, nella Galleria come in stazione, nei pachi chiusi, nei vagoni, nelle metro».

Cosa rimpiangi e cosa ti aspetti dal futuro?

«Rimpianti forse non ne ho. Doveva andare così. Mi sono perso e può capitare a tutti. Ora però vorrei ritrovarmi, vorrei riuscire a rimettermi in sesto, vorrei davvero un’altra occasione. Ora voglio tornare a vivere. Non dico che farò il medico, però vorrei potermi almeno rimettere a posto i denti».

Dagotraduzione da Fast company il 16 gennaio 2021.

La pandemia globale ha innescato una lunga scia di sconvolgimenti, la stragrande maggioranza dei quali negativi: tassi di inflazione in aumento, devastazione delle piccole imprese e un bilancio delle vittime che è superiore a quello provocato dall’influenza negli ultimi 10 anni. Ma secondo un nuovo rapporto del World Economic Forum (WEF), non è la cosa peggiore: ciò che dovremmo temere di più è «l'erosione della coesione sociale». Questa è la minaccia in più rapida crescita per il nostro pianeta da quando è scoppiata la crisi del COVID.

Che cos'è esattamente l'erosione della coesione sociale?. 

Se pensi che suoni spaventoso, non sei solo. Secondo il WEF, è «percepita come una minaccia critica per il mondo in tutti i periodi di tempo - a breve, medio e lungo termine - ed è considerata tra le più potenzialmente dannose per i prossimi 10 anni». La coesione sociale peggiora a causa delle crescenti divisioni e della polarizzazione nella società, poiché le disuguaglianze di reddito sono esacerbate dalla ripresa sbilenca della pandemia, ad esempio, con 51 milioni di persone che si prevede vivranno in condizioni di povertà estrema entro il 2030 mentre i miliardari diventeranno più ricchi che mai. L'erosione si annida anche nelle fessure create da punti di vista opposti sui vaccini e dagli obblighi di maschine facciali, e nelle grida di protesta per la tanto attesa giustizia razziale nelle comunità storicamente oppresse.

In parole povere, è il crollo della società civile, fratturata da forze divergenti dall'interno. Si consideri l'attacco al Campidoglio degli Stati Uniti guidato dai sostenitori di Donald Trump un anno fa; questa è «una manifestazione dell'instabilità che la polarizzazione politica rischia di creare», afferma il rapporto. Nello scenario pessimistico, è solo un presagio di ciò che verrà. E gli elettori sembrano sentirlo incombere: in un recente sondaggio, hanno definito la "divisione nel paese" la loro più grande preoccupazione e hanno affermato che si aspettavano che aumentasse nel 2022.

Non è nemmeno un problema solo domestico. La sfilacciatura sociale mette in pericolo le popolazioni globali, poiché cresce in vaste aree del mondo un senso di privazione dei diritti civili, soprattutto a causa della mancanza di collaborazione tra i governi potenti, che in gran parte non sono riusciti ad aiutare le nazioni in via di sviluppo a uscire dalla pandemia, a risolvere le crisi umanitarie o a combattere i disastri naturali provocati dai cambiamenti climatici. Anche l'abbandono ambientale, il clima estremo e la perdita di biodiversità sono stati citati tra i principali rischi che dobbiamo affrontare oggi.

Un cupo diagramma di flusso nel rapporto del WEF elenca la possibile progenie dell'erosione della coesione sociale, tra cui: 

disillusione giovanile

crollo della sicurezza sociale

crisi di sussistenza 

Abbina questo al «deterioramento della salute mentale», altro effetto collaterale della pandemia, e diventa ancora più spaventoso. Tutto ciò potrebbe arrivare lentamente, con ricadute che coprono il prossimo decennio.

Tuttavia, esistono sforzi di mitigazione del rischio, compresi quelli per alleviare la povertà, le crisi sanitarie umane e la sicurezza delle risorse di base, che il WEF afferma, sono efficaci per quasi il 50%. 

Altri rischi citati dal rapporto includono rivalità geopolitiche, come la crescente concorrenza tra Stati Uniti e Cina e l'affollamento nello spazio mentre le forze armate leader corrono per controllare i cieli con armi anti-satellite e ipersoniche. Ma, come per molti dei mali del mondo, il WEF osserva che a quest'ultimo si potrebbe ancora superare a patto che «i paesi si uniscano per garantire benefici comuni» e lavorino insieme per condividere quella che dovrebbe essere una risorsa universale.

I risultati provengono dal Global Risks Perception Survey 2021-2022 del WEF, realizzato con il contributo di circa 1.000 "esperti e leader globali".

Il mondo è diseguale come nell’800. E non è una buona notizia. Stefano Feltri su Il Domani il 9 Gennaio 2022.

L’ultimo giorno del 2021 abbiamo scritto per tutto quest’anno Domani si occuperà di disuguaglianza: poche cose destabilizzano una società organizzata in modo democratico come lo squilibrio di redditi, benessere e opportunità.

Per cominciare questo viaggio bisogna affrontare una questione delicata: la disuguaglianza sta aumentando? O è solo la nostra sensibilità che è cambiata? Alcune risposte si trovano in un lavoro di Lucas Chancel e Thomas Piketty. Lascia intravedere una spiegazione di quel che sta accadendo.

Tra 1820 e 1910 i paesi occidentali hanno costruito il loro benessere grazie al colonialismo, garantendo ai propri cittadini livelli di reddito che sarebbero stati impensabili senza poter sfruttare risorse (fisiche, ambientali, umane) sottratte ad altri. 

STEFANO FELTRI. direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

La disuguaglianza corrode la democrazia: Domani inizia un’inchiesta lunga un anno. Stefano Feltri su Il Domani il 31 dicembre 2021.

Tutti dicono di essere contro la disuguaglianza, ma solo finché non tocca i loro interessi: vogliamo redistribuire la ricchezza, con imposte regolari sul patrimonio, sulla casa o sull’eredità? Oppure vogliamo redistribuire opportunità, tra quote rosa, discriminazione positiva, assunzioni selettive di giovani e persone da zone disagiate? E dobbiamo preoccuparci solo di allineare i punti di partenza o anche quelli di arrivo, in termini di carriera e redditi? Domani inizia un percorso lungo un anno per affrontare queste questioni decisive

Ci sono civiltà che muoiono per shock esterni, altre che crollano corrose dall’interno. La nostra affronta questa doppia minaccia: lo shock esterno, la pandemia, ha reso evidente una malattia a lungo rimossa, cioè la disuguaglianza. È forse la parola più abusata dopo resilienza, così ripetuta a vuoto da aver perso ogni significato.

In pandemia, però, la disuguaglianza ha tornato ad avere una misurazione percepibile: è la differenza tra chi può pagare un tampone a domicilio molecolare 150 euro ed evitare la quarantena e chi deve inseguire quelli forniti della sanità pubblica; è l’abisso che divide chi approfitta del nuovo tempo domestico per guardare film arretrati o frequentare qualche corso di specializzazione online e chi impazzisce tra spazi angusti, bambini sempre a casa da scuola e opportunità professionali che svaniscono. 

La disuguaglianza più netta è quella tra chi negli ultimi due anni ha continuato a lavorare, guadagnando soldi che non sapeva più come spendere, e chi ha perso ogni reddito: il tasso di risparmio degli italiani è passato dal 2,39 per cento del reddito disponibile nel 2019 al 10,81 nel 2020 (dati Ocse). Segno che durante la pandemia si è accumulata ricchezza privata mentre lo stato generava debito pubblico, passato dal 134,4 per cento del Pil nel 2019 al 160 per cento del 2021.

La politica monetaria delle banche centrali ha permesso all’Italia, e a molti altri paesi, di sommare enormi quantità di debito con una spesa per interessi che scendeva invece che aumentare. Ma non durerà per sempre.

Ora sta arrivando un’inflazione che sembra sempre meno provvisoria, e anche questa tassa occulta avrà impatti molto diseguali, nulli o quasi su chi potrà adeguare i propri ricavi a prezzi in crescita, pesanti sui redditi fissi. 

Questo contesto costringe ad affrontare domande che abbiamo ignorato nell’ultimo quarto di secolo, mentre l’Italia accettava un livello di disuguaglianze feudale senza neppure ottenere in cambio il dinamismo che certi liberisti considerano un beneficio sufficiente a compensare gli effetti negativi di ogni squilibrio. 

Per anni abbiamo lasciato che l’Italia diventasse un paese di rendite, dove il 10 per cento più ricco della popolazione possiede il 48 per cento della ricchezza delle famiglie e può trasmetterla quasi senza imposte di successione, in modo da perpetrare e aggravare la concentrazione di benessere. 

Tutti dicono di essere contro la disuguaglianza, ma solo finché non tocca i loro interessi: vogliamo redistribuire la ricchezza, con imposte regolari sul patrimonio, sulla casa o sull’eredità? Oppure vogliamo redistribuire opportunità, tra quote rosa, discriminazione positiva, assunzioni selettive di giovani e persone da zone disagiate? E dobbiamo preoccuparci solo di allineare i punti di partenza o anche quelli di arrivo, in termini di carriera e redditi?

Con lo speciale di oggi, curato dal nostro data editor Filippo Teoldi, Domani inizia un percorso lungo un anno per affrontare queste questioni decisive: sarà il nostro contributo per far in modo che il 2022 sia un po’ meglio del 2021. Buon anno. 

STEFANO FELTRI direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

L’INCHIESTA SULLA DISUGUAGLIANZA DI DOMANI. Nel 2021 in Italia c’è stato il grande sorpasso del malessere sul benessere. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 16 gennaio 2022.

Il numero di famiglie in condizione di debolezza ha toccato il picco nel 2020 passando da 7,4 milioni a 8,3 milioni, mentre ha registrato un calo quest’anno, un andamento uguale e contrario a quello registrato nella fascia del benessere che quest’anno è tornata a crescere.

Nel 2021 il numero di famiglie che è in condizione di autosufficienza è per la prima volta uguale a quelle appartenenti al livello medio.

Il risultato è che oggi le famiglie in condizioni di debolezza sono oltre un milione in più rispetto a quelle mediane, il 28,8 per cento dei nuclei contro il 23,9

GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43. 

L’INCHIESTA DI DOMANI LUNGA UN ANNO. Disuguaglianze, la questione meridionale non è solo il divario tra nord e sud. EMANUELE FELICE, economista, su Il Domani il 15 gennaio 2022.

La questione meridionale, il più grande nodo irrisolto del nostro paese, non è solo un problema di disuguaglianze fra Nord e Sud. Ma è anche un problema di disuguaglianze dentro il Mezzogiorno, sin dalle origini.

Le classi dirigenti «estrattive» meridionali, trasformatesi nel tempo (dai possidenti terrieri ai mediatori politici), sono storicamente le principali responsabili dell’arretratezza del Mezzogiorno.

Il miracolo economico è stato anche l’unico periodo di convergenza del Sud Italia. Negli ultimi decenni, l’arenarsi e la deriva del Mezzogiorno si accompagnano al declino del paese.

EMANUELE FELICE, economista.

Professore ordinario di politica economica all'università "G. D'Annunzio" di Chieti-Pescara.

Disuguaglianze, è ora di cambiare rotta: ecco dieci soluzioni possibili. Lavoro precario. Oneri di cura che gravano sulle donne. Inaccessibilità delle conoscenze. L’anno che si chiude sarà ricordato per il divario che si è allargato. Dieci esperti di diversa provenienza culturale scattano le istantanee della disparità. E indicano come si potrebbe uscirne. Fabrizio Barca e Gloria Riva su l'Espresso il 27 dicembre 2021. La pandemia ha inflitto e sta infliggendo sofferenza a noi tutti. Ma in questa sofferenza, grandi sono le disuguaglianze: nell’accedere a cure e vaccini; nelle conseguenze economiche, da chi ha perso tutto fino a chi in realtà si è arricchito; negli effetti sociali e psicologici, a seconda del contesto famigliare e comunitario e del proprio genere, razza o classe; nella capacità di adattarsi a improvvisi cambiamenti. Queste disuguaglianze si sono manifestate lungo faglie esistenti, cresciute nell’ultimo quarantennio, da noi come in tutto l’Occidente: forte diffusione del lavoro precario e irregolare; oneri di accudimento primariamente gravanti sulle donne; disuguaglianze territoriali nella qualità di scuole, sanità, servizi sociali, copertura digitale, mobilità, salubrità dell’aria; inaccessibilità e concentrazione della conoscenza; mancato ascolto di voce e aspirazioni di larghe fasce di popolo. Ecco un lungo l’itinerario che L’Espresso e il Forum Disuguaglianze Diversità, ForumDD, hanno scelto di percorrere assieme, dieci figure del nostro tempo raccontano queste disuguaglianze e quanto deludente sia finora la capacità di contrastarle.

Nicoletta Dentico, responsabile del programma di salute globale della Society International Development, ci dice che il 2021 non sarà di ricordato come l’anno in cui è stato debellato il Covid-19, ma come quello in cui i paesi ricchi si sono accaparrati la maggior parte dei vaccini, lasciando alla deriva il Sud del mondo, in quella che definisce «l’arrogante insipienza dei governi». 

L’anno che si sta per chiudere, nelle parole dell’attivista e scrittore Ben Phillips, non verrà ricordato neppure per la vittoria dei diritti umani, schiacciati da una deriva autoritaria, figlia delle disuguaglianze. 

Sul fronte italiano, c’è uno Stato che tratta gli anziani più vulnerabili come un problema, scaricandone il peso sulle famiglie, come racconta il sociologo Cristiano Gori. 

È lo stesso Stato che alle aspirazioni dei giovani sa offrire solo promesse e belle parole: il demografo Alessandro Rosina descrive quel terzo di persone sotto i 35 anni che non studia, non lavora e vive male. 

mentre il maestro elementare Franco Lorenzoni scrive che anche sui più piccoli si sta abbattendo una «spietata sottrazione di futuro», con un balzo negli atti di autolesionismo.

La sociologa Chiara Saraceno lancia l’allarme dei lavoratori poveri, che pur avendo un impiego, non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. E anche qui l’intervento del governo langue, perché neppure sul Reddito di cittadinanza si è saputo intervenire per migliorarne efficacia e giustizia. 

Parla di donne e tecnologia l’economista Francesca Bria, avvertendo che «se metà del mondo non va avanti, allora l’intera umanità si ferma», riferendosi al divario di genere, grave in tutte le sue forme, ed esponenzialmente preoccupante nell’ambito tecnologico. 

L’urgenza di porre un freno al dilagare della disuguaglianza viene da culture e pensieri assai diversi, abbracciando il senatore Mario Monti con la ricercatrice Marta Fana e il poeta Franco Arminio.

Marta Fana racconta che «l’Italia quest’anno aggancia una ripresa del 6 per cento, ma non un centesimo finisce nelle tasche di chi, quell’extra ricchezza, l’ha prodotta. Perché testa e braccia di questo miglioramento sono per il 70 per cento lavoratori a termine o in affitto». 

Mario Monti parla di «due distorsioni ottiche che paralizzano il sistema politico italiano quando si tratta di intervenire concretamente per ridurre le disuguaglianze»: la tassazione vista come «un abuso, se non un furto», che porta un premier a rigettare «un lieve aumento delle tasse di successione ai più ricchi che finanzi una dotazione significativa per i giovani»; e la tutela della concorrenza, sottovalutata nel suo potere di erosione delle rendite. 

Una distorsione ottica universale è messa in luce da Franco Arminio: essa affligge il sistema politico mondiale, incapace di riconoscere e rispondere con radicalità all’ansia di tutti gli abitanti della terra per gli effetti del tempo impazzito, di capire che «l’ecologia non è un partito, è una necessità»: sta qui la «muta desolazione» con cui assieme a tanti altri egli ha accolto gli esiti del vertice sul clima di Glasgow. 

Le dieci istantanee delle disuguaglianze 2021 non sono una lista di lamentele, ma una chiara indicazione dei punti chiave su cui intervenire. Emerge allora una forte corrispondenza con le proposte di tante organizzazioni, movimenti sociali e del ForumDD, riassunte a chiosa di ogni contributo. Non si dica dunque che non sappiamo che fare. Si tratta piuttosto di volontà politica: cessare di nascondersi dietro tecnica e tecnici, scegliere priorità, aprirsi a un confronto acceso e informato, costruire accordi. La pandemia, scriveva già nell’aprile 2020 Arundhati Roy, «è un portale tra un mondo e un altro. Possiamo attraversarlo con le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso; e lottare per averlo». Rischiamo di restare inchiodati nella prima strada, usando i soldi del Piano di Ripresa e Resilienza per fare spesa, sgocciolando i fondi nei vecchi canali. Ma esiste nel paese un formicolio sociale e operoso pronto a osare la seconda strada. Che chiede di cambiare rotta. Questa è la partita del 2022.  

2021, un anno senza diritti. Rimosso il dibattito sullo Ius soli, affossata la legge contro l’omotransfobia, ignorata quella di iniziativa popolare sul fine vita. Nonostante piazze piene, proteste e raccolta firme. Che hanno solo evidenziato la distanza tra l’Italia e chi la governa. Simone Alliva su l'Espresso il 28 dicembre 2021. Non è successo niente. Un anno di mobilitazioni; piazze e banchetti, discussioni e proteste hanno soltanto avuto il pregio di illuminare la distanza tra l’Italia e chi la governa. Il Parlamento italiano saluta il 2021 senza nessuna legge approvata sul fronte dei diritti. Nessuna per la comunità Lgbt, mentre le piazze di tutta Italia si mobilitavano. Nessuna su eutanasia e cannabis mentre dai banchetti si raccoglievano milioni di firme. Nessuna per gli italiani senza cittadinanza, lo Ius Soli ridotto a un colpo di sole di fine agosto, evocato per qualche ora sulle prime pagine e subito rimosso.

«Il Parlamento non è arrivato a nulla» dice Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. «Sul fine vita come sulla cannabis, le leggi di iniziativa popolare sono state ignorate. Sul fine vita c’era il richiamo della Corte Costituzionale a prendere delle decisioni ma hanno preferito approvare in Commissione un testo che restringe le possibilità previste dalla Corte».

Non è tranquillizzato dalle parole del relatore della legge Alfredo Bazoli (PD): «Abbiamo scelto di seguire le orme tracciate dalla Consulta perché è l’unica via che può portare all’approvazione». Anzi, l’ex radicale le raccoglie e le smonta pezzo per pezzo: ««Alla patologia irreversibile è stata aggiunta una nuova cognizione di prognosi infausta, vuol dire che Dj Fabo, Welby, per fare qualche esempio, non erano allo stato terminale». Le norme in discussione non migliorerebbero il testo ma: «escludono chi non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, come i malati di tumore, e non fissano tempi certi. Anzi, fanno dei passi indietro su obiezione di coscienza, sofferenza psichica e cure palliative».

Ma allora cos’è questa legge discussa nell’Aula semivuota della Camera? «Uno spauracchio. Un modo per mandare un messaggio politico alla Corte Costituzionale e dire: il Parlamento sta cercando di fare qualcosa, se non abbiamo il referendum di mezzo è meglio». L’iter della legge sul fine vita racconta di una politica che va in direzione contraria e ostinata rispetto al mondo fuori e che trema di fronte a quella data cerchiata in rosso nel calendario 2022: 15 febbraio. Giorno dell’udienza della Corte costituzione chiamata a esprimersi sull’ammissibilità del referendum che conta un milione e duecentomila firme. «Noi siamo pronti, pancia a terra porteremo 25 milioni di italiani al voto». Il voto, che potrebbe tenersi a fine giugno, servirà all’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale: la reclusione da sei a quindici anni chi procura la morte di una persona con il suo consenso.

«Anche sulla cannabis questo è un parlamento totalmente distante dai cittadini». A dire che tutto è immobile è la deputata del PD, Enza Bruno Bossio, tra le fondatrici dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis: «In Commissione Giustizia si parla sostanzialmente di autoconsumo. Ho proposto degli emendamenti che andassero nella direzione del referendum, cioè della legalizzazione ma non credo che saranno approvati. Per fortuna il referendum va avanti. Mentre noi parlamentari restiamo indietro». Il suo partito non ha ancora espresso una posizione ufficiale: «La maggioranza è su questa linea. I nostri elettori sono d’accordo. Il problema è quella parte del Pd che confonde legalizzazione con liberalizzazione. E non capisce che legalizzare la cannabis equivale a un colpo importante alle mafie». Basta scorrere i dati dell’ultima relazione annuale del governo al Parlamento (dati Istat 2020) per capirlo: le sostanze psicoattive illegali sono stimate intorno ai 16,2 miliardi di euro, di cui il 39% (quindi circa 6,3 miliardi) attribuibile al consumo dei derivati della cannabis. Stime, perché gran parte del mercato resta nascosta alle forze dell'ordine. Ma la questione resta sulla graticola delle aule parlamentari e delle segreterie di partito, fino a bruciare, mentre fuori il referendum sulla legalizzazione supera le 600 mila firme.

La questione Ius Soli invece somiglia alla trama di un giallo. Perché la legge per gli italiani senza cittadinanza non riparte? Per mano di chi? Pochi ricordano che si trova ancora in Commissione Affari costituzionali dove le numerose audizioni si sono concluse nel marzo del 2020. Sulle cronache di quest’anno è riapparsa in maniera dirompente durante un agosto afoso, inserendosi tra l’incandescente dibattito sul ddl Zan e le medaglie conquistate dall’Italia multietnica alle Olimpiadi. Era stato il segretario Enrico Letta a tirarla a lucido: «Dopo le Olimpiadi la consapevolezza credo sia divenuta più generale. Per questo rivolgo un appello a tutte le forze politiche ad aprire una discussione in Parlamento e a trovare una soluzione sullo ius soli». Addirittura, il deputato PD Enrico Borghi aveva azzardato: «Sarà legge entro l’anno». Alla Camera la prima proposta porta la firma della ex presidente Laura Boldrini nasce da una richiesta portata avanti da una trentina di sindacati, associazioni e Ong: «L’Italia sono anche io». C’è poi quella di Renata Polverini, ex deputata di Forza Italia che ha lasciato il gruppo proprio per le differenze di vedute sul tema e si basa sullo Ius Culturae. Infine il disegno di legge a firma del dem Matteo Orfini, un mix tra ius culturae e ius soli «temperato». «La mia legge - dice Orfini – sostanzialmente riprende quella che approvammo già alla Camera la scorsa legislatura. Frutto di una mediazione molto avanzata». La legge saltò definitivamente al Senato poco prima di Natale 2017. Un epilogo prevedibile ma che ancora scotta per Orfini, all’epoca reggente del Pd: «Chiesi sia privatamente che pubblicamente a Gentiloni di mettere la fiducia, eravamo a fine legislatura. Lui disse che non serviva e che l’avremmo approvata». Adesso si potrebbe ripartire. O forse no. La discussione intorno a questa legge riporta a una serie di enigmi e un’assenza, quella del presidente della Commissione Affari Costituzionali, il cinquestelle Giuseppe Brescia: «Si era fatto avanti come relatore. Aveva detto: lavorerò su un testo che possa diventare una sintesi di quelli presentati. Sono passati due anni. Siamo in attesa che Brescia lo tiri fuori dal cassetto». Il pentastellato Brescia però contattato da L’Espresso ha così risposto: «Quando qualcuno chiederà la calendarizzazione ce ne occuperemo senz'altro. Se il dibattito diventa concreto noi siamo pronti su ius scholae». Una posizione che lascia «stupito» Orfini: «Difficile chiedere la calendarizzazione di un testo che non esiste» e annuncia: «Il nostro capogruppo in Commissione Affari Costituzionali Stefano, Ceccanti chiederà la calendarizzazione al primo ufficio di presidenza. Sperando che Brescia abbia il testo».

Insistere e non mollare, giacché l’ordine di scuderia di Enrico Letta è andare avanti sui diritti e pazienza per gli umori degli alleati di governo; su una legge contro l’omotransfobia si affida nuovamente al testo Zan, morto in Senato nel mese di novembre. «Bisogna provarci fino all’ultimo», è sicuro il deputato Pd Alessandro Zan. «Si può ripartire da aprile dal mio testo, mettiamo che passi al Senato con piccole modifiche ma senza togliere l’identità di genere e le scuole. La Camera può approvarlo così com’è». Tempi? «Prima dell’estate al Senato e in autunno alla Camera». Anche Alessandra Maiorino, senatrice del M5s ha annunciato di voler «presentare ad aprile un nuovo testo che oltre ai reati di odio fondato sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, preveda percorsi educativi nelle scuole». Qualcosa si muove. È una questione di tempistica e prospettive: «Se ci sarà ancora questa legislatura», ironizza un senatore di Fdi.

Ma non è forse tutto da buttare questo 2021. La tampon tax, ad esempio. Quest’anno l’aliquota sarà ridotta dal 22% al 10. «Una vittoria per i diritti delle donne», dice la dem Lia Quartapelle firmataria insieme ad altre deputate dell'emendamento che riduce l’iva sugli assorbenti: «La portiamo avanti dal 2018. Nel 2019 è stata data l’esenzione solo a quelli compostabili. Nel 2020 non siamo riusciti ad ottenere nulla. Quest’anno possiamo parlare di una vittoria». Ma non la pensa così Beatrice Brignone, segretaria di Possibile, fu lei a porre la questione nell’ormai lontano 2016: «La direzione è giusta. Ma proprio sono beni prima necessità bisogna chiedere l’aliquota giusta cioè il 5%. Non codici sconto».

Alla debolezza della politica si aggiunge la debolezza del Parlamento. Lo evidenzia Openpolis con un dato: il governo Draghi è riuscito a far approvare 38 disegni di legge in circa 7 mesi. Nello stesso periodo le leggi di iniziativa parlamentare approvate sono state 6. Vuol dire che senza la spinta del Presidente del Consiglio il processo legislativo non va a buon fine. Recuperare la centralità del Parlamento per approvare diritti di libertà e colmare la differenza antropologica con il paese. Cancellare la distanza che separa i cittadini senza diritti, dalle risa sguaiate di chi esulta solo quando una legge muore. È una lunga strada e porta inevitabilmente alla prossima legislatura.

La testimonianza. Vitaliano Trevisan: "Io, un matto trattato senza pietà". Vitaliano Trevisan su La Repubblica il 5 novembre 2021. Dopo il ricovero coatto in psichiatria, lo scrittore vicentino racconta la sua esperienza. E denuncia le condizioni in cui si tengono i pazienti. Un uomo che cammina in piena luce, in Italia, è scoperto, nudo, indifeso. \[…\] Cammina come una vittima, e come un colpevole. \[…\] È lì, scoperto, inerme, esposto ai colpi, alle indagini, alle accuse. Non si può né schermire, né difendere. È una condizione terribile: noi Italiani, non ci possiamo difendere, mai, da nulla, né dall’assassino né dal giudice» (Curzio Malaparte, Misura della Francia, Il Tempo, 4 dicembre 1952).

Ma che, sei matto? Giordano Di Fiore su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.

Questo è matto. Questo è da camicia di forza. Matto col botto. Questo è da TSO. Lei è un disturbato. Eccetera, eccetera.

Destra o sinistra, non fanno differenza. Non c’è Basaglia che tenga.

Abbiamo imparato a rispettare gli omosessuali, a non parlare di razza, a non toccare argomenti sessisti, a distruggere statue, a censurare libri, film, cartoni animati.

Abbiamo tentato di far passare (ne siamo sicuri?) la legge Zan, dedicata ad omotransfobia e disabilità.

Ma per le fragilità psichiche non c’è tregua. Siamo sempre al medioevo, alla caccia alle streghe, agli schizofrenici legati nella cuccia del cane. Dare del malato di mente al proprio avversario dialettico e sempre più in auge, dato che gli altri epiteti sono stati vietati dal politically correct.

Ma vietare le parole non significa vietare le coscienze, o vietare l’ignoranza ed il pregiudizio. Il nostro istinto ferino, mischiato con un pizzico di cattiveria, non è stato per nulla intaccato.

E così ci ritroviamo all’ennesima beffa: i bonus per la ristrutturazione sono considerati preferibili ai bonus psicologici. L’Italia, il Paese che si vanta di avere la miglior sanità al mondo (tutto da verificare, vista la mortalità da Covid così imponente), che copre qualsiasi specialità medica, non copre le psicoterapie. Che sono relegate al settore privato, a beneficio soltanto di coloro che se lo possono permettere. Lo Stato passa solo la psichiatria, curare l’anima una volta al mese è il massimo della concessione.

Perché, appunto, andare dallo psicologo è roba da matti. E dunque fa paura. Oppure è da complessati, da deboli, da sfigati, da viziati, nella migliore delle ipotesi un lusso che non serve a nulla.

E’ incredibile come anche il mondo privato si allinei con il pregiudizio: prendiamo le assicurazioni salute. Alcune, costosissime, davvero rimborsano ogni sorta di visita e di operazione. Ma le cure psicologiche, quelle no.

Quindi il fragile psichico è truffato due volte: non solo paga le tasse come gli altri per non essere curato, ma deve oltretutto nascondersi, fare finta di essere “normale”. Per non essere giudicato, per non essere classificato e messo ai margini.

Una società curiosa, la nostra, che ha pena per i malati di tumore e pregiudizio per l’infermità psichica.

E nulla è in grado di bucare questa patina di conformismo. Nonostante il consumo di psicofarmaci sia in vertiginoso aumento, nonostante il consumo di droghe sia in vertiginoso aumento, nonostante il Covid ci abbia scoperti tutti più fragili. Il disagio psichico va bene per gli artisti, i pittori, i musicisti, ma se tocca a qualcuno di noi, ahimé, non c’è nient’altro da fare che nascondersi, per non essere ripudiati da una società ferma ancora all’anno zero dell’umana comprensione.

Ma possiamo sempre cambiare gli infissi o i condizionatori.

·        I Bonus.

Tutto quello che dovete sapere. Assegno unico per i figli 2022, a chi spetta e come fare la domanda. Redazione su Il Riformista il 3 Gennaio 2022.

Facciamo chiarezza. L’assegno unico va alle famiglie con figli minorenni a carico, anzi, già alle future mamme al settimo mese di gravidanza, o con figli maggiorenni fino ai 21 anni, se frequentano corsi di formazione scolastica o professionale o l’università o lavorano ma guadagnando meno di 8000 euro annui.

L’assegno universale spetta inoltre a chi ha figli disabili, senza limiti di età. Ne hanno diritto tutte le categorie di lavoratori dipendenti (sia pubblici sia privati), gli autonomi, i pensionati, i disoccupati e gli inoccupati, che siano cittadini italiani o di uno Stato dell’Ue, o titolari del diritto di soggiorno.

La domanda si può fare già adesso e per tutto febbraio. L’assegno unico è annuale e comprende le mensilità da marzo a febbraio dell’anno successivo. Il versamento avviene mediante accredito su conto corrente bancario o postale oppure scegliendo la modalità del bonifico domiciliato. Disposizioni specifiche riguardano i casi di genitori separati o divorziati.

La domanda di assegno unico può essere presentata dai genitori o dal tutore attraverso il sito dell’Inps o il contact center o rivolgendosi a un patronato. I figli maggiorenni possono provvedere da sé.

Un indicatore della condizione economica (Isee) inferiore ai 40.000 euro dà diritto all’assegno di importo massimo, mentre se l’Isee supera quella soglia o non viene presentato si ha comunque diritto alla prestazione ma in misura ridotta.

Per ottenere l’Isee ci si rivolge agli intermediari abilitati all’assistenza fiscale (Caf) oppure direttamente al sito internet dell’Inps mediante credenziali Spid, carta di identità elettronica o carta nazionale dei servizi.

L’assegno varia in base a diversi parametri. Si va da un massimo di 175 euro per ciascun figlio minore con Isee fino a 15 mila euro, a un minimo di 50 euro per ciascun figlio minore in assenza di Isee o con Isee pari o superiore a 40.000 euro. Gli importi dovuti per ciascun figlio possono essere maggiorati nelle ipotesi di nuclei numerosi, di madri di età inferiore a 21 anni o di figli affetti da disabilità.

L’assegno unico sostituisce: il premio alla nascita o all’adozione (il cosiddetto “bonus mamma domani”); l’assegno di natalità (“bonus bebè”); i vari tipi di assegni di sostegno alle famiglie con figli; e le detrazioni fiscali a favore dei nuclei con figli fino a 21 anni. Invece il nuovo assegno non integra né limita il bonus asilo nido.

Una quota a titolo di maggiorazioni sarà pagata per compensare l’eventuale perdita economica subita dal nucleo familiare, se l’importo dell’assegno unico dovesse risultare inferiore alla somma dei contributi economici e delle detrazioni fiscali a cui si avrebbe avuto diritto con le regole precedenti (così si evita la beffa).

L’assegno unico non concorre a formare il reddito complessivo ai fini Irpef ed è compatibile con altri eventuali sostegni economici a favore dei figli a carico da parte di Regioni, Province e altri enti locali.

L’assegni unico è compatibile col reddito di cittadinanza, e anzi ma ai percettori del reddito l’assegno per i figli viene corrisposto d’ufficio dall’Inps, senza bisogno di presentare domanda.

·        Il Salario Minimo.

Antonio Giangrande: Il reddito si crea. Il reddito non si sostenta dallo Stato. Perché se nessuno produce e nessuno commercia, da chi si prendono i soldi per i consumi o mantenere una società?

Ed una società funziona se sono i capaci e competenti a farla funzionare, altrimenti si blocca.

In questa Italia cattocomunista non puoi fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato con tasse, tributi e contributi, per mantenere i parassiti nazionali ed europei.

In questa Italia cattocomunista non puoi avere nulla, perché si fotte tutto lo Stato con accuse strumentali di mafiosità e con i fallimenti truccati, per mantenere i profittatori.

In questa Italia parlano di sostegno al lavoro, ma nulla fanno per incentivarlo a crearlo, come agevolare il credito, o come detassare, o come sburocratizzare, con eliminazione di vincoli e fardelli.

I giovani in questo modo possono inventare e creare il proprio lavoro, senza essere condannati alla dipendenza di stampo socialista.

I giovani hanno bisogno di libertà d’impresa non di elemosine.

Lavoro quanto mi costi. Cristiana Flaminio su L’Identità il 15 Dicembre 2022

Il costo del lavoro, in Italia, resta alto perché pesano i contributi ma il cuneo fiscale tricolore non è il più alto dell’Eurozona. Anzi, forse è tra i più bassi. Lo ha stabilito l’Istat che ieri ha pubblicato un report sulla struttura del costo del lavoro aggiornato al 2020, snocciolando dati e cifre sul prezzo delle retribuzioni nel nostro Paese. Il sistema è poco omogeneo e ci sono diverse disparità che si rivelano in veri e propri divari presenti tra i diversi settori economici.

Innanzitutto i numeri: il costo medio del lavoro per dipendente è pari a 41.018 euro all’anno. A fronte di 1.398 ore lavorate (in media) da ciascuno (il dato sale a 1.519 ore a tempo pieno e scende a 895 oer per gli assunti a part time), il prezzo orario è di 29,4 euro, un valore più alto del 5,3 per cento rispetto a quello registrato nel 2016. La statistica dice questo. La realtà, invece, offre un quadro differenziatissimo. Che oscilla tra i 51,6 euro all’ora per i dipendenti nel settore finanziario e assicurativo e i 18,8 euro per quello che ingloba le agenzie di viaggio, di noleggio e di servizi di supporto alle imprese. Pesa, e non poco, anche la dimensione delle aziende: le unità economiche più grandi pagano 33,3 euro l’ora. Un valore superiore di ben dieci euro in più rispetto alle pmi fino a 50 dipendenti che, invece, corrispondono ai loro dipendenti 23,1 euro l’ora.

Una delle voci più pesanti nelle retribuzioni riguarda i contributi. In particolare, secondo i dati medi rilevati dagli analisti dell’Istat, a fronte di 29,4 euro per ora, ben otto vanno spesi per i contributi mentre dieci centesimi se ne vanno in costi intermedi. Il conto, dunque, è presto fatto: se la media annua per gli stipendi è pari a 41.081 euro a dipendenti, di questa somma il 72% viene corrisposto in ragione di retribuzione lorda (dunque 29.591 euro) mentre il 27,7% va in contributi sociali a carico del datore di lavoro (11.366 euro) e tra formazione e spese intermedie vengono, infine, conteggiati 123 euro annui. Il costo del lavoro è più alto nell’industria mentre invece risulta più basso nel settore delle costruzioni; si tratta dei due comparti dove, peraltro, si riscontra il maggior numero di ore lavorate per dipendente (1.557 per le costruzioni e 1.512 per le industrie).

È interessante, infine, il confronto tra i dati italiani e quelli europei. Dalle analisi Istat, infatti, emerge che la media del costo del lavoro italiano è più bassa di quella dell’area euro (Ae-19) che si attesta a 32,1 euro l’ora. Risulta più alta, invece, se si allarga il parametro all’Ue a 27 membri, per cui la media scende a 28,3 euro. Le differenze tra gli Stati sono talmente enormi da fare impressione: si va da 6,7 euro della Bulgaria ai 47,5 euro del Lussemburgo. In mezzo, l’Italia con il valore di 29,1 si piazza all’undicesimo posto, superiore a quello spagnole ma più basso di quello medio che si registra in Francia e Germania. La retribuzione oraria lorda colloca l’Italia all’undicesimo posto. Dai lati opposti di questa classifica ci sono, agli ultimi posti, Bulgaria e Romania (rispettivamente 5,7 e 7,8 euro) e ai primi Lussemburgo e Danimarca (41,3 e 39,2).

Il peso dei contributi, in Italia, è alto anche su scala comunitaria. Eppure, secondo i rilievi degli analisti dell’istituto nazionale di statistica, risulta inferiore non solo a quello svedese (al top in Europa con il 30%) ma anche a quelli francesi (29,4%).

I Paesi in cui il peso dei contributi è minore sono gli stessi che vantano la retribuzione lorda più alta, ovvero Danimarca (10,7%) e Lussemburgo (13,1%).

Ritornano i voucher: cosa sono, come funzionano e chi potrà usarli. Nella legge di Bilancio ritornano i voucher, una forma di pagamento a fronte di prestazioni professionali saltuarie o di lavoro occasionale. Giuditta Mosca il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

Nella Manovra per la legge di Bilancio ricompaiono i voucher. Il consiglio dei Ministri ha così introdotto nuovamente i buoni lavoro che l’ex premier Paolo Gentiloni aveva abolito – almeno in linea teorica - nel 2017 dopo un dibattito molto acceso con le parti sociali.

Sono stati introdotti per la prima volta con il decreto legislativo 276/2003 (la cosiddetta Legge Biagi) nel 2003 ma diventati di uso effettivo soltanto nel 2008.

Cosa sono i voucher

Sono un metodo di pagamento alternativo applicabili al lavoro occasionale o alle prestazioni saltuarie.

Hanno un valore nominale di 10 euro lordi, ossia 7,50 euro netti e a partire dal mese di gennaio 2023 potranno essere utilizzati dagli imprenditori del settore agricolo, della ristorazione e del comparto del turismo. Inoltre, potranno essere remunerati con i voucher anche i lavoratori che si occupano della cura della persona come, per esempio, i lavoratori domestici.

Come funzionano i voucher

Il datore di lavoro che intende retribuire i collaboratori con i voucher, li acquista presso l’Inps (se ne possono acquistare anche in banca, alle Poste e in alcuni casi anche in tabaccheria) e il lavoratore che li riceve può riscuoterli presso l’Inps stessa, ricevendo a fronte di ogni buono l’importo di 7,50 euro, quindi 2,50 euro in meno rispetto al valore nominale de voucher che, come detto, è di 10 euro.

In questo modo al lavoratore viene applicata una trattenuta da destinare ai contributi Inps e all’assicurazione Inail.

Il governo Meloni ha voluto reintrodurre i voucher per regolarizzare il lavoro stagionale e quello occasionale, alzando il limite di retribuzione mediante buoni fino a 10mila euro annui contro i 5mila euro fissati in precedenza. Tutto ciò garantendo però controlli stretti per scongiurare un abuso da parte dei datori di lavoro.

I sindacati hanno espresso preoccupazione per l’innalzamento del tetto di retribuzione ma anche perché le retribuzioni mediante voucher non garantiscono ai lavoratori coperture in caso di malattia, di maternità e altre forme di welfare considerate nelle più diffuse forme contrattuali.

Il voucher in sé presenta meno aggravi fiscali per i datori di lavoro e il timore che alcuni di questi possano abusarne è un tema ormai datato che aveva contribuito a mettere al bando i buoni già nel 2017.

Il governo però ha valutato la situazione tenendo presente il quadro nel suo insieme: regole perfettibili sono comunque preferibili in un contesto - quello del lavoro occasionale e stagionale - difficile da monitorare e al cui interno i lavoratori potrebbero essere vittime di storture contrattuali.

Così in 60 anni crollato il valore degli stipendi. Il Corriere della Sera il 12 settembre 2022

Oggi a Firenze un neoassunto nella pubblica amministrazione prende 1.400 euro al mese, ma cosa può permettersi con quei soldi? Nel 1960 l’affitto incideva per il 25% sulla paga, oggi per oltre il 68%

Quanto guadagnava un ragazzo italiano nel corso degli anni Sessanta? E cosa riusciva a pagare con lo stipendio mensile? Quanto guadagna, invece, oggi? E cosa può comprare con quello che prende? La risposta a queste domande chiarisce le motivazioni dell’ormai cronica difficoltà delle aziende a trovare personale. Quest’estate il confronto sulla mancanza di lavoratori stagionali per bar, ristoranti e servizi turistici in generale ha assunto toni pi aspri che in passato: a seguito del Coronavirus, si dice, e con il reddito di cittadinanza, i giovani preferiscono stare a casa piuttosto che andare a lavorare. Spiegazioni per riferibili solo ad una parte dei giovani lavoratori. Ma consultando l’ultimo rapporto Excelsior della Camera di commercio di Firenze — che analizza il cosiddetto mismatch fra domanda e offerta di lavoro — si vede che in realtà le imprese cercano (e non trovano) principalmente figure con profili professionali medio-alti, giovani laureati con specializzazioni specifiche, non tanto e non solo lavapiatti e cucinieri: le stime del centro studi camerale dicono che la ripresa di settembre vede mancare circa 4 mila lavoratori all’ricorso nell’area metropolitana fiorentina. In termini percentuali significa che le…

Esplode nel 1962 la rabbia degli edili. E a Torino la rivolta dei metalmeccanici. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Agosto 2022.

«Bloccato per tre ore un tratto nel corso Vittorio Emanuele»: la «Gazzetta del Mezzogiorno» del 24 agosto 1962 dedica un trafiletto ad una manifestazione svoltasi il giorno prima nel centro della città di Bari. A poco più di un mese dalla rivolta dei metalmeccanici torinesi in Piazza Statuto, migliaia di edili pugliesi iniziano un lungo sciopero per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento del minimo sindacale (fermo a quattro anni prima, nonostante l’aumento del costo della vita), la tutela dagli infortuni.

La Puglia, così come l’intero Paese, sta vivendo una grande espansione economica: le città, e Bari in particolare, sono protagoniste di un boom edilizio che muta rapidamente la fisionomia urbana, attraverso demolizioni e sopraelevazioni troppo spesso selvagge.

Si tratta di una febbre edilizia che arricchisce piccoli e grandi costruttori, costringe gli operai ad un aumento ingiustificato dei ritmi di lavoro e sconvolge gli equilibri sociali delle città. La vertenza è promossa dalla Federazione italiana lavoratori legno edili e affini: gli industriali ignorano ogni richiesta di incontri sindacali e rifiutano la trattativa.

Per questo motivo, il 23 agosto gli operai si radunano sotto la sede dell’Associazione degli industriali. «Ieri un buon cinquanta per cento dei soliti rumori molesti ha disertato le orecchie dei baresi: niente montacarichi cigolanti, niente martelli pneumatici assordanti, niente colpi di piccone. Gli edili hanno scioperato, ostacolando il traffico in corso Vittorio Emanuele, dopo aver percorso le principali vie cittadine con motorette, fischietti, cartelli di protesta. Una commissione è stata ricevuta in Prefettura. La manifestazione è cominciata a primo mattino: gli scioperanti erano circa 700. S’è formato un corteo autorizzato, che ha percorso alcune delle principali vie cittadine. Ogni tanto gli scioperanti si fermavano sotto un cantiere in cui il lavoro procedeva regolarmente ed invitavano a gran voce i loro colleghi a scendere e a smettere».

Alcuni negozi hanno tenuto le saracinesche abbassate per tutto il corso della manifestazione, ma fortunatamente non si sono verificati incidenti. Il Prefetto affida all’Ufficio regionale del lavoro l’incarico di svolgere un’opera di mediazione tra industriali ed edili: ancora una volta non ci sarà nessun dialogo. Il giorno successivo, venerdì 24 agosto, esploderà però la rabbia degli operai. Nel cuore del capoluogo pugliese avrà luogo uno scontro violentissimo tra le forze dell’ordine e i manifestanti, che culminerà in oltre 200 arresti e più di 100 feriti.

La guerriglia degli edili del 1962. La guerriglia degli edili sulla «Gazzetta» del 25 agosto 1962. Sulla «Gazzetta» del 25 agosto compare la foto-notizia degli incidenti verificatisi a Bari durante la seconda giornata dello sciopero degli operai. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Agosto 2022.

In prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 25 agosto 1962 compare la fotonotizia dei gravissimi incidenti verificatisi a Bari durante la seconda giornata dello sciopero dei lavoratori edili. La foto dello studio Ficarelli mostra le camionette della Polizia nel corso principale della città con gli idranti in azione nel tentativo di disperdere i manifestanti. Il bilancio finale è di cento feriti: sessanta tra le forze dell’ordine, quaranta tra gli operai. Sei gli arresti.

«Vetri infranti alle finestre ed ai portoni di un palazzo di corso Vittorio. Danni notevoli anche a molte auto in sosta, due delle quali sono state capovolte, e a cinque negozi tra via Melo e corso Cavour. Il Traffico è rimasto bloccato per ore».

Dalla provincia erano arrivati circa 4000 lavoratori, che si erano poi uniti agli scioperanti baresi: con fischietti e cartelli avevo compiuto il giro dei cantieri rimasti attivi.  Sulle colonne della Cronaca di Bari si ricostruisce nei dettagli quanto avvenuto: «Il caos è cominciato alle 10. Un migliaio di lavoratori edili – chiedono, in sede provinciale, modifiche al contratto nazionale di lavoro – dopo aver occupato la sede stradale del primo isolato di corso Vittorio, come avevano già fatto l’altro ieri, hanno manifestato il proposito di assalire la sede dell’Associazione industriali.

Ai ripetuti inviti delle forze dell’ordine a calmarsi e a sgombrare, gli scioperanti hanno risposto con lanci di pietre contro le finestre del palazzo in cui ha sede l’Associazione ed aggredendo con le biciclette una camionetta della polizia che aveva iniziato un cosiddetto carosello, per disperderli. [...] Ma come mai disordini così gravi, incidenti che non si ricordavano da tempo, astio così profondo contro le forze dell’ordine? Non è facile dare una risposta a questi interrogativi. Parte della spiegazione degli incidenti è nella cronaca, nella dinamica degli avvenimenti, nell’incontrollabilità delle reazioni di una folla eterogenea, ma anche nell’infiltrazione tra le fila dei dimostranti di gente decisa a tutto».

Il cronista raccoglie le reazioni dei cittadini, estranei alle vicende: «Caspita, non ricordo una cosa del genere se non quattordici anni fa. Piazza Prefettura fu invasa da circa cinquemila braccianti agricoli. Arrivarono persino le autoblindo e i carri armati del IX Fanteria al completo: uno spiegamento di uomini che faceva paura. Che tempi!», è il commento di un anziano. Lo sciopero dei lavoratori edili non si fermerà: è il caldissimo agosto di sessanta anni fa.

Operai in rivolta: Bari «bruciava». Bilancio pesante con i cortei del 1962. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Agosto 2022.

La protesta dei lavoratori edili non si arresta. È il 26 agosto 1962: gli operai, che da alcuni giorni scioperano nel capoluogo pugliese per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento salariale e la tutela dagli infortuni, non intendono cedere ai ricatti. Bari, così come moltissime altre città italiane, è in preda ad una inarrestabile speculazione edilizia, che ne sta modificando inesorabilmente la fisionomia: demolizioni e sopraelevazioni selvagge devasteranno per sempre la fisionomia originale del centro murattiano. Per far fronte al boom del mattone, gli imprenditori sfruttano il più possibile le maestranze. Da qui nasce la protesta dei lavoratori, sostenuta dalla Fillea, Federazione italiana lavoratori legno edili e affini.

Dopo la calda giornata del 24, anche il giorno dopo Bari è stata turbata da gravi incidenti tra dimostranti e forza pubblica. Si legge nella didascalia della foto che ritrae carabinieri che affrontano una sassaiola, in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno»: «Gli scontri, ai quali hanno dato vita gruppi di facinorosi, che ben poco hanno in comune con i lavoratori edili, si sono protratti per tutta la giornata. Si sono avuti complessivamente 40 feriti. Le forze dell’ordine hanno tratto in arresto 216 persone». Tra i feriti, si riporta nelle pagine interne, c’è anche il reporter della «Gazzetta» Angelantonio De Tullio. «È stato colpito alla nuca con un corpo contundente da un dimostrante che sarà purtroppo ben difficile identificare. Il nostro De Tullio era davanti alla sede dell’Associazione degli industriali. S’è accasciato al suolo svenuto: soccorso da altri colleghi è stato trasportato al Policlinico dov’è ora ricoverato in patologia chirurgica per un trauma cranico e stato di choc. Era lì per seguire, così come aveva fatto l’altro giorno, gli avvenimenti: per attingere cioè dal vivo, minuto per minuto, le notizie per la Gazzetta. Stava svolgendo il suo lavoro con impegno e serietà professionale. Non faceva dunque male a nessuno quando è stato aggredito alle spalle».

Il prefetto Gira ha dichiarato che è stata segnalata la presenza di «sobillatori specializzati», di alcuni «professionisti della rivolta», arrivati addirittura da Milano. I 216 arrestati – il cui elenco completo è pubblicato nelle pagine interne del quotidiano – sono stati denunciati per adunata sediziosa: tra di loro moltissimi minorenni. Non c’è posto per tutti a Bari: cinquanta di loro sono trasferiti al carcere di Trani. Si annuncia un processo per direttissima: i migliori penalisti della città – tra di loro Muciaccia, Gironda, Papalia, Russo Frattasi e molti altri– si schiereranno a difesa dei lavoratori, ma occorreranno tre anni per ottenere la sentenza finale. A quasi tutti gli imputati si applicherà il provvedimento di amnistia del gennaio 1963.

«Non speculiamo sui fatti di Bari». Così Oronzo Valentini sugli scontri del ‘62. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2022.

È il 30 agosto 1962. Sono passati pochi giorni dal movimentato sciopero promosso dalla Fillea, Federazione italiana lavoratori legno edili e affini, che ha infiammato la città di Bari. Gli operai sono scesi in piazza per protestare contro lo sfruttamento e per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento salariale e la tutela dagli infortuni. Gli scontri violenti tra manifestanti e forza pubblica, avvenuti il 24 e 25 agosto 1962, si sono conclusi, però, con 216 arresti e mille polemiche.

Oronzo Valentini firma un editoriale su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dal titolo eloquente: «Non esageriamo con i “fatti di Bari”».

Il giornalista parte dalla posizione assunta dall’”Avanti!”, che ha ammonito quegli uomini politici e giornali di destra che in ogni manifestazione di operai vogliono vedere il proposito dei lavoratori di aggredire la polizia e di turbare l’ordine pubblico.

«Esistono anche dirigenti degli industriali edili che, di fronte a richieste dei miglioramenti salariali, a rivendicazioni contrattuali ed economiche, si rifiutano di riunirsi attorno a un tavolo, sia pure per dire alla controparte che non possono accettare le sue richieste. Tale fu la situazione verificatasi a Bari, ad essa risale la prima vera responsabilità di quel che è poi accaduto. I lavoratori edili erano esasperati non solo dal rifiuto di migliorarne i salari, ma anche da quello di discuterne» è la premessa di Valentini.

«Sono accadute, stanno accadendo e forse accadranno ancora le più varie deformazioni dei fatti di Bari. Si specula dall’estrema destra, la quale certamente vede il cEntro-sinistra come il fumo negli occhi, ma, probabilmente, non c’entra nulla in questi ultimi episodi. Si specula dall’estrema sinistra, la quale al centro-sinistra guarda con altrettanta ostilità, anche se spesso con più sottile gioco, ed è veramente responsabile di aver determinato gli incidenti di venerdì e sabato, infiltrando tra sparute schiere di edili agitatori noti ed individuati. [...] Nei fatti di Bari ci sono molte cose da deplorare, compresi alcuni eccessi individuali di agenti e carabinieri, nel pomeriggio del sabato, quand’essi ormai avevano sbaragliato il campo e s’erano assicurate le loro posizioni. Sono comunque da deplorare altresì le mille bugie che sono state dette in pochi giorni, le accuse indiscriminate che sono state lanciate. [...]

Auguriamoci che il dibattito alla Camera possa far emergere congruamente la verità e che nel frattempo gli edili possano tornare al lavoro per continuare a dare il loro contributo allo sviluppo della nostra città, con la soddisfazione di avere ricevuto per esso un più equo riconoscimento», conclude il direttore della “Gazzetta”.

Stipendi dei top manager: 649 volte quello di un operaio. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera l'11 Luglio 2022.

Sono 21 i Paesi europei che applicano per legge il salario minimo universale, altri sei (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) lo applicano settore per settore, attraverso la contrattazione collettiva. Ora l’Unione Europea ha stabilito che i salari minimi debbano essere aggiornati ogni due anni o al massimo ogni quattro per i Paesi che utilizzano un meccanismo di indicizzazione automatica. Il salario minimo, secondo Bruxelles, deve essere una tutela garantita per tutti i lavoratori. Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio annuale medio del 2,9%. Nessuno invece si pone il problema del salario massimo, e se deve esserci un rapporto fra lo stipendio dei top manager e quello dei loro dipendenti. 

Da Olivetti a Tavares

Adriano Olivetti diceva che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso». In quegli anni di boom economico per il nostro Paese, l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta guadagnava 12 volte un operaio. L’ultimo stipendio di Sergio Marchionne a Fca nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico. Stiamo parlando cifre lorde, dove la remunerazione di un top manager è composta da quota fissa e quota variabile, in parte legata ai risultati, alle quali si aggiungono spesso le stock option e la buonuscita quando se ne va. Decisioni che vengono prese dal Cda o dall’assemblea dei soci all’atto della nomina. 

Oggi l’azienda si chiama Stellantis, e nel 2021 l’ad Carlos Tavares ha percepito 19,10 milioni di euro: stipendio giustificato dai risultati (+14% dei ricavi), ma pesantemente criticato dallo Stato francese che detiene il 6,1% del gruppo e bocciato il 13 aprile 2022 dal voto consultivo del 52% dei soci. Tavares prende più del doppio di Herbert Diess, capo del Gruppo Volkswagen (circa 8 milioni di euro), e il quadruplo di Oliver Zipse di Bmw (5,3 milioni) e di Ola Källenius di Mercedes-Benz (5,9 milioni). Guadagna sulla carta 758 volte un suo metalmeccanico. Sulla carta perché la ex-Fiat fa un massiccio uso della cassaintegrazione che da una parte diminuisce lo stipendio reale degli operai e dall’altra migliora gli utili dell’azienda. Marco Tronchetti Provera incassa 8,1 milioni (296 volte quello di un operaio Pirelli), grazie a un utile passato da 44 a 216,6 milioni. L’operaio però non ha beneficiato di quell’utile che ha contribuito a creare e, infatti, il suo stipendio medio è rimasto tale e quale: 27.374 euro. 

Stipendi operai: meno 4%

Nel 1980 gli amministratori delegati più pagati prendevano 45 volte un loro dipendente. Nel 2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41 milioni di euro, 416 volte lo stipendio medio annuo di un operaio; nel 2020 è stata di 9,59 milioni, cioè 649 volte. Nella traccia indicata da Olivetti si colloca invece la media degli stipendi dei dirigenti intermedi. Nel 2008 ci volevano 8,3 stipendi di un operaio per fare quello di un dirigente medio, nel 2020 si è passati a 10. Mentre in questi dodici anni lo stipendio medio di un operaio è sceso del 4%. 

L’indecenza delle buonuscite

Eppure non sempre c’è correlazione tra risultati e stipendi. Nel 2021 Andrea Orcel, ad di Unicredit, ha ricevuto una remunerazione di 7,5 milioni di euro: 2,5 milioni di euro di quota fissa e 5 milioni di quota variabile, integralmente incassata, agganciata per il 70% a target finanziari e per il 30% alle priorità strategiche, a partire dalla sostenibilità. UniCredit ha confermato la remunerazione di Orcel, giunto in Italia per la fusione con Mps mai avvenuta, anche per il 2022. Questo nonostante la stessa UniCredit abbia calcolato un’esposizione passiva delle sue attività russe per 5,2 miliardi. Nel 2021 Luigi Gubitosi lascia Tim, e l’azienda che sta perdendo 8,7 miliardi gli riconosce una buonuscita da 6,9 milioni. Poca cosa rispetto ai 25 milioni del suo predecessore Flavio Cattaneo per aver amministrato per poco più di un anno, o i 40,4 milioni ad Alessandro Profumo per i 12 anni in Unicredit. Dopo la sua uscita sono emerse perdite nette pari a 9,2 miliardi. Ma non tutti sono uguali. Vincenzo Maranghi, per 15 anni amministratore delegato e direttore generale di Mediobanca, lascia il comando nel 2003 rinunciando all’indennità di uscita. Considerava gli incentivi finanziari amorali. Infatti non ha mai voluto stock option perché «quando mi faccio la barba prima di entrare in banca – diceva – non posso neanche per un istante pensare che durante quella giornata io possa prendere una decisione che possa sembrare nel mio interesse e non in quello della banca». 

Chi va in controtendenza

In Banca Etica i supermanager non vengono premiati con stipendi di platino. La componente variabile non può superare il 15% della retribuzione annua lorda fissa e il rapporto tra lo stipendio più basso e quello più alto è al massimo di sei volte. Nel 2020 il direttore generale e la presidente hanno percepito, rispettivamente, un compenso totale di 157.368,48 e 74.481,56 euro. L’esercizio 2021 si è chiuso con l’utile in forte crescita rispetto al 2020: 16,7 milioni di euro, quasi triplicato rispetto al 2020. Stessa politica per le altre 13 banche etiche europee dove il rapporto tra la remunerazione più bassa e quella più alta arriva al massimo a 12,6 volte. 

Cosa succede negli Stati Uniti

Negli Stati Uniti la differenza salariale la chiamano «pay gap» e, dal 2018, per tutte le aziende quotate è obbligatorio renderla nota alla Sec, la Consob americana. Lo prevede una legge promulgata nel 2010 sull’onda della crisi finanziaria del 2008 e più volte rivista. Dovrebbe servire a promuovere la stabilità finanziaria degli Stati Uniti, proteggere i contribuenti e i consumatori, migliorando la trasparenza del sistema, ma non ha inciso di una virgola sulla disparità salariale. Secondo l’America Federation of Labor nel 2020, ultimo dato disponibile, la retribuzione media degli amministratori delegati delle aziende quotate allo S&P 500 è stata di 299 volte superiore a quella mediana dei lavoratori. Con delle eccezioni: Kevin Clark, Ceo della società di componenti automobilistici Aptiv PLC, con i suoi 31,2 milioni di dollari ha guadagnato 5.294 volte lo stipendio mediano. David Goeckeler (Western Digital Corporation): 35,7 milioni di dollari, 4.934 volte quello mediano. Sonia Syngal (The Gap): 21,9 milioni di dollari, con un divario di 3.113. Nella top ten troviamo anche Christopher Nassetta del Gruppo Hilton (55,9 milioni di dollari, 1.953 di divario), John Donahoe II della Nike (55,5 milioni di dollari, 1.935 di divario) e James Quincey della Coca Cola (18,4 milioni, 1.621 volte). Ma cosa succede per esempio ad Elon Musk? Il suo stipendio annuo ufficiale è di appena 23.760 dollari, addirittura più basso dello stipendio mediano del suo gruppo. Però il patron di Tesla e SpaceX è l’uomo più ricco del pianeta. Nel 2021 ha chiuso l’anno al primo posto sia del Bloomberg Billionaires Index, sia del ranking Billionaires di Forbes, che gli accreditano una ricchezza di oltre 270 miliardi di dollari, 117 in più rispetto al 2020. Eppure al comparire della crisi economica globale, schiacciata da inflazione e incertezze, non ha esitato ad annunciare 10 mila licenziamenti (il 10% di Tesla). 

Il senso del limite

Lo studio dell’Economic Policy Institute mostra che dal 1978 al 2018 le remunerazioni dei Ceo sono cresciute del 940% e quelle dei manager del 339,2%, contro l’11,9% del salario del lavoratore tipo. Una escalation che ha ampliato il divario tra i redditi del 10% della popolazione più ricca rispetto all’altro 90%. 

Secondo la prestigiosa Organizzazione indipendente statunitense l’economia non subirebbe alcun danno se gli amministratori delegati fossero pagati di meno e suggerisce:

1) adottare soluzioni politiche che limitino stipendi e incentivi per gli amministratori delegati;

2) introdurre imposte più elevate sui redditi ai massimi livelli;

3) fissare aliquote d’imposta più alte per le aziende che hanno un gap più elevato tra la retribuzione di Ceo e lavoratore;

4) consentire agli azionisti di votare il compenso dei massimi dirigenti.

Anche la Francia, dopo la contestazione a Tavares, ha chiesto maggiori regolamentazioni europee in materia. Mentre la Svizzera, patria dei segreti bancari, degli anonimati e delle fiduciarie, già nel 2013 ha vietato per legge premi di benvenuto, le buonuscite e indennità di intermediazione in caso di acquisto di un’azienda da parte della concorrenza. Chi sgarra rischia tre anni di carcere. Ora più che mai le grandi imprese devono stabilire dei limiti massimi non scandalosi e limiti minimi che diano dignità agli ultimi anelli della catena, poiché nessuna azienda prospera senza il loro lavoro.

Il salario minimo ha senso solo se tutela anche gli autonomi. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 19 Luglio 2022. 

Quando si parla di lavoro in Italia si pensa sempre ai dipendenti. Ma i 5 milioni di partite Iva sono più a rischio povertà. La presidente di Acta: «Il ddl di Fratelli d'Italia? Meglio che non venga approvato. Una legge sbagliata è peggio dell’assenza di una legge».

In Italia è povero anche chi lavora. Un occupato su dieci ha un reddito inferiore a quello che sarebbe necessario per vivere dignitosamente, secondo i dati che il ministro del Lavoro Andrea Orlando e l’economista Ocse Andrea Garnero hanno presentato a inizio 2022. Tra questi, coloro che versano nelle condizioni peggiori sono i lavoratori autonomi.

Come si legge nel report di Oxfam Disuguitalia, il 17 per cento degli indipendenti fa parte dei working poor, cioè di coloro che pur avendo un’occupazione, sono a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo, dell’incapacità di risparmio. Non conta solo lo stipendio percepito, perché anche il nucleo familiare e le ore lavorate hanno un peso. Anche per questo pensare a una legge sul salario minimo che non tenga in considerazione le partite Iva significa non voler risolvere il problema della povertà.

Perché, sebbene il numero sia in diminuzione, il nostro rimane il paese degli autonomi, che sono circa 5 milioni. Il 16,3 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha una partita Iva, contro il 9,2 per cento della media europea, visto quanto emerso dallo studio elaborato da La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Eppure, il lavoro indipendente è rimasto escluso dall’agenda politica e dal dibattito che si è aperto in seguito all’accordo trovato dall’Unione europea per promuovere l'adeguatezza dei salari minimi legali negli Stati membri, lasciando a ciascuno la possibilità di legiferare in proposito.

C’è una proposta di legge avanzata da Fratelli d'Italia in discussione al Parlamento da ottobre 2021, che dovrebbe garantire alle partite Iva retribuzioni adeguate. Ma, per  Anna Soru, Presidente di Acta,  l’associazione dei freelance italiani, ovvero di tutti i professionisti indipendenti che operano prevalentemente con la partita Iva ma non solo, «è meglio che non venga approvata. Perché una legge sbagliata è peggio dell’assenza di una legge. Il ddl trasmette l’idea che siano i lavoratori colpevoli di accettare compensi non equi attribuendo agli ordini professionali la facoltà di adottare sanzioni deontologiche nei confronti degli iscritti che accettano una parcella troppo bassa. Inoltre, non prende in considerazione tutti gli autonomi ma solo i professionisti che lavorano per banche, assicurazioni, pubblica amministrazione e per imprese con ricavi superiori a 10 milioni di euro o con più di 50 dipendenti. Mentre gli autonomi sono un gruppo eterogeneo e molto più vasto».

Per Soru il fatto che in un momento di crisi generalizzata del mondo del lavoro le partite Iva siano tra coloro che vivono la situazione peggiore dipende da più ragioni: il trattamento fiscale, la scarsa presenza di bonus e agevolazioni. Ma soprattutto la mancanza di parametri su cui basare la richiesta di retribuzione. Che troppo spesso è conseguenza dalla volontà del cliente più che dalle reali capacità contrattuali del lavoratore. «Per questo, un salario minimo legale unico fungerebbe da limite chiaramente riconoscibile. Tutti saprebbero che pagare un lavoratore sotto quella soglia è illegale. Perché il mercato del lavoro è lo stesso e le condizioni di subordinati e indipendenti si influenzano reciprocamente». E perché per contrastare il lavoro sottopagato è necessario agire dove questo si annida. Dove mancano le tutele. 

Rapporto Inps, un lavoratore su 4 guadagna meno del reddito di cittadinanza. Gianluca Zapponini su Il Tempo il 12 luglio 2022

In Italia oltre due lavoratori su dieci guadagnano meno di 780 euro, ovvero l’importo che porta il nome di Reddito di cittadinanza. Non sono calcoli buttati giù alla rinfusa, ma cifre esatte contenute nell’ultimo rapporto annuale dell’Inps, presentato ieri mattina dal presidente Pasquale Tridico.

Il 23% dei lavoratori italiani percepisce meno di 780 euro al mese, considerando anche i part-time. Per contro, «l’1% dei lavoratori meglio retribuiti ha visto un ulteriore aumento di un punto percentuale della loro quota sulla massa retributiva complessiva», è la sentenza di Tridico, risuonata nelle stanze di Montecitorio. «La distribuzione dei redditi all’interno del lavoro dipendente si è ulteriormente polarizzata, con una quota crescente di lavoratori che percepiscono un reddito da lavoro inferiore alla soglia di fruizione del reddito di cittadinanza», ha spiegato il numero uno dell’Istituto.

«La crisi ha lasciato strappi vistosi nella distribuzione dei redditi lavorativi. Se si considerano i valori soglia del primo e dell’ultimo decile nella distribuzione delle retribuzioni dei dipendenti a tempo pieno e pienamente occupati, per operai e impiegati (escludendo dirigenti, quadri e apprendisti), emerge che il 10% dei dipendenti a tempo pieno di tale insieme guadagna meno di 1.495 euro, il 50% meno di 2.058 euro e solo il 10% ha livelli retributivi superiori a 3.399 euro lordi». La retribuzione media delle donne nel 2021 «risulta pari a 20.415 euro, sostanzialmente invariata rispetto agli anni precedenti e inferiore del 25% rispetto alla corrispondente media maschile».

E proprio sul reddito di cittadinanza è intervenuto direttamente il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, secondo il quale «i beneficiari non scappano dal mercato del lavoro. Ricordo che nel complesso i beneficiari di questo strumento costituiscono una platea con scarse esperienze lavorative pregresse, spesso saltuarie, anche a causa di livelli di istruzione mediamente molto bassi». Ma c’è un altro dato che fa rabbrividire. E cioè che sono oltre 4,3 milioni i lavoratori che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora.

«Se il quadro occupazionale appare promettente, segnali più preoccupanti vengono dalla dinamica retributiva». Ad ottobre 2021 i 27 contratti collettivi nazionali di lavoro principali occupavano circa l’80% dei dipendenti totali. Nel biennio 2019-2021 sono aumentati significativamente i dipendenti con Ccnl riguardanti poche decine o centinaia di dipendenti. Il salario mensile corrispondente a un salario lordo di 9 euro all'ora è pari a poco più di 1.500 euro e viene percepito da 4.532.476 dipendenti che rientrano in 257 contratti collettivi nazionali.

Guardando poi alle questioni di genere, la percentuale di part-time è al 46% tra le donne, il dato più alto nella Ue, contro il 18% tra gli uomini, e una parte prevalente di questo part-time è considerato involontario. Tornando alle parole del ministro Orlando, il responsabile del Lavoro ha puntato il dito contro le diseguaglianze. «Il complessivo quadro di tenuta del sistema del welfare è anche il risultato dello sforzo che, come Paese, abbiamo profuso nell'affrontare la crisi legata all'emergenza sanitaria. Purtroppo, la guerra in Ucraina e i processi di transizione in atto nell'economia non ci consentono di stare tranquilli e il tema del contenimento e del contrasto alle diseguaglianze e ai rischi di esclusione sociale sono sempre più centrali. Quella del Pnrr attraverso il Next Generation Eu è stata una risposta importante dell’Europa a un problema comune ed è un paradigma da non abbandonare anzi da consolidare, soprattutto in questa fase. In questo quadro emergenziale che ci accompagna da oltre due anni, all'Inps oltre ai suoi tradizionali compiti è stata affidata la responsabilità di soggetto attuatore delle misure di sostegno varate dal governo».

I numeri del 'sistema Italia' in crisi. Salari da fame e pensioni vuote, l’Inps certifica la crisi: un lavoratore su 4 guadagna meno del Reddito di cittadinanza. Redazione su Il Riformista l'11 Luglio 2022 

Lo aveva certificato l’Istat nei giorni scorsi nel suo rapporto annuale, lo ribadisce oggi l’Inps: l’Italia è un paese in crisi, sempre più povero e dove le diseguaglianze crescono a spesso spedito, mentre il sogno di una pensione dignitosa per le generazioni future appare come un miraggio.

La fotografia impietosa del “sistema Italia” arriva dal rapporto annuale elaborato dall’Inps e presentato questa mattina alla Camera dei deputati dal suo numero uno Pasquale Tridico davanti anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Una Italia che diventa il regno dei redditi bassi, del precariato o, peggio, del lavoro povero: il tutto si traduce in pensioni da fame, o da incubo per la generazione X, i nati tra il 1965 e il 1980. A dirlo non sono le ‘Cassandre’ ma i numeri: la percentuale di lavoratori sotto la soglia di nove euro lordi l’ora è del 28 per cento, ovvero oltre 4,3 milioni di persone, e quasi un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro al mese, considerando anche i part-time.

Numeri che evidenziano un ulteriore paradosso: sono quasi quattro milioni i lavoratori che percepiscono un reddito inferiore alla soglia del Reddito di cittadinanza: nel dettaglio il 23% dei lavoratori guadagna meno di 780 euro al mese mentre il 10 per cento dei dipendenti a tempo pieno guadagna meno di 1.495 euro, il 50 per cento meno di 2.058 euro e solo il 10 per cento ha livelli pari a 3,399 euro lordi.

La questione del lavoro povero è, per così dire, una ‘eccellenza’ nostrana: nel Belpaese la povertà lavorativa interessa l’11,8% degli occupati, contro una media europea che scende al 9,2 per cento secondo i dati Eurostat. E come sottolineato da Tridico nel rapporto, “chi è povero lavorativamente oggi sarà un povero pensionisticamente domani”.

Il capitolo pensioni è infatti l’ennesimo bubbone da affrontare. Il 40 per cento dei sedici milioni di pensionati ha percepito meno di 12mila euro l’anno, mille euro al mese, dato che scende al 32% se consideriamo integrazioni al minimo, trasferimenti e maggiorazioni. Nel rapporto l’Inps ha inserito anche una proiezione sulla ‘pensione tipo’ della generazione X. Il lavoratore nato tra il 1965 e il 1980, se ha versato 9 euro l’ora per 30 anni di lavoro, quando andrà in pensione a 65 anni riceverà 750 euro al mese. Una cifra che, come sottolineato dallo stesso Tridico, è “superiore al trattamento minimo”. ad oggi di 524 euro.

Una delle soluzioni proposte da Tridico probabilmente non farà piacere alla destra sovranista del duo Salvini-Meloni. Per il numero uno dell’Inps la regolarizzazione di cittadini stranieri è “una strategia aggiuntiva per rafforzare la sostenibilità del sistema“, un metodo che permetterebbe di coprire posti di lavoro non sostituiti a causa dell’invecchiamento della popolazione e della loro scarsa attrattività. In particolare già le regolarizzazioni del 2020 si sono mostrate efficaci per coprire il fabbisogno in settori come lavoro domestico o agricolo.

CHI PUÒ BENEFICIARE DELLA RIFORMA. Badanti, guide e vigilantes. L’esercito del salario minimo. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 08 giugno 2022

Sono in totale quattro milioni e mezzo i dipendenti che in Italia guadagnano meno di nove euro all’ora. E due milioni e mezzo percepiscono una cifra inferiore agli otto euro.

L’impatto maggiore della riforma si avvertirebbe nel settore dei servizi per le imprese. Alta l’incidenza anche per il settore turistico: uno su quattro è sotto la soglia prevista dal ddl Catalfo.

Lavoratori domestici e operai agricoli fanno storia a sé. L’associazione delle colf chiede che la proposta di legge, sottolineando la specificità della categoria, come evidenziato anche dall’Inps.

STEFANO IANNACCONE. Giornalista professionista, è nato ad Avellino, nel 1981. Oggi vive a Roma, collaborando con varie testate nazionali tra cui Huffington Post, La Notizia, Panorama e Tpi. Si occupa principalmente di politica e attualità. Ha scritto cinque libri, l'ultimo è il romanzo Piovono Bombe.

Salari e tasse sul lavoro. Perché in Italia i salari sono bassi, di chi è la colpa. Michele Prospero su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

Le cifre, che impietose documentano la realtà del lavoro povero, smentiscono una trita retorica per cui i lavoratori italiani hanno goduto sinora di una ricchezza schizzata ben al di sopra delle proprie possibilità di vita. Nel Bengodi dell’opulenza i salari in trent’anni sono addirittura scesi, mentre altre economie europee registravano crescite significative nelle retribuzioni. Quando si guarda sbigottiti al populismo, al fenomeno dell’operaio che vota a destra, si trascura di considerare i rapporti di produzione. L’essere sociale modellato sugli schemi della precarietà, dell’incertezza e dello sfruttamento non ha rappresentanza politica. Perché mai i ceti operai dovrebbero collocarsi a sinistra nella ginnastica dell’alternanza che, nel mutare del personale di governo, assume come variabile indipendente proprio la marginalizzazione del lavoro?

La rinuncia al radicamento sociale ha reso friabile il sistema politico, esposto alle intemperie dell’antipolitica populista, ha condannato alla povertà il lavoro, con una giungla contrattuale proliferata per fiaccare la resistenza della forza lavoro, e ha condannato ad essere scarsamente innovativo il meccanismo produttivo. La scomposizione della soggettività politica del lavoro non è solo l’effetto di grandi trasformazioni, è anche la causa di fenomeni regressivi che, nel regime della decrescita trentennale, accentuano l’alienazione politica e il ribellismo antipolitico. L’illusione che il test dell’alternanza di governo, e l’apprendistato delle più sofisticate ricette di ingegneria costituzionale comparata che ha suggerito di cambiare cinque leggi elettorali in trent’anni, garantisse il consolidamento della Seconda Repubblica è caduta. Nessun regime politico riesce a stabilizzarsi, e a superare le periodiche crisi di legittimazione, senza le condizioni della crescita, della redistribuzione, dell’inclusione sociale. Il politicismo di partiti svuotati nelle idee e negli interessi materiali ha dimenticato, assieme alla critica dell’economia politica e al progetto di una alternativa di società, anche il governo della modernizzazione per soddisfare gli imperativi della divisione internazionale del lavoro.

Il disegno su cui è nata la Seconda Repubblica è quello del vincolo esterno (le “scadenze imperative” di Maastricht) come lo strumento del destino per indurre all’accettazione passiva delle “riforme” liberiste le quali, per uscire dalla vecchia economia mista, esigevano, così si esprimeva Michele Salvati, processi competitivi con “una dinamica contenuta dei salari monetari e una elevata flessibilità nelle condizioni di lavoro”. Questo modello di riforme, per creare economie dinamiche attraverso “lo si voglia o no, la flessibilità salariale e tutte le altre flessibilità del rapporto di lavoro e delle relazioni industriali”, è fallito politicamente (reiterati “crolli di regime” nel 2013 e nel 2018) e socialmente (generazioni perdute, trentennio di decrescita e stagnazione). La retorica del “grande accordo del 23 luglio 1993” si sgonfia anch’essa dinanzi ad una moderazione salariale (e alla rinuncia ad ogni forma incisiva di indicizzazione in rapporto all’inflazione) che, in un trentennio poco glorioso, da emergenziale è diventata uno strutturale dato di sistema.

Si impone una riforma di sistema del capitalismo italiano per arrestare il declino, ma mancano le culture e gli attori necessari per abbozzare un compromesso politico e di classe. La Confindustria sostiene che i salari non possono essere sganciati dalla produttività. Ma la scarsa produttività del sistema è stata provocata dall’alleanza tra politica post-ideologica, senza una vaga idea di socialismo, e impresa siglata nei primi anni ’90. Con essa si imposero privatizzazioni, svendite del pubblico, delocalizzazioni, frammentazioni normative e moltiplicazione delle tipologie contrattuali, fuga dalle grandi sfide per acciuffare l’innovazione tecnologica nei settori strategici dello sviluppo. Se la produttività in Italia dal 1995 ad oggi è cresciuta di appena 10 punti, mentre nell’Eurozona la cifra è superiore al 40%, ciò si spiega per il fallimento storico delle classi dirigenti dell’economia e della politica nel disegnare un modello efficace per favorire l’aggancio dell’apparato produttivo italiano ad un competitivo tempo di economia della conoscenza.

La produttività ha dei limiti strutturali a decollare nel micro-capitalismo dei territori, che guarda soprattutto al mercato estero per badare alla soddisfazione della domanda interna, e nella diffusione di attività commerciali a basso contenuto tecnologico-cognitivo. La deflazione salariale, l’incertezza contrattuale, la precarietà hanno scandito le tappe di una economica della de-crescita e della stagnazione trentennale. Non basta, come sostiene il Pd, prevedere meno tasse sul lavoro per migliorare le condizioni di vita. In Francia e in Germania le tasse sul lavoro sono addirittura più elevate di quelle italiane, e però i salari sono ugualmente cresciuti di oltre il 30%. Il limite di molte proposte oggi in discussione è quello di concepire il miglioramento del salario solo grazie all’intervento creativo del governo nelle aliquote fiscali. Senza un recupero significativo dei capitali caduti nell’evasione fiscale, la pura manutenzione delle aliquote e la pioggia dei bonus occasionali si riverberano però nella decurtazione dei fondi per i beni pubblici.

Con bonus, tagli, esenzioni si concede qualche briciola in più nella busta paga, ma tagliando le risorse della fiscalità generale, e cioè contraendo i fondi essenziali per la progettazione di un nuovo modello di crescita. Il sindacato deve recuperare una vocazione conflittuale: non è il pubblico la controparte, quasi che il salario fosse una determinazione politica statica, che solo maneggiando il fisco si può smuovere. La contrattazione (la legge sulla rappresentanza effettiva delle organizzazioni a questo dovrebbe puntare) non può che colpire anche la controparte, e cioè erodere la quota di profitto per incrementare la fetta del salario.

L’appalto al governo tecnico del compito di recupero della modernizzazione si arena tra gli scogli della guerra, che ne enfatizza i limiti politici e l’assenza di una capacità di destinazione qualitativa degli investimenti (sperperi in bonus facciate, invece che investimenti per beni pubblici, innovazione, politiche industriali). Il pendolo della Seconda Repubblica, oscillante tra momenti di populismo, con coalizioni della decrescita (Quota 100, flat tax, bonus e sussidi improduttivi), e fasi di tecnicismo con interventi di salvataggio-risanamento della finanza pubblica ispirati dal vincolo esterno, svela una carenza storica organica: mancano un partito del socialismo, un’impresa dell’innovazione, un sindacato del conflitto. Michele Prospero

Il salario minimo, ecco la situazione in Europa: dai 332 euro in Bulgaria agli oltre 2.200 in Lussemburgo. Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.  

I salari più alti sono quelli dei Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale

Raggiunto l'accordo tra Consiglio, Parlamento e Commissione Ue sulla direttiva per il salario minimo. L'intesa dovrà ora essere approvata in via definitiva sia dal Parlamento sia dal Consiglio Ue, Poi toccherà ai Paesi membri recepirla. Ma qual è l'attuale situazione nell'Unione Europea? Si tratta di un quadro estremamente disomogeno. Sono 21 dei 27 i Paesi dell'Unione in cui è previsto. L'Italia resta fuori con Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. La forchetta va dai 332 euro al mese della Bulgaria ai 2.256 del Lussemburgo. I salari più alti sono quelli dei Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale, proporzionati tanto allo standard degli stipendi in generale che al costo della vita. Gli importi più bassi sono quei dei Paesi Baltici e dell'Europa orientale e centrale a seguire quelli degli Stati dell'Europa Meridionale. Bisogna però segnalare che negli ultimi 10 anni i Paesi dell'Europa orientale hanno fatto registrare il miglioramento più considerevole In testa c'è la Romania che, secondo Eurostat, ha visto aumenti dell'11,1%. Nell'Europa Nord-Occidentale gli incrementi dei salari sono stati invece più contenuti ma sono comunque aumentati in tutti i Paesi che ne sono provvisti. Unica eccezione quella che riguarda la Grecia dove invece si è registrato un calo dell'1,4%. A variare, tra i paesi Ue, non è soltanto l’entità del salario minimo nazionale ma anche il suo rapporto con i redditi medi. In 5 paesi Ue il salario minimo ammonta a più della metà del reddito medio.

Stipendi, che cosa cambia? L’ipotesi dei 9 euro all’ora. Rita Querzé e Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.  

Perché in Italia non c’è il salario minimo legale? 

Perché in Italia è molto diffusa la contrattazione. I contratti nazionali stipulati da sindacati e imprese coprono, secondo l’Inapp (fa capo al ministero del Lavoro), l’88,9% dei dipendenti di imprese del settore privato extra-agricolo con almeno un dipendente. Proprio per questo le parti sociali hanno tradizionalmente ritenuto inutile una legge che introducesse il salario minimo, se non dannosa, perché avrebbe ridotto il loro ruolo.

Quanti guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora?

Se si fissasse un salario minimo di 9 euro lordi l’ora, come diverse proposte in Parlamento, ci sarebbe (dati Inps) il 18,4% di lavoratori sotto questa soglia, considerando salario base più la tredicesima. Quota che scende al 13,4% se la soglia fosse di 8,5 euro e al 9,6% se a 8 euro. Pur sempre tanti, ma generati soprattutto dai rapporti di lavoro precari, più che dai minimi dei contratti. I dati Istat, nonostante siano riferiti al 2019, mostrano che già allora il valore medio delle retribuzioni contrattuali orarie era di 14 euro e quello mediano di 12,5 euro.

A chi si applicherebbe il salario minimo?

Secondo una ricerca Adapt di Michele Tiraboschi e Silvia Spattini, utilizzando dati Inps e Istat, i contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil coprono 12,5 milioni di lavoratori dipendenti privati, cioè il 97% della platea potenziale (escluso i settori agricolo e domestico). Quelli cui non risulta applicato un contratto sono 700-800mila. Gli stessi ricercatori evidenziano che proprio in agricoltura e nel lavoro domestico c’è il più alto tasso di «irregolarità pari rispettivamente al 39,7% e al 58,6% delle unità di lavoro equivalente a tempo pieno». La retribuzione oraria lorda media è di 9,2 euro in agricoltura e di 7,3 euro per il lavoro domestico, i valori più bassi di tutti i settori.

Quali effetti avrebbe il salario minimo?

Il salario minimo legale, nella versione di cui si discute in Italia, potrebbe costituire un paracadute per tutti i lavoratori non coperti dai contratti: una minoranza, come abbiamo visto. Diverso sarebbe se fissasse un valore minimo orario per qualunque tipo di lavoro dipendente o parasubordinato e se questo venisse applicato, per esempio, anche a tirocinanti, collaboratori, lavoratori occasionali, indipendentemente dalla categoria e dal contratto di appartenenza.

Che succede ora con la direttiva Ue?

Nell’immediato poco o nulla. Di fatto la direttiva non impone il salario minimo per legge. Dove la contrattazione è forte, come da noi, si potrà andare avanti definendo i minimi salariali nei contratti nazionali di categoria. Ma in Italia ce ne troppi: 935. Di questi solo la metà utilizzati e poco meno di 200 firmati da Cgil, Cisl e Uil. Nella giungla si nascondono anche intese firmate al ribasso da associazioni datoriali e sindacati dalla dubbia rappresentatività. La direttiva in realtà non impone interventi per disboscare. Ma fissa dei parametri di riferimento: nei Paesi dove si introduce il salario minimo per legge, questo non potrà essere più basso del 50% della retribuzione media o della retribuzione mediana. Rispettivamente 10,59 euro o 7,65 euro, secondo i calcoli dell’ex ministra Nunzia Catalfo.

Adesso quali saranno i prossimi passaggi?

La direttiva deve essere approvata dalla plenaria del Parlamento europeo e poi dal consiglio. Quindi sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Da quel momento gli Stati avranno due anni per recepirla.

Quale è la proposta del ministero del Lavoro?

Secondo la proposta del ministro Andrea Orlando, il salario minimo potrebbe coincidere col «Trattamento economico complessivo» definito dai contratti. Da notare: il Tec tiene dentro un po’ tutto: il minimo più compensi legati al recupero di produttività e anche il welfare. Il lavoratore con una retribuzione inferiore, per vedersi riconosciuta la differenza, dovrebbe rivolgersi al giudice. Che dovrebbe prendere come riferimento il Tec. Non un Tec qualunque: quello fissato dai contratti firmati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. E toccherebbe al giudice definire quali sono.

Quali sono le proposte in Parlamento? Come si schierano i partiti?

Il M5S è favorevole al salario minimo legale, nel Pd prevale l’idea di un salario minimo definito dai contratti. La proposta Catalfo punta a tenere insieme queste posizioni: il salario minimo è definito dai contratti, si eliminano i contratti pirata individuando i criteri per misurare sindacati e organizzazioni delle imprese maggiormente rappresentativi, e si stabilisce che in ogni caso il salario orario minimo legale non possa essere più basso di 9 euro lordi.

Giusy Franzese per “il Messaggero” il 7 giugno 2022.

A guardare le tabelle Istat relative alla retribuzione oraria media per tipologia di contratto, si resta sorpresi: nel settore privato in pratica le cifre orarie sono tutte già sopra ai 9 euro lordi di cui tanto si discute per il salario minimo. Niente paghe da fame, come invece denuncia il leader dei Cinquestelle Conte. 

Anzi. In queste tabelle ci troviamo di fronte a stipendi decisamente dignitosi, pari anche a due volte e mezzo il salario minimo pentastellato. È il caso ad esempio dei dipendenti del comparto fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata: la retribuzione oraria media per chi ha un contratto a tempo indeterminato è pari a 23 euro e 34 centesimi.

I colleghi del comparto estrazione di minerali da cave e miniere prendono ancora di più: 23,58 euro all'ora. Ovvero 3.772 euro al mese (su 40 ore a settimana). Il valore medio nell'industria, senza il settore costruzioni, è di 16,34 euro, quasi il doppio rispetto al salario minimo fissato a 9 euro. Le costruzioni stanno quasi a 13 euro (12,91). 

Ma anche le attività del commercio, dei trasporti, dei servizi, dell'alloggio e della ristorazione - stando a queste tabelle - viaggiano tutte abbondantemente sopra i 9 euro con valori che vanno da 11,5 euro ai 15 euro lordi all'ora. 

E quindi? Davvero nessuno in Italia prende meno di 9 euro? No, non è così. Le tabelle Istat fanno riferimento ai valori medi e, come insegna Trilussa, se io mangio un pollo intero e tu niente, la media è metà pollo a testa, ma tu non hai mangiato nulla e io ho invece lo stomaco strapieno.

In realtà sono tanti i lavoratori in Italia a stomaco semivuoto. Il 21% di tutti i lavoratori dipendenti del settore privato, con l'esclusione di operai agricoli e domestici, secondo i dati Inps relativi sempre al 2019 (così da poterli comparare con le tabelle Istat relative sempre ai dati 2019). Un lavoratore su cinque.

Sono sotto i 9 euro lordi il 52% dei dipendenti degli artigiani, il 34% del terziario, e il 10% dell'industria. Stando a quest' ultimo dato, bisogna riconoscere che quindi ha ragione il presidente Bonomi quando sostiene che in realtà le imprese del sistema confindustriale sono tutte posizionate sopra i 9 euro. Diverso è il discorso per gli artigiani, le piccole imprese, il turismo e la ristorazione.

Per i pubblici esercizi e il turismo sono sotto i 9 euro l'ora i cuochi, i camerieri di ristorante, i barman, i pizzaioli e i gelatieri (al quarto livello con 8,77 euro), il personale di pulizia e fatica addetto alla sala o alla cucina (settimo livello, 7,28 euro), i giardinieri, i centralinisti, i camerieri ai piani e anche le guardie giurate (quinto livello, 8,21 euro). Numerose le qualifiche sotto i nove euro nel contratto del commercio: dalle commesse ai magazzinieri. Il minimo retributivo del livello più basso del contratto del commercio è infatti pari a 1273 euro al mese, che all'ora significano 7 euro e 95 centesimi. 

Si posizionano sotto i 9 euro l'ora anche gli autisti del noleggio e i dipendenti delle agenzie di viaggio. Ovviamente il fenomeno delle paghe basse spopola al Sud e nelle isole (il 31% dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lordi all'ora) ; è molto presente al Centro (26%), ma si presenta corposo (19%) anche al Nord. Sulla platea complessiva il 9% dei lavoratori è al di sotto anche degli 8 euro orari lordi (sono comprese nel calcolo Tfr e tredicesima, le festività cadenti la domenica, indennità e scatti di anzianità). 

Caso a parte sono gli apprendisti: il 56% - dice l'Istat - lavora per meno di 9 euro l'ora. Un apprendista nel settore costruzioni riceve in media 8,62 euro l'ora; uno del settore ristorazione e alloggio 8,91; qualche centesimo in meno per l'apprendista del settore sanità, assistenza sociale, spettacolo, divertimento; fino a 6,52 euro l'ora per l'apprendista di altre attività di servizi. Secondo alcune stime, quindi, se la proposta Cinquestelle dovesse diventare legge, a beneficiare dell'aumento sarebbero 2,9 milioni di lavoratori per un incremento medio annuo di 1.073 euro pro-capite. 

Da leggo.it il 23 giugno 2022.

«Voi ragazzi non avete voglia di lavorare», questa la frase ripetuta troppo spesso ai giovani che rifiutano un lavoro. Ma quando le offerte di lavoro proposte sono indecorose spesso i giovani, senza voler fare polemica, rispondono con il silenzio o si limitano a sparire. Non è il caso di Francesca Sebastiani, napoletana di 22 anni, che su TikTok ha voluto denunciare la sua esperienza, mostrando la sua risposta a tono a un datore di lavoro troppo furbo che proponeva 280 euro al mese per un lavoro di 10 ore al giorno. 

«Salve buonasera, ho visto che cercate nuovo personale», scrive la giovane su Facebook in risposta a un annuncio di lavoro. Con educazione, Francesca chiede ulteriori dettagli sulla proposta di lavoro, a Secondigliano, periferia nord di Napoli. E così il datore spiega le specifiche richieste: «Da lunedì a venerdì 9-13.30. Il negozio apre alle 16, però alle 15-15.30 apriamo per le pulizie. Chiudiamo alle 20.30 a volte 21 Il sabato 9-20-30 orario continuato, se c’è molta gente chiudiamo alle 21».

«Ok, grazie e per quanto riguarda lo stipendio?», la domanda è legittima, la risposta lascia senza parole: 70 euro a settimana, dunque 280 euro mensili per un lavoro di 10 ore. La ragazza rifiuta con molta educazione ed è qui che arriva la fatidica frase sulla poca voglia di lavorare dei giovani che fa infuriare la giovane. 

«Voi giovani d’oggi non avete voglia di lavorare». E qui la risposta di una giovane che ha bisogno di lavorare e cerca disperatamente un'offerta di lavoro adeguata: «Siete voi che non ci fate lavorare, perché non avresti mai accettato per 70 euro a settimana. E ad un figlio non avresti mai detto di accettare», dice Francesca che ha deciso di raccontare tutto su Tik Tok. «Penso di essere anche io una persona, posso vivere come gli altri?», chiede.

Il video su TikTok è diventato subito virale. Molti altri giovani hanno commentato raccontando le loro esperienze negative e il video è stato condiviso anche da Francesco Emilio Borrelli sul proprio profilo Facebook e rendendo ancor più popolare il video denuncia di Francesca. 

Antonio E. Piedimonte per “la Stampa” il 25 giugno 2022.

Francesca Sebastiani, vicino alla sua mamma in un angolo di un gigantesco bar della periferia nord di Napoli, sembra molto più piccola dei suoi 22 anni. Dopo il video social in cui, con ironia e sarcasmo, ha denunciato lo sfruttamento dei ragazzi in cerca di lavoro, il web l'ha incoronata come una guerriera 3.0. Ma Francesca, aria mite e occhiali da sole che mascherano la timidezza, appare quasi sopraffatta dall'ondata di reazioni indignate che ha suscitato: «Non pensavo si scatenasse tutto questo», dice con un tono che le fa sembrare quasi delle scuse, quasi come se avesse creato un fastidio, un problema. 

Francesca, come ti sei sentita quando la commerciante che avevi contattato ti ha proposto 280 euro al mese per lavorare 10 ore al giorno?

«Arrabbiata e indifferente al tempo stesso». 

In che senso?

«Nel senso che mi ha fatto innervosire quando mi ha scritto "Voi giovani non volete lavorare", ma che alla fine sono rassegnata da tempo. Ero preparata all'idea che fosse un altro buco nell'acqua e senza quelle parole sarebbe finita lì. L'avevo anche già salutata. E pure con un'amarezza in più...». 

Quale?

«Il fatto che a dire quella cosa non era stata una persona anziana ma una giovane poco più grande di me. Avevo visto il profilo, è una giovane pure lei, che tristezza». 

Rassegnata è una parola forte.

«Quando ho dovuto lasciare la scuola, nel 2018, per la malattia di mamma, avevo trovato un negozio che rispettava i lavoratori, prendevo duecento euro a settimana, poi purtroppo ha chiuso. E dopo è andata sempre peggio».

Che scuola facevi?

«Il liceo statale "Elsa Morante" di Scampia». 

Una scuola in una zona non facile. Come andava?

«Facevo il quarto anno. Andavo bene. Oddio, qualche problemino con la Filosofia c'era, ma per il resto tutto ok, mi piaceva. Poi mamma si è ammalata. Insieme con papà e mio fratello abbiamo dato la priorità alla famiglia (tocca con la mano il braccio della madre, ndr) ovviamente». 

Torniamo alla ricerca del lavoro.

«Un disastro. L'unica cosa che saltò fuori era un posto da 45 euro a settimana, uno schifo. Lo lasciai subito». 

E poi?

«Poi niente. Oggi faccio le consegne, il fattorino per il delivery, ma non ho il motorino e così, anche se non è guarita, mi accompagna mamma con la macchina. Sono 5 euro a consegna, netti 3,90. La media è di 3-4 consegne a settimana, faccia lei il calcolo. E poi capisce perché alla fine uno si arrende». 

Da calcolare c'è poco ma per arrendersi c'è tempo. Cosa vorrebbe fare?

«Io sono pronta ad adattarmi. Ma sono le possibilità, quelle vere, a mancare. L'amarezza nasce da qui». 

E se il genio della lampada le chiedesse un desiderio?

«Ah, ho capito, il sogno nel cassetto, quelle cose lì. Beh, che dire, sin da piccolina ho sempre avuto una grande passione per la fotografia, avrei voluto studiarla e magari farne un lavoro... Ho anche preso qualche lezioni di canto, poi sono finiti i soldi». 

E quando sei a casa e non metti alla berlina gli sfruttatori?

«Cioè sempre... dove vuole vada? Leggo libri, quelli gratuiti sul tablet. Poi ci sono i tre amori: Lilli, Chiara e Stella, le nostre tre cagnette. E il sabato sera il pub con gli amici, tutto qui...». 

A questo punto interviene la signora Susi: «Anche se ha scatenato una mezza rivoluzione è solo una brava ragazza, pure troppo, pensi che le ripeto sempre di trovare un po' di cazzimma. Ma le verità è che la situazione è sempre terribile: quando lei era piccola, io per arrotondare lo stipendio di mio marito andavo a caricare gli scaffali di un grande supermercato, di notte, ci davano tre euro all'ora. Quando minacciai di andarmene mi risposero che c'era la fila per pendere il mio posto. Ecco l'eredità che stiamo lasciando ai nostri figli: ingiustizie e mortificazioni». E stavolta è lei a mettere la mano sul braccio della figlia.  

Valeria D' Autilia per “la Stampa” il 5 agosto 2022.

Lui è indagato per lesioni personali, furto e minacce. Lei prova a curarsi le ferite, mentre un'onda di solidarietà la travolge: varie offerte di impiego per allontanarla definitivamente da quel datore di lavoro accusato di averla picchiata solo perché aveva chiesto di essere pagata. Voleva che le ore effettive le fossero riconosciute. Ne aveva tutto il diritto.

Sull'accaduto la procura di Catanzaro ha aperto un'inchiesta. 

Nigeriana 25enne con un impiego come lavapiatti nel lido-ristorante «Mare Nostrum» di Soverato, Beauty Davis ha trovato il coraggio di filmare quell'aggressione e trasmetterla in diretta sui social. Forse pensava anche a sua figlia di 4 anni: le ha dato forza in quel momento e quando si è presentata in caserma per la denuncia. «Alla ragazza - spiega il suo avvocato - è stato inviato un bonifico di 200 euro, ma era stato pattuito un compenso di 600». Anche il presunto autore delle violenze, Nicola Pirroncello, ha fornito la sua versione dei fatti: titolare 53enne della struttura, è incensurato e figlio di un carabiniere in pensione.

Insulti, schiaffi, minacce: nel giro di pochissimo tempo il video è diventato virale. «Dove sono i miei soldi?» si sente nel filmato. E poi la replica del titolare: «Non ti preoccupare, adesso arrivano i carabinieri, qui è casa mia». A quel punto le botte e, in sottofondo, le grida. Tutto degenera quando si accorge che lei sta riprendendo tutto. Beauty prova a difendersi e, fin quando ce la fa, tiene saldo il suo smartphone. Sa che è una prova. 

Di quell'uomo sembra non si fidasse, ma probabilmente non avrebbe immaginato un simile epilogo. I sindacati parlano di turni infiniti, di un'ora di lavoro al giorno prevista sulla carta, ma a cui se ne aggiungevano almeno altre dieci. Era stanca Beauty, ma non si è mai tirata indietro. Ogni estate lavorava come lavapiatti in questa località tra le più apprezzate del turismo balneare calabrese. Era arrivata in Italia da alcuni anni: prima in un centro di accoglienza, poi il tentativo di essere indipendente.

Ma questa ragazza è solo uno dei tanti sfruttati di un comparto dove oltre il 55% dei lavoratori è a chiamata. Turismo e cultura troppo spesso significano precarietà.

Stando ai dati dell'Ispettorato del lavoro, solo il 59% è assunto a tempo indeterminato, contro l'82% del totale dell'economia. Questo settore registra il 46% delle violazioni totali e il 12% sull'orario di lavoro. 

Poi retribuzioni basse, orari ridotti (almeno sulla carta) e mansioni poco qualificanti. Finti part-time, mancati riposi, obbligo agli straordinari sono spesso l'altra faccia di villaggi, hotel, stabilimenti e ristoranti. Ma anche di eventi, come dimostra l'ispezione delle ultime ore nel cantiere del concerto del «Jova Beach Party» a Lido di Fermo. Trovati 17 lavoratori in nero, italiani e stranieri, e 4 ditte sono state sospese. Intanto c'è la protesta del sindacato Usb con uno striscione lasciato all'ingresso del lido dove lavorava Beauty. «Questo locale sfrutta chi lavora». Non è l'unico, dicono altre voci dal resto d'Italia.

Da ANSA il 4 agosto 2022.

"Il titolare del lido Mare Nostrum, affranto e dispiaciuto dell'accaduto, intende respingere con fermezza le ignobili accuse rivolte nei suoi confronti; pur dando atto della reciproca animosità dell'episodio ripreso dalla ex dipendente, deve darsi parimenti contezza di quanto effettivamente accaduto prima delle riprese". E' quanto si afferma in una nota divulgata dagli avvocati Gianni Russano e Salvatore Giunone, legali di Nicola Pirroncello, accusato di avere aggredito, provocandole lesioni, Beauty Davis, di 25 anni, sua ex dipendente che chiedeva di essere pagata per il lavoro svolto. 

"L'ex dipendente - è detto nella nota - si era portata all'interno dei locali, sedendosi al centro sala, da diverse ore e nonostante già regolarmente remunerata a mezzo bonifico, impediva, in buona sostanza il regolare svolgimento dei servizi di balneazione e ristorazione, e con ingiustificata fermezza reiterava, urlando, la infondata pretesa di pagamento in verità già assolta. Ci si vedeva costretti ad allertare il 112 che tuttavia ritardava per altre ragioni di servizio. 

Nel tentativo di spostarle la sedia ci si accorgeva che la stessa (Beauty ndr), nel chiaro tentativo di precostituirsi una prova, con l'utilizzo del telefono cellulare stava videoregistrando l'episodio e, nella concitazione del momento e sfiancato dai rifiuti dell'ex dipendente ad allontanarsi dai locali, il Pirroncello sollecitava l'ex dipendente ad interrompere le riprese con il telefono, che finiva in terra. Ne scaturiva un'aggressione della ragazza nei confronti del titolare del locale". 

Per i legati del ristoratore, "la vicenda mediatica, con argomentazioni evidentemente distorte, rispetto alle quali ci si riserva di agire nelle opportune sedi, ha devastato il titolare, che oltre all'evidente danno economico è stato raggiunto da insulti e minacce per le quali si è reso necessario sporgere querela". "Si respingono inoltre con fermezza - affermano ancora i legali di Pirroncello - le accuse di razzismo rivolte al titolare, conosciuto da tutti ed indistintamente come persona perbene e rispettosa del prossimo e che ha alle proprie dipendenze cittadini italiani ed extracomunitari".

Beauty Davis, il ristoratore: "Non pagata? Ecco la verità". Libero Quotidiano il 04 agosto 2022.

Qualcosa non torna nella storia di Beauty Davis, la 25enne nigeriana che ha raccontato di essere stata aggredita dal suo datore di lavoro quando ha chiesto di essere pagata. Il video-denuncia della ragazza in poco tempo ha fatto il giro dei social. Ma adesso in questa storia che riguarda da vicino lo stabilimento balneare calabrese Mare Niostrum, prende la parola proprio il datore di lavoro della ragazza che racconta una versione dei fatti opposta attraverso i suoi legali: "Il titolare del lido Mare Nostrum, affranto e dispiaciuto dell'accaduto, intende respingere con fermezza le ignobili accuse rivolte nei suoi confronti; pur dando atto della reciproca animosità dell'episodio ripreso dalla ex dipendente, deve darsi parimenti contezza di quanto effettivamente accaduto prima delle riprese", spiegano gli avvocati Gianni Russano e Salvatore Giunone che difendono il titolare dello stabilimento, Nicola Pirroncello. 

Poi il racconto si fa più dettagliato e il ristoratore afferma di aver pagato regolarmente la ragazza: "L'ex dipendente - è detto nella nota - si era portata all'interno dei locali, sedendosi al centro sala, da diverse ore e nonostante già regolarmente remunerata a mezzo bonifico, impediva, in buona sostanza il regolare svolgimento dei servizi di balneazione e ristorazione, e con ingiustificata fermezza reiterava, urlando, la infondata pretesa di pagamento in verità già assolta. Ci si vedeva costretti ad allertare il 112 che tuttavia ritardava per altre ragioni di servizio. Nel tentativo di spostarle la sedia ci si accorgeva che la stessa (Beauty ndr), nel chiaro tentativo di precostitursi una prova, con l'utilizzo del telefono cellulare stava videoregistrando l'episodio e, nella concitazione del momento e sfiancato dai rifiuti dell'ex dipendente ad allontanarsi dai locali, il Pirroncello sollecitava l'ex dipendente ad interrompere le riprese con il telefono, che finiva in terra. Ne scaturiva un'aggressione della ragazza nei confronti del titolare del locale", affermano sempre i legali in una nota. 

Infine aggiungono: "Si respingono inoltre con fermezza - affermano ancora i legali di Pirroncello - le accuse di razzismo rivolte al titolare, conosciuto da tutti ed indistintamente come persona perbene e rispettosa del prossimo e che ha alle proprie dipendenze cittadini italiani ed extracomunitari". 

Da ANSA il 4 agosto 2022.

E' una vera e propria gara di solidarietà con offerte di lavoro e di sostegno quella che è partita nei confronti di Beauty, la giovane donna di origini nigeriane, madre di una bambina, dopo l'aggressione subita per avere chiesto il pagamento delle spettanze dovute per il lavoro di lavapiatti in un lido-ristorante di Soverato, in Calabria. A sottolinearlo è l'avvocato Filomena Pedullà, legale della ragazza. "Sono tante e si stanno moltiplicando - aggiunge il legale - le offerte di occupazione pervenute per mio tramite a Beauty a distanza di poche ore dalla diffusione della notizia. Un coro di disponibilità, anche immediate, provenienti non solo da questa zona ma anche dal resto della Calabria". Da cinque anni in Italia, Beauty, con la propria bambina, vive in un comune del litorale ionico catanzarese non distante da Soverato.

Da ANSA il 4 agosto 2022.  

Lesioni personali, furto e minacce: sono concentrate su queste ipotesi di reato, al momento, le indagini avviate dai carabinieri a seguito dell'aggressione subita da Beauty, la venticinquenne di origini nigeriane, madre di una figlia di 4, aggredita a Soverato dal datore di lavoro, Nicola Pirroncello, di 53 anni, titolare di un lido-ristorante, al quale aveva chiesto il pagamento per le ore di lavoro svolte. A darne notizia è il legale della ragazza, Filomena Pedullà. 

"Sono in corso delle valutazioni contabili - ha aggiunto l'avvocato Pedullà -. Gli inquirenti stanno vagliando i dati relativi al contratto e dell'accordo verbale tra le due parti. Alla ragazza è stato inviato un bonifico di 200 euro quando era stato pattuito un compenso di 600 euro". Alla base della protesta della donna e della successiva aggressione c'è stato proprio il mancato pagamento della somma rimanente. 

A seguito della reazione del datore di lavoro davanti alla richiesta di pagare quanto pattuito, Beauty, precisa il legale a seguito di quanto accaduto, "ha riportato una lesione alla mano, testimoniata da un'unghia sanguinante, contusioni alla spalla e strappo del cuoio capelluto".

Grazia Longo per “La Stampa” il 4 agosto 2022.  

Il video, diventato virale in poche ore, è drammaticamente eloquente. Una giovane nigeriana, martedì pomeriggio, chiede il suo giusto compenso per il lavoro di lavapiatti, e il titolare del ristorante Lido Mare Nostrum di Soverato (in provincia di Catanzaro) la ricopre di botte, insulti e bestemmie. 

È stata proprio Beauty David, ventiquattro anni, mamma di una bimba di 4 anni, a riprendere la scena con il suo telefonino. Dopo una settimana trascorsa a lavorare per Nicola Pirroncello, 53 anni, in condizioni di totale mancanza di rispetto, subendo una lunga serie di umiliazioni e vessazioni, sospettava una reazione non proprio serena del suo datore di lavoro. 

E ha quindi deciso di filmare la richiesta del pagamento di tutte le ore. Oltre all’orario pattuito nel regolare statino, la ragazza aveva infatti lavorato molto di più e quindi esigeva giustamente il giusto stipendio. 

Ma Pirroncello ha subito reagito male, anzi malissimo. Forte del fatto che una parte del servizio prestato da Beauty David era stato regolarmente registrato le ha intimato: «Non ti preoccupare, ci sono gli avvocati e adesso arrivano i carabinieri, qui è casa mia», e poi le ha riversato addosso una scarica di schiaffi, pugni e parolacce. 

Ha anche cercato di strapparle il cellulare di mano per evitare di essere ripreso in quell’atteggiamento violento e aggressivo. Lei, nonostante le botte, continuava a chiedere «Dove sono i miei soldi?», poi le immagini diventano sfocate, è tutta una confusione con l’uomo che cerca di afferrare il cellulare.  

La ragazza è subito andata a segnalare l’accaduto ai carabinieri dopo di che si è fatta curare al Pronto soccorso per le escoriazioni subite e la mano sinistra ferita per il parziale distacco di un’unghia. Dal canto suo anche Nicola Pirroncello ha allertato i carabinieri, raccontando loro di aver avuto un litigio con una dipendente che avrebbe preteso più soldi rispetto a quelli stabiliti dallo statino paga. 

Gli accertamenti dell’Arma proseguono per ricostruire interamente la vicenda, ma intanto c’è quel video che invoca giustizia. Non a caso la vicenda è stata divulgata e rilanciata sui social dal gruppo «Il pagamento? Poi vediamo-Osservatorio sullo sfruttamento in Calabria», e ha provocato una marea di reazioni sia da parte del mondo politico sia di quello sindacale. Il sindaco di Soverato, Daniele Vacca, dichiara di prendere «categoricamente le distanze da questo grave episodio di violenza. Ci riserviamo, in caso di processo, di costituirci parte civile per tutelare l’immagine della nostra città simbolo dell’accoglienza».

Bipartisan le critiche da tutti i partiti, sia di destra sia di sinistra. «Solidarietà e vicinanza a Beauty» viene espressa dalla senatrice Valeria Valente (Pd), presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, che aggiunge come «la giovane nigeriana ha saputo trasformare condizioni di vulnerabilità multiple, l’essere donna, nera, lavoratrice precaria, madre single, straniera, nel coraggio di raccontare pubblicamente la brutale aggressione subita».

La deputata di Fratelli d’Italia Wanda Ferro afferma: «La violenza ai danni della ragazza nigeriana è intollerabile, così come non sono accettabili le condizioni di sfruttamento a cui si trovano costretti molti lavoratori stagionali». 

La segretaria regionale Uil Tucs Caterina Fulciniti stigmatizza «l’accaduto che evidenzia la mancanza di cultura etica e del lavoro da parte dell’imprenditore. Peccato che la giovane, forse perché straniera, non sapesse che i sindacati possono aiutare anche a livello preventivo per la tutela dei diritti».

La Filcams Cgil Calabria incalza: «È un fatto indecente: la Calabria ed il turismo non decolleranno mai se la sua economia continuerà ad essere fondata sul lavoro nero, su imprenditori casalinghi che non pagano le tasse e non rispettano i contratti di lavoro». Anche la Fipe-Confcommercio, Federazione italiana dei pubblici esercizi, annuncia che «se le indagini confermassero quanto emerso ci costituiremo parte civile contro il gestore dello stabilimento». Il governatore della Calabria Roberto Occhiuto conclude: «Il lavoro, che non deve in alcun modo somigliare alla schiavitù, si paga sempre». Si è fatto sentire anche il leader della Lega, Matteo Salvini: «Non conosco la vicenda. Ma se uno aggredisce un’altra persona è un delinquente. Punto».

Lavoro, giovani in fuga: «Non cerco più un’azienda, mi vogliono a X Factor». Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022 

In ufficio con Camilla, collocatrice a Modena: «Artigiani introvabili». Aste al rialzo sugli stipendi

Camilla Rocca, responsabile ricerca e selezione del personale della Confederazione nazionale artigiani della provincia

Camilla Rocca ha iniziato a sospettare che stesse accadendo qualcosa quando ha visto i curriculum di certe candidate: titolo di studi, data di nascita, residenza, poi il peso e l’altezza. A volte anche il profilo di Instagram. Per contratti impiegatizi o d’apprendistato in piccole imprese artigiane della dinamica, prospera, ordinata e magari anche lievemente perbenista provincia di Modena.

Ma non era sfrontatezza, erano altre generazioni. «Una ragazza si era candidata come amministrativa, età sui ventidue. Avevo un’offerta e l’ho chiamata. Mi ha detto: “La fermo subito, ho passato le selezioni di X Factor”» racconta Rocca, che di mestiere fa la collocatrice. Detto più propriamente, è responsabile di ricerca e selezione del personale della Confederazione nazionale artigiani della provincia. Un’arte da psicologi, di cucitura quotidiana fra il tessuto delle imprese che continua a crescere e il tessuto della manodopera, che continua a decrescere e comunque a cambiare profondamente.

«Ci sono ordini che non riesco a chiudere per mancanza di candidati. Nessuno è adatto. Gli idraulici o i tornitori poi valgono oro, se solo si trovassero». Se dunque le giornate della collocatrice sono diventate dure, non è per nessuna delle ragioni di una certa letteratura (peraltro corretta) sui giovani sfruttati e il lavoro regolare e tutelato che non si trova più. Perché ad essere introvabili — malgrado il Covid, lo choc dell’energia e la guerra, o forse in parte a causa di tutto questo — sono i lavoratori. Soprattutto, ma non solo, i più giovani. Non vogliono lasciarsi mettere il sale sulla coda, non vogliono sentirsi sposati con una tipica piccola azienda familiare del Centro Nord, di quelle che fanno il nerbo d’Italia da tre generazioni e cercano nuovi addetti da formare per i prossimi trent’anni.

«Sono un mercenario»

«Un ragazzo del ‘97 si è candidato per un posto di amministrativo-contabile — racconta Camilla Rocca — ma pretendeva il part-time per fare volontariato. Un altro, metalmeccanico, voleva flessibilità oraria per gestire il suo e-commerce. Ma qui le imprese dei dipendenti a metà non sanno che farsene». Se dunque la giornata della collocatrice a Modena è complicata e a volte frustrante, è almeno per due ragioni. La prima è che proprio non si trovano i lavoratori, perché ci sono più imprese che cercano gente da mettere al tornio, in cantiere o anche in ufficio che persone disposte a farsi assumere a costi sostenibili. Iniziano così le aste al rialzo. Un verniciatore di auto d’epoca — mestiere molto serio nella Motor Valley emiliana — arriva a 2.750 euro netti al mese. Un neodiplomato può esordire così, nei colloqui con la collocatrice: «Sotto i 1.500 euro netti non mi muovo da casa». E un idraulico così: «Le dico subito che sono un mercenario». A entrambi Camilla Rocca ha detto che avrebbe fatto sapere, poi li ha depennati.

Gli apprendisti mollano

Ma in fondo anche risposte del genere portano al secondo problema, che non è solo di Modena perché ne va di gran parte del tessuto produttivo italiano: i giovani non stanno più al gioco, non sono pronti a calarsi in un modello di azienda, relazioni di lavoro e carriera disegnato da altri senza di loro. Lavorare per la piccola impresa meccanica, o di ceramica o di mobili non lo trovano più sexy. Paola Vezzelli gestisce l’attività di falegnameria e arredamenti fondata dal padre nel ‘55 a San Cesario sul Panaro e mette le mani avanti: «Se non trovo un apprendista adesso, tra cinque o sei anni vado in pensione e liquido l’azienda». Vezzelli ha sette dipendenti, sei squadre di montaggio esterno e un notevole showroom di mobili fatti a mano e su misura. Artigianato puro, alto livello. Offre 25 mila euro lordi l’anno per contratti di apprendistato triennali e ha già fatto diversi buchi nell’acqua. «Uno è venuto per un po’, poi all’improvviso è andato via con la motivazione che si fa troppa fatica: ora è metalmeccanico. Un altro già al secondo giorno non si è presentato, spiegando che un ginocchio gonfio lo obbligava a lasciare». A quel punto era giugno e Vezzelli ha chiesto a tutti gli istituti professionali della zona — province di Modena e Bologna — se c’erano studenti che acconsentissero a condividere l’indirizzo email. Ha scritto a 233 ragazzi, ha avuto 25 risposte e due soli consensi a presentarsi a un colloquio. «Non sono irritata, sono delusa. Non capisco perché non colgano l’opportunità di imparare un mestiere», dice.

Chi studia...

Ma non si può liquidare tutto solo con la futilità di X Factor o la pancia piena e lo smartphone carico che incatenano il diplomato medio al divano di casa dei suoi. Perché in Italia c’è anche una questione di numeri, incrociata a una culturale. In primo luogo i giovani oggi sono semplicemente troppo pochi. Quelli fra i venti e i trenta per ogni anno di nascita sono poco più di mezzo milione: la metà dei baby boomer che ora vorrebbero attirarlo nelle loro imprese. Di quei giovani quasi un terzo — il doppio di una generazione fa — prosegue negli studi perché aspira a una laurea e diventa troppo qualificato per inserirsi nelle piccole e medie imprese che restano la spina dorsale del Paese. 

...e chi emigra

In più da una decina di anni se ne vanno all’estero almeno in 120 mila all’anno. Resta dunque una base demografica minima da cui le aziende artigiane possono attingere e, appunto, il problema è anche culturale: i ragazzi decidono di fare l’università o partire all’estero — o entrambe le cose — perché non si identificano più con quel modello produttivo familiare, ostinato, creativo e di provincia. Per loro non è cool, non ha brand — non ha volto — e non promette crescita. Non è un caso se dall’Italia si tende a emigrar di più dalle province più ricche e a più alta occupazione, in proporzione: più da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività come Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento. Fra le prime venti province per incidenza di abbandono del Paese, solo tre hanno meno occupati della media. Le altre di più, spesso molti di più: accade per esempio a Treviso, Pordenone o Bolzano. Questa gente non va via, al ritmo di almeno diecimila al mese anche nel 2022, perché non trova lavoro. Dev’esserci altro: una crisi sentimentale fra i giovani e le imprese italiane.

«Il ricambio non c’è»

Non è un problema da poco, perché per queste ultime rischia di mancare la prossima generazione. «Il mio timore è che gli anni passano, i dipendenti invecchiano e tra dieci o quindici anni avremo un bel buco», ammette Mirco Forlani, 48 anni, responsabile dell’ufficio tecnico di Idrotecnica, un’azienda di Savignano sul Panaro che occupa 60 persone e fa sistemi idraulici e di refrigerazione per il locale distretto della carne. «La mancanza di personale è uno stress — dice — è come far funzionare un motore fuori giri». In giugno Idrotecnica ha investito 800 euro in due settimane di pubblicità in una radio locale («Vuoi imparare un mestiere? Vi paghiamo noi per insegnarvi»). «Ha risposto uno solo, era un cuoco, non giovanissimo. Non l’abbiamo preso in considerazione», fa la capa del personale Erica Bertoloni. L’Italia ha due milioni di disoccupati e il tasso di occupazione più basso d’Europa assieme alla Grecia. Ma alla Cna Camilla Rocca, la collocatrice, ha sviluppato le sue tecniche per sbarcare la giornata: «Guardo i siti di offerta di lavoratori come InfoJobs, giro sulle piattaforme online come LinkedIn, faccio screening per chiamare le persone prima che trovino altro — fa —. Ma i nomi sono sempre gli stessi».

Angelo Allegri per “il Giornale” il 17 agosto 2022.  

In un rapporto di lavoro non è detto che si debba lavorare. O meglio, lavorare bisogna, ma solo se l'azienda provvede a farlo sapere a tutti e in maniera ben visibile. In pratica ai dipendenti, tramite esposizione di un apposito regolamento, è necessario ricordare nella maniera più chiara possibile quanto segue: siamo qui per lavorare e chi non lavora avrà dei problemi. Che possono consistere in provvedimenti disciplinari nei casi meno gravi, e in quelli più estremi, perfino nel licenziamento.

Se l'azienda si dimentica di avvisare i dipendenti, non si lamenti poi della loro scarsa produttività. Per chi ha una certa età, quanto raccontato fin qui riporta alla mente deliziose tranche de vie degli anni Settanta del secolo scorso, quando la vita di molte grandi aziende italiane assumeva tratti a volte perfino surreali. Invece si tratta di una sentenza della Corte di Cassazione pubblicata pochi giorni fa e resa nota dal sito del Sole 24 Ore. 

Con la decisione viene annullato il licenziamento di un dipendente (tutto è avvenuto nel 2013, con buona pace dei proclami sullo «snellimento» dei tempi della giustizia civile) che da anni aveva una produttività inferiore al 50% di quella dei suoi colleghi.

Nel corso del tempo, per la «voluta lentezza nel svolgere la mansione affidata» aveva ricevuto sei sanzioni disciplinari diverse, fino alla punizione più grave, quella, appunto dell'allontanamento. Non influisce, dicono i giudici, che il lavoratore fosse invalido al 50%: il compito ricevuto era del tutto compatibile con le sue condizioni. Stringi stringi il problema era uno solo: nessuno l'aveva avvisato della necessità di lavorare.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 19 agosto 2022.

Contrordine: ritirate l'espressione "Great Resignation" e abbracciate il "Quiet Quitting". Che poi in sostanza significa sempre mettere la vita davanti al lavoro, senza però rinunciare allo stipendio, ma facendo solo il minimo indispensabile per conservarlo. 

È la nuova tendenza che sta emergendo ovunque, soprattutto fra i giovani millennial e quelli della Generation Z, e accomuna anche le grandi superpotenze rivali del futuro, come Usa e Cina, dove si chiama "mo yu", ossia la filosofia di "toccare i pesci".

Tutto è partito dal Covid, che da una parte ci ha messi davanti alla realtà della vita, breve e fragile, e dall'altra ci ha obbligati a sperimentare le meraviglie dello smart working. All'inizio ciò ha spinto milioni di persone verso la "Great Resignation", ossia le dimissioni di massa, perché il pericolo immanente di morire ha spinto tutti a rivedere le priorità, e magari dedicare più tempo alle cose che ci piace davvero fare. 

Col passare dei mesi però questo concetto si è evoluto, andando oltre l'emergenza dell'epidemia, e saldandosi con modi di pensare e tendenze di lungo termine. I giovani in particolare non vedono più l'utilità di mettere il lavoro e la carriera davanti a tutto il resto, per almeno due motivi: primo, impegnarsi così tanto non paga più, e passare intere giornate davanti al computer o seduti in ufficio raramente corrisponde poi agli avanzamenti di carriera e di stipendio sognati; secondo, anche se così fosse, non è detto che ne valga la pena.

Quindi è meglio tirare il freno e rinunciare alle ambizioni più complicate, facendo il meno possibile sul lavoro, senza però spingersi fino al punto di perderlo, perché poi senza soldi il cane si morde la coda e diventa difficile realizzare i veri desideri. 

La Gallup ha realizzato uno studio intitolato "State of the global workplace 2022 Report", da cui risulta che solo il 21% dei dipendenti è davvero coinvolto nelle proprie mansioni, e solo il 33% si considera in una condizione di crescita e benessere. Il 44% si sente stressato, record di sempre, e la maggioranza non ritiene che la sua occupazione abbia davvero uno scopo o un significato profondo. In Paesi come la Gran Bretagna la situazione è drammatica, al punto che solo il 9% dei lavoratori si considera "engaged" o entusiasta.

Negli Stati Uniti va un po' meglio, cioè il 31%, ma Gen Z e millennial sono particolarmente sfiduciati, e queste non sono percentuali su cui è possibile costruire la prosperità futura di una superpotenza. Il fenomeno però è globale, e neppure i rivali cinesi si salvano. Anzi, secondo un'inchiesta pubblicata da Quartz, i giovani della Repubblica popolare pensano di aver definitivamente perso il treno e la possibilità di salire sulla scala sociale come i loro genitori.

Lavorare duro non porta più al successo, come predicava il fondatore di Alibaba Jack Ma, perché il Paese ha già raggiunto il picco demografico, la manodopera a basso costo non è più così importante, e i modelli dello sviluppo globale stanno già cambiando verso una direzione che non favorisce più Pechino. Perciò, invece di sprecare tutte le energie per una fatica sostanzialmente inutile, i giovani cinesi preferiscono "toccare i pesci".

Arrivano al lavoro il più tardi possibile, prendono lunghe pause pranzo, staccano appena il contratto glielo consente, e magari sfruttano lo smart working per fingere di essere occupati, quando in realtà stanno leggendo un libro o schiacciando un pisolino. Magari qualcuno in Italia si chiederà dov' è la novità, visto che noi abbiamo perfezionato tecniche simili da un paio di millenni, ma il punto qui non è solo l'elogio della pigrizia. È un radicale cambio di mentalità, che riguarda anche chi va a fare onestamente il proprio lavoro, senza però sforzarsi più di tanto, perché la vita viene prima.

Lavoro, nei primi sei mesi un saldo positivo di 946 mila contratti. Boom di dimissioni sul 2021. I dati dell'Osservatorio sul precariato dell'Inps: "I flussi del mercato del lavoro hanno completato la ripresa dei livelli pre-pandemici". La Repubblica il 15 Settembre 2022

Quasi un milione di contratti in più nei primi sei mesi di quest'anno. I flussi di assunzioni e licenziamenti sul mercato del lavoro italiano hanno riassorbito lo choc della pandemia, quando un po' tutto si era bloccato per il contraccolpo economico dei lockdown ma anche per i provvedimenti che - dalla cassa integrazione straordinaria al blocco dei licenziamenti - avevano congelato la situazione.

Lo certifica l'Osservatorio dell'Inps sul precariato, nel quale si mette nero su bianco che "nel primo semestre 2022 i flussi nel mercato del lavoro (assunzioni, trasformazioni, cessazioni) hanno completato la ripresa dei livelli pre-pandemici, compromessi nel biennio 2020-2021 dall'emergenza sanitaria con le connesse chiusure e restrizioni, segnalando anzi incrementi rispetto al 2018-2019 sia nelle assunzioni e nelle trasformazioni come pure nelle cessazioni". E nel frattempo si registra anche il boom delle dimissioni, con una crescita di oltre un terzo rispetto all'anno precedente

Quasi un milione di contratti in più

Nei primi sei mesi dell'anno - spiega l'Istituto - i datori di lavoro privati hanno fatto 4.269.179 assunzioni e 3,322.373 cessazioni di contratto di lavoro per un saldo positivo che supera i 946 mila contratti. La variazione dei contratti a tempo indeterminato (assunzioni più trasformazioni meno cessazioni da contratti a tempo indeterminato) è stata positiva per 255.341 unità, di molto superiore a quella registrata nei primi sei mesi del 2021 (erano 113.042). Sono esclusi i lavoratori domestici e gli operai agricoli mentre sono incusi i dipendenti degli enti pubblici economici. Nel solo mese di giugno invece il saldo positivo annualizzato (ovvero la differenza tra assunzioni e cessazioni negli ultimi dodici mesi) è di 682 mila contratti, di cui 247mila indeterminati e 436mila di altro tipo (prevalentemente a termine). 

Part time in crescita

Se si guarda al dettaglio delle assunzioni, l'aumento del +26% nel semestre sul 2021 "ha interessato tutte le tipologie contrattuali, risultando accentuata sia per i contratti a tempo indeterminato (+36%), sia per le diverse tipologie di contratti a termine (intermittenti +40%, apprendistato +27%, tempo determinato +24%, stagionali +22%, somministrati +17%)". L'Inps nota una cresicta del part time verticale (+22%) mentre risulta in flessione il part time misto (-2%).

Anche le trasformazioni da tempo determinato nel primo semestre 2022 sono cresciute nettamente: 377.000, in aumento rispetto allo stesso periodo del 2021 del 74%. Nello stesso periodo le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo - pari a 61.000 - risultano essere aumentatedell'11% rispetto all'anno precedente.

Il boom delle dimissioni

Nel capitolo delle cessazioni si vede una altrettanto forte risalita: nei primi sei mesi del 2022 sono state 3.322.000, in aumento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente (+36%) per tutte le tipologie contrattuali: contratti stagionali (+64%), contratti intermittenti (+57%), contratti in apprendistato (+34%), contratti a tempo determinato (+33%), contratti a tempo indeterminato e contratti in somministrazione (+31%).

Tra le ragioni di fine del contratto, spicca il boom delle dimissioni. A guardare le tabelle Inps si tratta di oltre 1 milione di casi con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021.

Se si prendono le sole dimissioni da tempi indeterminati si ha un altrettanto importante aumento (+22% e +28% rispetto ai corrispondenti periodi del 2021 e del 2019): "Il livello raggiunto (oltre 600.000 dimissioni nel primo semestre 2022) sottende il completo recupero delle dimissioni mancate del 2020, quando tutto il mercato del lavoro era stato investito dalla riduzione della mobilità connessa alle conseguenze dell'emergenza sanitaria", dice l'Inps.

I licenziamenti

Nello stesso periodo sono raddoppiati i licenziamenti di natura economica (da 135.115 a 266.640). Il confronto con il 2021 risente - avverte l'Osservatorio - del fatto che nei primi sei mesi era ancora in vigore il blocco dei licenziamenti per fare fronte alla crisi economica scatenata dalla pandemia.

«Sono laureata ma servirò i panini»: a Monopoli e Fasano caccia a un posto nei nuovi Mc Donald’s. Tutti a caccia di un lavoro dal McDonald's. Le aspirazioni dei giovani pugliesi a caccia di un posto di lavoro dal magnate degli hamburger. Alle selezioni per i nuovi fast food a Fasano e Monopoli. Tommaso Vetrugno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2022.

Si sono presentati in 200 per la caccia alle 100 assunzioni previste dalla McDonald’s in occasione dell’apertura dei due nuovi ristoranti a Fasano e Monopoli. Nella centralissima piazza Ciaia i candidati si mostrano raggianti e ben motivati ad inseguire quel posto di lavoro che potrebbe anche rappresentare un futuro stabile. La mansione che ogni assunto svolgerà potrebbe anche essere lontana dalla propria preparazione culturale, ma allo stesso tempo nessuno ne fa un dramma.

«Sono laureando in scienza della formazione - afferma Dorina di Monopoli, in provincia di Bari - e inseguo questo posto perché è molto correlato con la mia università, comodo per gli orari e per una nuova esperienza lavorativa, dove potrò relazionarmi con il pubblico e i clienti». Non pochi sono coloro che inseguono una nuova esperienza lavorativa. «Sono diplomata al liceo delle scienze umane - racconta Sara di Pezze di Greco, in provincia di Brindisi - e sono qui perché questa è un’azienda che mi incuriosisce e mi dà l’idea di un posto dove poter crescere e realizzarmi. In una parte del mio futuro ci potrebbe essere quest’esperienza».

A Napoli anche 1.232 laureati per 500 posti da netturbino. Su ilsole24ore.com il 13 settembre 2022

Il bando per lavorare ad Asìa, l’azienda di igiene urbana del Comune. Tra i candidati, oltre ai laureati, 10.445 hanno un diploma di scuola media superiore, mentre il bando richiede la sola licenza media

C’è chi rinuncia alla toga da avvocato per la tuta da netturbino. Come Maria: «Qualche amico si è sorpreso, ma la mia professione è in crisi e questo concorso per me è abbordabile», spiega a Repubblica Napoli, che dà conto di come siano 1.232 i laureati tra i 26.114 candidati al concorso di Asìa, l’Azienda di igiene urbana del Comune.

Al via le selezioni

Alla Mostra d’Oltremare, sono cominciate le selezioni per 500 posti da operatore ecologico: i partecipanti dovranno sottoporsi a 50 domande a risposta multipla, dai mari che bagnano la Grecia alle canzoni di Ligabue, al codice dell’ambiente. I test si svolgeranno fino al 30, suddivisi su tre turni giornalieri. 

Il 10% dei concorrenti ha oltre 50 anni

Tra i candidati, oltre ai laureati, 10.445 hanno un diploma di scuola media superiore, mentre il bando richiede la sola licenza media. Inoltre, oltre il 10 per cento dei concorrenti, vale a dire 2.731 iscritti, ha un’età superiore ai 50 anni (anche se 200 posti su 500 sono riservati ai contratti di apprendistato, quindi ai giovani tra i 18 e i 29 anni).

Le reazioni sui social

Una situazione che fotografa “la fame di lavoro” che c’è in Campania. A centinaia i commenti apparsi sui social dopo la prima giornata di selezione. «Dunque i giovani non sono scansafatiche, cercano un lavoro che sia pagato in maniera dignitosa e non 4 euro l’ora», si legge in un post che in pochi minuti ha avuto centinaia di like e condivisioni. Un posto “appetibile”, quello che offre Asìa, anche perché «è otto casa - si legge in un commento - e non sei costretto a trasferirti altrove, fuori regione, dove con uno stipendio di 1.300 euro devi spenderne 800 per il fitto».

L’altro “concorsone”

C’è poi un altro “concorsone” bandito da Comune e Città metropolitana di Napoli che ha fatto finora numeri record. Sono infatti quasi 120 mila (119.658) le domande presentate per 1.394 posti relativi a vari profili professionali, dalla maestra all’assistente amministrativo, all’agente della polizia locale. Ma si cercano anche agronomi, contabili, informatici, insomma nuovo personale che dovrà anche affrontare le sfide per l’attuazione dei progetti che saranno finanziati con i fondi del Pnrr. Dai dati si evince che il 76 per cento di chi ha presentato domanda è residente nel Comune di Napoli, il 16,2 per cento in altra provincia della Campania e il 7,8 per cento in altra regione italiana o all’estero.

(ANSA il 26 agosto 2022) - Lui è un giovane cuoco vicentino, Yuri Zaupa, e la sua storia sta rimbalzando sui social: per il suo lavoro da gennaio a giugno 2022 è stato pagato 100-200 euro al mese per 80 ore settimanali di lavoro a Cornedo Vicentino. 

Quando ha chiesto di essere messo in regola, secondo le sue parole, il titolare gli avrebbe risposto che "i giovani vanno sfruttati". Ora Yuri, come riporta il Corriere del Veneto dopo aver raccontato l'accaduto in un lungo post su Facebook, è pronto a fare causa.

Nel commentare amaramente il suo caso, non manca di fare cenno alle parole dello chef Alessandro Borghese che aveva lamentato la poca voglia di sacrificio delle nuove promesse dell'alta cucina. "Borghese ci ha visto lungo: i giovani non hanno voglia di lavorare - chiosa ironico il giovane - e, dopo questa esperienza, io sicuramente ne ho persa un po'". 

E' lui stesso a raccontare la sua storia. "Nel mese di settembre 2021 comincio la mia nuova esperienza in un locale di recente concezione a Cornedo Vicentino. Propongo la MIA cucina, con il MIO punto di vista sulla cucina Veneta, o più in generale, Mediterranea - scrive sulla sua pagina Fb - . Il mio unico requisito? Essere in regola e avere un contratto che mi permetta di vivere serenamente, per il resto a me basta cucinare".

Per i primi 4 mesi "decido di accettare un contratto ridicolo: 16 ore part-time, nonostante il mio monte ore settimanale si aggirasse intorno alle 80. Stringo i denti: dopotutto ho cominciato la gavetta all'età di 14 anni - prosegue - . Mi faccio prendere dalla novità, il posto mi piace e acconsento, ancora una volta, alle condizioni del titolare: mantenere basse le spese per il personale per i primi 4 mesi e poi alzare le retribuzioni e pensare di offrirmi un contratto a tempo indeterminato". 

Poi la scoperta: "naturalmente non è andata così: da gennaio a giugno 2022 vengo pagato 100-200 euro al mese, su mia richiesta ovviamente, poveraccio, 'mica ti spetta la busta paga di diritto'. Da tenere a mente: 80 ore settimanali, cucina gestita solo da me, dalla colazione alla cena". Yuri alla fine deve rinunciare al suo sogno. "La stessa passione che mi ha accecato per 6 mesi senza una busta paga mi ha portato a cercare lavoro altrove - riferisce - .

Immaginate la faccia del titolare quando ho comunicato la mia partenza: tradito, preso per i fondelli, i giovani sono inaffidabili". Il titolare si sarebbe espresso in modo inequivocabile: "i giovani vanno sfruttati, non ho mai preso più di 1200 euro al mese - racconta ancora Yuri - quindi non li prenderai nemmeno te, poco importano le tue capacità".   

Estratto dell'articolo di Andrea Bassi per “il Messaggero” il 25 settembre 2022.

La sequenza è più o meno questa. Ci si candida al concorso, si studia, ci si presenta il giorno degli esami e, se va bene, si finisce in una posizione in graduatoria che dà diritto al posto. Fisso in questo caso, perché i concorsi di cui parliamo sono quelli pubblici. Finita questa trafila l'amministrazione che ha messo a bando il posto manda una lettera e indica il giorno in cui bisognerà presentarsi per firmare il contratto di assunzione e prendere servizio. Ebbene, sempre più candidati arrivati al fatidico momento di mettere la sigla in calce all'assunzione a tempo indeterminato nella Pubblica amministrazione, si tirano indietro. Non si presentano. 

L'ultimo caso, eclatante, è quello del concorso per gli Ispettori del lavoro dell'Inl. Più di 1.500 posti in tutta Italia. A Roma, ha rilevato la Flp, la Federazione dei lavoratori pubblici, su 52 posti assegnati si sono presentati in 15. 

A Milano e Lodi su 76 posti a prendere servizio sono stati solo 33, meno di uno su due. A Torino 9 su 39, a Padova 6 su 17. Persino al Sud, dove il lavoro pubblico ha sempre avuto un bacino ampio di aspiranti, non è andata meglio. A Bari solo 3 dei 16 vincitori del concorso si sono presentati a firmare il contratto. A Napoli 19 su 32. 

Quello dell'Ispettorato del lavoro non è un caso isolato. Qualche giorno fa i sindacati, in una nota congiunta, hanno rivelato che all'Inail, l'Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro, solo 304 vincitori, meno della metà dei posti messi a concorso, si sono presentati a prendere servizio. [...]

Il ministero dell'Istruzione aveva bandito un concorso unico per 159 posti. È riuscito ad assumere soltanto 110 persone ...]

Qualche settimana fa un grido di allarme era arrivato dal ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini. Anche lui aveva dovuto prendere atto di un clamoroso flop del concorso per assumere giovani nelle Motorizzazioni civili. [...] C'è sicuramente un tema di retribuzioni. La Pubblica amministrazione ha difficoltà a reperire soprattutto i profili più specializzati [...] «Bassi salari e scarse prospettive di carriera», spiega Marco Carlomagno, segretario generale di Flp, «spingono i laureati a rinunciare a un impiego sicuro nella pubblica amministrazione». 

[...] La difficoltà di reperire dipendenti, [...] riguarda soprattutto i profili più specializzati. [...]

Secondo Bruno Giordano, direttore dell'Inl, a pesare è anche «la concomitanza di molti concorsi pubblici. Le graduatorie», spiega, «sono gonfiate da candidati che sono risultati vincitori in più selezioni e questo gli consente di scegliere il posto meglio retribuito e più vicino alla propria residenza». [...]

[...] il 63,9% dei candidati erano residenti nelle regioni del Sud e nelle Isole, il 24,1% nel Centro e solo l'11,5% nel Nord.[...]

Hoara Borselli e la polemica su Twitter: «A 15 anni lavoravo in un bar per un gelato, sacrificio ragazzi». Interviene anche Bonaccini. Valentina Baldisserri su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.  

Reazioni ironiche ma anche rabbiose sui «sacrifici» evocati dall’opinionista, ex modella ed ex di Walter Zenga. Il presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini: «Se la sua proposta è lavorare gratis, allora siamo messi male». 

Toccare l’argomento lavoro sui social, invitare i giovani ai sacrifici, citare le proprie esperienze «a titolo gratuito» , può essere esercizio molto pericoloso. Soprattutto se è un personaggio noto a farlo.

Hoara Borselli (ex modella e attrice, ex fidanzata di Walter Zenga, oggi opinionista nei talk di Mediaset) è finita nel tritacarne social, massacrata dagli utenti di Twitter per aver pubblicato la seguente riflessione: «A 15 anni in estate alcuni giorni lavoravo in un bar mentre i miei amici andavano al mare. Poche ore, dalle 12 alle 16. Finito il turno mi regalavano un gelato e se andava bene delle patatine. Si parte sempre dal basso ragazzi. Sacrificio e “fame”. Credo sia ciò che manca oggi».

A 15 anni in estate alcuni giorni lavoravo in un bar mentre i miei amici andavano al mare. Poche ore, dalle 12 alle 16.

Finito il turno mi regalavano un gelato e se andava bene delle patatine.

Si parte sempre dal basso ragazzi.

Sacrificio e ?fame?.

Credo sia ciò che manca oggi

Centinaia le reazioni. C’è chi ha ironizzato: «Hoara vieni a pulirmi casa ti do una pizzetta», «Gli straordinari venivano pagati a granite?», e chi si è molto arrabbiato: «Il problema non è lei che pagano per dire queste p..., il problema sono i c... che pensano che dica cose giuste».

C’è chi ha rinfacciato a Hoara il passato di fidanzata di Zenga che «di sacrifici non ne ha fatti troppi», chi ha resuscitato i suoi calendari o i film di scarso successo. Scrive Filippo Rossi, barman: «L’Italia è quel fantastico paese, dove la morale sui giovani che “non lavorano” viene fatta da una che può permettersi di stare a scrivere minch... su twitter, perché ha fatto un calendario ed è stata la ex di Zenga. Mentre io a 24 anni faccio due lavori».

Duro l’intervento del presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini: «Un conto è sacrificio e umiltà, che aiutano sempre, ma se la sua proposta è lavorare gratis, solo perché si è giovani, allora siamo proprio messi male. Roba da matti». 

Un conto è sacrificio e umiltà, che aiutano sempre, ma se la sua proposta è lavorare gratis, solo perché si è giovani, allora siamo proprio messi male. Roba da matti.

Reazione polemica anche del giornalista Rai Riccardo Cucchi: « Il lavoro si paga, a 15 anni o a 60, per due ore o per otto. La schiavitù è stata abolita. E anche il “pane e acqua”, o se preferisce, “gelato e patatine”».

Attaccata, Hoara Borselli si è vista costretta a intervenire con un secondo tweet: «Scrivere che per divertimento a 15 anni lavoravo in un piccolo bar sulla spiaggia, senza obblighi, impegno, ma solo voglia di imparare qualcosa in cambio di gelati ha sollevato clamore. Ragazzi se è per questo ho fatto pure 2 anni di radio a rimborso spese. Così vi scatenate». Detto, fatto. Borselli è diventata di tendenza su Twitter (cosi come il suo ex Zenga). 

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 25 giugno 2022.

Un lavoro precario, spesso a chiamata, oppure mascherato da tirocinio. Contratti di facciata, che spesso non raccontano tutto delle condizioni e dell'orario di lavoro. Stipendi a volte umilianti, tra i più bassi a livello europeo, non sufficienti a raggiungere una vera autonomia economica. A questo può andare incontro un ragazzo italiano che cerca lavoro nel 2022. Soprattutto se non è laureato o, magari, nemmeno diplomato. Spesso ci si concentra sul tasso di disoccupazione giovanile, che nell'ultimo anno è calato, ma nella fascia 15-34 anni resta sopra il 15%, più alto della media europea.

 Nel primo trimestre 2022, dati del ministero del Lavoro, gli under 35 disoccupati o inattivi sono oltre 6 milioni e 800 mila. Oppure si guarda alla platea dei cosiddetti Neet, i ventenni e trentenni che non lavorano, non studiano, non sono inseriti in nessun percorso di formazione: sono più di 2 milioni, il 24% dei ragazzi in quella fascia d'età. Percentuale aumentata durante la pandemia, stabilmente la più elevata dell'Unione europea. 

Loro stanno a casa, senza una prospettiva. Ma gli altri, quelli che lavorano, non sempre se la passano meglio. Non deve ingannare il fatto che nel 2021 oltre il 40% dei lavoratori che hanno visto trasformare il proprio contratto di lavoro in un tempo indeterminato aveva un'età compresa tra i 15 e i 34 anni. 

Per tutto lo scorso anno, e ancora nel primo trimestre 2022, è stata registrata anche una forte crescita dei lavoratori in somministrazione (reclutati attraverso un'agenzia esterna) e di quelli intermittenti o a chiamata: in entrambe queste categorie più della metà dei contratti riguardano under 35. 

Secondo i dati Inps, i lavoratori a chiamata hanno svolto in media 10,1 giornate retribuite al mese. «In realtà spesso sono di più, ma non dichiarate - spiega l'economista Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt - Tanti ragazzi si trovano di fronte a contratti irregolari, con paghe orarie bassissime: accordi ufficialmente da 10 ore a settimana con una retribuzione congrua, più altre 30 o 40 ore pagate in nero, con una quota oraria molto più ridotta». 

Non è l'unica modalità di sfruttamento, c'è un'altra eccezione molto italiana rappresentata dai tirocini, che «vengono usati massicciamente, anche grazie ai fondi europei, ma con indennità minime molto basse, da 400-500 euro al mese - sottolinea Seghezzi - sono una forma alternativa di lavoro, dove l'attenzione alla formazione scompare e i giovani vengono inseriti nei turni, trattati come dipendenti a tutti gli effetti». Stipendi da fame Quelli che sono, invece, inquadrati correttamente, spesso hanno una busta paga troppo leggera. 

Secondo i dati Eurostat, in Italia lo stipendio medio per la fascia tra i 18 e i 24 anni è di 15.858 euro. In apparenza vicino alla media europea di 16.825, ma la prospettiva cambia se lo confrontiamo con quello di Paesi che hanno un costo della vita simile al nostro. Tra i 18 e i 24 anni si guadagnano in media 23.858 euro in Germania, 19.482 in Francia, 23.778 nei Paesi Bassi e 25.617 in Belgio. Solo in Spagna i giovani hanno un reddito medio inferiore al nostro: 14.085 euro. 

La differenza salariale, però, anche dentro i nostri confini, è strettamente legata al livello di istruzione. I laureati trovano più facilmente lavoro e con stipendi più dignitosi. Secondo l'ultimo rapporto Almalaurea, riferito al 2021, la retribuzione mensile netta, a un anno dal titolo di studio è, in media, di 1.340 euro per i laureati di primo livello e di 1.407 euro per i laureati di secondo livello. Con un aumento, rispettivamente, del 9% e del 7% in confronto all'indagine del 2019. 

Molto dipende, ovviamente, anche dal tipo di posto lavoro che si riesce a raggiungere. Seguendo una rielaborazione Inapp su dati Istat, tra i mestieri più "giovani" ci sono il tecnico del web, il bagnino, il cameriere e, in generale, tutte le attività legate a servizi ricreativi e culturali. Poi, in ordine di preferenza, barista, steward o hostess, commesso/a nei negozi di vendita al dettaglio, addetto dei call center, operaio per l'installazione di ponteggi, venditore a domicilio. Più in giù, tra i mestieri ricercati, ci sono i cuochi, i cassieri del supermercato, le baby sitter e i corrieri per le consegne. 

Molti sono lavori stagionali, quelli di cui ora c'è gran bisogno e per cui spesso non si trovano candidati. Perché sono anche quelli per cui a volte vengono proposti contratti pirata e paghe misere. «In una realtà come la nostra, con tante piccole imprese sparse sul territorio, i controlli da parte dello Stato sono carenti, soprattutto in estate, quando invece dovrebbero essere più incisivi. - conferma Seghezzi - E la riforma dell'Ispettorato del lavoro, invece di rafforzarne le funzioni, le ha indebolite».

Il far west dei salari in Italia: un dipendente su tre non arriva a mille euro al mese. Gloria Riva su L'Espresso il 20 Giugno 2022. 

Paghe da fame, contratti pirata e il fenomeno in espansione dei working poor. Il salario minimo di 9 euro l’ora per molti è un miraggio. Ma, anche se venisse introdotto, senza vigilanza cambierebbe poco.

Martina ha 19 anni e pensa all’estate, quando gli esami di maturità saranno finiti: «Andrò a Dublino a imparare l’inglese. Non ripeterò l’errore della scorsa estate».

Martina è di Cesenatico e lo scorso giugno è stata assunta con un contratto di apprendistato in un lussuoso albergo della città. Sulla carta erano 24 ore settimanali alla reception: «In pratica ero occupata otto ore al giorno per sette giorni la settimana. E nessun riconoscimento per l’extra lavoro». La sua reale paga oraria è stata di due euro l’ora lordi, hanno calcolato i sindacalisti della Cgil a cui la giovane si è successivamente rivolta. «Situazioni come questa sono all’ordine del giorno, stagione estiva dopo stagione estiva», racconta Paolo Montalti, segretario generale della Filcams Cgil dell’Emilia Romagna, che continua: «Nel lavoro stagionale e nei pubblici esercizi, come la ristorazione, è un far west. Quasi mai viene rispettato il contratto del settore, che prevede un impegno di 38 ore a settimana. Nella realtà la media è di 70 ore a settimana, gli “extra” sono retribuiti fuori busta, a nero. In altri casi, il datore offre contratti pirata e abbiamo stimato che la media retributiva è di 3,5 euro l’ora, per un impegno di dieci ore al giorno, sette giorni su sette. Questo è ciò che offre il settore del turismo in Italia».

E non succede solo in Riviera. In base ai dati recentemente pubblicati dal “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia”, istituito dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, nell’industria del turismo il 65,5 per cento di chi lavora in alberghi e ristoranti percepisce una busta paga al di sotto della soglia di povertà, peggio di quanto succede nell’agricoltura, dove i lavoratori poveri sono il 30 per cento, o nelle costruzioni, in cui i worker poor sono il 31,7 per cento.

Sarà forse per colpa di queste buste paga da fame che gli imprenditori del turismo non trovano personale? «Le stesse associazioni datoriali hanno chiesto di sedersi a un tavolo per discutere un nuovo modello di sviluppo, forse si sono rese conto che non è più possibile campare dello sfruttamento della manodopera», auspica Fausto Sestini sindacalista Cgil di Cesena.

Negli scorsi giorni l’accordo sulla direttiva europea per un equo salario minimo è stato accolto dall’opinione pubblica italiana e da una certa politica - M5S in testa - come la soluzione alle ingiustizie del mercato del lavoro. In effetti, in Italia quasi un terzo dei lavoratori dipendenti del privato ha una retribuzione bassa, cioè guadagna meno del sessanta per cento del salario mediano italiano, che si aggira attorno ai mille euro. Si calcola che, per l’Italia, il salario minimo non dovrebbe scendere sotto i nove euro orari, mentre oggi – stima il “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia” - si trova in questa situazione il 29,7 per cento dei lavoratori dipendenti italiani.

Basterà una legge che vieta di pagare un lavoratore meno di nove euro l’ora per risolvere il problema? «No», risponde Michele Raitano, professore di Politica Economica alla Sapienza di Roma e membro del gruppo di lavoro, che argomenta: «Nel dibattito pubblico la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti, quando, in realtà, è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda soprattutto i tempi di lavoro. Significa che abitualmente si lavora per troppo poche ore, celando forme di part-time involontario, lavoro grigio e sfruttamento», racconta l’economista, che aggiunge: «Il merito del salario minimo è aver acceso un dibattito sulla povertà degli stipendi».

Il governo, anche alla luce della direttiva europea e delle evidenze emerse dalla commissione istituita da Orlando, nei prossimi giorni sarà chiamato a decidere se istituire un salario minimo o puntare su altre soluzioni, per esempio puntellare la contrattazione collettiva nazionale con una legge sulla rappresentanza sindacale per ridare dignità al lavoro. Se si scegliesse di risolvere il problema semplicemente istituendo il salario minimo, così come chiede l’ex ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, l’effetto potrebbe essere controproducente: «Per com’è strutturato il mercato del lavoro, rischiamo di ritrovarci con un’esplosione del finto lavoro autonomo, così da aggirare la normativa», fa notare Raitano. Mentre non c’è evidenza che l’istituzione del salario possa indurre a un indebolimento dei salari più elevati: «Nei Paesi in cui è già stato istituito il reddito minimo non si è verificata alcuna contrazione degli stipendi medio alti o regolamentati da un contratto collettivo», spiega Raitano.

I dati dell’osservatorio, oltre a raccontare la stretta correlazione fra povertà lavorativa e basso numero di ore lavorate, dicono che esistono settori in cui c’è maggior rischio, come l’alberghiero e la ristorazione, «sui quali sarebbe utile insistere con maggiori controlli mirati», dice Elena Granaglia, docente di Scienza delle Finanze all’università di Roma Tre e membro del Forum disuguaglianze e diversità, che aggiunge: «Eppure il salario minimo potrebbe essere un buon punto di partenza. Ad esempio, con adeguati controlli, retribuzioni quali quelle di Martina a Cesenatico, dei tanti lavoratori con contratto multiservizi o con contratti pirata non potrebbero più essere erogate, con effetti positivi anche nel tempo. Perché il problema dei bassi salari non è un fenomeno relativo all’ingresso nel mondo del lavoro, ma persiste negli anni e ha effetti negativi sulla vita lavorativa e delle pensioni».

Come fa notare un ispettore del lavoro a L’Espresso: «L’istituzione del salario minimo consente agli ispettori che evidenziano situazioni di lavoro grigio o nero di agire più facilmente per far ottenere al lavoratore quanto gli spetta. E gli stessi giudici avranno un parametro cui attenersi. Servirà anche per circoscrivere situazioni riconducibili al caporalato».

Però, da solo, il salario minimo non è sufficiente per risolvere tutti i problemi del lavoro che in gran parte derivano dalla scarsa produttività delle imprese. «Oltre al reddito minimo servono una politica industriale, una governance democratica delle imprese, un investimento profondo nell’istruzione dei giovani», spiega Granaglia, che lancia anche un’idea più radicale: «Resta aperto il problema dell’iniquità delle distribuzioni dei redditi da lavoro. Andrebbe preso in considerazione il pensiero del filosofo belga Philippe Van Parijs, secondo cui sarebbe giusto assegnare a tutti, lavoratori e non, ricchi e poveri, un reddito di base, partendo dal presupposto che spesso il valore aggiunto assegnato a un singolo lavoratore deriva da risorse comuni, ereditate e prodotte dalla cooperazione sociale, rispetto alle quali tutti abbiamo un titolo valido».

La direttiva europea non impone di istituire un salario minimo, piuttosto invita a promuovere retribuzioni adeguate all’interno dell’Unione Europea per ridurre il fenomeno del lavoro povero, cresciuto a dismisura negli ultimi vent’anni, soprattutto in Italia, dove si è passati da 9,4 lavoratori coinvolti su cento nel 2006 a 12,3 dipendenti. Per arginare le disuguaglianze salariali e tutelare le imprese dalla concorrenza sleale derivante dai bassi salari, secondo Bruxelles bisogna anche colmare i divari di genere, migliorare l’equità del mercato del lavoro e aumentare la produttività, grazie all’investimento sulle persone.

Fonti vicine al ministero del Lavoro raccontano che il ministro Orlando intende tralasciare l’entità economica del salario minimo, ovvero evitare di istituire il confine dei nove euro, ma affermare che non sarà possibile stipulare contratti al di sotto del minimo salariale previsto dagli accordi di categoria stipulati tra le parti sociali, ovvero i sindacati e i datori di lavoro. Questo vorrebbe dire ributtare la palla in calcio d’angolo, perché in Italia resta aperta la questione su quali siano i sindacati e le associazioni d’impresa più rappresentativi e quindi i contratti di riferimento. Infatti l’indisponibilità di alcune sigle sindacali e datoriali di contarsi, e quindi di mettere nero su bianco quanto siano effettivamente forti al tavolo contrattuale, impedisce di arrivare a una soluzione della questione.

Il risultato è che in Italia il mercato del lavoro è regolamentato da oltre mille contratti, di cui è pur vero che solo trecento vengono applicati, ma nulla impedisce la nascita di sindacati gialli o di contrattazioni improprie. L’esempio più eclatante è l’accordo che Ugl ha firmato con le piattaforme del delivery food, praticamente ratificando il fatto che i rider dovrebbero essere dei lavoratori autonomi. Un accordo che Cgil, Cisl e Uil stanno tentando di smontare anche per via legale, essendo stato firmato da attori parzialmente rappresentativi del settore. Anche se si riuscisse nell’intento, l’assenza di una normativa sulla rappresentanza sindacale presuppone che altri contratti pirata possano essere replicati in altri settori.

Fra le indicazioni dell’Osservatorio sul lavoro povero istituito da Orlando una delle soluzioni di facile e veloce applicazione è la vigilanza documentale: «Oltre alla fissazione di un minimo salariale per via contrattuale o legale, è essenziale che questo minimo sia rispettato», racconta Raitano, che illustra l’innovativa proposta dell’Osservatorio: «Al di là della fondamentale attività ispettiva, è cruciale potenziare l’azione di vigilanza documentale, cioè basata sui dati che imprese e lavoratori comunicano alle amministrazioni pubbliche, in particolare all’Inps, costruendo indici di rischio a livello di impresa o settore per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate e, in caso di persistenza nel tempo, studiare strategie di intervento interagendo con le imprese oppure guidando la vigilanza ispettiva». Arricchendo le banche dati disponibili il sistema indicherà in automatico le aree di maggiore fragilità e abuso su cui concentrare l’attività ispettiva.

Flavio Briatore dal Crazy Pizza: «Mai visto un povero creare posti di lavoro, rompono invece di ringraziare». BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022. 

L'imprenditore piemontese critica un gruppo di manifestanti che nei giorni scorsi avrebbe protestato davanti al Twiga, il beach club di Forte dei Marmi. «In questo Paese c'è una rabbia sociale enorme» 

«Non hanno capito che chi crea ricchezza sono le aziende, gli investimenti, io non ho mai visto un povero creare posti di lavoro. E invece loro sui ricchi...Ricchi cosa vuole dire? Chi investe. Il ricco non è uno che va in barca ai Caraibi. Da ricco investi sempre. Continui sempre. Noi siamo partiti con 10milioni di fatturato, adesso fatturiamo 140 milioni di euro e abbiamo 1500 dipendenti. Invece di ringraziarti, ti rompono anche il c****. C’è una rabbia sociale enorme». Flavio Briatore torna a farsi sentire dopo le polemiche sulla pizza troppo costosa del suo ristorante e gli insulti delle persone per i danni causati dal maltempo al Twiga di Forte dei Marmi, di cui è proprietario assieme alla parlamentare di Fratelli d’Italia Daniela Santanchè.

Proprio davanti al beach club della Versilia nei giorni scorsi, racconta l’imprenditore piemontese, un gruppo di manifestanti ha protestato nei giorni scorsi. Ed è a loro infatti che è rivolto questo messaggio, pubblicato sul suo profilo Instagram e parte di un’intervista ben più lunga realizzata da mediawebchannel.it per i 60 anni dalla nascita della Costa Smeralda, il villaggio luxury nato attraverso nel 1962 per iniziativa del principe Karim Aga Khan IV. «Eppure noi lì diamo lavoro a 180 persone. E sono venuti a rompere il c**** a noi. Io non li ho mica capiti. Poi i nostri dipendenti li abbiamo bloccati altrimenti li menavano. È dovuta intervenire la polizia. Ma perché? Se c’è un’azienda che dà lavoro a 180 persone, paghiamo i contributi, non facciamo nero, ma che vadano a protestare a chi fa fare schiavismo, nero e non pagano le tasse».

Flavio Briatore, "ero povero anche io ma...": la frase con cui spazza via le critiche. Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 10 settembre 2022

Ogni sua dichiarazione innesca una polemica. Era lo scorso maggio quando Flavio Briatore disse: «Chi crea ricchezza sono le aziende, non ho mai visto un povero creare posti di lavoro». Il linguaggio mediatico è partito e noi lo abbiamo raggiunto.

Flavio, il tuo nome è in tendenza ovunque. Cosa pensi di aver detto di così terribile per meritare accuse come quelle che ti stanno rivolgendo?

«Non ho detto nulla di terribile se non la verità. Sono le aziende ad offrire lavoro, sono gli imprenditori come me che investono, che possono offrire la possibilità alle persone di lavorare e guadagnare. Non riconoscere questo significa non riconoscere un dato oggettivo e rimanere ancorati all'idea che chi fa impresa sia il male assoluto e per andare avanti ci si debba aggrappare ai sussidi statali tipo il reddito di cittadinanza».

Ti stanno accusando di criminalizzare i poveri.

«È una follia. Io sono l'esempio di una persona nata povera che lavorando si è costruita la sua ricchezza. Potrei mai criminalizzare i poveri quando io lo sono stato? Il primo a essere criminalizzato sarei io».

Hai dichiarato che da ragazzo in estate raccoglievi le mele e le fragole e che oggi è difficile trovare ragazzi con la fame di lavoro, con spirito di sacrificio. Oggi sembra che cerchino il lavoro sperando di non trovarlo.

«Le mie affermazioni non sono accuse infondate ma il risultato di ciò che capita nelle mie aziende. Quando facciamo colloqui di lavoro le prime cose che i ragazzi chiedono sono se hanno i week end liberi, quali sono i giorni off. Vogliono avere più tempo libero. È cambiata la cultura, manca la motivazione. Credo che in loro oggi ci sia la convinzione di non farcela e quindi pensano che tanto vale stare a casa a far niente ed essere sostenuti dal reddito di cittadinanza».

A te questo reddito proprio non va giù.

«Credo che sia doveroso e sacrosanto aiutare gli inabili al lavoro e chi veramente non possiede altri mezzi di sostentamento. Elargire questo sussidio a ragazzi di età compresa fra i venti e i venticinque anni, in un Paese che vive di turismo, nel periodo compreso fra aprile ed ottobre è una follia. Così facendo mettiamo le imprese del settore in ginocchio e non incentiviamo i ragazzi a lavorare».

Ripeti sempre che l'Italia è un Paese dove è difficile investire. Quali sono secondo te le cause?

«L'Italia è un Paese che non investe nelle imprese, che non agevola le aziende. Tra tasse e burocrazia è veramente una guerra. Possibile non capiscano, i governanti in primis, che se le aziende funzionano si possono pagare gli stipendi, si possono generare posti di lavoro e far crescere l'economia? La soluzione non è data dall'elemosina per sopravvivere. Dobbiamo uscire da questa cultura statalista che fa morire le imprese. E se muoiono le imprese, muore il Paese».

Spesso dici che in Italia c'è troppa invidia sociale. Una dimostrazione a questa tesi l'hai avuta ad agosto quando il terribile uragano che ha colpito la Toscana, ti ha devastato il Twiga, il tuo notissimo stabilimento balneare in Versilia. Invece di ricevere solidarietà, la maggior parte delle persone ha gioito.

«È proprio così. Per un giorno abbiamo fatto felici tante persone. Questo è il modo con cui la gente, divorata dalla sua invidia sociale, il suo rancore, dimostra di non sopportare che a qualcuno le cose possano andare bene. Vorrebbero che andasse male per tutti. Se quell'uragano ce lo avesse distrutto completamente lo stabilimento, sarebbero stati ancora più contenti. Invece grazie ai nostri dipendenti che hanno lavorato trentasei ore no-stop, lo abbiamo rimesso in piedi e la sera dopo lo abbiamo riaperto come se nulla fosse accaduto. Sai cosa è accaduto qualche mese fa sempre al Twiga?».

Dimmi

«Sono arrivati i Cobas a manifestare. Non sai la fatica per tenere a bada i nostri ragazzi che volevano uscire per ribellarsi a quello che stava accadendo. Questo perché non è possibile che un'azienda che funziona, che fa lavorare centotrenta persone, che lascia circa sei milioni di euro sul territorio, venga contestata. Che vadano a contestare le aziende che pagano in nero o che non danno lavoro. Sembra veramente che il mondo giri al contrario».

C'è un grande dibattito sul salario minimo, tu cosa ne pensi?

«Io non capisco quando criticano il salario minimo quando hai un governo che paga dottori, carabinieri e poliziotti 1.200/1.300 euro al mese. Sai un'altra criticità per un imprenditore quale è?».

Quale?

«Il licenziamento. Vorrei avere la libertà di poter licenziare chi non lavora bene. Per un manager, quando licenzi un dipendente è un grosso smacco. Noi imprenditori vogliamo assumere le persone non licenziarle. Il licenziamento è una nostra sconfitta».

Flavio, quando abbiamo iniziato questa chiacchierata mi ha molto colpito una frase che hai detto: "Ciò che dico diventa sempre motivo di polemica perché dico la verità, perché sono una persona libera e posso dire ciò che penso".

«È vero, questo è un Paese dove tutti pensano delle cose ma nessuno le dice. Siamo circondati da persone condizionate che in privato ti dicono una cosa e un minuto dopo le vedi in televisione e dicono l'opposto».

Non c'è coerenza.

«Uno dei motivi per cui questo Paese non va avanti è perché è pieno di persone incoerenti che non sono libere». 

Il lavoro c'è, le tasse e lo sfruttamento pure. Il cuneo fiscale e contributivo reale sulle retribuzioni è intorno al 60%, ben superiore al 46% indicato dall'Ocse. LIDIA MARASSI su Il Quotidiano del Sud il 27 giugno 2022.

LA scorsa settimana, in collegamento a Metropolis, Flavio Briatore ha sostenuto la necessità di provvedere ad un giusto compenso per i lavoratori. La discussione si è sviluppata contestualmente ad un’intervista sul tema della difficoltà di reperire personale nel campo della ristorazione. Durante il suo intervento, Briatore ha ribadito fermamente la sua contrarietà al reddito di cittadinanza: “Firmerei per la sua abolizione, anzi lo sospenderei da aprile a ottobre per aiutare il turismo”.

Nel criticare il sussidio introdotto dal governo Conte I, non è la prima volta che l’imprenditore si mostra apertamente dubbioso circa l’effettiva voglia di lavorare dei più giovani. “Molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo […] preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera” aveva già dichiarato in precedenza.

Il tema della mancanza di personale è in effetti un problema serio per il mondo della ristorazione italiana, che è oggi in evidente difficoltà nel campo delle assunzioni, proprio nel momento in cui dal settore arrivano i primi segnali di ripresa. Rispetto al reddito di cittadinanza (misura del resto criticata da diverse voci) da pochi giorni l’INPS ha pubblicato l’Osservatorio su Reddito e Pensione di Cittadinanza con gli ultimi dati aggiornati al 14 giugno 2022; dal documento emerge che, in media, l’importo erogato a livello nazionale per il reddito è di 575 euro e la distribuzione per aree geografiche vede 426mila beneficiari al Nord, 317mila al Centro e 1,5 milioni nell’area Sud e Isole.

Eppure, secondo altri, le criticità del reddito di cittadinanza sarebbero tutto sommato piuttosto marginali rispetto ad un fenomeno sentito anche all’estero. In Spagna, come ha di recente segnalato il quotidiano “El Pais”, gli imprenditori lamentano ad esempio “una presunta mancanza di vocazione nel settore”.

D’altra parte, anche nella penisola iberica, i lavoratori denunciano orari eccessivamente lunghi, turni notturni non pagati, tagli al salario e precarietà generalizzata. Qui in Italia, le affermazioni di Briatore – che non differiscono da quelle di altri imprenditori –  si riallacciano all’acceso dibattito circa la direttiva europea sul salario minimo, nell’ipotesi di ottenere una soglia minima di 9 euro lordi l’ora.

Se infatti oggi si sta assistendo ad un aumento della disoccupazione, è altrettanto vero che oltre all’assenza di lavoro bisogna innanzitutto fronteggiare anche la diffusione del lavoro povero, ossia quello in cui la retribuzione percepita non consente di superare la soglia della povertà. Secondo i più, tra le priorità dell’attuale Governo dovrebbe esservi proprio quella di prevedere meccanismi in grado di determinare un salario in grado di garantire un’esistenza dignitosa.

D’altra parte, se assicurare un rientro economico onesto sembra un’urgenza, sarebbe ingeneroso non considerare rilevante anche il problema, sottolineato da molti imprenditori, del costo del lavoro. A fronte di 300 miliardi di salari lordi, mediamente corrisposti ogni anno nel settore privato, sono stimati circa 180 miliardi di euro tra oneri fiscali e retributivi. Oggi, il cuneo fiscale e contributivo reale sulle retribuzioni è intorno al 60%, ben superiore al 46% indicato dall’OCSE, rappresentando forse la principale motivazione per l’ allontanamento dalla legalità di tanti imprenditori.

Come molto spesso accade, la verità spesso sta nel mezzo, anche rispetto alle difficoltà incontrate dal mercato del lavoro italiano; così come alcuni lavoratori potrebbero scegliere di sfruttare il reddito di cittadinanza per avere entrate senza fatica, allo stesso modo parecchi imprenditori potrebbero fare appello alle tasse elevate per giustificare un trattamento irrispettoso dei propri impiegati.

Anche per evitare l’incremento di comportamenti disonesti, secondo molti bisognerebbe intervenire sul mercato del lavoro italiano, introducendo innanzitutto un salario minimo, ma tenendo allo stesso tempo in conto che questa misura potrebbe risultare fallimentare se non fosse accompagnata da una  riduzione delle tasse sul lavoro.

Oggi, lavorare contemporaneamente su questi due aspetti potrebbe essere la strada giusta per far sì che da un lato i lavoratori riescano a percepire più soldi in busta paga e dall’altro consentire agli imprenditori di essere in grado di avere meno tasse, motivandoli ad investire più agilmente sulla forza lavoro.

LA RIFLESSIONE. «Mancano lavoratori» siamo sicuri che la colpa sia dei lavoratori? Uno dei tormentoni di questa estate siccitosa è la scoperta del lavoro che c’è ma dei lavoratori che mancano. Sì, è proprio così: scarseggiano le braccia. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Luglio 2022

Uno dei tormentoni di questa estate siccitosa è la scoperta del lavoro che c’è ma dei lavoratori che mancano. Sì, è proprio così: scarseggiano le braccia. La voglia di tornare a viaggiare, a incontrarsi, ad andare in vacanza, complici le fake news che il Covid è finito, ha messo in crisi gli imprenditori del settore estivo. Dalle spiagge senza bagnini ai ristoranti senza cuochi né camerieri, dagli alberghi sguarniti alle compagnie aeree senza hostess né steward è un rosario di richieste senza risposte che attraversa tutto lo Stivale.

Il problema è stato subito affrontato sui social e negli immancabili talk show televisivi, naturalmente con quella logica divisiva e inconcludente tipica di una società che ormai ragiona col codice binario: bianco o nero, buono o cattivo. E così alla fine la questione continua a ingrossare le file di chi sostiene che i lavoratori non ci sono perché le paghe sono basse, più basse degli stessi 600 euro garantiti dal reddito di cittadinanza e chi ritiene invece che i giovani non vogliano sacrificarsi, non vogliano sgobbare in ore e giorni in cui gli altri si divertono.

Una parziale verità alberga in entrambe le posizioni, nel senso che molti imprenditori pagano retribuzioni da fame per 8-10 ore di lavoro che si protrae fino a notte o si svolge in giorni festivi. Ma è vero anche che la società dello spritz non incentiva alla fatica né alla disciplina che qualsiasi lavoro richiede.

L’altro giorno è morto Leonardo Del Vecchio, uno degli imprenditori più ricchi del pianeta e che ha dato benessere a centinaia di migliaia di persone. Del Vecchio era cresciuto in orfanotrofio dopo la morte del padre, pochi studi e da subito al lavoro come garzone. Non conosceva l’inglese, ma chiudeva contratti vantaggiosi con i più grandi gruppi industriali del suo settore. Un genio? Senz’altro, ma anche un uomo che non si era arreso né alle difficoltà della vita né alla logica delle raccomandazioni. Nel suo percorso ci sono molti aspetti che dovrebbero far riflettere.

Cominciamo dai giovani. Ci fu un tempo in cui durante le lunghe vacanze estive i ragazzi non stavano seduti ai tavolini davanti ai bar. Ma avevano un’occupazione che offriva loro due opportunità: imparare qualche mestiere e magari scoprire una vocazione nascosta, misurarsi con il lavoro e con la serietà che esso richiede. Si andava a bottega dal falegname, dalla sarta, dal barbiere, si dava una mano nei campi ai genitori o nelle aziende di famiglia, si serviva ai tavoli di bar e ristoranti. Tutto gratis o per compensi simbolici. Si dirà: sfruttamento minorile e oggi quest’accusa rischierebbe l’artigiano che ci provasse. Certo, qualche caso c’era, ma c’era libertà di mollare e di fare altro. In cambio frequentavi una scuola di vita fatta di esperienza e non di smartphone e c’era la trasmissione di un sapere che difficilmente si sarebbe potuta realizzare in altro modo. Quanti ex garzoni, quanti giovani muratori oggi sono imprenditori e mettono a frutto quello che hanno imparato da ragazzini? Ai nostri giorni molti giovani si arrangiano con le consegne a domicilio (in Italiano delivery): ma non imparano nulla, perché nessun sapere viene trasmesso.

Il dramma della scuola è che non riesce a formare né le competenze per le attività più specializzate ma nemmeno quelle per fare l’artigiano. Ergo un idraulico bisogna prenotarlo come se fosse un volo su Marte e pagarlo come il luminare dei trapianti. Eppure, nonostante la rivoluzione digitale, nelle nostre case tubi, rubinetti e wc è prevedibile che restino per parecchio. Così come resteranno a lungo porte e finestre, mentre i serramentisti – soprattutto se installatori – sono più rari di una vittoria della Nazionale. Qualcuno, cioè uno dei tanti ministri e ministrucoli che si sono succeduti in viale Trastevere, si è mai preoccupato di questo?

E veniamo agli imprenditori, una vasta platea che spazia tra i più vari settori produttivi e quindi anche con esigenze diverse. Ma una è diventata comune: l’assenza di personale, sia qualificato che generico. Tutti scaricano le colpe sul reddito di cittadinanza, della serie sempre meglio che lavorare. In certa misura è vero: il reddito di cittadinanza – escluse le truffe dei soliti disonesti – ha reso evidente che le buste paga italiane sono troppo basse. Ma non vale solo per loro. Le compagnie aeree a basso prezzo (e quindi non il pizzaiolo con due dipendenti) pagano stipendi da fame, con un continuo avvicendamento di personale. Nessuno può avere un progetto di vita facendo la hostess low cost: può andar bene per qualche stagione, fare un po’ d’esperienza e perfezionare l’inglese. Stop. Viene in mente una domanda: ma in caso di emergenza, questi equipaggi di venditori di profumi e biglietti di lotterie, sono in grado di aiutare i passeggeri in difficoltà?

Alla fine la constatazione, amara, è una sola: il cambiamento è benvenuto se è governato. Se invece andiamo al suo rimorchio la battaglia è persa e andremo rincorrendo sempre le emergenze. I nostri politici non sembra l’abbiano capito e preferiscono giocare a fare e disfare alleanze, partiti e governi. Salvo poi discettare sui social e in Tv sui problemi di cui sono i maggiori responsabili. Passerà pure questa estate senz’acqua e senza camerieri.

Non sul divano. Dove sono finiti i camerieri italiani? A fare i cassieri, i commessi e i bidelli. Lidia Baratta su L'Inkiesta il 2 Luglio 2022.

Con l’economista Francesco Armillei, Linkiesta ha analizzato l’evoluzione delle comunicazioni obbligatorie degli stagionali pre e post pandemia. I ristoratori non hanno alzato i salari per attrarre i lavoratori, nonostante lamentassero la carenza di manodopera. Ed è aumentata l’area grigia di quelli senza contratto

Alla “Vecchia Bettola” di Firenze, per trovare un cameriere, il proprietario alla fine ha srotolato in strada uno striscione con fondo bianco e caratteri cubitali blu con su scritto «Cercasi cameriere». E dopo qualche giorno, l’ingegno l’ha premiato.

Nell’estate della doppia crisi, tra guerra e pandemia, camerieri, cuochi, baristi e bagnini in Italia sembrano essere tra le materie prime più rare. Non passa giorno in cui non si senta un ristoratore lamentare la carenza di personale. Non passa giorno in cui non ci sia qualcuno che dica che è tutta colpa del reddito di cittadinanza e dei giovani che non hanno voglia di lavorare. Mentre sull’altro lato della barricata si evocano entusiasti la Great Resignation e la Yolo Economy all’americana, nel segno del «mollo tutto e cambio vita».

Senza nessuno che si chieda però: ma dove sono finiti, davvero, questi camerieri? Le risposte, come sempre, si trovano nei dati.

Con Francesco Armillei, assistente di ricerca alla London School of Economics e socio del think-tank Tortuga, che da mesi analizza le transizioni occupazionali legate all’aumento delle dimissioni volontarie, siamo andati a studiare i numeri delle comunicazioni obbligatorie dei lavoratori stagionali (cuochi e aiuto cuochi, camerieri, baristi e bagnini) dal 2019, quindi prima della pandemia, alla fine del 2021 (ultimo periodo in cui abbiamo i dati).

E quello che viene fuori è che la percentuale di assunzioni degli stagionali da maggio in poi tra 2019 e 2021 resta più o meno la stessa. «Nonostante le tante lamentale, alla fine il numero di assunzioni che vanno in porto non ha risentito dell’anno di pandemia», commenta Armillei. Anche i lavoratori che escono dal mercato del lavoro e non ricompaiono quindi più nelle comunicazioni obbligatorie (tranne un aumento dell’1,8% nell’estate del 2020, quella post lockdown), con la ripresa economica tornano in linea – anzi, leggermente più bassi – del periodo pre pandemia.

La prima evidenza quindi è che no, quelli che prima scorrazzavano tra i tavoli per portarci pizze e fritture di pesce non sono tutti sul divano a fare zapping tra i canali tv godendosi l’aria condizionata pagata col reddito di cittadinanza. Anzi.

La novità è che alcuni di loro, tra la crisi dei ristoranti dovuta al Covid e gli stipendi bassi offerti dai titolari di locali e stabilimenti balneari, alla fine hanno scelto un altro lavoro. Certo, alcuni sono anche andati all’estero, approfittando di restrizioni anti-Covid più leggere e salari più alti.

Ma tra pre e post pandemia è aumentata anche dell’1,5% la fetta di quelli che erano stagionali e che ricompaiono nelle comunicazioni come non stagionali. In pratica, hanno cambiato lavoro, magari scegliendone uno più sicuro o pagato meglio.

Ma che lavoro sono andati a fare? “Seguendo” i percorsi degli ex stagionali, viene fuori che sono andati a fare nella maggior parte dei casi i commessi nei negozi e i cassieri nei supermercati. E soprattutto, con i concorsi pubblici banditi per il personale Ata della scuola, si vede un aumento dei ricollocati come bidelli e altro personale negli istituti scolastici.

Non solo. Alcuni si sono spostati pure nel settore agricolo. Dove, per via delle frontiere chiuse a singhiozzo causa pandemia, si lamentava anche la carenza di manodopera per il mancato arrivo dei braccianti stranieri.

Alla faccia dei giovani che non hanno voglia di lavorare. Perché quando si parla di stagionali, si parla soprattutto di loro. Il 48,75% ha tra i 15 e i 29 anni, oltre il 72% ha meno di 40 anni.

E la cosa che salta all’occhio è che, nonostante i titoloni contro i giovani divanisti, proprietari di bar e ristoranti non hanno certo offerto salari più alti per accaparrarsi i lavoratori come accadeva negli States. La media degli stipendi resta di circa 1.000 euro lordi al mese. Si vede solo una leggera crescita di 50 euro lordi al mese circa tra il 2019 e il 2021. Ma sembra più che altro una crescita generalizzata, sia tra chi questi lavori li fa come stagionale sia tra chi stagionale non è. «Quindi potrebbe essere solo un po’ di inflazione», spiega Francesco Armillei. «In generale, non mi sembra che la categoria degli stagionali abbia beneficiato di particolari aumenti salariali».

Al contrario, si vede invece una crescita da un anno all’altro di camerieri e colleghi assunti senza un contratto collettivo nazionale. Sommando le comunicazioni obbligatorie classificate senza contratto nazionale e quelle con “contratto non presente in elenco”, l’estensione di questa area grigia sale dal 18% al 24% tra il 2019 e il 2021. «Un dato che ci dovrebbe far riflettere anche alla luce del dibattito sull’introduzione di un salario minimo per tutelare chi al momento resta fuori dallo “scudo” dei Ccnl», commenta Armillei. Ne usciremo migliori, si diceva. Tutt’altro.

I ricercatori italiani, precari per sempre. Sono oltre 25mila «e la nuova riforma non cambia nulla». Sono iperqualificati ma senza certezze future. Prima di essere stabilizzati aspettano in media 11 anni, per arrivare a stipendi assai inferiori a quelli dei loro colleghi europei o del settore privato. E i soldi del Pnrr e la legge promettono cambiamenti su cui molti restano scettici. Gloria Riva su L'Espresso l'1 Luglio 2022. 

Barbara Tomasello, 44 anni, è ricercatrice al dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Catania. A tempo determinato. «Scado a febbraio 2023». Poi? «Il nulla. Se non dovesse presentarsi un concorso per ricercatore, farò i conti con vent’anni dedicati alla ricerca di cure innovative, che non mi hanno portato a una stabilizzazione». La sua storia è simile a quella di altri 25.297

Lettera al “venerdì Di Repubblica” il 6 luglio 2022.

In questi giorni continuo a leggere che i dipendenti stagionali non si trovano. Io l'anno scorso ho fatto lo stagionale in un parco dei divertimenti in Germania finendo di lavorare il 30 novembre, da quando sono tornato quasi tutte le aziende a cui chiedo di lavorare neanche mi rispondono o mi mandano la risposta precompilata per dirmi di no.

Ho appena trovato un altro lavoro, sempre in Germania, 1.400 euro al mese più vitto e alloggio per trenta ore di lavoro alla settimana.

Credo che continuare a dare voce a chi sostiene che la gente si rifiuta di lavorare sia una gravissima mancanza di rispetto nei confronti di tutti quelli che veramente non riescono a trovare lavoro. Questa è una delle risposte che ho ricevuto: "Grazie per l'interesse dimostrato nei confronti del Club Med! Abbiamo esaminato attentamente la sua candidatura, ma al momento non possiamo darle un esito positivo e fissare un colloquio. Tuttavia tale decisione non mette in discussione le sue qualità umane e professionali". Paolo Ferraris 

Risposta di Natalia Aspesi

Ho una giovane amica truccatrice, anzi make-up stylist, che ha perso il lavoro in un negozio che ha chiuso col Covid. Adesso lavora per le tante agenzie che forniscono servizi vari ai tanti eventi per ricchi che fortunatamente invadono la nostra bella Italia. Era molto arrabbiata, avvilita. 

Con una decina di colleghe era andata in Umbria dove in un castello restaurato si svolgeva l'ennesimo matrimonio di lusso estremo, una coppia messicana con 150 invitati dal loro Paese. Ore di lavoro sulle antipatiche signore, neppure un panino né una bottiglia d'acqua, né il tempo per comprarsele. 

La settimana dopo a Roma, al ricevimento con presentazione di borse e cenone per 500 persone, solo russi e coreani, signore villanissime, anche lì niente acqua e neppure un sorriso, una parola. «Mi sono sentita una schiava» mi ha detto. «Ci stanno togliendo la dignità, l'orgoglio per il nostro lavoro, ci pagano sempre meno, forse è meglio se faccio la puttana».

È vero, sta succedendo qualcosa di orribile e nessuno la ferma: è vero che tanti rifiutano il lavoro, ma si tratta di un lavoro che umilia, sottopagato, insicuro, senza orario, che ti chiude nella miseria e nella sottomissione, che ti toglie l'orgoglio di far bene e quindi di migliorare e far carriera. Come si sia arrivati a questo non lo so, non mi pare che chi dovrebbe reagisca, e impedisca ai tanti Briatore, ai tanti "padroni" incivili arricchimenti assurdi e inutili sulla pelle degli altri. 

Sandro Bonvissuto, scrittore e filosofo, lavora come cameriere da Candido, la storica hosteria in via Marziale, per “la Repubblica - Edizione Roma” il 6 luglio 2022.

Negli ultimi trent' anni in Italia gli stipendi sono calati. Ma solo in Italia. Hanno lievitato ovunque. Tranne che qui. 

Gli analisti si sono avventurati in cerca di spiegazioni, ma ci vorrebbero speranze adesso. La situazione degli stipendi è forse attribuibile al cuneo fiscale? Probabilmente no. 

Altrove (Francia, ad esempio) questo indice è più importante che qui, o almeno in linea, e le retribuzioni in quei paesi sono più alte delle nostre.

Entriamo dunque nei grandi misteri dell'economia. Come quello del prezzo della benzina, che nel 2008, quando il petrolio aveva raggiunto la quotazione record per barile di tutta la sua storia, aveva determinato un costo per il carburante che era la metà di adesso. Va a capire. Nel frattempo in tutta Europa trova casa l'idea del salario minimo. Ne hanno parlato anche qui.

Solo che non sono d'accordo su chi debba garantirlo, se lo stato o gli imprenditori. Quindi mo intanto ne abbiamo parlato, poi vediamo, non c'è fretta. Gli imprenditori vorrebbero pagasse lo stato, quindi eleggeranno qualcuno che renderà fattibile tutto questo, mentre gli stipendi più bassi presto cominceranno a produrre pensioni sempre più basse; e questo è un bel vantaggio per lo stato. 

E allora davanti ad un'economia ora in crescita, ma che incomprensibilmente si accompagna ad un lavoro che non da prospettive, di fronte a aziende che aumentano i fatturati mentre gli stipendi restano inchiodati, per via di prezzi che salgono a dispetto delle buste paga, alla gente comune non resta altro da fare che emigrare.

Da una parte il capitalismo nazionale dovrebbe farsi un esame di coscienza, ed ammettere di aver sbagliato, almeno negli ultimi tre decenni, di essere andato avanti solo ed esclusivamente grazie ai continui aiuti, sussidi, alle tregue fiscali, concordati e prestiti statali. 

Intanto la fine del concetto di sindacato lascerà ogni lavoratore completamente solo nella giungla dell'impiego, con l'unica speranza di imbattersi in un imprenditore lungimirante, un qualche mecenate di quelli che finiscono nei libri di storia, qualcuno che sia capace di migliorare in modo autonomo la condizione di chi ha alle proprie dipendenze. Questo per quello che riguarda gli adulti, i giovani, invece, scapperanno da questo paese. 

E non perché i ragazzi siano dei viziati ai quali « non gli va di lavorare». Il problema sono gli stipendi bassi, che è un'invenzione vostra, non che i giovani so ignoranti o scansafatiche o che preferiscano percepire il reddito di cittadinanza. L'idea che si debba lavorare comunque anche con uno stipendio ridicolo altrimenti sei un fancazzista è un'idea fortemente oscurantista e conservatrice.

E prendersela col reddito di cittadinanza è una cosa reazionaria; se un imprenditore soffre la concorrenza del RDC (che per un lavoratore giovane sarà sui 500 euro al mese) mi immagino a quale stipendio la sua azienda stia facendo riferimento. 

E così mentre Roma è piena di lavoro, piena di turisti, tanto che pare un unico locale, un'unica e immensa tavola calda, il popolo non può beneficiarne, costretto a pagare i costi di una crisi finanziaria della quale non è responsabile, e il capitalismo italiano rimane ancora in mano alla perfida borghesia nazionale, ammantata di cultura progressista ma di esiti chiaramente conservatori, capace solo di esprimere una classe politica a sua immagine: conservatrice e progressista a seconda delle stagioni e delle convenienze. 

E se nessuno vuole andare a lavorare per l'elemosina è perché la gente sta uscendo rinnovata da una profonda crisi esistenziale: la pandemia ha insegnato di nuovo alle persone il valore del proprio tempo, perché va tutto bene finchè una mattina non te sveij sotto a un cipresso co la foto de ceramica. I ragazzi oggi sanno che non è il lavoro a nobilitare l'uomo, ma il contrario. 

Il Lavoro nel tempo diventerà una cosa da ricchi, qualcosa che potranno praticare ( per ripulirsi la coscienza) solo i figli di papà, i quali avranno studiato nelle migliori scuole del mondo, ma se non potranno dire sui social di aver lavorato almeno mezza giornata in una catena di montaggio, nella vita non saranno mai nessuno. 

Intanto l'Italia, ponte naturale verso il Mediterraneo, ha qualcosa di entrambi i continenti che frequenta: tenore di vita mitteleuropeo, e stipendi africani.

La cricca dei cappuccini. La scomparsa dei baristi e i giovani concentrati a non lavorare. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

Non si trovano più tassisti, camerieri e cuochi, prima bastavano dieci colloqui per assumerne uno, ora ce ne vogliono venticinque (sempre che si presentino). Pare che nessuno abbia più voglia di avere un'occupazione ai ritmi del capitalismo

Sta succedendo qualcosa nel mondo del lavoro, e se pensate di trovare la risposta a «sì, ma cosa?» in questo articolo, vi avviso subito che esso viene scritto da una che non si accorge delle notizie quando esse notizie accadono sotto casa sua.

A Bologna c’è un posto famoso per il caffè, si chiama Terzi, le mie amiche ne vanno pazze, io meno giacché non bevo caffè, ma Terzi ha il vantaggio di riempirti il caffè di cioccolata e altre cose che lo fanno sapere meno di caffè.

Bevo però il cappuccino, ed è stato così che l’anno scorso ho scoperto quello che nel mio lessico famigliare è divenuto subito «il baracchino». Il baracchino è una dépendance di Terzi dove, se non piove o nevica (cosa che non accade più praticamente mai, non esistendo più non dico l’inverno ma anche solo l’autunno), puoi prendere il cappuccino stando all’aperto. E lo fanno buono come da Terzi, lo garantisce non solo l’insegna ma la lentezza.

Questa cosa della lentezza (una caratteristica che mi esaspera) me l’ha spiegata il barista che c’era lì la scorsa estate: il latte va rovesciato nella tazza entro cinque secondi (o qualcosa del genere: mica penserete abbia memorizzato i secondi del perfetto cappuccino) da quando essa finisce di ricevere l’espresso; ciò non consente al barista di Terzi di fare quel che fanno tutti i baristi del mondo: due cappuccini in contemporanea, o almeno il cappuccino a uno e lo scontrino a un altro.

Quindi se andavi a prendere il cappuccino al baracchino dovevi mettere in conto di non potertela cavare in fretta, e anche – bevendolo in mezzo alla strada – di essere interrotta, nel giro d’un solo cappuccino, da almeno cinque persone che t’avrebbero chiesto la carità (la città più accogliente d’Europa rivaleggia con Nuova Delhi per numero di mendicanti, oltre che per spazzatura fuori dai cassonetti).

Tuttavia facevano il cappuccino buonissimo, e il cappuccino buono fa la differenza: ero disposta persino ad attendere. Il barista che mi aveva svelato la questione dei secondi mi aveva però annunciato che lui ad agosto sarebbe andato a vivere in campagna e non avrebbe più potuto lavorare lì, ma tanto a settembre avrebbero chiuso: mica era un posto che potevi tenere aperto d’inverno, pronosticava.

Poi però il baracchino non ha chiuso, e io non mi sono più fatta domande: mica ti fai domande, finché non sei costretta. Finché non buchi la notizia.

La settimana scorsa parlavo con un amico ristoratore. Mi diceva che ormai passa tre giorni a settimana a fare colloqui: prima trovava una persona da assumere nel giro di dieci colloqui, adesso ce ne vogliono venticinque. Ventiquattro ti diranno che non vogliono lavorare la sera, che vogliono i fine settimana liberi, che si sentono artisti.

Ho pensato che qualcosa sta sicuramente succedendo, ma non è per non farci insultare sui social da gente che dice «è perché non li pagate, schiavisti, sfruttatori» che non lo scriviamo: è perché nessuno ha capito cosa diavolo stia succedendo.

La pandemia? Il reddito di cittadinanza? Già prima di queste concause ricordo uno chef di Milano che mi raccontava di gente che ai colloqui, dopo aver preso appuntamento, non si presentava proprio. Nessuno ha più voglia di lavorare, e come non capirli. La domanda è: come campano? Tutti con la baby pensione della nonna?

Due sabati fa, a Milano, ho passato la giornata a cercare taxi introvabili. Quando finalmente sono salita su uno e ho chiesto al tassista la ragione di questa scarsezza di taxi, mi ha risposto: nessuno vuole più fare i turni nel weekend, i giovani vogliono la qualità della vita. Come fai a dire a un tassista «tu non hai diritto alla qualità della vita». Forse potresti provare a spiegargli che la qualità della vita non è andare all’Ikea di sabato, ma è difficile anche quello.

Qualche giorno dopo, dovendo andare a Roma e non volendomi trovare senza taxi, ho provato a prenotare un autista. Quello che ho chiamato al nord mi ha detto che non poteva prendersi la responsabilità di garantirmi che mi avrebbe portata in stazione, «è una settimana impegnativa e devo stare concentrato»; a quel punto erano talmente saltati i parametri che, quando l’autista romano ha voluto quaranta euro in contanti, non mi sono neanche innervosita: non pagava le tasse ma almeno mi portava a destinazione violando il proprio diritto alla concentrazione.

Mentre ero ovunque tranne che a Bologna, il baracchino ha chiuso, e io l’ho dovuto scoprire dal Resto del Carlino che ha pubblicato il cartello in cui Terzi dice che chiude per mancanza di baristi (non posso neanche mandare il curriculum, non avendo memorizzato il conteggio dei secondi).

Dal Carlino e dall’immancabile polemica di Twitter, che considera milletrecento euro uno stipendio inadeguato (su Twitter è tutt’un sopravvalutare il proprio valore, quello morale e quello di mercato). Da Terzi dicono che non trovano baristi, che nessuno ha voglia di lavorare, che offrono lavoro e nessuno risponde.

Mi sono ricordata dell’ultima volta che mi sono seduta al baracchino, erano le otto meno cinque e loro aprivano alle otto, ma io non avevo dietro il telefono e quindi non sapevo l’ora. Il ragazzo che era dietro al bancone – e che chissà per quante settimane avrà sopportato d’avere un lavoro vero – mi ha sibilato: non siamo ancora aperti. Inspiegabilmente non ha aggiunto: e io devo stare concentrato.

Da repubblica.it il 3 luglio 2022.

 Il cartello appeso fuori dalla porta recita: "Chiuso per mancanza di personale. Ma se sei barista e vuoi lavorare chiama, così potremmo riaprire" . Da metà giugno il chiosco del Caffè Terzi di piazza Aldrovandi è fuori servizio, perché i titolari, dopo decine di colloqui andati a vuoto e dopo aver contattato anche il centro per l'impiego, non hanno trovato nessuno disposto a servire caffè, cappuccini e biscotti ogni mattina. Le condizioni? Contratto a tempo indeterminato, stipendio netto di 1300-1400 euro al mese, per 6,40 ore al giorno, sei giorni a settimana, inclusi i weekend.

"È la situazione reale - risponde Elena Terzi, moglie di Manuel, il fondatore - non si trova personale e siamo stati costretti a chiudere. Abbiamo un ragazzo in infortunio, ci sono le ferie. Ma quello che fa più male è vedere tutto questo disinteresse nei confronti del lavoro. Le persone ci chiamano, prendono appuntamento, poi non si presentano al colloquio senza nemmeno avvisare con un messaggio".

Uno dei tasti dolenti, prosegue, è la richiesta di lavorare nel fine settimana. "In generale la gente preferisce non lavorare il weeekend, anche se io penso che un barista dovrebbe essere abituato, no? Senza contare che noi facciamo solo servizio di caffetteria, non ci sono taniche da spostare o altri lavori pesanti da fare, né servizi serali: il chiosco apre dalle 8 alle 18, poi si chiude. Non facciamo un lavoro basato sui numeri, ma sulla qualità. Un barista formato al titolare costa circa 30- 40mila euro all'anno, che per il dipendente significano circa 1300-1400 euro netti". 

Ma sembrano non interessare. "Chi ha il reddito di cittadinanza o la disoccupazione dice che preferisce tenersi quelli. Abbiamo avuto anche persone che abbiamo assunto, poi al termine del periodo di prova ci hanno chiesto di non essere confermate per poter avere la disoccupazione. Forse è il Covid che ha abituato la gente ad accontentarsi, a ricevere sussidi.

Ma io mi auguro che le istituzioni si rendano conto che non possiamo continuare indiscriminatamente a sostenere chi ha la forza di lavorare però non vuole farlo. Abbiamo anche chiesto al centro dell'impiego dei nomi di chi è in disoccupazione. Ci hanno fornito cinque nominativi, di cui solo uno aveva un po' di esperienza nel mondo del caffè, anche se non come barista, e l'abbiamo assunto. Un barista esperto non si trova". 

La famiglia Terzi è proprietaria dell'attività di via Oberdan fin dai primi anni Duemila, poi, spiega la titolare, "dopo qualche anno abbiamo ripercorso la filiera al contrario, per cercare di ottenere il caffè migliore possibile. E quando abbiamo aperto una nostra torrefazione abbiamo dato in gestione l'attività".

Per dieci anni, fino alla prima ondata di Covid. " Purtroppo la pandemia ha lasciato i suoi danni, così a quel punto il caffè di via Oberdan l'abbiamo ripreso in mano noi - prosegue Elena Terzi - parallelamente, un anno fa, abbiamo acquisito anche questo chiosco in piazza Aldrovandi, dove si fa solo asporto e si consuma all'aperto, perché ci è sembrata una soluzione più confacente al periodo.

Abbiamo anche un altro piccolo locale, a Vignola, dove c'è una piccola tostatrice. In tutto abbiamo dieci dipendenti, tirocinanti inclusi. Ma dovendo scegliere abbiamo preferito usarli per tenere aperto il caffè di via Oberdan, a Bologna, e chiudere il chiosco di piazza Aldrovandi " . 

Una soluzione che lascia l'amaro in bocca. " Ci fa molto dispiacere. Il lavoro va bene, il turismo è ripartito alla grande. Avevamo anche pensato di aprire altri locali. Ma in questo contesto non è proprio pensabile".

Claudia Coppellecchia, 22 anni, pagata 2 euro all’ora in uno studio di commercialista di Bari. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Luglio 2022

La rabbia della ragazza esplode sui socialnetwork sfogandosi : "Poi dicono che i giovani non hanno voglia di sacrificarsi e dicono che la colpa sia del reddito di cittadinanza, ma non è così: noi giovani vogliamo lavorare, ma spesso non siamo messi nelle condizioni di farlo dignitosamente"

Questa è l’ennesima storia di sfruttamento denunciata da un giovane alle prime esperienze lavorative. Due settimane di prova retribuite a 2,27 euro l’ora conclusesi con la solita frase: “le faremo sapere” . E’ la storia resa pubblica dalla 22enne Claudia Coppellecchia, 22enne di Molfetta, studentessa universitaria a Bari, che ha deciso di affidare ad un lungo post su Facebook il racconto della sua esperienza di lavoro svolta  in uno studio commercialista di Bari nel ricco quartiere residenziale di Poggiofranco . 

La giovane Claudia così scrive su Facebook: “Oggi vi racconto la mia “esperienza lavorativa”, durata 11 giorni. È di attualità il tema sulla disoccupazione giovanile, spesso legata allo sfruttamento. Ho vissuto, sulla mia pelle, l’ennesima conferma, come si sente in tv, che questo fenomeno non dipende dalla mancata voglia di lavorare da parte di noi giovani, ma dalla voglia di sfruttamento da parte dei datori di lavoro“. 

Claudia Coppellecchia in una foto tratta da Facebook

Claudia racconta di lavorato per 11 giorni nello studio del commercialista, per 4 ore al giorno, per un totale di 44 ore. “Ero carica ed entusiasta, pronta a mettere qualche soldo da parte per togliermi qualche sfizio in più, mentre concludevo comunque i miei studi di lingue all’università di Bari” afferma la giovane ragazza che sostiene di di aver ricevuto inizialmente un’offerta di 1000 euro. La giovane studentessa per poter fare la prova, sostiene un primo colloquio che supera, poi un secondo colloquio incontro con il commercialista titolare dello studio professionale. E quindi viene richiamata: “Mi parlano di circa 1000 euro al mese ma di dover fare una settimana di prova part time” ed allora armata di buona volontà e desiderosa di trovare un lavoro si sottopone alla settimana di prova, che seppure illegale rappresenta un passaggio obbligato per ottenere un impiego.

Alla scadenza della settimana di prova 7 concordata, il test viene prorogato a due settimane, e la volenterosa ragazza accetta “perché il lavoro iniziava ad interessarmi” e così prosegue così per una seconda settimana, ed in totale buona fede non pone mai alcun quesito sulla sua retribuzione “per non dare l’impressione di pensare solo ai soldi”, Tutto ciò nonostante il posto lavoro nel quartiere di Poggiofranco a Bari sia distante ben 35 km dalla sua casa a Molfetta . In pratica 70 km al giorno da percorrere tra andata e ritorno.  Ieri termine del periodo di prova, il 30 giugno, le arriva dopo la brutta notizia che suona tanto di beffa: non verrà assunta perché stanno svolgendo la prova anche altre persone: “La segretaria mi riferisce che mi faranno sapere tra 15 giorni consegnandomi una busta, contenente 100 euro. Una prova retribuita ben 2,27€ l’ora” scrive sul post.  

La rabbia della ragazza esplode sui socialnetwork sfogandosi : “Poi dicono che i giovani non hanno voglia di sacrificarsi e dicono che la colpa sia del reddito di cittadinanza, ma non è così: noi giovani vogliamo lavorare, ma spesso non siamo messi nelle condizioni di farlo dignitosamente”. Un pensiero su cui riflettere, sopratutto immaginando la trasformazione dell’entusiasmo dei primi giorni, in legittima rabbia e delusione. Con la sensazione di sentirsi sola: “La domanda è: da che parte è lo Stato in tutto questo?” . Purtroppo non glielo spiegherà nessuno.

Pagati 4 centesimi a riga, minacciati e insultati: i giornalisti in Italia sono sempre più precari. Il numero di contrattualizzati continua a calare, come le retribuzioni per i freelance. E la qualità dell’informazione e della democrazia ne risentono. Mentre politica e criminalità approfittano della debolezza del sistema. Lucio Luca su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

Anticipiamo qui un estratto del libro “Quattro centesimi a riga, morire di giornalismo” (Zolfo editore) di Lucio Luca​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

Dunque, sono passati quasi dieci anni. Dieci lunghissimi anni, tremila e cinquecento giorni, da quella maledetta notte di marzo del 2013 nella quale un giovane cronista di provincia, Alessandro Bozzo, decise di farla finita con una vita da precario senza futuro, ostaggio di editori senza scrupoli in una terra, la Calabria, che spesso sembra dimenticata da Dio.

In tutto questo tempo Alessandro purtroppo non è stato l’unico giornalista a fare questa scelta estrema. Ce ne sono stati altri, stremati dall’attesa, dall’incertezza, da quei pochi soldi che non bastano mai, dall’impossibilità di costruirsi una casa, una famiglia. In Puglia, in Trentino, in Veneto. Sì, persino nelle ricche regioni del Nord Est. Perché mica è solo al Sud che migliaia e migliaia di giornalisti fanno la fame. Figuriamoci. Ormai funziona così dappertutto, lo dicono i numeri, sempre più impietosi, che le organizzazioni sindacali snocciolano anno dopo anno. (...)

Dal 2014 al 2021 i lettori dei quotidiani nel giorno medio sono diminuiti del 40,81 per cento: da 19 milioni e 351 mila al giorno siamo passi a 11 milioni e 453 mila. Quasi otto milioni di persone, un numero che fa impressione. E ancor più desolante è il fatto che, nello stesso periodo, sono più che dimezzati i lettori di età inferiore ai 34 anni, ormai appena un quinto del totale. (...)  

Va meglio, naturalmente, nel digitale visto che negli ultimi sette anni si è triplicato il numero di chi si informa con il cosiddetto “sfogliatore”. Siamo passati dai 587 mila del 2014 a un milione e mezzo del 2021. Un aumento che però non basta certo a bloccare l’emorragia complessiva. Anche perché se in edicola un giornale costa un euro e mezzo circa, sull’Ipad scende di oltre due terzi. E quindi per le aziende editoriali è un salasso niente male.

E così tra prepensionamenti – quando va bene – e licenziamenti di massa, il giornalismo è praticamente defunto. Lo dimostra il fatto che ci sono zone dell’Italia dove i giornali di carta non arrivano nemmeno più e le edicole sono un lontano ricordo. (...) 

Secondo l’Inps, in Italia operano circa 45 mila giornalisti con contratto atipico o liberi professionisti, a fronte di appena 15 mila coperti da un contratto di lavoro dipendente (dati 2019). E tra i freelance, il 45 per cento non riesce a fatturare cinquemila euro lordi l’anno. D’altra parte, anche molti giornali storici hanno tagliato i compensi dei collaboratori, arrivando a proporre 7 euro per un articolo. Quando va bene, aggiungerei. Sul web, poi, la cifra scende ancora. Oggi il giornalista è un rider dell’informazione. I giornali sono diventati come Glovo o Just Eat, ma rispetto a chi ci porta da mangiare a casa, i cronisti non prendono nemmeno la mancia e sui social vengono spesso insultati come fossero degli appestati.

«Nel 2011, con un contratto di collaborazione a progetto, venivo “retribuito” dall’allora editore di Calabria Ora Pietro Citrigno 0,04 euro a riga, quattro centesimi insomma», ha scritto in un blog uno dei “biondini” con i quali ogni giorno lavorava Bozzo. «Il secondo contratto che ho avuto era simile ma con retribuzione fissa di appena 100 euro mensili. Ho continuato a collaborare con altri quotidiani locali e periodici, con retribuzioni occasionali e minime o, in molti casi, gratuitamente. Per fortuna ho smesso in tempo, altrimenti quello che è capitato ad Alessandro sarebbe potuto succedere anche a me».

Emmanuel Raffaele Maraziti, questo il nome del collega da quattro centesimi a riga, ha raccontato che la sua storia, come quella di migliaia e migliaia di altri aspiranti giornalisti, rappresenta un «problema sistemico» che porta dritto, non solo alla scomparsa di una professione essenziale, ma al disastro attuale dell’informazione e, quindi, a una forte distorsione della democrazia. Non è certo un caso se nel 2016, a fronte di oltre 112 mila persone iscritte all’Ordine dei giornalisti, meno di 30 mila erano professionisti (che, di solito, un contratto «vero» riescono a portarlo a casa) mentre ben 75 mila erano pubblicisti. Che, tradotto, significa precari. «I numeri, insomma - conclude Maraziti - ci raccontano che la professione di giornalista sta scomparendo, distrutta dalla precarizzazione e dal mercato senza regole, che non permette di farne una professione vera e di svolgerla con la necessaria serenità».

Difficile dargli torto. Oggi, ogni quattro giornalisti attivi in Italia, tre sono precari. Da anni le assunzioni sono bloccate, i giovani sono sempre più destinati a una condizione di precariato a vita. E la memoria non può che andare a Brindisi, a Paolo Faggiano, collaboratore di una testata locale che a 41 anni - poco prima della vicenda Bozzo - aveva lasciato una lettera alla madre impiccandosi a un albero del suo giardino. Era precario, appunto, non riusciva a trovare una stabilità malgrado lavorasse nell’informazione da quasi vent’anni. «Drammi umani come questo - scrissero i colleghi del sindacato dei giornalisti pugliesi - ripropongono in tutta la loro tragica attualità i problemi del precariato diffuso, che priva di ragionevoli certezze sul futuro umano e lavorativo migliaia di giornalisti».

Ecco perché Alessandro Bozzo si è ucciso, ecco perché la sua storia non poteva restare nell’oblio. Malgrado qualcuno avesse puntato, fin dall’inizio, a farla passare per un dramma familiare, una vicenda privata e niente più. Alessandro non è stato il primo e, purtroppo, nemmeno l’ultimo. E se negli ultimi dieci anni le condizioni sono letteralmente precipitate, non oso pensare cosa ne sarà di questa professione fra altri dieci o vent’anni. Ammesso che esisterà ancora.

C’è il precariato, certo, ci sono poi le querele temerarie, il bavaglio con cui i potenti sfruttano la condizione di instabilità di molti giornalisti. Strumenti intimidatori con i quali si tenta, e molte volte si riesce, a mettere il silenziatore alle notizie scomode minacciando i cronisti con infiniti e costosi processi e comprimendo di fatto il diritto dei cittadini di essere informati. Il rischio sempre più diffuso, e assai comprensibile, è che il giornalista da quattro centesimi a riga - o poco più – prima di qualsiasi inchiesta si faccia la fatidica domanda: «Ma chi me lo fa fare?». E, alla fine, si autocensuri per evitare di spendere una barca di soldi in avvocati e giustizia negata.

Combattere il precariato deve - dovrebbe - essere un obiettivo non solo dei giornalisti ma di un Paese intero. Perché la buona informazione è – dovrebbe essere - uno dei diritti costituzionali più importanti e che va riconosciuto a tutti i cittadini.

Infine il capitolo delle minacce della criminalità a chi, malgrado tutto, non si volta dall’altra parte e continua a scrivere tutto quello che riesce a scoprire. Ossigeno, l’associazione di Alberto Spampinato, fratello di uno dei tanti cronisti siciliani uccisi dalla mafia, tiene il conto da anni. Nel 2020, per dire, in Italia i giornalisti minacciati sono stati 495, il 26 per cento donne. Numeri in aumento questi, a differenza di tutti gli altri indicatori negativi. Come dire, meno si vende e più i criminali si sentono autorizzati a intimidire i cronisti che si occupano di loro.

Torino, l’imprenditore edile: «Provo in tutti i modi ma non trovo personale». Nicolò Fagone la Zita su Il Corriere della Sera il 26 Giugno 2022.

Stefano Vanzini: «In 30 anni non ho mai avuto tanti problemi insieme». 

Sono sempre più frequenti i casi di imprenditori che pubblicano offerte di lavoro, anche allettanti, ma che non trovano candidature, nonostante l’ampia percentuale di disoccupazione in Piemonte. È il caso di Stefano Vanzini, 59 anni, proprietario di un’impresa edile torinese con 10 dipendenti e circa 1,5 milioni di fatturato.

«Il vero problema del settore in questo momento è la mancanza di lavoratori qualificati — racconta — proviamo a strapparceli tra aziende, proponendo condizioni più favorevoli, ma la coperta è corta. Eppure non abbiamo lasciato nulla di intentato. Abbiamo usato tutti i canali, dagli annunci sui giornali a quelli sui siti, ci siamo affidati al passaparola, ci siamo rivolti alle agenzie interinali e agli uffici di collocamento. Niente da fare, nessuno risponde, anche le scuole non sfornano più». E così sulla scrivania dell’imprenditore continuano ad accumularsi preventivi, 22 in pochi mesi, ma difficilmente si tradurranno in commissioni concrete.

«Mio padre mi ha consegnato il timone dell’azienda trent’anni fa, ma non mi sono mai trovato in una condizione simile. Dobbiamo gestire troppe difficoltà nello stesso momento, tra rincari di energia e materie prime e l’assenza di manodopera specializzata. Per far fronte a tutto dovrei triplicare il personale, invece sono costretto a rinunciare a decine di nuovi incarichi per garantire la serietà nei tempi di consegna». A mancare sono soprattutto manovali, muratori, capo-cantieri, magari con qualche anno di esperienza alle spalle.

«Abbiamo allargato le ricerche al mondo giovanile — continua Vanzini — ma i ragazzi non sono propensi ad entrare nell’edilizia. Il 20enne preferisce lavorare nel ristorante piuttosto che nel cantiere, eppure la paga è simile se non superiore. E difatti il 70% del personale a Torino è coperto da stranieri. Ho fatto dei colloqui con giovani a cui occorre insegnare tutto, ma mi è stato risposto che per meno di 1.500 euro al mese non si muovono. Una cifra che ritengo esagerata». E poi si aggiunge il problema del rincaro dei materiali, che si ripercuote soprattutto negli appalti privati: «È difficile stipulare un contratto se nessuna delle due parti sa quanto costeranno i lavori — conclude Vanzini — e oggi nemmeno il meccanismo della cessione del credito per i bonus sta funzionando. Ci sono troppe varianti non prevedibili».

Ristorazione, mancanza di personale. La provocazione di un ristoratore: «Ditemi voi quanto volete». Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2022. 

«Cerco personale. Lo stipendio lo decidete voi e gli orari anche». Un post provocatorio su Facebook per denunciare mesi di difficoltà nel trovare camerieri, baristi e pizzaioli. Così Pierluigi Lucino, imprenditore leccese di 40 anni, ha deciso di denunciare la carenza di personale per le sue due attività una piccola pizzeria e il nuovo ristorante Riviera Bar Bistrot, a Porto Cesareo in Puglia. 

Dice: «In tv e sui social si parla di imprenditori che sfruttano, in realtà io e i miei colleghi in zona non riusciamo a trovare persone disposte a lavorare nonostante stipendi più che dignitosi. Offro dai 1200 euro in su netti al mese e non trovo persone disponibili».

Al post non hanno risposto, al momento, candidati tanto che le posizioni aperte da Lucino sono vacanti da mesi. Per il ruolo di aiuto pizzaiolo la paga può arrivare a 1500-1600 euro netti al mese ma è da mesi che l’imprenditore non trova candidati. Tanto da aver deciso di ridurre il numero di pizze sfornate in una serata. «Non posso far lavorare troppo l’unica persona che ho, non sarebbe giusto. Invece di 150 pizze abbiamo messo il tetto a 100». Lucino spiega di aver anche ricevuto persone che chiedevano di lavorare in nero pur di non perdere il reddito di cittadinanza. «È paradossale ma è successo. In un contesto del genere piuttosto si aiutino gli imprenditori ad assumere in regola, no ai 5 euro l’ora sì ai contratti collettivi nazionali che ci sono e vanno applicati», aggiunge.

Per l’imprenditore il tema è anche che i giovani non considerano il lavoro da camerieri come un’opportunità o un’esperienza utile. «Durante la pandemia molti sono andati a lavorare da altre parti, chi aveva voglia di lavorare ha trovato impiego nella logistica o in azienda. Sono mesi che posto annunci. È una situazione grave che sta mettendo in crisi la ristorazione locale. Che, ci tengo a ribadirlo, non è fatta di disonesti come si sente dire troppo spesso», aggiunge.

Cristiana Lauro per Dagospia il 14 Giugno 2022.

Vi ricordate il ristorante Cencio La Parolaccia a Roma, nel cuore di Trastevere? Il format della serata prevedeva una certa goliardia fra canzoni popolari ben condite da riferimenti piccanti, battute sporcaccione, qualche vaffanculo ai clienti e via dicendo. Si scherzava, lo dice il nome del locale, tutt’ora in attività. 

Oggi invece dilaga la maleducazione nei ristoranti, quella vera, altro che Cencio La Parolaccia! C’è poco da ridere perché da un lato la figura del cameriere - oramai introvabile - manca spesso di professionalità e non ha la minima cognizione delle regole di base del servizio di sala, dall’altra i clienti sono sempre più irrispettosi anche sotto il profilo umano. Ecco alcuni episodi che mi sono capitati di recente, dalla birreria con würstel e crauti, all’hotel di lusso con ristorante stellato.

BIRRERIA/PUB CON CUCINA. Seduta per i fatti miei ho chiesto una birra alla spina a una cameriera che non smetteva di chattare sul cellulare. Stavo lavorando sull’I Pad, quando la tipa si è avvicinata per dirmi che aveva mal di pancia perché le erano arrivate “le sue cose” (che essendo sue se le può anche tenere, non vedo perché condividerne il racconto). Lamentava inoltre un forte bruciore e gonfiore alla lingua che, spontaneamente, ha scelto di esibire. Se l’era fatta perforare il giorno prima con un chiodo, volgarmente detto piercing.

Ero senza parole per l’eccesso di confidenza nei confronti di una cliente sconosciuta e di passaggio in quel locale, ma non volevo risponderle male. La ragazza ha poi deciso di sedersi al mio tavolo, per proseguire con le sue lagne. Non sto scherzando, l’ha fatto davvero! A quel punto le ho chiesto di alzarsi ed è arrivato un collega che me l’ha levata di torno. Si è scusato quasi in ginocchio e mi ha spiegato che la ragazza era al terzo giorno di lavoro, senza esperienze precedenti. “Non troviamo camerieri!”

HOTEL DI LUSSO AL BAR. Seduta in giardino ho scelto un cocktail analcolico talmente fresco e piacevole che ho deciso di fare il bis. Il cameriere si è presentato senza vassoio con uno Spritz in mano. Gli ho fatto notare che avevo chiesto un altro drink e per giunta analcolico. L’uomo è tornato, questa volta con la bevanda giusta ma sempre con trasporto a mano senza vassoio. Dopodiché, con nonchalance, è andato via lasciandomi sul tavolo il bicchiere sporco con tutti gli avanzi del cocktail precedente. 

CLIENTI MALEDUCATI. Il tavolo era prenotato per quattro, ma si sono presenti in otto senza avvertire. Contesto elegante e ristorante pieno. Nonostante le difficoltà, il disagio per i camerieri e per il pubblico già seduto, il direttore di sala è riuscito ad accontentare la richiesta complicata. Quindi si è recato all’ingresso per accogliere il doppio quartetto che, in leggerezza, lo ha aggiornato sulle scelte consiliari disposte dal collettivo mentre lui si prodigava in sala facendo cambi di set decisamente acrobatici: “Abbiamo deciso di andare da un’altra parte”.

CLIENTE CAFONE E TACCAGNO. In un locale di una certa eleganza si è affacciato uno straniero - nordeuropeo direi - con evidenti disponibilità economiche. Fra orologio, abiti e buste dello shopping aveva più firme di un referendum. Con atteggiamento tutt’altro che cordiale ha chiesto un tavolo nel cortile che però era pieno e, oltretutto, non risultava alcuna prenotazione a suo nome.

La responsabile di sala gli ha offerto un posto all’interno con aria condizionata. L’uomo ha accettato e si è seduto da solo in un tavolo apparecchiato per sei, rifiutando il cambio con uno più piccolo, seppure comodo. Ha preteso e ottenuto di occupare da solo quel tavolo per la vista sul cortile dalla grande finestra di fronte. I camerieri hanno dovuto sparecchiare i cinque coperti e quel cafone ha consumato il pasto - abbinandolo allo Spritz - senza mai staccare gli occhi dal telefonino. Mai! Già, perché il suo obiettivo non era la vista sul cortile, ma il privilegio. Ovviamente non ha lasciato un euro di mancia

Gabriele Principato per corriere.it l'11 giugno 2022.  

La mancanza del personale di sala.

La mancanza di personale nel settore della ristorazione è ormai un dato di fatto. Ne discutono quotidianamente tanto imprenditori, chef e maestri pizzaioli di insegne blasonate nelle grandi città, quanto titolari di piccole realtà di provincia. C’è chi sostiene sia un problema generazionale, dovuto alla mancanza di «spirito di sacrificio». 

Altri ritengono sia colpa del reddito di cittadinanza. In molti rispondono che la vera ragione di questa carenza sia dovuta ad orari massacranti e salari troppo bassi e che sia necessario ripensare del tutto il modello della ristorazione in Italia, in un’ottica di sostenibilità del lavoro. 

Quale che sia la ragione effettiva di questa mancanza di personale, di certo c’è che ad acuire questa crisi — che si percepisce soprattutto oggi che il settore sta velocemente ripartendo — sono stati gli anni di pandemia. «Una forte carenza del personale di sala si sentiva già prima del Covid», racconta Silvio Moretti, direttore servizi sindacali Fipe. Stando ai dati elaborati dal Centro Studi della Federazione Italiana Pubblici su dati Istat e Inps, il personale di sala è quello più ricercato in questo momento: mancano, attualmente, 39.760 camerieri. 

In totale, sempre secondo la Fipe, ci sono 200 mila addetti alla ristorazione in meno rispetto al 2019. «Una parte hanno lasciato a causa della chiusura delle attività per cui lavoravano, ma molti professionisti nel — lungo periodo di incertezza fra un lockdown e l’altro — hanno deciso volontariamente di cambiare settore, prediligendo ambiti come la logistica o la grande distribuzione, che garantivano una continuità lavorativa certa e dove è richiesto in forma minore il sacrificio di lavorare nel week end e nei giorni di festa». 

A quelli che sostengono che una delle ragioni di questa crisi sia dovuta alle precarietà del lavoro, la Fipe risponde con un dato: «La tipologia di contratto più diffusa in questo settore è il tempo indeterminato — che rappresenta circa il 70% degli occupati, 616mila unità (in totale sono 916 mila, di cui il 63% ha meno di 40 anni) —, perché c’è una forte contesa per accaparrarsi il personale qualificato». Per quanto riguarda la sala, poi, si aggiunge un riconoscimento ancora inadeguato della sua importanza. 

«La ristorazione in questo momento deve valorizzare il servizio di sala — spiega Moretti — perché il peso specifico dell’accoglienza è sempre maggiore. I clienti stanno tornando nei ristoranti soprattutto perché legati a determinati luoghi e ad un determinato tipo di accoglienza. La sala vale quanto la cucina». In questo pezzo non entreremo nel dibattito sul modello di lavoro nella ristorazione, ma proveremo a rispondere a una domanda che in questi giorni ci hanno posto molti lettori: quanto guadagna davvero un cameriere?

Quanto guadagna davvero un cameriere in Italia?

Il Contratto collettivo nazionale di lavoro per la ristorazione prevede una retribuzione minima mensile per un cameriere professionista di 1.500 euro lordi (ossia circa 1.250 euro netti), con 14 mensilità e 40 ore di lavoro settimanali.  

«Ovviamente — spiega Silvio Moretti, direttore servizi sindacali Fipe — questi sono valori minimi, la domanda di mercato e le esperienze professionali possono far aumentare notevolmente queste cifre e anche il numero di ore di lavoro può essere differente in certi casi». 

Questa cifra evidenziata dalla Fipe, in effetti, è anche quella proposta attraverso gli annunci sui siti di recruitment secondo Jobbydoo e calcolata sulla base delle offerte di lavoro per camerieri professionisti pubblicate negli ultimi 12 mesi. Ma, ovviamente, bisogna tenere presente che la forbice della retribuzione è vasta: lo stipendio minimo netto, secondo il portale, è quello del cameriere part time, che prende all’incirca 680 € netti al mese.

 Un apprendista cameriere guadagna mensilmente 700 €. Un cameriere professionista prende in media, al mese, 1.250 €. Ma nella stagione estiva la media può arrivare anche a 1.450 €. E, in un ristorante stellato (o comunque di alto livello), la retribuzione in media tocca i 1.750/2.000 €. Nelle pizzerie la paga mensile netta è di 1.200 €, 1.050 € negli agriturismi. Lo stipendio medio di un maitre è di 1.650 € netti al mese (circa 30.600 € lordi all’anno), ma la retribuzione può variare (a seconda dell’esperienza) da uno stipendio minimo di 1.200 € netti al mese a un massimo che può superare i 3.000 € netti al mese. 

Quanto guadagna davvero un cameriere all’estero?

Come stipendio netto un cameriere all’estero — stando agli annunci sul portale Jobbydoo — guadagna più che in Italia. Ma è impossibile fare un confronto con gli stipendi del nostro Paese, sia perché la retribuzione è in molti casi parametrata al costo della vita, che per quanto riguarda l’incidenza del cuneo fiscale, uno dei temi più dibattuti anche in Italia. In ogni caso, riguardo al netto mensile, si va dai 3.750€ di New York, ai 3.500€ della Svizzera, passando per i 2.350€ di Londra. Ovviamente le retribuzioni possono variare in base all’esperienza e all’impegno richiesto.

Quanto guadagna un cameriere in base all’esperienza

Un cameriere entry level, ossia con meno di 3 anni di esperienza, può arrivare a uno stipendio medio complessivo — stando agli annunci sul portale Jobbydoo — che si aggira sui 1.080 € netti al mese. Uno con oltre 4 anni di lavoro alle spalle arriva in media a guadagnare circa 1.250 €. Mentre un cameriere senior — attivo da oltre 10 anni — guadagna dai 1.460 ai 1.600 €. Ovviamente le retribuzioni possono variare in base all’esperienza e all’impegno richiesto.

In quali città si cercano più camerieri

Stando agli annunci sul portale Jobbydoo la città in cui c’è maggiore ricerca di camerieri in Italia è Roma. Seguono, poi, Milano, Bologna, Torino, Venezia e Rimini. Anche se il 80,3% della domanda è frazionata in piccole località della provincia Italiana.

Per l’Italia cambia poco. Cosa prevede concretamente la direttiva Ue sul salario minimo. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 7 Giugno 2022.

I Paesi che già ce l’hanno devono adeguarlo al costo della vita, stabilendo standard dignitosi. Gli Stati membri avranno due anni di tempo per trasporre la norma Ue nella loro legislazione nazionale.

Tutti i Paesi dell’Unione europea dovranno presto adeguare il salario minimo al costo della vita. Ma quelli in cui non è previsto, tra cui l’Italia, non sono obbligati a introdurlo. Consiglio e Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo nella notte tra lunedì 6 e martedì 7 giugno su una direttiva proposta della Commissione: ora la norma dovrà essere formalmente confermata dagli ambasciatori dei 27 Paesi membri e dall’Eurocamera in seduta plenaria. Poi gli Stati membri avranno due anni di tempo per trasporla nella legislazione nazionale.

Una paga adeguata

Con questa direttiva, i 21 Stati europei che già presentano salari minimi legali sono tenuti ad aggiornarli secondo una serie di criteri prestabiliti: i ritocchi devono avvenire almeno ogni due anni (quattro anni al massimo in quei Paesi con un meccanismo di indicizzazione automatica) e le parti sociali dovranno essere coinvolte nel processo. Le nuove soglie minime devono assicurare «standard dignitosi di vita, tenendo in considerazione le condizioni socio-economiche, il potere d’acquisto e i livelli di produttività nazionali», si legge nella comunicazione del Parlamento europeo sul tema.

I compensi saranno adeguati se coincidono con almeno il 50% della retribuzione lorda media e il 60% della retribuzione lorda mediana, cioè quella che si trova al centro della forchetta tra il dato più alto e quello più basso. Lo ha scritto in una nota Agnes Jongerius, eurodeputata olandese dei Socialisti e Democratici e negoziatrice per il Parlamento comunitario sulla direttiva. «22 Paesi dovranno alzare le loro soglie attuali», ha spiegato la parlamentare, con un effetto benefico su 24 milioni di lavoratori in tutta Europa.

Un altro punto della direttiva, considerato dai relatori «il secondo pilastro dell’accordo», riguarda la contrattazione collettiva sulla determinazione degli stipendi, anch’essa determinante contro la povertà lavorativa. Quando in un Paese il tasso di lavoratori «coperti» dalla contrattazione collettiva è inferiore all’80%, diventa necessario un piano d’azione nazionale per aumentare progressivamente il numero di persone incluse.

In quest’ambito, gli Stati sono pure obbligati ad agire contro eventuali discriminazioni o pressioni messe in atto dai datori di lavoro contro i rappresentanti sindacali. La protezione dei rappresentanti dei lavoratori è infatti molto importante secondo le istituzioni europee nel garantire che i lavoratori possano beneficiare di salari minimi adeguati.

Per l’Italia cambia poco

Attualmente nell’Unione europea 21 Paesi dispongono di una legge generale sul salario minimo: tutti tranne Italia, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Cipro. Nel nostro Paese non esiste al momento un compenso stabilito per legge, anche se alcuni lo ritengono necessario per adempiere all’articolo 36 della Costituzione, in cui è sancito il diritto del lavoratore «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro».

Se in futuro verrà adottata una norma simile, non sarà in conseguenza di questa direttiva, nonostante il clamore politico suscitato. «Non imporremo un salario minimo all’Italia», ha detto in modo chiaro il commissario europeo al Lavoro e ai diritti sociali Nicolas Schmit, affermando che la norma «rispetta le tradizioni nazionali» in materia.

Paesi come la Danimarca, ha spiegato il commissario, possiedono un ottimo sistema di contrattazione collettiva per le garanzie che assicura ai lavoratori, tanto che la Commissione spera venga «copiato» da altri Paesi.

Per l’Italia, invece, questa direttiva rappresenta piuttosto, secondo Schmit, un «contributo al dibattito nazionale», nell’ottica di una migliore tutela dei lavoratori. Nel nostro Paese, gli effetti concreti sono molto limitati: non si applicherà infatti nemmeno il piano d’azione sulla contrattazione collettiva, visto che secondo le stime i Contratti collettivi nazionali di lavoro riguardano più dell’80% dei lavoratori dipendenti.

La direttiva, comunque, contiene un chiaro messaggio politico sulla protezione salariale dei lavoratori e per Daniela Rondinelli, europarlamentare del Movimento 5 Stelle, ha pure conseguenze pratiche. «In Italia ci sono circa 300 contratti “pirata” con minimi tabellari di 3/4 euro all’ora, questo significa oltre tre milioni di lavoratori con stipendi da fame», dice a Linkiesta l’eurodeputata.

Secondo il Movimento, il livello «reale» della contrattazione è decisamente inferiore al dato stimato, visto che in molti casi le sigle sindacali che hanno firmato i contratti non sono nemmeno riconosciute dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. In Italia, la contrattazione collettiva non funziona bene, al contrario di quanto avviene nei Paesi nordici, dove supplisce efficacemente alla mancanza di una soglia minima per tutti.

Il Movimento 5 Stelle stima che per coincidere con i criteri stabiliti dalla direttiva in quei Paesi che adottano il salario minimo, gli stipendi fissati negli accordi collettivi italiani dovrebbero aggirarsi sugli otto euro, cifra non sempre rispettata.

«Tutti quei contratti che non si adeguano a questi criteri dovranno essere ritoccati al rialzo», afferma l’eurodeputata, convinta che il nostro Paese rischi sanzioni europee. La battaglia per un reddito minimo dignitoso sta a cuore a molti cittadini europei, come emerge anche dalle richieste della Conferenza sul Futuro dell’Europa: resta da vedere se verrà vinta in tutti i 27 Paesi dell’Ue.

Salario minimo, le posizioni dei partiti in Italia. Felice Emmanuele e Paolo de Chiara il 07/06/2022 su Notizie.it.

L’Unione Europea, nella mattinata di oggi, 7 giugno 2022, ha trovato un accordo sul salario minimo, in Italia il dibattito è ancora aperto. I lavori sono fermi al Senato dove però, il ministro del Lavoro Andrea Orlando, vede segnali positivi da tutte le parti politiche.

Non vi è però un’unaminità di pensiero.

Legge sul salario minimo: le posizioni dei partiti in Italia

A far discutere sono state le parole di Renato Brunetta, ministro della Pubblica Amministrazione, che si è schierato contro l’introduzione del salario minimo in Italia. Secondo il ministro, il salario minimo “non va bene per legge perché è contro la nostra storia culturale di relazioni industriali. Il salario non può essere moderato ma deve corrispondere alla produttività“.

Questa affermazione di Brunetta ha scatenato un terremoto politico, soprattutto nell’ala del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle (M5S). Non mancano però politici neutrali.

I favorevoli al salario minimo: Movimento 5 Stelle

Giuseppe conte

Il leader del M5S ha attacco Brunetta affermando che “il salario minimo forse non è nella cultura di alcuni politici. Se per alcuni politici è normale che si prendano paghe da fame, di 3-4 euro lordi l’ora, allora diciamo che la politica del Movimento 5 Stelle non è questa.

Non accetteremo mai fino a quando non approveremo il salario minimo. Queste sono paghe da fame”.

Paola Taverna

La vicepresidente dei pentastellati ha scritto sui Social Network: “Renato Brunetta, anche nel 1760 e nel 1870 c’erano le ‘relazioni industriali’, poi arrivarono le due rivoluzioni e lo status dei lavoratori migliorò notevolmente. Che dici, vogliamo evolverci un pochino e dare dignità ai lavoratori italiani?“.

Laura Castelli

Per il Viceministro dell’Economica, il salario minimo è “un percorso obbligato per chi decide di stare in un’Europa che si dà paletti sociali ed etici.

È indispensabile e non può aspettare“.

I favorevoli al salario minimo: Partito Democratico

Enrico Letta

Non poteva non prendere la parola il leader dem Enrico Letta, che ha dichiarato: “Per noi la questione salariale è fondamentale, accanto a questo c’è ovviamente l’impegno ad arrivare al salario minimo, come fanno in Germania e come fanno in Australia, Paesi che sono simili al nostro e che hanno fatto una scelta che anche noi dovremmo fare”.

Francesco Boccia

L’ex ministro ed attualmente deputato del Partito Democratico Francesco Boccia ha difeso la legge sul salario minimo affermando che “per Brunetta il salario minimo non rappresenta la storia della destra italiana? Per fortuna direi, rappresenta la nostra storia e la realizzeremo, è una battaglia che porteremo a termine insieme all’abbattimento del cuneo fiscale“.

I contrari al salario minimo: il centrodestra

Al di là delle classiche dichiarazioni già fatte da tutto il centrodestra e rappresentate dalla frase di Renato Brunetta, ad esporsi in maniera particolare vi è la presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini. La Bernini ha criticato la legge sul salario minimo dichiarando che: “Copiare il modello tedesco del salario minimo non è la strada idonea per l’Italia. Per un liberale l’imposizione di un salario minimo per legge sarebbe una violazione della libertà contrattuale e rischierebbe di indurre le piccole imprese a recedere dai contratti nazionali applicando un salario più basso di quello fissato dagli accordi. Il problema è diminuire il costo del lavoro per le aziende e assicurare una busta paga più pesante per i lavoratori“.

Legge sul salario minimo: i neutrali

Giancarlo Giorgetti

Il ministro per lo Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti ha sempre detto la sua, non temendo le possibili ripercussioni da parte del suo partito, ossia la Lega. In questo caso, Giorgetti, è rimasto neutrale, anche se sembrerebbe più schierato con il centrodestra, ed ha dichiarato che “il tema dei salari è un problema che va affrontato. Non si può mettere in carico un altro costo su aziende che ne hanno già molti. Il salario minimo non deve essere un tabù, ma bisogna capire cosa si fa, la priorità è il recupero del potere di acquisto. In Italia i salari sono bassi e questo è un dato oggettivo”.

Ignazio Visco

Tralasciando i partiti politici, anche anche personalità come Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, hanno dato una propria opinione. Visco è stato neutrale ed ha dichiarato, sollevando alcune questioni, che il salario minimo: “ha vari effetti positivi. Il rischio sta nel livello, perché se è eccessivo può portare a non occupare persone che potrebbero invece voler lavorare al di sotto di quel livello. Quello che è importante è non legare al salario minimo automatismi“.

Legge sul salario minimo: le parti sociali

Maurizio Stirpe

Il vicepresidente di Confindustria ha dichiarato di essere favorevole ad una legge sul salario minimo, ma solo ad alcune condizioni: “che il salario minimo venga fissato come percentuale compresa tra il 40 e il 60% del salario mediano e che non venga confuso con la retribuzione proporzionale e sufficiente dell’articolo 36 della Costituzione. Terza condizione è che il salario minimo deve operare per tutti i contratti, non solo per le aree in cui non c’è la contrattazione collettiva”.

Pierpaolo Bombardieri

Il segretrario del sindacato Uil ha dichiarato: “Siamo d’accordo con il salario minimo a condizione che coincida con i minimi contrattuali“. Questo ovviamente non deve sostituirsi ai contratti.

Luigi Sbarra

Il segretario della Cisl vorrebbe che il salario minimo fosse “esteso e rafforzato attraverso la contrattazione“. Come riporta SkyTg24 Il sindacalista vede un forte peso fiscale su lavoro e sulle imprese e chiede al Governo di aprire un “confronto sui contenuti della delega fiscale“.

Salario minimo, quali Paesi ce l’hanno già? La situazione in Europa. Vera Monti il 07/06/2022 su Notizie.it.

Con tutte le differenze del caso, sono 21 gli Stati che in Europa hanno un salario minimo stabilito per legge per tutti i lavoratori.

Il salario minimo in Europa

Sono 21 i Paesi dell’Unione Europea che prevedono un salario minimo per legge con notevoli differenze tra loro nell’entità e nel rapporto con i redditi medi. Tra i sei che non lo prevedono figura l’Italia. 

L’accordo raggiunto

La presidenza del Consiglio e i negoziatori del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva sui salari minimi adeguati nell’Ue. La nuova legge, una volta adottata definitivamente, promuoverà l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuirà così a raggiungere condizioni di lavoro e di vita dignitose per i dipendenti europei.

Le differenze tra i vari Stati

Il provvedimento fissa delle procedure di riferimento, sono notevoli infatti le differenze-in tema di salari – tra i vari Paesi dell’Unione Europea che emergono dai dati Eurostat.

Una forchetta che va dai circa 300 euro al mese in Bulgaria agli oltre 2000 in Lussemburgo.

I salari più alti si registrano nei Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale. Anche se – sottolinea il Corriere della Sera di oggi – “Sono però i paesi dell’Europa orientale ad aver registrato il miglioramento più considerevole negli ultimi 10 anni. Prima tra questi la Romania, che ha avuto un aumento dell’11,1% negli ultimi dieci anni secondo i dati Eurostat”.

Ovviamente tutto va contestualizzato ai vari parametri di ogni Stato, come il costo della vita. Ma occorreva appunto fornire l’obiettivo comune di un salario minimo collegandolo alla contrattazione collettiva o ad una legge che ne definisca l’importo minimo. Anche perchè il quadro disomogeneo dei salari minimi nell’Unione Europea non riguarda solo l’entità degli stessi ma anche il loro rapporto con i rispettivi redditi medi.

Il salario minimo in Europa

Tra i Paesi Ue, 21 hanno un salario minimo, stabilito per legge per tutti i lavoratori. Sono invece 6 – Austria, Danimarca, Cipro, Finlandia, Svezia e Italia – i salari sono stabiliti attraverso trattative di categoria

Dal primo ottobre il salario minimo in Germania (introdotto nel 2015) salirà a 12 euro l’ora. L’aumento è previsto in due fasi: da 9,82 a 10,45 euro il primo di luglio e poi a 12 euro il primo di ottobre.

Per quanto riguarda la Spagna, a febbraio il governo – dopo gli accordi con le parti sociali – ha fissato il salario minimo del 2022 a 1.000 euro al mese per 14 mensilità. Aumentandolo dunque di 35 euro rispetto al 2021.

Perché in Italia non c’è il salario minimo? Debora Faravelli il 07/06/2022 su Notizie.it.

Il ministro per la Pubblica Amministrazione Brunetta ha spiegato perché in Italia non è ancora in vigore il salario minimo. 

In attesa che l’Unione Europea trovasse un accordo sul salario minimo, anche in Italia si è acceso il dibattito sulla retribuzione: il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta si è schierato contro la misura spiegando perché nel nostro paese non è in vigore.

Salario minimo in Italia

Intervenuto al Festival dell’Economia di Trento organizzato dalla Provincia Autonoma e dal Gruppo 24 Ore, l’esponente di Forza Italia ha dichiarato che “il salario minimo per legge non va bene perché è contro la nostra storia culturale di relazioni industriali e non può essere moderato ma deve corrispondere alla produttività“.

Parole che hanno lasciato intendere una contrarietà da parte del centrodestra alla riforma depositata nel 2018 in commissione Lavoro al Senato.

Dall’altra parte, il Commissario europeo per gli affari economici Paolo Gentiloni aveva invece parlato del salario minimo come di una possibile soluzione all’aumento delle diseguaglianze e alla crescente perdita del potere d’acquisto degli stipendi italiani.

Le posizioni di M5S e PD

Anche il Movimento Cinque Stelle si è schierato a favore della misura, definendola una priorità e una battaglia da completare subito. Il leader Giuseppe Conte aveva anche lanciato un appello alle altre forze politiche per aprire un confronto e approvare la legge nell’attuale legislatura.

Se così non fosse, i dem sarebbero comunque intenzionati a presentarla come proposta nel programma per le prossime elezioni politiche: “La questione salariale è fondamentale così come l’impegno ad arrivare al salario minimo come fanno in Germania e in Australia“.

·        Il Reddito di Cittadinanza.

I cinquestelle, nel loro totale giustizialismo, inesperienza ed imperizia, non aiutano i poveri con il reddito di cittadinanza.

Il loro sistema di sostegno populista aiuta i nullatenenti ritenuti in apparenza onesti, non i poveri, non gli emarginati.

Se, per esempio, un disoccupato riceve dai genitori in eredità un vecchio rudere, che per il fisco valuta più dei limiti di valore dai pentastellati stabiliti, non ha diritto al reddito di cittadinanza, sempre che non rinuncia all’eredità.

Non può accettarlo e cederlo. Se lo vende supera il reddito previsto o la giacenza in banca.

 Se, per esempio, una vittima di ingiustizia o oggetto delle circostanze, si ritrova emarginato e bisognoso, ad esso il reddito di cittadinanza è escluso, tanto da reindurlo al crimine per campare.

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 23 dicembre 2022.

Chi prende il Reddito di cittadinanza «non può aspettare il lavoro dei suoi sogni», avverte Giorgia Meloni. «Se a un laureato viene offerto un posto da cameriere, è giusto che accetti», sentenzia Claudio Durigon. Anche se con gli emendamenti alla legge di Bilancio si è fatta confusione e, a quanto pare, l'aggettivo "congrua", riferito all'offerta di lavoro per i beneficiari del Reddito, non è davvero stato eliminato, la volontà politica del governo emerge con chiarezza.

Ecco il ragionamento della presidente del Consiglio, ospite di Porta a Porta: «Se ti rifiuti di lavorare con un lavoro dignitoso e con tutte le garanzie del caso, perché quello non è il lavoro dei tuoi sogni - spiega - non puoi aspettare che lo Stato ti dia il Reddito di cittadinanza con i soldi di chi paga le tasse, magari senza fare il lavoro dei suoi sogni. È una questione di giustizia». 

Poi annuncia una riforma di «tutta la materia», immaginando «un meccanismo in cui, in un Paese dove alcuni lavori si trovano e sono dignitosi, tu vai al Centro per l'impiego che ti indica gli ambiti in cui è richiesto lavoro e ti dice chi ti forma. Ma ci vuole anche la volontà». Insomma, il retropensiero è sempre quello: chi prende il reddito non cerca davvero lavoro, mentre «uno Stato giusto non mette sullo stesso piano dell'assistenzialismo chi può lavorare e chi non può».

Il sottosegretario al Lavoro Durigon, ai microfoni di Radio24, conferma l'intenzione di «portare a casa un decreto sul Reddito di cittadinanza nella seconda metà di gennaio» e sostiene che «se uno prende soldi pubblici non può essere schizzinoso, non può rifiutare nessuna tipologia di offerta che riguardi in contratto collettivo nazionale».

Poi cerca di «tranquillizzare Conte» sul tema della distanza del posto di lavoro dal luogo di residenza: «Il criterio della territorialità resta, anche perché una persona non può andare a Trieste per due giorni se è di Napoli». 

Per il presidente del Movimento 5 Stelle, però, è «inaccettabile che si sia trovato il tempo per infierire sul Reddito di cittadinanza, mentre si va incontro alle parte marcia delle società di calcio». 

E il capogruppo M5S alla Camera, Francesco Silvestri, accusa il governo di voler creare «mendicanti del lavoro, costretti ad accettare qualsiasi offerta a qualunque costo». A proposito di costi, Durigon parla anche di pensioni e lascia aperto uno spiraglio sul rinnovo di Opzione donna con i vecchi criteri: «Sulla manovra purtroppo non ci sono più margini, le varie coperture della Ragioneria ci hanno bloccato - precisa - ma stiamo lavorando per cambiare nel decreto Milleproroghe. Servono 80 milioni nel 2023, poi aumentano a 250 nel 2024». 

Ma a tenere banco è quella che Maurizio Landini definisce «un'operazione molto ideologica» sul Reddito di cittadinanza. «Mi pare chiaro che il disegno del governo sia quello di farlo saltare - dice il leader della Cgil - averlo ridotto a 7 mesi e tolto anche l'offerta congrua, per non parlare di un salario dignitoso, è solo un nodo di fare cassa sulle spalle dei più poveri. C'è una parte consistente di percettori che non lavora da anni, mentre sul mercato si cercano lavoratori qualificati».

In realtà, come detto, il principio della congruità dell'offerta di lavoro ad oggi resta intatto, perché a essere incongruo è l'emendamento presentato da Maurizio Lupi di Noi Moderati e approvato dalla commissione Bilancio della Camera. Interviene sull'articolo 7 della legge del 2019 sul reddito di cittadinanza, «ma non modifica l'articolo 4, che richiama ancora l'offerta di lavoro congrua», ha spiegato il giuslavorista Michele Tiraboschi. Insomma, l'azione legislativa non riesce a seguire la volontà politica, almeno non con questa manovra. Ma la questione sarà ripresa nell'ambito della riforma complessiva delle politiche attive del lavoro, che la ministra Calderone punta a presentare entro la fine di gennaio.

R.Am. per “la Repubblica” il 22 dicembre 2022.

Cadono anche gli ultimi punti fermi del reddito di cittadinanza. Quegli 8 mesi di assegno garantiti ai circa 660 mila "occupabili", poi diventati 7, con gli ultimi emendamenti alla manovra approvati vengono sottoposti ad altri obblighi ancora. Cade l'aggettivo "congrua" dall'offerta che il lavoratore è obbligato ad accettare, per non perdere il beneficio. Significa, denuncia il leader del M5S Giuseppe Conte, «che le persone più indigenti devono accettare qualsiasi proposta di lavoro in qualunque luogo d'Italia: significa distruggere l'ascensore sociale. Siamo alla follia pura».

E i giovani tra i 18 e i 29 anni che non hanno completato il ciclo scolastico sono tenuti a iscriversi a percorsi formativi. «Prima di ricorrere a una misura meramente assistenziale è necessario restituire a questi ragazzi il diritto allo studio che per i motivi più diversi è stato loro negato», sostiene il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara. 

«Privano di sostegno i giovani che non hanno completato il percorso scolastico, non curandosi del fatto che magari vivono in una famiglia che non li ha mandati a scuola o hanno dovuto abbandonare il percorso di studi per aiutare i genitori», obietta Alessandra Todde, deputata M5S ed ex vicemistro allo Sviluppo. Ma non è solo il M5S a scagliarsi contro la demolizione del reddito di cittadinanza. Protesta tutto il centro- sinistra, e anche i sindacati accusano il governo di «fare la guerra ai poveri».

Mentre vari istituti di ricerca, tra cui l'Istat nell'ultima audizione parlamentare sulla manovra, hanno sottolineato come sia difficile reimpiegare i cosiddetti "occupabili", per la maggior parte persone prive di competenze professionali e titoli di studio adeguati. Senza un robusto programma di formazione persino gli incentivi all'assunzione (8 mila euro) servono a poco. Il governo in queste ore si è impegnato in questa direzione: fonti del ministero del Lavoro assicurano che da gennaio partirà un progetto, coordinato con il programma Gol per la formazione, per rendere veramente occupabili i percettori e per evitare che, dopo sette mesi, perdano qualunque forma di sostegno.

Già in questi mesi si è lavorato in questa direzione: grazie ai fondi del Pnrr sono stati appena rafforzati 297 centri per l'impiego e si è arrivati a una "presa in carico" di oltre 600 mila disoccupati. A margine dell'Assemblea di Coldiretti, il ministro per il lavoro Marina Elvira Calderone ha assicurato che un decreto subito dopo la pausa festiva ridefinirà l'offerta congrua: «Messa in sicurezza la manovra, ora dovremo lavorare per rendere ancora più efficace la nostra azione sulle politiche attive e sulle attività per accompagnare le persone al lavoro».

Il piano verrà messo a punto con il contributo delle parti sociali, delle organizzazioni imprenditoriali e delle Regioni. La questione però non è tanto quella dell'offerta "congrua", riflette Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro alla Sda Bocconi: «Finora di offerte ai percettori di reddito non ne sono arrivate, di nessun tipo. 

Quello che è mancato è un vero percorso di rafforzamento dell'occupabilità. E se il governo vuole intraprenderlo seriamente, non può pensare di concluderlo in sette mesi. Alla formazione va dedicato tutto il tempo necessario, anche due o tre anni se serve, come avviene in Francia o Germania. Serve un esercizio di realtà, altrimenti non si sta parlando di una riforma: è solo un esercizio contabile».

Niente studio né lavoro, ma il 15% prende il reddito di cittadinanza. Maurizio Zoppi su L'Identità il 16 Dicembre 2022

Oltre il 15% dei Neet in Italia riceve il reddito di cittadinanza. Per l’esattezza il 15,5% dei giovani “nulla facenti” dello Stivale, sono i percettori della misura politica fortemente voluta dal Movimento 5stelle. Numeri e dati messi in evidenza dal report “Il reddito di cittadinanza in relazione agli occupati a basso reddito (working poor) e ai giovani inattivi (Neet)”, realizzato nell’ambito del progetto di ricerca Monitor Fase 4, frutto della collaborazione tra AreaStudi Legacoop e Prometeia. Una platea di 395mila e 600 ragazzi di età dai 18 ai 29 anni. Per chi non lo ricordasse: i Neet sono definiti quei giovani non impegnati nello studio, né nel lavoro, né nella formazione. Proprio per queste ragioni non hanno risorse ma possono richiedere il reddito di cittadinanza in quanto rientrano nella categoria degli “occupabili”, almeno per la parte di coloro che hanno concluso il ciclo di studi obbligatorio, tenendo comunque conto che questi Neet non sono necessariamente quelli che richiedono la misura, ma anche componenti di nuclei beneficiari. E subito il pensiero va al termine “bamboccione”. La famiglia, oltre che il reddito di cittadinanza, diventa il proprio datore di lavoro, nel senso che provvede al mantenimento in caso di disoccupazione o di retribuzione a “nero” insoddisfacente. Al di là della misura di sostentamento creata dai grillini, quello che i genitori si concedono è un lusso rischioso in quanto il ragazzo che si trova in questa condizione di limbo potrebbe adagiarsi. E non darsi più da fare, creando col passare del tempo una spirale negativa. “Il legame con l’inserimento lavorativo è reso fragile non solo dalla mancanza di lavoro, non solo da alcune furbizie individuali, ma soprattutto dalla fragilità di quel fondamentale settore che nelle economie avanzate sono le politiche attive del lavoro, specialmente per i giovani”, osserva Mauro Lusetti, presidente di Legacoop. Nel frattempo come è ben noto, la maggior parte dei giovani “nulla facenti”, si trovano al Sud. In Campania, in Sicilia, in Puglia. Al Nord la situazione è più confortante. Soltanto il Piemonte sembrerebbe avere numeri rilevanti. Per essere precisi, il 65% dei percettori del reddito di cittadinanza si trova al Sud, dove si registrano il più alto tasso di disoccupazione (e quindi redditi familiari più bassi) e un più basso livello generale delle retribuzioni per chi è occupato, oltre ad un minor numero di servizi di welfare che consentono una piena conciliazione vita lavoro. E proprio al Sud che il Movimento 5stelle ha uno zoccolo duro dell’elettorato. Fatalità? Caso? Nel frattempo la stima dei voti è solo potenziale. Perché non si può avere nessuna certezza sulle intenzioni di voto di chi percepisce il reddito di cittadinanza. Ma i numeri dicono che sono più di tre milioni i voti espressi dalle persone che lo percepiscono. Tempo fa il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ha parlato apertamente di voto di scambio. “L’operazione sul reddito al Sud è il più grande scandalo per la politica, perché è esattamente un voto clientelare…”. Non sarà che la politica dei bonus e dei sussidi va a deprimere una economia già ferma e dove non c’è voglia di lavorare e di impegnarsi? E allora, oltre al Rdc, qual è la strategia delle forze politiche a livello locale e nazionale per risvegliare i Neet dalla apatia e ridare energia al Mezzogiorno addormentato? Una risposta che dovrebbe arrivare innanzitutto dal Movimento 5 Stelle, che a Palermo, in Campania in Sicilia e in generale nel Sud, ha conservato larga parte del suo consenso alle ultime elezioni politiche.

Fallimento del reddito al Sud: quasi uno su due resta a casa. Inattivi invariati rispetto all'avvio del sussidio grillino. Solo 50mila i percettori coinvolti dal programma Gol. Gian Maria De Francesco il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La consueta rilevazione trimestrale del mercato del lavoro effettuata dall'Istat ha messo ancora una volta in risalto l'inefficacia del reddito di cittadinanza come strumento volto a sostenere il reinserimento dei beneficiari, almeno di quelli occupabili.

Cominciamo, tuttavia, con le buone notizie. Il tasso di disoccupazione in Italia nel terzo trimestre è sceso al 7,9% (-0,2 punti sul trimestre precedente, -1,1 punti sull'anno), il valore minimo dal 2009. Il tasso di occupazione è stabile rispetto al trimestre precedente al 60,2%, sui livelli più alti dal 2004, inizio delle serie storiche. Rispetto al terzo trimestre 2021 il tasso di occupazione è cresciuto di 1,1 punti. I disoccupati nel terzo trimestre erano 1,98 milioni.

Il dato, come al solito, è molto disomogeneo a livello territoriale perché il tasso di occupazione varia dal 68,2% del Nord al 65% del Centro al 46,6% del Mezzogiorno dove è in diminuzione di 0,3 punti percentuali rispetto alla fine di giugno 2022. Ma quello che preoccupa al Sud è il lieve incremento del tasso di inattività che è aumentato al 45,7% ritornando sui livelli del terzo trimestre 2019 anche se in valore assoluto i meridionali di età compresa tra 15 e 64 anni che non hanno un lavoro e non lo cercano sono meno di tre anni fa (5,8 milioni contro 6 milioni).

Sono questi dati a mostrare l'inefficacia del reddito di cittadinanza. Il sussidio grillino, infatti, obbliga il percettore in grado di lavorare a sottoscrivere un patto presso il Centro per l'impiego, rientrando dunque nella categoria dei disoccupati (se non già occupato e titolare del bonus allo scopo di integrare il reddito). Invece, le persone in cerca di lavoro al sud sono passate dagli 1,3 milioni di inizio 2019 ai 976mila di fine settembre. Il tasso di disoccupazione è «miracolosamente» sceso nello stesso periodo dal 18,1% al 13,8%, cioè è accaduto il contrario di quello che si prevedeva.

Il dato, sebbene positivo, è influenzato dalle dinamiche socio-demografiche. Tra inizio 2019 e settembre 2022 la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è calata di 575mila unità, un trend che non si spiega solo con la denatalità ma soprattutto con l'emigrazione interna. Sia al Nord che al Centro la popolazione in età lavorativa è diminuita di 100mila persone circa. È lecito, pertanto, dedurre che la minore flessione sia stata effetto dell'immigrazione dei meridionali andati al Nord o al Centro per studiare e per lavorare. L'ipotesi è in linea con il Rapporto Svimez che indica in 125mila-150mila il numero di meridionali che ogni anno lascia la propria terra in cerca di fortuna nel resto d'Italia.

Ne consegue che chi da Catanzaro, Siracusa e Avellino ha trovato un lavoro molto probabilmente non deve «ringraziare» il reddito grillino. Ma chi è rimasto al Sud che cosa ha fatto? Ricordando che nel Meridione risiedono i due terzi dei nuclei beneficiari del sussidio (689mila per 1,6 milioni di persone coinvolte), in quelle Regioni al 30 giugno 2022 i soggetti al «patto per il lavoro», secondo l'Anpal, erano 495mila. Poiché l'attuazione del Pnrr prevede l'avvio della Gol (garanzia di occupabilità del lavoratore), un percorso formativo mirato, dalla stessa Anpal sappiamo che a inizio ottobre i «presi in carico» percettori di reddito erano solo 50mila. Ne consegue che una spesa di 8-9 miliardi annui (di cui almeno 3,5 per l'inserimento lavorativo) per il reddito è difficile da giustificare.

Bonus, sussidi e assunti. Il libro dei sogni di Conte a spese dei contribuenti. Il leader 5s attacca la manovra e ne presenta una alternativa basata sull'assistenzialismo. Domenico Di Sanzo il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Paragona Giorgia Meloni alla Trojka e vuole difendere i poveri da una manovra «misera». Giuseppe Conte attacca a tutto campo sulla legge di Bilancio. Lo fa dopo l'intervento di martedì nell'Aula di Montecitorio, un discorso in cui ha continuato a marcare le differenze con la linea di politica estera del governo di centrodestra. E quindi tavolo di pace, stop alle armi a Kiev, mezze aperture alla Russia di Vladimir Putin. Ragionamenti che fanno il paio con le bordate all'indirizzo dell'esecutivo sull'economia. In un modo abbastanza inedito per le altre forze politiche, si spinge a tacciare Meloni di promuovere politiche pro-austerity. «Oggi il problema della Trojka è stato risolto, la trojka ce l'abbiamo qui in Italia e ha il volto del presidente Meloni e del ministro Giorgetti», spiega Conte in conferenza stampa dalla sede grillina, dove ha annunciato una pioggia di emendamenti alla manovra. Poi va sul personale: «Giorgia Meloni era evidentemente troppo impegnata ad urlare mentre noi, al governo, eravamo intenti a imprimere una svolta in Ue per superare politiche di austerity». La strategia di Conte è quella di dipingere Meloni come una pedina del «sistema», un'evoluzione di Mario Draghi più che una pericolosa sovranista con simpatie fasciste. Il leader grillino insiste sull'occupazione di uno spazio a sinistra, un varco lasciato libero da un Pd in attesa del congresso e in crisi di identità.

Conte, già negli scorsi giorni, aveva anticipato una serie di emendamenti per «la giustizia sociale». A partire sempre dalla battaglia per il Reddito di cittadinanza. «Sotto l'albero di Natale Meloni ha messo precarietà, voucher e taglio immediato del Reddito di cittadinanza per oltre 600mila persone fragili», attacca Conte. Gli emendamenti sono una lista da libro dei sogni, con tutti i migliori cavalli di battaglia del grillismo. Dal ripristino del Rdc al salario minimo a 9 euro l'ora lordi. E poi raddoppio del taglio del cuneo fiscale dal 2% al 4%, ma solo per i redditi fino a 35mila euro. Conte poi ha parlato di riscatto della laurea, sempre gratuito, per i giovani under 36 e di agevolazioni per i giovani che vogliono comprare la prima casa. E ancora, a pioggia, di assunzioni nella scuola e fondi per il dissesto idrogeologico.

«Se non l'avessimo vista nero su bianco non avremmo creduto a una manovra così misera. Non avremmo potuto pensare che un governo politico che aveva fatto proclami di senso opposto proponesse una manovra senza visione e senza attenzione verso le fasce più in sofferenza. Da chi si definisce patriota ci saremmo aspettati misure a sostegno dell'Italia», ribadisce il leader del M5s. Con lui i capigruppo di Camera e Senato Francesco Silvestri e Barbara Floridia e i capigruppo in Commissione Bilancio Daniela Torto e Stefano Patuanelli. L'avvocato gioca la carta dell'opposizione dura e parla di manovra «pavida», «iniqua», che colpisce i deboli. Conseguenza dei toni grillini sarà il prevedibile ostruzionismo in Aula. «Ci batteremo per far ascoltare le nostre ragioni, poi, c'è il solito dilemma dell'esercizio provvisorio che non fa bene al Paese», smorza. «Ci batteremo nei limiti temporali propri della manovra affinché le nostre posizioni vengano accolte», dice ancora l'ex premier.

Nel 2022 respinte 240mila domande (il 18%) per il Reddito di cittadinanza. Ecco perché e come. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Dicembre 2022.

Sugli 1,29 milioni di richieste di sussidio pervenute da inizio anno fino ad ottobre, sono circa un quinto quelle rigettate dall’istituto pensionistico. Altre 50mila, invece, sono state sospese e sottoposte ad ulteriori controlli. Mancanza di residenza in Italia oppure errate dichiarazioni sulle posizioni lavorative dei familiari le principali criticità

Nei primi dieci mesi del 2022 l’Inps ha individuato oltre 290mila richieste di reddito di cittadinanza a rischio, su un totale di circa 1,3 milioni. Di queste, 240mila domande per mancanza del requisito della residenza in Italia oppure per false o omesse dichiarazioni relativamente alla posizione lavorativa dei componenti il nucleo familiare, sono state respinte in automatico, prima che la prestazione potesse essere indebitamente percepita, mentre 50mila sono state sospese e sottoposte a ulteriori controlli.

Complessivamente, da quanto si evince da una tabella dell’ente pensionistico, le richieste respinte al 30 settembre 2022 sono 456.331, le ‘posizioni’ decadute 264.964, quelle revocate 60.523. Il che porta il totale complessivo (dal 2019) a 1.735.195 domande rigettate, 871.491 decadute e 213.593 revocate. “Il sistema dei controlli risulta complesso a causa delle molte amministrazioni coinvolte e della tempistica da rispettare per verificare i requisiti, all’atto della presentazione della domanda“, spiegano dall’Inps.

L’Inps ha intensificato i controlli ex ante sul reddito di cittadinanza, nell’ottica di prevenire ed individuare i comportamenti opportunistici e fraudolenti. Un altro scenario di rischio che l’Inps sta da poco utilizzando, in stretta collaborazione con le forze dell’ordine, è quello relativo all’eventuale titolarità di imprese e/o di qualifiche/cariche sociali da parte dei componenti il nucleo familiare richiedente il beneficio. Tale circostanza, infatti, seppure di per sé non incompatibile con la fruizione del beneficio Rdc, è ritenuta sintomatica di potenziali frodi comunque connesse alla fruizione del reddito di cittadinanza oppure a irregolarità concernenti il settore delle aziende, quali, ad esempio, quelle dei ”prestanome” nella titolarità delle stesse. Anche le domande riconducibili a tale scenario vengono intercettate e sottoposte ad ulteriori controlli.

Per omogeneità ed organicità di controllo, l’Inps ha elaborato un’apposita piattaforma informatica che permette alle strutture periferiche di consultare le istanze Rdc che presentano gli indici di rischio selezionati, così da poter svolgere le opportune verifiche sulle domande sospese e sbloccarne l’esito, se positivo, o avviare le conseguenti azioni di recupero, in caso negativo.  Gli scenari di rischio elaborati consentono all’Inps di attivare costanti sinergie con le forze dell’Ordine, nel solco della massima collaborazione tra le amministrazioni, ispirata ad una tutela rafforzata della legalità, per conciliare l’inclusione sociale, nei limiti dei veri bisogni da tutelare, e il controllo e contenimento della spesa pubblica. Redazione CdG 1947

L'Inps a guida grillina si accorge soltanto ora delle truffe sul reddito. Nei dati dell'istituto la mole dei raggiri. Solo nel 2022, 240mila domande respinte. Fabrizio Boschi il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Ostinarsi a difendere il reddito di cittadinanza ad ogni costo anche quando è indifendibile. Una misura che non assicura un futuro ma semmai lo toglie e che l'ex premier «Giuseppi» Conte continua a volere, minacciando addirittura una «guerra civile» nel caso venisse tolto.

Eppure, i dati sono chiari. Ora anche quelli delll'Inps presieduta dall'economista Pasquale Tridico, nominato proprio da Conte a capo dell'Istituto. Adesso anche il fedelissimo del M5s si accorge che quel provvedimento ha avuto come effetto solo quello di produrre tante truffe ai danni dello Stato. Sono 240mila le domande per il Reddito di cittadinanza respinte nei primi dieci mesi del 2022. A riportarlo è l'Istat, che nel suo ultimo report evidenzia come si trattTi di quasi un quinto delle richieste totali di sussidio pervenute.

«Gli scenari di rischio elaborati e di relativi allarmi» attivati dall'Inps hanno permesso di individuare su circa 1.290.000 domande di Reddito di cittadinanza pervenute, nei primi dieci mesi del 2022, oltre 290mila a rischio: 240mila sono state respinte in automatico, per mancanza del requisito della residenza in Italia, oppure per omesse dichiarazioni relative alla posizione lavorativa dei componenti il nucleo familiare, o anche per false dichiarazioni. Si tratta del 18,6% delle domande, quasi un quinto, che sono state respinte prima che la prestazione potesse essere indebitamente percepita. Inoltre, 50.000 domande sono state sospese e sottoposte ad ulteriori controlli, pari al 3,8% delle istanze», scrive l'Inps.

Un milione di domande è stato accettato, si tratta del 77,5% delle richieste. Complessivamente, da quanto si evince da una tabella dell'Inps, al 30 settembre 2022: 456.331 sono in totale le domande respinte, 264.964 le posizioni decadute, 60.523 quelle revocate. Il sistema dei controlli risulta particolarmente complesso per il grande numero di amministrazioni coinvolte e per la tempistica da rispettare per la verifica dei requisiti. L'Inps ha attuato un «sistema di controlli centralizzati sulla sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, affiancato da verifiche ex post a cura delle sedi territoriali sulla veridicità delle dichiarazioni», spiega l'Istituto di previdenza sociale nazionale.

Inoltre, si legge nel comunicato stampa, «l'Inps ha intensificato i controlli ex ante nell'ottica di prevenire ed individuare i comportamenti opportunistici e fraudolenti. Pertanto, il sistema dei controlli è stato progressivamente rafforzato con l'obiettivo di accertare la veridicità delle dichiarazioni rese, verificando preventivamente le informazioni in possesso dell'Inps e di altre amministrazioni pubbliche, e anticipando i controlli anche in ottica antifrode. Sono stati, inoltre, individuati scenari di rischio potenziale predefiniti, incrociando le dichiarazioni presenti nelle domande del reddito di cittadinanza e nelle relative dichiarazioni sostitutive uniche con i dati e le informazioni presenti nei propri archivi».

Insomma, proprio mentre il governo lavora con la manovra all'introduzione di forti paletti per ridurre e poi spegnere il Reddito di cittadinanza, l'Inps se ne esce con una nota nella quale fa presente come il suo sistema di controlli abbia portato a sventare potenziali distorsioni nel beneficio di sostegno al reddito. L'Istituto riconosce che spesso il reddito è stato oggetto di «ampio dibattito» e «particolare attenzione mediatica», in particolare all'emergere di truffe e accrediti illeciti. E ricorda di avere via via intensificato i controlli ex ante, di pari passo con l'evoluzione della norma, e in particolare in ottica «antifrode». Conte adesso quali altri argomenti troverà?

Welfare universalistico. L’ingenuità dei Cinquestelle e i difetti del reddito di cittadinanza. Giovanni Perazzoli su L’Inkiesta il 30 Novembre 2022

I grillini hanno sempre presentato la loro misura bandiera come una misura contro la povertà, ma in realtà dovrebbe essere contro la disoccupazione. E soprattutto non è una novità: esiste da decenni più o meno in tutta Europa

Il welfare per la disoccupazione sul modello universalistico di Beveridge, che abbiamo chiamato in Italia “reddito di cittadinanza”, non è mai piaciuto alla sinistra, non piace alla destra e il Movimento 5 Stelle non sa che cosa sia veramente (almeno a sentirli parlare).

Da questa premessa vengono i due peccati originari del “reddito di cittadinanza” italiano: 1) è stato presentato come una misura contro la povertà, mentre è un sussidio per la disoccupazione, e 2) non è stato presentato come una realtà che, più o meno dal dopoguerra, esiste già nel resto d’Europa.

Se si fossero tenuti presenti questi due punti, il percorso della riforma sarebbe stato diverso, ma è anche vero che, se questi punti non sono stati tenuti presenti, è perché una vera riforma, probabilmente, non la si vuole o non se ne immagina il senso.

Il fatto incontrovertibile che misure analoghe (ma ben architettate) esistono negli altri Paesi europei avrebbe costretto sia i critici che i sostenitori del reddito di cittadinanza a confrontarsi con gli altri Paesi. Ma l’assenza dell’ancoraggio all’esperienza europea ha permesso che emergessero proprio quelle arretratezze che ci si aspetta da una sinistra corporativa e da una destra di nuovo corporativa.

I «poveri», invece, mettono d’accordo tutti. Chiedono soldi e non riforme del lavoro. Sono il minimo comune denominatore ideologico che permette di spostare il punto della questione da tutt’altra parte. Segue, per conseguenza diretta, la disinvolta retorica dei pigri sul divano e le piazzate peroniste dai balconi, con annessi annunci trionfali del primo governo che ha deciso di porre fine alla povertà con una legge finanziaria.

La confusione tra povertà e disoccupazione riassume un quadro ideologico antico. È una premessa che conduce verso una sola direzione. Aristotele dice che un errore poco evidente all’inizio del ragionamento diventa un grande errore alla fine. E qui la fine è la fine dello stesso reddito di cittadinanza.

Se sposti il peso dalla disoccupazione alla povertà, la conclusione del presidente del Consiglio Meloni, e di tanti altri, suona sensata: perché dovremmo sussidiare chi può lavorare? Sussidiamo i poveri, invece, che non possono lavorare.

Però l’impostazione del problema rivela l’equivoco. Non si tratta di aiutare i poveri, ma i disoccupati temporanei. I benefit (come dicono gli inglesi) per la disoccupazione nascono storicamente dalla presa d’atto di un fatto: nelle nostre economie esiste la disoccupazione.

Il rilievo che sfugge è che il welfare ha un ruolo, positivo o negativo nel funzionamento delle nostre economie. Non è un aspetto neutrale. I benefit per la disoccupazione coprono, da una parte, i periodi di mancanza di reddito, dall’altra, però, hanno lo scopo, non secondario, di allocare il lavoro dove serve. Non è un utilizzo del welfare che è solo assistenza, ha anche un impatto sull’efficienza del mercato del lavoro.

La flessibilità del lavoro senza sussidi di disoccupazione adeguati significa vivere in un mondo vecchio, pensare in modo vecchio, essere, soprattutto, i rappresentanti di un’economia povera, che ha bisogno di lavoro nero e di bassissimi salari.

L’universalismo è meno distorsivo dei privilegi corporativi. Ma è ingenuo aspettarsi che in Italia si combattano i privilegi corporativi. Per la destra in stile Meloni, peraltro, il welfare corporativo è tradizione e Dna (v. voce “corporativismo”). Una storia che, c’è poco da fare, è stata condivisa, e non per caso, anche dalla sinistra, che dal dopoguerra ha rifiutato il welfare universalistico di Beveridge. Mi ha sempre colpito che il Report di Beveridge sia stato tradotto in italiano dall’esercito occupante inglese.

Il punto è che una cosa è il welfare e un’altra è il lavoro. Nei Paesi poco sviluppati, invece, lavoro e welfare sono la stessa cosa e si crea un’occupazione fittizia.

I sussidi di disoccupazione sono pensati come una rete utile soprattutto, ma non esclusivamente, per i giovani che hanno lavori precari, che non hanno rappresentanza sindacale, che sono fluidi o flessibili. La risposta ideologica è abolire la precarietà, abolire la disoccupazione, nazionalizzare l’economia e via con la saga (la banca che stampa moneta, il sovranismo di destra e di sinistra, e vari rossobruni assortiti). La sinistra italiana ha sempre visto in queste misure dei contentini, e non avrebbe mai accettato il reddito di cittadinanza se il Movimento 5 Stelle non l’avesse scavalcata.

L’esclusione sociale, il recupero alla società delle persone perdute, però, anche qui permette di andare d’accordo. Ma nel mondo che non è rimasto fermo agli anni Cinquanta, una persona perfettamente integrata nella società può essere temporaneamente disoccupata e per questo percepire un sussidio.

A questo punto salta sempre fuori qualcuno a dire che, no, per i disoccupati esiste la Naspi. Sbagliato. La Naspi è un’altra cosa: è un’indennità contro la disoccupazione, è un’assicurazione a cui lo stesso lavoratore contribuisce con dei versamenti mensili, ha la durata di un anno, con un importo pari al settantacinque per cento della retribuzione perduta, e si può chiedere dopo due anni di lavoro. Ma che cosa succede per chi è precario e non mette insieme due anni di contributi, per chi ha diciotto anni e cerca e non trova il primo lavoro, per chi dopo la Naspi non trova un’occupazione?

Facciamo l’esempio di un giovane olandese, inglese, francese, tedesco, irlandese: è in età da lavoro, non ha mai lavorato prima, vuole lavorare, e invece di rivolgersi all’amico influente di turno, entra in un Job Centre per chiedere se è disponibile un lavoro, ad esempio, da camionista (o un altro lavoro coerente con la sua formazione professionale).

Se nessuno al momento ha bisogno di un camionista, allora, dietro la sottoscrizione di un impegno a lavorare come camionista appena possibile (pena la perdita del sussidio), può beneficiare di un modesto sussidio potenzialmente illimitato nella durata. Se dovesse perdere il lavoro da camionista, allora può chiedere un’indennità di disoccupazione (analoga alla Naspi), che una volta terminata senza trovare un’occupazione torna al sussidio di base, quello che in Italia abbiamo chiamato reddito di cittadinanza.

Diamo allora i nomi di questi strumenti così ci capiamo meglio e ognuno può verificare (basta anche Wikipedia). Il “reddito di cittadinanza” tedesco si chiama Arbeitslosengeld II. Già il nome dice che si tratta di soldi (Geld) per i disoccupati (Arbeitslosen). Perché poi segue il numero II? Perché evidentemente esiste un primo sussidio, Arbeitslosengeld I, che è appunto l’indennità di disoccupazione.

In Francia quello che da noi si chiama “reddito di cittadinanza” si chiama Revenue de solidarité active, mentre in Gran Bretagna e in Irlanda si chiama Jobseeker Allowance (anche qui dal nome si vede che non riguarda i poveri ma chi cerca un lavoro).

Come si capisce, questi strumenti hanno una funzione di rete di base per chi non ha ancora una posizione definita o per la disoccupazione di lungo periodo. Certamente è vero che questi sussidi sono anche degli strumenti contro la povertà, ma lo sono in seconda battuta: è evidente che il disoccupato è «a rischio di povertà».

L’altra parte della storia è che un Job Centre che funzioni sarebbe per l’Italia una rivoluzione più grande dello stesso reddito di cittadinanza. Significherebbe che i precari e i disoccupati, che non sanno dove sbattere la testa, non sono lasciati soli. Ma sono cose che non si improvvisano con i navigator.

La realtà è che si sussidiano in Italia tanti settori di economia arretrata, come deriva dall’ipotesi della tassa ad Amazon. Il punto è che, come per le licenze dei tassisti, le concessioni eterne per i balneari, il lavoro nero che pago con cinquemila euro non tracciabili, si preferisce sussidiare un’economia da rendita. È un Paese vecchio, che spende per le pensioni, per le rendite, e toglie la rete per i giovani flessibili, che però pagano per tutta la baracca.

L’idea che si debba sussidiare l’economia da quattro soldi e l’idea che la povertà si possa risolvere con dei sussidi vengono dallo stesso paniere. Sussidiare i poveri appare come una lotta sociale in risposta al sussidio delle rendite. Ma siamo dentro lo stesso orizzonte angusto da economia concettualmente fallita.

Gli addetti ai lavori conoscevano bene la questione del welfare per i lavoratori ben prima del Movimento 5 Stelle. Romano Prodi, ad esempio, aveva istituito una commissione per adeguare il welfare italiano a quello europeo, che è finita nel nulla. Per prendere un altro esempio clamoroso e drammatico – a dimostrazione che la storia della riforma del welfare precede il Movimento 5 Stelle – il volantino di rivendicazione dell’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona lo accusava di lavorare a uno schema di reddito di ultima istanza che avrebbe permesso allo stato, scrivono, di disimpegnarsi sul tema del lavoro.

Se la storia è vecchia, è perché si è perso molto tempo. In altre parole, il sussidio di disoccupazione non è mai piaciuto. Forse perché troppo liberale, troppo poco paternalistico, perché non ti lega a un caporale.

Colpisce, allora, che alcuni liberali europeisti italiani si siano sbracciati a rappresentare i disoccupati come pigri da divano, nonostante il fatto che la riforma sia stata raccomandata nel corso di vari decenni dalle istituzioni europee.

Il fatto che la Caritas si sia occupata di valutare i risultati del reddito di cittadinanza riflette l’equivoco della povertà. Nel suo studio, rileva che il reddito di cittadinanza non incontra tutte le esigenze dei poveri e considera più opportuno che a gestire i fondi siano gli operatori sociali dei comuni. Tutto comprensibile, a patto che il reddito di cittadinanza sia un sussidio per i poveri. Ma come dare torto alla Caritas, se i primi ad averlo presentato come un sussidio per i poveri sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle?

La Cgil, per parte sua, è sempre stata fredda, in linea di massima, verso i sussidi di disoccupazione universalistici. La ragione è che preferisce un welfare corporativo, che offra spazio per la contrattazione e un ruolo maggiore per il sindacato. La stessa diffidenza dei sindacati c’era, se non sbaglio, anche in Olanda, ma fu superata lasciando che fossero i sindacati a gestire il welfare, senza che venisse meno, però, la funzione universalistica.

Ora, si dirà: ma non sono evidenti le storture prodotte dal reddito di cittadinanza? Certo. Ma se si leggessero i giornali stranieri, si scoprirebbe che le stesse polemiche viste in Italia sono fiorite anche in Inghilterra, Germania, Francia. Raccolsi molti casi presi dai tabloid, che sono una buona fonte per la polemica su questa materia che eccita il senso populista della giustizia. Ma questo non mette in dubbio i benefici dell’intero sistema. Sarebbe come smantellare i tribunali a causa degli errori giudiziari.

Va ricordato, nel caso fosse sfuggito, che una delle ragioni della Brexit, una ragione molto sentita dalla gente comune, è stata quella di impedire agli europei (sovente gli europei dell’Est e del Sud) di beneficiare del welfare inglese.

David Cameron ottenne dall’Unione europea, per sostenere il Remain, di potere escludere dal Jobseeker Allowance i cittadini europei per un certo numero di anni. Non può sfuggire che non è un tema marginale. Un’altra cosa c’è da ricordare. Margaret Thatcher chiuse le famose miniere di carbone improduttive, non sospese il Jobseeker Allowance, e la polemica di sinistra era quella rappresentata da Ken Loach: il lavoro di stato era finito, interi quartieri vivevano con il Jobseeker Allowance. Naturalmente, il Jobseeker Allowance non è però per questo responsabile della disoccupazione.

Contro gli abusi sono state varate, negli altri Paesi, delle riforme che hanno reso il sistema più efficiente, e se ci fossimo resi conto, non solo del carattere europeo, ma del suo decennale processo di rodaggio, avremmo potuto trarne giovamento per la nostra riforma. La quale, invece, ha messo insieme tutto quello che non si dovrebbe mai fare: niente Job Centre, niente formazione, nessun controllo. Non si è fatto niente perché non fare niente è nella logica del sussidio contro la povertà.

Viste le premesse, poteva andare molto peggio. In realtà, infatti, in Italia è stato speso meno del previsto per il reddito di cittadinanza.

Mi sbilancio con una previsione. Da decenni l’Unione europea invita l’Italia a cambiare registro, e non (solo) per carità e buoni sentimenti, ma perché il welfare è anche uno strumento per allocare il lavoro dove serve.

Uno dei temi è forse anche quello degli aiuti occulti di stato, che facilita il welfare categoriale. Comunque sia, cito il testo della famosa lettera Draghi-Trichet dove si raccomandava all’Italia «un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi».

La virtù del welfare universalistico non sta solo nella maggiore efficacia rispetto alle politiche corporative, ma è anche un capitolo della limitazione liberale del potere. Beveridge era un liberale non per caso. L’universalismo impedisce che la politica abbia “contatto” con il bisogno che nasce dalla disoccupazione: altrimenti lo farà per cercare voti, consenso settoriale, per garantire rendite.

Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” l’8 novembre 2022.

Che il reddito di cittadinanza vada cambiato ormai lo dicono proprio tutti. Persino Maurizio Landini. Possibile? È così. E non si tratta di una modifica da poco, ma di una svolta radicale che potrebbe cambiare completamente il volto alla misura dei grillini. Sentite qua. Secondo il leader della Cgil «con il reddito di cittadinanza è emersa l'idea che devi accettare qualsiasi proposta di lavoro. Ma non è vero che ogni lavoro proposto è dignitoso e accettabile. Deve essere un lavoro che ha diritti e doveri». 

Altro che tagliare l'assegno dopo il primo rifiuto, come sta valutando il governo per stimolare i percettori a darsi da fare e ridurre un po' gli sprechi. Qui stiamo parlando di dare la possibilità al disoccupato che campa a spese dei contribuenti di scegliere il lavoro che più lo aggrada. Già, perché chi lo stabilisce se un lavoro è dignitoso o meno?

In teoria, quando il contratto e regolare e le leggi vengono rispettate, e i centri per l'impiego solo questi possono offrire, tutti lo sono. O forse ci vuole dire il leader della Cgil, sindacato che difende i lavoratori, che alcuni impieghi sono meno dignitosi di altri. Sarebbe una notizia clamorosa. Che non vogliamo però prendere in considerazione. L'alternativa, quindi, è che sia il percettore del reddito a decidere. Il che ha una piccolissima conseguenza: consentirebbe di motivare senza problemi qualsiasi rifiuto. E di continuare ad intascare il sussidio vita natural durante. All'infinito.

Ad un certo punto Landini, durante il suo intervento all'assemblea della Filt-Cgil Lombardia, mescola un po' le carte, mettendo nello stesso calderone il lavoro in nero, quello sottopagato e quello precario. Togliamo il primo perché, come si diceva, è evidente che un ufficio pubblico non può proporti un'attività illegale. Restano gli altri due, che indicano un impiego pagato poco e a termine. 

Quindi abbiamo un paio di indizi. Il lavoro dignitoso è il posto fisso con uno stipendio elevato. Ma dove sta scritto che chi campa coi soldi dei contribuenti senza avere impedimenti di sorta possa permettersi di scegliere l'attività da svolgere? Ammettiamo per un attimo che sia così. Il problema, dice Landini, al di là del dignitoso o meno, è che i beneficiari del sussidio non hanno ricevuto proprio offerta.

«Quante proposte di lavoro sono state fatte a chi ha il reddito di cittadinanza? Quanti hanno rifiutato il lavoro?», si è chiesto il sindacalista, aggiungendo che il tema di fondo «è creare il lavoro che non c'è». Una parte, quest' ultima, sacrosanta. Ma che consiglierebbe di abolire seduta stante il reddito di cittadinanza, visto che gli 8 miliardi spesi in buona misura per un esercito di fannulloni potrebbero tranquillamente essere dati alle imprese per creare migliaia di posti di lavoro. 

Ma l'errore di Landini sulle due domande poste è macroscopico. Nessuno, e questo è uno dei principali problemi che riguarda l'obolo grillino, sa con esattezza quante proposte abbiano ricevuto i percettori del reddito né quanti lavori abbiano rifiutato perché i dati non confluiscono dai centri per l'impiego alle Regioni e da queste all'Anpal. Qualcosa, però, si sa. E sono dati che rendono la sortita del leader della Cgil non tanto ridicola e fuori dal mondo, quanto completamente inutile.

Dei 920mila beneficiari indirizzati ai servizi per il lavoro, quelli ritenuti occupabili dopo la scrematura degli esoneri sono 660mila. Si tratta di persone che hanno tutti i requisiti per svolgere un'attività e non hanno familiari fragili di cui occuparsi. Ebbene, di questi 660mila volete sapere quanti si sono recati effettivamente ai centri per l'impiego, hanno sottoscritto il patto per il lavoro e sono stati presi in carico? Si tratta di 280mila persone, vale a dire il 42,5% degli occupabili.

Appare chiaro che la questione non è il lavoro dignitoso o il lavoro che non c'è. La realtà è che ci sono 380mila persone (il 57,5%), che incassano ogni mese l'assegno e neanche si sono sforzate di dare un segno della loro presenza, così, tanto per far finta di rispettare le procedure. Ma davvero vogliamo continuare a spendere i nostri soldi per mantenerli? Davvero Landini vuole andare nelle loro case a sentire quale lavoro ritengano abbastanza dignitoso da convincerli ad alzare il loro sedere dal divano?

Estratto dell'articolo di Valerio Valentini per “il Foglio” il 4 novembre 2022.

Viste le premesse, nessuno sa come andrà a finire il pastrocchio. E forse anche per questo, per dissipare l’incertezza o magari per sfruttarla, la toscana Alessandra Nardini ha convocato per lunedì un vertice della commissione, da lei presieduta, di tutti gli assessori regionali al Lavoro. 

All’ordine del giorno, la circolare inviata dal ministero del Lavoro il 28 ottobre, con cui si avviava la procedura per la proroga dei navigator fino a fine anno. Il tutto, malgrado poi la ministra Marina Calderone abbia smentito il suo stesso dicastero, specificando che “la proroga non è tecnicamente possibile”. E insomma sembra di essere su “Scherzi a parte”. (..)

Solo che, se da un lato le regioni fanno sapere che attendono chiarimenti da Roma, al ministero del Lavoro ribattono che loro le procedure per varare la proroga le hanno avviate solo dopo aver “considerato l’intendimento già reso noto” dalle regioni di Molise e Basilicata, oltre che “all’esito delle istanze pervenute dalle organizzazioni sindacali”. (...)

E tanta è stata la confusione, che quando si è diffusa la notizia del ripensamento, lunedì pomeriggio, nella chat degli assessori regionali al Lavoro di centrodestra, c’è stato chi s’è lamentato. “Qui il colore delle giunte c’entra poco”, ci dice Filomena Calenda, responsabile Lavoro nella giunta molisana del berlusconiano Donato Toma. 

“Da Roma non possono chiederci atti di fedeltà politica, perché qui la questione è oggettiva”. Semmai la divisione, più che ideologica, è geografica, se è vero che  le regioni ansiose di ottenere la proroga sono per lo più quelle del sud. Nella Calabria di Roberto Occhiuto, centrodestra, i 120 navigator in scadenza avevano già riconsegnato i loro tablet.

Fine corsa, sembrava. Sennonché, dopo la circolare del 28 ottobre, erano stati reintegrati. “A patto che sia il governo a prorogarli”, disse Occhiuto. Tre giorni dopo, di nuovo nel limbo. Il neo presidente siciliano Renato Schifani, ha già dato l’annuncio: “I nostri 280 navigator restano, avranno i contratti fino a fine anno”. E del resto, a Palazzo dei Normanni rivendicano la linearità della loro condotta: “Dopo la circolare del 28 ottobre, con cui ci si chiedeva di indicare il numero delle persone di cui volevamo avvalerci, lo abbiamo comunicato. Noi di quelle professionalità abbiamo bisogno”.

Prosegue la molisana Filomena Calenda, tra le promotrici dell’istanza: “Se c’è l’intenzione di fare a meno dei navigator, devono anzitutto dirci come intendono metterci nelle condizioni di potenziare le politiche attive, visto che da lì passa anche il raggiungimento di uno degli obiettivi del Pnrr”. Il Molise ne ha nove, al momento, di navigator. “E dal 31 ottobre restano surgelati”.   

Non sono i soli. In totale, sono circa 950. “E noi, come regioni, non possiamo certo prorogarli”, dice l’assessore lucano Alessandro Galella, esponente di FdI, ammettendo di essere rimasto “disorientato da indicazioni così contraddittorie, senza che dal ministero ci sia arrivato alcun chiarimento nel merito”. 

“Quel che è certo è che la Pubblica amministrazione non può assumere questo navigator dalla sera alla mattina”, ammette Alessia Rosolen, assessore nel Friuli leghista di Massimiliano Fedriga che di navigator “rimasti senza un destino” ne ha 12. “Né dal ministero possono pretendere che noi organizziamo un concorso ad hoc nel giro di qualche settimana. Lo trovo francamente un atto di analfabetismo istituzionale”. E sì che questi sono gli assessori di centrodestra.

Reddito di cittadinanza e “lagnusia”. Michele Gelardi r Redazione L'Identità il 2 Novembre 2022

La saggezza popolare siciliana ha saputo cogliere il nesso fondamentale, che sussiste sempre e in ogni caso, tra la pigrizia umana e l’inclinazione al lamento perpetuo. In dialetto siciliano una sola parola significa le due cose: il pigro viene chiamato “lagnusu”, per indicarne appunto l’attitudine alla lagna, coniugata con l’indolenza. Il prototipo moderno del “lagnusu” percepisce il reddito di cittadinanza e non vuole disfarsene; fa del lamento la sua ragione di vita, giacché deve pur giustificare al suo prossimo e a se stesso la rinuncia al lavoro e all’iniziativa privata; cerca mille pretesti per autoassolversi, vestendo i panni della vittima; dà la colpa alla società, che non gli offre le giuste opportunità, e al governo che non sa gestire la cosa pubblica; ritiene che il “sistema” sia corrotto e per ciò stesso ostile ai puri come lui. Non può cercare le ragioni giustificative della sua pigrizia in quelle dottrine politiche che esaltano la libertà umana e l’iniziativa privata; né cercare rifugio nella fede religiosa che lo pone innanzi alla responsabilità individuale, giacché si ritroverebbe immediatamente nel girone infernale degli ignavi; è attratto inevitabilmente dalle dottrine politiche che prefigurano il “mondo nuovo”. Trova nell’ideologia “perfettista”, che annuncia il futuro radioso dell’umanità, la sua agognata summa teorica, che consola le sue afflizioni e motiva l’inazione. Ovviamente i “perfettisti”, i quali si relazionano all’”uomo come dovrebbe essere”, piuttosto che all”’uomo com’è”, si guardano bene dall’indicare un traguardo più o meno immediato. Come minimo la meta dista 30 anni, giacché la loro agenda è tanto corposa da postulare il compimento nel 2050; ma potrebbe anche essere confinata in un domani indeterminato, chiamato “città del sole” o “sole dell’avvenire“ o “dittatura del proletariato” . Poco importa che il nunzio si chiami Campanella, Proudhon, Marx o perfino Grillo; che sia erudito o abile solamente a fare battute; ciò che veramente attrae il “lagnusu” e non può mancare in alcuna proposta politica, che annuncia la futura “perfezione”, è il sentimento del “gregge”. Le pecore, all’interno del gregge, perdono la loro individualità, sicché uno vale uno; inoltre il gregge non decide da sé la strada da percorrere, è guidato da un pastore, che sorveglia e tutela. Ebbene il “lagnusu” vuole sentirsi parte di un gregge proprio per queste ragioni: si consola, perché può rappresentarsi uguale agli altri; si appaga della tutela altrui, perché rinuncia all’iniziativa personale. Insomma il pigro, al contempo lagnoso, ha bisogno di un “elevato” per coltivare il sentimento del gregge e autoassolversi; e l’elevato di turno può identificarsi in una persona, ma anche in un partito; l’importante è che il programma politico dell’elevato giustifichi l’inazione, proiettando l’annunciata perfezione in un domani lontano. Ovviamente non tutti i percettori del reddito di cittadinanza sono pigri e lagnosi. Non mancano le persone volenterose, che cercano seriamente il lavoro e non si appagano della provvidenza di Stato. Ma indubbiamente il reddito di cittadinanza, nell’attuale configurazione, premia e incentiva la pigrizia, piuttosto che la ricerca di lavoro. Non può stupire dunque che il totem della “difesa” del reddito di cittadinanza, ossia l’intendimento di impedirne qualsivoglia riforma, abbia premiato la forza politica che, meglio e più delle altre, attrae i predisposti alla lagna, perché ne lusinga il loro sentimento del gregge, declinandolo in moralismo dei presunti puri, democrazia plebiscitaria, ispirata alla dottrina di Rousseau, “decrescita felice” e neoegualitarismo (dei poltronari da play station) dell’uno vale uno. 

660 mila persone che possono lavorare prendono il reddito di cittadinanza. Linda Di Benedetto su Panorama il 31 Ottobre 2022.

Il Governo Meloni prepara la stretta partendo da un dato: un terzo di chi oggi lo riceve può lavorare, ma non lo fa 660 mila persone che possono lavorare prendono il reddito di cittadinanza

In Italia circa la metà di chi prende il Reddito di cittadinanza potrebbe anzi, dovrebbe lavorare. Per questo motivo il governo Meloni ha deciso di rivedere la misura di contrasto alla povertà dei 5 stelle, limitando dove è necessario la platea dei beneficiari. Infatti la Premier da sempre contraria alla misura è stata chiara da subito e nel suo discorso in Parlamento per la fiducia ha ribadito con forza che il reddito per come è stato pensato: «ha rappresentato una sconfitta per chi era in grado di fare la sua parte per l’Italia».

Una stretta che secondo i dati dell’Anpal riguarderebbe 660.602 percettori del Reddito di Cittadinanza su circa 1.150.152 milioni di famiglie che ne usufruiscono. In questo milione di percettori sono stati individuati 919.916beneficiari indirizzati per il lavoro ma secondo la nota dell’Anpal del 30 giugno 2022 solamente 173mila, ossia uno su cinque pari al 18,8% ha trovato una occupazione. Dati da cui va escluso chi non ha obblighi lavorativi e sono 66.770 soggetti (anziani, disabili e minori), insieme ad altri 19.676 soggetti che sono stati rinviati ai servizi sociali e 172.868 percettori che risultavano già occupati con redditi di basso livello tanto da avere diritto al sussidio. Tutti i potenzialmente occupabili (660.602) hanno comunque ricevuto il Patto per il lavoro dai centri per l’impiego previsto dalla legge per continuare a percepire ancora il reddito. Ma nonostante le premesse a preoccupare è che la maggior parte dei percettori che potrebbero lavorare sono individui che hanno un’età, un livello di istruzione ed una esperienza lavorativa che rende difficile il loro ingresso nel mondo del lavoro, come più volte denunciato dai navigator. Risulta infatti che questa platea di oltre mezzo milione di individui il 73% è lontano dal mercato del lavoro da oltre tre anni, il 36% di chi ha trovato un impiego ha avuto una durata di meno tre mesi, il 78,8% ha un basso livello di istruzione con solamente la licenza media come titolo di studio, il 57% sono donne, il 48% hai più di 40 anni e il 10% è straniero. In più un altro dato significativo è che il 75% di queste persone risiede nelle isole o al sud come Campania e Sicilia. Entrambe le regioni hanno la maggiore percentuale di beneficiari, con valori rispettivamente del 25,6% e del 21,6%. Nell’insieme assommano dunque il 47,2% del totale di chi fa ricorso alla misura. Tutte le restanti aree regionali invece esprimono valori al di sotto del 10%. Alla luce di questi dati sul Reddito di Cittadinanza Matteo Salvini leader della Lega ha proposto di sospendere per sei mesi la misura per finanziare quota 102 che farebbe risparmiare 1 miliardo di euro allo Stato, cifra che permetterebbe il finanziamento di un meccanismo di uscita anticipata dal lavoro a 61 anni, con 41 anni di contributi. La sospensione secondo la proposta di Salvini, vedrebbe coinvolti 900.000 percettori del Reddito di cittadinanza, cioè coloro che sono stati definiti in condizione di lavorare.

Martina Franca, un immigrato con sette mogli dichiara di prendere otto Rdc. Affari Italiani Venerdì, 30 settembre 2022. Oltre ai sette redditi di cittadinanza che prende dalle mogli, il marocchino percepisce anche il suo e i vari bonus.

Martina Franca, un uomo di nazionalità marocchina si vanta di percepire otto redditi di cittadinanza

In un bar della cittadina pugliese di Martina Franca, un uomo di nazionalità marocchina è entrato e si è vantato di percepire ben otto redditi di cittadinanza. Essendo musulmano, egli ha spiegato che è sposato con sette mogli e ognuna ha comunicato un domicilio diverso per percepire il sussidio. Quindi, ogni mese oltre ai vari bonus, sul suo conto corrente finiscono circa seimila euro.

La vicenda è emersa durante la trasmissione "Ti posso offrire un caffè", in onda su Puglia Press e condotta dal direttore Antonio Rubino. 

Gioca d'azzardo 300mila euro ma percepisce il reddito di cittadinanza: giudice la assolve. Il caso ad Avellino: la donna percepiva il reddito di cittadinanza ma, allo stesso tempo, aveva l'abitudine di scommettere e giocare online. Il giudice la assolve: "Il reddito è cosa diversa dal gioco". Federico Garau il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Percepisce il reddito di cittadinanza ma, nel frattempo, spende cifre considerevoli nel gioco d'azzardo: il caso ad Avellino, dove la questione è stata portata dinanzi al giudice, il quale ha incredibilmente deciso di assolvere la donna.

I fatti risalgono allo scorso 2019. L'imputata, una donna di 37 anni, aveva fatto domanda e ottenuto il reddito di cittadinanza grillino, ma al contempo impiegava le sue giornate dedicandosi parecchio al gioco. Stando all'accusa, infatti, nello stesso anno della percezione del sussidio dello Stato, il 2019, la 37enne era riuscita a movimentare con carte prepagate l'astronomica somma di 300mila euro. Una cifra enorme, divisa in vincite e perdite ai giochi online e ai centri scommesse.

Da mesi latitante, viene preso mentre ritira il reddito di cittadinanza

Qualcosa di incredibile se si pensa al reale impiego del reddito di cittadinanza, messo a punto, almeno nella teoria, per sostenere i cittadini in difficoltà economica e in cerca di lavoro. La 37enne, a quanto pare, spendeva parecchio nel gioco, un'abitudine che poco si concilia con la natura del reddito.

Il denaro vinto, riferisce Ansa, è stato puntualmente rigiocato e perso. Nel frattempo, dall'anno 2019, la 37enne aveva intascato 12.600 di reddito dall'Inps. Il caso è quindi finito in tribunale, col giudice di Avellino che ha stupito tutti affermando che il fatto non sussiste in quanto "il reddito è cosa diversa dal gioco".

Secondo l'avvocato Danilo Iacobacci, legale che rappresenta la donna, le vincite provenienti dal gioco non possono essere considerate reddito, e i giudici del foro di Avellino Sonia Matarazzo, Pierpaolo Calabrese e Michela Eligiato gli hanno dato ragione. La 37enne è stata pertanto assolta dal reato di acquisizione fraudolenta di erogazioni pubbliche, proprio perché il reato, nel suo caso, non sussiste.

Non è tutto finito. L'Inps, in ogni caso, chiede infatti la restituzione della cifra elargita. Sul caso dovranno nuovamente esprimersi i giudici. La donna, a quanto pare, ha già presentato opposizione tramite il suo avvocato difensore in sede civile Fabiola De Stefano.

Reddito di cittadinanza, truffa da 190 mila euro: 36 denunciati in uno stabile occupato a Tor Cervara. Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2022

Gli indagati, tutti stranieri e residenti all’anagrafe in un palazzo abbandonato di Tor Cervara, a Roma, non avevano il requisito della residenza in Italia da oltre dieci anni

Truffa da più di 190 mila euro allo Stato per il reddito di cittadinanza percepito indebitamente da 36 persone. E adesso è scattata la denuncia per i «furbetti», tutti stranieri e residenti all’anagrafe nello stesso stabile di Tor Cervara, in stato di abbandono. A querelarli, sono stati i carabinieri del nucleo operativo della compagnia Roma centro, con la collaborazione dei militari del Nucleo ispettorato del lavoro.

Dalle indagini avviate con il controllo di una persona domiciliata nello stabile, i militari hanno accertato che nel periodo compreso tra il 2020 e il 2022, la totalità delle persone denunciate non era in possesso del requisito della residenza in Italia da almeno dieci anni. La stessa motivazione che ha fatto scattare la denuncia per undici persone nella provincia di Latina e ventidue nella provincia di Viterbo.

Secondo gli ultimi dati, in totale, in Italia, il reddito di cittadinanza ha subito frodi per 288 milioni che hanno comportato la denuncia di 29mila persone su oltre un milione di percettori.

La truffa di 36 stranieri in uno stabile abbandonato a Roma : sottratti 190mila euro grazie al Reddito di cittadinanza, senza averne diritto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2022

Indagine dei Carabinieri: i soldi percepiti tra il 2020 e il 2022

Scoperta un’altra truffa ai danni dello Stato grazie al Reddito di cittadinanza tanto caro al Movimento 5 Stelle. Trentasei persone, tecnicamente residenti in uno stabile abbandonato a Tor Cervara di Roma, sono state denunciate dai Carabinieri per indebita percezione del reddito.

I denunciati, tutti stranieri e di varie nazionalità, hanno percepito l’emolumento tra il 2020 e il 2022 senza averne diritto, perché non erano effettivamente residenti in Italia da almeno dieci anni: termine imposto dalla normativa quale requisito per l’accesso alla previdenza sociale. 

Secondo quanto accertato dai Carabinieri del nucleo operativo della Compagnia Roma Centro e quelli del NIL, il Nucleo Ispettorato del Lavoro, l’importo complessivo erogato indebitamente ammonta in totale a 190.148 euro. Lo stabile di riferimento è un ex centro di accoglienza in disuso in via Armellini. Redazione CdG 1947 

Napoli, prosegue l’indagine dei Carabinieri sul reddito di cittadinanza. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2022 

Il portafogli si ingrossa ancora, quello nelle tasche dei 662 furbetti del reddito di cittadinanza scovati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Napoli nel periodo che va da aprile a ottobre di quest’anno. Tutti hanno ricevuto denaro dallo Stato senza averne titolo. Per 287 di loro si ipotizza anche la truffa. Nessun commento o plauso politico del M5S di Giuseppe Conte

Primi giorni di ottobre, si chiude il cerchio sul terzo capitolo dell’inchiesta sul reddito di cittadinanza. I carabinieri napoletani, con la preziosa collaborazione del nucleo ispettorato del lavoro e dell’Inps,  hanno continuato ad approfondire i controlli sul beneficio intascato indebitamente da chi la soglia della povertà non l’ha mai varcata. Da chi vive in una sorta di limbo sommerso dove il lavoro nero, la delinquenza e l’arte di arrangiarsi (soprattutto a scapito degli altri) sono le uniche leggi riconosciute.

Controlli a tutela di quelle persone che del denaro garantito dal reddito di cittadinanza ne farebbero una fonte (lecita) di sostentamento.  Un beneficio che garantirebbe un pizzico di serenità ai veri bisognosi, quelli che con quel ritegno d’altri tempi neanche lo richiederebbero. Si riafferma, dunque, un ciclo simbolicamente durato un anno e 6 mesi, durante il quale i militari hanno scoperchiato una voragine nel bilancio statale che ha assorbito, moneta su moneta, 14 milioni 648 mila e 248 euro e 6 centesimi.

Una cifra spaventosa che in lettere fornisce una dimensione ancora più chiara di un fenomeno ancora ampiamente diffuso su tutto il territorio nazionale. Nessun commento o plauso politico del M5S di Giuseppe Conte sull’operazione di legalità svolta dall’ Arma dei Carabinieri. Ormai i grillini hanno portato a casa i voti… 

Quasi 15 milioni di euro sottratti indebitamente da migliaia di persone a cui non manca di certo la pagnotta e che, nonostante tutto, hanno richiesto aiuto al governo. 14.648.248,6 euro che tradotti su base giornaliera (con riferimento ad un periodo di un anno e 6 mesi circa, da giugno 2021 al 6 ottobre 2022: 553 giorni) significano 26.488,69 euro “regalati” ogni 24 ore a chi non ne aveva diritto, 1.103,69 euro l’ora.

Con la terza tornata di controlli, la somma rilevata è di 2.962.551,06 euro. Il campione in vitro è come sempre Napoli con la sua intera provincia, isole comprese. E ancora una volta si è proceduto analizzando il territorio in tre macro-aree: Napoli (con Pozzuoli, Monteruscello, Quarto, Monte di Procida, Bacoli, Ischia, Procida, ndr), comuni della provincia a Nord (area giuglianese compreso litorale, Castello di Cisterna e area a nord del Vesuvio, area maranese, Casoria e comuni limitrofi e area nolana) e sud (vesuviano lungo la costa, area di Torre Annunziata, Torre del Greco, Volla, Ercolano, Cercola, penisola sorrentina, Castellammare di Stabia e Capri).

Ma andiamo nello specifico, individuando quelle aree dove si è registrata una maggiore concentrazione di domande irregolari. Partiamo da Napoli, dove i Carabinieri hanno rilevato il picco di irregolarità tra le municipalità 3, 4 e 6. Per intenderci siamo nei quartieri Stella, San Carlo Arena, San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale, Zona Industriale, Barra, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli. 

I conti parlano di 731.973,68 euro intascati senza titolo: il 24.71% del dato provinciale riassunto in 9 quartieri. E oltre la metà (66,7%) dei numeri napoletani che parla di complessivi 1.097.391,52 euro sottratti alle casse statali. Non solo cifre, anche storie. Uno dei percettori risulta essere il 57enne del centro di Napoli, recentemente arrestato sull’isola d’Ischia per truffa ai danni di un’anziana. Il solito trucchetto del finto nipote costato all’uomo le manette. Da accertamenti dei militari intervenuti è emerso che nel novero dei percettori fosse registrato anche il suo nome.

Sussidio statale nelle tasche anche di 3 parcheggiatori abusivi denunciati tra le strade del quartiere Vomero. Non è chiaro quale delle entrate servisse per arrotondare il bilancio familiare, quella del Rdc o quella delle “offerte a piacere” degli automobilisti disperatamente alla ricerca di un parcheggio. Anche un 34enne, raggiunto da un provvedimento dell’Autorità giudiziaria per una rapina commessa in un market in Via Cilea, ne è risultato beneficiario.

A beneficiare indebitamente dei soldi dello stato anche due persone arrestate lo scorso 22 settembre  durante operazione dei Carabinieri di Scampia. I due sono gravemente indiziati di aver costretto un 27enne e la madre anziana a lasciare l’abitazione popolare dove vivevano legittimamente. 

Lasciamo il capoluogo per spostarci nell’area a nord di Napoli.

1.461.878,27 euro il conto sulla scrivania dei militari. Una cifra che spacchettata fa retrocedere l’area maranese (Marano, Villaricca, Melito, Mugnano e Calvizzano) di 2 posizioni: il conto finale è di 253.166,9 euro concentrati nei portafogli dei percettori illeciti individuati in questi 5 comuni. A guadagnare il posto più alto del podio Acerra con 707.787,49 euro di benefici illeciti, medaglia d’argento per Pomigliano con un buco di 316.336,30 euro. Seguono a ruota i dati di Giugliano in Campania (96.828,19 euro) e Arzano, con 55mila euro tondi.

Quest’ultima somma è stata convogliata nelle tasche di soli 11 soggetti, recentemente coinvolti in un indagine che ha inferto un duro colpo al clan della 167 di Arzano. Tra questi anche il padre di un esponente di spicco della consorteria criminale che in occasione della compilazione dell’autocertificazione ha omesso di indicare nel nucleo familiare uno dei componenti sottoposto a misura cautelare.

Una delle persone arrestate lo scorso 23 settembre nell’ambito di un operazione dei Carabinieri di Giugliano avrebbe ricevuto indebitamente circa 23mila euro dallo Stato. L’uomo è gravemente indiziato di estorsione e turbata libertà degli incanti, per aver interferito nell’aggiudicazione all’asta di un immobile sito a Casaluce.

Nel comune di Calvizzano, invece, i militari hanno denunciato 20 extracomunitari perché avrebbero richiesto il reddito di cittadinanza nonostante non avessero maturato i 10 anni di permanenza nel territorio italiano. Il danno causato al bilancio ammonta a circa 70mila euro.

Il terzo tassello arriva dall’area a sud di Napoli. A conti fatti la somma che è finita in mani sbagliate è di 403.281,27 euro. A dirigere questa “black list” i furbetti di Torre del Greco che hanno incassato 81.533 euro e quelli di San Giuseppe Vesuviano, con 71.502 euro.

Tra le persone che hanno beneficiato di denaro senza imperlarsi la fronte di sudore una donna del ’64, di Cercola, recentemente raggiunta da un ordine di carcerazione. La donna è stata tradotta al carcere di Santa Maria Capua Vetere e sconterà 3 anni, 7 mesi e 16 giorni di reclusione per usura, rapina ed estorsione, reati aggravati dal metodo mafioso. Estorsione il reato ipotizzato anche per 2 persone destinatarie di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Dda partenopea, eseguita dai Carabinieri del nucleo investigativo di torre annunziata,  per corruzione elettorale in concorso.

I controlli dell’ Arma dei Carabinieri continueranno anche nei prossimi mesi.

Bilancio da Giugno 2021 al 6 Ottobre 2022:

Totale euro 14.648.248,6 euro;

Totale percettori illeciti 4.307;

Totale persone denunciate 1.556.

Prima inchiesta

5.127.765,71 euro giugno/novembre 2021 – 2441 le persone alle quali è stato revocato il beneficio su tutto il territorio della provincia partenopea, 716 denunciati per truffa ai danni dello Stato

Seconda inchiesta

6.557.931,86 di euro novembre 2021/ aprile 2022 – 1204 percettori illeciti

651 posizioni irregolari, 553 persone denunciate per truffa ai danni dello Stato.

Terza inchiesta

2.962.551,06 euro Aprile/Ottobre 2022 – 662 percettori illeciti – 375 irregolarità, 287 dpl

Questi i dati più recenti delle indagini dei Carabinieri svolte fra agosto ed ottobre 2022 nei quali sono state scovate persone con beneficio percepito indebitamente :

sabato 1 ottobre 2022

Giugliano in Campania, località Varcaturo: lavoro sommerso, controlli dei Carabinieri. In un pub 3 lavoratori “in nero”, 1 col reddito di cittadinanza I carabinieri della stazione di Varcaturo, insieme a quelli del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Napoli hanno svolto controlli in alcune attività commerciali della zona. Attenzione concentrata principalmente su pub e pizzerie. Due le pizzerie nelle quali non sono state rilevate irregolarità. In un pub in via Ripuaria, invece, i militari hanno rilevato e identificato 3 impiegati in nero. Uno di loro percettore indebito del reddito di cittadinanza. Il titolare è stato denunciato e multato per quasi 23mila euro. L’attività è stata sospesa.

sabato 24 settembre 2022

Giugliano e Qualiano: Controlli dei carabinieri in tutela dei lavoratori e dei consumatori. Operazione a largo raggio per i Carabinieri della compagnia di Giugliano che nella grande città a nord di Napoli e a Qualiano hanno effettuato un servizio volto al controllo delle attività commerciali, delle aziende e dei cantieri presenti sul territorio. Obiettivi la tutela del lavoratore e del consumatore. 

A Giugliano in Campania i Carabinieri della locale stazione insieme a quelli del Nil di Napoli hanno sospeso le attività in un cantiere edile di via Assisi. I militari hanno controllato i 5 lavoratori presenti e di questi 4 erano in nero. 2 dei 4 percepivano anche il reddito di cittadinanza. Per l’imprenditore una denuncia a piede libero e sanzioni civili e penali per un importo complessivo di 37.500 euro.

venerdì 23 settembre 2022

Controlli dei carabinieri a Grumo Nevano per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Un servizio a largo raggio effettuato a Grumo Nevano dai carabinieri della compagnia di Caivano insieme ai militari del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Napoli. Diverse le aziende controllate e durante le operazioni i militari hanno trovato in un’azienda che si occupa di abbigliamento all’ingrosso 5 lavoratori in nero sui 5 presenti. Dei 5 erano in 3 a percepire anche il reddito di cittadinanza. L’azienda è stata sequestrata e l’imprenditore sanzionato per più di 40mila euro.

Controllata anche un’azienda di Casandrino impegnata nel settore dell’intrattenimento. Contestati illeciti penali e amministrativi in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. Trovato anche un lavoratore in nero. L’attività è stata sospesa e sanzione salata per il proprietario dell’azienda, ben 94mila euro.

sabato 17 settembre 2022

C’è di tutto nei controlli dei Carabinieri al Vomero a Napoli. Dal reddito di cittadinanza alla droga, dai coltelli ai parcheggiatori abusivi. Ha 53 anni la donna denunciata per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche dai Carabinieri della compagnia Vomero per truffa. Ha richiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza nonostante in famiglia il marito fosse impiegato in una società di delivery. Oltre 16mila euro il conto dei danni allo Stato.

venerdì 16 settembre 2022

I Carabinieri hanno arrestano un latitante per omicidio durante la “Prima Faida di Scampia”.  Arrestato un 67enne affiliato al clan Amato/Pagano, che aveva anche il reddito di cittadinanza. I carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Napoli hanno arrestato Antonio Pezzella, 67enne di Casavatore ritenuto affiliato al clan Amato/Pagano e latitante dallo scorso gennaio. Pezzella si sottrasse ad un ordine di custodia cautelare in carcere emesso dalla corte di assise d’appello di Napoli ed è ritenuto gravemente indiziato dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere di Gaetano De Pascale. La vittima, cugino di Paolo diLauro, fu uccisa nel novembre del 2004 durante quella che viene convenzionalmente definita la “Prima faida di Scampia”. Il 67enne è stato individuato in un’abitazione di Casavatore al termine di un’articolata e complessa attività di indagine e di un costante monitoraggio del web e dei flussi bancari. E’ risultato anche percettore del reddito di cittadinanza. E’ stato tradotto al carcere di Secondigliano.

giovedì 1 settembre 2022

Portici e San Sebastiano: Carabinieri arrestano tre persone. Due blitz anti-droga per i Carabinieri della compagnia di Torre del Greco e 3 persone arrestate. Una coppia con il reddito e un pusher colto alla sprovvista Il primo episodio avviene a Portici e a finire in manette è Pasquale Lucarella, 47enne del posto già noto alle forze dell’ordine. I militari della locale stazione lo hanno notato e bloccato mentre cedeva una dose di cocaina a un “cliente” all’incrocio tra via Palizzi e Piazzale Brunelleschi. Arrestato, è in attesa di giudizio. Gli altri due arresti sono avvenuti a San Sebastiano al Vesuvio. I carabinieri hanno fatto visita all’abitazione della 34enne Anna Salomone e di Salvatore Ricciardi, 40enne. I due conviventi  sono del posto e già noti alle forze dell’ordine. Durante la perquisizione i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato una pianta di marijuana alta circa 3 metri. Un “albero dell’illecito” irrigato grazie ad un allaccio abusivo della rete elettrica. I due, infatti, non solo risponderanno di coltivazione di sostanze stupefacenti ma anche di furto di energia elettrica. La pianta era in coltivazione e alimentata con un sistema automatico collegato al contatore che segnava solo il 30% dei consumi reali. La coppia è in attesa di giudizio ed è stata segnalata anche all’Inps per i provvedimenti del caso: i Carabinieri hanno infatti accertato che i due percepivano il reddito di cittadinanza.

sabato 20 agosto 2022

Accertato lavoro sommerso a Giugliano in Campania:. In un locale 11 impiegati in nero su 19, 4 dei quali con reddito di cittadinanza. Controlli dei Carabinieri in 3 attività di ristorazione Tutela del lavoro e sicurezza al centro dei controlli dei carabinieri in alcuni locali di Giugliano in Campania. Lavoro in nero anche per una pizzeria in zona Lago Patria. Dei 19 lavoratori impiegati ben 11 erano “sommersi”. 4 di questi, hanno scoperto i militari, ricevono mensilmente anche il reddito di cittadinanza. E’ stata richiesta la revoca del beneficio. Denunciati i titolari delle 3 società digestione, sospese le attività di ristorazione.

sabato 20 agosto 2022

A Torre del Greco un 47enne arrestato dai Carabinieri. Quando i militari della sezione operativa di Torre del Greco lo hanno sorpreso con la droga non ha perso tempo a far valere le sue ragioni. Nel marzo scorso, gli stessi militari gli avevano fatto revocare il beneficio del reddito di cittadinanza perché pregiudicato e, ora che quel denaro non era più garantito, doveva pur trovare una nuova fonte di sostentamento. E così la scelta del 47enne di torre del greco è caduta sugli stupefacenti. Durante una perquisizione nella sua abitazione i carabinieri hanno rinvenuto 58 grammi di hashish, un bilancino di precisione e materiale per il confezionamento delle dosi. L’uomo è stato arrestato per detenzione di droga a fini di spaccio. L’arresto è stato convalidato e gli è stata applicata la misura dell’obbligo di presentazione alla pg.

martedì 16 agosto 2022

NAPOLI, BAGNOLI E AGNANO: lavoro nero e percettori illeciti di reddito di cittadinanza. Controlli dei Carabinieri in una pizzeria e in un ristorante Carabinieri della stazione di Bagnoli e quelli del nucleo ispettorato del lavoro di Napoli hanno svolto controlli in due note attività di ristorazione. La prima è nel quartiere Agnano ed è un ristorante. Dei 9 impiegati controllati 2 erano “in nero” e sono risultati anche percettori del reddito di cittadinanza. In una nota pizzeria di Bagnoli, invece, i Carabinieri hanno rilevato 4 lavoratori irregolari e 1 percettore di reddito di cittadinanza sui 16 impiegati. Contestate violazioni penali per importi che vanno oltre i 22mila euro e amministrative per complessivi 28760 euro. Redazione CdG 1947

Le indagini dei carabinieri. Reddito di cittadinanza, scovate a Napoli 662 persone senza diritto: 15 milioni nelle tasche sbagliate. Vito Califano su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

I carabinieri di Napoli hanno individuato e denunciato 662 percettori indebiti del reddito di cittadinanza a Napoli, nel periodo da aprile a ottobre del 2022. L’inchiesta dell’Arma sul sussidio ha accertato che in anno e mezzo hanno sottratto quasi 15 milioni di euro dalle casse dello Stato, una media di 1.100 euro all’ora. Soltanto nell’ultima retata i percettori avevano preso somme pari a quasi 3 milioni. Per 287 persone di ipotizza anche la truffa. I carabinieri hanno trovato le maggiori irregolarità tra le municipalità 3, 4 e 6. Ovvero nei quartieri Stella, San Carlo Arena, San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale, Zona Industriale, Barra, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli.

I carabinieri, nella nota del Comando Provinciale di Napoli, facendo sapere dell’operazione annunciano che i controlli continueranno anche nei prossimi mesi. Si legge così nell’ordinanza:

Primi giorni di ottobre, si chiude il cerchio sul terzo capitolo dell’inchiesta sul reddito di cittadinanza. I carabinieri napoletani, con la preziosa collaborazione del nucleo ispettorato del lavoro e dell’Inps, hanno continuato ad approfondire i controlli sul beneficio intascato indebitamente da chi la soglia della povertà non l’ha mai varcata. Da chi vive in una sorta di limbo sommerso dove il lavoro nero, la delinquenza e l’arte di arrangiarsi (soprattutto a scapito degli altri) sono le uniche leggi riconosciute.

Controlli a tutela di quelle persone che del denaro garantito dal reddito di cittadinanza ne farebbero una fonte (lecita) di sostentamento. Un beneficio che garantirebbe un pizzico di serenità ai veri bisognosi, quelli che con quel ritegno d’altri tempi neanche lo richiederebbero. Si riafferma, dunque, un ciclo simbolicamente durato un anno e 6 mesi, durante il quale i militari hanno scoperchiato una voragine nel bilancio statale che ha assorbito, moneta su moneta, quattordici milioni seicentoquarantotto mila e duecentoquarantotto euro e sei centesimi. Una cifra spaventosa che in lettere fornisce una dimensione ancora più chiara di un fenomeno ancora diffuso.

Quasi 15 milioni di euro sottratti indebitamente da migliaia di persone a cui non manca di certo la pagnotta e che, nonostante tutto, hanno richiesto aiuto al governo. 14.648.248,6 euro che tradotti su base giornaliera (con riferimento ad un periodo di un anno e 6 mesi circa, da giugno 2021 al 6 ottobre 2022: 553 giorni) significano 26.488,69 euro “regalati” ogni 24 ore a chi non ne aveva diritto, 1.103,69 euro l’ora.

Con la terza tornata di controlli, la somma rilevata è di 2.962.551,06 euro. Il campione in vitro è come sempre Napoli con la sua intera provincia, isole comprese. E ancora una volta si è proceduto analizzando il territorio in tre macro-aree: Napoli (con Pozzuoli, Monteruscello, Quarto, Monte di Procida, Bacoli, Ischia, Procida, ndr), comuni della provincia a Nord (area giuglianese compreso litorale, Castello di Cisterna e area a nord del Vesuvio, area maranese, Casoria e comuni limitrofi e area nolana) e sud (vesuviano lungo la costa, area di Torre Annunziata, Torre del Greco, Volla, Ercolano, Cercola, penisola sorrentina, Castellammare di Stabia e Capri).

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Messaggi da Bruxelles. Il commissario Schmit spiega come migliorare il reddito di cittadinanza (senza abolirlo). Linkiesta il 29 Settembre 2022

Mentre nella prima settimana post-elettorale già si parla dell’abolizione del sussidio bandiera del Movimento Cinque Stelle, dall’Europa arriva una indicazione chiara a chi vorrebbe eliminarlo: «Se viene abolito poi che si fa con chi non ha alcun reddito? Li mandiamo tutti in parrocchia?» 

Il reddito di cittadinanza non va abolito, però va applicato meglio, in tutte le zone d’Italia, per garantire un adeguato reinserimento nel mondo del lavoro dei beneficiari. Mentre nella prima settimana post-elettorale già si parla della possibile abolizione del sussidio bandiera del Movimento Cinque Stelle, dall’Europa arriva un messaggio chiaro a chi vorrebbe eliminarlo. «Se viene abolito poi che si fa con chi non ha alcun reddito? Li mandiamo tutti in parrocchia?», si chiede Nicolas Schmit, commissario europeo al Lavoro, in un’intervista alla Stampa.

Ieri il lussemburghese ha presentato una raccomandazione che invita gli Stati a modernizzare i propri regimi di reddito minimo secondo una serie di criteri in modo da combattere la povertà e favorire l’inclusione sociale. Oggi più di un quinto dei cittadini Ue è a rischio di povertà e di esclusione sociale. Ovviamente, precisa Schmit, «non stiamo parlando di un reddito universale incondizionato perché lo strumento che ci serve è molto diverso. Deve far parte di una più generale politica di inclusione sociale, per aiutare le persone a tornare nel mercato del lavoro».

Ed è proprio questo il problema del reddito di cittadinanza italiano. «Io credo che il reddito di cittadinanza corrisponda più o meno allo schema che proponiamo noi perché prevede l’integrazione nel mercato del lavoro», spiega il commissario. «Dopodiché ci sono anche quelli che pensano che il reddito universale incondizionato sia la soluzione. Dare una somma ai cittadini e dire: “Fatene ciò che volete”, a prescindere dal fatto che lavorino o meno. Ci sono stati esperimenti simili in Canada e in Finlandia, ma queste esperienze sono state interrotte perché non hanno portato risultati. Io sono assolutamente contrario. Ciò che proponiamo noi è diverso. Il reddito minimo deve esser parte di politiche sociali attive più ampie. Può funzionare solo se ti prendi cura delle persone. Bisogna dare loro un reddito minimo per avere una vita decente, ma bisogna mettere in campo gli strumenti giusti per accompagnarle».

L’Italia quindi non dovrebbe abolirlo, «ma ciò che è importante è che sia legato a politiche di accompagnamento e di inclusione nel mercato del lavoro». Nello schema del reddito, in teoria, tutto questo è previsto. Il problema è che non è applicato, ammette il commissario. «La vera questione è la seguente: è applicato correttamente? Io non posso dire che a Milano sia applicato correttamente e a Lecce invece no… Questo non lo so. Ma è chiaro che si tratta di un elemento importante. Dopodiché devo anche dire che se non c’è lavoro non puoi certo integrare la gente nel mercato occupazionale… Per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro bisogna creare i posti di lavoro, altrimenti non può esserci integrazione».

Schmidt parla anche di aprire alla possibilità di cumulare il reddito con una retribuzione iniziale, per evitare distorsioni. «Se uno inizia a lavorare, anche per un periodo limitato, e questo gli fa perdere il suo reddito minimo, a un certo punto si interroga: perché devo andare a lavorare? Credo che serva un approccio molto più flessibile: lo stipendio deve poter essere cumulato, almeno per un certo periodo. Questo sarebbe un incentivo ad accettare un lavoro e probabilmente a mantenerlo».

E magari anche un disincentivo al lavoro nero, «perché diversamente molti percettori del reddito accettano di lavorare solo a patto di farlo in nero per non perderlo. Così però perdiamo tutti: lo Stato, che non incassa i contributi e anche il datore di lavoro perché non può dichiarare lo stipendio come un costo del lavoro».

Centinaia di milioni truffati con il Reddito di cittadinanza che tanto piace a certi elettori. In pochi anni e senza troppa fatica scoperti truffatori del famoso reddito per un totale di oltre 300 milioni di euro sottratti alle casse dello Stato e che non torneranno più indietro.

Linda Di Benedetto il 23/09/22 su Panorama. Il Reddito di cittadinanza, bandiera del Movimento 5 Stelle presentato come una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, si è rivelato uno strumento per truffare lo Stato senza grosse difficoltà. Infatti centinaia di milioni di euro sono stati percepiti da chi non ne aveva diritto (con molta probabilità non verranno mai restituiti) e fanno parte dei 20 miliardi spesi fino ad oggi per sostenere la misura. Proprio così il Reddito di cittadinanza ha prodotto truffe ai danni dello Stato per quasi 300 milioni di euro. Dati resi noti nel rapporto annuale presentato a giugno dalla Guardia di Finanza e svolti in collaborazione con l’INPS che riguardano gli ultimi di 17 mesi (da gennaio 2021 a maggio 2022).

Nel dettaglio sono stati scoperti illeciti per 288 milioni, di cui 171 milioni indebitamente percepiti e 117 milioni fraudolentemente richiesti e non ancora riscossi e sono state denunciate oltre 29.000 persone. Denaro che avrebbe potuto essere di aiuto a chi ne aveva veramente bisogno invece è finito nelle mani di detenuti, trafficanti di schiavi, persone legate alla malavita organizzata e soggetti benestanti. Una frode colossale senza precedenti e che vede impegnati ogni giorno i militari della Guardia di Finanza e non solo, in controlli a tappeto in tutto il Paese. Negli ultimi tre mesi da nord a sud sono state scoperte altre truffe. A Torino addirittura è stato messo in piedi un sistema per far percepire indebitamente il reddito di cittadinanza a cittadini stranieri, che dichiaravano di risiedere nel capoluogo piemontese e invece continuano a vivere all'estero. Una truffa da oltre 1.400.000 euro quella scoperta dalle fiamme gialle ad agosto e che ha portato a cinque misure cautelari. Le indagini coordinate dalla Procura di Torino hanno consentito di individuare la dipendente dell'Istituto di Patronato ente nazionale assistenza sociale ai cittadini/Caf Unione nazionale sindacale imprenditori e coltivatori, che avrebbe inoltrato numerose richieste al portale Inps, finalizzate a consentire l'indebita erogazione del reddito. ù Nella capitale i carabinieri della Compagnia Roma Piazza Dante, al termine di una campagna di controlli svolti tra giugno e agosto 2022, hanno denunciato per truffa ai danni dello Stato e indebita percezione di erogazioni pubbliche 111 soggetti appartenenti a 57 nuclei familiari diversi, privi dei requisiti per la corretta corresponsione del reddito di cittadinanza, causando un danno all’Erario stimato in circa 250mila euro. In provincia di Roma invece i Carabinieri della Compagnia di Castel Gandolfo, al termine di una campagna di controlli condotti tra Gennaio ed Agosto 2022, hanno denunciato per truffa ai danni dello Stato ed indebita percezione di erogazioni pubbliche, 26 cittadini di cui 17 di nazionalità straniera e 9 con precedenti, privi dei requisiti per la corretta corresponsione del reddito di cittadinanza, cagionando un danno all’Erario stimato in circa 250.000 euro. A Napoli nel mese di luglio due soggetti con la tessera del reddito di cittadinanza, fingevano di comprare carne, invece ottenevano denaro contante in cambio di una trattenuta oscillante tra il 10 e il 20 per cento da parte dei titolari, padre e due figli. Sequestrata la macelleria e 92.000 euro in contanti, cambiali e assegni. Sempre nel napoletano la Guardia di Finanza ha scoperto una maxi truffa da 500mila euro. I militari delle Fiamme Gialle del Comando Provinciale partenopeo, nei Comuni di Boscoreale, Torre del Greco, Vico Equense e Poggiomarino, hanno eseguito un provvedimento di sequestro preventivo di beni per oltre mezzo milione di euro nei confronti di 43 persone, indiziati del reato di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, relativo all'indebita percezione del Reddito di Cittadinanza.

Volano stracci tra il leader di Italia Viva e l’avvocato del popolo. Pizza, mandolino e reddito, la campagna elettorale di Conte a Napoli: “E’ voto di scambio”. Francesca Sabella su Il Riformista il 22 Settembre 2022. 

Ultime battute di questa campagna elettorale piena di odio e di attacchi più che di idee e programmi elettorali seri e credibili. Ma vabbè. Tutti i leader delle maggiori forze politiche in campo hanno scelto Napoli come ultima tappa del loro tour di comizi. A infiammare gli animi uno dei temi presenti nell’agenda di tutti i partiti: il Reddito di Cittadinanza, ideato dal Movimento 5 Stelle, potrebbe spostare molti voti, soprattutto al Sud dove le condizioni socioeconomiche sono molto più gravi che altrove. Lo sanno bene Giuseppe Conte e Luigi Di Maio che ne parlano come se fosse la panacea a tutti i mali, e lo sa bene anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi che accusa i grillini (giustamente) di voto di scambio.

«Al sud le manifestazioni di giubilo di chi percepisce il reddito, al passaggio di Conte, costituiscono la più scandalosa operazione politica di voto di scambio degli ultimi anni», dice il leader di Italia Viva. L’ex premier si rivolge «ai ragazzi del Sud: non fatevi portar via il futuro. Non è con un assegno da cinquecento euro al mese, dato da un politico, che uscirete dalla povertà». La posizione di Giuseppe Conte è diametralmente opposta. Il leader del Movimento Cinque Stelle da Napoli non solo replica a Renzi, ma tira in ballo anche Giorgia Meloni, che nei giorni scorsi ha detto prima di voler cancellare il reddito di cittadinanza, poi di volerlo riformare. Per Conte, Renzi «ha votato in parlamento l’aumento degli stipendi ai dirigenti di Stato che già guadagnano 10mila euro al mese, a Napoli si dice “nun tenene scuorno” (non hanno vergogna). Ora fa la guerra a chi guadagna 500 euro al mese. Lui vive di politica da quando aveva i calzoni corti e guadagna 500 euro al giorno. E’ davvero un mondo capovolto», dice Conte.

Quanto a Meloni, secondo la quale il reddito di cittadinanza “non è la soluzione alla povertà”, Conte si dice d’accordo. Immediata la risposta di Renzi: «È vero che un parlamentare prende tanti soldi. Ma se vuoi fare uscire dalla povertà le persone, non devi lasciargli 400 euro al mese perché quella persona resterà per sempre nella situazione di povertà. Conte – ha detto ancora Renzi – sta mentendo in modo sciagurato di fronte ai cittadini perché aveva detto che avrebbe creato dei posti di lavoro, invece conosce un navigator che ha trovato un posto di lavoro? Continuare a fare campagna elettorale andando nei Comuni a promettere ancora reddito, minacciando la guerra civile, questo mi dà l’idea dello scandalo squallido a cui è arrivata la politica oggi», ha concluso il leader di Iv. Tra accuse e liti questa campagna elettorale sta volgendo al termine, ma ci sarebbe da chiedersi: valeva il voto di scambio? Vale per i grillini e per la lega di Matteo Salvini che promette la flat tax. A quanto pare la vera sorpresa di queste elezioni è proprio questa: consentito il voto di scambio…

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Nomade con 74 auto intestate (ma senza patente) prendeva il reddito di cittadinanza. Il Tempo il 06 settembre 2022

Possedeva Audi, Maserati, Mercedes e altre auto meno lussuose, per un totale di 74 vetture. Si tratta di una nomade di 40 anni che percepiva regolarmente il reddito di cittadinanza voluto dai grillini.

Una vicenda emblematica e surreale se si pensa che la 40enne fermata dalla Guardia di Finanza non aveva nemmeno la patente di guida. Lo hanno scoperto le Fiamme Gialle in provincia di Padova, a Saonara, dove la donna era titolare di un'attività di commercio di macchine usate.

Come riportato dal Gazzettino, almeno 58 dei 74 veicoli erano stati coinvolti in incidenti stradali con la donna mai menzionata direttamente. Si sospetta quindi che la donna fungesse anche da prestanome per altre persone interessate a quei mezzi e utilizzati per chissà quali scopi.

Il sostituto procuratore Sergio Dini ha aperto un'indagine per "frode assicurativa e intestazione fittizia" nei confronti della nomade. La scoperta si è avuta grazie all'indagine della Guardia di Finanza verso i percettori del reddito grillino della provincia veneta. V.T., queste le iniziali della nomade risiedente nel campo di Vigonza,  percepiva indebitamente il sussidio statale nonostante l'essere titolare dell'attività e la condizione economica che non versava certo in stato precario.

È stato scoperto che la donna ha acquisito l'intestazione di tutte quelle vetture in soli tre anni pur non avendo nessuna patente. A quel punto, il pm ha deciso di aprire le indagini ipotizzando numerosi tentativi per truffe alle assicurazioni e l’intestazione fittizia di tutte le automobili. Inoltre, la donna ha già precedenti penali per truffa e l’inchiesta aperta in Procura sta cercando di appurare se le auto coinvolte siano riconducibili a furti, rapine o altri atti illeciti.

Resta poi da capire tutti coloro che ne possono essere rimasti coinvolti negli incidenti delle auto intestate alla quarantenne. È possibile, infatti, che molti di questi sinistri siano stati inscenati ad hoc soltanto per truffare le compagnie di assicurazioni.

Maria Rosa Tomasello per “La Stampa” il 2 settembre 2022.

È vero, non di solo pane vive l'uomo. Ma sostenere che bisogna «interrompere quel circolo vizioso per cui il lavoro è l'unico mezzo di sostentamento» rischia, in tempi di elezioni, di trasformarsi in un gigantesco boomerang: anche se la frase risale a un anno prima ed è stata, non senza perfidia, ripescata e postata su Twitter, ricordando ai candidati che è impossibile sfuggire al temibile setaccio della rete. 

Autrice della dichiarazione è Rachele Scarpa, giovane candidata del Pd in Veneto, bacchettata dall'economista di Italia Viva Luigi Marattin. «C'era una volta il partito del lavoro» scrive Marattin, evocando rendite e sussidi. «E in quel caso, chi produce il reddito necessario per creare il sussidio?» domanda. 

«Tanti di noi giovani, pur lavorando, rimangono poveri. Immaginare forme di sostegno al reddito universale non deve essere un tabù» replica lei, lanciando una stoccata all'avversario: «Magari lo capisce meno chi ha sempre difeso la precarietà chiamandola flessibilità». 

Ha le sue ragioni Scarpa, già finita nella bufera per alcuni post su Israele, ma in un Paese in cui alcuni imprenditori considerano difficile assumere un barista, sarebbe meglio rivendicare salari giusti e contratti regolari. Anche per non prestare il fianco a chi, come fa il leghista Andrea Ostellari, non si fa sfuggire l'occasione: «I soldi non crescono sugli alberi, in Veneto siamo abituati a rimboccarci le maniche, non a chiedere mance». Piccoli Pd crescono? Può darsi, ma hanno molto da imparare.

Francesco M. Del Vigo per “il Giornale” il 2 settembre 2022.

Rachele Scarpa deve sapere qualcosa che noi non sappiamo. Deve essere venuta a conoscenza di uno stratagemma, un trucco tramite il quale si possono far soldi senza aver a che fare con quel plebeo e pedestre impiccio chiamato lavoro. Altrimenti, le sue dichiarazioni di qualche anno fa ripescate dalla rete, sono del tutto inspiegabili. 

Partiamo dal principio: largo ai giovani! Rachele Scarpa è uno dei candidati under 35 tanto sbandierati da Enrico Letta, ed è la stessa Rachele Scarpa - purtroppo per lei non è un caso di omonimia - che aveva definito lo Stato d'Israele un «regime di apartheid». Boiata coerente con quella dell'altro giovanissimo candidato dem che aveva sostenuto, salvo poi scusarsi, che fosse più facile credere agli Ufo che alla legittimità del sopraccitato Stato. 

Questa volta la piddina è passata dalla politica estera direttamente all'economia, con risultati parimenti sconfortanti. «Dobbiamo interrompere quel circolo vizioso per cui il lavoro è l'unico mezzo di sostentamento», spiega piuttosto convintamente in un filmato che ha fatto il giro di social, siti web e tv scatenando un putiferio di polemiche. Lei si difende dicendo che è un vecchio video, roba di anni fa. Verissimo.

Ma le stupidaggini non diventano intelligenti con il passare del tempo, rimangono sempre stupidaggini. È qualche millennio che l'uomo cerca di sbarcare il lunario senza faticare ma, al momento, pare che nessuno ce l'abbia fatta dignitosamente. Se la Scarpa è in possesso di questo segreto non ce ne tenga in disparte. Ma il vero problema è che non c'è nessuna magia dietro questa teoria, c'è sempre la solita vecchia tara assistenzialista che da anni avvelena il grillismo e che sempre di più ha contagiato il Partito Democratico. L'idea che il lavoro sia una iattura, che sia giusto decrescere stupidamente felici e che si debba sopravvivere con una pioggia di sussidi statali. Il circolo di chi ha un impiego è virtuoso, non vizioso. Se questi sono i giovani, meglio richiamare all'ordine i «vecchi» dal circolo ricreativo. E magari, quello sì, un po' vizioso lo può anche - giustamente - essere.

I dati Inps sul reddito di cittadinanza: quanti beneficiari e quali importi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Agosto 2022.  

1,17 milioni di nuclei beneficiari del reddito di cittadinanza o della pensione di cittadinanza a luglio , per 2,49 milioni di persone, con un importo medio di 551 euro

Diffusi i dati dell’osservatorio dell’Inps. A luglio sono stati 1,17 milioni di nuclei beneficiari del reddito di cittadinanza o della pensione di cittadinanza, per 2,49 milioni di persone, con un importo medio di 551 euro. Nei primi sette mesi del 2022 (periodo gennaio-luglio) i nuclei beneficiari di almeno una mensilità di Reddito di Cittadinanza (RdC) o di Pensione di Cittadinanza (PdC) sono stati 1,61 milioni, per un totale di 3,52 milioni di persone coinvolte.

L’Inps spiega che nel mese di luglio i nuclei beneficiari di RdC/PdC sono stati 1,17 milioni (così suddivisi: 1,05 milioni RdC e 117.000 PdC), con 2,49 milioni di persone coinvolte (2,36 milioni RdC e 132.000 PdC) e un importo medio erogato a livello nazionale di 551 euro (582 euro per il RdC e 272 euro per la PdC). La platea dei percettori di reddito di cittadinanza e di pensione di cittadinanza è composta, sempre a luglio 2022, da 2,17 milioni di cittadini italiani, 226.000 cittadini extra comunitari con permesso di soggiorno Ue, 88.000 cittadini europei, 5.000 familiari delle precedenti categorie o titolari di protezione internazionale. 

Per i nuclei con presenza di minori (365.000, con 1,3 milioni di persone coinvolte), l’importo medio mensile è di 682 euro, e va da un minimo di 590 euro per i nuclei composti da due persone a 742 euro per quelli composti da cinque persone. I nuclei con presenza di disabili sono quasi 197.000, con 442.000 persone coinvolte. L’importo medio è di quasi 490 euro, con un minimo di 382 euro per i nuclei composti da una sola persona a 702 euro per quelli composti da cinque persone.

La distribuzione per aree geografiche relativa vede 443.000 persone beneficiarie al Nord, 340.000 al Centro e oltre 1,7 milioni nell’area Sud e Isole. Per quanto riguarda gli anni precedenti, dal report trimestrale pubblicato oggi risulta che i nuclei beneficiari di almeno una mensilità di RdC/PdC nell’anno 2019 sono stati 1,1 milioni, per un totale di 2,7 milioni di persone coinvolte; nel 2020 i nuclei sono stati 1,6 milioni, per un totale di 3,7 milioni di persone coinvolte. I numeri sono saliti ulteriormente nel 2021: infatti i nuclei beneficiari di almeno una mensilità sono risultati quasi 1,8 milioni, per un totale di poco meno di 4 milioni di persone coinvolte. 

Il reddito di cittadinanza dà fastidio a una classe dirigente ferma all’Ottocento. Manfredi Alberti  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

Il sostegno al reddito ha sottratto alla povertà assoluta un milione di persone. Ma nel nostro Paese continua a essere attaccato dalle destre (e non solo)

La crisi del governo Draghi, al di là dei modi e delle forme in cui si è espressa, ha riportato all’attenzione del dibattito pubblico alcune emergenze sociali ed economiche del Paese: i salari che non crescono, l’inflazione che ne erode il potere d’acquisto, la povertà diffusa anche fra chi lavora. In un Paese come l’Italia, l’unico in Europa dove i salari reali sono diminuiti dagli anni Novanta, si è cominciato anche a ragionare del salario minimo, un dispositivo esistente in altri Paesi europei e che potrebbe, a certe condizioni, evitare le forme più esose di sfruttamento del lavoro. Tra le misure più discusse spicca però il Reddito di cittadinanza, introdotto dal primo governo Conte, una misura oggi strenuamente difesa dal Movimento 5 Stelle e altrettanto duramente attaccata dalle destre.

Se è sicuramente legittimo chiedersi quali siano i reali effetti del Reddito di cittadinanza (l’aumento dei salari o viceversa la loro diminuzione, in corrispondenza con la diffusione del lavoro nero), come pure domandarsi quale sia la sua efficacia nel contrasto alla povertà in presenza di truffe e irregolarità nell’assegnazione dei sussidi, non si possono tuttavia negare due circostanze. In primo luogo, la misura in questione ha introdotto per la prima volta un sostegno universale al reddito, in sintonia con i principi costituzionali di dignità e uguaglianza sostanziale tra i cittadini. In secondo luogo, i dati ci dicono che, almeno in parte, la misura ha funzionato. Il Rapporto annuale dell’Istat, presentato a Montecitorio l’8 luglio, ha dimostrato infatti che gli strumenti di sostegno al reddito erogati nel 2020 – incluso il Reddito di emergenza introdotto dopo lo scoppio della pandemia – hanno avuto un ruolo non secondario nella riduzione della povertà. Le somme erogate, secondo l’Istat, hanno permesso a un milione di individui (in 500.000 famiglie) di non trovarsi in condizione di povertà assoluta, con effetti più rilevanti tra i disoccupati e nelle regioni meridionali. Per avere un’idea delle proporzioni, uno sforzo finanziario cinque volte maggiore avrebbe – in linea ipotetica – azzerato interamente il problema.

Nonostante questi fatti, voci tutt’altro che disinteressate, e non da oggi, continuano a chiedere con insistenza l’abolizione del Reddito di cittadinanza, considerato uno sperpero di risorse pubbliche e un disincentivo al lavoro. A lamentarsi non sono solo gli imprenditori della ristorazione o del settore alberghiero, convinti che i sussidi siano un incentivo all’ozio e una minaccia per la redditività della loro impresa. Stando a quanto emerso da alcune indagini sui nuovi fatti di mafia a Palermo (in particolare l’inchiesta sul recente omicidio di Giuseppe Incontrera) anche i boss cittadini sembrerebbero fortemente ostili al provvedimento: renderebbe faticoso trovare “picciuttieddi”, ovvero giovane manovalanza disposta allo spaccio di droga e ad altre attività illecite pur di sfuggire alla miseria.

Se a lamentarsi del Reddito c’è anche la mafia, forse ce ne sarebbe abbastanza per prendere un po’ più sul serio questa misura, per quanto imperfetta. Tocca purtroppo constatare che una parte della nostra classe dirigente sembra ferma al dibattito dell’Inghilterra di inizio Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale, quando la nascente scienza economica, portavoce degli interessi della borghesia imprenditoriale, prendeva di mira il vecchio sistema delle Poor Laws inglesi, accusato di impedire la formazione di un vero mercato del lavoro, mantenendo in condizioni di oziosità legioni di poveri che, spinte dalla fame, avrebbero potuto sostentarsi attraverso il loro lavoro.

Attendiamo con fiducia che il dibattito pubblico possa evolvere almeno verso le categorie novecentesche del Welfare State.

Manfredi Alberti è ricercatore di Storia del pensiero economico. Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali. Università degli studi di Palermo

Rosaria Amato per “la Repubblica” il 25 agosto 2022

Neanche un contratto a tempo indeterminato salva dal lavoro povero. Secondo Eurostat la percentuale dei "working poors" con un rapporto di lavoro stabile in Italia nel 2021 è passata all'8,1% del totale, dal 7,7% del 2020. Non sorprende, quindi, che la nostra quota di lavoratori dipendenti a rischio povertà sia la più alta tra i Paesi Ue, solo la Spagna ha un dato peggiore. 

Considerando tutti i tipi di contratto, i lavoratori che guadagnano troppo poco per avere un tenore di vita decente, è passata in Italia dal 10,8% del 2020 all'11,7% del 2021, emerge dalle tabelle aggiornate dall'Istituto Ue di statistica. Naturalmente i working poors con contratto a termine sono molti di più (passati dal 15,4% al 21,5%): una quota simile a quella dei lavoratori part-time, considerato che quasi mai si tratta di una libera scelta.

A rischio di povertà per via degli stipendi troppo bassi sono soprattutto i giovani (15,3% della fascia di età tra i 18 e i 24 anni) e i lavoratori autonomi. Dai dati emerge che la situazione sarebbe peggiore senza gli aiuti statali, che arrivano a sostenere solo le classi di reddito più basse: le classi medie registrano così i peggioramenti maggiori.

Qualcosa non va. Il reddito di cittadinanza non riesce nemmeno a proteggere le famiglie più povere. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 30 Agosto 2022

Tra le distorsioni dello strumento ideato dai Cinquestelle figura il fatto che tra i beneficiari ci siano molti più single (spesso giovani senza lavoro) che nuclei familiari

L’analisi dell’incidenza della povertà in Italia durante e appena dopo la tempesta del Covid presenta alcuni punti fermi chiari. Tra 2020 e 2021 l’indigenza assoluta è leggermente scesa, dal 7,7% al 7,5%, grazie al rimbalzo dell’economia, ma con l’eccezione di alcune categorie già fragili, come quelle delle famiglie numerose e con più figli, dove è invece cresciuta

Tra i nuclei di cinque o più persone è infatti aumentata dal 20,5% al 22,6%. Tra quelli che contano due minori, invece, dal 12,5% al 14%.

Nel Mezzogiorno questa tendenza è ancora più accentuata. Se consideriamo la povertà assoluta individuale, anziché soltanto quella delle famiglie, emerge come nel Sud e nelle Isole quella dei bambini tra i 7 e i 13 anni, per esempio, sia salita dal 13,8% al 16,1%.

Sono dati risaputi, se ne è parlato, e possiamo essere sicuri che in questo 2022 segnato dall’inflazione il trend sia proseguito, peggiorando.

E allora, visto che anche in questa campagna elettorale si discute su come frenare la povertà crescente, sembra utile e forse doveroso capire come stia funzionando lo strumento cui, da alcuni anni, è stata di fatto appaltata la lotta all’indigenza: il Reddito di Cittadinanza.

Il ricorso al Rdc è chiaramente aumentato nel 2020 e 2021. L’anno scorso i nuclei che ne beneficiavano erano 1.771.680, che contenevano 3.956.492 individui. Nel 2022 vi è stata una diminuzione, dovuta alla ripresa e alle riaperture di molte attività, ma i numeri sono ancora superiori a quelli del 2019. 

Tutto questo è perfettamente ragionevole. Ad essere degno di nota è altro. Tra il 2019 e il 2022 la crescita delle famiglie beneficiarie del RdC è stata del 47,8%, nonostante il parziale calo dai livelli del 2021, mentre quella delle persone coinvolte è stata decisamente minore, del 29,5%. Cosa vuol dire? Che in questi anni di pandemia il Reddito di Cittadinanza è stato concesso mediamente a nuclei più piccoli di quelli cui veniva dato quando è stato ideato.

Una conferma di questi dati si trova nel divario fra l’incremento delle famiglie beneficiarie senza minori, di solito più piccole, che è stato del 65,4%, e di quelle con figli a carico, del 23,7%

Il risultato è che tra i nuclei che oggi prendono il Reddito di Cittadinanza quelli in cui sono presenti minorenni sono il 32,1%, contro il 37,1% del 2019. Mentre crescono dal 38,1% al 45,1% quelli con un solo componente.

È vero che la recessione provocata dal Covid ha portato nel 2020 e 2021 a soffrire di povertà larghe fasce della popolazione prima appena sopra la soglia di indigenza, e in particolare i giovani, gran parte dei quali ancora senza figli.

Tuttavia questa tendenza all’allargamento del RdC in una direzione precisa, quella delle famiglie piccole e senza minori, è proseguita anche nel 2022, quando l’occupazione ha ripreso ad aumentare e molti di coloro che avevano perso un impiego lo hanno ritrovato.

È facile capire come questi dati siano in controtendenza e in contraddizione con quelli sulla povertà.

Secondo questi ultimi, tra tutti i nuclei senza mezzi per arrivare a fine mese, quelli con figli a carico erano il 38,2% nel 2020 e il 38,9% nel 2022. Fra quanti beneficiano del Reddito di Cittadinanza, insomma, vi sono meno famiglie con minori che fra i poveri.

C’è qualcosa che non va. Ce ne accorgiamo osservando i dati per area geografica. È proprio al Sud e nelle Isole che è maggiore il divario tra la crescita del ricorso al RdC tra chi non ha figli (intorno al 70%) e tra chi ne ha (inferiore al 30%).

Non solo, in particolare al Sud (oltre che nel Nord Est) rispetto al periodo in cui il sussidio è stato creato, addirittura diminuiscono i nuclei beneficiari con sei membri o più. Erano certamente pochi, ma è significativo che siano addirittura calati perché il piccolo segmento delle famiglie molto numerose è proprio quello più colpito dalla povertà.

A incidere è sicuramente il fatto che in queste troviamo molti stranieri. Stranieri che invece costituiscono una porzione piuttosto piccola dei beneficiari del RdC, il 12,3%. Basti considerare che tra tutti i nuclei poveri, invece, quelli con immigrati sono quasi un terzo.

Le limitazioni all’accesso al Reddito di Cittadinanza volute dal governo giallo-verde, il fatto che possono chiederlo solo stranieri residenti da 10 anni, sono solo una delle distorsioni di questa misura.

Un ulteriore elemento di riflessione viene dall’esame dell’importo medio, mediamente cresciuto in questi anni, e di quali fasce di percettori sono aumentate di più.

L’incremento maggiore, in valore assoluto, è quello dei beneficiari single che prendono tra i 400 e 600 euro, diventati in tre anni 103.400 in più, e tra i 600 e gli 800, che sono saliti di 65.700 unità.

In termini sia assoluti percentuali, poi, sono di più soprattutto i segmenti che prendono dai 600 euro in su, ma i nuclei più grandi, quelli di 5 o 6 componenti, non hanno visto gli stessi aumenti delle famiglie meno ampie.

Tutti questi dati ci dicono una cosa semplice: il Reddito di Cittadinanza non riesce ad affrontare la povertà in modo efficiente. Il fatto che alla base della sua concessione vi sia una sorta di autocertificazione dello stato di indigenza, che non si riesca a controllare se non vi siano redditi da lavoro si aggiunge alla difficoltà di procurare lavoro ai beneficiari, visto che viene fatto solo tramite lo Stato. Tutto ciò agevola gli opportunisti.

Inoltre le famiglie con minori non vengono favorite in modo decisivo: per accedere al RdC un nucleo con due persone e due figli deve avere meno di 10.800 euro all’anno. Si tratta di una cifra che è largamente sotto la soglia di povertà anche nelle aree rurali del Mezzogiorno, dove, secondo l’Istat, una coppia con due minori entra nella povertà assoluta con meno di 16mila annui.

La soglia della concessione del RdC a un single, 6mila euro, non è invece lontanissima da quella di povertà dell’Istat, sempre nelle stesse zone, 6.912 euro.

Questo spiega perché per chi ha dei bambini è più difficile accedere al Reddito di Cittadinanza. A questo si aggiunga che forse un padre e una madre si precipitano più facilmente ad accettare qualsiasi lavoro, anche sotto-pagato, pur di sfamare i figli. E questo misero stipendio, magari sotto i 1.000 euro, non basta a uscire dalla povertà ma è sufficiente per vedersi negato il RdC.

La revisione di questo sussidio che tanti partiti chiedono non può limitarsi solo a controlli più stringenti, a un miglior incrocio tra domanda di lavoro delle imprese e beneficiari del RdC, ma dovrà includere anche i meccanismi per la sua erogazione.

Così come tutto il welfare, come la tassazione e il sistema delle detrazioni, non potrà continuare a svantaggiare proprio le categorie più colpite dalle crisi, le famiglie numerose.

Altro che abolizione della povertà, il reddito di cittadinanza non funziona: i numeri del flop. Mario Benedetto su Il Tempo il 25 agosto 2022

38%: è questa la percentuale di percettori del reddito di cittadinanza al di sotto dei 29 anni. Adesso, è un numero che va sicuramente analizzato, ma non pare troppo alto rispetto a una fascia in piena età lavorativa? Questo numero racchiuderà con tutta probabilità persone impossibilitate a lavorare ma, al contempo, c'è da chiedersi quanta forza lavoro inattiva comprenda. Questo per ribadire che non siamo sulla strada giusta: una misura come il reddito di cittadinanza pensata per sostenere chi è in difficoltà ma anche per incentivare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, non funziona. Lo dicono i numeri, lo dicono gli 80 miliardi stanziati di qui fino al 2029 che rischiano di produrre gli effetti dei 20 già spesi in questi 3 anni, ovvero nessuno. Nessun effetto, nessuna abolizione di povertà, a quanto pare, dato che è tuttora confermata, purtroppo, la situazione d'indigenza di molti nuclei familiari. Con addirittura 2.6 milioni di persone, badiamo bene, a rischio alimentare secondo ultimi dati Coldiretti.

Quello del lavoro e delle questioni economiche, da reddito al fisco, è un tema che ha animato nelle scorse ore il dibattito del Meeting di Rimini, sino all'atteso discorso di Mario Draghi. Le reazioni del pubblico, specialmente attento come quello dell'occasione, sono solitamente un indicatore importante. Per di più, se consideriamo il pubblico riminese, ampiamente composto da giovani. Giovani che aspettano proposte, prospettive, opportunità. Non mance o contentini. Dovremmo dire a tutti loro, ed a tutti gli italiani, che non è sui bonus che si sono edificate le architravi economiche e sociali che sorreggono ancora, dalle storiche realtà economiche sino al risparmio dei nostri nonni, le fondamenta della nostra Italia. È arrivato il momento di offrire prospettive, non garantire sopravvivenza, captando consensi. Il consenso vero è quello degli applausi di questi giovani, che non si entusiasmano per soluzioni che permettono loro di sopravvivere, appunto, ma per condizioni che consentano di far camminare le loro idee ed i loro sogni. Allora, abbiamo esempi anche in Europa: perché non differenziare lo strumento reddito di cittadinanza e destinare risorse mirate a favore di chi è effettivamente in condizione d'indigenza e impossibilitato a lavorare?

Una volta tutelato chi ne ha reale necessità, avremmo dunque a disposizione risorse che hanno precisi destinatari: professionisti e imprese. Con la contestuale riforma del fisco, che ci sta facendo assistere a un dibattito altrettanto surreale. La visione partigiana e tribale sta arrivando persino all'assurdo di criticare una misura, che numeri alla mano, avvantaggerebbe tutti come la riduzione della pressione fiscale. Ma davvero si può considerare ricco chi ha un reddito da 15.000 euro in su? Si perché già da questa fascia reddituale di beneficerebbe della riduzione della pressione fiscale sulla scia della flat tax e del principio che intende incarnare. Volendo anche andare oltre, contemplare redditi più alti: possiamo considerare ricco chi ha un reddito anche di 50.000 euro? È disonesto intellettualmente avversare soluzioni solo per prese di posizione, di parte.

Oggi c'è una sola tribù da tutelare: l'Italia tutta. L'Italia che produce, che ha capacità e voglia di farlo. E non può essere proprio la politica la responsabile dello smorzamento di energie che dovrebbe, al contrario, stimolare e convogliare in un comune interesse. Perché produrre valore è un interesse collettivo: la divisione lavoratore - imprese, che anima ancora certi programmi elettorali, è la rischiosa deriva di un pensiero cui va contrapposta non un'altra idea, ma la realtà: le risorse delle imprese, del lavoro, sono quelle che arrivano a famiglie e lavoratori. Chi non riconosce questo meccanismo, e non lo incentiva, mente e sbaglia. Sapendo di farlo. O forse no, ahinoi.

Popolari, non populisti Chi sono i poveri in Italia e perché i Cinquestelle non sanno aiutarli. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 20 Luglio 2022.

I famosi nove punti proposti da Conte riassumono, nello spirito, un modo di agire che preferisce tappare i buchi e non evitare, pensando in modo strategico, che si formino. Lavorare a monte, su istruzione, integrazione o occupazione è la soluzione giusta, ma alle urne non paga. 

Aiuti straordinari a famiglie e imprese, ostacoli ai contratti a tempo determinato, salario minimo di nove euro lordi, superbonus 110%, cashback fiscale, reddito di cittadinanza nella versione originale o quasi. Sono solo alcune delle richieste poste dal Movimento 5 Stelle a Mario Draghi nei celebri nove punti, quelli che hanno portato alla crisi di governo dopo essere stati sostanzialmente snobbati dal premier.

La caratteristica di queste richieste non è tanto e solo di essere in gran parte sbagliate. Sì, il superbonus 110% e il cashback non aiutano per nulla i poveri o i conti dello Stato, tutt’altro, ma il punto fondamentale è che si tratta di rimedi dell’ultimo minuto, di una presunta cura dei sintomi e non della malattia. Questa, quella che provoca la povertà e il disagio, viene ignorata, come sempre.

Ora vi è la giustificazione dell’emergenza inflattiva, delle conseguenze della pandemia, ma anche in tempi normali, anche nei programmi delle elezioni le soluzioni di questa larga fascia della politica, che non si riduce ai pentastellati, sono tipicamente improntate a fare da tappa-buchi, e non a impedire la formazione del buco. Fuor di metafora, cosa provoca la povertà? Chi sono i poveri? Perché lo sono? Cosa causa la mancanza di redditi? Non vi è l’analisi delle ragioni a monte. Eppure in alcuni casi sono banali.

A essere in una condizione di povertà assoluta nel nostro Paese sono soprattutto i disoccupati. Nel 2021 lo era il 22,6% di essi, in aumento rispetto al 19,7% del 2020. Per quanto esista il fenomeno dei working poor, coloro che rimangono indigenti pur lavorando, è essere senza un impiego la situazione peggiore da questo punto di vista.

Al contrario essere pensionati protegge dalla povertà molto bene, poco meno che essere dirigenti e imprenditori. Solo il 4,4% di chi si è ritirato dal lavoro non riesce a coprire i bisogni essenziali. Eppure tanto spesso il focus di forze politiche “dalla parte del popolo” è sul reddito invece che sull’occupazione, ovvero solo sull’effetto e non sulla causa.

La povertà è decisamente più alta tra i minori, diminuendo con l’età, e nel 2021 questo divario è diventato ancora maggiore. Sono in una situazione di indigenza il 14,2% di chi ha meno di 18 anni e solo il 5,3% degli over 65.

Tra i motivi vi è la situazione particolarmente miserabile in cui vivono, nel silenzio più completo della politica, gli immigrati, che normalmente hanno più figli della media, e in particolare quelli senza un lavoro, e tra questi quelli che un lavoro lo cercano. Nel 2021 erano un povertà assoluta il 46,4% delle loro famiglie, molti di più che nel 2020 (28,1%). Compongono la categoria che è stata più colpita dalla crisi pandemica, hanno perso il lavoro più di frequente di quanto abbiano fatto gli italiani e con il tempo e l’esaurirsi dei sussidi e dei risparmi la situazione è peggiorata, anche perché quelli che sono in Italia da meno di 10 anni non hanno diritto al Reddito di Cittadinanza, ma solo a quelli di emergenza.

Eppure anche questo aspetto è ignorato, e dell’indigenza degli stranieri si parla, in modo indiretto, sempre solo a valle, quando genera degrado. Ma vi è un dato ancora più importante, è quello che riguarda l’istruzione. È in povertà assoluta più del 10% di chi non è andato oltre la terza media e meno del 4% di chi ha almeno un diploma, se non la laurea.Non solo, la lunghezza degli studi è un parametro così determinante da avere influenza anche sulla probabilità di diventare poveri dei figli, persino una volta che questi sono diventati adulti. Il rischio di essere indigente di un 25-59enne è del 22,7% tra chi ha il genitore più istruito con la terza media o meno, mentre scende al 9% se è laureato. E il divario è aumentato ulteriormente nell’ultimo decennio, tra il 2011 e il 2019. Tra l’altro l’Italia è tra i Paesi in cui questo è più alto. In Francia, Germania, Spagna il rischio di povertà dei figli di coloro che si sono fermati alle medie (o equivalenti) non è così elevato.

Come è facile immaginare lo stesso rischio è ancora maggiore per i minorenni. Il 54% di questi ha un’alta probabilità di diventare povero se si tratta di figli di quanti non sono arrivati al diploma. Ed è così in tutta Europa.

Il punto è che però nel nostro Paese la percentuale di chi si è fermato alle medie è superiore che altrove, persino tra i 25-34enni, l’età in cui si diventa genitori. E non di poco, e non solo tra gli stranieri, tra cui raggiunge il 47,2%, ma anche tra i cittadini italiani. In questo caso arriva al 18,1%, contro il 10% tedesco.

Vi è un dibattito nel Paese, o perlomeno tra le forze politiche che reclamano un “cambiamento”, su questo? L’incremento della percentuale di laureati, o anche solo di quanti riescono a conseguire il diploma, è mai entrato in qualche decalogo? È mai stato l’obiettivo di qualche provvedimento così urgente da essere posto come ultimatum a un governo? Non è accaduto, così come non è accaduto che fosse il tasso d’occupazione, più che il reddito, lo scopo delle politiche proposte.

Occupazione, integrazione, istruzione, competenze, formazione, capitale umano, tutti fattori che determinano un impatto a monte. Molto efficace, ma solo nel lungo periodo. Per chi ha bisogno di consenso le prossime settimane, i prossimi mesi, sono temi assolutamente inutili, lo sappiamo.

A Napoli il “Bancomat” del reddito di cittadinanza: operazioni illecite in una macelleria per 24mila euro al mese. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Luglio 2022.  

Il "sistema" truffaldino che è costato ai tre macellati napoletani l’accusa di truffa ai danni dello Stato e un sequestro di beni (due società di macelleria e poco più di 80mila euro in contanti), era molto semplice: gli Iavarone (a secondo di chi era presente in macelleria) effettuavano con persone dotate di card di reddito di Cittadinanza delle transazioni per l’acquisto di carne che in realtà non veniva venduta .

Ogni giorno nel Borgo Sant’Antonio Abate, a Napoli molte delle persone che entravano in una macelleria non lo facevano per acquistare carne ma bensì per trasformare in contanti il Reddito di cittadinanza di cui beneficiavano, attività che è illegale. Gli Iavarone, padre (Domenico) e due figli (Gaetano e Lorenzo), avevano creato un metodo (illegale) per convertire gli importi che per legge possono essere spesi solo a mezzo transazione elettronica e per spese di prima necessità in soldi contanti, lucrando su quelle operazioni. 

Il “sistema” truffaldino che è costato ai tre napoletani l’accusa di truffa ai danni dello Stato e un sequestro di beni (due società di macelleria, l’ “Antica Macelleria” ed il “Bisteccaio” e poco più di 80mila euro in contanti), era molto semplice: gli Iavarone (a secondo di chi era presente in macelleria) effettuavano con persone dotate di card di reddito di Cittadinanza delle transazioni per l’acquisto di carne che in realtà non veniva venduta. 

Grazie alla disponibilità di liquidità di somme in contanti, i macellai versavano ai finti clienti “complici” l’importo transato che veniva decurtato di una percentuale che oscillava tra il 10 e il 20%, che trattenevano per loro. “Quanto devi fare” chiedeva domanda Domenico Iavarone a una donna dall’accento straniero che lo scorso 28 aprile si presentava in macelleria per effettuare il “cambio’”. la donna diceva «Quattrocento» ed allora il macellaio la invita a digitare il codice sul Pos senza sapere che la ‘cimice’ della Guardia di Finanza registrava persino il fruscio delle banconote che il macellaio iniziava a contare, dicendo “Sono 34″ cioè la somma di 340 euro, consegnata alla donna mentre i restanti 60 euro venivano trattenuti dagli Iavarone. 

Una precedente conversazione del 9 febbraio spiegava chiaramente il “sistema” cambio-percentuale , durante la quale Lorenzo Iavarone rendicontava a suo padre l’operazione effettuata: “La carta a questo… al 10 per cento… gli ho fatto due e quattro… due e quattro…”. Il padre non capiva ed allora il figlio gli spiegava che aveva prelevato 3mila euro in banca e poi di aver fatto “quattro carte… tre da 500 e una 900“, per 2400 euro, meno le “spese” pari a 240 euro che venivano trattenute dagli Iavarone. In un caso registrato invece, si è arrivati anche ad applicare il 20% un cliente : “Gli ho fatto 1000 e gli ho dato 800“, diceva Lorenzo Iavarone.

Un business illecito che rendeva. L’“Antica Macelleria” è presa d’assalto, al punto tale che in qualche occasione si esaurisce il denaro contante utile a monetizzare le transazioni. “Sta una signora… sta aspettando te…” dice Gaetano Iavarone a suo fratello Lorenzo nella telefonata del 30 marzo “Ha detto che deve avere quattro e quaranta… gli ho fatto il Pos ma i soldi non ci sono“. Lorenzo Iavarone si irritava: “Embè, gli fai il Pos e non ci sono i soldi? Ora devo portare io i soldi per la signora… dille che sto venendo”. 

Il 28 aprile la cimice delle Fiamme Gialle registrava un’altra telefonata importante nel corso della quale Domenico e Lorenzo Iavarone si soffermavano sui conteggi. “Noi abbiamo cacciato 28.280… ventotto due ottanta a trentuno e quattro… sono tremila centoventi di sgobbo“, diceva Lorenzo. Per gli investigatori il contenuto della conversazione era più che chiaro: i due Iavarone stanno ragionando sulla circostanza di avere dichiarato falsi acquisti di carne per 31.400 euro allo scopo di coprire la monetizzazione del Reddito di Cittadinanza e di avere “versato” 28.280 euro ai clienti collusi, incassando illegalmente così 3.210 euro. Un incasso netto che riguarda un breve lasso di tempo.

Come risulta dagli atti dell’indagine “nel periodo dall’11/03/2020 al 9/03/2021 la società (Iavarone n.d.r.) ha effettuato incassi, mediante Pos, di somme provenienti da carte RdC intestate a diverse persone di nazionalità rumena, per un importo complesso di euro 290.167,14“. facendo qualche calcolo ed un pò di conti emerge che venivano effettuate in media operazioni illecite pari a 24mila euro al mese. Che non sono spiccioli. Una truffa allo Stato di cui gli Iavarone sono consapevoli vantandosene al telefono, senza sapere chiaramente di essere intercettati. “Il reddito ci ha salvato… “, diceva il 4 marzo Lorenzo Iavarone mentre parlava al telefono con la madre. “Stiamo avendo un business di 200/210mila euro totali” racconta, spiegando di non avere avuto alcuna difficoltà alcuna a pagare i fornitori. 

Tutto bene, per gli Iavarone la cui unica preoccupazione era riuscire a far quadrare i conti, poiché stava diventando un problema sul piano contabile giustificare l’enorme divergenza tra gli incassi tracciati e la reale vendita di carne, ed infatti negli atti di indagine compare puntualmente anche il ruolo di un commercialista sul quale sono in corso accertamenti. Sono numerose le intercettazioni che proverebbero le responsabilità degli indagati. In una si sente Gaetano Iavarone dire al suo interlocutore che gli spiega di avere altri potenziali “clienti”: “Falli venire, ma non devono mai dire al telefono la parola “cambiare”. Tanto qui possiamo cambiare quante carte volete: cinque, dieci, 20 anche 30“. 

Le indagini coordinate dalla Guardia di Finanza e condotte dai pm Landolfi e Scarfò della procura della Repubblica di Napoli stanno virando anche sui titolari delle card ‘collusi’ con gli Iavarone e due Caf, uno con sede a Secondigliano (quartiere di Napoli) ed uno a Roma, che ha curato le pratiche per il rilascio delle card ‘strisciate’ nella macelleria al Borgo Sant’Antonio Abate. Dagli accertamenti effettuati Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli guidata dal generale Domenico Napolitano, è emerso che la maggior parte dei titolari delle card è di nazionalità straniera, ma si è fatto anche largo il sospetto che molti titolari in realtà non esistano neppure. Le intercettazioni hanno infatti registrato un cumulo di operazioni con più card fatte però da una sola persona. 

Ma non solo in alcuni casi, si legge dagli atti di indagine, i possessori della card non avrebbero neppure maturato tutti i requisiti per poterne beneficiare. Ecco perché i riflettori si sono accesi sui titolari dei due Caf che, guarda caso, conoscevano anche gli Iavarone, e anche su alcuni uffici della seconda e terza municipalità di Napoli, dove lavorava qualcuno che riusciva a fabbricare finti decreti di cittadinanza, per lo più intestati a cittadini extracomunitari, per ottenere poi il reddito di cittadinanza. Una circostanza che lascia pensare ad un ampliamento delle indagini in corso. Redazione CdG 1947

Zafarana (GdF): «Così abbiamo smascherato oltre 29mila falsi poveri con il reddito di cittadinanza». Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.  

Con la pandemia e poi la guerra in Ucraina sono stati messi in campo bonus e sostegni vari a imprese e famiglie. Quante truffe e abusi avete scoperto?

«Le indagini più recenti — risponde il Comandante generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana — confermano l’interesse della criminalità per gli aiuti destinati a famiglie e imprese. Emblematico l’esempio dei bonus fiscali: la possibilità illimitata di circolazione dei crediti prevista dalla normativa emergenziale è stata strumentalizzata per scopi illeciti, inducendo il legislatore a intervenire per contrastare il fenomeno. Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, di concerto con l’Agenzia delle entrate, abbiamo scoperto frodi per oltre 5,6 miliardi di euro e sequestrato crediti inesistenti per 2,5 miliardi. Le somme illecitamente ottenute sono state riciclate in società, immobili, preziosi e criptovalute, anche all’estero. Per recuperarle, abbiamo recentemente istituito una task force a livello centrale, dando il massimo impulso all’approfondimento delle segnalazioni per operazioni sospette, all’attività di intelligence e alla cooperazione internazionale».

Esiste lo stesso rischio per i 235 miliardi del Pnrr?

«Nell’ultimo anno e mezzo i nostri reparti hanno posto sotto sequestro beni per oltre 677 milioni. Fondamentale è stata la stretta sinergia con l’autorità Giudiziaria nazionale e con la Procura europea. L’attenzione è massima ma la realizzazione del Pnrr non può confidare solo nella repressione, con la prevenzione si riuscirà a evitare l’utilizzo improprio dei fondi».

In che modo?

«Il governo ha disegnato il sistema di governance prevedendo la possibilità che le Amministrazioni stipulino protocolli d’intesa con la Guardia di Finanza per prevenire e reprimere frodi e irregolarità. Abbiamo già realizzato, a livello centrale e periferico, specifici memorandum e siglato un’intesa, di assoluto rilievo, con la Ragioneria Generale dello Stato, cui hanno aderito le Amministrazioni centrali titolari degli interventi di spesa. Tra le finalità dei partenariati vi è quella di consentirci di disporre di notizie utili a elaborare analisi per selezionare le posizioni a maggior rischio di frode e orientare, conseguentemente, le attività ispettive. Il Corpo parteciperà anche alla “rete dei referenti antifrode”, coordinata dal Servizio centrale per il Pnrr, istituito presso la Ragioneria Generale, con la funzione di monitoraggio e gestione del rischio del Piano con attenzione particolare alle procedure di appalto».

Avete scoperto numerose frodi anche sul Reddito di cittadinanza. Quali sono i dati aggiornati?

«Dall’inizio del 2021, i controlli sul reddito di cittadinanza hanno portato alla denuncia di oltre 29.000 soggetti, per illeciti che, tra somme indebitamente percepite e illecitamente richieste ma non ancora erogate, assommano a circa 290 milioni di euro. La nostra attenzione, in sinergia con l’Inps, è indirizzata soprattutto ai sistemi di frode più strutturati, come quelli che hanno coinvolto anche soggetti collegati ai Caf».

La lotta all’evasione ha conosciuto una tregua durante la pandemia. Si è tornati alla normalità?

«Coerentemente con gli obiettivi di riduzione del tax gap previsti dal Pnrr, abbiamo intensificato la presenza ispettiva, valorizzando le nuove tecnologie per dar corso a interventi “chirurgici”. Continuiamo a riservare un particolare focus alle frodi fiscali, ai fenomeni di evasione internazionale — come le residenze fittizie e le stabili organizzazioni occulte — e alle condotte che alimentano il sommerso anche attraverso il commercio elettronico e i nuovi modelli di business dell’economia digitale».

Qual è il valore dei beni sequestrati in Italia agli oligarchi russi in Italia?

«Dalle prime fasi della crisi russo-ucraina, abbiamo fornito un importante contribuito al Comitato di Sicurezza Finanziaria, competente all’attuazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea. Il Nucleo Speciale di Polizia Valutaria ha eseguito, con il contributo dei reparti territoriali, accertamenti patrimoniali finalizzati a individuare risorse economiche, direttamente o indirettamente, riconducibili ai soggetti sottoposti alle misure restrittive unionali. Questo impegno è testimoniato dai 15 provvedimenti di congelamento, sino ad oggi adottati, su beni, per un valore di circa 1,8 miliardi di euro».

La guerra in Ucraina ha portato in primo piano il fronte dei cyberattacchi, anche all’Italia. La Guardia di Finanza è impegnata a contrastarli e che cosa è emerso finora?

«Il conflitto ha accentuato, inoltre, l’esigenza di resilienza nella transizione digitale e di tutela dai rischi di attacchi informatici. Il Corpo è in campo con un Nucleo specializzato che monitora costantemente il web per anticipare l’evoluzione della minaccia e contribuire a rafforzare il dispositivo di sicurezza cibernetica nazionale».

Lei ha ricevuto il ministro delle Finanze della Repubblica Federale di Germania, Christian Lindner. Quanto investe il Corpo sulla propria proiezione internazionale e con quali obiettivi?

«Nel corso degli anni, la Guardia di Finanza ha progressivamente esteso il proprio network su 75 Paesi e sei organizzazioni internazionali, con esperti e ufficiali di collegamento dislocati presso le principali missioni diplomatiche italiane all’estero, con compiti inerenti al comparto economico-finanziario. Sono stati, inoltre, stipulati protocolli d’intesa con Ocse, Fmi e Unoct (l’ufficio antiterrorismo delle Nazioni Unite), volti anche a promuovere attività formative internazionali, per favorire una comune cultura investigativa. Dal 2015 la nostra Scuola Pef ha ospitato 173 Paesi esteri, erogando corsi, dallo scorso anno, a circa 10.000 discenti stranieri».

Reddito di Cittadinanza, tempo di valutazioni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Giugno 2022. 

Per contrastare il disincentivo al lavoro, invece, la Legge di Bilancio 2022 ha stabilito la decadenza del sussidio dopo due (e non più tre) offerte di lavoro respinte, nonché la riduzione di 5 euro mensili a partire dal mese successivo al rifiuto di un’offerta di lavoro congrua.

di Michela Rivellino

Il reddito di cittadinanza ha lasciato un’impronta positiva come misura di contrasto alla povertà, ma si è rivelato insufficiente in qualità di politica attiva del lavoro. Se da una parte ha favorito l’aumento dell’adeguatezza del reddito minimo dal 21,9% della soglia di povertà nel 2018 al 90,7% nel 2019, dall’altra ha manifestato una serie di difficoltà di carattere oggettivo, innestandosi in un mercato del lavoro fragile ed una dimensione occupazionale vacillante.

Basti pensare al destino dei “navigator“, le figure di alta formazione professionale istituite congiuntamente al RdC, a supporto dei centri per l’impiego (Cpi) al fine di favorire il percorso di reinserimento lavorativo dei beneficiari. Trovatisi essi stessi nel vortice della precarietà e delle proroghe difficoltose, i 1800 navigator sono stati temporaneamente ri-contrattualizzati da Anpal Servizi per un periodo di soli due mesi, ma restano in balia di un futuro piuttosto incerto.

È dalla natura volutamente ibrida del RdC che derivano gli scontri e le critiche più aspre al sussidio, polarizzando il panorama politico tra chi lo difende, chi ne chiede la riforma, o addirittura l’abolizione, come nel caso di Italia Viva che il 15 giugno avvierà la raccolta firme per revocare la misura. A far alzare i toni sono soprattutto le controversie in merito al disincentivo al lavoro regolare e alle frodi derivate dal regime stesso. 

Contro i “furbetti” della burocrazia si è reso operativo il Protocollo d’intesa tra INPS e Ministero della Giustizia, in vigore dallo scorso 1° giugno, al fine di rafforzare il meccanismo dei controlli su beneficiari e nuovi richiedenti. Per contrastare il disincentivo al lavoro, invece, la Legge di Bilancio 2022 ha stabilito la decadenza del sussidio dopo due (e non più tre) offerte di lavoro respinte, nonché la riduzione di 5 euro mensili a partire dal mese successivo al rifiuto di un’offerta di lavoro congrua.

Appare dunque poco plausibile anche la formula imprenditore avvilito a fronte di beneficiario fannullone, considerando che quest’ultimo, se sottoscritto il Patto per il lavoro e dunque impegnatosi ad accettare offerte di lavoro congrue, finirebbe diversamente per perdere il proprio sussidio. La versione più auspicabile resta quella dei numerosi datori di lavoro che ricercano il personale senza passare dai centri per l’impiego, presso i quali sarebbero tenuti a dichiarare una serie di requisiti, tra cui orari, stipendio, mansioni e contratti collettivi conformi alle norme vigenti. 

A smentire la teoria del disincentivo sono anche i dati riportati dall’ ANPAL, l’ Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, che fanbo luce sul reale problema, ben più profondo e strutturato di quello che trapela dal dibattito politico: il mercato del lavoro.

L’analisi, con dati aggiornati al 31.12.2021, ha dimostrato che tra i beneficiari non esonerati dalla sottoscrizione del Patto per il lavoro (PPL), meno della metà è stato effettivamente preso in carico, vale a dire ha intrapreso il percorso di accompagnamento al lavoro. Inoltre, soltanto il 20,1% dei percettori presi in carico è in stato occupazionale, contro il 79,9% non occupato. 

Il primo paradosso riguarda la natura contrattuale dei beneficiari occupati, prevalentemente basata su contratti a breve e brevissimo termine ma anche indeterminati e di apprendistato, che lascia ad essi il diritto di percepire il reddito di cittadinanza poiché tale occupazione non incide sul reddito familiare in maniera tale da “emanciparli” dalla misura, rendendoli a tutti gli effetti “working poor”, o lavoratori poveri.

Il quadro si aggrava ulteriormente se si volge lo sguardo agli 843.402 beneficiari non occupati e sottoposti alla sottoscrizione del PPL. Quasi l’80% di essi è considerato lontano dal mercato del lavoro, ovvero senza alcuna esperienza professionale nel triennio precedente (2019-2021) e, oltre la metà, presenta competenze medio basse o basse.

Le analisi confermano che la “falla” del RdC non risiede nella sua incapacità di raggiungere gli obiettivi prefissati, ma piuttosto, nel panorama all’interno del quale opera, ovvero un mercato del lavoro privo di qualità. Per quanto ambizioso, il piano del reddito di cittadinanza non è sufficiente a colmare le lacune fin troppo radicate che dominano il mercato del lavoro italiano. Pertanto, il regime dovrebbe perseguire ed attenersi a parte della sua funzione originaria, quella del contrasto alla povertà e di inclusione degli individui più fragili all’interno della società. Infatti, se da una parte il RdC ha costituito un’àncora di salvezza per milioni di cittadini, tanto che il 77% di essi ha considerato tale sostegno una risorsa indispensabile, l’ancora troppo ampio spettro di vulnerabilità ed esclusione sociale potrebbe fortemente compromettere l’impatto del regime negli anni a venire, come ha evidenziato il Country Report della Commissione Europea.

Estratto dell’intervista di Annalisa Cuzzocrea a Andrea Orlando da “la Stampa” il 31 maggio 2022.

Renzi e Meloni dicono sia tutta colpa del reddito di cittadinanza. Lo fa anche il ministro del Turismo, il leghista Garavaglia, in merito alla crisi di lavoratori che mette a rischio la stagione estiva. È così?

«L'erogazione media del reddito è di 580 euro. Con le modifiche, dopo due chiamate congrue, si perde l'assegno. Stiamo trasferendo i dati alle agenzie per il lavoro e ai centri per l'impiego che avranno questo compito oltre a un riconoscimento economico quando collocano qualcuno. Ma l'ordine di grandezza del fenomeno va raccontato nel dettaglio».

Facciamolo.

«Da dopo la pandemia i percettori di reddito sono costantemente scesi. Negli ultimi tre mesi, di 50 mila unità al mese. In tutto sono tre milioni di persone. Un terzo, sulla base della legge, è occupabile. Sono 900 mila. Di questi, il 20-22% ha già un impiego, che però non gli fa superare la soglia di povertà. Ne restano 750 mila. 

Il 55% donne, molte con bambini difficilmente occupabili in settori come edilizia e agricoltura, il 45% uomini. Due terzi sono al Sud. Quindi, nelle aree in cui c'è una carenza di manodopera ci sono 300 mila percettori di reddito. Un numero consistente di loro ha un livello di scolarizzazione che non raggiunge la terza media. Questo è il quadro».

Traduco: il reddito di cittadinanza c'entra poco con la mancanza di manodopera.

«Anche mandando a lavorare tutti non risolveremmo la questione delle vacanze e infatti lo stesso Garavaglia dice che c'è bisogno di un nuovo decreto flussi».

Francesco Bisozzi per “Il Messaggero” il 21 giugno 2022.

Telefoni che squillano a vuoto, mail che non vengono lette, appuntamenti rimandati per carenza di personale. Benvenuti nei centri per l'impiego tricolori, l'anello più debole delle politiche attive per il lavoro, quello che se si spezza rischia di far evaporare i circa 5 miliardi di euro messi a disposizione dal Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, per trovare un impiego ai beneficiari del reddito di cittadinanza, ai percettori della Naspi e ai lavoratori in Cigs. Al 18 maggio le Regioni avevano assunto solo 3.440 professionisti degli 11.600 attesi in entrata nei centri per l'impiego.

Un ritardo che ora rischia di costare caro: queste strutture, al cui potenziamento il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina 600 milioni di euro, sono chiamate infatti a inserire prima della fine dell'anno 300mila disoccupati nel nuovo programma di Garanzia di occupabilità dei lavoratori (Gol). Un traguardo da cui dipende l'erogazione delle prossime tranche di risorse.

Devono ancora arrivare circa 3 miliardi di euro degli oltre 5 messi sul piatto dal Pnrr per il programma Gol e il rafforzamento dei centri per l'impiego. Considerato però che i centri scontano ancora oggi la mancanza di 8mila operatori, difficilmente riusciranno a centrare l'obiettivo richiesto nei tempi stabiliti.

Insomma, l'operazione di potenziamento dei Cpi sembra essersi incagliata. Emblematico il caso della Sicilia, tra le Regioni con più beneficiari del reddito di cittadinanza nella pancia, dove il maxi concorso per rafforzare i centri per l'impiego è stato un flop.

Quasi 60mila candidati per 537 posti messi a bando: appena 200 gli idonei. Quindi oltre la metà dei posti è rimasto scoperto. Pochi, sottodimensionati rispetto a una domanda di servizi in continuo aumento, senza personale qualificato, i centri per l'impiego navigano a vista e per adesso si appoggiano sui pochi navigator rimasti in servizio dopo l'ennesima proroga del loro contratto, più o meno 1700, per cercare di restare aperti.

Al lordo delle 3mila nuove assunzioni, possono contare su circa 10mila unità di personale: l'obiettivo però è di arrivare almeno a 20mila (in Francia sono più del doppio e in Germania addirittura il quadruplo).

Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha più volte bacchettato le Regioni per il ritardo accumulato sul fronte delle assunzioni nei centri per l'impiego, ma nonostante ciò ancora non si vedono progressi significativi.

Più nel dettaglio, il programma di Garanzia di occupabilità dei lavoratori assorbe 4,4 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Entro il 2025 si prevede che il maxi piano per l'occupazione avrà accolto 3 milioni di beneficiari di prestazioni di sostegno al reddito.

Il programma Gol prevede percorsi di accompagnamento al lavoro personalizzati. Un quarto dei beneficiari seguirà corsi di formazione focalizzati sulle competenze digitali. Dal successo del programma di Garanzia di occupabilità dei lavoratori dipende anche la sopravvivenza del reddito di cittadinanza, che oggi vede più di 800mila percettori occupabili senza lavoro, l'80% circa del totale degli attivabili.

A Natale erano invece 212mila i beneficiari con un rapporto di lavoro attivo, ovvero un occupabile su cinque. Lo stock dei percettori attivabili del sussidio che non si attivano va smaltito il prima possibile o la prestazione di sostegno al reddito introdotta dai Cinquestelle rischia di diventare insostenibile per le casse dello Stato. 

Il sussidio è costato fin qui più di 22 miliardi di euro e di questo passo l'asticella supererà alla fine dell'anno la soglia dei 25 miliardi. Ad aprile la spesa per il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza è stata pari a 668 milioni euro. 

Poveri padroni, rimasti senza lavoratori da schiavizzare. Luca Bottura su su L'Espresso il 6 giugno 2022.

Gli albergatori non trovano gente da sfruttare per la stagione, i gestori dei lidi piangono perché dovranno pagare le concessioni fino a ora regalate, gli industriali se la prendono con i cittadini che non arrivano a fine mese. Che tempi...

Non ho amici Bernabò. Mi piacerebbe, ma i miei amici si chiamano più normalmente Francesco, Leo, Alberto. Ciò detto, Bernabò, è un gran bel nome. Non ho amici Bernabò, eppure immagino quanto possa essere complesso portare un appellativo del genere senza provenire da lombi patrizi. Senza appartenere alle élite. Senza far parte dell’Italietta radical-chic che da sempre gestisce i salotti buoni. Provo perciò istintiva solidarietà nei confronti di Bernabò Bocca, ex deputato di Forza Italia, costretto a salire le scale della vita senza altri strumenti che un diploma in amministrazione aziendale e la catena di alberghi a cinque stelle fondata dal padre, di cui diventò presidente a trent’anni. Della catena, non del padre.

Oggi il self made man Bernabò Bocca, passo passo, fatica dopo fatica, sacrificio dopo sacrificio, è salito al vertice di Federalberghi. Ed è chiaro, quasi fisiologico, che non abbia in simpatia chi pretende di fare la bella vita a sbafo. Chi pretende tutti i privilegi senza addentare il sale del pane altrui. Così, dalle colonne di un quotidiano romano, ha lanciato un grido di dolore contro gli stagionali che stanno lasciando in braghe di tela il comparto da lui sovrinteso. Sfrontati che si permettono addirittura di rifiutare 1300 euro al mese. Per tre mesi. Una cifra con la quale in un albergo di Bernabò Bocca fatichi a permetterti il frigobar, ma che per un poveraccio a chiamata dovrebbe essere fonte di gaudio assoluto. Un regalo da parte del “donatore di lavoro”, come diceva Rosalia Porcaro, che viene incredibilmente respinto al mittente. Non c’è più religione.

Lo stesso giorno, su un altro quotidiano, tale Massimo Mallegni di Forza Italia si esibiva nella strenua difesa del proletariato da bagnasciuga, quelli costretti a pagare 2500 euro l’anno di concessione allo Stato, in cambio di appena 180.000 euro di incassi (dichiarati), e spiegava che, appena smammato Draghi, avrebbe provveduto a cancellare la legge sulla concorrenza, quindi la concorrenza, mantenendo però gli indennizzi previsti per attenuare la legge sulla concorrenza. Mallegni ha uno stabilimento balneare.

Ma soprattutto, a poche pagine da Bernabò Bocca, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi identificava una volta per tutte i responsabili dello sfascio che affligge il Paese: i cittadini. Gentaglia che si permette di ricevere aiuti di Stato e bonus con la scusa che non arriva a fine mese, a differenza delle imprese italiane che mai e poi mai hanno approfittato della mammella pubblica per incassare denari a fondo perduto, casse integrazioni a pioggia, miliardi investiti per la delocalizzazione.

Si parla spesso di dissoluzione della Sinistra. Anzi: della sua inutilità. In effetti, per rappresentare le classi meno abbienti, bastano e avanzano i Bocca, i Mallegni, i Bonomi. Gente che merita ogni riga d’inchiostro ottenuta sui giornali, e senza nemmeno una pastorale di pernacchie in sottofondo. Perché se sei così bravo a sfottere, strumentalizzare, denigrare, chi in democrazia dovrebbe consumare quel che produci tu, dunque dovrebbe quantomeno poterselo permettere, beh: hai certamente vinto tu. Tanto di cappella.

Sette giorni su sette, mille euro, «col Reddito di cittadinanza»: perché non trovano camerieri. SELVAGGIA LUCARELLI E VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 01 giugno 2022

Arriva l’estate e, come ogni anno, si moltiplicano le lamentele da parte delle associazioni di categoria e operatori di settore: non si trovano più lavoratori stagionali, sono diventati tutti troppo esigenti, i giovani si informano prima sui weekend liberi e sui riposi. Selvaggia Lucarelli cerca lavoro a un hotel di Anzio: «Devi lavorare sette giorni su sette, per 1000 euro»

Arriva l’estate e, come ogni anno, si moltiplicano le lamentele da parte delle associazioni di categoria e operatori di settore: non si trovano più lavoratori stagionali, sono diventati tutti troppo esigenti, i giovani si informano prima sui weekend liberi e sui riposi. E poi la motivazione più frequente: colpa del reddito di cittadinanza, troppi preferiscono ricevere il sussidio invece che lavorare. 

Basta però chiamare e informarsi su quali sono le condizioni di lavoro offerte per capire come mai il settore turistico non trova personale: richiesta di disponibilità sette giorni su sette, condizioni contrattuali vaghe, promesse ambigue sulla possibilità di cumulare reddito di cittadinanza e stipendio. Selvaggia Lucarelli ha provato a chiamare l’Hotel Parco dei Principi di Anzio chiedendo di farsi assumere: «Ho letto il vostro annuncio». 

E l’inserzione diceva: «Cercasi cameriera ai piani tutto fare», 7 ore, 800 euro giugno, 900 luglio, mille agosto. Possibilità di restare tutto l’anno e altri extra. E in più si può mantenere il Reddito di cittadinanza. Ma come?

Uno dei responsabili, al telefono, ha risposto chiedendo il curriculum, una foto e una mattina di prova «non retribuita». Un modo per conoscersi, spiegano dall’albergo. Un giorno libero a settimana, ma ad agosto per mille euro «si lavora sette su sette. L’unico periodo che c’è un buon lavoro».

IL COMMERCIALISTA

Il reddito di cittadinanza è un problema o si può mantenere? Selvaggia Lucarelli dice al telefono che riceve l’assegno e non lo vuole perdere. «Si può vedere un tipo di contratto», risponde il responsabile. Ma quale? Fuori busta cioè in nero? Dall’hotel non vogliono parlarne per telefono, meglio discuterne di persona: «Non me ne occupo io, quando porta il curriculum ne discute con la persona preposta. Se l’hanno messo ci saranno delle soluzioni (..) Non so cosa fanno, fanno tutto legale quello tranquilla». 

Il sussidio non è riservato solo ai disoccupati, l'importante è che si rispettino delle regole e si abbiano i giusti requisiti e nello specifico non superare l'Isee stabilito dalla legge.

IL PART-TIME

Abbiamo quindi chiamato l’hotel, presentandoci esplicitamente come giornalisti e chiedendo risposte ufficiali riguardo all’annuncio e alle condizioni di lavoro. Alfredo Buticchi è responsabile della reception e socio dell’hotel. Per mantenere il Reddito di cittadinanza dice che «chi ne ha bisogno può fare un part-time» e ricevere un compenso più basso. Ma con quello stipendio, aggiunge dopo, è possibile persino cumulare: «Il commercialista ci ha spiegato che si può infatti andare a integrare senza perdere i benefici dello stato a seconda della situazione di partenza».

Durante la telefonata di Lucarelli il tempo ridotto però non è stato nemmeno ipotizzato, ma adesso «ci sono duemila esigenze diverse» di cui parla il socio della struttura. E loro vogliono andare incontro a tutte a quanto pare. La stagionalità in questi casi, spiega, scoraggia il personale. Ma il problema negli anni passati a suo dire non si era presentato, si propone adesso: «Potrebbe avere influito il Reddito di cittadinanza», suppone. Lo stipendio, il tempo determinato e l’orario di lavoro per lui invece non sono in questione. Il punto per lui è «mantenere il sussidio».

SORRENTO E ANZIO

Se non si trova la cameriera richiesta dall’annuncio «non è che non apriamo, accettiamo la persona che viene soltanto per tre o quattro ore. Siamo stati obbligati perché sennò non si presentano nemmeno quelli».

Attualmente il personale assunto, spiega Buticchi, non ha il Reddito. E sull’escamotage si giustifica: «Non siamo a Formia o Gaeta. Inutile venire a fare la morale qui. Se si va a Sorrento è un’altra cosa. Da loro si va a sindacare, per gli imprenditori della zona è faticoso». Le «inchieste andrebbero fatte dove le strutture sono piene». 

E la differenza giustificherebbe eventualmente una strada illegale? «No no, se vogliono tenere il reddito e cumulare il beneficio, riduciamo l’orario se serve». La stagionalità fa sì che nella maggior parte dell’anno l’affluenza si concentri nel weekend, e nello specifico il sabato. L’hotel si riempie dal 5-6 agosto fino al 20, con un crollo successivo: «Il part-time si può concentrare anche in una settimana». L’esigenza cambia e dipende anche dalla struttura, se ha o no il ristorante, ad esempio.

«Bisogna stare attenti nel criminalizzare le situazioni. A Rimini con gli alberghi pieni ad adottare queste soluzioni sono ladroni. Senza trovare alternative invece gli hotel come i nostri non possono nemmeno aprire. Sulla regolarità, noi non ci mettiamo a rischio nemmeno per uno scontrino», garantisce. E quindi orari di lavoro pesanti e stipendi bassi: «Sulle spiagge danno 600 euro al mese».

Così anche per la prova gratuita c’è di peggio. Da loro il giorno di prova, specifica, «è mezza giornata per stare con il resto del personale, seguono il lavoro. Non è sfruttamento, è legale», e ancora: «C’è gente che tiene per una settimana senza pagare, non credo che ci guadagniamo con due ore la mattina».

Se le aziende devono cercare degli espedienti è per «lo stato che distrugge». Quindi non è colpa degli imprenditori, con dei distinguo a suo dire: «Un conto è se lo fa una struttura che sopravvive, un altro è se guadagna bene. Vanno interpretate le situazioni». E conclude: «Non è sfruttatore uno che non ha la Ferrari» e «se va a vedere gli annunci troverà molto di peggio». Su come funziona l’accordo per il contratto, le condizioni «si trovano quando uno viene». SELVAGGIA LUCARELLI E VANESSA RICCIARDI.

Il reddito di cittadinanza diventa una rendita, è rinnovabile per tutta la vita. Dario Martini su Il Tempo il 25 maggio 2022

«Il reddito di cittadinanza è una riforma complessa, perché è fondata su un patto di lavoro, un patto di formazione e un meccanismo di inclusione sociale». Era il 4 febbraio 2019 quando l’allora premier Giuseppe Conte usava queste parole per presentare la misura bandiera del Movimento 5 Stelle. I beneficiari lo avrebbero dovuto percepire per 18 mesi, durante i quali sarebbero stati aiutati a trovare lavoro. Se non ce l’avessero fatta, avrebbero potuto ottenere un rinnovo di ulteriori 18 mesi. Tre anni in tutto, un tempo sufficiente per uscire da una situazione di difficoltà grazie all’aiuto dello Stato. Nessuno prendeva in considerazione l’ipotesi che il Rdc sarebbe diventato una misura strutturale senza fine. Invece, è andata proprio così. Secondo l’ultimo report dell’Inps di febbraio scorso, il 70% dei nuclei familiari «esordienti» nel corso del 2019 era ancora beneficiari a fine 2021. E proprio in questi giorni l’Istituto nazionale di previdenza sta ricevendo le domande per un secondo rinnovo di altri 18 mesi. La misura, presentata come «temporanea», e a sostegno delle persone in difficoltà economica, diventa così prorogabile all’infinito.

La legge non fissa un limite temporale. Unica condizione è essere ancora in possesso dei requisiti economici e di non percepire l’assegno per un mese. Chi ha usufruito del primo rinnovo, infatti, è stato «in pausa» a ottobre 2020, avendo iniziato a percepire l’assegno ad aprile 2019. Ora, a maggio, sta invece affrontando il secondo stop di 30 giorni. E a giugno inizierà a percepire il sussidio per altri 18 mesi, fino a novembre 2023. È prevedibile, quindi, che il prossimo report dell’Inps registri un’impennata di nuove domande, che in realtà sono richieste di rinnovo, come è accaduto nel quarto trimestre del 2020, quando furono addirittura 784mila. Un numero altissimo se si considera che la media trimestrale di nuove richieste si aggira sulle 200mila. Fonti del ministero del Lavoro fanno notare che la «persistenza» nel tempo di beneficiari del reddito di cittadinanza non deve stupire, perché «è altissima la percentuale di coloro che hanno abbandonato precocemente gli studi (6% senza titolo, 14% licenza elementare, 51% licenza media)». Motivo per cui «sono difficilmente occupabili». Una ricerca recente dell’Inps «sui percettori nel trimestre aprile-giugno 2019, ha evidenziato che su 100 soggetti beneficiari del Rdc, quelli "teoricamente occupabili" sono poco meno di 60. Di questi: 15 non sono mai stati occupati, 25 lo sono stati in passato, e meno di 20 sono "ready to work" (hanno posizione contributiva recente, in molti casi Naspi e part-time)».

Il rischio, però, è che qualcuno ne approfitti. Il governo Draghi ha cercato di porre un correttivo. Rispetto al passato, infatti, il Rdc è stato modificato introducendo il sistema del «decalage», con la perdita progressiva di 5 euro al mese al primo lavoro «congruo rifiutato», e la revoca totale dopo due offerte non accettate, mentre prima erano tre.

Reddito di cittadinanza da vergogna: cosa fa chi ottiene un lavoro. Attilio Barbieri su Libero Quotidiano il 31 maggio 2022.

Più che un sussidio un vitalizio. La platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza non solo tende a crescere col passare del tempo, ma si consolida pure. Ma se l'ampliamento della platea era largamente previsto dagli esperti, era difficile immaginare, invece, che fra i destinatari di lunga data dell'assegno, ben nove su dieci continuino a rifiutare le proposte di lavoro che ricevono. Ma andiamo con ordine. Dall'aggiornamento di maggio sull'andamento della misura ad aprile, è emerso che ad incassare il reddito o la pensione di cittadinanza sono un milione e 191mila nuclei familiari, mentre le persone coinvolte sono ora 2 milioni e 649mila. Con un importo medio di 560,90 euro. E a fare la parte del leone sono in particolare due regioni. Sicilia e Campania, rispettivamente con 560.381 beneficiari la prima e 683.543 la seconda. Nell'insieme il Mezzogiorno assorbe ben più della metà dei sussidi, con 783mila nuclei beneficiari, contro i 231mila del nord e i 175mila del centro. Soltanto nel mese di aprile lo Stato ha speso 668 milioni per finanziare il sussidio. E in cima alla classifica provinciale, ancora una volta, c'è Napoli che conta ben 440mila percettori della misura, contro i 66mila della provincia di Bari, i 178mila di Palermo - si parla sempre di province - i 162mila di Roma e i 63mila di Torino e Milano. Un primato, quello del capoluogo campano, che resta ineguagliato fin dagli esordi del reddito grillino, nel 2019.

OFFERTE RIFIUTATE

Di nuovo, semmai, c'è la percentuale dei destinatari napoletani delle offerte di lavoro che le rifiutano sistematicamente. I Centri pubblici per l'impiego della provincia hanno collezionato il record di «no, grazie», alle offerte sottoposte al beneficiario: nel 90% dei casi i posti offerti agli assistiti sono rimasti vacanti. D'altronde il diniego non comporta nulla. Si rischia la revoca del sussidio soltanto dopo il terzo «no».

Ai primi due non accade nulla.

CONTRATTI A TERMINE

Certo, come riferisce la Repubblica, su 1.170 offerte di lavoro con scadenza a giugno, pubblicate sul portale Cliclavorocampania, ben 1.044 riguardano contratti a termine, tra apprendistato, contratti di collaborazione e lavori stagionali dai 3 ai 6 mesi. Numeri che, fra l'altro, spiegano l'allarme lanciato in settimana dagli esercenti napoletani che lamentano l'assenza di candidati per 5mila posizioni. Un piccolo esercito destinato comunque a crescere. Dopo le polemiche innescate da Renzi con l'annuncio di un referendum per abolire reddito e pensione di cittadinanza, è tornata sul tema ieri pure Giorgia Meloni che non ha mai smesso di puntare il dito sulla misura grillina, definendola da ultimo «diseducativa» perché «non risolve la condizione di povertà di chi percepisce il sussidio e lo lascia stabilmente dipendente dalla politica». Fra l'altro i ripetuti dinieghi alle offerte di lavoro stagionali metterebbero a rischio addirittura 75mila esercizi commerciali- soprattutto bar e ristoranti - in tutta Italia, come ha calcolato lo Studio Susini di Firenze, specializzato in diritto del lavoro. Mentre gli illeciti accertati, con la revoca dell'assegno, crescono a dismisura. Se nel 2019 ne erano stati individuati 10.778 per un importo di 969mila euro, nel 2020 gli illeciti sono stati 18.131 per 5,6 milioni di euro, mentre nel 2021 si parla di 156.822 illeciti per un totale ancora parziale di 41,3 milioni. E riesplodono pure le polemiche per lo scarso utilizzo da parte degli enti locali dei beneficiari nei Progetti utili alla collettività, i Puc. È dei giorni scorsi la denuncia di Dario Nanni consigliere comunale della Lista Civica Calenda a Roma dove il comune, «a fronte dei 67.315 percettori complessivi ne impiega solo 117». Una situazione per altro molto diffusa fra le amministrazioni comunali. 

Rosaria Amato per “la Repubblica” il 30 maggio 2022.

«Quando arriva un nuovo collega dal Sud, io gli consiglio subito di trovarsi un fidanzato, o una fidanzata, per dividere le spese, altrimenti è impossibile vivere a Milano. Un affitto per due persone in un quartiere normalissimo come quello in cui vivo io costa 1.250 euro al mese. Con uno stipendio della Pubblica Amministrazione è difficile vivere qui in Lombardia». 

Alessandra (nome inventato, ndr), funzionaria pubblica, viene da Salerno, e vive a Milano con la famiglia da 12 anni. Negli ultimi tempi è sempre più frequente, racconta, che i neoassunti si licenzino, proprio come ha spiegato qualche giorno fa in Parlamento il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili Enrico Giovannini e come aveva riferito a febbraio anche il ministro dell'Economia Daniele Franco.

«Aspettavamo un geometra, delle mie parti - racconta Alessandra - Non si è neanche presentato. Un'altra collega, di una regione del Centro Italia, invece è venuta, ha provato, è rimasta un mese, poi si è licenziata e se n'è andata». 

Per i profili tecnici la difficoltà di trovare professionisti disponibili è sempre maggiore. Luciano, architetto (anche in questo caso il nome è falso) spiega il perché: «Dopo molti anni sono stato ripescato dagli idonei di un concorso. Sono un esperto di procedure specialistiche che la Pa sta cominciando ad adottare, speravo di poter dare il mio contributo.

Però mi sono ritrovato a dover stipulare contratti per appalti molto complessi, con uno stipendio di 1600 euro al mese che nella città in cui vivo, nel Nord Italia, copre a malapena le spese.

Al massimo posso avere un'integrazione lorda annua di 13 mila euro lordi, mentre nel privato con le stesse competenze potrei guadagnare anche 50 mila euro a contratto. Le procedure sono molto lente, a fronte di un rischio molto elevato di tipo penale e civile. E devo pagare da solo la mia assicurazione e l'iscrizione all'ordine professionale».

Dalle stime di Fpa, la società che organizza il Forum Pa, finora sono stati coperti tutti e 15 mila i posti banditi per i concorsi del Pnrr. Segno che la percezione della Pa sta cambiando in meglio, rileva il direttore Fpa Gianni Dominici: «Soprattutto attrae la nuova quarta area dei quadri, che assicura stipendi e carriere migliori». 

Per far capire che la Pa «non è quella di Fantozzi» Antonio Naddeo, presidente dell'Aran, l'Agenzia che stipula i contratti pubblici, lancia una sfida, proponendo «un Open Day aperto alle scuole e alle università, per far capire quello che fanno l'Istat, l'Inps o il Cnr».

Anche perché nei prossimi mesi i posti banditi saranno decine di migliaia, e sarebbe un problema se la tendenza a rifiutare i contratti si consolidasse. 

In moltissimi casi, anche per i concorsi ordinari, le amministrazioni, dal Mef al Mims all'Agenzia delle Dogane ai ministeri del Lavoro e della Giustizia, hanno dovuto "scorrere le graduatorie", chiamando uno per uno gli idonei non vincitori. 

Con un risultato paradossale, fa notare Marco Carlomagno, segretario generale della Flp: «I vincitori hanno dovuto accettare la sede assegnata, e quindi, se meridionali, si sono dovuti trasferire al Nord, oppure a Roma, come prevedeva il concorso da 500 posti del Mef, e anche in questo caso si tratta di un trasferimento in una città che ha un costo della vita elevato. Mentre gli idonei in molti casi hanno potuto scegliere!».

Molte amministrazioni, a cominciare dall'Agenzia delle Dogane, hanno annunciato che i prossimi concorsi saranno su base regionale, ma questo, rileva Carlomagno, «non risolve la questione, perché le sedi del Nord dove i laureati hanno possibilità di lavoro nel privato ben più remunerative, rimarranno comunque vuote. I giovani non sono attratti da stipendi che crescono poco e carriere che spesso rimangono ferme per 30 anni».

I social media sono pieni di testimonianze di giovani che hanno opposto il "gran rifiuto" alla Pa: «Qualche mese fa ho partecipato ad un bando per un'azienda pubblica - racconta Vincenzo Racca, informatico, 30 anni -. Mi avevano offerto uno stipendio superiore a quello che percepisco adesso nel privato, ma utilizzavano tecnologie molto vecchie, e non prevedevano lo smart working”. 

Luca Bottura per “La Stampa” il 30 maggio 2022.

Ieri mattina, ora di colazione. Consumo brioche e cappuccino. Prima di uscire mi avvicino alla cassa per salutare e quelli, a tradimento, battono lo scontrino: 3 euro e 10. 

Ovviamente sbotto: «E che, si fa così?». Non comprendono. Allora spiego: «Lei mi chiede subito del denaro senza nemmeno informarsi sui miei interessi, sui miei progetti, sulla mia storia personale». Niente: «Tre euro e dieci». 

«Ma lei lo sa la fatica che la mia famiglia ha fatto per me? Lo sa quanto hanno speso per farmi studiare? Io i suoi 3 euro e dieci voglio poterli reinvestire per il progresso del Paese».

Minacciano di chiamare la polizia. Dialogante, mi gioco l'ultima carta: «Guardi, facciamo così: adesso esco e alle prime tre persone che incontro dico che il cappuccino era ottimo e la brioche freschissima. Vi pago in visibilità». A momenti mi menano. 

Naturalmente non è successo, perché nessuno sano di mente (anche se questo non mi esclude dal novero) si permetterebbe di dar vita a una scena del genere. Eppure la leggete ogni giorno quasi ovunque, con parole molto simili. Cambiano solo gli attori: imprenditori e imprenditrici, l'ultima Tiziana Fausti, ramo fashion, che lamentano pubblicamente la proattività deficitaria di chi cerca lavoro, specie i giovani.

Questi fannulloni chiedono subito quanto prenderanno, si informano sugli straordinari, su possibili weekend liberi. Invece di empatizzare con chi li assume, che magari si è fatto da sé semplicemente ereditando una valigeria di lusso nel centro di Bergamo.

Ora, non so come dirlo a Fausti e a tanti altri, ma la roba che dicono loro si chiama socialismo. E non nel senso di social. Prevederebbe però che si socializzassero anche gli utili, oltre alla fatica e al rischio di impresa. Ma siccome (se Dio vuole) ha vinto il capitalismo, funziona diversamente. L'imprenditore rischia soldi, salute e posteriore in cambio di denaro frusciante. Ove gli vada bene, ovvio.

L'impiegato non insegue il jackpot. Dunque si regola di conseguenza. Certo, una via di mezzo ci sarebbe. Quella tedesca, dove lavoratori e imprenditori condividono il "goal", come credo direbbe Fausti, in cambio di salari molto più alti - siamo l'unico Paese in cui gli stipendi sono scesi, da vent'anni in qua - e diritti che in Italia abbiamo progressivamente smantellato. Un fordismo alla teutonica che peraltro in Europa fu inventato dagli italiani, cioè da Adriano Olivetti.

Uno che oggi passerebbe come un pericoloso comunista, fuori dal mondo, schiavo dei sindacati. E che, coinvolgendo i dipendenti, creandone il welfare, aveva divorato fior di aziende a stelle e strisce. Mica un benefattore. 

Noi però siamo (non sempre, ma troppo spesso) la Repubblica dei Gianluca Vacchi. Talmente abituati a un ecosistema del lavoro tossico che ce la prendiamo coi giovani. Quelli cui abbiamo mangiato futuro e pensioni. E anche la voglia di farsi domande.

Facciamocene lo stesso: se non si trova personale a termine per la stagione estiva, sarà mica che per 800 euro in nero al mese la gente sta a casa? Se c'è chi al Sud preferisce il reddito di cittadinanza a un lavoro, sarà mica perché il lavoro è pagato uguale e forse in nero? 

Se la gente si dimette in massa, sarà mica perché il loro tempo ha la stessa dignità di quello delle Fauci e sono stanchi di farselo pagare due spicci? Non rispondete subito. Prendetevi qualche minuto. Intanto pago la colazione.

Altre 478 posizioni al vaglio delle indagini. Maxi truffa da 4 milioni di euro sul reddito di cittadinanza, 140 denunciati senza diritto. Vito Califano su Il Riformista il 13 Maggio 2022.

Denunciate 140 persone per la percezione indebita del reddito di cittadinanza: una truffa dall’importo complessivo di quattro milioni di euro secondo le indagini. Questa volta è stata la Polizia di Cagliari a procedere contro chi avrebbe ottenuto il sussidio a partire dal 2019 tramite dichiarazioni false. Tutti i destinatari della denuncia sono stranieri. E non è finita qui, in quanto sarebbero al vaglio degli investigatori le posizioni di altri 478 stranieri, percettori anche questi del sostegno dal 2019 e che rischiano la denuncia e la revoca del reddito.

Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, leader del Movimento 5 Stelle e ministro dello Sviluppo Economico all’adozione della misura, in un’intervista a Il Foglio aveva dichiarato come sarebbe stato opportuno “ripensare i meccanismi separando nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”. A tre anni dall’introduzione la misura si è infatti dimostrata un efficace strumento assistenziale ma un debole mezzo di incentivo al mercato del lavoro. Secondo i dati della Corte dei Conti al febbraio 2021 le persone che avevano instaurato un rapporto di lavoro dopo la richiesta della domanda erano 152.673, il 14,5% del totale.

La misura introdotta dal governo Conte 1 è stata in parte modificata tramite la legge di Bilancio 2022 da 36,5 miliardi di euro. Proprio per frenare le truffe ai danni dello Stato. Tra le novità, in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro scala subito il reddito di cinque euro per ciascun mese. Al secondo rifiuto, invece che al terzo, il sostegno viene revocato. Ridotta da 100 a 80 chilometri la distanza massima dalla residenza del beneficiario, la seconda può trovarsi ovunque in Italia. Introdotto anche l’obbligo, una volta al mese, ad attività e colloqui in presenza. Allargata inoltre la lista dei reati che fanno decadere il beneficio. La dote complessiva della misura è stata stabilita in poco meno di 8,8 miliardi di euro.

A fine aprile è stato intanto trovato un accordo per rinnovare, anche se per pochi mesi, il contratto dei quasi duemila navigator: i consulenti assunti nel luglio 2019 per il compito di trovare lavoro ai percettori del reddito di cittadinanza. Il contratto scadeva infatti sabato 30 aprile. È possibile che a fine giugno ci sia un ulteriore rinnovo per altri due mesi. A fine agosto il ministero dovrà decidere se prorogare per la quinta volta i contratti o se assumere definitivamente i navigator con contratti a tempo indeterminato. Al momento questi “facilitatori” guadagnano circa 1.700 euro netti al mese di cui 300 euro come rimborso spese forfettario.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Francesco Bisozzi per “Il Messaggero” il 26 aprile 2022.

Navigator al capolinea. Dovevano trovare un impiego ai percettori del reddito di cittadinanza, ma ora sono loro che rischiano di perdere il lavoro e per giunta il primo maggio, quando cade la festa dei lavoratori. 

Per salvare dalla disoccupazione gli assistenti voluti da Luigi Di Maio, con il contratto in scadenza tra meno di una settimana, il governo valuta adesso la possibilità di favorirli nei concorsi pubblici. Di più. Si ragiona anche su una nuova mini-proroga del loro rapporto di lavoro. Su tremila navigator assunti nel 2019, ne restano in attività 1.900.

Molti strada facendo hanno trovato occupazioni meglio retribuite e così hanno abbandonato i centri per l'impiego già nei mesi scorsi. In programma domani al ministero del Lavoro un incontro con i sindacati.

Per i navigator si cerca una soluzione che li stabilizzi in via definitiva, anche perché hanno già beneficiato di due proroghe, ad aprile e dicembre dello scorso anno: dovevano uscire definitivamente di scena nel 2021, poi però con la scusa della pandemia, che ha costretto allo smart working totale gli operatori dei centri per l'impiego, il governo ha deciso di concedere loro più tempo.

L'idea è di dare ai navigator che parteciperanno ai prossimi concorsi pubblici un aiutino prezioso. Come? Attribuendo loro in sede di valutazione dei titoli un punteggio aggiuntivo per l'esperienza maturata in questi anni.

Ai sindacati però non basta e chiedono almeno due mesi di tempo, ovvero una nuova proroga, l'ennesima, anche se magari più corta delle precedenti. In questo modo i centri per l'impiego non rischierebbero di restare sguarniti: sono anni che aspettano rinforzi, ma i bandi delle Regioni (che sono state autorizzate ad assumere 11.600 operatori a tempo indeterminato) avanzano al rallentatore e così i posti coperti fin qui sarebbero la metà di quelli a disposizione.

Non è un problema di poco conto. Di mezzo ci sono le milestone da raggiungere sul fronte delle politiche attive per il lavoro per non perdere i soldi del Pnrr. I centri per l'impiego devono prendere in carico entro l'anno fino a 600mila percettori di prestazioni di sostegno al reddito, dal reddito di cittadinanza alla Naspi, nell'ambito del programma Gol, il programma di garanzia di occupabilità dei lavoratori avviato dal governo Draghi e pensato dall'ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, finanziato con 4,4 miliardi del Pnrr.

Un obiettivo ambizioso che difficilmente potrà essere raggiunto se non verranno assunti a tempo indeterminato i quasi 6.000 operatori ancora mancanti nei centri per l'impiego.

Estratto dell'articolo di Valentina Conte per “la Repubblica” il 27 aprile 2022.

Un punteggio di favore nei futuri concorsi regionali per valorizzare l'esperienza dei navigator e un premio alle Regioni che li stabilizzano. Ma nell'immediato la proroga dei 1.874 navigator (quelli rimasti dai 2.980 iniziali) pare non percorribile, a meno di sorprese nel decreto energia e aiuti allo studio del governo.

Assunti a termine per concorso nel 2019 a sostegno dei percettori del Reddito di cittadinanza nei centri per l'impiego, dal primo maggio i navigator saranno disoccupati. Il loro contratto di collaborazione con Anpal Servizi, già prorogato due volte, scade il 30 aprile. E nonostante sostegni parlamentari trasversali (ma con distinguo tra i partiti) non sembra esserci un progetto di conferma.

Le Regioni non ne vogliono sapere. Il ministero del Lavoro si è attivato per trovare risorse nei fondi propri. E comunque nei prossimi anni sono in arrivo 11,5 miliardi per rilanciare le politiche attive del lavoro in Italia, tra Pnrr, ReactEu e Fondo sociale europeo.

Oggi è previsto un incontro dei sindacati con il ministro del Lavoro Andrea Orlando, dopo quello interlocutorio di giovedì. Da ieri Cgil, Cisl e Uil sono in presidio permanente davanti a Palazzo Vidoni, sede del ministero della Pubblica amministrazione (ma ieri il ministro Brunetta non li ha ricevuti e i sindacati l'hanno contestato).

Dicastero coinvolto da Orlando per trovare una formula normativa che possa favorire l'inserimento dei navigator in pianta stabile nei centri per l'impiego. Un'ipotesi vissuta con molto scetticismo, sia dai sindacati che dagli stessi navigator.

E questo perché esiste già una norma (l'articolo 18 del decreto 41 del 2021: «Il servizio prestato costituisce titolo di preferenza») che viene per lo più ignorato dalle Regioni nei bandi in corso per l'assunzione di 11.600 nuovi addetti nei 552 Centri per l'impiego (mezzo miliardo all'anno già stanziato). Non è un obbligo, solo una facoltà. E così resterà.

Il malessere del lavoro pubblico: perché parliamo di giovani che “non vogliono il posto fisso”. Carlo Mochi Sismondi su La Repubblica l'8 Giugno 2022.

No, non c’è una sola causa. E no, non è tutta colpa del reddito di cittadinanza. La questione è più complessa e riguarda cambiamenti epocali a cui il settore pubblico e privato stanno reagendo con estrema lentezza.

Parlare di una sola causa è fuorviante, sia che si parli di Nord-Sud; sia che si parli di reddito di cittadinanza o anche di valutazione sociale del lavoro pubblico, le motivazioni che portano all'abbandono del posto di lavoro stabile sono molteplici e la risposta non può essere univoca.

Ci sono tre aspetti da valutare.

Primo. Siamo di fronte a un cambiamento epocale della stessa collocazione del lavoro nella vita delle persone. Un cambio di prospettiva che ha fortemente cambiato la domanda di lavoro, specie se qualificato, da più punti di vista: la necessità di un maggiore riconoscimento e quindi anche di condizioni economiche più soddisfacenti; la voglia di avere un posto in cui crescere; la necessità di conciliare vita privata e lavoro in un nuovo equilibrio che la pandemia ci ha messo in condizione di apprezzare e ritenere necessario. La maggiore difficoltà ad accettare un posto di lavoro che non garantisce quello che la Costituzione italiana prescrive all’art.36, ossia “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. E questa esistenza libera e dignitose per sé e la propria famiglia non è garantita a Milano dalle 1.300 euro mensili di un primo stipendio da funzionario laureato. Tutto questo ha portato alla cosiddetta great resignation, cioè alle dimissioni volontarie che interessano il 60 per cento delle aziende, riguardano diverse decine di migliaia di posizioni e coinvolgono principalmente le aree dell’informatica e del digitale, la produzione, il marketing e le vendite. A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto gli addetti fra i 26 e i 35 anni e perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia. Nel pubblico, ha portato a quella difficoltà a reperire candidati per i concorsi, specie per posti al Nord, messa recentemente in evidenza da Enrico Giovannini nella sua audizione. Il ministro infatti ha evidenziato che, soprattutto al Nord è difficile assumere attraverso il concorso pubblico. Del resto, nel bando andato deserto, la richiesta era di laureati in materie tecniche (di cui per altro c'è parecchia richiesta da parte delle imprese), assunti in terza fascia con una retribuzione d'ingresso di 1300 euro al mese. Poco se si considera che in base ai dati Istat il costo della vita al Nord per una famiglia è di 2.600 euro circa, contro i 1.800 euro al Sud.

Secondo. Non altrettanto è cambiata l’offerta di lavoro sia privata, vediamo la great resignation e la difficoltà dell’imprenditoria di trovare personale adeguato, sia pubblica, dove ancora deve farsi strada la pratica dell’employer branding, ossia di promuovere la propria organizzazione come un buon posto di lavoro. Non è cambiata l’offerta di lavoro pubblico nei concorsi, ora digitalizzati, ma sempre a quiz e centrati su nozioni e non su capacità e attitudini. Non è cambiata, almeno per ora, dal punto di vista retributivo. Non è cambiata, se non in poche eccezioni positive, nell’organizzazione del lavoro: ancora molto gerarchica e impostata sulla presenza attorno al capo.

Non è cambiata nella possibilità di crescere professionalmente perché la formazione è ridicolamente poca e centrata non sulla crescita delle persone, ma sull’aggiornamento delle norme. Non è cambiata nella possibilità di crescere all’interno di una organizzazione ancora rigida, in cui le aree formano barriere difficilmente sormontabili. Non è cambiata nella percezione dell’opinione pubblica che vede ancora il pubblico impiego, a meno che non sia dirigenziale, come un ripiego.

Terzo. Eppure, nella Pa qualcosa si muove. Il Pnrr ha focalizzato il lavoro pubblico su grandi missioni del paese aumentando la potenziale motivazione. Il nuovo contratto di lavoro prevede il riconoscimento delle elevate professionalità e infatti 15.000 esperti sono stati assunti nella Pa per il Pnrr, seppure quasi tutti a tempo determinato, ma con una selezione spesso, anche se non sempre, meritocratica. Il Governo, nella persona del suo ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta, ha dichiarato che uno degli obiettivi principali della sua azione è la valorizzazione del capitale umano. Il Presidente dell’Aaran, ossia il capo dell’Agenzia che fa i contratti pubblici, Antonio Naddeo, ha proposto un open day per le Pa, sulla scia di quello che fanno le università.

Per concludere: Esiste uno sfasamento temporale, sia nella Pubblica Amministrazione, sia nel mondo privato, tra cambiamento repentino della domanda di lavoro, rivoluzionata da fattori esogeni (pandemia, calo del potere di acquisto dei salari) ed endogeni (ricerca di un maggiore equilibrio di vita) e cambiamento molto più lento dell’offerta che nel privato continua a proporre precarietà e stipendi anticostituzionali e nel pubblico, in cui deve ancor affermarsi una moderna gestione delle persone, che non sono risorse umane, ma appunto persone, ognuna con propri desideri, propri sogni, proprie qualità. È compito della politica, ma anche di una dirigenza attenta alle persone, accorciare questo elastico, prima che si spezzi.

Posto fisso addio, concorsi flop e dimissioni tra i dipendenti pubblici: cosa succede? Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.  

Il tessuto economico e lavorativo del Meridione ha sempre spinto a guardare ai concorsi pubblici come a un’ancora di salvezza per chi vive in regioni del Paese dove il tasso di disoccupazione è sempre stato alto (le recenti statistiche di Eurostat hanno messo in evidenza una situazione drammatica: circa quattro giovani su 10 in Sicilia, Campania e Calabria nel 2021 erano senza lavoro: uno dei dati peggiori in Ue). La presenza massiccia di italiani provenienti dalle regioni meridionali negli uffici pubblici e nelle scuole del Nord Italia, dunque, è sempre stata una costante. Eppure, qualcosa sembra stia cambiando. Ora, ciò che era già avvenuto anni fa tra la popolazione delle regioni settentrionali, riguarda anche il Sud: ovvero, la fuga dal lavoro pubblico.

Il rifiuto di spostarsi lontano da casa

A lanciare l’allarme per una situazione che si appresta a diventare decisamente spinosa per la macchina dello Stato, è il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, che il 26 maggio in audizione alla Commissione Trasporti della Camera ha spiegato che «recenti assunzioni per motorizzazioni e provveditorati sono andate in parte deserte, in particolare al Nord». Per dirla senza titubanze: gli ultimi concorsi, soprattutto alcuni legati al Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili, sono stati un mezzo flop. Stando ai dati illustrati da Giovannini, dei 320 funzionari di amministrazione messi a concorso, «una quota consistente ha rinunciato evitando di prendere servizio a meno che non fosse indicata una sede al Sud». E non è finita qui: «La stessa cosa - ha detto il ministro - temiamo che accada per il primo concorso rivolto agli ingegneri».

Stipendi troppo bassi

Insomma, gli italiani non sono più così disposti a spostarsi per lavoro troppo lontano da casa. E così, se da una parte abbiamo ancora frotte di giovani che emigrano in altri Paesi Ue o in altri Continenti alla ricerca di un’attività lavorativa degna delle loro capacità, dall’altra abbiamo un numero crescente di italiani che non se la sentono - per un modesto lavoro impiegatizio - di cambiare neppure regione. Le motivazioni alla base di questo rifiuto sono varie. La prima è di natura economica: le retribuzioni non sono ritenute allettanti, soprattutto considerando il costo della vita che al Nord è decisamente superiore rispetto a quello delle regioni meridionali. Per avere un’idea, secondo un’indagine del Codacons, nel 2021 Milano era la città più cara d’Italia: per mangiare sotto la Madonnina, infatti, bisogna spendere in media il 47% in più rispetto a Napoli. In Italia, infatti, a differenza di quello che accade ad esempio negli Stati Uniti, gli stipendi (del pubblico come del privato) non sono tarati sui costi della vita della città in cui si lavora. E così, la domanda che si fanno gli aspiranti concorsisti è legittima: se 35 mila euro a Milano equivalgono a poco più di 20 mila a Palermo, perché lo stipendio di un dipendente della motorizzazione del capoluogo lombardo deve essere uguale a quello siciliano? Da qui i tanti rifiuti a una scelta di emigrazione interna.

Il flop del Concorso per il Sud

In realtà, nemmeno i concorsi in una Pubblica amministrazione del Sud fanno poi così gola. Il Concorso per il Sud, che doveva assegnare 2.800 posti nella Pa del Mezzogiorno, ha visto una tale scarsa affluenza di partecipanti alle selezioni (meno del 65% a livello nazionale e addirittura inferiore al 50% in alcune regioni) che il ministero della Pubblica amministrazione si è visto costretto a una modifica del bando, superando ed eliminando il limite originariamente fissato per l’ammissione alla prova scritta, pari a tre volte il numero dei posti messi a bando più gli ex aequo. Insomma, anche i candidati giudicati non idonei sono stati ripescati pur di riuscire a coprire i posti vacanti.

La carenza di competenze

E qui arriviamo al rovescio della medaglia. Il problema che lo Stato deve affrontare, ovvero la mancanza di figure professionali dietro gli sportelli pubblici e nei posti da funzionari, problema che, stando a quanto detto da Giovannini, nei prossimi anni prenderà forme preoccupanti, riguarda anche una carenza diffusa di competenze. Bastano due esempi per capirlo. Il primo riguarda il concorso per la scuola, che ha visto un tasso di bocciati che in alcuni casi ha sfiorato il 90%. Delle 230 procedure (circa il 38% di quelle previste) di cui attualmente si conosce il numero di ammessi all’orale, la percentuale di chi è stato bocciato - al lordo di chi non si è presentato alla prova - è dell’87%. Per le discipline STEM è anche peggio: sono 20 i risultati degli scritti attualmente noti delle 75 procedure previste e la percentuale di ammessi all’orale è solo dell’11,3%, dunque quasi l’89% di chi ha tentato la prova è risultato inidoneo. L’altro esempio riguarda i 5.827 candidati al concorso di magistratura del dicembre scorso, dove soltanto 3.797 hanno consegnato la busta con la prova. Risultato? Solo 220 sono stati ammessi alla prova orale. Le ragioni? Il 95% degli esaminati non ha saputo dimostrare di avere una competenza sufficiente in diritto e nemmeno in lingua italiana.

Grandi dimissioni, i lavoratori fuggono dal malessere e dagli stipendi bassi. Marco Cimminella su La Repubblica il 25 Maggio 2022.

Secondo uno studio dell'Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, che analizza il fenomeno in Italia, nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende.

Le aziende hanno bisogno di nuove competenze e di talenti, soprattutto in ambito digitale. C’è però un grosso problema: non solo non riescono ad attrarre candidati, ma hanno anche difficoltà a motivare, trattenere e coinvolgere i loro dipendenti. Il Covid 19 e i lockdown hanno cambiato il modo di lavorare e di vivere la dimensione professionale: la ricerca di maggiore autonomia, flessibilità e del giusto equilibrio con la vita privata sono diventati prioritari per le persone dopo l'esperienza della pandemia, ma questo non basta a spiegare come è mutato il mercato del lavoro. Nel 2021, il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende: e tra chi ha abbandonato il posto in cerca di nuovi orizzonti, quattro su dieci lo hanno fatto senza un'altra offerta al momento delle dimissioni. Il fenomeno della Great Resignation (Grandi dimissioni), infatti, riguarda anche l'Italia: il 45% degli occupati ha dichiarato di aver cambiato lavoro nell'ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Una decisione che non è motivata solo dall'esigenza di migliori stipendi, ma che riflette anche un certo malessere avvertito sul lavoro, un malessere emotivo e psicologico che le organizzazioni non riescono ad affrontare adeguatamente, a volte neppure a comprendere.

A dirlo è una ricerca dell'Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno "Riconquistare le persone ai tempi delle Grandi Dimissioni: alla ricerca dell'equilibrio perduto". Da un lato, lo studio evidenzia come per il 44% delle imprese la propria capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita dopo la pandemia, un'area in cui le direzioni delle risorse umane hanno individuato le maggiori criticità in questo periodo; dall'altro, a preoccupare le organizzazioni sono anche quei dipendenti che vogliono andare via: una tendenza che è più forte per i giovani (dai 18 ai 30 anni) impiegati in determinati settori (come Ict, servizi e finanza) o che svolgono determinati ruoli (soprattutto profili digitali).

Le ragioni che spingono a cercare nuove opportunità sono diverse. Domina il desiderio di maggiori benefici economici (46%), ma è fortemente sentito anche il bisogno di cercare nuove opportunità di carriera (35%). Tuttavia, una buona percentuale di persone cambia lavoro anche per motivi di salute fisica o mentale (24%), per inseguire le passioni personali (18%) o per ottenere una maggiore flessibilità dell'orario di lavoro (18%). In particolare, ansia, stress, stanchezza eccessiva sono tutti esempi di un malessere che logora il lavoratore, con dannose ripercussioni anche a livello fisico, come la difficoltà a riposare bene o l'insonnia. Secondo gli autori della ricerca, se si considerano le tre dimensioni del benessere lavorativo (fisica, sociale e psicologica), solo il 9% degli occupati ha detto di stare bene in tutte e tre. E l'aspetto più critico è quello psicologico: quattro su dieci hanno avuto almeno un'assenza nell'ultimo anno per malessere emotivo. Purtroppo, le organizzazioni non sono consapevoli di queste gravi situazioni, al punto che solo nel 5% dei casi lo considerano un aspetto problematico. Una condizione che aiuta anche a contestualizzare la forte diminuzione del livello di engagement del personale delle aziende, considerando che solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all'interno dell'organizzazione.

"Le dimissioni in Italia sono lo specchio di due fenomeni correlati – spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell'Osservatorio HR Innovation Practice - il crescente malessere dei lavoratori, spesso non adeguatamente identificato dalle organizzazioni, e la volontà di dare un nuovo significato al lavoro, per cui molte persone oggi cambiano anche a condizioni economiche inferiori, per seguire passioni e interessi personali o conseguire maggiore flessibilità". E aggiunge: "Di minor rilievo, rispetto a quanto documentato in altri Paesi come gli Usa, è invece il desiderio di abbandonare del tutto il mondo del lavoro, indicato in Italia come ragione di possibili dimissioni solo dal 6% dei lavoratori. In questo quadro che sta mettendo in crisi il mercato del lavoro e i tradizionali modelli organizzativi è fondamentale il ruolo della Direzione HR, a cui si richiede una funzione guida per portare l'organizzazione a un modello di lavoro 'sostenibile', che metta al centro il benessere dei lavoratori, il loro coinvolgimento e la loro impiegabilità".

"Per migliorare benessere ed engagement bisogna agire in maniera prioritaria su due leve – ha poi sottolineato Martina Mauri, direttrice dell'Osservatorio HR Innovation Practice - Da una parte aumentare la flessibilità, intesa soprattutto come responsabilizzazione e autonomia della persona nella gestione delle proprie attività lavorative. Dall'altra creare un ambiente aperto e inclusivo, capace di valorizzare al meglio le competenze dei lavoratori, ma anche i loro interessi e passioni personali, a cui dare piena cittadinanza all'interno dei confini organizzativi".

Alla ricerca di competenze digitali

Per cavalcare la trasformazione digitale accelerata dalla pandemia, le aziende hanno bisogno di specifiche competenze che faticano a trovare: il 96% delle organizzazioni hanno difficoltà non solo ad attrarre nuove risorse ma anche a sviluppare internamente le professionalità digitali richieste. Anche la riqualificazione della forza lavoro esistente è infatti complessa: come ricorda lo studio, tra uno o due anni il 9% dei dipendenti dovrà essere riallocato perché non ha le competenze adeguate a svolgere il proprio lavoro, percentuale che supera il 15% in oltre una organizzazione su dieci. I lavoratori sono meno preoccupati di questa tendenza, visto che il 74% di loro non teme di rimanere inoccupato a causa dell'evoluzione della propria professione: una situazione che trova una spiegazione anche nella scarsa consapevolezza di questi cambiamenti. Al contempo, le aziende stanno affrontando queste dinamiche con un approccio poco strategico, considerando il fatto che solo il 30% delle organizzazioni mappano le competenze presenti in azienda, e ancora meno sono quelle che si interrogano in maniera costruttiva sulle capacità che saranno fondamentali in futuro per definire azioni di sviluppo.

Tra i profili più ricercati spiccano le figure in ambito tecnologico. Con il passaggio sul cloud di informazioni e software, e la necessità di rafforzare le difese contro gli attacchi informatici cresciuti nel corso della pandemia, le aziende hanno bisogno di esperti di cyber security, ma anche di professionisti specializzati in Big Data e Analytics per analizzare enormi quantità di dati con l'obiettivo di prendere decisioni strategiche migliori. Strumenti e conoscenze che sono fondamentali anche nell'ambito delle risorse umane: il ruolo della Direzione Hr si sta evolvendo verso un approccio di Connected People Care, che si basa su una gestione del capitale umano orientato alle esigenze specifiche di ogni persona attraverso la raccolta e l'elaborazione di dati provenienti da diverse fonti.

Queste trasformazioni richiedono anche fondi e nel 2022 gli investimenti in digitale a sostegno delle iniziative Hr hanno registrato un incremento del 5%. Il 55% delle organizzazioni ha detto di aver aumentato gli investimenti, il 38% non riporta alcuna variazione. I processi in cui si rileva l'aumento maggiore sono la formazione, l'onboarding e l'attrazione di nuovi candidati. E c'è ancora tanta strada da fare, visto che la direzione HR delle aziende è ancora poco data driven: solo il 14% delle organizzazioni ha un approccio maturo alla gestione e all'utilizzo dei dati, con figure specializzate che analizzano le informazioni ottenute da reportistica in real time o predittiva.

La decisione del tribunale del lavoro. Punite lavoratrici in sciopero, Elisabetta Franchi perde in tribunale: è condotta antisindacale. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Maggio 2022. 

Le polemiche per il suo intervento sul ruolo delle donne nella sua azienda non è ancora finito, ma per Elisabetta Franchi si apre un nuovo fronte. La stilista ha perso la causa intentata contro la sua  azienda, la Betty Blue, venendo condannata dal tribunale del lavoro di Bologna per comportamento antisindacale.

È stato infatti parzialmente accolto un presentato dalla Filcams-Cgil, col giudice Chiara Zompi che ha ritenuto una condotta illegittima e antisindacale inviare contestazioni disciplinari a chi non ha lavorato perché ha aderito a uno sciopero indetto contro gli straordinari.

La decisione riguarda lettere inviate il 23 e 25 novembre 2021 e l’8 aprile 2022. Non è invece antisindacale, per il giudice, la richiesta di fare straordinari, senza consenso, nei limiti delle 250 ore annue.

La Betty Blue, società che ha chiuso il 2021 con ricavi superiori ai 120 milioni di euro, aveva imposto alle lavoratrice dello stabilimento di Granarolo l’allungamento oltre l’orario standard per soddisfare un picco di ordini e a quel punto alcune di loro hanno scioperato.

Secondo Zompi, scrive l’Ansa, dopo aver analizzato le contestazioni disciplinari alle lavoratrici che si sono rifiutate di fare lo straordinario, il giudice ha compiuto un distinguo tra quelle arrivate prima della proclamazione dello sciopero, comunicata il 12 novembre 2021, che appaiono legittime. 

Non è così invece per quelle successive, tra fine novembre 2021 e aprile 2022. Per il giudice “la reiterata elevazione di contestazioni disciplinari a carico di un gruppo di lavoratrici che già avevano manifestato la loro volontà di aderire allo stato di agitazione promosso dal sindacato ricorrente” costituisce “di per sé comportamento intimidatorio ed evidentemente finalizzato a scoraggiare l’adesione dei dipendenti allo sciopero dello straordinario, legittimamente proclamato”.

La condotta dell’azienda guidata dalla stilista “comprova un utilizzo sistematico dello strumento disciplinare a fini intimidatori, con effetti che appaiono perduranti nel tempo“. Dunque, oltre a dichiarare l’antisindacalità della condotta, la sentenza del tribunale del lavoro di Bologna ordina di “cessarla, di non dare seguito alle contestazioni e di astenersi per il futuro dall’utilizzare il potere disciplinare per limitare l’esercizio della libertà sindacale”.

L’azienda ha due possibilità: può fare ricorso in tribunale o mettersi d’accordo con i sindacati per chiudere lo scontro sugli straordinari del sabato.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Parla un'impiegata di Elisabetta Franchi: "A noi donne rende la vita impossibile". Caterina Giusberti su La Repubblica il 15 maggio 2022.  

La dipendente dell'imprenditrice condannata per condotta antisindacale: "Si è infuriata perché una delle sue assistenti è incinta".

"Lavoro per la Betty Blue da più di dieci anni e gli straordinari li ho sempre fatti, compresi il 25 Aprile, l'8 dicembre e l'Epifania. Mi sento offesa perché ci ha dato delle inadempienti, delle irresponsabili, di quelle che le minano il business. Invece siamo professioniste e abbiamo sempre preso il lavoro molto seriamente: se oggi l'azienda è arrivata a questi livelli è anche merito nostro".

Caterina Giusberti per “la Repubblica” il 15 maggio 2022.

«Lavoro per la Betty Blue da più di dieci anni e gli straordinari li ho sempre fatti, compresi il 25 Aprile, l'8 dicembre e l'Epifania. Mi sento offesa perché ci ha dato delle inadempienti, delle irresponsabili, di quelle che le minano il business.

Invece siamo professioniste e abbiamo sempre preso il lavoro molto seriamente: se oggi l'azienda è arrivata a questi livelli è anche merito nostro». 

Sotto accusa c'è Elisabetta Franchi (Betty Blue è la sua azienda), l'imprenditrice al centro delle polemiche per aver dichiarato di assumere donne over 40 («le prendo quando hanno fatto tutti i giri di boa»), che giovedì è stata anche condannata dal tribunale del lavoro di Bologna per condotta antisindacale nella vertenza promossa dalla Filcams-Cgil. A parlare, chiedendo l'anonimato, è invece una delle sue dipendenti, che dopo aver scioperato ha ricevuto giornate di sospensione dal lavoro, lettere di richiamo e ordini di servizio, finché la vicenda non è arrivata in tribunale.

Cos' è successo?

«Siamo state massacrate per esserci rivolte al sindacato, ecco cos' è successo. Prima delle scadenze di campionario abbiamo sempre fatto gli straordinari: chi arrivava prima, chi lavorava il sabato mattina, festività, domeniche incluse, nessuna si è mai tirata indietro. Solo che nel tempo Franchi ha accentrato tutto su di sé, è diventata anche amministratrice delegata dell'azienda e ha perso qualsiasi freno: scartavetra le persone in modo veramente ignobile. Per lei la vita privata non esiste, ha milioni di chat con tutti i gruppi produttivi dove scrive a tutte le ore, inclusa la domenica. E tu devi sempre risponderle». 

Come siete arrivate alla vertenza?

«In ottobre ci è arrivata una mail che diceva: dovete fare gli straordinari, o l'azienda prenderà dei provvedimenti disciplinari nei vostri confronti. Quando hanno cominciato ad arrivare le prime lettere di richiamo ci siamo rivolte alla Cgil.

Non è stato un passo facile perché lì dentro la gente ha paura: su 150 dipendenti, siamo in una quarantina ad esserci iscritte al sindacato. 

Abbiamo scioperato, rifiutandoci di fare gli straordinari. E il risultato è stato che le nostre settimane erano fatte così: il lunedì mattina ricevevamo la lettera di richiamo per gli straordinari non fatti la settimana precedente, il mercoledì la richiesta di straordinari nuovi, minimo otto ore a settimana. E il venerdì l'ordine di servizio per intimarci di essere presenti al lavoro il sabato. C'è chi ha ricevuto lettere di richiamo per avere fatto mezz' ora di straordinario in meno. Alcune di noi sono in malattia da Natale, con lo psicologo e tutto il resto. A me a dicembre è venuto un attacco di panico e sono finita in ospedale. Ma non esiste che dopo tutto quello che ho dato all'azienda io mi faccia trattare così».

E la polemica sulle over 40?

«Per noi non è niente di nuovo, la pensa proprio così. Adesso per esempio una delle sue assistenti è incinta, e lei è arrabbiatissima. Una collega è appena tornata dalla maternità e le hanno cambiato l'ufficio, proprio come le era successo con la sua prima gravidanza. Tutte le donne che adorano i suoi abiti non se lo immaginano, ma questo è il clima che si respira nell'azienda di Elisabetta Franchi. Di bello, a parte i vestiti che facciamo, lì dentro non c'è proprio niente». 

Da corriere.it l'8 maggio 2022.

Elisabetta Franchi non ha mai peli sulla lingua. La stilista, 53 anni, fa della schiettezza un suo vanto, come ha spiegato in una diretta Instagram su Moda Corriere qualche tempo fa. Secondo lei è proprio la sua spontaneità una componente del suo successo. Ma le ultime dichiarazioni che ha rilasciato durante un evento a Milano («Donne e Moda: il barometro 2020», organizzato da PwC Italia e Il Foglio) le hanno attirato una valanga di critiche sui social. In pratica, parlando di donne e lavoro ha spiegato perché nella sua azienda non c'è posto per le under 40 in posizioni di rilievo. Perché se le donne giovani si assentano due anni per una maternità è un problema. Ma alla domanda «anche lei ha fatto figli lavorando» — rimanendo a capo del marchio di moda che porta il suo nome — la Franchi non ha dato una risposta, ed è passata oltre. 

Ecco cosa ha detto, come si può vedere in un video postato su Twitter da Stefano Guerrera (che ha dato il via a una discussione con polemiche). «Quando metti una donna in una carica molto importante poi non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta — ha affermato durante l'intervista-incontro —. Un imprenditore investe tempo e denaro e se ti viene a mancare è un problema, quindi anche io da imprenditore responsabile della mia azienda spesso ho puntato su uomini». 

E ancora: «Oggi le donne le ho assunte ma sono anta, questo va detto, comunque ancora ragazze ma cresciute. Se dovevano far figli o sposarsi lo hanno già fatto e quindi io le prendo che hanno fatto tutti i giri di boa e lavorano h24, questo è importante». Insomma, chi firma un contratto con la sua azienda deve dare una disponibilità totale, giorno e notte. 

Apriti cielo. Su Twitter sono fioccati commenti al vetriolo. Ma ci sono anche le ironie e i commenti di persone che la giustificano. L'argomento tiene banco tra chi inorridisce a tale ragionamento e chi non riesce a crederci.

Eleonora Capelli per repubblica.it il 31 maggio 2022.

Dopo le polemiche sulle donne "anta" e il cortocircuito sui media, Elisabetta Franchi corre ai ripari e cerca un responsabile della comunicazione su Linkedin:  in un giorno quasi 700 candidati alzano la mano. L’imprenditrice bolognese del settore della moda è finita nella bufera qualche settimana fa per le sue frasi a proposito del lavoro femminile (“Le donne in azienda sì, ma over 40, così se dovevano fare figli li hanno già fatti, hanno fatto tutti i giri di boa e lavorano tranquille al mio fianco h24”) per poi in parte correggere il tiro in interviste televisive e in comunicati stampa. Nel salotto tv di Bruno Vespa l’imprenditrice  ha detto: “Ho calibrato male le parole, ma questa gogna mediatica non me la meritavo”.  

Questo approccio al lavoro “h24” però non ha scoraggiato gli aspiranti responsabili della comunicazione che di fatto dovranno essere a stretto contatto con l’imprenditrice. Nelle mansioni previste per l’addetto, infatti si legge nell’offerta di lavoro: “La risorsa sarà di supporto alla proprietà nelle relazioni esterne e in tutte le attività volte alla promozione del brand con partecipazione attiva nelle scelte strategiche”. 

Di certo nell’ultimo periodo l’ufficio comunicazione di Elisabetta Franchi si è trovato più volte in trincea. Oltre al caso delle dichiarazioni dell’imprenditrice casse 1968, amministratrice unica del marchio Betty Blue con un fatturato “pre-Covid” di 129 milioni, c’è stata anche la sentenza del tribunale a impensierire le relazioni esterne. 

Di fronte a una causa intentata dalla Cgil, il giudice ha infatti parzialmente accolto il ricorso, definendo condotta “illegittima e antisindacale” la pratica di inviare contestazioni disciplinari a chi non aveva fatto lo straordinario perché era stato proclamato lo stato d’agitazione e lo sciopero con blocco degli straordinari da parte del sindacato.

Sicuramente adesso il lavoro per chi si occupa di comunicazione del brand non mancherà, le responsabilità principali della nuova figura sono la gestione e il coordinamento del team e le attività legate al “media plan” su stampa e digitale.

La titolare della casa di moda. “Donne ai vertici dopo 40 anni, hanno già figli o sono separate”, la polemica sulle frasi di Elisabetta Franchi. Vito Califano su Il Riformista il 7 Maggio 2022. 

È polemica per le parole dell’imprenditrice Elisabetta Franchi a un evento organizzato dal quotidiano Il Foglio e Pwc. L’imprenditrice titolare dell’omonima etichetta di moda ha spiegato di assumere donne, in particolare ai vertici della sua azienda, soltanto oltre i 40 anni. “Sono già sposate, hanno già avuto figlie o si sono già separate”. Questa è la frase che ha fatto esplodere la bufera.

Nessun passo indietro tutavia da parte dell’imprenditrice e della casa moda. Il video dell’intervento, che ha preso a circolare massicciamente su Twitter, è stato ri-postato dalla stessa manager su Instagram. “Il mondo della moda non è tutto lustrini e paillettes. È un mondo molto duro, fatto di sacrifici, rinunce, ma anche soddisfazioni. Per questo, come dico sempre, non smettete mai di crederci!”.

L’intervistatrice Fabiana Giacomotti, curatrice de Il Foglio della Moda, aveva provato a incalzare. Se insomma le donne non vengono assunte, se si preferiscono gli uomini – come ha detto di aver fatto in passato Franchi -, è “perché una donna non viene aiutata … tu intanto come hai fatto? Perché tu hai allevato due figli”. E quindi la spiegazione della donna: “Io oggi le donne le ho messe perché sono ‘anta’, questo va detto: comunque ancora ragazze, ma cresciute. Se dovevano sposarsi lo hanno già fatto, se dovevano avere figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi, hanno fatto anche quello… per cui io le prendo che hanno fatto tutti e quattro i giri di boa. Sono lì belle tranquille che lavorano con me affianco h24, questo è importante. Cosa che invece gli uomini non hanno. Io che sono una donna emiliana ed emancipata credo che noi donne siamo un dovere, che è quello nel nostro Dna, che non dobbiamo neanche rinnegarlo: i figli li facciamo noi, incinto ancora… no, e comunque il camino in casa lo accendiamo noi. È una grande responsabilità”.

Franchi è una imprenditrice “che è riuscita a conquistare l’universo femminile – si legge sul sito ufficiale – grazie al suo stile e alla sua creatività: un successo frutto di una grande passione, di uno scrupoloso studio del prodotto, di un’assoluta dedizione al lavoro e di una buona dose di concretezza”. È nata nel 1968 a Bologna, quarta di cinque figli, umile estrazione, cresciuta dalla sola madre. La passione per la moda era nata con la sua bambola che poteva vestire come voleva. Ha studiato all’Istituto Aldrovandi Rubbiani di Bologna. Ha aperto il suo primo atelier nel 1995, la Betty Blue Spa è nata nel 1998, dal 2008 il cuore dell’azienda è diventata una ditta farmaceutica dismessa di circa seimila metri quadrati. Il marchio Elisabetta Franchi è nato nel 2012, il primo showroom direzionale è stato aperto a Milano in via Tortona nel 2013. Il brand ha raggiunto 120 milioni di euro di ricavi nel 2019, conta su 1.100 multimarca e 87 boutique monomarca in tutto il mondo.

“L’evoluzione stilistica del brand e la sempre attenta cura nei dettagli, la portano a diventare una tra le firme più richieste dallo Star System, vestendo celebrities internazionali del calibro di Angelina Jolie, Kate Hudson, Jessica Alba, Emily Blunt, Jennifer Lopez, Lady Gaga, Kendall Jenner, Dita Von Teese, Kourtney Kardashian, per citarne alcune”. Il brand è schierato sul fronte animalista: ha eliminato la pelliccia animale dalla prodizione come la piuma d’oca e la lana d’angora. È stata insignita dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

L’intervento ha suscitato anche una certa ilarità in sala. Risatine e sorrisi mentre Franchi spiegava la sua teoria. Il ragionamento era partito dalla constatazione di Franchi: “Parlo dalla parte dell’imprenditore, quando metti una donna in una carica importante, se è molto importante, non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta. E un imprenditore investe tempo, energia e denaro. Se viene a mancare è un problema. E quindi anch’io da imprenditore spesso ho puntato su uomini”.

La replica di Franchi alle polemiche

È arrivata dalle storie Instagram di Franchi la replica alle polemiche per le sue dichiarazioni. “L’80% della mia azienda sono quote rosa di cui il 75% giovani donne impiegate, il 5% dirigenti e manager donne. Il restante 20% sono uomini di cui il 5% manager”, dice la stilista in una storia Instagram. “C’è stato un grande fraintendimento per quello che sta girando sul web, strumentalizzando le parole dette”.

“La mia azienda oggi è una realtà quasi completamente al femminile”, dice ancora Franchi. “L’oggetto di discussione dell’evento a cui ho partecipato è la ricerca di Price ‘Donne e Moda’ da cui è emerso che nella realtà odierna le donne non ricoprono cariche importanti – scrive – Perché? Purtroppo, al contrario di altri Paesi, è emerso che lo Stato italiano è ancora abbastanza assente, mancando le strutture e gli aiuti, le donne si trovano a dover affrontare una scelta tra famiglia e carriera“. “Come ho sottolineato, avere una famiglia è un sacrosanto diritto – prosegue – Chi riesce a conciliare famiglia e carriera è comunque sottoposta a enormi sacrifici, esattamente quello che ho dovuto fare io”. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Elisabetta Franchi, le reazioni. Gassmann: «Boicottatela». Bruganelli: «L’azienda è sua, può decidere». Michela Proietti su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2022.

All’indomani della bufera social scatenata dall’intervento della stilista a un convegno durante il quale ha dichiarato di preferire dirigenti donne che hanno compiuto 40 anni, la rete si è popolata di reazioni. Contrarie e in alcuni casi favorevoli. 

C’è già chi parla di «epic fail» riguardo al caso Elisabetta Franchi, che al talk organizzato da PWH Italia e Il Foglio sul tema «Le donne e la Moda», ha espresso a chiare lettere la sua visione aziendale legata all’impiego di donne sotto i quaranta anni . L’imprenditrice e stilista 53enne ha dichiarato di aver assunto donne in ruoli dirigenziali, ma solo dopo gli «anta», ovvero quelle che «hanno superato i quattro giri di boa», intesi come matrimonio, gravidanze ed eventuale separazione. La rettifica della stilista non è tardata ad arrivare, sia su suoi canali social che in una intervista esclusiva rilasciata al Corriere della Sera , ma questo non è stato sufficiente a spegnere le polemiche sul web.

La polemica su Twitter

Medioevo, passi indietro in direzione opposta alla parità di genere, persino «schiavismo»: la rete non ha risparmiato parole durissime alla stilista che ha precisato nelle ore successive la sua politica aziendale da sempre dalla parte delle donne, con l’80 per cento della forza lavoro al femminile. Tra le tante voci che si sono sollevate non è mancata quella di Alessandro Gassmann, che ha twittato : «Mi auguro che tutte le clienti under 40 della #Franchi cessino di acquistare i suoi prodotti, perché troppo occupate in altro». Dura la replica anche della politica con la deputata Marianna Madia, che ha scritto su Twitter: «Una somma di stereotipi sciocchi su donne, uomini, giovani, lavoro e impresa. Per fortuna la nostra società è nel complesso più avanti di così, anche se le carenze di welfare sono ancora davvero troppe». Più d’uno ha chiesto un intervento della Ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti («ma @elenabonetti ministra delle Pari Opportunità ha parlato del caso #elisabettafranchi o spera di fare passare la bufera (tanto è domenica, è la #festadellamamma ) senza esporsi con mezza opinione?).

Mi auguro che tutte le clienti under 40 della #Franchi ,cessino di acquistare i suoi prodotti, perché troppo occupate in altro. #lafraintesa

Selvaggia Lucarelli e Myrta Merlino «contro»

Opinioni illustri e punti di vista comuni, come quello di @siriomerenda: «Elisabetta Franchi presenta la collezione autunno-inverno Medioevo... #elisabettafranchi #Medioevo #7maggio» o di Maria Giovanna Gradanti: «Se volete lavorare da #ElisabettaFranchi, venite già "figliate". Mi vergogno per lei e per tutte le donne presenti in sala (intervistatrice compresa) che ridacchiavano e annuivano a questa perla di pensiero aziendale». Per l’attivista Cathy La Torre una scivolata senza scusanti. «Le parole di #ElisabettaFranchi su donne e lavoro lasciano sgomente: come si può pensare alla donna perlopiù in chiave famigliare e/o nel ruolo di madre, e quindi condizionare in base a questo una assunzione? Cara Elisabetta, avere un utero non è una colpa. Diciamolo insieme».

Pareri celebri mescolati a tante riflessioni del popolo del web: «Il prossimo ospite invitato a parlare di donne, lavoro e maternità. #elisabettafranchi», ha twittato Selvaggia Lucarelli postando una foto di Checco Zalone e paragonando l’intervento della Franchi a quello dell’attore nel film «Sole a Catinelle»; Myrta Merlino ha invece parlato di «misere parole di #ElisabettaFranchi l’opposto del necessario. Avremmo bisogno di sorellanza, progresso, femminismo nei fatti. Forza ragazze. Vogliamo e siamo altro. Non molliamo anche quando altre #donne sono il nostro limite». L’utente @RitaVagnarelli ha ricordato - in risposta alla disponibilità illimitata al lavoro auspicata dalla Franchi - un punto di vista opposto: «#elisabettafranchi E a proposito di lavoro h.24 Brunello Cucinelli: «Nessuno dovrebbe lavorare dopo le 17.30».

Il modo di #elisabettafranchi di esprimere la sua politica aziendale non sarà sicuramente stato gradevole ma ricordo che è la SUA azienda, che paga LEI i suoi dipendenti e credo sia libera di assumere CHI REPUTA PIÙ OPPORTUNO. E adesso scatenatevi pure con la vostra demagogia.

Sonia Bruganelli: «demagogia»

Ma non sono mancati i sostenitori della Franchi, come @Gianni_Bitontii, schierato invece dalla parte della imprenditrice: «L’errore di #elisabettafranchi è aver detto la verità in un mondo dominato dai social e da persone incapaci di leggere fino in fondo 5 righe di intervista. Era una critica allo Stato, l’avete trasformata in un attacco alle donne. Ma non sono sorpreso, chissà come mai». Dalla parte della Franchi anche Sonia Bruganelli, che da sempre non ha paura di scontrarsi contro il politically correct. «Il modo di #elisabettafranchi di esprimere la sua politica aziendale non sarà sicuramente stato gradevole ma ricordo che è la sua azienda, che paga lei i suoi dipendenti e credo sia libera di assumere chi reputa più opportuno. E adesso scatenatevi pure con la vostra demagogia».

Sessismo, moda, famiglia e affari in Russia: la caduta dell’intoccabile Elisabetta Franchi. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani l'8 maggio 2022.

Elisabetta Franchi, tradita da un linguaggio dispotico («le donne le prendo, le donne le metto») e parlando sempre di sé al maschile («parlo da imprenditore») snocciola una serie di scempiaggini.

Elisabetta Franchi, forte di pr e di inserzioni pubblicitarie, ha saputo crearsi intorno una patina di intoccabilità che gli stessi titoli riparatori di alcuni giornali oggi raccontano bene. 

Forse è la prima volta che una polemica che la riguarda non viene oscurata in poche ore. Anzi, di solito non si apre neppure. Per esempio c’è la questione Russia: mentre la maggior parte dei marchi di lusso e non solo di lusso sono scappati da Mosca, Elisabetta Franchi ha tenuto aperti i suoi 15 monomarca in Russia nel silenzio generale. Compreso il suo (che però il 25 febbraio ha posato per una foto con la scritta NO WAR). 

Un sorriso a duecento denti e un serafico “Auguri a tutte le mamme!”. É così che Elisabetta Franchi saluta l’8 maggio dal suo profilo Instagram all’indomani del guaio in cui si è cacciata per l’intervista su donne e maternità  rilasciata alla giornalista Fabiana Giacomotti, durante un evento del Foglio in collaborazione con Pwc.

E se la provocazione può lasciare basito chi non la conosce, non stupisce certamente chi è abituato alla sfrontatezza e all’esibizionismo del personaggio che da anni risponde alle critiche facendo cancellare commenti dalle sue pagine (come in questi giorni), smuovendo i suoi legali alla prima polemica, caricando compulsivamente foto e video di una vita felice “alla faccia di”.

Ecco, questa mattina, mentre le sue frasi infelici sulla maternità facevano il giro di stampa e web, lei mostrava la casa addobbata di palloncini rosa e puntava la videocamera del cellulare sui figli piccoli che la celebravano pubblicamente con doni e poesie, in questa specie di Dynasty che è la sua vita in cui anche la felicità sembra di poliestere, come i suoi vestiti. 

Ma questa è la fine dell’episodio, partiamo dall’inizio.

L’EVENTO DEL FOGLIO

Il 4 maggio Elisabetta Franchi partecipa all’evento "Donne e moda: il barometro 2022”, evento organizzato dal quotidiano Il Foglio per discutere su «come sia cambiato il lavoro femminile nella moda« e le difficoltà che le donne incontrano ancora nel riuscire ad occupare ruoli apicali.

Denunciata per comportamenti anti-sindacali dalla Cgil, Elisabetta Franchi deve essere sembrata l’ospite più adatto su piazza. Presenti anche il ministro delle Pari opportunità Elena Bonetti, quella che “si fece dimettere” da Matteo Renzi e la vice ministra alla cultura Lucia Borgonzoni, quella che “Non leggo un libro da tre anni”.

Insomma, l’evento prometteva bene fin dall’inizio. E in effetti non ha deluso.

Il compito di intervistare Elisabetta Franchi tocca alla giornalista Fabiana Giacomotti, una che ha più o meno lo stesso piglio ficcante di Giuseppe Brindisi con Sergey Lavrov e l’accoglie in brodo di giuggiole perché grazie a questo incontro ha già 150 follower in più su Instagram. E neppure indiani, pare.

Il resto è già storia. Elisabetta Franchi, tradita da un linguaggio dispotico («le donne le prendo, le donne le metto») e parlando sempre di sé al maschile («parlo da imprenditore») snocciola una serie di scempiaggini che non si sa neppure da che parte iniziare.

In alcuni momenti quello che dice è così surreale da sembrare il discorso di Checco Zalone in Sole a catinelle, quello «Mi parlate di lavoro femminile ma IO IMPRENDITORE quando il marito la mette incinta IO devo pagare gli assegni familiari, io devo pagare la formazione di chi la sostituisce, io devo fare il reintegro. Allora sai che ti dico:  operaia te vuoi andare incinta, la botta te la do io!». Ecco, il senso di surrealtà era questo.

Che poi, a dirla tutta, le premesse erano pure interessanti, perché la maternità è un costo importante per le aziende e se per le aziende solide è riassorbibile, per quelle meno solide può essere un ostacolo.

Il problema è che per tutta l’intervista non si sentirà mai parlare di welfare, contratti collettivi, asili nido, congedi parentali, bonus, tutele per il datore di lavoro e il dipendente, gender gap, nulla.

Per quindici minuti si assisterà solo a un processo di colpevolizzazione delle donne la cui maternità è rappresentata, a tratti, come un dovere, un ostacolo, un impedimento e pure uno strazio fisico di cui però non bisogna lamentarsi, se si vuole diventare Elisabetta Franchi.

Quindi l’ormai celeberrimo: «Lo stato non aiuta, io se una donna fa un figlio mi ritrovo per due anni con un posto magari al vertice vuoto, per questo io spesso punto solo su uomini, le donne le ho MESSE solo ANTA, hanno già fatto figli, matrimoni, le PRENDO che hanno fatto tutti i giri di boa e lavorano con me h 24».

E qui già ci sarebbe molto da dire, visto che un’azienda sana come la sua (129 milioni di fatturato pre Covid) potrebbe supplire alle carenze dello stato con un’idea di welfare aziendale e invece, a quanto pare, l’unico welfare aziendale pensato dalla Franchi ad oggi è la “dog hospitality”, ovvero i dipendenti possono portare il cane nella sede di Granarolo. Per il resto, nessuna idea, nessuna proposta, niente.

Il sistema è sbagliato? E io rispondo non rendendo più virtuoso il sistema, ma presentando il conto alle donne. Tagliando le gambe da una parte a quelle giovani che quindi nella sua azienda difficilmente potranno fare carriera e dall’altra assumendo solo donne adulte che nella sua testa sono sempre a sua disposizione (ma poi da quando le donne dopo i 40 anni non fanno più figli e non hanno più pensieri o esigenze personali?).  Insomma, la questione fertilità è il primo parametro per lavorare, nel suo mondo. Ma non solo.

FIGLI DA WEEKEND

Sempre in questo devastante processo di colpevolizzazione della donna lavoratrice che si permette pure di fare figli, c’è spazio anche per la considerazioni mediche: «Io talvolta mi ritrovo con un buco in una posizione strategica…beh io ho fatto due tagli cesarei organizzati, dopo due giorni ero a lavorare con i punti che non puoi lavorare, non puoi mangiare, non puoi respirare… un grande sacrificio eh». Capito?

Ora, a parte questa descrizione apocalittica dei postumi del cesareo, il problema quindi non è più il welfare zoppicante, ma il fatto che le donne non programmino le nascite dei figli come l’appuntamento dal parrucchiere per la ricrescita e aspettino pure che i punti siano riassorbiti. Tutte le donne ad eccezione di lei, dunque.

Tra l’altro, il cesareo programmato buttato lì come un’ottima idea per ottimizzare i tempi è un altro passaggio a dir poco osceno. I corpi non sono macchine. A meno che non ci siano problemi specifici, come da linee guida dell’Iss, non c’è alcuna ragione per cui una donna che può partorire naturalmente debba affrontare un’operazione chirurgica che ha costi e rischi sia per la madre che per il nascituro.

E a leggere bene la biografia di Elisabetta Franchi viene fuori che neppure per lei, la super donna, la gravidanza è stata un ritaglio di tempo tra una sfilata e un viaggio a Dubai (quando aspettava suo figlio è stata 40 giorni in ospedale). Ma non è finita qui.

«I figli me li sono fatti, mi piacciono, durante il weekend con loro mi diverto», dice. E poi: “Sono emiliana e nonostante sono così eMMancipata, noi donne abbiamo un dovere che è nel nostro dna, i figli li facciamo noi, il camino lo accendiamo noi. Questi uomini sono dei bambinoni, dei mammoni e non vogliono crescere mai».

Qui c’è tutto il suo pensiero distorto: la deresponsabilizzazione del maschio con l’attenuante benevola “so’ ragazzi”, l’idea che la donna debba sobbarcarsi la genitorialità al cento per cento perché è un soffietto per il camino nel dna.

Fortuna che è emmancipata.

L’intervistatrice ride, poi dice alla vice ministra Borgonzoni che la Franchi «è da applausi». E ancora: «Mi sono accertata che siano ANTA, che abbiano fatto tutto...», ribadendo che le donne per lavorare da lei devono aver fatto tutti i giri di boa, lasciando dunque intendere che in fase di assunzione pretenda di avere informazioni personali da parte delle candidate. Pratica illecita, per la cronaca. 

Evidentemente non è proprio rigidissima se si tratta di parenti, visto che sua nipote Naomi Michelini (figlia di sua sorella Catia, oggi protagonista a Uomini e donne) ad appena 27 anni lavora già in azienda in un ruolo, appunto, apicale («E’ più cattiva di me», dice di lei zia Elisabetta). Avrà promesso di non figliare?

Promette bene anche sua figlia, che di anni ne ha 16, e nella sua biografia su Instagram scrive: «Money is the reason we exist».

L’INTOCCABILE

Infine, non poteva che chiudere questa memorabile intervista con la solita stoccata retorica sui giovani «Io di voglia di fare sacrifici in questi giovani non ne vedo tanta!». «Eh ma neppure lo puoi dire perché poi ti si scatenano contro gli hater!», sottolinea sorridendo l’intervistatrice.

Ora, immaginerete che il contenuto di questa intervista sia finito di chat in chat, tipo carboneria, finché non è esploso.

Invece no, lo ha postato fieramente la stessa Franchi sulla sua pagina, segno che c’è un livello di inconsapevolezza della gravità del suo pensiero preoccupante.

E penserete che poi si sia scusata. No, ha detto: «sono stata fraintesa, sono mamma», perché essere mamme è un ostacolo nel lavoro ma un bel supporto al vittimismo prêt-à-porter, quando serve. Ora, ci sarebbe ancora un’infinità di cose da dire. Per esempio sul silenzio di tutte le persone presenti in sala tra giornalisti, politici e rappresentanti di Pwc Italia.

Non ha detto neppure nulla la ministra alle Pari Opportunità Elena Bonetti (che era in collegamento) e questo nonostante siano trascorsi giorni dall’evento.

Nessuno ha alzato la mano e ha pensato bene di interromperla controbattendo, protestando, invitando l’intervistatrice a fare il suo lavoro, anziché sorridere e annuire entusiasta.

La verità è che Elisabetta Franchi, forte di pr e di inserzioni pubblicitarie, ha saputo crearsi intorno una patina di intoccabilità che gli stessi titoli riparatori di alcuni giornali oggi raccontano bene. Perfino il silenzio delle molte influencer che in altri casi non esitano ad esporsi, è indicativo della sua sfera di influenza. Negli anni, le polemiche su di lei si sono sempre spente velocemente.

C’è stato il fratello che l’ha accusata di aver inventato un’infanzia di stenti per romanzare la sua vita, c’è la già citata vertenza sindacale ancora aperta, ci sono ex dipendenti che raccontano di un carattere molto, troppo irascibile, ci sono i suoi frequenti scivoloni sui social (memorabile la sua solidarietà ai terremotati postando una foto in canotta hashtag #sole #montagna), ma la verità è che ha 3 milioni di follower, è cavaliere del lavoro, è stata celebrata in una docu-serie e da numerosi programmi tv, ha vinto il premio EY imprenditore dell’anno.

Forse è la prima volta che una polemica che la riguarda non viene oscurata in poche ore. Anzi, di solito non si apre neppure. Per esempio c’è la questione Russia: mentre la maggior parte dei marchi di lusso e non solo di lusso sono scappati da Mosca, Elisabetta Franchi ha tenuto aperti i suoi 15 monomarca in Russia nel silenzio generale. Compreso il suo (che però il 25 febbraio ha posato per una foto con la scritta NO WAR). Insomma, la guerra no, ma gli affari sì.

Morale: Elisabetta Franchi, cecchè ne dica, è la dimostrazione che dopo gli ANTA non si è fatto tutto. Si possono fare figli come li ha fatti lei, per esempio, specie se come lei si ha un dipendente filippino che ti apre le tende in camera ogni mattino, mentre tu sei ancora a letto. E ci sono ancora molti, moltissimi giri di boa da compiere.

C’è per esempio ancora tempo per una devastante, colossale, irrecuperabile brutta figura. Riuscendo però in un’impresa storica: quella di trasformare l’8 maggio, la festa della mamma, nel primo maggio. Più del concertone.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

LAVORO MOLESTO. «Non corriamo rischi con la maternità: assumiamo donne sopra gli anta, anzi, prendiamo un uomo». Chiara Sgreccia su L'Espresso il 9 Maggio 2022.   

Dopo la bufera scatenata con le parole di Elisabetta Franchi raccogliamo la testimonianza di Roberta, che seleziona curriculum per le aziende: «Succede sempre, scegliere i candidati in base al sesso è una pratica comune».

«Ti sono mai state fatte domande sulla tua volontà di sposarti o avere figli durante un colloquio di lavoro?». Il 27 per cento delle donne intervistate ha risposto «sì». Una donna su tre. È quanto emerge dall’indagine La cultura della Violenza realizzata dall’Ong WeWorld in collaborazione con Ipsos. Anche se discriminare un lavoratore in base al genere è scorretto, viola la dignità della persona, i diritti umani fondamentali, la normativa italiana e ha anche un forte impatto negativo su economia e società, succede troppo spesso. «Più o meno nella metà dei casi in cui le aziende ci contattano per la ricerca del personale, mi viene chiesto di indagare sulla vita privata delle candidate», racconta Roberta che lavora come recruiter in un’agenzia per il lavoro che ha sedi in tutta Italia.

Roberta è un nome di fantasia. All’agenzia spetta la pubblicazione e la diffusione dell’annuncio per l’occupazione e la prima fase di selezione: «Le aziende mi dicono che preferiscono uomini, oppure donne molto giovani, che sono più flessibili negli orari, o che abbiano superato i 40 anni. Così credono di evitare il “rischio maternità”. Di solito questo tipo di richieste avviene per l’assunzione di persone con contratto indeterminato o, comunque, per lunghi periodi». Roberta si è sempre rifiutata di fare domande su figli e relazioni personali. Non ha mai tolto a nessuna la possibilità di arrivare al colloquio con l’azienda per il sesso, l’età o lo stato civile. «Ma è l’impresa che prende la decisione finale. In molti casi i feedback ambigui che ho ricevuto sui candidati mi hanno fatto capire quanto spesso le lavoratrici siano valutate con parametri differenti da quelli di un uomo».

In questi giorni di polemica, dopo il discorso che Elisabetta Franchi ha tenuto al convegno di PWC Italia e Il Foglio, qualcuno si è mostrato stupito per la desolante considerazione delle donne che l’imprenditrice della moda ha espresso. Ma, come spiega Roberta, la discriminazione che subiscono le lavoratrici è una pratica che avviene nella normalità e nel tacito assenso generale. Anche il suo. «Quello che faccio, però, è ignorare le condizioni discriminatorie che mi vengono imposte dai datori di lavoro. Sarà pure silente ma la mia è una battaglia quotidiana. Una continua mediazione tra la realtà del settore dell’imprenditoria italiana e il mondo che vorrei, di pari opportunità, con servizi, tutele e garanzie per le donne che vogliono lavorare». Sono pochi, invece, i timori che si fanno i datori di lavoro nell’esplicitare che una trentenne, che magari ha anche un compagno, è meno gradita di un uomo. «Ci è piaciuta molto ma abbiamo delle perplessità», scrive via e-mail all’agenzia il proprietario di un’azienda metalmeccanica, dopo aver fatto il colloquio a una candidata molto qualificata secondo Roberta. Per poi chiarire al telefono: «Ha 37 anni ed è fidanzata, la probabilità che abbia un figlio a breve è alta, no?».

Così mentre una lavoratrice dovrebbe «avere gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», come scritto nella Costituzione (articolo 37), nella vita vera, una donna è un problema perché potrebbe avere dei figli. Poco contano la singola opinione in merito, le aspirazioni personali, le qualifiche. Pare che per tante persone “donna” sia sinonimo di “madre”, meglio se disposta a essere l’unica a sacrificarsi per il bene della famiglia. Eppure, nonostante questo infondato pensiero comune, le condizioni che, sempre secondo l’articolo 37 della Costituzione, dovrebbero garantire alla lavoratrice «l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione» non esistono. In Italia, il 42,6 per cento delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata, con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali, si legge nel report Le Equilibriste di Save The Children.

La fotografia di un Paese che a parole sostiene di voler «liberare il potenziale delle donne per tornare a crescere», come ha detto la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti, ma che nella pratica resta in silenzio quando dovrebbe intervenire. Arrecando danno non solo alla persona singola ma anche alla salute della società, lacerata dalle disuguaglianze, alla crescita economica e al benessere nei luoghi di lavoro sempre più compromessi dalla retorica del sacrificio.

Maria Corbi per "La Stampa" l'8 maggio 2022.

Ha dell'incredibile che quel manifesto antifemminista - in sostanza: non assumo donne perché poi vanno in maternità - sia stato pronunciato proprio da lei, Elisabetta Franchi, una che il suo successo nel difficile mondo della moda se lo è costruita con le unghie partendo dalle bancarelle dei mercati, passando dal fare cappuccini al bar, perdendo un marito e socio con una bambina di pochi mesi da crescere. 

E invece quelle parole sono uscite dalla sua bocca, durante il convegno Donne e moda: il barometro 2022 organizzato da PwC con Il Foglio. Si parla di madri lavoratrici e la stilista spiazza tutti confessando di assumere donne dagli «anta» in su: «Se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno già fatti e se volevano separarsi hanno già fatto anche quello. Quindi diciamo che io le prendo quando hanno già fatto tutti i giri di boa e sono lì belle tranquille con me al mio fianco e lavorano h24».

Una dichiarazione che pialla decenni di lotte per la tutela del lavoro delle donne, per le pari opportunità, per la condivisione delle responsabilità genitoriali. Ma non paga di aver condiviso la sua ricetta aziendale ha continuato: «Poi io sono emiliana e, nonostante sia così emancipata, credo che noi donne abbiamo un dovere che è quello scritto nel nostro Dna e non dobbiamo neanche rinnegarlo, cioè che i figli li facciamo noi e comunque il camino in casa lo accendiamo noi, quindi è nostra responsabilità occuparcene».

Diciamo che il mese era già iniziato storto sul suo Instagram dove ha postato una foto di una «ombrellina», una hostess che ripara con un ombrello un pilota di Formula Uno. E sotto la foto il commento: «Voi grandi uomini senza l'aiuto di noi piccole donne cosa sareste.. evviva gli uomini, evviva le donne evviva, l'amore che ci completa». 

Selvaggia Lucarelli lo riposta con un laconico: «direttamente dal paleolitico». Si potrebbe derubricare come una delle tante sciocchezze che circolano sui social se non fosse che Elisabetta Franchi su Instagram è molto seguita e una docufiction sulla sua vita, Essere Elisabetta, è diventata un po' un manuale per le ragazze con sogni e voglia di farcela.

Adesso tutte loro sanno che potranno farcela, ma non certo partendo dall'azienda della loro eroina. Anche se quello che ha detto con maldestra sincerità purtroppo sono ancora in tanti a pensarlo, con l'accortezza di non dirlo. Perché se il tasso di occupazione delle donne in Italia è ancora tra i più bassi in Europa, la disparità tra le donne occupate e gli uomini occupati non dipende certo dalla pandemia, ma è legata soprattutto alla genitorialità. 

I dati confermano che il ragionamento della Franchi non è poi così solitario: le donne occupate con figli che vivono in coppia sono solo il 53,5%, contro l'83,5% degli uomini a pari condizioni. Per i single, i tassi di occupazione sono 76,7% per maschi e 69,8% per le femmine.

Donne, figli, lavoro. Fiume di critiche dopo la "gaffe" della Franchi. Valeria Braghieri il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.

La stilista aveva dichiarato di preferire collaboratrici sugli anta: impietosi i giudizi.

«La parola parto la uso solo per viaggiare»...

Questa è anche divertente. Ma le altre «battute» che chiosano l'intervento della stilista e imprenditrice Elisabetta Franchi non sono tutte così ironiche. Né quelle che arrivano dal mondo di Internet, né quelle che arrivano dal mondo della Politica.

La Franchi, com'è noto, è intervenuta l'altro giorno durante il convegno «Donne e moda: il barometro 2022» organizzato da PwC Italia e dal quotidiano «Il Foglio». Ha praticamente raccontato ciò che già ci aveva tristemente rivelato, qualche giorno fa, il settimo rapporto di Save the Children sulla condizione della donna nel lavoro, ma le stesse cose, dette da lei, hanno scatenato lo sdegno. Perché è vero, lei le ha dette da imprenditore, anzi da imprenditrice, quindi l'effetto è stato deflagrante. D'altra parte il fatto di non frequentare eufemismi fa parte del suo charme. E anche quel suo accento emiliano pare inadatto alle formule troppo diplomatiche. È una donna che si è fatta da sola e continua a non chiedere permesso. Quindi si è espressa esattamente così: «Quando decidi di mettere una donna in una carica importante, se è davvero un posto molto prestigioso poi non ti puoi permettere di non vedere quella persona per due anni. Io da imprenditrice spesso ho puntato sugli uomini. Io oggi le donne le ho coinvolte ma quelle sopra una certa età, quelle anta, perché se dovevano sposarsi o fare figli o separarsi, hanno già concluso questi passaggi». Poi ha ammorbidito il tiro, ma come spesso accade, forse è stato anche peggio. Ha cercato di spiegare che in effetti una donna ha tutti i diritti di avere dei figli, ma ha anche aggiunto che poi, ovviamente, sparisce dal lavoro perché ha voglia di stare con loro, di fare le vacanze con loro, i week end con loro, ogni tanto ha l'esigenza di andare dal parrucchiere... e insomma non riesce più a lavorare, come l'azienda avrebbe bisogno, «h 24»... E, sempre per attutire il realistico affondo, ha aggiunto che lei i figli li ha fatti, che la diverte il fatto di trascorrere del tempo con loro, che i fine settimana li passa allegramente in compagnia dei suoi bambini. Ed ecco fatto il disastro: involontariamente ha unito la rabbia di genere alla rabbia sociale. Della serie, le donne comuni «non possono coniugare famiglia e lavoro», lei invece sì «perché è Elisabetta Franchi». Dagli inviti «a boicottarla» dell'attore Alessandro Gassman, all'indignazione della deputata Pd Marianna Madia ha ha definito l'intervento della stilista «una somma di stereotipi sciocchi su donne, uomini, giovani, lavoro e impresa»; all'affondo della conduttrice Myrta Merlino che ha parlato di «misere parole, l'opposto del necessario... Avremmo bisogno di sorellanza, progresso, femminismo nei fatti. Forza ragazze. Vogliamo e siamo altro. Non molliamo anche quando altre donne sono il nostro limite». A difendere la stilista, invece, Sonia Bruganelli, moglie di Paolo Bonolis: «Ricordo che è la sua azienda, che paga lei i suoi dipendenti e credo sia libera di assumere chi reputa più opportuno. E adesso scatenatevi pure con la vostra demagogia».

La Franchi respinge ogni accusa e precisa che la sua azienda è piena di quote rosa: «Non accetto strumentalizzazioni. Sono una donna imprenditrice a capo di un’azienda da 131 milioni di fatturato e che ha tirato avanti anche la famiglia, con grande fatica». Ieri, in serata, arriva anche un comunicato nel quale, tra le altre cose, ammette di essersi espressa «in modo inappropriato» ma, numeri alla mano, dimostra che, nella sua azienda, su 300 dipendenti, l'80% sono donne, di cui la maggioranza under 40 e che le donne manager sono il doppio degli uomini. Ma ribadisce che, di fatto, «le donne sono ancora costrette a scegliere tra l'essere madri ed essere lavoratrici». E aggiunge che «invertire la rotta si può e si deve».

Sarebbe interessante se tutta questa indignazione nei confronti delle parole della Franchi sortisse in qualcosa di costruttivo per le donne. Ma in Italia piacciono sempre i linciaggi, e mai le soluzioni.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2022.

Elisabetta Franchi, titolare di una Casa di moda di qualche spessore, è al centro di polemiche brucianti solo perché ha detto pubblicamente una ovvietà. Questa. In qualsiasi azienda, non solo nella sua, se si tratta di assumere una persona in posizione apicale, la scelta cade sempre su una donna ultraquarantenne perché, oltre ad aver maturato una notevole esperienza, ha esaurito il classico percorso femminile. Nel senso che si è sposata, ha già avuto un figlio o due e spesso si è pure separata liberandosi da lacci e lacciuoli. Pertanto costei si dedicherà al lavoro con grande entusiasmo. 

Cosa ci sia di strano in queste affermazioni di buon senso sinceramente non capisco. E invece la povera Elisabetta Franchi è stata travolta dalle solite accuse tardofemministe. Non è una novità che a molte donne giovani scatti il cosiddetto orologio biologico, verso i trenta anni sentono impellente l'esigenza di diventare mamme e magari si accoppiano col primo idiota che passa per strada. Poi il bimbo cresce, il marito o il compagno si è rivelato un colossale rompicoglioni, il quadretto famigliare si sfascia e finalmente la signora può essere se stessa, dedicarsi alla professione senza doversi occupare delle mutande del coniuge, e ottenere il successo che merita.

Tutti sanno che le cose stanno esattamente così ma non si possono dire perché esse contrastano non con la realtà bensì con i pregiudizi delle femministe, quasi tutte brutte peraltro. Elisabetta Franchi essendo molto intelligente non si fa intimidire dalle cretine che amano il pensiero unico e dichiara con la nostra totale approvazione che le quarantenni sono equilibrate e capaci. Se si tratta di lavorare posso testimoniare che anche le cinquantenni sono formidabili, di norma più brave dei maschi in ogni campo. Se invece il problema è fare una scopata, allora l'età può scendere fino a diciotto anni. Se lei ci sta.

Elisabetta Franchi nella bufera. Ma il valore della donna va oltre la retorica della sua difesa. Mario Benedetto su Il Tempo il 09 maggio 2022.

Se vi chiedessero un giudizio su Machiavelli come vi esprimereste? Può piacere o meno, ma comunque gli sarebbe riconosciuta da tutti una certa dignità intellettuale. E se vi dicessi che l’autore del Principe, opera che è alla base della sua fama giunta sino ai giorni nostri, reputava la donna una «proprietà» dell’uomo? Immagino cambiereste idea, giustamente. Ma senza demolire tutto il resto dell’eredità che Machiavelli ha consegnato alla storia, dalla cultura generale sino alla scienza politica, della quale si può ritenere un padre. 

Attualizziamo il ragionamento e proviamo ad applicarlo all’attualità di queste ore, facendo una premessa che non lasci alibi a chi non voglia seguirci nell’analisi e intenda dare una lettura senza sfumature, tribale, alle righe che verranno: Elisabetta Franchi l’ha detta quantomeno maluccio. È evidente, non si può che approcciare con scetticismo una dichiarazione basata su questione non solo di genere, ma anche anagrafica e legata a scelte di vita che non devono mettere le donne davanti a un bivio: mamma o lavoratrice. Ma spesso, purtroppo, è così nella realtà. Dunque, con spirito costruttivo, questa è una prima considerazione da far seguire alle parole della stilista, che pongono una questione reale. Questa persona ha avuto l’ardire, e il coraggio, di dire ciò che i tanti purtroppo pensano o, purtroppo ancora, mettono in pratica. 

Dunque non limitiamoci alla polemica e andiamo oltre nella ricerca non solo di riflessioni sull’etica pubblica, ma anche di proposte e soluzioni rispetto a comportamenti sanzionabili, nonché a condizioni di contesto in cui le imprese oggi si trovano a operare. Se da un lato esistono tutele nei confronti delle donne lavoratrici, dall’altro non è solo la rincorsa al profitto, ma anche un eccessivo aggravio di costi che vanno dalla pressione al cuneo fiscale che contribuiscono a rendere le aziende organizzazioni più «ciniche». Ci sono indubbiamente imprenditori e imprenditori e, se il nostro sistema riesce a reggere e fare anche sviluppo in condizioni difficili come quelle attuali, significa che la maggioranza dei nostri uomini d’impresa italiani rappresenti un modello da seguire. La loro sensibilità deve sempre fare i conti con i numeri, che si traducono non solo in guadagni, ma anche in stipendi e occupazione.

A tal proposito, secondo aspetto: la stilista di cui parliamo è una donna. Con una storia affascinante, complessa, che l’ha portata a rappresentare un marchio tra i più conosciuti e apprezzati nel mondo. Allora non cediamo alle pulsioni dell’istinto e della pancia, portando dalle stelle alle stalle chi, come lei, ha avuto uno scivolone. Da criticare, ma anche da comprendere nella sua complessità e da «utilizzare» in senso buono, per porre una questione che porti a interrogare ciascuno di noi, nei suoi comportamenti quotidiani, dai semplici cittadini ai decisori pubblici. Il che va rispettivamente dal rispetto di mogli, collaboratrici al lavoro per garantire norme e regole che consentano a ciascuna di esse di esprimere il loro miglior potenziale, a vantaggio di tutti. 

A chi ha sostenuto che se ci fossero state donne alla guida della Russia non sarebbe scoppiata la guerra va ricordato che, pur collaterali nello scacchiere generale del potere, esse sono rappresentate da pezzi da novanta come Elvira Nabiullina, a capo della Banca Centrale Russa, non proprio secondaria negli ingranaggi putiniani. O di Valentina Matvienko, Presidente del Consiglio Federale Russo, dunque tra le donne più potenti del Paese. Di certo, al contrario, non si può far ricadere solo su di loro la responsabilità del conflitto. Ma da tutte queste considerazioni, sino a quest’ultima, una conclusione va tratta. Non è con la retorica che si costruisce il progresso e si supera il gender cap, ma con il giusto spirito critico. Che non risparmi giudizi severi, ma li indirizzi non tanto a lotte ideologiche quanto a soluzioni utili, per tutti i generi. A partire da quello che, senza dubbi, oggi merita ancora più attenzione e spazio.

Catia Franchi difende la sorella Elisabetta: «È stata fraintesa e ora la massacrano: in azienda abbiamo un sacco di giovani con figli». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.

La Dama di «Uomini e Donne» si schiera con la stilista, al centro di feroci critiche dopo le sue dichiarazioni sulle dirigenti «anta». «In azienda abbiamo tantissime ragazze giovani, alcune hanno avuto figli e poi sono tornate a lavorare». 

Le dichiarazioni di Elisabetta Franchi al convegno di PWH Italia e Il Foglio, dove ha detto di assumere come dirigenti nella sua azienda solo donne che hanno superato i 40 anni, hanno suscitato un vespaio di polemiche e in molti hanno puntato il dito contro la stilista. In sua difesa si schiera la sorella maggiore Catia, che il pubblico della tv ha imparato a conoscere come Dama del Trono Over di «Uomini e Donne». «Elisabetta è stata fraintesa - spiega la donna, che lavora nell’azienda di famiglia - non intendeva dire quello che tutti hanno invece pensato e adesso viene massacrata. Sono tutti bravi a parlare e a criticare, ma in questo tipo di situazioni lavorative lo Stato non ti aiuta in niente. Mia sorella è sempre stata dedita al lavoro, fin dall’inizio ha fatto solo sacrifici e ancora adesso non ha orari. Fra l’altro abbiamo tantissime ragazze giovani che lavorano con noi in azienda, alcune hanno avuto figli e poi sono tornate a lavorare, quindi qual è il problema?».

La scoperta del carcinoma

Quanto ai fatidici «anta», la stessa Catia ha le idee ben chiare. «Gli anni ci sono e non si possono nascondere - ammette -. Noi donne siamo il frutto delle nostre esperienze, di vita e di lavoro, ecco perché amo anche le mie rughe. Alla mia età sarei ridicola se mi facessi tirare o mi facessi fare le punturine e tutta quella roba lì, non sarei credibile e invece io voglio essere me stessa. Sempre» , a 58 anni Catia si considera una sopravvissuta, dopo aver scoperto di avere un carcinoma.

Appassionata da sempre di moda , quando i figli sono diventati grandi, Franchi ha iniziato a lavorare con la sorella. «Io ed Elisabetta siamo molto legate - ammette - e abbiamo preso da nostro padre la voglia di lavorare. L’infanzia difficile ha cementato il nostro legame, abbiamo fatto il collegio insieme e io mi prendevo cura di lei. Ci siamo sempre l’una per l’altra, quando ha saputo del mio tumore, mi ha telefonato e mi ha detto “nessun problema, adesso sistemiamo tutto” e così è stato. D’altra parte noi siamo così, siamo forti e determinate e siamo abituate fin da piccole a risolvere i nostri problemi».

Da leggo.it il 10 maggio 2022.

Dopo la bufera social, la stilista Elisabetta Franchi è voluta tornare sulla sua posizione, chiarendo (con tanto di grafici) quante donne sono assunte nella sua azienda, che conta 1100 negozi multimarca e 87 store monomarca in tutto il mondo e ha un fatturato da 129 milioni: «Riconosco di essermi espressa in modo inappropriato, ma i fatti, parlano chiaro: nella mia azienda su 300 dipendenti, l'80% sono donne, di cui la maggioranza e under 40, e le donne manager sono il doppio degli uomini. In sostanza ho assunto più donne che uomini e per la maggior parte giovani». 

Ma la sua posizione rimane la stessa, come scrive Veronica Cursi su ilmessaggero.it: «E' purtroppo un dato di fatto - come mostrano i numeri di Camera della Moda e Confindustria - e la mia stessa personale esperienza come capo d'azienda quanto sia ancora disseminata di ostacoli l'ascesa professionale delle donne verso ruoli apicali, anche nel settore della moda. Lavorare nel mondo della moda richiede disponibilità, reperibilità, ritmi serrati, dedizione e spesso tutto ciò coincide con grandi rinunce riguardo alla propria sfera privata, quelle che io per prima come capo d'azienda ho dovuto fare per garantire continuità e presenza al lavoro»

Cose che una donna giovane, che magari rimane incinta o progetta di avere un bambino, dunque, secondo Elisabetta Franchi non può fare, come dice lei stessa: «Non tutte le donne possono affrontare questi sacrifici - afferma in un comunicato - anche per l'impossibilita per molte di loro, pur volendo, di rientrare al lavoro dopo la maternità, per mancanza di supporti famigliari e sociali che impedisce loro di proseguire con successo il proprio percorso professionale. Di fatto le donne sono tuttora costrette a scegliere tra l'essere madri ed essere donne lavoratrici. Riguardo all'età delle dirigenti, solitamente si arriva a un ruolo dirigenziale, che e diverso da quello manageriale, dopo anni di esperienza sul campo e spesso coincide con gli "anta", ma questo vale anche per gli uomini». 

E conclude: «Invertire la rotta si può e si deve». Peccato non l'abbia detto proprio nel corso di quel convegno magari parlando di welfare, contratti collettivi, asili nido, congedi parentali. E dando lei, come donna di successo, il primo esempio.

«Dobbiamo lavorare perché posizioni del genere siano esecrate e marginalizzate», e alle donne vanno dati al più presto «gli strumenti per non essere costrette a scegliere tra lavoro a famiglia». Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, risponde così ad una domanda sull'imprenditrice Elisabetta Franchi. In quest'ottica è essenziale «il maggior coinvolgimento degli uomini nella gestione della famiglia, e quindi i congedi parentali per entrambi i genitori sono una scelta da rafforzare. I tassi di occupazione femminile più alti - ha aggiunto Orlando - sono in quelle aree del Paese in cui ci sono asili nido, le residenze per gli anziani e in generale i servizi che funzionano meglio».

Da veritaeaffari.it il 30 maggio 2022.

Nuova tempesta social su Elisabetta Franchi, l’imprenditrice della moda che aveva suscitato un vespaio sui criteri di assunzione delle donne nella sua azienda sostenendo che le selezionava solo dopo che avevano compiuto quattro giri di boa. “Quando metti una donna in una carica importante – disse a una convention del Foglio – non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta. E un imprenditore investe tempo, energia e danaro. 

Se viene a mancare è un problema… Io oggi le donne le ho messe perché sono ‘anta’. Se dovevano sposarsi lo hanno già fatto, se dovevano avere figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi, hanno fatto anche quello… Per cui io le prendo che hanno fatto tutti e quattro i giri di boa”. Da lì la tempesta. 

Il vecchio post che ritorna

Oggi dal web spunta un suo vecchio post Instagram del 6 agosto 2020, la prima estate della pandemia, in cui la Franchi racconta di essersi voluta “concedere una giornata full time con tutto il mio team…”, ma aggiunge facendo la spiritosa: “Ps. Il problema è che l’ho deciso tre giorni fa ed alcuni di loro hanno dovuto prendere un aereo e tornare a Bologna”. L’effetto quindi è quello di un capriccio della imprenditrice che in pieno agosto fa tornare tutti i suoi dalle ferie per “concedersi” una giornata con loro. 

E la foto pubblicata con la Franchi seduta sul tavolo accavallando gambe e tacchi con piglio decisionista e le facce dei poveretti con sorrisi a denti stretti e musi evidenti hanno alimentato l’immagine della imprenditrice spietata. Lei stessa per altro scorrendo il profilo Instagram personale sembra fare di tutto per alimentare il proprio mito disneyano da Crudelia Demon. Sempre sexy anche più delle modelle che si alternano con i suoi abiti, ma con piglio deciso e particolare durezza da farla sembrare sempre con il frustino in mano da agitare contro tutti e tutte…

Le parole che stanno facendo discutere. Chi è Tiziana Fausti, l’imprenditrice che attacca i giovani: “Ai colloqui chiedono solo weekend liberi e niente straordinari”. Roberta Davi su Il Riformista il 28 Maggio 2022.  

“Vedo gente che pensa solo a chiedere e basta… Per forza non si trova personale nei ristoranti, lo Stato li mantiene a casa con la Naspi e il Reddito di Cittadinanza. Così fai lavoretti, fai il dog sitter e lo stipendio te lo porti a casa lo stesso. Sperando che arrivi la fine del mondo e senza mai pensare al futuro. ”

Una dichiarazione, quella dell’imprenditrice nel settore della moda Tiziana Fausti, che sta facendo discutere. Intervistata dal Corriere della Sera sulla vicenda che ha coinvolto il preside di un istituto di Dalmine e il divieto di indossare “canottiere, magliette e abiti succinti” (concedendo però il pantalone al ginocchio), la ‘signora della moda bergamasca’ ha parlato di dress code dei ragazzi a scuola, ma anche di giovani e lavoro. Andando ad aggiungere la sua voce a quella di altri volti noti come Alessandro Borghese (“I ragazzi? Preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato e la pretesa di ricevere compensi importanti”) e di Flavio Briatore (“Molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo. Io lo vedo chiaramente: preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera”).

“Quello che chiedo è che ci sia almeno l’attitudine a fare qualcosa. Non pretendo che tutti siano delle aquile reali anche se ogni tanto qualche aquila arriva” ha sottolineato Tiziana Fausti. “Leopardi aveva scritto l’Infinito a 19 anni, ma questi non sanno né scrivere né parlare“. 

Chi è Tiziana Fausti

Tiziana Fausti ha una lunga storia imprenditoriale alle spalle, iniziata alla fine degli anni Settanta. Oggi è a capo di una catena di boutique multibrand, la holding Exor, da 130 dipendenti e 80 milioni di euro di fatturato. Ai negozi di Bergamo e Lugano ha affiancato un portale e-commerce e ora sta curando il rilancio del marchio ‘10 Corso Como’ fondato da Carla Sozzani.

“Si presentano candidati che non hanno lo standing per lavorare in un determinato ambiente – ha dichiarato riferendosi alla selezione del personale per la sua azienda. – Questo significa che o la famiglia o la formazione o la scuola non sono stati sufficienti. Ben venga, dunque, un po’ di disciplina che porti al rispetto. Altrimenti si crescono persone che non hanno nerbo e che, quando vengono a chiedere un posto di lavoro, pensano solo al sabato e la domenica liberi e a come vengono pagati gli straordinari. Io dico: comincia a darti da fare, a diventare indispensabile per la realtà in cui lavori”. 

Anche in fatto di look, l’imprenditrice afferma di essere delusa dai più giovani: “Io vedo questi ragazzi, con i ciuffi che vanno negli occhi e devo dire che non sono contenta di questa gioventù. Il sacrificio è necessario”. Roberta Davi

La risposta dell’imprenditrice alle polemiche. Tiziana Fausti risponde alle polemiche: “Credo nei giovani ma a volte mancano di umiltà, il lavoro non è un fastidio”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Maggio 2022. 

I giovani in cerca di lavoro “ai colloqui per le assunzioni chiedono solo di weekend liberi e straordinari” e che “lo Stato li mantiene a casa con la Naspi e il Reddito di cittadinanza”. Sono queste le affermazioni fatte in un’intervista al Corriere della Sera qualche giorno fa che hanno portato Tiziana Fausti, imprenditrice della moda, al centro delle polemiche. “Dei giovani non sono certo la prima a metterne in evidenza le difficoltà ad adattarsi alla realtà del lavoro. A volte mancano di umiltà”, ha risposto lei.

La voce della ‘signora della moda bergamasca’ si aggiunge a quella di altri volti noti come Alessandro Borghese (“I ragazzi? Preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato e la pretesa di ricevere compensi importanti”) e di Flavio Briatore (“Molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo. Io lo vedo chiaramente: preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera”).

Dalle colonne del Corriere della Sera risponde così alle polemiche: “Va tenuto conto che come imprenditori affrontiamo da tre anni un quadro economico complesso con strumenti contrattuali spesso inadeguati. Nonostante questo, in molti sono d’accordo e ogni giorno pensano che sia giusto presentarsi al lavoro e a scuola in modo coerente con il luogo e la funzione. E vale sia per i giovani che per gli adulti. Cerco di difendere una mia visione, una scelta di stile consapevole”.

L’imprenditrice sottolinea di credere moltissimo nei giovani e nel loro lavoro: “lavorano con me a Bergamo ragazzi eccezionali e devo a loro il mio successo. Nella mia realtà, credo profondamente nei giovani. Infatti, collaboro con l’Istituto Marangoni (Fashion school di Milano, ndr), con Domus Academy (scuola privata di design, ndr) e con lo Yac (Young Architects Competitions) di Bologna per contribuire con l’erogazione di una borsa di studio a fare emergere nuovi talenti e idee creative per un progetto innovativo nel futuro di 10 Corso Como”.

E ricorda quando era lei una giovane alle prime armi nel mondo del lavoro: “ho aperto il primo negozio di circa 16 metri quadrati nel 1979, ero poco più che ventenne. Volevo rendermi indipendente dalla famiglia, che già si occupava di retail. Mi occupavo di acquisti, vendita, apertura e chiusura. Nel 1986 è arrivato il primo vero negozio, nel 1992 l’Emporio di Bergamo ideato da Pellettieri d’Italia. Nel 2000 ho aperto nel centro di Bergamo quasi 2.000 metri quadrati con tutti i brand moda più raffinati”.

Ed è proprio ai giovani che rivolge il suo consiglio: “Cercare di essere innovativi e aprirsi a prospettive inedite. Per me un’intuizione felice e di successo è stato credere nel potenziale delle borse di tessuto di . Capii che erano oggetti nuovi, avevano già in partenza una visione dello stile completamente nuova. Nessuno aveva sdoganato il nylon di qualità, le finiture in saffiano. Ci fu un incontro all’Hilton di Milano con lo staff che poi mi ha condotto a Prada e Granello, brand a cui devo la mia partenza. Il lavoro può dare soddisfazioni, non è solo fastidio”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Tiziana Fausti: «Io nemica dei giovani? No, ma serve più umiltà. Il lavoro non è un fastidio». Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 29 maggio 2022. 

«Dei giovani non sono certo la prima a metterne in evidenza le difficoltà ad adattarsi alla realtà del lavoro. A volte mancano di umiltà». Risponde così Tiziana Fausti, imprenditrice del mondo della moda e del lusso con 22 vetrine e una selezione di oltre 200 brand internazionali nelle sue boutique, alle polemiche sollevate dopo la sua intervista al Corriere Bergamo, in cui ha sostenuto che i giovani in cerca di lavoro «ai colloqui per le assunzioni chiedono solo di weekend liberi e straordinari» e che «lo Stato li mantiene a casa con la Naspi e il Reddito di cittadinanza». La titolare del famoso store 10 Corso Como di Milano ha espresso il suo pensiero com’era già accaduto ad altri vip. Prima Al Bano, quando non riusciva a trovare lavoratori per la sua tenuta a Cellino San Marco (Brindisi) in Puglia, dove produce olio e vino. Poi Flavio Briatore che ha dato ragione alle parole pronunciate dal cuoco Alessandro Borghese: «Molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo, preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera».

Le sue parole hanno creato un putiferio...

«Va tenuto conto che come imprenditori affrontiamo da tre anni un quadro economico complesso con strumenti contrattuali spesso inadeguati. Nonostante questo, in molti sono d’accordo e ogni giorno pensano che sia giusto presentarsi al lavoro e a scuola in modo coerente con il luogo e la funzione. E vale sia per i giovani che per gli adulti. Cerco di difendere una mia visione, una scelta di stile consapevole».

Ma lei avrà pure dei giovani dipendenti...

«Certo, lavorano con me a Bergamo ragazzi eccezionali e devo a loro il mio successo. Nella mia realtà, credo profondamente nei giovani. Infatti, collaboro con l’Istituto Marangoni (Fashion school di Milano, ndr), con Domus Academy (scuola privata di design, ndr) e con lo Yac (Young Architects Competitions) di Bologna per contribuire con l’erogazione di una borsa di studio a fare emergere nuovi talenti e idee creative per un progetto innovativo nel futuro di 10 Corso Como».

E lei da giovane?

«Guardi, ho aperto il primo negozio di circa 16 metri quadrati nel 1979, ero poco più che ventenne. Volevo rendermi indipendente dalla famiglia, che già si occupava di retail. Mi occupavo di acquisti, vendita, apertura e chiusura. Nel 1986 è arrivato il primo vero negozio, nel 1992 l’Emporio di Bergamo ideato da Pellettieri d’Italia. Nel 2000 ho aperto nel centro di Bergamo quasi 2.000 metri quadrati con tutti i brand moda più raffinati».

Pensa allora che le nuove generazioni facciano più fatica a trovare punti di riferimento?

«Non so, io ho sempre cercato il bello nella moda, anche Urban style, persino nel Punk e nella Street. Non mi accontentavo di un solo punto di vista, ma esploravo stili anche molto diversi. Negli anni i clienti mi hanno sempre sostenuta e apprezzata per una dedizione che trasmette entusiasmo e professionalità».

Ma allora quale consiglio darebbe a un giovane oggi?

«Cercare di essere innovativi e aprirsi a prospettive inedite. Per me un’intuizione felice e di successo è stato credere nel potenziale delle borse di tessuto di Prada (di cui Tiziana Fausti, agli albori della sua impresa, è stata la prima rivenditrice in Italia, ndr). Capii che erano oggetti nuovi, avevano già in partenza una visione dello stile completamente nuova. Nessuno aveva sdoganato il nylon di qualità, le finiture in saffiano. Ci fu un incontro all’Hilton di Milano con lo staff che poi mi ha condotto a Prada e Granello, brand a cui devo la mia partenza. Il lavoro può dare soddisfazioni, non è solo fastidio».

Cosa c’è di meglio che farsi sfruttare. FEDERICA CACCIOLA su Il Domani il 28 maggio 2022

Ormai da settimane, su tutti i giornali, campeggia e risuona la notizia-scandalo del momento: le strutture turistico-ricettive non trovano personale disposto a lavorare per la stagione estiva. I dibattiti in merito si sprecano e il paese si è, sostanzialmente, diviso in due.

Da un lato, la vecchia scuola di boomer che, dall’alto delle proprie carriere durante il boom economico, i condoni, i concorsoni per il posto fisso e le baby pensioni ai 45enni, si ergono a paladini del duro lavoro e rimproverano i giovani di essere dei viziati nullafacenti senza voglia di sacrificarsi.

Dall’altro effettivamente i giovani, i quali lamentano stipendi e orari al limite della schiavitù e tra il farsi sfruttare e fare la fame e il non fare niente e fare la fame, preferiscono la seconda opzione, fai sempre la fame ma almeno hai il tempo di fare una passeggiata a mare, a costo zero.

COMUNISTI CON LA KEFIAH

La faccenda è sicuramente complessa e prevede approfondite analisi socio-economiche che io non sono in grado di fare. È anche vero però che negli ultimi tempi le notizie in merito al trattamento che gli imprenditori riservano ai propri dipendenti, di qualunque genere, non siano esattamente il massimo quanto a rispetto (e  legalità, se proprio volessimo essere precisi).

In verità queste notizie riguardano anche e soprattutto imprenditori molto facoltosi con enormi patrimoni personali, neanche piccole aziende in difficoltà (non sarebbe giustificabile neanche in quel caso).

Tendo quindi ad avere il sospetto che il nostro modello di lavoro, basato sul modello CAPITALISTA (sì, scusatemi, ho usato questo termine che fa tanto primi del Novecento ma ancora non è stata trovata un’alternativa valida), sia principalmente basato su questo: l’arricchimento di pochissimi a discapito dello sfruttamento, dell’impoverimento e, spesso, anche del maltrattamento, di moltissimi altri.

A questa posizione, un po’ da comunista con la kefiah alle manifestazioni studentesche in piazza, viene spesso risposto che i giovani non hanno voglia di fare sacrifici nemmeno quando viene loro garantito uno stipendio che le antiche generazioni si “sognavano”.

Certo, pensare che oggi, con il costo della vita quantuplicato e gli affitti medi (a Milano) a mille euro per un monolocale, ottocento euro al mese possano essere definiti uno “stipendio”, fa un po’ ridere.

E io, che lavoro da quando ho 18 anni, e ho spesso accettato condizioni lavorative immonde pur di lavorare (una volta ho lavorato come cameriera d’estate e mi pagavano con le granite), non voglio certo incentivare il lassismo.

LA LISTA DELLE COSE DA FARE

Eppure lascio a tutti i giovani – e meno giovani – che stanno cercando lavoro e sono indecisi se accettare delle condizioni disumane o meno, per non sentirsi dare dei nullafacenti, una piccola lista di tutte le cose che sarebbe meglio fare al posto di farsi sfruttare dieci ore al giorno, sette giorni su sette, per poche centinaia di euro:

Guardare quelli che giocano a padel. Il Padel è uno sport che va estremamente di moda oggi. Però, come il tennis, i campi da gioco si pagano quindi è chiaro che se non lavorate non potete permetterveli. In compenso però potete assistere all’impagabile spettacolo di questo sport bislacco che sta al tennis come il porno sta al sesso.

Guardare Rete4 per tutto il giorno. Rete4 potrebbe sembrare un normale canale televisivo invece, a ben guardare, è chiaramente un’arma di distruzione di massa.

Ti inebria h24 con improbabili storie assurde, processi inverosimili, siparietti politici degni di Bollywood e alla fine della giornata ti sei dimenticato di tutte le tue sofferenze. Ma anche di come ti chiami.

 Fare finta che sia ancora il 2020. Questa è facile, le regole le sappiamo tutti: ci si chiude in casa e si esce solo, al massimo, per fare la spesa, ma non più di una volta al giorno. D’altra parte le offerte di lavoro indecenti che si trovano post lockdown ci fanno rimpiangere i tempi dei comizi notturni di Conte quindi: perché non fingere che sia ancora così?

Vivere. So che sembra démodé, ma oltre al lavoro, la performatività, la prestanza, la carriera, il dovere sociale, esiste una cosa chiamata “vita”. Per vivere la vita basta, sostanzialmente, essere vivi. E questo è quasi sempre gratis. Almeno per ora. FEDERICA CACCIOLA

Rosaria Amato per "la Repubblica" l'8 maggio 2022.

«Sa qual è la battuta che gira quest'anno? Ti serve un cuoco: cercalo da Bartolini!». Paolo Manca, comproprietario della catena di alberghi sardi Felix Hotels e presidente di Federalberghi Sardegna, è preoccupato come la stragrande maggioranza degli operatori turistici italiani perché quest'anno è più difficile che mai trovare lavoratori: le strutture lamentano posti vuoti fino a un terzo del fabbisogno.

Eppure Manca non se la sente di prendersela con il reddito di cittadinanza, che viene indicato da molti come la causa principale delle difficoltà sperimentate da quando è partita la stagione turistica: «Con la pandemia la ristorazione e il turismo non sono più riusciti a garantire neanche quel minimo di stabilità che esisteva prima, - spiega l'albergatore - e i lavoratori hanno cercato altro. Sono diventati corrieri, muratori, magazzinieri, autisti. Scoprendo magari che così ci si gode la famiglia, non si lavora di notte e si hanno i weekend liberi».

L'allarme non si limita agli stagionali: «Mancano 200 mila lavoratori a tempo indeterminato, oltre ad almeno 100 mila stagionali - dice Aldo Cursano, ristoratore di Firenze e vicepresidente Fipe-Confcommercio -. Io ho tre locali, e mi mancano una decina di persone per stare a regime. Sono costretto a chiudere una delle attività alle 18, e nelle altre organizzo la cena solo il venerdì e il sabato. Altri colleghi fanno due giorni di chiusura. Siamo così stressati che alcuni ristoratori stanno arrivando a rubarsi i dipendenti tra di loro, offrendo condizioni migliori».

Le ultime previsioni di Unioncamere e Anpal certificano tra maggio e luglio il fabbisogno di 387.720 mila lavoratori per i servizi di alloggio, ristorazione e turistici, con un aumento del 64,9% rispetto al 2021: in quasi quattro casi su dieci (38%) sono difficili da reperire. «Io sono comproprietario di un cocktail bar e di una trattoria di pesce a Ferrara - racconta Matteo Musacci -. Abbiamo difficoltà a trovare lavoratori ormai da diversi mesi: molti non vogliono rientrare nel settore dopo la pandemia, perché questo è diventato un lavoro poco sicuro, e hanno trovato altro. Oppure ci chiedono di lavorare in nero perché non vogliono perdere il sussidio di disoccupazione o il reddito di cittadinanza. Mancano figure di tutti i tipi, dai cuochi ai camerieri».

I lavoratori però raccontano un'altra storia: «Io ho cambiato lavoro da due anni dopo dodici di stagioni - racconta Nicola -. Anche se qui in Sardegna sono sempre venuti lavoratori da fuori perché ben pagati, in busta paga vengono segnate solo 6 ore e 40, al massimo 9, ma poi se ne fanno sempre 12 o 14, dovrebbero mettere una tessera in entrata e in uscita così i dati arriverebbero diretti all'Inps». 

Sul sito di Anls, organizzazione che riunisce lavoratori stagionali, sono in tantissimi a lamentare il sussidio di disoccupazione "corto", che copre solo la metà del periodo corrispondente a quello di lavoro: «Da stagionale prima della grande trovata della Naspi lavoravo tutta l'estate facendo sacrifici, guadagnavo bene, riuscivo ad affrontare l'inverno nelle migliori condizioni», scrive Giampietro.

Gli imprenditori sono abbastanza d'accordo con quest'analisi: «Diamo un incentivo ai giovani - dice Cursano - premiamoli se hanno voglia di imparare un mestiere, non solo se preferiscono stare a casa. E poi lo Stato ci aiuti con il cuneo fiscale». 

«Si potrebbe pensare a un periodo di formazione retribuita quando non si lavora - suggerisce Manca -. Io non credo che la gente preferisca il reddito di cittadinanza al lavoro, e neanche che tutti gli imprenditori siano scorretti. Però ci vuole una legislazione strategica sul turismo, che permetta ai lavoratori di vivere dignitosamente, arrivando almeno a dieci mesi di retribuzione fra lavoro e formazione».

Rosaria Amato per "la Repubblica" l'8 maggio 2022.

«Da quando abbiamo riaperto c'è una grande richiesta per cresime, battesimi, soprattutto matrimoni: stanno celebrando tutti quelli rinviati per due anni. Un lavoro enorme, ma siamo sottodimensionati di venti unità che non riusciamo a trovare». Maurizio Pasca, presidente Silb, l'associazione dei locali da ballo, è titolare del locale di ristorazione e intrattenimento "Le Quattro Colonne", a Gallipoli, nel Salento.

Che figure vi mancano?

«Non riesco a trovare neanche il pizzaiolo. Per i camerieri sono anche andato a proporre alcuni stage nelle scuole alberghiere, ma mi hanno risposto di no». 

Molti stagionali denunciano condizioni di sfruttamento.

«Io sfido chiunque a venire a intervistare i miei dipendenti: nessuno fa più di otto ore al giorno. Quanto alle retribuzioni, un ragazzo di 18 anni che lavora al bar e porta il caffè ai tavoli guadagna 1200-1300 euro al mese, un cuoco arriva a 4.500».

Anche prima della pandemia era così?

«Prima c'era più personale di quanto ne cercassimo. Molti ora si accontentano del reddito di cittadinanza, e qualcuno mi chiede di lavorare in nero, in modo da non perdere l'assegno: ovviamente rifiuto. Il governo dovrebbe fare attenzione, dare il reddito solo a chi ne ha veramente bisogno».

Rosaria Amato per "la Repubblica"

Giovanni Cafagna, stagionale dell'Isola d'Elba, ha una sola spiegazione per la mancanza di lavoratori nel turismo: «È così da quando è entrata in vigore la Naspi, che copre solo la metà dei mesi del vecchio assegno».

Però sul sito dell'Anls, l'associazione dei lavoratori stagionali di cui lei è presidente, molti si lamentano anche delle condizioni di lavoro.

«Noi siamo stati sfruttati da sempre. La causa è la mancanza di copertura: se io lavoro sei mesi, e prendo l'assegno per tre, è un problema, e quindi appena posso cambio lavoro». 

Gli imprenditori lamentano anche la disaffezione da parte dei giovani e degli stranieri.

«Da noi all'Isola d'Elba i giovani lavorano tutti. È che sono sempre di meno, in tutta Italia. E gli stranieri durante la pandemia hanno trovato occupazioni più stabili e redditizie».

Quindi il reddito di cittadinanza non ha colpe?

«Gli imprenditori che si lamentano del reddito dovrebbero piuttosto pensare a fare qualche sacrificio anche loro, allungando la stagione e garantendo qualche mese di stipendio in più. D'inverno i loro figli, che vanno a scuola con i nostri, mancano per le vacanze per più di un mese, perché loro possono permetterselo».

 Andrea Cappelli per Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.

È lo stesso filone inaugurato da Elsa Fornero nel 2012, quando a margine di un convegno a Milano pronunciò l'ormai celebre frase «i giovani non devono essere troppo choosy (schizzinosi, nda)». 

Di davvero imperdonabile, in quella esternazione, c'è il ricorso snobistico alla lingua inglese. Per il resto, il concetto espresso dalla Fornero è stato ripreso e aggiornato decine di volte nel corso degli anni. L'ultimo a proseguire su questo solco è Alessandro Borghese, noto chef nonché volto televisivo di svariati programmi tra cui "4 ristoranti" (Sky Uno). 

Intervistato dal Corriere, il cuoco ha ribadito un concetto già espresso mesi fa: i giovani non sono più disposti a fare sacrifici. E soprattutto, se si deve imparare un mestiere, si può anche lavorare senza essere pagati. Considerazioni schiette che, come prevedibile, hanno suscitato un vespaio, dividendo l'opinione pubblica. Se si contestualizzano le sue parole, però, ci si rende conto che Borghese non ha tutti i torti.

La premessa è che quest' ultimo gestisce da fine 2017 un ristorante a Milano: "Alessandro Borghese, il lusso della semplicità". «Sa cosa è successo lo scorso weekend?» esordisce il cuoco nella sua intervista; «quattro defezioni tra i ragazzi della brigata, da gestire all'ultimo minuto, e nessuno disposto a sostituire. Così a cucinare siamo rimasti io e il mio braccio destro: 45 anni io, 47 lui».

ATTEGGIAMENTI DELETERI il Al netto dei singoli casi, è evidente che etica e rispetto impongono di non tirare bidoni all'ultimo minuto, soprattutto quando c'è più bisogno del tuo lavoro. Che la disavventura occorsa a Borghese sia frutto del caso? Può darsi. Sta di fatto che lo chef, così come tanti altri professionisti in ogni ambito, lamenta da tempo questa deriva. Molti ragazzi «preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci (a lavorare, nda) lo fanno con l'arroganza di chi si sente arrivato». 

Tra gli atteggiamenti deleteri elencati da Borghese c'è anche la «pretesa di ricevere subito compensi importanti. Sarò impopolare ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con vitto e alloggio riconosciuti. Stop. 

Mi andava bene così: l'opportunità valeva lo stipendio». Il ragionamento si conclude così: «Vuoi diventare Alessandro Borghese? Devi lavorare sodo. A me nessuno ha mai regalato nulla. Mi sono spaccato la schiena, io, per questo lavoro che è fatto di sacrifici e abnegazione. Ho saltato le feste di compleanno delle mie figlie, gli anniversari con mia moglie. Ho nuotato con una bracciata sempre avanti agli altri perché amo il mio mestiere». 

A onor del vero, si potrebbe obiettare che la retorica sui giovani lavativi, sulle nuove generazioni più flaccide di chi le ha precedute, è vecchia come il mondo e racchiude in sé uno stereotipo. Per ogni rampollo viziato che ha disertato le cucine di Borghese ci sono migliaia di giovani che pur di lavorare sono disposti a trasferirsi all'estero, prendendo in affitto cubicoli periferici pur di raggiungere i loro obiettivi. Stando al rapporto Istat del 2019 (fase pre pandemica) il numero di giovani italiani trasferitisi all'estero in cerca di opportunità è in continuo aumento (+4.5%, 122mila unità nel 2019), mentre il rapporto di Migrantes sugli italiani all'estero rileva che dai 3,1 milioni del 2006 si è passati ai 5.5 milioni attuali (+76.6%). E la maggior parte di essi è composta da diplomati «in cerca di un qualsiasi lavoro.

C'è un errore si legge nel rapporto- nella narrazione della mobilità recente, raccontata come quasi esclusivamente composta da altamente qualificati occupati in nicchie di lavoro prestigiose e specialistiche, quando invece a crescere sempre più è la componente dei diplomati alla ricerca all'estero di lavori generici». 

DEDIZIONE E SACRIFICIO Dato a Cesare quel che è di Cesare, resta il fatto che Borghese ha ragione da vendere. Per ottenere qualcosa l'unica strada percorribile è quella della dedizione e del sacrificio. Scrostando via quell'atteggiamento di sufficienza che molti giovani manifestano verso i lavori manuali. Scomodando René Guénon, infatti, giova ricordare che gli artigiani sono gli eredi di chi, nelle società tradizionali, era in grado di manipolare la materia. Un'arte sopraffina, dal sapore esoterico, che vale la pena coltivare.

Da mowmag.com il 19 maggio 2022.

“Entrambi i miei figli sono stati cresciuti con l’insegnamento di cavarsela da soli, senza aiuti finanziari da parte mia”. 

A dirlo era stata la nota attrice Barbara Bouchet per difendere Alessandro Borghese, uno dei suoi figli che era finito al centro delle polemiche per una frase tratta da una intervista nella quale raccontava le difficoltà nel reclutare personale disposto al sacrificio nel suo ristorante: “Ragazzi e ragazze vogliono tenersi stretti i week end”. E probabilmente sarà vero che la madre non lo ha aiutato economicamente, ma quando hai un genitore famoso spesso basta anche solo una buona parola per avere una spinta in più, e non da poco, rispetto a tanti che quella fortuna non ce l’hanno.

A confermarci che la Bouchet un “aiutino” al giovane Alessandro ha provato a darlo è un altro grande chef come Gianfranco Vissani. Intervistato da Black List per MOW, fra le altre cose, ha ricordato di quando l’attrice lo contattò per “raccomandare” il figlio nel suo ristorante di Baschi, in provincia di Terni: “Mi chiamò per prendere Alessandro. Come hanno fatto altri, per esempio Angela (Brambati, ndr) dei Ricchi e Poveri. Ma siccome io faccio pagare per venire a imparare da me, alla fine non li mandarono”. 

Vissani, ma è vero quello che ha detto Alessandro Borghese che oggi è difficile trovare giovani disposti a fare sacrifici in cucina?

Alessandro è un bravo ragazzo. Ha ragione quando dice certe cose. Perché i ristoranti sono dei negrieri. Io però li faccio lavorare tre giorni a settimana e li pago 1300 euro al mese, sono ben pagati, no? Gli altri giorni sto chiuso perché non abbiamo clienti, tra Covid e guerra in Ucraina. 

Conosco la mamma di Alessandro, Barbara Bouchet. Lei mi contattò per prendere il figlio nel mio ristorante. Come anche Angela dei Ricchi e poveri. Da me però per venire a imparare bisogna pagare e loro volevano mandarmeli gratis, ma porca… (imprecazione) gli ho risposto. E alla fine non sono venuti”. 

Che ripercussioni ha la guerra in Ucraina per la ristorazione italiana?

Secondo me tutte queste misure contro Putin in realtà vengono nel cu*l a noi. Ma perché non vogliamo usare il gas italiano? Abbiamo tutto in Italia, gas e petrolio. Non vogliono estrarlo perché c’è chi dice che è antiestetico o che inquina. Come il nucleare, abbiamo siti al confine con la Francia e se scoppia di là pensano che non ci arrivino le radiazioni?

Le fermiamo con le mani? Quindi la ristorazione patisce i rincari dell’energia?

Faremo questi tre mesi estivi e se va avanti così poi chiuderemo tutti. Nella grande ristorazione possono resistere 5-6 ristoranti, ma se finanziati anche da altri, sennò tutto il resto dovrà tornare alla cucina territoriale, neanche regionale. Con 30 euro bisogna far mangiare la gente. Ma scusa, perché in Spagna pagano la benzina 1300 e noi 1800 adesso che è stata abbassata, ma in autostrada 2200? Non la diminuiscono perché ogni gestore fa come ca**o gli pare. 

Quindi neanche i grandi chef, come i grandi musicisti durante la pandemia, possono più permettersi di rimanere chiusi?

Io ho 25 dipendenti e mi tocca pagarli tutti. Con gli eventi si riesce a resistere, tra poco ne ho due, uno a Roma e uno a New York, ma non credete che sia facile. Io pagavo di bolletta della luce 3500 euro, adesso è arrivata a 12mila euro al mese. Come ca**o facciamo? E non parliamo del gas. È un gioco che non regge più. Poi mio figlio passa e chiude tutto, ma che ca**o chiudi? Andremo avanti con le candele? Questo è un paese nel quale dopo il Superbonus del 110% tutti gli imprenditori sono nei guai perché non sanno alla fine chi paga. Ma si può andare avanti così?

Alessandro Dal Monte per corriere.it il 15 aprile 2022.

«Quello che dice lo chef Alessandro Borghese è la verità: molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo. Io lo vedo chiaramente: preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera. Anche quando il percorso glielo si offre, ben retribuito: pur garantendo stipendi adeguati e contratti a lungo termine, rifiutano». Flavio Briatore, 72 anni, imprenditore di lungo corso, è come tanti altri manager della ristorazione in difficoltà nel trovare camerieri e cuochi per i suoi locali. 

«Ho una ventina di indirizzi tra Italia ed estero: non ho problemi di reclutamento di personale a Dubai, non ho problemi in Arabia Saudita. Ho problemi in Italia, in Inghilterra e un po’ anche in Francia. In Inghilterra più a causa della Brexit, in Italia soprattutto a causa del reddito di cittadinanza, che è diventato la vera ambizione dei giovani. La prima domanda che mi sento rivolgere da molti ragazzi durante i colloqui è se possono avere il weekend libero. Io questi qui non li prendo nemmeno in considerazione, non li voglio più vedere».

Briatore, informarsi sulle condizioni di lavoro — orari, stipendio — non è legittimo nella scelta di un impiego?

«Sì, ma se un ragazzo fa domanda per lavorare nella ristorazione il weekend non ce l’avrà libero di sicuro. Allora cambiasse settore, andasse a lavorare in banca. Il punto è che i ragazzi non hanno proprio la testa: si sono seduti, ambiscono a non lavorare, a prendere il reddito di cittadinanza. Ai miei tempi l’ambizione era diventare impiegato: adesso è prendere il sussidio».

Non sarà così per tutti...

«No, ragazzi validi ce ne sono e fanno anche carriera. Da me se sei bravo entri in un gruppo internazionale che ti fa crescere. Ma molti non si vogliono più sacrificare, stanno attaccati ai social media e pensano che quella sia la realtà. Stanno in chat fino alle 3 del mattino ma non sono disponibili a lavorare. Io ho dei manager senior che rispondono al cellulare sempre». 

Ma non pensa che la disponibilità perenne sia sbagliata? Dalla pandemia è emersa l’esigenza di un miglior bilanciamento tra lavoro e vita privata, soprattutto in settori faticosi come quello della ristorazione.

«Certo, ci sono dei momenti in cui uno può consentirsi di staccare, ma se hai delle responsabilità o un determinato ruolo in alcune situazioni devi esserci. I ristoranti sono aperti la sera, nel weekend e durante le vacanze. Questo non si può cambiare. Il mondo del lavoro è un mondo di sacrifici. Se nella vita vuoi combinare qualcosa devi fare dei sacrifici».

Probabilmente questi giovani hanno altre priorità e non sono disposti a sacrificare sere e weekend per stipendi che a volte, in questo settore, possono essere molto bassi. La loro concezione di «spirito di sacrificio» potrebbe essere diversa da quella delle generazioni precedenti, non crede?

«Non possiamo modificare tutto il sistema lavorativo per dei ragazzi che non hanno voglia di lavorare. Io sono uno che paga bene e che paga tutti. Da me il contratto base parte da 1.800-2000 euro netti al mese. 

Anche lo stagista è pagato. Chiunque entri nel mio gruppo viene formato, fa dei corsi, viene retribuito. E se sei bravo cresci, c’è chi prende 4-5-10 mila euro e oltre. Ma il problema è che i ragazzi hanno perso il valore del lavoro: io da giovane raccoglievo le mele per due soldi, e lo facevo con passione. Adesso l’obiettivo è opposto, non lavorare. Lo ripeto: colpa del reddito di cittadinanza, una vera catastrofe. Sa qual è la soluzione?». 

Quale?

«Sospenderlo da aprile a ottobre, in modo che l’Italia, un Paese con 7 mila chilometri di coste che vive di turismo, non si trovi senza stagionali. Tanto poi chi è bravo trova subito il lavoro fisso. Io terrei il reddito di cittadinanza solo per le famiglie bisognose, ma lo bloccherei per i giovani. L’Italia non può dare contributi a fondo perduto a chi non lavora, così si spinge la gente a vivere di elemosina. 

Piuttosto si riduca il cuneo fiscale (la differenza tra lo stipendio lordo pagato dalle aziende e il netto percepito in busta paga, ndr): se lo Stato si prende meno tasse, al dipendente resta in tasca di più. Questo aiuterebbe, magari anche i giovani troverebbero più motivazione. Io spero che ritrovino la passione per il lavoro, devono amare quello che fanno».

Al Bano contro il reddito di cittadinanza: «Non trovo manodopera per lavorare le mie terre». Il cantante pugliese non trova lavoratori per la sua azienda agricola e lancia una proposta destinata a far discutere. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Maggio 2022.

Il lavoro è una delle piaghe della Puglia: la mancanza di personale nelle strutture alberghiere, così come in bar e ristoranti che si preparano con nuove assunzioni ad affrontare i numeri stellari della stagione estiva, tocca molti imprenditori, tra loro anche il cantante Al Bano Carrisi. Sono sempre meno le candidature d'impiego e sempre più alte le richieste di chi cerca un lavoro. La polemica lanciata dal Leone di Cellino San Marco fa discutere soprattutto dopo le parole di Borghese e Briatore sui giovani e il lavoro: anche Al Bano lancia una sferzata sui pugliesi che non hanno più voglia di lavorare nei campi per produrre olio e vino, dando principalmente la colpa al reddito di cittadinanza.

«La mancanza di manodopera è una realtà drammatica con cui mi scontro ogni giorno con la mia azienda agricola» ha affermato il cantante di Cellino San Marco, spiegando che per lui la colpa «è innanzitutto del reddito di cittadinanza». «Bisognerebbe fare come in Germania, dove già a 12 anni i ragazzi dopo la scuola fanno apprendistato nelle imprese», ha quindi rilanciato.

Le dichiarazioni di Al Bano  probabilmente sono destinate a sollevare un polverone mediatico, come quelle dello chef e dell'imprenditore che avevano detto: «I giovani preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera» o ancora «i giovani non sono disposti a sacrificare il loro tempo libero e pretendono di essere pagati per imparare».

La figlia di Lino Banfi: «Si trova il personale se lo tratti bene. Nessun problema nel nostro ristorante». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2022.

L’attore, che ha aperto a Roma un locale di piatti tipici pugliesi, si discosta da alcuni volti celebri, tra cui Al Bano, che parlavano della fatica di trovare lavoratori.  

Anche Lino Banfi e sua figlia Rosalba sono intervenuti sulla polemica dell’assenza di lavoratori che lavorino in pub e ristoranti. Un dibattito lanciato da Alessandro Borghese e poi ripreso da Flavio Briatore, Al Bano Carrisi e Karina Cascella: tutti uniti nel parlare della difficoltà di trovare personale. Un problema che non riguarda Banfi e figlia, che insieme hanno aperto a Roma il ristorante Orecchietteria Banfi. Al settimanale «Nuovo» hanno raccontato: «Noi siamo stati fortunati. Nel nostro ristorante lavorano ragazzi che abbiamo assunto cinque anni fa e altri presi più di recente. Vero è che, oltre a offrire un contratto regolare, noi assicuriamo anche un clima di lavoro sereno e familiare. Se uno ha un problema, gli si va incontro». Insomma, come per dire che garantendo le giuste condizioni di lavoro anche i dipendenti si trovano.

Claudia Osmetti per “Libero Quotidiano” il 26 maggio 2022.

Al Bano contro Lino Banfi. Scontro (pop) sul mondo del lavoro. Ché, forse, un po' di ragione ce l'hanno tutti e due, perché (dice Al Bano) con i sussidi a pioggia, vedi alla voce reddito di cittadinanza, riuscire a trovare personale sta diventando un incubo, ma (gli risponde Banfi) se non si offre un ambiente sereno e un contratto regolare, il problema sta altrove.

Due pugliesi d'eccezione, probabilmente i due pugliesi più famosi d'Italia (tolto solo Checco Zalone che, a questo punto, chissà se si farà sentire pure lui): il primo, mister Felicità, che è il proprietario di una tenuta a Cellino San Marco, in provincia di Brindisi, nella quale produce olio e vino e con un albergo e un ristorante; il secondo, l'ex Oronzo Canà della commedia anni Ottanta, che, con la figlia Rosanna, nel 2017 ha aperto, al quartieri Prati della capitale, la sua "Orecchietteria Banfi", una gastronomia che sforna leccornie della cucina regionale (pugliese, s'intende).

E nel mezzo il web che da qualche ora è impazzito. Chi a favore dell'uno, chi dell'altro. Chi ha-ragione-Lino, chi non-si-tocca-Al-Bano. Chi è-successo-anche-a-me e chi bisogna-dire-le-cose-come-stanno.

Niente da fare, è l'Italia. Quello strano Paese in cui prendi un cantante e un attore e ne esce una discussione che finisce per coinvolge un po' tutti. Dalla casalinga di Voghera al barista di Forlì. Non c'è niente di male, per carità.

E diciamocelo subito: i toni utilizzati non sono quelli dell'insulto. Al contrario, si tratta di un semplicissimo scambio di opinioni. Ma andiamo ai fatti. Il "la", come è abituato a fare, lo dà Al Bano che, sul finire della settimana scorsa, lancia una sferzata a quegli italiani che non han più voglia di lavorare.

Non è l'unico, prima di lui si sono già lamentati (più o meno nello stesso modo) anche l'imprenditore Flavio Briatore e lo chef Alessandro Borghese. Il ritornello (trattandosi di Al Bano) è lo stesso: «La mancanza di manodopera è una realtà drammatica con cui mi scontro ogni giorno nella mia azienda agricola», dice, e la colpa «è innanzitutto del reddito di cittadinanza. Bisognerebbe fare come in Germania dove già a dodici anni i ragazzi, dopo la scuola, fanno apprendistato nelle imprese».

Che si stava per sollevare un polverone (visti i precedenti già citati, ossia Borghese e Briatore) era nell'aria. 

È un tam-tam che va avanti da tempo e che non risparmia nessuno: c'è carenza di cuochi e camerieri, non si trovano lavapiatti manco a cercarli col lanternino e i receptionist notturni degli hotel aperti h24 sono più rari delle mosche bianche. Da quando abbiamo abbandonato le restrizioni anti-covid non c'è ristoratore, albergatore o gestore di locale che non l'abbia rimarcato.

Però poi ecco quel che non t'aspetti. Il Banfi nazionale che ribalta la frittata: «Nessun problema nell'orecchietteria romana a trovare personale», puntualizza, e il segreto sta tutto nel rapporto con i dipendenti.

A parlare, in verità, è la figlia Rosanna che è altrettanto schietta: «Nel nostro ristorante lavorano ragazzi che abbiamo assunto cinque anni fa e altri presi più di recente», spiega, «vero è che, oltre a offrire un contratto regolare, noi assicuriamo anche un clima di lavoro sereno e familiare. Se uno ha un problema, cioè, gli si va incontro».

Che poi sarebbe anche il minimo sindacale, per rimanere nel gergo. La famiglia Banfi non tira in ballo il reddito grillino, la butta meno in politica, ma ne fa un punto di orgoglio: tuttavia che si tratti di una stoccata a certi ambienti non ci piove. Resta solo da vedere se Al Bano replicherà a sua volta.

Per ora è quasi gol. La sottile differenza tra precarietà e flessibilità. Giuseppe Garesio su L'Inkiesta il 2 maggio 2022.  

L’avvio del programma Garanzia occupabilità dei lavoratori è un passo avanti. Ma in questo ambito restano da fare molte altre cose per sfruttare al meglio l’occasione del Pnrr, spiega l’amministratore delegato di Synergie Italia.

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2022 in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.

Per l’anno che verrà, negli scenari per il lavoro in Italia, mi permetto di formulare alcuni desideri, che come operatore del settore, occupandomi di fare incontrare la domanda con l’offerta di lavoro – dentro il mercato del lavoro – vorrei vedere realizzati nel nostro Paese.

Il Pnrr porta circa cinque miliardi, in quattro anni, alle politiche attive per il lavoro, cioè al vecchissimo progetto che nasce nell’Europa socialdemocratica del Nord per spendere le risorse non solo per assistere materialmente il lavoratore in difficoltà, ma anche per accompagnarlo a un nuovo e, possibilmente, più soddisfacente lavoro. Questo elementare concetto, che è sia di equità sia di migliore utilizzo delle risorse e del buon senso, si stava facendo strada in Italia, dopo tanti anni di predicazione di Marco Biagi a Tiziano Treu, di Pietro Ichino e Tommaso Nannicini, cioè del miglior pensiero giuslavoristico, fino a essere totalmente ribaltato dallo sciagurato governo Di Maio-Salvini del 2018 che, con il reddito di cittadinanza, ha cancellato vent’anni di buone pratiche in tutta Europa.

Probabilmente è stata solo ignoranza, forse i nostri eroi semplicemente ignoravano l’abc delle politiche del lavoro, fatto sta che è stata posta fine anche alla sperimentazione sull’assegno di ricollocazione. Adesso l’Europa ci chiama a un grande sforzo: con il decreto ministeriale di fine anno del ministro Andrea Orlando, si rimette in moto la macchina, attivando il Gol, cioè la nuova formulazione di politica attiva che il ministero e l’Anpal hanno partorito.

Pur con mille contraddizioni, è un passo in avanti, si riconosce persino il ruolo delle agenzie private e si individuano le aree di disoccupazione che possono essere investite dal provvedimento. Si integra la formazione con l’assistenza al lavoratore per accompagnarlo al ricollocamento, si creano le basi per una collaborazione di tutti i soggetti che possono svolgere un ruolo attivo per innalzare finalmente il tasso di occupabilità in Italia.

Questo piccolo passo avanti deve essere costato parecchio a un ministro come Orlando, che mi pare più interessato a confermare il suo ruolo di sinistra nel grigiore dell’attuale Pd che non a risolvere i problemi di un mercato del lavoro ancora così arretrato come quello italiano. Ma mi preoccupa anche quanto ancora resta da fare (perché se non si riesce a spendere saltano i finanziamenti europei per l’anno successivo): attendiamo lumi operativi su come procedere, visto che non è chiaro come questo convoglio possa mettersi in moto nella perdurante inefficienza di quasi tutti i centri per l’impiego italiani.

Tra i tanti interrogativi aperti voglio solo ricordare la domanda inquietante che tutti ci poniamo sulle Regioni del Sud (i soggetti operativi di Gol): come faranno a far funzionare il meccanismo, visto che non riescono a spendere miliardi di euro delle passate gestioni e mancano di strutture, uomini ed esperienze positive? Riusciremo a vedere l’esercizio dei poteri sostitutivi del governo centrale dare finalmente una lezione a cotanta colpevole inefficienza?

Ammortizzatori sociali: non si capisce di che cosa stiamo parlando, abbiamo passato l’autunno a dire che si trattava di una riforma da fare subito, ma le piccole imprese non vogliono pagare e dunque non si capisce perché le loro crisi debbano pesare sul bilancio delle altre aziende, che già finanziano gli ammortizzatori. Inoltre, la vera riforma era già stata fatta con il Jobs Act, che aveva ampliato la platea. Il resto della partita va ricondotto alle politiche attive, vedi il punto precedente.

Mi piacerebbe davvero che si smettesse di parlare a vanvera di precarietà, un bandiera del segretario della Cgil Maurizio Landini e compagni che sta diventando offensiva per tutte le imprese serie (posto che siamo d’accordo con lui nel criticare le forme di sfruttamento di organizzazioni e cooperative spurie che però rappresentano un mondo para criminale e non il normale mondo datoriale): i contratti a termine rappresentano il 15 per cento dei contratti di lavoro, tutti gli altri sono a tempo indeterminato. Siamo in piena media europea, né più né meno. È evidente, del resto, che debbano esistere i contratti a termine, che hanno una logica, sia per un prolungamento legittimo del periodo di prova sia per ragioni tecniche di utilizzo. Chi di noi non ha iniziato con contratti a termine? Perché un giovane non dovrebbe passare attraverso alcuni contratti a termine, prima di essere assunto, come avviene nell’85 per cento dei casi, a tempo indeterminato?

Un problema vero, invece, è la cosiddetta trappola della precarietà, quando a 35 anni si continua con contratti a termine e a singhiozzo nei call center o nei ristoranti. Ma qui il discorso ritorna al primo punto, sulle politiche attive, sulla formazione e sulla difficoltà di fare incontrare la domanda con l’offerta. La vera strozzatura del mercato del lavoro italiano. Allora, per favore, distinguiamo tra flessibilità e precarietà, e poi tra la precarietà provvisoria del giovane che entra sul mercato del lavoro e la precarietà stru!urale della cooperativa padronale di facchinaggio sottopagato, tra la falsa partita Iva e il sano contratto della somministrazione, che tratta con gli stessi diritti il dipendente e il somministrato.

Un altro punto che aiuterebbe a risolvere parte dei nostri problemi è quello di un utilizzo meno sprecone della formazione: in Italia abbiamo ancora situazioni insostenibili, retaggio della prima Repubblica, quando sindacati e organizzazioni cattoliche vivevano con gli enti di formazione che, attraverso i corsi per pettinatrici, facevano campare centinaia di sedicenti formatori. Pensate che in una regione del Nord come il Piemonte è ancora in vigore, speriamo per poco, una legge che finanzia la formazione regionale solo per le società senza fini di lucro (cioè parrocchie e sindacati).

Vorrei che anche per le società di formazione funzionasse un sistema di valutazione, sui risultati di occupabilità che vengono raggiunti. Noi del sistema delle agenzie private del lavoro abbiamo inventato un buon misuratore di efficienza con l’ente bilaterale per la formazione, dove i finanziamenti vengono erogati solo sulla base di una percentuale di placement che dimostri che la formazione è servita a qualcosa e che non sono soldi buttati. Come ha detto il rimpianto ministro Maurizio Sacconi, che finisca finalmente la «festa dei formatori».

Va riformato il sistema degli incentivi, da un lato riducendo quelli eccessivi (ad esempio per le assunzioni degli under 36 mi pare esagerato lo sconto alle imprese di 36 mesi di contributi), dall’altro premendo di più sugli incentivi per chi ha perso il lavoro (mi sembra troppo poco, ad esempio, l’incentivo di poche centinaia di euro all’anno per chi assume dalla Naspi).

Ma soprattutto va riformato il cuneo fiscale per far costare di meno il lavoro e lasciare più soldi in tasca al lavoratore, anche a quelli cosiddetti “ricchi” da cinquantamila euro lordi (che poi così ricchi non sono). Siamo ancora in ritardo nel rapporto scuola-lavoro e sugli Its e la nostra economia sta soffrendo la mancanza di maestranze tecniche. La differenza con la Germania è immensa: il rapporto degli studenti degli Its è quasi di 1 a 100, tra noi e i tedeschi.

Impegniamoci a finanziare, con fondi privati e pubblici (ancora il PNRR), una grande operazione di ristrutturazione della scuola tecnica sia superiore sia universitaria. Rappresenterebbe il migliore investimento per il futuro. Sulla previdenza il sistema politico deve essere più serio e meno populista: tanto hai contribuito, tanto ricevi. Non puoi pretendere di andare in pensione prima e senza riduzione di importo pensionistico. Bisogna essere inflessibili, altrimenti non riusciremo mai a risanare i conti e spendere di più sulla sanità;

Reddito di cittadinanza: qui Mario Draghi ha sbagliato perché in verità la condizionalità non esiste: il beneficiario che non vuole andare a lavorare sarà bravissimo a evitare che l’azienda interessata possa procedere a una proposta di assunzione e lui continuerà tranquillamente a imbrogliare lo Stato incassando l’assegno (magari per continuare a lavorare in nero).

Salario minimo garantito: sarebbe una buona azione, fissando un minimo dignitoso che non andrebbe affatto a indebolire la contrattazione sindacale, perché partirebbe da quel minimo per premiare merito e produttività. Poi, una volta fatto ciò, si potrebbe ricominciare a parlare, come in Germania, di mini Jobs di carattere sociale (cioè meglio farti lavorare con poco che lasciarti a casa a oziare).

Discutiamone senza criminalizzazioni: l’Italia ragionevole e avanzata se lo merita, anche se purtroppo la politica non sembra ascoltare. 

Il grande spreco. L’Italia ha la più alta percentuale di persone che vogliono lavorare ma non cercano un impiego. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 25 Maggio 2022.

Il 36% di coloro che non fanno parte della forza occupazionale potrebbe attivarsi, ma per ragioni (in parte) misteriose non invia curriculum, non partecipa a colloqui. Un dato assurdo e imparagonabile con altre nazioni simili alla nostra: in Portogallo non si va oltre al 20,2%, in Spagna il 18,4%, in Germania solo il 12,6%.

L’Italia è il Paese in Europa in cui è più alta la percentuale di persone che non lavorano, anche se hanno l’età adatta per farlo. La forza lavoro, che include chi ha un’occupazione e chi non ce l’ha ma la cerca, non è mai riuscita a raggiungere il 66%, neanche negli anni migliori. Più del 34% di chi ha tra i 15 e i 64 anni non solo non ha un impiego, ma non si è neanche attivato per procurarselo.

È un dato dovuto al fenomeno degli eterni studenti che rimangono diversi anni fuori corso? O ai pensionati precoci che si ritirano prima dei 60 anni? O ancora al lavoro nero?

Ognuno di questi elementi ha un senso, sono tutti ben presenti in Italia, ma meno di un tempo in realtà, grazie ad alcuni cambiamenti intervenuti nel tempo in ambito pensionistico o universitario.

Un fattore su tutti differenzia l’Italia da nazioni che hanno dinamiche simili alle nostre, come Spagna o Grecia: la motivazione per cui queste persone non lavorano. La gran parte degli inattivi (il 29,5% sull’intera popolazione) non ha alcuna intenzione di lavorare, ma solo in Italia è sostanziosa anche la quota di persone che avrebbe desiderio di avere un’occupazione ma non la cerca.

Sono il 7,5% tra quanti hanno tra i 20 e i 64 anni, e arrivano al 7,8% se il denominatore è composto dai 25-54enni, ovvero tagliando fuori gran parte degli universitari e dei pre-pensionati.

La distanza dagli altri Paesi in cui tale categoria è più numerosa, come Croazia o Spagna, è molto ampia: in Italia la proporzione è doppia o più che doppia che in ogni altro Stato della Unione europea

Quindi il 36% di coloro che non fanno parte della forza lavoro (poco più di un quarto se consideriamo i 20-64enni) in realtà potrebbe attivarsi, ma per ragioni (in parte) misteriose non invia curriculum, non partecipa a colloqui. Un dato assurdo e imparagonabile con altre nazioni simili alla nostra: in Portogallo non si va oltre al 20,2%, in Spagna il 18,4%, in Germania il 12,6%, un terzo.

Stiamo parlando di un milione e 712 mila persone, 2 milioni e 585 mila allargando il bacino anche a 20enni e 60enni. Sono il 42,2% di tutti quelli presenti nella Ue. Una percentuale abnorme considerando che la popolazione italiana è solo il 13,3% di quella complessiva dell’Unione Europea

La percentuale massima di italiani che hanno intenzione di lavorare ma non cercano è stata raggiunta tra fine 2014 e inizio 2015, al culmine della recessione seguita alla crisi dell’euro, e si è avuto un secondo picco a causa del Covid, poco più di un anno fa. Ora i numeri sono diminuiti, rimanendo però ancora superiori a quelli del 2009 e degli anni precedenti.

Come altri fenomeni che riguardano la mancanza di lavoro anche questo colpisce più le donne, nonostante il divario di genere sia diminuito nel tempo. Ancora oggi le potenziali lavoratrici che non si attivano nonostante sulla carta vogliano un impiego sono l’8,4%, mentre si scende al 6,6% tra gli uomini.

Sono solo una curiosità statistica o c’è qualcosa dietro? I dati Eurostato mostrano un segmento della popolazione che è troppo scoraggiato per cercare una occupazione o di circostanze familiari che tengono lontani dal mondo del lavoro. In entrambi i casi si capisce perché questi numeri sono così alti nel nostro Paese.

Oltre al fenomeno psicologico è probabile vi siano condizioni strutturali e concrete che impediscono l’incontro tra l’offerta e la domanda di occupazione.

C’entra molto il fatto che ben il 54% di questi “scoraggiati” sia arrivato al massimo alla terza media, mentre in Germania non si giunge al 30%. Si tratta di una percentuale altissima anche per un Paese che non ha mai brillato per il livello di istruzione della sua popolazione. C’entra molto anche il mismatch delle competenze, o meglio ancora la mancanza di queste ultime tra la popolazione.

Allo stesso tempo la prevalenza femminile in questo ambito ci fa capire che ad avere un peso è anche la carenza di un welfare familiare adeguato, che consenta alle donne che hanno figli di avere una carriera, di non rimanere schiacciate tra responsabilità familiari e lavorative, soprattutto nelle fasce più fragili e povere della popolazione.

Siamo di fronte a un grande spreco. Lo spreco di capitale umano, innanzitutto, da accrescere o da utilizzare così com’è, anche se non arricchito da titoli, master, dottorati. L’ennesimo spreco che non potremmo permetterci, non dissimile da quelli più noti, che suscitano più indignazione, quelli della spesa pubblica, dei fondi europei non sfruttati. Forse è ancora più grave, perché se rimediare all’inefficienza della Pubblica Amministrazione è possibile, volendo, è più difficile recuperare un/una quarantenne che non ha mai lavorato in vita sua, ma lo avrebbe desiderato.

Camilla Mozzetti per “Il Messaggero” il 24 maggio 2022.

Due spaccati, due mondi dai confini delineati: quello di chi il lavoro l'ha perso e non «lo cerca più perché gli basta il reddito di cittadinanza e quello invece composto da giovani e giovanissimi disposti a qualsiasi impiego pur di lavorare», spiega Sergio Paolantoni, presidente della Fipe Confcommercio. 

A Roma con la crisi indotta dalla pandemia del Covid-19 si sono aperte circa «ventimila posizioni nei settori che vanno dalla ristorazione all'accoglienza, dall'intrattenimento al catering e agli eventi», prosegue Paolantoni ma è difficile riuscire a coprire tutte queste posizioni. Anzi, stando all'andamento su offerte e impieghi coperti il saldo è ancora negativo.

«Pesa la volontà a non perdere il contributo statale senza lavorare e la richiesta di alcuni di lavorare in nero per non perdere il beneficio», spiega ancora il numero uno della Fipe. 

Sono anche i dati sulle offerte di lavoro conteggiate dall'Associazione insieme ad InfoJob a dare la misura di una situazione dove il lavoro manca solo per chi non lo vuole cercare. Il Lazio infatti è al sesto posto nella classifica nazionale delle Regioni con il più alto numero di offerte di impiego.

C'è sicuramente il settore del turismo e quello della ristorazione, che proprio nel periodo della pandemia ha accusato il colpo maggiore, ma nel podio delle posizioni più cercate da aziende ed attività commerciali c'è il settore delle vendite (15,5%) e dunque commessi e cassieri, quello dell'amministrazione, contabilità e segreteria (10,5%) e il commercio Gdo Retail (10,1%) ovvero tutto il settore che manda avanti migliaia di attività commerciali ma che non si vede perché fa parte, ad esempio, del facchinaggio o del magazzinaggio.

Entrando nel dettaglio il Lazio viene dopo Veneto e Lombardia per numero di offerte ma la provincia che cerca di più - gioco forza - è quella di Roma. Nella Capitale infatti le offerte e gli annunci rappresentato l'81,6% del totale, segue Latina con il 7,5% e Frosinone con il 6%. Sono posizioni aperte che le aziende contano di riempire alla svelta per non incrinare ancora di più una parte considerevole dell'economia non solo romana.

Ed è anche per questo che proprio la Fipe Confcommercio in collaborazione con InfoJobs ha organizzato per giovedì il Talent day una giornata in cui domanda e offerta potranno incontrarsi, dove le aziende ma anche i ristoranti, i locali, le attività commerciali e le imprese del terzo settore potranno mostrarsi e dove chi cerca lavoro potrà presentarsi. 

La Fipe offrirà 110 posti da coprire in tutti i settori anche in vista dell'estate e le domande di adesione alla giornata sono già moltissime. «Il lavoro lo si cerca - aggiunge Paolantoni - nonostante una sacca di persone abbia deciso di vivere solo con il reddito di cittadinanza».

Su questo il numero uno della Fipe tende a rimarcare un concetto: «L'emergenza sanitaria non ha provocato degli effetti solo nell'immediato, assistiamo adesso a questo colpo di coda che rischia di far cessare moltissime attività ma c'è una linea di confine, una demarcazione netta che ci fa essere ottimisti: per tutti coloro che il lavoro hanno smesso di cercarlo perché ricevono il reddito di cittadinanza - conclude il numero uno della Fipe - c'è una compagine nutrita e numerosa, composta soprattutto di giovani volenterosi che sono disposti a ricoprire i ruoli più diversi senza gravare sulle famiglie e nella speranza di poter scrivere un nuovo futuro». Che vale per i singoli ma anche per la città e la Regione intera.

Massimo Sanvito per “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2022.

Le imprese che cercano lavoratori ma non li trovano nonostante il dieci per cento della popolazione sia disoccupata. I giovani che sono sempre meno e gli anziani che sono sempre di più. Gli stipendi tra i più bassi d'Europa e la percentuale di occupazione femminile idem.

La crescita esponenziale dei lavoratori che si licenziano per cambiare aria. La fuga dei cervelli ma anche della manovalanza. La denatalità galoppante che rischia di avere effetti devastanti nel nostro paese. 

«In Italia manca una grande narrazione, ovvero una promessa di benessere per instillare fiducia nell'immaginario collettivo. Questo aspetto non è secondario: solo così si può contrastare la dimensione dell'ignoto che destabilizza», spiega Massimiliano Valerii, direttore del Censis, il Centro Studi Investimenti Sociali che dal '64 coglie e approfondisce i temi fondamentali della società.

Le prospettive non sono così rosee se si guarda il Def approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso aprile: i dati della crescita programmatica prevedono un incremento del Pil nel 2022 del 3,1 per cento, nel 2023 del 2,4, nel 2024 dell'1,8 e via a scendere. «Di questo passo torneremo all'Italia dello 0, che tante insoddisfazioni ha lasciato», sottolinea il direttore. 

Valerii, Federalberghi ha lanciato un allarme non da poco: all'appello mancano quasi 390mila lavoratori tra cuochi, camerieri e receptionist. Il turismo è in emergenza perché non si trovano gli stagionali. Eppure abbiamo oltre due milioni di disoccupati in Italia...

«Esiste un mismatch tra offerte e domande di lavoro e a pesare è l'effetto demografico. Infatti, se pensiamo che al primo censimento del '51 i giovani under 35 erano il 57 per cento della popolazione e oggi sono il 33 si spiega tutto.

Non solo: di questo passo nel 2040 i giovani saranno superati dagli over 65. Il secondo motivo che incide è rappresentato dalle retribuzioni: l'Italia è l'unico tra i paesi Ocse che negli ultimi trent'anni ha avuto una riduzione in termini reali del 2,9 per cento. Giusto per fare qualche esempio, gli stipendi in Germania sono aumentati del 33,7 per cento e in Francia del 33,1 per cento.

Infine manca appeal nel lavoro: che identità può dare un impiego a termine che non è più garanzia di promessa che lavorando potrò migliorare le mie condizioni reddituali ed esistenziali?». 

Il reddito di cittadinanza quanto influisce in questo processo?

«Questo è uno strumento dovuto e doveroso per chi si trova in difficoltà. Non dimentichiamo, infatti, che la pandemia, tra il 2020 e il 2021, ha prodotto un milione di nuovi poveri in più rispetto al 2019.

Il sussidio, però, non funziona come stimolo per la ricerca di occupazione per un motivo molto semplice: il differenziale tra reddito di cittadinanza e retribuzioni è talmente sottile che non c'è motivo per spostarsi sul lavoro. 

Il vero problema, però, è che se abbiamo meno persone che lavorano, queste devono produrre molto di più e solo con una nuova rivoluzione tecnologica possiamo avere un sistema sostenibile. Bisogna investire al massimo nella ricerca e nell'innovazione. Alla fine del 2021, rispetto al 2019 pre-pandemia, non avevamo ancora recuperato tutti i posti di lavori nonostante il balzo del Pil del 6.6 per cento. Anche le ore lavorate sono diminuite, del 3 per cento, con un aumento del part time». 

In Lombardia, nel 2021, 400.000 persone hanno cambiato lavoro. In Veneto, tra gennaio e aprile, in 66.000. Come si spiega un fenomeno del genere?

«Cercano una qualità di vita migliore: se l'occupazione non garantisce più benessere si crea disaffezione, è inevitabile. È anche l'effetto del covid che ha incentivato lo smart working: questo, per molti lavoratori, può significare scarsa identificazione con l'azienda. In ogni caso, va detto che la tendenza alle dimissioni volontarie è antecedente alla pandemia».

Anche i consumi delle famiglie si erano ridotti già prima del Covid rispetto al 2008. Che effetti ha questa grande depressione?

«Nel 2021 il rimbalzo del Pil è stato del 6,6 per cento e nonostante ciò i consumi interni sono stati bassissimi, del 4,1 per cento. Stiamo perpetrando una situazione in cui non riparte la domanda interna e allo stesso tempo stanno aumentando i depositi bancari: parliamo di mille miliardi. 

E continuiamo a vivere nell'illusione di crescere attraverso l'export che però pesa per meno del 30 per cento del Pil. Il 60 per cento del prodotto interno lordo lo fanno i consumi interni, eppure la gente vive attanagliata nell'incertezza e anche chi ha potere d'acquisto tiene i soldi fermi. Così, però, si pregiudica la ripresa».

Un altro grosso problema è quello della denatalità. Si interviene coi bonus: bastano o servono interventi strutturali?

«Questa è la transizione che peserà di più sul futuro del Paese. Il problema non è solo la denatalità ma il fatto che questa si accoppi a un invecchiamento demografico: la piramide demografica è completamente invertita. 

I paesi che in Europa non hanno problemi di denatalità sono caratterizzati da due aspetti: un tasso di attività femminile più alto e meccanismi strutturali di sostegno alla genitoralità, il che significa risorse economiche ma anche una conciliazione famiglia-lavoro a 360 gradi».

Spesso le donne, in Italia, devono scegliere tra carriera e figli...

«Un dato su tutti riguarda l'occupazione femminile nel nostro paese: il 57 per cento, contro il 75 per cento della Germania e l'81 per cento della Svezia. Se le donne lavorano fanno più figli ma vanno messe nelle condizioni di farlo. In Italia, anche se aumentasse il numero di figli per donna, saremo sempre destinati a un'accentuazione del processo di denatalità per il semplice fatto che ci sono sempre meno donne in età fertile.

Le donne, per conciliare famiglia-lavoro, ricorrono per oltre il 30 per cento al part time, contro l'8 per cento degli uomini. Aggiungiamoci anche il -25 per cento del valore dello stipendio ed ecco squilibri che non si giustificano in alcun modo. Il problema è della società, non dell'individuo. Stando così le cose, che senso ha parlare di quote rosa per i cda delle aziende?».

Pochi, non pigri. La scarsità di giovani nella ristorazione non è colpa delle paghe basse, ma della demografia. Gianni Balduzzi il 19 Maggio 2022 su L'Inkiesta.

Il settore, uno dei pochi che è cresciuto negli ultimi anni, si trova a dover affrontare un restrizione strutturale dell’offerta (a fronte di un aumento della domanda) che non viene compensata nemmeno dagli immigrati. È un problema che riguarda anche altri Paesi, ma in Italia è più marcato.

“Non si trova personale”, “i giovani non vogliono più lavorare nella ristorazione”, “non vogliono più fare sacrifici”. Da qualche anno questi titoli sono un classico dell’esordio della stagione estiva, un po’ come le raccomandazioni agli anziani di bere molto e non uscire nelle ore più calde della giornata.

Dopo il Covid vi è stata un’ulteriore accelerazione: è stata data la colpa al Reddito di Cittadinanza, alla mancanza di volontà dei 20enni infiacchiti dai lockdown, e naturalmente anche all’avidità dei ristoratori.

La realtà è che la carenza di personale è un problema di tutta l’Europa e dell’Occidente: non interessa solo l’Italia. Un po’ ovunque è difficile reperire giovani lavoratori in particolare per mansioni stagionali.

Ad accomunare l’Italia e i suoi vicini, infatti, vi è un fattore che non spiega completamente quanto sta accadendo, ma contribuisce più di quanto si pensi, anche se viene citato di rado. È il fattore demografico.

Gli italiani e gli europei sono sempre più vecchi e sono sempre meno quelli che rientrano nella fascia di età in cui è più frequente trovare camerieri, personale di sala dei ristoranti, aspiranti cuochi.

Dopo il 2015 nel nostro Paese i giovani tra i 20 e i 24 anni sono scesi sotto i 3 milioni: erano 4 milioni nel 1998 e avevano raggiunto un massimo di 4,7 milioni nel 1988, all’epoca in cui probabilmente molti gestori di locali avevano cominciato a lavorare. Questi numeri includono anche gli immigrati, senza i quali la situazione sarebbe ancora più preoccupante e, soprattutto, diversa da una volta.

Il panorama è simile anche per i 25-29enni, scesi di circa un milione e mezzo di unità in 30 anni, tra il 1990 e il 2020. Siamo davanti a una riduzione tra il 32% e il 38% negli ultimi decenni, il tutto mentre il campo degli over 50 ha avuto un trend simile, ma di segno opposto.

Più del dato assoluto è interessante quello relativo. In sostanza, i 20enni oggi sono poco più del 10% dell’intera popolazione italiana, mentre erano il 16,3% ai primi anni ‘90.

Visto che anche quello del lavoro è un mercato a tutti gli effetti, siamo davanti a una restrizione dell’offerta, che rimarrebbe tale anche se allargassimo la platea dei potenziali lavoratori del settore della ristorazione o del turismo pure ai 30enni: anche loro in calo demografico.

Si tratta di un fenomeno presente anche altrove, si diceva. Solo che in Italia è più marcato. Solo la Spagna presenta una situazione simile alla nostra, ulteriore dimostrazione dei parallelismi tra i due Stati mediterranei. Anche qui i 20-24enni sono solo il 5%, mentre in Germania e in Francia va un po’ meglio: in questi Paesi arrivano al 5,5% e al 5,6%, e nel Regno Unito al 6,2%. In quest’ultimo Paese, anzi, all’inizio del nuovo millennio vi era stata addirittura una crescita di questa fetta della popolazione, veicolata dall’immigrazione non solo dalle aree del mondo in via di sviluppo, ma anche dal Sud e dall’Est Europa (come l’Italia). Negli Stati Uniti i numeri sono simili a quelli inglesi, e vi sono anche più 20enni che in Cina.

Confrontato con tutto il totale mondiale, le distanze sono ancora più ampie. Sulla Terra sono il 7,7% ad avere 20 anni o poco più, in alcuni Paesi emergenti come l’Indonesia si supera ancora l’8%: come in Italia 30 anni fa.

Il nostro Paese si trova dunque in una situazione molto particolare, che forse solo tra molti anni caratterizzerà anche altre economie.

Ai grandi cambiamenti dal lato dell’offerta, poi, si aggiungono quelli sul versante della domanda. Dall’inizio del secolo l’occupazione nella ristorazione è cresciuta molto più della media dei servizi, addirittura del 93,5% tra 2000 e 2019, del 30,9% se il lasso di tempo esaminato è tra il 2010 e il 2019. Il provvisorio crollo del numero dei lavoratori dovuto alla pandemia, poi, non ha comunque cambiato l’abbondante segno più.

Quasi nessun altro segmento dell’economia ha visto un incremento così grande.

E non vi è stato neanche in altri Paesi occidentali. Più ampio che in Italia è stato solo all’Est (la Lituania, i cui numeri sono i più aggiornati, è un esempio), dove in realtà tutta l’economia ha visto ritmi da boom.

In Germania, poi, nel 2021 l’occupazione nella ristorazione per la pandemia è addirittura scesa a livelli inferiori del 17,9% a quelli di 12 anni fa.

La ristorazione italiana, insomma, è quella che risulta essere maggiormente schiacciata dalle dinamiche opposte dell’offerta e della domanda: sempre meno giovani devono riempire sempre più posti di lavoro.

Normalmente in questa situazione quello che accade è un innalzamento dei salari, ma è realmente possibile in Italia? A caratterizzarci non è solo il declino demografico e la moltiplicazione dei ristorantini, dei pub, degli agriturismi, ma anche la scarsa produttività e il basso valore aggiunto in questi segmenti del mercato.

I dati sull’aumento del fatturato, dal 2010 in poi, sono eloquenti. Al 2019 era cresciuto solo dell’8,3%, più che negli altri servizi, è vero, ma si tratta di un incremento decisamente inferiore a quello dell’occupazione (+30,9%). Vuol dire che ogni cameriere o cuoco in più ha generato un giro d’affari inferiore a quelli già presenti. Con il Covid, poi, il crollo è stato tale da tornare a livelli molto precedenti a quelli dell’inizio del decennio scorso.

Anche in questo caso la Spagna vede dinamiche simili, mentre mediamente nella Ue o in Francia le cose, perlomeno prima della pandemia, sono andate diversamente: il fatturato è cresciuto più dell’occupazione, a dimostrazione di una capacità di rimanere profittevoli anche incrementando il personale.

Questi numeri stanno a significare che oggi il settore della ristorazione nel nostro Paese rischia di trovarsi davanti a un vicolo cieco, a un problema senza soluzione, e che sono molto semplicistiche tutte le facili speculazioni sulla carenza di lavoratori.

I giovani non sono più pigri dei loro coetanei di 30 anni fa, sono semplicemente meno, e tra l’altro anche coloro che sono meno istruiti si trovano davanti ad altre occasioni di lavoro, per esempio nell’ambito del delivery o della logistica per l’e-commerce, spesso più stabili, pagate meglio, e non stagionali. Allo stesso tempo i ristoratori non sono tutti degli sfruttatori, ma sono alla guida di attività alle prese con una bassa produttività e l’incremento delle materie prime.

Nel futuro saranno necessarie scelte strategiche. Il trend demografico quasi sicuramente non potrà essere invertito, e allora sarà la situazione strutturale della ristorazione a dover essere affrontata. Sarà da rinforzare con investimenti, fusioni, upgrade tecnologici, aumenti dei volumi, una gestione manageriale più professionale di tante realtà oggi microscopiche.

Più facile a dirsi che a farsi, vero, ma certamente più utile che lamentarsi sui media e sui social e scatenare l’ennesimo dibattito avvelenato che non porta alcun beneficio al settore.

Val. Err. per “Il Messaggero” il 14 aprile 2022.

Quei voli in business, adesso, Domenico Parisi, re dei navigator e già presidente dell'Anpal potrebbe doverli rimborsare. La Corte dei Conti lo ha rinviato a giudizio e chiede indietro quasi 100mila euro per quelle spese che non avrebbero avuto alcuna attinenza con il suo ruolo al vertice dell'Agenzia nazionale per le politiche attive per il lavoro.

E potrebbe non essere da solo, visto che i giudici contabili, dopo avere concluso gli accertamenti, hanno citato anche Mauro Tringali, direttore generale di Anpal servizi spa, che avrebbe autorizzato i rimborsi finiti sotto accusa.

Parisi era stato scelto da Luigi Di Maio, all'epoca ministro del Lavoro, per guidare l'ente che avrebbe dovuto risolvere il problema dell'occupazione e trovare un impiego a chi percepiva il reddito di cittadinanza, grazie ai navigator e alle app che, teoricamente, dovevano incrociare le domande e offerte, impedendo che il sussidio diventasse una rendita a carico dello Stato.

Il neo presidente, nonostante la prestigiosa nomina, aveva mantenuto il suo ruolo di docente part time di Demografia e Statistica Applicata presso il Dipartimento di Sociologia della Mississippi State University, e così spesso si trovava a fare la spola tra Roma e Starkville. I due incarichi sono poi stati ritenuti incompatibili dagli stessi magistrati contabili, una contestazione che ha portato il ministro del Lavoro Andrea Orlando a commissariare l'ente.

A un anno dall'insediamento i Partito democratico aveva fatto esplodere il caso, chiedendo chiarimenti sui rimborsi spese, soprattutto a fronte del fallimento dei navigator. Dopo le interrogazioni parlamentari e i problemi con il bilancio che due consiglieri di Anpal servizi, il rappresentante del ministero del Lavoro Giovanni Capizzuto e quello delle regioni, l'assessore laziale Claudio Di Berardino, si erano rifiutati di approvare.

Parisi si era giustificato in un'audizione alla Camera sostenendo che per i viaggi con una durata superiore alle cinque ore la business era un diritto, soprattutto per lui che aveva problemi alla schiena. Ma non aveva convinto. 

I dubbi dei consiglieri avevano riguardato 71mila euro di voli in business per gli Stati Uniti, 50mila per il noleggio auto con conducente, 30mila euro per l'affitto di una casa ai Parioli. Ma alla fine la Corte dei Conti chiede indietro per l'Anpal solo i soldi dei voli. I difensori hanno ribadito, in aula, che è tutto regolare, adesso saranno i giudici a decidere. 

L'ideatore dei navigator, nominato da Di Maio, finisce nei guai: rinviato a giudizio. Daniele Dell'Orco il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

A Domenico Parisi, nominato da Di Maio al vertice di Anpal, vengono contestati viaggi in business negli Usa, piazzati come rimborso ma utilizzati per andare a fare il prof.

Il padre putativo dei navigator, figure mitologiche che nei piani del Movimento 5 Stelle avrebbero dovuto trovare lavoro entro 3 mesi a centinaia di migliaia di percettori del reddito di cittadinanza, rischia di finire nei guai.

Domenico Parisi, che ha ricoperto la carica di presidente dell'Anpal, l'ente a cui l'allora Ministro del Lavoro Luigi Di Maio affidò il compito di gestire i navigator, è stato rinviato a giudizio. La Corte dei Conti gli chiede indietro quasi 100mila euro per alcune spese prive di attinenza col suo ruolo.

Le stesse, peraltro, che spinsero il Pd a sollevare il caso e il successore di Di Maio, Andrea Orlando, a commissariare l'Anpal lo scorso maggio. Anche perché, Pnrr alla mano, alle politiche attive del lavoro saranno presto destinati 4,4 miliardi, con Anpal si occupa della gestione delle risorse del fondo sociale europeo. Di affidare queste risorse a Parisi al Ministero non avevano alcuna intenzione.

A Parisi si rimprovera principalmente il fatto che pur da vertice di Anpal avesse mantenuto il suo ruolo di docente part time di Demografia e Statistica Applicata presso il Dipartimento di Sociologia della Mississippi State University, incarichi ritenuti poi incompatibili dai magistrati contabili. Nel frattempo, però, la spola tra Roma e Starkville Parisi la richiedeva come rimborso spese. Voci approvate da Mauro Tringali, direttore generale di Anpal servizi spa, anch'egli citato dalla Corte dei Conti.

In ballo ci sono 71mila euro di voli in business, 50mila per i viaggi in NCC, 30mila per l'affitto di una casa ai Parioli. La Corte, tuttavia, richiede principalmente i soldi dei voli, quelli che Parisi durante un'audizione alla Camera aveva ritenuto essere "suo diritto" visto che i viaggi con una durata superiore alle cinque ore, per chi come lui soffre di problemi alla schiena, devono essere fatti in comodità.

Una vicenda curiosa che arriva in concomitanza alle proteste organizzate in tutta Italia dagli stessi navigator che, a meno di venti giorni dalla scadenza dei loro contratti, non solo non hanno trovato lavoro ai percettori del reddito ma potrebbero rimanere a loro volta disoccupati. Sono poco meno di duemila le figure che rischiano di restare a casa e, dopo due proroghe (e una terza che, almeno per il momento, il governo non sembra voler prendere in considerazione), stavolta potrebbero davvero vedersi cancellata la carica. Non è un caso che nel 2021 almeno 600 tra loro avevano già lasciato di loro spontanea volontà i centri per l’impiego per riciclarsi in altri settori sia pubblici che privati.

Un sistema davvero innovativo, insomma, quello introdotto dal M5S e che in un colpo solo e nel giro di poco tempo è riuscito a mettere fuori gioco sia il creatore, Parisi, che le sue creature.

Domenico Parisi presidente dell’Anpal, rinviato a giudizio: utilizzati fondi pubblici per spese personali. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Aprile 2022.  

Messo a capo dell’Agenzia nazionale per le politiche attive dal Movimento 5 Stelle aveva in carico i «navigator». La Corte dei Conti lo accusa di diverse irregolarità tra cui alcuni viaggi negli Usa a spese dello Stato, per svolgere un suo secondo lavoro

L’ex- presidente dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive, Domenico Parisi, detto “Cowboy“, noto al grande pubblico come colui che aveva in carico i cosiddetti «navigator» che avrebbero dovuto cercare e trovare lavoro ai destinatari del reddito di cittadinanza, verrà processato dalla Corte dei Conti per presunte irregolarità nelle spese sostenute illegittimamente con fondi pubblici. Il capo di imputazione è stato formalizzato con l’accusa di danno erariale derivante dall’indebita percezione dei rimborsi.

Parisi era salito al vertice dell’Anpal su indicazione del Movimento 5 Stelle , fortemente voluto e nominato da Luigi Di Maio, ministro del lavoro nel 1° Governo Conte (governo “giallo verde” , M5S-Lega) con l’incarico di completare l’attuazione del piano legato al reddito di cittadinanza, ossia guidare i percettori del sussidio alla ricerca di un impiego tramite appunto i navigator che avrebbero dovuto assistere 3 mila lavoratori precari. La stessa contestazione della Corte dei Conti ha fatto inoltre emergere un presunto caso di incompatibilità tra il ruolo di Parisi come presidente dell’Anpal e quello part-time per l’Università del Mississippi, ed infatti lo scorso anno il nuovo ministro del lavoro (Governo Draghi) Andrea Orlando ha commissariato l’ Anpal nominando come commissario straordinario Raffaele Michele Tangorra.

Tra le varie spese contestate dalla magistratura contabile compaiono i viaggi e i soggiorni nel Mississippi negli Stati Uniti d’ America, dove Parisi svolge un secondo lavoro indipendente dal suo incarico pubblico in Italia. La cifra contestata dai magistrati contabili è di 130mila euro totali, che due membri del cda di Anpal Servizi, Giovanni Capizzuto rappresentante del ministero del Lavoro e l’assessore laziale Claudio Di Berardino rappresentanti delle Regioni, si sono rifiutati di approvare nell’ultimo bilancio. In un’audizione alla Camera, Parisi si giustificò sostenendo che per rotte sopra le 5 ore si ha diritto a volare in “business class” aggiungendo che lui viaggiava in quel modo avendo problemi di schiena.

La prima stima portata all’attenzione dei giudici era di 71mila euro per i voli in business class tra Roma e Starkville negli Stati Uniti , e viceversa, 50mila per il noleggio auto con conducente, 30mila euro per l’affitto di una casa nel lussuoso quartiere romano dei Parioli a Roma. A giudizio è stato inoltre mandato anche l’ing. Mauro Tringali, direttore generale dell’Anpal servizi spa.

Redazione CdG 1947

Ecco la parentopoli dell’Arpal Puglia dove lavorano politici e parenti alleati di Massimo Cassano. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2022. Sul profilo Facebook di Massimo Cassano, direttore generale dell’Arpal, c’è un post del 10 marzo in cui «il coordinamento regionale di Italia Popolare ed il sen. Massimo Cassano salutano l’ingresso in Italia Popolare del quinto Municipio» di Bari. Ed è da questo post che conviene partire per raccontare cosa sta avvenendo da mesi nell’Agenzia per il lavoro della Regione Puglia.

La foto che ritrae il quartetto di appartenenti a Puglia Popolare è infatti scattata all’interno della direzione generale dell’Arpal. E tra i quattro, non citato nel post, c’è Alessandro Lapenna, avvocato, consigliere al Municipio Palese, di cui è stato candidato presidente per la Lega. Lapenna è anche cugino della moglie del senatore Cassano, e lavora in Arpal tramite una agenzia interinale.

Perché mentre tutti guardano ai concorsi organizzati dall’Arpal (oggetto di polemiche infinite) nessuno si accorge che l’agenzia, attraverso una Ati tra due enti di formazione (Epcpec e Ageform) e una società interinale (Job Italia) impiega a chiamata diretta quasi 500 persone. È il personale addetto ai centri per l’impiego con i relativi formatori. E tra loro tanti sono «amici di» o «parenti di».

Prendiamo un’altra foto, sempre del 21 marzo. Ritrae due dei tre consiglieri del Comune di Bari che quel giorno sono ufficialmente transitati nel partito di Cassano: Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio (eletto con Sud Al Centro, che fa capo al marito dell’assessore regionale Anita Maurodinoia) e Giuseppe Neviera (eletto nella lista dell’ex assessore regionale Alfonso Pisicchio). Di Giorgio ha due figli, entrambi assunti tramite Ecpep: Annamaria, assegnata alla direzione generale Arpal, e Pasquale (detto Livio), «collaboratore mirato», quest’ultimo peraltro collega di lavoro di Alessandro D’Ambrogio, cugino del direttore generale anche lui preso tramite Ecpep. Neviera ha una figlia, si chiama Gaia: è stata assegnata al Centro per l’impiego di Rutigliano.

Già senza addentrarsi troppo, chi conosce le cose della politica ha ben chiaro un punto: in Arpal hanno trovato spazio i quadri dirigenti della formazione politica fondata dal direttore generale dell’agenzia. Puglia Popolare a Bari ha un coordinatore provinciale, Simona Vitucci, che è anche consigliere comunale a Modugno. L’avvocato Vitucci (che nel frattempo ha presentato le dimissioni da coordinatore provinciale della lista) risulta assunta, tramite Ecpep, nella direzione generale dell’Arpal. Cassano ha poi uno storico riferimento politico a Terlizzi, il vicesindaco Francesco Tesoro detto Franco: la figlia, Mariangela, è stata assegnata al Centro per l’impiego di Bitonto. A Triggiano il riferimento politico di Cassano si chiama Mauro Battista, consigliere comunale già candidato alle elezioni regionali: anche lui lavora nella direzione generale dell’Arpal, fianco a fianco con il direttore.

Torniamo al Comune di Bari che è - per ovvi motivi - il cuore dell’attività politica sul territorio. Nella segreteria cittadina di Puglia Popolare c’è l’ex consigliere comunale Mimmo Sciacovelli. Il figlio si chiama Michele, consigliere del Primo Municipio, che è stato assunto al Centro per l’impiego di Barletta. Un altro ex consigliere è Francesco De Carne, ora nella segreteria cittadina di Puglia Popolare: il figlio Gaetano ha avuto un contratto interinale nella sede di Molfetta. Tra gli interinali (che politicamente valgono meno, perché i contratti sono a scadenza e quasi certamente non verranno rinnovati) ci sono diversi altri rappresentanti cittadini di Puglia Popolare della provincia di Bari (Mola, Santeramo), ma non solo: assunzioni interinali sono state fatte in tutte le province. Ad esempio a Lecce dove, ad esempio, ci sono quattro residenti dell’area di Copertino, il feudo elettorale dell’assessore al Lavoro, Sebastiano Leo, che oltre ad essere l’alleato di Cassano alle Regionali è anche l’assessore da cui dipende l’agenzia Arpal. Lui, però, smentisce ogni collegamento e del resto nulla autorizza a fare illazioni sulla paternità delle assunzioni: «Copertino è un paese piccolo - dice - ma di quello che accade in Arpal non so assolutamente niente. I somministrati termineranno tra un mese perché ormai non ci sono più risorse».

In queste assunzioni formalmente non c’è alcuna irregolarità, anche perché non sono assunzioni dirette in Arpal e gli enti di formazione hanno assoluta autonomia. E alcune delle persone di cui abbiamo parlato hanno partecipato ai concorsi pubblici e non sono risultate idonee. Certo, attraverso l’accordo con Epcpep-Ageform è stata allargata la platea dei formatori storici, passata da 77 a 120 dipendenti: quelli della vecchia guardia aspirano alla pensione, i nuovi invece puntano all’assunzione in Arpal. Che non potrà prescindere da un nuovo concorso pubblico, quello per «orientatori», bandito con le procedure semplificate (prova unica) e soprattutto con la valutazione dei titoli: e chi ha lavorato in un centro dell’impiego ottiene punti in più. L’affidamento a JobItalia della fornitura del personale somministrato è avvenuta (almeno in parte) senza gara d’appalto. Il «sales manager» di JobItalia è Paola Scrimieri, sorella di Pietro Scrimieri, direttore delle risorse umane di Acquedotto Pugliese, manager molto stimato anche da Cassano che presta la sua opera come presidente di alcune commissioni di concorso dell’Arpal (oggi, 12 aprile, ha comunicato la rinuncia agli incarichi). Entro aprile nell’agenzia prenderanno servizio oltre 1.000 vincitori di concorso tra tempi determinati e indeterminati. Ma i concorsi Arpal (così come alcuni appalti) meritano un’altra puntata di questa interessante storia.

CONSIGLIERI DI MAGGIORANZA: FAR CADERE DG ARPAL

Dopo l’inchiesta pubblicata stamattina dalla “Gazzetta” il centrosinistra chiede di cacciare il direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. E lo fa nel modo più violento possibile. Depositando una proposta di legge (primo firmatario Antonio Tutolo, poi Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea del Pd) con cui chiede la decadenza del dg e la nomina di un amministratore unico alla guida dell’agenzia regionale. La proposta di legge vuole evitare che Cassano possa rimanere alla guida dell’Arpal: impone che l’amministratore unico abbia un "titolo culturale" più aderente alla competenza in diritto del lavoro (laurea in giurisprudenza o economia) e l’esperienza per oltre cinque anni come dirigente nella pubblica amministrazione ("che peraltro è il criterio minimo d’esperienza per la partecipazione ai concorsi pubblici afferenti la dirigenza”, dicono i firmatari), o all’incarico di professore universitario di ruolo nelle materie giuridiche o l’iscrizione da almeno dieci anni nell’elenco degli avvocati cassazionisti.

I NODI DELLA POLITICA. Arpal, quelle assunzioni dopo i cambi di casacca. Oltre a Bari anche Barletta: piazzata pure la figlia di Bufo (passato con Cassano) che ha sfiduciato il sindaco Cannito. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.

Il 13 ottobre 2021 il sindaco di Barletta, Mino Cannito, è stato defenestrato con una mozione di sfiducia. A risultare decisivo è stato il voto di Giuseppe Bufo, consigliere all’epoca appena transitato dalla maggioranza in Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. Anche la figlia di Bufo, Teresita, come i figli dei due consiglieri comunali baresi che a marzo hanno scelto di passare con Cassano, ha ricevuto un contratto interinale all’Arpal.

Nulla autorizza a ipotizzare nessi di causa ed effetto, e tantomeno accordi illeciti. Ma dall’esame delle liste delle persone che - tramite due enti di formazione, o attraverso una agenzia interinale - stanno lavorando in Arpal, emerge forte la coincidenza già evidenziata ieri: tanti esponenti politici (o loro parenti) che aderiscono alla formazione politica di Cassano hanno trovato posto nell’agenzia per il lavoro.

Della giovane Teresita Bufo si ricorda, a dicembre 2019, l’assunzione nella Barsa, la municipalizzata di Barletta, con la mansione di netturbino. I social restituiscono tante foto della 25enne barlettana ai concorsi di bellezza, mentre le cronache locali raccontano che a luglio 2020 la Barsa ne ha disposto il licenziamento per giusta causa: avrebbe abusato dei permessi ex legge 104. Poco dopo, tramite una società interinale, la dottoressa Bufo è entrata in Arpal, assegnata al centro per l’impiego di Corato. Il padre, nel frattempo ricandidato al consiglio comunale di Barletta, nei giorni scorsi ha annunciato che Puglia Popolare sosterrà il candidato sindaco del Pd. Nel frattempo, in parallelo al licenziamento dalla Barsa, Teresita Bufo è stata rinviata a giudizio per truffa aggravata ai danni dell'Inps: il processo davanti al Tribunale di Trani partirà il 17 maggio.

Anche a Bari, a marzo, Puglia Popolare ha costituito il suo gruppo. Ne fanno parte la capogruppo Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio e Giuseppe Neviera. All’Arpal sono entrati come formatori i due figli di Di Giorgio (Annamaria, in direzione generale, e Pasquale detto Livio, «collaboratore mirato») e la figlia di Neviera, Gaia (al Centro per l’impiego di Rutigliano). Ma a Bari è ancora più particolare quanto avvenuto nel 5° Municipio, dove - anche grazie alla campagna acquisti di Cassano - il centrosinistra non ha più opposizione. Con Puglia Popolare sono passati la grillina Teresa Valerio e i meloniani Michele Piscopo e Alessandro Lapenna: l’accordo è stato suggellato con una foto nella sede dell’Arpal. Di Lapenna, candidato presidente per il centrodestra e cugino della moglie di Cassano, abbiamo detto ieri: contratto interinale. Stessa cosa è avvenuta per Piscopo: anche per lui contratto interinale, sempre a Bari. Entrambi, a febbraio, sono stati espulsi da Fratelli d’Italia.

Il direttore Cassano si è difeso dicendo che Epcpec è un «ente privato» e assume chi vuole, mentre la società interinale ha fatto regolari selezioni di cui il direttore generale non si è interessato. Ma Cassano ha detto che non poteva impedire ad esempio a suo cugino, Alessandro D’Ambrogio, di presentare il curriculum.

Ieri i formatori assunti da Epcpep-Ageform per prestare servizio in Arpal erano riuniti in assemblea. L’agenzia ha comunicato loro che il contratto di appalto (6 milioni l’anno) scadrà il 22 maggio e non verrà rinnovato. Dovrà essere la Regione adesso a occuparsi del futuro dei 140 formatori, che hanno la clausola sociale: l’argomento finirà sul tavolo della task force per l’occupazione. I formatori storici temono - con qualche ragione, visto ciò che è emerso - che l’inserimento nei ranghi di persone collegate alla politica induca la Regione a non rifinanziarne l’attività, con il rischio di rimanere senza lavoro. I 236 interinali, invece, termineranno il servizio alla fine della prossima settimana, senza possibilità di rinnovi: sono stati scelti attraverso una selezione lampo, pubblicata l’11 novembre e chiusa due giorni dopo: il requisito principale per partecipare era proprio sapere della selezione...

Arpal Puglia nel caos Parentopoli: spunta bando su misura per assumere parenti. Ma Tutolo attacca: «I politici assunti? Uno schiaffo ai disoccupati pugliesi». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.

Michele Emiliano difende l’operato del direttore generale Massimo Cassano ma allo stesso tempo apre alla possibilità di affidare l’Arpal a un consiglio di amministrazione. La risposta del presidente della Regione sul tema della parentopoli nell’agenzia per il lavoro viene letta come un tentativo di mediare con il Pd, che ha depositato una proposta di legge per la decadenza di Cassano e che - non a caso - ha rinviato ogni decisione sul punto a martedì prossimo.

Emiliano ha preferito parlare di concorsi, che sono una questione diversa: «Come sempre in questi casi - ha detto Emiliano - ci sono delle ricorrenze, io me le ricordo per tutte le agenzie della Regione Puglia, me le ricordo in ogni situazione, noi stiamo cercando di fare in modo che ci sia la trasparenza e la regolarità più assoluta. Dopodiché non so se ci sono parentele, amicizie, connessioni di partito all’interno di questi concorsi. Credo che la cosa più importante sia rispettare il principio dei concorsi, in ogni caso ho visto anche che molti dei soggetti che avevano avuto contratti interinali non hanno superato il concorso pubblico, quindi questo mi dice che la legge funziona». Emiliano ha poi detto di non avere «cognizione» della proposta di legge firmata dal civico Antonio Tutolo e dai dem Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea. «C’è una discussione aperta - ha aggiunto Emiliano - sulla possibilità di costituire un consiglio di amministrazione dell’Arpal e poi di individuare un amministratore delegato o un direttore generale all’interno del consiglio. Nella fase fondativa abbiamo adottato per l’Arpal le regole che sono proprie anche di altre agenzie, non c’è nulla di male se si ritiene di inserire anche un consiglio di amministrazione nell’Arpal e se questo tranquillizzerà tutti quelli che si sentono inquietati dal fatto che obiettivamente abbiamo assunto tantissime persone». Infine, sulle assunzioni, un messaggio che va interpretato: «Anche in sanità stiamo assumendo migliaia e migliaia di persone. Anche lì non escludo che ci siano parenti di sindacalisti, di politici. Può essere, anche perché non esiste la regola che la parentela impedisca la partecipazione a un concorso pubblico».

Le decisioni sono rinviate a dopo Pasqua. Ma se si dovesse trovare l’accordo sull’istituzione di un cda, la difesa formale dell’operato di Cassano fatta da Emiliano non ne potrebbe impedire l’avvicendamento o la «sterilizzazione». Perché il malcontento del Pd sulla gestione dell’Arpal fa il paio con i mal di pancia più o meno espliciti del centrodestra. E con il voto segreto tutto può accadere.

«Non mi innamoro delle mie proposte - è il commento del consigliere Tutolo, primo firmatario della legge per la decadenza di Cassano -, ma quello che è accaduto in Arpal è offensivo per le decine di migliaia di disoccupati della Puglia. Se si vuole immaginare un nuovo modello di governance per l’agenzia, possiamo discuterne. Ciò che non è derogabile sono le competenze, perché chi guida l’Arpal non può essere un politico». Tutolo insiste sulla Parentopoli: «Quello che è accaduto - dice - è davvero brutto: una enorme schifezza. Cosa pensano di noi i disoccupati? Mi vergogno e chiedo scusa io ai pugliesi per quello che sta accadendo. L’Arpal doveva occuparsi di gestire gli uffici di collocamento ma è diventata l’ufficio di collocamento dei figli dei consiglieri comunali. I casi sono documentati. E non so come faccia Emiliano a definirli “ricorrenze”».

I formatori presi in Arpal attraverso l’ente Ecpep termineranno il servizio il 22 maggio, mentre per gli interinali la scadenza dei contratti è la prossima settimana. È tra questi circa 500 lavoratori che si concentra il maggior numero di politici e loro parenti, e forse anche per questo l’orientamento della Regione è di non concedere ulteriori proroghe. Ma sembrerebbe che l’Arpal abbia già aperto una porta secondaria per sistemarne alcuni. Il 3 marzo è stato infatti pubblicato un bando per assumere a tempo indeterminato 6 «orientatori specialisti», funzionari che (è scritto proprio nel bando) sono equivalenti allo «specialista in mercato e servizi per il lavoro». Per questo ultima figura, giusto cinque giorni dopo il nuovo bando, l’Arpal ha pubblicato la graduatoria del concorso bandito ad agosto 2020: contiene 178 vincitori e 90 idonei. Vista l’equivalenza tra le due figure, sarebbe stato più logico (e più economico) far scorrere la graduatoria già vigente e assumere come «orientatori» i primi sei idonei del concorso per «specialisti»: l’Arpal si è accorta di avere bisogno degli «orientatori» proprio cinque giorni prima che uscisse la graduatoria degli «specialisti», ed evidentemente nessuno si è reso conto che sarebbe bastato aspettare. Ma a guardare bene, tra i due bandi c’è una differenza non secondaria. Quello per gli orientatori, infatti, assegna fino a 30 punti ai titoli. E di questi, 15 punti sono riservati all’esperienza lavorativa. Ogni trimestre trascorso come formato- re in Arpal vale un punto. Se dunque gli interinali dovranno accontentarsi di uno o due punti, i formatori ex Epcpep ne avranno otto (quelli storici anche 15). E otto punti, in un concorso pubblico, sono un bel vantaggio.

IL BANDO. Arpal Puglia, a Bari c'è un altro concorso per aiutare i «politici». In palio 31 posti a tempo determinato, previsti punti in più per chi ha lavorato come interinale o formatore. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Aprile 2022.

C’è un bando dell’Arpal Puglia, appena scaduto, che mostra plasticamente il possibile percorso disegnato per consentire ai lavoratori interinali e ai formatori (i cui contratti sono in scadenza) di avere un posto stabile all’interno dell’agenzia per il lavoro. Si tratta, come è facile verificare, di una procedura assolutamente legittima, che consente a chi è stato selezionato con modalità discrezionali di avere una chance in più degli altri partecipanti ai concorsi pubblici.

Negli scorsi giorni è infatti scaduto il termine per partecipare al concorso per 31 posti di funzionari e impiegati a tempo determinato. Si tratta di uno di quei concorsi «semplificati» (previsti dalle nuove normative) in cui la selezione avviene per titoli e colloquio. Sui 70 punti complessivi per i titoli, quelli riservati ai «titoli di carriera» sono 40. E - proprio come per l’altro concorso di cui la «Gazzetta» ha parlato ieri - anche in questo caso c’è un consistente premio: 2 punti per ogni bimestre, pari a 12 punti l’anno, per chi ha già lavorato in Arpal «con contratti di lavoro flessibile (a tempo determinato, di formazione e lavoro, di somministrazione, di collaborazione)», 3 punti l’anno per chi ha fatto il formatore nelle società di formazione professionale.

Negli scorsi giorni la «Gazzetta» ha mostrato la presenza, negli elenchi di interinali e formatori, di consiglieri comunali e municipali (e relativi parenti) che aderiscono a Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale di Arpal, Massimo Cassano. Situazioni che il presidente della Regione ha definito «ricorrenze» (coincidenze), pur mostrandosi disponibile ad affidare l’agenzia a un consiglio di amministrazione che «sterilizzi» il ruolo di Cassano. Interinali e formatori possono legittimamente partecipare ai bandi dell’Arpal, come quello per i 31 posti, e infatti lo hanno fatto (le liste degli ammessi sono pubblicate su Internet). Tra i concorrenti (ripetiamo: legittimamente) ammessi al concorso ci sono ad esempio Teresa Rita Bufi, figlia del consigliere comunale di Barletta che ha aderito alla lista di Cassano e ha poi fatto cadere il sindaco Cannito, o anche Simona Vitucci, consigliere comunale di Modugno e segretaria provinciale (ex, secondo Cassano) di Puglia Popolare, o anche Cosimo Boccasile, consigliere del 1° Municipio di Bari, altro fedelissimo di Cassano.

Il concorso avrà il suo iter, senza ombra di dubbio regolare, con la commissione che sarà individuata dopo la girandola di rinunce degli ultimi giorni. Sono in palio contratti di 18 mesi. Ma mentre interinali e formatori stanno per tornare a casa, chi entrerà a tempo determinato grazie a questo concorso potrà poi essere prorogato e (dopo 36 mesi) anche stabilizzato. E chissà se quei punti in graduatoria conquistati grazie ai titoli di carriera faranno la differenza nella conquista dell’agognato posto di lavoro. 

Navigator in balia dei governatori: in cinque regioni restano senza lavoro. Lombardia, Piemonte, Veneto, Umbria e Campania non rinnovano il contratto a 538 laureati assunti per trovare una occupazione ai percettori del reddito di cittadinanza. I sindacati insorgono: "Trattamento a geografia variabile". CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano Del Sud il 2 luglio 2022.

NAVIGATOR colpiti e affondati, mandati a casa dalle Regioni. Dovevano creare opportunità di lavoro per i disoccupati, prestare assistenza tecnica ai centri per l’impiego, occuparsi del funzionamento dei reddito di cittadinanza ma dal prossimo 1° agosto resteranno a spasso anche loro. Ad inabissarli è stata la decisione del ministero del Lavoro di subordinare una ulteriore proroga di 3 mesi dei loro contratti alle singole regioni. Lombardia, Veneto, Piemonte, Campania e Umbria hanno girato il pollice e hanno deciso di mandarli a casa.

“CON LA SCUSA DEL PRECARIATO SONO UN NAVIGATOR DISOCCUPATO”

Fallimento su tutta la linea, quindi. Si aggregheranno alla moltitudine dei disoccupati ai quali avrebbero dovuto indicare la rotta del lavoro. Un flop annunciato, che assume colorazioni grottesche se si pensa che ognuno di loro ha dovuto superare un concorso pubblico molto selettivo.

Il contratto scaduto nel 1° maggio scorso era stato tenuto in vita dal Dl Aiuti e prorogato al 23 giugno, la data entro la quale si poteva concedere una seconda eventuale proroga di 3 mesi a carico degli enti locali. In Lombardia hanno risposto “no”, lasciando in braghe di tela 107 navigator, idem le altre 4 regioni citate più sopra. Muoia Sansone, insomma, con tutti i filistei. Inutile manifestare, inutili gli striscioni sotto il Pirellone con su scritto “Con la scusa del precariato sono un navigator disoccupato”. Non pervenuti. In compenso sono riusciti a sindacalizzarsi.

“Nel più totale silenzio la Regione Umbria ha deciso di lasciare a casa 22 lavoratori altamente qualificati che da agosto 2019 prestano assistenza tecnica presso i Centri per l’impiego del territorio”, scrivono Nidil Cgil, Felsa Cisl e Uiltemp dell’Umbria.

IL PANNICELLO CALDO

Il ministero del Lavoro più che una soluzione aveva lanciato un pilatesco pannicello caldo: l’articolo 34 del Dl Aiuti che prevedeva la “ricontrattualizzazione” all’interno di Anpal Servizi ma solo per la durata di due mesi e una proroga di ulteriori tre, subordinata però, appunto, alla richiesta da parte delle singole Regioni garantendo per l’intero periodo la copertura finanziaria.

Le Regioni erano chiamate ad esprimersi sull’utilizzo di queste professionalità per ulteriori tre mesi, entro il 23 giugno scorso”. Risultato: Regione che vai navigator che trovi. O che non trovi più. Perché Piemonte, Lombardia, Veneto, Campania e Umbria, come dicevamo, hanno dichiarato finito l’esperimento, “creando tra l’altro – sostiene il sindacato – una ingiustificata disparità ed una insostenibile geografia variabile che penalizza 538 lavoratori, fino a ieri considerati indispensabili a detta delle medesime Amministrazioni. In Umbria l’assessore Fioroni e la presidente Tesei non hanno mai risposto alle reiterate richieste di incontro.

CENTRI PER L’IMPIEGO IL RITARDO DELLE REGIONI

L’affondamento dei navigator è legato a doppio filo al reddito di cittadinanza, ne certifica l’inefficacia come misura di politica attiva per l’inclusione al lavoro. Fa riflettere però che questo avvenga in un contesto in cui il piano di potenziamento dei Centri per l’impiego è ancora lungi dall’essere completato. E a breve dovrà prendere il via il programma Pnrr Gol (Garanzia occupabilità dei lavoratori), che comporterà nuovi obiettivi da conseguire entro la fine dell’anno per gli stessi centri per l’impiego, e quindi un carico di lavoro al quale il Cpi allo stato attuale non è in grado di far fronte e per il quale i navigator, laureati con un voto di almeno 105 e con 3 anni di esperienza nel campo potevano essere adatti.

Più volte il ministro del Lavoro, Andrea Orlando è intervenuto per segnalare i ritardi delle Regioni. Ma invano. Di fatto i navigator – circa 3.500 all’inizio, poi 1.800 e ora meno di 1.300 – sono stati condannati al loro destino. A difendere l’indifendibile sono rimasti in pochi.

«Sulla pelle dei navigator si sta giocando una partita di mero stampo politico – è il punto di vista di Niccolò Invidia, deputato M5S – Malgrado i gravi ritardi delle Regioni nella realizzazione del Piano straordinario di potenziamento dei centri per l’impiego, che il governo ha certificato rispondendo a una nostra interpellanza”.

“Questo atteggiamento – continua Invidia, capogruppo M5S in Commissione Lavoro alla Camera – rischia di mettere a repentaglio la realizzazione delle riforme del mercato del lavoro previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che poggiano sul corretto funzionamento dei Cpi. Un fatto grave per cui ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità». Già da tempo il fallimento dei navigator era sotto gli occhi di tutti. Passare la palla alle Regioni ne ha decretato la fine.

Il presidente della Conferenza delle regioni, Massimiliano Fedriga, ha preferito che si andasse in ordine sparso. Felsa Cisl, NidiL Cgil e UiltTemp, si dicono «allibiti». Chiedono al ministro Orlando un tavolo tecnico, ritengono «non più rinviabile un confronto con il ministro per non disperdere queste professionalità». I sindacati ricordano come la loro richiesta «per individuare i percorsi di valorizzazione delle esperienze maturate, in modo da dare seguito con omogeneità su tutto il territorio nazionale a quanto prescritto dal Decreto 50/2022», risalga a due mesi fa. I sindacati dei navigator però non desistono. Non sono stati messi in condizione di indirizzare i percettori del reddito di cittadinanza verso un lavoro ma al loro, sia pure precario, ci tengono. Si considerano discriminati rispetto ai colleghi delle altre regioni ai quali è stata data un’ultima possibilità, un’altra boccata d’ossigeno.

Allungata l’agonia di una figura professionale che non si è dimostrata fin qui in linea con il mercato del lavoro? Forse ma loro insistono e ritengono «a questo punto indispensabile un coinvolgimento attivo di tutte le Regioni, per non rischiare di assistere ancora una volta a trattamenti differenziati o, peggio ancora, a quanto avvenuto in Campania dove si è dato vita a inaccettabili contratti fantasma per la dichiarata indisponibilità della giunta regionale di dare seguito all’esperienza dei navigator».

Scorie del Mississippi. I navigator di Di Maio aspettano la terza proroga del contratto e proclamano lo sciopero. Lidia Baratta su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.

Il 30 aprile scadono i co.co.co, già rinnovati per ben due volte. Nel frattempo, da quasi 3mila si sono ridotti a meno di 2mila. I sindacati chiedono la stabilizzazione, mentre loro non sono stati neanche istruiti sugli ultimi programmi messi in piedi dal governo.

Nel 2019, l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio li aveva definiti come gli «alfieri» delle nuove politiche attive. Nel frattempo, i famosi navigator creati da Mimmo Parisi, l’ex presidente dell’Anpal rispedito in Mississippi dal governo guidato da Mario Draghi, si sono rimpiccioliti. Da quasi 3mila, dopo tre anni se ne contano 1.890 circa. E il 29 marzo tornano a scioperare, a un mese dal 30 aprile, data indicata come la scadenza dei contratti co.co.co., già prorogati per ben due volte.

L’agitazione tra i navigator, eredità di quella propaganda grillina che prometteva di abolire la povertà, dura ormai da oltre un anno. Il primo contratto biennale firmato dopo il concorsone alla Fiera di Roma, ai tempi del governo gialloverde, è scaduto ad aprile 2021. Di Maio aveva assicurato che li avrebbe stabilizzati tutti in Anpal Servizi, la società in house dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro, commissariata dal governo dopo la cacciata di Parisi.

La stabilizzazione, però, non si è mai concretizzata. E da un anno si va ormai avanti a suon di proroghe. La prima fino a dicembre 2021. La seconda, per quattro mesi, fino ad aprile 2022. Nel frattempo, molti di loro hanno partecipato ai concorsi regionali per diventare operatori dei centri per l’impiego o ad altri concorsi pubblici. E in molti si sono sistemati. Lo stesso Antonio Lenzi, fondatore del sindacato Anna, Associazione nazionale navigator, ha vinto il concorso indetto dalla Regione Lombardia e non è più un navigator.

«Ora ci troviamo di nuovo in una situazione di incertezza», dice uno di loro, 32 anni anni, laureato in giurisprudenza, che lavora in un centro per l’impiego della periferia romana. «I contratti scadranno il 30 aprile e pare non ci sia la volontà di rinnovarli».

L’ultima proroga, a fine 2021, era stata giustificata con la mancata esecuzione da parte di alcune Regioni dei concorsi per potenziare i centri per l’impiego previsti sin dal 2019, nello stesso decreto che ha istituito il reddito di cittadinanza. E in effetti, nei contratti era stata inserita una clausola secondo cui man mano che si sarebbero fatti i bandi regionali i navigator sarebbero via via scomparsi. Negli ultimi quattro mesi, però, non tutte le Regioni si sono adeguate. Alcuni bandi, come quello della Basilicata o della Puglia, sono stati pubblicati qualche giorno fa. Altri, come in Sicilia, sono ancora aperti.

Ecco perché, alla vigilia della scadenza della seconda proroga, la sottosegretaria al Lavoro Rossella Accoto (Cinque Stelle) aveva annunciato per vie informali ai segretari dei sindacati Nidil Cgil, Felsa Cisl e UilTemp un incontro al ministero previsto per il 4 marzo. L’incontro, però, è saltato e le parti sociali non hanno ricevuto altre convocazioni. Da qui la proclamazione dello sciopero del 29 marzo a Roma.

Fonti vicine al ministro del Lavoro Andrea Orlando fanno sapere che il contratto verrà prorogato per la terza volta. Difficile, d’altronde, che il governo si assuma la responsabilità del licenziamento di un esercito di quasi 2mila lavoratori, tutti con laurea magistrale, età media 35 anni. Soprattutto in un momento di crisi. Anche per non indispettire gli alleati di governo Cinque Stelle, che dalle regioni ora chiedono che vengano una volta per tutte assorbiti automaticamente nei centri per l’impiego e senza concorso.

«Chiediamo la stabilità occupazionale per queste persone. Sono figure professionali formate e ormai indispensabili. Sarebbe uno spreco di denaro pubblico», dice Gianvincenzo Benito Petrassi, segretario nazionale della UilTemp. «Non tutte le regioni hanno ancora fatto i concorsi. E nei centri per l’impiego c’è una carenza di organico effettiva. Sarebbe folle rinunciare a queste professionalità». Anche dal Nidil ribadiscono la necessità di un incontro con il ministro Orlando «per capire come ricollocarli o riqualificarli nell’ambito dei servizi offerti dai centri per l’impiego».

Intanto, dopo la lunga pausa di lavoro da remoto dovuta alla pandemia, alcuni navigator sono tornati negli uffici riprendendo le convocazioni dei beneficiari del reddito. Ma molto dipende dalla Regione di appartenenza. In Campania, dove il governatore Vincenzo De Luca li ha sempre visti come il fumo negli occhi, molti di loro raccontano che non si sta procedendo alle convocazioni.

Il muro tra i centri per l’impiego, dipendenti dalle Regioni, e i navigator, che invece sono assunti dall’agenzia nazionale Anpal servizi, resta alto. Per le Regioni, formalmente sono «assistenti tecnici». Ma in molti uffici in questi tre anni hanno continuato a considerarli dei veri e propri intrusi. Mimmo Parisi, il padre dei navigator, li aveva impiegati nell’inserimento dei dati di oltre 1,5 milioni di imprese per realizzare la Mappa delle opportunità occupazionali. Doveva essere il primo step per quel famoso incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Loro lo hanno fatto. «Ma non abbiamo saputo più niente», raccontano.

Non solo. «Non siamo stati neanche istruiti sul Gol», dicono. Dove per Gol si intende la Garanzia di occupabilità dei lavoratori, il pilastro della riforma delle politiche attive del lavoro per cui il governo Draghi ha stanziato 5 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

A novembre 2021, il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta aveva detto che con la riforma del reddito di cittadinanza i navigator sarebbero stati sostituiti dalle agenzie private per trovare un lavoro ai percettori dell’assegno. Nel frattempo, però, è cambiato poco. «E se non ci rinnovano il contratto, dal 1 maggio due terzi dei dipendenti dei centri per l’impiego non ci saranno più. Proprio nel momento in cui si dice che vanno rafforzate le politiche attive».

Da “La Stampa” il 20 febbraio 2022.

Il Reddito e la pensione di cittadinanza funzionano come misura contro la povertà ma non come «aiuto» per l'inserimento nel mondo del lavoro. La conferma arriva dai dati dell'Inps che ha riscontrato come il 70% di quanti hanno iniziato a percepire il beneficio tra aprile e giugno del 2019 lo aveva ancora nell'ultimo semestre del 2021. 

Un paper dell'Istituto previdenziale spiega anche come il fenomeno risenta inevitabilmente della pandemia e dell'aumento delle difficoltà nella ricerca del lavoro. Nel complesso, sono state circa 4,65 milioni le persone coinvolte, circa 2 milioni di famiglie, con una spesa che sfiora i 20 miliardi.

«La persistenza - spiega l'Inps - sembra essere soprattutto legata alla nazionalità del richiedente, alla composizione del nucleo, all'area geografica di residenza, a indicatori economici». In pratica tra le famiglie che hanno iniziato a prendere il beneficio nel 2019 i «persistenti» sono prevalentemente al Sud e nelle Isole. 

A fine 2021 «quelli da più tempo presenti nella misura hanno caratteristiche più sfavorevoli rispetto ai nuclei di recente ingresso», viene spiegato nel paper. E nel trimestre aprile-giugno 2019, «su 100 soggetti beneficiari del Rdc, quelli "teoricamente occupabili" sono poco meno di 60.

Di questi: 15 non sono mai stati occupati, 25 lo sono stati in passato, e meno di 20 sono ready to work ovvero hanno una posizione contributiva recente, in molti casi con Naspi e part-time». 

In pratica quindi, i beneficiari del reddito sono in gran parte lontani dal mercato del lavoro. «La misura - si legge - riguarda effettivamente chi è a rischio di esclusione sociale». Due percettori su tre risiedono al Sud o nelle Isole (67% in termini di persone, 62% di nuclei, a dicembre 2021).

Per quanto riguarda il rilancio, il ministro del Lavoro, Andrea Orlando vede nel fondo europeo «Sure» lo strumento per gestire l'impatto della transizione ecologica sull'occupazione perché «la transizione è anche transizione di competenze». 

Per questo, dice, «stiamo ragionando con altri sulla possibilità di trasformare il fondo "Sure" in una sorta di mega cassa integrazione europea per il reskilling e l'upskilling».

Sono 1,76 milioni le famiglie che hanno preso il reddito di cittadinanza nel 2021. Il Corriere del Giorno il 25 Gennaio 2022.

La distribuzione per aree geografiche relativa al mese di dicembre 2021 vede oltre 591 mila beneficiari al Nord, quasi 429 mila al Centro e più di due milioni nell’area Sud e Isole. Nel 2021, le revoche hanno riguardato oltre 109mila nuclei e le decadenze sono state quasi 314 mila

di Redazione Economia

Nel corso dello scorso anno, i nuclei familiari percettori di Reddito di Cittadinanza (RdC) hanno superato 1,59 milioni, mentre quelli percettori di Pensione di Cittadinanza (PdC) sono stati 169 mila, per un totale di oltre 1,76 milioni di nuclei e quasi 3,94 milioni di persone coinvolte e un importo medio di circa 546 euro.

Lo ha reso noto l’Inps. I dati relativi al singolo mese di dicembre riferiscono di oltre 1,37 milioni di nuclei percettori totali, con più di tre milioni di persone coinvolte e un importo medio mensile erogato a livello nazionale di 545 euro (576 euro per il RdC e 280 euro per la PdC).

L’importo medio varia sensibilmente con il numero dei componenti il nucleo familiare, , spiega l’Inps, e va da un minimo di 446 euro per i monocomponenti a un massimo di 698 euro per le famiglie con quattro componenti. Per i nuclei con presenza di minori (quasi 500 mila, con 1,66 milioni di persone coinvolte), l’importo medio mensile è di 659 euro, e va da un minimo di 576 euro per i nuclei composti da due persone a 696 euro per quelli composti da quattro persone.

I nuclei con presenza di invalidi sono quasi 235 mila, con 542 mila persone coinvolte. L’importo medio è di 539 euro, con un minimo di 427 euro per i nuclei composti da una sola persona a 715 euro per quelli composti da cinque persone. La platea dei percettori di reddito di cittadinanza e di pensione di cittadinanza è composta da 2,6 milioni di cittadini italiani, 313 mila cittadini extra comunitari con permesso di soggiorno Ue e circa 115 mila cittadini europei.

La distribuzione per aree geografiche relativa al mese di dicembre 2021 vede oltre 591 mila beneficiari al Nord, quasi 429 mila al Centro e più di due milioni nell’area Sud e Isole. Nel 2021, le revoche hanno riguardato oltre 109mila nuclei e le decadenze sono state quasi 314 mila.

Giuseppe Legato per "La Stampa" il 13 gennaio 2022.

Qualcuno di loro ha «distrattamente» dimenticato di dichiarare le condanne per 'ndrangheta. O - nel caso delle mogli - sono stati omessi i dettagli - chiamiamoli così - sul casellario giudiziale dei mariti «decorato» da pronunce per associazione a delinquere di stampo mafioso. 

Altri ancora, più banalmente, hanno presentato domanda prima di essere arrestati continuando a percepire il beneficio fiscale anche da «nuovi giunti» in carcere eludendo le specifiche norme che prevedono la sospensione ai detenuti.

L'iter giudiziario è quasi scontato: denuncia, richiesta di rinvio a giudizio, processo e - in attesa di sentenza - immediata sospensione dell'erogazione delle somme percepite. Il fatto è che nella rete degli indebiti - per i pm - percettori del reddito di cittadinanza tesa della Dda di Torino non sono finiti soltanto criminali di stirpe mediocre e di modesto cabotaggio. 

Ci sono invece boss della 'ndrangheta di rilevante lignaggio (circa una dozzina), eredi di casati mafiosi noti da decenni sulla scena della malavita organizzata, assassini che si sono macchiati di vere e proprie esecuzioni al Nord, membri del Crimine, la struttura superiore delle cosche, una Camera alta (e altra) all'interno della stessa organizzazione che disegna (e governa) le parabole di tutti gli affiliati.

I capi dei capi, insomma. I fascicoli sono generati da accertamenti svolti dal Nucleo di polizia economica della Guardia di Finanza e dal nucleo investigativo dei carabinieri di Torino. 

Come sia stato possibile ad esempio che un membro del clan Marando, originario di Platì ma con radicate (e datate) proiezioni a Volpiano nel Torinese e a Corsico e Buccinasco nel Milanese sia riuscito ad accaparrarsi l'aiuto dello Stato è spunto di profonda riflessione.

Figura tra gli autori gli autori della cosiddetta strage degli Stefanelli, tre morti, uccisi a Volpiano nel giugno del 1997 i cui corpi non sono mai stati trovati. Nel 1998 fu arrestato dai carabinieri, processato e condannato a 30 anni. 

Di recente è uscito dal carcere ed è finito in quegli elenchi. Eppure è stato tra le persone del clan oggetto di una maxi confisca patrimoniale per milioni di euro: soldi che la sua famiglia aveva messo insieme recitando un ruolo da monopolista nel traffico internazionale di cocaina.

E questo al netto degli omicidi maturati in una faida tra cosche (per cui ha scontato 22 anni di carcere) e di un patteggiamento per mafia nel processo Minotauro. La procura ha trasmesso la sua denuncia a Roma per competenza territoriale perché è lì che il boss era riparato dopo la scarcerazione salvo poi trasferirsi in Lombardia.

Ai magistrati di Ivrea sono state segnalate invece le posizioni di un potentissimo esponente della famiglia Agresta, già autore in passato di sequestri di persona a Torino tra cui quello del giovane impresario edile Carlo Bongiovanni, 28 anni all'epoca dei fatti, avvenuto in corso Galileo Ferraris.

Aveva patteggiato una condanna per 416 bis nel processo Minotauro e come lui un altro boss, definito il «biscazziere» dei potenti fratelli Adolfo e Aldo Cosimo Crea («i capi di Torino») è finito nei controlli che la guardia di finanza ha effettuato sui detenuti del carcere delle Vallette mesi fa.

Su un centinaio di detenuti che percepivano l'aiuto economico, c'era anche lui. Nelle maglie dei magistrati torinesi è finito infine un membro del Crimine, Benvenuto Praticò, detto «Paolo», ma sulla vicenda c'è un colpo di scena.

Si sa che l'altro ieri è stato prosciolto dalle accuse nell'udienza preliminare. Pare abbia spiegato - ma il condizionale è d'obbligo - che non si sia accorto della causa ostativa relativa alle sue condanne per mafia, non facilitato in questo dalla complessità dei documenti da compilare. Manca il dolo, niente condanna. Per capire meglio abbiamo raggiunto il suo legale Fabrizio Voltan, che al telefono replica: «Di questa vicenda non intendo parlare».

Da lastampa.it l'8 febbraio 2022.

Una truffa milionaria ai danni dello Stato: ammonta a 1,6 milioni di euro a cui si aggiunge una erogazione di circa 166mila euro il danno arrecato alle casse dello Stato. L’ha scoperta dalla polizia municipale di Torino. Un’inchiesta gigantesca: sono ben 960 gli indagati, di cui 330 persone di nazionalità rumena.

Tutto è partito da un controllo effettuato dagli agenti del Reparto Operativo Speciale della Polizia Municipale a carico di un cittadino di nazionalità rumena sorpreso ad effettuare prelievi di denaro in uno sportello bancomat con carte di pagamento elettroniche diverse.

Proprio il prelievo con le diverse carte di credito ha insospettito gli agenti che hanno fermato l’uomo per approfondimenti: aveva numerose carte postepay rilasciate per il Reddito di Cittadinanza intestate ad altre persone, non presenti sul posto. Una condotta vietata dalla norma che stabilisce la non cedibilità della carta di RdC a terzi. 

Immediatamente sono scattati la segnalazione all'Autorità Giudiziaria, il sequestro delle carte di reddito di cittadinanza indebitamente possedute e l'avvio degli accertamenti e delle indagini per stabilire la validità delle carte sequestrate.

Dall'analisi dei dati forniti dall'INPS è emerso che tutti gli intestatari delle carte di RdC avevano dichiarato, in regime di autocertificazione, un Isee pari a zero e la residenza in Via della Casa Comunale 3, Torino. 

Proprio la residenza, requisito fondamentale per ottenere e mantenere il Reddito di Cittadinanza, ha fatto sorgere alcuni dubbi sulla liceità delle dichiarazioni e a confermarne i dubbi è stato un accertamento al terminale anagrafico del Comune di Torino, ove le persone che avevano l’assegno sono risultati tutti "inesistenti", non solo a quell'indirizzo, ma su tutto il territorio comunale.

Un ulteriore chiarimento dell'anagrafe comunale ha confermato l'impossibilità per un cittadino comunitario, come nel caso di una persona di nazionalità rumena, di ottenere la residenza in via della Casa Comunale 3, indirizzo virtuale creato dal Comune di Torino per dare una residenza ai rifugiati, persone straniere titolari di protezione internazionale e umanitaria. 

Gli agenti del Reparto Operativo Speciale hanno interpolato i dati dell'anagrafe con gli elenchi forniti dall'INPS contenenti tutte le richieste di reddito di cittadinanza nelle quali era dichiarata una residenza in via della Casa Comunale 3 e hanno scoperto che ben 330 cittadini rumeni hanno dichiarato di essere residenti nella stessa via, elemento questo che ha rafforzato il sospetto di un accesso ai benefici del reddito di cittadinanza sulla base di una falsa autocertificazione.

Come se non bastasse, le 330 persone controllate, in gran parte appartenenti allo stesso gruppo familiare, non sono risultate nemmeno residenti sul territorio nazionale: si tratterebbe di reddito di cittadinanza concesso a residenti in Romania che probabilmente non si trovano neanche fisicamente sul territorio nazionale, cosa che faceva ipotizzare una gestione dei fondi accentrata su pochi soggetti. 

Ulteriori accertamenti eseguiti sui dichiaranti residenza in Strada Comunale 3 hanno rivelato un quadro di illegalità ancora più ampio, che non si limitava soltanto al gruppo dei 330 individui di nazionalità rumena.

Interrogando i terminali anagrafici locali, l'anagrafe nazionale ed il sistema informatico delle forze di polizia, i 'civich' hanno filtrato altri 630 nominativi di varie nazionalità che hanno dichiarato dati falsi e residenze inesistenti per ottenere illegittimamente il sussidio economico a sostegno della povertà elargito dal Governo. 

Anche per loro, così come per le 330 carte di pagamento elettronico intestate alle persone di nazionalità romena, la Procura della Repubblica di Torino ha disposto l'interruzione dell'erogazione del Reddito di Cittadinanza.

Le indagini sono in corso, ma dall'analisi dei dati sui movimenti bancari delle 330 tessere incriminate forniti da Poste Italiane e a seguito di alcuni appostamenti effettuati dagli agenti del ROS per verificare il corretto utilizzo delle card RdC è già emerso che, oltre al prelievo in contanti agli sportelli bancomat consentito per un massimo di 100 euro mensili a carta per i nuclei familiari composti da un singolo individuo (incrementato in base al numero di componenti il nucleo), anche la quota di reddito destinata all'acquisto di generi di prima necessità veniva in realtà ritirata sotto forma di denaro contante presso esercizi commerciali consenzienti che, a fronte di un pagamento con card di 500 euro per una spesa fittizia, restituivano una cifra inferiore in contanti, diventando in tal modo un vero e proprio cash dispenser. In totale, sono 960 le persone sottoposte a indagine a cui è stato revocato il Reddito di Cittadinanza.

A favore dei soli 330 cittadini rumeni, la somma elargita ammonta a circa 1.600.000 euro a cui si aggiunge una erogazione mensile di circa 166.000 euro. La somma complessiva, riferita alla totalità delle 960 persone attualmente sotto indagine, è approssimativamente stimabile in 6 milioni di euro già elargiti (500.000 euro corrisposti mensilmente) che rappresenta anche il risparmio annuo dello Stato derivato dall'interruzione dell'erogazione.

·        Quelli che…meglio poveri.

Cos’è il quiet quitting: come mollare sul lavoro (ma senza lasciarlo). Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.

Abbandonare l’idea di dare sempre di più, di fare sempre meglio, dirottando silenziosamente tempo ed energie verso altro. La pandemia ha prodotto anche questo: la fine di una cultura diffusa, la nostra sinora, che vede nella professione la via principale per il successo e la realizzazione di sé. Di chi è la colpa?

L’onda è partita negli Stati Uniti a inizio anno. Presto è arrivata in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone e da agosto anche in Italia. Ne parlano Youtuber, TikToker e grandi giornali internazionali. Perché il fenomeno sociale è nuovo (o almeno sembra) e riguarda potenzialmente la vita professionale di milioni di persone: lo chiamano quiet quitting, cioè “uscire in silenzio”. Più precisamente: mollare sul lavoro, senza mollare il lavoro. La spiegazione migliore è di Zaid Khan, ingegnere 24enne di New York, in un video di pochi secondi condiviso milioni di volte: «Se aderisci a questa tendenza non lasci davvero il lavoro: semplicemente abbandoni l’idea di dover andare sempre al di là dei tuoi limiti, di dover sempre dare di più. Quindi continui a svolgere i tuoi compiti ma smetti di aderire alla hustle culture»: quella cultura che negli ultimi quindici anni, dagli Usa alla Corea del Sud, ha trasformato il sacrificio estremo sul lavoro nella via principale per il successo e la realizzazione personale.

La verità è che il lavoro non è la tua vita

«La verità è che il lavoro non è la tua vita e il tuo valore come persona non è definito dai tuoi risultati produttivi», riassume Khan su TikTok. E così dai social fino alle pagine del Wall Street Journal si è aperto il dibattito tra chi spiega, chi si preoccupa, chi condanna e chi cerca soluzioni a questa fuga silenziosa.

È la fase due delle Grandi dimissioni, il fenomeno di massa che nel 2021 ha visto 47 milioni di persone lasciare davvero il posto di lavoro negli Stati Uniti, e poi si è allargato al di qua dell’Atlantico . «Molti di quelli che non hanno potuto o voluto fare il grande salto», raccontava lo Youtuber Timothy Ward, tra i primi ad affrontare l’argomento quiet quitting, «ora tirano i remi in barca, esausti o demotivati». Il detonatore è lo stesso: la pandemia. «Lì sono cambiate le priorità esistenziali delle persone», ha raccontato il sociologo Francesco Morace in una puntata del podcast Corriere Daily.

SONO GIA’ 8 MILIONI GLI ITALIANI CHE HANNO LASCIATO IL LAVORO POST PANDEMIA (DATI ISTAT). IL «QUIET QUITTING» È LA FASE NUMERO DUE: NON LASCIARE, MA METTERE DEI PALETTI, EVITANDO STRAORDINARI E INVESTIMENTI EMOTIVI

«È stata l’occasione per una riflessione e un ripensamento. In particolare per i più giovani, che oggi non sono più disponibili a fare compromessi e hanno gli strumenti per prendere le distanze da dinamiche di potere sul lavoro che le genera zioni precedenti hanno svuotato di senso». Così ci si licenzia o si riduce l’impegno. Ma quanti sono i quiet quitters? I dati più citati sono di Gallup, società di ricerca che dal 2002 misura lo stato di soddisfazione dei lavoratori nel mondo. Negli ultimi anni i numeri non sono variati granché: solo il 21% dei dipendenti si dice «entusiasta ». Tra chi ha meno di 35 anni, il 51% dei dipendenti al lavoro fa il minimo indispensabile: come tre anni fa. Per questo The Atlantic e altri media parlano di fake trend: una tendenza che non esisterebbe. La fotografia di Gallup però assimila i giovani quiet quitters a chi non ha mai messo la professione al centro della propria vita: la grande fascia di mezzo compresa tra un 31% che si sente molto coinvolto dal proprio lavoro, gli entusiasti (scesi però di 6 punti dal 2019), e un 18% di chi si sente «attivamente disimpegnato», cioè i delusi.

LA CLASSIFICA - GLI ITALIANI SONO IL POPOLO CHE CITA IL LAVORO PIÙ SPESSO (44%) PER RISPONDERE ALLA DOMANDA SU COSA DIA UN SENSO ALLA PROPRIA VITA. EPPURE SU 38 PAESI L’ITALIA È AL VERTICE NELLE CLASSIFICHE SU PREOCCUPAZIONE, STRESS E TRISTEZZA IN UFFICIO E ALL’ULTIMO POSTO IN QUELLA SULLA FACILITÀ CON CUI PENSIAMO DI POTER TROVARE UN NUOVO IMPIEGO

Cresce la categoria dei delusi

In realtà, per diversi esperti è a quest’ultima categoria, in aumento di 6 punti negli ultimi tre anni, che bisogna guardare quando si parla di quiet quitters: quelli che un’ambizione ce l’avevano e l’hanno persa per strada. Perché? Cosa li ha fatti cambiare? Alla base c’è un’insoddisfazione. E in Italia il problema sembra particolarmente serio: sempre per Gallup, gli italiani sono il popolo che cita il lavoro più spesso (44%) per rispondere alla domanda su cosa dia un senso alla loro vita. Ma su 38 Paesi siamo in top ten nelle classifiche su preoccupazione, stress e tristezza in ufficio, e all’ultimo posto in quella sulla facilità con cui pensiamo di poter trovare un nuovo impiego.

NEGLI ULTIMI TRE ANNI, LA CATEGORIA DI LAVORATORI CHE SI DEFINISCONO «DELUSI» E’ CRESCIUTA DI 6 PUNTI PERCENTUALI. SONO QUELLI CHE AVEVANO UN’AMBIZIONE LAVORATIVA CHE POI HANNO PERDUTO (FONTE GALLUP)

«Ma per me rallentare non è servito a niente»

Marta T., trentenne romana, è stata una quiet quitter ante litteram. «Lavoravo per una stilista. Quando ho iniziato ero al settimo cielo: avevo studiato design della moda, l’azienda era piccola e mi ha permesso di crescere velocemente, il ruolo era divertente, tra gestione e viaggi. Però era sottopagato con contratti terrificanti: dopo 3 anni di lavoro è arrivato l’apprendistato, in cui ero inquadrata quasi come una segretaria. In più, il capo era totalmente instabile e umorale. Così, dopo anni di passione, a un certo punto mi sono chiesta: ma chi me lo fa fare? E ho deciso: alle 18 cascava la penna». Per Marta il quiet quitting è stata una reazione momentanea di autodifesa: «Ma non è servito a niente, infatti poi me ne sono andata e ora sono freelance. A me piace ciò che faccio e quello è stato un periodo orribile: alla fine sono sempre 8 ore, ma ti girano dalla mattina alla sera, oppure ti annoi e sei senza stimoli».

«CHI GUIDA I DIPENDENTI DEVE ESSERE IN GRADO DI DARE, O RIDARE, UN SENSO AL LAVORO». RITIRARSI IN SILENZIO NON RENDERÀ FELICI

La pandemia e i capi non all’altezza

Secondo quasi tutti gli osservatori la responsabilità, più che di dipendenti sfaticati, è di capi non sempre in grado di gestire un mondo del lavoro che la pandemia ha del tutto trasformato. Beatrice Bauer, psicologa e professoressa associata di Leadership, Organization & Human Resources alla scuola di management della Bocconi (la Sda), vede lì il problema: «Il quiet quitting è una scelta cinica, una modalità di sopravvivenza: spesso le persone finiscono abbrutite da uno stile di gestione poco umano e rispondono così. La questione centrale è sempre la motivazione: molte persone che immaginavano delle carriere per sé ora si vedono schiacciate nel presente, nel qui e ora».

EFFETTO STIPENDIO - TRA CHI PENSA DI CAMBIARE LAVORO I SOLDI NON SONO IL PRIMO MOTIVO: LO STIPENDIO PRIMA ERA CITATO NEL 21 PER CENTO DEI CASI, ORA SOLO NEL 14

Stipendi bassi, prospettive limitate, orari faticosissimi, ma per cosa? Sono soprattutto i giovani a chiederselo. «Perché sono molto più attenti alla propria salute e al loro benessere. Un buon leader non dev’essere un bravo attore ma un bravo regista. Bisogna che chi guida dei dipendenti sia in grado di dare, e di ridare, un senso al lavoro che fanno», sostiene Bauer. Ne fa una questione di leadership anche Julian Troian: una vita da consulente delle risorse umane, oggi implementa nuovi metodi di lavoro per la banca Ing in Lussemburgo e insegna management all’Mba dell’Università di Liegi (la Hec): «Con la pandemia e la guerra il mondo è entrato in una fase che l’autore Jamais Cascio ha chiamato “Bani”: un acronimo per Brittle, Anxious, Non-linear, Incomprehensible, cioè sgretolabile, ansioso, non lineare e incomprensibile. In un panorama così fragile, i lavoratori sono entrati in uno stato d’ansia perenne, in cui ci si trincera dietro quello che si conosce, non si prendono rischi, non si fa un passo in più».

I boss di una volta, eravamo abituati male

«E lo stile di leadership a cui eravamo abituati, verticistico, burocratico, abituato a comandare e controllare e non ad ascoltare, è entrato in crisi. Nel lockdown questo sistema ha smesso di funzionare: è come se i capi tentassero di usare un telecomando di una marca diversa». Anche per questo le persone avrebbero perso la «motivazione intrinseca», come la definirono gli psicologi americani Richard Ryan e Edward Deci già nel 1985. La tesi è che per tenerla viva, in classe come sul lavoro, è necessario sentirsi sufficientemente autonomi, competenti e allineati nei valori. «Ma alla maggior parte dei capi non interessa come si sentono i loro collaboratori. Finora il “contratto psicologico” di lavoro era di tipo transazionale: ti pago e non ti devo altro. Oggi non basta più: serve un contratto di lavoro relazionale. Se si creano le condizioni perché le persone si sentano sé stesse, si possono raggiungere risultati straordinari».

IL 14% DEI DIPENDENTI EUROPEI DICE DI SENTIRSI DAVVERO COINVOLTO NELLA PROPRIA ATTIVITÀ LAVORATIVA E SOLO IL 33% SI SENTE APPAGATO (FONTE STATE OF GLOBAL WORKPLACE 2022)

Tra chi pensa di cambiare lavoro i soldi non sono il primo motivo: lo stipendio prima era citato nel 21% dei casi, ora solo nel 14%. «Per quasi tre quarti dei dipendenti» conclude Troian «le ragioni sono invece legate alla cultura e all’ambiente di lavoro: l’assenza di rispetto, le aspettative irrealistiche dei datori di lavoro e le responsabilità, oltre all’equilibrio tra vita e lavoro. Ma anche questo concetto andrebbe superato: il lavoro è un’enorme parte della vita, non possiamo separarli». E ritirarsi in silenzio non renderà felici.

Da fanpage.it il 12 novembre 2022.

Giorgina Sparkling è nota come la sexy colf d'Italia. In un'intervista rilasciata a Fanpage.it, la modella e coniglietta di Playboy ha raccontato in cosa consiste il suo lavoro e ha svelato quanto guadagna. Il suo sogno è aprire una "compagnia di eventi di sexy colf" e ha già ricevuto numerose richieste da parte di persone desiderose di intraprendere la sua stessa carriera: "Mi hanno contattato donne, gay e trans". Giorgina Sparkling, infine, ha confidato: "Ho degli schiavi" e ha svelato le richieste che le fanno. 

Sei una modella molto nota, coniglietta di Playboy, sei apparsa spesso in tv, da Ciao Darwin a Pomeriggio Cinque. Ma chi era Giorgina, prima di diventare un personaggio pubblico?

Ero tecnico dei servizi sociali. Lavoravo in una cooperativa sociale di tipo B che aiutava le persone con disabilità. Ero molto giovane, non avevo fatto neanche l’università, sono entrata con uno stage. Ho avuto fortuna e sono diventata la capo referente dell'ufficio.

La responsabilità però era troppa per me. Dopo cinque anni sono impazzita. Non mi ritrovavo più in quella vita perfettina, in cui facevo parte di Comunione e Liberazione (un movimento cattolico fondato da Don Luigi Giussani, ndr) e andavo tutte le domeniche in chiesa. 

E hai deciso di cambiare completamente direzione.

Sono scappata. Ho preso un aereo e sono andata a Washington D.C. da uno zio. Ho iniziato a lavorare nei casino, portavo i bicchieri a quelli che giocavano, poi ho fatto la ballerina techno. Facevo foto di nudo come modella, sono stata dieci anni in giro per il mondo. Avevo poco più di vent’anni. 

Poi hai portato il servizio delle sexy colf in Italia. Come ti è venuta questa idea?

Ho cominciato negli Stati Uniti, quando non sapevo come sbarcare il lunario. Ho sempre fatto le pulizie a casa mia, così una mattina mi sono svegliata e mi sono detta: “Perché non farle in bikini?”. 

Ho messo degli annunci in cui mi offrivo di lavare l’auto o di pulire la casa seminuda ed è stato un successo. Quando sono tornata in Italia, dato che non sapevo come fare a sopravvivere, ho fatto la sexy colf anche qui.

In cosa consiste questo lavoro? È più una performance a domicilio o fai concretamente le pulizie? 

Le faccio veramente. Il cliente magari lavora al computer e nel frattempo io pulisco in bikini. Faccio tutto: lavo i pavimenti, le finestre, spolvero, stiro. E non mi tiro indietro davanti a una chiacchierata. Mentre sono lì che cucino, il cliente spesso viene a farmi delle domande. 

Quanto guadagni facendo la sexy colf?

Qui in Italia mi faccio pagare 50 euro all’ora, negli Stati Uniti 80 dollari. Ovviamente non mi possono toccare. Preferisco mantenere un prezzo basso perché se lo alzi, poi si aspettano altro. A volte, mi chiamano per fare la sexy cuoca o la sexy cameriera. Se c'è una festa, cucino per tutti, servo da mangiare, però lì mi faccio pagare di più. E alla fine della serata faccio uno spogliarello.

Ho notato che proponi questo servizio in diverse città. Ci sono delle persone che lavorano con te?

Non ancora, ma sto cercando di aprire la mia compagnia di eventi di sexy colf. Ci sono tante ragazze che vogliono lavorare. Ho tante richieste anche da gay e trans. 

Voglio dare una possibilità a tutti. Al momento, le persone che sono in attesa che questo progetto diventi operativo sono una decina, tre uomini, sei donne e una trans. 

Ricerchi persone che abbiano dei criteri specifici per lavorare con te come sexy colf?

No, si può essere bassi, alti, prosperosi…in fondo, le persone che richiedono il servizio hanno gusti diversi. Non ci sono neanche limiti d’età. 

Chiunque può farlo, l’importante è che sappiano fare bene le pulizie, che sappiano cucinare senza avvelenare il cliente, che siano persone simpatiche, perché se vai lì e te la meni è inutile che ci vai.

Hai clienti noti nel mondo dello spettacolo o dello sport? Qual è il profilo medio di chi richiede questo servizio?

Ho clienti famosi ma non posso fare nomi, altrimenti non mi chiamano più. Spesso partecipo alle feste private nello sport. Quanto al profilo medio, devo dire che i dipendenti in smart working, sono i miei clienti migliori. Mentre stanno al computer, guardano me in tanga che pulisco. Sono comunque persone di alto livello, come direttori di banca. Non sono impiegati o operai. 

Qual è la cosa più strana che ti è capitata?

La primissima volta avevo pulito la casa di un tizio. Dopo tre, quattro ore ero stanchissima, tutta sudata, mi colava il trucco e questo mi ha detto: “Ma non me le pulisci le finestre?”. Ma come? Io me ne dovevo andare (ride, ndr). Ero scioccata. 

Capisco la fiducia nel prossimo, ma non hai timore a ritrovarti seminuda –  e quindi in una condizione di vulnerabilità – nella casa di uno sconosciuto?

Sì, ce ne sono di pazzi in giro. Proprio per questo faccio tante telefonate prima. Almeno cinque o sei perché il potenziale cliente capisca che non può assolutamente toccarmi. Su mille richieste, ne becchi cinquanta che siano davvero seri. 

Se vedo un atteggiamento ambiguo, chiudo la telefonata. E poi ho un amico che mi accompagna a lavoro, viene a prendermi e mentre sono lì, mi contatta per sapere se vada tutto bene. Infine, mando ai clienti la mail con le regole da rispettare. 

Quali sono?

Guardare ma non toccare, non usare parole scurrili e se, facendo le pulizie, dovessi assumere posizioni che possono sembrare sexy – quando ad esempio mi piego – il cliente non può alludere a nulla di sessuale nei suoi discorsi. 

Cosa rispondi a chi ritiene che questo tipo di lavoro mercifichi la donna e svilisca la dignità di chi fa la colf?

Per me non è così. Parlo per me stessa, ma il servizio che voglio dare è la pulizia. La cosa primaria è pulire, quindi non sto sminuendo le persone che lo fanno. Anzi, ne approfitto per dire alle colf d’Italia, di qualunque età, che se dovessero avere voglia di fare più soldini, possono venire a lavorare con me. 

Oltre al lavoro di sexy colf, gestisci anche un profilo su OnlyFans.

Sì, ma ora voglio aprire anche LoyalFans, perché io ho gli schiavi e loro usano quella piattaforma. Con gli schiavi faccio anche sessioni reali. Ho le mie sissy che mi vengono a pulire casa. Mi diverto un sacco perché di solito sono io quella che pulisce. Questa cosa, nella BDSM, si chiama sissificazione.

 Come si svolgono questi incontri?

Li sgrido e li frusto, perché io sono brava a fare le pulizie quindi mi accorgo se sbagliano. Prima, però, c'è una sessione conoscitiva di mezz'ora, che costa 150 euro, in cui mi spiegano cosa vogliono e magari gli faccio annusare un po’ il piede, leccare le scarpe. E poi il prezzo va a salire, a seconda che l'incontro duri mezz'ora o un'ora. Di più non li tengo, perché poi diventa pesante. 

In genere che richieste ti fanno?

Di leccarmi i piedi o le suole delle scarpe. Hanno tutti questa mania, non si trom*a più, non so come fare (ride, ndr). Ho avuto uno schiavo che per leccarmi le suole delle scarpe per mezz'ora mi ha dato 400 euro. 

E poi c'è chi vuole essere umiliato in pubblico. Mi accompagnano a pranzo, li metto a quattro zampe sotto al tavolo e gli lancio il cibo. E loro, come un cagnolino, lo devono mangiare. Questo davanti a tutti. Certo, cerco sempre dei posti come trattorie, dove ci mettiamo in fondo.

La tua famiglia condivide le scelte professionali che hai fatto?

Io ho solo mia madre e, quando sono partita per gli Stati Uniti, per me è stato difficile lasciarla sola. Mio padre mi ha abbandonato quando ero nella pancia della mamma. Frequenta mia sorella più grande, ma non ha mai voluto riconoscere me. E sono la sua fotocopia. Un’assurdità, visto che lui e mia madre erano sposati. 

Hai mai provato a riallacciare il rapporto con lui?

Quando avevo 14 anni, volevo sapere che faccia avesse. L’ho obbligato a conoscermi. Non mi ha voluto, non mi ha accettato. È stata una cosa sofferta. Infatti ero sempre molto triste da bambina, avevo un sacco di problemi. Mi sentivo abbandonata e rifiutata. Non ci parliamo più. Questo forte senso dell’abbandono me lo porterò dietro a vita, ha influenzato il mio rapporto con gli uomini.

In che modo?

Cerco sempre la figura paterna che non ho mai avuto. Durante l'adolescenza ho anche subito una violenza da parte di una persona che mi ha fatto credere di volermi bene, che mi trattava come fosse un padre e invece… Sono nove anni che sono single e ho solo Sugar Daddy. 

Quando sono andata a Miami, ho scoperto questi uomini che ti viziano se hai una relazione con loro, anche stabile e duratura. Ho detto: "Ah che figata" (ride, ndr) e ho cominciato a essere una Sugar Baby. Ho uno Sugar Daddy in ogni parte del mondo. 

Come funzionano le relazioni tra Sugar Daddy e Sugar Baby?

È come se fosse una relazione vera e propria, l'intimità arriva col tempo. Però non ci si vede sempre, è più una cosa telefonica, perché magari sono sposati. E poi questi uomini ci sono per te, ti pagano l'affitto, se hai qualche problema o hai bisogno di qualsiasi cosa, che ne so…500 euro, loro te li mandano. Puntualmente, però, dopo due o tre anni si stufano e ti cambiano con una più giovane (ride, ndr).

Un'ultima cosa. Di recente, un cartellone pubblicitario che ti riguarda e che è esposto a Montecatini Terme, ha causato un po’ di caos. Cosa è successo?

Sognavo di fare uno show sexy, ironico, burlesque nei night. Grazie a Rocco Siffredi, con cui c'è stima e amicizia, ci sono riuscita. Quel cartellone era la pubblicità del mio primo show. Dato che la foto era abbastanza sexy, tutti si fermavano a fare foto, video, fino a intralciare il traffico. Ci sono state delle polemiche, sono andati a lamentarsi. 

Un po’ è stata anche colpa mia. Io vivo a Milano, il cartellone è a Montecatini e per non aspettare due settimane per vederlo, ho detto ai miei follower: "Se passate di lì fatemi la foto". Quindi, mio malgrado, mi ritengo responsabile.

(ANSA il 25 settembre 2022) - Tre abitanti under 60 della Campania su 10 vivono in famiglie "a bassa intensità di lavoro": in nuclei con adulti (esclusi gli studenti e i pensionati) che lavorano meno del 20% dell'orario potenziale. Emerge dalle tabelle Eurostat sulla povertà secondo le quali la regione con il 29,6% nel 2021 registra un forte aumento rispetto al 25,6% del 2020 e al 18,6% del 2019. In Sicilia il tasso è al 22,9% mentre nella media italiana il tasso è l'11,7. La Campania è anche la regione con il numero maggiore di famiglie che percepiscono il Rdc: 236.973 famiglie a luglio, 256.986 se si aggiungono quelle con la pensione di cittadinanza.

Estratto dell'articolo di Andrea Bassi per “il Messaggero” il 25 settembre 2022.

La sequenza è più o meno questa. Ci si candida al concorso, si studia, ci si presenta il giorno degli esami e, se va bene, si finisce in una posizione in graduatoria che dà diritto al posto. Fisso in questo caso, perché i concorsi di cui parliamo sono quelli pubblici. Finita questa trafila l'amministrazione che ha messo a bando il posto manda una lettera e indica il giorno in cui bisognerà presentarsi per firmare il contratto di assunzione e prendere servizio. Ebbene, sempre più candidati arrivati al fatidico momento di mettere la sigla in calce all'assunzione a tempo indeterminato nella Pubblica amministrazione, si tirano indietro. Non si presentano. 

L'ultimo caso, eclatante, è quello del concorso per gli Ispettori del lavoro dell'Inl. Più di 1.500 posti in tutta Italia. A Roma, ha rilevato la Flp, la Federazione dei lavoratori pubblici, su 52 posti assegnati si sono presentati in 15. 

A Milano e Lodi su 76 posti a prendere servizio sono stati solo 33, meno di uno su due. A Torino 9 su 39, a Padova 6 su 17. Persino al Sud, dove il lavoro pubblico ha sempre avuto un bacino ampio di aspiranti, non è andata meglio. A Bari solo 3 dei 16 vincitori del concorso si sono presentati a firmare il contratto. A Napoli 19 su 32. 

Quello dell'Ispettorato del lavoro non è un caso isolato. Qualche giorno fa i sindacati, in una nota congiunta, hanno rivelato che all'Inail, l'Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro, solo 304 vincitori, meno della metà dei posti messi a concorso, si sono presentati a prendere servizio. [...]

Il ministero dell'Istruzione aveva bandito un concorso unico per 159 posti. È riuscito ad assumere soltanto 110 persone ...]

Qualche settimana fa un grido di allarme era arrivato dal ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini. Anche lui aveva dovuto prendere atto di un clamoroso flop del concorso per assumere giovani nelle Motorizzazioni civili. [...] C'è sicuramente un tema di retribuzioni. La Pubblica amministrazione ha difficoltà a reperire soprattutto i profili più specializzati [...] «Bassi salari e scarse prospettive di carriera», spiega Marco Carlomagno, segretario generale di Flp, «spingono i laureati a rinunciare a un impiego sicuro nella pubblica amministrazione». 

[...] La difficoltà di reperire dipendenti, [...] riguarda soprattutto i profili più specializzati. [...]

Secondo Bruno Giordano, direttore dell'Inl, a pesare è anche «la concomitanza di molti concorsi pubblici. Le graduatorie», spiega, «sono gonfiate da candidati che sono risultati vincitori in più selezioni e questo gli consente di scegliere il posto meglio retribuito e più vicino alla propria residenza». [...]

[...] il 63,9% dei candidati erano residenti nelle regioni del Sud e nelle Isole, il 24,1% nel Centro e solo l'11,5% nel Nord.[...]

Proletari da censurare se di destra. Attenzione: qualcosa si muove a sinistra. A tre giorni dal voto - cioè ieri - hanno fatto una scoperta che sta alla rive gauche come quella dell'America sta alla storia dell'umanità: i poveri. Francesco Maria Del Vigo il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.

Attenzione: qualcosa si muove a sinistra. A tre giorni dal voto - cioè ieri - hanno fatto una scoperta che sta alla rive gauche come quella dell'America sta alla storia dell'umanità: i poveri - financo quelli non italiani - preferiscono votare la Meloni e il centrodestra, piuttosto che il centrosinistra. Pensare che le fasce meno abbienti, in preda al masochismo, votassero per il Pd era una follia come il terrapiattismo - è palmare -, ma c'era bisogno di una prova empirica. Così il fascistologo di Repubblica, Paolo Berizzi, si è spinto fuori dalle zone a traffico limitato dei salotti chic - quindi nella prima periferia milanese, zona Corvetto - per esplorare la fauna dei «nuovi poveri» e capire se voteranno e cosa voteranno. «Indigenza vera, analfabetismo, storie durissime e difficoltà personali, problemi di salute, disagio», scrive il quotidiano diretto da Molinari. Ed è la cornice sociale all'interno della quale viene tratteggiato l'affresco - molto snob - di questi quasi anziani, semi emarginati, poco istruiti e senza soldi, che votano centrodestra nella speranza di un riscatto economico e sociale. Come se avere una estrazione sociale bassa fosse una colpa (ora i proletari sono diventati cattivi?) e come se votare Meloni, Berlusconi e Salvini fosse un'aggravante.

Serpeggia sempre l'idea poco salubre che il voto per il centrodestra non scaturisca da una appartenenza, ma da una esclusione; che debba essere generato da un disagio o da una scarsa preparazione culturale; che non sia un'azione ma una reazione. Il solito complesso di superiorità alla Bernard-Henri Levy, cioè la democrazia à la carte: gli elettori vanno bene solo se sono di sinistra. Altrimenti sono brutti, sporchi, cattivi e ignoranti e quindi sono un po' meno cittadini degli altri. Non è un caso che l'unico riscattato, in tutto il reportage, sia un marocchino laureato che, ovviamente, vota sinistra «perché bisogna accogliere e aiutare». Tutti gli altri - compresi gli immigrati ucraini di vecchia data - sperano nel centrodestra. Ed è forse proprio questo il grande fallimento di questa sinistra: aver perso gli ultimi senza essere diventati i primi.

Ricchi e chiedono più tasse. “Rinuncio, ma al 90%”. Che ipocrisia la finta ereditiera francescana. Marlene Engelhorn rinuncia all’eredità della multinazionale tedesca Basf. Ma solo al 90%. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 9 Agosto 2022.

Sai quelle facce che ti stanno sui coglioni a pelle. Che le guardi e pensi: che faccia da formaggino scaduto, e non ci pensi più. Bruttine, ma curatissime, la vanità della mestizia, la falsa semplicità di chi non può permettersi nessuna avvenenza e la butta sul vittimistico, senonché è nata col culo nel burro e non può liberarsene. Una così è questa Marlene Engelhorn, che si vergogna della sua sfacciata fortuna ma fino a un certo punto; e, siccome si annoia e non ha niente da fare, ha deciso di rinunciare a una paccata di milioni ma fino a un certo punto; e, sempre siccome non sa come passare le giornate, ha convocato la stampa di mezzo mondo – i soldi, quando servono ad esigere attenzione, non schifano più – e, con dubbio gusto, ha annunciato che alla morte della della vecchia, nonna Traudl, 94 anni, farà il gran rifiuto e darà via tutto, ma fino a un certo punto, in beneficenza. Al 90%, tanto è talmente tanta roba che pure col 10 nominale può camparci dieci vite.

Faccia da formaggino non è una qualunque, è una ragazza Basf, primo gruppo chimico al mondo, multinazionale tetesca ti Cermania; siccome cova alcuni problemi nevrastenici, ma enormi, ha cofondato un movimento sadomaso, Tax me now, dove dice che quelli come lei vogliono essere scudisciati dagli stati (mente, ovviamente: comunque, venga qui in Italia che i suoi compagni Letta, Fratoianni, Bonelli e, diciamolo pure, Draghi sapranno farla godere come merita). Dove c’è un raduno di ricchi, dove sente la puzza di soldi, Davos, Bilderberg, quello di Jovanattila, lei c’è, però per dire che la puzza di soldi le fa schifo, però fino a un certo punto.

“Tassami adesso”, e intanto scatta la fondazione benefica esentasse. E su, Marlena, ma ti pare che sei la prima a fare il gioco delle tre carte di credito? Come Bill Gates, che quando fa qualcosa “di sociale” lo sa subito tutto il mondo, anzi il pianeta, come lo chiama Greta, una del club (quando invece va a sollazzarsi con le ninfette di quel cannibale di Epstein, cala la mannaia della censura). Quanti ne abbiamo visti, quanti ne vedremo e son sempre gli stessi paraculi.

Marlena poteva benissimo incassare e devolvere, senza rompere i coglioni al pianeta, seguendo l’esempio della vecchia Traudl, che, mai vergognandosi del suo ruolo, di cause benefiche ne ha alimentate a pioggia. Ma no, lei deve riempirci delle sue cazzate psicomuniste, “non ho fatto niente per meritare la ricchezza”, “mi sento a disagio”, “i soldi non danno la felicità” (figuriamoci senza, le avrebbe risposto quell’armatore della Repubblica marinara di Genova). Così Marlena, pugno chiuso e manina aperta, miss 10%, pretende e ottiene le copertine, le interviste e l’aureola di martire sociale: così si fa, megaricche ma col patè d’animo, dalla parte giusta, in una umile magione a Vienna dove presumibilmente chiama “inferiori” la servitù e gioca col cane amico di quello della Cirinnà. “Mi turba che ogni grande fortuna abbia contorni opachi”, scandisce: essendo poco acculturata, non sa che Balzac aveva detto la stessa cosa in modo più icastico: “Dietro ogni grande fortuna c’è un crimine”. Forse, dietro quello della Basf c’è la costruzione di Auschwitz, dove veniva prodotto lo Ziklon B che serviva a sterminare gli ebrei.

Ma che c’entra lei? Difatti non le interessa, fa solo scena, il suo non è un cuor d’oro ma di chimica e comunque la multinazionale che la mantiene a vita e sempre la manterrà, le piaccia o non le piaccia (ma le piace…), ha fatto anche molte altre cose. Ma con una che segue l’odore dei soldi con un cartello con scritto “in tax we trust”, che vuoi discutere? Squilibrata o furbastra che sia, è inutile. E a noi non resta che concludere nella mestizia per cui chi vorrebbe sempre più tasse son sempre i ricchi, sapendo di dirottarle sui poveri; gli “inferiori” non si sognano proprio, ne vorrebbero meno, per ragioni storicamente conclamate. Marlena crede nelle tasse e rinuncia all’eredità, però fino a un certo punto e quando sarà: lunga vita a nonna Traudl, possa campare altri cent’anni, che se la Basf finisce in mano alla nipote, non dura neanche una settimana.

(p.s. Cara Marlena, io avrei giusto un bisogno impellente di un due trecentomila euro, per te è niente, non te ne accorgi neppure ma io ci farei alcune cose che mi stanno proprio a cuore, se vuoi prendere nota, poi ti garantisco che ti ringrazio al 90%, ti faccio pure il panegirico e non aspetto neppure il tuo decesso, te lo squaderno caldo caldo, fragrante come il cornetto bio che ti ingolli la mattina nella tua gigantesca cucina viennese. Se mi leggi, contattami sui social, sto ovunque: starò meglio io e starai meglio tu). Max Del Papa, 9 agosto 2022

Marlene Engelhorn, chi è l'ereditiera che rinuncerà alla sua parte di patrimonio alla morte della nonna. Danilo Taino su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022 

La giovane è tra gli eredi della multinazionale tedesca Basf: ha annunciato che rinuncerà al 90% dei milioni a cui ammonta il lascito quando la nonna Traudl Engelhorn-Vecchiatto non ci sarà più e distribuirà il denaro per iniziative sociali

Può sembrare strano, ma non è facile essere gli eredi di una fortuna che deriva dalla lunga storia della Basf, la multinazionale tedesca che è il maggiore gruppo chimico del mondo. Le ragioni per rifiutarla tutta, l’eredità, o in parte possono essere le più diverse. 

Marlene Engelhorn non ha ancora trent’anni ma ha già fatto sapere che rinuncerà al 90% dei milioni a cui ammonta la sua parte di lascito quando la nonna, Traudl Engelhorn-Vechiatto, 94 anni, non ci sarà più. Li distribuirà per iniziative sociali. 

La sua decisione ha sollevato una curiosità globale, decine e decine di articoli di giornale, interviste in televisione, social network affollati di commenti. Il suo motivo per rifiutare gran parte del denaro è che Engelhorn ritiene che le eredità debbano essere tassate: probabilmente – ma questo non lo ha precisato – al 90%. 

Due anni fa, la nonna Traudl ha rivelato alla famiglia il suo testamento. Molta ricchezza da distribuire: secondo la rivista Forbes, che fa i conti in tasca a tutti i molto ricchi, si tratta di un valore di 4,2 miliardi di dollari, cifra che mette la donna al posto 687 nella classifica delle persone più facoltose del pianeta. Quando ha saputo che la sua parte sarebbe stata una quota significativa del lascito, nell’ordine delle decine di milioni, Marlene, che vive a Vienna, ha fatto sapere di non essere stata felice, anzi era «turbata». Ha quindi deciso che, quando ne entrerà in possesso, se ne libererà. «Non ho fatto nulla per ricevere questa eredità: pura fortuna, casualità della nascita». Il denaro, dice, «in sé stesso probabilmente fa felice poca gente». 

La scelta personale è, naturalmente, tutta sua e molto apprezzabile dal punto di vista morale. «Che vantaggio ho a essere super-ricca, una ricchezza tutta per me? A quel punto sono sola», ha molto più senso condividere con la società, sostiene. La scelta diventa però un fatto pubblico perché Marlene Engelhorn fa parte di un’associazione internazionale di ricchi, Millionaires for Humanity, che chiedono ai governi di tassare le eredità e più in generale di tassare maggiormente rispetto a ora le grandi fortune. 

È inoltre una delle fondatrici del movimento Tax Me Now , un gruppo di persone che si definiscono «milionari patriottici» e chiedono più tasse sulla ricchezza. Al Forum di Davos, lo scorso maggio, Engelhorn era con i manifestanti e portava un cartello con la scritta «In Tax We Trust», crediamo nelle tasse (richiama il motto degli Stati Uniti che però preferisce la parola Dio a tasse). Il suo gesto, dunque, ha anche una valenza politica. Quando, in una delle tante interviste che ha rilasciato di recente, le è stato chiesto se conosce la storia della sua eredità, se sa da dove viene il denaro, ha risposto così: «Non conosco l’esatta storia e l’origine della fortuna, nemmeno quanto lavoro abbia richiesto. Quello che posso dire è che non è lavoro mio. Mi turba il fatto che tutte le maggiori fortune siano completamente opache». Tutte, probabilmente no, quella creata dalla Basf, in effetti, qualche problema in passato l’ha avuto. 

Il gruppo di Ludwigshafen fu fondato da Friedrich Engelhorn nel 1865 e fu uno dei grandi esempi di capacità scientifica e imprenditoriale tedesca, anche di determinazione che non guarda in faccia nessuno. Nel 1925, anni di monopoli, Basf si fonde con altre società del settore e forma la Ig Farben. Quest’ultima diventerà famosa per avere costruito l’impianto di Auschwitz nel quale si produceva lo Zyklon-B, usato nelle camere a gas (dopo la guerra, nel 1952, Basf fu rifondata con il nome originario). Probabilmente, questa parte della storia, Marlene la conosce. E probabilmente ha segnato la vita di un po’ tutta la famiglia nel dopoguerra. La nonna Traudl, per esempio, è una grande filantropa e la sua fondazione finanzia numerose iniziative di ricerca in campo medico. Curiosamente, ha anche salvato dalla chiusura una ricerca della Max Plank Gesellschaft che studia i sistemi legali islamici che governano la famiglia e le eredità. L’eredità torna sempre, per gli Engelhorn: quella del denaro e quella della storia. Non è strano che Marlene voglia liberarsene.

Lucia Esposito per “Libero quotidiano” l'8 agosto 2022.

Chiudete gli occhi e pensate solo per un attimo a questa cifra: quattro miliardi di euro (lo scrivo a lettere perché rischierei di sbagliare il numero di zero necessari per tradurre in cifre la somma). Ecco, adesso guardate la donna nella foto sopra: si chiama Marlene Engelhorn e ha rifiutato i quattro miliardi di euro che avrebbe dovuto ereditare dalla sua famiglia. «No, grazie», ha detto con la stessa disinvoltura con cui noi rinunciamo a una caramella. Ha accettato solo il dieci per cento di quella cifra.

Il suo nome e il suo volto dicono poco o nulla, ma questa giovane che studia a Vienna è l'ereditiera della Basf, il colosso della chimica che fattura circa ottantamila - ottantamila - miliardi l'anno. Giusto per intenderci, la Basf è l'azienda che ha brevettato invenzioni come il colorante indaco, (uno dei primi coloranti sintetizzati su scala industriale) e la tecnologia necessaria per i nastri magnetici (musicassette e videocassette).

Secondo Forbes sua nonna occupa la posizione numero 687 nella classifica delle persone più ricche del mondo. «No, grazie», è stata la risposta della donna che ha 29 anni e che, evidentemente, non ha mai avuto il problema di dover trovare un lavoro (a 29 anni studia ancora). Ma dietro il suo gran rifiuto c'è qualcosa di più del capriccio di una ragazza ricca e viziata. «Questa non è una questione di volontà, ma di correttezza. Non ho fatto nulla per ricevere questa eredità. Questa è pura fortuna alla lotteria delle nascite e pura coincidenza. Non dovrebbe essere una mia decisione cosa fare con i soldi della mia famiglia, per i quali non ho lavorato», ha spiegato in una delle tante interviste rilasciate ai giornali tedeschi. E, infine, ha confidato: «Non saprei cosa farmene di tutti quei soldi».

Se vuole, signora Marlene, ci offriamo per compilare almeno una ventina di fogli con l'elenco di tutte le cose che potrebbe fare con quei soldi, ma è chiaro che la questione più che pratica è etica. Marlene si sente in colpa: il suo unico merito è stato quello di nascere in una famiglia ricca, ha vinto la lotteria della genetica e dell'anagrafe e, quindi, ritiene moralmente sbagliato intascare tutti quei soldi senza aver lavorato neanche un giorno. Si sente immeritatamente una privilegiata e da tempo lotta contro la disuguaglianza sociale.

Ha fondato il movimento AG Steuersrechtigkeit, conosciuto in tutto il mondo come "Taxmenow": riunisce gli eredi di grandi fortune che chiedono un aumento delle tasse sui grandi patrimoni. «Essendo una persona che ha goduto dei benefici della ricchezza per tutta la vita, so quanto sia distorta la nostra economia. Non posso continuare a stare seduta ad aspettare che qualcuno, da qualche parte, faccia qualcosa», ha spiegato. In soldoni: vuole pagare più tasse.

Anche sul tema fiscale possiamo aiutare la signora Marlene: possiamo cederle le tutte le cartelle esattoriali che ci piovono addosso ogni mese, per esempio. Ma forse chi si permette il lusso di rinunciare a quattro miliardi non ha bisogno di consigli perché ha anche fior di consulenti che le spiegano cosa è meglio fare. Tra le tante altre cose che Marlene possiede ci sono il coraggio, un po' di follia e il rispetto verso chi è meno fortunato di lei e la lotteria della nascita, invece, l'ha persa.

·        Quelli che …dei call-center.

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 agosto 2022.

Caro Dago, ho letto da qualche parte che sono 120mila gli uomini e le donne che lavorano nei call-center, quella banda che armata del nostro numero di cellulare ci rende la vita impossibile a furia di offerte e controfferte relative al nostro consumo di luce gas telefono fisso e mobile e ne sto dimenticando. Non vorrei giudicaste il raffronto osceno, ma non credo arrivassero a 120mila le SS che imperversarono nell’Italia del 1943-1945, gente che davvero non scherzava. 

Come nel loro piccolo non scherzano quelli che mi tempestano di telefonate a ogni ora del giorno, ma soprattutto in quel lasso di tempo - tra le 13,15 e le 14,30 - in cui consumo il mio pasto quotidiano.

Beninteso metto nel conto non solo le telefonate in cui mi si rivolge una voce maschile o femminile chiamandomi “signor Giampiero”, ma anche le numerosissime altre in cui non risponde nessuno: e questo perché il call center mette automaticamente in fila le telefonate da fare, telefonate che partono da sole anche quando il loro uomo non è ancora in grado di far sentire la sua voce. 

Naturalmente io ho preso da tempo a bloccare i contatti telefonici più malignazzi, ma è fatica sprecata perché loro di numeri ne hanno all’infinito. Situati in tutte le parti del mondo. Stamattina di quelle telefonate dolose ne ho già ricevute cinque, tutte prima delle dieci del mattino. Una, non lo nego, utile dacché ne dovrei pagare un po’ meno quanto alla fattura della telefonia fissa, una fattura comunque divenuta marginalissima nel modo di vivere moderno.

Dove il gioco si fa duro è nelle fatture relative a luce e gas. Io ho una casa grande perché fa da mio studio e biblioteca. Sono un limone prelibato da strizzare, prelibatissimo. Tra luce e gas pago qualcosa di vicino agli 800 euro al mese, eccome se per ognuno di quei 120mila corsari vale la pena torturarmi. Io cerco di scansarmi, di dire che quanto alle bollette da pagare sto bene dove sto, e indico la dizione dell’azienda cui pago il mio dare. Loro si camuffano, si spacciano per quello che non sono, dicono di lavorare per conto di questo e di quello, non mollano la presa, cercano di prenderti per sfinimento, minacciano di arrivare a casa tua in due o in tre a mostrarti le meraviglie del contratto da firmare.

Una volta mi sono ritrovato a dover pagare le bollette di un ente fornitore di energia elettrica col quale non avevo mai e poi mai firmato alcun contratto. Ho faticato non poco a congedarmi da questi farabutti, tempo sprecato e poi sprecato. Se gli uomini dei call-center , ti bersagliano di domande di cui non capisci un fico secco riescono a catturarti al telefono per un istante non ti mollano più, inscenano giaculatorie sulle tariffe da pagare di cui non afferri un fico secco. Cada il mondo, vinca le elezioni Calenda o Meloni o la Ronzulli, so bene che gli 800 euro al mese di luce e gas li dovrò pagare e ovviamente li pagherò, ci mancherebbe altro. Ci mancherebbe altro. Purché mi lascino in pace, non è che chiedo molto. 

E senza dire che il vezzo del call-center lo hanno fatto proprio tantissime aziende, in tutti i campi del vendere e dunque della ricerca di clienti possibili. Ricevo una telefonata da un’agenzia immobiliare che si mette a mia disposizione ove volessi vendere casa mia e comprarne un’altra. Fin troppo gentili, solo che mai e poi mai a me è passato per la testa di vendere la casa in cui stanno i miei libri. 

Stavo mangiando quando ho ricevuto quella telefonata al telefono fisso. Mi sono alzato, ho scavalcato un paio di poltrone e ho risposto gentile al possibile che non avevo bisogno dei loro servigi. Lo so quello che mi state per dire, sempre meglio quella raffica di telefonate che non le SS che passeggiano sotto casa sua e guardano in alto a vedere se ci sei.

 Dagospia l'8 agosto 2022. Riceviamo e pubblichiamo 

Gent.mo Dott Mughini, leggere il suo editoriale di oggi "la versione di Mughini" su Dagospia contro i call center e i 120 mila uomini e donne che ci lavorano mi ha molto deluso, tenuto conto del fatto che nutro una grande stima nei suoi confronti, non fosse altro per le identiche radici sicule che ci caratterizzano. Ma Lei ha una vaga idea di chi siano queste persone, che Lei definisce "banda armata del nostro numero di cellulare" e dei sacrifici che fanno ogni giorno? 

La mia compagna lavora nell'ambiente da quasi 15 anni e Le posso assicurare che è una delle professioni più disgraziate dei nostri giorni in quando in essa vige impunemente lo schiavismo e lo sfruttamento della persona. Si tratta di persone che lavorano (quando sono fortunate) con "contratti" ai limiti della legalità, con rinnovo mese per mese in funzione della "resa", cioè in base al numero di attivazioni che si riesce a finalizzare, ma proporzionato al numero delle chiamate effettuate e sempre in dipendenza del numero di ore passato al telefono. Quindi in buona sostanza ogni mese hai sempre l'incubo di non essere rinnovata a causa di questi calcoli fantascientifici.

Parliamo di gente che sta al telefono per 6/7 euro lorde all'ora... quindi 25/30 euro al giorno se riesci sempre a "tenere" il posto mantenendo una buona "resa". Ma tenere il posto non vuol dire solo essere bravi a telefonare, ma al contrario significa avere la fortuna di riuscire a lavorare le "liste" giuste, quelle che magari sono meno battute. Altro discorso a parte meritano queste fantomatiche liste che i call center acquistano non si sa da chi e come e che contengono i nostri nomi, indirizzi, riferimenti telefonici. Tutti lo sanno e tutti fanno finta di nulla. 

Queste liste non vengono date ai call center dalle aziende telefoniche o dalle aziende energetiche in quanto la maggior parte dei call center opera come "procacciatori" di clienti acquistando quindi queste liste per conto proprio. E quindi il più delle volte vari call center acquistano le medesime liste e per questo veniamo chiamati da soggetti diversi per lo stesso servizio. Queste cose le sanno tutti ma tutti fanno finta di non sapere.

Infine Dott. Mughini La informo (se non lo sa) che la maggior parte dei call center si trova al sud, e specialmente in provincia di Catania. Non faccio nomi ma è semplice da verificare e Lei in quanto mio contarraneo queste cose dovrebbe saperle (e dirle). 

Perchè qua? Semplice... tantissima manovalanza a basso costo, tanti giovani anche laureati che per mancanza di lavoro e di prospettive si ritrovano a lavorare al call center come ultima spiaggia per fare un mestiere dignitoso. 

Si perchè comunque riuscire anche in questa terra sterile a guadagnare 400/500 euro al mese è già qualcosa! Si tratta ovviamente di soldi su cui non si può contare perchè essendo il rinnovo del "contratto" a scadenza mensile tutto può cambiare da un momento all'altro. E se non vieni rinnovato che fai? Ti tocca ricominciare in un altro call center, inviare il curriculum, fare qualche giorno di formazione (non retribuito), poi magari un mese di prova (sempre non retribuito) e poi quando sei già "formato" magari fai un solo mese perchè non riesci a mantenere una resa decente. E si ricomincia.

Le sembra normale tutto ciò in una repubblica (sulla carta) fondata sul lavoro dove la sinistra che da anni è al governo continua a chiudere gli occhi permettendo questo tipo di contratti e questo tipo di sfruttamenti? Tutto ciò sottostando al ricatto che altrimenti le aziende "delocalizzano" inviando le commesse in Albania, Romania, ecc... dove altri disperati (ma fortunati perché conoscono qualche parola d'italiano) si ritrovano a "rubare" il lavoro ai nostri precari. 

Rifletta su quello che mi sono permesso di scriverLe, perchè è semplice infastidirsi di essere chiamati a casa durante il pranzo... ah già vero dimenticavo! questo accade perchè i nostri ragazzi sono costretti a turni di lavoro assurdi proprio per riuscire a beccare gli italiani a casa e magari propensi all'ascolto. Le sembra un lavoro questo? 

Lascio a Lei le conseguenti valutazioni. Filippo Casella

·        Il Lavoro Occasionale.

Prestazioni occasionali 2022: funzionamento e limiti. Prestazione occasionale e lavoro occasionale accessorio per le attività non abituali e non professionali da svolgere senza partita Iva. Federico Migliorini mercoledì 20 Aprile 2022 su fiscomania.com.

La prestazione occasionale è uno strumento che deve essere utilizzato dai soggetti che vogliono intraprendere attività professionali in modo saltuario e sporadico. Si tratta di situazioni in cui vi sono soggetti sono esonerati dall’apertura di una partita IVA  in quanto svolgono l’attività professionale in modo non abituale e continuativo.

Sto facendo riferimento ad attività professionali minimali e residuali. Attività con le quali un soggetto può raggiungere piccoli guadagni, senza avviare una vera e propria attività (professionale). Sul web se cerchi la parola “prestazione occasionale” troverai una moltitudine di articoli. Si tratta di testi scritti molto spesso da persone che con il mondo fiscale non hanno niente a che vedere, ma che con il tempo hanno contribuito a creare molta confusione su ambito e limiti di applicazione di questa disciplina.

Il risultato è che oggi molti pensano che le prestazioni occasionali sia l’alternativa alla partita IVA. Ovvero la soluzione per fare attività professionali o commerciali, senza dover pensare agli adempimenti fiscali. Niente di più sbagliato. Inoltre, l’articolo 54-bis del D.L. n. 50/2017 ha introdotto la disciplina sul lavoro occasionale accessorio (da non confondere con il lavoro autonomo occasionale).

L’articolo che leggerai di seguito ho voluto suddividerlo in due parti:

La prima è dedicata all’attività di lavoro autonomo occasionale, normata dal contratto d’opera. Si tratta di tutte quelle attività autonome svolte occasionalmente;

La seconda dedicata al lavoro occasionale sotto la direzione altrui, per attività eterodirette da un committente. Classico caso è quello legato all’utilizzo del libretto famiglia per colf, badanti, etc.

Indice degli Argomenti

Prestazioni occasionali tra lavoro autonomo ed alle dipendenze altrui

Prestazioni di lavoro autonomo occasionale (collaborazioni occasionali) 2022

Lavoro autonomo senza partita IVA è possibile?

Assenza di inquadramento normativo proprio

Le caratteristiche delle prestazioni di lavoro autonomo occasionale

Il contratto di lavoro autonomo occasionale

Emissione della ricevuta non fiscale per lavoro autonomo occasionale

La comunicazione preventiva di utilizzo del lavoro occasionale obbligatoria

Soggetti tenuti ad effettuare la comunicazione preventiva sulle prestazioni occasionali

Tipologia di rapporti lavorativi da comunicare: prestazioni intellettuali escluse

Come effettuare la comunicazione preventiva nel lavoro autonomo occasionale?

La disciplina fiscale legata alle prestazioni di lavoro autonomo occasionale

Redditi da attività occasionali nel quadro D del modello 730

Redditi da attività occasionali nel quadro RL del modello Redditi P.F.

Lavoro occasionale ed esonero dalla presentazione della dichiarazione dei redditi

Come si calcola la ritenuta di acconto?

La certificazione unica per il lavoro autonomo occasionale

Posso effettuare attività con committente estero?

Posso farmi pagare all’estero?

Posso farmi pagare in contanti?

In caso di controllo come si dimostra il lavoro occasionale?

Prestazione occasionale in dichiarazione dei redditi: infografica riepilogativa

Disciplina previdenziale

Comunicazione al committente del superamento della soglia di compensi annui

Contributi dovuti sulla quota eccedente 5.000 euro

Superamento della soglia di 5.000 euro e apertura della partita IVA

Prestazioni previdenziali erogate

Compatibilità con la NASPI

Approfondimenti sulla prestazione di lavoro autonomo occasionale

Prestazioni occasionali per attività sotto direzione altrui 2022

Limiti economici delle prestazioni occasionali

Per quali attività è possibile utilizzare le prestazioni occasionali?

Limiti di utilizzo

La procedura telematica dell’INPS

Il pagamento dei compensi ai prestatori di lavoro ed il versamento dei contributi

Il regime previsto per l’agricoltura

Il regime previsto per la pubblica amministrazione

Regime per le aziende alberghiere e le strutture ricettive nel settore del turismo

Regime per gli enti locali

Il regime sanzionatorio

Lavoro autonomo occasionale ed accessorio e prestazioni a sostegno del reddito

Indennità di mobilità e lavoro occasionale

Indennità di disoccupazione involontaria (naspi) e lavoro occasionale e accessorio

Disoccupazione agricola lavoro occasionale ed accessorio

Cassa integrazione guadagni (cig) e lavoro occasionale

Prestazioni Occasionali e lavoro autonomo occasionale: consigli pratici e consulenza

Prestazioni occasionali: FAQ

Prestazioni Occasionali Tra Lavoro Autonomo Ed Alle Dipendenze Altrui

Il punto di partenza per comprendere al meglio questa guida è capire che la stessa è suddivisa in due parti, che seguono la disciplina delle prestazioni occasionali. La prestazione occasionale è una attività lavorativa svolta in modo del tutto occasionale, episodica, e non continuativa nel tempo. Questo tipo di attività può assumere natura di:

Prestazione di lavoro autonomo occasionale (c.d. “collaborazioni occasionali“), dove la prestazione riguarda attività a prevalente vocazione intellettuale, come nel caso di consulenza, scrittura, e tutte le attività affini. Si tratta delle prestazioni professionali a carattere intellettuale. Si tratta di soggetti che non hanno obbligo di iscrizione ad albi o elenchi professionali che svolgono occasionalmente l’attività. Classico caso è quello dell’amministratore di condominio che esercita l’attività soltanto nel proprio stabile. Oppure ancora l’attività del procacciatore d’affari occasionale;

Prestazione occasionale, in senso stretto. E’ una normativa, questa, che riguarda esclusivamente le attività non abituali legate ad attività di tipo subordinato, quindi con un committente stabilito. Quindi in questo caso l’attività di lavoro non è autonoma, come nel caso precedente, ma alle dipendenze di un committente. Anche in questo caso faccio un esempio per farti comprendere meglio. Pensa ad una studentessa che si finanzia gli studi facendo la baby sitter, oppure facendo la commessa in un negozio nei fine settimana. Attività che possono essere gestite con il contratto di prestazione occasionale (per le aziende) o con il libretto famiglia (per i privati).

Esempi Di Prestazioni Occasionali

Prima di andare avanti proviamo a fare ancora un esempio per capire la differenza tra collaborazioni occasionali di lavoro autonomo e prestazioni occasionali (alle dipendenze altrui). Ad esempio, se devi svolgere un’attività autonoma di consulenza informativa per il tuo vicino di casa, devi seguire la disciplina delle collaborazioni occasionali (di lavoro autonomo), che vedremo di seguito. Mentre, ipotizzando il caso di esercizio di attività come il bagnino in piscina, la colf, la baby sitter, o ogni attività assimilabile, trattandosi di attività occasionali alle dipendenze altrui, devi seguire la disciplina (che vedrai nella seconda parte dell’articolo, dedicata ai contratti di prestazione occasionale ed al libretto famiglia.

Ho deciso di realizzare questo contributi proprio per andare a specificare le differenze dei due rami della disciplina sulle prestazioni occasionali che, spesso, possono trarre in inganno, e portare a commettere errori che poi possono essere oggetto di sanzione in caso di controllo. Per questo motivo, andiamo ad analizzare insieme le prestazioni occasionali, per come sono in vigore nel 2022. Naturalmente, al termine dell’articolo troverai la possibilità di lasciare un commento se vuoi condividere la tua esperienza, oppure contattarmi direttamente per una consulenza sulla tua situazione personale.

Prestazioni Di Lavoro Autonomo Occasionale (Collaborazioni Occasionali) 2022

Lavoro autonomo occasionale:

Si può definire lavoratore autonomo occasionale chi si obbliga a compiere, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio di tipo intellettuale, senza vincolo di subordinazione, ne potere di coordinamento del committente in via del tutto occasionale.

La prima disciplina che andiamo ad analizzare riguarda lo svolgimento di attività professionali in modo episodico, saltuario e non continuativo nel tempo (collaborazioni occasionali). In particolare, le prestazioni di lavoro autonomo occasionale, di cui all’art. 2222 c.c. riguardano attività episodiche, saltuarie e non programmate (vedasi sul punto la nota del Ministero delle Finanze n. 984/97). Tali attività, proprio per queste caratteristiche si differenziano dalle attività professionali svolte con abitualità, regolarità, e sistematicità dei comportamenti e professionalità (svolgimento di una pluralità di atti coordinati tra di loro finalizzati a un identico scopo). Si può definire come prestazione di lavoro autonomo occasionale:

“qualsiasi attività di lavoro caratterizzata dall’assenza di abitualità, professionalità, continuità e coordinazione“

Sotto il profilo fiscale, infatti, vi sono differenze nella qualificazione del reddito tra:

Le prestazioni di lavoro autonomo occasionale, che sono produttive di redditi diversi, ex art. 67, co. 1, lett. l del TUIR;

Le attività di lavoro autonomo svolte in modo professionale e continuativo, che sono produttive di redditi da lavoro autonomo, ex art. 71, co. 2 del TUIR.

Lavoro Autonomo Senza Partita IVA È Possibile?

La domanda sull’argomento lavoro occasionale che maggiormente mi viene posta è se sia possibile lavorare senza partita IVA per l’esercizio di attività di lavoro autonomo. La risposta non può che essere affermativa, lavorare senza partita IVA è possibile ma solo a determinate condizioni:

L’attività non deve essere svolta in modo professionale;

L’attività deve essere occasionale, quindi del tutto episodica;

Non deve esserci coordinazione del lavoro ed impiego di mezzi (non deve trattarsi di attività di impresa).

Rispettando queste condizioni è possibile operare senza partita IVA. Tuttavia, come avrai capito il lavoro senza partita IVA non può che essere qualcosa di temporaneo, utilizzabile fino a quando l’attività non assume il carattere di abitualità e professionalità.

Partita IVA, Iscrizione Ad Albi Professionali

Non costituiscono prestazioni di lavoro autonomo occasionale, anche se di importo minimo, oppure se in numero limitato, quelle rese da soggetti, titolari di partita IVA, iscritti ad Albi professionali e rientranti nell’oggetto della professione esercitata. Solo eventuali prestazioni professionali escluse dall’oggetto della professione abituale esercitata possono essere rese con lavoro autonomo occasionale. Tuttavia, è sempre opportuno verificare la situazione con il proprio Albo professionale di iscrizione.

Assenza Di Inquadramento Normativo Proprio

Le attività di lavoro autonomo occasionale non sono identificabili in base a parametri predefiniti. Conseguentemente, stante l’assenza di limitazioni di durata, numero o importo, la natura occasionale (o meno) della prestazione deve essere verificata caso per caso, andando a ricercare nella fattispecie concreta le caratteristiche tipiche suindicate. Per questo è di fondamentale importanza l’ausilio del tuo dottore commercialista di fiducia, in modo che possa aiutarti ad inquadrare al meglio la tua situazione.

Devi prestare attenzione, inoltre, al fatto che non trovano applicazione i limiti economici (5.000 euro/2.500 euro di compensi annui) e di durata (280 ore annue) stabiliti per legge ai fini del ricorso alle prestazioni occasionali ex art. 54-bis del D.L. n. 50/2017 (libretto di famiglia e contratto di prestazione occasionale, sostitutivi dei c.d. “voucher“), in quanto i compensi percepiti in relazione a tali prestazioni occasionali sono esenti da imposizione fiscale. Allo stesso modo, non trovano applicazione i limiti economici e di durata previsti dalla c.d. “Legge Biagi” (D.Lgs. n. 276/03, così come modificato dall’articolo 24 del D.L. n. 201/2011 c.d. “Legge Fornero“), ovvero durata max. di 30 giorni per committente nell’anno e max. 5.000 euro lorde di compensi. Tale disposizione, infatti, è stata abrogata a partire dal 25 giugno 2015, giorno di entrata in vigore del D.Lgs. 81/2015. Ad oggi, quindi, l’unico riferimento normativo sul lavoro autonomo occasionale è dato dall’art. 2222 del codice civile, che riguarda la prestazione d’opera. Pertanto, sulla base di questa disposizione si può definire lavoratore che effettua una prestazione occasionale:

“chi si obbliga a compiere, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio senza vincolo di subordinazione, ne potere di coordinamento del committente ed in via del tutto occasionale”

Definizione di lavoro autonomo occasionale ai sensi del Codice Civile

Le Caratteristiche Delle Prestazioni Di Lavoro Autonomo Occasionale

Come accennato all’inizio di questa analisi affinché un soggetto possa svolgere un’attività di lavoro autonomo senza partita IVA, è necessario rispettare i seguenti requisiti:

Mancanza di continuità e abitualità della prestazione di lavoro autonomo. La definizione di abitualità, non essendo stata chiaramente definita dal Ministero, può essere identificata come un’attività duratura nel tempo, che possa fare presumere non ad una attività sporadica, ma prolungata nel tempo. In ogni caso, occorre fare una valutazione ad hoc caso per caso;

Mancanza di coordinamento della prestazione. Affinché vi sia coordinamento occorre che l’attività sia svolta all’interno dell’azienda o nell’ambito del ciclo produttivo del committente.

Nell’ipotesi in cui la prestazione occasionale perda i suoi requisiti, troveranno applicazione le discipline riguardanti:

Il lavoro dipendente, se è riscontrabile l’elemento della coordinazione, ed eterodirezione del lavoro oppure

Il lavoro autonomo (con partita IVA), per più prestazioni autonome abituali.

Nel caso del lavoro autonomo ti consiglio di verificare e valutare se possiedi i requisiti per beneficiare dei vantaggi offerti dal c.d. “regime forfettario“. Si tratta di un regime di vantaggio che presenta una semplificazione degli adempimenti e una riduzione delle imposte dovute, ma soltanto rispettando i requisiti di accesso e di permanenza. Per maggiori informazioni su questo regime puoi leggere: “Regime forfettario per i contribuenti minori“.

Le attività di lavoro autonomo eseguite in maniera del tutto sporadica e non abituale sono svolte quotidianamente da tantissime persone. Molto spesso accanto alla propria attività lavorativa principale (lavoro dipendente o lavoro autonomo con partita IVA o di impresa) esercitano un’attività professionale saltuaria. Pensa, ad esempio, al caso di un lavoratore dipendente che per pura passione si trova a riparare il PC del vicino di casa. In questo caso, trattasi di attività professionale del tutto occasionale. L’occasionalità dell’attività è il requisito che consente l’utilizzo della prestazione occasionale (e non della partita IVA). Un’altra situazione, su cui spesso mi viene richiesto un parere è il caso di un soggetto che vende oggetti su Ebay. In questo caso, non si parla di attività professionale, ma di un’attività di tipo commerciale. Quindi, le prestazioni occasionali non si rendono applicabili. Nel caso potrà essere emessa una ricevuta non fiscale di vendita. Questo, a patto, anche in questo caso, che l’attività di vendita non sia continuativa nel tempo.

Incompatibilità

I prestatori di lavoro autonomo occasionale possono svolgere contestualmente altre attività lavorative di tipo sia subordinato sia autonomo, queste ultime con carattere di abitualità e prevalenza. Tuttavia, vi sono alcune eccezioni:

Dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno;

Dipendenti pubblici non possono rendere prestazioni di lavoro autonomo occasionale, a meno che non siano stati a ciò specificamente autorizzati dall’Amministrazione di appartenenza (art. 53 co. 6 e 7 del D.Lgs. n. 165/01, art. 1 co. 60 della Legge n. 662/96).

Il Contratto Di Lavoro Autonomo Occasionale

Quando ci sia accorda per l’effettuazione di una collaborazione occasionale molto spesso ci si accorda verbalmente. Per la mia esperienza si tratta di una cosa assolutamente da evitare. Quando un committente incarica un soggetto che esercita in modo “non professionale” sa benissimo di contrattare con una posizione di forza. In molti casi, vengono raggiunti accordi verbali proprio per evitare di avere documentazione che possa provare il lavoro del prestatore, e quindi, potersi porre nella condizione di non pagarlo. E’ una situazione molto più frequente di quanto possa sembrare. Ci sono aziende che si approfittano del lavoro di studenti e disoccupati, in questo modo. Se puoi, evita accordi di questo tipo. Ma soprattutto chiedi sempre un contratto scritto che abbia ad oggetto lo svolgimento di lavoro occasionale. Nella redazione del contratto di collaborazione occasionale dovrai fare attenzione a tre aspetti.

Il primo riguarda la descrizione dell’attività che andrai a svolgere indicandone tempi e modalità. Devi essere quanto più preciso possibile.

Il secondo aspetto riguarda il compenso, determinandone l’ammontare e soprattutto le tempistiche di pagamento. Non accettare tempistiche indefinite o che non ti soddisfano. Essere chiari è a tuo vantaggio.

Il terzo requisito è quello che riguarda la possibilità di recedere anticipatamente dal contratto. Devi rendere chiaro in quali casi puoi risolvere anticipatamente il contratto, e con quali modalità.

So che questi punti possono sembrarti aspetti banali, ma ti assicuro che nella pratica quotidiana non lo sono affatto.

Scarica Il Contratto Di Collaborazione Occasionale

Sottoscrivere un contratto di lavoro occasionale redatto nel modo corretto è davvero raro. Ti consiglio di fare attenzione e nel caso di farti assistere da un legale o da un commercialista per quanto meno verificare che il tuo contratto davvero ti stia tutelando. Per cercare di aiutarti ho realizzato una bozza di contratto di lavoro occasionale che puoi scaricare al link seguente. Puoi utilizzarlo per la tua attività con poche semplici modifiche.

FACSIMILE: BOZZA DI CONTRATTO DI LAVORO OCCASIONALE

Stipula E Firma Del Contratto

L’ultima fase, una volta stilato il contratto è quella legata alla firma (da parte del committente). Se il tuo committente è un privato, molto probabilmente non riscontrerai particolari problemi nel far firmare il tuo contratto. Per te sarà sicuramente un sollievo perché con il contratto di lavoro occasionale firmato puoi essere al sicuro anche in caso di mancato pagamento. Al contrario, invece, se il tuo committente è un’impresa o un professionista dotato di partita IVA le cose si complicano. In questi casi, infatti, il committente non vorrà vincolarsi al contratto e restare nella sua posizione “di forza“. Il mio consiglio è quello di non accettare di iniziare il lavoro senza un contratto firmato. Solo in questo modo puoi essere sicuro di tutelare al massimo i tuoi interessi (soprattutto in caso di mancato pagamento).

Emissione Della Ricevuta Non Fiscale Per Lavoro Autonomo Occasionale

Il soggetto che effettua la prestazione di lavoro autonomo occasionale è tenuto a rilasciare al soggetto committente della prestazione, una ricevuta “non fiscale“. Tieni presente che l’emissione della ricevuta non è obbligatoria, a meno che non sia il committente a richiederla, a condizione che il regolamento della prestazione avvenga con mezzi tracciabili (bonifico, carta, assegno, etc). La ricevuta assume la funzione di “quietanza di pagamento“, quindi la sua emissione certifica l’avvenuto pagamento della prestazione. Per questo è importante emettere la ricevuta non prima dell’avvenuto pagamento del compenso da parte del committente. Puoi redigere la ricevuta anche su un normale foglio di carta, a condizione che tu riporti questi elementi obbligatori:

I tuoi dati anagrafici;

I dati anagrafici del tuo committente;

La data di emissione e il numero progressivo d’ordine della ricevuta;

Il corrispettivo lordo concordato della tua prestazione lavorativa;

L’eventuale ritenuta d’acconto (pari al 20% del compenso lordo). Questo solo se il committente è un “sostituto d’imposta“;

L’importo netto che ti è stato corrisposto dal committente.

Voglio precisare che la ritenuta d’acconto del 20% deve essere applicata a riduzione del compenso lordo dovuto per la prestazione. In pratica, si tratta di un acconto sulle imposte che il committente è tenuto a trattenere e versare all’Amministrazione finanziaria per conto del soggetto che presta la propria attività professionale. La ritenuta d’acconto deve essere applicata soltanto nel caso in cui la prestazione occasionale è svolta nei confronti di sostituti di imposta. Per approfondire: “Chi è il sostituto di imposta?“.

Chi Sono I Soggetti Che Si Qualificano Come Sostituti Di Imposta?

Se stai compilando la ricevuta per lavoro occasionale sono sicuro che ti stai chiedendo se nel tuo caso devi applicare la ritenuta di acconto o meno. Come detto, la ritenuta di acconto si applica solo se il tuo committente rientra tra quelli indicati nell’articolo 23 del DPR n. 600/73. Tale disposizione identifica i sostituti di imposta, che possono essere così sintetizzati:

Imprese e professionisti (che non applicano il regime forfettario);

Società di persone e di capitali;

Associazioni ed enti di ogni tipo;

Condomini.

Se il tuo committente rientra tra questi devi inserire la ritenuta di acconto nella tua ricevuta per la lavoro autonomo occasionale. Facciamo un esempio:

Compenso lordo della prestazione

€ 1.000

Ritenuta di acconto del 20%

€ 200

Compenso netto da corrispondere

€ 800

La Data E L’applicazione Della Marca Da Bollo Sulla Ricevuta

Altro aspetto su cui prestare attenzione è data da attribuire alla ricevuta. Data che deve essere obbligatoriamente quella in cui il prestatore ha ricevuto il compenso da parte del committente. La ricevuta, infatti, ha la funzione di certificare al committente l’avvenuto pagamento della prestazione richiesta. Ed allo stesso tempo rappresenta strumento utile al contribuente per rendicontare i propri compensi percepiti, per la predisposizione della propria dichiarazione dei redditi. Altro elemento indispensabile per la corretta compilazione della ricevuta è l’apposizione della marca da bollo. Trattandosi di una ricevuta “non fiscale“, il legislatore ha previsto l’apposizione sulla ricevuta di una marca da bollo da 2,00 euro. Questo nel caso in cui l’importo della prestazione superi la soglia di 77,47 euro. La marca da bollo deve riportare una data anteriore rispetto a quella di emissione della ricevuta. Altrimenti si incorrerà in sanzione. Ricordo che l’importo della marca da bollo può essere chiesto a rimborso al committente della prestazione. Infine, se la ricevuta è nei confronti di committente estero, è comunque opportuno apporla.

Scarica Il Modello Di Ricevuta

Scarica il nostro modello di ricevuta da utilizzare.

FACSIMILE: RICEVUTA-PER-PRESTAZIONE-OCCASIONALE

FACSIMILE: MODELLO DI RICEVUTA PER LAVORO OCCASIONALE AUTONOMO

La Comunicazione Preventiva Di Utilizzo Del Lavoro Occasionale Obbligatoria

Una rilevante novità in materia di prestazioni di lavoro autonomo occasionale, approvata dal Senato, è stata introdotta con un emendamento in sede di conversione in Legge del cosiddetto Decreto Fiscale (D.L. n. 146/2021). Infatti, al fine di svolgere attività di monitoraggio e contrastare forme elusive di tale tipologia lavorativa, l’avvio dell’attività dei lavoratori autonomi occasionali deve essere oggetto di preventiva comunicazione all’Ispettorato Territoriale del Lavoro competente da parte del committente, mediante sms o posta elettronica, secondo le modalità operative applicate in caso di rapporti di lavoro intermittente. In particolare, la comunicazione preventiva deve essere effettuata, a partire dal 1° maggio 2022 esclusivamente con un unico canale telematico valido presente su “Servizio Lavoro” messo a disposizione dal ministero del Lavoro. Il modello di comunicazione permette di scegliere tre ipotesi per il termine entro il quale deve essere conclusa l’opera o il servizio: entro 7, 15 o 30 giorni. Se, invece, l’opera o il servizio non saranno conclusi nell’arco temporale indicato, si renderà necessario effettuare una nuova comunicazione.

L’Ispettorato del lavoro, è chiamato ad adottare un provvedimento di sospensione dell’attività lavorativa qualora riscontri che almeno il 10% dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro risulti, al momento dell’accesso ispettivo:

Occupato senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro;

Inquadrato come lavoratore autonomo occasionale, in assenza delle condizioni richieste dalla normativa.

In particolare, i requisiti essenziali del lavoratore autonomo occasionale, è opportuno ricordare, che sono i seguenti:

Mancanza di vincoli di subordinazione;

Mancanza di coordinamento con il committente;

Autonomia organizzativa;

Occasionalità della prestazione.

La nuova disposizione prevede poi che, in caso di violazione dei predetti obblighi, si applichi una sanzione amministrativa di importo compreso tra 500 e 2.500 euro per ciascun lavoratore autonomo per cui sia stata omessa la comunicazione preventiva. Sul punto si attendono pertanto ulteriori chiarimenti al fine di comprendere con precisione secondo quali modalità il committente debba ottemperare a tali nuovi adempimenti in caso di utilizzo di prestazioni di lavoro autonomo occasionale. Con la nota congiunta dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro con il Ministero del Lavoro n. 109/2022 sono state, infatti, pubblicate dieci Faq che forniscono importanti chiarimenti su alcuni aspetti inerenti al nuovo adempimento, sul quale, anche dopo la nota n. 29/2022, permanevano ancora alcuni interrogativi.

Soggetti Tenuti Ad Effettuare La Comunicazione Preventiva Sulle Prestazioni Occasionali

Per quanto riguarda i soggetti obbligati alla comunicazione è stato evidenziato come tale adempimento sia collocato all’interno dell’art. 14 del D.Lgs. n. 81/2008, che disciplina il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale. Questo fa si che l’applicabilità della comunicazione preventiva nel lavoro autonomo occasionale riguardi soltanto i committenti che operano in qualità di imprenditori sono tenuti a effettuare la comunicazione di avvio delle prestazioni occasionali. In perfetta coerenza con tale orientamento, la nota n. 109/2022 esclude dal campo di applicazione tutti quei committenti privi di tale status normativo.

Pertanto, devono ritenersi esclusi da tale comunicazione i liberi professionisti (o gli studi professionali), ove gli stessi non operino e non siano organizzati in forma d’impresa (Faq 10), le pubbliche amministrazioni (Faq 4). Sono esclusi anche gli enti del terzo settore, a condizione che non svolgano attività commerciale. Qualora venga esercitata attività di impresa la comunicazione si rende necessaria, ma solo nei confronti di quei lavoratori che, mediante prestazione autonoma occasionale, vengano impiegati in attività che rivestono i caratteri dell’imprenditorialità (Faq 1). Sono escluse da tale obbligo comunicativo anche le associazioni e società sportive dilettantistiche (Faq 9). In tutti questi casi è proprio l’assenza della natura imprenditoriale e dello scopo di lucro a determinarne l’esclusione dal campo di applicazione della normativa. Sono esclusi dalla comunicazione anche i lavoratori dello spettacolo i quali, tuttavia, sono soggetti a certificato di agibilità (Faq 7).

L’obbligo di comunicazione non riguarda gli addetti alle vendite (Faq 2) e i procacciatori d’affari (Faq 3), in quanto attività che, se anche rese in modo occasionale, hanno comunque natura commerciale e i cui compensi e le cui provvigioni sono diversamente inquadrate nell’ambito dell’art. 67 comma 1 lett. i) del TUIR (la nota n. 29/2022 si riferiva ai redditi diversi ex art. 67 comma 1 lett. l). Inoltre il lavoro da remoto, non esonera dall’effettuare la comunicazione a meno che non si tratti di prestazione intellettuale (Faq 6).

Tipologia Di Rapporti Lavorativi Da Comunicare: Prestazioni Intellettuali Escluse

L’aspetto sicuramente di maggiore interesse riguarda l’ambito dell’attività lavorativa da comunicare. La Faq 5 della nota 109/2022 prevede l’esclusione dall’obbligo di comunicazione nei confronti delle prestazioni che abbiano una natura prettamente intellettuale. Pertanto, tutte le attività di natura intellettuale, come ad esempio, i correttori di bozze, i progettisti grafici, i lettori di opere in festival o in libreria, i relatori in convegni e conferenze, i docenti e i redattori di articoli e testi. La natura meramente esemplificativa di tale elencazione comporta, quindi, la possibilità di ritenere esonerate anche ulteriori ipotesi, a condizione che le prestazioni siano di natura esclusivamente intellettuale.

Nella nota 109/2022, l’Ispettorato ha chiarito che il luogo di svolgimento della prestazione non è una scriminante dell’obbligo di comunicazione. Perciò, in caso di lavoro svolto da remoto con modalità telematica dall’abitazione o dall’ufficio del lavoratore, sarà necessaria la comunicazione, salvo che non si tratti di una prestazione prettamente intellettuale. Se invece la prestazione di lavoro occasionale è resa in smart working fuori dal territorio italiano, da lavoratori non residenti in Italia, la disciplina applicabile sarà quella del Paese dove viene eseguito il lavoro.

Come Effettuare La Comunicazione Preventiva Nel Lavoro Autonomo Occasionale?

Per accedere all’applicazione “LAVORO AUTONOMO OCCASIONALE” è necessario collegarsi al portale Servizi Lavoro al link servizi.lavoro.gov.it. La comunicazione di inizio di attività di lavoro autonomo occasionale deve contenere le informazioni seguenti:

Dati del committente e del prestatore;

Luogo della prestazione;

Sintetica descrizione dell’attività;

Data di inizio della prestazione e presumibile arco temporale entro il quale potrà considerarsi compiuta l’opera o il servizio. E’ opportuno precisare che, qualora la prestazione non sia compiuta nell’arco temporale indicato si rende necessaria una nuova comunicazione;

Ammontare del compenso stabilito tra le parti.

Per quanto riguarda la comunicazione preventiva è opportuno indicare che la stessa comunicazione può essere oggetto di annullamento o di modifica dei dati prima che l’attività lavorativa del prestatore abbia inizio. Di seguito puoi trovare la guida alla compilazione.

Comunicazione prestazioni occasionali

La Disciplina Fiscale Legata Alle Prestazioni Di Lavoro Autonomo Occasionale

Ai fini fiscali, il reddito derivante da prestazioni occasionali rientra nella categoria dei “redditi diversi“, secondo quanto disposto dall’articolo 67, comma 1, lettera l), del DPR n. 917/86 (TUIR). I redditi da lavoro autonomo (anche quelli derivanti da attività occasionali), si determinano, secondo quanto disciplinato dall’articolo 71, comma 2, del TUIR. In pratica, il calcolo è dato dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti nel periodo d’imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione. Da un punto di vista dichiarativo, i redditi derivanti dalle attività occasionali devono essere indicati:

Nel quadro D del modello 730 oppure,

Nel quadro RL del modello Redditi Persone Fisiche.

Sia che si presenti il 730 piuttosto che il modello Redditi, quindi, è opportuno indicare nell’apposito quadro l’importo del reddito lordo percepito e dell’eventuale ritenuta d’acconto subita. In questo modo il reddito percepito sconterà la tassazione IRPEF, facendo cumulo con gli altri redditi imponibili percepiti (lavoro dipendente, lavoro autonomo, etc).

Redditi Da Attività Occasionali Nel Quadro D Del Modello 730 

I redditi derivanti da prestazioni occasionali devono essere indicati nel quadro D del modello 730. In particolare, il riferimento è al rigo D5 del modello 730. Nella colonna 1 deve essere indicata la tipologia di reddito percepita. I codici da utilizzare sono, alternativamente, i seguenti:

1. Per i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente;

2. Per i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente.

Nella colonna 2 devono essere indicati i redditi percepiti nel periodo di imposta (il reddito da inserire è sempre il reddito lordo), mentre nella successiva colonna 3 è possibile riportare le spese sostenute inerenti la produzione del reddito (attenzione, perché l’inserimento di un dato in questa colonna presuppone la presenza di documentazione come fatture o ricevute intestate ed inerenti la produzione del reddito). Infine, nella colonna 4 devono essere indicate le ritenute di acconto subite (come riportate nella Certificazione Unica rilasciata).

Redditi Da Attività Occasionali Nel Quadro RL Del Modello Redditi P.F.

Per i soggetti che percepiscono redditi che non possono essere dichiarati nel modello 730 (modello obbligatorio per i soggetti titolari di partita Iva o che percepiscono redditi di capitale, etc) i proventi da prestazione di lavoro occasionale possono essere dichiarati nel modello Redditi P.F. In questo caso, i redditi derivanti dall’attività occasionale trovano collocazione all’interno del quadro RL, dedicato ai redditi diversi. 

Le modalità di compilazione del Modello Redditi Persone Fisiche sono le seguenti:

RIGO RL15 – Devono essere riportati in colonna 1 compensi derivanti da attività di lavoro autonomo, non esercitate abitualmente. Mentre, in colonna 2 possono essere riportate le spese sostenute per l’esercizio dell’attività, fino a concorrenza dei compensi percepiti. Naturalmente le spese sostenute per la produzione del reddito devono essere validamente documentate ed inerenti all’attività esercitata (come ad esempio carburante, treni, ristoranti, cancelleria, ecc).

E’ bene sottolineare che spesso per l’Amministrazione finanziaria il sostenimento di costi per l’esercizio di un’attività considerata occasionale, fanno pensare che la stessa possa essere un’attività abituale, e quindi esercitabile solo con partita Iva. E’ quindi bene prestare la massima attenzione all’iscrizione di tali spese.

RIGO RL20 – Deve essere riportato il totale delle ritenute d’acconto subite, che andrà a confluire nel quadro RN del Modello Redditi Persone Fisiche. E’ bene sottolineare che l’importo delle ritenute da inserire in questo rigo è quello che deriva dalla Certificazione (modello di Certificazione Unica) che il sostituto d’imposta è obbligato ad inviare all’Agenzia delle Entrate e a rilasciarvi in copia entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui avete percepito il compenso per la prestazione di lavoro autonomo occasionale svolta.

Lavoro Occasionale Ed Esonero Dalla Presentazione Della Dichiarazione Dei Redditi

Aspetto importante riguarda la possibilità di essere esonerati dalla presentazione della dichiarazione dei redditi. Questa possibilità riguarda unicamente i soggetti che hanno percepito soltanto redditi da collaborazioni occasionali sotto la soglia di 4.800 euro lordi annui. Sotto questa soglia il reddito percepito può non essere inserito in dichiarazione. Fino a tale valore vi è, infatti, una specifica detrazione IRPEF che abbatte (ed azzera) l’imposta (IRPEF) dovuta. Se ti trovi in questa fattispecie ti consiglio di prestare attenzione perché potresti sfruttare un vantaggio. Se hai svolto prestazioni occasionali verso un sostituto di imposta che ti ha applicato la ritenuta di acconto presentare la dichiarazione per te è vantaggioso. Con un reddito inferiore ai 4.800 euro di prestazione di lavoro occasionale e con ritenute di acconto subite presentare la dichiarazione dei redditi ti consente il recupero delle ritenute d’acconto subite. Queste, infatti, in dichiarazione si trasformano in crediti di imposta che possano essere sfruttati, alternativamente:

Utilizzato in compensazione: puoi sfruttare il credito per il pagamento di eventuali altre imposte erariali o contributive dovute;

Chiesto a rimborso: in questo caso puoi chiedere in dichiarazione il rimborso del credito spettante.

Se ti stai chiedendo quale sia la scelta migliore, dipende dalla tua situazione fiscale personale (contattami se vuoi per un consiglio).

Come Si Calcola La Ritenuta Di Acconto?

Le prestazioni di lavoro autonomo occasionale, nel momento in cui vengono svolte per conto di un soggetto che riveste la qualifica di sostituto di imposta (come ad esempio, associazioni, società, cooperative, ditte individuali, professionisti, etc), sono soggette all’applicazione della ritenuta di acconto. L’applicazione della ritenuta di acconto è obbligatoria tutte le volte in cui il committente della prestazione sia un sostituto d’imposta, di cui all’articolo 64, comma 3, del DPR n. 600/73. In questo caso il soggetto prestatore d’opera è soggetto all’applicazione di una ritenuta d’acconto del 20% sul proprio compenso lordo. Si tratta di una particolare forma di pagamento di un acconto dell’IRPEF, che sarà calcolata definitivamente con la dichiarazione dei redditi. La base imponibile su cui applicare la ritenuta è il compenso della prestazione eseguita, ed eventuali rimborsi spese forfettari. Qualora, invece, vi siano rimborsi spese analitici (ovvero documentati da fattura), non trattandosi di compensi, ma di veri e propri rimborsi, questi sono esclusi dall’applicazione della ritenuta di acconto.

Il Versamento Della Ritenuta Di Acconto

Il sostituto di imposta quando eroga un reddito da prestazione occasionale deve trattenere la ritenuta di acconto del 20% sul compenso lordo. Chiariamo con un esempio. Se il sostituto di imposta eroga un reddito pari a 1.000 euro, deve trattenere la ritenuta di acconto del 20% (pari a 200 euro), versando al lavoratore (prestatore) l’importo netto di 800 euro. L’importo della ritenuta d’acconto deve essere trattenuto e versato all’Erario entro il giorno 16 del mese successivo a quello di pagamento del compenso.

Esempio di versamento della ritenuta di acconto con modello F24:

Annualmente il sostituto d’imposta è chiamato alla predisposizione della Certificazione Unica, che deve essere trasmessa telematicamente all’Agenzia delle Entrate, ed inviata al lavoratore occasionale. Tale documento è utile per la dichiarazione dei redditi del lavoratore.

Recupero Della Ritenuta Di Acconto Subita

Arrivati a questo punto della compilazione, quello che devi fare è analizzare il Quadro RN della dichiarazione. Si tratta del quadro di riepilogo della dichiarazione dei redditi che raccoglie i dati degli altri quadri dichiarativi per effettuare il riepilogo della tassazione IRPEF. Da questo quadro può emergere una differente situazione:

Imposta a debito da versare. L’importo della tassazione effettiva è superiore all’importo delle ritenute subite.

Imposta a credito. In questo caso la tassazione effettiva è risultata inferiore alle ritenute subite.

In caso di emersione di imposta a debito devi provvedere al pagamento entro il 30 giugno dell’anno di presentazione della dichiarazione, al pagamento. Il pagamento avviene presentando il modello F24. La presentazione può avvenire con modalità telematica, home banking, oppure presso uno sportello di Banche o Poste. L’emersione del credito, invece, si ha quando la ritenuta d’acconto è maggiore rispetto all’IRPEF dovuta per quel periodo d’imposta. In questo caso, la maggiore ritenuta subita, diventa un credito IRPEF. Credito che dovrà essere indicato nel Quadro RX del modello Redditi PF. Attraverso il Quadro RX hai la possibilità di scegliere come utilizzare il credito. Le possibilità che hai a disposizione sono due:

Utilizzo in compensazione del credito. Il credito può essere utilizzato per compensare altre imposte nel modello F24. La compensazione può avvenire liberamente per crediti di importo fino a 5.000 euro. Limite oltre il quale dovrà essere apposto il visto di conformità sulla dichiarazione dei redditi;

Richiesta di rimborso del credito. Scelta da fare quando non ci sono nell’anno altre imposte da versare. I tempi di rimborso del credito variano molto, ma in media occorre circa un anno per vedersi rimborsare sul conto corrente la cifra del credito.

La Certificazione Unica Per Il Lavoro Autonomo Occasionale

Come capire se durante il lavoratore occasionale ha subito una ritenuta di acconto? 

Quando si effettuano collaborazioni occasionali nei confronti di sostituti di imposta, gli stessi sono tenuti a rilasciare ai prestatori d’opera la Certificazione Unica dei compensi percepiti nell’anno precedente. In questo documento sono evidenziati sia i redditi percepiti con lavoro occasionale che le eventuali ritenute subite.

I committenti devono rilasciare la certificazione ai prestatori entro il 31 di marzo di ogni anno. Una volta ricevuta la Certificazione quello che si deve fare è verificare se vi è stata l’applicazione di ritenute di acconto e quanto è stato il vostro reddito lordo imponibile. In base alle considerazioni fatte in precedenza potrete capire se siete obbligati o meno a presentare la dichiarazione dei redditi.

Posso Effettuare Attività Con Committente Estero?

L’attività di lavoro autonomo occasionale può essere svolta anche con committente estero (non residente). In questo caso l’importo della prestazione professionale non è soggetto all’applicazione della ritenuta di acconto, a condizione che il committente non residente non sia dotato di stabile organizzazione in Italia. Quindi l’importo della prestazione professionale viene erogato al lordo da parte del committente non residente al prestatore di lavoro italiano. Questi, è tenuto ad applicare la relativa tassazione direttamente in dichiarazione dei redditi, a meno che non verifichi una delle condizioni di esonero.

Posso Farmi Pagare All’estero?

La prestazione di lavoro autonomo occasionale può essere pagata sia in Italia che su un eventuale conto corrente estero del lavoratore. Il fatto che il pagamento avvenga all’estero non esonera il lavoratore dalla dichiarazione dello stesso in Italia, in dichiarazione dei redditi. Quello che conta ai fini fiscali è la residenza fiscale italiana del lavoratore e non il luogo ove avviene il pagamento dell’attività lavorativa. Inoltre, occorre prestare attenzione agli obblighi di monitoraggio fiscale del conto corrente estero.

Posso Farmi Pagare In Contanti?

Ad oggi, è possibile ricevere pagamenti in contanti fino alla soglia di 2.000 euro. Sopra questa soglia il pagamento deve essere effettuato con mezzi tracciabili. Affinché vi possa essere pagamento in contanti c’è bisogno, comunque, dell’accordo contrattuale tra le parti.

In Caso Di Controllo Come Si Dimostra Il Lavoro Occasionale?

In caso di controllo sul lavoratore il lavoro autonomo occasionale si dimostra attraverso il contratto e le ricevute emesse a fronte dei pagamenti ricevuti. Inoltre, la dimostrazione avviene attraverso l’attività concretamente svolta dal lavoratore. Mentre, come detto ne paragrafo precedente, i controlli sul datore di lavoro riguardano eventuali sanzioni come lavoro dipendente “mascherato“, i controlli sul lavoratore riguardano, invece, l’ipotesi di mancata apertura della partita IVA. Per questo, infatti, ove venga contestata questa fattispecie il lavoratore autonomo occasionale rischia di vedersi applicare sanzioni su questa fattispecie.

Prestazione Occasionale In Dichiarazione Dei Redditi: Infografica Riepilogativa

Di seguito una infografica riepilogativa delle modalità di compilazione della dichiarazione dei redditi in caso di percepimento di redditi derivanti da prestazioni occasionali.

Prestazione occasionale in dichiarazione dei redditi

Disciplina Previdenziale

Nel caso in cui il prestatore di lavoro occasionale raggiunga nell’anno la soglia di 5.000 euro lorde di prestazioni occasionali c’è l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata INPS. Questo è quanto disposto dall’articolo 44 del D.L. n. 269/2003, convertito dalla Legge n. 326/2003. Questa norma prevede, quindi, l’obbligo della contribuzione previdenziale in capo ai prestatori che superano la soglia annua di 5.000 euro lorde di prestazioni occasionali.

La soglia di 5.000 euro lorde annue deve essere così conteggiata:

Prendendo a riferimento solo le prestazioni occasionali svolte

Sommando tutti gli importi lordi incassati nell’anno fino a quel momento

Considerando gli importi percepiti da tutti i committenti

Escludendo tutti i redditi di altre categorie (es. lavoro dipendente o autonomo)

Soglia Di Esenzione Contributiva Di 5.000 Euro

I contributi devono essere versati solamente sulla quota di reddito eccedente la soglia dei 5.000 euro. In pratica tale soglia funge da franchigia per i contributi previdenziali. Attenzione, questa soglia non ha niente a che vedere con quanto detto ai fini fiscali! L’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata è a carico del datore di lavoro e nasce nell’anno in cui il lavoratore supera il predetto limite di compensi. Pertanto, i lavoratori autonomi occasionali con compensi fino a 5.000 euro nell’anno solare non sono obbligati né all’iscrizione alla Gestione Separata. Nemmeno, al versamento di contributi previdenziali.

Comunicazione Al Committente Del Superamento Della Soglia Di Compensi Annui

Per i soggetti che superano la soglia di esenzione, l’imponibile previdenziale è costituito dal compenso lordo erogato al lavoratore, che supera la soglia annua di 5.000 euro. Compenso dal quale devono essere dedotte eventuali spese poste a carico del committente e risultanti da fattura o ricevuta. I lavoratori interessati devono comunicare tempestivamente ai propri committenti il superamento della soglia di esenzione e, solo per la prima volta, iscriversi alla Gestione. Questo a meno che non si tratti di collaboratori o soggetti assimilati già iscritti. Di seguito puoi trovare il link per scaricare la dichiarazione dei compensi da comunicare al soggetto committente la prestazione (al superamento dei 5.000 euro). Nella ricevuta il lavoratore si vedrà applicare la ritenuta previdenziale pari ad 1/3 del contributo dovuto. Questo in quanto i restanti 2/3 di contributo sono direttamente a carico del datore di lavoro.

FACSIMILE: CONTRATTO DI PRESTAZIONE DI LAVORO AUTONOMO E DICHIARAZIONE DEI COMPENSI PERCEPITI NELL’ANNO PER GLI OBBLIGHI CONTRIBUTIVI

Contributi Dovuti Sulla Quota Eccedente 5.000 Euro

Una delle domande che maggiormente mi arrivano sull’argomento riguarda il superamento della soglia di 5.000 euro annui con le prestazioni occasionali. Come ho già avuto modo di dire, questa soglia ha effetti soltanto previdenziali ed obbliga per gli importi superiori al limite il versamento dei contributi previdenziali. Come ti ho indicato si tratta di contributi dovuti alla Gestione separata INPS, e che sono suddivisi:

Per 1/3 a carico del lavoratore e

Per 2/3 a carico del datore di lavoro.

Al fine di permettere al datore di lavoro di effettuare correttamente le trattenute previdenziali è necessario che il lavoratore comunichi allo stesso che a breve supererà la soglia  annua di 5.000 euro per tutti i committenti. In questo modo il datore di lavoro sarà a conoscenza di dover effettuare i versamenti contributivi per la quota a lui spettante. Se la comunicazione da parte del lavoratore non avviene non vi è alcuna responsabilità da parte dell’azienda committente sul versamento contributo dovuto.

Superamento Della Soglia Di 5.000 Euro E Apertura Della Partita IVA

Altro aspetto da chiarire riguarda la voce che vede che soglia di 5.000 euro e partita IVA siano collegati. E’ bene ribadirlo ancora una volta, non è così! L’obbligo di apertura della partita IVA è indipendente dal volume di compensi raggiunto. La partita IVA si apre quando una attività professionale diventa abituale e continuativa nel tempo. Se ad esempio realizzi testi per testate giornalistiche e lo fai esclusivamente nel tempo libero o nel fine settimana, due volte al mese, anche se superi i 5.000 euro non avrai obbligo di Partita IVA. L’attività esercitata non è abituale, ed in questo non influisce il volume dei tuoi compensi. Al massimo se superi di 5.000 euro dovrai iscriverti alla Gestione separata INPS e versare i contributi. Se, invece, l’attività di scrittura viene svolta tutti i fine settimana dell’anno, o anche durante la settimana, ecco che c’è una continuità dell’attività nell’anno. A questo punto, sempre indipendentemente dal compenso percepito vi è obbligo di operare con partita IVA.

Quello che posso consigliarti è di valutare sempre la tua posizione personale con un dottore Commercialista. Non esiste infatti un metodo di giudizio unico per determinare se vi è obbligo o comunque convenienza ad operare con la partita IVA. Per questo motivo il consulto con un esperto può essere importante per evitarti di commettere errori, che in caso di accertamenti si pagano cari. Ricorda sempre che l’eventuale mancata apertura della Partita IVA è sempre una tua responsabilità. L’Agenzia delle Entrate se riscontra violazioni potrebbe contestarti e richiederti il versamento dell’IVA. Quindi attenzione!

Prestazioni Previdenziali Erogate

Il lavoratore autonomo occasionale soggetto all’obbligo di iscrizione presso la Gestione Separata, laddove il reddito annuo derivante da detta attività sia superiore a 5.000 euro e se obbligato al versamento della relativa maggiorazione contributiva, ha titolo alle prestazioni di malattia e maternità (circ. INPS 13.3.2006 n. 41). I lavoratori autonomi occasionali esclusi dall’obbligo di iscrizione alla Gestione separata non hanno alcuna tutela previdenziale.

Compatibilità Con La NASPI

Il lavoro autonomo occasionale presenta compatibilità con la NASPI. Infatti, nel caso in cui venga effettuata un’attività lavorativa autonoma dalla quale derivi un reddito (fino a 3.000 euro) che corrisponde ad un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’art. 13 del TUIR, il beneficiario ha la possibilità di continuare a percepire la NASPI, con importo ridotto, pari all’80% dell’importo previsto, rapportato al periodo di tempo che intercorre tra la data di inizio dell’attività autonoma e la data in cui termina il periodo di godimento dell’indennità. Sul punto, vedasi i seguenti chiarimenti: art. 10, co. 1, del D.Lgs. n. 22/15 e Circolare INPS n. 94/15.

Di particolare importanza è l’obbligo posto a carico del soggetto che svolge attività autonoma, il quale è tenuto ad informare l’INPS, entro il termine di un mese dall’inizio dell’attività, oppure entro un mese dalla domanda di NASPI (se l’attività era preesistente), dichiarando il reddito annuo che si prevede di percepire dall’attività autonoma esercitata. Sul punto occorre tenere presente che la riduzione viene calcolata d’ufficio al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi, oppure (se non si è obbligati alla presentazione della dichiarazione) il soggetto beneficiario dell’indennità è chiamato a presentare all’INPS una autocertificazione con l’indicazione dell’effettivo reddito percepito. Tale comunicazione deve essere presentata entro il 31 marzo di ciascun anno (con riferimento ai redditi percepiti nell’anno precedente). In mancanza di tale informazione, il soggetto è chiamato a restituire la NASPI percepita dall’inizio dell’attività di lavoro autonomo effettuata.

Approfondimenti Sulla Prestazione Di Lavoro Autonomo Occasionale

La disciplina sulla prestazione occasionale prevede anche ulteriori aspetti che per motivi di brevità non ho trattato in questo articolo. Tuttavia, ho realizzato altri articoli che ti lascio di seguito con cui puoi approfondire altri argomenti legati al lavoro occasionale. Per quanto riguarda la disciplina dei rimborsi spese del lavoratore autonomo occasionale vi rimando a questo articolo:

FACSIMILE: I RIMBORSI SPESA NELLE PRESTAZIONI DI LAVORO AUTONOMO OCCASIONALE

Inoltre, ho deciso di raccogliere in un contributo tutte le domande (con le mie risposte) relative al lavoro autonomo occasionale.

Prestazioni Occasionali Per Attività Sotto Direzione Altrui 2022

La norma attualmente in vigore sulla prestazione occasionale è data dall’art. 54-bis del D.L. n. 50/2017, convertito dalla Legge n. 96/2017. Questa disposizione (a seguito dell’abrogazione della disciplina sul lavoro accessorio) ha permesso l’utilizzo di prestazioni occasionali (lavoro occasionale alle dipendenze altrui), con due diverse modalità alternative:

Il libretto famiglia, per le persone fisiche che non operano nell’esercizio di attività professionale o di impresa;

Il contratto di prestazione occasionale (da non confondere con il contratto di collaborazione occasionale visto sopra), per i soggetti diversi dalle persone fisiche (es. associazioni, fondazioni, imprese, soggetti esteri con stabile organizzazione in Italia, etc) e per le persone fisiche che operano in forma professionale o di impresa.

Il contratto di prestazione occasionale è rivolto a diverse categorie di utilizzatori, ognuno con propri limiti e caratteristiche peculiari: professionisti, lavoratori autonomi, imprenditori, associazioni, fondazioni e altri enti di natura privata, imprese agricole, pubbliche amministrazioni, enti locali, aziende alberghiere e strutture ricettive del settore turismo, onlus e associazioni che possono acquisire prestazioni di lavoro attraverso contratti di prestazioni di lavoro occasionale, per attività lavorative sporadiche e saltuarie, nel rispetto dei limiti economici previsti dalla norma.

Limiti Economici Delle Prestazioni Occasionali

Le prestazioni occasionali sono quelle attività lavorative, occasionali, e sotto la direzione altrui che danno luogo, che nel corso di un anno non superano i seguenti limiti per il soggetto prestatore e per l’utilizzatore:

Massimo 280 ore di lavoro per ogni utilizzatore (eccezioni per il settore agricolo)

Compensi fino a 5.000 euro, per ogni prestatore, da parte della totalità degli utilizzatori

Compensi fino a 5.000 euro, per ogni utilizzatore, nei confronti della totalità dei prestatori

Compensi fino a 2.500 euro per ogni prestatore, da parte dello stesso utilizzatore

Tutti i compensi si riferiscono ad importi al netto di contributi, premi INAIL e costi di gestione.

Con riferimento alla soglia di utilizzo relativa alla totalità dei prestatori, sono conteggiati al 75% del loro importo i compensi per prestazioni di lavoro occasionale rese dai seguenti soggetti:

Titolari di pensione di vecchiaia o d’invalidità;

Giovani con meno di venticinque anni di età. Se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un Istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado. Ovvero, a un ciclo di studi presso l’Università;

Disoccupati che abbiano reso la DID;

Percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI) ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

In ogni caso non può essere superato il limite massimo di 280 ore lavorative nell’arco dell’anno.

Per Quali Attività È Possibile Utilizzare Le Prestazioni Occasionali?

Privati e famiglie possono utilizzare le prestazioni occasionali per svolgere:

Piccoli lavori domestici, inclusi i lavori di giardinaggio, di pulizia o di manutenzione;

Assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità;

Insegnamento privato supplementare.

Imprese e professionisti possono sfruttare il Lavoro Occasionale per effettuare attività occasionali nella generalità dei settori produttivi. Infine, gli enti della Pubblica Amministrazione possono utilizzare questo regime nell’ambito dell’attività istituzionale, solo ed esclusivamente per:

Progetti speciali rivolti a specifiche categorie di soggetti in stato di povertà, di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o che fruiscono di ammortizzatori sociali;

Lavori di emergenza correlati a calamità o eventi naturali improvvisi;

Attività di solidarietà. In collaborazione con altri enti pubblici o associazioni di volontariato;

Organizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritative.

Limiti Di Utilizzo

E’ fatto divieto di utilizzare la disciplina in commento nelle seguenti fattispecie. Per imprese e professionisti:

Con soggetti che abbiano cessato da meno di 6 mesi un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione col medesimo utilizzatore;

Da parte degli utilizzatori che occupano più di 5 lavoratori subordinati a tempo indeterminato;

Da parte delle imprese del settore agricolo con i braccianti agricoli;

Imprese dell’edilizia o esercenti l’attività di escavazione o lavorazione di materiale lapideo, delle imprese del settore delle miniere, cave e torbiere;

Nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi.

Per gli enti della Pubblica Amministrazione è fatto divieto di utilizzo di questa disciplina:

Oltre i vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale;

Oltre il limite di 280 ore nell’arco dello stesso anno civile.

La Procedura Telematica Dell’INPS

Al fine di poter usufruire delle prestazioni occasionali è prevista una apposta piattaforma informatica messa a disposizione dall’INPS:

Accesso ai servizi per il lavoro occasionale e libretto famiglia

Guida al libretto famiglia INPS

Per la registrazione è necessario fornire le informazioni identificative necessarie per la gestione del rapporto di lavoro e dei connessi adempimenti contributivi (vedi la Circolare INPS n. 107/17). In particolare, al momento della registrazione:

Gli utilizzatori (famiglie o imprese) devono indicare la scelta per il Libretto Famiglia o contratto di prestazione di lavoro occasionale;

I prestatori di attività lavorativa devono indicare l’IBAN del conto corrente bancario/postale ovvero il numero del libretto postale o della carta di credito sul quale ricevere il compenso pattuito.

Con maggiore dettaglio, l’utilizzatore (famiglia e/o impresa) è chiamato a seguire i seguenti adempimenti:

Effettuare il versamento preventivo delle somme necessarie al pagamento delle prestazioni di lavoro occasionale, comprensive dell’assolvimento degli oneri di assicurazione sociale e dei costi di gestione attraverso l’alimentazione del proprio “portafoglio elettronico”. Il versamento delle somme può essere effettuato tramite intermediari, modello F24 Elide, F24 Enti pubblici, utilizzando la utilizzando la causale contributo “LIFA”, per il Libretto Famiglia e “CLOC” per il contratto di prestazione di lavoro occasionale (Risoluzione n. 81/E/2017) o mediante strumenti di pagamento elettronico (con addebito su c/c ovvero su carta di credito), accessibili esclusivamente dal Portale dei Pagamenti INPS e gestiti attraverso le modalità di pagamento “pagoPA”;

Comunicare, entro i termini stabiliti per ciascuna tipologia contrattuale, lo svolgimento dell’attività lavorativa, utilizzando un calendario giornaliero gestito dalla procedura INPS.

Il Pagamento Dei Compensi Ai Prestatori Di Lavoro Ed Il Versamento Dei Contributi

Il meccanismo di funzionamento della prestazione occasionale e libretto famiglia dell’INPS prevede che sia lo stesso istituto a prevedere il pagamento delle somme ai prestatori. In particolare è previsto:

Il pagamento del compenso al prestatore (con accredito sul conto corrente bancario o con bonifico) entro il giorno 15 del mese successivo a quello di svolgimento della prestazione;

L’accreditamento dei contributi previdenziali sulla posizione contributiva del prestatore;

Il trasferimento all’INAIL, il 30 giugno e il 31 dicembre di ciascun anno, dei premi per l’assicurazione INAIL.

L’art. 2-bis co. 1, lett. f) del D.L. n. 87/2018 prevede una alternativa modalità di erogazione delle somme secondo cui, su richiesta del prestatore espressa al momento della registrazione nella piattaforma telematica, il pagamento delle somme spettanti possa essere effettuato decorsi 15 giorni dal momento in cui la prestazione lavorativa inserita nella procedura informatica si è consolidata. Il pagamento dovrà essere effettuato presso gli sportelli postali e solo dietro generazione e presentazione di un mandato di pagamento emesso tramite la piattaforma informatica INPS e stampato dall’utilizzatore, che identifichi le parti, il luogo, la durata della prestazione e l’importo del corrispettivo.

Il Regime Previsto Per L’agricoltura

Per le imprese operanti nel settore agricoltura con non più di cinque dipendenti è possibile il ricorso al contratto di prestazione occasionale esclusivamente per le attività lavorative rese da lavoratori appartenenti alle seguenti categorie:

titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;

giovani con meno di 25 anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, ovvero a un ciclo di studi universitario;

persone disoccupate, ai sensi dell’articolo 19, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150;

percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI o SIA), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

L’utilizzatore è tenuto a effettuare una dichiarazione preventiva almeno un’ora prima dell’inizio della stessa.

L’importo del compenso minimo giornaliero indicato dall’utilizzatore non può essere inferiore alla misura minima fissata per la remunerazione di quattro ore lavorative. La misura del compenso delle ore successive è liberamente fissata dalle parti, nel rispetto della misura minima oraria prevista per il settore agricoltura.

Il compenso minimo è determinato in base all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In particolare, sono previsti tre importi orari differenti, a seconda dell’area di appartenenza del lavoratore:

Area 1: 9,65 euro;

Area 2: 8,80 euro;

Area 3: 6,56 euro.

Le imprese del settore agricolo possono ricorrere al contratto di prestazione di lavoro occasionale impiegando esclusivamente alcune categorie di lavoratori che in ogni caso non devono essere stati iscritti l’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli e che siano:

titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;

studenti con meno di 25 anni di età;

persone disoccupate, ai sensi dell’articolo 19, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150;

percettori di prestazioni integrative del salario, di REI o SIA, ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

Il Regime Previsto Per La Pubblica Amministrazione

Le pubbliche amministrazioni possono fare ricorso a questo tipo di contratto esclusivamente per esigenze temporanee o eccezionali e per attività specifiche previste dalla legge:

Nell’ambito di progetti speciali rivolti a specifiche categorie di soggetti in stato di povertà, di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione di ammortizzatori sociali;

Per lo svolgimento di lavori di emergenza correlati a calamità o eventi naturali improvvisi;

Per attività di solidarietà, in collaborazione con altri enti pubblici e/o associazioni di volontariato;

Per l’organizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli.

Le pubbliche amministrazioni non sono soggette al divieto di utilizzo del contratto previsto per i datori di lavoro con più di cinque dipendenti in rapporto.

Regime Per Le Aziende Alberghiere E Le Strutture Ricettive Nel Settore Del Turismo

Per le aziende alberghiere e le strutture ricettive che operano nel settore del turismo, che abbiano alle proprie dipendenze fino a otto lavoratori a tempo indeterminato, è possibile il ricorso al contratto esclusivamente per le attività lavorative rese da lavoratori appartenenti alle seguenti categorie:

titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;

giovani con meno di 25 anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, ovvero a un ciclo di studi universitario;

persone disoccupate, ai sensi dell’articolo 19, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150;

percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI o SIA), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.

Nel caso in cui l’azienda alberghiera o la struttura ricettiva del settore turismo sia già registrata, fra gli utilizzatori, nella piattaforma informatica delle prestazioni occasionali, è tenuta ad aggiornare la classificazione.

Regime Per Gli Enti Locali

Gli enti locali possono fare ricorso al contratto di prestazione occasionale, nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e fermo restando il limite di durata di cui al comma 20, dell’articolo 54-bis, del d.lgs. 50/2017, esclusivamente per esigenze temporanee o eccezionali:

nell’ambito di progetti speciali rivolti a specifiche categorie di soggetti in stato di povertà, di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione di ammortizzatori sociali;

per lo svolgimento di lavori di emergenza correlati a calamità o eventi naturali improvvisi;

per attività di solidarietà, in collaborazione con altri enti pubblici e/o associazioni di volontariato;

per l’organizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli.

Gli enti locali, come le pubbliche amministrazioni in genere, non sono soggetti al divieto di utilizzo del contratto di previsto per i datori di lavoro con più di cinque dipendenti in rapporto, nel caso in cui l’ente locale sia già registrato, fra gli utilizzatori, nella piattaforma informatica delle prestazioni occasionali.

Il Regime Sanzionatorio

Per l’applicazione delle sanzioni in caso di violazioni ai limiti e ai divieti posti dall’art. 54-bis del D.L. n. 50/17 convertito, occorre far riferimento ai chiarimenti resi con la circ. INL 9.8.2017 n. 5, con cui l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha dettato al proprio personale le prime istruzioni operative per l’applicazione del regime sanzionatorio.

Superamento Del Limite Economico Individuale E Del Limite Orario

Per le prestazioni rese con il libretto famiglia o con il contratto di prestazione occasionale, l’utilizzatore incorre nella trasformazione del relativo rapporto in un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, a far data dal giorno in cui si realizza il superamento, se, nel corso dell’anno (art. 54-bis co. 20 del D.L. n. 50/2017):

Retribuisce il prestatore più di 2.500 euro;

Lo impiega per più di 280 ore o il diverso limite previsto nel settore agricolo.

I due limiti devono essere considerati come alternativi tra loro e i datori di lavoro dovranno far riferimento a quello raggiunto per primo.

Impiego Di Lavoratori Con Rapporto Ancora In Corso O Cessato Da Meno Di 6 Mesi

E’ vietato acquisire prestazioni di lavoro occasionale da soggetti con cui l’utilizzatore abbia in corso o abbia cessato da meno di 6 mesi (art. 54-bis co. 5 del D.L. n. 50/2017):

Un rapporto di lavoro subordinato;

Una collaborazione co.co.co.

La violazione del divieto comporta la conversione in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, a condizione che sia accertato il carattere subordinato dello stesso.

Violazione Dell’obbligo Di Comunicazione Preventiva

Per i soli contratti di prestazione occasionale è prevista l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria (da 500 a 2.500 euro) per ogni prestazione lavorativa giornaliera per cui risulta accertata la violazione (art. 54-bis co. 20):

Dell’obbligo di comunicazione preventiva. Vi rientrano tra l’altro il caso in cui la comunicazione sia effettuata in ritardo, il caso in cui non contenga tutti gli elementi richiesti e quello in cui detti elementi non corrispondano a quanto effettivamente accertato (ad es., se la prestazione giornaliera sia stata effettivamente svolta per un numero di ore superiore rispetto a quello comunicato). Per la mancata comunicazione;

Di uno dei limiti soggettivi disposti per gli utilizzatori del contratto di prestazione occasionale (ad es., sia utilizzato da chi abbia alle proprie dipendenze più di 5 lavoratori a tempo indeterminato).

Se l’utilizzatore del contratto non adempie all’obbligo di comunicazione preventiva, oppure nel caso in cui egli, dopo averla effettuata, la revochi, è fondamentale verificare se si tratti di:

Ad una semplice prestazione “non comunicata“, che richiederà l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui sopra (co. 20 dell’art. 54-bis);

Ad un vero e proprio rapporto di lavoro in nero, sanzionabile esclusivamente con la maxi-sanzione per il lavoro nero.

Lavoro Autonomo Occasionale Ed Accessorio E Prestazioni A Sostegno Del Reddito

L’Inps ha precisato i regimi di compatibilità e cumulabilità della prestazione occasionale con le seguenti prestazioni sociali:

Indennità di mobilità;

Naspi;

Disoccupazione agricola;

Cassa Integrazione Guadagni. 

Le prestazioni di lavoro occasionale non possono, in ogni caso, determinare un doppio accredito contributivo relativo al medesimo periodo. Pertanto in caso di concomitanza con l’erogazione di prestazioni integrative e/o di sostegno al reddito non può essere riconosciuta la relativa contribuzione figurativa.

Indennità Di Mobilità E Lavoro Occasionale

I soggetti beneficiari di indennità di mobilità possono contare sulla piena compatibilità con i redditi derivanti da prestazioni di lavoro occasionale ed accessorio. L’indennità di mobilità, risulta quindi cumulabile:

Al 100% con prestazioni di lavoro occasionale accessorio contenute nel tetto annuale di 3.000,00 euro (annualmente rivalutabile)

Entro i limiti della retribuzione percepita dal lavoratore al momento della risoluzione del rapporto di lavoro che ha determinato la collocazione nelle liste di mobilità (rivalutata ai sensi dell’articolo 9, comma 9, della Legge n. 223/1991), per compensi percepiti oltre il tetto di 3.000,00 euro (e comunque entro il limite massimo previsto di 7.000,00 euro).

Il beneficiario della prestazione a sostegno del reddito (indennità di mobilità) è tenuto obbligatoriamente a comunicare all’Inps il reddito che presume di percepire nell’anno in relazione all’attività di lavoro occasionale ed accessorio. La comunicazione deve avvenire entro cinque giorni dall’inizio dell’attività lavorativa, oppure, all’atto della presentazione della domanda di accesso alla prestazione sociale nei casi di attività lavorativa preesistente.

Indennità Di Disoccupazione Involontaria (Naspi) E Lavoro Occasionale E Accessorio

Anche con riferimento all’indennità prevista per la disoccupazione involontaria (Naspi) è sancita la totale compatibilità con i compensi derivanti da attività di lavoro occasionale e di tipo accessorio. Con riferimento alla cumulabilità con tali redditi, la Naspi risulta:

Interamente cumulabile con attività accessorie contenute nel limite annuale di 3.000,00 euro;

Ridotta nella misura dell’80% del compenso percepito oltre il tetto di 3.000,00 euro (ed entro il limite di 7.000,00 euro).

In virtù della limitata cumulabilità, il beneficiario dell’indennità Naspi è obbligatoriamente tenuto a comunicare all’Inps il presunto reddito derivante da attività di lavoro occasionale di tipo accessorio. La comunicazione deve avvenire entro un mese dall’inizio dell’attività di lavoro accessorio, oppure, entro la data di presentazione della domanda di Naspi, in caso di attività preesistente.

Disoccupazione Agricola Lavoro Occasionale Ed Accessorio

L’Inps conferma la compatibilità della prestazione occasionale e del lavoro occasionale di tipo accessorio anche con il percepimento di indennità di disoccupazione agricola. Tuttavia, la cumulabilità è limitata al limite di 3.000,00 euro.

In considerazione delle tempistiche previste per l’ottenimento della disoccupazione agricola (che viene riconosciuta nell’anno successivo a quello in cui si è verificato lo stato di disoccupazione), si deve aver cura di prendere come riferimento, ai fini della verifica del cumulo reddituale, gli emolumenti derivanti da attività di lavoro occasionale ed accessorio percepiti nell’anno di competenza della prestazione di disoccupazione.

Ad esempio, un lavoratore agricolo che ha lavorato solo in parte nell’anno “n”, decide di chiedere lo stato di disoccupazione agricola nell’anno “n+1”. Se nell’anno “n” ha percepito redditi da lavoro occasionale accessorio sotto i 3.000 euro l’importo della sua disoccupazione agricola non subirà alcuna decurtazione (come detto si prendere a riferimento l’anno di competenza della disoccupazione, e non l’anno di erogazione della prestazione).

Cassa Integrazione Guadagni (Cig) E Lavoro Occasionale

Le integrazioni salariali restano interamente cumulabili entro il limite, già più volte citato, di 3.000,00 euro annuali (rivalutati annualmente). Il conseguimento di redditi di lavoro occasionale ed accessorio eccedenti tale limite, e fino a 7.000,00 euro per anno civile, fanno scattare il regime di cumulabilità parziale ordinariamente previsto per i casi di svolgimento di attività di lavoro autonomo o subordinato, con diniego del diritto al trattamento di integrazione salariale per le giornate di lavoro effettuate (vedi Circolare Inps n. 130/2010).

Ne consegue l’obbligo (vigente esclusivamente nel caso il percettore superi il limite di 3.000,00 euro) di comunicazione preventiva all’Inps dello svolgimento di attività lavorative, pena la decadenza dalle integrazioni salariali (a tal riguardo restano in vigore i chiarimenti forniti con le Circolari n. 75/2007 e 57/2014 dell’Inps).

Prestazioni Occasionali E Lavoro Autonomo Occasionale: Consigli Pratici E Consulenza

In questo articolo, sotto forma di guida, ho cercato di riassumere tutte le principali informazioni che riguardano le due discipline del lavoro autonomo occasionale (per attività professionali occasionali) e della prestazione occasionale (libretto famiglia o contratto di prestazione di lavoro occasionale) per le attività svolte sotto la direzione altrui. L’errore che maggiormente si commette è quello di non riuscire ad inquadrare correttamente l’attività lavorativa che ci si appresta ad effettuare, oppure a confondere le due normative, finendo per commettere errori importanti che, spesso, comportano l’applicazione di sanzioni importanti.

Stai per effettuare un’attività di lavoro autonomo? Vuoi applicare alla tua situazione questa disciplina?

Oppure se vuoi sapere se sei tenuto o meno all’applicazione delle prestazioni occasionali, piuttosto che all’apertura della partita Iva? Contattaci compila il form di contatto seguente dedicato a questo tipo di consulenza. Altrimenti se vuoi condividere con noi la tua esperienza con le prestazioni occasionali, lasciaci un commento.

Considerata la mole di commenti pervenuti, nell’articolo saranno pubblicati soltanto commenti che espongono problematiche non trattate in precedenza. In tutti gli altri casi, se volete contattarmi sono a vostra disposizione, attraverso il servizio di consulenza online.

CONSULENZA FISCALE ONLINE Prestazioni Occasionali: FAQ

Chi può svolgere prestazioni occasionali?

Possono essere svolte da qualsiasi soggetto, privato o titolare di reddito da lavoro autonomo con partita IVA. Non possono utilizzare il lavoro autonomo occasionale i professionisti iscritti ad albi professionali per l’esercizio dell’attività rientrante nel proprio ordine professionale (tranne eccezioni, come quella dei giornalisti) ed i soggetti che percepiscono erogazioni a sostegno del reddito (es. NASPI, sino ad una soglia massima di 4.800 euro). Nel caso l’importo dell’attività di lavoro autonomo occasionale deve essere comunicato all’INPS.

Cos’è una prestazione occasionale?

La prestazione di lavoro autonomo occasionale è una prestazione di lavoro autonomo (non sotto la direzione altrui) effettuata non professionalmente e non abitualmente. Questo significa che si tratta di prestazioni lavorative autonome, sporadiche ed esercitate in modo non professionale. Ad esempio, una prestazione di giardinaggio, la riparazione di un PC, l’effettuazione di ripetizioni scolastiche, etc. Non vi sono più obblighi di legge su numero di giorni lavorativi e compenso percepito (con l’abrogazione del job’s act del 2015). Oggi la prestazione di lavoro autonomo occasionale è normata solo dall’art. 2222 del c.c., dalle circolari INPS, e dal DPR n. 633/72 per quanto riguarda gli obblighi di apertura della partita IVA per le prestazioni di lavoro autonomo abituali e professionali.

Come funziona la prestazione con ritenuta d’acconto?

Come indicato nell’articolo non si deve confondere tra lavoro accessorio occasionale legato ai voucher INPS e prestazioni occasionali. Nel primo caso si tratta di attività di lavoro dipendente che possono essere svolte con determinati limiti per il committente e per il lavoratore. L’attività è di lavoro autonomo ed è non professionale e non abituale. In questo caso il prestatore è tenuto a rilasciare una ricevuta al proprio committente al momento del pagamento del corrispettivo. Si tratta della ricevuta per lavoro autonomo occasionale. Se il committente è un sostituto di imposta deve essere applicata la ritenuta di acconto del 20%. Inoltre, se il prestatore ha superato la soglia di 5.000 euro di compensi annui allora è necessaria anche la ritenuta previdenziale sui compensi che superano la franchigia.

Quanto tempo si può operare con prestazione occasionale?

Non esistono limiti temporali (abrogazione Job’s act del 2015). Oggi la questo tipo di prestazione riguarda attività autonome non professionali e non abituali nel tempo. La verifica dell’abituale è annuale. Quindi, l’esercizio di più attività di lavoro autonomo nell’anno, determinano l’abitualità della prestazione e quindi l’obbligo di operare con partita IVA (indipendentemente dal volume di compensi percepiti).

Cosa si intende per occasionale?

Non esiste una vera e propria definizione di attività occasionale da parte del Fisco. L’occasionalità viene valutata in modo soggettivo in relazione all’attività esercitata ed al numero di prestazioni che vengono effettuate nel corso dell’anno. Per questo motivo, oggi la portata della prestazione di lavoro autonomo occasionale è limitata. Questo, in quanto i rischi di una contestazione per la mancata apertura della partita Iva solo elevati, proprio per una mancata oggettività sulla definizione di “occasionale”.

Come avviene il pagamento della prestazione occasionale?

Il pagamento da parte del committente deve avvenire secondo i termini stabiliti contrattualmente. Il committente che funge da sostituto di imposta è chiamato ad applicare la ritenuta di acconto del 20% sul compenso erogato. Nel caso deve essere rilasciata la Certificazione Unica per permettere al prestatore la compilazione della propria dichiarazione dei redditi. La ricevuta da parte del prestatore deve essere obbligatoriamente rilasciata in caso di pagamento in contanti (dal 2022 limite di 999 euro) oppure in caso di richiesta da parte del committente. Per i pagamenti effettuati con mezzi tracciabili non c’è obbligo di rilasciare la ricevuta (se non su richiesta).

Quando si applica la ritenuta di acconto nella prestazione occasionale?

La ritenuta di acconto si applica quando il pagamento della prestazione viene effettuato da un soggetto che ha la qualifica di sostituto di imposta. In questo caso il sostituto è tenuto ad applicare, sul compenso lordo (non sui rimborsi spesa) la ritenuta del 20% che deve essere trattenuta e versata (con modello F24 entro il giorno 16 del mese successivo) all’Erario. La ritenuta rappresenta una quota della tassazione dovuta dal prestatore che viene versata per lui dal committente. Qualora il prestatore alla fine dell’anno non verifichi requisiti per dover presentare la dichiarazione dei redditi, le ritenute di acconto diventano credito di imposta, attivabile attraverso la presentazione della dichiarazione dei redditi (quindi in questi casi presentare la dichiarazione anche se non si è obbligati è opzione favorevole a far emergere crediti di imposta da utilizzare in compensazione o chiedere a rimborso).

Quando si applica la ritenuta previdenziale INPS alla prestazione occasionale?

Quando il prestatore supera la franchigia di 5.000 euro di prestazioni occasionali effettuate nell’anno, sui compensi successivi erogati da sostituti di imposta, è necessario che, oltre alla ritenuta fiscale, venga applicata anche la ritenuta previdenziale. Si tratta di una ritenuta con aliquota della gestione separata spettante suddivisa in:

– 1/3 a carico del prestatore, sotto forma di ritenuta dal compenso;

– 2/3 a carico del committente, come onere a suo carico ulteriore al compenso del prestatore.

La ritenuta previdenziale ha come presupposto l’iscrizione del lavoratore alla gestione separata INPS come collaboratore. Tale adempimento è a carico del committente, che è chiamato ad effettuare le comunicazioni previdenziali previste per le ritenute dei collaboratori.

Cosa cambia nelle prestazioni occasionali con committente estero?

Nel caso in cui il prestatore nazionale effettui delle prestazioni verso committenti esteri (non residenti in Italia e privi di stabile organizzazione) il compenso del prestatore viene erogato al lordo. Non sono previste, in questo caso, le ritenute fiscali e previdenziali, in quanto l’ente non residente non ha le caratteristiche per essere sostituto di imposta in Italia. In questo caso il prestatore è chiamato a valutare se vi sono per lui gli obblighi connessi alla presentazione della dichiarazione dei redditi in Italia (per tassare il reddito percepito).

E’ opportuno redigere un contratto di prestazione occasionale?

Il contratto è sempre opportuno che venga redatto per scritto e firmato dalle parti. Tale contratto, infatti, è importante per entrambe le parti in quanto deve contenere indicazioni importanti, come:

– La durata della prestazione lavorativa (che ricordo deve essere non professionale e non abituale);

– Il compenso percepito (e l’eventuale applicazione di ritenute fiscali e previdenziali, anche in relazione alle certificazioni rilasciate dal prestatore);

– Le modalità di pagamento del compenso ed il rilascio della ricevuta;

– Termini e condizioni di esecuzione dell’attività di lavoro autonomo.

Il contratto può essere un elemento importante per la dimostrazione della non abitualità dell’attività.

Cosa succede se l’attività non è autonoma ma sotto la direzione di un’azienda?

La prestazione di lavoro autonomo occasionale riguarda prestazioni lavorative autonome, quindi senza etero-direzione altrui. Tuttavia, capita sovente nella pratica che molte aziende sotto il cappello dell’attività occasionale arruolino lavoratori temporanei. Ebbene, questa pratica è sicuramente scorretta, in quanto l’azienda ha a disposizione altri strumenti validi per questi obiettivi (vedi i voucher INPS del lavoro accessorio occasionale). Quando si verificano queste situazioni i rischi principali, in caso di controlli fiscali, sono a carico dell’azienda datore di lavoro. Tuttavia, eventuali responsabilità potrebbero ricadere anche sul lavoratore, in quanto avrebbe dovuto non accettare un contratto di lavoro non in regola.

Che succede se continuo a svolgere lavoro autonomo occasionale verso uno stesso committente?

Quando l’attività di lavoro autonomo occasionale viene svolta sempre verso uno stesso committente è possibile che si verifichi una di queste due fattispecie:

– L’attività non è autonoma, ma sotto la direzione dell’azienda committente;

– L’attività è in mono-committenza, quindi non c’è vero e proprio lavoro autonomo.

In questi casi le responsabilità cadono nei confronti dell’azienda committente che potrebbe essere chiamata anche alla trasformazione del rapporto in contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato.

Potrebbero contestare di non aver aperto tempestivamente la partita IVA?

Il rischio principale di chi svolge attività di lavoro autonomo occasionale è che gli venga contestata l’abitualità dell’attività e quindi la ritardata apertura della partita IVA. Questo tipo di contestazione comporta soprattutto sanzioni legate alla mancata applicazione dell’IVA sui compensi percepiti. Per questo motivo è sempre consigliabile farsi assistere da un dottore Commercialista per valutare l’apertura della partita IVA.

Chi ha partita IVA può svolgere lavoro autonomo occasionale?

La disciplina del lavoro autonomo occasionale riguarda i soggetti che svolgono esclusivamente attività professionali di carattere intellettuale. Si tratta di soggetti che non hanno obbligo di iscrizione ad albi o elenchi professionali che svolgono occasionalmente l’attività. Addio alle prestazioni occasionali da parte di medici e dentisti, ma anche per ingegneri, avvocati, biologi, farmacisti, etc. Qualsiasi tipo di prestazione di tipo intellettuale e professionale deve essere giustificata da una partita IVA. Gli unici casi in cui un professionista può emettere una prestazione di lavoro autonomo occasionale si hanno quando l’attività professionale esula da quelle per cui il professionista è iscritto al proprio ordine professionale.

Federico Migliorini su fiscomania.com/federico-migliorini. Dottore Commercialista, Tax Advisor, Revisore Legale. Aiuto imprenditori e professionisti nella pianificazione fiscale. La Fiscalità internazionale le convenzioni internazionali e l'internazionalizzazione di impresa sono la mia quotidianità. Continuo a studiare perché nella vita non si finisce mai di imparare. Se hai un dubbio o una questione da risolvere, contattami, troverò le risposte. Richiedi una consulenza personalizzata con me.

·        Le Pensioni.

Assegno sociale Inps: requisiti, importi e limiti aggiornati al 2022. Simone Micocci su Money.it il 18/01/2022 - 03/08/2022

L’assegno sociale (ex pensione sociale) cambia dal 1° gennaio 2022: aggiornati importi e limiti di reddito. 

Anche l’assegno sociale, come tutte le prestazioni assistenziali e le pensioni, ogni anno subiscono un aggiornamento dell’importo, come pure dei limiti di reddito entro i quali si può godere della prestazione. E così è stato anche nel 2022, quando dal 1° gennaio - per effetto della cosiddetta perequazione - è aumentato l’importo dell’assegno sociale così come la soglia di reddito entro cui se ne può beneficiare.

Un meccanismo importante che permette all’assegno sociale di non perdere valore in caso di incremento, come effettivamente è stato, dell’inflazione.

Nel dettaglio, quando parliamo di assegno sociale ci riferiamo a quella prestazione assistenziale collegata al reddito che spetta a coloro che al raggiungimento dell’età pensionabile (67 anni nel 2022) si trovano in una condizione economica di difficoltà tale da richiedere un intervento dello Stato.

Una definizione che ci dà maggiori dettagli su cos’è l’assegno sociale, mettendo subito in risalto due aspetti: il primo è appunto che stiamo parlando di una misura di tipo assistenziale, mentre il secondo è che si tratta di una misura alternativa alla pensione.

Molti parlano dell’assegno sociale facendo riferimento alla pensione sociale: va detto, però, che utilizzare quest’ultimo termine non è corretto. L’assegno sociale, infatti, ha preso il posto della pensione sociale dal lontano 1996 ormai. Si tratta comunque di due misure che hanno la stessa finalità: garantire un’entrata mensile, un sostegno di cui vivere, a coloro che durante l’arco della vita lavorativa non sono riusciti a maturare il requisito contributivo richiesto per la pensione di vecchiaia, e che nel contempo non hanno altri redditi su cui poter contare.

E per coloro che invece altri redditi li hanno, ma comunque insufficienti per vivere una vita dignitosa, l’assegno sociale consiste in una sola integrazione. Ma va detto anche che in alcuni casi all’importo riconosciuto vengono aggiunte le cosiddette maggiorazioni sociali: nel rispetto di determinati limiti di reddito e requisiti anagrafici si può quindi contare su un aumento dell’assegno sociale.

Dopo le opportune premesse, vediamo di seguito quali sono i requisiti e le istruzioni per richiedere l’assegno sociale nel 2022 e qual è l’importo riconosciuto dall’INPS a chi presenta domanda.

Assegno sociale 2022: i requisiti per fare domanda INPS

Per richiedere l’assegno sociale 2022, la prestazione economica INPS conosciuta anche come pensione sociale, bisogna innanzitutto rispettare alcuni specifici requisiti, ovvero:

età, pari almeno a 67 anni;

cittadinanza (italiana o comunitaria);

residenza effettiva e dimora abituale in Italia;

requisiti reddituali (cittadini sprovvisti di reddito o con reddito inferiore ai limiti stabiliti dalla legge).

ASSEGNO SOCIALE

 Requisiti

 Importo

 Maggiorazioni

 Quali redditi si prendono in considerazione

 Compatibilità con reddito e pensione di cittadinanza

 Quando si perde

 Invio della domanda 

Requisiti

Per quanto riguarda i requisiti di reddito, possono presentare domanda e ricevere l’assegno sociale nel 2022 tutti i cittadini con reddito non superiore a 6.085,30€ annui se non coniugati o 12.170,60€ se coniugati. Queste soglie sono state aumentate dal 1° gennaio 2022, per effetto della perequazione - con tasso dell’1,7% - applicata su prestazioni assistenziali e previdenziali.

Possono presentare domanda anche i cittadini comunitari ed extra-comunitari titolari di carta di soggiorno e i residenti in Italia in via continuativa da almeno 10 anni.

L’assegno sociale resta, come la pensione sociale, una prestazione di carattere assistenziale erogata dall’INPS in favore dei cittadini che versano in condizioni economiche disagiate e prescinde dal versamento dei contributi.

Ogni anno vengono controllati i requisiti del beneficiario, per valutare se si ha o meno diritto alla prosecuzione dell’erogazione.

Importo assegno sociale 2022

L’importo massimo dell’assegno sociale erogato nel 2022 è di 468,10 euro e la prestazione è riconosciuta per 13 mensilità.

Hanno diritto all’assegno sociale in misura intera:

i soggetti non coniugati che non possiedono alcun reddito;

i soggetti coniugati che abbiano un reddito familiare inferiore all’ammontare annuo dell’assegno, quindi 6.085,30€ nel 2022.

Hanno diritto all’assegno o pensione sociale in misura ridotta:

i soggetti non coniugati che hanno un reddito inferiore all’importo annuo dell’assegno;

i soggetti coniugati che hanno un reddito familiare compreso tra l’ammontare annuo dell’assegno e il doppio dell’importo annuo dell’assegno, dunque 12.170,60€ nel 2022. 

A seconda dei casi, quindi, spetta un importo pieno o una sola integrazione, con l’intento comunque di garantire alla persona un reddito annuo di almeno 6.085,30.

Maggiorazione importo assegno sociale: chi ha diritto all’aumento

All’importo base dell’assegno sociale si aggiungono, in alcuni casi, le cosiddette maggiorazioni sociali.

Si tratta di due distinte tipologie di aumento, una disciplinata dalla legge n. 388/2000 e l’altra, l’incremento al milione, dalla legge n. 448/2001.

La maggiorazione di cui all’articolo 70, comma 1 della legge n. 388/2000, è pari a un importo di 12,92€ al mese.

L’importo, riconosciuto in quota fissa e non soggetto a perequazione, viene corrisposto ai beneficiari della prestazione che percepiscono un reddito annuo inferiore a 6.145,75€. Affinché la suddetta maggiorazione spetti al 100%, però, il reddito annuo deve essere inferiore a 5.983,64€

Accanto al reddito personale, per i soggetti coniugati viene considerato anche il reddito coniugale, che non dovrà essere superiore a 12.854,14€, o comunque a 12.686,18€ per averne diritto in misura piena.

Come sopra anticipato esiste poi una seconda tipologia di maggiorazione, il meglio noto incremento al milione. A partire dal 2002, i soggetti con almeno 70 anni di età e che non superino determinati limiti di reddito, hanno diritto all’aumento della maggiorazione di base, che può arrivare a un massimo di 191,46€ al mese.

Il limite di reddito individuale annuo per averne diritto per i soggetti non coniugati è pari a 8.476,26€, importo che sale a 14.459,90€ nel caso di pensionati coniugati.

Ricordiamo inoltre che in merito al requisito anagrafico di 70 anni previsto per il riconoscimento dell’incremento al milione, i pensionati con contributi versati presso qualsiasi fondo o gestione hanno diritto alla riduzione di un anno, e fino ad un massimo di cinque anni, per ogni cinque anni di contributi versati.

Assegno sociale 2022: redditi utili per calcolare il rispetto dei requisiti

Ai fini del calcolo della sussistenza dei requisiti per presentare domanda di assegno sociale, rientrano nel reddito utile:

redditi assoggettabili all’Irpef, al netto dell’imposizione fiscale e contributiva;

redditi esenti da imposta;

redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (vincite derivanti dalla sorte, da giochi di abilità, da concorsi a premi, corrisposte dallo Stato, da persone giuridiche pubbliche e private);

redditi soggetti ad imposta sostitutiva (interessi postali e bancari; interessi dei BOT,CCT e di ogni altro titolo di Stato; interessi, premi ed altri frutti delle obbligazioni e titoli similari, emessi da banche e società per azioni; etc.);

redditi di terreni e fabbricati;

pensioni di guerra;

rendite vitalizie erogate dall’Inail;

pensioni dirette erogate da Stati esteri;

pensioni ed assegni erogati agli invalidi civili, ai ciechi civili, ai sordi;

assegni alimentari corrisposti a norma del codice civile.

Al contrario, non vengono presi in considerazione per il calcolo del reddito utile:

i trattamenti di fine rapporto e le anticipazioni sui trattamenti stessi;

il reddito della casa di abitazione;

le competenze arretrate soggette a tassazione separata;

le indennità di accompagnamento per invalidi civili, ciechi civili e le indennità di comunicazione per i sordi;

assegno vitalizio erogato agli ex combattenti della guerra 1915/1918;

arretrati di lavoro dipendente prestato all’estero.

Alla formazione del reddito utile (considerato al netto dell’imposizione fiscale e contributiva) concorrono quindi i redditi di qualsiasi altra natura, come i redditi derivanti da retribuzioni percepite per lavoro, le rendite agrarie e da fabbricati, le pensioni, ovvero tutti i redditi assoggettabili all’IRPEF. 

Gli stessi redditi vengono valutati anche al fine di accedere alle maggiorazioni sociali di cui sopra.

Assegno sociale: compatibile con reddito e pensione di cittadinanza

Reddito di cittadinanza, o pensione di cittadinanza per i nuclei composti da sole persone Over 67 (o da un Over 67 e altri componenti con grave disabilità), e assegno sociale sono compatibili tra di loro.

Attenzione però: compatibile non significa cumulabile. In poche parole è sì possibile beneficiare di entrambi, ma in tal caso il reddito o la pensione di cittadinanza vengono ridefiniti in base all’importo dell’assegno sociale riconosciuto.

Facciamo un esempio e prendiamo una persona sola di 67 anni con reddito zero, la quale percepisce dunque un assegno sociale d’importo pieno. Questa fa domanda di pensione di cittadinanza, la quale ha un importo mensile di 630,00€ per coloro che hanno reddito zero. Ebbene, nel caso specifico le due misure possono coesistere ma non sovrapporsi. 

Questo significa che a fronte di un assegno sociale di 468,10€, viene riconosciuta un’integrazione di soli 169,72€, arrivando così ai suddetti 630,00€.

Assegno sociale: quando si perde?

L’assegno sociale si perde quando vengono a mancare i requisiti richiesti. Ad esempio, si perde qualora in un successivo momento il titolare dell’assegno matura il diritto alla pensione: si pensi, ad esempio, a chi raggiunge i 20 anni di contributi richiesti solo al compimento dei 68 o 69 anni, come pure a chi invece ricorre all’opzione contributiva così da accedere alla pensione di vecchiaia a 71 anni ma con 5 anni di contributi.

L’assegno sociale poi si perde quando viene a mancare il requisito economico. A tal proposito, ogni anno chi percepisce l’assegno sociale deve inviare il modello RED all’Inps (nel 2021 la scadenza è fissata al 1° marzo). Nel caso in cui da questo modello ne dovesse risultare un superamento delle suddette soglie reddituali, allora l’assegno sociale decade. 

Ma attenzione: l’assegno sociale si perde anche qualora il suddetto modello non venga inviato entro la scadenza. Nel dettaglio, nei primi 60 giorni di ritardo l’Inps lo sospende, ma se neppure allo scadere del 60° giorno il modello risulta inviato allora l’assegno sociale decade e bisognerà fare una nuova domanda.

Assegno sociale 2022: come fare domanda

La domanda per richiedere l’assegno sociale nel 2022 può essere inoltrata esclusivamente in modalità telematica, attraverso i seguenti canali:

sito web dell’INPS (accesso con PIN dispositivo, SPID, CIE o CNS);

contact center (803164 gratuito da rete fissa o 06164164 da rete mobile a pagamento secondo la tariffa del proprio gestore telefonico);

patronati e intermediari dell’INPS.

Nella domanda per richiedere la pensione sociale bisogna inserire i seguenti documenti:

l’autocertificazione dei dati personali;

la dichiarazione della situazione reddituale;

la dichiarazione di responsabilità riguardo eventuale ricovero in istituto con retta a carico dello Stato.

In caso di ricovero infatti l’assegno viene ridotto:

del 50% se la retta è a totale carico dello Stato;

del 25% se la retta è pagata dall’interessato o dai familiari ed è di un importo inferiore alla metà dell’assegno sociale;

nessuna diminuzione se la retta comporta una spesa superiore al 50% dell’assegno.

Se la domanda di assegno o pensione sociale viene rigettata, è possibile fare ricorso al Comitato provinciale dell’INPS entro 90 giorni dalla data di ricezione della comunicazione di rigetto.

Attenzione: non è possibile richiedere gli arretrati dell’assegno sociale.

Il senso dei parlamentari per il vitalizio. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

Pare che molti parlamentari eletti per la prima volta abbiano festeggiato la caduta di Mario Draghi con l’euforia dell’ultimo giorno di scuola e con un sospiro di sollievo. 

Tutti, tranne pochi. Di loro ci occuperemo fra poco. 

Cosa c’era da festeggiare? Il raggiungimento della fatidica data «salva pensione»: per andare in quiescenza al compimento dei 65 anni con i contributi versati come parlamentari, i deputati e i senatori eletti per la prima volta dovevano superare la soglia dei 4 anni, 6 mesi e 1 giorno di permanenza in Parlamento. Per questa legislatura, la data di salvataggio era fissata per il 24 settembre. 

Per esempio, l’on. Valentina Barzotti del M5s non godrà del «vitalizio» perché subentrata alla defunta Iolanda Nanni, 6 mesi dopo l’inizio della legislatura. 

Siamo sinceri: avevamo un governo guidato da una delle più autorevoli personalità del nostro Paese. Il suo compito era gestire un debito pubblico fra i più alti del mondo facendo leva sulla competenza e sul prestigio internazionale. L’hanno scaraventato giù, senza riguardi. In confronto, cosa volete che sia un vitalizio in più? 

Per i pochi «sfortunati» avremmo anche potuto fare una colletta, in cambio di un Parlamento più responsabile, meno populista. Rispettiamo i diritti dei parlamentari ma soprattutto richiamiamoli ai loro doveri, whatever it takes.

Migliaia di euro al mese di pensione: chi sono e quanti percepiscono la pensione minima? Da Massimiliano Panarari il 22 luglio 2022 su La Stampa

Gli italiani tornano a votare e la campagna si riaccende al nodo pensionistico. Non solo in prima linea nella riforma, ma soprattutto in termini di indennità mensili. Silvio Berlusconi ha esordito in campagna con il pilastro dell'aumento della pensione, programma già avviato in passato, a 1.000 euro, ed è stato trapiantato in una struttura pensionistica in un cantiere edile. Tempo per fare alcune ipotesi sul campo. È un argomento che diventa caldo regolarmente durante la campagna, ed è anche un argomento centrale per milioni di italiani.

La terra promessa di Silvio

A fine 2021 i pensionati erano 16 milioni e la spesa totale era di circa 312 miliardi (+ 1,55% nel 2020). L'importo medio ricevuto è di 1.620 euro al mese, e più di un terzo del 32% del totale riceve meno di 1.000 euro al mese, circa 5 milioni di persone, 120.000 persone. Pertanto, considerando solo il beneficio totale dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, si tratta di un vasto pubblico che sale al 40% del totale.

Le ultime ipotesi politiche sono coerenti con "la riforma delle pensioni che garantisce un meccanismo di uscita flessibile in un sistema sostenibile fissato al sistema contributivo". Come ha ribadito Draghi qualche giorno fa, la questione è all'ordine del giorno ed è già stata discussa tra governo e parti sociali. A fine anno, infatti, il meccanismo di assegnazione sarebbe scaduto, altrimenti si sarebbero ripresentate le disposizioni della legge Fornero, e il ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva già annunciato l'intenzione di rinnovare le "Opzioni Donna ". L'ho fatto. "E perché anche l''Ape Sociale' ha ottenuto buoni risultati ampliando e rendendo più strutturale l'audience degli stakeholder." .

Prima della riforma del sistema, l'ipotesi sul campo era diversa. Il sindacato chiede misure che possano aumentare la flessibilità del recesso a partire dai 62 anni e garantire i giovani lavoratori. O, come altra soluzione, 41 anni di contributo. Il presidente dell'INPS Pasquale Tridico ha ipotizzato la possibilità del pensionamento anticipato tra i 63 e i 64 anni e ha utilizzato solo quote contributive, con quote aggiuntive a partire da 67 anni. Sono i primi anni, ma nel medio termine puoi risparmiare. Il presidente dell'Inps propone anche di estendere il rimborso gratuito dei titoli di studio già attivi in ​​alcuni Paesi. Si tratta di un'ipotesi che guarda al futuro dei giovani lavoratori. Nel frattempo, dopo il quarto 100, il campionato punta al quarto 41. In ogni caso sono andato in pensione dopo 41 anni di contribuzione. Secondo l'Inps la Lega non è d'accordo, ma questa misura costerà oltre 4 miliardi nel primo anno di "rilancio" e oltre 9 miliardi nel decimo anno.

Giu. Bal. per “La Stampa” il 23 giugno 2022.

Il flop di Quota 100 è nei numeri dell'Inps e dell'Ufficio parlamentare di Bilancio: 380mila pensionati in tre anni contro gli oltre 950mila attesi e 23,2 miliardi di spesa. Il provvedimento di bandiera della Lega, varato dal governo giallo-verde nel 2019 ha coinvolto un numero di persone «ampiamente al di sotto delle attese» con un risparmio di circa 10 miliardi rispetto alle stime iniziali. 

Secondo lo studio nel complesso con le persone che hanno maturato i requisiti entro il 2021 e che faranno domanda solo successivamente si potrebbe arrivare alla fine del 2025 a 450mila pensionati con Quota 100.

Abbastanza perché la Cgil tornasse a sottolineare come si trattasse di un intervento marginale, mentre serve una riforma strutturale della Legge Fornero. «I 10 miliardi di euro risparmiati su Quota 100, consentono di continuare a introdurre una flessibilità di accesso più diffusa al pensionamento nella prossima Legge di Bilancio», ha commentato il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti, mentre secondo la Cisl una riforma «non è più procrastinabile».

A ricorrere a Quota 100 sono stati soprattutto gli uomini con metà delle richieste arrivate da dipendenti privati: poco più del 30% proviene da lavoratori pubblici, mentre gli autonomi sono stati circa il 20%. 

In media - si legge nel report - gli autonomi ricevono 1.376 euro lordi al mese, i dipendenti privati 2.088 euro e i dipendenti pubblici 2.161 euro. La media complessiva dell'assegno mensile lordo è di 1.971 euro (1.829 le donne, 2.035 gli uomini).

Sono invece meno di 4mila le domande arrivate all'Inps per Quota 102 (64 anni di età e 38 di contributi) nei primi cinque mesi del 2022 poiché la misura riguarda di fatto solo coloro che avevano già raggiunto l'età nel triennio di Quota 100 ma non ancora i contributi. 

Per il presidente dell'Inps, Pasquale Tridico, introdurre la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall'età costerebbe 18 miliardi di euro in tre anni, mentre l'ipotesi di andare in pensione con 64 anni di età e 35 di contributi - purché si sia maturato un assegno pari ad almeno 2,2 volte l'assegno minimo - unico potrebbe costare nel triennio circa sei miliardi di euro.

Pensione di reversibilità non solo al coniuge: anche a ex non risposati, figli e nipoti. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.

Cambiano le famiglie, cambia la reversibilità

Tradizionalmente, a godere della pensione di reversibilità (il trattamento pensionistico riconosciuto in caso di decesso del pensionato ai famigliari superstiti) erano le mogli vedove. Ma le cose stanno cambiando. L’introduzione del divorzio oltre mezzo secolo fa e le molto più recenti unioni civili hanno costretto l’Inps ad aprirsi verso i superstiti di tutte le tipologie di unioni previste dal nostro ordinamento, anche nel caso di coppie che hanno deciso di interrompere l’unione, come nel caso di separati e divorziati e superstiti, e fino ai figli e nipoti superstiti. Ovviamente solo a specifiche condizioni.

Cos’è la pensione di reversibilità

Come spiega l’Inps, la pensione ai superstiti è un trattamento pensionistico riconosciuto in caso di decesso del pensionato (pensione di reversibilità) o dell’assicurato (pensione indiretta) in favore dei familiari superstiti. La pensione di reversibilità è pari ad una quota percentuale della pensione del defunto. La pensione indiretta è riconosciuta invece nel caso in cui l’assicurato abbia perfezionato 15 anni di anzianità assicurativa e contributiva, ovvero 5 anni di anzianità assicurativa e contributiva, di cui almeno 3 anni nel quinquennio precedente la data del decesso.

Coniugi, uniti civilmente, separati e divorziati

La pensione diretta o indiretta spetta sempre al coniuge o all’unito civilmente che, nel caso sia beneficiario unico, ne incasserà il 60% (per le altre percentuali vedere tabella qui sotto). La quota viene però ridotta nel caso vi siano altri familiari che ne hanno diritto o se supera certi limiti di reddito. Rientrano in questa categoria anche il coniuge separato e il coniuge divorziato. Per i separati si era già espressa la Cassazione nel 2018 e nel 2019, equiparando i separati a vario titolo, anche quelli senza diritto agli alimenti (circolare Inps n. 19 del 2022).

Nel caso dei divorziati la condizione per la reversibilità è che il superstite sia titolare dell’assegno divorzile, che non sia passato a nuove nozze e che la data di inizio del rapporto assicurativo del defunto sia anteriore alla data della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Nel caso il defunto abbia contratto nuovo matrimonio dopo il divorzio, le quote spettanti al coniuge superstite e al coniuge divorziato titolare di assegno sono stabilite con sentenza dal Tribunale. La decisione verrà presa tenendo conto della durata del matrimonio e della convivenza more uxorio. Naturalmente, nella ripartizione peserà anche la posizione economica delle parti.

Alla luce di tutto questo, le domande finora respinte e non passate in giudicato possono essere riesaminate.

Il diritto dei figli

Hanno diritto alla reversibilità i figli minorenni alla data del decesso del titolare della pensione, i figli inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso, indipendentemente dall’età. Ne hanno diritto anche i figli maggiorenni fino a 21 anni ancora studenti di scuole o corsi di formazione professionale equiparabili ai corsi scolastici e a carico del genitore al momento del decesso, ma solo nella condizione che non prestino attività lavorativa. Stessa cosa per i figli maggiorenni fino a 26 anni di età che siano studenti universitari, a carico del genitore al momento del decesso e che non prestino attività lavorativa.

Hanno diritto alla reversibilità anche i figli studenti che svolgono un’attività lavorativa dalla quale derivi un piccolo reddito, purché questo non sia superiore a un importo pari al trattamento minimo annuo di pensione previsto dal Fondo Pensioni lavoratori dipendenti maggiorato del 30%, riparametrato al periodo di svolgimento dell’attività lavorativa.

Qui sotto le percentuali della reversibilità nel caso di uno o più figli.

La reversibilità a genitori e fratelli

In assenza del coniuge e dei figli o se, ci sono, nel caso essi non abbiano diritto alla pensione ai superstiti, possono chiedere la reversibilità anche i genitori dell’assicurato o pensionato che al momento della morte di quest’ultimo abbiano compiuto il 65esimo anno di età, non siano titolari di pensione e risultino a carico del lavoratore deceduto. In assenza del coniuge, dei figli o del genitore o se, pur esistendo essi non abbiano diritto alla pensione ai superstiti, infine anche i fratelli celibi e le sorelle nubili dell’assicurato o pensionato inabili al lavoro, non abbiano una pensione e siano a carico del lavoratore defunto.

Qui sotto la ripartizione dell’assegno nel caso di un solo genitore, di due genitori, di un fratello o più fratelli.

Come fare la domanda

L’Inps spiega che lLa domanda deve essere presentata online attraverso il servizio dedicato (vi si accede con Spid, Cie e Carta dei servizi sanitari). In alternativa, si può fare domanda tramite il numero 803.164 (gratuito da rete fissa) oppure lo 06. 164164 da rete mobile. La domanda può essere in alternativa presentata tramite enti di patronato e intermediari dell’Istituto, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi.

Varese, così funzionava la «fabbrica» dei falsi invalidi: 8 mila euro per un certificato. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.  

Sette medici specialisti e una coppia di coniugi sono considerati i promotori dell’organizzazione, che aveva «clienti» anche nel Sud Italia. False commissioni Inps di valutazione istituite solo sulla carta.  

Menomazioni. Sordità e cecità. Handicap o disabilità varie: il «sistema» garantiva di poter arrivare a ogni genere di risultato con percentuali che permettevano di far salire fino al 100% il livello di invalidità, così da beneficiare di indennità riconosciute dalla legge. Il tutto però a carico dello Stato. Un vero e proprio sistema criminale portato alla luce da un’inchiesta della Guardia di finanza di Varese coordinata dalla procura del capoluogo prealpino per la quale è stata comunicata la conclusione delle indagini a 39 persone coinvolte a vario titolo in quella che per gli investigatori è una associazione a delinquere, con reati contestati che vanno dalla truffa ai danni dello Stato alla corruzione.

Degli indagati, 32 risultano essere i «clienti» mentre 7 fra medici (specialisti in psichiatria, neurochirurgia od ortopedia e traumatologia) e una coppia di coniugi considerati i promotori dell’organizzazione. L’indagine è partita nel 2019 e quanto contestato riguarda le annualità precedenti, almeno fino al 2015. Ciascun soggetto aveva un compito predefinito nell’organizzare i servizi illeciti a clienti disposti a pagare mazzette fino a 8 mila euro a seconda della prestazione: una sorta di investimento per garantirsi un futuro tranquillo fatto di indennità illecite.

Il pacchetto era «all inclusive»: c’era chi assisteva il paziente nella presentazione della domanda di invalidità, chi lo metteva in contatto con gli specialisti compiacenti e chi lo accompagnava di fronte alle commissioni valutatrici. Al richiedente venivano poi consegnati dei certificati medici contenenti diagnosi ed informazioni rituali che enfatizzavano la condizione medica, certificati redatti senza visitare il paziente e che confluivano nella sua cartella personale esibita alla commissione valutatrice Asl (poi Ats), e in caso di revisione a quella dell’Inps. Sempre secondo le indagini dei finanzieri di Varese è stato possibile dimostrare che due medici convenzionati (accusati di far parte dell’associazione criminale) procedevano autonomamente a istituire, solo sulla carta, false commissioni Inps di valutazione, senza che gli altri componenti ne fossero al corrente. Poi, riportando gli esiti di malattie e menomazioni permanenti o croniche inventate, avviavano telematicamente la procedura che serviva al richiedente per ottenere i benefici della falsa invalidità.

L’associazione a delinquere operava non solo nel Varesotto o in Lombardia ma aveva interessi e ramificazioni estese sino al Sud Italia, infatti nel corso delle indagini è stato accertato che alcuni richiedenti, seppur residenti fuori regione, venivano fatti trasferire temporaneamente in zona presso il domicilio di altri falsi invalidi così da consentire di presentare la domanda di invalidità proprio a Varese. L’importo delle tangenti pagate e suddivise tra tutti i componenti dell’associazione ammonta a circa 400.000 euro mentre i benefici economici illegittimamente garantiti corrisponde nel solo periodo di indagine a circa 600.000 euro, senza calcolare quelli fiscali e previdenziali ancora in fase di quantificazione, tenuto conto che almeno tre indagati sono riusciti ad andare in pensione anticipatamente rispetto ai limiti previsti. In seguito alle contestazioni emerse a 13 beneficiari sottoposti a visita di revisione straordinaria da parte dell’Inps è stata revocata la percentuale d’invalidità inizialmente riconosciuta, mentre per gli altri 19 è stata sensibilmente diminuita.

·        L’Assistenza ai non autosufficienti.

Sulla pelle dei disabili. Giovanni Vasso il 26 Settembre 2022 su L'Identità.

Atteso per più di vent’anni, durerà lo spazio di un mattino. Il decreto Tariffe del ministero della Salute che mette, almeno, una parvenza d’ordine tra Lea e prestazioni, si impantanerà al cospetto della Conferenza Stato-Regioni. Non sarebbe nemmeno una grossa novità dal momento che un primo piano simile era stato già bocciato a gennaio scorso. La diffidenza c’è e non si fa scrupoli a trapelare, tra dichiarazioni ufficiali e posizioni ufficiose. Eppure, non si può più aspettare. Perché dalla definizione dei livelli essenziali di assistenza previsti dal decreto ministeriale dipende il futuro di migliaia di persone, disabili e ammalati, e quello di decine di aziende.

“Hanno già detto che lo bocceranno. Fosse così sarebbe vergognoso, un’azione nefanda in un momento così delicato per le aziende e per i cittadini”. Parole e musica di Massimo Pulin, presidente di Confimi Industria Sanità, che a L’Identità spiega: “La politica non si rende conto, forse per interessi che non voglio neanche conoscere. Dopo più di vent’anni di attesa, sebbene questa non sia una buona riforma perché non è previsto un buon nomenclatore, avremmo almeno una base su cui poter intervenire più avanti, oltre a tariffe leggermente più congrue che oggi ci vedono altamente penalizzati”. Il presidente Confimi Industria Sanità ammette: “Non so chi o se voterà contro, questo è un lavoro che è stato fatto riuscendo a portare avanti ciò che si era bloccato nel 2017”, fatto sta che “in questo decreto c’è tutto, anche l’attività ambulatoriale ma siccome non si pensa nell’interesse del cittadino, ci troveremo a dover assistere a gravi conseguenze. Bloccare tutto vuol dire far chiudere le aziende”. Non c’è nessuna altra soluzione. Pulin ne è convintissimo: “Spero che non accada, confidiamo nel buon senso della politica a favore delle imprese del settore e soprattutto di tutti quei cittadini, specialmente disabili, che non possono più essere considerati come se fossero di Serie B. Eppure accadrà perché tante Regioni hanno già dichiarato che non lo voteranno”. Per quale ragione? “Perché con il decreto tariffe si crea un precedente che può bloccare una serie di mobilità passive tra Regioni. E ce ne sono che vivono di mobilità sanitaria ma in un Paese civile ciò non è normale”.

Non è una questione solo economica: in mezzo ci sono i disabili, persone fragili che rischiano di pagare sulla loro pelle le contraddizioni di un sistema che non mette al centro la persona ma i conti da far quadrare. Massimo Pulin spiega: “Per la politica, la spesa protesica, che non è inserita direttamente nei capitoli di bilancio sanitari ma è a parte, non è un beneficio ma un costo. Far camminare chi ha subito un’amputazione è una spesa, non un beneficio. E accade persino che, pur di non fornirli di impianti talora dal valore di poche centinaia di euro, ci siano ospedali che preferiscano tenere i pazienti ricoverati per settimane, dal momento che per l’assistenza sanitaria ospedaliera non ci sono limiti da rispettare di natura economica come li ha l’assistenza protesica. Nel Nord Europa, in Francia o in Spagna, non c’è questo approccio. Anzi, è il contrario perché quest’assistenza consente di evitare interventi e di restituire le persone a una vita normale. Noi, invece, siamo diventati interventisti. Non si guarda più al bene della persona, questo è un sistema sanitario che non guarda all’individuo ma sta diventando meramente un business”.

Insomma, non c’è solo da riformare un settore cruciale e strategico come quello della sanità ma si deve cambiare l’approccio alla materia. Che è delicatissima. Occorre ripartire dai Lea e, per Pulin, è necessario che “il governo che verrà, se ne avrà le condizioni, dovrà sistemare la sanità pubblica cooperando con la parte privata” altrimenti il rischio è quello del “dissesto e a quel punto non ce ne sarà più per nessun tipo di assistenza”. Dunque “Tutti devono cominciare a capire che un quarto di passo indietro si deve fare”.

Inoltre Confimi ha presentato, insieme a Confindustria e a diverse associazioni di disabili, un decalogo diretto alla politica su alcuni dei temi che la politica non può più ignorare. Un’agenda sulle priorità da tener presente: “La prima cosa da fare è un focus sui Lea e una revisione di tutti i nomenclatori tariffari – afferma Pulin -. Poi chiediamo un sistema nazionale che permetta alle piccole e medie imprese di accedere e di partecipare a gare d’appalto. Adesso ogni Asl ha suo portale e noi come pmi abbiamo da controllare centinaia di portali, con un dispendio di energie e costi inimmaginabile. Quindi c’è la battaglia sulla certificazione dei dispositivi medici. Grazie al Ministero della Salute, a livello europeo siamo riusciti a spostare date del nuovo regolamento in materia di dispositivi medici che pende come una spada di Damocle sulle imprese. Inoltre si deve abolire la mobilità passiva tra le Regioni”. 

Gaia Terzulli per open.online il 25 agosto 2022.

Quando i sacrifici nutrono un sogno, la vita, con il suo infinito reticolo di imprevisti, può riuscire a spezzarlo. O a ritardarne la conquista. È la storia di Luca Venturelli, nato a Rimini 18 anni fa con un disturbo dello spettro autistico e già promessa dell’atletica paralimpica italiana, che dopo essersi qualificato ai campionati europei dello scorso giugno, ha visto un macigno crollargli davanti agli occhi e sbarrargli la strada. 

Il suo Quoziente Intellettivo (QI), è superiore a 75 e quindi non è ritenuto idoneo per gareggiare a livello internazionale. «Venirne a conoscenza così, all’improvviso, è stato devastante», racconta Luca a Open con la voce che tradisce l’emozione ancora forte. 

La sua qualificazione agli europei paralimpici giovanili era avvenuta con buoni risultati. Con i tempi di 2:01 e di 4:11, conseguiti rispettivamente negli 800 e nei 1500 metri, per Luca i tecnici ventilavano addirittura la partecipazione alle paralimpiadi di Parigi nel 2024. Ma un regolamento internazionale ha interrotto la sua corsa.

«Gli atleti con QI superiore a 75 sono esclusi dalle competizioni che si svolgono fuori dall’Italia», spiega la madre del ragazzo, Cristiana Delmonte. «Per la categoria delle disabilità relazionali, che è stata introdotta di recente, è stato preso il QI come unità di misura, anche se nell’autismo è spesso un indice alto che non va a braccetto con le componenti adattive della persona», sottolinea. Un po’ come se, per armonizzare il più possibile tra loro forme diverse di disabilità, sia stato scelto come parametro di riferimento un numero. 

Il numero che interrompe un sogno

E per Luca, che ha un QI pari a 97, la partita è finita prima ancora di iniziare. Ma la Fispes (Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali), società a cui il ragazzo è iscritto, «aveva già da tempo questo mio dato. Non riesco a spiegarmi perché sia venuto fuori solo all’ultimo che non avrei potuto accedere ai campionati», si chiede Luca. «Mi ha spezzato il cuore perché sentivo di avere delle possibilità che non ho potuto giocarmi». 

Anche il modo in cui ha dovuto apprendere la notizia è stata una doccia gelata. «I tecnici di gara della Fispes l’hanno comunicato a mio padre e a un mio allenatore quando mi ero già qualificato. I miei mi hanno avvisato subito ed è stato un colpo durissimo che lì per lì non sono riuscito a elaborare».

La reazione della famiglia

Senza darsi per vinti, i genitori di Luca hanno chiesto spiegazioni al presidente della Fispes, Sandrino Porru, già atleta azzurro paralimpico. Ma anche lui «ha le mani legate», spiega la madre di Luca. «Tutta la Fispes si è schierata dalla parte di mio figlio e proveranno a fare di tutto per sottoporre il suo caso al Comitato nazionale paralimpico, che poi potrà affrontarlo a livello internazionale».

È questo il desiderio più grande di Luca, «che venga introdotta una categoria a parte per tutti gli atleti paralimpici come me, che hanno un QI superiore a 75». «Lo spettro autistico presenta tante variabili e una soluzione al problema potrebbe essere proprio una classificazione a parte», gli fa eco la madre. 

Il post di Luca su Instagram

Nell’attesa che le istituzioni facciano la loro parte, Luca ha deciso di portare il suo caso in quella grande arena virtuale capace di dare risonanza anche ai dolori e di affratellare quanti li vivono e condividono per sentirsi, forse, un po’ meno soli. Su Instagram il video del diciottenne racconta l’amarezza di una sconfitta immeritata, ma anche la voglia di riscatto e di riuscita che alla sua età urgono come un fuoco dentro.

«Il mio percorso nell’atletica paralimpica è  stato fermato e non potrò partecipare ai prossimi campionati europei a causa del mio QI superiore a 75», spiega Luca. «Molto spesso le persone autistiche hanno QI molto alti, ma questo non significa che non abbiano difficoltà in molti ambiti: sociali, verbali, sensoriali e nelle autonomie. Il QI intellettivo non ci rappresenta», scandisce serio. 

«Purtroppo c’è un regolamento internazionale che non è specifico per gli atleti autistici, ma per una grande categoria “cognitiva relazionale” che contiene molte persone diverse. Questa regola mi ha fermato, ma non fermerà la mia voglia di allenarmi e gareggiare. Lo sport è la mia vita. In questi giorni ho capito che il mio sogno è correre ed è comunicare e aiutare».

Quel cavallo blu (e la lezione di Basaglia) per rompere il muro della diversità. Francesca Pini su Il Corriere della Sera il 20 agosto 2022.

Che frutti ha dato l’arte italiana, emersa dalla scena underground, dal ‘90 ad oggi? Lo racconta una bella esposizione a Villa Arson, a Nizza, dedicata al «futuro dietro le spalle»: con una statua equestre che ricorda l’opera dei malati al manicomio di Trieste 

Febbraio 1973, il cavallo blu ribattezzato «Marco Cavallo» costruito in cartapesta dai pazienti di Franco Basaglia viene portato fuori dal manicomio di Trieste

Trent’anni sono un giusto spartiacque per capire che frutti ha dato l’arte italiana, emersa dalla scena underground, dal 1990 ad oggi, lasciandosi alle spalle Arte Povera e Transavanguardia. A Nizza sulla Costa Azzurra, Villa Arson, edificio dalla forte personalità modernista, ospita la mostra The future behind us: qui il curatore, Marco Scotini, ha scelto 20 artisti di oggi che hanno impresso un segno nella coscienza collettiva con diverse contro-narrazioni, prese di posizioni politiche e femministe (come il manifesto scritto da Carla Lonzi nel 1977, pensieri ripresi da Chiara Fumai in una performance), contro-indagini visive come quelle di Alterazioni video sul G8 di Genova. La bandiera della liberazione sessuale gay è il movimento Fuori.

Ne deriva una panoramica densa , complessa, antiborghese, che ci riporta agli Anni 70 facendo anche memoria della rivoluzionaria legge 180 (detta Basaglia, 1978) che abolì gli ospedali psichiatrici. Così Stefano Graziani concentra le sue immagini sul Museo Basaglia mentre per lo spazio della Villa il duo Claire Fontaine ha riprodotto la scultura di quel cavallo blu, realizzata nel 1973 dagli internati del manicomio di Trieste in onore di quel loro cavallo salvato dal macello e addetto a tirare il carretto della lavanderia. Fecero un’ opera tanto alta che, per farla uscire, si dovette rompere il muro del manicomio, inneggiando a una futura libertà.

Il tono della mostra scava nelle implicazioni tra arte e società, nella sua installazione Francesco Arena riflette sulla morte di Giuseppe Pinelli (1969), calcolando in metri e centimetri tutte le misure di quell’evento (passi compresi) che si consumò alla Questura di Milano dove l’anarchico venne interrogato per la strage di piazza Fontana, precipitando dalla finestra. La mostra resterà aperta fino al 28 agosto. Le opere esposte sono di: Alterazioni Video, Francesco Arena, Massimo Bartolini, Rossella Biscotti, Paolo Cirio, Claire Fontaine, Céline Condorelli, Marie Cool Fabio Balducci, Danilo Correale, Irene Dionisio, Chiara Fumai, Stefano Graziani, Alice Guareschi, Adelita Husni-Bey, Francesco Jodice, Rä di Martino, Stefano Serretta, Stalker, Bert Theis, Luca Vitone

Toccata e fuga nei ricordi fra le mura del manicomio. ANILDA IBRAHIMI su Il Domani il 26 agosto 2022

Sono tornata a casa dopo 15 anni, per il funerale di mia nonna. Quando ho risposto al telefono ho sentito una voce che mi diceva: aiutami. 

Ho chiesto a mia mamma che fine avesse fatto il mio compagno di classe Ronald e mi ha detto che si sarebbe informata sul manicomio in cui era ricoverato. 

Quando lo vado a trovare mi chiede di nuovo di aiutarlo: non l’ho mai toccata quella ragazza, mi dice, e tu sai perché. 

Il tavolo è ancora apparecchiato. I resti del pranzo di noi tre, mamma, papà e figliola, sono liquefatti. Sono le quattro di pomeriggio, aspetto che diminuisca la calura. Da un’altra parte ho una casa tutta mia, da un’altra parte io sono la madre. Qui si riprende da dove tutto era rimasto. Cioè all’ultimo pranzo di 15 anni fa, prima che me ne andassi e sparecchiare toccava me. Sono ritornata per un funerale, mia nonna materna è mancata all’improvviso, le parole di mia madre al telefono erano queste. La nonna, aveva solo 94 anni.

Lo squillo del telefono fende il silenzio. I miei genitori riposano nella loro camera. Li immagino sdraiati, ognuno nel suo letto con la faccia rivolta al muro. Mia madre si era trasferita nell’altra stanza, dopo che noi figli ce ne eravamo andati lo spazio c’era. Papà l’aveva seguita, mi annoio da solo, le aveva detto. Così lei era ritornata, ma al posto del letto matrimoniale ne aveva messi due.

Il telefono continua a squillare. Nessuno di loro due si muove. Le mie mansioni superano quelle del passato, una volta si rispondeva per gerarchia, a me toccava quando anche mamma era assente.

Aiutami, dice una voce maschile. Lo ripete più volte nel giro di pochi secondi.

Chi parla? Dico io, credo che abbia sbagliato numero.

L’ultimo banco a sinistra, dice velocemente per non lasciarmi il tempo di mettere giù.

Scivola, come un’onda verso il mare, canticchia lui flebilmente per darmi un aiuto.  

Andamento lento, rispondo io come se fossi in un quiz televisivo e ne avessi colto al volo l’aiutino del conduttore.

Rony, sei tu?

Sei l’unica che può farlo, dice lui e si interrompe la linea.

Chi era al telefono? Chiede mia madre più tardi.

Nessuno, rispondo io. Avevano sbagliato numero.

DOV’È FINITO 

Quella notte non riesco a prendere sonno. Mi alzo e vado a cercare le foto del liceo. Stanno nello stesso comodino vecchio, quello che la nonna morta aveva dato in dote a mia madre. Le case dei genitori ad un certo punto si trasformano in musei, nulla si sposta dal loro posto.

Eccoti qui Rony mio, alto e magro, in un lupetto color panna. I capelli biondi divisi al centro come quelli di Jon Bon Jovi, non esattamente della sua lunghezza anche se lo avresti voluto.

Cantava le sue canzoni come anche quelle di Tullio che chiamava per nome. Grande batterista, diceva, l’unico italiano che del vero rock ne capisce qualcosa. Io del vero rock non capivo granché, ma mi fidavo di Rony. Trottolavo accanto a lui, a volte conciata come Madonna altre come Loredana Bertè. Nella versione della prima, mettevo un fiocco in testa e un neo finto con la matita completava il travestimento. La Bertè era più difficile, mi mancava sia la minigonna di jeans che gli stivali. Compensavo con i capelli, vaporosi e spettinati. Aggiungevo anche l’atteggiamento. Non che la conoscessi, cercavo solo di imitare i suoi movimenti in scena. Il mio palco era il cortile della scuola durante la ricreazione.  

Eravamo bizzarri noi due. Lo chiamavano, “il matto”. Io matta non lo ero anche se avrei tanto voluto. Fingevo di esserlo. E lui di essere normale. Nessuno dei due era credibile, ci bastava essere felici e forse insieme lo eravamo. 

La mattina dopo, seduti in balcone a prendere il caffè, chiedo a mia madre, sai per caso dov’è finito Ronald?

No, dice lei. Ma chiedo.

A chi? Dico io.

A sua madre, risponde lei. La vedo spesso al mercato della frutta. L’ho vista anche ieri, mi ha chiesto di te e le ho detto che eri venuta per salutare tua nonna. Da morta, aggiunge dopo un po’.

Vede che ignoro il suo sarcasmo e riprende il discorso.

Dirò a Rony che è ritornata, mi ha detto lei, prima di salutarci.

E di lui non hai chiesto?

No, dice lei, povera donna, avere un figlio pazzo non deve essere facile. Non chiedo mai, non voglio rinnovare la sua ferita. Lo dice come se si trattasse del rinnovo della patente.

Ci ripenso un momento e dico, ma se sai come stanno le cose cosa le vuoi domandare?

Sei tu che lo volevi sapere dove era finito, dice lei girando il cucchiaino dentro la tazza. Chiedo e ti dico in quale manicomio è ricoverato. Magari sta ancora in quello della nostra città.

Mi verso il caffè addosso, la camicia da notte si inzuppa tutta. Ha fatto carriera Rony, penso io, è salito di grado, da matto a pazzo patentato.

Manicomio? Riesco a dire con un filo di voce.

L’espressione “dov’è finito” da parte mia riguardava i paesi del mondo dove la nostra generazione si era sparpagliata dopo la caduta del muro di Berlino. La geografia degli spostamenti di Rony invece si era limitata ai pochi manicomi del paese.

Eh si, riprende mia madre suggendo il caffè, dopo l’ultimo accaduto… e si stringe nelle spalle.

Io non so il primo, non so l’ultimo, nulla so di Rony.  

Così lei mi racconta che la prima volta si era tagliato le vene nel lavandino di casa. Affonda la sua lingua nera per il caffè appena bevuto nei particolari della vicenda. Sua madre, Iva, butta giù la porta del bagno e lo trova piegato in avanti con le vene aperte dal rasoio mentre guarda il sangue che scorre. I polsi allineati vicino allo scarico, un lavoro molto pulito il suo. Stava svuotando il sangue dal suo corpo come se fosse una bottiglia, nessuno schizzo attorno. Chissà se in quel momento non pensava a sua madre che avrebbe dovuto pulire, è sempre stato cosi legato a lei. Rony era uno che aveva cura di tutto ciò che amava.

Penso a Iva, a quella donna minuta stretta sempre nei suoi tailleur in stile Margaret Thatcher. Persino i capelli erano uguali a quelli di Margaret, a differenza sua non era nata baronessa e non era diventata una lady di ferro. O forse si, ho sempre avuto dei dubbi sulla seconda. Iva era una ragazza madre trasferitasi dalla capitale in provincia per crescere suo figlio. Si era rifiutata di regalare suo figlio allo stato. Quella puttana che aveva aperto le gambe a qualcuno prima del matrimonio, aveva anche precluso il futuro del figlio, nelle braccia dello stato sarebbe cresciuto meglio. Sarebbe stato il bastardo dello stato, anziché di quella donna poco di buono.

Chissà se la sua ossessione fisica nei confronti della Thatcher non era nata per proteggere il figlio, qualcuno può associare l’aspetto di Margaret a una puttana?

Me la ricordo quando andavo a studiare a casa loro, finalmente suo figlio aveva degli amici, cioè gli amici ero io, ma a Iva piaceva parlare di me al plurale.

Tesoro, strillava quando mi vedeva arrivare, i tuoi amici stanno già qui!

Non so se all’epoca mia madre sapesse di tutte le mie visite, in ogni caso non mi ha mai vietato di andare a casa di quella donnaccia e non ha mai chiamato mio amico “il bastardo”.

UNA BRUTTA FACCENDA 

E l’ultimo accaduto? Chiedo veloce avendo paura che me li racconti tutti.

Finché si era trattato di mettere in pericolo la sua vita la povera Iva era riuscita a tenerselo a casa.

L’ultima vicenda non riguardava più loro due.

C’era una giovane ragazza che abitava vicino a loro.  Madre e figlio stavano ancora nell’ultimo piano della palazzina di cemento colato residuo della società dell’uguaglianza. Accanto al cemento operaio erano nate le ville dei nuovi ricchi.

Non erano più uguali, ma entrambi guardavano il mare.

La vicina ricca di Rony amava leggere.

La vedo all’imbrunire seduta sulla riva a guardare il buio del mare. Come facevo io del resto e tutti quelli che leggono. E vedo Rony a passeggiare con lo sguardo spaesato. In mano un libro, di sicuro sarà stato Cioran, conoscendo i suoi gusti.

Hanno parlato la prima volta, così per caso. La ragazza ha iniziato ad aspettarlo, si ritrovano li ogni sera. Due anime perse e solitarie, gli occhi che brillano nella condivisione delle letture. Alle loro spalle sfrecciano le macchine Porche e Maserati con la musica a tutto volume. A bordo ragazze sue coetanee, i guidatori hanno l’età di Ronald.

La madre della ragazza a differenza della mia si vede che non era di larghe vedute.  O forse il padre, chi lo sa. Che la loro figlia andasse in giro con un pazzo sopravvissuto a diversi tentativi di suicidio tra altro, non era una buona cosa. Prima o poi le avrebbe fatto del male. Era solo una questione di tempo. Tutto si era risolto in fretta con Rony rinchiuso nel manicomio.

Una brutta faccenda, continua mia madre, con l’accusa di molestie sessuali è difficile scamparla oggigiorno. Ciò che interessa a tutti è chiudere in fretta e punire l’accusato.

Il colpevole, dico io.

L’accusato è sempre colpevole, dice mia madre e se non lo è per la giustizia lo è per la gente.

Per Ronald le cose si erano messe davvero male, il direttore dell’ospedale psichiatrico, nonché un ex deputato, è il padre di quella ragazza. È stato sfortunato, finisce lei il racconto.

Non capisco se si riferisce alla vita di Rony o alla posizione del padre della ragazza. Lascio cadere il discorso, con mia madre non è facile venirne a capo.

PACCHETTO DI SIGARETTE 

L’ospedale psichiatrico sta tra la collina e il mare. Mi chiedo se Rony sarà stato fortunato ad avere una camera vista mare. Ci ha vissuto tutta la vita di fronte.

Ah, mi fa il guardiano, vai a trovare il fusto che finisce un pacchetto di sigarette in pochi minuti? Sei una parente? Annuisco, accennando un mezzo sorriso. Non ricordo che lui fumasse ma ci siamo persi di vista quindici anni fa, quando io me ne andai via dopo il liceo.

 Lo vedo arrivare accompagnato da una portantina. Ha il collo talmente lungo e sottile che la testa gli pende leggermente in avanti. Come le margherite appassite dopo essere state colte dal prato. Mi riconosce subito e sorride da lontano, penso compiaciuta che gli anni sono stati clementi con me. Il pacchetto che stringe nella mano sinistra trema. Mi chiedo come faccia a fumare, non ha un accendino. E l’uniforme dell’ospedale non ha tasche.

I primi cinque minuti non ci diciamo nulla. Nel frattempo il pacchetto è già dimezzato. Tutti gli infermieri che passano si fermano davanti a lui. Lui allunga la mano e loro prendono le sigarette. Grazie amico, dicono facendo il primo tiro mentre si allontanano.

Ho tanti amici qui, dice lui, mi vogliono bene. Certo, non come me ne vuole mia madre, aggiunge dopo un po’ e poi sorride. Mi stupiscono i suoi denti bianchi che brillano sotto il sole.

Facciamo un giro? Dico io.

Aiutami mi dice lui, al secondo giro attorno alla struttura. L’erba è secca e non curata, ti allontani un po’ e diventa una discarica a cielo aperto. Ricordo la festa di maturità, il locale vecchio e noi due fuori seduti sull’erba, uguale a questa. Due birre, in mano i rivoli che ci scendevano sul mento dalle risate. Diciottenni che sognavano il mondo ed eccoci qui in un attimo, io la giornalista arrivata dall’estero e madre di due figli quasi adolescenti. Lui, ricoverato in un manicomio come pericolo sociale. Non vedo pericoli in lui, ma forse perché è mio amico.

Aiutami, mi dice di nuovo. Non l’ho mai toccata quella ragazza, aggiunge lui. E tu lo sai il perché.

Vorrei dirgli che gli credo e che il suo segreto è stato sempre al sicuro con me.  

RICORDI E SEGRETI 

L’orario delle visite è finito, lo lascio davanti alla sua stanza, conto otto letti. Almeno è vista mare, mi consolo mentre aspetto in fila davanti alla stanza del direttore.

Leon, si presenta lui. Una voce calda e profonda, quella voce che noi donne definiamo sexy. Mi allunga la mano, tozza e grassoccia. Si alza in piedi, il camice bianco salta due bottoni all’altezza dell’addome.

Perché t’interessa cosi tanto quel paziente? Mi chiede a bruciapelo.

Eravamo compagni al liceo, dico io. Lo conosco bene.

Sposto i capelli da un lato all’altro senza sosta, mi mordo le labbra, cose che faccio quando sono nervosa.

Nessuno conosce gli altri molto bene, risponde lui. La mente umana poi… e non finisce la frase.

Lo stato mentale del paziente è stato valutato da una commissione di psichiatri, riprende lui.

Ne faceva parte anche lei?

Ah no, dice lui, io non sono uno psichiatra.

Penso alle stranezze del mondo, uno dirige un ospedale psichiatrico senza essere psichiatra.

Gli dico che non ha toccato sua figlia, non avrebbe mai potuto.

Cosa fai nella tua vita da straniera? Mi chiede lui ignorando le mie parole.

Cose, rispondo io stringendomi nelle spalle.

E qui lui fa una pausa aspettando che io dica altro.

È un bene che hai smesso di suonare il pianoforte, eri davvero negata.

Sorrido, è vero balbetto, erano i miei genitori che ci tenevano tanto. Mi chiedo come fa questo signore a sapere così tante cose di me. Lo guardo bene, cerco una traccia che potrebbe ricordarmi qualcosa.

Bach si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse potuto sentirti nella sua Toccata e fuga, aggiunge lui sottovoce.

Mi alzo di getto, spingo la sedia indietro e prendo la borsa poggiata sul tavolo. Sposto i fogli poggiati che volano sul pavimento, ricette ed altre condanne che aspettano la sua firma. Agile si sposta dalla mia parte, raccolgo io, dice come se io avessi in mente di riordinare la sua scrivania.  

Faccio due passi indietro, devo raggiungere la porta in fretta.

Sei sempre bella, continua lui, e non hai smesso di provocare gli uomini tu!

Corro verso le scale, mi fermo alla panca dove ero seduta con Rony. Ho bisogno di fumare, ho smesso alla seconda gravidanza ma ora voglio una sigaretta. In mezzo all’erba secca ne vedo una, sarà caduta a Ronald che le offre ai suoi amici. La raccolgo, chiedo ad una portantina che passa se ha da accendere. Respiro il fumo a pieni polmoni, il sole mi accarezza il viso. Rimango cosi finché non sento bruciarmi le dita.

Mi hai dato il segnale, sento rimbombare la sua voce. Che cosa credi, che non ho visto come spostavi i capelli mordendoti le labbra? Ora non ti muovere, se provi a gridare mia moglie arriverà ed è con te che se la prenderà.

Le sue mani cicciotte mi alzano il vestito, una afferra il mio seno l’altra apre la zip dei pantaloni. Il pianto della bambina nella stanza accanto, la voce della mia professoressa di pianoforte che cerca di calmarla. Mi penetra con un colpo secco, le mie mani stringono le partiture. Vai a pulirti, mi ordina lui indicandomi il bagno. Rivoli di sangue adornano le mie cosce magre, vomito piegata in due. il sangue mi ha fatto sempre impressione, sarà per questo penso. Esco dal bagno, la mia professoressa stringe la bambina accanto al pianoforte.

Cosa hai fatto? Dice lei. Io balbetto, lui seduto sul divano firma delle ricette.

Le partiture, incalza lei, indicandole, come fai a trattarle cosi?

Non mi sento bene, dico io e corro fuori.

Ti devo dire un segreto, dico a Rony il giorno dopo. Siamo a casa sua, Iva ci ha portato i pancakes al miele. Anch’io dice lui ma prima tu.

Non sono più vergine, dico io. Ieri ho perso la verginità.

È stato bello? Chiede lui.

No, dico io, era una cosa brutta e dopo ho vomitato.

Nei romanzi lo raccontano diversamente, risponde lui. Forse hanno ragione, altrimenti nessuno vorrebbe farlo. Gli racconto del marito della professoressa di pianoforte, tutta colpa della figlia che piangeva aggiungo io. La odio quella bambina.

Rimaniamo in silenzio a lungo, mangiamo i pancakes e il miele ci cola tra le dita.

Se sei preoccupata che non ti sposerà nessuno, io ti sposo, dice lui leccando il miele. Tanto io non potrò mai sposare una donna.

Ma io sono una donna, dico io.

No dice lui, sei la mia amica. Ci divertiremmo un sacco noi due, lo immagini?

FUGA 

Me ne sono andata via dal paese qualche mese dopo e qualcuno mi ha sposata. Rony, il mio Rony, è rinchiuso in un manicomio per molestie verso una ragazza, lui che ama gli uomini. Sono l’unica a sapere il suo segreto. E lui il mio.

Ed è sicuro che io possa salvarlo, si fida di me.  

Aveva ragione il direttore, nessuno conosce gli altri così bene.

Torno a casa a piedi, mi fermo al mercato della frutta. Cerco con gli occhi la pettinatura della Thatcher. Forse Iva non passa tutti i giorni, a che le serve tanta frutta da sola? Prima di andare a trovare il figlio, passerà dal tabaccaio.

Come stava il tuo amico? Chiede mia madre.

Bene, dico io. Riceve le cure necessarie.

Mi metto seduta sul divano. Lei mi porta il caffè. Io compongo il numero dell’agenzia di viaggi. Mi mettono in una lunga attesa, mi tiene compagnia Bach in re minore. Il mio lavoro è così, dico a mia madre, allontanando il telefono dall’orecchio.

Pronto? Finalmente quella fastidiosa musica ha smesso.

Di pomeriggio saluto i miei genitori con la promessa si ritornare presto.

Magari per il prossimo funerale, dice mia madre. Salgo sul taxi e quando costeggia il muro alto del manicomio io abbasso lo sguardo e giro lentamente la testa verso il mare calmo.

ANILDA IBRAHIMI. Anilda Ibrahimi è nata a Valona nel 1972. Ha studiato letteratura a Tirana. Nel 1994 ha lasciato l'Albania, trasferendosi prima in Svizzera e poi, dal 1997, in Italia. Il suo primo romanzo Rosso come una sposa è uscito presso Einaudi nel 2008 e ha vinto i premi Edoardo Kihlgren - Città di Milano, Corrado Alvaro, Città di Penne, Giuseppe Antonio Arena. Per Einaudi ha pubblicato anche il suo secondo romanzo L'amore e gli stracci del tempo (2009 e 2011, di cui sono stati opzionati i diritti cinematografici, premio Paralup della Fondazione Nuto Revelli). I suoi romanzi sono tradotti in sei Paesi. Nel 2012 ha pubblicato, sempre per Einaudi, Non c'è dolcezza, nel 2017, Il tuo nome è una promessa, nel 2022Volevo essere Madame Bovary.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 24 giugno 2022.

Vorrei conoscere gli autori del questionario in cui si chiede alle famiglie con un disabile a carico: «Da zero a quattro, quanto ti vergogni del tuo familiare?». Non è solo la brutalità della domanda, quanto la pretesa di ridurre ormai tutto a un numero, anche i sentimenti. Ho letto che si tratterebbe di uno «strumento scientifico», una «modalità di autovalutazione dello stress semplice ma efficace» per individuare chi ha più diritto ai fondi della Regione.

Non una fesseria estemporanea, dunque, ma «scientifica». La precisazione fa venire ancora più paura e voglia di chiedere agli estensori: «Da zero a quattro, quanto vi vergognate di avere perso ogni residuo di intelligenza emotiva e di esservi trasformati in algoritmi che camminano?».

Il questionario (poi ritirato per eccesso di figuraccia) è stato diffuso a Nettuno, cittadina del litorale laziale con meno di 50 mila anime. Le famiglie interessate saranno state poche centinaia. Non era possibile incontrarle di persona e ascoltarne i problemi e i patemi, che nemmeno un genio riuscirebbe a condensare nella spiccia aridità di un numeretto?

Tanti anni fa - era un'estate afosa, anche se non come questa - assistetti mio padre nella fase terminale della sua malattia. Ricordo il mio stato d'animo, un alternarsi di speranza e abbattimento, di desiderio che finisse subito e che durasse per sempre. Se qualcuno mi avesse chiesto di dare un voto «da zero a quattro» a quello che provavo, gli avrei tirato da zero a quattro cazzotti.

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 24 giugno 2022. 

Quanto ti vergogni di tuo figlio? Quanto ti senti in imbarazzo per il suo comportamento? E quanto risentimento provi nei suoi confronti? Indicalo facendo una crocetta su un punteggio che va da zero a quattro. Con una specifica: uno significa poco, due moderatamente, tre parecchio e quattro molto. Questa la richiesta fatta dal Comune di Roma alle famiglie dei disabili gravissimi, per accedere ai fondi destinati ai caregiver.

Padri e madri sono stati invitati a fare una valutazione, come se dovessero dichiarare il loro grado di soddisfazione dopo aver trascorso una giornata in una spa, parlando invece addirittura di vergogna provata per avere un figlio e una figlia con una disabilità gravissima. 

Un'iniziativa-shock, denominata " Caregiver burden inventory", definita però « uno strumento di valutazione del carico assistenziale, in grado di analizzarne l'aspetto multidimensionale » . Di più: « Uno strumento di rapida compilazione e di semplice comprensione ». Del dolore che provoca a una madre o a un padre nel dover indicare addirittura quanta vergogna proverebbe per avere un figlio disabile nessuno sembra essersene curato. Ai caregiver viene anche chiesto se desiderano poter fuggire dalla loro situazione, se sono arrivati al punto di non andare più d'accordo con gli altri familiari e persino se prendersi cura di quei figli, la cosa più preziosa per loro, crea problemi di coppia. 

Il questionario è stato ritenuto dagli uffici comunali di Roma utile a misurare lo stress di chi assiste un disabile gravissimo. Ed è stato suddiviso in cinque sezioni: carico oggettivo, psicologico, fisico, sociale ed emotivo. Ma per molte famiglie non è stato altro che l'ennesimo schiaffo, uno dei tanti, sicuramente troppi, ricevuti da chi gestisce situazioni difficilissime e nelle istituzioni fa fatica a trovare veri alleati.

A rendersi subito conto che quelle domande sono inaccettabili sono state due associazioni in prima fila a sostegno dei caregiver, " Oltre lo sguardo" ed " Hermes", che hanno chiesto un incontro all'assessorato capitolino alle politiche sociali. «Ci hanno ricevuto subito - assicura Loredana Fiorini, presidente di "Hermes" - e assicurato che avrebbero avviato un confronto con la Regione Lazio. Il questionario parte del resto dalla delibera regionale sui caregiver, che finalmente riconosce tali figure, ma come emerge da questa vicenda c'è ancora molto da fare ». Sinora nel Lazio sono stati effettuati corsi formativi sulla disabilità e sono stati creati gruppi di auto mutuo aiuto. Bene quegli interventi, ma il questionario è inaccettabile.

«Lo stress - sottolinea la presidente Fiorini - non va misurato, è risaputo che c'è». Chi si prende cura di un disabile gravissimo più che contributi e bonus chiede servizi, assistenza e riconoscimenti. Questo chiedono i caregiver di Roma e del Lazio » , sottolineano da " Hermes". E sicuramente non si vergognano dei loro figli.

Un caso su cui sta dando battaglia la consigliera regionale di Fratelli d'Italia, Chiara Colosimo.

«Quelle domande - afferma l'esponente di FdI - che a nostro avviso sono illegittime e non si capisce a cosa servano, offendono la dignità delle persone che fanno la cosa più bella del mondo, cioè si prendono cura dei propri cari, praticamente sempre supplendo alla mancanza delle istituzioni». Sulla stessa linea la consigliera regionale dem Eleonora Mattia. 

Una scivolata a cui il Campidoglio sta cercando di porre rimedio. « Dalle prime segnalazioni ricevute - assicura l'assessora alle politiche sociali Barbara Funari abbiamo iniziato a valutare come poter recuperare questa situazione così spiacevole. Chi non ha voluto aderire al questionario è stato comunque sinora ugualmente inserito nelle liste per caregiver familiari e abbiamo chiesto alla Regione, ricevendo immediatamente rassicurazione in tal senso, di togliere quel tipo di valutazione dello stress». 

Gianluca Nicoletti per “la Stampa” il 24 giugno 2022.

Sfido chiunque ad avere il coraggio di chiedermi quanto io possa vergognarmi di mio figlio disabile. Non risponderei insultando, proverei solo un'infinita pena per quella povera persona che qualcuno avrà nutrito con i liquami della più bigotta ignoranza. Alludo a quel funzionario del Comune di Nettuno che ha ideato il modulo che, famiglie come la mia, dovrebbero compilare per ottenere fondi della Regione Lazio. Le domande per avere quei quattro soldi, che sembrerebbero elargiti come premio alla virtù, hanno il sentore dell'autodafè dei tribunali dell'Inquisizione.

«Da zero a quattro quanto ti vergogni del tuo familiare? Quanto risentimento provi nei suoi confronti? Quanto non ti senti a tuo agio quanto hai amici in casa?». E' forse un sistema per sondare la sincera e schietta vocazione dei genitori a sostenere quel macigno che sono costretti a portare sulle spalle? E' necessario un interrogatorio così insulso per dare qualche spicciolo a persone che si sobbarcano oneri uno Stato civile dovrebbe fare suoi? La piccineria di chi ha ideato il questionario non arriva a capire che, se io provo vergogna per un figlio fuori standard, non è perché sia un meschino genitore.

La colpa è piuttosto nell'arretratezza di chi mi circonda, che non ha strumenti culturali sufficienti per elaborare lo stigma arcaico e putrescente verso gli umani "imperfetti". Educare i cittadini a non far sentire l'imbarazzo di un figlio disabile è compito delle istituzioni, della scuola, dei servizi sociali, di chi registra e sostiene il disagio familiare. In pratica le stesse persone che a Nettuno si rifanno al più detestabile e ammuffito retaggio di carità pelosa, per cui mi danno la scodella di zuppa se confesso le mie colpe e recito l'atto di dolore.

Scherziamo? E' denaro pubblico e non si tratta di un regalo, sono le briciole di quello che dovrebbe essere riconosciuto a chi si fa carico delle inadeguatezze del servizio pubblico, dove ancora prevale un concetto stantio di gestione della fragilità, che sembra far tutto per incentivare lo stoccaggio massivo in strutture sontuosamente retribuite. Voglio rispondere di persona a quel sondaggio, mettendomi nei panni dei tanti genitori di Nettuno che hanno dovuto subire questa ennesima mortificazione. Si mi sono vergognato di mio figlio, tantissimo e per tantissimo tempo.

Da zero a quattro mi sono vergognato a livello dieci. Mi sono vergognato quando i compagni di classe facevano le feste e non lo invitavano, quando gli altri genitori si lamentavano con gli insegnanti perché strillava in classe. Mi sono vergognato quando dovevo certificare ogni anno che non fosse stato "miracolato", mi sono vergognato quando mi sono trovato solo con lui mentre per i suoi coetanei sia aprivano le porte alla vita adulta. 

Soprattutto ho provato vergogna quando, pochi giorni fa, è venuta a casa mia l'assistente sociale farci firmare un foglio. Si comunicava che il contributo per il caregiver alla madre era stato di colpo dimezzato. Questo, per inciso, non è avvenuto solo nel Lazio ma anche in altre regioni d'Italia. Vorrei però dire una cosa al gran penitenziere del Comune di Nettuno, l'arbitro delle nostre vergogne e il giudice della nostra accettazione della "prova" di essere genitori colpiti dalla sfiga.

Se potessi tornare indietro di venticinque anni, e mi fosse dato di scegliere, avrei detto no grazie, preferisco un figlio che non debba dipendere da me come un bebè, anche se con barba e baffi. Si ma visto che il figlio mi è venuto così e sono felice di tenermelo con me, dopo le vergogne che ho confessato e di cui non sento alcun pentimento, aggiungo che per suo merito ho anche maturato una spudoratezza che mi fa persino paura.

Assieme a lui mi sento fortificato di un'impudicizia estrema, che tra le sue scartoffie non sarà consentito nemmeno d'immaginare. Mi sento così scostumato quando con orgoglio me lo porto ovunque che, se la poca vergogna veramente avesse un prezzo, lei dovrebbe coprirci d'oro. 

“QUANTO TI VERGOGNI DEL FAMILIARE DISABILE? QUANTO RISENTIMENTO PROVI NEI SUOI CONFRONTI?” Le domande del “questionario shock” sui caregiver hanno risposte scomode. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 25 giugno 2022

Raramente ho avvertito un disagio così profondo come nel leggere la polemica sul questionario del comune di Nettuno rivolto ai familiari che hanno a carico persone con disabilità.

Cosa c’è di scioccante, di illeggibile, di violento in queste domande? Nulla, a parte l’ignoranza dei giornalisti e dei politici (Matteo Salvini e Giorgia Meloni in testa) che le hanno usate per attaccare la giunta Gualtieri.

Non erano brutali le domande del questionario, è brutale il voler rimuovere con la retorica dell’assistenza come missione, del sacrificio come slancio appagante.

Raramente ho avvertito un disagio così profondo come nel leggere la polemica sul questionario del comune di Nettuno rivolto ai familiari che hanno a carico persone con disabilità. Un polemica accompagnata da titoli come “Questionario shock”, “Il questionario della vergogna”, “Le (irricevibili) domande sui figli disabili nel questionario per caregiver”. E tutto perché nel suddetto questionario erano incluse domande come: “Quanto ti vergogni del familiare disabile?”, “Quanto risentimento provi nei suoi confronti?”, “Senti che stai perdendo vita?” e così via.

Ora, a parte che anche un bambino, con una semplice ricerca su Google, si accorgerebbe che queste domande fanno parte di schede di valutazione standard e internazionali dei caregiver (familiari o operatori) e che sono presenti nei siti delle Asl delle varie regioni d’Italia, la vera questione è: cosa c’è di scioccante, di illeggibile, di violento in queste domande?

Nulla, a parte l’ignoranza dei giornalisti e dei politici (Matteo Salvini e Giorgia Meloni in testa) che le hanno usate per attaccare la giunta Gualtieri e il distretto socio sanitario della regione Lazio, innescando una campagna di indignazione ignobile.

IL PROBLEMA NON SONO LE DOMANDE

E lo dico perché so di cosa parlo, visto che ho una madre in una rsa e un padre di 88 anni gravemente malato che vive in casa con me. Visto che sono a tutti gli effetti la caregiver di mio padre e conosco i caregiver di mia madre, li vedo occuparsi di decine di disabili, osservo la cura e la pazienza con cui calmano un anziano che urla disperatamente “mamma” o con cui imboccano una donna che a malapena schiude le labbra. 

Io mi sento accarezzata e compresa da quelle domande perché sono domande formulate da chi conosce la pressione fisica e psicologica che subisce il caregiver, una pressione che prescinde dall’amore per il familiare disabile e che va raccontata a voce alta, senza vergogna e sensi di colpa.

Quelle domande sono lucide e modellate sull’esperienza e l’ascolto, l’indignazione di questi giorni è invece il risultato di scarsa conoscenza del ruolo del caregiver e del fardello che porta sulle spalle.

Non erano brutali le domande del questionario, è brutale il voler rimuovere con la retorica dell’assistenza come missione, del sacrificio come slancio appagante, della malattia come benedizione una verità inconfutabile: assistere quotidianamente una persona non autosufficiente logora e scarnifica, divora tempo per sé stessi, inasprisce i rapporti con gli altri familiari, fa sentire inadeguati e onnipotenti, martiri e assassini in un’alternanza che destabilizza, allontana il futuro e sfianca, in un lotta intestina, perenne, tra l’amore e il risentimento.

IL DIRITTO DI STARE MALE

Lo so che alcuni caregiver – soprattutto i genitori caregiver di figli disabili – hanno trovato inopportuno questo questionario ma, lo dico col massimo rispetto, io credo che si siano sentiti feriti da verità che per loro sono impronunciabili.

Il senso di protezione per un figlio disabile rende spesso impossibile spostare l’attenzione su sé stessi. Si teme di essere genitori egoisti, ci si auto-investe di missioni tanto nobili quanto annientanti della propria individualità, ci si convince di non avere più il diritto di manifestare un disagio fisico o psicologico perché il figlio viene prima di ogni cosa.

Eppure, è proprio dal benessere del caregiver che dipende il benessere del disabile. E dal benessere di entrambi dipende anche il benessere del nostro sistema sanitario che grazie all’immenso lavoro dei caregiver tra i familiari ha un alleggerimento di carichi e strutture.

l caregiver hanno diritto di sentirsi arrabbiati, stanchi, frustrati. Hanno il diritto di provare vergogna e di avvertire del risentimento che spesso, tra caregiver e disabile, è perfino reciproco, perché come non è realistica la favoletta del caregiver martire-sorridente è altrettanto falsa la favoletta del disabile necessariamente docile e pio.

L’idea romantica della malattia e dell’assistenza è quanto di più dannoso esista nell’interpretazione delle dinamiche tra chi accudisce e chi viene accudito, perché la fatica della quotidianità impoverisce ogni romanticismo.

GIORNI NO

Ci sono giorni cui le mie giornate sono prese a morsi dal gorgo nero della burocrazia, dagli uffici che mi rimbalzano, dai dipendenti comunali senza empatia, dai muri che si alzano di fronte allo smarrimento degli anziani che sono anime perse tra moderna digitalizzazione e lentezza burocratica.

Ci sono momenti in cui mi vergogno perché magari mio padre in pubblico dice una cosa fuori posto, inadeguata, ingenua o non sente nulla perché è sordo e io devo urlare davanti ad estranei, o giorni in cui io mi sono sbattuta per ore cercando di risolvere tutti i problemi che si trascina dietro, alcuni magari per sua pigrizia, mi dice una cosa storta o con scarsa gentilezza e vorrei fuggire nel Borneo, abbandonandolo al suo destino. 

Ci sono poi i pregressi familiari con cui faccio i conti, come tanti figli caregiver, e ogni tanto mi sale su del risentimento perché io, da figlia, non sono stata accudita quanto avrei voluto e perché mai ora dovrei accudire io i miei genitori, che razza di ingiusto capovolgimento di ruoli mi tocca subire?

LE SPALLE PESANTI

Ci sono giorni in cui devo fare cose importanti e una sua esigenza improvvisa mette in discussione le priorità, devo cercare uno specialista, una medicina, un pensiero positivo per sopravvivere alla frustrazione.

Ci sono progetti che devo rimandare perché «ora non è il momento», «come faccio», «lui come fa» e intanto penso che questo è il mio tempo migliore e chi me lo restituisce.

Litigo, ogni tanto, col mio fidanzato, con mio figlio, con mio fratello perché tutti potrebbero fare di più e invece forse fanno già abbastanza, facciamo già abbastanza, ma ognuno si sente le spalle pesanti e sono così pesanti da non riuscire a girare il collo e guardare la fatica degli altri.

LA STESSA BANCA

Qualche giorno fa mio padre è uscito dicendo che andava a fare una breve passeggiata e invece ha percorso molta strada per andare a prelevare contanti al bancomat della sua filiale, perché non vuole pagare commissioni ad altre banche. Gli anziani hanno abitudini ottuse e resistenti, chi li conosce bene lo sa.

Fatto sta che forse non si è accorto che erano state erogate le banconote e ha atteso troppo oppure ha sbagliato con qualche pulsante e lo sportello non gli ha restituito il bancomat. Lui a quel punto si è sentito spaesato, spaventato, non stava bene e mi ha chiamata per dirmi di raggiungerlo.

Io ero arrabbiata perché mi aveva mentito, perché era andato fin lì per non pagare un euro di commissione alla banca sotto casa, perché non sta bene e si allontana troppo, perché stavo facendo altro e ho dovuto mollare tutto, perché il mio fidanzato a sua volta mi ha seguita e ha mollato tutto. Insomma, ero furiosa.

Poi l’ho visto lì, solo, confuso, preoccupato per il guaio che aveva combinato, mortificato perché le persone in fila si erano spazientite e mi è passato tutto. Mi ha fatto una profonda tenerezza.

«Papà ma perché non vai al bancomat sotto casa?».

«Ma questa è la mia banca da 50 anni», mi ha risposto. Era un anziano che cercava di restare attaccato alla sua vita come è sempre stata.

AMARE MEGLIO

Cosa avrei risposto a quel questionario due minuti prima? Che ero arrabbiata, frustrata, risentita, che rivorrei il mio tempo e i miei spazi, che è tutto così immensamente faticoso. E sarebbe stata la verità. È la verità.

Ma è vero anche che non potrei fare diversamente, che questo mi fa stare a posto con la mia coscienza, che mio padre ha bisogno di me, che ci sono momenti in cui sento che tutto questo mi restituisce la verità e il senso della vita.

Riconoscere che l’accudimento sia un grande prisma con facce diverse e asimmetriche è un’ammissione dolorosa, ma necessaria. Alleggerisce dai sensi di colpa e consente di svolgere il proprio compito di caregiver ammettendo di essere ingiusti e inadeguati, talvolta. L’indignazione becera e disinformata per quelle domande così centrate non aiuta. Fa credere a un caregiver di non avere il diritto di sentirsi sgradevole, stanco, arrabbiato.

E invece ne abbiamo tutto il diritto. Perché amare qualcuno sapendo che la sopravvivenza di quel qualcuno dipende da noi fa sentire onnipotenti, amorevoli, devoti, ma anche inevitabilmente in trappola. Ammetterlo, ci permette di amare di più e, forse, anche meglio. 

SELVAGGIA LUCARELLI.  Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

LE STORIE DRAMMATICHE DEI CAREGIVER. «Voi non potete capire cosa vuol dire assistere un figlio con una malattia rara: state zitti». SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 04 luglio 2022

«Io non volevo parlare tutto il giorno di medicine e monoclonali, io volevo rimpinzare mio figlio di sofficini e patatine fritte, volevo essere una madre di merda». Lina, giovane madre caregiver di un bambino con una rara malattia genetica, mi spiazza.

Per giorni il questionario proposto dal comune di di Nettuno ai caregiver per valutare il loro livello di stress è stato al centro di furiose polemiche. Qualcuno lo ha trovato duro o indelicato per via di domande come: “Quanto ti vergogni del tuo familiare disabile?”.

In realtà, oltre ad essere un questionario standard utilizzato dalla comunità scientifica dal 1989, ci sono tantissimi caregiver che invece hanno trovato le domande centrate, giuste. E hanno scritto per raccontare le loro storie. 

«Io non volevo parlare tutto il giorno di medicine e monoclonali, io volevo rimpinzare mio figlio di sofficini e patatine fritte, volevo essere una madre di merda». Lina, giovane madre caregiver di un bambino con una rara malattia genetica, mi spiazza.

Per giorni il questionario proposto dal comune di Nettuno ai caregiver per valutare il loro livello di stress è stato al centro di furiose polemiche. Qualcuno lo ha trovato duro o indelicato per via di domande come: “Quanto ti vergogni del tuo familiare disabile?”.

In realtà, oltre ad essere un questionario standard utilizzato dalla comunità scientifica dal 1989, ci sono tantissimi caregiver che invece hanno trovato le domande centrate, giuste. In molti mi hanno scritto raccontandomi le loro esperienze di accudimento fuori da ogni ipocrisia, ammettendo la rabbia, la vergogna, la fragilità.

Tra questi, appunto, c’è Lina, una donna di Genova che mi ha raccontato con coraggio i sentimenti contrastanti che la pervadono ogni giorno, nel suo difficile ruolo di caregiver del figlio Riccardo, di 4 anni.

Come inizia la tua storia di caregiver?

Ho due figli, Sofia che è la più grande, e Riccardo. Quest’ultimo è nato al Gaslini nel 2018, dopo una gravidanza perfetta. Il bambino però, appena mi è stato dato in braccio, mi è parso rosso in maniera anomala, sembrava che soffrisse nel venire toccato.

Cosa ti dicevano?

Qualche infermiera mi ha detto che ero piena di paranoie, ma io non sono una mamma chioccia, sentivo che qualcosa non andava.

Finchè?

Finché non si accorgono che in effetti non sta bene. Andiamo al Centro Malattie Rare del Policlinico di Milano dove gli hanno fatto l'esame genetico.

Che cosa gli è stato diagnosticato?

La frase del dermatologo è stata: «Complimenti, avete pescato nel cappello delle rarità, ci sono circa 30 casi di questa malattia in tutto il mondo». Vai a vedere su Internet “sindrome di Sam” e ti metterai le mani nei capelli.

In cosa consiste?

In una dermatite gravissima, associata ad allergie di ogni genere, diciamo che Riccardo potrebbe bere solo acqua. 

Altri problemi?

Quello cognitivo. Un disturbo dell'attenzione. E’ una scheggia impazzita, è iperattivo. Sinceramente, quando ho letto quella domanda del questionario: vi vergognate? Io sì. Io me ne vergogno perché io non riesco a stare in società con mio figlio senza vergognarmi.

Per cosa per esempio?

L’ultima. Domenica eravamo a un matrimonio. Lui è stato tutto il tempo a tirare calci al ghiaino che c'era nei vialetti sporcando tutti, tirando sassi e terra addosso a chiunque. Alla gente non è che gli puoi spiegare, far vedere la cartella clinica.

Cosa vi dite con tuo marito?

Io e mio marito da quando è nato Riccardo, praticamente se riusciamo a comunicare senza azzannarci è già un miracolo.

E Sofia, la sorellina?

È diventata sorella maggiore quando aveva sei anni, ora ne ha 10. Era felice di avere un fratellino e la sua vita è cambiata, ma non come pensava. Lo adora, ma si rende conto che tante cose le perde, per dire, una stupidaggine: in questo periodo, se Riccardo non avesse la malattia, ci faremmo l'abbonamento in piscina e ce ne staremmo in piscina tutto il giorno. O al mare. Invece non si può.

Quindi è una vita fatta di tante rinunce e problemi continui?

Sì, specie nel periodo in cui ha iniziato a imparare a grattarsi.

Cioè?

Lo dovevamo tenere bendato. Dal gomito in giù e dal ginocchio in giù lui era sempre bendato come una mummia, perché si grattava così tanto che si levava la pelle e poi aveva delle infezioni. E la notte non si dormiva. Mai.

Come era il tuo stato d’animo in quei momenti?

Non voglio mentire. Io avrei fatto qualunque cosa, dal farmi fuori io, al far fuori lui. Ci avrei messo niente. Per fortuna in quel periodo avevo deciso di andare da uno psichiatra, mi ha prescritto farmaci. Poi mio marito era all'estero per lavoro, ero sola, la sera, quando andavo a letto per me era un tormento perché durante il giorno, bene o male passava, ma la notte...

Cosa facevi?

Si stava svegli. Nervosismo. Stanchezza. A volte alzavo le mani, non sapevo più cosa fare, ero disperata. Non ero preparata a questo.

A cosa eri preparata?

Non lo so. So che avrei preferito essere una mamma di merda e riempire i miei figli di McDonald's, di sofficini e patatine fritte. Mi dicono che sono una roccia, una super mamma. Cosa ho di speciale? Che non lo faccio marcire? E cosa dovrei fare? Non è solo che io voglio aiutarlo. Io devo.

È tuo figlio.

Certo. Voglio che stia bene come voglio che stia bene sua sorella. Però con lui devo fare l’infermiera 24 ore su 24. 

Cosa è rimasto di te, della tua vita di prima?

Nulla. Dopo che è nato Riccardo ho preso 15 kg. Sono arrivata a quasi 80 kg su un metro e 60, avevo dolori ovunque, ora sono a dieta.

Hai smesso di pensare a te.

Io non mi vedo più come individuo, ho un'amica che ha una bambina malata, lei si fa le unghie, i capelli, si veste bene. Io la mattina mi alzo, mi butto nell'armadio, e quello che capita capita.

Perché?

Se mio figlio non può avere una vita normale, mi sento quasi in colpa io ad avercela.

Quali sono i pensieri più negativi che hai oggi?

Ci sono quei giorni in cui continuo ad augurarmi la morte o a pensare che a questo punto sarebbe meglio se morisse, così almeno forse riusciremmo a ritornare alla vita di prima. Poi mi passa, ma mi dispiace.

Nel questionario c'era una domanda rivolta ai caregiver che era: pensi che stai perdendo un pezzo di vita?

La gente magari programma di fare questo o quello il prossimo anno, poi, che so, perde il lavoro e in vacanza non ci va. Però è una situazione transitoria. La mia è definitiva. Non è una polmonite, un raffreddore. È un problema genetico, quindi è per sempre. L’idea soprattutto all’inizio mi levava il respiro. Avevo questa sensazione di… di essere fregata.

Di essere trappola.

Esatto.

Ti senti in colpa quando hai pensieri negativi?

Certo. Perché comunque lui è un bel bambino, è simpatico, è un mattacchione. Quando viene nel lettone e si addormenta, lo guardo e dico : poverino. Lui non ha nessuna colpa. E allora per me è ancora peggio, perché mi sento pessima a pensare certe cose.

Ti dici mai “non ce la faccio”?

Alle volte mi incazzo perché gli altri pensano che sia scontato che ce la faccia, litigo con mia mamma, con i miei amici. Mi sento dire cose come “sei brava, un’altra madre si sarebbe già arresa!,” Loro mi dicono ‘ste cose pensando di motivarmi, invece mi sento sfigata. Piuttosto fatemi due teglie di lasagne che me le congelo.

Il rapporto con tuo marito ne ha risentito, dicevi.

Diciamo che siamo una coppia sulla carta. Sicuramente ci vogliamo bene, però l'arrivo di Riccardo ha sfasciato tutto. Anche perché io, come come donna, te l'ho detto, mi sono completamente annullata, ho cessato di esistere e sono arrabbiata.

Lo stato ti aiuta?

Riccardo ha la legge 104, quindi abbiamo un sussidio economico. Devo comprare da sola vari dispositivi medici.

Ti fai aiutare da qualcuno ogni tanto?

No.

Perché no?

Mi sembra di buttare via dei soldi. Con l’indennità di accompagnamento pago le creme e altro, poi cerco di non usarli tutti perché penso boh, non si sa mai un domani che succederà, penso al suo futuro incerto.

Lina, nel tuo ruolo di caregiver tu sei stata investita da un'onda gigantesca che ha coinvolto il tuo stato psicologico, la tua quotidianità, la tua individualità. E questo è difficile da comprendere per chi commenta con faciloneria che quella del caregiver è una missione eroica, appagante. Cosa diresti a queste persone?

Che la mia, la nostra di tutti i caregiver non è una missione ma, come dicono qui,  è “o bere o affogare”. Io avevo due scelte: impegnarmi per far stare meglio possibile mio figlio o farla finita subito. Ancora a volte penso: al Gaslini non si potevano fare i fatti loro? Magari il bambino sarebbe morto. E’ terribile. Mi succede quando vedo tante cose storte nella nostra vita e nella sua vita. Mi dico: che senso ha andare avanti così?

Poi però il senso, alla fine, lo trovi.

Sì, però la superficialità da chi giudica non la accetto. Io dico sempre: se non sai cosa dire, taci. Se voi, in situazioni più fortunate non capite cosa voglia dire avere un bambino con milioni di problemi, essere un caregiver tutto il giorno e la notte senza tregua, vi prego: state zitti.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Assistenza a 3,5 milioni di anziani non autosufficienti: la vergogna d’Italia. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.

Ognuno di noi può augurarsi due cose: la prima è quella di attraversare l’esistenza e diventare anziani, la seconda di essere poi in grado di badarci da soli. E se non dovesse andare così, di poter essere assistiti dignitosamente. Oggi in Italia, secondo le ultime stime Istat, ci sono 3,8 milioni di anziani non autosufficienti, ovvero con gravi limitazioni motorie, sensoriali (vista/udito) o cognitive. Per loro è indispensabile essere affiancati e sostenuti in tutte le attività di base della vita quotidiana. Tra i 250 e i 300 mila sono ospiti nelle case di riposo (qui il Dataroom del novembre 2020), all’incirca 3,5 milioni vivono a casa. 

Come è organizzata l’assistenza

L’assistenza è organizzata in questo modo: a 1,4 milioni vengono dati 529,94 euro al mese di indennità di accompagnamento dall’Inps; a 131 mila i servizi sociali del Comune mandano qualcuno che li aiuta ad alzarsi, mangiare e vestirsi (Sad); e 858.722 hanno l’assistenza domiciliare integrata (Adi) che dipende dal servizio sanitario nazionale e consiste in un infermiere a casa per un massimo di 18 ore l’anno. Tutto questo dopo avere peregrinato per sportelli e commissioni diverse di Inps, Servizi sociali e Asl come denunciato nel Dataroom del maggio 2021. 

I finanziamenti del Pnrr

Pagare l’infermiere che viene a casa per 18 ore l’anno oggi costa 1.983 per ogni non autosufficiente. La spesa totale annua è di circa 1,7 miliardi di euro. Su pressione del Patto per la non autosufficienza che raggruppa 50 associazioni di anziani e delle loro famiglie, il governo Draghi (a differenza dal Conte II) ha destinato risorse del Pnrr. L’Ue darà 2,72 miliardi di euro per contribuire ad assistere a casa con l’Adi di qui al 2026 altri 806.970 non autosufficienti (il 10% degli over 65 contro il 6,2% di oggi). 

I finanziamenti Ue saranno scaglionati negli anni, e anche la crescita del numero di assistiti sarà graduale. Complessivamente i costi saranno coperti per il 52% dai fondi del Pnrr, il resto dai circa 500 milioni annui aggiuntivi che lo Stato metterà tramite il fondo sanitario nazionale (qui il documento). 

La necessità di una riforma strutturale

I nuovi investimenti, però, sono destinati a riprodurre su scala maggiore i problemi di oggi. Uno: non cambia nulla per l’indennità di accompagnamento che resta di 529,94 euro uguale per tutti, mentre l’assegno dovrebbe essere commisurato alla gravità dell’anziano, e dunque ai suoi bisogni misurati in ore quotidiane di assistenza necessaria (per esempio in Germania i più gravi ricevono 901 euro al mese).

Due: gli interventi restano suddivisi tra l’Adi e i Servizi sociali dei Comuni.

Tre: i fondi del Pnrrsono tarati su un’assistenza domiciliare integrata solo per 18 ore annue, in genere dopo le dimissioni dall’ospedale. Un’assistenza che di fatto non fornisce supporto a chi ha bisogno di cure domiciliari continuative sul lungo periodo.

Quattro: i fondi del Pnrrvalgono solo per il periodo 2022-2026, e poi cosa succede? E’ evidente che vanno calati in una riforma strutturale. Per avere un’idea: la media dei finanziamenti in Italia per un non autosufficiente è di 270 euro, la media europea è di 484. 

Come funziona in Europa

La riforma complessiva dell’assistenza agli anziani non autosufficienti è attesa in Italia dalla fine degli Anni ’90. L’Austria l’ha fatta nel 1993, la Germania nel 1995, il Portogallo nel 1998, la Francia nel 2002, la Spagna nel 2006.

Per tutti c’è uno sportello unico che valuta le necessità di chi non è autosufficiente, ed è esattamente quello che chiedono le 50 associazioni di malati e delle loro famiglie

Ed è stata proprio la forza della loro disperazione che ha consentito di vincolare i 2,7 miliardi del Pnrr alla realizzazione della riforma (qui il documento dal Patto per la non autosufficienza per l’introduzione di un «Sistema nazionale assistenza anziani»).

Troppe commissioni

Ma cosa è stato fatto fino ad ora dai governi Conte e Draghi? Ripercorriamo le tappe. 8 settembre 2020: un decreto del ministro della Salute Roberto Speranza istituisce la Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana. A presiederla mons. Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio istituto teologico per le scienze del matrimonio e della famiglia. «I mesi del Covid ­– dice Speranza – hanno fatto emergere la necessità di un profondo ripensamento delle politiche di assistenza per la popolazione più anziana. La commissione aiuterà le istituzioni ad indagare il fenomeno e a proporre le necessarie ipotesi di riforma». 26 maggio 2021: il ministero del Lavoro di Andrea Orlando incarica un gruppo di lavoro guidato da Livia Turco chiamato «Interventi sociali e politiche per la non autosufficienza».

1 settembre 2021: mons. Paglia presenta al premier Draghi la «Carta dei Diritti degli Anziani e dei Doveri della Società» mai resa pubblica.

13 gennaio 2022: Palazzo Chigi istituisce una nuova commissione per le politiche in favore della popolazione anziana guidata ancora da mons. Paglia.

28 gennaio 2022: la commissione di Livia Turco presenta la bozza di un disegno di legge delega che affronta come richiesto solo i servizi sociali, non quelli sanitari né l’indennità di accompagnamento, quindi solo una parte del problema. 

Basta perdere tempo

Ricapitolando: in due anni e mezzo si sono succedute tre commissioni diverse, una indicata dal ministero della Salute, una dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, e una dalla Presidenza del Consiglio che ora tiene direttamente le fila di tutto. Finora nessun risultato concreto. Il Pnrr (a pagina 215-216) dice: «La riforma volta ad introdurre con provvedimento legislativo un sistema organico di interventi a favore degli anziani non autosufficienti sarà adottata entro la scadenza naturale della legislatura (primavera 2023)». Nel documento attuativo: «Approvazione disegno di legge delega entro primavera 23 e promulgazione decreti delegati entro il primo semestre 24». La nuova commissione guidata da Mons Paglia doveva presentare una relazione a Draghi sui lavori svolti entrometà aprile. Siamo a metà maggio e ancora non si vedono risultati.

·        Gli affari sulle malattie.

Il caso Palumbo: un affare senza fine costruito sulla malattia. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 04 settembre 2022

La vicenda è quella di Paolo Palumbo, il ventiseienne oristanese affetto da quella terribile malattia neurodegenerativa che è la sla.

 La sua storia è molto nota perché Paolo è stato più volte protagonista delle cronache per alcune partecipazioni tv e iniziative varie in cui ha raccontato il suo percorso doloroso in compagnia del fratello Rosario e dell’onnipresente padre Marco. Paolo Palumbo è anche molto presente sui social, su cui lancia spesso raccolte fondi per sostenerlo nella sua malattia.

Palumbo è davvero malato di Sla. Ma invece di sostenere le cure, il gigantesco giro di raccolte fondi, visibilità, prodotti inesistenti e collaborazioni con vip architettato dal padre alimenta un business opaco.

Il caso Palumbo: un affare senza fine costruito sulla malattia.  SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il4 settembre 2022

La vicenda è quella di Paolo Palumbo, il ventiseienne oristanese affetto da quella terribile malattia neurodegenerativa che è la sla. La sua storia è molto nota perché Paolo è stato più volte protagonista delle cronache per alcune partecipazioni tv e iniziative varie in cui ha raccontato il suo percorso doloroso in compagnia del fratello Rosario e dell’onnipresente padre Marco. Palumbo è anche molto presente sui social, su cui lancia spesso raccolte fondi per sostenerlo nella sua malattia.

Palumbo è davvero malato di Sla. Ma invece di sostenere le cure, il gigantesco giro di raccolte fondi, visibilità, prodotti inesistenti e collaborazioni con vip architettato dal padre alimenta un business opaco.

Premessa: la storia opaca che sto per raccontare contiene un’ importante e drammatica verità, e cioè che il suo protagonista è davvero malato di sla. Tutto il resto, invece, è un disegno confuso in cui verità, truffe e sospetti sono un unico guazzabuglio.

La vicenda è quella di Paolo Palumbo, il ventiseienne oristanese affetto da quella terribile malattia neurodegenerativa che è la sla.

La sua storia è molto nota perché Paolo è stato più volte protagonista delle cronache per alcune partecipazioni tv e iniziative varie in cui ha raccontato il suo percorso doloroso in compagnia del fratello Rosario e dell’onnipresente padre Marco. E perché è anche molto presente sui social, su cui lancia spesso raccolte fondi per sostenerlo nella sua malattia.

Paolo, nel 2019, è stato ospite di Amadeus a Sanremo, dove è andato con una “sua canzone”. In seguito, ha inciso un singolo con Achille Lauro (che continua a sostenerlo, senza evidentemente mai aver approfondito bene la situazione).

E’ stato ospiti di svariati programmi Rai e Mediaset, compresi i tg. Ha incontrato Barack Obama, il papa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha centinaia di migliaia di follower: Paolo Palumbo è una sorta di ambasciatore della sua malattia.

ALTRI SOLDI PER LE BOLLETTE

Proprio pochi giorni fa, il Corriere della sera e il Tg5 hanno rilanciato una nuova raccolta fondi che consiste nella vendita di un cd contenente il suo nuovo singolo a 23 euro.

La vendita, spiega il padre Marco, servirà a pagare le bollette, visti i recenti aumenti. «L’ultima bolletta della luce è stata di 2.500 euro. Ma non possiamo certo risparmiare su quello: Paolo è attaccato ai macchinari h24. Ci sono il respiratore, l’aspiratore, il computer, la pompa per l’alimentazione», si è lamentato Marco Palumbo.

E qui inizia l’altra parte del racconto, quella torbida, che è un susseguirsi di evidenti ambiguità e fatti mai chiariti.

Marco Palumbo, padre di Paolo e principale organizzatore di tutte le attività legate al figlio malato, è originario di Nuoro ed è stato condannato per “associazione a delinquere finalizzata a dichiarazione fraudolenta e uso di fatture per operazioni inesistenti”, reati che ha commesso a Oristano tra il 2007 e il 2008.

E’ stato poi arrestato nel 2015, anno in cui ha patteggiato per il reato di bancarotta: aveva venduto macchine di lusso a personaggi famosi (vantava rapporti con Lele Mora e Gigi D’Alessio) creando una rete di società fantasma con sede a Cipro e a Panama, riuscendo ad ingannare il fisco. Arrivò addirittura ad inventare un milionario commercio di fiori di loto.

Il pubblico ministero, nel chiedere la condanna a 6 anni di Palumbo, definì l’inganno orchestrato “geniale”.

Tutto questo serve a contestualizzare i tanti fatti sospetti accaduti in questi anni nella vita Paolo Palumbo.

Sia in occasione della sua partecipazione a Sanremo con una canzone inedita che dell’uscita del suo singolo con Achille Lauro, Palumbo è stato accusato di aver rubato le canzoni ad altri.

Nello specifico, da Cristian Pintus, un rapper oristanese che lo aveva accompagnato a Sanremo, e dal paroliere nuorese Marco Mura.

«Ho creato una canzone con tanto cuore per Paolo, poi con la scusa che gli incassi della canzone di Sanremo sarebbero andati in beneficenza- così mi ha detto la famiglia Palumbone ho ceduto la paternità. E loro subito hanno tolto il mio nome dai crediti. Mi hanno devastato psicologicamente e voglio dire che Paolo è complice, fa leva sul suo dramma», racconta Pintus.

«Sono stato truffato da Marco e Paolo Palumbo: mi hanno rubato i diritti della canzone che ha cantato con Achille Lauro. Penso che i Palumbo abbiano un talento innato, cioè quello di scovare al volo la bontà delle loro prede e sfruttarla al meglio per il proprio tornaconto», ha detto il paroliere Mura.

Sono seguite delle denunce da parte di entrambi.

IL TRUCCO DEI PANETTONI

Altro episodio strano, sempre tra i meno gravi: poco tempo fa Paolo Palumbo ha organizzato una vendita di panettoni “con la sua ricetta” per raccogliere, ancora una volta, soldi.

Peccato che quei panettoni li facesse un’ignara signora di Pula nel suo forno. Lei li riconosce, sono i suoi, li fa lei e li vende a pochi euro, ma sono rimessi in vendita da Palumbo a un prezzo molto più alto per raccogliere fondi. Contatta i Palumbo che rispondono qualcosa come “vi abbiamo resi famosi”.

Nel frattempo, Palumbo continua a pubblicare post sofferenti sui social chiedendo denaro a suon di «vi prego» «aiutatemi a vivere», «con un messaggio al 335… mi donerete la vita». Inviando un messaggio a quel numero Paolo indica le coordinate bancarie per mandargli soldi.

Soldi che servirebbero a pagare non si sa bene cosa, visto che la famiglia è più che benestante, ha una bella casa in centro avuta dal padre di Marco da un amico deceduto di recente, automobili, l’invalidità, l’accompagnamento. Le cure poi sono a carico del servizio sanitario.

Da anni, quando i Palumbo raccolgono soldi, succedono cose strane. Nell’ultimo appello diffuso dal Corriere della sera e al Tg5 il padre di Paolo, Marco Palumbo, afferma che occorrono soldi per via del caro bollette. «All’energia Paolo non può rinunciare, serve ad alimentare il respiratore, l’aspiratore, il computer, la pompa dell’alimentazione, macchinari che gli permettono di vivere».

Il padre di Paolo Palumbo omette però un particolare: le persone disabili che utilizzano macchinari per la malattia hanno un costo dell’energia agevolato (bonus elettrico).

La regione Sardegna, tra l’altro, è tra quelle che forniscono più aiuti, per esempio il progetto “Ritornare a casa” che nel caso di malati nella situazione di Paolo prevede altri contributi sostanziosi anche per assistenza e caregiver.

Ma poi, questo famigerato cd col singolo di Paolo al prezzo di 23 euro esiste? «Io l’ho acquistato con la mia donazione il 17 agosto”, mi racconta F., ma ancora non mi è arrivato. Ho chiesto come mai e dopo qualche giorno mi hanno risposto che è in fase di produzione».

Insomma, vendono qualcosa che ancora non esiste per un caro bollette che nel caso di Paolo non esiste (o è comunque ben più contenuto).

MISTERO ISRAELE

E’ accaduto di peggio nel 2019, quando Paolo, dopo la partecipazione a Sanremo, aveva una enorme visibilità. In quel periodo il fratello Rosario aprì una grossa raccolta fondi perché Paolo, raccontavano i suoi familiari, aveva avuto miracolosamente accesso alla costosa “sperimentazione Brainstorm” in Israele. L’obiettivo erano 900.000 euro.

A garanzia di tutto c’era il solito padre Marco che sosteneva di essere in contatto con un medico israeliano e che, come riferì a molte persone, era andato personalmente in Israele a sbrigare l’iter burocratico.

La raccolta partì spedita, donarono perfino il Billionaire e il Cagliari calcio, si arrivò velocemente alla cifra di 144.000 euro.

Poi un’indagine della polizia postale di Oristano scoprì la truffa: nessun ospedale e nessun medico israeliano avevano mai inserito Paolo in protocolli di sperimentazione.

Le famose mail che Marco Palumbo riceveva dal medico israeliano erano scritte in un inglese stentato, da Google translate e, pare, inviate proprio da Oristano. In quel periodo i giornali insinuavano che gli indagati fossero proprio dei familiari di Paolo.

Non si sa che ne sia stato dell’indagine, ma restano aperte due domande: il fratello di Paolo, Rosario, al telefono, ai tempi, diceva: «Siamo noi quelli truffati da qualcuno».

Potrebbe essere che le mail fossero di un finto medico israeliano che vive ad Oristano, ma allora chi erano i medici del vero ospedale israeliano da cui Marco Palumbo andò più volte, come raccontato?

Inoltre, l’ospedale in questione smentì ufficialmente di aver mai avuto contatti con i Palumbo.

La seconda domanda riguarda i 144.000 euro raccolti dalla famiglia tramite la piattaforma di crowdfunding Gofundme. Che fine hanno fatto?

Nell’estate 2019, per uscire dall’imbarazzo, la famiglia Palumbo comunicò alla stampa che avrebbe investito i soldi in una casa vacanze per disabili, ma indovinate un po’? Naturalmente i soldi non bastavano e quindi sarebbe servito un ulteriore contributo da parte dei donatori.

SELVAGGIA LUCARELLI Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Il padre di Paolo Palumbo:  «I soldi li chiede mio figlio, non so per quali farmaci servano». Paolo Palumbo un ragazzo malato di Sla canta con Christian Pintus al Festival di Sanremo. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani l'11 settembre 2022 • 12:06

Dopo molte ricerche sono riuscita finalmente a parlare con Marco Palumbo, il padre di Paolo, che fino a qualche giorno fa chiedeva delle donazioni per il figlio malato. «Ho intrapreso una via penale legale, tutte queste domande gliele concedo in tribunale».

Sulla denuncia di Valentina, la ex di Paolo Palumbo risponde: «Non ne so nulla». Le richieste di soldi sui porfili social vengono gestiti direttamente dal figlio.

Il padre di Palumbo risponde: «Se chiede soldi è perché gli servono per campare», e per le medicine: «Allora guardi… ci sono farmaci che non passa la Asl e che noi dobbiamo comprare». Per lui «ce ne sono tantissimi», ma quali «non lo so».

La malattia usata per fare soldi: ecco le storie di chi ha creduto a Paolo Palumbo. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani l'11 settembre 2022

Paolo Palumbo è un ragazzo sardo affetto da Sla. Negli anni ha lanciato molte richieste di aiuto e raccolte fondi per le spese legate alla malattia, che hanno mosso decine e decine di migliaia di euro. È anche andato a Sanremo. 

Dopo l’articolo di Domani che raccontava le stranezze e i misteri sulla reale destinazione dei soldi, le raccolte si sono interrotte all’improvviso, inclusa quella arrivata a 160.000 euro. 

Ora in tanti raccontano di essere stati avvicinati da Palumbo con richieste di denaro, e molte cose non tornano. 

La scorsa settimana su Domani mi sono occupata del caso Paolo Palumbo, ovvero la triste storia del ragazzo oristanese malato di Sla che da anni, forte della sua popolarità, organizza raccolte fondi insieme a suo padre Marco e a suo fratello Rosario.

Raccolte che sarebbero destinate a cure o iniziative benefiche, ma che si concludono puntualmente con scoperte di truffe misteriose, accuse varie, sospetti sulla reale destinazione delle cifre e totale assenza di rendicontazioni.

Paolo era stato ospite de Le Iene, ma anche da Amadeus a Sanremo, e ha inciso un singolo con Achille Lauro. 

Palumbo ha il sostegno di numerosi personaggi noti e della stampa, al punto che anche pochi giorni fa – quando si è trattato di promuovere l’ennesima raccolta fondi in suo favore perché, a causa del caro bollette, lui e la sua famiglia non sarebbero più in grado di sostenere le spese per il consumo dei macchinari salvavita - ha ricevuto il sostegno di tg e testate nazionali.

Peccato che per chi usufruisce di macchinari salvavita esista il bonus bollette che concede cospicue agevolazioni.

LO STOP IMPROVVISO

Ad ogni modo, dopo che ho sollevato dubbi su tutta la lunga storia di raccolte fondi di Paolo Palumbo e della sua famiglia, sono successe due cose: la prima è che Palumbo, che sulla sua pagina Instagram postava una foto al giorno con richiesta di aiuto (associata a un numero di telefono da cui inviava Iban e conto Postepay sui cui versare “l’aiuto”) ha smesso improvvisamente di chiedere denaro. Non solo.

Dalla sua pagina vengono cancellati tutti i commenti di chi chiede delucidazioni sulla raccolta fondi per le bollette e sugli altri 160.000 euro (almeno) che erano stati raccolti per il (falso) viaggio in Israele per le cure di Paolo, soldi di cui non si era saputo più nulla.

Tra l’altro, alcune persone vicine alla famiglia e diversi cittadini di Oristano mi hanno raccontato che i Palumbo hanno uno stile di vita più che benestante.

Il padre di Paolo, Marco, avrebbe in uso diverse macchine di lusso, e vivono in una grande, bellissima casa nel centro di Oristano che il padre di Marco ha ereditato da un anziano signore (lascito contestato dalla famiglia dell’anziano, con cui ci sarebbero state battaglie legali).

Insomma, uno stile di vita poco compatibile con la continua richiesta di denaro ai generosi donatori convinti che una persona malata (o chi per lui) che chiede aiuto per delle cure che dovrebbe passare il sistema sanitario nazionale sia necessariamente onesta, necessariamente indigente, necessariamente a un passo dalla santità. Non si sa quale attività di famiglia genererebbe tanto denaro.

LA FIDANZATA

La seconda cosa accaduta dopo l’uscita dell’articolo è che diverse persone mi hanno contattata per raccontarmi di essere state vittime di presunti raggiri per scopi economici da parte della famiglia Palumbo.

Una di queste è addirittura la ex fidanzata di Paolo Palumbo, Valentina, che mi racconta di averlo denunciato nel febbraio di quest’anno. «Ho conosciuto Paolo tramite i social, seguivo la sua pagina Instagram ed ero attratta dalla sua storia di coraggio e di forza. Nell'ottobre 2020, pubblicando un suo post nelle mie storie di Instagram, mi risponde e provo un’emozione fortissima. Paolo mi riscrive con una scusa e da lì incominciamo a sentirci ogni giorno. È un bravissimo paroliere… così è nata la nostra storia d’amore».

«Io sono di Milano, quindi sono andata a trovarlo in Sardegna, poi siccome era il 2020 e c’erano le restrizioni per il Covid mi ha “assunta” come badante per poter andare il più possibile a trovarlo a Oristano nell’ottica di un mio trasferimento. Mi sentivo io in colpa perché stavo bene e lui era malato, e alla fine non mi sono resa conto più di nulla… non l’ho nemmeno detto ai miei familiari all’epoca».

«Fatto sta che non so come possa essere stata così ingenua, ma dietro sua insistenza ho sottoscritto un finanziamento per una vettura Mercedes da 80.000 euro per lui, a mio nome, e senza la vettura a garanzia. Poi i Palumbo l’hanno rivenduta e a loro sono andati i soldi della vendita.

L’accordo era quello di una rivendita immediata con un guadagno per il nostro futuro, ho i messaggi; in realtà la macchina è stata venduta, ma il finanziamento a mio nome è rimasto e mi sono pure ritrovata un’assicurazione Rca senza aver sottoscritto nulla. Per questo anch’io non mi capacito delle continue richieste di soldi, perché so che hanno percepito tanti soldi. Non sono ricca né benestante e di fatto dipendo dalla loro “buona volontà” come mi ha fatto notare il signor Palumbo, il quale mi ha invitato sostanzialmente a stare buona….Per me questo finanziamento è un peso enorme».

GLI ALTRI MALATI

Ma c’è anche un’altra brutta storia: un altro malato di Sla, Andrea Turnu, in arte dj Fanny, tre anni fa aveva accusato i Palumbo di averlo coinvolto in iniziative benefiche che poi sono evaporate senza spiegazioni: «Che fine ha fatto il team per i malati di Sla che ho tanto promosso e a cui ho donato tanti soldi? Il centro per aiutare le persone malate?», aveva scritto.

Le segnalazioni sono tantissime, mi ha contattato anche una agente immobiliare: «A Sanremo i Palumbo hanno alloggiato in un appartamento che gestisco in città. Quando sono andati via non sono riuscita a farmi pagare la tassa di soggiorno, erano 12 persone per una settimana. Dicevano che non si erano trovati bene, hanno litigato con il proprietario continuamente…».

Poi ci sono le accuse di canzoni rubate, i panettoni che Paolo vendeva come «con una sua ricetta» e invece la ricetta era di una pasticceria di Pula, insomma, una matassa ingarbugliata di accuse di ogni tipo, per cui le cose sono due: o la famiglia Palumbo è molto sfortunata o c’è qualcosa che non torna.

Il vero mistero è perché la stampa locale e anche quella nazionale, anziché mettere insieme tutti questi elementi e attendere almeno le evoluzioni delle indagini sulle attività (almeno quelle note) che coinvolgono i Palumbo, abbia continuato a promuovere le raccolte fondi di questa ambigua famiglia.

Perché non abbia tutelato la buona fede dei tantissimi donatori che avranno ormai donato centinaia di migliaia di euro senza sapere neppure chi sia il direttore d’orchestra di tutta questa vicenda. E chissà che non sia d’accordo tutta l’orchestra, viene da pensare.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

INCHIESTA SULLA SOLIDARIETÀ. Tutto quello che non torna nella colletta per il disabile che «rischia di morire a causa delle bollette». SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 20 ottobre 2022

C’è un servizio andato in onda a Le iene che rappresenta esattamente tutto quello che c’è di sbagliato nella moda delle raccolte fondi destinate a privati.

La storia: Barbara vive con suo figlio Riccardo che a 18 anni è purtroppo allettato da due anni, in uno stato neurovegetativo irreversibile.

Per via del caro bollette, dice il drammatico titolo del servizio, il ragazzo rischia di morire: «Quando la tua vita dipende da una bolletta, aiutiamo Riccardo», è la scritta che precede il video.

C’è un servizio andato in onda a Le Iene che rappresenta esattamente tutto quello che c’è di sbagliato nella moda delle raccolte fondi destinate a privati. E sono contenta, leggendo i commenti al video del servizio, che tantissimi lettori abbiano segnalato la scarsa accuratezza delle informazioni o sollevato dubbi sul senso di questo lavoro, perché vuol dire che sulle raccolte fondi si sta creando il giusto approccio, che è quello del dubbio.

Il servizio di Matteo Viviani de Le Iene, purtroppo, non è né beneficenza né giornalismo, con l’aggravante dell’utilizzo di una vicenda drammatica per fare presa su chi poi donerà soldi propri convinto che sia la cosa giusta da fare.

BARBARA E LE BOLLETTE 

La storia: Barbara vive con suo figlio Riccardo che a 18 anni è purtroppo allettato da due anni, in uno stato neurovegetativo irreversibile. Per via del caro bollette, dice il drammatico titolo del servizio, il ragazzo rischia di morire: «Quando la tua vita dipende da una bolletta, aiutiamo Riccardo», è la scritta che precede il video.

Segue un’intervista alla madre che dopo aver raccontato il drammatico pregresso, ovvero la storia di un ragazzo pieno di vita poi colpito da un grave problema cardiaco con ripercussioni tragiche, spiega le sue difficoltà economiche. E qui la storia si fa confusa.

Barbara dice che lei usufruisce dello sgravio per le bollette di chi ha macchinari salvavita in casa e nonostante ciò, di energia elettrica, ora le arrivano bollette da 150 euro, mentre prima si aggiravano sui120 euro.

In effetti, se è vero che le bollette negli ultimi mesi sono raddoppiate, lo sgravio è notevole.

Ma al di là dell’aumento del costo delle bollette dell’energia elettrica che dunque, grazie al bonus, non sembra incidere particolarmente sul suo budget mensile, Le Iene e la signora omettono un particolare: vista la situazione, ovvero la presenza di macchinari salvavita, il contatore della signora non è disalimentabile (la Asl interviene comunicando all’erogatore del servizio la situazione) .

Nella situazione di Riccardo ci sono ahimè moltissime famiglie e tutte, se hanno avviato le giuste procedure, usufruiscono di numerosi aiuti, ovvero bonus bollette, disalimentabilità, bonus sociali. 

LA PREMESSA SBAGLIATA

Dunque no, non è vero che la vita di Riccardo è appesa al pagamento delle bollette. Lo Stato non permetterebbe mai di interrompere l’erogazione di energia a un malato che necessiti di respiratori artificiali e altri macchinari da cui dipende la sua vita. Questa ipotesi, presentata addirittura nel titolo del video, è completamente falsa, oltre che ingiusta.

Sarebbe una cosa a dir poco disumana. 

Il problema fondamentale però, e qui il titolo del servizio si fa sempre più fuorviante, sembrano essere le bollette del gas. Solo che il gas non alimenta le macchine salvavita o almeno questo non è deducibile dal servizio.

Il tema, piuttosto, è che Riccardo ha bisogno di una temperatura costante di 24/26 gradi. Insomma, Riccardo ha bisogno di stare al caldo. E guardando le dimensioni limitate della sua cameretta non sembra un’impresa impossibile.

La signora Barbara mostra dunque le bollette impazzite per via del rincaro, affermando che ce ne sono due da 1.400 euro per cui ha chiesto la rateizzazione. Effettivamente bollette alte ma, come dicevo, va detto che nel servizio si nota che la stanza del figlio è piuttosto piccola.

In compenso, come mostrato in altro un servizio de La vita in diretta, la villetta al mare su due piani con giardino è di grosse dimensioni. Dunque pare probabile che mantenere calda la casa sia dispendioso, sebbene le ultime due bollette a cui fa riferimento la signora dovrebbero essere quelle dei mesi estivi.

IL DEBITO PREGRESSO

A confermare la stranezza c’è un altro passaggio raccontato molto velocemente e cioè che la signora Barbara subisce il prelievo forzato di un quinto del suo stipendio da statale perché non ha pagato un’altra vecchia bolletta del gas da 1300 euro. Dice che non si era accorta di quel debito.

Il problema è che quella bolletta è precedente il rincaro delle bollette, visto che come si nota da un’immagine de La vita in diretta, il periodo indicato è "3/3/2022”, da pagare entro il 4 aprile 2022.

Considerato che la guerra è iniziata il 24 febbraio 2022, le bollette dello scorso inverno non avevano ancora subito rincari.

Insomma, la signora Barbara non riesce a pagare le bollette del gas da prima dei rincari e questo, forse, perché la grande villetta in cui ha deciso di trasferirsi lasciando Milano per l’Abruzzo è molto grande.

I CONTI IN TASCA

Ci sono poi altri passaggi poco chiari. Lei dice di pagare un mutuo di 750 euro, e va bene. Di guadagnare 1300 euro al mese per il suo lavoro di dipendente statale in smart working di cui 300 prelevati forzatamente per il suo debito perché non ha pagato una bolletta del gas precedente i rincari, e va bene.

Poi, molto velocemente, si citano i 500 euro al mese che percepisce per l’accompagno, ma il figlio ha da poco 18 anni dunque dovrebbe avere diritto anche all’invalidità totale.

Poi, e questo è il particolare più misterioso, la signora rafforza la narrazione sul suo stato di bisogno economico affermando di dover comprare farmaci e di avere moltissime spese mediche, che divide al 50 per cento con l’ex marito. «Sono troppe», dice. «Compro farmaci e strisce della coagulazione», ribadisce su Rai 1. 

Quali sarebbero questi farmaci? A quanto ammontano queste spese? Perché in teoria il servizio sanitario nazionale, visto lo stato del figlio, dovrebbe passarli gratuitamente. Al massimo si paga il ticket.

Oltre a questa totale mancanza di trasparenza, si aggiungono poi due altre considerazioni piuttosto serie.

La prima riguarda il finale di servizio in cui dal raccontare una storia drammatica di bollette non pagate che rischiano di uccidere un malato, si passa a pubblicizzare una ditta con nome e cognome che produce pannelli solari. Si mostra come si montano, dove richiederli, c’è perfino l’unboxing del pannello solare.

La seconda, ovvero la più grave, è che tutto questo servizio rappresenta esattamente quello che nella maggior parte delle raccolte fondi destinate a privati c’è di sbagliato, ovvero l’idea che le persone debbano sostituirsi allo stato, alle istituzioni.

Se anche tutto quello che è stato raccontato fosse completo di ogni informazione (e non lo è), se davvero lo stato lasciasse morire persone in stato neurovegetativo perché ridotte in povertà dal caro bollette (e non lo è), il dovere di chi fa informazione dovrebbe essere quello di smuovere le istituzioni, non di fare collette.

Anche perché se fosse vero che questa è la sorte di tutti i malati la cui vita è appesa a una bolletta, dovremmo fare migliaia di collette, prendendoci carico noi cittadini delle spese della parte debole della società.

Fatto sta che alla fine le donazioni sono arrivate copiose e Le Iene, ancora una volta,  hanno fatto più disinformazione che beneficenza.  

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

·        Martiri del Lavoro.

Il lavoro che «uccide»: tre morti ogni giorno. Più colpiti donne e giovani. Enzo Riboni su Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022.

Secondo i dati Inail i decessi per infortuni professionali sono in media tre al giorno. Raddoppiati i ventenni che hanno perso la vita: 20 nel 2022, erano stati 10 nel 2021. Ma denunce dimezzate dal 2001 ad oggi

Tre morti al giorno, ininterrottamente, per 365 giorni all’anno. È questo, in media, il drammatico conteggio dei decessi causati da infortuni sul lavoro, nei primi dieci mesi di quest’anno. Eppure, questa inaccettabile ecatombe, che si compie quotidianamente mentre si sta lavorando o si viaggia da casa al luogo di lavoro, è fortemente sottostimata. Secondo Anmil, l’Associazione tra i lavoratori mutilati e invalidi del lavoro, manca una valutazione ufficiale delle morti aggiuntive dovute alle malattie professionali. «Le nostre proiezioni - spiega il vicepresidente di Anmil Emidio Deandri - ci dicono che devono essere aggiunti altri 3mila morti annui causati dalle conseguenze delle malattie contratte sul lavoro. Quei decessi sono dilazionati nel tempo e ciò diventa un alibi per evitare un serio impegno nel conteggiarli, nonostante il numero delle malattie professionali sia in continua crescita. Particolarmente drammatica è l’attesa dei decessi causati dall’asbestosi: si prevede un picco tra il 2025 e il 2026».

La bonifica mancata

L’allarme amianto è enfatizzato anche da Francesca Re David, segretaria nazionale Cgil con delega alla contrattazione e alla salute e sicurezza sul lavoro. «Se il 110 per cento fosse stato utilizzato anche per la bonifica dell’amianto sarebbe stata una cosa intelligente. Basti pensare che le morti per asbestosi sono 1.500-2.000 all’anno e che si ammalano non solo i lavoratori ma spesso anche i loro familiari».

Il quadro generale dipinto dall’Inail per gennaio-ottobre 2022 dà importanti indicazioni sui trend in atto. L’apparente contraddizione tra l’aumento (sul 2021) delle denunce di infortuni e la diminuzione dei decessi è sciolta da Silvia D’Amario, responsabile consulenza statistica e attuariale dell’Inail. «L’incremento delle denunce - spiega - è dovuto soprattutto alla recrudescenza dei contagi da Covid che, nei soli primi tre mesi di quest’anno, aveva già superato i casi registrati nell’intero 2021. Viceversa il calo dei decessi dipende molto dal fatto che, grazie alla campagna vaccinale, la letalità del virus sia molto diminuita. Se tuttavia si considerano solo i casi “tradizionali”, cioè depurati dall’incidenza Covid, le denunce di infortuni aumentano solo del 18,1%, mentre i casi mortali non diminuiscono più, attestandosi su un +6,4%».

La crescita dei numeri attuali sull’anno precedente, colpisce soprattutto le donne e i giovani. Le lavoratrici, infatti, stanno subendo un notevole incremento infortunistico (+54%), mentre gli uomini si fermano a +21% denunce. Le donne, inoltre, scontano 8 decessi in più, mentre i maschi riducono i casi letali di 116 unità. Drammatica è poi la situazione di mortalità dei giovanissimi che hanno meno di 20 anni: in un anno hanno raddoppiato i casi, da 10 a 20 decessi. All’opposto gli over 39, che quest’anno segnano 150 decessi in meno. «Se però ci dilatiamo su un intervallo di tempo più ampio, possiamo anche dare - sostiene D’Amario - un paio di buone notizie. Dal 2001 al 2021 le denunce di infortuni si sono quasi dimezzate. Inoltre, il dato infortunistico dell’anno scorso è stato il più basso dell’ultimo ventennio».

Una lettura, questa, che però non tranquillizza il sindacato. «Usare la parola incidente - avverte Re David - sta diventando non più sopportabile. Nonostante l’avanzamento delle tecnologie, negli ultimi 30 anni si muore sempre nello stesso modo: carichi sospesi, inalazioni di gas, cadute da impalcature, ribaltamenti di trattori, macchine a cui vengono tolti i sistemi di sicurezza per aumentare la produttività. Occorre dunque fare di più. Le risorse per l’innovazione che vengono date alle aziende, anche attraverso il Pnrr, devono essere vincolate all’adozione di misure sulla sicurezza attraverso le tecnologie 4.0 più avanzate e a una corretta organizzazione del lavoro. Inoltre, le condizioni di precarietà, di appalto e subappalto, creano un’oggettiva subalternità, che mette sotto ricatto i lavoratori: il rischio di perdere il lavoro è nemico della salute e sicurezza».

Poche ispezioni

Tanto più che il controllo sulla corretta applicazione, da parte delle aziende delle norme di prevenzione previste dal Testo Unico salute e sicurezza (D. Lgs 81/08) è affidato a una sparuta schiera di ispettori del lavoro. Infatti, oggi dei circa 2.500 ispettori solo 300 sono espressamente dedicati al controllo sicurezza. «In Italia - commenta Deandri - ci sono milioni di piccole e piccolissime imprese: ciò significa che la probabilità di essere controllate è di una volta ogni trent’anni, e chi non vuole spendere in prevenzione accetta il rischio sanzioni. È assolutamente necessario che le aziende estendano la formazione sulla sicurezza. Da parte nostra abbiamo varato la “Scuola testimonianza”: inviamo nelle scuole, università e aziende, nostri volontari infortunati che testimoniano, anche fisicamente, quali sono state le lacune della prevenzione che hanno portato all’incidente che li ha coinvolti».

Infortuni sul lavoro: storie e volti dietro i numeri. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 9 ottobre 2022.

Ieri era la giornata nazionale per ricordare le vittime degli incidenti sul lavoro. L’opera di sensibilizzazione di Andrea Lanari e degli altri testimonial della sicurezza in un paese dove abbiamo un ferito al minuto

Andrea Lanari dice che quel giorno stava centrando una lamiera in uno stampo. La pressa «si abbassò di colpo e mi tranciò le mani», racconta. Era il 4 giugno 2012. Le sue mani sono finite nel conteggio spaventoso degli infortuni sul lavoro di quell’anno. Un numero fra centinaia di migliaia di altri. Un numero della statistica nera che valeva allora e vale ancora oggi: a parte i morti (l’anno scorso 1221) nel nostro Paese abbiamo un ferito ogni minuto quando va bene, negli annus horribilis siamo arrivati a un ferito ogni 50 secondi. A volte cose di poco conto, più spesso invalidità gravi e permanenti.

Ieri era la giornata nazionale per ricordare le vittime degli incidenti sul lavoro. Sempre troppe e per un giorno — almeno uno - non soltanto cifre di questa o quella statistica ma anche storie, facce, vite. L’Anmil (Associazione nazionale dei lavoratori mutilati e invalidi del lavoro) ha organizzato ovunque incontri, riflessioni, testimonianze. E Andrea era uno di quei testimoni, sul palco allestito nello stabilimento Claber di Fiume Veneto, vicino Pordenone. Dopo l’incidente lui decise che raccontare di sé, mostrare le sue nuove mani dall’anima d’acciaio, doveva diventare una missione. Perché tutti capissero, ascoltandolo, che la sicurezza sul lavoro vale molto più dei soldi e del tempo risparmiati per evitarla.

Le sue giornate, oggi, sono dedicate al mestiere di «testimonial formatore per la salute e la sicurezza sul lavoro», una figura professionale voluta dall’Anmil e già in azione soltanto nelle Marche, nel Lazio e in Abruzzo (sono operativi circa 300 persone). Andrea, marchigiano di Castelfidardo, arriva sul palco di un evento, davanti agli studenti di una scuola, o di fronte ai lavoratori di un’azienda, e comincia a parlare del suo 4 giugno 2012. La sicurezza che mancava, zero formazione, la pressa, le mani, il sangue, la corsa in ospedale, il risveglio dopo la doppia amputazione... A volte si ferma. Pausa. Ricaccia indietro le lacrime arrivate sull’orlo degli occhi e riprende. Con pazienza, con dolcezza, con la voce che trema. Nel silenzio della sala le sue parole prendono forma ed è un po’ come tornare lì assieme a lui in quel giorno di giugno. «Ogni volta per me è traumatico, ma credo nel valore della testimonianza», è la sua conclusione. Anche noi. Ci vorrebbero migliaia di Andrea a ricordare a tutti l’importanza del lavoro sicuro.

Paolo Baroni per “La Stampa” il 26 luglio 2022.

Al netto dei contagi da Covid di origine professionale (che risultano in fortissimo calo) l'anno passato gli incidenti mortali sul lavoro sono aumentati quasi del 10%, gli infortuni tradizionali del 20% e le malattie professionali del 22, 8%. Il nuovo allarme sulla sicurezza arriva direttamente dal presidente dell'Inail che ieri alla Camera ha illustrato la sua relazione annuale ha presentato le cifre definitive riferite al 2021. 

Dati «inaccettabili» li ha definiti il ministro del Lavoro Andrea Orlando, anche alla luce del fatto che nei primi 5 mesi di quest'anno gli infortuni sono aumentati di un altro 50%, mentre per fortuna i decessi sono scesi del 16% a quota 364. Comunque sempre troppi. 

«La ripresa delle attività produttive dopo la pandemia deve proseguire in accordo con l'esigenza primaria di garantire la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro» ha ammonito Bettoni, che oltre ad illustrare l'andamento di infortuni e malattie professionali ha fatto il punto sulle attività svolte (oltre 7 milioni di prestazioni, 523mila prime cure e 139 mila interventi di riabilitazione erogati), illustrato i risultati economici conseguiti (9, 078 miliardi di entrate ed un risultato finanziario positivo per 820 milioni) e gli obiettivi strategici per il futuro, dall'attenzione ai cantieri del Pnrr all'impegno di far crescere la platea dei tutelati, a partire dagli studenti a quello per azzerare i morti sul lavoro, più volte sollecitato dal Capo dello Stato.

Al riguardo Bettoni ha confermato che «l'Inail è pronto a fare la sua parte, aumentando gli investimenti e avvalendosi dei progressi compiuti in questi anni dalla ricerca scientifica». 

Per quanto riguarda in dettaglio i dati, le denunce di infortunio con esito mortale registrate dall'Inail l'anno passato sono state 1. 361, il 19,2% in meno del 2020. Ma come segnala lo stesso Istituto la contrazione è legata interamente ai decessi causati dal contagio da Covid-19, passati dai circa 600 del 2020 a circa 200. Le denunce di infortuni mortali «tradizionali», al contrario, sono aumentate di quasi il 10% rispetto al 2020, sia nella componente «in occasione di lavoro» che in quella «in itinere». 

Gli infortuni mortali accertati sul lavoro sono 685, di cui 298, pari al 43, 5% del totale, avvenuti «fuori dell'azienda» (57 casi sono ancora in istruttoria). Gli infortuni sul lavoro sono stati invece più di 564 mila, in calo dell'1, 4% rispetto al 2020. Anche in questo caso la diminuzione è dovuta esclusivamente alla contrazione dei contagi professionali da Covid-19, passati dai quasi 150mila a circa 50mila.

Le denunce di infortunio «tradizionale», al netto dei casi da Covid-19, sono invece salite di circa il 20% rispetto al 2020, 349. 643 quelli riconosciuti sul lavoro, il 17, 5% dei quali avvenuti nel tragitto casa-lavoro. Dall'analisi dei dati del 2021 emerge anche un aumento notevole delle denunce di malattia professionale salite del 22,8% oltre quota 55 mila, con oltre 38 mila lavoratori ammalati di cui il 40,3% per causa professionale riconosciuta (948 quelli con malattie causate dall'esposizione all'amianto), 820 i deceduti (-23, 6%), di cui 154 per silicosi/asbestosi. 

«I dati dell'Inail fotografano una realtà inaccettabile, numeri indegni di un Paese civile. Ma il dato più allarmante è quello relativo ai primi mesi del 2022 che indica una crescita degli infortuni di quasi il 50% sul 2021» ha commentato il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri, che dopo aver lanciato nei mesi passati la campagna «Zero morti sul lavoro» ora chiede che le aziende che violano le norme sulla sicurezza non siano ammesse a partecipare ai bandi pubblici e la loro espulsione dalle associazioni datoriali, perché non è accettabile che le imprese «puntino ad ogni costo solo a recuperare i profitti persi». 

Sicurezza sul lavoro, 887 milioni di euro bloccati nelle casse dell’Inail. DATAROOM Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 03 ottobre 2022.

In Italia si muore di lavoro, e sempre di più: nei primi sette mesi del 2022 gli infortuni professionali sono aumentati del 41% (441.451 denunce) rispetto allo stesso periodo del 2021. Il numero dei decessi a fine agosto è di 677, appare in calo del 12% ma è solo per l’enorme diminuzione dei decessi per Covid che nel 2021 erano il 68% e oggi sono fermi al 3% del totale. Crescono invece le morti da infortunio, soprattutto nella fascia di età più elevata e tra giovanissimi (15-24 anni), con i drammi di chi resta ucciso durante uno stage o in alternanza scuola-lavoro (dove non dovrebbe proprio essere esposto a rischi). Il 21 gennaio un 18 enne muore schiacciato a Udine nell’ultimo giorno di stage. Il 16 settembre a Noventa di Piave un 18 enne viene travolto da una lastra di ferro mentre era in stage di lavoro. Il 26 settembre un ragazzo perde la vita cadendo da un’impalcatura edile a Rossano Calabro; il giorno dopo a Manerbio, Brescia, un operaio di 60 anni muore schiacciato da un rullo trasportatore; il 28 un addetto allo smaltimento dell’amianto ucciso da una caduta dal tetto di una fabbrica a Teramo; un agricoltore schiacciato da un trattore nel cosentino; uno ucciso da una pressa a Torino. E il 30 settembre, dopo 15 giorni di agonia, muore un operaio che era rimasto schiacciato da un pantografo mentre rimuoveva dei pannelli in un’azienda di Milano dove era utilizzato in subappalto. E raddoppiano le morti tra i lavoratori stranieri. A fine anno avremo un’analisi più indicativa della situazione infortunistica 2022, ma ad oggi, ogni otto ore un lavoratore perde la vita. 

I rimborsi per investire in sicurezza

Vigilare su fabbriche e cantieri è compito dell’Ispettorato del Lavoro, tocca invece all’Inail risarcire gli infortunati e i disabili e le famiglie che hanno perso un congiunto. Dal 2010 l’Istituto eroga un finanziamento annuale a fondo perduto (Bando Isi) per rimborsare dal 50 al 65% delle spese le aziende che investono in sicurezza, ad esempio sostituendo attrezzature vecchie e pericolose, eliminando l’amianto dalle strutture o migliorando i sistemi di protezione per le cadute o, ancora, mettendo in sicurezza le macchine agricole. Insomma, tramite il bando lo stato vuole prevenire oltre che curare, e questo è un bene. Ricevendo un massimo di 130 mila euro (ma la cifra media è 38 mila) tu imprenditore hai un contributo importante per migliorare la sicurezza di un ponteggio, sostituire il tuo vecchio trattore o una macchina da taglio non più sicura. Le domande presentate ogni anno superano le 20.000. 

Accede chi è più veloce

Per scegliere chi finanziare, l’Inail ha adottato il sistema «cieco e selettivo» (sono parole del nuovo direttore generale Andrea Tardiola) del click day. Se vuoi ricevere il denaro, devi caricare su una piattaforma informatica un progetto di messa in sicurezza così articolato e complesso che la maggior parte delle aziende è costretta farlo redigere (pagando) ad agenzie specializzate. Poi nel giorno e all’ora stabiliti, le 22/24mila aziende inseriscono le credenziali sulla piattaforma e incrociano le dita: solo le prime seimila in ordine cronologico entrano nella lista, quelle più veloci, e poi hanno 30 giorni di tempo per perfezionare la domanda; le altre vengono messe in posizione di attesa. In media 500 delle 6.000 aziende non fanno in tempo o non sono in grado di completare la pratica, e quindi vengono escluse e sostituite dalle prime 500 in attesa. Le altre 16.000 devono attendere l’anno dopo e riprovare la lotteria del click day. 

Rigettata una domanda su quattro

Il criterio con il quale il consiglio di amministrazione dell’Inail eroga il denaro alle sue 22 sedi periferiche è in base al numero di aziende e addetti presenti sul territorio, e al peso delle attività nei vari settori. Nel 2021 ammontava a 273 milioni di euro. Però prima di distribuire i soldi stanziati alle singole aziende, le pratiche devono superare l’istruttoria delle sedi Inail competenti. Una su quattro viene rigettata dalle commissioni tecniche regionali giudicanti perché incompleta o ininfluente sulla sicurezza. Ci sono commissioni severissime (Veneto, e Piemonte) che bocciano progetti accettati in altre e che sarebbero perfettamente in regola secondo gli esperti che le hanno redatte. «Purtroppo succede che non ci sia uniformità di valutazione – ammette il direttore dell’Inail Tardiola – anche per una diversa sensibilità sul riconoscimento degli infortuni. Gli ingegneri valutatori di Bari, ad esempio, hanno un’attenzione differente da quelli di Torino e sono magari più preparati sulla manifattura che sull’agricoltura o viceversa». Succede ma non dovrebbe, perché un vecchio trattore senza rollbar che si capovolge uccide in Sardegna come in Piemonte, e una pressa senza protezione amputa una mano o un braccio senza preoccuparsi di dove si trova. 

887 milioni congelati

Dunque le 1200 aziende bocciate in fase istruttoria non possono essere rimpiazzate da quelle in lista di attesa? No, spiegano all’Inail, perché rallenterebbe il processo di erogazione dei rimborsi che loro vogliono dare alle aziende (in media passano 18 mesi fra la domanda e l’incasso) affinché possano al più presto rendere il lavoro più sicuro. Principio sacrosanto. Colpisce però un fatto: su 2 miliardi e 179 milioni di euro stanziati dal 2010 al 2018, ben 887 (il 40%) non sono mai stati distribuiti e quindi investiti in sicurezza. E questo in un Paese che si piazza la 14 esimo posto in Europa per tasso di infortuni mortali. Infatti il denaro, come abbiamo detto, viene bonificato dall’Inail alle sedi regionali prima della verifica che taglia il 25% delle aziende in lista, e i soldi avanzati rimangono quindi fermi nelle loro casse, da Aosta a Milano, da Bari, a Palermo. Perché? Risposta dall’Inail: «è una regola di contabilità generale, sono risorse di investimento che entrano in bilancio e vanno nel ciclo successivo». In altre parole: quello che avanza quest’anno viene recuperato due anni dopo. 

La Lombardia incassa mediamente 43 milioni l’anno, il Lazio 33, la Campania 25, mentre in coda ci sono Molise e Valle d’Aosta. La Sicilia è la regione che riceve più contributi per la sicurezza nel settore agricolo davanti a Campania e Puglia. Nessuna però rende nota la percentuale di promossi e bocciati, cioè quanto resta in cassa. Qualche informazione in più c’è sulla Toscana: nel 2021 (su bando del 2020, qui il documento) incassa 18 milioni, ne spende 11, e gli altri 7 restano in tesoreria. Che diventano 14 nel 2022 (poiché gli andamenti sono abbastanza costanti). E solo nel 2023 si potranno utilizzare i 7 del 2021. 

L’Inail ha sempre ragione

Ma perché il sistema trattiene risorse già pronte? Il direttore dell’Inail spiega che, per evitare truffe come quelle dei bonus sull’edilizia, i controlli e il filtraggio devono essere rigorosi fino alla fine. Ovvero prima di incassare il rimborso l’azienda deve aver effettuato l’acquisto approvato in sede istruttoria. Giusto. Inoltre, sempre secondo Inail, gli intermediari spingono le aziende a redigere progetti «deboli» per incassare le provvigioni. Gli intermediari smentiscono: quando un progetto è bocciato loro non intascano un soldo. Anzi, ne spendono per ricorrere al Tar che molto spesso dà loro ragione. Quando si arriva al Consiglio di Stato, però, l’Inail vince quattro volte su cinque. All’Istituto dicono che il contenzioso è bassissimo (meno di 40 sconfitte negli ultimi anni). Insomma i soldi si tengono fermi per capire come va a finire, e non è contemplato lo scorrimento di chi è in lista d’attesa. Tra i progetti di miglioramento del sistema c’è invece quello di un filtro iniziale che vada a premiare le aziende con più storia alle spalle e quelle che investono di più di tasca propria in sicurezza, per scremare il numero delle domande prima del click day. In sostanza chi ha più risorse ha una via preferenziale per averne ancora di più, e chi fatica ad andare avanti con macchinari obsoleti resta in coda e in condizioni di insicurezza. Intanto quest’anno la somma disponibile, ma non utilizzabile, toccherà il miliardo di euro.

L’invisibile. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2022.

 Non sappiamo ancora che cosa abbia ucciso sul colpo l’operaia specializzata Nicoletta Palladini, se un errore umano o un guasto al macchinario che l’ha stritolata. Sappiamo però che l’ennesima e inaccettabile tragedia sul lavoro ha portato alla luce la storia di una delle tante persone che non fanno notizia, ma fanno l’Italia. E la fanno un po’ migliore di come la raccontiamo ogni giorno, anche in questa rubrica.

Nicoletta lavorava da ventisei anni nell’unica vetreria del suo paese, Borgonovo, in provincia di Piacenza. Entrava in fabbrica alle dieci di sera e ne usciva alle sei del mattino. A quei ritmi ha tirato su due figli fino all’università, trovando anche il tempo, Dio sa come, di accudire una madre invalida. Non era particolarmente popolare, nessuno le chiedeva un selfie e non faceva incetta di «like». Non si ricordano sue dichiarazioni memorabili sui social, né credo le abbiano mai dato una coppa o una medaglia. Per i parametri contemporanei era un’invisibile. Eppure, di rado capita di imbattersi in una vita così piena di senso. Nicoletta si prendeva cura delle persone che amava e di un lavoro che le piaceva. Non era una vittima del sistema e nemmeno un’eroina del nostro tempo. Era semplicemente una donna che ogni giorno portava il suo mattone di altruismo e affidabilità alla costruzione della casa comune. Sui libri di storia ci finiscono i condottieri e gli artisti, ma a fare la Storia sono le «nicolette».

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Piacenza, operaia muore schiacciata in una vetreria. Lavoratori in assemblea permanente: "Mai più vittime sul lavoro". Nicoletta Palladini è morta questa notte a Borgonovo, all'interno della vetreria in cui lavorava.

La vittima, Nicoletta Palladini, aveva 50 anni. La Repubblica il 7 novembre 2022.

Una donna di 50 anni, Nicoletta Palladini, è morta questa notte dopo essere rimasta schiacciata mentre era al lavoro in una vetreria a Borgonovo, in provincia di Piacenza. L'incidente è avvenuto poco prima delle 3: la donna è rimasta incastrata e schiacciata tra un nastro trasportatore e un macchinario porta bancali. E' deceduta sul colpo.

La Procura della Repubblica di Piacenza ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Il sostituto procuratore Matteo Centini, che coordina le indagini dei carabinieri, ha disposto il sequestro dei macchinari e l'autopsia sul corpo della vittima. Pare che non vi siano testimoni diretti del tragico infortunio, ma che i colleghi siano accorsi subito dopo, attivando i soccorsi.

Alla vetreria di Borgonovo i sindacati hanno proclamato un'assemblea permanente. La produzione si è interrotta e le colleghe e i colleghi si sono riuniti per chiedere che "mai più si debba piangere una donna o un uomo che esce da casa per lavorare non vi fa più ritorno", dicono Stefano Rossi, segretario generale Filctem Cgil Piacenza, Massimo Pellizzari, Femca Cisl Parma-Piacenza, Sara Leonelli, Uiltec-Uil.

"Il nostro cordoglio va alla famiglia di Nicoletta Paladini - sottolineano i sindacalisti - vogliamo esprimere la nostra vicinanza a parenti, amici e colleghi. Oggi, occorre ribadire che la strage delle morti sul lavoro non si ferma, e la responsabilità cade su tutte e tutti noi. Usare la parola incidente sta diventando insopportabile, questi non sono solo incidenti disgraziati, ma sono dovuti al fatto che servono maggiori investimenti per le lavoratrici e i lavoratori a garanzia della loro sicurezza, di cui oggi si percepisce una grave carenza".

I sindacalisti scrivono che "negli ultimi anni da più parti è venuta avanti una narrazione che ha visto il lavoro più come un costo che come una risorsa. Non vanno messe in discussione norme del codice degli appalti che con la logica della semplificazione intervengono sul costo del lavoro smantellando regole e diritti. Vanno rafforzati gli organismi di controllo e di ispezione e la medicina del lavoro sul territorio. Non è più tempo di parole ma di azioni concrete e di messa in campo di risorse da parte delle istituzioni e delle autorità competenti".

La protesta per questa nuova morte sul lavoro andrà avanti, "lo sdegno e il dolore non durerà solo per il tempo imposto dalle circostanze, ma rimarremo al fianco delle compagne e dei compagni di lavoro di Nicoletta per sostenerli con tutti i mezzi necessari". Infine, viene rilanciato l'appello "affinché si trovino risposte adeguate e concrete, anche attraverso l'apposito Osservatorio sugli infortuni presieduto dal Prefetto di Piacenza, e si mettano pertanto in atto tutte le misure per far cessare questa strage. Vogliamo e dobbiamo riaffermare il concetto: 'Mai più morti sul lavoro!".

Monica Serra per “la Stampa” il 9 novembre 2022.

La vetreria di Borgonovo Val Tidone non si è fermata lunedì. Non si è fermata neanche ieri. «La produzione prima di tutto. La produzione sopra a ogni cosa. Si è perso il valore delle persone. Sei solo un numero. Contano i soldi e quel che produci. Niente altro».

Sono arrabbiati i colleghi di Nicoletta Palladini, l'operaia cinquantenne che, nella notte tra domenica e lunedì ha perso la vita in questa azienda, a una ventina di chilometri da Piacenza, stritolata tra i rulli e la navetta del reparto "Fondo linea". «Non c'è più il rispetto per le persone. Neanche per la morte», ripetono. 

Avevano chiesto all'azienda di bloccarsi, di sospendere le attività almeno un giorno, in segno di lutto e di rispetto per la famiglia di Nicoletta. Per i colleghi che hanno provato a soccorrerla, che l'hanno vista lì, con il corpo incastrato nel macchinario che l'ha uccisa. E invece niente.

 «Anche i colleghi che l'hanno trovata morta domenica notte sono dovuti tornare la notte di lunedì. A lavorare intorno al punto esatto in cui lei ha perso la vita» Una scelta che l'azienda preferisce non commentare: «Abbiamo ritenuto di non sospendere le attività. Chi non se la sentiva poteva scegliere individualmente di restare a casa», taglia corto con modi gentili Elena Remondini, responsabile del personale. 

Così, a partire dalle 14 di ieri pomeriggio e poi ancora alle 18 per una fiaccolata simbolica, parte degli operai ha deciso di scioperare, e di organizzare con i sindacati un presidio permanente davanti ai cancelli dell'azienda. Non solo i colleghi, ma anche chi conosceva Nicoletta è venuto qui a onorarla, a portare rose bianche e margherite sotto la sua foto sorridente, appesa alla ringhiera della vetreria.

«Nicoletta era così, rideva sempre, era piena di forza, non si risparmiava mai. Con nessuno. Né con noi né con la sua famiglia», racconta un'operaia che chiede di restare anonima. Come tutti qui «perché è meglio parlare con un'unica voce, non esporsi personalmente». 

Ricorda che ha iniziato a lavorare qui nel 2000, a 19 anni: «Nicoletta era arrivata quattro anni prima di me. Le ho subito voluto bene, era così solare. E le risate, solo quelle, voglio ricordarmi di lei. Era come una sorella, che poi assomigliava anche a mia sorella. Non si fermava mai».

Continua a fregarsi le mani, nervosamente mentre guarda la foto di Nicoletta: «Ha fatto tanti sacrifici per la sua famiglia, per quei due figli Giovara e Joshua. La più grande è un bravo medico, il suo orgoglio. Il secondo, bellissimo, uno sportivo, era il suo cocco. Ora sono distrutti. Era così felice Nicoletta, che finalmente, col marito Giorgio, era riuscita a comprare la casa, a ristrutturarla. Quanto l'aveva sognata. Tanti sacrifici. Troppi, per finire così».

Anche al reparto di Nicoletta le attività sono state sospese solo fino alla fine del turno della notte tra domenica e lunedì. Poche ore dopo il ritrovamento del corpo della donna, il tentativo vano di salvarla, le urla disperate dei colleghi, la produzione è ripartita «come nulla fosse successo». 

Sono lacrime e abbracci al presidio. Soprattutto tra le operaie che da una vita lavorano in questa vetreria. Che negli ultimi vent' anni, con Nicoletta hanno diviso problemi, preoccupazioni, sorrisi.

C'è anche il cognato, Tino, che va e viene dal presidio: «Ho lavorato trentasei anni in questa azienda anch' io. Ora sono in pensione. Non si può morire così. È inaccettabile».

 In attesa dell'autopsia e delle indagini dei carabinieri - in due sono indagati per omicidio colposo, tra loro il titolare della vetreria - Tino non vuole aggiungere altro: «Lo faremo al momento giusto». Sono tante le ipotesi dietro alla morte Nicoletta: solo la consulenza che a breve sarà disposta dalla procura potrà chiarire che cosa è successo. Per ora resta il dolore dei colleghi: «Non doveva essere pericoloso. Come è potuto succedere? Nel 2022 non si può morire così».

La tragedia di Nicoletta. L'operaia specializzata uccisa da un macchinario. Incastrata in un nastro trasportatore nel turno di notte. Ieri altre 2 morti bianche. Tiziana Paolocci l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tre lavoratori hanno perso la vita ieri a distanza di poche ore uno dall'altro. Si allunga il triste elenco delle morti bianche in Italia e ci si interroga su come si possa arginare questa piaga.

La prima vittima si chiama Nicoletta Palladini, 50 anni, dipendente da 26 di una vetreria a Borgonovo, in provincia di Piacenza. Otto ore dopo la stessa sorte è toccata a un quarantunenne di origine marocchina, che stava lavorando nell'azienda Alessio Tubi di La Loggia, nel Torinese. E in serata la terza tragedia, a Casal di Principe, nel Casertano dove ha perso la vita un uomo di 49 anni di Cesa.

Il decesso di Nicoletta, madre di due figli, nata e cresciuta a Borgonovo, risale alle 3 di ieri mattina. La donna, addetta alla creazione di prodotti in vetro, è rimasta incastrata e schiacciata tra un nastro trasportatore e un macchinario porta bancali. Saranno gli accertamenti dei carabinieri della compagnia di Piacenza, coordinati dalla Procura, a chiarire la dinamica esatta di cosa sia successo in quei secondi che l'hanno strappata alla vita. L'operaia è morta sul colpo e i soccorsi sono stati inutili. I sanitari non hanno potuto far altro che assistere i vigili del fuoco al lavoro per liberare quel corpo dai macchinario, posto sotto sequestrato dalle autorità per le verifiche del caso.

Subito dopo, la produzione è stata interrotta e i sindacati hanno proclamato un'assemblea permanente. «Non accada mai più che si debba piangere una donna o un uomo che esce da casa per lavorare e non vi fa più ritorno - dicono Stefano Rossi, segretario generale Filctem Cgil Piacenza, Massimo Pellizzari, Femca Cisl Parma-Piacenza, Sara Leonelli, Uiltec-Uil -. Il nostro cordoglio va alla famiglia di Nicoletta Paladini. Occorre ribadire che la strage delle morti sul lavoro non si ferma e la responsabilità cade su tutti noi». «Usare la parola incidente sta diventando insopportabile - sottolineano - questi non sono solo incidenti disgraziati, ma sono dovuti al fatto che servono maggiori investimenti per le lavoratrici e i lavoratori a garanzia della loro sicurezza, di cui oggi si percepisce una grave carenza». I sindacalisti chiedono che vengano rafforzati gli organismi di controllo e di ispezione e la medicina del lavoro sul territorio.

E a distanza di sette ore nel Torinese è morto il 41enne marocchino, schiacciato da una catasta di tubi di metallo. L'incidente si è verificato poco dopo le 10 e i vigili del fuoco hanno lavorato un bel po' per individuare ed estrarre il corpo dell'uomo, assunto con contratto interinale. L'accaduto è sotto la lente d'ingrandimento della Procura e degli ispettori del Servizio prevenzione e sicurezza del lavoro) della Asl To5. «La mancanza di investimenti su salute e sicurezza da parte delle imprese - dice Edi Lazzi, segretario generale della Fiom-Cgil di Torino - la pressione sulla velocità con cui compiere le operazioni di lavoro per abbassare i costi, il flagello del lavoro precario che rende i lavoratori ricattabili e la mancanza di controlli per la carenza di ispettori sono le cause principali di questo continuo stillicidio».

Infine in serata, a Casal di Principe, un operaio stava effettuando un sopralluogo per conto di un'impresa su un capannone industriale di via Saturno quando il tetto ha ceduto, provocandone la caduta da un'altezza di cinque metri. Trasportato all'ospedale di Aversa, prima, poi a quello di Caserta, è deceduto poco dopo.

Incidenti sul lavoro nel casertano operaio 49enne muore cadendo dal tetto. La Repubblica il 7 novembre 2022.

Ennesimo incidente mortale sul lavoro nel casertano. Un 49enne di Cesa, Francesco Petito, è morto mentre stava eseguendo dei lavori in un cantiere nella vicina Casal di Principe.

Stando ad una prima ricostruzione dei fatti, l'uomo sarebbe precipitato da un tetto, a quanto pare a causa dell'apertura di una botola. Inutile l'arrivo dei soccorsi, troppo gravi le ferite riportate dopo la caduta.

Un incidente fatale per "un padre di famiglia, da tutti conosciuto come un onesto lavoratore", così come lo ha descritto il sindaco di Cesa Enzo Guida.

Il dramma. Crolla tetto di un capannone, operaio precipita per cinque metri e muore: Francesco aveva 49 anni. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Novembre 2022

È morto cadendo dal tetto di un capannone che improvvisamente ha ceduto, facendolo precipitare per circa cinque metri. È morto così Francesco Petito, operaio 49enne di Cesa, in provincia di Caserta.

Teatro della tragedia un capannone di Saturno a Casal di Principe, dove Petito stava effettuando un sopralluogo. L’uomo è caduto da un’altezza di cinque metri, l’impatto al suolo è stato drammatico: i soccorsi lo hanno trovato ancora vivo ma in gravi condizioni.

Il 49enne è stato trasportato d’urgenza all’ospedale di Caserta dove i medici hanno tentato di salvargli la vita, ma nel pomeriggio il personale del Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta ne hanno dichiarato il decesso.

La salma è stata messa a disposizione dell’autorità giudiziaria di Napoli Nord che dovrà valutare il da farsi, probabilmente autorizzando l’autopsia: i magistrati hanno aperto un fascicolo d’indagine sull’incidente costato la vita a Petito.

Il sindaco di Cesa Enzo Guida, in una nota, ha espresso vicinanza alla famiglia della vittima per “questo immenso lutto“. “La nostra comunità è stata colpita da un nuovo lutto, un nuovo decesso sul luogo di lavoro. Purtroppo ha perso la vita un padre di famiglia, nel mentre lavorava su di un cantiere. Francesco Petito, 49 anni, da tutti conosciuto a Cesa come un onesto lavoratore ha perso la vita“, fa sapere il primo cittadino.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Candiolo, operaio di 57 anni muore incastrato in una pressa. Cristina Palazzo su La Repubblica il 29 Settembre 2022. 

L'incidente in un'azienda di stampaggi industriali, indagano i carabinieri

Incidente sul lavoro mortale a Candiolo. È successo questo pomeriggio poco prima delle 17. A perdere la vita un uomo di 57 anni che lavorava nella ditta di stampaggi.

Dalle prime ricostruzioni sarebbe rimasto incastrato in una pressa industriale. È intervenuto l’elicottero del 118 ma non è servito a salvare la vita all’operaio. Sono intervenuti anche i vigli del fuoco. Sono in corso le indagini dei carabinieri 

Incidente sul lavoro, cade da 10 metri: operaio muore nel Teramano. La Repubblica il 28 Settembre 2022. 

Il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri: "Ci vuole una procura speciale contro questi omicidi"

Un'altra tragedia sul lavoro in un'azienda del Teramano, a 15 giorni dall'incidente alla Metallurgica Abruzzese a Marina di Mosciano. Questa mattina ha perso la vita Roberto Scipione, 52enne dipendente di una ditta esterna che stava lavorando sul tetto dell'azienda Ecotel di Pianura di Guardia Vomano (Teramo), impegnata in un intervento di bonifica dell'amianto. Per motivi che sono ancora in corso di accertamento, anche da parte degli ispettori della Asl di Teramo, l'operaio ha perso l'equilibrio ed è precipitato per una decina di metri.

Nonostante il trasferimento all'ospedale di Teramo in elicottero, per il 52enne non c'è stato nulla da fare. Il 13 settembre scorso un altro infortunio sul lavoro è costato la vita a un operaio di 49 anni, Tonino Fanesi, nella Metallurgica Abruzzese, azienda che produce reti metalliche in Contrada Marina di Mosciano, nel Teramano, e che fa capo al gruppo emiliano Cavatorta. La vittima era impegnata nella manutenzione di un macchinario che si era bloccato e che si era rimesso improvvisamente in moto, proprio mentre l'operaio stava cercando di riavviarlo. Il colpo violentissimo alla testa gli è stato fatale.

Bombardieri: "Procura speciale contro questi omicidi sul lavoro"

"Sul lavoro, in agricoltura e in generale, c'è tanto da fare. La nostra organizzazione non fa distinzione tra lavoratori, di provenienza, di religione, di colore della pelle. Continuano a esserci 1200 morti l'anno. Gli incidenti sul lavoro sono 500mila. Ma non sono incidenti, bensì omicidi quando si violano le norme sulla sicurezza". Lo ha detto il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri intervenendo al Congresso nazionale della Uila a Roma. "È arrivata l'ora di creare una Procura speciale ad hoc per questi omicidi. Dovremmo stabilire un principio: chi viola le norme sulla sicurezza non può accedere ai bandi pubblici, e anche le associazioni datoriali dovrebbero mettere fuori le aziende che hanno violato quelle leggi".

Incidente sul lavoro a Soresina, Alberto Pedrazzi muore schiacciato dal macchinario che cercava di riparare. Francesca Morandi su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.

Alberto Pedrazzi, 49 anni, cotitolare dell’impresa che si occupa di lavorazione di precisione, tentava di sbloccare un ingranaggio inceppato, quando all’improvviso il macchinario è ripartito

Un altro incidente mortale sul lavoro in Lombardia. È accaduto intorno alle 14 di venerdì alla Pedrazzi Giacomo, azienda metalmeccanica alla periferia di Soresina (Cremona). Alberto Pedrazzi, 49 anni, cotitolare dell’impresa che si occupa di lavorazione di precisione, ha perso la vita mentre tentava di sbloccare un macchinario che si era inceppato.

Pedrazzi, meccanico esperto, stava lavorando sulla macchina spenta, ma qualcosa non ha funzionato: il macchinario è ripartito all’improvviso. Il braccio di Pedrazzi è rimasto incastrato negli ingranaggi ed è stato schiacciato. Il lavoratore ha riportato gravi ferite anche al collo, sin quasi alla testa. Sul posto è arrivata l’ambulanza, dall’ospedale di Brescia è decollato l’elisoccorso. Purtroppo, ogni tentativo di salvare il 49enne si è rivelato vano. Sul luogo della tragedia sono arrivati i carabinieri e il personale dell’Ats Val Padana.

Sempre in Lombardia, a Giussano (Monza), venerdì si è verificato un altro grave incidente sul lavoro: in gravi condizioni un operaio di 57 anni , infortunatosi in un’azienda di via Viganò che lavora per la realizzazione di prodotti in cemento e calcestruzzo. Stava effettuando un intervento di manutenzione su una piattaforma aerea, quando è caduto al suolo battendo con forza il capo.

Incidenti sul lavoro, muore a 49 anni schiacciato da un macchinario nella sua azienda. Redazione Milano su La Repubblica il 23 Settembre 2022. 

E' accaduto a Soresina, nel Cremonese. Alberto Pedrazzi era il cotitolare di un'impresa che si occupa di lavorazioni di precisione 

Tragico incidente sul lavoro, poco dopo le 14, in un'azienda metalmeccanica di Soresina, in provincia di Cremona: alla 'Pedrazzi Giacomo', impresa che si occupa di lavorazione di precisione, il 49enne Alberto Pedrazzi, cotitolare dell'azienda, è morto schiacciato mentre tentava di sbloccare un macchinario che si era improvvisamente inceppato.

Cause e dinamica dell'incidente sono al vaglio dei carabinieri e degli ispettori di Ats Val Padana.

E un altro grave incidente si era verificato in mattinata in Brianza: a Giussano, un operaio 57enne di una ditta di manutenzioni esterna, è caduto da una piattaforma mobile in un'azienda. L'uomo, precipitato da un'altezza di oltre due metri, è ricoverato in condizioni serie all'ospedale Niguarda di Milano.

Moltrasio, due operai morti intossicati nel cantiere: «Samir e Salah dormivano lì per evitare le spese di viaggio». Anna Campaniello su Il Corriere della Sera il 21 settembre 2022.  

Erano arrivati dall’Egitto solo pochi mesi fa e si erano sistemati a Milano, assieme ad altri familiari e connazionali. Poi il lavoro nel cantiere edile affacciato sul lago di Como. Un cantiere, a Moltrasio, che era diventato anche la casa di Samir Mohamed Said, 29 anni e Salah Abdelaziz, 25 anni. Per evitare il tragitto quotidiano, che richiedeva tempo e denaro, dormivano in un container prefabbricato allestito nell’area in cui stavano costruendo un edificio residenziale.

Moltrasio, due operai morti in un cantiere

Martedì sera, come sembra facessero da quasi un mese, sono andati a dormire nella baracca. La temperatura però si era abbassata e prima hanno acceso un braciere per scaldarsi. Non si sono più svegliati. Mercoledì mattina, erano ancora distesi, immobili e ormai senza vita quando un collega di 62 anni, non vedendoli, ha aperto la porta del container scoprendo la tragedia.

«Non riesco a parlare, non so cosa dire. Morire così…», ripete l’operaio, sconvolto davanti al cancello del cantiere chiuso durante i rilievi delle forze dell’ordine. L’uomo, anche lui egiziano, lavorava da agosto a Moltrasio con i due giovani. «Erano arrivati da poco e vivevano nel Milanese — spiega —. I primi giorni di lavoro facevano il tragitto da casa al cantiere con me, poi hanno chiesto di poter stare a dormire a Moltrasio, nella casetta, per evitare gli spostamenti». Tra i primi ad arrivare a Moltrasio il fratello di una delle vittime. Non parla italiano. Lo accompagna il suo datore di lavoro, che gli rimane accanto per tutta la lunga, straziante attesa fuori dal cantiere prima di poter parlare con le forze dell’ordine. «Ha ricevuto una telefonata e ha saputo che suo fratello aveva avuto un incidente — spiega il titolare, a sua volta attivo nel settore edile, che preferisce rimanere anonimo —. L’ho subito accompagnato per non lasciarlo da solo. È una situazione drammatica».

In poche ore, a Moltrasio arrivano anche altri familiari e amici dei due giovani morti nel cantiere. La notizia della tragedia si è diffusa rapidamente nella comunità egiziana del Milanese, dove anche Said e Salah vivevano da pochi mesi. «Veniamo tutti dalla stessa zona dell’Egitto e ci sentiamo tutti parenti, cugini», dicono. Qualche momento di tensione quando alcuni amici delle vittime si intrufolano nell’area di cantiere perché vogliono capire cosa sia accaduto. I carabinieri stanno ancora facendo i rilievi, ma dopo aver parlato con i ragazzi, sconvolti, li invitano solo ad allontanarsi per completare il loro lavoro. «Dormivano qui da quasi un mese — dice un cugino di Said —. Prima faceva caldo e lasciavano tutto aperto, ma ora la temperatura è scesa e avranno cercato di scaldarsi. Ora vogliamo capire bene cosa sia successo».

A Moltrasio arrivano anche i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, di Como. I delegati della Cgil erano impegnati nell’attivo provinciale e si sono subito mossi dopo la notizia del tragico incidente. Programmato per giovedì, dalle 10 alle 12, un presidio davanti alla prefettura. «In un paese civile non può accadere che si dorma in una baracca di cantiere — denunciano i vertici di Cgil, Cisl e Uil di Como —. È una situazione non rispettosa delle più elementari norme di igiene e sicurezza, nonché della dignità della persona. Morire in quelle condizioni è terribile e insensato».

Poche ore dopo, sempre nel Comasco, si è verificato un secondo incidente mortale. Un agricoltore di 75 anni, Pierangelo Bastai, è deceduto dopo essersi ribaltato con il trattore a Sormano, nella zona del Pian del Tivano. L’uomo, per cause ancora da chiarire, ha perso il controllo del mezzo, ha colpito un muretto a lato strada e si è ribaltato. È rimasto schiacciato ed ha perso la vita nonostante l’intervento dei soccorsi. Accertamenti dei carabinieri sulla dinamica dell’incidente.

L'ennesima tragedia, la terza in 24 ore. Operaio morto ustionato, Luigi lascia moglie e figli piccoli: “Strage senza fine, argomento tabù per politici”. Redazione su Il Riformista il 15 Settembre 2022 

Aveva 36 anni ed è morto dopo due giorni di agonia al Centro Grandi Ustionati dell’ospedale Cardarelli di Napoli. E’ la cronaca dell’ennesima morte bianca. La terza nelle ultime 24 ore dopo le tragedie registrate a Taranto e Catania. Luigi Romano – originario della provincia di Napoli – lascia moglie e due figli piccoli, uno di pochi mesi.

Martedì scorso, 13 settembre, stava lavorando in un’azienda di conserve alimentare (frutta e ortaggi), la Eugea Mediterranea, a Lavello (Potenza) quando è stato travolto da un forte getto di vapore in seguito allo scoppio della caldaia di un macchinario, riportando ustioni su quasi il 90% del corpo. Una percentuale altissima che significa nella quasi totalità dei casi zero sopravvivenza. Luigi ha lottato per quasi due giorni. Era stato trasferito in eliambulanza prima all’ospedale San Carlo di Potenza poi, gravissimo, al centro grandi ustionati del Cardarelli di Napoli.

Sempre il 13 settembre,  nello stabilimento della Eugea Mediterranea, è stato registrato un altro incidente: una lavoratrice è stata investita da un muletto, subendo per fortuna ferite non gravi.

Per Adelmo Barbarossa, Reggente Regionale dell’Ugl Basilicata, “ci troviamo nuovamente a piangere un caduto sul compimento del suo dovere che, uscito di casa per portare il pane alla sua famiglia, non vi tornerà mai più perché coinvolto nella ennesima tragedia possibilmente evitabile. Siamo in piena campagna elettorale, in Basilicata come nel resto d’Italia, ma il tema degli infortuni e delle morti sul lavoro sembra essere lontano, così come distante appare essere l’esigenza di avere rapidamente uomini, strutture e mezzi in numero maggiore per contrastare il mancato rispetto della legge e per potenziare le attività di sensibilizzazione. Il giovane di 36 anni, lascia moglie e figli. Oltre ad esprimere la nostra vicinanza alla famiglia dell’operaio scomparso in questa tragica circostanza, facendo gli auguri di pronta guarigione alla collega che nello stesso giorno, nello stesso stabilimento è stata investita da un muletto riportando un trauma alla caviglia, come Ugl Basilicata ribadiamo la necessità di ricordare quanto sia importante applicare la normativa relativa alla sicurezza”.

Lizzano, crolla solaio durante lavori ristrutturazione in casa: un operaio morto, l'altro in ospedale. Sul posto i vigili del fuoco insieme a carabinieri e personale del 118. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2022.

A Lizzano, nel Tarantino, è crollato il solaio di una palazzina in ristrutturazione di via Ariosto 5. Due operai che in quel momento erano al lavoro sono rimasti sotto le macerie, e per uno di loro purtroppo non c'è stato nulla da fare. I Vigili del fuoco sono stati impegnati nel tentativo di crearsi un varco tra le macerie e rintracciarli: l'altro, collega, è ricoverato in ospedale in prognosi riservata, politraumatizzato. Ad essere interessata dal crollo è stata una palazzina ad un piano. Il corpo dell’operaio deceduto non è stato ancora spostato in quanto si attende l’arrivo del medico legale.

A quanto si apprende, i due lavoratori impegnati nel cantiere, originari di Pulsano, avevano già demolito quasi tutto il solaio. In una delle stanze però il tetto ha ceduto travolgendoli. Sul posto anche i carabinieri e i tecnici dello Spesal per chiarire la dinamica e accertare le responsabilità, e il sindaco di Lizzano Antonietta D’Oria.

La vittima viveva a Talsano. Crollo a Lizzano, la ricostruzione della tragedia. La Redazione di La Voce di Manduria venerdì 16 settembre 2022

Un lavoratore morto sul colpo. Un altro ferito gravemente. Questo il tragico bilancio dell'incidente sul lavoro avvenuto ieri mattina a Lizzano durante l'intervento di ristrutturazione di una palazzina. I due operai erano all'interno quando il solaio ha ceduto di schianto. 

Una grossa trave ha colpito in pieno il 54enne Claudio Principale e lo ha ucciso. I detriti hanno investito anche l'altro lavoratore, un talsanese di 58 anni residente a Pulsano, che è rimasto sotto le macerie. Ad estrarlo vivo sono stati i Vigili del Fuoco che si sono fatti largo a mani nude tra le macerie. Purtroppo per il suo compagno di lavoro non c'è stato nulla da fare.

Stando alle prime informazioni, l'intervento di ristrutturazione sarebbe partito da pochissimo. Ieri mattina sarebbe stato scaricato il materiale necessario per procedere ai lavori, in parte ancora depositato sul marciapiede dinanzi alla casa. Sotto la lente di ingrandimento il rispetto delle misure di sicurezza e delle prescrizioni previste. Aspetti sui quali si sono concentrati i rilievi degli investigatori.

A breve sulla scrivania del magistrato arriverà la prima informativa da parte degli uomini dello Spesal con la relazione in cui sarà valutato ogni aspetto dell'incidente.

Da leggo.it l'11 settembre 2022.

Incidente mortale sul lavoro oggi in Valtellina. Un 29enne è morto nei boschi di Tartano (Sondrio), mentre era impegnato a tagliare piante. Sono in corso le indagini per stabilire se l'infortunio sia stato provocato dalla caduta di un tronco o, come pare più probabile, da una fune del macchinario adibito al trasporto del legname. Sul luogo i tecnici dell'Ats, i carabinieri e il Soccorso Alpino.

Dalle prime ricostruzioni il giovane, Samuele Vairetti, avrebbe appunto sbattuto violentemente la testa al carrello della teleferica adibito al trasporto dei tronchi. L'allarme è scattato poco dopo le 7.30. Nulla da fare per lui all'arrivo dei soccorritori di Areu allertati dal collega che era al lavoro con lui. L'allarme era stato lanciato attorno alle ore 7.45.

Morti sul lavoro, terzo incidente in tre giorni: dalla Lombardia al Piemonte continua l’ecatombe. Lorenzo Rotella su La Stampa il 2 settembre 2022.

Ancora un’altra vittima sul lavoro in Lombardia. Girolamo Tartaglione, 31 anni, foggiano d’origine ma residente a Cremona, è morto questa mattina a Pontevico, nel Bresciano. È successo tutto troppo in fretta alle 7.30, a inizio turno. Il ragazzo si trovava nello stabilimento della Eural Gnutti Spa, una ditta in via Mattei nella frazione di Chiesuola che produce semilavorati in alluminio. In un attimo è crollata su di lui una piastra da cinquanta quintali che si era staccata dal soffitto. I suoi colleghi hanno subito lanciato l’allarme, ma i soccorsi, i vigili del fuoco e i carabinieri non hanno potuto che constatarne il decesso. Si tratta del terzo incidente mortale in tre giorni. Omar Ait Youssef, residente a Mondovì ma originario del Marocco, martedì 30 agosto è caduto da otto metri d’altezza mentre lavorava alla sistemazione di una rete paramassi ad Averara, nel Bergamasco, ed è morto ieri all’ospedale Papa Giovanni XXIII per le ferite riportate. Mercoledì 31 agosto, invece, l’operaio Abderrazzak Bouchkaraun (59 anni, origini marocchine e residente a Gavirate) è morto incastrato in un macchinario nel capannone della Tecnofilo Srl, azienda di Malgesso che produce griglie metalliche per elettrodomestici. Contando anche il caso di Mohamed Chahir, ventottenne magrebino domiciliato a Orzinuovi che nel primo pomeriggio di giovedì 18 agosto è stato travolto e ucciso da una lastra che si è sganciata da un carroponte nella ditta Tomasoni Meccaniche a Borgo San Giacomo, siamo davanti a un’ecatombe sul lavoro. I dati lombardi parlano chiaro: sono 94 i morti sul lavoro da inizio anno, con oltre 84 mila denunce d’infortunio. Compresa quella di oggi a Filago, in provincia di Bergamo, dove un operaio di 34 anni ha riportato traumi al torace e all’addome perché dentro l’azienda Lodotruck è stato travolto da un mezzo pesante.Una catena ininterrotta di incidenti sul lavoro che incidono sul bilancio annuale redatto dall’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre. Tra gennaio e luglio hanno perso la vita 569 lavoratori, con una media di 81 morti sul lavoro ogni mese. A mietere più vittime è il settore dei trasporti e del magazzinaggio con 63: seguono quello delle costruzioni (62) e delle attività manifatturiere (41). A guidare questa macabra classifica è proprio la Lombardia con sessanta decessi, cioè uno ogni tre giorni e mezzo. Le altre due regioni sul podio sono l’Emilia Romagna con 39 e il Lazio con 35. Quelle dove la mortalità sul lavoro è davvero un caso unico e raro sono la Basilicata e il Friuli Venezia Giulia con solo due decessi.Nel primo trimestre del 2022 l’Inail ha stilato invece un rapporto nazionale per il 2021. Le denunce per morti sul lavoro sono state 1.361, evidenziando subito una diminuzione di circa il 19 per cento rispetto al 2020, dove i decessi sono stati ben 1.684. L’anno scorso quasi l’81 per cento delle vittime si sono registrate sul posto di lavoro, il restante durante il tragitto casa-lavoro. Un altro dato drammatico che fornisce l’istituto è quello delle denunce per infortunio: 564.089 nel 2021, quasi in linea con il 2020 dove furono più di 572 mila.*** La mappa degli incidenti mortali in Italia nel 2021 

Travolto da camion in azienda bergamasca, morto elettricista. ANSA il 2 settembre 2022.

E' morto l'elettricista di 34 anni, Gianluigi Marchesi, schiacciato da un camion in manovra all'interno del piazzale di una ditta di Filago. Si tratta della seconda vittima del lavoro oggi in Lombardia.

L'incidente nel piazzale della ditta Lodotruck, una concessionaria di veicoli industriali e trattori, nella zona industriale del paese. L'uomo era dipendente della ditta Italtrans di Calcio e stava lavorando in trasferta a Filago come elettricista manutentore insieme a un collega. L'operaio, di Villa d'Almè (Bergamo), stava eseguendo alcuni lavori di manutenzione in un tombino del piazzale, quando è stato investito. Le sue condizioni sono parse subito molto gravi: soccorso dal personale presente e rianimato dai sanitari del 118 intervenuti sul posto, è morto all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove era stato trasportato. (ANSA).

Verona, operaio di una cantina vinicola inala vapori e muore cadendo nel silo. La Repubblica il 2 Settembre 2022. 

Un collega è rimasto gravemente ferito nel tentativo di aiutarlo

Un operaio è morto dopo essere caduto in un silos mentre stava eseguendo lavori di manutenzione oggi alla Cantina Pasqua, a Verona. Dopo aver inalato i vapori ha perso i sensi ed è caduto all'interno della cisterna.

Un altro operaio è rimasto gravemente ferito nel tentativo di soccorrere il collega, salendo rapidamente le scale esterne per arrivare in vetta al silo ha perso l'equilibrio, battendo violentemente la testa a terra. Vani i soccorsi per l'uomo caduto nella cisterna, che è deceduto, mentre l'altro operaio è stato trasportato in ospedale in gravi condizioni all'Ospedale di Borgo Trento. Sul posto sono intervenuti gli operatori sanitari dei Suem 118 con un'ambulanza, l'auto medica e l'elicottero, assieme ai Vigili del fuoco. Per i rilievi i Carabinieri di Verona e i tecnici dello Spisal dell'Ulss 9 Scaligera.

Un'altra strage sul lavoro: quattro morti in un giorno solo. Incidenti a Verona, Milano, Cremona e Taranto. Le denunce di infortunio crescono del 47 per cento. Redazione il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

Una giornata tragica, quella di ieri, per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro. In Italia, in varie zone dello Stivale, nella sola giornata di ieri si sono infatti verificati quattro terrificanti incidenti mortali. Più precisamente, nel Veronese, nel Milanese, nel Cremonese e nel Tarantino. Per tutti e quattro gli uomini coinvolti non c'è stato nulla da fare. I soccorsi medici, i vigili del fuoco e le forze dell'ordine, giunte sui posti, non hanno potuto praticamente fare altro che dichiarare i decessi in tutti e quattro i casi. Per quanto riguarda la tragedia nel Veronese, un operaio di quarantadue anni è stato investito e ucciso da un furgone mentre stava tagliando l'erba in un'aiuola in un'area di servizio sulla Strada statale 434 Transpolesana. L'incidente è avvenuto nel territorio comunale di Isola Rizza, in provincia di Verona, lungo la carreggiata Sud, in direzione di Rovigo. Inutili i soccorsi dei sanitari del 118, intervenuto assieme ai Vigili del fuoco. Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, il conducente avrebbe perso il controllo e avrebbe iniziato a sbandare investendo l'operaio che stava lavorando nell'aiuola sul lato destro della carreggiata. I vigili del fuoco, arrivati da Verona, hanno estratto la vittima ancora incastrata sotto il mezzo, purtroppo nonostante i soccorsi, il medico del Suem ha dovuto dichiarare la morte dell'uomo. Il conducente del furgone è rimasto ferito, assistito dai sanitari, è stato trasferito in ospedale.

Nel Milanese, un operaio di cinquantadue anni è morto poco dopo le diciassette in una ditta di logistica di Buccinasco, nel Milanese. Secondo quanto riportato dal personale sanitario, l'uomo sarebbe stato schiacciato da un macchinario e non è ancora chiaro se avesse prima avuto un malore. Sul posto sono intervenuti i soccorritori del 118, che non hanno potuto fare altro che constatare il decesso, e i carabinieri della compagnia di Corsico.

Nel Tarantino, invece, l'incidente mortale è avvenuto in un'azienda agricola di Massafra, specializzata nella produzione di agrumi. Vittima un dipendente di cinquantacinque anni. L'uomo si trovava ai comandi di un trattore che, durante lavori di aratura, si è ribaltato per cause in corso di accertamento, schiacciandolo. Il lavoratore è morto sul colpo. Sul posto sono arrivati il 118, gli ispettori dello Spesal (servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro) dell'Asl e i carabinieri che hanno avviato le indagini per accertare la dinamica dell'accaduto e stabilire le responsabilità.

Nel Cremonese, infine, stava camminando sul tetto del capannone di sua proprietà quando un pannello della copertura ha ceduto e Giordano Cicognani, imprenditore di cinquantanove anni, è precipitato nel vuoto: un volo di cinque metri che non gli ha lasciato scampo. È quanto accaduto in una azienda di Offanengo (Cremona), e all'arrivo del personale medico del 118 le sue condizioni erano già disperate. Inutili i tentativi di rianimarlo, vano persino l'intervento dell'elisoccorso, che, decollato da Bergamo e atterrato nel parcheggio adiacente la zona del dramma, ed è ripartito vuoto. Un bilancio tragico che si aggiunge ai dati allarmanti registrati nel primo mese del 2022, che davano già quarantasei vittime. In crescita del 12,2 per cento rispetto al gennaio 2021. Le denunce di infortunio crescono del 47 per cento: oltre 18mila 400 in più rispetto all'anno precedente.

Operaio morto alla Saras: l'autopsia conferma l'annegamento. ANSA il 19 agosto 2022

È annegato, Stefano Nonnis, l'operaio di 42 anni di Santadi morto dopo essere finito in mare, mercoledì mattina, mentre lavorava per una ditta esterna su un pontile della raffineria Saras di Sarroch (Città metropolitana di Cagliari). È quanto emerge dall'autopsia condotta al Policlinico di Monserrato dal dottor Roberto Demontis. Gli esami, richiesti dalla pm Diana Lecca che ha aperto un'inchiesta contro ignoti con l'ipotesi di omicidio colposo, sono durati circa tre ore e hanno confermato la prima ipotesi: l'operaio è morto annegato. Il medico legale ha eseguito tutti i prelievi per gli esami tossicologici e istologici che serviranno ad avere un quadro completo delle condizioni di salute del 42enne. Rimangono aperti ancora molti punti su quanto accaduto mercoledì mattina sul pontile della raffineria: l'operaio è inciampato ed è caduto in acqua, senza riuscire a nuotare a causa delle attrezzature e dei vestiti che indossava, oppure potrebbe aver avuto un malore che gli ha fatto perdere l'equilibrio? Tutta l'attrezzatura utilizzata dal 42enne è stata sequestrata. Spetterà adesso agli accertamenti dello Spresal chiarire i diversi aspetti della vicenda. (ANSA).

Infortunio sul lavoro a Taranto. Dramma a Uggiano che saluta il suo Guido. La Redazione de La Voce di Manduria il 6 agosto 2022.

Abitava da anni a Uggiano Montefusco ed era originario di Sava l’operaio di 53 anni che ha perso la vita ieri mattina per un fatale incidente sul lavoro avvenuto nell’impresa metalmeccanica di Taranto di cui era dipendente da diversi anni. Guido Prudenzano, molto conosciuto nella frazione manduriana, lascia la moglie Elena Raimondo e due figlie di 15 e 16 anni. E tantissimo sconcerto negli uggianesi e dei componenti del comitato cittadino di cui faceva parte.

«Un padre esemplare, un amico leale e corretto e, soprattutto, un esempio per la comunità di Uggiano», scrivono di lui sul profilo Facebook i membri del Comitato Cittadino unendosi al dolore della sua famiglia. «Per la perdita di un amico di una vita», prosegue la triste dedica. E ancora tanti i messaggi di cordoglio che si leggono sul social per l’agghiacciante notizia ricordando l’uomo come «una persona umile, vera e presente» per la comunità della frazione.

Ad ucciderlo è stato il disco di un flex che stava armeggiando sul posto di lavoro. Manovre fatte chissà quante volte ma ieri qualcosa è andato storto perché il disco dell’attrezzo, forse rimbalzando dalla lamiera d’acciaio, ha provocato una profonda ferita all’altezza dell’inguine recidendo di netto l’arteria femorale.

Inutili i soccorsi, Guido è deceduto in ambulanza durante il trasporto in ospedale.

L’ennesimo indicente mortale sul lavoro dalle modalità terribili che non ha lasciato scampo all’uggianese il cui corpo è rimasto nell’obitorio del Santissima Annunziata di Taranto a disposizione della magistratura che potrebbe decidere di eseguire l’autopsia per accertare le cause della morte, ritardando così i funerali. La dinamica esatta dell’infortunio mortale e le eventuali responsabilità saranno studiate dai carabinieri e dai tecnici dello Spesal, l’ufficio prevenzione infortuni della Asl di Taranto che oggi consegneranno la loro relazione al magistrato di turno.

Il presidente di Confindustria Taranto Salvatore Toma esprime profondo cordoglio alla famiglia del 53enne Guido Prudenzano, dipendente di un’azienda metalmeccanica dell'area industriale di Taranto, che ha perso la vita mentre effettuava il taglio di una lamiera. "Un episodio - dichiara Toma- che ripropone in tutta la sua importanza la sicurezza sul lavoro quale valore essenziale e fondante della vita aziendale, di qualunque settore e in qualsiasi circostanza. Un valore che continueremo a proporre assieme alla sempre più impellente necessità di incentivare la formazione quale strumento fondamentale per diffondere la cultura della sicurezza". Marzia Baldari

Guido operaio morto in fabbrica a Taranto: innamorato di Elena, delle figlie e del calcio. Marco Patucchi su La Repubblica il 25 Agosto 2022 

Prudenzano, 53 anni, ha perso il controllo del flex mentre tagliava una lamiera. Viveva a Uggiano Montefusco.

Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

E' vero, succede per ogni morte improvvisa. Da un attimo all'altro scompare una vita e si sconvolge un piccolo-grande pianeta abitato da figli, mogli, cari, amici.  Anche la morte sul lavoro è tutto questo ma, in più, è l'ennesima ferita letale di una guerra minore che il Paese osserva con indifferenza. L'attimo fuggente di Guido è stato quando, in fabbrica a Taranto, ha perso il controllo di un flex mentre tragliava la lamiera. Guido Prudenzano, 53 anni, marito di Elena, padre delle adolescenti Giorgia e Giulia se n'è andato così. "Questo goal non dovevi prenderlo - scrive un amico sui social -. Amico mio e compagno di tante partite, ovunque tu sia un grande abbraccio". Guido, operaio e appassionato di calcio, tifoso della Juventus, lo conoscevano tutti a Sava, dov'è nato, e a Uggiano Montefusco (Manduria) dove viveva e dove il comitato cittadino lo ha salutato con commozione: "Troviamo molto difficile dire addio a qualcuno così vicino a noi e alla comunità, perchè ci rendiamo conto che perderemo un buon amico, un buon padre, una persona umile e speciale. Ciao Guido". "Una vera tragedia per noi delle 'palazzine' ", scrive un'amica evocando i luoghi dell'infanzia. "Non posso dimenticare cosa è stato Guido durante la nostra adolescenza e dopo - scrive Gabriella - non c'è una giustizia divina, mi scuso mio Signore, ma stavolta hai toppato di brutto e chiedo perdono". Anche Giovanni torna a quando si era bambini: "Sono senza parole. Un coetaneo compagno di giochi d'infanzia lì a Sava e al mare a Torre Ovo quando andavo a trovare i nonni, ci siamo persi di vista nel corso degli anni. Però c'eri...". E poi il mondo del lavoro, la Taranto dell'Ilva, delle fabbriche dell'indotto, dell'arsenale: "R.i.p. Guido - scrive Luigi - nel cuore di tutti gli arsenalotti e anche della marina".

Dramma nel casertano. Il campo diventa tomba, il dramma dei braccianti sotto al sole: se lavorare vuol dire morire. Francesca Sabella su Il Riformista il 29 Luglio 2022. 

Si discute tanto di “vivere per lavorare o lavorare per vivere?” Mai però si parla del morire per lavorare. Morire di lavoro. È successo ancora, ieri a Caserta un bracciante ha avuto un arresto cardiaco mentre lavorava nei campi sotto un sole cocente. Non c’è stato niente da fare, è morto. E non si può accettare, non si può morire di lavoro. Alzano ancora la voce i sindacati, come cattedrali in un deserto di silenzi. «Dopo il decesso di due settimane fa a Falciano del Massico, in provincia di Caserta, ieri a Parete l’ennesimo decesso di un bracciante agricolo.

E intanto la Regione Campania, cui abbiamo chiesto di adottare un’ordinanza, come già fatto in Puglia e Calabria, che vieti lo svolgimento di lavori all’aperto tra le 12.30 e le 16.30, non ha ancora ricevuto riscontri, tranne che la convocazione in commissione Agricoltura al Consiglio regionale dalla quale, però, non è arrivata nessuna risposta positiva alla nostra richiesta. Cosa dobbiamo ancora attendere? Un altro bracciante morto?». Scrivono in una nota la segretaria generale Flai-Cgil Napoli e Campania, Giovanna Basile e il segretario generale Flai-Cgil Caserta, Igor Prata. Da qui un appello non solo alle istituzioni ma anche alle aziende.

«Due giorni fa Inps e Inail – ricordano Basile e Prata – hanno pubblicato le istruzioni per la cassa integrazione ordinaria in caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa a causa delle temperature elevate, alla quale le aziende possono accedere quando il termometro supera i 35 gradi centigradi. Ai fini dell’integrazione salariale possono essere considerate idonee anche le temperature percepite. Per il settore agricolo – spiegano – si applicherebbe la Cisoa». «Ci auguriamo – concludono – che si intervenga quanto prima: se non si prenderanno i necessari provvedimenti ci ritroveremo a contare ancora vittime del lavoro in agricoltura».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Bari, precipita da impalcatura: muore operaio 58enne. L'incidente è avvenuto in un cantiere edile nel rione Carbonara, nei pressi di corso Alcide de Gasperi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Luglio 2022.

Un operaio di 58 anni è morto dopo essere precipitato dall’impalcatura di un cantiere edile nel rione Carbonara di Bari, nei pressi di corso Alcide de Gasperi. Sul posto stanno operando Carabinieri e ispettori dello Spesal. L'uomo sarebbe morto sul colpo. Lavorava - stando ai primi accertamenti - in un cantiere privato dove si trovano villette a schiera.

«Leggiamo anche oggi il bollettino delle morti sul lavoro e purtroppo il macabro e intollerabile rituale ha tolto la vita ad un operaio edile impegnato ad assolvere i suoi compiti in un cantiere edile alla periferia di Bari. La Cisl di Bari e la Filca Cisl di Bari esprimono profondo cordoglio per l’accaduto e forte vicinanza alla famiglia e ai parenti dell’ennesima vittima di un sistema del lavoro malato»: così Giuseppe Boccuzzi, segretario della Cisl Bari; e Antonio Delle Noci, segretario della Filca Cisl Bari, commentano la morte dell’operaio precipitato da una impalcatura a Bari. «La Cisl di Bari e la Filca Cisl di Bari - dicono - chiedono alla prefettura di Bari una risposta immediata per dare più sicurezza nei luoghi di lavoro». «Non vorremmo - aggiungono - trovarci, anche in questo caso, di fronte a giudizi sommari di cadute accidentali dall’impalcatura. O vengono adottate le misure di sicurezza o non vengono adottate, per cui si rischia o si muore di più o di meno, a seconda che si rispettino e si apllichino le misure previste dalla legge e dal Dvr».

Ancora un morto sul lavoro, ancora in un cantiere edile, stavolta a Bari. È evidente che l'assunzione di nuovi ispettori non basta, bisogna fare di più, e in fretta, per mettere fine a questa strage silenziosa». Così il segretario generale della Uil Puglia, Franco Busto, commenta la morte dell’operaio precipitato da una impalcatura a Bari. "Chiediamo da tempo e con insistenza - sottolinea - misure strutturali e più incisive: incremento dei controlli, inasprimento delle sanzioni e l’esclusione delle aziende che non rispettano i protocolli di sicurezza o non applicano i contratti nazionali dai bandi pubblici. Le nostre proposte sono chiare, ora le istituzioni, a ogni livello, le ascoltino». «Alla famiglia della vittima - conclude Busto - l’abbraccio commosso della Uil di Puglia».

Agostino Gramigna per il "Corriere della Sera" il 22 giugno 2022.

Quattro vittime del «lavoro» in sole 24 ore. E poi tre feriti: uno in un cantiere nautico a Livorno e due in un'azienda farmaceutica nel Milanese. È il bilancio tragico degli incidenti (di cui quattro appunto mortali) avvenuti ieri in Italia. Un dato che si somma a numeri già tristemente corposi. 

La prima vittima è un operaio di 72 anni, Donato Marti, morto ieri mattina a Lecce. L'uomo è caduto da un'impalcatura. Assieme a due suoi colleghi era impegnato nell'installazione di un montacarichi. È morto poco dopo l'arrivo in ospedale. La Procura di Lecce ha aperto un'inchiesta.

La seconda vittima è un operaio di 52 anni, di Zevio. Stava lavorando in un cantiere edile a Legnago (Verona). È stato colpito da una matassa di ferro che stava scaricando da un camion: è morto schiacciato dal peso. I soccorritori del Servizio d'urgenza medica si sono limitati a constatarne il decesso. I Carabinieri di Legnago stanno ricostruendo la dinamica dell'incidente. 

Sempre nel Veronese (Fumane), la terza vittima. Si tratta di Marco Accordini, 26 anni, figlio di Daniele Accordini, il direttore generale della Cantina Valpolicella. Il ragazzo stava guidando un trattore nel vigneto dell'azienda familiare quando il mezzo si è improvvisamente ribaltato e lo ha schiacciato. Inutili i soccorsi del 118 di Verona.

È stato invece travolto da un treno la quarta vittima, un operaio campano di 58 anni.

L'incidente è avvenuto in località Ponticelli di Città della Pieve, lungo la linea ferroviaria detta «lenta». L'operaio stava lavorando sulle canaline a lato dei binari; il treno regionale 4101 era in transito. 

I morti di ieri accrescono numeri impressionanti. Secondo l'Inail, solo nel primo trimestre del 2022, in Italia si sono registrati 175 mila incidenti sul lavoro di cui 189 mortali (due morti bianche al giorno). 

Quadro più tragico se si guarda al monitoraggio dell'Osservatorio nazionale morti sul lavoro che invece parla di 411 vittime (il numero comprende i decessi dei non assicurati all'Inail). Secondo i dati elaborati dall'Osservatorio sicurezza sul lavoro Vega Engineering, nel 2021 ci sono stati 1.221 decessi.

Il dolore della famiglia. Operaio edile sino alla fine, la vittima dell’infortunio sul lavoro era conosciuto anche a Manduria. La Redazione de La voce di Manduria il 22 giugno 2022.

Era conosciuto anche negli ambienti manduriani dell’edilizia il 72enne di Avetrana deceduto ieri cadendo da un’impalcatura di un cantiere di Lecce dove stava lavorando. Una disgrazia che ha sconvolto la cittadina di Avetrana dove «mesciu Dunatu», era conosciuto come un grande lavoratore e padre e marito esemplare. Donato Marti, questo il suo nome, lascia due figli e la moglie che increduli hanno appreso la tragica notizia dai colleghi con cui il 72enne stava lavorando nella ristrutturazione di un B&B della città di Lecce. 

La disgrazia si è verificata in via Giuseppe Parini nelle vicinanze di Piazza Mazzini. Il trauma riportato nella caduta da un’altezza ci circa quattro metri è stato fatale per l’uomo nonostante la corsa in ambulanza all’ospedale Vito Fazzi dove è morto subito dopo il ricovero. Sul posto oltre ai sanitari del 118, sono intervenuti gli agenti di polizia e gli ispettori dello Spesal dell’Asl di Lecce. A questi ultimi anche il compito di verificare il rispetto di tutte le norme previste in materia di sicurezza sul lavoro.

Da escludere, per ragioni anagrafiche, la regolarità contrattuale dell’uomo che continuava a lavorare nonostante l’avanzata età. Pubblichiamo, in proposito, in altra parte del giornale, lo sfogo dell’ex vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia.

Lecce, operaio di 72 anni cade e muore. La Cgil: "Pensionato costretto a lavorare per necessità". La Repubblica il 21 giugno 2022. L'uomo era impegnato con altri operai nei lavori di ristrutturazione di un immobile in via Parini nel centro della città ed è caduto da un'altezza di circa 5 metri mentre lavorava all'installazione di un montacarichi.

Un operaio di 72 anni, Donato Marti, originario di Avetrana (Taranto), è morto a Lecce, nella mattinata di martedì 21 giugno, mentre era impegnato in alcuni lavori di ristrutturazione di un immobile in via Parini, nei pressi del cuore commerciale della città.

Secondo i primi rilievi, sembra che l'uomo, per cause da accertare, sia caduto da un'altezza di circa cinque metri mentre insieme ad altri operai era impegnato ad installare un montacarichi.

Il 118 ha trasportato il 72enne all'ospedale Vito Fazzi dove però è morto poco dopo Sul posto per i rilievi gli agenti delle volanti e gli ispettori dello Spesal. La Procura di Lecce ha aperto un'inchiesta.

È la terza vittima, è spiegato in una nota della Cgil, che si registra in provincia di Lecce nel giro di 50 giorni (in tutto 4 i morti dall'inizio dell'anno), dopo i casi di Salve (4 maggio) e Soleto (13 giugno). Ma le cronache hanno evidenziato almeno altri tre incidenti gravi nello stesso periodo.

"Piangere la morte di un pensionato sul luogo di lavoro - dice la segretaria generale della Cgil Lecce, Valentina Fragassi - deve far riflettere sulla condizione degli anziani che raggiungono l'età per ottenere l'assegno previdenziale. Si pone una questione di vera e propria sopravvivenza per chi arriva alla pensione dopo 40 anni di duro lavoro e di colpo si ritrova a fare i conti con lo stato di bisogno. Questa è una condizione che purtroppo riguarda molti cittadini della provincia di Lecce, dove gli assegni pensionistici sono tra i più bassi d'Italia. Molti pensionati sono quasi costretti a ricorrere a lavori extra, spesso di fortuna. Serve con urgenza un provvedimento che aumenti il potere di acquisto delle pensioni, allargando per esempio la platea dei percettori della cosiddetta 14esima. Lo abbiamo chiesto anche sabato durante la manifestazione a Roma: basta con la politica degli interventi spot e dei bonus una tantum; il Governo pensi ad interventi strutturali".

 "Le morti sul lavoro sono tutte inaccettabili, quella di un operaio edile di 72 anni che precipita da un'altezza di 4-5 metri fa ancora più rabbia. Al di là della ricostruzione della dinamica del drammatico incidente sul lavoro accaduto a Lecce, come Uil del territorio non possiamo non gridare tutta la nostra indignazione per un'altra vita spezzata, per l'assurdità di finire uccisi nello svolgimento del proprio lavoro, un lavoro pesante a un'età decisamente inadatta". Lo dichiarano Salvatore Giannetto e Paola Esposito, rispettivamente segretario generale della Uil di Lecce e della Feneal-Uil di Lecce (categoria che rappresenta i lavoratori edili).

Poi aggiungono: "Si deve insistere sulla prevenzione, sulla formazione e sulla riqualificazione professionale. Bisogna stabilire che le aziende non in regola con le norme sulla sicurezza non possano accedere a nessun finanziamento pubblico. Non basta più esprimere cordoglio dopo ogni morte. È tempo di rimboccarsi le maniche - concludono - e di fare di tutto per fermare questa strage assurda".

Federica Angeli per repubblica.it il 21 giugno 2022. 

Un uomo è morto dopo essere stato travolto da una matassa di ferro che stava scaricando da un camion in un'azienda a Legnago (Verona). E un ragazzo di 26 anni, sempre nel veronese, è morto schiacciato dal trattore che stava manovrando. Poi ci sono altri due lavoratori morti oggi: un operaio a Lecce precipitato dal quarto piano e uno travolto da un convoglio a Città della Pieve (Perugia).

Per quanto riguarda il primo caso l'operaio è rimasto schiacciato sotto il peso della matassa. I Carabinieri di Legnago e gli ispettori allo Spisal dell'Ulss 9 Scaligera stanno ricostruendo la dinamica dell'incidente. Sul posto ambulanza medicalizzata, elicottero e carabinieri. Per l'uomo, i soccorsi del Suem 118 hanno potuto solo contastare il decesso, avvenuto, secondo quanto si apprende, per schiacciamento.

Schiacciato da un trattore

Un 26enne è morto invece dopo essere stato schiacciato dal trattore che stava manovrando mentre era al lavoro in un'azienda agricola e agriturismo a Fumane (Verona), in località La Cà. Ancora da chiarire la causa dell'incidente risultato fatale. La dinamica è al vaglio dei Carabinieri di Fumane e degli ispettori dello Spisal dell'Ulss 9 Scaligera. 

Sul posto, oltre ai Vigili del fuoco e ai militari dell'Arma, è intervenuto l'elicottero di Verona Emergenza. I sanitari hanno potuto solo constatare il decesso del giovane. Sempre in mattinata a Lecce, un altro decesso sul luogo di lavoro: un 72 enne è precipitato dal quarto piano.

Travolto sui binari da un convoglio

Incidente mortale sul lavoro in località Ponticelli di Città della Pieve, lungo la linea ferroviaria "lenta". Un operaio che stava lavorando sulle canaline a lato dei binari è stato travolto da un treno in transito ed è così deceduto. A diffondere la notizia i vigili del fuoco intervenuti con una squadra da Città della Pieve e un'altra a supporto dalla sede centrale di Perugia. 

175mila incidenti sul lavoro nel primo trimestre 2022

Tre vittime di incidenti nello stesso giorno a fronte di numeri impressionanti. Gli infortuni sul lavoro, accaduti e denunciati all'Inail nel primo trimestre del 2022 sono stati 175 mila (158 mila in occasione di lavoro e 17 mila in itinere), oltre 54 mila denunce in più (+45%) rispetto all'analogo trimestre del 2021.

Le denunce di esiti mortali sono state 189 (138 in occasione di lavoro e 51 in itinere), 5 in più rispetto al primo trimestre del 2021 (+2,7%). Il confronto tendenziale tra i due trimestri è condizionato dal diverso andamento della pandemia: l'impennata dei contagi professionali a inizio anno 2022 ha fatto superare in soli tre mesi il numero delle denunce da Covid-19 dell'intero anno 2021.

Marco muore a 26 anni schiacciato dal trattore: choc a Verona, chi è suo padre. Libero Quotidiano il 21 giugno 2022

Tremendo lutto nel mondo dell'enologia italiana: Marco Accordini, uno dei figli di Daniele Accordini, direttore della Cantina Valpolicella, è rimasto ucciso in un incidente a Fumane (Verona). Il giovane agricoltore di appena 26 anni è rimasto schiacciato dal suo trattore poco dopo le 8 in contrada La Ca', mentre stava lavorando in un vigneto. Si sono rivelati purtroppo inutili i soccorsi del 118 di Verona giunti sul posto con l'elicottero e una ambulanza: sulle cause dell'incidente stanno indagando i carabinieri della stazione di San Pietro in Cariano, ma non sembrano esserci ormai più dubbi.  

Marco Accordini stava lavorando nell'azienda di famiglia a Mazzurega. A 500 metri dalla cantina di famiglia, gli Accordini avevano anche aperto, nel maggio 2019, un agriturismo di successo, Acinatico Wine Relais. Si tratta di una delle famiglie più in vista in tutto il "distretto" enologico veneto, tra i più rinomati d'Italia. 

Da una prima ricostruzione, sembra che il figlio stesse guidando il trattore su un tratto in pendenza nella tenuta. Fatale una manovra in retromarcia, che avrebbe causato l'urto del mezzo con un muretto e il suo conseguente rovesciamento. Per Accordini non c'è stato nulla da fare: rimasto intrappolato sotto il pesante mazzo agricolo, è morto per i traumi subiti dallo schiacciamento. 

Il trattore si ribalta, muore imprenditore agricolo di 26 anni. Giampiero Casoni il 22/06/2022 su Notizie.it.

Orrore a Fumane, dove un trattore si ribalta e muore un giovanissimo imprenditore agricolo: soccorsi inutili e mezzo sollevato con un paranco. 

Tragedia in località La Cà a Fumane, in provincia di Verona, con un trattore che si ribalta e con un imprenditore agricolo di soli 26 anni che muore schiacciato sotto il mezzo. Marco Accordini stava accudendo l’azienda agricola di famiglia quando è avvenuto il terribile incidente in azienda, azienda in cui sorge anche l’agriturismo Acinatico, vanto della famiglia Accordini. 

Il trattore si ribalta e muore un imprenditore

La tragedia si è consumata poco dopo le 8 del mattino del 21 giugno ed è tragedia su cui gravano le incombenze di indagine ed accertamento dei carabinieri di Fumane e degli ispettori dello Spisal dell’Ulss 9 Scaligera. Pare che il giovane Accordini fosse intento a percorrere una salita ripida alla guida di un trattore non proprio modernissimo. 

La retromarcia in salita e l’urto contro un muretto

Ad un certo punto, nel mezzo di una retromarcia, il mezzo avrebbe urtato un muretto a secco e si è ribaltato con il terribile esito finale.

Gli operatori del 118 di Verona sono accorsi celermente assieme ad un elisoccorso ma ogni tentativo è risultato vano. Dal canto loro i vigili del fuoco di Bardolino e Verona hanno dovuto imbragare il mezzo e sollevarlo per consentire il recupero del corpo del 26enne. Marco ea figlio unico e luce degli occhi del signor Daniele Accordini, direttore della Cantina Valpollicella Negrar. I media spiegano che sul posto si è recato anche il sindaco di Fumane, Daniele Zivelonghi. 

Cesena, muore a 13 anni schiacciato dal muletto: finisce la scuola, poi la disgrazia. Libero Quotidiano il 07 giugno 2022

Quello che doveva essere un momento di gioia e spensieratezza si è trasformato nella più cruda delle tragedie. Sabato 4 giugno ultimo giorno di lezioni, finalmente la scuola è fiinita e da qui si dàil via ufficialmente alle vacanze. Ma nel primo giorno di libertà il 13enne Anselmo David, di origini romene, si è messo alla guida di un muletto appartenente all'azienda di frutta e verdura di famiglia, nelle campagne di Sant'Andrea in Bagnolo nel Cesenate.

Il ragazzino era conscio del fatto che non doveva usare quel muletto perché pericoloso, a maggior ragione da solo. Anselmo David però non ha dato ascolto alle raccomandazioni dei genitori e, senza che nessuno lo veda, è salito sul mezzo. Il muletto si è ribaltato finendogli addosso e schiacciandolo con il suo peso. Inutili i soccorsi arrivati sul posto, era ormai troppo tardi. IL ragazzino è morto.

Secondo le ricostruzioni sembra che il ragazzo stesse procedendo su una stradina fatta di ghiaia quando, solo pochi metri dopo la partenza, si è avvicinato a un fosso che lo ha fatto ribaltare. Il mezzo si è inclinato solo da un lato, non si è capovolto del tutto, ma quel poco è bastato a far perdere la vita al 13enne. I familiari, capita immediatamente la gravità della situazione, hanno chiamato i soccorsi. Ma come detto ormai però per il ragazzo era troppo tardi.

Sergei morto sul lavoro nell'aeroporto di Genova: famiglia, sindacato e Sampdoria nel cuore. Marco Patucchi su La Repubblica il 5 giugno 2022.

Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

Nell’ultima giornata di campionato i tifosi della Sampdoria saliti a Milano per la partita con l’Inter e per festeggiare la salvezza, hanno esposto uno striscione in suo onore. Sergei Robbiano, cinquantenne morto sul lavoro all’aeroporto di Genova, blucerchiato nel profondo e uomo di sinistra impegnato nell’attività sindacale di base. Soprattutto marito di Monica e padre di Samuele e Andrea. In un turno notturno nello scalo ligure, durante l’ispezione delle piste, la sua auto è finita in mare e lui non ce l’ha fatta: un’ischemia, recita l’autopsia, comunque una morte sul lavoro perché mai nessuno saprà se soccorsi più veloci o altre misure di sicurezza gli avrebbero potuto salvare la vita.

“Dove c’era un pallone c’era lui”, dicono gli amici di Sergei, capitano dell’Arci Isoverde Calcio, fino allo scorso anno nella prima squadra e da poco nell’over 40. Il grande calcio allo stadio con la sua Sampdoria, quello amatoriale ogni volta che calzava gli scarpini. E poi l’impegno nel sindacato di base con il quale, qualche settimana prima della fine, era sceso in piazza a Roma nella manifestazione per la pace. Un “compagno”, raccontano i colleghi, e d’altra parte quel nome di battesimo e quello dato alla sua inseparabile cagnetta Cuba, la dicono lunga sulle passioni politiche di Sergei. “Ho avuto il piacere di conoscerlo che ancora ero un bambino – scrive sui social Fede - era un cliente del bar della mia famiglia, persona davvero educata e gentile, aveva sempre una buona parola per tutti. Se ne è andata davvero una bella persona”. E Anna: “Ciao Sergei, un forte abbraccio. Adesso lassù saranno tutti un po' più felici e potrai parlare di Sampdoria anche con il mio papà”. Daniele, collega praticamente fratello (a parte la passione per il Genoa) di Sergei, non si dà pace parlando con i cronisti locali: “Aveva una voce inconfondibile e il suo timbro lo sento ancora adesso. Spero che non si sia accorto di nulla”. La Sampdoria, dopo un’intera stagione di tribolazioni, giocherà in serie A anche il prossimo campionato. Ma Sergei nella Gradinata Sud non ci sarà.

Massimiliano Zani morto schiacciato dalla pressa per il fieno: addio al vicesindaco di Filattiera. Debora Faravelli il 07/06/2022 su Notizie.it.

Il vicesindaco di Filattiera Massimiliano Zani è morto a causa di un incidente agricolo: è rimasto schiacciato in una pressa per lavorare il fieno. 

Tragedia in Lunigiana, dove il vicesindaco di Filattiera Massimiliano Zani è morto all’età di 48 anni dopo essere rimasto incastrato in una pressa per la lavorazione del fieno. Tantissimi i messaggi di cordoglio espressi dal mondo politico locale.

Secondo quanto ricostruito, l’incidente agricolo sarebbe avvenuto in un campo non lontano dalla sua abitazione. Qui l’uomo stava utilizzando uno strumento per lavorare il fieno quando all’improvviso, per cause ancora da accertare, ne sarebbe rimasto imprigionato. Immediato l’allarme ai sanitari del 118 che, giunti sul posto con l’elisoccorso Pegaso, non hanno purtroppo potuto fare nulla per salvarlo.

Le ferite riportate si sono infatti rivelate troppo gravi tali da vanificare ogni tentativo di rianimazione da parte degli operatori.

Spetterà ora ai Carabinieri accertare quali siano state le cause dell’incidente e verificare se siano state rispettate tutte le misure di sicurezza dei luoghi di lavoro.

Massimiliano Zani morto: il cordoglio della politica

Oltre che vicesindaco di Filattiera, Zani era il coordinatore di Italia Viva per l’area della Lungiana. Messaggi di cordoglio e vicinanza alla famiglia sono stati espressi dal partito e da decine di amministratori locali, a partire dalla sindaca Annalisa Folloni: “Non ci sono parole, penso a quei bambini che hanno perso il loro padre (ndr la vittima aveva tre figli)“.

Commossa anche la vicepresidente della Regione Toscana e assessora all’agricoltura Stefania Saccardi: “La scomparsa di Massimiliano è una tragedia terribile che mi lascia sconvolta e profondamente addolorata. Sono vicina alla moglie e ai tre figli, alla sindaca Annalisa Folloni e all’intera comunità di Filattiera di cui Massimiliano era parte integrante e stimolo vitale come amministratore, attivista politico e lavoratore“.

Cade da cesta elevatrice e fa un volo di 5 metri: operaio di Putignano muore a Rovigo. L'incidente è avvenuto fuori da un negozio: l’uomo, 42 anni, per una ditta esterna stava svolgendo dei lavori edili. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Maggio 2022

Un operaio di 42 anni, Giuseppe Fatalino, originario di Putignano (Ba), è morto oggi a Porto Viro (Rovigo), cadendo da una cesta elevatrice, a circa cinque metri d’altezza. L'incidente è avvenuto presso un negozio Happy Casa: l’uomo per una ditta esterna stava svolgendo dei lavori edili. Per cause in corso di accertamento è rovinato al suolo.

Sul posto è intervenuto il personale del 118 che ha trasportato l'operaio in ospedale a Rovigo dove è deceduto a seguito dei traumi riportati.

Muore all'estero senza perché. Non c'è reato grazie alla sinistra. Felice Manti il 29 Maggio 2022 su Il Giornale.  La scelta dei governi Ciampi e Letta ostacola i processi. E la moglie scrive a Mattarella: "Giustizia dopo 12 anni".

«Signor presidente, mi chiamo Siham Ragheb, sono nata a Beirut ma sono italiana». Inizia così la lettera già inviata al capo dello Stato Sergio Mattarella (che il Giornale ha potuto consultare) da una donna che ha perso il marito all'estero ma ancora non sa né quando né perché. E purtroppo per lei non lo sanno neanche i magistrati italiani che si sono occupati del caso e che si sono praticamente arresi, chiedendo l'archiviazione di un caso che solo il coraggio e la determinazione dei legali della famiglia sta tenendo in piedi. Quando si parla della riforma della giustizia, di separazione delle carriere e di valutazione dei magistrati bisogna ricordarsi quanto le vite delle persone dipendano non solo dalle scelte di chi indaga e di chi deve giudicare, ma anche da alcune scappatoie giuridiche.

Oreste Angioi era scappato da Ottana (Nuoro) per dare un futuro ai suoi tre figli, ma nelle 24 ore tra il 14 e il 15 marzo del 2010 nella città kazaka di Atyrau è morto di ischemia mentre lavorava come capo cantiere in Kazakhstan per una società legata a Eni, in conseguenza di un'ischemia del cuore - secondo quanto attestato dal «certificato di morte» rilasciato in lingua kazaka e tradotto dall'ambasciata italiana - non si sa se per il clima proibitivo o per i gas sprigionati durante la perforazione dello strato di crosta terreste.

La spada di Damocle che pende sulla causa civile a Novara (dove era incardinata anche quella del lavoro, poi trasferita davanti al giudice ordinario civile) è l'abolizione di un articolo - il 54 del Dpr n. 1124/1965 - e la seguente giurisprudenza penale che ha via via indebolito (degradato a illecito amministrativo nel 1993 dal governo di Carlo Azeglio Ciampi, abrogato nel 2013 sotto il governo di Enrico Letta e reintrodotto in una irrilevante versione depenalizzata il 22 marzo 2016 da Matteo Renzi) il reato di mancata denuncia dell'infortunio mortale di un lavoratore italiano all'estero.

La denuncia penale è stata presentata alla procura di Nuoro e da lì trasferita a Napoli per ragioni di competenza. Alla procura i legali avrebbero dato prove documentali inoppugnabili, inclusa l'incertezza basilare sulla data della morte 14 o 15, che di per sé dovrebbe essere fonte di indagine visto il giallo della mancata presentazione della denuncia ex articolo 54 che avrebbe dovuto portare di per sé alla condanna del datore, visto che l'obbligo di denuncia nel 2010, seppur depenalizzato, c'era. Dunque, o il datore fornisce una ricostruzione del fatto credibile, mentre sul piano civile dovrebbe implicare la condanna. Sta di fatto che il balletto sulla vera data di morte e la mancata trasmissione della denuncia «ha di fatto impedito che potesse essere disposto l'eventuale esame autoptico», si lamenta il legale Luigi Pisanu, per cui «è impossibile accertare l'effettiva causa del decesso». Ma dalle buste paga e da alcune documentazioni in possesso della famiglia, emergerebbe che l'uomo avrebbe più volte rinunciato al riposo settimanale a fronte di uno straordinario pagato in modo forfettario. E secondo i legali, nel «giudizio di idoneità lavorativa alla mansione specifica» previsto dalla legge 81 del 2000, ovvero il Testo unico sulla salute e sicurezza nel lavoro, c'era espressamente scritto che per una fibrillazione atriale già diagnosticata l'Angioi avrebbe dovuto «evitare lavori in altezza» e «in condizioni di discomfort termico» nonché avrebbe dovuto evitare «sforzi fisici». Una prescrizione che la società per cui l'uomo lavorava conosceva perfettamente, come si evince da altri documenti esibiti in giudizio. Eppure stando ai legali l'uomo avrebbe lavorato anche per 14 giorni consecutivi, a temperature che oscillavano tra i -40° dell'ambiente esterno e i +20° degli uffici dove gli operai rientravano di tanto in tanto per riossigenarsi. Ma senza prove né i pm né l'Inail (che paga e poi si rivale sul datore di lavoro) hanno margini per capire cosa sia realmente successo, né gli eredi del lavoratore possono chiedere alcun risarcimento. In realtà, spiegano i legali, il risarcimento dovrebbe essere automatico, perché il datore di lavoro stesso - a rigor di legge - le circostanze dettagliate della morte avrebbe dovuto indicarle nella denuncia che non c'è stata, dunque dovrebbe essere decaduto dal provare il contrario. I giudici lo sanno bene, ma fanno gli gnorri».

Negli anni Settanta alcuni dirigenti del ministero del Lavoro andavano in Svizzera, Francia, Belgio o Olanda a verificare di persona le condizioni di lavoro dei nostri connazionali, per lo più veneti, calabresi e siciliani, che lasciavano i campi per morire nelle miniere di Marcinelle mentre si costruiva l'Europa che conosciamo oggi. Erano gli anni in cui in qualche bar c'era ancora scritto «ingresso vietato ai cani e agli italiani». A più di 50 anni dalle intuizioni di Benigno Zaccagnini e grazie ai colpi di spugna dei governi di sinistra chi muore all'estero non ha giustizia. «La brutta politica produce norme ingiuste», scrive Siham Ragheb, la moglie di Angioni. Che a Mattarella chiede un incontro per modificare la legge: «Per la memoria di mio marito, per i miei figli, perché tutto non sia consegnato all'oblio e all'ingiustizia».

Imprese edili, per l’Ispettorato del lavoro «l’irregolarità è la regola». Donatella Tiraboschi su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.

L’80% di fuori norma secondo le ispezioni effettuate lo scorso anno, e il 62% non rispetta la regole per la sicurezza. 

«L’irregolarità è la regola tra le imprese edili». Parole forti accompagnate da numeri impietosi: 5 mila imprese edili ispezionate nel 2021, di cui l’80% trovate irregolari, 1.605 imprese sospese nei primi tre mesi dell’anno contro 673 del 2021 per mancato rispetto sulle norme di sicurezza nel 62% dei casi, e 200 infortuni: uno al minuto.

Il direttore generale dell’Ispettorato del lavoro Bruno Giordano, intervenuto al congresso nazionale della Filca-Cisl a Bergamo, è entrato nel cuore del problema, quello che Vanessa Pesenti, presidente di Ance Bergamo, ribadisce essere «una ferita inaccettabile per il Paese e per ognuno di noi. Da sempre — dice Pesenti — siamo a fianco di chiunque lavori per la regolarità e la trasparenza del mercato in un’ottica di rafforzamento della sicurezza. Non possiamo che condividere, dunque, l’operato dell’Ispettorato nel contrasto al lavoro nero e a chi elude il contratto di lavoro dell’edilizia e nell’emarginazione delle imprese irregolari che creano distorsione del mercato». Pesenti rimarca come sia necessario «fare una netta distinzione tra le imprese improvvisate e le imprese edili che applicano correttamente il contratto e trovano nell’espressione degli enti paritetici un supporto effettivo alla formazione sulla sicurezza e alla prevenzione degli infortuni. Tutti, infatti, devono cominciare con il rispettare le stesse regole e comportamenti, con particolare attenzione all’attività formativa».

Il numero uno di Ance pone il binomio edilizia-sicurezza in una cornice di sistema: «Ognuno deve fare la propria parte: l’imprenditore deve valutare effettivamente il rischio dopo aver individuato i pericoli, le procedure di sicurezza devono essere operative e accettate, i lavoratori devono essere informati e formati per poi mettere in pratica quanto hanno appreso». A questo proposito, Pesenti ricorda l’impegno di Ance e degli enti bilaterali dell’edilizia per l’attività formativa, per la diffusione della cultura della sicurezza. «È un tema centrale al pari della transizione digitale. Sarà centrale alla prossima Fiera dell’Edilizia, nel 2023», assicura Alberto Capitanio, project manager fieristico. A Bergamo peraltro ha la sede nazionale Aipaa, l’Associazione italiana per l’anticaduta e l’antinfortunistica, che raggruppa il 70% delle aziende produttrici di sistemi salvavita. «Lo scorso dicembre — afferma il presidente Giuseppe Lupi — l’Inail ha indicato come in mancanza di protezioni sul vuoto in un cantiere, l’attività debba essere sospesa. Le cadute sono il 40% degli infortuni e come Aipaa da tempo abbiamo lanciato un appello alla politica, anche ai parlamentari bergamaschi, perché si possa incentivare con misure concrete, come un credito d’imposta anche minimo o un bonus, l’adozione di sistemi di sicurezza da parte delle aziende. Nessuno, purtroppo, ci ha ascoltato. Si fanno i bonus per le bici e i monopattini e non per cose ben più importanti». Alessandro Amicabile guida la di 2a Engineering di Brembate, realtà con 200 dipendenti: «Occorrono sensibilità e consapevolezza, sono cose che si trovano di rigore nei grandi cantieri, mentre i più piccoli sono stritolati da tempi e budget risicati».

Ogni giorno in Italia perdono la vita tre lavoratori. La storia di Giovanna, morta soffocata a 15 anni. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Lavorava senza contratto in una fabbrica abusiva di materassi, a Montesano sulla Marcellana (Salerno). Il 5 luglio del 2006 divampò un incendio. Lei e la sua collega, Annamaria Mercadante, 49 anni, madre di due figli, morirono. Questo è un estratto del racconto, capitolo di Ogni giorno 3 (Rizzoli), di Giusi Fasano. 

«Buon compleanno papà». Avevo un sorriso che splendeva mentre gli mettevo fra le mani il pacchetto. Non vedevo l’ora che lo aprisse. Lui mi stampò un bacio in fronte e si mise a scartarlo, lentamente. Nella scatolina c’era un orologio. «Ma Giovanna, come hai fatto? Dove sei andata a comprarlo?».

Leggevo lo stupore sulle facce di tutti: sorpresa riuscita, ero fiera di me. Quella volta avrò avuto 12-13 anni. Avevo messo da parte molte paghette per raggiungere la cifra che serviva, e quando finalmente mi era sembrato che potesse bastare avevo preso un autobus ed ero andata fino a Lagonegro: altra provincia, altra Regione. Mezz’ora di strada con il mio tesoretto in tasca da spendere per l’uomo più buono del mondo, mio papà.

Ecco. Da questo, e da tutto quel che andavo facendo fin da quand’ero piccolissima, la mia famiglia si convinse che sì, io ero nata per essere autonoma e libera. Guai a costringermi a fare qualcosa che non mi andava di fare. Guai a incasellarmi negli stereotipi femminuccia/maschietto.

Niente bambole

Io ero Giovanna e basta. Niente principesse né bambole. Nella mia camera avevo appeso poster di auto e di motociclette. Meglio le macchinine degli orsacchiotti. Scarponcini invece di tacchi, campagna anziché shopping. E poi volevo lavorare, guadagnare, fare tanti regali ai miei e alle mie sorelle, non chiedere soldi a nessuno. Mi ero data da fare in un negozio come commessa, in un bar, in una salumeria, a fare la badante per una vecchietta... Con la scuola ci avevo provato. Mi ero iscritta all’istituto alberghiero e mi ero pure impegnata per qualche mese. Ma alla fine con mamma ero stata sincera: non ci riesco, ma’, studiare non fa per me, non possiamo essere tutti scienziati o intellettuali. Se avessi insistito con quella benedetta scuola forse oggi sarei ancora al mondo. Forse non mi sarei trovata nel momento sbagliato in un postaccio sbagliato che tutti si ostinavano a chiamare “ditta” e che invece era una trappola. 

Una ditta, una trappola

Ci lavoravo, in quella trappola. Lì dentro si fabbricavano materassi. Tutto abusivo. Partita iva aziendale mai attivata. Nessuna insegna. Mai comunicato l’inizio attività. Lavoratrici tutte in nero. Paga misera: per me nemmeno due euro l’ora, per 9-10 ore al giorno. Tutto sotto gli occhi di tutti, a Montesano Sulla Marcellana, ultimo lembo a sud della provincia di Salerno. Ci aveva visto bene il mio povero papà. Pochi giorni prima che tutto andasse a fuoco, compresa la mia vita, era venuto a vedere dove lavoravo. Arrivato lì davanti mi aveva fatto chiamare e mentre mi aspettava gli era bastato dare un’occhiata dall’esterno. Vide fili elettrici e ciabatte multipresa ovunque, pile di materassi lavorati e da lavorare a dividere spazi strettissimi. «Se parte una scintilla qui vi accendete, fate la fine dei sorci» commentò. Me lo disse poi anche a casa: lì dentro è troppo pericoloso, non ci andare più. Ma «lì dentro» si lavorava da anni e non era mai successo niente, obiettai. E poi volevo lavorare, quello era l’unico posto che ero riuscita a trovare. Dai, papà, non ti preoccupare.

E invece aveva ragione lui.

Stessa aria, stessa morte

La mattina del 5 luglio 2006 la morte venne a prendermi mentre ero in fondo a quella specie di scantinato strapieno di materassi. Una delle ciabatte elettriche andata in corto circuito fece da innesco e rimasi imprigionata dietro un muro di fuoco. Non ho avuto scampo, e come me non ne ha avuto Annamaria, mia amica e madre di due figli che ha vissuto i suoi ultimi minuti respirando la mia stessa aria, avvelenata e infuocata. Non avevo nemmeno 16 anni. Lavoravo di quel lavoro nero e in quella fabbrica nera da tre mesi. Quella mattina portarono in laboratorio, chiamiamolo così, un bel po’ di lastre di poliuretano espanso che servivano per realizzare i materassi. Erano avvolte nella plastica e furono accatastate l’una sull’altra dove c’era spazio. Stavamo lavorando in quattro - due ragazze e due madri di famiglia - più “il principale”, come diciamo noi del sud. Una delle operaie vide all’improvviso le fiamme vicino alla porta d’ingresso, la sola via di scampo possibile. In pochi secondi il fuoco avvolse tutto.

Una saracinesca bloccata sulla salvezza

Lei e un’altra di noi scapparono fuori assieme al padrone, io e Annamaria in quel momento eravamo verso il fondo del locale, cercammo rifugio in bagno perché il rogo sbarrava la via dell’uscita.

In realtà fra il bagno e il punto in cui io e Annamaria stavamo lavorando c’era una saracinesca che in teoria avrebbe potuto essere la nostra ancora di salvezza. Ma tanto era coperta da macchinari, mobili e materassi che mai ne avevamo scoperto l’esistenza, e per di più fu trovata chiusa a chiave.

Il buco in cui ci eravamo cacciate era il solo angolo senza fuoco, ma anche senza ossigeno, perché non aveva finestre né prese d’aria. Eravamo in trappola. Il materiale accumulato in quella specie di garage interrato, soprattutto il poliuretano, bruciando produsse una miscela di gas dall’effetto letale immediato che - dissero poi i periti - era acido cianidrico, quello usato dai nazisti nelle camere a gas. Pochi respiri di quel veleno e i nostri cuori si fermarono, il resto lo fece il calore.

Quando mio padre arrivò davanti a quel disastro di fiamme, fumo nero e odore acre, avrebbe spaccato il muro con le mani, se avesse potuto: «Fate qualcosa, c’è Giovanna lì dentro», pregò i soccorritori. Voleva che un escavatore facesse un buco nel muro per farmi respirare, chiedeva acqua che non arrivava, estintori che non c’erano. «Insomma. Perché non fate niente?» si disperò guardando la colonna di fumo salire nel cielo blu di quella giornata.

Non c’erano le condizioni di sicurezza per rischiare di venire a prenderci. E non c’era modo di salvarci, questa era la verità. Eravamo già morte prima ancora che arrivassero i vigili del fuoco. Ma un padre questo non lo può accettare. E lui rimase ad aspettare che il fumo si diradasse, a proteggere il lumicino della sua speranza dal vento della malasorte. Fu tutto inutile.

L’ultima fragola

Il sole stava tramontando quando i vigili del fuoco recuperarono i nostri corpi. Era ormai sera quando gli occhi lucidi e stanchi di mio padre incrociarono quelli pieni di lacrime di mia madre. «Non abbiamo più Giovanna», le disse lui.

Mia madre quel giorno era andata a lavorare nella piana del Sele, a Battipaglia, come sempre. Raccoglieva fragole dall’alba al primo pomeriggio. Ricordo che da piccola una volta la costrinsi a portarmi con lei perché volevo assolutamente raccoglierle anch’io... Mi sembra di vederla, piegata a riempire cestini di fragole...

Scese dal pullman e trovò un’amica del vicinato. «Rosetta, torni adesso dal lavoro?» le chiese. «Sì, ho fatto la giornata a Battipaglia» rispose lei. A Casalbuono, che era il paesino dove abitavamo, a quell’ora tutti sapevano. Non c’era ancora nessuna certezza sul mio destino ma tutti avevano sentito che la fabbrica dei materassi era andata a fuoco e che dentro eravamo ancora in due. La vicina capì che invece mia madre non sapeva ancora nulla. «Ti voglio dire una cosa, Rosè» le annunciò con tono grave accompagnandola verso casa. Mamma pensò che fosse successo qualcosa a mio padre. Lui lavorava per la Comunità montana e fra le sue mansioni, se capitava, c’era anche lo spegnimento degli incendi. Quindi a quello pensò: che fosse successo qualcosa in un incendio. «Mio marito?» chiese timorosa all’amica. «No, no. Pasquale sta bene. Si è fatta male Giovanna».

Il lenzuolo bianco

La casa si riempì in pochi minuti. Arrivava gente a consolarla, a dirle parole di conforto e di speranza. Ma più passavano le ore più capiva di avermi perduta. La sua bambina ribelle, il maschiaccio di casa allergica ai vestiti da signorina non sarebbe più tornata.

Davanti al mio corpo e a quello della mia amica Annamaria coperti da un lenzuolo bianco la gente capì e vide ciò che sembrava non aver mai né visto né capito in tanti anni. Si può morire così per meno di due euro l’ora in nero? Si può lavorare in un buco senza neanche la più elementare misura di sicurezza? Quel “laboratorio” non era isolato e nascosto dal mondo. Era in paese, per di più proprio sotto una scuola elementare. E se quel giorno non fosse stato di luglio e le scuole fossero state aperte? Le indagini confermarono poi quel che era già alla luce del sole. La scritta “ignifugo” sui materassi era una bugia. Zero porte tagliafuoco, zero estintori, zero vie di fuga

. La fabbrica formalmente non esisteva, zero anche quella. Era un’azienda fantasma eppure i vigili urbani erano passati a fare accertamenti sul mancato pagamento della tassa rifiuti. Era fantasma però l’ispettorato si era occupato di una vertenza di lavoro e di un tentativo di conciliazione sul caso di un’operaia non assicurata. Era fantasma ma fu il sindaco di Casalbuono a suggerire a mio padre che «se Giovanna vuole proprio lavorare prova a mandarla lì». Fantasma, sì. Ma come disse il proprietario a mio padre mentre i carabinieri del Ris facevano rilievi: «Io sono colpevole e contro di me fate quello che volete. Ma devi sapere che non sono il solo...».

Su questo, almeno su questo, aveva ragione lui.

Quell’uomo - nullatenente, stabilì il suo resoconto patrimoniale - tentò di non pagare il debito con la legge. Fuggì, fu arrestato dopo nove mesi di latitanza e fu poi condannato. Soltanto lui. Così decise la giustizia degli uomini.

Un sussulto di coscienza, fino al Quirinale

Mentre avveniva tutto questo la mia storia diventava storia del nostro Paese. Una ragazzina che muore di lavoro nero in una fabbrica abusiva era troppo perfino per chi non si scandalizzava più di niente sul tema dell’occupazione al sud. Il mio nome e quello di Annamaria arrivarono in parlamento prima e al quirinale poi. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle abbracciare mio padre. Il nostro sacrificio era servito almeno a questo: a un breve intenso sussulto di coscienza in ogni angolo del Paese. Due fotografie di papà che stringe la mano del presidente sono appese al muro del casale in cui vive adesso la mia famiglia, sempre a Casalbuono ma in una frazione isolata, in campagna. La casa in cui sono cresciuta io è chiusa, abbandonata. C’erano troppi dettagli che parlavano di me e non c’era angolo sul quale gli occhi di mia madre potessero posarsi senza piangere. Così hanno deciso di venir via da quei ricordi. E hanno lasciato la mia stanza esattamente com’era quel 5 luglio 2006. Perfino il letto è ancora sfatto come lo lasciai quella mattina. E i miei vestiti, le mie macchinine, i miei poster... Il tempo lì dentro è fermo (...)

(...) Fra le mie fotografie da bambina ce ne sono molte accanto ad animali. Cani, gatti, cinghiali, galline... I miei avevano della terra e un allevamento di cinghiali, ne scelsi uno piccolissimo e lo adottai. Mi seguiva in giro per il paese come fosse un cagnolino. Ero buffa a passeggio con il cinghialino al seguito. Era la fotografia esatta della mia situazione: lui era addomesticato, io no (...).

La fine della storia

(...) Per chi mi ha conosciuto e voluto bene ricordarsi di me significa ricordare anche Annamaria. Suo marito Michele, un brav’uomo, era un collega di mio padre alla Comunità montana e anche a casa sua il dramma di quel lutto entrò prepotente in ogni giornata, come fece con la mia famiglia. Quel povero uomo dopo aver perduto la moglie ha perso anche suo figlio in un incidente stradale, e mia madre ancora oggi ogni volta che ne parla lo piange come se fosse stato un po’ anche figlio suo, così come io sono stata un po’ figlia di Annamaria nella sventura di quegli ultimi minuti passati vicino a lei.

Mamma e papà cercano di non pensare mai a come mi sono sentita mentre respiravo quel veleno. Fa troppo male immaginare la mia paura e la mia resa (...)

(...) Che abisso, quel giorno del funerale...

Ho affrontato l’oscurità e il nulla del mio addio infilata in un bellissimo vestito bianco. Le mie sorelle sono andate a comprarmi un abito da sposa per realizzare almeno un po’ del mio sogno di diventare moglie e madre, e le mani esitanti di mia zia lo hanno fatto indossare al mio corpo senza più vita. Così me ne sono andata che ero ancora un po’ bambina e nello stesso tempo già sposa.

In Puglia è strage sul lavoro: già 15 morti bianche nel 2022. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2022. 

Nel 2021 le vittime sono state 96. Agricoltura e edilizia i settori più rischio. Infortuni in crescita triplicati nella provincia di Lecce e raddoppiati nel Tarantino

Nei cantieri come nei campi, nelle fabbriche come sulle strade. È dolore enorme che rimane addosso per chi si porta le ferite di un incidente sul lavoro. È tragedia straziante per chi non c’è più e per chi resta solo con il ricordo. Uno scenario di profonda gravità quello che i freddi numeri fotografano in Puglia in occasione della Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro.

Nel 2021 in Puglia sono state registrate 24.533 denunce di infortunio sul lavoro, in media 65 al giorno, 97 morti (nel 2020 furono 78) per il lavoro (75 sul luogo lavorativo e 21 in itinere ovvero durante il normale percorso di andata e ritorno dall’abitazione a quello di lavoro) e una crescita di quasi il 60% delle denunce di malattie professionali rispetto all’anno precedente.

Sono alcuni dei dati resi noti dal direttore regionale Inail Puglia, Giuseppe Gigante proprio in occasione del 28 aprile, la Giornata nazionale della sicurezza sul lavoro, che è stata anche l’occasione per presentare con la Cgil regionale il progetto «Salute e sicurezza in edilizia e agricoltura».

«Sebbene ci siano segnali evidenti di ripresa economica, ci sono altrettanti segnali di disattenzione per il fenomeno infortunistico», ha commentato Giuseppe Gigante.

«I lavoratori sono da sempre chiamati a pagare il prezzo più alto delle ripartenze: ricordiamo che negli anni del boom economico, gli anni '60, si verificavano una media di 4.600 infortuni mortali annui, un contributo di sangue che era ritenuto necessario per la crescita e modernizzazione del Paese. Oggi questo principio non è minimamente tollerabile».

La sicurezza, purtroppo, anche in Puglia continua ad essere percepita come un costo e non come un investimento e un fattore di successo in termini competitività e produttività.

Snocciolando i dati forniti da Inail Puglia, a livello provinciale lo scorso anno la terra di Bari è quella dove, purtroppo, si sono verificati più incidenti mortali sul lavoro, ben 24 (nel 2020 furono 25). Segue la provincia di Lecce con 24 morti bianche rispetto alle 9 del 2020

Anche Taranto ha visto raddoppiare gli infortuni mortali passando dagli 8 del 2020 ai 16 del 2021.

«Non possiamo pensare che la prevenzione si realizzi soltanto attraverso i sistemi di controllo - aggiunge il direttore di Inail Puglia -. Se non radichiamo l’idea che la cittadinanza attiva passa anche attraverso un livello di sicurezza maggiore e più articolato, facciamo solo per metà la nostra parte».

Il settore più a rischio in Puglia è l’agricoltura (qui si è verificato il 24% degli infortuni mortali) ma negli ultimi due anni non sono mancate tragedie anche nella logistica (trasporti e magazzinaggio) e l’edilizia.

«Sappiamo - evidenzia Gigante a tal riguardo - come il problema sia estremamente complesso. I bonus fiscali in campo dell’edilizia hanno portato, ad esempio, sicuri vantaggi in termini economici, ma anche tanta improvvisazione a scapito della sicurezza: non c'è formazione, non c'è confronto con organizzazioni datoriali e sindacali che anzi vengono viste come un ostacolo alla ripresa. Non credo che questo sia il modo giusto di ripartire».

Nei primi tre mesi del 2022 le «morti bianche» sono state già 15 mentre 7.565 le denunce di infortuni.

«Come Inail - ha concluso il direttore della sede regionale - sproniamo iniziative, come quella avviata con la Cgil Puglia, per sostenere quelle imprese che utilizzano le nuove tecnologie, gli strumenti e i macchinari più sicuri e scelgono di investire sulla prevenzione e sul miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Dobbiamo essere consapevoli, infatti, che ogni morte sul lavoro è una sconfitta per tutti».

Terni, maresciallo dell’Esercito muore schiacciato dal muletto: trovano il cadavere il giorno dopo. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 18 maggio 2022.

Tragedia sul lavoro a Narni, dove nella prima mattinata di oggi (mercoledì) è stato trovato morto il primo maresciallo dell’Esercito Andrea Fagiani, 49 anni, sposato, due figli, comandante del Deposito munizioni ed esplosivi «Mario La Barbera», presso la frazione di Nera Montoro. Il sottufficiale, esperto artificiere, mentre era impegnato in attività di servizio all’interno della struttura, sarebbe stato schiacciato da un muletto, dopo che il macchinario si è ribaltato. L’incidente risalirebbe alla giornata di ieri, ma solo stamattina un commilitone, al momento dell’arrivo a lavoro, si è accorto di quanto accaduto e ha dato l’allarme. Insomma: un altro incidente sul lavoro. L’ennesimo in questo 2022 che al 28 aprile ha conteggiato 189 vittime.

Fagiani era morto già da parecchie ore

L’intervento del 118 si è però rivelato inutile, visto che Fagiani era morto già da parecchie ore. Sul posto sono giunti i carabinieri del comando compagnia di Amelia, che svolgono le indagini sull’incidente sotto il coordinamento del sostituto procuratore della Repubblica di Terni Marco Stramaglia. Accertamenti sono stati attivati anche dal ministero della Difesa, tramite la struttura che si occupa della prevenzione degli incidenti sul lavoro per il personale delle forze armate.

Aveva prestato in passato servizio in Africa

Originario di Fonte Nuova (Roma), decorato al valore civile e da tempo a capo del deposito di Nera Montoro, Fagiani era conosciuto e stimato, oltre che per le sue abilità operative di artificiere, anche per aver prestato in passato servizio in Africa. «Oggi l’Esercito e il Paese perdono un uomo e soldato di valore, servitore dello Stato», ha sottolineato Maria Tripodi, capogruppo di Forza Italia in commissione Difesa alla Camera. La quale ha ricordato che «più volte» il primo maresciallo «aveva partecipato a missioni internazionali e si era distinto in Africa in progetti umanitari».

«Strage intollerabile»

Le «condoglianze più sentite», da parte dell’intera amministrazione comunale, sono state rivolte alla famiglia anche dal sindaco di Narni, Francesco De Rebotti. Un dramma, quello accaduto al comandante Fagiani, che riapre la riflessione sulla piaga delle morti bianche. Di «vera e propria strage intollerabile» parlano Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, e Roberto Perfetti, segretario regionale Ugl Umbria. I due rappresentanti sindacali chiedono «che venga urgentemente aperto un tavolo fra il Governo e le parti sociali con il fine di intensificare i controlli sui posti di lavoro e gli investimenti sulla formazione dei lavoratori per prevenire — concludono — simili tragedie».

Il ministro Guerini: «Profondamente addolorato»

«Sono profondamente addolorato per la scomparsa del sottufficiale dell’Esercito Andrea Fagiani. Un pensiero commosso e di vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari». Lo ha detto il ministro della Difesa Lorenzo Guerini che prosegue così: «In attesa che le indagini del Comando provinciale dei Carabinieri di Terni e della procura locale chiariscano la dinamica del drammatico incidente, oggi la Difesa piange la perdita di un membro della sua famiglia», ha concluso il ministro Guerini.

Macchine mortali. Report Rai PUNTATA DEL 09/05/2022 di Giuliano Marrucci

Collaborazione di Eleonora Zocca

Le pagine di cronaca continuano ad essere riempite da casi di morti sul lavoro dovuti a qualche macchinario industriale.

La dinamica è sempre la stessa: c'è qualche componente meccanica che si muove e qualcuno che ci rimane incastrato dentro. Se venissero rispettate le regole, non dovrebbe proprio accadere. Mai. Il problema è che a garantire la conformità dei macchinari è un'autocertificazione, e a controllarle ex post, delle 5 mila persone impiegate nelle ASL nel 2008, ormai ne sono rimaste poco più di 2000 e quando trovano qualcosa che non va, lo devono comunicare a una commissione interministeriale, che però non s'è riunita per due anni.

MACCHINE MORTALI Di Giuliano Marrucci Collaborazione Eleonora Zocca Immagini Davide Fonda, Giovanni De Faveri Montaggio e grafiche Gabriele di Giulio

STUDIO SIGFRIDO RANUCCI C’è una strage silenziosa alla quale non riusciamo a porre una parola fine, quella Delle morti per incidenti sul lavoro. Dal 2018 ad oggi, abbiamo una media di 3 morti al giorno e 400mila incidenti ogni anno. Nel 2021 abbiamo contato 1221 morti. E poi in qualche modo godiamo – si fa per dire – di un triste primato: secondo dati di Eurostat, contiamo di fronte ad una media di 2,2 morti ogni 100mila occupati, l’Italia ha una media di 2,7, cioè lo 0,5 in più Il Regno Unito 1,6 e la Germania 1. Abbiamo delle leggi stringenti, però le abbiamo svuotate. Non sappiamo neanche bene il perché. Si muore nei campi, si muore nei cantieri edili, si muore nelle fabbriche, e le modalità sono quasi sempre le stesse. Insomma, i nostri imprenditori non investono sulla sicurezza né vengono formati i lavoratori, e poi i controlli. I controlli non avvengono in maniera continua perché gli ispettori sono pochi e solitamente intervengono quando il morto c’è già stato. Non per prevenire. Il nostro Giuliano Marrucci

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO 3 maggio 2021. Provincia di Prato. Un orditoio come questo sta lavorando a massima velocità senza protezioni, e inghiotte la ventiduenne Luana D’Orazio, stritolandola e uccidendola sul colpo. 5 maggio 2021. Busto Arsizio. Christian Martinelli si avvicina a un tornio verticale in funzione simile a questo, e viene stritolato. Trasportato in elicottero all’ospedale di Legnano, muore per arresto cardiaco subito dopo. 3 agosto 2021. Provincia di Modena. Laila el Harim viene ingoiata da una fustellatrice simile a questa, che le stritola cranio e vertebre uccidendola sul colpo. 21 agosto 2021. Marcianise. dopo undici giorni di rianimazione si spenge definitivamente il trentatreenne Ivan Salvatore. Era stato schiacciato da una pressa simile a questa che gli aveva sfondato la cassa toracica Il 16 novembre a morire sul colpo schiacciato da un macchinario tocca al 22enne di origini cingalesi Himal Perera. E il 22 gennaio è il turno del 58enne Vincenzo Pignone, inghiottito da una sabbiatrice meccanica. È solo una parte del terrificante bollettino di una guerra che ogni anno miete centinaia di vittime, senza distinzione di sesso, razza o età.

RENATO DELAINI - ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Il meccanismo è sempre quello. C’è qualcosa che si muove, che gira, si alza, che si abbassa, e che prende la persona.

CLAUDIO DELAINI - ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI La protezione che ti impedisce di accedere alla zona in movimento viene rimossa, e poi dopo un po’ qualcuno si fa male. E quel qualcuno viene anche poco capito, cioè, nel senso, la frase sgradevole che succede spesso è “come ha fatto quel coglione a farsi male così?”, ma ciascuno di noi non è sempre al 100%, no? magari hai litigato con la morosa, magari sei preoccupato per la figlia, magari hai fatto nottata la sera prima.

RENATO DELAINI - ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Però il castigo non può essere la morte, questo è veramente inaccettabile

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO I macchinari che popolano le nostre fabbriche hanno una forza spaventosa. Se entri in contatto con una parte in movimento come questa, non c’è scampo. Eppure, il modo per renderle sicure c’è. Qui siamo alla Trebi di Brescia. 25 dipendenti che mettono assieme casottini come questi, per la lavorazione dell’alluminio.

GIULIANO MARRUCCI Quante volte è successo che qualcuno si facesse male con una vostra macchina PIERCARLO BONOMI - TREBI SRL Mai, e speriamo che non succeda mai

GIULIANO MARRUCCI Quante macchine avete venduto ad oggi?

PIERCARLO BONOMI - TREBI SRL Ad oggi abbiamo venduto 500 macchine in tutto il mondo

GIULIANO MARRUCCI Cioè oggi se io progetto le macchine, e al momento della progettazione metto l’aspetto sicurezza tra quelli su cui adottare lo standard massimo oggi tecnologicamente disponibile, l’incidente mortale non può succedere

PIERCARLO BONOMI - TREBI SRL Assolutamente no, non può succedere.

GIULIANO MARRUCCI Non può succedere perché ogni volta che c’è una parte in movimento potenzialmente mortale la legge prevede ci siano meccanismi di protezione di ogni genere.

PIERCARLO BONOMI - TREBI SRL Deve essere impossibile rimuovere un pannello, rimuovere una parte di carteratura. Quello che è possibile al 100% sicuramente è evitare l’infortunio mortale. Stiamo trattando adesso con un cliente una macchina nuova, ha chiesto l’offerta a noi e a un altro cantinaro, diciamo così. Quella del cantinaro costa la metà. Costa la metà perché la macchina non è sicura, eppure lui gli garantisce che è sicura. Il cliente non ha le capacità di capire cosa è sicuro e cosa no.

GIULANO MARRUCCI FUORI CAMPO A garantirgli che la macchina che sta comprando è sicura dovrebbe essere il marchio CE

GIULIANO MARRUCCI Che però…

CLAUDIO DELAINI - ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI È un’autocertificazione che rilascia il fabbricante

GIULIANO MARRUCCI Non c’è un ente terzo

CLAUDIO DELAINI - ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI No, non c’è un ente terzo

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Prima di dedicarsi a tempo pieno all’associazione Salute Lavoro, Norberto Canciani si occupava di sicurezza per le ASL lombarde. E quante fossero le macchine marchiate CE non sicure aveva provato a quantificarlo

NORBERTO CANCIANI - EX TECNICO DELLA PREVENZIONE ASL Appena uscì la direttiva macchine, a Milano c’erano delle fiere molto importanti di settore, la procura di Milano ci chiese di fare dei controlli. La sorpresa in quegli anni è stata che c’era una percentuale molto alta di macchine che presentavano sempre qualche problemino, fino ad arrivare quasi al 20%. Abbiamo visto situazioni di non conformità anche in molti paesi europei, molti paesi europei che addirittura facevano delle cose un po’ strane, mandando magari in Italia macchine che avevano meno misure di protezione che non nel loro paese

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Lucerna. Svizzera. Qui c’è la sede centrale della SUVA, la loro assicurazione pubblica per gli infortuni sul lavoro, che però ha in pancia anche un servizio di prevenzione che viene considerato all’avanguardia in tutto l’occidente. Fanno complessivamente 23 mila ispezioni l’anno, su un bacino di circa 140 mila aziende.

GIORGIO TOLONE – ESPERTO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO SUVA Noi classifichiamo i nostri clienti in base al rischio di infortunio. quindi, le aziende classificate con priorità 1 e 2 vengono visitate in media ogni 2 anni, le grandi probabilmente anche ogni anno

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Gli incaricati delle ispezioni sono tutti ingegneri, conoscono a fondo le macchine industriali, possono mirare al meglio le ispezioni grazie ai dati della banca dati centrale della SUVA, e così, se qualcosa non quadra, se ne accorgono per tempo

GIORGIO TOLONE – ESPERTO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO SUVA La maggior parte delle lacune vengono constatate sul posto di lavoro durante i nostri controlli

GIULIANO MARRUCCI Quindi, non quando intervenite in seguito a un infortunio

GIORGIO TOLONE – ESPERTO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO SUVA Esatto. Se diciamo così, le lacune sono evidenti, sostanzialmente chiediamo l’interruzione dell’attività di lavoro su quel macchinario

GIULIANO MARRUCCI E questo lo gestite direttamente voi, cioè non è che vi dovete rivolgervi a un organo terzo per fare questo intervento

GIORGIO TOLONE – ESPERTO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO SUVA No, questo lo gestiamo noi sul posto di lavoro

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Oltre al bastone, i tecnici della SUVA hanno in dotazione anche diverse carote GIORGIO TOLONE – ESPERTO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO SUVA Il cliente ha il mio numero di telefono, quindi mi può contattare per qualsiasi domanda inerente sicurezza sul lavoro e malattie professionali. Siamo dell’idea che la prevenzione sia fondamentale, e credo che veniamo anche stimati in questo

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E il bello è che tutto questo non costa ai contribuenti manco un euro, è tutto finanziato tramite i premi dell’assicurazione. E avanzano anche i soldi per fare campagne di sensibilizzazione come questa, premiata nel 2021 al festival internazionale di Toronto

GIULIANO MARRUCCI In Italia invece una SUVA non c’è, e a fare un po’ di divulgazione ci pensano loro, padre e figlio. Prima di cominciare a occuparsi di sicurezza a tempo pieno, Delaini padre di mestiere faceva il direttore di fabbrica, e quando doveva capire se un macchinario era realmente sicuro erano sempre dolori. Allora ha ingaggiato il figlio, e da allora non passa giorno che non siano dentro qualche fabbrica a provare a mettere le pezze. Qui siamo a Casoria, in uno dei tanti capannoni che spuntano come funghi in mezzo ai palazzi e che sfuggono sistematicamente ai radar dei controlli

ORNELLA AUZINO - IMPRENDITRICE Questa è una placcatrice, che non va se non viene azionata con tutte e due le mani

GIULIANO MARRUCCI Quindi se te premi……

ORNELLA AUZINO - IMPRENDITRICE Così non scende, se faccio così…

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Ho le mani impegnate, e quindi l’impossibilità di metterle qui. Quindi sono io che corro il rischio che ho il pieno controllo della macchina. Se io schiacciassi e andasse in automatico, avrei un organo in movimento dove mi potrei impigliare, mi potrei schiacciare. Questa macchina è una tagliastrisce. Io non devo raggiungere con le mani gli organi che tagliano. C’è un riparo in plexiglas. Ho bisogno di una brugolina, un utensile, per poterlo svitare. Nel caso in cui io mi dimentico di rimetterlo, io ho un micro che rivela che il riparo è stato messo in posizione. Questa è una macchina fatta bene. Questa ha una lama che taglia. Se noi la facessimo girare ci sarebbe un rischio, se ho un braccialetto, un anello tipo la fede, che mi tira dentro, e mi faccio del male. Allora lui avvita questo riparo fisso, nessuno può infilare la mano là sotto perché ho un paradita che mi impedisce di mettere la mano lì sotto. Poi vedi che la macchina non riparte da sola? Ci vuole un consenso dell’operaio sennò si chiama “avvio inatteso”, che è una delle cause di infortunio più comuni che ci siano

GIULIANO MARRUCCI È perché’ ti confronti con Claudio, non perché’ hai paura che l’Asl se ne accorga

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI No, no, è molto improbabile

ORNELLA AUZINO - IMPRENDITRICE Molto improbabile anche perché normalmente quando vengono a fare i controlli per la sicurezza controllano il DVR, se ci sono le norme antincendio, ma non c’è una parte specifica dove poi scendono così in profondo

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO I tecnici della prevenzione dell’ASL spesso vanno di fretta, e vanno di fretta perché, insieme a tutti gli altri che si occupano di prevenzione, sono sempre meno: dal 2008 a oggi sono passati da oltre 5 mila unità a poco più di 2000. Ma c’è anche un problema di qualità, perché a differenza della svizzera i tecnici della prevenzione non sono ingegneri, ma personale sanitario, e le criticità delle macchine devono imparare a conoscerle. Il risultato è che ormai i tecnici dell’Asl si accorgono che su una macchina c’è qualcosa che non va solo quando ormai è troppo tardi.

NORBERTO CANCIANI - EX TECNICO DELLA PREVENZIONE ASL Più del 50% delle segnalazioni sono in seguito di infortuni, ben più del 50%

GIULIANO MARRUCCI Quindi l’attività preventiva è veramente…

NORBERTO CANCIANI - EX TECNICO DELLA PREVENZIONE ASL Scarsissima

GIULIANO MARRUCCI Straridotta

NORBERTO CANCIANI - EX TECNICO DELLA PREVENZIONE ASL Funziona solo per le macchine sulle quali si fanno le verifiche periodiche. Il problema è che qualche anno fa hanno introdotto una norma che consentiva di far fare queste verifiche a dei soggetti privati

GIULIANO MARRUCCI E l’esternalizzazione di questa cosa qua secondo te ha comportato secondo te un degradamento

NORBERTO CANCIANI - EX TECNICO DELLA PREVENZIONE ASL Il privato comunque è pagato da quello che lo chiama. Se io ti chiamo per farmi una verifica periodica della macchina, tu vieni qua e me la contesti, mi fai applicare una sanzione, beh, la volta dopo ne cerco un altro

GIULIANO MARRUCCIA Anche quando un tecnico della prevenzione dell’ASL riesce a individuare una macchina che potrebbe causare un incidente si limita sostanzialmente a passare la palla a una commissione interministeriale coordinata dal ministero dello Sviluppo, che si dovrebbe riunire circa una volta al mese per valutare la segnalazione. GIULIANO MARRUCCI Però qui c’è un po’ un giallo, un buco nero

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE Per un paio d’anni la commissione non si è mai riunita

GIULIANO MARRUCCI Per due anni

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE Sì, per due anni. Per cui le macchine sono rimaste in circolazione

GIULIANO MARRUCCI Ma questa cosa qua non è grave?

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE È un brutto segnale, diciamo così. È un brutto segnale, certamente RENATO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Non si sentono il fiato sul collo dei controlli

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI E anche nel dopo se è andato qualcosa storto non si sentono il fiato sul collo della procura perché comunque è un procedimento troppo lento. È raro che qualcuno vada in galera e poi molte imprese e clienti che abbiamo non hanno problemi a pagare le multe, le mettono in conto

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO I nostri imprenditori non solo non hanno paura a usare macchine non sicure, ma le mettono proprio anche in bella mostra sul web.

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Allora, questa è una macchina per fare le mascherine chirurgiche, dove si vede che gli organi in movimento sono perfettamente liberi. Io li posso raggiungere con le mani senza nessun problema, ma non è un punto della macchina, è tutta la macchina.

RENATO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Guarda, Guarda che bello qua. anche il dito. È una macchina nuda.

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Vedi? Qua, se metto la mano sotto me la tira sotto

RENATO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Ma non solo la mano, tutto quello che riesce

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI E sicuramente me le frattura le dita. Qui c’è una piccola pressettina, no? E di sicuro non mi fa del bene. Poi adesso la confezione, ed eccola qua. Questa è una taglierina RENATO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Lì bisogna mettere la mano

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Però hanno messo il cartello giallo

RENATO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Ah, c’è il cartello. Allora….

CLAUDIO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Allora, questo io lo metto sul canale Youtube. Vuol dire che non ho nessuna consapevolezza che sto commettendo un reato

RENATO DELAINI – ESPERTO DI SICUREZZA DEI MACCHINARI Nessuna percezione di nulla

GIULIANO MARRUCCI Uno degli incidenti mortali più diffusi, sembra incredibile, è quello legato all’uso del trattore. Con piccoli accorgimenti si potrebbero salvare oltre 120 vite l’anno.

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE Sono le cinture di sicurezza piuttosto che la cabina che protegge l’operatore in caso di ribaltamento e ne impedisce lo schiacciamento. I costi non sono neanche tanto pesanti: poche centinaia di euro per le cinture di sicurezza e 1000/1500 euro per gli interventi più complessi come le cabine

GIULIANO MARRUCCI E salverebbero più di cento vite l’anno

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE Sì

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE Peccato che da molti e molti anni si aspetti il decreto che obbliga appunto, in caso di revisione, ad attuare questa misura di sicurezza

GIULIANO MARRUCCI Ed è da dieci anni che questa cosa si sa, è lì sul tavolo, e non si fa

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE Si

GIULIANO MARRUCCI Cioè, cosa basterebbe fare?

SUSANNA CANTONI – PRESIDENTE CONSULTA ITALIANA PREVENZIONE Un decreto. Manca un decreto.

STUDIO SIGFRIDO RANUCCI Un decreto che permetterebbe di salvare vite umane. Ma cosa aspettano ad approvarlo? Ora, per quello che riguarda il giallo della commissione interministeriale che dovrebbe riunirsi per valutare le segnalazioni di mancata sicurezza dei macchinari, sono sei mesi che abbiamo chiesto spiegazioni, non ce ne hanno date. Abbiamo chiesto anche un accesso agli atti. Hanno detto solamente che hanno ricominciato a lavorare a pieno ritmo, però ci sono da smaltire le scorie accumulate nei ministeri Calenda e Di Maio. Ora riteniamo che finché la sicurezza verrà considerata un prezzo e non un valore, le cose continueranno a funzionare così. Non sappiamo neanche copiare, basterebbe vedere gli svizzeri, la Suva, un ente pubblico che punta molto sulla prevenzione. Hanno fatto anche una classifica delle aziende più a rischio sicurezza, fanno le ispezioni una volta l’anno. E hanno il potere di sospendere, intervenire direttamente, senza prendere delle scorciatoie o rivolversi ad enti terzi. 

Luana, la sua felicità normale impigliata in un orditoio e altre 1221 vite finite così. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2022.

Tante sono le persone morte sul lavoro nel 2021. Lei, 22 anni da Prato, vegliava sul piccolo Alessio con matura sensibilità. Tutti i suoi sogni sono finiti perché sono state forzate le protezioni di sicurezza per aumentare la produttività. 

Luana aveva 22 anni, un figlio di 5, un fratello disabile, un lavoro non facile, all’orditoio, che affrontava con allegria. E poi Luana aveva anche tanti sogni straordinariamente semplici: un viaggio a Parigi con il fidanzato, un concerto di Tiziano Ferro, la speranza che Barbara D’Urso intercettasse i suoi videoclip e la invitasse a parlarne in tv. Era bella, fresca e seducente e sfidava il destino lavorando e immaginando senza affanno vite diverse, era anche comparsa in un film di Pieraccioni. La sera prima di morire a 22 anni, sul lavoro, proprio per quel maledetto orditoio diventato mostro, aveva mangiato una pizza ed era passata al pub con Andrea, il fidanzato: «È proprio in momenti come questi che ti rendi conto che nella vita non hai bisogno dello straordinario, ma della normalità», aveva scritto su Facebook convalescente dal Covid, a novembre 2020, scrivendo normalità in maiuscolo, a sottolineare come la parola si fosse inserita nel nostro immaginario dopo lo tsunami della pandemia che aveva stravolto le nostre scalette dei desideri.

Ad Andrea Luana manda un ultimo messaggio: «Quando mi sono svegliata all’alba per andare al lavoro sono scesa a fare colazione e ho svegliato i cani, spero non abbiano disturbato i tuoi». Quel giorno era il compleanno di mamma Emma e Luana la chiama per dire di preparare il tiramisu, «che stasera si festeggia». Tutta questa vita di Luana, ordinata e piena di cose e affetti, il mondo su cui lei vegliava con matura sensibilità, sono stati spazzati via in un secondo da quell’orditoio che lei trattava con fiducia e invece, orco irriducibile, l’ha inghiottita con spietatezza nei suoi rulli di metallo, come uno straccio. «La sua vita si è impigliata nella macchina» come raccontò la madre ricordando in tv la figlia, mamma a sua volta di Alessio a 17 anni. Oggi Luana D’Orazio da Prato, che se ne è andata in un baleno il 3 maggio di un anno fa, appena tornata all’orditoio (macchinario di antica tradizione ora regolato dal computer) dopo aver celebrato la Festa del Lavoro, è il simbolo di un lavoro che uccide anche se non dovrebbe, nell’era post industriale.

Una foto di Luana postata dal profilo Twitter dell’ANPI, che la ricorda con un fiore , contro il disimpegno e il diritto fondamentale alla sicurezza sul lavoro. 

Si ricorda la sua morte innaturale, ma vale per le altre 1221 persone morte nel 2021 come lei. Le si ricorda nella fredda logica dei numeri ma andrebbero ricordate ognuna col suo nome, simboli di uno stragismo quotidiano che non fa onore a nessuno. Tre vite al giorno spezzate nell’incuria e nella vergogna di chi non riesce a proteggere neppure l’articolo 1 della Costituzione: Ogni giorno 3, come nel recente libro Rizzoli della giornalista del Corriere Giusi Fasano, che ricostruisce vite piene di speranze e sentimenti prima dell’addio forzato, e rende onore alla memoria di tutti quelli che ora dormono sulla collina, morti violentemente, spesso per un malinteso senso del profitto e scarsa considerazione della vita individuale. Storie di ingiustizia collettiva di cui siamo tutti responsabili. Dopo ogni morte si aprono le indagini, come per Luana: con ogni probabilità si era tentato di forzare le protezioni di sicurezza per aumentare di poco la produttività. La famiglia ha rifiutato un risarcimento di 1,2 milioni e il processo ai proprietari della ditta è in corso. Ma i sogni larghi e normali di Luana son volati via con lei.

Morte Luana D'Orazio, scontro fra famiglie per l'affidamento del bimbo. Giovanni Fiorentino il 19 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il padre naturale del bambino della giovane operaia morta sul lavoro non intende rinunciare alla patria potestà, come chiesto invece dalla famiglia D'Orazio.

Un vero e proprio scontro fra famiglie: quella di Luana D'Orazio da un lato, quella del padre naturale del suo bambino dall'altro.

E in ballo c'è soprattutto il futuro del minore, oltre che il risarcimento economico (che ad oggi spetterebbe però ai familiari più prossimi). Ecco lo scenario legale ormai delineatosi in merito alla scomparsa della giovane operaia toscana, vittima di un incidente sul lavoro il 3 maggio del 2021 in una fabbrica tessile di Montemurlo (in provincia di Prato).

Se i coniugi imprenditori che mandavano avanti l'azienda e il tecnico manutentore del macchinario (con il mezzo che, a causa della rimozione del dispositivi di sicurezza, secondo la perizia tecnica avrebbe agganciato e stritolato la giovane) dovranno rispondere di omicidio colposo e rimozione delle cautele antinfortunistiche (con l'udienza rimandata al prossimo settembre) si è aperta una doppia querelle parallela. Che riguarda il figlio della ventiduenne deceduta, il quale si trova al centro di due distinti procedimenti giudiziari: uno davanti al tribunale dei minori di Firenze dopo che i nonni materni (con i quali il bimbo ha sempre vissuto) hanno chiesto la revoca della capacità genitoriale del padre naturale, l'altro davanti al tribunale di Pistoia per discutere il ruolo di curatore speciale provvisorio affidato al nonno materno.

A seguito dell'annuncio dell'indennizzo da 1.200.000 euro calcolato da Inail per i familiari di Luana poco più di un mese fa, anche il genitore del piccolo ha esternato dalla Calabria (dove risiede) l'intenzione di volersi costituire parte civile. Una decisione che i D'Orazio non hanno gradito e sulla quale toccherà al tribunale esprimersi, con il primo atto fissato per il prossimo 15 giugno. Da Crotone, il giovane ha fatto sapere pochi giorni fa tramite il proprio avvocato di volersi occupare del bimbo e di non avere ostacoli per la ricomposizione (anche con l'aiuto degli assistenti sociali) di un rapporto che si sarebbe sfilacciato negli ultimi tempi.

E il tribunale di Pistoia sarà a questo punto chiamato a rivalutare anche la nomina del nonno materno come curatore speciale, guardando anche alla contesa di settembre visto che solo una delle due richieste di costituzione di parte civile a nome del ragazzino (la prima è stata ovviamente stata presentata dal nonno, ndr) potrà essere accolta. L'iter giudiziario è insomma appena partito. Accanto alle responsabilità di cui dovranno rispondere le tre persone legate alla ditta nella quale Luana lavorava, sembra ormai esser nata in parallelo anche una "faida extra-familiare".

Da leggo.it il 15 agosto 2022.

Il figlio di Luana D'Orazio, l'operaia 22enne stritolata da un orditoio e morta tragicamente sul lavoro a Montemurlo (Prato) il 3 maggio del 2021, crescerà con i nonni materni. Per ora è una decisione provvisoria, ma potrebbe diventare definitiva: il tribunale dei minori di Firenze ha infatti affidato, per ora per 24 mesi, ai nonni materni il figlio della giovane mamma, togliendo la responsabilità genitoriale sul piccolo al papà, Giuseppe Lerose, ex compagno di Luana. 

Il tribunale, come riportano oggi i quotidiani dopo l'anticipazione del Corriere Fiorentino, ha accolto il ricorso di Francesco D'Orazio ed Emma Marrazzo, i genitori di Luana, contro Lerose, un operaio che vive in Calabria e che ha altri figli e aveva chiesto di continuare ad avere contatti con il bambino. Il ricorso per la decadenza della responsabilità genitoriale di Lerose era stato depositato il 28 ottobre dell'anno scorso dai genitori di Luana.

Nel ricorso si faceva presente che Luana, dopo la separazione dal compagno, aveva ottenuto già nel luglio 2017 l'affidamento esclusivo del figlio, con la possibilità da parte del padre di incontrare il figlio tutte le volte che avesse voluto dando un preavviso di cinque giorni. In realtà, sostengono i nonni del bambino, dal 2017 Lerose non hai fatto visita al figlio. Un atteggiamento, aggiungono i genitori di Luana, che non è cambiato nemmeno dopo la tragica fine della loro figlia. 

Il 5 settembre ci sarà una nuova udienza, stavolta a Pistoia, per la nomina del giudice tutelare. Un'altra data cruciale in merito alla tragedia della giovane operaia sarà il 22 settembre quando si svolgerà l'udienza preliminare per decidere il rinvio a giudizio dei tre imputati accusati di omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele anti-infortunistiche del macchinario a cui lavorava la 22enne: la titolare dell'orditoio, Luana Coppini, il marito Daniele Faggi e il tecnico manutentore Mario Cusimano. 

Il figlio di Luana D'Orazio affidato esclusivamente ai nonni materni. Redazione Firenze su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022.  

Il tribunale di Pistoia conferma il "decadimento della responsabilità genitoriale" per il padre del bambino rimasto orfano dopo la morte della madre ventiduenne stritolata da un macchinario in una ditta tessile di Montemurlo il 3 maggio 2021

Il figlio di Luana D'Orazio, la 22enne operaia morta sul lavoro in una ditta tessile di Montemurlo (Prato) il 3 maggio 2021, è stato affidato esclusivamente ai nonni materni. Lo ha stabilito il giudice tutelare del tribunale di Pistoia, a cui il padre del bambino aveva fatto ricorso presentando "richiesta di revoca del decreto di apertura della tutela in favore del minore". Il tribunale di Pistoia, con una sentenza del giudice Giulia Gargiulo, ha confermato il "decadimento dalla responsabilità genitoriale" del babbo del piccolo, che ha 6 anni, già sancito negli scorsi mesi dal tribunale dei minori di Firenze nella rispettiva competenza sulla materia tutelare.  

Con questo pronunciamento il giudice tutelare pistoiese avalla anche la decisione del giudice per l'udienza preliminare di Prato che nelle scorse settimane non aveva ammesso il giovane tra le parti civili dell'eventuale processo, non ritenendo che il padre del bimbo abbia titolo per stare nel procedimento.

Luana D'Orazio è morta a 22 anni il 3 maggio 2021 per l'"abbraccio mortale" (definizione forte data dal consulente della procura) dell'orditoio, macchina tessile a cui lavorava nella ditta di Montemurlo, che era stato manomesso per funzionare con saracinesca di protezione abbassata. Tra le questioni da risolvere nel procedimento in corso per omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele antiinfortunistiche - in cui sono imputati i coniugi Luana Coppini e Daniele Faggi, rispettivamente titolari di diritto e di fatto dell'azienda tessile in cui è avvenuto l'incidente mortale, e il manutentore esterno della ditta Mario Cusimano - c'era quella sulla patria potestà del figlio di Luana. Sulla questione sono intervenute varie competenze giudiziarie. Il tribunale dei minori di Firenze si era già espresso sul tema ma mancava il giudice civile di Pistoia, area dove risiede il bambino coi nonni, che, sulla tutela, non aveva ancora emesso un parere sulla richiesta di mantenere o meno la potestà genitoriale al padre del bambino.

Un milione ai familiari: patteggiano gli indagati per la morte di Luana D'Orazio. Si è celebrata presso il tribunale di Prato (in Toscana) l'udienza preliminare per la morte della giovane operaia Luana D'Orazio: i titolari dell'azienda in cui la ragazza lavorava hanno chiesto di patteggiare e l'assicurazione dell'impresa ha fatto pervenire un'offerta risarcitoria da 1,1 milioni di euro alla famiglia, che avrebbe accettato come “acconto sul maggiore avere”. Giovanni Fiorentino il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.

Due dei tre accusati di omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele antinfortunistiche hanno chiesto il patteggiamento, mentre il terzo sembra intenzionato a non chiedere riti alternativi. Intanto, l'assicurazione dell'azienda per la quale la vittima lavorava come apprendista ha messo sul piatto oltre un milione di euro, che la famiglia sembrerebbe aver accettato come “acconto sul maggiore avere”. Sono i primi riscontri dell'udienza preliminare del caso Luana D'Orazio, celebrata stamani presso il tribunale di Prato davanti al giudice Francesca Scarlatti. La giovane operaia che viveva ad Agliana (una cittadina della provincia di Pistoia, in Toscana) morì il 3 maggio del 2021 a soli ventidue anni, schiacciata in un macchinario a cui secondo l’accusa erano state disattivate le protezioni antinfortunistiche (lasciando un figlio che oggi ha sei anni).

E Luana Coppini e Daniele Faggi, titolari dell'"Orditura Luana" dove la ragazza lavorava, hanno esternato l'intenzione di patteggiare. L’avvocato Barbara Mercuri, che fa parte del collegio difensore dei due, ha spiegato al termine della seduta che non si tratta però di un’ammissione di colpa, motivando la decisione dei propri assistiti con la volontà di chiudere una pagina dolorosa per tutte le parti coinvolte. Il rito alternativo sarà definito nella prossima udienza, fissata il 27 ottobre, durante la quale sarà stralciata anche la posizione del tecnico manutentore Mario Cusimano (difeso dall'avvocato Melissa Stefanacci) che ha nuovamente confermato la scelta del giudizio con rito ordinario. La madre della defunta, Emma Marrazzo, si è costituita parte civile, mentre non lo ha fatto il padre di Luana (per conto del nipote). Il gup ha poi ritenuto “inammissibile” la richiesta di costituirsi parte civile inoltrata dal padre naturale del bambino, un giovane operaio originario della Calabria i cui rapporti con Luana si erano interrotti da molto tempo.

Il giudice ha motivato la scelta con il pronunciamento del tribunale dei minori di Firenze che ha concesso temporaneamente l’affidamento del bambino ai nonni materni. Sono invece stati ammessi a parte civile la Femca (la sezione tessile del sindacato Cisl) l’Inail e l’Anmil. Nei giorni scorsi è stato poi risolto il nodo del curatore del piccolo, ovvero il nonno materno, che dovrà rappresentare gli interessi del figlio di Luana. Coppini e Faggi hanno poi fatto pervenire tramite l'assicurazione della ditta un’offerta risarcitoria di 1,1 milioni di euro ai familiari della vittima. Una proposta che sarebbe stata accettata e in parte già bonificata. Il giudice deciderà il mese prossimo anche sulla base dell'accordo economico che nel frattempo sarà stato raggiunto tra le parti. Ammesso che arrivi entro quella data. "Voglio una pena esemplare, non vendetta - ha commentato Marrazzo all'uscita dal palazzo di giustizia davanti ai cronisti - queste morti devono fermarsi, non è accettabile".

Incidente sul lavoro a Costabissara, tagliaerba nel fossato: operaio morto annegato. Debora Faravelli il 05/05/2022 su Notizie.it.

Un uomo di 64 anni è morto a causa di un incidente sul lavoro a Costabissara: il tagliaerba che stava guidando si è rovesciato ed è caduto in un fossato.

Tragedia a Costabissara, comune in provincia di Vicenza, dove nella giornata di mercoledì 4 maggio 2022 si è verificato un incidente sul lavoro costato la vita ad operaio di 64 anni: l’uomo è morto annegato dopo che il tagliaerba che stava utilizzando si è rovesciato ed è caduto in un fossato.

Incidente sul lavoro a Costabissara

I fatti hanno avuto luogo intorno alle 12. Secondo quanto ricostruito, la vittima stava tagliando l’erba accanto alla pista ciclabile che corre lungo la strada quando all’improvviso, per cause ancora da accertare, il trattorino che stava guidando è scivolato all’interno di un piccolo canale. L’uomo non è riuscito a liberarsi ed è anch’egli caduto nel fossato procurandosi ferite mortali.

I sanitari del 118, giunti sul posto dopo l’allarme di un’automobilista che si è accorto del mezzo in acqua, non hanno infatti potuto far altro che constatare il suo decesso.

Troppo gravi le ferite riportate durante la caduta, che si sono rivelate fatali e hanno vanificato ogni sforzo di rianimazione da parte degli operatori.

Incidente sul lavoro a Costabissara: indagini in corso

Presenti sul posto anche gli agenti della Polizia locale, che hanno effettuato i rilievi utili a ricostruire la dinamica dell’incidente, e i Vigili del fuoco che hanno operato per il recupero del mezzo. Sul luogo dell’infortunio anche il sindaco e il vicesindaco di Costabissara.

Antonio Stazi morto folgorato da un cavo dell’alta tensione davanti al padre: aveva 29 anni. Debora Faravelli il 05/05/2022 su Notizie.it.

Addio ad Antonio Stazi, ragazzo di 29 anni morto folgorato da un cavo dell'alta tensione: lascia la compagna e due figli piccoli. 

Dramma a Cave, nella provincia sud di Roma, dove Antonio Stazi è morto a 29 anni folgorato da un cavo dell’alta tensione mentre manovrava il braccio del camion dell’azienda di famiglia. La tragedia si è consumata davanti al padre Ettore, il primo a soccorrere il giovane e a rendersi conto della gravità della situazione.

Antonio Stazi morto folgorato

Secondo quanto ricostruito, padre e figlio avevano appena finito di lavorare nel giardino di una proprietà privata e Antonio stava caricando sul cassone del camion il trattore tagliaerba. All’improvviso, il braccio elevatore ha toccato i cavi della linea Enel da 20 mila Volts che attraversano il terreno provocando una scarica mortale.

Ettore, che ha assistito alla scena, è subito intervenuto per aiutare il figlio e ha allertato i sanitari del 118.

Giunti sul posto, costoro non hanno potuto purtroppo fare nulla per salvarlo e si sono limitati a dichiararne il decesso. Sul luogo dell’incidente sono giunte anche il nucleo ispettivo dell’Enel e le forrze dell’ordine, che hanno effettuato i rilievi utili a ricostruirne la dinamica, e il vicesindaco di Palestrina Umberto Capoleoni.

Antonio Stazi morto folgorato: “Sconvolti dalla tragedia”

Sulla vicenda è intervenuto anche il sindaco di Cave Angelo Lupi.

Queste le sue parole: “Conosco bene la famiglia Stazi e la loro impresa e sono sconvolto per questa tragedia. Un dramma che colpisce due comunità, quella di Cave dove lavoravano spesso, e quella di Palestrina dove non solo il ragazzo era conosciuto e benvoluto ma la sorella Beatrice è anche capogruppo di maggioranza in Consiglio comunale. Una disgrazia che mi colpisce e mi addolora sia come sindaco che come amico“. Antonio lascia la compagna Debora e i figli di 1 e 7 anni.

Edoardo Izzo per “La Stampa” il 4 maggio 2022.

Tre vittime sul lavoro nel giro di poche ore. Un'emorragia che non accenna a fermarsi. L’ultima tragedia in ordine di tempo è quella di un operaio di 64 anni, morto intorno alle 12 di oggi a Costabissara (Vicenza). L'uomo è deceduto dopo il rovesciamento in una roggia di un trattorino tagliaerba, caduto in un fossato. 

Ad accorgersi del mezzo in acqua un automobilista, che transitando dalla strada ha visto il trattore rovesciato e ha dato l'allarme. Una pattuglia della polizia locale ha recuperato il corpo. Il personale sanitario del Suem118 ha provato a rianimare l'uomo, ma non c’è stato niente da fare. Sul posto il sindaco e il vicesindaco di Costabissara.

Poche ore prima a Cave, in provincia di Roma un operaio di 29 anni, dipendente di una ditta, è morto folgorato nel corso dei lavori di potatura in un fondo privato. Secondo quanto si apprende, il giovane, Antonio Stazione, ha tranciato inavvertitamente i cavi dell'alta tensione rimanendo folgorato. Sul posto i carabinieri della Compagnia di Palestrina e i colleghi della stazione di Cave. 

Sopralluogo in corso da parte di personale Ispettorato Prevenzione e Protezione Lavoro ASL-Roma 5. Informata l'autorità giudiziaria che ha disposto la traslazione della salma presso Policlinico Roma Tor Vergata per l'autopsia.

La terza vittima (la prima in ordine cronologo in questa tremenda giornata) si chiama Oronzo Pisanò, 53 anni, di Salve in provincia di Lecce. L'uomo, titolare di una impresa edile, stava effettuando lavori di ristrutturazione in un appartamento in via un Umberto I angolo via De Gasperi a Salve. 

Per cause al vaglio dei Carabinieri e del personale dello Spesal intervenuti sul posto, il 53enne è caduto dall'impalcatura sulla quale stava lavorando precipitando al suolo da un’altezza di 6 metri.

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 4 maggio 2022.

Una villetta in legno con tetto in ardesia, immersa nel verde nella pace di un paesino della Val d'Aosta. È lì, a Ollomont, che si è registrata la 189esima vittima sul lavoro del 2022: Constantin Cobanel. 

Nel cantiere dei lavori di ristrutturazione della casa di vacanza del ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Ancora incerti i contorni dell'incidente. Tragica la fine: una trave metallica ha colpito alla testa il trentanovenne romeno. E a nulla sono valsi i soccorsi e l'arrivo dell'elisoccorso. Il giovane morto, sposato, era originario della Romania. 

«Sono sconvolta e affranta da quanto appena appreso» ha subito dichiarato la Guardasigilli, da Roma, dove sta seguendo le fasi animate della riforma del Csm e dell'ordinamento giudiziario. Mentre il pm di Aosta, Francesco Pizzato, compiva un sopralluogo di oltre un'ora sul posto, cercando di capire la dinamica che sarà oggetto di un'indagine per omicidio colposo, al momento contro ignoti. 

A uccidere Constantin Cobanel, che aveva un regolare permesso di soggiorno e da anni viveva in Valle d'Aosta, è stata quella pesante putrella che il ragazzo stava montando. A quanto pare i supporti che dovevano sostenerla hanno ceduto finendo per schiacciarlo. Si analizza la piccola pala meccanica che stava aiutando gli operai nel sollevare la pesante trave. Non si sa se si sia trattato di un malfunzionamento del mezzo, di una imperizia o di una sottovalutazione del rischio.

Avvertita dal sindaco di Ollomont, David Vevey, la ministra ha aggiunto: «Le autorità locali mi hanno da poco informata, sono profondamente turbata. Desidero innanzitutto esprimere tutto il mio dolore e la mia personale vicinanza ai familiari della vittima.

Mi sento partecipe del turbamento dell'intera comunità locale, profondamente segnata da questo grave lutto. Confido che le autorità possano al più presto ricostruire l'intera dinamica dei fatti».

La moglie della vittima, che ha appreso dell'incidente da un giornalista, ha avuto un malore. Sul cantiere, cui sono stati apposti i sigilli, sono intervenuti i carabinieri e gli ispettori del lavoro per stabilire se siano state osservate tutte le misure di sicurezza e di prevenzione degli infortuni. 

Dalle prime informazioni sembra che il giovane avesse un regolare contratto con la ditta che svolgeva i lavori di manutenzione straordinaria. Ma c'è molto riserbo intorno a quello che è accaduto in quella villetta, intestata al marito della presidente emerita della Corte Costituzionale che da anni trascorre lì le vacanze con la famiglia. Nel 2018, in occasione del 71esimo anniversario dello Statuto speciale, la Regione le aveva conferito anche l'onoreficenza di Ami de la Vallée d'Aoste .

La tragedia colpisce la ministra che ha fatto degli incidenti nei cantieri l'oggetto di molti suoi interventi. Sulla scia dell'auspicio del capo dello Stato, Sergio Mattarella: «azzerare le morti sul lavoro». 

«Si tratta di una tragedia intollerabile che non possiamo in alcun modo accettare», scrivono in una nota i sindacalisti Ugl Paolo Capone e Armando Murella, chiedendo «l'apertura di un tavolo tra Governo e parti sociali sulle misure a tutela dei lavoratori a partire dal rafforzamento dei controlli e dagli investimenti sulla formazione» 

Da ilgiorno.it il 3 maggio 2022.

Ancora un morto sul lavoro.  Un operaio ha perso la vita nel cantiere di un'abitazione intestata al marito della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, a Ollomont,  nell'alta Valpelline in Valle d'Aosta.  

La vittima è  il 39enne romeno Costantin Obanel, di Aosta, dipendente di una ditta di Gignod.  L'uomo è rimasto schiacciato da una trave nel garage della villetta, nella mattinata di oggi. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco, i carabinieri per la ricostruzione della dinamica dell'incidente, e il 118 con l'elicottero della protezione civile regionale.

L'uomo, stava lavorando in un cantiere edile nell'abitazione in cui la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, passa le vacanze da anni tanto da essere diventata cittadina onoraria del borg. Soccorso e portato in ospedale l'uomo è deceduto poco dopo il ricovero.  I lavori, intestati al marito del ministro, erano stati avviati il 27 aprile scorso e riguardano la manutenzione straordinaria dell'autorimessa dell'immobile

"Sono sconvolta e affranta da quanto appena appreso: un operaio è morto in un gravissimo incidente sul lavoro questa mattina nel cantiere della mia casa di montagna a Ollomont, piccolo comune della Val d'Aosta. 

Le autorità locali mi hanno da poco informata, sono profondamente turbata", ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. "Desidero innanzitutto esprimere tutto il mio dolore e la mia personale vicinanza ai familiari della vittima. Come ho anticipato al sindaco David Vevey, mi sento partecipe del turbamento dell'intera comunità locale, profondamente segnata da questo grave lutto. Confido che le autorità possano al più presto ricostruire l'intera dinamica dei fatti".

Gli investigatori stanno svolgendo accertamenti sulle cause di quanto avvenuto. 

Sempre questa mattina grave incidente nel  Reggiano. Un operaio di 41 anni,è ricoverato in gravi condizioni all'ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, dopo essere caduto in una buca mentre lavorava all'azienda Rubiera Special Steel (nota anche come l'Acciaiera di Rubiera) in via XXV Aprile, in località Salvaterra di Casalgrande.

Ieri un agricoltore di 25 anni era  morto in un incidente di lavoro mentre era alla guida di un trattore in un terreno ad Acquarola, località montana del comune di Mercato San Severino, nel Salernitano. Secondo la ricostruzione fatta dai carabinieri, il mezzo agricolo siè ribaltato schiacciando il 25enne. Per l'uomo, originario di Mercato San Severino, non c'e' stato nulla da fare, nonostante l'intervento celere dei sanitari del 118. Sempre ieri in Lombardia è stato amputato un piede a un ragazzo di 29 anni, rimasto vittima di un incidente a Castegnato in provincia di Brescia. 

Da inizio anno sono quasi trecento le persone morto sul lavoro     

Salvatore, operaio edile morto sul lavoro a 22 anni nel Sassarese: "Il nostro gigante bambino". Marco Patucchi su La Repubblica il 2 Maggio 2022.  

Piras è stato travolto, a Sorso, dagli elementi di un ponteggio che stava caricando sul camion. Viveva a Ossi con i genitori e i fratelli.

Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

"Eri il nostro gigante, eri il nostro bambino". Il disperato ossimoro scritto dai genitori di Salvatore  prova a dire l'indicibile: la vita spezzata di un ragazzo di 22 anni. Salvatore Piras, operaio edile, è morto a Sorso, una manciata di chilometri da Sassari, travolto dagli elementi di un ponteggio che stava caricando sul camion. Il lavoro come filo conduttore di un'esistenza ancora tutta da vivere. Salvatore aveva già fatto il cameriere, l'assistente pizzaiolo e ogni tanto dava una mano in campagna. E chi lo conosce racconta che aveva un'idea chiara per il futuro: prendere la patente per i mezzi pesanti e continuare a lavorare nell'edilizia guidando una pala meccanica. "Sono giovane, la fatica e il lavore non mi spaventano", diceva spesso secondo quanto riferito dai cronisti locali. Ma per ognuno di noi la vita non è solo lavoro, bilanciamento ancora più evidente per un ventenne. Così ecco la passione di Salvatore per le moto da cross, per il calcio, per il gruppo folk del paese, Ossi, dove abitava con i genitori Franco e Gianfranca, il fratelli e la sorella. "Correva con spensieratezza e allegria dietro al pallone, per alcuni bellissimi anni della sua breve giovinezza", hanno scritto i dirigenti della Polisportiva Ossese.

Al funerale, sul sagrato della chiesa di San Barolomeo a Ossi, mamma Gianfranca ha ascoltato con una rosa bianca in mano il cantautore Soleandro intonare Savitri, il Cantico d'amore: "Ho il cuore freddo da sembrare neve". Davanti alla chiesa anche la moto da enduro di Salvatore che è stato salutato dal rombo dei motori di decine di centauri in corteo nelle strade del paese. Il parroco, don Felix Mahoungou, ha chiesto di pregare anche per il datore di lavoro di Piras: "Non spetta a noi giudicare e condannare". Tanti palloncini bianchi sono stati slegati e hanno riempito lo spicchio di cielo visibile dalla piazza. Poi tutto è tornato nel silenzio e nel vuoto più assoluti.

Precipita nel vano dell'ascensore alla Farnesina, muore 39enne. Laura Cataldo il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il tecnico Fabio Palotti aveva 39 anni. La rabbia dei colleghi: "Non devono succedere queste cose. Non si può finire così".

È il secondo caso di morte sul lavoro in due giorni quello che vede come protagonista Fabio Palotti, 39 anni, deceduto nella mattina del 28 aprile mentre stava effettuando dei lavori di manutenzione di un ascensore all'interno della sede della Farnesina.

L'uomo stava sistemando un impianto situato all'interno del ministero degli Affari esteri a Roma, quando all'improvviso è precipitato nel vuoto sotto gli occhi terrorizzati dei colleghi. Non si sanno ancora le cause che hanno portato alla caduta, si pensa a un malore o alla perdita d'equilibrio che ha lasciato senza scampo il tecnico."Non devono succedere queste cose. Ci alziamo la mattina alle 4,30 e non si può morire così", ha detto con rabbia e desolazione un addetto alle pulizie all'interno del ministero.

I colleghi, che hanno sentito le urla della vittima, hanno subito chiamato i carabinieri, arrivati sul luogo dell'incidente per indagare sulle dinamiche dei fatti. A recuperare il corpo esanime sono stati i vigili del fuoco assieme al nucleo Saf (nucleo speleo alpino fluviale) e gli operatori del 118.

La tragica vicenda è stata commentata dai sindacalisti Paolo Capone, segretario generale dell'Ugl, e Armando Valiani, segretario regionale Ugl Lazio. "L'incidente mortale non è avvenuto in un cantiere edile abusivo in una delle nostre periferie, bensì all'interno di un Ministero di Roma che, nell'immaginario collettivo, rappresenta uno di quei luoghi assolutamente sicuri. Invitiamo tutti a riflettere sull'accaduto, in quanto non esistono luoghi di lavoro sicuri e non è ancora sufficiente l'impegno del nostro Governo affinché il lavoro sia dignitoso, retribuito adeguatamente, ma soprattutto sicuro".

I due sindacalisti rivolgono poi un appello al presidente del Consiglio Mario Draghi: "Ancora una volta chiediamo alle istituzioni nazionali e al presidente Draghi di intervenire urgentemente, intensificando i controlli e rafforzando la formazione e la cultura della sicurezza sul lavoro per prevenire simili tragedie".

Una simile tragica vicenda è avvenuta ieri, sempre nella Capitale, con un sessantaduenne che è precipitato dall'impalcatura installata in un condominio di via Veneto (Roma). L'incidente di oggi è avvenuto nella Giornata mondiale per la Sicurezza sul lavoro.

Emiliano Bernardinin per "il Messaggero" il 29 aprile 2022.

«Era messo molto male» fa sapere chi per primo si è calato nel vano ascensore del palazzo centrale della Farnesina per recuperare il cadavere di Fabio Palotti di 39 anni, operaio che ha perso la vita in un tragico incidente. Ironia del destino proprio nel giorno in cui si celebrava la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro. E a poche ore di distanza dalla morte di Bernardino Passacantilli, 61 anni, che ha perso la vita mentre stava lavorando alla ristrutturazione di un palazzo al civico 3 di via Toscana, a due passi da via Veneto. 

Sul luogo sono intervenuti i carabinieri del gruppo Trionfale (mentre per i rilievi ha operato la VII sezione di via in Selci), i vigili del fuoco e i sanitari del 118. Secondo una prima ipotesi l'uomo sarebbe salito sulla cabina dell'ascensore del corpo centrale dell'edificio, quello che arriva fino all'interrato della mensa, e forse a causa di un malfunzionamento e di una imperizia sarebbe scivolato e rimasto incastrato tra la cabina e la parete.

La morte sarebbe avvenuta a seguito dello schiacciamento e sul su e giù dello stesso ascensore che avrebbe massacrato il corpo. Successivamente Paolo sarebbe caduto nel vano. I primi a calarsi giù sono stati i pompieri del reparto speciale Usar e delle squadre Saf ma non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. 

Sulla morte dell'operaio 39 enne e padre di due bambini di 12 e 2 anni, ci sarebbe un piccolo giallo legato all'orario del decesso. Paolo, infatti, aveva iniziato il suo turno (14-22) mercoledì. Ma a quanto pare nessuno aveva più sue notizie dall'altro ieri. La stessa famiglia avrebbe dichiarato ai carabinieri che nella serata di mercoledì non lo avevano sentito.

L'ALLARME A dare l'allarme sono stati altri dipendenti della stessa ditta dell'operaio e anche alcuni impiegati. In particolare un collega che era arrivato ieri mattina per prendere il suo posto. Gli investigatori della compagnia Trionfale e del Nucleo interno al Mae dell'Arma stanno indagando per ricostruire la vicenda insieme con i colleghi dell'ispettorato del lavoro e la Asl di zona per verificare il rispetto delle misure di sicurezza sul lavoro. 

Non si esclude che il 39enne sia caduto in seguito allo spostamento involontario della cabina nonostante fosse inserito il sistema di manutenzione e quindi il blocco dell'apparecchio. Il procuratore aggiunto di Roma Giovanni Conzo ha aperto un'inchiesta. Nel fascicolo si procede per l'ipotesi di omicidio colposo a carico di ignoti. Sul posto ha effettuato un sopralluogo anche il pm di turno con i carabinieri e l'area dove è avvenuto l'incidente è stata sequestrata.

Alla Farnesina, poco dopo la tragedia, sono giunti anche alcuni familiari dell'operaio deceduto, i genitori e tre ragazzi sconvolti, che si sono abbracciati subito dopo aver oltrepassato i cancelli del ministero. Provati anche alcuni colleghi della vittima che hanno lasciato la sede dopo essere stati sentiti dai carabinieri. 

Sulla questione è intervento anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che, in attesa che venga fatta piena chiarezza da parte della magistratura sulle esatte dinamiche dell'incidente, ha rivolto un pensiero commosso ai famigliari della vittima e a loro si stringe in questo triste momento.  

Ascensorista morto alla Farnesina, inchiesta sulla sicurezza nel ministero. Giulio De Santis e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera l'1 maggio 2022.

Accertamenti in corso per capire perché nessuno si è accorto che Fabio Palotti non era uscito dal palazzo alla fine del turno nonostante fosse in possesso del badge ritirato in portineria. Acquisiti i filmati delle telecamere interne al dicastero. 

Fabio Palotti aveva 39 anni e due figli piccoli. Viveva a Torre Maura.

Prima svolta nelle indagini sulla morte di Fabio Palotti, 39 anni, ascensorista della Smae di Casal Monastero, schiacciato dalla cabina di uno dei quattro impianti in manutenzione del ministero degli Esteri. Gli accertamenti dei carabinieri della compagnia Trionfale, coordinati dalla procura, comprendono adesso anche il rispetto delle misure di sicurezza alla Farnesina, anche quelle relative alla presenza di persone estranee all’interno del complesso.

Perché Palotti, trovato morto giovedì mattina, avrebbe dovuto finire il turno di servizio alle 22 della serata precedente ma nessuno alla portineria del ministero si è accorto che non era uscito nonostante fosse in possesso di un badge da ospite e il suo documento d’identità fosse rimasto in consegna all’ingresso. A dare l’allarme, il mattino successivo, è stato un collega di lavoro che ha notato l’auto del 39enne, residente a Torre Maura, padre di due bambini piccoli e separato da qualche tempo dalla compagna del Nicaragua, nel parcheggio della Smae. A quel punto, dopo aver pensato in un primo momento che l’amico avesse sbagliato turno di servizio, è corso alla Farnesina intuendo che fosse successo qualcosa di grave: il corpo martoriato dell’ascensorista è stato così scoperto e recuperato dai reparti speciali dei vigili del fuoco.

Il pm Antonino Di Maio ha ordinato l’acquisizione delle immagini dei numerosi impianti di videosorveglianza interni ed esterni della Farnesina per capire con chi Palotti era al lavoro, fin dalle 14.30, ovvero dall’inizio del suo turno, e chi è invece uscito senza di lui nelle ore successive. Secondo l’avvocato Michele Montesoro, che assiste la famiglia del 39enne, l’ultimo contatto telefonico con uno dei due smartphone in possesso della vittima, quello personale, risale alle 18.30, forse l’ora dell’incidente, anche perché quell’apparecchio non è stato più ritrovato mentre quello aziendale sì.

Un aspetto che secondo i parenti del 39enne deve essere approfondito perché in questa vicenda ci sono numerosi aspetti poco chiari. Per il momento la procura indaga per omicidio colposo, e non ci sarebbero elementi per cambiare al momento l’ipotesi di reato. Ma fra gli interrogativi ai quali dare delle risposte ce ne sono parecchi, a cominciare dai nomi degli operai con i quali Palotti stava lavorando quel pomeriggio per proseguire poi con gli accertamenti sulla cabina dell’ascensore: era stata bloccata dal 39enne per lavorare in sicurezza, visto che lo stesso ascensorista viene descritto come una persona particolarmente scrupolosa in questo senso? E chi invece è riuscito ugualmente ad attivare l’impianto che risulta essere stato chiamato più volte senza che nessuno, alla Farnesina, si accorgesse che nel cunicolo c’era un operaio al lavoro?

Farnesina, chi c’era con l’ascensorista morto sul lavoro? Il giallo del telefonino scomparso. Giulio De Santis e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 30 Aprile 2022.

Secondo l’avvocato della famiglia di Fabio Palotti, non si trova il cellulare personale del 39enne schiacciato dalla cabina dell’impianto in riparazione. Acquisiti video e registri d’ingresso al ministero degli Esteri, dove nessuno si è accorto che non era più uscito.

Una fine orribile: trascinato più volte su è giù nella tromba dell’ascensore dalla cabina che invece non sarebbe dovuta muoversi. Una tragedia scoperta con un ritardo di oltre 14 ore all’interno del ministero degli Esteri e per di più senza che nessuno si è accorto che Fabio Palotti, 39 anni, tecnico della Smae (Società di manutenzione di ascensori ed elevatori, con sede a Casal Monastero), non è mai uscito dal palazzo della Farnesina, in barba a qualsiasi sistema di sicurezza, oltretutto in un periodo di crisi internazionale come questo.

I carabinieri della compagnia Trionfale e il pm Antonino Di Maio vogliono fare luce su molti aspetti non chiariti nella storia della morte di Palotti, padre di due bambini, residente a Torre Maura, appassionato di boxe e di calcio e considerato attento ed esperto. Era solito dire che nel suo lavoro «non si poteva morire, perché basta rispettare le misure di sicurezza».

In attesa dell’esito dell’autopsia sul corpo martoriato del giovane, recuperato dai vigili del fuoco giovedì pomeriggio in fondo alla tromba di uno dei quattro ascensori del nucleo centrale della Farnesina (non molto usato, ma spesso fuori servizio, come racconta qualche dipendente, che ha spiegato che viene utilizzato per raggiungere soprattutto la mensa), i militari dell’Arma hanno interrogato i responsabili della ditta e i colleghi della vittima, mentre l’avvocato della famiglia Michele Montesoro afferma che fino a ora non è stato trovato uno dei due telefonini nella disponibilità del tecnico: «L’ultimo segnale del cellulare risale alle 18.25 di mercoledì - afferma -. Il suo telefonino, a differenza di quello di servizio, non è stato trovato e questo è punto che certamente chiarito».

Palotti era entrato in servizio alle 14.30 e avrebbe dovuto concludere l’intervento alle 22. Era da solo nell’esecuzione dell’intervento di manutenzione? Aveva messo, come sembra, il blocco alla cabina per poter lavorare in sicurezza nel cunicolo? E qualcuno è invece riuscito a prendere lo stesso l’ascensore (anche più volte viste le condizioni del corpo)? Interrogativi ai quali i carabinieri stanno cercando di dare risposte, anche perché nell’indagine per omicidio colposo bisogna capire se chi ha eventualmente fatto muovere la cabina si è accorto di aver ucciso il 39enne e si è allontanato lo stesso.

Ecco perché, anche nell’ottica degli accertamenti sui livelli di sicurezza interni alla Farnesina, sono stati acquisiti i filmati della videosorveglianza per capire chi sia uscito dal ministero alle 22 e con chi fosse in turno Palotti, anche esaminando i registri degli ingressi in portineria. Non è infatti chiaro se il 39enne fosse in possesso di un pass ritirato nel primo pomeriggio di mercoledì in cambio del quale aveva dovuto lasciare un documento d’identità che potrebbe essere rimasto in possesso di chi avrebbe dovuto rendersi conto che il tecnico, la sera stessa, non era poi uscito.

L'ennesima 'morte bianca'. Operaio morto nell’ascensore del Ministero, il giallo sulla tragedia di Fabio Palotti: dal buco di 14 ore alla sicurezza dell’impianto. Fabio Calcagni su Il Riformista il 29 Aprile 2022. 

Come e quando è morto Fabio Palotti? Sono le due domande fondamentali a cui dovrà rispondere la Procura di Roma, che ha aperto un fascicolo di indagine sull’incidente sul lavoro costato la vita all’operaio 39enne morto dopo essere precipitato nel vano di un ascensore all’interno del palazzo della Farnesina, sede del ministero degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale.

Da chiarire nell’inchiesta della procura capitolina per omicidio colposo, per ora contro ignoti, è quando il tecnico ascensorista di Torre Maura, papà di due bambini di 12 e 2 anni, sia precipitato nell’intercapedine. Palotti copriva il turno dalle di lavoro dalle 14:30 alle 22 e dalle 18:30 nessuno l’aveva più sentito né visto: cinque minuti prima suo telefonino non era più in linea e quella, forse, è l’ora della sua morte.

Tra il possibile orario della morte e il ritrovamento del corpo c’è un buco di circa 14 ore in cui nessuno si è accorto del 39enne morto al piano seminterrato. “Come è possibile che da ieri solo stamattina è stato ritrovato mio figlio? Non c’è una vigilanza, un controllo interno? Vogliamo sapere come è andata, abbiamo nominato un avvocato”, si è sfogato il padre di Fabio, giunto ieri mattina a piazza Farnesina.

Il ritrovamento del cadavere è avvenuto alle otto del mattino di ieri, 28 aprile, da parte di un collega che ha visto l’auto di Palotti ancora parcheggiata nel piazzale della Farnesina. Nella sala macchine ha trovato anche i suoi effetti personali, nonostante il turno dovesse finire alle 22 della sera precedente. Quindi ha fermato l’impianto, trovando il corpo straziato del collega, con la chiamata ormai inutile ai soccorsi che ne hanno attestato il decesso.

Ma cosa è successo nel pomeriggio di mercoledì al Ministero? Il procuratore aggiunto Giovanni Conzo ha disposto l’autopsia, per stabilire l’ora del decesso, il sequestro dell’ascensore e delle immagini del sistema di videosorveglianza.

Da chiarire, fondamentali saranno gli accertamenti dei carabinieri dell’Ispettorato del lavoro, se nel corso dell’intervento di manutenzione sull’ascensore siano state rispettate le misure di sicurezza e se l’operaio, che lavorava per la Smae ascensori di Roma, (titolare dell’appalto per la manutenzione 24 ore su 24 sugli impianti del Ministero) fosse davvero da solo a eseguire la riparazione.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Ascensorista morto alla Farnesina, si indaga sui sub appalti del ministero. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2022.

Fra le ipotesi quella che Fabio Palotti non dovesse, almeno all’inizio, lavorare da solo all’impianto nel palazzo degli Esteri. Ritrovato il telefonino della vittima: era sul tetto della cabina che lo ha schiacciato.

Nuovo filone d’inchiesta sulla morte di Fabio Palotti, 39 anni, l’operaio rimasto schiacciato il 27 aprile scorso da un ascensore in manutenzione alla Farnesina. La Procura indaga sul subappalto concesso alla Smae di Casal Monastero. In particolare gli inquirenti approfondiranno il capitolato riguardante i protocolli da adottare per evitare infortuni e morti sul lavoro. Passaggio che obbligherà gli investigatori a esaminare il primo appalto bandito dagli Esteri in tema di misure mirate a prevenire tragedie come quella in cui è rimasto vittima Palotti, padre di due figli.

Perché sono state disposte verifiche sull’appalto? Nel mirino c’è la previsione di un solo addetto quando si svolge la manutenzione ordinaria: a prevederlo è l’appalto voluto dal dicastero oppure è un’iniziativa della società che ha subappaltato la manutenzione? La presenza di un secondo ascensorista, prevista nel protocollo adottato dalla Smae, è un risparmio per l’azienda ma forse anche per il ministero e non è escluso che, già in origine, sia stato deciso di evitare il doppio addetto per ridurre i costi. Si tratta di ipotesi investigative, ma che partono da una constatazione: la presenza di una seconda persona avrebbe potuto modificare la sequenza degli avvenimenti di mercoledì scorso. In particolare - è il ragionamento degli inquirenti - l’ascensore poteva restare fermo se ci fosse stata un altro operaio pronto a bloccarlo nel caso di una manovra improvvida. Inoltre un secondo ascensorista avrebbe ridotto eventuali distrazioni in cui potrebbe essere incappato Palotti.

Non solo. Al vaglio del pm Antonino Di Maio c’è il possibile malfunzionamento dei dispositivi installati per arrestare l’ascensore: di questo problema, qualora emerga come causa della tragedia, avrebbe potuto accorgersi un secondo addetto durante lo svolgimento della manutenzione essendo Palotti impegnato all’interno del vano. Per finire va ricordato che Palotti ha chiesto aiuto prima di morire ma nessuno nel ministero lo ha trovato perché sapeva che era nel vano: la presenza di un altro ascensorista avrebbe evitato che ciò avvenisse.

Intanto sono stati interrogati alcuni funzionari della Farnesina che hanno usato l’ascensore (hanno detto di aver notato l’accensione anomala di alcune luci interne) ed è stato trovato il telefonino di Palotti, era sul tetto della cabina: l’operaio potrebbe averlo lasciato momentaneamente lì prima di iniziare la manutenzione oppure potrebbe essere scivolato dalle tasche della vittima negli attimi drammatici in cui è stato schiacciato da chi ha attivato l’ascensore, ignorando la sua presenza. Particolari che saranno ricostruiti da un esperto. Nel mirino della Procura c’è la sicurezza in generale alla Farnesina: nessuno si è reso conto della presenza di Palotti oltre gli orari previsti.

Michela Allegri e Francesca De Martino per “Il Messaggero” il 3 maggio 2022.

Un grido disperato, una richiesta di aiuto che arrivava dalla tromba dell'ascensore e che ha raggiunto un funzionario della Farnesina, che ha subito dato l'allarme. Ma i Carabinieri in servizio al dicastero non sono riusciti a trovare Fabio Palotti, l'operaio di 39 anni morto mercoledì, nel tardo pomeriggio, mentre effettuava un intervento di manutenzione.

Era praticamente impossibile: il giovane è rimasto intrappolato mentre il macchinario, entrato in funzione, gli è precipitato addosso. Emerge dai risultati preliminari dell'autopsia disposta dal pm titolare del fascicolo, Antonino Di Maio, che procede per omicidio colposo. 

Da primi accertamenti, effettuati dall'istituto di medicina legale del Policlinico Gemelli, emerge che l'operaio è morto sul colpo, a causa di gravissime lesioni da schiacciamento: il quadro di ferite e fratture è stato descritto come «devastante». La morte sarebbe sopraggiunta immediatamente, senza agonia. Fabio, che aveva cercato di rannicchiarsi in un'intercapedine di 20 centimetri, non avrebbe sofferto.

In queste ore gli inquirenti stanno ascoltando diversi testimoni, tra colleghi dell'operaio, il datore di lavoro e alcuni dipendenti del ministero degli Esteri. 

Agli atti c'è anche una nota di servizio nella quale viene raccolta la dichiarazione del funzionario della Farnesina: tra le 18,25 e le 19 ha sentito una voce maschile gridare «aiuto». Ha dato l'allarme, ma il giovane, intrappolato nel vano, non è stato trovato. A detta dei testimoni, infatti, le porte degli ascensori erano chiuse.

Ma si tratta di un dettaglio da verificare: si cerca una risposta nei filmati delle telecamere di sicurezza presenti sui pianerottoli.

C'è anche un altro giallo, oltre a quello della richiesta d'aiuto: il cellulare di Palotti non è ancora stato trovato. L'ultimo segnale risale alle 18,25. Per cercare il telefono, gli inquirenti hanno disposto un nuovo sopralluogo nel vano ascensore: l'apparecchio potrebbe essersi incastrato in qualche intercapedine.

Intanto i carabinieri stanno ricostruendo l'ultima giornata lavorativa dell'operaio. Il trentanovenne era al lavoro nel vano da solo, così come prevede il protocollo da seguire per la manutenzione ordinaria.

Aveva preso servizio alle 14,30 e il suo turno terminava alle 22. I colleghi sapevano che il giovane era di turno e che doveva effettuare l'intervento. Adesso l'inchiesta punta a chiarire se a uccidere Fabio sia stato un malfunzionamento della pulsantiera di manutenzione, o un errore umano.

L'operaio avrebbe infatti dovuto azionare un freno di emergenza per arrestare la corsa dell'ascensore prima dell'intervento. Ma l'impianto non si è bloccato. Per chiarire questo aspetto il pm ha disposto una consulenza tecnica.

Il corpo di Palotti non è stato trovato fino alla mattina successiva. Nessuno, per circa 15 ore, si è accorto della tragedia. Il legale dei familiari, l'avvocato Michele Montesoro, ha sottolineato che la moglie della vittima non ha dato subito l'allarme perché quel giorno aveva litigato con Palotti e pensava che lui avrebbe passato la notte dai genitori.

Giovedì mattina, quindi, la donna li ha chiamati e ha scoperto che non avevano notizie di lui. Ad accorgersi dell'incidente è stato un collega: arrivato al ministero alle 8 di mattina, ha visto la Punto dell'ascensorista ancora parcheggiata nel piazzale, nonostante il suo turno fosse finito alle 22 della sera precedente. 

L'uomo ha letto i piani di intervento e si è accorto che Palotti doveva effettuare un sopralluogo sull'ascensore che arriva fino alla mensa. Ha fermato l'impianto e ha trovato il corpo straziato dell'operaio.

Giulio De Santis per corriere.it il 14 maggio 2022.

Morto per recuperare il telefonino, dimenticato sul tetto dell’ascensore. Partirebbe da questa distrazione la catena di eventi che ha causato la morte di Fabio Palotti, il 39enne ascensorista deceduto il 27 aprile del 2022 schiacciato da un impianto in manutenzione all’interno della Farnesina. Quella che segue è una ricostruzione sommaria, ritenuta per adesso dagli investigatori l’unica verosimile sulla dinamica della tragedia.

Nel primo pomeriggio del 27 aprile di due settimane fa, Palotti - impiegato da oltre 10 anni nella Smae di Casal Monastero, società che da due decenni lavora in questo settore per il ministero degli Esteri senza mai aver raccolto lamentele - svolge l’attività prevista sull’ascensore. Aziona la leva per bloccare l’impianto. Termina la manutenzione. Esce dall’ascensore. Disattiva il sistema di bloccaggio. Ed è questo il momento in cui Palotti si accorge di non aver ripreso il cellulare poggiato sul tetto. Sono le 18,30 circa e l’ascensore si trova un’area del dicastero isolata. Per recuperare il telefonino, ci vuole un attimo, potrebbe aver pensato Palotti. Così non riattiva il sistema di bloccaggio. Ritorna all’interno del vano. Ma quell’ascensore viene chiamato. Palotti grida, chiede aiuto, un funzionario sente le urla, però è tutto inutile. L’ascensorista muore schiacciato.

Si tratta di una ricostruzione ancora non ufficiale e non è escluso che le indagini terminino con una diversa ricostruzione. Tuttavia un elemento indirizza le indagini verso questa conclusione: la presenza del cellulare sul tettino dell’ascensore. Cercato per giorni, gli inquirenti l’hanno rinvenuto in buone condizioni in un posto, dove ritengono che il telefonino possa essere stato solo poggiato. Difficile che vi sia scivolato senza poi finire in mille pezzi.

C’è un altro aspetto che induce gli investigatori su questa strada: Palotti è stato sempre accorto e in questo caso potrebbe essere stato imprudente per ragioni estranee all’attività in senso stretto. Questa dinamica non esclude la configurabilità di responsabilità penale sull’eventuale mancato rispetto di protocolli per garantire la sicurezza sul lavoro. Per ora, non ci sono indagati nell’inchiesta del pm Antonio Di Maio che indaga per omicidio colposo. Intanto è stata sospeso l’appalto alla Smae di Casal Monastero, presente al ministero con un ufficio.

L’Asl Roma1, dopo l’esame della documentazione acquisita dalla Procura al ministero, avrebbe riscontrato l’assenza di alcune firme su documenti inerenti la formazione del personale. La Smae dovrà anche pagare una multa. Si tratta di provvedimenti amministrativi, slegati dall’indagine. Infine, sarà sentito come testimone il dirigente che si occupa della sicurezza per chiarire la presenza di Palotti nel dicastero oltre l’orario di lavoro.

Francesca De Martino per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.

Non era formato per quel tipo di intervento. È questo il motivo che avrebbe portato all'errore fatale Fabio Palotti, l'operaio 39enne morto il 28 aprile scorso intrappolato nel vano dell'ascensore sul quale stava lavorando, negli uffici del Ministero degli Esteri. 

Ad appena due mesi dalla tragedia c'è una prima misura cautelare: il gip del Tribunale di Roma ha emesso una misura interdittiva della durata di sei mesi a carico del titolare della ditta per la quale il 39enne lavorava da oltre dieci anni, responsabile anche di aver presentato ai magistrati un presunto falso certificato di abilitazione alla manutenzione. L'amministratore unico della società è indagato per omicidio colposo. L'azienda, ora nel mirino degli inquirenti, era incaricata in regime di subappalto della manutenzione degli ascensori all'interno della Farnesina.

Le indagini dei carabinieri della Compagnia Roma Trionfale, coordinate dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo e dal sostituto procuratore Antonino Di Maio, hanno fatto emergere le responsabilità del datore di lavoro di Palotti. Per i pm, il manager avrebbe agito con «negligenza, imprudenza e imperizia» perché avrebbe incaricato il giovane di occuparsi della manutenzione dell'ascensore, mentre era invece specializzato in tutt' altro settore: quello del servizio di presidio tecnologico.

L'operaio era quindi «privo dei requisiti tecnici-professionali e non adeguatamente formato e addestrato per la specifica attività di intervento e manutenzione, cui di fatto era stato delegato». E quel giorno di aprile il 39enne, forse, avrebbe dimenticato di azionare il freno di emergenza.

Secondo quanto è venuto fuori dalle prime ricostruzioni, l'ascensorista non avrebbe inserito «la leva di blocco dell'ascensore sulla posizione ispezione». Così qualcuno ha chiamato l'impianto di sollevamento, mentre l'operaio si trovava sul tetto, forse per recuperare il suo telefonino.

Lui ha urlato aiuto, ma nessuno ha sentito il suo grido disperato. E poco dopo è rimasto incastrato tra la cabina e la parete del vano corsa, un'intercapedine di poco più di venti centimetri. Proprio in quello spazio asfissiante, Palotti aveva provato a rifugiarsi per tentare di schivare il mezzo e riuscire, inutilmente, a salvarsi. E non è tutto, dietro la morte dell'operaio ci sarebbero proprio anche delle lacune riguardo alla formazione. Il 39enne, una moglie e due figli a carico, non era stato informato su tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa «con particolare riferimento alle fasi e alle procedure di intervento di manutenzione e installazione degli elevatori - scrivono i militari in una nota - e la mancata adozione di un idoneo piano operativo di sicurezza, in riferimento al singolo cantiere interessato». E ancora, non era stato nemmeno sottoposto alla prescritta sorveglianza sanitaria periodica. L'ultimo certificato di idoneità specifico alla mansione era scaduto il 10 febbraio del 2020.

Graziano Chiari, chi è l'imprenditore morto 24 ore dopo il crollo della gru in via Manfredini a Milano. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.   

Il braccio d’acciaio fuori controllo si è schiantato sulla cabina del camion: Graziano Chiari, residente a Treviglio (Bergamo) ha tentato di lanciarsi fuori dal mezzo. Ricoverato all’ospedale di Niguarda, è morto dopo 24 ore: aveva 59 anni. 

La gru che si spezza all’improvviso e precipita per quindici metri. Il braccio d’acciaio che fuori controllo si schianta sulla cabina del camion dal quale gli operai stavano prendendo le travi di metallo da sollevare fino al tetto del palazzo in ristrutturazione. In quel momento Graziano Chiari, 59 anni, residente a Treviglio, fa in tempo soltanto a tentare di lanciarsi fuori dal camion. Ma ci riesce solo in parte e viene colpito. Morto 24 ore dopo il ricovero in terapia intensiva al Niguarda.

La scia di vittime

I medici hanno fatto di tutto per salvargli la vita, così come i primi vigili intervenuti, che si trovavano già sul luogo per gestire la viabilità e che gli hanno praticato a lungo il massaggio cardiaco. Chiari sembrava essersi ripreso ed era stato trasportato d’urgenza in ospedale. Nella notte le sue condizioni sono ulteriormente peggiorate fino al decesso. L’incidente è avvenuto sabato 25 giugno alle nove di mattina all’angolo tra via Manfredini e via Prina, vicino a corso Sempione. L’ennesimo grave infortunio sul lavoro in una escalation che ormai continua dalla ripresa dei cantieri post Covid. L’ultima vittima a Milano si era verificata il 7 giugno con la caduta per quattro piani di Angelo Provenzale, tecnico che stava installando alcune tende da sole in uno stabile privato di via Pinamonte da Vimercate, vicino a corso Garibaldi.

Le indagini dell’Ats e dei vigili urbani

I tecnici dell’Ats e gli agenti della polizia locale specializzati in infortuni sul lavoro stanno cercando di ricostruire la dinamica dell’incidente avvenuto davanti a diversi testimoni. Il braccio telescopico dell’autogru a noleggio si sarebbe spezzato nella parte finale. Non è chiaro se sia trattato di un errore di carico o un cedimento strutturale della gru. La vittima è socia di una delle ditte che stavano lavorando in subappalto nel cantiere della palazzina. Gli inquirenti, su disposizione del pm di turno Mauro Clerici, hanno messo sotto sequestro l’autogru del gruppo «Grillo». Sul mezzo elevatore sarà a breve disposta dal magistrato una consulenza tecnica per verificare cosa sia realmente accaduto e se ci fossero problemi strutturali o di manutenzione.

La strage degli zolfatai siciliani, l’unico superstite riscrive la storia: «Noi, murati vivi». Alan David Scifo su La Repubblica il 20 aprile 2022.   

Non ci fu nessun incendio a Cozzo Disi, il 4 luglio del 1916 nella miniera di Casteltermini in provincia di Agrigento. I sopravvissuti trovarono le porte chiuse. In un vecchio audio ora ritrovato la verità dell’unico caruso scampato al crollo che causò 89 morti.

Se la storia viene scritta dai potenti, a sovvertire questa realtà ci prova la fioca voce di un minatore che racconta, dopo più di cento anni, la più grande tragedia mineraria d’Italia. Attraverso un audio, registrato da due giornalisti nel 1982 e riscoperto solo adesso a Casteltermini, paese di miniera della provincia agrigentina, gli 89 morti della tragedia di Cozzo Disi del 1916 cercano di avere giustizia.

Ancora vittime sul lavoro, morti quattro operai in 24 ore. Ansa il 15 aprile 2022.

Altri quattro morti sul lavoro in un giorno. Venerdì 15 aprile un 23enne in Sardegna, un 39enne in Trentino-Alto Adige, un 54enne nel Bresciano e un 60enne in Emilia-Romagna sono stati vittime di incidenti sul posto di lavoro. 

Un operaio di origini romene è deceduto in serata in ospedale dopo che nel pomeriggio a Sirmione, nel Bresciano, era caduto nel vuoto da un lucernario mentre stava effettuando lavori di manutenzione. Le condizioni dell'operaio, 54 anni, erano apparse subito disperate dopo un volo di diversi metri.

In un cantiere edile di Sorso, in provincia di Sassari, è morto questa mattina Salvatore Piras. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, l’operaio di 23 anni stava caricando dei ponteggi su un camioncino quando alcuni tubi gli sono crollati addosso, colpendolo alla testa. I soccorsi sono stati inutili.

Mentre è morto all’ospedale di Santa Chiara di Trento un operaio 39enne, colpito alla testa dopo il crollo di un solaio nel cantiere dove lavorava. L’uomo, di origine albanese, era stato trasportato all’ospedale in gravi condizioni. Al momento dell’incidente, il 39enne stava lavorando per conto di un’impresa di Mezzolombardo alla ristrutturazione di un edificio.

A Pievesestina di Cesena, un operaio di circa 60 anni è morto dopo essere stato travolto dal carico che stava scaricando da un camion. L'incidente è accaduto nella sede Hera. L'uomo, dipendente di una ditta di autotrasporto con sede ad Avellino, secondo quanto ricostruito dalla polizia, era da poco giunto alla destinazione. Stava scaricando dal mezzo dei grossi bidoni per la raccolta dei rifiuti quando, per cause ancora da chiarire, è stato improvvisamente travolto da alcuni di questi. L'urto lo ha schiacciato a terra, ha battuto violentemente il capo sull'asfalto e perso conoscenza. Sul posto sono accorsi vigili del fuoco, sanitari del 118 e le forze dell'ordine. Il ferito è stato immediatamente trasportato all'ospedale Bufalini, ma è morto durante la corsa verso la struttura, a causa del devastante trauma cranico subito.

Spostava della legna alla guida di un muletto che si è ribaltato schiacciandolo. E' morto così Luca B., diciassette anni il prossimo giugno. Un "incidente domestico", e non sul lavoro come sembrava in un primo momento, secondo lo Spresal e il magistrato di turno, intervenuto a Nole, nel Torinese, per coordinare le indagini dei carabinieri. Secondo quanto riferito dai genitori, il giovane stava spostando la legna per la famiglia, proprietaria del muletto e del capannone, all'interno della quale c'è una azienda di pallet estranea ai fatti. L'allarme in via Cravanera, alla periferia di Nole, quasi 7mila abitanti nell'area metropolitana del capoluogo piemontese, è scattato intorno alle 18. Sul posto, con i militari dell'Arma e lo Spresal, sono intervenuti i vigili del fuoco e i sanitari del 118, ma per il ragazzo non c'era più niente da fare. Quello che in un primo momento era sembrato un incidente sul lavoro, l'ennesimo delle ultime ore, si è rivelato in realtà ben altro. Secondo la ricostruzione dell'accaduto la vittima era ai comandi del muletto, con cui stava percorrendo la discesa che porta all'ingresso del capannone. Nei pressi di un cancello, ha svoltato per entrare nel cortile ma il muletto, forse toccando con le pale la strada, si è ribaltato, lo ha sbalzato dalla cabina e, adagiandosi su un fianco, lo ha schiacciato.

L'incidente "domestico" nel Torinese. Luca muore a 17 anni schiacciato dal muletto che guidava, dramma nel capannone di famiglia. Redazione su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Il muletto che guidava si è ribaltato ed è morto schiacciato. Tragedia nel tardo pomeriggio di venerdì 15 aprile in provincia di Torino dove un ragazzo di 17 anni, Luca Bertolo, ha perso la vita in un tragico incidente. Secondo una prima ricostruzione, il giovane stava guidando il mezzo che si trovava nel capannone di famiglia tra le campagne di Nole e Villanova Canavese, quando alla fine di una piccola discesa il muletto si è ribaltato.

Inutili i tentativi di soccorso da parte dei genitori prima e dei sanitari del 118 successivamente. Il giovane sarebbe morto sul colpo. Il magistrato di turno della procura torinese, che coordina le indagini dei carabinieri, ha qualificato l’evento come “incidente domestico” e non come incidente sul lavoro. La vittima – secondo quanto riporta La Stampa – è il figlio dei proprietari del muletto e del capannone utilizzato dalla Metalpress, azienda che produce bancali estranea ai fatti. I carabinieri stanno ascoltando i titolari della ditta e i genitori del ragazzo morto proprietari del muletto.

Il magistrato ha disposto il sequestro del muletto e della salma del giovane in attesa che l’esame autoptico, che verrà effettuato nei prossimi giorni, stabilisca la causa del decesso.

Incidenti sul lavoro, tragedia in provincia di Cuneo: morti due operai. Incidenti sul lavoro: muoiono due operai in provincia di Cuneo. La tragedia: sessantenne cade dall'impalcatura, 50enne schiacciato in una macchina insacchettatrice. La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Aprile 2022.

CRONACA ITALIANA - Incidenti sul lavoro: muoiono due operai in provincia di Cuneo. La tragedia: sessantenne è morto cadendo dall'impalcatura, 50enne è rimasto schiacciato in una macchina insacchettatrice. Grave un 45enne caduto da un ponteggio in zona Tenuta Santa Colomba a Roma. Un operaio di 56 anni è stato trasportato in codice rosso in ospedale dopo essere stato travolto dalle terre di scavo in un cantiere lungo la strada provinciale 47 ad Anghiari, in provincia di Arezzo. Calderoli: usare Pnrr per più sicurezza.

Incidenti sul lavoro: cade da impalcatura, morto operaio in provincia di Cuneo

CUNEO - Un operaio sessantenne è morto cadendo dall'impalcatura di un cantiere di una casa in ristrutturazione in frazione Sant'Anna a Roascio, piccolo paese con meno di 100 abitanti nell'Alta Langa, in provincia di Cuneo. Fatale per il muratore un volo nel vuoto da almeno sei metri di altezza. L'uomo è morto sul colpo e secondo una prima ricostruzione era solo nel cantiere. L'allarme per l'incidente sul lavoro è stato dato verso le 17. Sono intervenuti i carabinieri di Ceva e i vigili del fuoco di Mondovì e Ceva, oltre allo Spresal dell’Asl Cn1. In Piemonte è la seconda vittima sul lavoro in una settimana.

Incidenti sul lavoro: schiacciato da macchinario. Seconda vittima in poche ore nel Cuneese

CUNEO - E' morto l'operaio 50enne rimasto schiacciato in una macchina insacchettatrice in una cava di Villanova Mondovì (Cuneo). A dare l'allarme sono stati i colleghi e l'uomo è morto poco dopo per le gravi ferite riportate; vano l'intervento anche dell'elisoccorso. L'incidente è avvenuto nella sede di una multinazionale che si occupa di prodotti per l'edilizia a 30 chilometri da Roascio, paese dell'Alta Langa dove poco prima è stato trovato morto un muratore di 59 anni, Domenico Manuello, origini torinesi e residente a Ceva, dipendente di una ditta edile. Il muratore è caduto da un’impalcatura mentre era solo in cantiere.

Incidenti sul lavoro, Calderoli: usare Pnrr per più sicurezza

ROMA - «Oggi nel territorio di Cuneo - territorio che mi ha adottato, ormai la mia seconda casa - un lavoratore è morto dopo una caduta da un’impalcatura e un altro è stato gravemente ferito dopo essere stato schiacciato da un macchinario. Cordoglio alla famiglia della vittima e una preghiera per il ferito ma cordoglio e preghiere non salvano le vite: servono più controlli, più prevenzione, più misure adeguate, più formazione, più risorse da investire sulla sicurezza sul lavoro. In Italia nel 2021 hanno perso la vita sul lavoro due persone al giorno. Non possiamo accettarlo, non dobbiamo accettarlo. Si trovino le soluzioni più adeguate in termini di prevenzione, formazione sulla sicurezza e e controlli da effettuare, si facciano tavoli con imprese, categorie produttive e sindacati. Utilizziamo una quota significativa del Pnnr per incentivare con risorse concrete la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, aumentando i dispositivi di protezione, rinnovando i macchinari, incrementando i corsi di formazione». Lo afferma il senatore Roberto Calderoli, vice presidente del Senato.

Incidenti sul lavoro, grave un 45enne caduto da un ponteggio

ROMA - Grave incidente sul lavoro nella mattina di ieri in zona Tenuta Santa Colomba a Roma. È precipitato nel vuoto da un ponteggio alto oltre due metri un operaio di 45anni. L’uomo, dipendente di una ditta di impiantistica elettrica, stava svolgendo dei lavori in via Ferdinando Lori. Sul posto sono intervenuti agenti del commissariato Fidene intorno alle 09:20 oltre al personale del 118. Il 45enne è stato ricoverato con una prognosi di 40 giorni all’ospedale Sant'Andrea di Roma a causa delle gravi fratture alle vertebre riportate. Rimangono ignote al momento le cause dell’incidente.

Incidenti lavoro: travolto da terre di scavo, grave operaio

ANGHIARI (AREZZO) - Un operaio di 56 anni è stato trasportato in codice rosso in ospedale dopo essere stato travolto dalle terre di scavo in un cantiere lungo la strada provinciale 47 ad Anghiari, in provincia di Arezzo. Da ricostruire la dinamica di quanto accaduto: non escluso anche che il terreno possa aver ceduto a causa della pioggia. Il 56enne è rimasto sepolto sotto un grosso quantitativo di terra: subito soccorso, dopo essere stato liberato e stabilizzato è stato trasferito con l’elisoccorso Pegaso all’ospedale fiorentino di Careggi. L'infortunio è accaduto alle 10.20, mentre erano in corso lavori di sistemazione e scavi di movimento terra. Sul posto vigili del fuoco, 118 e carabinieri. In corso indagini per ricostruire l’esatta dinamica dell’accaduto.

LA TRAGEDIA. Operaio 37enne muore su autostrada A14 tra San Severo e Foggia, investito da mezzo pesante. La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.  L'uomo stava lavorando per una ditta appaltatrice. Nessun disagio al traffico, il tratto è stato chiuso in direzione Bari. Tragedia questa notte sull'autostrada A14 tra San Severo e Foggia, dove intorno alle 2 un operaio di una ditta appaltatrice che stava lavorando è morto investito da un mezzo pesante. L'incidente è avvenuto all'altezza del km 548 in direzione Bari e il tratto è stato chiuso per consentire alla Polizia Stradale di eseguire i rilievi.

Sul luogo dell'evento sono intervenuti i soccorsi sanitari e meccanici, le pattuglie della polizia stradale e il personale della Direzione 8° Tronco di Bari di Autostrade per l'Italia. Non si registrano disagi per il traffico. L'operaio aveva 37 anni ed era originario di Napoli.

FILLEA CGIL CAPITANATA: SECONDA VITTIMA IN QUEL TRATTO

«C'è un evidente problema di sicurezza nei cantieri autostradali della A14 in provincia di Foggia, chiediamo alla stazione appaltante e alle istituzioni preposte ai controlli un intervento in tal senso, perché due infortuni mortali in pochi mesi nello stesso tratto non posso essere solo addebitati a fatalità». È quanto afferma il segretario generale della Fillea Cgil di Capitanata, Savino Tango, commentando l’incidente che si è registrato questa notte nel tratto tra San Severo e Poggio Imperiale, dove un operaio 40enne è stato travolto e ucciso da un mezzo pesante.

«Un tragico riproporsi, con le stesse dinamiche, di quanto accaduto solo a settembre scorso - evidenzia - quando a morire era stato un operaio di 47 anni. In attesa che Spesal e magistratura svolgano tutti gli accertamenti del caso sull'incidente di questa notte, crediamo che vi sia qualcosa in più della pericolosità insita in questo tipo di lavoro. Dalla migliore segnalazione dei lavori fino alla decisione di chiudere il tratto interessato dai lavori dirottando il traffico sull'altra corsia, vanno predisposte misure che fermino questo drammatico e non più sostenibile bilancio di vittime sui cantieri autostradali». «Ci attiveremo fin da subito - conclude - assieme alle altre sigle categoriali e confederali per reclamare più sicurezza e interventi si spesa risolutivi».

UIL PUGLIA: È ORA DI AGIRE

«Quanto ancora dovrà durare questa strage silenziosa? Per quanto ancora lo sviluppo e il profitto ad ogni costo dovranno prevalere sulla vita umana?». Se lo chiede il segretario generale della Uil di Puglia, Franco Busto, commentando la morte di un giovane operaio napoletano travolto questa notte da un tir durante lavori sulla A14, nel tratto San Severo-Foggia.

«Basta chiacchiere - è l’esortazione di Busto - l’assunzione di qualche ispettore è importante, ma non è sufficiente: servono misure d’impatto, serve riscrivere le regole, penalizzando chi non rispetta gli standard di sicurezza e non applica alla lettera i contratti di lavoro nazionale. Chi produce utili rischiando con la pelle dei lavoratori va escluso dai bandi di evidenza pubblica, a cominciare da quelli finanziati con le risorse del Pnrr». «Il lavoro - conclude Busto - torni ad essere fonte di vita e di realizzazione personale, non motivo di morte: le istituzioni, ad ogni livello, ne prendano coscienza e agiscano di conseguenza, il tempo degli annunci e dei messaggi di cordoglio è terminato».

RABBIA E REAZIONI

«Il tema della sicurezza è drammaticamente presente. Proprio stanotte abbiamo avuto un tragico incidente sul lavoro: un ragazzo di 37 anni ha perso la vita per una fatalità. È un dolore immane, ed è una sconfitta per tutti. Sentiamo forte la responsabilità della sicurezza dei lavoratori sui cantieri, non possiamo pensare o dire che sia sempre di qualcun altro». Lo afferma Roberto Tomasi, ad di Aspi, al congresso nazionale della Fit-Cisl, ricordando «quanto stiamo facendo. Gli indici infortunistici sono in netto miglioramento sui nostri cantieri. L'obiettivo "zero infortuni" deve essere la stella polare».

Cerignola, perde l'equilibrio mentre fa lavori su un cornicione e cade dal primo piano: muore operaio 70enne. L'uomo sarebbe precipitato da un'altezza di circa 6 metri. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Marzo 2022.

CERIGNOLA - Un operaio 70enne è morto a Cerignola (Fg) dopo essere precipitato da un’altezza di circa sei metri, cadendo dal primo piano di una palazzina. A quanto si apprende, l’uomo stava montando una guaina su un cornicione e avrebbe perso l’equilibrio. L’incidente è avvenuto in via Pantanella, alla periferia della città. Il 70enne è stato portato in ospedale dove è morto. Indagano i Carabinieri. Sono intervenuti gli ispettori dello Spesal per verificare se la vittima fosse titolare della ditta che eseguiva i lavori o se fosse un dipendente.

È la seconda morte bianca in Puglia in 24 ore: ieri mattina un operaio è rimasto folgorato a San Donato nel Salento.

«Ancora un drammatico incidente sul lavoro, questa volta a Cerignola nel Foggiano. A nome del sindacato Ugl, esprimo il cordoglio alla famiglia della vittima. Ieri in provincia di Lecce, un operaio è rimasto folgorato dall’alta tensione mentre in provincia di Brescia un lavoratore di 52 anni ha perso la vita per il ribaltamento del muletto. Siamo in presenza di una vera e propria strage quotidiana che non è possibile tollerare. E’ necessario potenziare l’organico degli ispettori ed aumentare le sanzioni a tutte le aziende che non applicano la normativa» dichiarano in una nota congiunta Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, e Giuseppe Sanzò, segretario regionale Ugl. Parole di cordoglio anche dal sindaco di Cerignola Francesco Bonito: «E' impensabile perdere la vita mentre si sta portando a termine il proprio lavoro. È successo quest’oggi a Cerignola e adesso saranno le autorità competenti a individuare le dinamiche e la cronologia degli eventi. Dal canto nostro, oltre ad esprimere vicinanza alla famiglia della vittima, non ci resta che un’amara riflessione: un morto sul lavoro è sempre una grande ferita per tutta la città, perché spesso il mondo del lavoro è un mondo senza regole».

«Due vittime in due giorni in altrettanti incidenti sul lavoro, tre in una settimana, non possono essere accettate. Serve una risposta concreta da parte delle istituzioni» dichiara l'assessore regionale al Welfare Rosa Barone.

Anche la Conferenza episcopale italiana, nel Messaggio per il Primo Maggio, pone la sua attenzione sulle morti sul lavoro. «La Chiesa che è in Italia non può distogliere lo sguardo dai contesti di elevato rischio per la salute e per la stessa vita alle quali sono esposti tanti lavoratori. I tanti, troppi, morti sul lavoro ce lo ricordano ogni giorno. È in discussione il valore dell’umano, l’unico capitale che sia vera ricchezza». E aggiunge: «quanti sono impegnati in lavori irregolari o svolti in condizioni non dignitose, a causa di sfruttamento, discriminazioni, caporalato, mancati diritti, ineguaglianze. Il grido di questi nuovi poveri sale da un ampio scenario di umanità dove sussiste una violenza di natura economica, psicologica e fisica in cui le vittime sono soprattutto gli immigrati, lavoratori invisibili e privi di tutele, e le donne». «In tutte queste situazioni - sottolineano i vescovi italiani - non solo il lavoro non è libero, né creativo, partecipativo e solidale, ma la persona vive nel costante rischio di vedere minata irrimediabilmente la sua salute e messa in pericolo la sua stessa esistenza».

LE PAROLE DELL'ASSESSORE BARONE - «Due vittime in due giorni in altrettanti incidenti sul lavoro, tre in una settimana, non possono essere accettate. Serve una risposta concreta da parte delle istituzioni": lo dichiara l’assessora pugliese al Welfare Rosa Barone, commentando l’ultimo decesso, quello di un operaio 70enne morto a Cerignola mentre effettuava dei lavori in una palazzina. «Questa mattina - dice - un operaio settantenne ha perso la vita a Cerignola dopo essere caduto dal primo piano di un pianerottolo su cui stava lavorando. Non possiamo continuare ad assistere a queste tragedie: serve lavorare in sinergia con tutti gli attori interessati per potenziare e rendere più incisivi i controlli e dare vita a iniziative di sensibilizzazione, per far capire l’importanza della prevenzione e del rispetto di tutte le misure necessarie per la sicurezza». "Di sicurezza sul lavoro - evidenzia - bisogna occuparsi tutti i giorni, non solo quando avvengono incidenti di questa portata. In questo quadro è importante anche il lavoro che sta facendo la commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, per arrivare a mettere in campo interventi che possano essere davvero efficaci. In questo momento di profondo dolore il mio cordoglio va alla famiglia della vittima». 

Tre operai morti e due feriti. Ormai sul lavoro è strage quotidiana. Paolo Ferrario su Avvenire il 29 marzo 2022.

Folgorato dall’alta tensione. Così è morto Antony Turnone, operaio di 30 anni, nato a Martina Franca e residente a Crispiano, comuni della provincia di Lecce. Il giovane stava manovrando un braccio meccanico all’interno di un parco fotovoltaico a San Donato, quando il mezzo ha urtato i cavi elettrici e la violentissima scarica l’ha investito in pieno. «È inaccettabile che nel terzo millennio si continui a morire sul lavoro», tuona il sindaco di Martina Franca, Franco Ancona, mentre il primo cittadino di Crispiano, Luca Lopomo, parla di «insopportabile morte».

Sconvolti anche i sindacati: «Tutto ciò è inaccettabile», si legge in una nota di Cgil, Cisl e Uil leccesi. «Serve un cambio repentino di cultura, della cultura della prevenzione e della sicurezza», chiedono i segretari generali Valentina Fragassi, Ada Chirizzi e Salvatore Giannetto.

Un secondo lavoratore, Giacomo Turra, 52 anni, di Rudiano, in provincia di Brescia, ha perso la vita nel cantiere della nuova casa di riposo di Castel Goffredo, nel Mantovano. Mentre era alla guida di un muletto, l’uomo ha perso il controllo del mezzo che si è ribaltato schiacciandolo. Per liberare il corpo senza vita sono dovuti intervenire i Vigili del fuoco, mentre i tecnici della medicina del lavoro dell’Ats Valpadana, con i carabinieri, stanno indagando per risalire alle cause della tragedia. Secondo una prima ricostruzione, il lavoratore, subito dopo la pausa pranzo, si era messo al lavoro a bordo di un muletto dotato di benna, per spostare della sabbia accumulata in varie parti del cantiere. L’operazione è andata avanti regolarmente per un po’ fino a quando il mezzo non è salito, con le ruote, sopra un cumulo di sabbia, che lo fatto sbilanciare e piegare su un lato fino a rovesciarsi. Il lavoratore, un capocantiere, che, stando almeno a questa prima ricostruzione, pare non avesse il casco protettivo e non indossasse nemmeno le cinture, è stato sbalzato fuori dal mezzo che, poi, rovesciandosi lo ha schiacciato.

Sempre in Lombardia è morto un terzo lavoratore. L’incidente è avvenuto domenica pomeriggio, quando Angelo Pezzoni, 47 anni, ha deciso di salire sul tetto della propria casa, a Badia Pavese, per eseguire dei piccoli lavori di manutenzione. L’uomo, un operaio, aveva già effettuato questo tipo di manovre ma, questa volta, qualcosa è andato storto. Per cause accidentali, il 47enne ha perso l’equilibro ed è caduto da un’altezza di circa 5 metri. Sul posto sono intervenuti gli operatori del 118, con l’elisoccorso giunto dall’ospedale Niguarda di Milano, ma i tentativi di rianimarlo sono stati vani.

La giornata di ieri ha visto, infine, altri due gravi incidenti sul lavoro, fortunatamente non mortali. All’ospedale Santo Spirito di Roma è ricoverato in codice rosso un operaio di 44 anni, caduto dalla cima di un albero mentre eseguiva lavori di potatura, in zona Prati. Per cause in via di definizione da parte dell’autorità giudiziaria, l’uomo è caduto dal cestello su cui stava lavorando, riportando ferite molto gravi. Il mezzo è stato posto sotto sequestro. Sul posto per ulteriori accertamenti anche personale dello Spresal e dell’Ispettorato del lavoro.

Infine, un altro operaio forestale è rimasto ferito in modo grave in un infortunio avvenuto in tarda mattinata a Piazzatorre, in località Prati di Pegherolo, in una zona boschiva in provincia di Bergamo. L’operaio è stato colpito da una pianta e ha riportato un trauma cranico commotivo e un trauma toracico. È stato trasferito all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo in codice rosso con l’elisoccorso.

Da repubblica.it il 28 marzo 2022.

Un operaio è morto schiacciato da un muletto a Castel Goffredo, nel Mantovano. La tragedia è avvenuto attorno alle 14,15. L'uomo stava lavorando in un cantiere, quando è stato schiacciato da un muletto. 

Sul posto sono intervenuti elisoccorso, automedica, vigili del fuoco e carabinieri, che però hanno potuto solo constatare il decesso dell'uomo dopo aver liberato il corpo dell'uomo rimasto sotto il mezzo meccanico.

L'operaio morto aveva 52 anni e, per il momento, non sono state comunicate le sue generalità. L'uomo, secondo una prima ricostruzione dell'incidente, stava manovrando un muletto all'interno di un cantiere quando, per cause imprecisate, ne ha perso il controllo. 

Il mezzo si è ribaltato e l'operaio è rimasto schiacciato dal tettuccio. Il cantiere si trova all'interno della nuova casa di riposo privata che si sta costruendo a Castel Goffredo e che sostituirà l'attuale, il Gelso, ormai fatiscente. 

Altro incidente nel Pavese. È caduto dal tetto della sua casa, sul quale stava effettuando un intervento di riparazione, ed è morto a causa della gravi ferite riportate. L'incidente domestico è avvenuto a Badia Pavese (Pavia). La vittima è un uomo di 47 anni, operaio, originario di Castel San Giovanni (Piacenza).

Per cause accidentali, il 47enne ha perso l'equilibro ed è caduto da un'altezza di circa 5 metri. Sul posto sono intervenuti gli operatori del 118, con l'elisoccorso giunto dall'ospedale Niguarda di Milano. I tentativi di rianimare l'uomo sono stati vani. 

E un altro operaio è rimasto ferito in modo grave in un infortunio sul lavoro avvenuto alle 11.30 a Piazzatorre, in località Prati di Pegherolo, in una zona boschiva in provincia di Bergamo. 

L'operaio è stato colpito da una pianta e ha riportato un trauma cranico commotivo e un trauma toracico. È stato trasferito all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo in codice rosso con l'elisoccorso.

Tragedia a San Donato: urta cavo alta tensione mentre scarica da un camion, a 29 anni muore folgorato. Il giovane è stato portato in ospedale a Lecce, ma non c'è stato nulla da fare. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Marzo 2022.

Un giovane di 29 anni è morto questa mattina a San Donato (Le) folgorato da una scarica elettrica mentre era al lavoro in un impianto fotovoltaico. A quanto si apprende durante le manovre di scarico da un camion avrebbe urtato con un braccio meccanico il cavo dell'alta tensione. I carabinieri di San Cesario sono intervenuti tempestivamente insieme ai Vigili del Fuoco e al personale dello Spesal e dell'Enel, ma per il malcapitato non c'è stato nulla da fare, dopo il trasporto all'ospedale Vito Fazzi di Lecce è deceduto.

I SINDACATI - «Siamo ancora una volta costretti a commentare con il dolore nel cuore la notizia di una morte sul lavoro. Questa volta a perdere la vita è stato un giovane lavoratore impegnato su un campo fotovoltaico. Si esce da casa al mattino per guadagnarsi da vivere e poi non si fa ritorno. Tutto ciò è inaccettabile». Così Valentina Fragassi, Ada Chirizzi e Salvatore Giannetto, segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Lecce, commentano la morte di Antony Turnone, l'operaio di 30 anni di Martina Franca, rimasto folgorato dopo che il braccio meccanico che stava manovrando per spostare alcuni container ha toccato un cavo dell’alta tensione. Anche il presidente del comitato consultivo provinciale dell’Inail di Lecce, Donato Congedo, esprime «cordoglio» per quanto accaduto.

«Non certo un fatto isolato nel nostro Salento - evidenziano i sindacati - tutt'altro. L’ennesimo anello di una catena maledetta che non si riesce a spezzare. La triste classifica che pone la nostra provincia tra i primi posti per le morti bianche non si deve mai più commentare appellandosi al fato e alla cattiva sorte». Per Cgil, Cisl e Uil «serve un cambio repentino di cultura, della cultura della prevenzione e della sicurezza. Il sindacato ormai da mesi si è fatto portavoce di una vera e propria task force che abbia come focus la sicurezza». «Il Protocollo sulla sicurezza che a breve sarà firmato in Prefettura, insieme alla conseguente costituzione dell’Osservatorio Provinciale Sicurezza sul Lavoro - sottolineano - rappresentano soltanto i primi passi di un cammino che va assolutamente accelerato».

«Per bloccare gli incidenti sui luoghi di lavoro non servono leggi nuove ma l’applicazione ed il rispetto delle norme già esistenti». Così Antonio Castellucci, Segretario generale della Cisl regionale, riguardo l’aggravarsi degli infortuni in Puglia. «I resoconti degli ultimi giorni, in aggiunta a quelli degli ultimi anni, in Puglia ci consegnano un quadro molto preoccupante che va affrontato con maggiori controlli, prevenzione e formazione mirata a partite dai giovani studenti ai quali va favorita la cultura della sicurezza e l'esecuzione delle norme, nazionali e regionali, che se applicate possono bloccare questa terribile piaga della società.».

«Le norme ci sono e sono anche importanti - continua -, oltre al Decreto 81/2008, la Legge regionale n° 8 del 2014 voluta dalla Cisl Puglia dopo la raccolta di migliaia di firme di cittadini. Per questo chiediamo alla Regione Puglia, attestata la grande sensibilità, di dare attuazione con un confronto immediato e continuo, al tavolo tecnico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e sulla legalità deciso il 6 ottobre 2021 nella sede dell’assise regionale e all’approvazione, nello stesso Consiglio Regionale, il 12 ottobre 2021 della mozione per rafforzare le misure in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro per combattere questa interminabile scia di sangue». «Non c'è più tempo da perdere! Basta infortuni: serve ora prevenzione vera, strategia, programmazione e non parole, c'è bisogno di maggiore coinvolgimento della politica, delle Istituzioni, delle imprese, dei lavoratori e di tutti gli Enti preposti in particolare l'Inail - conclude - convinti che può essere, di competente e forte supporto, non solo in termini di dati statistici e studio, ma in particolare per formazione qualificata e di possibili soluzioni per contrastare questa mattanza a cui assistiamo quotidianamente».

IL CORDOGLIO - «Martina e Crispiano piangono un giovane lavoratore. Antony Turnone, nato nella nostra città e vissuto a Crispiano, ha perso la vita mentre svolgeva il suo lavoro in provincia di Lecce. E’ inaccettabile che nel terzo millennio in Italia si continui a morire sul lavoro. Ci auguriamo che questi episodi inducano le istituzioni competenti a porre in atto interventi sempre più incisivi per eliminare questo triste fenomeno che riguarda l’intera comunità nazionale». Lo sottolinea Franco Ancona, sindaco di Martina Franca, città nativa di Antony Turnone, l’operaio morto dopo essere stato investito da una scarica elettrica mentre lavorava per conto di una ditta nell’area di un impianto fotovoltaico di San Donato, in Salento. «Esprimiamo il nostro solidale cordoglio - aggiunge Ancona - e la nostra vicinanza alla famiglia e ai colleghi del giovane in questo momento drammatico e doloroso».

Anche Luca Lopomo, sindaco di Crispiano, città in cui viveva l'operaio, parla di «momento di incolmabile dolore». «Ancora - puntualizza - una insopportabile morte sul lavoro e una giovane vita strappata. Mi associo all’appello del collega Franco Ancona. Non si può perdere la vita a 30 anni lavorando. Antony era un ragazzo pieno di vita che lascia un vuoto incolmabile in tutta la comunità. Esprimiamo il nostro profondo cordoglio e la vicinanza alla famiglia». 

Incidenti sul lavoro, a Varese morto operaio caduto dalla scala lunedì. La Repubblica il 24 Marzo 2022. L'uomo era stato ricoverato in ospedale per una caduta da una scala, mentre lavorava ad un palo del telefono.

Un operaio di 41 anni è morto dopo essere stato ricoverato in ospedale per una caduta da una scala, mentre lavorava ad un palo del telefono. Il fatto era avvenuto lunedì scorso, a Fagnano Olona (Varese).

A quanto emerso l'uomo era impegnato in una operazione di manutenzione quando il palo telefonico si è spezzato, facendolo precipitare per circa 4 metri. Trasportato in gravi condizioni dall'elisoccorso all'ospedale di Circolo di Varese, ieri le sue condizioni sono precipitate ed è deceduto. 

L'ultimo saluto all'operaio morto nel porto di Taranto, il parroco: «Sapeva amare». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Marzo 2022.

«Io ho sentito tante testimonianze su Massimo, era un bravo ragazzo, sapeva amare, era bravo, e questo ci serve. Queste parole ci dicono che lui è nelle mani di Dio. In questi momenti non ci sono parole, ci può essere soltanto vicinanza». Così don Pasquale Laporta nell’omelia per i funerali, celebrati nella chiesa Nostra Signora di Fatima della borgata di Talsano, di Massimo De Vita, il 45enne operaio morto martedì scorso a seguito di un incidente sul lavoro nell’area pubblica del quarto sporgente. De Vita, in carico alla Compagnia portuale Neptunia, è stato schiacciato da un telaio in acciaio che si è ribaltato durante operazioni di movimentazione di pale eoliche danneggiate scaricate poco prima da una nave cargo. All’esterno della chiesa diverse corone di fiori degli amici e dei colleghi. Sulla bara, rose rosse e bianche. Don Pasquale ha letto un messaggio, poi consegnato alla moglie e ai due figli di De Vita, inviato dall’arcivescovo Filippo Santoro, per il quale gli incidenti mortali sul lavoro rappresentano qualcosa di «inaccettabile per una società che si dica civile». 

Incidenti sul lavoro: operaio 40enne muore al porto di Taranto. Si ribalta escavatore, nessun ferito. Secondo le prime informazioni era impegnato in operazioni di movimentazione di un grosso carico. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022.

Incidente mortale al quarto sporgente del porto di Taranto. Un operaio tarantino quarantenne, Massimo De Vita, con la qualifica di rizzatore, ha perso la vita mentre era impegnato, secondo le prime informazioni trapelate, in operazioni di movimentazione di un grosso carico. L’uomo è stato schiacciato e ucciso da un grosso telaio in ferro che si è ribaltato durante le operazioni di movimentazione a terra di un carico di pale eoliche danneggiate sbarcato poco prima dalla nave Bbc Opal. Per il lavoratore non c'è stato scampo.

A quanto si è appreso, le pale eoliche erano state tutte sbarcate e si stava procedendo al posizionamento a terra dei telai in ferro. Per cause in corso di accertamento, uno di questi si è ribaltato travolgendo l’operaio. De Vita, uno degli operai presi in carico dall’Agenzia per il lavoro portuale dopo la messa in liquidazione della Taranto Terminal Container, era stato assegnato alla Compagnia portuale e utilizzato per lavori di movimentazione seguiti da una ditta d’appalto, come operaio specializzato.

Con riferimento all’incidente sul lavoro avvenuto questa mattina sullo sporgente numero 4-Lato Ponente del porto di Taranto, in cui è morto un operaio di una ditta d’appalto, a quanto si è appreso durante la movimentazione di un carico di pale eoliche, Acciaierie d’Italia precisa «di non avere alcun coinvolgimento nelle operazioni che hanno condotto a tale incidente, né direttamente né tramite attività svolte da appaltatori per conto di Acciaierie d’Italia». L'azienda comunica inoltre «di non avere in gestione lo sporgente numero 4 -Lato Ponente del porto di Taranto».

«Apprendo con sgomento dell’incidente mortale avvenuto al quarto sporgente del porto, la mia paterna vicinanza alla famiglia del giovane operaio Massimo De Vita». Così l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro commenta la notizia dell’incidente mortale sul lavoro al porto. "Questa terra - aggiunge - continua ad immolare lavoratori, vite umane sacrificate al profitto lì dove il lavoro dovrebbe essere occasione della promozione della dignità umana e di emancipazione sociale». Monsignor Santoro si associa infine "all’appello accorato già lanciato da Papa Francesco: basta morti sul lavoro. È importante dare dignità all’uomo che lavora ma anche dare dignità al lavoro dell’uomo - conclude riprendendo le parole del Pontefice - perché l’uomo è signore e non schiavo del lavoro».

UN ALTRO INCIDENTE QUESTA MATTINA - Durante le operazioni di scarico in corso al secondo sporgente del porto di Taranto, gestito da Acciaierie d’Italia, un escavatore si è ribaltato sulla banchina. Lo comunica la stessa azienda, precisando che «non si segnalano danni alle persone operanti nell’area». Sempre questa mattina, nell’area pubblica - non in uso al Siderurgico - del quarto sporgente del porto, si è verificato un incidente mortale sul lavoro. A perdere la vita un operaio 45enne in carico alla Compagnia portuale, schiacciato da un grosso telaio in ferro durante operazioni di movimentazione di pale eoliche.

DOMANI SCIOPERO NAZIONALE - Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti hanno indetto per domani lo sciopero nazionale di un’ora ad ogni fine turno o prestazione di lavoro di tutti i lavoratori dei porti ed il suono delle sirene, alle ore 12, «in segno di lutto" a seguito dell’incidente sul lavoro costato la vita questa mattina a un operaio 45enne, Massimo De Vita, schiacciato da un grosso telaio in ferro durante lavori di movimentazione di pale eoliche al porto di Taranto. «A distanza di poco meno di un anno - sottolineano in una nota - è il secondo lavoratore che nel porto di Taranto perde la vita durante le operazioni di carico/scarico di pale eoliche. Bisogna scongiurare che eventi tragici come questi accadano ancora eliminando ogni fattore che possa causare incidenti, specialmente in un ambito così ad alto rischio, come quello del porto».

Filt Cgil, la Fit Cisl e Uiltrasporti ricordano che «era il 29 aprile 2021 quando Natalino Albano perse la vita nel tentativo di sfuggire ad una pala eolica che precipitò dopo essersi sganciata dall’imbracatura della gru che la stava sollevando. L’incidente di questa mattina riaccende tristemente i riflettori sugli elevati rischi del lavoro portuale». Secondo le tre organizzazioni sindacali, «occorre rimettere al centro la parola sicurezza nell’agenda delle istituzioni ministeriali e del Governo, a partire dalla emanazione dei necessari provvedimenti di aggiornamento del decreto legislativo 272/99, ripetutamente sollecitati. Ci stringiamo nel dolore alla famiglia di Massimo De Vita». 

Porto di Taranto, incidente sul lavoro : operaio muore schiacciato da un telaio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Marzo 2022.  

I sindacati della Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti hanno indetto per domani uno sciopero nazionale di un’ora ad ogni fine turno o prestazione di lavoro di tutti i lavoratori dei porti ed alle ore 12 "in segno di lutto" il suono delle sirene, a seguito dell’incidente sul lavoro costato la vita questa mattina all' operaio Massimo De Vita.

Il tragico incidente sul lavoro è avvenuto questa mattina intorno alle otto nella parte pubblica del quarto sporgente dello scalo di Taranto. A perdere la vita . La vittima Massimo De Vita, 45 anni,  tarantino padre di due figli e ex operaio TCT-Taranto Container Terminal, uno degli operai presi in carico dall’Agenzia per il lavoro portuale dopo la messa in liquidazione della TCT, ed utilizzato come operaio specializzato per lavori di movimentazione dalla compagnia portuale Nuova Neptunia per una commessa di una ditta d’appalto, durante le operazioni di movimentazione a terra di un carico di pale eoliche danneggiate sbarcato poco prima dalla nave Bbc Opal, è rimasto schiacciato da un grosso telaio in ferro . Sul luogo della tragedia sono accorsi i sanitari del 118 e gli uomini della Polizia di Stato. Ma purtroppo non c’è stato nulla da fare per De Vita che è morto sul colpo. 

L’incidente è avvenuto al quarto sporgente, negli anni passati luogo di altri gravi incidenti Ad aprile del 2021 un giovane operaio di una impresa di movimentazione e trasporti, Natalino Albano, stava seguendo l’andamento del carico a bordo di pale eoliche, cascò da una nave sulla banchina dello stesso sporgente del porto e morì sul colpo . Secondo una prima ricostruzione questa mattina il telaio di ferro si sarebbe improvvisamente sganciato mentre veniva fatto scendere in banchina da una nave che aveva trasportato pale eoliche, finendo addosso a De Vita. Il telaio ha un peso rilevante, e non conteneva le pale che erano state sbarcate poco prima.

La società Acciaierie d’Italia (ex Arcelor Mittal Italia) che gestisce lo stabilimento siderurgico ex-Ilva di Taranto ha diramato una nota con riferimento all’incidente sul lavoro avvenuto questa mattina sullo sporgente numero 4-Lato Ponente del porto di Taranto, precisando “di non avere alcun coinvolgimento nelle operazioni che hanno condotto a tale incidente, né direttamente né tramite attività svolte da appaltatori per conto di Acciaierie d’Italia“. L’azienda ha inoltre comunicato “di non avere in gestione lo sporgente numero 4 -Lato Ponente del porto di Taranto”.  

Tale precisazione si è resa necessaria in quanto nelle stesse ore durante le operazioni di scarico in corso al secondo sporgente del porto di Taranto, gestito da Acciaierie d’Italia, un escavatore si è ribaltato sulla banchina e la stessa azienda, ha precisato che “non si segnalano danni alle persone operanti nell’area”.

I sindacati della Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti hanno indetto per domani uno sciopero nazionale di un’ora ad ogni fine turno o prestazione di lavoro di tutti i lavoratori dei porti ed alle ore 12 “in segno di lutto” il suono delle sirene, a seguito dell’incidente sul lavoro costato la vita questa mattina all’ operaio Massimo De Vita. “A distanza di poco meno di un anno – scrivono i sindacati in una nota congiunta – è il secondo lavoratore che nel porto di Taranto perde la vita durante le operazioni di carico/scarico di pale eoliche. Bisogna scongiurare che eventi tragici come questi accadano ancora eliminando ogni fattore che possa causare incidenti, specialmente in un ambito così ad alto rischio, come quello del porto“. Redazione CdG 1947

L'incidente nel Napoletano: ennesima morte bianca. Dramma lavoro, operaio di 55 anni muore dopo arrivo in ospedale. Redazione su Il Riformista il 16 Marzo 2022. 

Un operaio di 55 anni, impiegato di una azienda di San Gennaro Vesuviano (Napoli). è morto sul lavoro in circostanze ancora poco chiare. La vittima si chiamava Dakaj Mynyr ed era di nazionalità albanese. Era impiegato, con regolare contratto, in una ditta che si occupa di logistica. Non è ancora chiara la dinamica dell’incidente avvenuto nel primo pomeriggio di giovedì 16 marzo.

Dopo l’incidente, l’uomo è stato soccorso dai colleghi e poi trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Nola dove è successivamente deceduto a causa delle gravi ferite riportate. A nulla sono valsi i tentativi dei sanitari di rianimarlo.

La salma, su disposizione dell’autorità giudiziaria, è stata trasferita al Secondo Policlinico di Napoli per l’autopsia che verrà effettuata nei prossimi giorni. Esame autoptico utile a chiarire le cause di un decesso sul quale, al momento, ci sono poche informazioni.

Ad indagare sull’accaduto sono i carabinieri della Compagnia di Nola e del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna. Non è ancora chiaro il luogo dove è avvenuto l’incidente, se all’interno della ditta di San Gennaro Vesuviano o altrove.

Sono 1.017 le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail nei primi 10 mesi del 2021, dati impressionanti che a livello nazionale fotografano un’inaccettabile strage.

Incidente sul lavoro, muore un uomo nello stabilimento Hitachi di Reggio Calabria. Il Domani il 10 marzo 2022.

Era il titolare di una ditta esterna di trasporti. È rimasto schiacciato dal materiale venuto giù dal braccio meccanico di una gru.

Giuseppe Cuzzola, 48 anni, è morto stamattina nell’area dello stabilimento Hitachi di Reggio Calabria, schiacciato dal materiale caduto dal braccio di una gru.

L’uomo era il titolare della ditta esterna di trasporti che si stava occupando della rimozione di rifiuti speciali, all’interno dello stabilimento Hitachi. Stando a una prima ricostruzione dell’accaduto, parte dell’alluminio sollevato dal ragno meccanico si sarebbe staccata, finendo addosso all’uomo che è morto sul colpo.

L’incidente è avvenuto nel parco rifiuti, sul retro dello stabilimento reggino, accessibile solo agli addetti ai lavori.

A darne la notizia è stata la Rappresentanza sindacale unitaria (Rsu) dell’Hitachi. Sul posto sono intervenuti i carabinieri, sono in corso le indagini per accertare l’esatta dinamica dei fatti.

Taranto, storie tragedie e menzogne sull’Ilva. La storia di Alessandro Morricella. VALENTINA PETRINI su Il Domani il 23 febbraio 2022.

«Era bruciato vivo, dalla testa alle caviglie». È l’8 giugno 2015. L’ennesimo caduto sul campo di battaglia del Siderurgico è un operaio di 35 anni. Si chiama Alessandro Morricella.

L’incidente avviene proprio in uno di quei reparti dell’area a caldo sequestrati senza facoltà d’uso dal giudice Patrizia Todisco nel 2012 e riaperti subito dopo per decreto, con l’escamotage dell’interesse strategico.

Nel 2015 però a guidare la fabbrica non ci sono più i Riva, ormai a processo per disastro ambientale, ma tre commissari straordinari nominati dal governo Renzi a cui spetta l’attuazione del Piano industriale dell’Ilva.

Pubblichiamo un estratto del libro “Il cielo oltre le polveri. Storie, tragedie e menzogne sull'Ilva” di Valentina Petrini, edito da Solferino, 2022. Al centro del racconto la città di Taranto, il cui nome è associato da decenni all’Ilva, l’azienda considerata strategica per il nostro paese, che ha visto tragedie come quella di Francesco Zaccaria e di Alessandro Morricella.

ALESSANDRO MORRICELLA, IL COLATORE

«Era bruciato vivo, dalla testa alle caviglie. Solo il dorso del piede e le dita della mano erano rimasti integri, le uniche cose che sono riuscita a baciargli prima di dirgli addio. I suoi occhi verdi non c’erano più, si erano velati.» È l’8 giugno 2015. L’ennesimo caduto sul campo di battaglia del Siderurgico è un operaio di 35 anni. Si chiama Alessandro Morricella. Quando sua moglie Natalia rompe il silenzio e mi accoglie nella loro casa, non so niente di lui, di loro, di come si lavora in un altoforno. So solo quello che ho letto sui giornali.

Alessandro è morto dopo quattro interminabili giorni di agonia. Aveva ustioni di secondo e terzo grado sul 90 per cento del corpo e il cervello pieno d’acqua. «Mi hanno detto che è stato colpito mentre misurava la temperatura della ghisa manualmente dal foro di colata. Una procedura che faceva da 13 anni, ma quella sera all’improvviso è stato investito da una bomba di oltre 1.500 gradi. Come se gli fosse caduta una secchiata di lava bollente in testa. Non so altro».

L’incidente avviene proprio in uno di quei reparti dell’area a caldo sequestrati senza facoltà d’uso dal giudice Patrizia Todisco nel 2012 e riaperti subito dopo per decreto con l’escamotage di dichiarare il Siderurgico «stabilimento di interesse strategico nazionale». Quando Morricella viene colpito a morte, sono passati dunque tre anni dall’esplosione dell’inchiesta Ambiente Svenduto, ma il braccio di ferro tra governo e magistratura non accenna a risolversi. I problemi sono tutti sul tavolo. L’Ilva è ancora terreno di forte scontro. 

Nel 2015 però a guidare la fabbrica non ci sono più i Riva, ormai a processo per disastro ambientale, ma tre commissari straordinari nominati dal governo Renzi: Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi a cui spetta l’attuazione del Piano industriale dell’Ilva e delle prescrizioni di tutela ambientale, sanitaria e di sicurezza.

Alessandro Morricella è il quinto operaio che muore in Ilva dall’estate 2012, cioè da quando la fabbrica, nonostante il sequestro senza facoltà d’uso, è stata riaperta per decreto. Prima di lui hanno perso la vita sul lavoro Francesco Zaccaria, Claudio Marsella, Ciro Moccia e anche Angelo Iodice, operaio dell’azienda Global Service.

«L’8 giugno 2015 era di turno il pomeriggio, dalle 15 alle 23. È venuto a prendermi all’uscita di scuola, sono una maestra. Aveva un forte mal di testa. Ricordo di avergli detto: non andare al lavoro, mettiti in malattia. Devo andare, mi ha risposto, la prossima settimana sarò in ferie, oggi non posso mancare. Avevamo una macchina sola, così l’ho accompagnato alla portineria dell’Ilva, l’ho baciato velocemente per scappare a prendere le bambine dai nonni e portarle in palestra. Me ne sono andata senza vederlo entrare. Se avessi saputo che era la nostra ultima volta insieme...».

Verso le sette di sera Natalia, Greta e Sofia, rientrano a casa. «Ero in bagno. Stavo slegando le trecce delle piccole. Suona il citofono, ma non aspettavo nessuno. È papà, è papà! urlano Greta e Sofia. Ma no, finitela, papà torna alle undici. Sarà senz’altro qualche disturbatore che vuole mettere pubblicità nella cassetta della posta, ho pensato».

Risponde distratta senza nemmeno dar peso alla voce dall’altra parte del citofono. «E invece era un suo collega. Mi dice: Natalia, posso salire? Quando me lo sono visto davanti alla porta, bianco, pallido ho capito che era successo qualcosa. E infatti, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: Alessandro ha avuto un incidente. Da quel momento non ho capito più niente».

«Ho chiamato mio padre: corri, vieni a prendere le bambine. Poco dopo mi sono ritrovata in casa mio fratello. Che ci fai qui? In quel momento non sapevo che la notizia dell’incidente in Afo2 era su tutti i giornali, compreso il nome di mio marito. Ho baciato le bambine, ci siamo strette forte e non le ho più viste per sei giorni».

E poi? «La corsa in ospedale, la chiamata all’infermeria dell’Ilva, al centralino del 118. Componevo numeri a caso. Non ero lucida. Nessuno mi aveva detto nulla: non sapevo quali fossero le reali condizioni di Alessandro. Ricordo però che qualcuno di quelli che mi risposero mi disse: Signora suo marito è grave». 

La speranza è rimasta viva, nonostante tutto. «Ho chiamato medici in Svizzera, in America. Ho un’amica che vive in Trentino e parla tedesco. Ha preso contatti anche in Germania, ha tradotto la cartella clinica e l’abbiamo inviata anche lì. È stato inutile però. Come vedevano le carte... rispondevano: Non c’è più niente da fare. Io insistevo: dovete portarlo altrove. Non mi importa dove. Forse per accontentarmi il quarto giorno di agonia, fecero venire a Bari un primario del Gaslini di Genova e anche lui dopo averlo visitato mi disse: Signora, non c’è niente da fare». 

Era il 12 giugno 2015. «A quel punto alle 16 sono entrata in terapia intensiva, gli ho baciato la mano e gli ho detto: Vabbè Alessà, vai. Non ti preoccupare, me la vedo io con le bambine. Dieci minuti dopo è morto». Aveva 35 anni.

Le ultime parole di Alessandro, i suoi gesti, preoccupazioni, sono ben impressi nelle carte dell’inchiesta. Morricella «adagiato a terra sul lato destro (...) totalmente nudo ad eccezione di una cinta che tratteneva piccoli frammenti di vestiario, un paio di slip e le scarpe indossate (...) parzialmente bruciate (…) che si rotolava sul pavimento per sottrarsi alle fiamme.» E mentre Morricella brucia come una torcia riesce persino a dire qualcosa. «Sto morendo, i bambini». Poi si accascia per terra: «Sono morto... sono morto... i miei bambini...».

Ho letto più volte le parole di ogni singolo interrogato e anzi, emergono di più le anomalie che le certezze. E alla fine mi è rimasta addosso una brutta sensazione di solitudine profonda. L’immagine di quest’uomo morto solo. Per colpa dell’altoforno andato in tilt o chissà di chi o cosa? Possibile che nessuno sappia nulla, abbia visto qualcosa? Forse mi sbaglio, ma in questa storia a me rimane l’immagine di Alessandro mollato da tutti: dai colleghi, dall’azienda, dallo Stato. Da tutti. Un morto scomodo.

La sua colpa, per meritare l’oblio? Essere morto nella fabbrica contesa mentre lo Stato cercava insistentemente di salvarla e tenerla aperta. A dicembre 2021, quando questo libro va in stampa, non c’è ancora nemmeno l’ombra di una sentenza di primo grado.

Valentina Petrini, giornalista, ha lavorato per molte trasmissioni televisive tra cui Piazzapulita e Cartabianca e ha condotto Nemo – Nessuno Escluso. Ha ideato e condotto Fake – La fabbrica delle notizie. È autrice di Non chiamatele Fake News (Chiarelettere 2020), un’inchiesta sulla matematica della disinformazione. VALENTINA PETRINI

Marco, morto nel cantiere livornese: a un passo dal contratto fisso, lascia i ricordi di un'infanzia infinita.  Marco Patucchi su La Repubblica il 6 marzo 2022.

Cecchi, 55 anni, è rimasto schiacciato tra un'auto e un camion a Rosignano Marittimo. Sposato con Arianna e padre della ventiduenne Giorgia. 

Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

"Le case altissime, dalle facciate tinte di un intonaco biondo, dove il rosa e il verde si confondono, splendono al sole con riflessi d'oro e di verderame, come l'acqua dei canali sparsa di chiazze d'olio". Curzio Malaparte lo ha dipinto così il quartiere Venezia di Livorno, dove Marco è nato e cresciuto e dove adesso lo piangono ricordando le infinite estati dell'infanzia. "Abbiamo vissuto insieme i migliori anni della nostra vita - racconta Valter ai cronisti locali - quando in Venezia c'erano ancora le case bombardate dalla guerra e ci nascondevamo tra i ruderi. Erano quei tempi lì, quando il quartiere era una grande famiglia e ci conoscevamo tutti". I ragazzini terribili degli Scali del Pesce, diventati uomini ma sempre uniti. Tonio, il papà di Marco, era l'allenatore della polisportiva e tanti di loro li ha portati dalla strada al campo di calcio. Marco Cecchi non c'è più. E' morto per un incidente sul lavoro accaduto a Rosignano Marittimo sul litorale livornese: nel cantiere stradale è rimasto schiacciato tra un camion e un'auto. Di lì a dieci giorni avrebbe compiuto 56 anni e come regalo era pronto il contratto a tempo indeterminato con la ditta che lo aveva assunto. Finalmente ce l'aveva fatta, dopo tanto precariato da operaio edile.

"Ciao Marchino- scrive Alessandra sui social -che dolore! Eri proprio un bravo ragazzo. Eravamo piccoli...". E Stefano "Mi dispiace....da piccoli giocavamo insieme ai Bagni Trotta". Ancora gli anni più belli: "Ho passato la mia infanzia con lui, nella sua casa in Venezia - scrive Alessandro - . Quando siamo cresciuti ci siamo un pò persi di vista perchè ho cambiato città, ma quando ci incontravamo mi salutava come sempre sorridendo contento: 'Bello Ale'. Ho il cuore devastato". Il cuore. Il cuore di Marco che ha lavorato per tanto tempo come volontario della Svs. Il cuore spezzato della moglie Arianna e della figlia ventiduenne Giorgia che si è fatta forte e sui social lo ha salutato così: "Eri il mio 'papi' e lo sarai sempre. Grazie per tutto quello che sei riuscito a insegnarmi. Mi dispiace che non sarai tu un giorno ad accompagnarmi all'altare, come doveva essere, mi dispiace che non ti godrai i tuoi nipoti, però sappi che vivi dentro di me e che parlerò a tutti di te, sempre, per l'uomo e il padre che eri. Se solo avessi immaginato tutto questo, non sarebbe bastato l'ultimo abbraccio che ci siamo dati, ma ti avrei stretto ancora più forte a me".

Il lavoro che uccide: nel 2021 in Puglia 96 morti e 24mila infortuni. I dati della Cgil e la proposta per i giovani: «Costruiamo una carta dei diritti degli studenti in alternanza». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2022.

Di lavoro si continua a morire.  È un bilancio drammatico quello fornito dalla Cgil Puglia. Nel 2021 in Puglia ci sono stati 65 infortuni al giorno e complessivamente 96 morti sul lavoro in un anno. I numeri sono emersi nel corso dell’iniziativa «Al Sicuro!» promossa dalla Cgil Puglia nel dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari. Hanno partecipato, tra gli altri, il segretario della Cgil Puglia, Pino Gesmundo; la segretaria confederale nazionale della Cgil, Rossana Dettori; e Maria Giorgia Vulcano, coordinatrice del Nidil Cgil Puglia. 

«Fermare la strage sui luoghi di lavoro. Favorire una giusta transizione tra istruzione, formazione e luoghi della produzione», è il sottotitolo dell'evento promosso nell’ambito della mobilitazione nazionale lanciata dalla Cgil dopo le morti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, due giovani di 18 e 16 anni, che hanno perso la vita rispettivamente durante un percorso di alternanza scuola lavoro e durante un tirocinio. «Numeri e storie - ha detto Gesmundo - che ci dicono quanto urgente sia, e questa è la proposta che avanziamo, un osservatorio permanente su formazione e lavoro, coinvolgendo le associazioni studentesche, per monitorare un fenomeno che oggi sfugge alla conoscenza e valutazione».

Dettori ha sottolineato l'importanza di «confrontarci con le scuole e le università per comprendere diversità dei bisogni formativi e gli studenti devono poter decidere percorsi. Lavoriamo a costruire una carta dei diritti degli studenti in alternanza: ai ragazzi dico conquistiamo insieme questi diritti». 

Maria Giorgia Vulcano, coordinatrice del Nidil Cgil Puglia, ha ricordato che risultano non in regola con percentuali che oscillano tra il 60 e l’80 per cento, le aziende «del trasporto e magazzinaggio, attività di servizi, alloggio e ristorazione, attività sportive e di intrattenimento, attività professionali, scientifiche e tecniche e commercio». 

Verona, esplosione e incendio in una fabbrica di vernici: muore un operaio. Gli altri dipendenti, una quarantina, sono riusciti a mettersi in salvo. All'appello ne mancava solo uno: il corpo trovato dai soccorritori. La Repubblica l'1 marzo 2022.

C'è una vittima per l'esplosione, seguita da un violento incendio, che si è verificata nel pomeriggio all'interno di una fabbrica di vernici nel veronese, a Poiano. Si tratta di uno degli operai dell'azienda, del quale non sono ancora rese note le generalità. L'uomo era stato visto al lavoro stamane dai compagni, ma quando è stato fatto l'appello, all'esterno dello stabilimento, di lui non c'era traccia.

Dall'azienda si sono alzate dense volute di fumo nero. L'incendio, secondo le prime ipotesi, sarebbe stato causato dall'esplosione di una bombola di solvente. Gli operai, circa una quarantina, si sono messi in salvo precipitandosi fuori dal capannone, e sono stati portati in una vicina struttura, al riparo dal freddo. Sul posto, con i vigili del fuoco, sono intervenuti gli agenti della polizia locale, i carabinieri, e i tecnici ambientali dell'Arpav. Tutti i residenti della zona sono stati invitati a tenere finestre e imposte chiuse, fino a che non saranno pronti i primi risultati sulle sostanze disperse nell'aria.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2022.

Sono stanca morta, scriveva al fidanzato l'infermiera appena smontata dal secondo turno di notte consecutivo (dieci ore e dieci pazienti da accudire) prima di appisolarsi al volante e interrompere la sua giovane vita all'alba contro un palo della luce. Non è morta sul lavoro, è morta di lavoro. 

E noi, quasi obbedissimo a un riflesso condizionato, siamo alla ricerca di un capro espiatorio che plachi i morsi dell'ansia provocati da questa storia così ordinariamente assurda. Un primario bullo a cui intestare quella turnazione feroce - mattina, pomeriggio, pomeriggio, notte, notte - che era la settimana tipo di Sara Sorge.

Un paziente aggressivo a cui imputare i suoi nervi stremati. Un pirata della strada responsabile dell'incidente. Niente. Non ci sarà nessuna inchiesta perché non c'è nessun colpevole. O meglio, uno c'è, enorme e inafferrabile, ed è persino stucchevole continuare a chiamarlo «il sistema». 

La storia di Sara è purtroppo identica a quella dei suoi colleghi e di migliaia di altri giovani e adulti che la pandemia ha catapultato in prima linea, nel suo caso direttamente dall'università, costretti a turni massacranti dalla mancanza di personale, di fondi adeguati e di una strategia alternativa all'ammassamento dei pazienti negli ospedali e degli anziani nelle case di riposo.

Ma più in generale si direbbe che il lavoro, ogni genere di lavoro, abbia ormai smarrito la logica della via di mezzo. O non lavori per nulla oppure sgobbi, e talvolta muori, come un cavallo da tiro.

Valeria D'Autilia per "la Stampa" il 18 febbraio 2022.  

«All'inizio, durante un turno di notte, aveva avuto un attacco di panico. Era sola con circa 28 pazienti». Il ricordo di quei momenti in corsia attraversa i colleghi di Sara Viva Sorge, l'infermiera brindisina morta martedì scorso in un incidente stradale all'alba, dopo il lavoro. «Un ausiliario - raccontano - è corso ad abbracciarla e poi, per tranquillizzarla, ha chiamato l'infermiera che era in un altro reparto».

Parlare con loro non è facile. Sono alcuni dipendenti della struttura sanitaria Fondazione San Raffaele di Ceglie Messapica, lì dove la giovane era stata assunta da tre settimane. Non ha fatto neanche in tempo a prendere il suo primo stipendio, a festeggiare l'indipendenza tanto attesa. Tra pochi giorni avrebbe finito il mese di lavoro e sarebbe stato anche il suo 27esimo compleanno. 

Aveva preso servizio il 20 gennaio, a quanto risulterebbe già con un doppio turno: 14 ore di fila, mattina e pomeriggio. Alle persone care, in più occasioni, aveva raccontato quei ritmi insostenibili. 

L'ultimo messaggio alle 6 del mattino, dopo due notti di seguito: «Sono stanca morta» aveva scritto al fidanzato Andrea prima di mettersi in viaggio per tornare a casa, a San Vito dei Normanni. Poi il silenzio e lo schianto contro un palo dell'illuminazione, mentre era alla guida della sua auto. 

«Sul posto - racconta chi la conosceva- non c'erano segni di frenata. Questo fa pensare a un colpo di sonno per la stanchezza e ci lascia sgomenti». Ieri mattina l'assemblea dei dipendenti della clinica di riabilitazione è andata deserta. Hanno partecipato in 9, a fronte di circa 150 unità. Ma il sindacato non intende mollare, ritiene che non si tratti soltanto di un incidente in itinere ma occorra approfondire le concause.

E fa sapere fa sapere di avere più volte denunciato il sovraccarico e gli orari pesanti: «Abbiamo visto la turnistica di gennaio e febbraio. Per il personale le due notti di seguito non erano una novità, così come fare anche 17 ore, dal pomeriggio all'alba del giorno dopo». Nell'ultimo periodo c'erano stati alcuni tavoli di concertazione. «Proprio per superare questa carenza di organico - fa sapere Chiara Cleopazzo della Fp Cgil Brindisi - l'azienda stava iniziando ad assumere. 

È chiaro però che, se dopo una settimana molto impegnativa mi metti due notti consecutive, mi sovraesponi ad un carico maggiore. I lavoratori h24 hanno diritto a una rotazione equa per garantire il recupero. La doppia notte si fa quando si è in emergenza. Ma con questa pandemia sono anni che viviamo in emergenza in questo settore». Una collega, che chiede l'anonimato, commenta: «Ritmi inumani, soprattutto per chi è alle prime armi e non ha neanche il potere contrattuale di dire basta». 

Racconta che molti infermieri sono andati via lasciando il contratto a tempo indeterminato per uno, a tempo, nel settore pubblico. «Di solito gli ultimi arrivati- dice un altro- fanno i tappabuchi e questo accade dappertutto, ma non mi puoi lasciare di notte una piccina da sola». La carenza di organici in ambito sanitario è diffusa un po' ovunque. E, in questo momento, ad essere in particolare sofferenza sono proprio le strutture private. «Le residenze sanitarie sono in ginocchio.

Ci arrivano continue richieste di segnalare professionisti disoccupati e persino pensionati che siano ancora disponibili sul campo». A parlare è Antonio Scarpa, presidente dell'ordine degli Infermieri di Brindisi: «La pandemia ha stravolto tutte le regole e la maggioranza è attratta dal pubblico impiego dove molti sono entrati con una semplice domanda di pronta disponibilità. Per questo c'è stato un esodo e i privati si sono svuotati». Scarpa aveva incontrato Sara qualche tempo fa. 

Dopo gli anni da universitaria a Roma, da qualche tempo la ragazza era tornata nella sua città d'origine, San Vito dei Normanni. Aveva conosciuto Andrea e stavano facendo progetti per il futuro. Voleva essere autonoma. E così, accompagnata dalla mamma, si era iscritta all'ordine e chiedeva quali fossero le realtà provinciali in cerca di personale. «Una ragazza solare, non vedeva l'ora di iniziare. Adesso siamo sconvolti» dice Scarpa che fa sapere di non aver mai ricevuto segnalazioni di carenza d'organico nella Fondazione San Raffaele. La stessa clinica di riabilitazione si stringe attorno alla famiglia «nella consapevolezza che nessuno, purtroppo, potrà mai compensare il dolore di fronte ad una tragedia tanto grande quanto inaccettabile».

Fresca di laurea, Sara era alla sua prima esperienza in quel settore. Dopo l'abilitazione con 110 e lode, era desiderosa di donarsi agli altri. Per lei e per tutti gli infermieri italiani, il sindacato Nursing Up ha chiesto un minuto di silenzio nei reparti per protestare contro orari massacranti. «Si può arrivare a perdere la vita per le conseguenze psicofisiche di una professione la cui valorizzazione è ridotta ai minimi termini?». Una domanda che, da queste parti, tormenta in molti, mentre indossano il camice e si preparano a un altro turno.

Ascensore precipitato a Milano: sospeso nel vuoto senza imbracatura, così è morto l’operaio Jaroslav Marnka. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022

Viale Monza, il cavo che reggeva la cabina si è spezzato o staccato dal verricello; i «pattini» dei freni automatici non sono entrati in funzione per fermare la caduta di cinque piani. L’indagine nel «Palazzo di fuoco» all’angolo con piazzale Loreto. 

Lavoravano in piedi sul tetto dell’ascensore, sospesi nel vuoto a venti metri d’altezza. Stavano installando la cabina dell’elevatore trattenuta soltanto da un cavo d’acciaio collegato a un verricello. Era la terza volta ieri, i primi due ascensori del «Palazzo di Fuoco» di piazzale Loreto erano stati posizionati senza problemi. Alle 13.50 di venerdì 11 febbraio, però, la tragedia con il cavo che si sgancia e la cabina che precipita trascinando anche i due tecnici. Non erano imbragati, non erano assicurati ad alcuna corda di sicurezza, erano semplicemente lì, in piedi sul tetto di una cabina sospesa nel vuoto. Jaroslav Marnka, tecnico slovacco di 55 anni, è morto sul colpo. Mentre il collega connazionale 26enne L. M. è ricoverato all’ospedale di Niguarda in condizioni molto critiche: ha lesioni al volto, al torace, al bacino e a una gamba. I medici lo hanno operato nella speranza di ridurre le lesioni interne. Le indagini della procura, con il dipartimento Tutela salute e lavoro dell’aggiunto Tiziana Siciliano, dovranno ora chiarire cosa abbia provocato la caduta dell’ascensore.

La ricostruzione dell’incidente

In particolare perché il cavo che reggeva la cabina si sia spezzato o distaccato dal verricello e come mai i «pattini» dei freni automatici non siano entrati in funzione per fermare la caduta proseguita per cinque piani, fino al suolo. Il pm di turno Ilaria Perinu ha disposto il sequestro di tutta la colonna del vano ascensore e dopo le prime relazioni degli investigatori, i magistrati dovranno disporre le consulenze tecniche. Sarà quindi necessario procedere anche con iscrizioni nel registro degli indagati a garanzia per svolgere gli accertamenti.

Il cantiere e il subappalto

I due tecnici lavoravano per una ditta slovacca che stava eseguendo i lavori per il colosso Schindler, multinazionale che ha sede anche a Concorezzo, a loro volta incaricati dal costruttore Percassi. Alla società erano stati affidati i lavori in subappalto per l’installazione dei sette ascensori della palazzina, sventrata e ristrutturata negli ultimi tre anni. In buona parte del piano terra i lavori sono ormai conclusi e sul lato di via Padova sono aperti alcuni esercizi commerciali. Negli uffici ai piani superiori si sta invece lavorando all’allestimento degli impianti. I colleghi, sconvolti, hanno raccontato che i due tecnici stavano lavorando «senza imbragature» perché si trattava di operazioni «non pericolose» che venivano eseguite in condizioni di sicurezza nonostante gli operai non avessero alcuna protezione in caso di caduta. Anche per questo motivo i tecnici dell’Ats stanno verificando le esatte procedure previste per l’installazione degli ascensori.

Le verifiche sulla sicurezza

Che il sistema adottato non abbia funzionato è purtroppo ormai evidente. Ora i magistrati dovranno capire se si sia trattato di imprudenze dei due operai o se sia stata l’azienda ad aggirare le norme, magari per velocizzare l’installazione degli impianti. L’edificio di viale Monza 2 è noto con il nome di «Palazzo di fuoco» perché al tramonto le vetrate assumono una colorazione rosso-arancione. Progettato da Giulio Minoletti e Giuseppe Chiodi, il palazzo è stato costruito fra il 1958 e il 1961. Gli architetti che hanno firmato il restyling sono Antonio Gioli e Federica De Leva, dello studio Gbda architects, incaricati da Kryalos sgr, che gestisce il Fondo immobiliare All star.

Andrea Siravo per lastampa.it l'11 febbraio 2022.

Un operaio di 55 anni è morto, un altro di 26 è ricoverato in condizioni gravissime all’ospedale Niguarda dopo essere precipitati da un’altezza di 20 metri in un vano ascensore a Milano, mentre installavano la cabina in un palazzo in ristrutturazione adiacente a piazzale Loreto.

I due operai si trovavano sul tetto dell'ascensore, in viale Monza 2, quando la fune si è spezzata e sono precipitati da un'altezza di circa 20 metri. L’operaio di 55 anni è morto sul colpo, il collega più giovane ha riportato traumi al volto, al torace, al bacino e a una gamba.

«Non avevano l'imbracatura, perché in quel momento non serviva», ha dichiarato un collega dei due operai. «Sono caduti dal quinto piano - aggiunge -. Stavano installando un ascensore nuovo, ne avevano installati altri due senza nessun problema».

Il pm Ilaria Perinu ha disposto l'autopsia sul corpo dell'operaio di 55 anni. La Procura sta per aprire un fascicolo per omicidio colposo che, una volta ricevuti i primi atti dalla polizia giudiziaria, sarà coordinato dal Dipartimento salute, lavoro, sicurezza, ambiente guidato dall'aggiunto Tiziana Siciliano. Al momento non è arrivato alcun atto in Procura.

Lavoro, l'ultima tragedia a Milano. La fune si spezza, operai precipitano nel vano ascensore: un morto e un ferito in condizioni disperate. Giovanni Pisano su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

La fune si spezza e due operai precipitano nel vano di un ascensore per oltre venti metri: uno è morto (aveva 55 anni), l’altro (26enne) è ricoverato in gravi condizioni. E’ il bilancio dell’ennesimo incidente sul lavoro avvenuto intorno alle 14 di venerdì 11 febbraio nel cantiere edile di un palazzo in viale Monza a Milano, poco distante da piazzale Loreto. Secondo una prima ricostruzione, i due lavoratori, entrambi di origine slovacca, si trovavano sul tetto dell’ascensore quando si è verificata la tragedia: mentre tentavano di installare la cabina, la fune si sarebbe spezzata e sono precipitati per decine di metri. L’incidente è avvenuto al quinto piano di un palazzo in ristrutturazione di otto piani.

La dinamica, riferisce Areu (l’agenzia regionale emergenza urgenza dalla regione Lombardia), è al vaglio delle forze dell’ordine. L’operaio 55enne sarebbe deceduto sul colpo, il giovane collega è stato invece soccorso dai vigili del fuoco e dai sanitari del 118 e trasportato all’ospedale Niguarda: nell’impatto ha riportato un trauma al volto, un trauma toracico e un trauma al bacino e a una gamba. Sul posto sono intervenuti anche gli agenti della polizia di Stato, i vigili urbani e il pm di turno (Ilaria Perinu) della Procura di Milano che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Disposta l’autopsia sul corpo dell’operaio morto.

“Non avevano l’imbracatura perché in quel momento non serviva” spiega all’Agi un collega dei due operai. “Sono caduti dal quinto piano – aggiunge -. Stavano installando un ascensore nuovo, ne avevano installati altri due senza nessun problema. Conoscevo da poco il mio collega che è morto ma posso dire che era una bravissima persona, molto educata”.

I lavori, stando al cartello obbligatorio, sono svolti da una ditta Percassi. Secondo quanto riferisce l’Ansa, i colleghi dell’operaio morto e di quello ferito sono usciti con in il viso sconvolto.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

La tragedia nel Reggiano. Operaio ucciso di botte da due colleghi: “Lascia il posto di lavoro”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 7 Febbraio 2022. 

E’ stato ucciso con calci e pugni, e colpito da dischetti di metallo, perché si era rifiutato di lasciare il posto di lavoro a un amico dei suoi aggressori. E’ morto così Ranjeet Bains, 38enne di nazionalità indiana, operaio in una azienda metalmeccanica (la Quattro-B Srl) di Luzzara, in provincia di Reggio Emilia. Ad aggredirlo fino alla morte due suoi connazionali, fratelli di 41 e 40 anni residenti a Mantova, nel pomeriggio di lunedì 7 febbraio.

Secondo quanto ricostruito dai carabinieri di Guastalla, che hanno raccolto anche le testimonianze degli altri operai presenti al momento dell’aggressione, i litigi andavano avanti da tempo ma oggi l’ennesima discussione è finita nel sangue. Accertamenti in corso anche per capire se i due fratelli abbiano usato anche una pala di metallo. Il 38enne è deceduto all’interno dell’azienda, rendendo inutili i soccorsi dei sanitari del 118.

I due fratelli, arrestati per omicidio aggravato dai futili motivi, lavoravano nello stabilimento da un paio di mesi. La vittima, anche lui residente in provincia di Mantova, lascia la moglie e due figli piccoli.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Lucia Galli per "il Giornale" il 9 febbraio 2022.

Quell'impiego faceva gola a un altro. E così lui Ranjeet Bains doveva morire. Per favorire un turnover un poco fai da te, per sistemare le cose, per aiutare un amico. Sì, oggi di lavoro si può anche morire. Non solo in senso stretto e sul posto di lavoro, ma piuttosto per ottenere un posto, quando il lavoro non basta per tutti. 

Si riassume follemente così il brutale omicidio di Ranjeet Bains, nato in India 37 anni fa, ma arrivato bambino in Italia, insieme al padre. Qui Bains era cresciuto e qui si era integrato. 

Una famiglia, un contratto, uno stipendio. Lui ce l'aveva fatta. E in quell'azienda metalmeccanica di Coldisotto di Luzzara, dove lavorava da 15 anni, c'era tutto il suo mondo e le sue chance per il futuro dei suoi ragazzi di 2 e 7 anni. 

Alla Quattro B non era l'unico straniero, nemmeno l'unico indiano. Con lui c'erano anche i fratelli Charanjit e Paranjit Singh di 42 e 41 anni. Bains, probabilmente, per un po', li aveva creduti amici: lui si era stabilito nella provincia lombarda a Motteggiano, loro nel reggiano.

In fondo, in quel fazzoletto di campagne, fra Mantova e Reggio Emilia, c'è sì il confine di due Regioni, ma fra i loro due paesi, addormentati sulla stessa riva, Luzzara e Suzzara, così simili anche nel nome, non c'è nemmeno il grande fiume Po a dividere destino e terra. 

E invece, ormai la cesura fra fazioni era netta. Bains e i fratelli Singh litigavano spesso: questo dicono le prime testimonianze di colleghi ed amici. Sono i Singh ad aver aggredito e ucciso Bains. Lo hanno fatto a mani nude, fra colpi, calci, pugni e botte, utilizzando forse anche dei dischetti di metallo e una pala.

Era lunedì pomeriggio, alla fine del turno di lavoro. Hanno atteso che Bains fosse lontano da tutti, poi hanno agito. Un agguato in piena regola, su cui gli inquirenti stanno ancora indagando nei dettagli, scavando nel passato degli operai. 

Pare che i fratelli volessero da tempo far entrare in azienda un loro amico, forse un loro parente. La dinamica e la cronaca appaiono sempre più chiare, sia ai carabinieri del nucleo investigativo di Guastalla, sia alla procura di Reggio Emilia. 

La telefonata al 118 è stata repentina: a comporre il numero, poco dopo le 16.30, sono stati alcuni colleghi che hanno assistito a quella che poteva sembrare una rissa scoppiata per un diverbio e che, però, era in realtà un commando a senso unico.

Quando i carabinieri sono arrivati, Bains era ancora cosciente, ma molto grave, mentre i fratelli erano lì, in piedi, armati della loro rabbia e dei loro pugni insanguinati, come una pistola fumante sulla cena.

Mentre Bains spirava per le ferite sull'ambulanza, loro venivano arrestati in flagranza per omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi, così come disposto dal pm Giacomo Forte.

Intanto, il sindaco di Luzzara Elisabetta Sottili, oltre a esprimere sconcerto per l'accaduto, si dice pronta ad avviare con le ditte della zona e con i sindacati un confronto per capire se ci siano realmente «clan» di indiani che si spartiscono o contendono i posti di lavoro: «Siamo pronti a discuterne per vedere se strutturarci meglio». 

Ravenna, morti sul lavoro: muratore di 52 anni cade da impalcatura e muore. La Repubblica il 06 febbraio 2022.

La vittima è Vasile Burcut. L'incidente risale a venerdì, ma la notizia si è diffusa solo nelle ultime ore. Il Pm ha contestualmente aperto un fascicolo per omicidio colposo.  

Un muratore di origine romena di 52 anni, Vasile Burcut, è morto in seguito a un infortunio sul lavoro verificatosi in un cantiere edile di via Carso a Ravenna. L'incidente risale alle 15 circa di venerdì scorso, ma la notizia si è diffusa solo nelle ultime ore. Sul posto oltre agli operatori del 118, sono intervenuti anche gli ispettori della Medicina del Lavoro dell'Ausl, i carabinieri della Stazione principale della città romagnola e il Pm di turno Lucrezia Ciriello. 

L'area è stata sottoposta a sequestro per tutti i rilievi del caso. Il Pm ha contestualmente aperto un fascicolo per omicidio colposo e ha disposto l'autopsia in ragione della quale una persona è stata raggiunta da avviso di garanzia. Secondo quanto finora riscontrato, il muratore stava lavorando assieme ad alcuni colleghi alla riqualificazione di tre appartamenti all'interno di uno stabile quando, per cause ancora al vaglio, è precipitato da uno dei livelli (forse il terzo) dei ponteggi, cadendo al suolo dopo un volo di 4-5 metri almeno. Al momento non sono state riscontrare palesi violazioni legate alla caduta dell'uomo.

Incidenti sul lavoro, morto l'operaio travolto da una piattaforma in un condominio di Lissone: aveva 50 anni. Luca Blondi era stato trasportato in ospedale già in gravissime condizioni: è morto un'ora dopo il suo arrivo. La Repubblica il 4 Febbraio 2022.  

Non ce l'ha fatta Luca Blondi, l'operaio di 50 anni di Osnago rimasto gravemente ferito ieri, giovedì, in un cantiere di un condominio a Lissone, in provincia di Monza e Brianza. L'operaio, che di professione faceva il giardiniere, era rimasto travolto e schiacciato da una piattaforma elevatrice collegata a una impalcatura mentre era al lavoro nel giardino di un cantiere in via Torricelli ed era stato trasportato già in arresto cardiocircolatorio al San Gerardo di Monza dove è deceduto dopo circa un'ora dal suo arrivo.

Morti sul lavoro: non sono numeri ma persone. Le storie. Si susseguono le storie di uomini e donne che trovano la morte sul posto di lavoro. L'appello di un operaio: «Non sono numeri, ma sono persone. Non dimentichiamolo mai». ALESSIA ARCOLACI su Vanity Fair il 30 gennaio 2022.

L'ultima vittima del lavoro è Francesco Brenda, 51 anni, operaio di un'impresa edilizia a Nave, località del comune di Bibbiena, in provincia di Arezzo. La mattina del 25 gennaio, l'uomo è rimasto incastrato in una tramoggia, una delle macchine a forma di imbuto utilizzate per il passaggio dei materiali. È morto poco dopo l'arrivo dei soccorsi. «Ogni morte ci pone davanti tanti interrogativi come uomini», ha commentato Filippo Vagnoli, sindaco di Bibbiena. «Le morti sui luoghi di lavoro ci pongono interrogativi ancora più grandi anche come istituzione. Oggi è un giorno di lutto per tutta la nostra comunità. È un giorno di silenzio e di rispetto dovuti a chi è stato coinvolto in tutto questo e soprattutto alla famiglia a cui va tutto il nostro affetto e il nostro calore umano».

Le storie come quella di Francesco Brenda, sposato e padre di due figli, si susseguono. Ogni giorno si registrano in Italia incidenti sul lavoro: secondo gli ultimi dati Inail disponibili, aggiornati a dicembre 2021, le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto tra gennaio e novembre 2021 sono state 502.458 (+2,1% rispetto allo stesso periodo del 2020), 1.116 delle quali con esito mortale.

Prima di Francesco Brenda c'era stato Lorenzo Parelli, 18 anni, morto a Lauzacco, in provincia di Udine, l'ultimo giorno di stage all'interno del programma di alternanza scuola - lavoro. Secondo le ricostruzioni, è stato colpito da una putrella che gli è caduta addosso mentre svolgeva un intervento di carpenteria metallica. Il giorno successivo, vicino Roma, a Santa Procula, frazione del comune di Pomezia, un altro operaio, 64 anni, ha perso la vita dopo essere caduto dal tetto di una cella frigorifera in allestimento. Nelle stesse ore, alla storica stamperia Silca di Busano, in provincia di Torino, un uomo è morto mentre lavorava a una sabbiatrice.  La procura di Ivrea ha aperto un fascicolo per omicidio colposo.

«Troppo spesso si parla di fredde statistiche davanti alle tante, troppe morti sul lavoro che ci sono ogni giorno in Italia, che distruggono le famiglie e le gettano nel dolore più assoluto», sottolinea Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a Firenze. «Non sono numeri, ma sono persone. Non dimentichiamolo mai, almeno per rispetto alle vittime del lavoro».

Le storie delle vittime sul lavoro del mese di gennaio

5 gennaio 2022. Andrea Soligo, operaio di 25 anni, stamani é morto sul lavoro, per essere caduto da una scala da un'altezza di 4 metri, alla Fen Impianti di Tezze sul Brenta. Lascia moglie e due figli piccoli.

9 gennaio 2022. Vittorio Quaglia, agricoltore di 39 anni, é morto sul lavoro, schiacciato dal trattore a Mafalda.

10 gennaio 2022.  Luigi Rinaldi, operaio di 63 anni, é morto sul lavoro, schiacciato oggi pomeriggio dalla benna di un escavatore in un cantiere a Novate Milanese.

11 gennaio 2022. Stefano Anastasio, operaio di 50 anni é morto sul lavoro, schiacciato da una cabina di un escavatore, in un cantiere di Besana Brianza, in provincia di Monza. Lascia moglie e due figli.

12 gennaio 2022. Luciano Berruto, operaio di 56 anni, é morto sul lavoro precipitando a terra da un'altezza di circa quattro metri, da una scala sulla quale stava lavorando, per sistemare la canna fumaria di un appartamento di una palazzina nei pressi del lungomare di Porto Recanati.

12 gennaio 2022. Pietro Mura, operaio di 59 anni, é morto sul lavoro schiacciato da un camion, mentre eseguiva dei lavori di espurgo per un condominio a Nocera Inferiore.

14 gennaio 2022. Christian Marchesini, meccanico di 38 anni, é morto sul lavoro schiacciato da un camion che stava riparando, durante il cambio di una gomma a Frosinone. Lascia 3 figli.

18 gennaio 2022. Salvatore Franco, operaio forestale di 61 anni é morto sul lavoro a Randazzo. Secondo i primi accertamenti, sarebbe scivolato, forse per il cedimento di una zona di terreno scoscesa, mentre stava per riparare un'apparecchiatura.

18 gennaio 2022. Francesco Corso, operaio di 57 anni, é morto sul lavoro, folgorato, durante i lavori per la realizzazione di una villetta.

21 gennaio 2022. Lorenzo Parelli, studente di soli 18 anni, é morto sul lavoro al suo ultimo giorno di stage (per l'alternanza scuola lavoro) in un'azienda di costruzioni metalliche a Pavia di Udine. Una trave di acciaio di 150 kg l'ha travolto, uccidendolo sul colpo.

21 gennaio 2022. Salvatore Mongiardo, operaio di 64 anni, é morto sul colpo, per essere precipitato da un'altezza di circa 5 metri, mentre si trovava sul tetto di una cella frigorifera, per sistemare la disposizione dei cavi elettrici in un capannone industriale a Santa Procula, vicino Pomezia.

22 gennaio 2022. Vincenzo Pignone, operaio di 58 anni, é morto sul lavoro per essere caduto in una sabbiatrice nell'azienda Silca, a Busano in provincia di Torino.Lascia moglie e due figli.

23 gennaio 2022. Alessandro Marcelli, 58 anni, direttore dell'impianto sciistico di Lorica, e' morto sul lavoro, schiacciato da una cabina, mentre si trovava a valle per effettuare delle verifiche alla cabinovia. Lascia moglie e due figli.

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Operaio morto a Torino, schiacciato da cestello elevatore. Era stato assunto solo tre settimane fa.  Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera 26 gennaio 2022.

Era impegnato in un intervento all’istituto scolastico Maria Consolatrice in via Caprera.

Salgono a due le vittime sul lavoro dall’inizio dell’anno nel Torinese. L’ultimo infortunio mortale si è verificato questo pomeriggio – 26 gennaio - in via Caprera, nel quartiere Santa Rita. La vittima è un operaio brasiliano di 43 anni, assunto solo tre settimane fa da una ditta di Milano (città nella quale risiedeva).

L’incidente è avvenuto all’interno di un cantiere edile aperto nell’istituto scolastico Maria Consolatrice. Secondo una prima ricostruzione, l’operaio stava effettuando la manutenzione del tetto e sarebbe rimasto schiacciato tra il cestello del ragno, che lui stesso guidava, e il solaio. Immediati i soccorsi, ma per l’uomo non c’è stato nulla da fare. Sono intervenuti i vigili del fuoco, i carabinieri, gli ispettori dello Spresal dell’Asl.

La procura ha aperto un’inchiesta: al momento la dinamica è da chiarire. «La Fillea-Cgil di Torino e la Feneal-Uil Piemonte - si legge in una nota - si uniscono al cordoglio dei familiari per la perdita che li ha colpiti e si rendono disponibili ad offrire sostegno sindacale e legale alla famiglia. Ribadiscono la necessità di intervenire urgentemente e risolutamente, sia nell’applicazione delle norme esistenti che nel controllo dei luoghi di lavoro da parte degli organi ispettivi».

Incidente sul lavoro, Maurizio Geroso incastrato nell’elevatore: operaio vercellese morto a 57 anni. Ilaria Minucci il 28/01/2022 su Notizie.it.

Incidente sul lavoro a Milano, l’operaio vercellese Maurizio Geroso è morto a 57 anni dopo essere rimasto incastrato nell’elevatore.

Un drammatico incidente sul lavoro è avvenuto a Milano e ha causato la morte di un operaio vercellese di 57 anni, identificato come Maurizio Geroso. L’uomo è rimasto incastrato tra lo stipite di una porta e l’elevatore sul quale si trovava.

Incidente sul lavoro, Maurizio Geroso incastrato nell’elevatore: operaio vercellese morto a 57 anni

Nella mattinata di venerdì 28 gennaio, Maurizio Geroso, 57 anni, è morto dopo essere rimasto incastrato tra il cestello dell’elevatore sul quale si trovava e lo stipite di una porta mentre lavorava in un cantiere edile della Enrico Colombo SpA, situato presso il civico 1 di via Ambrogio Spinola, in zona City Life a Milano.

In seguito al drammatico episodio che rappresenta l’ennesimo caso di morte sul lavoro in Italia, la Questura ha aperto un’inchiesta e ha ricostruito la dinamica dell’incidente.

A quanto si apprende, pare che il 57enne, che lavorava presso l’azienda Enrico Colombo SpA con sede principale a Sesto Calende, sia rimasto incastrato nell’elevatore che stava impiegando.

Con la sua morte, Maurizio Geroso lascia la moglie.

Arrivo dei soccorritori e trasferimento in ospedale: disposta autopsia

Sul luogo del drammatico evento, si sono recati gli agenti di polizia, gli uomini della Scientifica che hanno effettuato i rilievi e i soccorritori del 118.

I paramedici hanno tentato di stabilizzare l’uomo che è stato trasportato in ospedale in codice rosso: nonostante gli sforzi dei medici, tuttavia, Maurizio Geroso è morto poco dopo l’arrivo presso la struttura sanitaria.

Al momento, la salma dell’operaio di Vercelli è stata posta sotto sequestro in attesa che venga effettuata l’autopsia, disposta dalla pm Daniela Bartolucci che si sta occupando delle indagini. In merito al tragico accaduto, infatti, è stato aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti.

Marco Colombo, CEO della ditta, ricorda Maurizio Geroso

La prematura e improvvisa scomparsa dell’operaio Maurizio Geroso è stata commentata dal consigliere regionale della Lombardia in quota Lega nonché CEO della società per la quale il 57enne lavorava, Marco Colombo, che ha dichiarato: “Era una bella persona. Gli piaceva lavorare e scherzare con i colleghi. Qualche giorno fa aveva anche portato del riso per tutti, fiero delle tradizioni culinarie della sua terra”.

Il lavoratore aveva 52 anni. Stritolato nella tramoggia, operaio muore incastrato nel macchinario in azienda: “Era un lavoratore esperto”. Vito Califano su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Altra tragedia sul lavoro, stamattina, in un impianto di produzione di materiale per edilizia. Un operaio di 52 anni è rimasto incastrato in una tramoggia. Si chiamava Francesco Brenda, era residente in Casentino. Lascia la moglie e due figli. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e i carabinieri. Indagano sull’incidente mortale i militari.

L’uomo lavorava nell’azienda, dove si lavorano i calcestruzzi, in località Nave a Bibbiena in provincia di Arezzo. Secondo una prima ricostruzione riportata dall’Ansa l’operaio sarebbe caduto per cause da accertare in quello che tecnicamente si chiama frantoio per materiali inerti, macchinario utilizzato per preparare il calcestruzzo e per lui non ci sarebbe stato niente da fare. Sul posto sono intervenuti – oltre ai soccorritori, per i quali ormai non c’era niente da fare – anche i tecnici del lavoro per gli accertamenti.

L’uomo era conosciuto e stimato, abitava in zona, aveva sempre lavorato per la ditta Mariotti Calcestruzzi. Un operaio di grande esperienza, in azienda dagli anni 90 come scrive La Nazione. Le indagini dovranno chiarire quale evento ha causato la caduta dell’uomo nel macchinario. L’incidente si è verificato intorno alle 10:00. La tramoggia è una sorta di imbuto nella quale vengono smaltiti gli scarti di produzione. Troppo gravi le ferite riportate dal 52enne. I soccorritori non hanno potuto nulla. Sconvolti i colleghi e i vertici dell’azienda.

“Ogni morte ci pone davanti tanti interrogativi come uomini. Le morti sui luoghi di lavoro ci pongono interrogativi più grandi anche come istituzione. Oggi è un giorno di lutto per tutta la nostra comunità. È un giorno di silenzio e di rispetto dovuti a chi è stato coinvolto in tutto questo, alla famiglia a cui va tutto il nostro affetto e il nostro calore umano – il cordoglio del sindaco di Bibbiena Filippo Vagnoli – Un momento di dolore e di riflessione per tutta la nostra comunità. Era operaio esperto e conosciuto da tutti, la sua morte ci lascia senza parole”.

Altro incidente grave si è verificato all’Argentario in provincia di Grosseto, sempre in Toscana. Un operaio è rimasto ferito dopo esser caduto da un’impalcatura alta almeno due metri ad Ansedonia, comune di Orbetello. L’uomo ha 40 anni ed è stato trasportato all’ospedale della Misericordia di Grosseto dove versa in condizioni critiche ma non in pericolo di vita. Sul posto, oltre ai soccorritori sono intervenuti i tecnici del dipartimento di prevenzione igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro dell’Asl Toscana Sud che stanno cercando di ricostruire la dinamica esatta dell’incidente e rilevare eventuali responsabilità.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Morte Luana D'Orazio, dall'Inail 166 mila euro al figlio per la morte in fabbrica della ragazza. È quanto avrebbe calcolato l'Istituto, in base alle sue tabelle. Il risarcimento dell'assicurazione dell'azienda è invece in fase di calcolo. su La Repubblica il 21 gennaio 2022.  

Ai parenti di Luana D'Orazio, la giovane operaia morta il 3 maggio scorso in un'incidente sul lavoro nell'azienda tessile in cui lavorava a Montemurlo (Prato), spettano 166mila euro di indennizzo da parte dell'Inail. È quanto ha calcolato l'Istituto, in base alle sue tabelle.

La somma del risarcimento dell'Inail dovrebbe avere come solo beneficiario il figlio di Luana, che ora ha 6 anni. Il bambino percepirà la somma non tutta insieme ma nel corso del tempo, fino alla maggiore età o, se dovesse proseguire gli studi, fino ai 26 anni di età. Nella fase della sua minore età il risarcimento, via via che viene erogato, verrà amministrato dai tutori, che risultano essere i nonni materni. Il risarcimento dell'assicurazione dell'azienda è invece in fase di calcolo.

Lo scorso dicembre la procura di Prato aveva chiesto il processo per Luana Coppini, titolare dell'azienda, per il marito Daniele Faggi, che l'accusa considera titolare di fatto dell'azienda, e per il tecnico manutentore esterno della ditta, Mario Cusimano. I reati di cui dovranno rispondere sono quelli di omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele anti-infortunistiche, fattispecie contestata per le modifiche tecniche apportate ai sistemi di sicurezza di cui il macchinario che ha ucciso la ragazza, un orditoio da campionatura, è dotato. 

Il processo si aprirà il 7 aprile. Coppini ha fatto sapere di aver scritto una lettera all'assicurazione dell'azienda, che ancora non si è espressa sul risarcimento ai familiari della vittima, chiedendo che i familiari della vittima vengano risarciti prima possibile.

La perizia eseguita dal consulente della procura sostiene che l'operaia di 22 anni sia morta dopo essere stata trascinata nell'orditoio a cui lavorava da una staffa: in quel momento - sempre secondo lo studio - il macchinario stava viaggiando a velocità massima: si chiama fase 'lepre', la più pericolosa, quella in cui le saracinesche di sicurezza dovrebbero essere attivate.

La morte di Luana aveva suscitato la reazione di molte delle cariche istituzionali italiane - compresi i presidenti dela Repubblica e del Consiglio Sergio Mattarella e Mario Draghi - oltre a scuotere le coscienze dell'opinione pubblica sul tema della sicurezza sul lavoro.

Morte di Luana d'Orazio, la famiglia accusa: "La proprietà della fabbrica ostacola il risarcimento dell'assicurazione". Ernesto Ferrara su La Repubblica il 22 gennaio 2022.  

I legali: "Non ci rivelano il massimale della polizza, pretendono prima una nostra richiesta". Intanto dall'Inail 166 mila euro per iL figlio dell'operaia uccisa da un macchinario.  

L'Inail ha riconosciuto ai familiari di Luana D'Orazio, l'operaia morta il 3 maggio scorso in un incidente nell'azienda tessile in cui lavorava a Montemurlo, un indennizzo di 166 mila euro. Lo percepirà il figlio, che oggi ha 6 anni. Ma secondo la società Gesi Group, a cui la famiglia della ragazza ha affidato la consulenza legale, il risarcimento vero e proprio è ancora bloccato per colpa della proprietà della fabbrica e della sua assicurazione: "Da mesi continuano a non dirci qual è il massimale della loro polizza assicurativa e non possiamo formulare le nostre richieste" tuona il presidente Andrea Rubini. 

Anticipazione da “Oggi” il 19 gennaio 2022.

«Non cerco attenuanti, né sconti e voglio che la giustizia faccia il suo corso. L’unico mio scopo è cercare di aiutare in qualche modo la famiglia di quella ragazza, che per me era molto più di un’operaia», dice al settimanale OGGI in edicola da domani Luana Coppini, titolare dell’azienda tessile di Montemurlo (Prato), dove il 3 maggio dello scorso anno Luana D’Orazio, 22 anni, mamma di un bimbo di 6 anni, fu inghiottita da un macchinario la cui protezione era stata disattivata e morì tra gli ingranaggi. 

L’imprenditrice ha scritto una lettera all’assicurazione ammettendo le sue responsabilità nella tragedia e ha chiesto di risarcire al più presto la famiglia dell’operaia. 

Luana Coppini, accusata di omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele infortunistiche, assieme al marito e al manutentore esterno, parla per la prima volta alla stampa e, anche se nega di aver saputo della disattivazione del sistema di sicurezza, ammette: «Avrei dovuto vigilare di più. 

Lavoro anch’io davanti alle macchine in un altro reparto. Dovevo essere più presente anche in quello dove lavorava lei. Siamo una piccola azienda, avrei potuto». 

E aggiunge: «Quello che sto facendo per me è estremamente doloroso, ma è l’unico modo per fare qualcosa per Luana e per suo figlio».

La madre di Luana d’Orazio e il no al risarcimento da 1,1 milioni: «Il dolore non si quantifica». Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Intervista a Emma Marrazzo, madre della 22enne morta a causa di un macchinario tessile: «Mia figlia è stata ammazzata sul lavoro perché non è stato fatto quello che si doveva fare»

La mamma di Luana d’Orazio, l’operaia di 22 anni madre di un bambino morta lo scorso anno a Prato inghiottita da un macchinario tessile, le parole «soldi» e «risarcimento» non le vuole neppure ascoltare. E se le chiediamo che cosa ne pensa di quel milione e 100 mila euro offerto dalla compagnia di assicurazione della fabbrica tessile dove lavorava la figlia ma rifiutato dai legali della famiglia della vittima perché i danni provocati sono ancora da quantificare, risponde di rivolgersi ad altri, di chiamare i suoi consulenti, gli avvocati, i tecnici. «Perché questa storia di denaro sbandierato ai quattro venti come se la morte di mia figlia avesse un prezzo mi fa stare male — spiega Emma Marrazzo, la madre di Luana —. Il dolore non si quantifica e non si mercifica e comunque queste cose vanno fatte nelle sedi opportune e segna gettarmele addosso, perché per me sono pugnalate al cuore».

Lei pensa che sia una strategia della difesa di chi è accusato della morte di sua figlia?

«Tra poco più di un mese, il 3 maggio, sarà un anno che piango Luana. E il 7 aprile si aprirà a Prato il processo con i tre imputati (la titolare dell’azienda tessile Luana Coppini, il marito Daniele Faggi e l’addetto alla manutenzione delle macchine, Mario Cusimano, ndr). E allora se queste persone vogliono preparare strategie di difesa lo facciano in silenzio senza tormentare me e la mia famiglia. Non si può giocare con la vita di una famiglia colpita duramente da una tragedia. Io sto vivendo un calvario infinito ma il mio dolore non viene rispettato».

La titolare dell’orditoio dove è morta sua figlia ha detto che non sapeva che il macchinario aveva il sistema di sicurezza disattivato. Che cosa ne pensa?

«Sento sempre la solita musica. Hai voglia a dire che quello non è stato, che quell’altro non c’entra. La verità è che responsabilità sulla morta di mia figlia le hanno tutti e tre gli imputati e questo è inequivocabile. Allora una domanda la faccio anch’io. Chi è stato a manomettere i sistemi di sicurezza della macchina che ha ucciso mia figlia? È stato un fantasma? E allora se è così organizziamo una squadra di ghostbuster. Ma al di là di questa amara ironia io ho una consapevolezza».

Quale signora Emma?

«Mia figlia non è morta sul lavoro, non è stato un incidente fortuito è stata ammazzata sul lavoro perché non è stato fatto quello che si doveva fare e io adesso non so se queste persone hanno ancora una coscienza. Esiste il diritto di difendersi ma so anche che stavolta gli imputati sono indifendibili. Poi tutte queste loro affermazioni al di fuori dal processo mi fanno stare ancora più male. Per quale motivo lo fanno? Credo che avrebbero fatto meglio ad ammettere le proprie responsabilità».

L’hanno mai contattata, si sono mai scusati?

«No, ma io non ho spirito di vendetta. Ho solo due grandi desideri».

Ce li può svelare?

«Che sia fatta giustizia e che non ci siano più morti sul lavoro. Luana era la 185esima vittima del terribile elenco stilato sino al 3 maggio del 2021, giorno della tragedia e, ironia della sorte, data del mio compleanno. Quando Luana è stata uccisa si è parlato tanto e si è promesso di più per evitare questa strage. A dicembre i lavoratori morti sono saliti a 1.003. Non è stato fatto niente, solo chiacchiere».

E lei sta combattendo contro tutto questo. Come?

«Non ho fondato associazioni faccio solo la testimone. Vado dove mi chiamano per cercare di smuovere le acque, cerco di sensibilizzare la gente. A volte altre mamme come me mi ringraziano e io ringrazio loro. Combattiamo insieme per la memoria dei nostri figli e per salvare quei figli e non solo loro che spesso lavorano nel pericolo e con poche tutele».

Da Ansa il 17 giugno 2022.

Prosegue la battaglia legale per la patria potestà del figlio, che oggi ha sei anni, della giovane Luana D'Orazio, l'operaia 22enne stritolata dall'orditoio a cui era addetta il 3 maggio del 2021 a Montemurlo (Prato), adesso affidato temporaneamente ai nonni materni. Ieri si è tenuta una nuova udienza di fronte al tribunale dei Minori di Firenze. In discussione, come riporta oggi La Nazione, c'è il mantenimento della patria potestà da parte di Giuseppe Le Rose, padre del bambino. 

A chiederne la revoca sono stati i nonni materni del piccolo pochi giorni dopo l'incidente mortale avvenuto alla loro figlia. Le Rose si è opposto alla revoca, tramite l'avvocato Sirianni, sostenendo la sua volontà di non rinunciare a mantenere un rapporto con il bimbo. "Abbiamo rappresentato le nostre ragioni - commenta il legale che assiste Le Rose -. Ieri era il termine ultimo per depositare le memorie. Siamo in attesa della decisione del tribunale dei minori che si dovrà riunire in sede collegiale".

Allo stesso tempo, è in corso un altro procedimento di fronte al giudice tutelare del tribunale di Pistoia che, dopo la morte di Luana, ha affidato in via temporanea la cura del piccolo al nonno materno. "Voglio occuparmi di mio figlio. Purtroppo in questi mesi mi è stato negata la possibilità di vederlo o soltanto parlargli al telefono ma io voglio fare il padre come mi spetta".

E' stato l'appello che Le Rose ha fatto di fronte al giudici del tribunale dei minori collegato in video dalla sua casa in Calabria. Intanto non è ancora stato trovato un accordo fra l'assicurazione dell'Orditura srl, l'azienda di Montemurlo dove è morta Luana, e gli avvocati della famiglia della ragazza sul risarcimento, del valore complessivo di 1,1 milioni di euro, giudicato "incongruo".

Marco Gasperetti per corriere.it il 27 Ottobre 2022.  

La tragica fine di Luana D’Orazio, l’operaia 22enne stritolata dall’orditoio a cui lavorava all’interno di un’azienda tessile di Prato, potrebbe risolversi giudizialmente con un patteggiamento a due anni per i principali imputati della vicenda: i coniugi Luana Coppini e Daniele Faggi, rispettivamente titolari di diritto e di fatto dell’azienda in cui è avvenuto l’incidente mortale. 

Questa mattina procura di Prato ha accolto infatti la richiesta avanzata dalle parti di accesso al procedimento penale speciale. Per cui ora si attende solo il «placet» del gup Francesca Scarlatti, che — salvo sorprese (ovvero, salva la possibilità di mandare le parti comunque a processo) — dovrebbe «ratificare» l’entità della pena accordata questo pomeriggio alle 15. Una decisione che non mancherà di sollevare polemiche. Laconico il primo commento della madre di Luana, Emma Marrazzo: «Il pm non ha figli».           

Luana morì il 3 maggio 2021, impigliata nel macchinario che stava utilizzando, il quale — come sostiene la perizia del consulente della procura — in quel momento aveva le barriere antinfortunistica disattivate. Una vicenda che sconvolse l’intero Paese, anche in ragione dell’età dell’operaia coinvolta nell’ennesimo incidente sul lavoro e del fatto che fosse madre di un bambino piccolo.

Giorgio Bernardini per ANSA il 27 Ottobre 2022.

Trova un punto fermo la vicenda di Luana D'Orazio, la 22 enne morta sul lavoro a Montemurlo, in provincia di Prato, mentre era impegnata a una macchina tessile. Ci sono da oggi una condanna a 2 anni di reclusione per Luana Coppini, titolare dell'azienda in cui è avvenuto l'incidente mortale il 3 maggio 2021, e un'altra a 1 anno e 6 mesi per il marito Daniele Faggi, considerato dagli inquirenti il titolare di fatto della stessa ditta. Sono entrambe condanne patteggiate. 

Il giudice per l'udienza preliminare Francesca Scarlatti ha accolto il patteggiamento su cui hanno concordato la pubblica accusa e gli avvocati difensori dei due imputati (su tre) accusati della morte della giovane madre e operaia. Per entrambi c'è la sospensione condizionale. "Speravo in una pena più giusta", sono "molto delusa", ha spiegato all'uscita dall'udienza la mamma di Luana D'Orazio, Emma Marrazzo. Che ha aggiunto: "Andremo avanti per la nostra strada.

Mi dicevano tutti: 'tanto nel mondo del lavoro non cambia niente, cosa vuoi cambiare?' Forse avevano ragione…Aspettavo un po' più di rispetto, qualcosa in più. Ho sempre detto no alla vendetta, volevo stoppare le morti sul lavoro ma ne avvengono ancora tante. Penso che le persone potranno commentare questa sentenza, non sarò io a farlo". 

"Si tratta di una sentenza molto celere - ha detto invece l'avvocato Alberto Rocca, che difende assieme a Barbara Mercuri i due imputati che hanno patteggiato - che si poggia su due pilastri: non è affatto scandalosa, come pure ho sentito dire sui social, ma giusta". La proposta di patteggiamento della difesa dei due imputati ha trovato l'assenso della procura, che ha posto come condizione l'effettivo pagamento del risarcimento assicurativo stabilito in circa di 1 milione di euro, aspetto che è sembrato pesare sul 'via libera' al patteggiamento stesso.

Il legale della famiglia D'Orazio, avvocato Daniela Fontaneto, ha annunciato che proverà a far alzare il risarcimento passando per "un distinto procedimento civile". L'azienda è stata inoltre condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria che ammonta a 10.300 euro. "Accogliamo la sentenza con l'amaro in bocca per le modalità dell'infortunio dato che nel capo d'imputazione - commenta l'avvocato Fontaneto - si legge di manomissioni e di un comportamento da parte dei titolari che non fatico a definire scellerato.

È stata data in mano a Luana una pistola carica senza sicura". Per loro, Laura Coppini e Daniele Faggi la vicenda, drammatica, trova un epilogo. Nella stessa udienza, invece, la giudice ha deciso di rinviare a giudizio il terzo imputato, il manutentore Mario Cusimano, che affronterà un processo con rito ordinario per le accuse di omicidio colposo e rimozione dolosa di cautele antinfortunistiche, con questo secondo reato si fa riferimento alla saracinesca che avrebbe dovuto impedire all'operaia di entrare in contatto con il macchinario. Sono le stesse accuse contestate agli imputati che hanno patteggiato.

La prima udienza è fissata per il 13 dicembre. Le indagini della procura di Prato sulla morte della giovane, madre di un bambino che oggi ha 6 anni, si erano concentrate da subito sugli accertamenti tecnici, sulla meccanica che ha portato al trascinamento dell'operaia, assunta come apprendista, negli ingranaggi del macchinario. 

In particolare, la perizia di un consulente della procura aveva individuato nella rimozione della saracinesca di sicurezza dell'orditoio, uno sbarramento che in teoria deve ostacolare eventuali cadute degli addetti dentro la macchina tessile, la causa principale dell'incidente. Per questo le accuse sono state rivolte ai coniugi titolari della ditta e al tecnico che secondo le ricostruzioni avrebbe materialmente disattivato il dispositivo di sicurezza per loro conto.

La memoria di Lorenzo Parelli contro il lavoro insicuro: perché è lui la persona dell’anno per L’Espresso. Il suo nome rappresenta il fallimento di una società precaria che non è riuscita a proteggere un giovane. Di una scuola che è costretta a formare gli studenti in luoghi pericolosi. Di un mondo produttivo che continua a mietere vittime. Lirio Abbate su L’Espresso il 14 dicembre 2022.

La persona dell’anno è Lorenzo. Il nome che tutti dovremmo ricordare perché rappresenta il fallimento di una società precaria che non è riuscita a proteggere un giovane. Di una scuola che è costretta a formare gli studenti in luoghi non sempre sicuri. Del mondo del lavoro che continua a mietere vittime.

Lorenzo Parelli è lo studente diciottenne che il 21 gennaio è rimasto schiacciato da una pesante trave d’acciaio, proprio l’ultimo giorno di stage nella ditta dove svolgeva il tirocinio previsto dal suo corso di studi. Frequentava il quarto anno del Centro di formazione professionale dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine. Imparava il mestiere di manutentore di macchine a controllo numerico ed era entrato nel sistema duale, basato sull’alternarsi di un bimestre di pratica e uno di lezioni.

La figura di questo ragazzo ci mostra i fattori sociali, formativi ed economici che hanno connotato il 2022. Un tempo caratterizzato dal prezzo pagato alla pandemia dagli adolescenti. Una fascia in età scolare che ha l’eredità più pesante, quella di crearsi un futuro e fare scelte lungimiranti per assicurarsi una solida prospettiva lavorativa.

Lorenzo custodisce tutto ciò. Ed è guardando a questo ragazzo che vediamo la condizione degli studenti, quella della scuola, e lo stato della sicurezza sui luoghi di lavoro per apprendisti e operai.

Come ha detto il presidente Sergio Mattarella, ricordando Lorenzo, «il valore del lavoro, per i giovani, e per chiunque, non può essere associato al rischio, alla dimensione della morte. La sicurezza sul lavoro si trova alle fondamenta della sicurezza sociale, cioè del valore fondante di una società contemporanea». La scuola ha il compito di formare la comunità e costruire il futuro del Paese. Occorre qualificare le professionalità e far progredire la collettività. Ma è anche il caso di ricordare che purtroppo le morti sul lavoro sono sempre una costante drammatica e accanto a questo doloroso dato continuiamo a registrare pure il lavoro irregolare, che talvolta varca il limite dello sfruttamento.

Dopo Lorenzo anche altri ragazzi sono stati vittime del lavoro nel 2022, studenti deceduti durante i percorsi di formazione: Giuseppe Lenoci, di 16 anni, che ha perso la vita quando il furgone della ditta di Fermo per cui stava svolgendo lo stage si è schiantato contro un albero, lungo una strada di campagna stretta e mal asfaltata della provincia di Ancona; Giuliano De Seta, 18 anni, che è stato schiacciato da un parallelepipedo di acciaio, all’interno di una piccola azienda della zona industriale di Noventa di Piave, vicino a Venezia. Storie che stringono il cuore, che non possono essere cancellate o dimenticate e lasciate solo al dolore delle loro famiglie. A noi spetta il compito di stimolare la memoria, di accendere i riflettori mediatici, illuminare i fatti e i volti che il tempo inesorabile conduce ad accantonare. Non possiamo permettere che cali l’oblio.

Dalla tragedia di Lorenzo è trascorso quasi un anno. E non si può dimenticare. Il capo dello Stato lo ha ricordato a febbraio nel suo discorso di insediamento, quando ha voluto inviare una carezza a una famiglia e a una comunità distrutte dal dolore. Una carezza che è diventata monito, soprattutto per azzerare le morti sul lavoro. E poi quel nome, Lorenzo, scandendolo, migliaia di studenti sono scesi in piazza da Torino a Trieste, da Milano a Roma, e in ogni parte d’Italia hanno sfilato in cortei (pacifici), perché quel nome è diventato un riferimento per un forte impegno sulla sicurezza. Un simbolo per gli studenti. E in nome di Lorenzo il futuro deve puntare ad azzerare le morti bianche. A evitare queste tragedie.

È per questo che L’Espresso ha deciso che Lorenzo - che rappresenta tutto ciò - è la persona dell’anno. E la politica, da destra a sinistra, deve attivarsi in tutte le sue forme, perché questi studenti non siano morti invano.

Lorenzo Parelli, ucciso da una trave nel suo ultimo giorno di stage. Domenico Pecile su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Lo studente di 18 anni partecipava a un progetto di alternanza scuola-lavoro. Una barra lo ha centrato alla testa. Brillante studente, voleva la patente nautica.

Mancava un’ora e mezza al termine del lavoro. Per Lorenzo Parelli, 18 anni compiuti lo scorso 17 novembre, brillante studente di meccanica al Cfp dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine, quello di ieri sarebbe dovuto essere l’ultimo giorno del suo stage nella carpenteria di laminazioni metalliche, quella dello stabilimento Burimec, a Lauzacco, periferia del capoluogo friulano. Poi sarebbe rincasato. Ad attenderlo c’erano suo padre Dino, responsabile commerciale di una compagnia ferroviaria, e la madre Maria Elena Dentesano, direttrice di una scuola per l’infanzia. Ma Lorenzo a casa non ha fatto più ritorno. Per lui l’ultima giornata di alternanza scuola-lavoro è stata anche l’ultima della sua vita. È morto, infatti, dopo le 14, schiacciato da una putrella di acciaio caduta dall’alto mentre era intento alla realizzazione di una struttura metallica. Lorenzo è rimasto a terra esanime. La barra metallica lo avrebbe colpito alla testa. Vani si sono rivelati i tentativi di rianimarlo da parte di alcuni colleghi e successivamente dei sanitari arrivati con l’elisoccorso.

Sul posto anche i carabinieri di Palmanova e il pm Elena Torresin, che ha disposto il sequestro dell’area della tragedia. Lorenzo era arrivato dunque al traguardo dello stage che prevedeva 500 ore in azienda e 500 a scuola. Aveva cominciato a lavorare alla Burimec un mese e mezzo fa. Lo aveva fatto con il solito entusiasmo, con la determinazione che tutti gli riconoscevano. Aveva anche deciso che una volta concluso l’anno scolastico, che avrebbe significato il conseguimento del diploma di meccanico, avrebbe frequentato il quinto anno che rappresenta una sorta di master.

L’istituto salesiano ricorda che lunedì il giovane sarebbe rientrato al Centro per proseguire il percorso di formazione. «Dalle visite effettuate dal tutor — dichiara ancora la direzione dell’Istituto — Lorenzo dimostrava di apprezzare l’esperienza, tanto da sognare un futuro in quell’ambito lavorativo». Appassionato per la scuola che frequentava, entusiasta per le prospettive lavorative che vedeva dispiegarsi, desideroso di un futuro pieno di soddisfazione come ricordano i suoi amici, aveva da pochi giorni riferito al padre che era sua intenzione conseguire la patente nautica, passione che aveva cominciato a coltivare la scorsa estate, anche se il suo vero «amore» era la moto che utilizzava spesso per percorrere la distanza di 18 chilometri, in questi ultimi 45 giorni, per recarsi in azienda.

La notizia della tragedia è giunta subito in Regione. Sdegno e commozione i sentimenti di tutti. Il presidente della Giunta regionale, Massimiliano Fedriga, e l’assessore regionale al Lavoro, Alessia Rosolen, in un comunicato congiunto hanno dichiarato che è «incomprensibile come ancora oggi si possano verificare episodi di questa gravità». Condanna e rabbia anche da parte di tutte le forze politiche e dai sindacati, mentre l’azienda metalmeccanica, per bocca del suo legale, Stefano Buonocore, afferma: «Stiamo ancora cercando di capire cosa sia successo. Siamo vicini alla famiglia».

Lorenzo Parelli, la rabbia della mamma: «Mio figlio, morto per uno stage». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2022.

Lorenzo Parelli, 18 anni, è morto durante uno stage di alternanza scuola-lavoro in provincia di Udine. La madre, Maria Elena Dentesano, si sfoga con il sindaco: «È inaccettabile, straziante». Il titolare dell’azienda indagato per omicidio colposo.

Castions di Strada (Udine) — «Non incolpo nessuno. Anche perché non so con esattezza cosa sia successo. Solo un fatto è certo: mio figlio è uscito per andare a scuola e non è più tornato». Sorretta dal marito Dino, è lo sfogo, pacato, che Maria Elena Dentesano affida a Ivan Petrucco, il sindaco di Castions di Strada — circa 3.7000 abitanti a una ventina di chilometri da Udine — corso qui ieri, a casa loro, «per dare conforto, per quanto possibile» a questi due genitori. Che venerdì hanno perduto il figlio diciottenne Lorenzo, studente di un istituto professionale all’ultimo giorno di uno stage di alternanza scuola-lavoro , in un incidente nello stabilimento della Burimec, azienda nella vicina Lauzacco specializzata in lavorazioni meccaniche.

Gli occhi rossi per il pianto, provata, Maria Elena, che dirige una scuola per l’infanzia, senza muovere accuse si è limitata a dire che si è trattato di «un fatto straziante, inaccettabile». Poi, con un abbraccio, ha salutato il sindaco corso via per andare al funerale di Federico Codarino, il sedicenne, sempre di Castions, morto sabato scorso ribaltandosi sulla sua moto da cross. Due tragedie in meno di una settimana, la comunità sconvolta. Lorenzo (anche lui appassionato motociclista) conosceva bene Fede, tanto che aveva detto alla mamma di voler partecipare all’ultimo saluto, ieri alle 15. Ma ventiquattr’ore prima è morto pure lui, schiacciato da quella sbarra di acciaio, di circa 150 chili, che si è staccata dal grosso macchinario usato per assemblare un’impalcatura d’acciaio di 15 metri. La pesante putrella lo ha centrato in testa senza che il casco, che pure aveva, potesse proteggerlo.

L’amministratore delegato e rappresentante legale della Burimec è indagato per omicidio colposo. Una nota della Procura diretta da Massimo Lia chiarisce che ci sono approfondimenti per individuare «eventuali ulteriori profili di responsabilità a carico di altre figure aziendali». Insomma: altri avvisi di garanzia sarebbero imminenti. I carabinieri hanno interrogato alcuni operai che hanno assistito all’incidente mentre gli ufficiali giudiziari del Dipartimento Prevenzione della Asl indagano sui due punti chiave della disgrazia: l’eventuale presenza di un «tutor» scolastico nel capannone e ciò che Lorenzo — iscritto al quarto anno del Centro di formazione professionale Bearzi, apprezzato istituto salesiano a Udine — stava facendo prima di essere colpito dalla sbarra.

Gli investigatori hanno acquisito i protocolli di ciò che don Lorenzo Teston, direttore del Cfp, preferisce chiamare «sistema duale», ovvero il progetto di alternanza scuola-lavoro ma riferito alle specificità dei professionali e non delle altre scuole secondarie. Alla domanda se un tutor del Bearzi giovedì fosse alla Burimec, don Teston risponde che «Lorenzo era monitorato». Ma non aggiunge altro.

Sulla tragedia è intervenuto anche il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi per il quale «il tirocinio deve essere un’esperienza di vita. L’incidente è inaccettabile e inaccettabile è ogni morte sul lavoro». Ma ieri ce ne sono state altre due. Una a Busano, nel Torinese: Vincenzo Pignone, operaio di 58 anni, ha perso la vita cadendo in una sabbiatrice. A Pomezia (Roma) Salvatore Mongiardo, 64, è precipitato da cinque metri mentre installava dei cavi. Ed è morto.

Udine, c’è un indagato per la morte di Lorenzo. Rosario Di Raimondo su La Repubblica il 23 Gennaio 2022.

Sotto inchiesta il titolare della fabbrica dove il giovane è morto nell’ultimo giorno di stage. La procura di Udine al lavoro per capire se i protocolli di sicurezza siano stati rispettati. I sindacati: "studenti usati come manodopera gratis". Un indagato. Ma non è finita qui. La procura di Udine ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo dopo la morte di Lorenzo Parelli, 18 anni, travolto e ucciso venerdì da una barra d’acciaio di 150 chili nello stabilimento della Burimec a Lauzacco, periferia di Udine. Mancavano due ore alla fine del suo turno e dello stage che faceva da un mese.

Udine, ultimo giorno di stage scuola-lavoro, muore schiacciato a 18 anni. Luana de Francisco su La Repubblica il 21 gennaio 2022.

A sinistra lo stabilimento Burimec di Lauzacco di Pavia di Udine, dove il 18enne Lorenzo Parelli (destra), ha perso la vita. Una putrella è caduta su Lorenzo Parelli, durante dei lavori di carpenteria metallica in una azienda meccanica. Non era ancora un lavoratore, Lorenzo Parelli. Aveva appena 18 anni, ma le idee già chiare su quale sarebbe stato il suo futuro. Era appassionato di meccanica e si era impegnato negli studi, perché voleva trovare presto un'occupazione. Ieri, quella strada, tracciata con la passione della sua giovane età, si è interrotta. E lui, che un contratto e uno stipendio ancora non li aveva, è morto come gli altri oltre mille lavoratori che hanno perso la vita nei primi dieci mesi del 2021.

Niccolò Zancan per “La Stampa” il 23 Gennaio 2022.

Gli amici passano davanti a casa e tirano al massimo i giri delle moto da cross. È un frastuono di rabbia, è un urlo d'amore. Mandano baci per Lorenzo Parelli. Sgasano e piangono. La madre, la signora Maria Elena Parelli, dice poche parole calme: «Mio figlio era sereno. Non voglio accusare nessuno, ma devono spiegarci come è potuto succedere. È ingiusto che un ragazzo di 18 anni esca per andare a scuola e non torni a casa». La processione per le condoglianze è continua. Il padre si appoggia allo stipite della porta e stringe le mani: «Troppo dolore, troppo. Non riesco a parlare. Scusate, non me la sento». Tutto intorno, campagne e capannoni sulla strada per Udine. Gli investigatori dovranno spiegare come sia potuto morire un ragazzo di 18 anni appena compiuti, uno studente, sotto una putrella d'acciaio a forma di T del peso di 150 chili.

Morto per uno stage gratuito, al quarto anno di scuola all'Istituto professionale Bearzi di Udine. Aveva iniziato a novembre, è rimasto schiacciato all'ultimo giorno di lavoro nel capannone della Burimec, a cui era stato affidato per il tirocinio. È lì che ieri pomeriggio sono andati i carabinieri per fare un sopralluogo e sequestrare urgentemente tutto quello che dovrà servire a ricostruire con la massima precisione l'accaduto: «Una tuta da lavoro blu Cnosfap Bearzi, un paio di guanti da lavoro HyFlex, occhiali da lavoro danneggiati, un paio di scarpe da lavoro marca Base». Hanno sequestrato anche il telefono di Lorenzo Parelli, rimasto sul pavimento del capannone. E messo i sigilli, circoscrivendo così il punto dell'incidente. «Sequestrato il macchinario industriale carroponte identificato con numero 12648». Gli operai e lo studente stavano lavorando alla produzione di una attrezzatura che serve al comparto siderurgico della zona.

Quel pezzo da 150 chili è caduto giù dal carroponte e ha colpito in testa lo studente Lorenzo Perelli. La procura di Udine ha aperto un'inchiesta. Queste sono le parole scritte per la stampa, nel primo pomeriggio di ieri: «In relazione ai tragici fatti occorsi venerdì 21 gennaio presso lo stabilimento della Burimec in Lauzacco, dove ha perso la vita il giovane stagista Lorenzo Parelli, la Procura ha aperto un procedimento per l'ipotesi di omicidio colposo a carico del legale rappresentante, quale datore di lavoro, tenuto conto della necessità di svolgere attività di accertamento irripetibile nelle forme garantite di legge, al fine di addivenire ad una compiuta ricostruzione della dinamica dell'infortunio mortale».

L'unico indagato per momento è il titolare dell'azienda, cioè il signor Pietro Shneider, già finito al centro di altre cronache che con questa tragedia non c'entrano niente. E comunque: nove mesi di reclusione che aveva patteggiato e poi sospesi con la condizionale, per aver pagato cene e garantito favori economici a un ufficiale della guardia di finanza. Per potere evadere le tasse. Fatti che risalgono al 2016. Né lui, né il direttore tecnico della Burimec, che ieri ha aperto il capannone per il sopralluogo dei carabinieri, hanno voluto spiegare qualcosa di più sulla dinamica dell'incidente. «Non voglio dire niente in questo momento di tragedia», dice l'uomo con le chiavi del capannone.

È la madre di Lorenzo Parelli a scrivere sulla grazia di un ragazzo di 18 anni, entusiasta di tutto. Innamorato di tutto. E anche di quello stage. «Lorenzo era un ragazzo dal carattere buono con la b maiuscola, si adoperava in famiglia e con gli amici con disponibilità e generosità senza misura, sempre pronto a organizzare ritrovi ed eventi con l'unico scopo di stare in compagnia e in allegria». Racconta della sua moto nuova, la prima moto, comprata un anno fa, dei giri con il padre e con lo zio. Del carattere dolce, della passione per la montagna: «La amava in tutte le stagioni». Vita da diciottenne. Da studente. Quarto anno di meccanica industriale. «A casa guardava serie tv, giocava ai videogiochi».

Ed è su questa vita sacrosanta da ragazzo appassionato di moto e montagna, che si sommano le parole del Novecento: «Putrella. Carroponte. Macchinario per la siderurgia». Uno di quegli amici che sfreccia in moto davanti a casa facendo si chiama Alex Pellizzari: «Era contento del suo stage. Non voglio parlare adesso, sento troppa rabbia». Anche il responsabile della scuola, don Lorenzo Teston, ritiene che non sia il tempo delle parole, a parte una specificazione: «Quello di Lorenzo Parelli era un centro di formazione professionale, che non c'entra con l'alternanza scuola lavoro. Dopo tre anni di formazione sui banchi, il quarto si faceva in azienda. Un tirocinio». Era pagato? «No, era sempre scuola, ma con uno stage in azienda».

Chi era il responsabile? «La scuola accompagna ogni studente, è un progetto regionale. Il quarto anno è così. Ogni studente viene affidato, per un certo periodo, a una determinata azienda. Viene previsto nel corso di studi». Infatti Lorenzo Parelli aveva la tuta professionale marchiata con il nome della scuola, era là per imparare. «Devono spiegarci come è potuto succedere», dice con fermezza la madre Maria Elena Parelli, che di mestiere è insegnante. Nel capannone industriale della Burimec è morto uno studente, un ragazzo di 18 anni, un figlio.

Studente muore sul lavoro. Era all'ultimo giorno di stage. Rosa Scognamiglio il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Lorenzo Parelli, uno studente di 18 anni, è morto schiacciato da una putrella mentre era al lavoro. Era al suo ultimo giorno di tirocinio presso un'azienda meccanica di Lauzacco.

Lorenzo Parelli, uno studente di 18 anni, è morto in un incidente sul lavoro avvenuto nel tardo pomeriggio di oggi in un'azienda metalmeccanica di Lauzacco (Udine). Il giovane era al suo ultimo giorno di tirocinio nell'ambito di un progetto Alternanza Scuola-Lavoro. Sulla dolorosa vicenda si è espresso anche il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi: "Incidenti come questo sono inaccettabili, come inaccettabile è ogni morte sul lavoro. Il tirocinio deve essere una esperienza di vita. Esprimo il mio più profondo cordoglio e la vicinanza alla famiglia".

La tragedia

Non sono ancora noti i dettagli dell'accaduto. Da una prima ricostruzione sembrerebbe che Lorenzo sia morto mentre era intento in un intervento di carpenteria metallica nell'azienda meccanica di Lauzacco - la Burimec - presso cui stava svolgendo un tirocinio formativo. Nello specifico, il 18enne sarebbe stato schiacciato dal peso di una putrella caduta rovinosamente sul suo corpo. L'impatto sarebbe stato violentissimo al punto da spezzargli il fiato in pochi istanti. Sul posto sono subito intervenute le forze dell'ordine che hanno circoscritto il perimetro aziendale per effettuare i rilievi del caso. Le indagini sono state affidate ai carabinieri di Palmanova e agli ispettori dell'Azienda sanitaria locale. Sul luogo della tragedia è rimasto a lungo anche il sostituto procuratore di Udine.

Chi è la vittima

Lorenzo Parelli era residente a Castions di Strada, una piccola cittadina in provincia di Udine. Studente modello, benvoluto da professori e compagni di scuola, aveva compiuto 18 anni lo scorso novembre. Era iscritto al centro di formazione professionale del Bearzi, l'istituto dei Salesiani di Udine. Da qualche mese aveva aderito al progetto di PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento) partecipando ad uno stage aziendale presso l'azienda meccanica Burimec che si occupa di realizzare bilance stradali. Una "morte bianca" che si aggiunge alle 1000 del 2021 e ricorda quella della povera Luana D'Orazio, giovane mamma morta lo scorso anno in un incidente sul lavoro.

Le reazioni

La dolorosa vicenda ha suscitato sgomento e rabbia. "La morte di un ragazzo di 18 anni durante una esperienza di stage provoca profondo dolore. - commenta a caldo il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi - Incidenti come questo sono inaccettabili, come inaccettabile è ogni morte sul lavoro. Il tirocinio deve essere una esperienza di vita. Esprimo il mio più profondo cordoglio e la vicinanza alla famiglia. Dobbiamo mettere tutto il nostro impegno, come istituzioni, a lavorare con più forza perché episodi come questo non si ripetano più".

Immediata anche la reazione di Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, che su Twitter parla di "un fatto di gravità inaudita, indegna per un paese civile, la morte sul lavoro di uno studente di appena 18 anni. Lo stage in un'azienda dovrebbe garantire il futuro ad un giovane, non condurlo alla morte. Non ci sono parole per commentare questa tragedia orribile".

"Come Amministrazione regionale ci stringiamo attorno ai genitori, ai parenti e agli amici del giovane deceduto sul lavoro oggi a Lauzacco mentre stava terminando il periodo di tirocinio". Lo affermano con una nota congiunta il governatore Massimiliano Fedriga e l’assessore regionale al Lavoro Alessia Rosolen. "È incomprensibile - ribadiscono - come ancora oggi si possano verificare episodi di questa gravità. In questo momento però l’incommensurabile dolore sofferto dalla famiglia impone a tutti un rispettoso silenzio, in attesa che le autorità competenti ricostruiscano l’esatta dinamica di quanto accaduto".

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

 Andrea Siravo e Simona Buscaglia per “La Stampa” il 30 gennaio 2022.

«Repressione violenta della protesta a colpi di manganello», dicono i movimenti studenteschi. «Poche cariche di alleggerimento per evitare l'assalto alle sedi locali di Confindustria», sostengono invece fonti del ministero dell'Interno. 

Così i due schieramenti descrivono la giornata di venerdì in cui a Roma, Torino, Milano e Napoli si sono registrati momenti di tensione tra gli studenti e le forze dell'ordine durante le manifestazioni che in tutta Italia hanno visto scendere in piazza centinaia di giovani per ricordare Lorenzo Parelli, il diciottenne morto venerdì 21 gennaio in un incidente all'ultimo giorno di stage allo stabilimento della Burimec a Lauzacco, in provincia di Udine. È rimasto invece in silenzio il mondo della politica nazionale, totalmente assorbito dall'elezione del Presidente del Repubblica.

Per esprimere la loro rabbia perché «di scuola non si può morire» come è successo al loro «compagno» Lorenzo, gli studenti e le studentesse avevano scelto di arrivare con cortei non autorizzati dalle questure locali sotto i palazzi dell'Associazione degli industriali. 

Contro di loro, gli studenti delle scuole superiori e i ragazzi dei centri sociali volevano puntare il dito in quanto co-responsabili del sistema «da abolire» dell'alternanza scuola-lavoro. Ogni tentativo di avvicinarsi ai luoghi sensibili è stato però bloccato sul nascere dalle forze dell'ordine, anche con l'uso della forza.

Non era pensabile per il Viminale permettere ai manifestanti di prendere di mira edifici «istituzionali», come del resto era già successo a ottobre con l'assalto alla sede della Cgil Roma da parte di Forza Nuova e militanti No-Vax. 

«Non possiamo più accettare che le manifestazioni di piazza si trasformino in attacchi sistematici alle forze di polizia», ha commentato il segretario generale del sindacato di polizia Coisp, Domenico Pianese, dopo il lancio di petardi contro gli agenti di polizia nel corteo che si è mosso dall'Esquilino in direzione dei Fori Imperiali. 

I feriti di venerdì, una quindicina il bilancio finale tra studenti e studentesse, si sono registrati nei tafferugli con i poliziotti e i carabinieri in assetto antisommossa a Torino e Milano.

Una decina solo nel capoluogo torinese, quando i giovani manifestanti forzano il cordone di sicurezza in piazza Arbarello nel tentativo di fare un corteo nonostante le restrizioni previste dalla zona arancione. La Digos ha individuato 25 militanti del centro sociale Askatasuna e dei collettivi studenteschi che saranno denunciati nei prossimi giorni all'autorità giudiziaria. 

A Milano è stato il lancio di uova e vernice a far partire gli agenti dopo aver bloccato una prima volta i ragazzi che volevano raggiungere la sede di Assolombarda. Nella mischia un ragazzo è stato colpito alla testa da una manganellata mentre una ragazza nel parapiglia si è rotta un braccio.

«L'uso della forza è da condannare sempre, soprattutto quando dei ragazzi lanciano solo uova e vernice» dice Carla Perazzi, docente e membro del movimento «Priorità alla scuola» presente in piazza. «I ragazzi erano "bellicosi" solo a parole - continua l'insegnante -. La città è stata teatro per settimane di cortei No Green pass con persone già note alle forze dell'ordine, venerdì invece non è stato identificato nessuno».

"Non siamo omini del tiro a segno". La polizia contro Letta. Francesca Galici il 31 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Polemica sugli scontri con gli studenti. Il segretario piddì punta il dito contro le forze dell'ordine. Il sindacato di polizia replica: "Non siamo manichini".

Hanno scatenato un'accesa polemica le manifestazioni degli studenti in piazza per protestare contro la morte di Lorenzo Parelli, il 18enne morto a Udine nel suo ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro. A Milano, Torino e in altre città d'Italia, i movimenti studenteschi hanno protestato e si sono verificati momenti di tensione con le forze dell'ordine. Enrico Letta, ospite di Mezz'ora in più su Rai3, ha condannato l'atteggiamento assunto dagli agenti: "Sulla questione di ordine pubblico chiediamo che siano date risposte, questa è una vicenda abbastanza grave, abbiamo già chiesto e lo chiederemo".

Alle parole di Enrico Letta ha replicato Pasquale Griesi, segretario provinciale Fsp polizia Milano: "Il segretario del Pd Letta si è espresso sulle cariche delle forze dell'ordine ovviamente contro. Io ho rivisto i video, prendo in esame Milano! Ma davvero volete farmi credere che quelli erano solo studenti? Io ho visto centri sociali, appartenenti al sindacato Sicobas!". Il poliziotto ha poi aggiunto, spiegando il contesto in cui le forze dell'ordine si sono trovate a lavorare: "A manifestare io non vado con palloncini pieni di vernice, con caschi da usare come arma, non tiro bottiglie, non tiro pietre, non ribalto le transenne che limitano un'area da tutelare, non uso le bandiere come mazze, non insulto, non istigo le ff.oo".

Griesi, quindi, nel suo lungo post di sfogo, si è rivolto direttamente al segretario del Partito democratico per aprire un tavolo di discussione: "Caro segretario Letta, colgo l'occasione per invitarla in segreteria sindacale Fsp polizia Milano e parlare di regole d'ingaggio delle forze dell'ordine, potremmo scriverle insieme, ho un paio di proposte da farle che potrebbe portare in parlamento". L'agente ha anche invitato Enrico Letta a "provare la nostra uniforme, così come ci vede, tutti bardati, nell'occasione mi proporrei io a fare il manifestante... Giusto per capire cosa si prova".

Tra le forze dell'ordine pare serpeggi il malumore: "Alla prossima manifestazione quei cittadini in uniforme potrebbero non esserci, non si può sempre essere derisi, malmenati e cazziati dalla politica.. Caro segretario Letta, se lei sa fare meglio, può provare lei a difendere gli obbiettivi sensibili, a tal proposito può sempre rifiutare la vigilanza davanti alle sue sedi". Pasquale Griesi, nel suo post, se ne fa espressione: "Scusi la mia ironia, che poi è delusione. In questa nostra tanto amata Italia stiamo davvero cadendo nel ridicolo. È ora di dire basta, non possiamo fare i manichini o l'omino del tiro a segno! Non ha senso, tanto vale starsene a casa ed evitare di andare a lavoro".

Studente di 18 anni muore sul lavoro. Era all'ultimo giorno di stage

Intanto gli studenti hanno già proclamato un'altra giornata di manifestazioni. Da Torino dichiarano: "Quello che è successo è gravissimo, perché ci hanno proibito di protestare legittimamente per l'omicidio di un nostro coetaneo. Non accetteremo e non rimarremo in silenzio di fronte a tutto questo". Il coordinamenti dei collettivi studenteschi di Milano fa eco: "Siamo scesi in piazza, nel silenzio della politica di fronte a un fatto così grave. Diciamo che siamo tutt* Lorenzo e che la scuola va cambiata, a partire dal fermare l'alternanza scuola lavoro. E per tutta risposta ci hanno caricato, ovunque, a Milano a Roma a Napoli a Torino…".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

LA VIOLENZA CONTRO I RAGAZZI. Contro le manifestazioni degli studenti c’è la strategia del manganello.  SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani l'01 febbraio 2022.

Venti ragazzi – solo a Torino – andati all’ospedale e usciti di lì con collari, fasciature, lussazioni.  Ed è solo un parte del bollettino dei feriti a seguito della feroce repressione dei cortei degli studenti, nei giorni scorsi, da parte della polizia.

Studenti che chiedevano di eliminare l’alternanza scuola/ lavoro, che ricordavano la morte del diciottenne Lorenzo Parelli, nel suo ultimo giorno di stage.

Le analogie nel comportamento della polizia nelle piazze di Torino, Milano, Roma e Napoli non sembrano  essere frutto di una coincidenza, ma il risultato di una decisione preventiva e congiunta.

Una ragazza di 18 anni con un’anca rotta a Torino. Una di 14 con sei punti in testa a seguito di una manganellata a Roma. Un ragazzo poco più che maggiorenne ancora ricoverato in ospedale, sempre a Torino, per via di un’emorragia cerebrale che non si è ancora riassorbita. Una sedicenne di Milano costretta a siringhe di anti-dolorifico per gli ematomi alle gambe, a Milano.

Venti ragazzi – solo a Torino – andati all’ospedale e usciti di lì con collari, fasciature, lussazioni.  Ed è solo un parte del bollettino dei feriti a seguito della feroce repressione dei cortei degli studenti, nei giorni scorsi, da parte della polizia. Studenti che chiedevano di eliminare l’alternanza scuola-lavoro, che ricordavano la morte del diciottenne Lorenzo Parelli, morto schiacciato da una trave d’acciaio di 150 chili nello stabilimento metalmeccanico Burimec, in provincia di Udine, nel suo ultimo giorno di stage.

Studenti che hanno attraversato due anni difficili tra dad e mancanza di socialità, tagliati fuori dalle grandi urgenze, dalle discussioni politiche e sanitarie, che improvvisamente erano tornati a chiedere, farsi ascoltare, esistere. A sentirsi di nuovo parte di un ingranaggio con un tema adulto e di tutti, un tema così fastidioso- evidentemente - da aver scomodato i manganelli. 

QUELLO CHE NON TORNA 

Perché una cosa è certa: le analogie nel comportamento della polizia nelle piazze di Torino, Milano, Roma e Napoli non sembrano  essere frutto di una coincidenza, ma il risultato di una decisione preventiva e congiunta, ovvero quella di reprimere sul nascere qualunque tentativo da parte degli studenti di essere più visibili di un sit-in con quattro fiaccole e uno striscione.

Come raccontato dai numerosi video nonché dalle tante testimonianze dei ragazzi, i cortei hanno potuto percorrere qualche decina di metri al massimo, e questo nonostante le destinazioni fossero la sede di Assolombarda o di Confindustria sotto le quali intonare qualche coro o lasciare una trave in cartapesta, per ricordare la morte di Lorenzo. 

I manifestanti non erano esponenti di estrema destra diretti verso la sede della Cgil per devastarla (con quelli niente manganelli), ma studenti molti dei quali minorenni, lavoratori, appartenenti a sindacati, rider, ragazzi che frequentano centri sociali.

Eppure, non appena hanno accennato l’intenzione di scavalcare il recinto dietro il quale se ne stavano confinati, sono stati picchiati, manganellati, presi per il collo e respinti con una tale ferocia che alcuni si sono fatti male cadendo, altri hanno perso i sensi, altri ancora le scarpe.

C’è chi è stato portato via da un’ambulanza mentre urlava dal dolore, chi - per nulla intimorito- ha riconquistato la prima fila dello schieramento, chi - incredulo - ha cercato di parlare con chi li stava manganellando. «Perché ci state picchiando, potremmo essere i vostri figli!», «Ma cosa state facendo, vi rendete conto?», «Ve la prendete con dei quindicenni?» sono solo alcune delle domande accorate rivolte a poliziotti schermati da caschi, difesi da scudi e pronunciate da giovani inermi, armati di striscioni e altoparlanti.

A FREDDO O A CALDO

«Esiste un limite per manifestare e quel limite è la violenza nei confronti dei poliziotti», ha affermato il portavoce dell’Associazione nazionale funzionari di polizia Girolamo Lacquaniti. Aggiungendo che i poliziotti sono stati colpiti da lanci di oggetti, uova, calci negli stinchi e sfidati per ore, accumulando tensione. Soprattutto a Torino «dove c’erano anche i centri sociali». Lacquaniti sostiene che la narrazione secondo la quale i poliziotti colpirebbero a freddo gli studenti è falsa. Dunque, dobbiamo dedurre che per reazione “a caldo” che giustifichi manganellate su ragazzini e ragazzine si intenda “tu mi lanci un uovo di vernice e io ti spacco la testa”.

Dobbiamo dedurre che 30 poliziotti in tenuta anti-sommossa non reggano la pressione psicologica rappresentata da alcuni studenti- molti dei quali sotto i sedici anni, come nel caso di Roma- che chiedono di poter sfilare in corteo. Studenti che non hanno picchiato, minacciato, lanciato nulla. E dobbiamo dedurre che quel «se lanciate un altro uovo vi carichiamo» a cui è seguita, appunto, una violentissima carica a Milano, non sia un’azione compiuta a freddo.

«È dal 2016 che chiediamo l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, venerdì non era la prima volta che manifestavamo per questo. A Torino ho visto con i miei occhi poliziotti che puntavano chi picchiare, io sono stata caricata due volte, la seconda avevo già la testa insanguinata e non si sono fermati. Non ho paura, non ci hanno intimiditi e il 5 torneremo in piazza per ribadire le nostre idee», dice Sara, 17 anni, la cui foto con il sangue che le cola dalla testa è diventata uno dei simboli della repressione sugli studenti.

Pietro, rappresentante del liceo Virgilio, racconta: «A Roma eravamo pochi studenti giovanissimi, disarmati e a volto scoperto. Quando la celere si è schierata abbiamo detto che volevamo fare un corteo, nessuno ha lanciato oggetti o tirato calci. C’è stata al massimo una pressione fisica sugli scudi dei poliziotti, ma nasceva da una frustrazione di noi ragazzi di fronte a un coetaneo morto per una legge che chiediamo da tempo venga abolita e per un corteo di dieci minuti che ci è stato negato per ragioni inspiegabili. Vedendo Torino, Milano, Napoli ho idea che questa violenza sia stata stata un’azione congiunta». 

Parlano i ragazzi feriti, parla il portavoce della polizia, parla l’interrogazione parlamentare di Nicola Fratoianni, parla perfino Enrico Letta, e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese continua a tacere. E certe volte il silenzio è la manganellata più dolorosa di tutte.

Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Selvaggia Lucarelli per editorialedomani.it l'1 febbraio 2022.

I capelli, corti, la mano sul viso, il volto insanguinato. La foto di Sara è diventata uno dei simboli della violenza della polizia sugli studenti in piazza a Torino, lì per ricordare la morte di Lorenzo e chiedere l’abolizione dell’obbligo di alternanza scuola/lavoro. 

Sara ha 17 anni, frequenta il liceo Regina Margherita e non sembra intenzionata ad indietreggiare di un passo, con una lucidità adulta e ricca di argomenti.

Intanto come stai Sara?

Dai. Siamo giovani, ci riprendiamo in fretta. 

La tua foto con testa insanguinata è girata ovunque. Mi dai la tua versione dei fatti? Siete stati violenti come ha dichiarato il portavoce della polizia?

Ho ascoltato quello che ha detto con i peli dritti. Io venerdì sono arrivata in piazza e so solo che dopo dieci minuti hanno iniziato a manganellarci.

Il questore ha detto che avevate un furgone per avanzare oltre gli sbarramenti.

Ho letto anche le parole del questore, molto chiaro il tentativo di mistificare. Era il classico furgone da cortei, con le casse dentro. 

Il portavoce della polizia ha anche detto: “Cosa avremmo dovuto fare”?

Glielo dico io cosa avrebbero dovuto fare: anziché picchiare dei ragazzi, potevano far partire un corteo pacifico e legittimo. Di cortei e manifestazioni ce ne sono sempre tantissimi, basta pagare per riempire una piazza con 400 persone che bevono… e noi no. Come se poi il problema fosse stato l’assembramento. Da quando una carica impedisce gli assembramenti? Anzi, provoca l’effetto contrario. È solo una becera giustificazione.

Perché siete contro l’alternanza scuola-lavoro?

L’alternanza non va riformata, va abolita, non vogliamo essere pagati o non pagati per lavorare anziché andare a scuola. Oggi siamo di fatto costretti a lavorare, altrimenti non possiamo fare la maturità. Ci voleva la morte di un ragazzo per indignare il ministro Bianchi e il Pd? Noi ne chiediamo l’abolizione da anni, queste sono lacrime da coccodrillo.

Vi aspettavate questa repressione così violenta?

No. Nei giorni precedenti abbiamo avvertito pressioni da parte della questura, ci hanno detto che il corteo non sarebbe partito, ma noi di fronte a un no arbitrario e alle minacce abbiamo comunque deciso di non arretrare. Avevamo un barlume di speranza.

Il questore ha parlato di cariche di alleggerimento.

La violenza è stata indiscriminata e mirata. Ho visto con i miei occhi celerini che andavano a cercare la persona che avevano puntato per spaccarle la testa, altro che cariche di alleggerimento. 

Tu sei stata colpita alla testa, eri in prima linea? Davi calci negli stinchi ai poliziotti come affermato dal portavoce della polizia?

Io non mi nascondo, ero davanti, in prima linea e lì volevo stare, credo e continuo a credere in quella causa. Ma le botte le ha prese anche chi era dietro, in fondo, quindi la versione della provocazione non regge. Non faccio il garante di nessuno, non so se qualcuno ha dato calci, ma io so che non ne ho dati.

Quando sei stata colpita?

A me la testa l’hanno aperta nella seconda carica, ero già piena di sangue e mi hanno dato un’altra manganellata. La prima carica è partita quando abbiamo preso uno striscione, altro che provocazione. Una delle ultime cariche è stata provocata dalla scelta di provare ad andare col corteo verso la periferia, visto che le zone Ztl ci erano state vietate, chissà perché poi non si può fare un corteo nelle strade dei ricchi. Allora abbiamo fatto un tentativo di sfilare nella piazza, per poi sederci.

Lì è partita la carica?

Sì. Stavamo discutendo con una responsabile della celere, un ragazzo ha fatto un dito medio e c’è stata la carica più violenta, quella più documentata dai video. La cosa assurda è che quella carica ha travolto anche la loro responsabile delle mediazioni con noi. È gente che travolge pure i suoi negoziatori.

Come stanno i feriti?

C’è un ragazzo che ancora in ospedale, ha un’emorragia cerebrale che non si è riassorbita e lo tengono in osservazione. Poi altri con collari, fasciature, lussazioni punti, traumi cerebrali come me. 

Il portavoce della polizia dice che a Torino c’erano “infiltrazioni dei centri sociali”.

Hanno fatto passare Torino per una piazza di antagonisti mascherati da studenti. I video parlano chiaro, c’erano ragazzini in prima linea, io per prima. C’erano anche dei ragazzi di centri sociali, sì, i giovani si incontrano anche nei centri sociali visto che altri spazi di confronto il governo non li concede.

A Torino non è strano che costruiscano questa narrazione per giustificare la violenza, è una città molto specifica per la gestione dell’ordine pubblico, spesso quello che succede qui passa sotto silenzio, già la scorsa settimana c’è stata una guerriglia urbana con repressione violenta per impedire un corteo conto la cementificazione selvaggia. 

Venerdì farete una nuova manifestazione?

Sì. Dopo questi fatti ci siamo detti: non finisce qui. Non  faremo le piagnine per le botte della polizia, le botte le mettiamo in conto e quello che è successo è una conferma di quello che pensiamo della nostra controparte. La morte di Lorenzo ci deve dare la forza per continuare un percorso di opposizione chiaro. Il corteo lo vogliamo fare e lo faremo.

Non avete paura?

No, abbiamo visto che sappiamo reggere di fronte alla violenza, nessuno è scappato venerdì e nessuno si è pentito di esserci stato, anzi. Il nostro nemico – perché di fatto chi si oppone agli obiettivi che ci poniamo è un nemico soprattutto se si oppone con la violenza inaudita di venerdì – sappia che noi andremo avanti. Abbiamo la forza di resistere. 

In tanti siete minorenni, i vostri genitori non si mettono di traverso?

Siamo in un’età in cui i genitori possono comprendere. Certo, si spaventano, anche i miei si sono spaventati, ma devono apprezzare l’idea che i loro figli non si tirino indietro quando si tratta di mettersi a disposizione per una causa ben più grande di loro e di qualunque paura.

Chiara Sandrucci per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022.

«Sono arrivata con le intenzioni più pacifiche, avevo portato persino i gessetti per colorare per terra». Giulia ha 18 anni e frequenta lo storico liceo classico Gioberti di Torino, che da due giorni è occupato proprio «in risposta alla forte repressione subita in Piazza Arbarello». 

Venerdì scorso c'era anche lei a manifestare per la morte di Lorenzo Parelli, quando il tentativo di corteo degli studenti è stato subito fermato dalle forze dell'ordine. Lei, rimasta coinvolta negli scontri, è svenuta in mezzo alla folla. Cosa è successo?

«Eravamo circa 400 e abbiamo tentato di dirigerci verso corso Siccardi, ma la celere era già schierata con i caschi e gli scudi. Ci siamo avvicinati con lo striscione e abbiamo chiesto di dialogare. C'è stato rifiutato, noi abbiamo insistito e sono arrivate le prime manganellate»

Tu eri in prima fila?

«Ero tra le organizzatrici, insieme al collettivo del mio liceo. Era una manifestazione spontanea, nata dagli studenti e non certo dai centri sociali. Volevamo esprimere in modo pacifico cordoglio e dolore, ma anche quanto le istituzioni stiano abbandonando la scuola».

Come mai sei stata colpita?

«Gridavamo "protestare è un nostro diritto", quando sono ricominciate le manganellate. Ho aiutato un ragazzo che era caduto, tirandolo su mi sono girata di lato e ho ricevuto una manganellata all'anca, mi sono allontanata e mi hanno portato del ghiaccio».

Poi cosa è successo?

«Sentivo delle urla, cercavamo una via di fuga, ma tutta la piazza era stata bloccata. Ma così la paura è aumentata, tra i miei amici ci sono stati attacchi di panico. L'anca mi faceva molto male, ho provato così tanta rabbia e disagio che alla fine sono svenuta e mi ha portato via l'ambulanza».

Prima pestati e poi arrestati: lo Stato si accanisce sui ragazzi. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 21 maggio 2022

A febbraio gli studenti che protestavano contro le morti nell’alternanza scuola-lavoro hanno preso manganellate tra ferite e traumi. Ora l’accanimento con perquisizioni e indagini sulle vittime, non sui picchiatori

Giovedì mattina, ore 8,00. Sono sveglia da poco, sto rifacendo il letto. Mio figlio Leon è in gita da due giorni in Val Seriana, la prima gita dopo due anni, un ritaglio di leggerezza. Suona il citofono, non succede mai a quell’ora. Il mio fidanzato esce dal bagno e va a rispondere. Lo sento dire “Leon” e “sono i carabinieri”. Ho pensato a una disgrazia in gita, credo di aver detto “Leon è morto”.

Salgono, sono sei persone gentili, una in divisa. Deve essere qualcosa di gravissimo. No, Leon non è morto, anzi, lo stanno cercando. Hanno un mandato di perquisizione.

É quel momento in cui si pensa di non conoscere i propri figli, di aver sottovalutato qualcosa. Chiedo di spiegarmi cosa ha combinato, ma questa cosa che lui non sia in casa è un problema, dovranno andare a prenderlo in gita per perquisirlo.

Dico che mi sembra una misura molto invasiva, che sarà un evento traumatico, chiedo di nuovo che mi spieghino per quali fatti sono lì. Il capitano esce dalla porta per riferire la situazione al magistrato del Tribunale dei minori (Leon ha 17 anni).

Rientra e comunica che il magistrato ha compreso la delicatezza della situazione, per cui procederanno alla perquisizione della casa e poi il resto si vedrà al suo ritorno. Finalmente mi spiegano per quale grave crimine è indagato.

LA MANIFESTAZIONE DEGLI STUDENTI

Il 18 febbraio, durante la seconda manifestazione degli studenti contro l’alternanza scuola/ lavoro (la prima, venti giorni prima, era stata repressa a colpi di manganello), Leon avrebbe tirato un palloncino di vernice (lavabile, pare) sulla vetrina di una banca assieme ad altri studenti che come lui indossavano una tuta bianca.

Cercavano dunque le prove per inchiodarlo: un paio di Nike, dei pantaloni grigi, una felpa nera. Ho spiegato che essendo in gita aveva alcune scarpe e vestiti con sé ma che comunque a quella manifestazione era andato e possedeva i vestiti che cercavano. Hanno frugato un po’ in giro, mi hanno domandato se ci fossero volantini sulle sue idee politiche (quali?) e alla fine gli hanno sequestrato un tablet con cui disegna.

Il reato che gli viene contestato è quello di deturpamento e imbruttimento di cose altrui, punito dall’articolo 639 del codice penale che prevede una multa e, nei casi più gravi, da uno a sei mesi di reclusione.

LA PERQUISIZIONE

Dunque, una perquisizione, sei esponenti delle forze dell’ordine, la procura dei minori e, udite udite, il dipartimento Antiterrorismo che ha coordinato il tutto, per un uovo di vernice lanciato, forse, da un minorenne. Anzi, da più minorenni e maggiorenni, suppongo, che quel giorno hanno imbrattato la vetrina di una banca con la motivazione “Investe nelle armi e nei combustibili fossili” e che non hanno spaccato macchine, vetrine, non hanno fatto male a nessuno.

Pochi giorni prima erano stati manganellati ferocemente nelle piazze di Milano, Torino, Napoli, Roma per aver gridato che nessun ragazzo deve più morire per colpa dell’alternanza scuola-lavoro. Mio figlio era stato colpito da una manganellata in testa senza che avesse toccato nessuno o lanciato oggetti. Vista la violenza del colpo, l’ematoma dopo quattro mesi non è ancora riassorbito.

Ora, non sta a me ma a un giudice stabilire quale sia la giusta punizione (le cose altrui non si imbrattano, siamo d’accordo) ma la sproporzione tra un’azione così invasiva e traumatica e i fatti contestati è abnorme e preoccupante.

Preoccupante perché quello che è accaduto a mio figlio - l’ho scoperto dopo - è solo una piccola ma significativa parte di quello che sta accadendo in questi giorni agli studenti che hanno manifestato negli ultimi mesi e che hanno portato nelle piazze il dissenso per questioni politiche, sociali, ambientali.

E I MANGANELLATORI?

Senza che nessuno ci stia facendo troppo caso, infatti, a quattro mesi da quelle manganellate che hanno mandato ragazzi neo maggiorenni e minorenni all’ospedale con arti rotti e traumi cranici, non c’è stato alcun accertamento di responsabilità nei confronti dei manganellatori, nessun provvedimento disciplinare, nessuna sospensione del servizio.

In compenso, si sta provvedendo a punire tantissimi ragazzi tra i manganellati di Roma, Torino, Napoli e Milano. “L'intera documentazione visiva è stata messa immediatamente a disposizione dell'autorità giudiziaria come accade in tutti i casi per individuare ogni responsabilità, comprese quelle eventualmente riconducibili agli operatori di polizia”, aveva dichiarato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese.

Evidentemente i filmati hanno mostrato ragazzini che, in modalità Tafazzi, si picchiavano da soli e poi compivano atti così criminosi - lancio di uova di vernice e fumogeni- da meritare l’intervento dell’antiterrorismo.

LE ACCUSE BIZZARRE

Negli ultimi dieci giorni, decine di ragazzi in tutta Italia hanno subito perquisizioni e perfino arresti. I fatti contestati sono diversi, apparentemente neppure tutti in correlazione tra loro, se la correlazione non si chiamasse dissenso.

A Roma, dove la manifestazione contro l’alternanza scuola-lavoro era stata tra le più pacifiche, diversi ragazzi sono stati perquisiti e denunciati per reati bizzarri che vanno dal travisamento all’istigazione su minore.

A Milano sono stati denunciati e perquisiti ragazzi per i fatti già descritti (compreso mio figlio) ma anche tre attivisti di Fridays for future, rei di aver scritto con una bomboletta “Il gas fossile uccide” e “Basta affari con i dittatori” il 19 marzo fuori dalla sede di Centrex, una controllata dell’azienda russa Gazprom.

Insomma, da una parte inviamo armi all’Ucraina, dall’altra trattiamo come delinquenti ragazzi che chiedono di smettere di fare affari con la Russia e di inquinare il pianeta. Ragazzi a cui, durante le perquisizioni, è stato chiesto di spogliarsi e fare flessioni, per umiliarli.

E poi c’è Torino, dove la situazione è più complicata, perché sono state perquisite le case di numerosi studenti (anche di una ragazza che, per le manganellate, era stata ricoverata in ospedale), è ai domiciliari una neo-diciottenne che aveva parlato al megafono, ci sono tre neo-maggiorenni incensurati in carcere da una settimana accusati di aver colpito degli agenti davanti alla sede di Confindustria con le aste delle bandiere.

“Mio figlio è stato arrestato il 12 maggio, ha il Covid, per una settimana non ho potuto neppure parlargli al telefono”, mi spiega Irene, la madre. Uno dei tre era stato operato al cuore un mese fa. Non hanno avuto neppure l'udienza di conferma dell'arresto con il gip.

Nel frattempo, proprio due giorni fa, un altro ragazzo a Merano ha avuto un gravissimo incidente sul lavoro (sempre per via dell’alternanza). Ora rischia la vita.

Ah, dimenticavo. Il “bottino” delle perquisizioni a Milano: telefonini, tablet, bandiere della pace, libri, magliette con su scritto no war. La ministra Lamorgese può dirsi soddisfatta.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

INTERVISTA ALLA MADRE DI EMILIANO. «Mio figlio è in cella a Torino per aver manifestato». SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 24 maggio 2022

Emiliano, 22 anni, è stato arrestato all’alba del 12 maggio, a Torino, insieme ad altri due ragazzi che come lui avevano manifestato tre mesi fa contro l’alternanza scuola/lavoro.

Oltre a lui, quattro ragazzi hanno l’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria e altri quattro ragazzi ancora si trovano agli arresti domiciliari.

L’intervista ad Irene, la mamma di Emiliano, che dice «lo stato intimidisce i ragazzi»

Emiliano è stato arrestato all’alba del 12 maggio, a Torino, insieme ad altri due ragazzi che come lui avevano manifestato tre mesi fa contro l’alternanza scuola-lavoro. Oltre a lui, quattro ragazzi hanno l’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria e altri quattro ragazzi ancora si trovano agli arresti domiciliari.

Tra questi ultimi c’è anche Sara, una diciottenne che aveva effettuato solo attività di speakeraggio al megafono. Riesco a parlare con Irene, la mamma di Emiliano, uno dei tre ragazzi attualmente detenuti al carcere delle Vallette.

Con che accusa è stato arrestato suo figlio Emiliano?

Resistenza al pubblico ufficiale, da quel poco che ho capito. Ci tengo a dire che mio figlio è incensurato.

Mi racconta chi è Emiliano?

Ha 22 anni, ha studiato agraria e fatto dei corsi di specializzazione per giardinaggio artistico presto la reggia di Venaria, ha vinto l’eccellenza per l’industria, guadagnandosi uno stage in Danimarca. Fa l’università e il giardiniere per pagarsi gli studi.

Un amante della natura.

La prima volta che è andato a vedere un allevamento da latte, lui che era onnivoro, ha deciso di diventare vegano. Aveva 16 anni.

Insomma, non proprio l’identikit del violento.

Emiliano è un altruista, pratica un’arte marziale che insegna la difesa del più debole, aiuta perfino il suo maestro con i bambini. È un donatore di sangue da quando ha compiuto 18 anni ed è stato tra i primi vaccinati perché faceva il volontario in un hub.

Frequenta centri sociali?

Sì, anche. Lì fanno attività con i bambini, con le famiglie, si preoccupano della difesa dei diritti di tutti, della terra in cui viviamo, della questione Tav, degli sfratti che colpiscono famiglie povere, dei migranti. E poi si lotta contro la realizzazione di un deposito di scorie che vogliono far nascere qui in Piemonte.

Emiliano aveva già partecipato ad altre manifestazioni?

Noi andiamo a manifestazioni da quando i miei figli sono nati, convinti che qualcosa, se ci si muove in tanti, si possa cambiare. Emiliano è sensibile al tema dell’ingiustizia sociale, è giovane e sente molto questa questione, quella del mondo che gli stiamo lasciando.

Non ti ha mai spaventato il fatto che partecipasse a manifestazioni che a Torino finiscono spesso con repressioni violente?

A me ha sempre spaventato molto, ma sono contenta della sua partecipazione, della sua sensibilità per certi temi.

A Torino sono anni che si attuano misure cautelari tremende per questi ragazzi, misure che vengono quasi sempre confermate dai giudici. Poi, quando si fa il processo, le accuse diventano atti bagatellari e spesso sono prosciolti. E però intanto quei ragazzi sono stati trattati come delinquenti con arresti prima ancora che ci sia un processo.

Mi sembra assurdo che venga disposto il carcere preventivo per dei ragazzi così giovani e incensurati, non mi pare ci siano elementi di pericolosità sociale, pericolo di fuga o di inquinamento delle prove.

C’è perfino una ragazza ai domiciliari per aver parlato al megafono. Ricordo che tempo fa, qui a Torino, per un indagato uno degli elementi di pericolosità sociale fu considerato il fatto di aver distribuito volantini davanti a un ristorante perché il cuoco che lavorava lì era un anno che non percepiva lo stipendio. È una cosa che si ripete da anni, e se la prendono con ragazzi sempre più giovani.

Come si sente in questo momento?

Sono molto arrabbiata e spaventata. Siamo in una macchina infernale per cui Emiliano è in carcere da dieci giorni senza aver neppure visto ancora il gip.

È in isolamento?

Sì, in una cella da solo, perché quando sono entrati i tre ragazzi hanno fatto il tampone e lui, risultato positivo, è stato messo in isolamento. Gli altri due, siccome erano in auto con lui, sono in isolamento cautelativo insieme.

Come si è svolto l’arresto?

Emiliano vive con degli amici, io non sapevo nulla, alle sette e un quarto del mattino mi chiama la polizia e mi chiede se sono la madre di Emiliano. Mi dicono: «Suo figlio è stato arrestato, lo porteremo al carcere delle Vallette». Ho chiesto se potevo parlargli, mi hanno detto di no. Allora mi sono piantata davanti al carcere per vedere se lo vedevo almeno arrivare, sono stata tutte le mattina lì e invece nulla. Verso le 12 ho chiesto alla guardia se fosse entrato. Mi ha detto che Emiliano era già dentro. Il 14 ho provato a scrivere una mail al direttore del carcere chiedendo aiuto e qualche informazione, perché io non sapevo che fare, a chi chiedere di aiutarmi. Mi ha risposto che non poteva organizzare un colloquio telefonico, poi giovedì finalmente mi suona il telefono e sento «Ciao mamma, sono Emi».

Come sta?

Era tranquillo, sta bene, ma era preoccupato per me, per la mia preoccupazione. Il carcere delle Vallette è un carcere duro, ci sono stati casi di tortura, cambi di direttori, non è un posto in cui mi sento sicura che stia. So che dovrei essere tranquilla perché anche se avesse fatto uno sbaglio è in mano allo stato, ma non mi sento così.

A Torino si usa il pugno duro sui manifestati da anni, è una situazione forse più grave che nel resto d’Italia.

La narrazione comune di chi non conosce la realtà di Torino è “se ti hanno arrestato è perché hai fatto qualcosa”, e potrebbe sembrare anche un pensiero corretto.

Ma ripeto, può pensarlo chi non vive qui. Questi ragazzi sono puniti duramente e in anticipo, senza che si sappia se hanno sbagliato, perché la questura ritiene che siano pericolosi.

Ho visto e rivisto le immagini di quella manifestazione, i più violenti hanno usato l’asta della bandiera contro i poliziotti che li avevano manganellati a sangue, senza alcuna ragione, una settimana prima.

A quanto pare 25 agenti hanno avuto lesioni, uno di loro dieci giorni di prognosi. Vorrei sapere di che lesioni stiamo parlando.

Ci sono stati scontri anche il primo maggio a Torino.

Ho visto un signore di una certa età, pacifista, che si è inginocchiato per terra dopo le prime cariche della polizia con la bandiera della pace in mano. Hanno caricato anche lui.

Emiliano non ha ancora incontrato il gip?

Doveva vederlo il 20 ma lui non ha potuto partecipare per impedimenti sanitari. Ieri doveva rifare il tampone, ma non so cosa sia successo. Il 24 ci sarà l’udienza di riesame per tutti i ragazzi agli arresti. Spero che lo facciano tornare a casa.

Come stanno le altre due mamme dei ragazzi in carcere?

Siamo sempre in contatto, cerchiamo di andare insieme a chiedere i colloqui.

Una delle due ha il figlio che è stato operato un mese fa al cuore, speriamo che almeno lui possa tornare a casa e sottoporsi all’esame di controllo che deve fare.

Pensa che Emiliano sia più spaventato o umiliato?

Non credo che si sia sentito umiliato, io da madre non mi sento umiliata per nulla. É ora di finirla con questa repressione prima di un regolare processo, noi non ci spaventiamo, siamo qua, ci troveranno sempre a fianco dei nostri figli.

Pensa che ora suo figlio potrebbe smettere di manifestare?

Non so se continuerà o smetterà, sono ragazzi molto giovani e possono aver paura dell’accaduto, questi fatti possono anche scoraggiare altri ragazzi a scendere in piazza. O al contrario ad andare avanti, sempre più arrabbiati. Di una cosa però sono certa: Emiliano continuerà a vivere secondo i suoi principi, perché quelli sono dentro, nessuno te li può togliere. 

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Ubaldo Cordellini per “La Stampa” il 22 maggio 2022.

Le fiamme improvvise lo hanno avvolto in un lampo. È grave lo studente di 17 anni di Silandro, in alta val Venosta, che venerdì sera è rimasto ustionato mentre stava pulendo il forno di verniciatura della carrozzeria di Merano dove stava seguendo un percorso di alternanza scuola-lavoro. 

Il ragazzo, che frequenta un istituto di formazione professionale della zona, è ricoverato nel centro grandi ustionati di Murnau, in Baviera, avendo riportato ustioni del secondo e del terzo grado sul 50% del corpo, in particolare agli arti, al busto e alla testa.

Ricoverato alla clinica universitaria di Innsbruck con ustioni di secondo grado agli arti e alla testa, invece, l'uomo di 36 anni che era presente ma non risulta tra i dipendenti della carrozzeria. 

In un primo momento il giovane sembrava in pericolo di vita, ma ieri le sue condizioni sono poco per volta migliorate e viene considerato fuori pericolo.

I due sono stati investiti da una grande fiammata mentre il ragazzo stava usando alcuni detergenti e un macchinario per ripulire il forno della carrozzeria di via Zuegg, una grande stanza a tenuta stagna nella quale vengono verniciate le auto. 

Secondo i primi accertamenti, come conferma l'avvocato Monica Morisi, che difende il titolare della carrozzeria, tutto sarebbe stato causato da una scintilla proveniente dalla pulitrice usata dal giovane: «Il forno è stato posto sotto sequestro così come il macchinario che il ragazzo stava usando per la pulizia. Sembra che la fiammata sia stata provocata da una scintilla entrata in contatto con i detergenti».

I due feriti sono stati portati d'urgenza all'ospedale San Maurizio di Bolzano dove i medici hanno deciso il trasferimento immediato in Germania e in Austria, vista la gravità delle ustioni riportate. 

Sono arrivati subito anche i carabinieri della compagnia di Merano per i rilievi. Il titolare della carrozzeria ha spiegato di non essere stato presente al momento dell'incidente. Quello che è certo che è che un ragazzo che si trovava lì per imparare il mestiere è rimasto vittima di un gravissimo infortunio sul lavoro.

Non è la prima volta quest'anno: sono già due i giovani morti mentre stavano seguendo un percorso di scuola lavoro. Il primo è stato Lorenzo Parelli, 18 anni, travolto da una trave il 21 gennaio, al suo ultimo giorno di stage in un'azienda metalmeccanica di Lauzacco, in provincia di Udine. 

Il 15 febbraio in un incidente stradale è morto Giuseppe Lenoci, 16 anni di Monte Urano, provincia di Fermo: si trovava sul furgone della ditta di termoidraulica presso la quale stava facendo lo stage quando il mezzo, condotto da un dipendente, è uscito di strada ad Ancona, a molti chilometri dalla sede dell'azienda.

Le due tragedie e ora il grave incidente che ha coinvolto il ragazzo di Silandro mostrano come vi sia un forte problema di sicurezza per i giovani che svolgono stage lavorativi e che in molti casi vengono lasciati soli mentre svolgono attività potenzialmente rischiose. Un percorso che dovrebbe aiutarli a imparare un mestiere, e che può rivelarsi una trappola. 

Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva voluto sottolineare la gravità di quanto accaduto partecipando ai funerali di Parelli, ma ancora le cose non sono cambiate, come dimostrano i successivi incidenti in azienda. 

Come era accaduto nei giorni successivi alla morte di Lorenzo Parelli, le associazioni degli studenti in tutta Italia annunciano giorni di proteste e mobilitazione, mentre il ministro dell'istruzione Patrizio Bianchi ha invitato a tenere conto del problema generale degli infortuni sul lavoro: «Non dimentichiamo che questo è il Paese che ha il più alto indice di morti sul lavoro, non solo per i ragazzi. Quando succede per un ragazzo ci deve mettere in evidenza che questo non è possibile per nessuno, tantomeno per un ragazzo». 

Per la ministra Lamorgese le botte agli studenti sono colpa degli “infiltrati”. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 02 febbraio 2022.

Nella sua prima comunicazione ufficiale sui pestaggi durante le manifestazioni contro l’alternanza scuola/lavoro, la ministra dell’Interno non ha ammesso alcuna responsabilità o errore degli agenti e ha incolpato non meglio specificati “infiltrati” nelle manifestazioni

Secondo la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, le cariche e i pestaggi compiuti dalle forze dell’ordine nei confronti degli studenti che due settimane fa manifestavano contro l’alternanza scuola/lavoro sono state causate da gruppi di infiltrati che avrebbero provocato la polizia.

La ministra ha dato la sua versione dei fatti oggi per la prima volta, dopo una settimana di intense polemiche per l’operato delle forze dell’ordine.

Le manifestazioni si sono svolte due settimane fa a Milano, Napoli e Torino. Nei numerosi filmati pubblicati in questi giorni si vedono cariche della polizia lanciate senza apparente provocazione, ragazzi colpiti alla testa e spintonati. Soltanto a Torino i feriti sono stati venti, alcuni con fratture o punti alla testa. Altri sono ancora ricoverati.

Nelle interviste, numerosi studenti hanno confutato le ricostruzioni delle forze dell’ordine, in cui si parlava di un clima estremamente violento in piazza. In un caso, fonti della polizia hanno parlato di un furgone utilizzato per rompere un cordone di agenti, un fatto che non si sarebbe mai verificato, secondo diversi studenti.

Lamorgese ha risposto alle accuse con un breve comunicato pubblicato poco dopo pranzo. «Purtroppo alcune manifestazioni sono state infiltrate da gruppi che hanno cercato gli incidenti – scrive Lamorgese – Dobbiamo quindi operare per evitare nuovi disordini, scongiurando che le legittime proteste nelle nostre piazze possano essere strumentalizzate da chi intende alimentare violenze e attacchi contro le forze di polizia».

Lamorgese non fa alcun cenno a possibili esagerazioni da parte delle forze di polizia e non commenta gli episodi più controversi mostrati nei filmati o raccontati dagli studenti, ma precisa: «Ho sensibilizzato i prefetti sulla linea da seguire, che non può che essere quella del confronto e dell'ascolto».

Qui sotto il comunicato completo: «Deve essere sempre garantito il diritto di manifestare e di esprimere il disagio sociale, compreso quello dei tanti giovani e degli studenti che legittimamente intendono far sentire la loro voce. Dobbiamo quindi operare per evitare nuovi disordini, scongiurando che le legittime proteste nelle nostre piazze possano essere strumentalizzate da chi intende alimentare violenze e attacchi contro le forze di polizia. La gestione dell'ordine pubblico, affidata sul territorio ai prefetti e alle forze di polizia, si nutre anche di un costruttivo e costante dialogo con le istituzioni e del rispetto delle regole da parte di chi vuole manifestare il proprio dissenso.Ho sensibilizzato i prefetti sulla linea da seguire, che non può che essere quella del confronto e dell'ascolto, nella prospettiva di un patto destinato alle nuove generazioni che sappia coinvolgere tutte le istituzioni e l'intera società civile».

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Gli studenti a Lamorgese: «Nessun infiltrato in piazza, denunce e manganelli non ci spaventano». Secondo la ministra dell’Interno «C’era la precisa intenzione di trasformare la manifestazione in occasione di scontro fisico con la polizia». Ma la replica dei ragazzi non si fa attendere: «Le sue parole vogliono solo dividerci ma noi non ci fermeremo». Erika Antonelli e Chiara Sgreccia su La Repubblica l'11 febbraio 2022.

«Le nostre idee saranno sempre più forti dei loro manganelli». Così scrive il Fronte della gioventù comunista sulla sua pagina Instagram, commentando le dichiarazioni della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in un’informativa al Senato. Che non ha riconosciuto le responsabilità politiche sulla gestione delle manifestazioni studentesche del mese scorso. Nate dalla necessità di ripensare tutto il sistema-scuola e dall’esasperazione per la morte del diciottenne Lorenzo Parelli, ucciso da una trave durante l’alternanza scuola-lavoro. Secondo Lamorgese, ai cortei avrebbero partecipato «infiltrati» appartenenti ai «centri sociali» in cerca di scontri con le forze dell’ordine. Eppure, a casa con testa e mani sanguinanti sono tornati dei ragazzini. Scesi in piazza esercitando il loro diritto di manifestare.

Nell’audizione la ministra dell’Interno ha commentato le proteste del 23 e del 28 gennaio: la prima dimostrazione a Roma, dal Pantheon verso il ministero dell’Istruzione, le successive in più città d'Italia tra cui Milano, Torino e Napoli, durante le quali si sono verificati i disordini con le forze dell’ordine. Lamorgese ha sostenuto che le agitazioni avessero l’intenzione di «commemorare il giovane (Lorenzo, ndr) e di contestare le modalità di svolgimento delle attività di formazione al lavoro inserite nel percorso didattico». Nel post su Instagram, il Fronte della gioventù comunista (Fgc) smentisce questa tesi: «Vorrebbero che il carattere delle proteste fosse solo questo. È gravissimo che l’unica risposta del governo a un movimento studentesco che pone delle questioni politiche sia la riduzione degli spazi di agibilità democratica. Si vuole impedire agli studenti di manifestare e fare politica, giustificando la repressione violenta e blindando le piazze». Ridurre la lotta di centinaia di studenti a mero atto di commemorazione svilisce la protesta, nata per chiedere una scuola più giusta, edifici sicuri e non fatiscenti e una prova di maturità che tenga conto del disagio vissuto nei due anni di pandemia.

La risposta del governo, secondo Daniele Agostini di Fgc, si articola su due binari: «Smorzare il movimento studentesco andando a colpire i principali promotori delle mobilitazioni, ricorrendo alle manganellate, e cercare di bollare le proteste come provenienti da piccole frange non rappresentative della totalità degli studenti». E, aggiunge Agostini, che era presente alla manifestazione, la ricostruzione di Lamorgese dei fatti di Roma non è corretta. «La carica al Pantheon è partita senza l’ordine effettivo del responsabile di piazza della Digos. Tant’è che ci sono stati dei feriti, ragazzini di neanche 18 anni e di certo non dei facinorosi».

Anche per Ismaele Calaciura Errante, il diciottenne del liceo classico Visconti di Roma che è tornato a casa dalla manifestazione con quattro punti e un trauma cranico, le dichiarazioni di Lamorgese non descrivono la realtà degli avvenimenti. «Non c’erano infiltrati. Eravamo tutti studenti e non avevamo nessuna voglia di scontrarci con la polizia. L’unico nostro obiettivo era arrivare al ministero dell’Istruzione e farci ascoltare».

I racconti di Agostini e Calaciura Errante sono simili a quello di Antonio Russo, studente universitario che ha preso parte alle proteste di Napoli: «Sono arrivato in piazza alle 16:30 circa, saremo stati più o meno in 300 tra centri sociali, collettivi, disoccupati organizzati e Fgc. Mezz'ora dopo arriva da parte dei carabinieri la prima carica del tutto insensata e priva di giustificazioni. La rabbia cresce ancora di più perché il cordone che fronteggiava le forze dell'ordine era composto da ragazzini di 16 anni al massimo».

È imbarazzata dalle dichiarazioni della Ministra anche Sihem Boutobba, presidentessa della Consulta studentesca di Milano. «Stavamo soltanto esprimendo il nostro dissenso sotto la sede di Confindustria quando sono iniziate le cariche della polizia. Chiedevamo giustizia per la morte di Lorenzo, e non solo. Anche scuole che non ci cadano in testa, mezzi di trasporto pubblico adeguati, un esame di maturità che non sia una corsa a ostacoli». Su quest’ultimo punto gli studenti hanno raggiunto una parziale vittoria: dopo il parere del Consiglio superiore della pubblica istruzione che ha bocciato la proposta del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi di ripristinare la seconda prova scritta all’esame di maturità, e a seguito dell’incontro tra Bianchi e le Consulte studentesche, è arrivato il compromesso. È stata accolta la richiesta degli studenti di far pesare di più nella valutazione il percorso degli ultimi tre anni e, anche se rimane la seconda prova scritta, le tracce saranno decise a livello di istituto e non più ministeriale.

«Sicuramente il fatto che il Ministero abbia fatto delle retrocessioni dimostra che le nostre mobilitazioni mettono in crisi i loro dettami» dice Sara del Kollettivo Studenti organizzati di Torino. «Ma non basta. Chiediamo una scuola che tenga presenti le nostre esigenze e istituzioni che si prendano le responsabilità di una scelta che ha causato decine di feriti. Invece hanno deciso di giustificarsi. Noi non possiamo accettare questa retorica perché eravamo presenti».

Per gli studenti le dichiarazioni della ministra dell’Interno sono state un tentativo, mal riuscito, di dividere il movimento di protesta che, invece, è rimasto unito e coeso. L’assemblea che si è svolta a Roma lo scorso weekend ha lanciato una mobilitazione nazionale per il prossimo 18 febbraio e convocato gli Stati Generali della scuola pubblica, tre giorni di dialogo e confronto per riprogrammare il futuro dell’istruzione. «Non saranno denunce e manganelli a spaventarci, riconosciamo nella violenza delle istituzioni e nella loro auto legittimazione la volontà di sopprimere la nostra lotta, e per questo continueremo con ancora più forza» fanno sapere da Lupa-scuole in lotta, la rete di coordinamento degli istituti romani. Non c’è alcuna intenzione di fermare le manifestazioni, le parole di Lamorgese non hanno frammentato il movimento.

(ANSA il 18 febbraio 2022.) Tensioni a Torino tra studenti e forze dell'ordine nei pressi della sede di Confindustria.

Dopo aver lanciato uova di vernice contro la palazzina di via Vela, alcuni giovani hanno forzato il cancello di ingresso e hanno tentato di entrare negli uffici, ma sono stati respinti ed è volata qualche manganellata.

Da ansa.it il 18 febbraio 2022.  

Oggi gli studenti delle superiori torneranno a manifestare contro la scuola-lavoro, dopo la tragica morte di Giuseppe Lenoci durante uno stage e per un esame di maturità diverso. 

Erano già scesi in piazza lo scorso 28 gennaio.

In oltre 40 città sono previsti cortei e presidi. A Torino sono state occupate numerose scuole negli scorsi giorni. Alcune organizzazioni chiedono le dimissioni del Ministro dell'Istruzione Bianchi e del Ministro dell'Interno Lamorgese.

Intanto lunedì prossimo gli studenti e le studentesse saranno in audizione in Commissione Cultura alla Camera. 

Ecco come si è articolata la protesta nelle varie città: (..) 

MILANO 

 "Non si può morire di scuola" dice uno degli striscioni posti in apertura del corteo degli studenti milanesi, in ricordo di Giuseppe e Lorenzo, morti durante l'alternanza scuola-lavoro. I liceali milanesi si sono dati appuntamento in piazza Cairoli per poi partire in corteo "contro questo modello di scuola " come si legge su un altro striscione. Il corteo passerà per il centro di Milano per chiudersi in piazza Fontana. Prima di partire i ragazzi hanno srotolato uno striscione sulla statua al centro della piazza chiedendo di abolire l'alternanza scuola-lavoro e spiegando che "l'alternanza è solo sfruttamento". Per la manifestazione alcune linee di tram e autobus - rende noto Atm - sono state deviate. 

TORINO

Tensioni a Torino tra studenti e forze dell'ordine nei pressi della sede di Confindustria. Dopo aver lanciato uova di vernice contro la palazzina di via Vela, alcuni giovani hanno forzato il cancello di ingresso e hanno tentato di entrare negli uffici, ma sono stati respinti ed è volata qualche manganellata.

Il corteo di Torino è partito da piazza XVIII Dicembre. Vi aderiscono le oltre quaranta scuole occupate in queste settimane di protesta contro l'alternanza scuola-lavoro e l'esame di Maturità, ma sono presenti anche i sindacati e gli universitari. Ad aprire il corteo lo striscione 'Contro alternanza maturità e repressione no alla scuola del padrone'. "Se non cambierà lotta dura sarà" è lo slogan scandito dai giovani. "Il nostra è una rivoluzione scolastica", spiega Cristina, una portavoce della mobilitazione. "Noi vogliamo e pretendiamo che le istituzioni non possano accanirsi contro gli studenti con la repressione - aggiunge Sara, un'altra dei portavoce - andiamo avanti e non faremo un passo indietro fino a quando non ci dimostreranno che gli impegni presi saranno rispettati". 

BARI

Anche a Bari gli studenti delle scuole superiori sono scesi in strada contro la scuola-lavoro, dopo la tragica morte di Giuseppe Lenoci e Lorenzo Parelli. In circa 200 sono sfilato per le strade del centro cittadino partendo da piazza Umberto, di fronte al palazzo Ateneo, e diretti in piazza Prefettura. Con megafoni e striscioni chiedono una scuola "più giusta e più sicura". "Alternanza maturità repressione. La scuola ha bisogno di una rivoluzione. Bianco dimissioni. Con Lorenzo e Giuseppe nel cuore" è la scritta sullo striscione che apre il corteo. Gli studenti sollevano cartelli con le scritte "La vostra scuola uccide", "Di scuola-lavoro non si può morire", "La scuola uccide gli studenti". 

PALERMO

Hanno sfilato in corteo a Palermo i ragazzi degli istituti Liceo scientifico Einstein, il Benedetto Croce, l'Umberto I, il Basile di Brancaccio, il Medi, il Vittorio Emanuele III . "A gennaio la tragica morte di Lorenzo durante le ore di stage professionale in fabbrica a Udine; qualche giorno fa è morto Giuseppe, un sedicenne, anche lui durante uno stage, in un incidente stradale in provincia di Ancona. I posti di lavoro non sono sicuri; l'alternanza scuola-lavoro e i percorsi duali di formazione conducono gli studenti troppo presto in un mondo del lavoro fatto di sfruttamento, precarietà e insicurezza", afferma una nota. "Di questa scuola che uccide e non ci ascolta non ne possiamo più. Oggi in tutta Italia gli studenti si riprendono le strade per chiedere l'abolizione dell'alternanza-scuola lavoro. 

PROTESTA DEGLI STUDENTI A NAPOLI

La formazione si fa nelle aule, studiando, spingendo i giovani a sviluppare un approccio critico rispetto alle ingiustizie sociali, allo sfruttamento lavorativo, contro la guerra. Non si fa nei posti di lavoro, in cui diventiamo manodopera gratuita che sostituisce i lavoratori", dice Nicoletta Sanfratello del liceo Umberto I. Gli studenti sono partiti da piazza Verdi, per raggiungere piazza indipendenza, per incontrare l'assessore regionale alla formazione, Roberto Lagalla. Per loro la "Regione dovrebbe intervenire per far arrivare le rivendicazioni degli studenti siciliani al Miur". Infine, gli studenti si rivolgono alla Regione per "annullare un accordo tra l'ufficio scolastico regionale e l'esercito per far svolgere le ore di alternanza scuola-lavoro dentro le caserme". "Attacchiamo pesantemente questa scelta e chiediamo che l'accordo venga eliminato", conclude Andrea Cascino del liceo Basile.

ROMA 

Partito il corteo degli studenti da Piazza Vittorio a Roma, dove questa mattina si sono riuniti gli studenti appartenenti al movimento della Lupa. Il corteo è diretto verso piazza Madonna di Loreto. "Stiamo chiedendo l'abolizione immediata dell'alternanza scuola lavoro. In meno di un mese due morti, prima Lorenzo a Udine e l'altro giorno Giuseppe. Oggi più che mai l'alternanza va abolita. È vergognoso il tentativo del governo di barcamenarsi pur di non abolirla o di cambiarle nome pur di lasciarla così", dice in piazza Tommaso di Osa Roma, esponente del Movimento della Lupa. "In secondo luogo vogliamo il ritiro immediato di questa proposta di esame di maturità perché non tiene conto di questa profonda crisi psicologica e pedagogica stiamo vivendo. Questi due anni di pandemia sono stati durissimi per gli studenti - aggiunge Tommaso - In terzo luogo manifestiamo contro la repressione grave avvenuta sugli studenti nelle ultime settimane di mobilitazione", sottolinea lo studente chiedendo infine "le dimissioni immediate del ministro Bianchi".

FIRENZE 

Più di 300 manifestanti stanno sfilando per le vie del centro di Firenze nell'ambito dell'iniziativa contro l'alternanza scuola-lavoro organizzata oggi in varie città d'Italia, in segno di protesta dopo la morte del 16enne Giuseppe Lenoci. I giovani hanno intonato cori contro il premier Mario Draghi e Confindustria. I manifestanti si sono radunati in piazza Adua dalle 9.30, nei pressi della sede di Confindustria Firenze, e da lì hanno cominciato a muoversi verso Piazza Indipendenza con bandiere e striscioni. Alla manifestazione, che terminerà in piazza Santissima Annunziata, partecipano oltre agli studenti anche lavoratori di aziende dell'area metropolitana fiorentina, fra cui Gkn (con il grande striscione 'Insorgiamo'), Nuovo Pignone ed Esaote.

Scuola, l’arcipelago della protesta: “Ora smetterete di chiamarci generazione disimpegnata". Corrado Zunino su La Repubblica il 19 Febbraio 2022. 

Lupa, Osa, Fronte della gioventù comunista: le anime dei nuovi movimenti. Contro governo e sindacato confederale: "Abbiamo grandi potenzialità, la pandemia ha solo acutizzato la nostra rabbia"Della conta della Digos di Torino - sedici studenti vicini al centro sociale Askatasuna, due attivisti di Osa, uno del Fronte della gioventù comunista, tutti denunciati per l'assalto alla Confindustria di via Vincenzo Vela - non vogliono curarsi. "Non ci sono infiltrati nel movimento studentesco", dicono. "Chi stava in prima fila al cancello difeso della polizia era uno di noi", dicono ancora. "La ministra Luciana Lamorgese se ne faccia una ragione".

L'ultimo movimento giovanile, tornato a crescere in questo inverno del 2022 che va a chiudere la pandemia di Omicron e la clausura della Generazione Dad, dice con i suoi atti alcune cose chiare: nel Paese è ripresa una conflittualità diffusa, nei confronti del governo e anche dei sindacati confederali. Si è alzato il livello della lotta: l'assalto a Confindustria Torino è definito da Simon Vial, responsabile scuola del Fronte della gioventù comunista, "un forte dato politico, succede perché abbiamo chiaro chi è responsabile dell'Alternanza scuola lavoro". Insegna a ragazzi di 15 anni, dice Vial a proposito dell'Alternanza Pcto, "che è normale lavorare senza diritti".

Chi rappresenta i giovani delle piazze?

E poi, terza questione, la ripresa delle manifestazioni - siamo al terzo venerdì consecutivo con adolescenti e post-adolescenti in piazza - sta ridefinendo la questione di chi rappresenta i giovani studenti di nuovo arrabbiati. Marco Lupo, lui matricola all'Università di Roma Tre ma riferimento per gli studenti di Osa (Opposizione studentesca d'alternativa), dice: "Le unioni e le reti classiche non fanno più parte del movimento. Li abbiamo cacciati il 4 febbraio sotto il ministero dell'Istruzione". Le organizzazioni antagoniste presero la scalinata, quel pomeriggio, con un sorpasso rapido e aggressivo durante la marcia e iniziarono a cantare: "Noi non siamo la Cgil". Consideravano a destra e a sinistra del sindacato di Landini la Rete degli studenti medi e l'Unione degli studenti mentre loro, nuovi antagonisti, preferiscono sintonizzarsi con i Cobas, in particolare l'Usb, "sindacato conflittuale".

Le sigle che vogliono guidare il movimento

Fronte della gioventù comunista, Osa. Poi Lupa e i collettivi di derivazione autonoma dei singoli istituti (Virgilio e Mamiani a Roma). I Ksa a Torino. Sono le nuove sigle che vogliono mettersi alla testa del nuovo movimento. Hanno preso attivisti in questi mesi, è un fatto, e parte dell'organizzazione degli ultimi cortei è passata sulle loro spalle. Il Fronte della gioventù comunista, un nome fuori dalle apparenti coordinate della modernità, assicura che alle ultime elezioni scolastiche ha ricevuto 120.000 preferenze (dato non semplice da verificare). "In due stagioni abbiamo preso dodici rappresentanti nelle consulte provinciali". Vive da dieci anni Fgc e nelle manifestazioni contro la Buona scuola si mostrava con un servizio d'ordine che sventolava piccole bandiere rosse e cantava "Fischia il vento". Poi i ragazzi hanno rotto con il Partito comunista di Marco Rizzo "e adesso siamo alla ricerca di un approdo politico". Osa è ancora più giovane, 2018. Si è presentato alla Camera giovedì scorso con Potere al popolo, lavora a Roma con il centro sociale "Acrobax" e a Milano con "Il Cantiere". Dice l'oppositore Lupo: "Vogliamo innescare una scintilla che cambi questa società". La vecchia rivoluzione, ecco. "Sì, sta arrivando".

La Rete degli studenti medi, una delle organizzazioni definite classiche, non ha partecipato al terzo venerdì di protesta. "Non ci piaceva la data, ci è sembrata pretestuosa", dice il coordinatore Luca Ianniello, "ma nessuno si può arrogare il diritto di dire chi rappresenta gli studenti. Per ora, noi abbiamo trenta consulte provinciali e quattro regionali". Simon Vial, giovane comunista, riassume la giornata "Contro la scuola dei padroni": "Le piazze di queste ore sono state incredibili, per numeri e messaggi. La narrazione della generazione disimpegnata è stata capovolta. Abbiamo grandi potenzialità, la pandemia ha solo acutizzato la nostra rabbia".

I giovani italiani sono una generazione di inascoltati. Dalla scuola, al clima, dal fine vita al ddl Zan. I ragazzi si impegnano, chiedono diritti, sicurezza e spazi di partecipazione. Ma trovano manganelli e un palazzo sordo alle istanze dal basso. Eppure non si arrendono. Marco Grieco su L'Espresso il 18 Febbraio 2022.

Non c’è più tempo per i giovani italiani: non hanno che l’oggi per plasmare quel domani sempre più sfumato nei palazzi di governo. Quando, lo scorso 15 febbraio, a tre anni dalla storica assoluzione di Marco Cappato che rischiava dodici anni di carcere per aver accompagnato il tetraplegico Fabiano Antoniani a morire in Svizzera, la stessa Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sull’eutanasia legale, con Cappato e Mina Welby a esser delusi c’erano anche loro.

Studenti assaltano Confindustria: 7 agenti feriti. Gabriele Laganà il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Dopo aver lanciato uova di vernice contro la sede di via Vela, alcuni giovani hanno forzato il cancello di ingresso ma sono stati respinti dalle forze dell’ordine. Diversi carabinieri e poliziotti sono rimasti feriti.

Momenti di forte tensione a Torino tra studenti e forze dell'ordine nei pressi della sede di Confindustria. Dopo aver lanciato uova di vernice contro la palazzina di via Vela, alcuni giovani hanno forzato il cancello di ingresso ed hanno tentato di entrare negli uffici colpendo con bastoni e aste di bandiere le forze dell'ordine poste a presidio del varco.

Tentativo vanificato dal pronto intervento di polizia e carabinieri che sono riusciti a respingere i manifestanti. Nei disordini sono rimasti feriti almeno 6 militari dell’Arma ed un funzionario di polizia. Quest’ultimo è colpito da una bastonata al volto mentre un tenente dei carabinieri è stato ferito a un occhio. Entrambi sono stati portati in ospedale per essere medicati. Gli altri militari dell'Arma hanno, invece, riportato ferite lievi. Il corteo degli studenti, nel frattempo, si è spostato davanti agli uffici del Miur in corso Vittorio.

Nel capoluogo piemontese, così come in altre 39 città italiane, gli studenti delle superiori sono tornati a manifestare contro la scuola-lavoro, dopo la tragica morte di Giuseppe Lenoci durante uno stage e per chiedere un esame di Maturità diverso. Alcune organizzazioni chiedono le dimissioni del ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, e del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese.

"Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci sono vittime di un'Italia in cui muoiono tre lavoratori ogni giorno, e in cui si è deciso di mandare gli studenti a lavorare gratis nelle stesse condizioni. Strappiamo e diamo fuoco ai simboli di Confindustria perché sappiamo chi ha voluto una scuola modellata sugli interessi dei padroni", è il grido lanciato nelle piazze dai ragazzi aderenti al Fgc (Fronte gioventù comunista, ndr) che ha organizzato le manifestazioni.

È a Torino che la tensione pare essere più alta. In città nei giorni scorsi sono state occupate numerose scuole. Oggi un lungo serpentone, formato da circa 3mila persone, è partito da piazza XVIII Dicembre per raggiungere le sedi di Confindustria, dove si sono segnalati scontri, e del Miur. In piazza presenti anche i sindacati e gli universitari.

Ad aprire il corteo lo striscione "Contro alternanza maturità e repressione no alla scuola del padrone". "Se non cambierà lotta dura sarà" è , invece, lo slogan scandito dai giovani. Chiuse le entrare della stazione ferroviaria di Porta Susa su corso Bolzano, sul tragitto della manifestazione.

"Gli studenti tornano in piazza perché è inaccettabile che si muoia in scuola-lavoro", ha spiegato Simon Vial, responsabile nazionale del Fgc. “Noi siamo contro questo sistema di iscrizione- ha proseguito- che fa sì che gli studenti siano costretti a lavorare gratis e senza diritti e rischino pure la propria vita".

Augusta Montaruli, deputata torinese di Fratelli d'Italia, ha condannato le violenze accadute in città ed ha criticato duramente il ministro Lamorgese. "Centri sociali che assaltano palazzi e forze dell'ordine messe dietro i cancelli: questo il risultato di un ministro che ha scaricato la responsabilità sugli agenti e che non distingue studenti da facinorosi, limitando vergognosamente i primi e mettendo i tappeti rossi ai secondi anziché isolarli e fermarli", ha denunciato in una nota la parlamentare spiegando che "gli esponenti dei centri sociali che provano a prendere le fila delle manifestazioni studentesche per destabilizzarle non andavano invitati ai tavoli del dialogo ma semmai sgomberati dagli stabili comunali. Askatasuna è ancora lì".

Per Montaruli "questa situazione inaccettabile, che deriva solo da responsabilità politiche del Ministro ed anche dalle sue parole gli scorsi giorni in Aula, dimostra ancora una volta l'inadeguatezza di Lamorgese".

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento

«Determinati e uniti, siamo figli della stessa classe»: gli studenti italiani diventano modello per le proteste internazionali. Critica all’alternanza scuola-lavoro, lotta al precariato, istruzione per tutti. Sono queste le rivendicazioni comuni che uniscono l’Italia e le organizzazioni studentesche all’estero, dalla Spagna alla Grecia alla Palestina. In piazza nei giorni scorsi per dimostrare sostegno. Erika Antonelli e Chiara Sgreccia su L'Espresso il 23 Febbraio 2022.

«Siamo scesi in strada per ribadire che il vostro modello di scuola non lo vogliamo: una scuola sessista, fatta di abusi, sfruttamento, competizione, che vogliamo rompere e rivoluzionare a partire dallo straordinario protagonismo studentesco degli ultimi mesi». Così scrivono sui social gli studenti del movimento Lupa-scuole in lotta, la rete di coordinamento degli istituti romani nata dalle occupazioni d’autunno, dopo la mobilitazione nazionale che si è svolta nelle piazze delle principali città d’Italia, lo scorso venerdì 18 febbraio. E ha ricevuto il sostegno internazionale degli studenti che da Spagna, Grecia e Palestina si sono uniti alle proteste italiane. A dimostrazione che il nostro non è l’unico Paese in cui si sta risvegliando la società civile. Per Lorenzo Lang del Fronte della gioventù comunista, gli studenti stanno portando avanti una delle poche forme di contestazione all’operato del governo, in un momento in cui tutte le forze politiche, invece, sono alla spasmodica ricerca della pace sociale.

«In Italia – spiega - il movimento sta dimostrando il suo potenziale e ha assunto dimensioni importanti. È, probabilmente, il più grande da quando c’è stata la pandemia. Le rivendicazioni degli studenti hanno superato i confini nazionali e si sono legate ad altre battaglie a livello internazionale». Anche secondo il Frente de estudiantes, il sindacato studentesco spagnolo che lotta per un'istruzione pubblica gratuita e di qualità al servizio dei lavoratori, l’alternanza scuola-lavoro è il risultato di un sistema che sottomette la formazione agli interessi delle aziende. «Gli studenti vengono usati come mano d’opera a basso costo, per pagare il prezzo della crisi economica». Per questo «solidarizzare con i ragazzi italiani serve a dire che in Spagna abbiamo gli stessi problemi e a indicare chi sono i responsabili dello sfruttamento e della morte». Entrambi i Paesi, chiariscono dal Frente, «stanno subendo in prima persona le conseguenze della crisi. C’è bisogno di un’organizzazione che risponda al precariato e renda l’istruzione non solo un diritto di pochi».

Uno dei modi con cui il Frente de estudiantes ha dimostrato vicinanza alla lotta italiana è stato organizzare una manifestazione fuori l’ambasciata italiana di Madrid. E non sono stati i soli.

Anche Antonis, delegato greco del Comitato di coordinamento degli studenti di Atene, venerdì scorso è sceso in piazza accanto ai torinesi. «I ragazzi di sedici o diciotto anni non possono morire andando a lavorare gratis per soddisfare i profitti delle aziende», ha scandito al microfono. «Anche in Grecia abbiamo lottato per avere scuole aperte e sicure. Gli operai erano accanto a noi e alcuni di loro hanno scioperato per sette giorni in seguito alla morte di un collega. Ma le nostre rivendicazioni hanno trovato come risposta la repressione». Racconta che i cortei sono stati attaccati dalle forze dell’ordine che hanno utilizzato i lacrimogeni per disperdere i manifestanti. E da alcuni gruppi fascisti legati alla tifoseria delle squadre di calcio locali.

Vicinanza e sostegno sono arrivati anche dal Movimento d'azione studentesco palestinese, sezione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. «Crediamo che, seppur con espressioni diverse, ci ritroviamo a fronteggiare un unico nemico. Da noi l'occupazione e il colonialismo, in Italia lo sfruttamento». E aggiungono: «La reciproca vicinanza e il sostegno politico ci ricordano che siamo i figli della stessa classe. Sapere che oltre il Mediterraneo c’è qualcuno che lotta per i tuoi stessi obiettivi, vedere le piazze piene in Italia, ha contribuito a tenere alto il morale».

Ne è convinto anche Giuliano, studente del Liceo Virgilio di Roma, per cui l’unico sistema violento è quello che reprime il dissenso. «Ci rivedrete nelle piazze e nelle strade più determinati di prima, ci volete passivi e divisi, ci avrete combattivi e uniti» aveva detto durante la conferenza stampa davanti al ministero dell’Istruzione a Roma, pochi giorni prima della manifestazione nazionale. E così ha ribadito al megafono Pietro del movimento La Lupa al termine della mobilitazione del 18 febbraio, di fronte a circa 3 mila studenti che hanno formato il corteo che si è mosso per le strade della Capitale.

Con le manifestazioni in piazza sono iniziati anche gli Stati Generali della Scuola, tre giorni di confronto e dibattito su come riappropriarsi degli spazi fisici e mentali che una società democratica dovrebbe lasciare a disposizione della collettività. E per costruire un modello di istruzione basato sulle esigenze degli studenti. Le stesse che hanno permesso, dopo anni di silenzio, alla politica di tornare dentro le scuole. Secondo Lang «le richieste degli studenti hanno superato il confine delle piazze». Infatti, lo scorso lunedì sono state ascoltate dalla Commissione cultura della Camera. «È evidente che al di là delle differenti vedute sui temi contingenti, le nostre studentesse e i nostri studenti siano preoccupati soprattutto per i problemi strutturali della scuola: dall’edilizia scolastica alla mancanza di un sostegno psicologico, dallo sport a scuola all’uso della Dad come strumento complementare di formazione ed educazione. Terrò conto degli interventi di oggi, sarò portavoce delle istanze degli studenti al ministro Bianchi» ha detto Valeria Casa, presidente della Commissione, dopo l’audizione.

Dentro e fuori l’Italia, la voce degli studenti sta riuscendo a farsi sentire. Diventando unica, tanto che le parole di Antonis potrebbe averle pronunciate qualsiasi ragazzo italiano: «Non possiamo accettare che le nostre scuole invece di formarci ci insegnino a lavorare gratis nelle aziende. Siamo forti e vinceremo». Continua la lotta per una scuola all’altezza delle loro esigenze.

Le tensioni sulla scuola rischiano di degenerare: qualcuno strumentalizza i nostri figli. Francesco Storace su Il Tempo il 19 febbraio 2022

In campana, che ci si fa male. La protesta degli studenti rischia di degenerare, il fuoco della contestazione a tratti violenta divampa, occhio che se non si pone un argine crolla tutto e diventa davvero difficile ricostruire. Tra Napoli, Palermo Milano, Roma e soprattutto Torino ieri si sono registrate tensioni di cui non si sentiva la mancanza, finanche con aggressioni a danno di poliziotti e carabinieri chiamati a garantire la sicurezza di tutti. C'è un diritto a manifestare che non si può mettere in discussione; ma c'è anche il dovere di contrastare ogni tipo di strumentalizzazione. E quando - come ha detto il sottosegretario all'istruzione Rossano Sasso - si urlano «slogan che richiamano apertamente gli anni di piombo», si rompe ogni dialogo possibile. La violenza è inaccettabile. A Torino sei carabinieri e un funzionario di polizia sono stati aggrediti in maniera selvaggia, a bastonate e a pietrate. Anche questo spettacolo non lo si vedeva da tempo. Le forze dell'ordine erano schierate a difesa di un obiettivo di altri tempi, nella Torino operaia: la Confindustria, con il tentativo di un gruppo di giovani di forzare i cancelli di ingresso della sede dell'organizzazione. Poco prima un lancio di uova riempite con vernice rossa aveva imbrattato la facciata dell'edificio.

È impossibile non risalire con la memoria a quegli anni terribili della violenza - e poi del terrore - contro i luoghi simbolo. La polizia. I «padroni». I cosiddetti nemici del popolo colpiti dagli studenti. Che cosa c'entra tutto questo con le rivendicazioni dei nostri figli? Chi li spinge a quel tipo di assalti? Chi ordina loro di aggredire poliziotti e carabinieri? Domande obbligate, perché è impossibile immaginare che quei ragazzi abbiano organizzato da soli tutto quel gran casino. La protesta studentesca ha messo nel mirino l'alternanza scuola lavoro e il ministro Pietro Bianchi. Il che ci può sicuramente stare, soprattutto di fronte alle tragedie dei giorni scorsi e due ragazzi morti. Ma se la rabbia sfocia nella violenza contro obiettivi così precisi, diventa impossibile non ripensare proprio a quei terribili periodi e auspicare che non ci sia la stessa sottovalutazione di allora ai primi episodi da parte dello Stato.

È un clima che si sta intossicando, che inevitabilmente si intreccerà con le tensioni sociali in arrivo. Ora che la pandemia pare volgere al termine, non saranno più i no-vax a creare allarme nelle piazze. Agli studenti si uniranno quanti temeranno per i posti di lavoro se non si riuscirà per davvero a intercettare la ripresa di cui tanto si parla senza ancora vedere i risultati promessi. E lo stesso Draghi rischia di diventare il bersaglio della contestazione: perché è il suo governo a dover portare l'Italia fuori dalla crisi che viviamo. L'investimento nella scuola deve essere considerato prioritario, così come quello sul lavoro. L'illusione assistenzialista deve lasciare il passo a politiche di sviluppo reale. Se tutto rimane come ora, l'avrà vinta chi soffia sul fuoco della protesta.

Studenti in piazza, Pietro Senaldi: la ribellione contro gli stage danneggia loro stessi. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022.

Guarda che strano, gli studenti ieri sono scesi in piazza per protestare. Stupore, pendono a sinistra. Altra novità, si lamentano di non essere considerati dal mondo degli adulti, ai quali vogliono spiegare come dovrebbe girare la vita. Non vogliamo qui perderci nel solito pippone sull'essere umano che nasce incendiario e muore pompiere né banalizzare la protesta, che ha due obiettivi: il rifiuto di affrontare la seconda prova scritta all'esame di maturità e la richiesta di eliminare l'alternanza scuola-lavoro, dopo la morte di due ragazzi in stage nelle scorse settimane. Partiamo dalla seconda questione, che appare più seria. Giuseppe aveva 17 anni e gli è stato fatale un incidente automobilistico, mentre era a bordo del furgone della ditta dove era impegnato. Lorenzo aveva 18 anni ed è deceduto per un infortunio nella fabbrica che lo occupava.

Sono state due disgrazie sulle quali stanno indagando i magistrati e nessuno può dire se vi sia stata colpa dei datori di lavoro osi tratti di semplici fatalità. Tantomeno si può sapere se le due vittime fossero sfruttate da imprenditori aguzzini, come lamentano i collettivi studenteschi che hanno organizzato la protesta. Possiamo solo dire che l'incidente automobilistico è la prima causa di decesso tra i giovani, che assai difficilmente muoiono di vecchiaia; di solito la tragedia avviene il sabato sera, dopo la discoteca o l'aperitivo, ma non si sono mai registrate marce di liceali per l'abolizione delle discoteche, dei pub o dei gin-tonic. Né si può immaginare che ci sarebbe una ribellione contro le gite scolastiche se un pullman carico di studenti cadesse in un dirupo. Quanto all'alternanza scuola-lavoro, occorre ricordare che l'hanno voluta proprio i ragazzi e il suo scopo non è lo sfruttamento dei minori, che quando arrivano dai banchi sono generalmente inservibili da parte delle ditte che li accolgono e rappresentano per esse più una perdita di tempo che un investimento.

L'esperienza in ditta ha lo scopo di far conoscere ai ragazzi il mondo del lavoro e collegarlo a quello della scuola. Se i giovani non vogliono più farla, prego, ma l'occasione la perdono loro, non gli imprenditori. Bisogna stare attenti a non buttare il bambino con l'acqua sporca, il che significa fuggire dal massimalismo di piazza sbandierato ieri dai giovani. Gli stage devono svolgersi in sicurezza e le aziende che non garantiscono le giuste condizioni vanno sanzionate ma abbandonare l'esperimento sarebbe un errore, equivarrebbe a chiudere tutte le fabbriche e i cantieri all'indomani di una morte sul lavoro. Quanto al no alla seconda prova scritta all'esame di maturità, davvero l'impegno studentesco meriterebbe obiettivi più ambiziosi. Cambiare le regole va bene, ma per farlo prima bisognerebbe dimostrare di saperne osservare qualcuna.

Della protesta di ieri resta l'assalto a Confindustria, vista come un nemico, il che non promette nulla di buono da parte di chi sta per affacciarsi al mondo del lavoro. Ma qui l'indice andrebbe puntato sul mondo degli adulti, in particolare di quelli che vorrebbero plasmare le coscienze politiche e sociali del Paese. Se a essere oggetto di un'aggressione è la sede della Cgil, per di più da parte dell'estrema destra, scatta la mobilitazione nazionale e la sinistra sfila in piazza sotto il palco di Landini. Se nel mirino finiscono gli imprenditori, i progressisti che vanno in sollucchero per Draghi si voltano dall'altra parte. Questo significa che le generazioni passano ma la manfrina in Italia resta la stessa: non contano i comportamenti ma chi li agisce e chili subisce. I ragazzi lo hanno capito bene e, per non finire nei guai, colpiscono i bersagli sicuri ma non si illudano: anche quando cresceranno, il potere rosso continuerà a usarli e non ascoltarli proprio come oggi. 

Il cattivo esempio. Redazione il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Gli studenti si sono messi a manifestare e ad occupare scuole. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Per due anni li abbiamo chiusi a casa, costretti alla didattica a distanza, colpevolizzati per la movida, abbiamo impedito loro di fare sport, stare all'aperto e, invece di urlare per come abbiamo trattato le loro giovani libertà, manifestano contro l'alternanza scuola-lavoro. Viene da pensare che abbiamo perso una generazione. Poi, però, ascolti le loro rivendicazioni: «Nessuno di noi morirà più al servizio dei padroni». A cui segue la richiesta che gli stage siano retribuiti. E allora capisci tutto. Sono semplicemente i figli - poco originali - di quelli che hanno sempre gridato al «padrone»: sembrano usciti da un film di Nanni Moretti, invece al massimo hanno giocato a Fortnite.

È dunque il solito gruppo di ideologizzati, una minoranza degli studenti, che non sanno quello che dicono, ma sanno bene cosa vogliono: fare nulla ed essere pagati dalla collettività. Il problema è che oggi rischiano di essere accontentati. Chiedono il «reddito di formazione». Se solo studiassero, saprebbero quanto costano alla collettività e che l'alternanza scuola-lavoro esiste in tutti i Paesi civili. Può essere migliorata, senza dubbio. Nei Paesi anglosassoni è volontaria, è tipica del percorso educativo di ogni famiglia, indipendentemente dal censo. Nei Paesi continentali è invece regolata dallo Stato, con accordi fatti con i privati, e, come tutte le procedure burocratiche, essa non si sottrae a quella ineludibile legge: rispettiamo l'obbligo che ci impone la norma, senza però crederci davvero.

Ci sono centinaia di straordinari esempi di «alternanza» e altrettanti non funzionanti. La critica studentesca sarebbe sacrosanta se poggiasse sul suo miglioramento e non sulla richiesta di una retribuzione. Gli esempi migliori di queste esperienze rappresentano un costo per le aziende che li mettono in piedi. Un costo ragionato per formare i propri dipendenti del futuro.

In un mondo normale, vogliamo esagerare, si paga per stare in bottega e imparare un mestiere. Vaglielo a spiegare oggi ai giovani studenti gné gné che manifestano insanguinati o che chiedono il «reddito di formazione». Certo, in un Paese che ha speso 20 miliardi di reddito di cittadinanza e ha incluso tra i percettori anche i ventenni, beh in un Paese di questo tipo è del tutto evidente che la politica solletichi la presunzione che tutti abbiano diritto ad un reddito senza fare un accidenti.

Figuratevi un po' voi se a questi poveri disgraziati si imponga di «fare le fotocopie o portare il caffè». «Dov'è la nostra dignità?», si chiedono retoricamente in piazza. Invece pretendere un reddito di formazione o cittadinanza, è forse più dignitoso?

Stage extracurriculari, servono per il lavoro? Quanti vengono assunti: i dati. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 15 Giugno 2022.

Gli stage, istituiti 25 anni fa dalla legge 196 del giugno 1997, hanno l’obiettivo di facilitare ai giovani l’ingresso nel mondo del lavoro. Ma lo fanno davvero? Tecnicamente si chiamano tirocini extra-curriculari perché sono esperienze di formazione dentro un’azienda o un’altra attività produttiva svolti indipendentemente dal percorso di studi (e si differenziano dai tirocini curriculari che,invece, sono promossi dalle istituzioni scolastiche all’interno del programma scolastico). Nel 2021 in 310.638 sono passati da questa esperienza. Nel 2020, anno di picco della pandemia, in 213.951. Questi dati, che Dataroom può mostrare in anteprima, li analizza l’Agenzia nazionale Politiche attive del Lavoro (Anpal), pronta a pubblicare il report annuale, elaborato sulla base delle comunicazioni obbligatorie di inizio attività al ministero del Lavoro. Complessivamente dal 2014 a oggi li hanno svolti quasi in 2 milioni e 115 mila, un numero che ben fa capire come i giovani li considerino un trampolino di lancio per iniziare una professione. Sono proprio gli under 30, infatti, nell’80% dei casi a ricorrere a questo strumento. Ma sono anche coloro che si interrogano sempre di più sulla loro effettiva utilità: quanti dopo uno stage vengono assunti? Per capirlo vanno prese in considerazione le statistiche che vanno dal 2014 al 2019, più significative perché esenti dall’impatto del Covid-19: in questo periodo i tirocini extra-curriculari sono cresciuti del 60%, da 223.430 a 334.836, svolti in 162.298 imprese. Vediamo che esito hanno avuto e perché il ministro del Lavoro Andrea Orlando vuole varare con le Regioni nuove regole annunciate per fine giugno. 

Le regole attuali

Quelle in vigore oggi sono contenute nelle «Linee guida in materia di tirocini» del 25 maggio 2017 adottate con un accordo tra il governo, le Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano (Repertorio Atti n. 86/CSR) e stabiliscono:

1) la durata minima dello stage che è di 2 mesi, la massima 12 (tranne eccezioni come per i disabili o gli stagionali);

2) l’indennità minima che è di 300 euro al mese;

3) il divieto di utilizzare i tirocinanti in determinate situazioni, ossia che non possono essere presi per sostituire personale in ferie, malattia o maternità;

4) i limiti numerici di quanti stagisti possono esserci contemporaneamente all’interno di un’azienda, che variano in base al numero di dipendenti a tempo determinato e indeterminato (fino a 5 lavoratori è possibile ospitare un solo tirocinante per volta; tra sei e venti non se ne possono inserire più di due; sopra i 20 la quota di stagisti non può essere superiore al 10%). Per chi ha più di 20 dipendenti queste quote possono poi aumentare per chi assume i propri tirocinanti con un contratto di lavoro subordinato della durata di almeno 6mesi (il numero varia a seconda della percentuale di stagisti assunti);

5) gli obblighi per i datori di lavoro, che devono assegnare a tutti un piano formativo e tutor di riferimento. 

L’applicazione delle Regioni

Però la materia è di competenza regionale. Lo stabilisce la Corte costituzionale, che pone in capo alle Regioni la disciplina esclusiva dei tirocini extracurriculari (sentenza n. 287/2012). Così le Linee guida stabilite a livello nazionale possono avere valore solo se recepite all’interno dei loro 21 ordinamenti. E in questo passaggio ognuno va un po’ per conto proprio. Per quanto riguarda il numero dei tirocinanti succede, per esempio, che in Campania e Sicilia le aziende con più di 20 dipendenti possono ospitare contemporaneamente una quota di stagisti fino al 20% dei dipendenti stessi (il doppio delle indicazioni nazionali). Per quanto concerne la facoltà di attivare tirocini oltre le quote stabilite in base al numero di assunzioni post-stage, Veneto, Liguria ed Emilia-Romagna estendono il principio a tutte le aziende, anche quelle sotto i 20 dipendenti. Durata: soltanto 3 Regioni (Molise, Calabria e Sardegna) prevedono limiti di durata massima perfettamente conformi alle indicazioni delle Linee guida 2017, mentre in linea generale la scelta è di abbassarla a 6 mesi. Importo riconosciuto come compenso per l’attività svolta: Sicilia e Provincia di Trento scelgono di adottare l’importo minimo di 300 euro, ma Abruzzo e Piemonte fissano la soglia minima in 600 euro mensili; il Lazio a 800 euro mensili, e nelle altre Regioni l’importo minimo mensile è tra i 400 e i 500 euro. 

Lo sbocco nel mondo del lavoro

Abbiamo visto che l’obiettivo degli stage è facilitare il contatto e il primo ingresso nel mondo del lavoro. Per sapere cosa succede in realtà bisogna analizzare i dati su chi ha trovato lavoro a 6 mesi dalla fine del tirocinio. Dataroom lo fa elaborando i numeri Anpal relativi ai tirocini tra il 2014 e il 2019, che per semplificare riferiamo agli stagisti dal momento che, come dimostrato nel primo grafico, lo scostamento è minimo. Ebbene, finito il tirocinio su 100 stagisti 30 hanno un contratto per lo più a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro dove hanno fatto il tirocinio, 24 con un altro datore di lavoro, 35 nulla, 11 passano a un nuovo tirocinio. Bisogna andare a vedere, poi, cosa ne è a 12 mesi di distanza di quei 54 che avevano trovato lavoro: 14 non lavorano, 20 hanno ancora un contratto con lo stesso datore di lavoro, altri 20 hanno altri contratti con uno o più nuovi datori di lavoro. 

Le chance

Chi ne ha di più? La media di 54 tirocinanti su 100 che dopo il tirocinio trovano un contratto oscilla così:

Per titolo di studio: chi ha la laurea e diploma è sopra la media, rispettivamente al 58 e 57%; chi ha fino alla terza media è invece sotto la media (46%);

Per tipo di professione: sopra la media i conduttori di impianti, gli operai di macchinari e i conducenti di veicoli (62%); chi fa professioni tecniche (59%), chi quelle intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione (57%), chi svolge attività commerciali e nei servizi e gli artigiani, gli operai specializzati e gli agricoltori (55%); perfettamente in media gli impiegati d’ufficio (54%); sotto la media i professionisti non qualificati (34%);

Uomini e donne hanno le stesse opportunità; mentre il tirocinio tra i 3 mesi e un anno ne dà più rispetto a quello sotto i 3 mesi (60% a 40%). 

Gli abusi e le nuove regole

Morale: se i tirocini in astratto possono rappresentare una magnifica opportunità, in concreto dentro gli stage possono prolificare gli abusi che sono tanti: le imprese spesso tappano le necessità facendo turnare gli stagisti, troppi – più della metà dei tirocini – non sfociano in un contratto di lavoro, e succede anche che al posto della formazione i tirocinanti vengano utilizzati per fare le fotocopie. È il motivo per cui la legge di bilancio prevede entro il 30 giugno un accordo Stato-Regioni per nuove regole. È la settima revisione in 25 anni. Il ministro Orlando intende vincolare i nuovi tirocini a una quota minima di assunzioni, puntare sulla verifica dei livelli di formazione, e in caso di abuso, fare scattare sanzioni all’azienda di 50 euro al giorno per ogni stagista per la durata del tirocinio. 

La convinzione di Orlando è che oggi a essere premiati sono i giovani già qualificati che potrebbero essere assunti direttamente con un contratto di lavoro: ciò lo ha portato a mettere sul tavolo anche l’ipotesi di circoscrivere l’applicazione dei tirocini per i soggetti con difficoltà di inclusione sociale. Un’idea però contestata dalle Regioni (qui un approfondimento) perché il rischio è di buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Tommaso Biancuzzi, ecco chi è il nuovo Mattia Santori della sinistra. Francesco Curridori il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi, è l'astro nascente della sinistra, un ragazzo che mediaticamente sta rubando la scena al leader delle Sardine.

Per ogni stagione politica, la sinistra trova il suo eroe. Se il governo giolloverde ha visto la nascita del fenomeno delle sardine con Mattia Santori capo-popolo, quello di Mario Draghi deve vedersela con Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi.

È lui il giovane della provincia di Padova che si è fatto paladino della battaglia contro gli scritti alla prova di maturità. "Vogliamo un elaborato scritto da presentare oralmente, preparato coi docenti, interdisciplinare e che vada oltre i programmi", ha detto a Repubblica il leader del sindacato dei ragazzi delle superiori che raccoglie 10mila iscritti. E così, dopo aver criticato il governo per l'eccessivo uso della Dad, ora gli studenti si lamentano perché non possono avere “la pappa” preparata insieme ai docenti. D'altronde l'obiettivo dichiarato di Biancuzzi è quello di “liberarci del fardello di una scuola gentiliana".

Ovviamente il novello Santori è un antifascista doc che il 17 ottobre scorso ha partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Cgil dopo l'assalto di Forza Nuova.“Era importante esserci. Noi c'eravamo. Studentз e antifascistз, sempre”, ha scritto nel suo profilo Facebook. Ovviamente, in ogni suo post, non manca mai la schwa, neutra, non-binaria e inclusiva. Insomma, Biancuzzi sembra avere tutte le caratteristiche del prototipo dell'attivista amante del politicamente corretto, assiduo frequentatore delle manifestazioni pro Lgbt. Il Ddl Zan, però, è solo un lontano ricordo, mentre l'esame è alle porte. Il principale avversario è il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, reo di “raccontarci che va tutto bene, che è tutto tornato alla normalità e che ci siamo lasciatз la pandemia alle spalle”. Ma non solo. “Tommy”, come viene chiamato il nuovo barricadero della sinistra, sta spopolando, con interviste e articoli, su tutti i giornali “amici”: da Left a L'Espresso, da Repubblica al Manifesto.

Il giovane rivoluzionario rosso, partito dal Veneto leghista, in queste ultime settimane si è mobiliato anche contro l'alternanza scuola-lavoro, ribatezzata Pcto e, all'inizio di dicembre, ha partecipato anche a un evento del Pd. “Più di 40 interventi tra associazioni, amministratori, parti sociali, cittadine e cittadini. Dobbiamo raccogliere l’invito di Andrea Riccardi ad aprire un processo per sviluppare la politica dove hanno vinto i partiti della rabbia e della paura”, ha scritto Biancuzzi, orgoglioso di aver preso parte a TorBellaMonaca all’Agorà democratica sul tema delle periferie. Chissà se anche lui, come Mattia Santori, nutre il desiderio nascosto di intraprendere la carriera politica.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Da ilgiornale.it il 12 febbraio 2022.

Per ogni stagione politica, la sinistra trova il suo eroe. Se il governo gialloverde ha visto la nascita del fenomeno delle sardine con Mattia Santori capo-popolo, quello di Mario Draghi deve vedersela con Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi. 

È lui il giovane della provincia di Padova che si è fatto paladino della battaglia contro gli scritti alla prova di maturità. «Vogliamo un elaborato scritto da presentare oralmente, preparato coi docenti, interdisciplinare e che vada oltre i programmi», ha detto a Repubblica il leader del sindacato dei ragazzi delle superiori che raccoglie 10mila iscritti. E così, dopo aver criticato il governo per l'eccessivo uso della Dad, ora gli studenti si lamentano perché non possono avere “la pappa” preparata insieme ai docenti. D'altronde l'obiettivo dichiarato di Biancuzzi è quello di «liberarci del fardello di una scuola gentiliana».

Ovviamente il novello Santori è un antifascista doc che il 17 ottobre scorso ha partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Cgil dopo l'assalto di Forza Nuova. «Era importante esserci. Noi c'eravamo. Student? e antifascist?, sempre» ha scritto nel suo profilo Facebook. Ovviamente, in ogni suo post, non manca mai la schwa, neutra, non-binaria e inclusiva. Insomma, Biancuzzi sembra avere tutte le caratteristiche del prototipo dell'attivista amante del politicamente corretto, assiduo frequentatore delle manifestazioni pro Lgbt. 

Il Ddl Zan, però, è solo un lontano ricordo, mentre l'esame è alle porte. Il principale avversario è il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, reo di «raccontarci che va tutto bene, che è tutto tornato alla normalità e che ci siamo lasciat? la pandemia alle spalle». Ma non solo. “Tommy”, come viene chiamato il nuovo barricadero della sinistra, sta spopolando, con interviste e articoli, su tutti i giornali “amici”: da Left a L'Espresso, da Repubblica al Manifesto.

Il giovane rivoluzionario rosso, partito dal Veneto leghista, in queste ultime settimane si è mobiliato anche contro l'alternanza scuola-lavoro, ribatezzata Pcto e, all'inizio di dicembre, ha partecipato anche a un evento del Pd. «Più di 40 interventi tra associazioni, amministratori, parti sociali, cittadine e cittadini. Dobbiamo raccogliere l’invito di Andrea Riccardi ad aprire un processo per sviluppare la politica dove hanno vinto i partiti della rabbia e della paura», ha scritto Biancuzzi, orgoglioso di aver preso parte a TorBellaMonaca all’Agorà democratica sul tema delle periferie. Chissà se anche lui, come Mattia Santori, nutre il desiderio nascosto di intraprendere la carriera politica.

Le lacrime per Lorenzo morto durante lo stage. "Fermiamo le stragi". Tiziana Paolocci il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

In centinaia ai funerali del 18enne. Lettera aperta dei familiari: "Servono nuove norme".

Fiori bianchi, lacrime, commozione ma anche rabbia al corteo funebre per Lorenzo Parelli.

Ieri gli amici del diciottenne, morto durante uno stage aziendale a Udine, hanno scortato il feretro accompagnandolo come angeli custodi in sella a moto e motorini. Le due ruote erano la passione del giovane, divenuto simbolo della mancanza di sicurezza sul lavoro e di un sistema di alternanza scuola-lavoro che ancora scricchiola. A Castions di Strada, in provincia di Udine, c'erano centinaia di persone fuori alla chiesa del paese, dove il parroco ha accolto la bara uno sopra uno stiscione «Ciao Pare». Sono rimaste mute, ancora incredule, mentre don Adolphus Ikechukwilu impartiva la benedizione. Poche ore prima Dino, Maria Elena e Valentina Parelli, i genitori e la sorella di Lorenzo, avevano diffuso una lettera aperta alle istituzioni e alla stampa. «Ci affidiamo alle autorità, quali cittadini fiduciosi nelle leggi e nelle istituzioni della nostra Repubblica - si leggeva -. La sicurezza e la salute, la scuola e il lavoro richiedono adeguati strumenti di accompagnamento e protezione, strumenti che forse, nella triste perdita di Lorenzo, sono mancati. A breve le autorità competenti accerteranno fatti ed eventuali responsabilità».

Domani gli studenti di tutta Italia scenderanno di nuovo in piazza a una settimane dai cortei che la polizia ha represso, forse con troppa veemenza visto il numero dei feriti tra i manifestanti, una ventina solo a Torino. Una circostanza che ha creato non poco imbarazzo al Viminale. «Deve essere sempre garantito il diritto di manifestare e di esprimere il disagio sociale, compreso quello dei tanti giovani e degli studenti che legittimamente intendono far sentire la loro voce - ha detto ieri il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, cercando di smorzare le polemiche - purtroppo alcune manifestazioni sono state infiltrate da gruppi che cercavano disordini». «Bisogna dunque lavorare, aggiunge, per evitarne di nuovi scongiurando che le legittime proteste possano essere strumentalizzate da chi intende alimentare violenze e attacchi contro le forze di polizia - ha aggiunto -. La linea da seguire non può che essere quella del confronto e dell'ascolto, nella prospettiva di un patto destinato alle nuove generazioni che sappia coinvolgere tutte le istituzioni e l'intera società civile».

Sulla questione è intervenuto anche il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo: «Abbiamo rappresentato l'esigenza di riannodare i fili del dialogo con la componente studentesca, invitando le autorità di pubblica sicurezza ad aprire un confronto, soprattutto in vista della manifestazione già annunciata di venerdì». Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha fatto sapere di aver attivato con il collega Patrizio Bianchi un tavolo per rivedere complessivamente tutte le fasi nelle quali i ragazzi vanno sui luoghi di lavoro. «Si tratta di fare in modo tale che non si vada semplicemente lì, ma in luoghi di lavoro che abbiano una sorta di certificazione ulteriore, una specie di bollino blu - ha spiegato -. Non basta soltanto il rispetto della normativa sulla sicurezza, si tratta di mandare i ragazzi a formarsi in luoghi dove lo standard sia ancora più elevato di quello previsto dalla legge». Tiziana Paolocci

Ancona, muore a 16 anni in un incidente stradale durante lo stage. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

È successo a Serra de’ Conti. La vittima, Giuseppe Lenoci, era passeggero su un autocarro, che è finito contro un albero. Il conducente si è salvato ma è grave. 

Un ragazzo di 16 anni è morto in un incidente stradale nelle Marche: era a bordo di un furgone di una ditta di termo-idraulica presso cui stava facendo uno stage. Il mezzo è finito fuori strada contro un albero a Serra de’ Conti in orario di lavoro. Chi guidava è rimasto ferito.

La dinamica

L’adolescente, Giuseppe Lenoci, originario di Monte Urano (Fermo), viaggiava al posto del passeggero — che ha subìto il maggiore impatto contro l’albero — ed è morto sul colpo. Il conducente, un uomo di 37 anni, è stato invece sbalzato via dall’abitacolo, finendo a a vari metri di distanza dal mezzo. Sul luogo sono intervenuti i vigili del fuoco, che hanno estratto il corpo del ragazzo dalle lamiere, la polizia locale di Serra de’ Conti, i carabinieri e il 118. Il 37enne è stato trasportato all’ospedale di Torrette di Ancona in gravi condizioni.

La vittima

Giuseppe Lenoci era iscritto al corso triennale presso il centro di formazione professionale «Artigianelli» di Fermo e, da quanto si è appreso, stava svolgendo un percorso di alternanza scuola-lavoro proprio in termodinamica. Per cause che sono in corso di accertamento, il Ford Transit è finito fuori strada e ad avere la peggio è stato lo studente. L’urto è stato violentissimo e l’uomo che era alla guida è stato sbalzato fuori dal furgone.La sindaca del comune della provincia di Fermo ha parlato di «tragedia indescrivibile» e di «un dramma che distrugge una famiglia».

Il ministro Bianchi

Quando ha appreso la notizia il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha lasciato in anticipo un convegno a cui stava partecipando. «Mi scuso se sono uscito prima e mi scuso se uscirò tra poco, purtroppo c’è stato un incidente, un ragazzo che stava facendo un corso di formazione professionale della Regione Marche è rimasto ucciso in un incidente stradale, devo ovviamente andare», ha detto Bianchi.

Il precedente di Lorenzo Parelli

La tragedia arriva pochi giorni dopo la vicenza di Lorenzo Parelli, il ragazzo di 18 anni rimasto ucciso a gennaio in una fabbrica di Udine, mentre stava svolgendo un apprendistato previsto dal suo corso di studi in un Centro di Formazione Professionale. L’apprendistato faceva parte del cosiddetto «sistema duale», una delle forme dell’alternanza scuola-lavoro, che prevede che gli studenti delle scuole superiori frequentino stage lavorativi. Quella morte aveva poi dato il via a decine di manifestazioni degli studenti nelle principali città italiane.

Gli studenti

«Dopo tre settimane dall’omicidio di Lorenzo Parelli un altro ragazzo è morto durante uno stage, questa volta di sedici anni. Il ragazzo era passeggero su un autocarro che si è schiantato contro un albero, stava studiando in un centro di formazione professionale in regione e stava svolgendo un periodo di stage curriculare nel campo della termo idraulica». Lo dichiara in una nota l’Unione degli studenti. «Vogliamo sicurezza dentro e fuori le scuole — continua — vogliamo che l’alternanza scuola-lavoro e gli stage vadano aboliti a favore dell’istruzione integrata che metta in critica il sistema produttivo attuale per costruire dai luoghi della formazione un modello diverso di società».

Le reazioni politiche

«Un altra tragedia. Questa volta un ragazzo di 16 anni morto durante uno stage. Che deve succedere perche’ si prenda atto che il sistema attuale non funziona?», commenta in una nota il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni. «Il ministero ascolti gli studenti — aggiunge il vicepresidente della commissione cultura di Montecitorio — che si mobilitano e chiedono di fermare questo cortocircuito continuo tornando ad investire pienamente sulla scuola».

Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.

Ancona, un altro studente perde la vita sul lavoro. La protesta degli studenti: «Ora basta»

A giugno Giuseppe Lenoci si sarebbe diplomato come operaio specializzato in termoidraulica. Era ancora uno studente, aveva 16 anni, è l'ultima vittima del lavoro, ancora un ragazzo che muore durante uno stage. 

Era accaduto neanche un mese fa con Lorenzo Parelli a Udine, una morte che aveva scosso, indignato e mobilitato gli studenti. È successo di nuovo. Giuseppe Lenoci ieri mattina era a bordo di un furgoncino della ditta di termoidraulica di Fermo dove stava cercando di mettere in pratica quello che studiava. 

Era accanto al guidatore, un 37enne che, per cause ancora ignote, a Serra de' Conti, in provincia di Ancona, ha perso il controllo del mezzo. Che è sbandato, è uscito dalla carreggiata e ha finito la sua corsa contro un albero. Per Giuseppe non c'è stato niente da fare, i soccorritori hanno faticato a estrarre il corpo senza vita tra le lamiere.

L'altro operaio è stato sbalzato fuori per diversi metri, trasportato in gravi condizioni in elicottero all'ospedale regionale di Torrette. La giovane vittima frequentava l'ultimo anno di un corso di accompagnamento al lavoro al centro di formazione professionale Artigianelli di Fermo. 

Era originario di Monte Urano. Moira Canigola, la sindaca della cittadina del Fermano, fa fatica a trovare le parole: «Conosco la famiglia, persone perbene che tirano avanti con sacrifici. È una tragedia infinita, perdere un ragazzo in queste circostanze è sconvolgente». Padre Sante Pessot è il direttore dell'Istituto degli Artigianelli di Fermo: «È una disgrazia che ci colpisce profondamente, come comunità e come scuola. 

Abbiamo perso, in questo tragico incidente stradale, un "figlio" anche noi». Il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, appresa la notizia, ha lasciato in anticipo un convegno e, dopo aver espresso «il più profondo dolore e vicinanza alla famiglia», ha promesso interventi sulle norme che regolano gli stage.

«La sicurezza sul lavoro deve essere sempre garantita, a maggior ragione quando sono coinvolti dei ragazzi in formazione». E dopo il confronto avviato con il ministro del Lavoro ritiene «urgente ritrovarci anche insieme alle Regioni per un iter che porti a una maggiore sicurezza in tutti i percorsi di formazione dove sono previsti contatti dei nostri giovani con il mondo del lavoro». 

Come è avvenuto dopo la tragedia di Udine, e ancora di più dopo questo nuovo caso, durissima è stata la reazione delle organizzazioni studentesche. «Ci chiediamo quanti altri studenti e giovani debbano morire prima che l'idea di un sistema unicamente volto al profitto e allo sfruttamento cambi, una volta per tutte» afferma Luca Redolfi, coordinatore nazionale dell'Unione degli studenti.

E Tommaso Biancuzzi della Rete degli studenti: «Non è possibile morire di lavoro a 16 anni, questo evidentemente ci deve far interrogare profondamente non solo sul rapporto fra scuola e lavoro, ma anche su quanto ci sia urgenza in questo Paese di risolvere il problema della sicurezza sul lavoro». Mentre l'Opposizione studentesca d'alternativa (Osa) ha già annunciato blitz «sotto gli Uffici scolastici regionali per richiedere l'abolizione immediata dei Pcto» i percorsi di alternanza scuola-lavoro.

Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.

Giuseppe aveva fretta di imparare un mestiere, iniziare a lavorare e guadagnare quella sicurezza economica che finora gli era mancata. E forse sognava ancora di diventare un calciatore famoso, lui che aveva mostrato di avere talento con il pallone ai piedi e fiuto del gol. 

«Aveva fatto anche qualche provino, con il Sassuolo e con la Sangiorgese, una squadra legata al Milan» ricorda Luigi Sciamanna, che è stato il responsabile della scuola calcio dell'Asd Campiglione-Monturano dove ha sempre giocato Giuseppe Lenoci, il sedicenne morto ieri mattina durante uno stage di accompagnamento al lavoro.

Sciamanna è stato molto di più di un allenatore, quasi un secondo padre per lui e per tutti quei ragazzini che prendono a calci un pallone sperando di cambiare rotta alla loro vita. Non è una famiglia agiata quella di Giuseppe. Il padre va avanti con contratti a tempo determinato nelle aziende calzaturiere della zona del Fermano o dove c'è bisogno, anche la madre arrotonda facendo saltuariamente servizi di pulizia.

Due figli, Giuseppe e un fratellino di qualche anno più piccolo, anche lui appassionato di calcio. «Giuseppe è sempre stato un tipo introverso, taciturno, ma un bravissimo ragazzo - ricorda il suo ex allenatore -. Giocava con il ruolo di attaccante, era battagliero, un po' più alto dei suoi coetanei, così in area faceva valere il suo fisico. Si allenava con serietà e impegno, sempre rispettoso degli avversari, mai un litigio in campo. Era di animo buono, per questo si faceva volere bene da tutti».

Negli ultimi anni la sua crescita come calciatore era rallentata, come spesso capita a questa età aveva dovuto ridimensionare i sogni di gloria. Sciamanna ha cambiato società, non era più il suo allenatore, ma non aveva perso di vista Giuseppe, sapeva che si era iscritto a un corso professionale a Fermo. 

«Quando mi hanno chiamato per dirmi cos' era successo stentavo a crederci. È una tragedia, non solo per la sua famiglia». Ha tanti ricordi di quel ragazzino di poche parole e di grande volontà. «Me ne viene in mente uno in particolare - dice Sciamanna -. Non aveva gli occhiali anti-urto, così lo portammo dall'ottico e gli comprammo delle lenti a contatto. Non potrò mai dimenticare l'espressione che fece una volta che se li mise. Era veramente soddisfatto e non tanto perché quelle lenti l'avrebbero aiutato a giocare meglio. Era felice perché si era sentito aiutato».

Giuseppe Lenoci, morto durante lo stage: «Che ci faceva a settanta chilometri lontano da casa?». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2022

Era un ragazzone determinato a diplomarsi in termoidraulica e a cominciare a lavorare: la Procura indaga per omicidio colposo, oggi i carabinieri ascolteranno l’autista del furgone sul quale viaggiava 

SERRA DE’ CONTI È il giorno dell’amarezza e della commozione, del rammarico e della solidarietà, quello che segue alla tragedia di Giuseppe Lenoci , il sedicenne di Monte Urano morto in un incidente stradale mentre era impegnato in uno stage per il progetto di alternanza scuola-lavoro. La Procura di Ancona indaga per l’omicidio colposo dello studente del centro di formazione professionale Artigianelli di Fermo. Un incidente sul quale potrà far luce a questo punto lo stesso guidatore, già dimesso dall’ospedale di Serra dè Conti dove è avvenuto lo schianto. L’autista sarà ascoltato oggi dai carabinieri del reparto operativo locale.Mentre giovedì, giorno di lutto cittadino voluto dalla sindaca di Monte Urano, Moira Canigola, si celebrerà il funerale.

Quel che si sa è che Giuseppe, un ragazzone determinato a diplomarsi in termoidraulica e a cominciare a lavorare, lunedì mattina viaggiava su un furgone in compagnia di un operaio della ditta che avrebbe dovuto formarlo: si dirigevano verso l’abitazione di una famiglia che aveva urgente bisogno di riparare la caldaia. L’auto viaggiava (se troppo velocemente o meno lo stabilirà il perito incaricato dalla Procura) verso l’indirizzo del cliente ma lungo una tratta che parrebbe estranea al perimetro entro il quale avrebbe dovuto circolare. Mamma Francesca e papà Sabino, emigranti di ultima generazione (hanno lavorato anni in Germania, poi si sono stabiliti nuovamente in Italia) guardati a vista dal medico di fiducia che li assiste anche durante la visita alla casa del commiato dov’è il corpo di Giuseppe, troppo affranti anche solo per chiedere giustizia hanno nominato però un avvocato, il penalista Arnaldo Salvatori.

Fuori dalla casa zia Angela lo sussurra: «Ma che ci faceva mio nipote a 70 chilometri da casa?». Dubbio: non è che Giuseppe Lenoci è stato impiegato per una vera e propria prestazione professionale suo malgrado? Era uno stage o un incarico surrettizio? Perché mai quell’auto viaggiava nelle campagne attorno a Serra de’ Conti anziché nei più domestici paraggi di Fermo dove abitano mamma Francesca, papà’ Sabino e Michael, il fratellino? Prosegue Angela, tamponandosi gli occhi con un fazzolettino, discreta eppure straziata: «Questa storia grida vendetta fin dal principio. Sapete come abbiamo saputo?» Come? «Sabino era al lavoro in cantiere, al solito — spiega Angela Lenoci —. Sopra un ponteggio, assieme ad altri operai. Squilla il cellulare e lui risponde. Gli dicono: “Tuo figlio si chiama Giuseppe?”. Lui fa: “Sì”. E quelli: “È morto”. Allora mio fratello grida, grida con tutto il fiato che ha in corpo e gli altri operai lo bloccano, gli tolgono il cellulare, gli impediscono di cadere giù. Vi pare possibile?»

Nonna Anna si avvicina lenta e costante: «Vogliamo giustizia per Giuseppe. Chi deve pagare è giusto che paghi» mormora. Racconta ancora zia Angela: «Mio nipote era un pezzo di pane. Pulito, generoso, partecipe. Sognava i giorni di vacanza giù in Puglia, a Canosa, casa mia. Sapete, dopo la Germania ho aperto un bar lì e lui quando veniva rideva di tutto, era contento, insisteva per darmi una mano...» Studente con la passione del calcio, aveva fatto qualche provino con il Sassuolo e con il Sangiorgese come ha ricordato Luigi Sciamanna, responsabile della scuola calcio dell’Asd Campiglione Monturano dove giocava Giuseppe. Ma la fissa era il diploma. «E sapete una cosa? Dalla scuola non abbiamo ricevuto nemmeno una telefonata...» La sindaca di Monte Urano invece è passata a trovarli: «Se avete bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa...».

La politica, intanto, annuncia riflessioni: «La tragica morte di Lorenzo Parelli e di Giuseppe Lenoci, i due studenti morti a un mese di distanza l’uno dall’altro mentre stavano svolgendo un periodo di formazione in azienda, impone una attenta e profonda riflessione» dicono i senatori dei Cinque Stelle della commissione d’inchiesta sulle condizioni del lavoro in Italia. Mentre il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi dice: «Sia l’alternanza scuola-lavoro che la formazione professionale sono importanti» ma «con le Regioni bisogna rivederli per mettere al centro il progetto educativo, non può essere un surrogato del lavoro».

Marche, Giuseppe Lenoci morto a 16 anni. La rabbia della famiglia: “Non doveva viaggiare sul furgone, lo stage non lo prevede”. Corrado Zunino su La Repubblica il 15 Febbraio 2022

La procura di Ancona ha aperto un fascicolo per omicidio stradale. Giornata di lutto giovedì 17 febbraio. L'operaio della Termoservicegas, alla guida del furgone della ditta che si è schiantato contro un albero, è indagato per omicidio stradale. L'omicidio di Giuseppe Lenoci, solo 16 anni, studente in stage di lavoro. L'operaio alla guida è ricoverato con politraumi all'ospedale Torrette di Ancona, e non è stato ancora interrogato.

Dirottato dal navigatore del furgone di servizio sulla strada più breve per raggiungere Serra de' Conti, nella provincia di Ancona, è entrato in una via stretta e mal asfaltata, una scorciatoia che solo i residenti più esperti si azzardano a prendere.

 Grazia Longo per “La Stampa” il 16 febbraio 2022.

«Ho il cuore a pezzi. Mio figlio è morto contro un albero senza un perché e io sto troppo male per parlarne. Ma le passo mia sorella Angela, perché vogliamo giustizia e qualcuno di noi ve lo deve spiegare. La morte di mio figlio non può essere dimenticata». Sabino Lenoci, 50 anni, carpentiere, è il padre di Giuseppe che ha perso la vita a 16 anni in un incidente stradale durante uno stage studio-lavoro.

Anche Angela, 46 anni, ha la voce piegata dal pianto ma si fa forza «perché su quello che è successo a mio nipote bisogna fare chiarezza: lui su quella strada, su quel furgoncino non ci doveva stare, non doveva uscire dalla ditta dove seguiva lo stage. Aspettiamo ancora conferme, ancora non siamo sicuri di niente purtroppo, ma temiamo che lui dovesse rimanere vicino all'azienda e invece si trovava a oltre 60 chilometri di distanza, nella provincia di Ancona». 

Per questa ragione la zia Angela è convinta che siamo di fronte a una tragedia «che si poteva evitare. E invece noi siamo qua a piangere un angelo di ragazzo. Un gigante buono, un adolescente che amava imparare un lavoro, era al secondo stage, ma anche giocare a calcio. Aveva la vita davanti ma ha perso tutto». Giuseppe lunedì si trovava sul furgoncino della Termoservicegas di Fermo perché, insieme al tecnico che era alla guida, stava andando a cambiare una caldaia. Bisogna capire se quel viaggio era previsto dal contratto di studio-lavoro stipulato tra l'azienda e la scuola professionale Artigianelli.

Purtroppo ieri non ci è stato possibile verificare questo importante aspetto. Il preside del centro di Formazione Artigianelli, padre Sante Pessot, non ha mai risposto al telefonino e si è limitato a scrivere un comunicato per ribadire che i corsi della scuola «prevedono una formazione in stage all'interno dell'attività curricolare. Le aziende sono selezionate e c'è molta attenzione nella scelta delle stesse per garantire l'opportunità di un'ottima formazione ad ogni ragazzo». Mentre Fabrizio Donzelli, uno dei titolari della società di termoidraulica, ha risposto al cellulare in termini molto vaghi: «Se volete sapere se il ragazzo poteva viaggiare chiedetelo alle autorità. Io sto tranquillo, perché è tutto scritto sul contratto». 

Di più non ha voluto aggiungere e sia i carabinieri che stanno indagando, sia la pm titolare del fascicolo per omicidio stradale, Serena Bizzarri, non rilasciano commenti. Resta la disperazione dei familiari. La madre di Giuseppe, Francesca, 42 anni, badante, non ha la forza di pronunciare neppure una parola. È sempre la zia Angela Lenoci che si fa portavoce di un dolore che si fatica a descrivere a parole. «Anche io sto male, anche io ho un vuoto dentro che non so spiegare.

Quando mio fratello mi ha chiamato lunedì mi sono precipitata nelle Marche da Canosa, noi siamo tutti pugliesi, e ora a nome di tutti chiedo verità e giustizia per Giuseppe. Sappiamo che tanti altri ragazzi, tanti studenti, stanno organizzando manifestazioni di protesta. E questo ci scalda il cuore, per quanto è possibile, perché Giuseppe merita giustizia. Era amato e benvoluto da tutti e non ci daremo pace finché non si farà luce su quello che è successo».

Ieri l'avvocato Arnaldo Salvatori, legale della famiglia Lenoci, è andato alla scuola Artigianelli ma non è riuscito ad incontrare il preside. Dovrebbe vederlo stamani «e così forse chiariremo se e come Giuseppe poteva allontanarsi dalla sede della ditta dove seguiva lo stage». La segretaria della Cgil Marche Daniela Barbaresi e il segretario generale Flc (Lavoratori della Conoscenza) Marche Antonio Renga osservano: «Occorre riflettere sulle troppe forme di tirocini, stage, alternanza scuola-lavoro, sull'effettiva efficacia di tali percorsi e sulle condizioni del loro svolgimento che non sempre avvengono nel pieno rispetto della garanzia della salute e sicurezza». I funerali domani alle 10 nella Chiesa di San Michele Arcangelo a Monte Urano, dov' è stata proclamata una giornata di lutto cittadino

Schianto mortale e polemiche. Chi era Giuseppe Lenoci, il 16enne che dopo lo stage sognava un contratto come Lorenzo. Redazione su Il Riformista il 15 Febbraio 2022. 

Non era una promessa del calcio, come si legge in queste ore su giornali e siti online, perché giocare in terza categoria e (negli allievi di una scuola calcio) a 16 anni significa divertirsi, coltivare una passione ma essere decisamente lontani dal professionismo. Giuseppe Lenoci era un ragazzo normale che, come tanti altri, frequentava un corso di accompagnamento al lavoro che prevedeva lezioni in aula e lezioni pratiche con uno stage presso un’azienda. Corsi finanziati dalla regione Marche e organizzati da enti di formazione.

Giuseppe, che il 21 aprile avrebbe compiuto 17 anni, nel pomeriggio di lunedì 14 febbraio si trovava a bordo di un furgone guidato da un operaio di 37 anni, suo collega di lavoro nella ditta di termo-idraulica. Stavano raggiungendo una ditta quando, per cause in corso di accertamento, il veicolo è uscito fuori strada, in provincia di Ancona, schiantandosi contro un albero. Giuseppe era seduto sul lato passeggero ed ha avuto la peggio perché è stata la parte destra della vettura a scontrarsi per prima contro il tronco. Il collega alla guida è stato soccorso e trasportato in ospedale dove è ricoverato in gravi condizioni. Il corpo senza vita di Giuseppe è stato invece estratto dalle lamiere dai vigili del fuoco.

Non è ancora chiara la dinamica dell’incidente. Se si tratta di eccesso di velocità, di una distrazione alla guida o di altri fattori. Saranno le indagini dei carabinieri a cristallizzare tutto e ad accertare eventuali responsabilità. Resta la tragedia, la morte di un 16enne che voleva imparare un mestiere, rendersi indipendente da una famiglia di origini pugliesi che si era trasferita da oltre 10 anni a Monte Urano, in provincia di Fermo. 

Era iscritto al terzo anno del Centro di formazione professionale Artigianelli dell’opera Don Ricci di Fermo con specializzazione in termoidraulica. Stava completando il percorso formativo: tre anni e mille ore, la metà delle quali in stage. Si sarebbe diplomato alla fine di questo anno scolastico, diventando un operaio specializzato. Lascia i genitori e un fratellino più piccolo.

Una tragedia che avviene a meno di un mese di distanza da quella di Lorenzo Parelli, il 18enne morto schiacciato in fabbrica a Lanuzacco, in provincia di Udine, nell’ultimo giorno di stage. E che scatena le proteste di studenti (che hanno già occupato diverse scuole in Italia, soprattutto a Torino) e sindacati.

La morte di Giuseppe non è stata “un infortunio in un cantiere o dentro una fabbrica, ma come si dice in gergo di un infortunio in itinere. Non per questo è meno drammatico e meno grave e non solleva tutta la comunità da alcuni interrogativi”. Così in una nota la segretaria della Cgil Marche Daniela Barbaresi e il segretario generale Flc (Lavoratori della Conoscenza) Marche Antonio Renga. “Quando uno studente di sedici anni muore nel tragitto di ritorno da uno stage – osservano -, si consuma un dramma che non può lasciarci indifferenti e non interrogare tutti, a partire dalle imprese, dalle istituzioni e dalla politica. Si rischia di fare confusione e di non capire realmente il complesso mondo del sistema di istruzione e formazione italiano, che ha subito molte riforme e che prevede diverse forme di sperimentazione lavorativa durante il percorso scolastico e formativo”. Per Barbaresi e Renga “occorre riflettere sulle troppe forme di tirocini, stage, alternanza scuola-lavoro, sull’effettiva efficacia di tali percorsi e sulle condizioni del loro svolgimento che non sempre avvengono nel pieno rispetto della garanzia della salute e sicurezza”.

La tragedia in provincia di Venezia. Studente muore a 18 anni durante stage in azienda: schiacciato da lastra di metallo. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Aveva 18 anni ed era uno studente di un istituto tecnico di Portogruaro che stava svolgendo uno stage in azienda per acquisire crediti. E’ morto sul lavoro dopo essere stato colpito da una lastra di metallo che gli ha schiacciato entrambe le gambe. Nonostante i soccorsi prima dei colleghi poi del 118, il giovane è deceduto poco dopo.

La tragedia è avvenuta nel pomeriggio di venerdì 16 settembre all’interno della BC Service a Noventa di Piave, in provincia di Venezia, azienda specializzata nella lavorazione del metallo. I soccorsi del Suem sono stati immediati, ma le gravi lesioni subite agli arti inferiori non hanno lasciato scampo al ragazzo.

Sul posto i Carabinieri che stanno svolgendo accertamenti per ricostruire quanto accaduto, insieme con lo Spisal, il Servizio prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro dell’Azienda sanitaria locale.

Nove mesi fa, il 21 gennaio, un altro giovane 18enne, Lorenzo Parelli, è morto nel suo ultimo giorno di stage in una azienda meccanica di Lauzacco, in provincia di Udine, travolto una putrella.

Giuseppe Lenoci aveva invece 16 quando, un mese dopo, morì mentre si trovava a bordo di un furgone schiantatosi contro un albero. Anche lui stava facendo uno stage nell’ambito del progetto alternanza scuola-lavoro.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da fanpage.it il 16 settembre 2022. 

Ennesimo e drammatico incidente sul lavoro nelle scorse ore in Veneto dove a perdere la vita è stato un ragazzo di soli 18 anni. A rendere la tragedia ancora più terribile, oltre alla giovanissima età della vittima, il fatto che il ragazzo nell'azienda stava svolgendo uno stage per conto della scuola.

Il dramma si è consumato in pochi attimi nel pomeriggio di oggi, venerdì 16 settembre, nei capannoni di una ditta specializzata nella lavorazione del metallo a Noventa di Piave, nella città metropolitana di Venezia. 

Erano quasi le 17, orario di chiusura della ditta BC Service, quando è avvenuta la tragedia. Il giovane, secondo le prime informazioni, sarebbe stato colpito da una lastra di metallo che gli ha schiacciato le gambe senza dargli scampo, anche se la dinamica è tuttora da accertare. 

Inutili per lui i soccorsi medici del 118 allertati dagli altri presenti e accorsi tempestivamente sul posto. Soccorso dai sanitari, purtroppo il 18enne è morto poco dopo a causa delle terribili ferite riportate nell'incidente. Le lesioni subite agli arti inferiori non hanno lasciato scampo al ragazzo. 

La vittima è un giovane studente di un istituto tecnico di Portogruaro, sempre nel Veneziano, che stava svolgendo uno stage in aziende della zona per acquisire crediti utili a scuola. In pratica l'adolescente era in servizio nell'impresa per acquistare i crediti con l'esperienza sul lavoro e raccogliere dati per la tesi di diploma. Sarebbe rimasto colpito da una barra metallica caduta da un cavalletto a cui

era appoggiata, a pochi minuti dalla chiusura.

Sul posto oltre ai sanitari del Suem 118, anche i vigili del fuoco, lo Spisal, il servizio dell’Usl 4 specializzato e competente negli incidenti sul lavoro, e le forze dell’ordine a cui spetta ora il compito di ricostruire l'accaduto e accertare l'eventuale mancanza di misure si sicurezza sul lavoro.

Giuliano De Seta morto in fabbrica durante lo stage: ipotesi, sospetti e bugie ma ancora nessun colpevole. Noventa di Piave, le carte dell’inchiesta a cento giorni dal tragico incidente. Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2022.

Cento giorni, e l’unica certezza è che il 16 settembre Giuliano De Seta è morto a 18 anni schiacciato da un manufatto di 1.056 chili. Il resto della storia - dall’esatta dinamica dell’incidente fino alle responsabilità che dovranno stabilire come uno studente possa perdere la vita durante uno stage scolastico - è costellata di incertezze, sospetti e qualche bugia. Mentre è ancora in corso la maxi-perizia disposta dal giudice, è possibile ricostruire ciò che finora si sa dell’infortunio costato la vita all’alunno dell’istituto tecnico-industriale «Da Vinci» di Portogruaro che, nell’ambito di un progetto di alternanza scuola-lavoro, avrebbe dovuto trascorrere tre settimane alla Bc Service di Noventa di Piave, che realizza stampi per materie plastiche. Sono centinaia i documenti che la procura di Venezia ha messo a disposizione delle parti: relazioni, immagini, verbali... Ed è da lì che emergono diverse incongruenze. Con l’ipotesi di omicidio colposo, risultano iscritte sul registro degli indagati quattro persone: il titolare della Bc Service, Luca Brugnerotto, e la preside dell’istituto Anna Maria Zago, oltre al responsabile della sicurezza della ditta e a un insegnante che rivestiva il ruolo di «tutor scolastico» con l’incarico di seguire l’iter per il tirocinio degli studenti.

Il testimone

Quel venerdì l’allarme era scattato intorno alle 5 del pomeriggio con una concitata chiamata al 118: serviva un’ambulanza, un lavoratore era rimasto schiacciato da un pesante stampo di metallo. L’unico operaio che si trovava accanto a Giuliano al momento dell’incidente – un 56enne trevigiano - viene sentito due volte dagli investigatori. «Avevo posizionato io questo stampo sui due cavalletti – spiega - e ci lavoro senza tenerlo agganciato al carroponte perché è già in sicurezza appoggiato sui cavalletti: non si muove di lì». E qui nascono i primi dubbi. Il diciottenne e l’operaio avevano il compito di inserire alcune viti («C’era un malfunzionamento perché non girava l’acqua e abbiamo dovuto smontarlo») quando il blocco di metallo si sbilancia e cade dai cavalletti, travolgendo Giuliano. Se l’avessero lasciato fissato al sollevatore non sarebbe precipitato a terra, ma non era consuetudine farlo per «non tenere occupato il carroponte».

Le domande

Il problema è un altro: come ha fatto a cadere dai cavalletti? Non può averlo rovesciato Giuliano: i test fatti finora dicono che per sbilanciarlo serviva una forza di almeno 120 chili, senza contare che lo studente è stato colpito alla testa ma i cavalletti sono alti appena 60 centimetri. Un’ipotesi è che in realtà sia stato proprio il carroponte a sollevare il blocco per poi lasciarlo precipitare. Non solo: l’operaio dice che «avevo assicurato il manufatto mediante due catene agganciate ai golfari che si trovano nella parte alta dello stampo». Quindi, in teoria, non poteva rovesciarsi. Il testimone ha una sua tesi: «Penso che Giuliano, senza che me ne accorgessi, usando il carroponte abbia sollevato il manufatto, lo abbia girato manualmente e lo abbia posizionato di nuovo sui cavalletti. Ma aveva anche tolto le catene sicché, riprendendo il lavoro, il manufatto si è sbilanciato». Non può esserne certo perché, sostiene, non ha visto la scena: «È venuto V. a chiedermi se il report era compilato. A quel punto mi sono recato al computer per vedere se c’era il report… Ho sentito un forte stridere del metallo. Mi sono girato e ho visto Giuliano in piedi… Ho urlato “Vai via”, perché stava cadendo lo stampo… ma Giuliano anziché scansarsi ha messo le mani nel tentativo di fermarlo e ci è finito sotto».

Cosa non torna

Si dice anche «sicuro» di non aver sentito azionare il carroponte. Ma anche qui qualcosa non torna: V. fa mettere a verbale che «sinceramente non ricordo di avergli chiesto di controllare la scheda a computer» (ma non è escluso che l’ordine possa essere stato di un altro collega), mentre un terzo dipendente spiega che il carroponte quando si attiva «fa un segnale acustico. Si sente molto bene anche se uno ha i tappi». Non è finita. L’operaio sostiene di aver perso di vista Giuliano per pochissimo tempo («Saranno stati cinque minuti») ma da una simulazione eseguita sembra che, per compiere le operazioni di sgancio dal manufatto, occorrano almeno 25 minuti. Tutti dubbi che vanno chiariti e, se dovesse emergere che uno dei testimoni ha mentito, finirebbe pure lui sotto processo.

L’imprenditore

C’è poi la posizione di Brugnerotto, il titolare della Bc Service (difeso dall’avvocato Elisa Finotto) che secondo il pm non ha adottato procedure in grado di garantire la stabilità dei carichi (ad esempio lasciandoli agganciati al carroponte) accettando «la prassi» che si lavorasse sugli stampi «in assenza di alcun tipo di dispositivo che ne facesse evitare la caduta». Inoltre non avrebbe fornito allo studente una adeguata «formazione e informazione sui rischi aziendali». Brugnerotto ha sempre detto che «Giuliano per me era come un figlio» e che la sicurezza, nella sua impresa, è una priorità. Lo Spisal ha però rilevato una serie di irregolarità: dai cavalletti non conformi perché «sprovvisti di chiare indicazioni della portata», al fatto che «non ha garantito che i posti di lavoro fossero idoneamente difesi contro la caduta dei materiali», fino alla mancanza di un «adeguato Documento di valutazione dei rischi (il Dvr)».

La preside

Infine, la preside Anna Maria Zago, difesa dall’avvocato Novelio Furin. Per l’accusa ha esposto l’alunno «a notevoli rischi» perché non solo non si è assicurata che il Dvr della ditta fosse conforme ma non ne avrebbe neppure preteso una copia. Il tema è importante, anche perché è difficile credere che il dirigente di una scuola con centinaia di alunni possa valutare (ammesso che ne abbia le competenze) il livello di sicurezza di tutte le ditte coinvolte negli stage. Il quadro non è confortante: pare che l’Ufficio scolastico regionale, in merito alla tutela degli studenti durante i praticantati, richieda che le scuole si limitino a ottenere garanzie dalla ditta stessa. Come? Con delle autocertificazioni. Lo stesso iter sarebbe adottato da Veneto Lavoro quando approva gli stage diversi da quelli scolastici. «Stanno emergendo delle contraddizioni – ammette l’avvocato Luca Sprezzola, che assiste la famiglia De Seta – ma confidiamo venga tutto chiarito dai periti chiamati a ricostruire quanto accaduto. Non puntiamo il dito contro nessuno: la mamma e il papà di Giuliano aspettano con fiducia l’esito dell’inchiesta».

Giuliano De Seta, morto in stage a 18 anni, era solo ai macchinari. Si indaga per omicidio. Francesco Furlan, Vera Mantengoli su La Repubblica il 18 Settembre 2022.

Venezia, sequestrata l’azienda dove il 18enne svolgeva il tirocinio: la lastra che lo ha schiacciato forse era disancorata

L’ipotesi principale è che fosse appoggiato su due cavalletti senza un sistema di ancoraggio o protezione lo stampo di due tonnellate che venerdì ha travolto Giuliano De Seta, il diciottenne di Ceggia morto durante lo stage in azienda. È uno degli aspetti che emerge dopo il sopralluogo dei tecnici dello Spisal e dei carabinieri alla Bc Service di Noventa di Piave, chiusa e posta sotto sequestro, e sui quali si concentrerà l’indagine.

Venezia, il sogno spezzato di Giuliano De Seta morto a 18 anni durante un tirocinio: "Voleva diventare ingegnere". Vera Mantengoli su La Repubblica il 17 Settembre 2022.

E' stato colpito da una lastra di due tonnellate in un'azienda di Noventa di Piave. La rabbia del papà: "Il mio mondo è finito adesso". Studenti in protesta: "Non si può cominciare l'anno così"

Studiava per diventare ingegnere Giuliano De Seta, deceduto a 18 anni venerdì durante uno stage alla BC Service di Noventa di Piave. “Era bravissimo in tutte le materie e voleva iscriversi al Politecnico di Milano”, racconta la dirigente Anna Maria Zago dell’Istituto Tecnico Leonardo Da Vinci di Portogruaro, sconvolta da quanto accaduto. “Nel corso dei colloqui con i genitori il padre ci aveva raccontato che fin da piccolo Giuliano era appassionato di tutto quello che correva.

Venezia, quattro indagati per il 18enne morto durante uno stage. Francesco Furlan su La Repubblica il 21 Settembre 2022.  

Per omicidio colposo in concorso. Tra questi l'amministratore unico della Bc Service e la preside dell'Istituto tecnico frequentato dalla vittima

Ci sono quattro indagati per la morte di Giuliano De Seta, lo studente di 18 anni schiacciato venerdì 16 settembre da uno stampo d’acciaio durante lo stage scolastico all’azienda Bc Service di Noventa di Piave (Venezia). In vista dell’autopsia disposta sulla salma del giovane che servirà a chiarire la dinamica dell’incidente in azienda, il sostituto procuratore Antonia Sartori ha iscritto nel registro degli indagati l’amministratore unico della società, Luca Brugnerotto, che ne è anche il socio principale, e altre tre persone.

I genitori di Giuliano De Seta, morto in stage: «Era felice di fare lo stage in fabbrica, ora diteci come è morto». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2022.

Parlano i genitori di Giuliano De Seta: in quel posto gli volevano tutti bene. Poi aggiungono: «Era appassionato di meccanica, sognava di venire a Milano per laurearsi in ingegneria» 

«Aveva solo diciotto anni!». Sulla soglia di casa, nel piccolo comune di Ceggia, nel Veneziano, Enzo De Seta sbotta, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Ancora si domanda come sia potuto accadere. Ieri mattina quest’operaio e sua moglie Antonella Biasi sono scesi nella camera mortuaria dell’ospedale di San Donà di Piave per un’ultima carezza al corpo di Giuliano, il loro primogenito, maggiorenne da pochi giorni, morto nello stabilimento della B.C. Service, l’azienda di Noventa di Piave che produce stampi di materia plastiche, dove dal 5 settembre stava svolgendo uno stage concordato con l’istituto tecnico che frequentava: tre settimane, nell’ambito del progetto di alternanza scuola-lavoro, che dovevano servire a integrare gli studi. Venerdì pomeriggio, per cause ancora da chiarire, gli è caduta addosso una lastra d’acciaio del peso di circa un quintale. E i soccorsi sono stati inutili. «Giuliano era allegro, sveglio, ma anche curioso e pieno di quegli amici che, in queste ore, stanno venendo in massa qui a casa per farci sentire il loro affetto» racconta il papà Enzo. «Come tutti i ragazzi di quell’età aveva le sue passioni: lo sport, con l’atletica leggera, e la pesca. Io sono di origini calabresi e lui adorava immergersi in quel mare, facendo apnea. E poi amava girare in sella alla vecchia Vespa che gli avevo regalato: se chiudo gli occhi, rivedo Giuliano che scorrazza per le strade di Ceggia con dietro la sua fidanzatina, abbracciata stretta. Erano felici, insieme. All’inizio del mese, per festeggiare la maggiore età, aveva fatto il suo primo volo col paracadute, in tandem. Era euforico: quell’esperienza l’aveva riempito di gioia».

Cosa voleva fare da grande?

«Frequentava l’istituto “Da Vinci” di Portogruaro, indirizzo Elettrotecnica ed Elettronica: questa passione, in particolare per la Meccatronica, l’ha ereditata da me che ho sempre lavorato in quel settore. Finite le superiori avrebbe voluto iscriversi all’Università di Milano per studiare Ingegneria, e poi già progettava di mettersi in proprio e aprirsi un’attività tutta sua». Mamma Antonella aggiunge che per Giuliano «questi erano anni intensi, si stava aprendo al mondo e non vedeva l’ora di diventare grande, cercava la sua indipendenza e stava anche studiando per prendere la patente. Sia chiaro: faceva sempre tutto in modo giudizioso. E intanto coltivava grandi aspettative per il suo futuro».

Era contento di fare lo stage alla B.C. Service?

«Certo che era contento di lavorare e di imparare! In questi giorni rientrava a casa sorridente. Io e mia moglie abbiamo sempre appoggiato le sue scelte».

Ora c’è chi dice che gli stage, almeno per come si svolgono attualmente, siano inutili e andrebbero eliminati o per lo meno ripensati.

«Noi non abbiamo nulla di ridire sul progetto di alternanza scuola-lavoro: per noi non è una cosa negativa».

Resta che morire al lavoro, per di più durante uno stage scolastico, è inaccettabile.

«Non ce la sentiamo di esprimerci finché la magistratura non avrà accertato l’esatta dinamica dei fatti. Però, è ovvio, vogliamo sapere la verità su come sia stato possibile che la vita di nostro figlio finisse in questo modo. E vogliamo sia fatta giustizia: se qualcuno ha sbagliato deve risponderne».

Lei e il titolare della B.C. Service vi conoscete, in passato avete anche lavorato assieme. Cosa vorrebbe dirgli?

«Noi non accusiamo nessuno. Per ora l’azienda non si è fatta sentire con noi, però alcuni dei colleghi ci hanno telefonato per farci sentire la loro vicinanza. Avevano imparato a conoscere nostro figlio trascorrendo con lui molte giornate, visto che a luglio e agosto Giuliano aveva lavorato, sempre alla B.C. Service, con un regolare contratto di apprendistato. Ci hanno detto che gli volevano bene».

Cosa resta di questa tragedia?

«Nulla, solo la drammatica realtà di una giovane vita spezzata. La vita di nostro figlio».

Muore a 18 anni nello stage in ditta. È stato schiacciato da una lastra di metallo. Nuovo caso per l'alternanza scuola-lavoro. Diana Alfieri il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

Ancora una vittima del Pcto, i Percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento che hanno sostituito l'alternanza scuola-lavoro. Un giovane di 18 anni è morto in un'azienda che produce stampi per materie plastiche a Noventa di Piave, in provincia di Venezia, la BC Service, schiacciato da una lastra di metallo che gli ha colpito le gambe. Immediatamente soccorso, il giovane è però morto poco dopo. Qualche ora dopo si è saputo che il giovane, residente a Ceggia (Venezia), studente del quinto anno di un istituto scolastico di Portogruaro, era in azienda per uno stage scolastico per acquistare i crediti con l'esperienza sul lavoro e raccogliere dati per la tesi di diploma. Il ragazzo era alle prese con un macchinario con cui probabilmente aveva poca dimestichezza quando una barra metallica si è staccata, colpendolo violentemente. I Carabinieri di San Donà di Piave stanno conducendo le indagini in collaborazione con lo Spisal, il Servizio prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro dell'Azienda sanitaria locale.

Non è il primo caso del genere. Lo scorso 21 gennaio in un'azienda di Lauzacco, in provincia di Udine, uno studente di 18 anni, Lorenzo Parelli, era morto nel suo ultimo giorno di Pcto in un'azienda meccanica, la Burimec. Durante un intervento di carpenteria metallica una putrella lo aveva colpito uccidendolo. Lorenzo era residente a Castions di Strada in provincia di Udine ed era iscritto al centro di formazione professionale del Bearzi, l'istituto dei salesiani a Udine. Un incidente questo che aveva messo in discussione la sopravvivenza dell'istituto dell'alternanza scuola-lavoro, provocando reazioni politiche come quella di Ettore Rosato, coordinatore nazionale di Italia Viva: «Ogni morte sul lavoro - scrisse all'epoca su Facebook - è una sconfitta per lo Stato. E quando a perdere la vita è un ragazzo appena 18enne, alla sua prima esperienza con il mondo del lavoro, è ancora più inaccettabile. Non possiamo rimanere a guardare: serve una risposta delle Istituzioni. Assieme a imprese, enti locali, istituti scolastici dobbiamo trovare strumenti nuovi perché incidenti come quello di oggi in provincia di Udine non possano accadere».

Sempre quest'anno, a maggio, a Merano, uno studente di 17 anni è rimasto gravemente ustionato mentre, in un'officina dove era impegnato nel programma nazionale che prevede esperienze lavorative a integrazione la attività didattica in classe, stava pulendo un forno per la verniciatura delle automobili e una scintilla, probabilmente provocata da un contatto elettrico, ha innescato la fiammata che ha preso in pieno lui e un altro collega più grande. Il ragazzo era rimasto ustionato in modo molto grave ed era stato ricoverato in un centro specializzato di Murnau, in Baviera-. E il 25 giungo un 17enne, Simone Silvestri, era morto sulla tangenziale di Padova in un incidente che aveva coinvolto lo scooter guidato dal padre che lo stava accompagnando nell'azienda in cui svolgeva l'alternanza.

«Non è scuola quella che sfrutta, non è lavoro quello che uccide». La morte di Giuliano a 18 anni riaccende le proteste. De Seta, appena maggiorenne, è morto venerdì durante lo stage. «Non sono bastate le vite di Lorenzo e Giuseppe per capire che l’alternanza scuola-lavoro deve essere riformata», gridano gli studenti che tornano in piazza. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 19 settembre 2022.

«Lo diciamo da anni che il rapporto tra istruzione e lavoro deve essere rivisto. Non tutti i luoghi di lavoro sono formativi e purtroppo sicuri. Bisogna fermare questa strage, subito». Così commenta Francesco Sinopoli, segretario generale di Cgil scuola, la morte di Giuliano de Seta, 18 anni. Un altro ragazzo che ha perso la vita durante lo stage.

Giuliano frequentava un istituto tecnico di Portogruaro, nella città metropolitana di Venezia, e come tanti altri suoi coetanei stava svolgendo il progetto di alternanza scuola-lavoro che avrebbe dovuto prepararlo all’ingresso nel mondo dell’occupazione. All’interno di un’azienda specializzata nella piegatura di metalli, sembrerebbe che verso le 17 di venerdì 16 settembre, si trovasse da solo nelle vicinanze di un macchinario quando una lastra d’acciaio gli è caduta addosso. Le indagini per comprendere l’accaduto e il rispetto delle norme di sicurezza sono in corso.

Ma la risposta degli studenti non si è fatta attendere. Manifestazioni già nella giornata di sabato hanno riempito le piazze di alcune città. A Roma, la Rete degli studenti medi ha organizzato un flash mob davanti al ministero dell’Istruzione: un centinaio di studenti e studentesse hanno indossato i caschetti da lavoro e espresso la rabbia e la frustrazione di chi aveva già sottolineato, nei mesi, scorsi le carenze strutturali del sistema dei Percorsi per le competenze trasversali ed orientamento (i Pcto, l’ex alternanza scuola-lavoro) e del Sistema duale che regola il rapporto tra scuola e lavoro alle superiori.

«Basta morti sul lavoro e in stage. Aboliamo i Pcto e inseriamo nelle scuole la formazione sui diritti dei lavoratori. Non sono bastate - commentano i rappresentanti del sindacato studentesco - le due morti e i tanti incidenti dello scorso anno scolastico a fare intervenire d’urgenza il governo Draghi e il ministro Bianchi». Gli studenti si riferiscono alle morti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci che rispettivamente a gennaio e febbraio 2022 hanno perso la vita durante gli stage scolastici.

«Sull’onda emotiva e dopo le mobilitazioni dello scorso inverno, il Ministro aveva annunciato di voler riformare i Pcto», spiega Tommaso Biancuzzi della Rete degli Studenti Medi durante il flash mob. «Ma non c’è stato nessun atto pratico. Pensavamo che le morti di Lorenzo e Giuseppe fossero sufficienti a riaprire una discussione seria sulla sicurezza e sul rapporto tra scuola e lavoro. Invece ci ritroviamo di nuovo a protestare contro un sistema che ci sfrutta, ci rende precari e ci uccide. Noi abbiamo delle proposte serie e profonde per cambiare le cose, il Ministero ci ascolti prima che accada di nuovo. Non un morto in più a scuola e sui posti di lavoro, perché non è scuola quella che sfrutta e non è lavoro quello che uccide». 

Anche alcuni docenti e il Fronte della gioventù comunista hanno appoggiato la protesta delle scuole romane. E si sono uniti alla manifestazione di fronte al ministero dell’Istruzione: «Bisogna fermare la strage - gridano - nel nostro paese non bastano le circa tre morti sul lavoro al giorno, ora con l’alternanza scuola-lavoro sempre più persone rischiano la vita perché sono obbligate a lavorare gratis e senza sicurezza. Queste sono le conseguenze di un sistema d’istruzione basato sugli interessi delle imprese e voluto dai partiti politici principali che sono tutti responsabili».

Gli studenti si augurano che nessuno proverà a fare campagna elettorale sulla morte di Giuliano perché, come spiegano: «sono gli stessi partiti che in Parlamento hanno votato le riforme che ci hanno portato ad un modello di scuola in cui per diplomarsi si rischia la vita. Che hanno avallato la repressione nei confronti di chi si è mobilitato lo scorso anno contro i Pcto e non solo. Per un modello di scuola diverso».

Sono attese altre proteste e manifestazioni durante la settimana, tra cui quella per il prossimo martedì annunciata dalle Rete degli studenti medi di Venezia di fronte all’azienda in cui Giuliano svolgeva lo stage. Alla protesta contro lo sfruttamento dell’ambiente si aggiunge quella contro lo sfruttamento di manodopera gratuita.

La strage delle morti bianche. Incidenti sul lavoro, ennesima vittima in Campania: strage senza fine. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Febbraio 2022. 

Come ogni giorno percorreva chilometri per lavoro. Da San Giuseppe Vesuviano alla provincia beneventana. Tutti i giorni. Fino a ieri. Ieri infatti, a casa non ha fatto ritorno. È un operaio 43enne l’ennesima vittima di una tragedia sul lavoro. Le chiamano «morti bianche». E nella nostra regione dettano un triste primato. La Campania è, secondo recenti report, la seconda regione d’Italia per numero di morti bianche ed è al primo posto per incidenza del fenomeno, cioè per rapporto tra incidenti sul lavoro e numero di lavoratori.

Un dramma che non sembra avere fine. I numeri che emergono dalle statistiche stilate ogni anno descrivono i contorni di un’emergenza continua, alla quale non si riesce a porre un argine. Il 2021 si è concluso con un triste primato per Napoli e il resto delle province campane. In dieci mesi si sono contate oltre cento denunce per infortuni mortali sul lavoro. Si è arrivati a 107 denunce all’Inail di decessi sul lavoro. Impossibile non considerare che ogni denuncia ripercorre una storia, un dramma, una vita che non c’è più. Tragedie che diventano familiari e sociali. Perché le vittime sono spesso padri o madri, persone che con il loro lavoro portano avanti una famiglia. Un dramma nel dramma, dunque. Una piaga che diventa anche sociale.

Quante volte si è gridato basta! Altrettante volte si è poi finiti a fare i conti con il tragico bollettino. Un elenco a cui da ieri si è aggiunto anche l’episodio avvenuto nel piazzale di una ditta di trasporti nella zona industriale di Puglianello, in provincia di Benevento. La vittima è un uomo di 43enne, originario di San Giuseppe Vesuviano. Lavorava per una ditta di trasporti. È morto ieri mattina nel piazzale di un’azienda. Non si sa con certezza se sia caduto battendo con violenza la testa sull’asfalto oppure se sia stato colpito da alcune lamiere sistemate su un camion. Per far luce sulla dinamica di questa ennesima tragedia la Procura ha avviato un’indagine e i carabinieri stanno analizzando le immagini che potrebbero essere state catturate da qualche telecamera di videosorveglianza presente nella zona, nella speranza che dai video possa arrivare la risposta agli interrogativi sulla dinamica che per il momento restano ancora aperti.

Di recente, il report dell’Osservatorio sicurezza sul lavoro Vega engineering ha messo in evidenza come la Campania sia prima tra le regioni dove l’incidenza tra numero di morti sul lavoro e numero di lavoratori è più alta. Secondo il report è il lunedì il giorno in cui si verifica il maggior numero di infortuni nei primi dieci mesi del 2021. Le denunce di infortunio sono in aumento (+2,1%) rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. In tutta Italia si sono contati 502.458 casi da gennaio a novembre 2021, ed erano stati 492.150 tra gennaio e novembre 2020. Dati che indicano un incremento degli infortuni sul lavoro di oltre 10mila casi nell’ultimo anno. Dalle statistiche emerge anche che i due settori a maggior rischio di incidenti sono quello dell’edilizia privata e quello dell’agricoltura.

Da tempo chi studia e denuncia il fenomeno delle morti bianche punta l’accento sulla questione controlli. Un nodo ancora irrisolto, se si pensa che in Campania il numero di ispettori è molto esiguo e sono ancora numerosissime le aziende che investono poco o nulla in sicurezza mentre ha una portata enorme il precariato tra i lavoratori che sono più esposti a incidenti e infortuni. C’è poi anche una questione culturale da affrontare e approfondire, oltre al tema strettamente politico. Bisogna intervenire con strumenti sindacali per contenere la precarietà e con regole precise per tutelare il lavoro e i lavoratori.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Aveva 42 anni, l'incidente a Benevento. Luigi va a lavorare e non torna più, l’autotrasportatore travolto dalle lamiere: “Bollettino da guerra”. Redazione su Il Riformista il 14 Febbraio 2022. 

E’ andato a lavoro e non è più tornato a casa. Morte bianca, l’ennesima, avvenuta nella mattinata di lunedì 14 febbraio nella zona industriale di Puglianello a Benevento. Luigi Odierno, 42 anni, era impiegato in una ditta di trasporti della provincia di Potenza. Secondo una prima ricostruzione, ancora parziale, l’autotrasportatore, originario di San Giuseppe Vesuviano (Napoli), è morto dopo aver battuto la testa a terra. Si trovava nel piazzale di una ditta che si occupa di verniciatura di acciaio quando sarebbe stato travolto da alcuni tubolari che poco prima aveva caricato sul mezzo pesante.

I colleghi del 42enne hanno chiesto subito l’intervento del 118 e un’ambulanza della Croce Rossa ma l’unità di rianimazione, una volta raggiunto il luogo dell’incidente, non è riuscita a salvare l’uomo, deceduto poco dopo. Il corpo è stato estratto dai vigili del fuoco del comando provinciale di Benevento ed è ora a disposizione della magistratura che indaga per omicidio colposo. Il pm di turno della procura di Benevento dovrebbe disporre l’autopsia nelle prossime ore. I carabinieri stanno ascoltando le persone presenti al momento dell’incidente.

“Suscita sgomento e profonda tristezza la tragedia accaduta questa mattina. Esprimo il mio cordoglio alla famiglia del lavoratore per questo dramma inaccettabile” dichiarano Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, e Maria Rosaria Pugliese, segretario regionale Ugl Campania, in merito all’infortunio sul lavoro in cui ha perso la vita il 42enne napoletano. “Chiediamo che sia fatta piena luce su un incidente le cui cause restano ancora da chiarire – aggiungono -. Sono 1221 i lavoratori deceduti sul posto di lavoro nell’anno appena trascorso. Non è possibile chiudere gli occhi dinanzi alla prima emergenza nazionale: in Italia tre lavoratori al giorno non fanno ritorno a casa. Un bollettino di guerra quotidiano di fronte al quale sarebbe assurdo parlare di fatalità. La fase di graduale ripartenza che stiamo attraversando non deve indurre ad abbassare le soglie di garanzia per i lavoratori, né a risparmiare sulla sicurezza. Per tali ragioni chiediamo al Governo di intensificare le ispezioni, rafforzando i controlli soprattutto nei settori soggetti ad un elevato rischio di infortunio. Al contempo chiediamo al ministro Orlando di riaprire il tavolo della contrattazione per rafforzare i presidi di tutela. Con la manifestazione ‘Lavorare per vivere’ l’Ugl ha voluto denunciare la strage in atto sul lavoro e ribadire la centralità degli investimenti sulla formazione” concludono Capone e Pugliese.

Morti sul lavoro: Luigi Gritti e Francesco Gallo, a Bergamo due vittime in 24 ore. di Redazione Bergamo online su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2022. 

Impresario edile e saldatore, hanno perso la vita entrambi in seguito a una caduta. L’addio a Gritti giovedì 3 febbraio ad Almenno San Salvatore.

Sono morti a neanche 24 ore di distanza, quasi nello stesso modo: una caduta fatale che non ha lasciato loro scampo. Luigi Gritti , 57 anni, impresario edile di Almenno San Salvatore, e Francesco Gallo , 48 anni, carpentiere di Pedrengo, sono le ultime due vittime sul lavoro della provincia di Bergamo.

Il primo ha perso la vita in un cantiere di Città Alta, in via San Lorenzo, lunedì 31 gennaio 2022. Era sul tetto ed è precipitato da un lucernario davanti al figlio ventenne e a uno dei due fratelli che lavoravano con lui. Non hanno potuto fare niente per salvarlo. Dopo la caduta da 4 metri, ha battuto la tempia ed è morto in pochi istanti. La salma è stata composta alla casa funeraria dell’impresa Rota ad Almenno San Bartolomeo, mentre i funerali si terranno domani (giovedì 3 febbraio 2022) alle 15 alla chiesa parrocchiale di Almenno San Salvatore. Grande sportivo e appassionato di corsa in montagna, con i due fratelli Gritti portava avanti l’impresa edile «Progetto per Bergamo» di Zogno. Per un anno era stato preparatore atletico degli allievi, alla «Brembate Sopra Calcio 1947». Col direttore sportivo Amerigo Arrigoni si conoscevano bene: «Quando arrivava agli allenamenti, stanco dopo il lavoro, correva più dei ragazzi. Aveva un fisico eccezionale», lo ricorda Arrigoni.

Francesco Gallo era originario di Gela, in Sicilia, ma abitava a Pedrengo. Lavorava come operaio specializzato addetto alla saldatura in una ditta di manutenzione della provincia di Treviso, impegnata da mesi in un appalto per lavori di carpenteria alla Ecoprogetto Veritas di Fusina, che raccoglie e tratta i rifiuti di tutto il Veneziano. La tragedia è avvenuta nella tarda mattinata di martedì primo febbraio 2022. Gallo è caduto da un ballatoio a 5 metri di altezza. Non è ancora chiara la dinamica dei fatti, ma sembra che, tolto il parapetto del ballatoio su un’estremità, per caricare del materiale, il carpentiere sia precipitato nel vuoto di schiena dopo aver perso l’equilibrio.

E' successo in provincia di Macerata. Morti sul lavoro, cade dalla scala e fa un volo di 4 metri: muore operaio di 56 anni. Redazione su Il Riformista il 12 Gennaio 2022. 

A poche settimane dall’inizio dell’anno, si registra l’ennesimo decesso per infortunio sul lavoro. Nel pomeriggio di oggi un operaio di 56 anni ha perso la vita dopo essere precipitato da una scala sulla quale stava lavorando per sistemare la canna fumaria di un appartamento via di Luther King, al primo piano di una palazzina nei pressi del lungomare di Porto Recanati, in provincia di Macerata.

Secondo le prime ricostruzioni, la scala era appoggiata al balcone, a un’altezza di circa 4 metri, e per causa ancora non chiare è caduta all’indietro e finendo contro le scale della palazzina.

Immediato l’intervento dei soccorritori del 118, ma per l’operaio non c’è stato nulla da fare: è morto sul colpo per aver battuto violentemente la testa contro i gradini.

Con il nuovo anno, si spera che non si registri o superi il drammatico dato del 2021. Lo scorso anno, infatti, sono morti 1.404 lavoratori per infortuni sul lavoro, di questi 695 sui luoghi di attività, mentre i rimanenti hanno perso la vita per un incidente ‘in itiniere’, vale a dire nel tragitto verso o dal posto di lavoro. Nel computo non sono finiti i decessi per casi di Covid.

In tutto il 2021, l’Inail ha ricevuto oltre 1100 denunce per infortuni mortali. Ma nei dati Inail non sono finiti gli infortuni morali dei lavoratori non assicurati o irregolari. Il settore dove si registrano più decessi è l’agricoltura: 30,22 per cento del totale dei casi e di questi ben il 75 per cento ha riguardato lavoratori schiacciati dal trattore.

«Noi, orfani delle stragi bianche in cerca di giustizia. Le morti sul lavoro non sono incidenti, sono omicidi». Sono i figli degli operai uccisi: una vittima a ogni turno. Lutti senza colpevoli. Famiglie spezzate, aiuti negati. E la giustizia arranca tra burocrazia, lungaggini e cavilli. Floriana Bulfon su L'Espresso il 5 gennaio 2022.

Giuditta Cotena, vedova di Nicola, morto in fabbrica a 28 anni. Giulio ha dodici anni e disegna pali altissimi. Lui li chiama alberi ma sono senza foglie e mamma Paola sa il perché: «Sono le travi che hanno portato via il suo babbo». Alessandro Rosi è morto schiacciato da oltre 80 tonnellate di acciaio. Se n’è andato così il 9 agosto 2019 in una giornata di lavoro lasciando Giulio e Paola «con la morte che ti scava dentro».

Il ruolo dei funzionari pubblici ispettivi. Sicurezza sul lavoro, i provvedimenti del Governo non bastano: occorrono ingegneri e professionisti dedicati. Giancarlo Sponchia su Il Riformista il 14 Gennaio 2022.  

Come è noto le gravi crisi economiche, territoriali o globali, dovute a eventi drammatici si prestano più facilmente, nella fase della ripresa, a comportamenti fraudolenti di alcune aziende a danno dei lavoratori e delle aziende sane che, con enormi sacrifici, cercheranno di risollevarsi. La necessaria attività ispettiva in materia lavoristica, contributiva e assicurativa deve, pertanto, essere ancora più incisiva e più mirata; deve rilevare e sanzionare i comportamenti illeciti sorvolando sugli aspetti formali; deve garantire leale concorrenza sul mercato del lavoro e tutela dei lavoratori deboli e sfruttati.

Cercare, inoltre, di contrastare seriamente, la grossa piaga dell’evasione contributiva che, unitamente a quella fiscale, si aggira intorno ai 150 miliardi l’anno, permetterebbe di mettere a disposizione dello Stato maggiori risorse per finanziare ulteriori necessari interventi a sostegno di imprese e lavoratori duramente colpiti in questi ultimi due anni. Sulla sicurezza nei luoghi di lavoro: il D.L. 146/2021 ha attribuito all’Ispettorato Nazionale del Lavoro la competenza a svolgere la vigilanza in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, modificando l’art. 13 del D.Lgs. 81/2008 che assegnava tale compito quasi esclusivamente ai servizi di prevenzione delle ASL. I Tecnici della Prevenzione nell’Ambiente e nei Luoghi di Lavoro che attualmente svolgono questo tipo di vigilanza, devono essere e sono in possesso di titoli di studio specifici che garantiscano una preparazione tecnico professionale indispensabile per svolgere un compito estremamente importante.

Preparazione tecnico-professionale di cui è sicuramente privo sia l’ispettore ordinario del lavoro in forza all’INL sia gli ispettori inail e inps in possesso, prevalentemente, di un diploma di laurea in scienze politiche, economia e commercio o titoli equipollenti e quindi impossibilitati a verificare l’effettiva mancanza delle condizioni di sicurezza dei luoghi di lavoro. Compito che gli ispettori delle ASL, prevalentemente ingegneri, chimici, medici in possesso di una preparazione culturale e professionale specifica, svolgono con competenza e professionalità al pari degli ispettori tecnici dell’Inl per i settori di competenza fino a oggi attribuiti dal D.Lgs. 81/2008. Pur considerando estremamente meritorio qualsiasi provvedimento che venga emanato dal Governo per contrastare il ripetersi di infortuni sul lavoro che costituiscono una tragedia intollerabile per il nostro paese, appare evidente che non sia possibile effettuare controlli estremamente ingegneristici e tecnico-ambientali con esperti giuslavoristi.

Per svolgere questo compito, che con il D.L. 146 viene esteso a tutti i settori merceologici, in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, occorrono ingegneri e professionisti dedicati. La necessità è quindi quella di reperire ulteriori risorse in modo da incrementare l’attuale organico di ispettori tecnici in servizio presso l’Inl. Non si può mettere a rischio la sicurezza negli ambienti di lavoro attribuendo tale grave compito e responsabilità al personale ispettivo ordinario che non ne ha la competenza e la conoscenza e che si limiterebbe al controllo formale di documentazione senza aver nessuna possibilità di valutarne tecnicamente il contenuto. Tutto ciò va a scapito della vera sicurezza nei luoghi di lavoro ed esporrebbe a responsabilità civili e penali il personale ispettivo ordinario.

Lavoro nero, sub appalti (che spesso sfociano in appalti irregolari) e mancato rispetto delle norme di diritto del lavoro e dei contratti collettivi stipulati a tutela di tutti i lavoratori devono essere costantemente attenzionati dall’attività ispettiva perché solo mettendo in condizione tutte le aziende di gareggiare ad armi pari si garantisce la leale concorrenza nel mercato del lavoro, la tutela della legalità e, di conseguenza la riduzione del rischio di incidenti nei luoghi di lavoro. Giancarlo Sponchia

Gli ispettori del lavoro sono troppo pochi e con le armi spuntate: così incidenti e morti in azienda aumentano. Andrea Barchiesi su L'Espresso il 3 gennaio 2021. Poche migliaia di persone dovrebbero controllare 4 milioni di aziende. E il Documento di valutazione rischi, che dovrebbe essere la mappa per tutelare la salute del lavoratore, è finito nella pastoia della burocrazia. Aumentano gli infortuni sul lavoro diminuisce l’efficacia degli strumenti per contrastarli. Se gli incidenti non vengono riconosciuti è colpa della disorganizzazione italiana. Il Documento di valutazione rischi (Dvr) che è la mappa della salute del lavoratore nelle aziende rischia, infatti, di finire nella pastoia della burocrazia. Non è marginale se l’imprenditore ci disegna, secondo linee guida degli organi vigilanti, le difficoltà che il dipendente incontra nel suo specifico settore, rimediando ai vuoti pericolosi di certe mansioni. Se in Italia si mette a rischio la vita durante il lavoro, si deve andare a ritroso per cercarne i motivi, dove c’è questa carta che sta diventando paradossalmente un’appendice priva dei contenuti e degli obiettivi per cui era nata. I numeri elencati con dovizia da parte dell’Inail mostrano un quadro assai poco confortante visto che le denunce per infortunio sul lavoro nel 2021 sono aumentate dell’8 per cento rispetto al 2020 raggiungendo quota 396.372. Le denunce delle malattie professionali sono aumentate addirittura del 27 per cento rispetto al 2020. Ecco perché occorre ripartire dal documento che costituisce l’architrave del labirinto lavorativo italiano. Proprio il direttore generale dell’Ispettorato del lavoro Bruno Giordano ricorda l’importanza della carta quando spiega che «attraverso di essa è possibile verificare se le misure di prevenzione e protezione sono adeguate al tipo di attività che l’impresa svolge».

Cesare Damiano consulente del ministero del Lavoro e consigliere d’amministrazione dell’Inail che ha contribuito nel 2008 alla parziale integrazione e modifica del decreto legislativo del 1994 spiega con due parole la natura del documento e la sua variabilità: «Dipende da come questa carta viene utilizzata, come tutti gli atti anche questo non fa eccezioni». «All’inizio l’Italia ha cercato di recepire la direttiva europea per migliorare la sicurezza lavorativa e questo documento doveva riflettere anche le misure che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare per contrastare l’esistenza di rischi», ricorda Silvino Candeloro della Cgil Inca.

Col tempo qualcosa è andato perso visto che la memoria di quell’inizio non è stata ravvivata da alcuna statistica né da indizi che fossero in grado di focalizzare la situazione; al contrario tutto è stato lasciato all’italica improvvisazione e affidato al buon cuore e alla buona conoscenza dell’imprenditore. Come nelle migliori famiglie non c’è una cattiva volontà dei protagonisti: ciò che emerge è un intreccio di episodi sciatti dove le responsabilità vengono scaricate da soggetto a soggetto con la legge che spesso gioca un ruolo comprimario dimenticandosi della sua funzione normatrice. A volte la pratica è più significativa di tante parole. Siamo in un paesino della provincia di Genova in una delle tante stagioni primaverili con due operai fuori forma che operano a cavalcioni sul terrazzino di un tetto ad una ventina di metri dal suolo. Uno è in bilico trattenuto a stento dall’altro. Si giustifica di fronte ai vigilanti dicendo di portare con sé la cintura di protezione e non indossarla per problemi di digestione.

Nelle verifiche successive salta fuori anche un certificato medico in cui si vieta al dipendente di lavorare in quota. Al consulente del lavoro viene fatto notare questo passo e la risposta è disarmante: «Credevo si trattasse di lavori sopra i 2000 metri di altezza». Un episodio che impietosamente mostra le omissioni di alcune condotte: l’assenza di tutto ciò dal Dvr, la delega dell’imprenditore ad un libero professionista che solitamente nel contratto che stipula con l’impresa tiene bene a scansare le proprie responsabilità dal settore sicurezza e la precarietà della posizione dei lavoratori in bilico tra l’abisso delle regole e quello della realtà quotidiana. In fondo il primo ed ultimo responsabile di questo documento è il datore di lavoro che deve redigerlo secondo alcuni strumenti che Inail e Asur gli offrono a portata di mano. La violazione dell’obbligo finora ha comportato delle sanzioni amministrative che dovrebbero essere modificate dal nuovo decreto legge del 21 ottobre scorso.

In fase di repressione dei comportamenti illegali c’è ancora molto da raccontare. Che per esempio a fronte di circa 4 milioni di imprese ci sono più o meno 4.000 ispettori del lavoro (Inl) e 2.000 delle aziende sanitarie che possono agire sul campo. Che finora, cioè fino al decreto di ottobre, gli Inl potevano operare esclusivamente ed obbligatoriamente solo nell’edilizia demandando gli altri compiti alle aziende sanitarie locali con il resto degli ispettori, che il senso dei controlli dell’Inail è dato dalla “premialità” che deve essere versata al proprio ente. Che per rendersi conto dell’importanza del Dvr bisogna sottolineare come le malattie professionali riconosciute dall’Inail si basino su quanto scritto nel documento.

Nonostante ciò, non ci si capacita per quale ragione moltissimi operai non ottengano alcuna indennità pur presentando difficoltà e problemi oggettivi: «Spesso e volentieri è la stessa Inail che nei procedimenti resta sorpresa di certe situazioni», dice il dottor Vincenzo Rosini, medico legale che combatte le sue battaglie per il riconoscimento delle malattie professionali: «Mi trovo con le armi spuntate perché nel Dvr non viene scritto ciò che dovrebbe essere registrato. Basterebbe che gli enti certificatori avvalorassero ciò che l’imprenditore asserisce nel documento e molte ingiustizie potrebbero essere eliminate». Che la guerra di Rosini e dei suoi colleghi di trincea sia abbastanza difficile, e quasi persa in partenza, lo testimonia un altro dato che Sebastiano Calleri, responsabile salute della Cgil, mette in evidenza: «Appena il 34 per cento del numero totale delle denunce delle malattie professionali viene riconosciuto». Anche in questo caso il Dvr svolge una funzione determinante visto che tutto quello che viene deciso deve essere prima riportato nel documento.

Qualcosa all’orizzonte sta cambiando con il decreto legge di ottobre che ancora non è stato convertito in legge, però. Gli ispettori dell’Inl andranno a dar man forte a quelli delle aziende sanitarie locali e quel che svolgevano esclusivamente nel settore edile sarà allargato anche ad altri settori imprenditoriali. In più andrà potenziata la vigilanza portando a settemila unità i controllori, un’inezia, se vogliamo, rispetto all’enorme presenza sul territorio delle imprese. Muta anche l’attenzione nei riguardi dell’imprenditore che trasgredisce l’obbligo di redigere il Dvr: l’attività dell’impresa sarà sospesa e se non si provvederà a correggere l’atto potranno essere adottate misure di natura penale come le multe. Siamo però nel limbo di un’attesa che solo i termini legislativi di ogni decreto potranno chiarire, a cominciare dalla posizione incerta delle aziende sanitarie regionali che, nel dividere il controllo con gli Inl, temono di essere marginalizzate. Mentre a Roma si discute e si combatte per mettere d’accordo i diversi attori di questa scena, l’unica certezza proviene dal documento di valutazione rischi il cui cammino deve ancora iniziare. Sottolinea Giordano: «Per molte aziende abbiamo riscontrato che questo documento costituisce un valore oggettivo fondamentale, per altre invece rappresenta una mera formalità burocratica. Una differenza di visione che non solo costituisce lo spartiacque tra imprese serie e meno ma anche tra chi ha a cuore la salute e chi invece considera i lavoratori come un mezzo di profitto». Come nel caso di un controllo in un’impresa dove il datore di lavoro riusciva quasi a farla franca. È capitato che il livello di rumore eccepito da un rappresentante sindacale risultasse nella normalità del Dvr. Solo dopo approfondimenti si riuscì a stabilire che l’imprenditore registrava queste misure nei giorni festivi.

Spesso capita che il Dvr rappresenti a malapena una formalità senza essere aggiornato tradendo lo spirito dell’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano. «Questo documento è dinamico, bisogna ricordarlo ogni qualvolta si cambia organizzazione del lavoro e si mutano le mansioni dei dipendenti, nel momento in cui avviene una trasformazione esiste l’obbligo dell’aggiornamento del documento», sottolinea Damiano. «Senza tralasciare che le norme ci sono e dovrebbero essere applicate per scongiurare le future morti», dice il direttore dell’Inl. «Più che concorrere a colmare il debito dello Stato, l’Inail dovrebbe indirizzarsi verso il sociale con un’autonomia finanziaria. Abbiamo cercato di abbassare la franchigia per gli incidenti includendo quelli più lievi ma la Ragioneria è intervenuta mostrando il rosso del bilancio», osserva Damiano. Per invertire la rotta si potrebbe cominciare a valutare con precisione i dati del Dvr. In questa direzione riuscire a stabilire il suo funzionamento potrebbe aiutare. Sarebbe un primo passo per la tutela della salute di chi lavora.

Morti Sul Lavoro. Daniele morto sul lavoro nel porto di Trieste: il mare e il sole erano il suo mondo. Marco Patucchi su La Repubblica il 3 gennaio 2021. Zacchetti, 58 anni, colpito dal braccio di una gru. Era nato e viveva nel Veneziano: "Il più bravo di tutti, potevi fare affidamento su di lui per ogni cosa". Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

Due anni fa, era estate, Daniele in un angolo di Venezia lo conoscevano tutti. Lavorava al rifacimento di un pontile, ogni giorno da solo sotto il sole. La canottiera e i tatuaggi. Un blog della città lo aveva 'adottato', soprannominandolo 'Icio canotta'. I pontili e il mare sono sempre stati il regno di Daniele Zacchetti, carpentiere specializzato nella ditta di ristrutturazioni che lo mandava in giro per l'Italia da oltre trent'anni. E' morto sul lavoro al porto vecchio di Trieste, colpito dal braccio di una gru. Faceva freddo e non era in canottiera, ma chi lo racconta associa sempre il ricordo al sole e al mare: "Daniele sopportava le giornate più calde - dice un collega - soprattutto quando lavorava nei porti. Se poteva si gettava in acqua per un tuffo rigenerante. Non amava l'inverno, attendeva sempre l'arrivo della primavera. Amava l'acqua e l'allegria".

Zacchetti aveva 58 anni, una ex moglie, una compagna e un figlio trentenne. Era originario di Camponagara e viveva a Campolongo, dalle parti di Venezia. "Con lui si andava sul sicuro - ha raccontato il direttore tecnico dell'azienda - era una persona seria, forte e capace. Facevamo affidamento su di lui per tutto". Un altro collega dice che era il più bravo di tutti, "anche quando si lavorava in ambiente subacqueo". L'acqua, il mare, la barca per la passione della pesca: il mondo di Daniele morto sul lavoro nel porto di Trieste che si è fermato per un'ora in sua memoria: "Veniva da fuori, ma chiunque lavora qui è uno di noi", dicono i portuali.

·        Il Valore di una Vita: il Capitale Umano.

Il valore di una vita: «Importi come questo vengono calcolati valutando parametri specifici: l’aspettativa di vita di una persona, la sua potenzialità di guadagno, la quantità e la qualità dei suoi legami affettivi. I periti assicurativi lo chiamano il capitale umano.» Da Il Capitale Umano, film di Paolo Virzì

Da Wikipedia. Il Capitale (Das Kapital) è l'opera maggiore di Karl Marx, considerata il testo-chiave del marxismo e una delle opere principali per la filosofia marxista. Il Libro I del Capitale fu pubblicato quando l'autore era ancora in vita (l'11 settembre 1867), gli altri due uscirono postumi. Il Libro II ed il III uscirono a cura di Friedrich Engels rispettivamente nel 1885 e nel 1894, mentre il Libro IV venne pubblicato (1905-1910) da Karl Kautsky con il titolo di Teorie del plusvalore.

L'opera.

Il sottotitolo dell'opera, Critica dell'economia politica, evidenzia chiaramente la contrapposizione esplicita di Marx all'economia politica di stampo liberista all'epoca dominante. Marx, partito dalla scuola della politica economica degli economisti classici, con i suoi studi se ne allontana, ridefinendo la centralità del lavoro nei processi di creazione, accumulazione e ricircolazione del capitale e introducendo il concetto di plusvalore altrimenti non identificato. Tutto il pensiero di Marx può essere visto come una riflessione in chiave critica sui temi sollevati da Adam Smith e David Ricardo, tra i massimi esponenti di quella scuola, e la teoria marxiana del valore è chiaramente impostata nella teoria del valore-lavoro degli economisti classici, tanto che alcuni considerano Marx, per quanto ne scardinerà tutto l'apparato, l'ultimo grande esponente della scuola classica.

Marx critica aspramente l'utilitarismo di Jeremy Bentham. Di Bentham stesso ha occasione di dire:

«...l'arcifilisteo, Jeremy Bentham, questo oracolo del senso comune borghese del XIX secolo, arido, pedante e chiacchierone banale (leather-tongued). Bentham è tra i filosofi quello che Martin Tupper è tra i poeti: l'uno e l'altro solo l'Inghilterra poteva fabbricarli.»

(Il Capitale, Libro I, p.666)

Della sua teoria poi dice:

«Il principio dell'utile non è stato un'invenzione di Bentham, il quale non ha fatto che riprodurre senza nessuno spirito quel che Helvétius ed altri francesi del secolo XVIII avevano detto con spirito. Per esempio se si vuol sapere che cos'è utile ad un cane, bisogna studiare a fondo la natura canina. Ma questa natura stessa non si può dedurre dal "principio dell'utile". Applicato all'uomo, se si vuol giudicare ogni atto, movimento, rapporto, ecc., dell'uomo secondo il principio dell'utile, si tratta in primo luogo della natura umana in generale, e poi della natura umana storicamente modificata, epoca per epoca. Bentham non ci perde molto tempo. Egli suppone, con la più ingenua banalità, che l'uomo normale sia il filisteo moderno e in specie il filisteo inglese.»

(Il Capitale, Libro I, p. 749 nota)

Parole non meno dure riserva a John Stuart Mill, che riprende e sviluppa l'etica utilitaristica di Bentham:

«Il Signor J. St. Mill riesce, con la logica eclettica che lo contraddistingue, ad essere dell'opinione di suo padre James Mill e contemporaneamente di quella opposta. Se si confronta il testo del suo compendio, Principles of Political Economy, con la prefazione (della prima edizione), dove egli si annuncia come l'Adam Smith del tempo presente, non si sa se ammirare più l'ingenuità dell'uomo o quella del pubblico che in piena buona fede gli ha creduto.»

(Il Capitale, Libro I, p.157 nota)

Il Capitale non può essere considerato soltanto un trattato di economia in quanto - parlando del sistema economico - Marx espone anche le caratteristiche generali della società capitalistica e dei rapporti che ci sono tra i suoi componenti.

Alla base del Capitale c'è la tesi del materialismo storico, che si propone di spiegare attraverso la Dialettica, considerata come metodo, le condizioni e le caratteristiche della vita materiale attraverso le contraddizioni a cui danno luogo. Per la dialettica, Marx è debitore nei confronti del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel, di cui nel proscritto alla seconda edizione del "Capitale"(1873) si professa scolaro:

"Perciò mi sono professato apertamente scolaro di questo grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico" (Il Capitale, Poscritto alla seconda edizione, 1873).

Secondo Marx inoltre le condizioni e le caratteristiche della vita materiale, incidono inevitabilmente sugli altri aspetti della vita sociale, in quanto esiste una struttura, che è costituita dall'economia, che determina varie sovrastrutture, che da questa dipendono (Struttura e sovrastruttura). Marx analizza il sistema capitalistico per capire come questo sia nato, in modo particolare come si sia sviluppato e evidenzia le contraddizioni insite in questo modo di produzione.

L'autore è convinto che le caratteristiche delle diverse società storicamente esistite dipendano essenzialmente dai mezzi di produzione e dalle tecniche produttive utilizzati, nonché dei rapporti sociali di produzione. Per rapporti sociali di produzione si intendono i rapporti tra le varie classi che si fronteggiano nel processo produttivo.

Per esempio il sistema schiavistico era basato sullo schiavo non libero e su un rapporto del tutto dispotico tra padrone e schiavo. La società feudale invece aveva sciolto questo vincolo ferreo, ma pur tuttavia le classi sfruttate erano tenute a effettuare prestazioni lavorative (ad esempio le corvé) per le classi dominanti in virtù di vincoli determinati da leggi, da regole religiose ecc. In sostanza neppure nel medioevo gli uomini erano tutti uguali di fronte alla legge.

Con le rivoluzioni borghesi, invece, nelle società evolute si è affermato il modo di produzione capitalistico, in cui gli uomini sono tutti uguali davanti alla legge. Pur tuttavia i proletari sono costretti a lavorare per i proprietari dei mezzi di produzione a causa di una dipendenza che è tutta economica. Infatti la concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza dei lavoratori nelle mani di alcuni, costringe chi non ha niente a dover vendere le sue prestazioni lavorative per poter sopravvivere e mantenere la famiglia.

Marx tenta di spiegare come avviene che - in una società in cui tutti sono liberi e uguali e in cui ogni merce, compresa la forza-lavoro, viene venduta secondo il suo valore - si determina lo sfruttamento dei lavoratori.

Nel primo libro del Capitale viene trattato il problema della merce, la quale presenta un duplice aspetto: ha un valore d'uso in quanto è utile a qualcosa (alla soddisfazione di un bisogno attraverso il consumo o a produrre altre merci) ed ha un valore di scambio perché deve poter essere scambiata con altre merci. Secondo la sua teoria del valore, un prodotto (in base all'equazione valore = lavoro, ripresa dall'economia classica e rielaborata) ha tanto più valore quanto più tempo di lavoro viene impiegato dalla società per produrlo.

La caratteristica che differenzia l'economia borghese dalle altre forme di economia è il fatto che i capitalisti non producono al fine di consumare la merce, ma al fine di accumulare ricchezza. Alla base di questo sistema economico c'è il capitalista, che investe denaro in merci, le quali vengono usate nel processo produttivo per poi venderne il prodotto e ricavarne una somma di denaro maggiore di quella investita.

Ciò è possibile soprattutto grazie al plusvalore che proviene dal pluslavoro dell'operaio, cioè una eccedenza di lavoro prestato rispetto a quello che sarebbe necessario per produrre i beni di consumo dei lavoratori o, ciò che è lo stesso, rispetto al lavoro rappresentato dai salari dei lavoratori. Questo lavoro in più, gratuitamente prestato, rimane a disposizione del capitalista ed è l'unica fonte del profitto.

Viene poi spiegata la differenza tra capitale variabile (quello investito nei salari) e capitale costante (quello impiegato per i macchinari e per eventuali acquisti di merci necessarie alla produzione). In modo particolare si evidenziano i rapporti che intercorrono tra i due tipi di capitale, e tra questi e il plusvalore.

Nel secondo libro Marx analizza la circolazione, la rotazione e la riproduzione del capitale, mostrando come e a quali condizioni esso può riprodursi e espandersi. Nell'ambito di questa analisi vengono presentati gli schemi di riproduzione, poi divenuti famosi, che dimostrano come, nell'ambito di una economia di mercato, le condizioni che assicurano una crescita senza crisi possono verificarsi solo casualmente. Tali condizioni coincidono con la necessità che tutta la ricchezza prodotta e non consumata venga impiegata (investita) per dare luogo ai successivi cicli produttivi. Si tratta della stessa condizione Risparmi = Investimenti formulata successivamente da John Maynard Keynes, di cui Marx ha anticipato diverse idee.

Nel terzo libro Marx introduce i molteplici capitali e la concorrenza tra di loro, mostrando che a questo nuovo livello di analisi, più vicino alla realtà delle cose, i prezzi delle merci oscillano attorno ai loro valori, cioè dal lavoro in esse contenuto[non chiaro]. I prezzi vengono fatti derivare dai valori attraverso un processo denominato trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Sempre nel terzo libro Marx formula la nota legge della caduta tendenziale del saggio del profitto in base alla quale - con lo sviluppo della produttività, che richiede sempre meno lavoro per produrre la stessa quantità di merci, e dell'accumulazione del capitale, che determina l'espansione in valore del capitale sociale - a una determinata quantità di lavoro si contrappone un valore del capitale crescente. Poiché il lavoro è l'unica fonte del profitto, il saggio del profitto, che è il rapporto tra plusvalore e valore del capitale impiegato, è soggetto a una tendenza storica a ridursi, tendenza contrastata da "cause antagonistiche". La dialettica tra queste tendenze è un'ulteriore causa delle crisi. Infine, nello stesso libro, Marx esamina le forme di capitale non produttivo (capitale mercantile, capitale dato a prestito, ecc.) e la rendita. Le forme di creazione di capitale diverse dal lavoro sarebbero quindi fittizie e i riequilibri ciclici scaturirebbero in altrettante crisi economiche.

Marx da un lato riconosce un ruolo storico propulsivo al progresso svolto dall'economia borghese, che ha liberato gli uomini dai vincoli personali di dipendenza giuridica e ha liberato le forze produttive dai vincoli che ne ostacolavano lo sviluppo nei precedenti sistemi. Nel contempo egli dimostra l'aspetto critico di quell'economia, tant'è che evidenzia le sue contraddizioni, che si manifestano nelle crisi, che porteranno ad un'altra struttura economico-sociale: il comunismo, in cui anziché essere la mano invisibile del mercato a determinare le scelte economiche, saranno "gli uomini liberamente associati" a stabilire cosa e come produrre, e come ripartire i beni prodotti.

La vita ha un prezzo preciso… Chiamalo, se vuoi, “Capitale umano”.  Questo articolo è stato scritto mercoledì 8 Gennaio 2014 da Stefano Giani su Il Giornale.

Avete scommesso una fortuna sul crollo di questo Paese. E avete vinto… 

Il costo di un uomo. Peso e valore. Vita e aspettativa. Ragioni aritmetiche. Quello che i periti assicurativi – nel valutare l’importo di un risarcimento – chiamano “il capitale umano”. Valore pur sempre, ma anche in altra chiave. Uso e utilizzo. Limpido e brutale come spesso lo sono i numeri. Senz’anima. E senz’anima appaiono i personaggi di questo film di Paolo Virzì, Il capitale umano, appunto, in cui si sottolinea proprio l’ambivalenza, o meglio la corrispondenza di questa definizione. Capitale non è dunque solo il prezzo economico di ciascuno di noi, ma anche la fonte di utilità che non sempre ha una tradizione finanziaria, ma spesso ce l’ha.

E allora ecco il nipote minorenne “venduto” come spacciatore dallo zio pusher al proprio posto per evitarsi la galera. O il figlio di papà che affoga nel denaro e maltratta la mamma, “venduto” come autore di un omicidio mai commesso. Lo squalo dei mercati che “compra” un socio un po’ gonzo promettendogli lauti ritorni e lo scarica alle prime perdite, intascandosi – vedi bene – il capitale. Di nome e stavolta di fatto. E lo stesso besugo in salsa brianzola che viene a capo del segreto dell’omicidio di cui è accusato il figlio dello spudorato trader e chiede un riscatto per la prova assolutoria. Ben 980mila euro e un bacio. La parcella della libertà proposta all’adultera sposa di quell’uomo e madre del ragazzo incriminato. Rapporti sessuali che non sanno di amore ma di ricompense. Anch’essi, a loro modo, sono capitali umani.

Brianza profonda e Varesotto, la Lombardia ricca. Quella che parla con accento aperto. E l’articolo davanti al nome di battesimo. Un investitore pirata e un ciclista che muore. Le indagini di una polizia che brancola nel buio di una dinamica scontata e, proprio per questo, non ci azzecca. Ma soprattutto un assassino da acciuffare che solo il computer – senz’anima come tutti i personaggi della storia – saprà però denunciare. Fino ad allora dinamiche diverse di vite diverse, che scorrono l’una a fianco all’altra. Credendo di sapere tutto. Condividere tutto. E tutto invece è nulla. Lo squalo del trader ignora le infedeltà della moglie e picchia il figlio in realtà innocente. Si fa beffe del socio, poi trionfa negli affari dopo aver sfiorato il baratro. La ragazza che s’innamora di quello sbagliato, il ricco, per poi lasciarlo a favore del povero. L’avanzo di galera, perseguitato da una fama che non gli spetta. L’imprenditore immobiliare sull’orlo del fallimento che ha lasciato la moglie fedifraga, si è risposato e, in attesa di un figlio, si è buttato a capofitto in operazioni borsistiche di dubbia probabilità.

Il materiale umano è vario e frastagliato con un denominatore comune. Senz’anima. A loro modo lo sono tutti i componenti delle famiglie in scena. Tranne Serena e  Roberta (Valeria Golino), la psicologa che sposa l’immobiliarista e si ritiene una fallita. E senz’anima, non a caso, è perfino il computer da cui esce la rivelazione finale. La chiave del dramma. Il volto dell’assassino. La tecnica del racconto è seducente. La stessa giornata, vissuta con gli occhi e il cuore di tre personaggi diversi. Dino (Fabrizio Bentivoglio). Carla (Valeria Bruni Tedeschi). Serena (Matilde Gioli). L’ambizioso rampeghino che vive nel sottobosco della società. La moglie del finanziere. La ragazza dal cuore buono. Tre modi diversi di vivere le stesse ore. In questi tre capitoli lo spettatore riesce a ricostruire, come in un’indagine poliziesca, la dinamica di un giallo che rappresenta il cardine della trama, ma non sembra mai in primo piano.

Chi guarda non attende lo scioglimento dell’enigma, ma vive con le sensibilità dei tre attori. Paragona sensazioni. E sentimenti. Scatti d’ira. Impazienza. E disperazione. E inevitabilmente si ritrova con un nulla in mano. Un capitale umano deteriorato. Perduto. Utilizzato per scopi bassi. Bassissimi. E quella scommessa finanziaria inizialmente azzardata – il crollo del Paese – diventa reale. Trionfo non solo a livello economico, ma soprattutto umano. La festa per il successo borsistico dello squalo che conclude le riprese è la chiosa senza appello. Avete scommesso sul crollo di questo Paese. E avete vinto. Il buono soffre. Sfiora la morte con l’ennesimo tentativo di suicidio. Un taglio alle vene. Il malvagio trionfa. Grazie a un capitale più disumano che altro. E si brinda al crollo del Paese. Economico e metaforico. Reale e umano.

Gradevole nella sua amarezza, arricchita da uno humour nero che sottolinea il tragico più che il comico di certe situazioni, il film di Virzì vanta una colonna sonora che mescola brani classici di musica sinfonica e celebri canzoni. Girato tra Como e Varese, ampiamente riconoscibili, ma idealmente ricollocato in Brianza il film tradisce la scarsa conoscenza dei luoghi, da parte di Virzì, nell’insistito accenno sulle notizie diffuse dalla “Prealpina”, il quotidiano di Varese che tuttavia non ha una grande diffusione nei dintorni di Monza, dove invece il film viene ambientato.

La storia raccontata da “Il capitale umano”. Il Post venerdì 13 maggio 2016.

È il thriller di Paolo Virzì ambientato in Brianza, molto apprezzato e premiato con sette David di Donatello.

Il capitale umano è un film del 2013 del regista livornese Paolo Virzì, ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Stephen Amidon (pubblicato in Italia nel 2005) nel quale il racconto era ambientato negli Stati Uniti. Il capitale umano è un thriller ambientato in un paese inventato della Brianza, in Lombardia, e racconta la storia di due famiglie a partire da un incidente stradale avvenuto alla vigilia di Natale. Nel film si parla di molte cose: del tentativo di ascesa sociale di un immobiliarista ambizioso, di una figlia oppressa dalle ambizioni del padre, della spregiudicatezza di un grande finanziere e dell’infelicità di sua moglie. In Il capitale umano hanno recitato Fabrizio Bentivoglio, Fabrizio Gifuni, Valeria Bruni Tedeschi, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Bebo Storti e Matilde Gioli.

Il capitale umano inizia con un prologo: una notte, su una strada provinciale, un cameriere viene investito da un SUV mentre ritorna a casa in bicicletta, dopo aver lavorato a una festa che si era tenuta in una scuola privata. Lo sviluppo della storia è poi diviso in tre capitoli, ciascuno raccontato dal punto di vista di un personaggio diverso, e riguarda anche i sei mesi precedenti l’incidente, cioè da quando l’agente immobiliare Dino Ossola si indebita per entrare nel fondo fiduciario del finanziere Giovanni Bernaschi. Bernaschi aveva promesso a Ossola rendimenti elevatissimi, ma le cose andranno diversamente. L’ultima parte del film si concentra sulle indagini della polizia relative all’incidente, che portano poi alla soluzione del mistero.

Il titolo del film fa riferimento a un parametro usato dalle assicurazioni per stimare il risarcimento da pagare in seguito alla morte di una persona, come viene spiegato nella sequenza finale:

«Importi come questo vengono calcolati valutando parametri specifici: l’aspettativa di vita di una persona, la sua potenzialità di guadagno, la quantità e la qualità del suoi legami affettivi. I periti assicurativi lo chiamano il capitale umano.»

Nel 2014 il film di Virzì ha vinto sette David di Donatello, tra cui quello per il Miglior film, ed è stato il candidato italiano agli Oscar 2015 per il Miglior film straniero, anche se poi è stato escluso dalla lista finale delle nomination. Il capitale umano è stato scritto da Virzì assieme a Francesco Bruni e Francesco Piccolo: del film si è parlato parecchio anche per alcune polemiche sul modo in cui Virzì ha rappresentato la Brianza.

La vita non ha prezzo? Invece ce l'ha. L'adnkronos.com il 15 novembre 2017.

Dovrebbe essere un bene inestimabile ma in tribunale, in politica ed in economia la vita di un uomo ha un valore monetario. Anzi più d'uno. E molti economisti calcolano il valore di un uomo in proporzione al Pil del Paese. Per l'economista William Viscusi dell'Università Vanderblit (Usa), in Italia la vita pesa 4,71 milioni di euro, molto meno rispetto alle Bermuda dove è calcolata in 15,5 milioni, ma sempre meglio che in Burundi, dove un uomo vale 45mila dollari. L'approccio dell'economista è che ogni persona che muoia prima del tempo è un mancato introito per la collettività, secondo le stime analizzate nell'indagine di Vito Tartamella sul mensile scientifico 'Focus'. 

Il costo di un incidente mortale stimato dal ministero dei Trasporti italiano è di 1,6 milioni di euro, somma di mancata produttività media, più costo medio dei danni morali, più costi di ambulanza e pronto soccorso. In caso di omicidio, errore medico, incidente stradale o sul lavoro, tribunali e assicurazioni devono dare un prezzo al bene inestimabile per eccellenza: la vita umana.

Ed il tema è di grande attualità visto che proprio in questo mese la Gazzetta ufficiale ha pubblicato il Decreto del ministero dell’Interno del 31 agosto 2017, che stabilisce gli indennizzi alle vittime dei reati violenti. Un provvedimento che ha fatto discutere: i familiari di una persona assassinata che siano indigenti, riceveranno dallo Stato la somma di 7.200 euro.

A fronte di questa cifra, "da molti considerata offensiva, l’Italia -segnala Tartamella- è però il Paese che compensa il 'dolore da lutto' con i risarcimenti più elevati d’Europa: per ogni coniuge, genitore o figlio che perda la vita, è previsto un risarcimento di 328mila euro". E’ questo, infatti, l’importo massimo stabilito dalle tabelle elaborate dal Tribunale civile di Milano, diventate il punto di riferimento usato dai magistrati di tutta Italia.

E non sono le uniche cifre quando si tratta di dare un prezzo all’esistenza: il 'capitale umano', questo il nome del valore economico di ciascun uomo, è calcolato da economisti, statistici e politici quando occorre valutare l’opportunità di investire soldi per migliorare la sicurezza sul lavoro o finanziare una nuova cura sanitaria. Ad esempio, il ministero dei Trasporti stima appunto che ogni incidente mortale costi alla collettività 1,6 milioni.

QUANTO VALE LA VITA UMANA? Rileggendo Polibio: quanto vale la vita umana? Dai valori della dignità personale e la fedeltà verso Dio, all'aborto e l'orrore per la pena di morte: tutta la cultura moderna non è che una contraffazione della cultura cristiana di Francesco Lamendola.   

Rileggendo Polibio: quanto vale la vita umana?

Francesco Lamendola su accademianuovaitalia.it il 04 Gennaio 2020.

Quando si è adolescenti si leggono gli storici classici per la curiosità di conoscere le vicende dei popoli antichi, dei loro eroi, dei loro costumi, delle loro leggi e delle loro guerre: ed è così, con quello spirito, che abbiano divorato, dai quindici ai diciotto anni, sia i latini, Cesare, Sallustio, Tito Livio, Svetonio, Tacito, Ammiano Marcellino e gli scrittori della Historia Augusta, fino a Paolo Orosio e a Paolo Diacono; sia, soprattutto, i greci, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Polibio, Plutarco, Zosimo, Procopio. Quelle letture erano per noi così entusiasmanti che ci immergevamo in esse fino a perdere la nozione del tempo, proprio come se si fosse trattato di romanzi d’avventura o di resoconti di viaggi o navigazioni dei grandi esploratori del passato, e assai malvolentieri ce ne staccavamo quando giungeva il richiamo del pranzo, o per assolvere agli altri obblighi e alle varie necessità della vita quotidiana. Più tardi, divenuta la filosofia il centro dei nostri interessi, quegli stessi libri sono divenuti letteralmente una miniera di osservazioni sulla natura umana, rivelando un lato sino allora da noi poco considerato e aprendo squarci di riflessione sulla politica, sull’etica, sulla psicologia, sulla natura profonda del reale. 

Quanto vale la vita umana? 

Tutte cose alle quali, in precedenza, non avevamo prestato alcuna speciale attenzione, anzi, per dirla tutta, delle quali non avevamo neppure sospettato l’esistenza, come il proprietario di un campo il quale rivolga tutta la sua attenzione al raccolto di grano, perché ignora completamente che, sotto le zolle, qualcuno, così tanto tempo prima che se n’è perso anche il ricordo, ha nascosto, all’interno di anfore di terracotta, un inestimabile tesoro di gemme, di collane e monili d’oro, di pietre preziose d’ogni tipo. E la stessa scoperta ci è accaduto di fare per tutte le altre discipline: dalle scienze naturali, ad esempio con La vita delle api di Maurice Maeterlinck, all’astronomia, con I mostri del cielo di Paolo Maffei; per non parlare dei libri di matematica e di geometria. Ma, tornando agli storici antichi, con la scoperta della filosofia è cominciato il rinnovato saccheggio: quegli autori hanno rivelato di essere fonte di continue scoperte di ordine filosofico, mentre prima non li avevamo apprezzati se non per il loro valore di documenti delle vicende storiche. È ben vero che la saggezza romana soleva ripetere che historia magistra vitae, la storia è maestra di vita (Cicerone, De oratore, II, 9,36), ma è un fatto che quell’affermazione ha sempre incontrato pareri discordi. Accolta e lodata da molti, è stata respinta sdegnosamente da altri, secondo i quali gli uomini non imparano mai nulla dalla passata esperienza e, proprio come dei ragazzi inesperti e impulsivi, sono condannati a ripetere a loro volta gli stessi errori dei padri, e a nulla vale che questi ultimi li mettano in guardia e narrino loro le proprie esperienze e ciò che da esse hanno imparato. 

 Per gli antichi, un uomo degno di questo nome non può sopravvivere alla disfatta della propria causa! 

Ebbene, c’è una pagina di Polibio di Megalopoli (c. 203-121 a.C.) relativa alle guerre macedoniche, nella quale lo storico greco si sofferma sul risvolto umano della sorte di alcuni suoi connazionali, specialmente due fratelli di Rodi, Dinone e Poliarato, i quali, avendo avviato trattative segrete con il re Perseo, quando la guerra si risolse a favore di Roma si videro scoperti e posti di fronte alle loro responsabilità. Per Polibio quello era il caso classico nel quale l’unica soluzione accettabile è il suicidio: poiché la loro sorte era segnata, a che scopo tergiversare e mostrare a tutti lo spettacolo di un vile attaccamento alla vita? Per gli antichi, un uomo degno di questo nome non può sopravvivere alla disfatta della propria causa, né deve gettare nel fango la propria dignità, cercando di salvarsi ad ogni costo: essi erano convinti che la vita umana non è un valore assoluto e irrinunciabile, e che vi sono circostanze, come questa, nelle quali non solo è lecito, ma è doveroso togliersela, onde custodire un bene più grande: la propria dignità. Così la pensavano un po’ tutti, a Roma e fra i nemici di Roma (si pensi al suicidio di Annibale, pochi minuti prima che i romani lo catturassero), e tanto gli stoici che gli epicurei: come dimenticare, ad esempio, lo sdegnato denique vivunt di Lucrezio, nel De rerum natura, riferendosi a quelli che, pur tormentati da cento mali fisici e morali, esitano tuttavia a togliersi la vita, mostrando un indegno attaccamento nei suoi confronti? Ne abbiamo già parlato (cfr. i nostri articoli: Rileggendo Lucrezio l’uomo è un assurdo gettato a caso in attesa del nulla?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/07/08 e ripubblicati su quello dell’Accademia Nuova Italia il 21/11/17; e Lucrezio vuol liberare l’uomo dalla paura della morte: ma ci riesce?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 17/11/17). La stessa idea era presente in tutte le altre culture antiche: pensiamo al re giudeo Saul, che si getta sulla propria spada per non cadere vivo nelle mani dei vittoriosi Filistei (sebbene nella Bibbia siano presenti due versioni differenti, in una delle quali egli cade ucciso per mano di un Amalecita); oppure a Decebalo, il re dei Daci che, sconfitto da Traiano, per non cadere prigioniero e tradotto a Roma, ove comunque sarebbe stato certamente giustiziato, si toglie la vita tagliandosi la gola con un pugnale, come è narrato da Cassio Dione e come si può tuttora vedere nei realistici rilievi della Colonna Traiana.  

Perfino un Seneca, per altri aspetti così pietoso loda il suicidio di un gladiatore che volle privare il pubblico della gioia malvagia di vederlo morire nell’arena, come un animale da combattimento! 

Scrive, dunque, Polibio nelle sue Storie (XXX, 6-9; traduzione di Carla Schick, Milano, Mondadori, 1955, 1979, vol. 3°, pp. 188-192):

6. Attirammo già in precedenza l’attenzione dei lettori sul comportamento di Dinone e Poliarato: essendo accaduti gravi sconvolgimenti non solo presso i Rodi, ma anche presso quasi tutti  gli altri Stati, sarebbe opportuno giudicare i criteri di governo di ogni città, per vedere chi abbia seguito una condotta ragionevole, e chi invece non abbia compiuto il suo dovere. Con il loro esempio davanti agli occhi gli uomini futuri in circostanze simili potranno seguire il cammino migliore ed evitare gli sbagli dei loro predecessori, in modo da non violare come quelli il loro dovere proprio alla fine della vita e rendere così vane anche le loro benemerenze precedenti. (…)

7. (…) In Rodi, a Cos e in molte altre città alcuni fautori di Perseo osarono parlare presso i loro concittadini a favore dei Macedoni e contro i Romani, per indurli ad allearsi con Perseo, ma non riuscirono nel loro intento. I più illustri fra costoro erano a Cos i due fratelli Ippocrito e Geomedonte, a Rodi Dinone e Poliarato.

8. Essi si comportarono in modo del tutto biasimevole: benché i loro concittadini  fossero tutti testimoni delle loro azioni e dei loro discorsi, benché i loro scritti – sia quelli che essi avevano mandato sia quelli che avevano ricevuto da Perseo – fossero stati intercettati e resi noti, benché fossero stati catturati i messaggeri inviati da entrambe le parti, essi non seppero cedere e togliersi di mezzo, ma rimasero incerti. Così insistendo nell’amare la vita benché avessero perduto ogni speranza, essi distrussero anche la fama di audacia e di coraggio che si erano precedentemente procurata, e non lasciarono ai posteri possibilità alcuna di compassione e di indulgenza; denunciati infatti dai loro stessi scritti e dai loro incaricati, apparvero non solo disgraziati, ma addirittura impudenti. Un certo Toante era stato più volte inviato in Macedonia da Dinone e Poliarato; costui quando il corso degli eventi mutò, conscio di quanto aveva fatto, spaventato si ritirò  a Cnido; imprigionato dagli abitanti dell’isola e richiesto dai Rodi, egli ritornò in patria e quivi costretto dai tormenti confessò tutto; le notizie che egli diede apparvero perfettamente conformi a quelle contenute negli scritti intercettati e nelle lettere inviate da Perseo a Dinone e viceversa.  Vi è dunque ragione di domandarsi come mai Dinone abbia continuato a vivere e abbia osato mostrarsi così vile. 

Il pietoso Seneca, a proposito del suicidio dettato da ragioni di dignità personale, dichiara con estrema fermezza, nella settantesima epistola delle Lettere a Lucilio: Quae, ut scis, non semper retinenda est; non enim vivere bonum est, sed bene vivere (Non sempre, lo sai, è giusto conservare la propria vita; vivere non è un bene di per sé, ma lo è il vivere bene)! 

9. Poliarato poi superò di gran lunga Dinone in stoltezza e viltà; avendo Popilio ordinato al re Tolemeo di mandare a Roma Poliarato, il re non obbedì, ma preferì per rispetto della sua patria e di Poliarato stesso rimandarlo a Rodi, poiché anche lì egli era stato richiesto. Egli fece dunque allestire una imbarcazione e la affidò a un suo amico di nome Demetrio; scrisse e pure ai Rodi per informarli della compiuta spedizione. Poliarato, approdato durante il viaggio a Faselide, formulato non so quale piano, prese i rami di ulivo insegna dei supplici e si rifugiò nel pubblico asilo.  Se qualcuno gli avesse chiesto le sue intenzioni, sono convinto che non avrebbe saputo che cosa dire: se egli desiderava ritornare in patria, che bisogno aveva dei rami di ulivo? I suoi accompagnatori avevano proprio l’incarico di ricondurlo a Rodi. Se egli voleva andare a Roma, avrebbe dovuto farlo per necessità, anche contro i suoi desideri? Che altro partito gli rimaneva?  Non esisteva altro luogo nel quale egli potesse rifugiarsi. I Faseliti inviarono ambasciatori a Rodi per invitare gli isolani a mandare a prendere Poliarato; saggiamente i Rodi mandarono una nave scoperta che lo conducesse in patria, ma in realtà proibirono al comandante della nave di accettare a bordo Poliarato, perché già precedentemente essi avevano inviato da Alessandria alcuni loro incaricati che lo accompagnassero a Roma. Quando la nave giunse a Faselide, Epicare che ne era il comandante non volle accogliere a bordo Poliarato; Demetrio, che era stato scelto dal re come sua scorta, gli ordinò di partire  salpando di lì; i Faseliti inoltre aggiungevano le loro insistenze nello stesso senso, perché temevano di incorrere in qualche accusa da parte dei Romani; colpito da tutto ciò, Poliarato finì con l’imbarcarsi di nuovo insieme a Demetrio.  Mentre salpavano però con un pretesto, riuscì di nuovo a fuggire a Cauno dove supplicò i cittadini di soccorrerlo. Anche questi però lo respinsero perché erano stati assoggettati dai Rodi; egli mandò allora un messaggio ai Cibirati, pregandoli di accoglierlo e di mandargli una scorta: egli aveva appoggi in quella città, perché aveva allevato presso di sé i figlioli del tiranno Pancrate.  I Cibirati diedero ascolto alle sue preghiere e fecero quanto egli chiedeva, ma arrivato a Cibira egli procurò a se stesso e a quei cittadini un imbarazzo ancora maggiore di quello nel quale aveva posto ai Faseliti. Essi non osavano infatti tenerlo presso di sé per timore dei Romani, né potevano mandarlo a Roma perché, vivendo esclusivamente nell’entroterra, non avevamo alcuna pratica della navigazione. Furono dunque costretti a mandare ambasciatori a Rodi e al proconsole romano in Macedonia, chiedendo di venire a prendere Poliarato. Lucio rispose ai Cibirati di custodire con cura Poliarato e di condurlo a Rodi, ai Rodi di scortarlo per mare, perché giungesse con sicurezza nel territorio dei romani. Sia i Cibirati che i Rodi obbedirono agli ordini del proconsole e in questo modo Poliarato fu condotto a Roma dopo aver reso note a tutti la sua stoltezza e la sua viltà ed essere stato consegnato non solo dal re Tolemeo, ma anche dai Faseiliti, dai Cibirati, dai Rodi. Per quale ragione ho insistito così a lungo su Poliarato e Dinone? Non certo per infierire contro di loro nella disgrazia – questo sarebbe stato riprovevole – ma perché, resa nota la loro stoltezza, anche gli altri apprendano come si debbano comportare se si troveranno in circostanze analoghe. 

 Sia pure per motivi diversi, tanto i pagani che i cristiani ponevano dei limiti al valore assoluto della vita umana: per i primi quel limite era costituito dalla dignità personale, per i secondi dall’intransigente fedeltà verso Dio, senza compromessi! 

A noi moderni, naturalmente, i disperati tentativi di questi due sventurati fratelli, e specialmente di Poliarato, per ritardare con ogni espediente la fine inevitabile, benché appaiano inutili fin dal principio, non suscitano gli stessi sentimenti che prova Polibio e con lui tutti, o quasi tutti gli antichi e perfino, probabilmente, un Seneca, per altri aspetti così pietoso e lontano dalla mentalità di allora, visto che loda il suicidio di un gladiatore che volle privare il pubblico della gioia malvagia di vederlo morire nell’arena, come un animale da combattimento. Infatti anche il pietoso Seneca, a proposito del suicidio dettato da ragioni di dignità personale, dichiara con estrema fermezza, nella settantesima epistola delle Lettere a Lucilio: Quae, ut scis, non semper retinenda est; non enim vivere bonum est, sed bene vivere (Non sempre, lo sai, è giusto conservare la propria vita; vivere non è un bene di per sé, ma lo è il vivere bene). E se anche Seneca la pensa così, possiamo star certi che tale è l’opinione pressoché universale degli antichi, a cominciare dai filosofi e dagli intellettuali (vedi i nostro articoli: La fragilità e la grandezza dell’uomo nella visione filosofica di Seneca, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 01/02/12 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il  12/11/17; e Il razionalismo pessimista di Seneca è frutto d’un naturalismo radicale, sul sito dell’Accademia Nuova Italia  il 10/11/17).  Per noi moderni, parlando in linea generale, la vita è un valore assoluto, irrinunciabile: il suicidio dei generali giapponesi nel 1945, così come quello di alcuni tedeschi, come Hitler, Himmler, Goebbels e Göring, e di alcuni italiani, come Giovanni Preziosi e sua moglie, sempre nelle stesse circostanze, cioè in seguito alla sconfitta dell’Asse nella Seconda guerra mondiale, appare come qualcosa di strano e di anacronistico, perfino di biasimevole (cfr. il nostro articolo: È stata eroica, la morte di Adolf Hitler?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 26/11/17). Eppure i moderni considerano normale sacrificare milioni e milioni di vite in guerra, o far perire decine e centinaia di migliaia di persone innocenti sotto i bombardamento aerei. Inoltre, essi considerano normale, almeno in Occidente, praticare milioni di aborti e ora si apprestano a varare leggi favorevoli all’eutanasia. Da che cosa viene, ai moderni, l’idea del valore assoluto della vita, indipendentemente da qualsiasi circostanza, salvo nei casi che abbiamo detto e salvo la volontà di evitare fastidi o dolori ? Senza alcun dubbio, dal cristianesimo.  

Altro che Nerone e le persecuzioni cristiane nell'antica Roma! Oggi, nel terzo millennio, in tanti luoghi del mondo, e specialmente nell’Africa e nell’Asia i "Martiri Cristiani" ci sono ancora! 

Tuttavia, la modernità ha ripudiato il cristianesimo; inoltre, piaccia o non piaccia ai cattolici progressisti e ai preti modernisti, il cristianesimo non ha mai insegnato che la vita umana è un valore assoluto: altrimenti, come avrebbe potuto esaltare il sacrificio dei martiri, che rinunciavano con entusiasmo alla loro vita per restare fedeli al Signore Gesù Cristo? Se la vita fosse un valore assoluto, gli antichi cristiani non avrebbero esitato a gettare qualche grano d’incenso davanti alla statua dell’imperatore romano, e così avrebbero avuto salva la loro. Ma non c’è bisogno di andare indietro di quasi duemila anni: basta guardare a quel che succede oggi, nel terzo millennio, in tanti luoghi del mondo, e specialmente dell’Africa e dell’Asia, per vedere che i martiri ci sono ancora, e che si sacrificano per la stessa ragione di quelli antichi, anche se i cattolici europei non vogliono vederlo, né sentirlo, e nessuna autorità cattolica ha ricordato il massacro di cristiani avvenuto in Nigeria, mentre qui da noi ci si scambiavano i regali natalizi e si stappavano bottiglie di champagne per festeggiare l’anno nuovo. 

 G. K. Chesterton: "le convinzioni dei moderni non sono altro, che schegge impazzite di antiche verità cristiane, delle quali si è smarrito l’autentico significato".  

Sia pure per motivi diversi quindi, tanto i pagani che i cristiani ponevano dei limiti al valore assoluto della vita umana: per i primi quel limite era costituito dalla dignità personale, per i secondi dall’intransigente fedeltà verso Dio, senza compromessi. Ma allora, come mai i moderni hanno modificato e stravolto la concezione cristiana, visto che anch’essi paiono considerare la vita come un bene assoluto, che va difeso a oltranza, tanto da provare orrore nei confronti della pena di morte (e Bergoglio, illegittimamente, lo ha scritto nero su bianco nel Catechismo, sovvertendo il Magistero di sempre), anche se non provano un simile orrore, come abbiamo già detto, quando la vita viene soppressa per ragioni di tipo edonistico, ossia perché è divenuta troppo faticosa o incomoda da portare o da accogliere?  La ragione è presto detta: perché tutta la cultura moderna non è che una contraffazione e una storpiatura della cultura cristiana: le convinzioni dei moderni non essendo altro, come osservava acutamente G. K. Chesterton, che schegge impazzite di antiche verità cristiane, delle quali si è smarrito l’autentico significato.

Quanto vale una vita? Francesca Coin, sociologa il 5 gennaio 2021 su internazionale.it.

Quanto vale la vita degli esseri umani? Quant’è giusto spendere per proteggerla? Fino a che punto le misure restrittive prese per limitare la diffusione del nuovo coronavirus hanno generato benefici superiori ai loro costi economici? Di fatto, quasi tutte le religioni e le filosofie considerano la vita un bene dal valore inestimabile. Eppure, non sono poche le circostanze in cui all’esistenza di una persona viene applicato un prezzo, si tratti di pagare un riscatto per la liberazione di un ostaggio o di prevenire il rischio di un incidente.

In questi mesi, alla stima economica del valore della vita è stato affidato il compito oneroso di decidere quali fossero le politiche migliori da introdurre per gestire la pandemia. In Francia, per esempio, Christian Gollier, direttore della Scuola di economia di Tolosa, ha stabilito che, in termini di benessere collettivo, i novanta miliardi di perdite causati dai 30mila decessi fossero un male minore rispetto al lockdown. Per giungere a questa conclusione, Gollier ha considerato un valore di tre milioni di euro a vita e ha confrontato le perdite derivanti dalla morte di 30mila persone con il costo derivante da una caduta del prodotto interno lordo (pil) pari al 20 per cento, concludendone che i decessi fossero il male minore rispetto al lockdown.

In modo diverso, l’economista inglese Julian Jessop è arrivato alla stessa conclusione in una ricerca pubblicata per l’Institute of economic affairs, think tank di destra ispirato ai princìpi del libero mercato. Supponendo che il virus avrebbe colpito solo gli anziani, e ipotizzando che questi avrebbero avuto un’aspettativa di vita di dieci anni, Jessop ha stimato che 400mila morti premature valessero al massimo 600mila sterline ciascuna (60mila sterline all’anno per dieci anni), una cifra distante dai tre milioni a vita di Gollier. Pur apprezzando la difficoltà di confrontare “arance (morti per il covid-19)” e “pere (i costi economici e fiscali di un lockdown)”, Jessop ha concluso che, una volta considerati i costi economici e sociali, salvare 400mila vite non fosse necessariamente vantaggioso.

Schiavismo e capitale umano

Nella storia dell’umanità le stime attribuite al valore della vita sono state le più diverse. Nel 1910 un articolo del New York Times – intitolato What the baby is worth as a national asset – usava una stima dell’economista di Yale Irving Fisher per dedurre che un bambino, alla nascita, valesse 362 dollari ogni 450 grammi. Il calcolo si basava sulla stima della potenziale ricchezza prodotta dal bambino o dalla bambina nel corso della sua esistenza. Considerando che nel 1910 gli Stati Uniti avevano un raccolto agricolo dal valore di 6,96 miliardi di dollari, e che nello stesso anno erano nati 2,4 milioni di bambini, questo significava che se ognuno di loro fosse sopravvissuto “al normale periodo di otto anni”, avrebbe potuto produrre “2.900 dollari in più di quanto costa allevarlo e mantenerlo”, rendendo le nascite un investimento conveniente per aumentare la ricchezza del paese.

La tendenza a quantificare il valore della vita degli esseri umani sulla base della capacità di produrre reddito è una prassi di lungo corso. Secondo lo storico dell’università di Haifa Eli Cook deriva dallo schiavismo. È stato il governatore del South Carolina, lo stato che nel 1740 aveva la percentuale più alta di schiavi nel paese, a calcolare il pil sulla base del fatto che ogni schiavo produceva un reddito pro-capite di 40mila sterline all’anno.

Per Cook, la teoria del capitale umano deriva esattamente da queste stime. Ancora oggi, la teoria del capitale umano calcola il valore della vita sulla base dei redditi percepiti. Secondo l’Istat la vita di un italiano vale in media circa 342mila euro all’anno. Tuttavia, poiché lo “stock di capitale umano” – come lo chiamano gli economisti – non è uniforme nella popolazione, ne consegue che la vita di un giovane vale di più della vita di un anziano perché ha davanti a sé più anni per lavorare, esattamente come la vita di un uomo vale di più rispetto alla vita di una donna: per l’Istat, non a caso, il valore pro-capite maschile è pari a 453mila euro, mentre quello femminile è circa la metà, 231mila euro. Come spesso accade, invece di spiegare le disuguaglianze sociali, questi valori le misurano e normalizzano il fatto che, nel nostro mondo, alcune vite semplicemente valgono più delle altre.

Due casi

Nel suo libro Pricing lives: guideposts for a safer society (Princeton university press 2018), l’economista W. Kip Viscusi spiega che la teoria del capitale umano si presta a così tante contraddizioni da divenire inservibile. A volte, per esempio, conduce a stime così basse del valore della vita che diventa più conveniente risarcire una morte che prevenirla. Altre volte rende addirittura vantaggiosi i decessi.

Pensiamo alla storia della Ford Pinto. Nel 1971 la Ford aveva cominciato la produzione della Pinto, un’auto dal prezzo accessibile con un mercato potenziale di circa undici milioni di compratori. Nonostante le aspettative, la Pinto aveva un difetto di fabbricazione che, in caso di velocità sostenuta, portava il paraurti a schiacciare il serbatoio della benzina, generando una miccia che rischiava di infiammare il veicolo.

Nel 1977 Mark Dowie ha vinto il premio Pulitzer per un articolo pubblicato da Mother Jones in cui raccontava come la Ford avesse deciso di soprassedere sul difetto di fabbricazione facendo un calcolo costi-benefici secondo il quale risarcire l’eventuale morte dei conducenti dell’auto esplosa sarebbe stato più conveniente che sostituire il pezzo difettoso. Il costo della sostituzione del serbatoio del gas era di 11 dollari a veicolo. Moltiplicato per 12, 5 milioni (11 milioni di auto più 1,5 milioni di autocarri) portava a un costo totale di 137,5 milioni di dollari. Mentre risarcire la morte di 180 conducenti e altrettanti feriti – numeri tratti da un’analisi della Ford ottenuta da Mother Jones – sulla base di una stima di 200mila dollari a vita, avrebbe abbassato i costi a circa 50 milioni di dollari. Nel caso della Ford Pinto, dunque, era più conveniente risarcire un decesso che prevenirlo.

Altre volte, i decessi sono stati considerati addirittura convenienti.

In un rapporto del 2001 la Philip Morris ha rassicurato il governo della Repubblica Ceca sul fatto che il fumo avrebbe avuto “effetti positivi” sulle finanze nazionali, perché la mortalità precoce dei fumatori avrebbe fatto risparmiare al governo tra 23,8 milioni e 30,1 milioni di dollari di assistenza sanitaria, pensioni e alloggi per gli anziani. Insomma: il fumo fa male alla salute, ma le morti precoci dei fumatori fanno bene alle casse dello stato.

Calcoli statistici

Data l’etica discutibile di queste conclusioni, Kip Viscusi ha elaborato un approccio alternativo, chiamato “valore di una vita statistica” (Vsl). In questo caso, il valore della vita non dipende dalla quantificazione del reddito negli anni a venire, né prevede che alcune vite valgano più di altre all’interno dello stesso paese. Il valore di una vita statistica non rimanda a una persona fisica, ma calcola quanto le persone siano disposte a pagare per ridurre il rischio di morire. Negli Stati Uniti il valore di una vita statistica è di circa dieci milioni di dollari. In Italia è di circa cinque milioni di euro.

Secondo Viscusi, usando questa stima, l’analisi costi-benefici del lockdown diventa molto più semplice. Nel caso degli Stati Uniti, dove si stima che la pandemia metta a rischio un milione di persone, la perdita di circa dieci trilioni di dollari – un valore ottenuto moltiplicando i dieci milioni di dollari associati a ogni vita per il milione di morti previsti – eccede il costo di qualunque misura restrittiva. Lo stesso vale per l’Italia, dove il costo di mezzo milione di morti è calcolato tra 2,5mila miliardi di euro e 3mila miliardi di euro, a seconda delle stime, circa una volta e mezzo il pil italiano.

Il lavoro di Kip Viscusi trasforma l’intero dibattito sul valore della vita degli esseri umani in un affascinante paradosso.

Le parole dei politici

Sebbene il senso comune consideri immorale stimare il valore della vita, è vero altresì che le stime di economisti come Viscusi sono più morali di altre. Pensiamo alle parole del presidente della giunta regionale ligure Giovanni Toti, che ha definito i pazienti molto anziani “non indispensabili allo sforzo produttivo del paese”. Non è raro che nel dibattito pubblico emergano voci che considerano alcuni gruppi sociali privi di valore o troppo costosi per essere protetti.

Questo non vale solo per l’Italia. Il parlamentare conservatore inglese Charles Walker, per esempio, ha dichiarato che “non tutti i decessi sono una tragedia: non si può paragonare la morte di un bambino o di un adolescente con quella di un novantenne”. Sempre nel Regno Unito, Jeremy Warner ha scritto sul Telegraph che “da un punto di vista economico, il covid-19 potrebbe anche risultare leggermente vantaggioso a lungo termine, eliminando in modo sproporzionato le persone anziane non autosufficienti”.

Negli ultimi mesi sono state molte le dichiarazioni di esponenti del mondo politico e imprenditoriale in base alle quali eliminare le vite meno produttive sarebbe quasi vantaggioso perché consente di risparmiare sulla spesa pubblica e sulle pensioni. Negli Stati Uniti un funzionario comunale della California è stato costretto alle dimissioni per aver affermato che la pandemia non è altro che uno strumento usato dalla natura per “permettere ai malati, agli anziani, ai deboli di seguire il loro corso naturale”, e per “porre fine a quello che è un peso significativo per la società”, riferendosi ai senzatetto.

Negli ultimi mesi le associazioni di pensionati e delle persone con disabilità sono intervenute duramente per stigmatizzare la tendenza a definire alcune vite meno importanti di altre. Per certi versi, le parole di alcuni politici mostrano come le diseguaglianze sociali precedano la stima economica del valore della vita, rendendo manifesta l’esistenza di gerarchie che diventano esplicite ogni qual volta una comunità decide di cercare il capro espiatorio, la vittima da sacrificare per accelerare l’uscita dalla crisi e per ripristinare condizioni di normalità.

In questa pandemia l’untore è stato dapprima il migrante, nei mesi in cui ancora si parlava di “virus cinese”, e gradualmente si è incarnato nelle persone più vulnerabili, suggerendo che la “salute” delle finanze pubbliche dipendesse dalla capacità di ridurre l’oneroso bisogno di cura degli anziani, dei disabili e delle persone più fragili. È sorprendente, in questo contesto, che siano proprio alcuni economisti come Viscusi a spingere per attribuire alle vite più vulnerabili un valore economico elevato per poterle proteggere, mentre nel senso comune resta ancora tanta strada da fare.

·        Manovre di primo soccorso: Il vero; il Falso.

Cristina Marrone per corriere.it il 16 aprile 2022.  

Piegare la testa all’indietro se esce sangue dal naso

Questo è uno degli errori più tipici, probabilmente tramandato dalle nostre nonne: piegare la testa all’indietro quando esce sangue dal naso. Ma è una manovra inutile che espone al rischio di inalare sangue e ostruire la via aerea con conseguente soffocamento.

Cosa fare: piegatevi in avanti sopra un lavandino e stringete il ponte del naso: la maggior parte delle epistassi si risolverà nel giro di dieci minuti. Utile nei soggetti con pressione alta controllare la pressione arteriosa.

Mettere ghiaccio su un’ustione

In caso di ustione in molti pensano, sbagliando, di dover subito raffreddare la zona applicando ghiaccio. Ma questo, come l’uso dei rimedi casalinghi più svariati (olio, dentifricio, burro) è un errore. Gli indumenti vanno rimossi solo se il processo di combustione continua sugli stessi.

Che cosa fare: l’obiettivo è mantenere la temperatura corporea normale e il ghiaccio potrebbe rendere la pelle troppo fredda. E’ consigliato raffreddare la parte colpita con acqua corrente fresca per alcuni minuti o, se non si ha a disposizione acqua corrente, fare impacchi di acqua fresca. Questo aiuta a limitare i danni e, almeno parzialmente, il dolore. Vanno subito rimossi gioielli come bracciali o anelli prima che la zona ustionata si gonfi ostacolando la medicazione. La zona ustionata va coperta con una garza sterile, senza comprimere.

Spostare persone gravemente ferite

Quando ci si trova per primi sulla scena di un brutto incidente d’auto si può cadere nella tentazione di far muovere la persona ferita per assicurarsi che stia bene. Non bisogna farlo: potrebbe avere una grave lesione al midollo spinale e qualunque movimento può provocare danni neurologici permanenti o paralisi. Gli unici casi in cui è opportuno spostare un ferito è quando scoppia un incendio o se sussistono pericoli di crolli o scoppi

Che cosa fare: in questi casi, se si ha a che fare con potenziali lesioni al midollo spinale, è fondamentale chiamare il 118. Medici e paramedici sono addestrati per trasportare il ferito in sicurezza

Sputare su un taglio per ripulirlo

L’avrete sentito dire o visto in qualche film: sputare su una ferita pensando che la saliva lavi via i germi. Ma in verità è vero l’opposto perché la bocca è colonizzata da batteri potenzialmente dannosi che possono provocare un’infezione alla ferita. Altro errore è lavare la ferita in un fiume o torrente: anche in questo caso batteri e parassiti possono aumentare il rischio di infezione

Che cosa fare: pulire la ferita con acqua del rubinetto o acqua salina sterile. Quando si viaggia conviene portare sempre con sè il kit di pronto soccorso con la soluzione salina, in caso di lesioni improvvise. Infine è bene coprire la ferita possibilmente con garze sterili.

Dare antistaminico in caso di choc anafilattico

Un antistaminico impiega tra i 30 e i 60 minuti per fare effetto: troppo tempo in caso di grave reazione allergica. Un ritardo sulla terapia dopo uno choc anafilattico può avere conseguenze mortali. 

Che cosa fare: in caso di respiro sibilante, mancanza di respiro, gonfiore alle labbra o intorno agli occhi non bisogna perdere tempo e va utilizzato l’autoiniettore con adrenalina che può salvare la vita. Questo vale soprattutto per chi sa di essere un soggetto a rischio di gravi allergie che, su indicazione del proprio allergologo, dovrebbe avere con sé il kit contenente due autoiniettori di adreanalina, cortisone e antistaminici. In ogni caso è fondamentale chiamare i soccorsi (118).

Conservare la zecca da mostrare al medico

Contrariamente a quanto si possa credere, non è consigliato conservare la zecca che ha punto da mostrare al medico del pronto soccorso. Molte persone pensano che tutte le zecche portino la malattia di Lyme e che tutti i morsi di zecca richiedano antibiotici

Che cosa fare: nel caso che la zecca si sia attaccata al corpo va rimossa con una pinzetta, tirando verso l’alto. Consultare il medico per valutare se sia necessaria la profilassi antibiotica 

Fare impacchi caldi su una distorsione o frattura

Mettere qualcosa di caldo su una distorsione o una frattura è un errore perché il calore aumenta il flusso sanguigno, che può peggiorare il gonfiore

Che cosa fare: è sempre meglio, in questi casi, applicare il ghiaccio 

Cercare di rimuovere corpi estranei dall’occhio

Strofinare gli occhi irritati nel tentativo di far uscire corpuscoli che sono penetrati all’interno può peggiorare la situazione e creare danni permanenti. L’unica eccezione ammessa è quando negli occhi entra una sostanza chimica: in tal caso è bene sciacquare per 15 minuti

Che cosa fare: in caso di ferite l’occhio va protetto in modo che niente altro possa entrare. Va chiesta subito assistenza 

Rimuovere la garza da una ferita sanguinante

Se la garza posta su una ferita si impregna di sangue, può sembrare una buona idea rimuoverla e cambiarla con una nuova, ma in questo modo vengono eliminati anche i fattori di coagulazione che stanno aiutando a fermare il sanguinamento e così la ferita rischia di ricominciare a sanguinare

Che cosa fare: meglio aggiungere una nuova garza sulla parte superiore e se la l’emorragia non si arresta è bene fare pressione sulla ferita fino a quando si blocca la fuoriuscita di sangue

Non richiedere assistenza dopo un incidente

Dopo un incidente l’adrenalina che entra in circolo per lo spavento e la tensione può mascherare il dolore. Possono passare anche ore prima di sentirsi a pezzi: il classico colpo di frusta ma anche qualcosa di più grave

Che cosa fare: se la macchina ha subito danni abbastanza seri è meglio andare al pronto soccorso anche se ci si sente bene. Il consiglio vale ancora di più per gli incidenti in moto

Non chiedere aiuto e isolarsi

Se sei punto da un insetto e ti rendi conto che stai subendo una reazione allergica non sederti in un luogo isolato in attesa di aiuto. Se al ristorante ti va di traverso un boccone non correre in bagno: purtroppo succede che alcune persone muoiano soffocate in bagno perché non vogliono disturbare gli altri commensali: collassano a terra e nessuno capisce perché

Che cosa fare: in caso di emergenza bisogna rimanere dove ci sono altre persone che possono soccorrerci o chiamare un’ambulanza

Usare il laccio emostatico

Quando una ferita sanguina copiosamente un errore comune è utilizzare il laccio emostatico per rallentare il dissanguamento in caso di ferite molto profonde o che coinvolgano le arterie. Non è un errore per la verità utilizzare il laccio emostatico, ma è necessario sapere quanto stringerlo e ogni quanto tempo slacciarlo, o si rischia di mandare l’arto in ischemia con conseguenti danni permanenti

Che cosa fare: premere forte sulla ferita con un pezzo di stoffa, una maglietta o qualunque cosa si abbia a disposizione.

·        L'attività fisica allunga la vita.

Danzaterapia, cos'è e quali sono i benefici. Questa forma di arteterapia consente a chi la pratica di appropriarsi di una vera conoscenza del proprio essere. Maria Girardi il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Danzaterapia, un po' di storia

 La danzaterapia e la coscienza di sé

 Danzaterapia, a chi è consigliata

«Chi danza acquista un potere magico che elargisce vittoria, salute, vita; nella danza un legame mistico unisce la tribù tutta al libero manifestarsi della propria individualità in una completa aderenza al proprio io. Nessuna arte ha confini così ampi». Le parole dell'etnomusicologo e organolo tedesco Curt Sachs descrivono con precisione la danzaterapia, ovvero una forma di arteterapia che utilizza il connubio tra il movimento e la musica con finalità curative. Perno essenziale della stessa è il singolo individuo considerato, secondo la teoria olistica, come unione inscindibile di corpo e mente. In quest'ottica, dunque, il benessere non è altro che uno stato di equilibrio fra il soma e la psiche.

Sin dall'antichità la danza ha avuto una forte valenza simbolica. Le movenze non erano semplici coreografie da intrattenimento, bensì espressione di un linguaggio emotivo vicino all'inconscio. Si ballava per dar voce a qualcosa o per sciogliere qualche nodo interiore. La danzaterapia (oggi adottata in contesti privati e pubblici ospedalieri ed educativi) reinterpreta proprio questa concezione e lo fa attraverso la figura del danzaterapeuta (nel 1997 è stata istituita l'Associazione Professionale Italiana Danzamovimentoterapia) che guida i suoi allievi verso una più profonda consapevolezza del proprio essere e del proprio sentire.

Danzaterapia, un po' di storia

Come già accennato, la danzaterapia ha origini antiche. Si pensi, infatti, ai balli tribali degli Indiani d'America e delle tribù indigene dell'Africa pre-colonizzazione che, oltre a definire l'identità di un gruppo, avevano fini catartici. Queste usanze si diffusero nelle zone europee grazie alla colonizzazione. Le prime forme dell'arteterapia le ritroviamo nel Regno Unito agli inizi del XX secolo. In America, tra i fondatori della stessa, figura la ballerina Marian Chace che negli anni Trenta fondò a Washington una scuola dove veniva data una grande importanza all'interiorità dei danzatori e alla comunicazione non verbale attraverso cui essi esprimevano il proprio vissuto.

Musicoterapia, il potere curativo contro la depressione

La danza con finalità terapeutiche è una specie di appendice della danza moderna che si contrappone alla danza espressiva sin dai primi anni del Novecento. Nomi importanti sono quelli di Isadora Duncan, Ted Shawn, Jaques-Dalcroze, Mary Wigman, Doris Humphrey. In Italia, a differenza degli altri contesti europei, la danzaterapia stenta a decollare. La situazione cambia con la dottoressa Renata Righetti, specializzata in terapie psicologiche con ampiezza spirituale, in riabilitazione psichiatrica e in logoterapia. Secondo Righetti la musica e il movimento attivano e riequilibrano i sette chakra.

La danzaterapia e la coscienza di sé

La psiche e il soma sono strettamente collegati. Le sofferenze o il benessere dell'uno si riflettono sull'altro e viceversa. La danzaterapia è espressione tangibile di questa concezione. Attraverso le movenze il paziente, non solo prende coscienza con il proprio corpo e con le sensazioni di piacere e di leggerezza che questo è in grado di donare, ma riesce altresì a dare voce o a liberarsi di qualcosa che attanaglia la sua interiorità. La danzaterapia assomiglia ad una seduta di meditazione in movimento che consente a chi la pratica di approdare ad una nuova e più profonda conoscenza di sé.

Con la meditazione si tiene a bada lo stress

Le tensioni si sciolgono e affiorano in superficie sentimenti repressi. In questo percorso comunicativo si apprendono vitù quali la calma e la pazienza fondamentali per raggiungere uno stato di sublimazione spirituale che è il fine ultimo del ballo. Al pari del concetto di gioco descritto dal pediatra e psicoanalista Winnicott, la danzaterapia crea uno spazio transizionale, ossia un momento simbolico con cui esprimere le istanze più profonde ed affermare la propria vera identità.

Danzaterapia, a chi è consigliata

Le aree terapeutiche della danzaterapia sono quattro:

Area cognitiva: migliora determinate competenze fra cui lo schema corporeo e l'apprendimento dei concetti;

Area razionale: migliora le relazioni interpersonali;

Area psicomotoria: migliora la propriocezione e la coordinazione motoria;

Area emotiva: migliora la capacità di manifestare le emozioni.

La danzaterapia, praticabile da tutti e a qualsiasi età, è tuttavia consigliata a chi soffre di particolari disturbi psichiatrici e psicologici: attacchi di panico, depressione, fobia sociale, disturbi psicosomatici e del linguaggio, psicosi. Ancora disturbi ossessivi compulsivi, dipendenze, difficoltà relazionali, anoressia e bulimia.

Il movimento fa bene anche al microbiota. Anna Fregonara su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2022.

Uno sport moderato di 30-60 minuti al giorno sembra essere quello che giova di più ai batteri nostri «amici», aiutandoli a difenderci, fra l’altro, da obesità, malattie metaboliche e autoimmuni

Si è sempre saputo che il movimento fosse salutare per il benessere fisico e mentale. Più sorprendente invece è scoprire, dopo anni di ricerche condotte su animali e sull’uomo, che l’attività fisica può influenzare il nostro microbiota, come si legge in un articolo pubblicato su Exercise and Sport Sciences Reviews. «Non è ancora chiaro come questo accada, ma sono state formulate diverse teorie che saranno da approfondire con altre ricerche» spiega Vincenzo Monda, specialista in Scienza dell’alimentazione e dottore di ricerca in Biochimica e biotecnologie all’Università degli Studi di Napoli Parthenope e coautore di uno studio, apparso su Oxidative Medicine and Cellular Longevity, dedicato a questo aspetto. «Una delle teorie è che l’esercizio fisico modifichi la produzione di acido lattico nel lume intestinale che potrebbe servire come carburante per alcune specie batteriche nostre “alleate”. Si pensa anche che il movimento cambi i livelli di alcuni ormoni e la vascolarizzazione gastrointestinale. Un più efficiente flusso sanguigno verso l’intestino porta a un maggior nutrimento dell’intestino stesso che favorisce, a sua volta, un miglioramento del tono dell’umore, della qualità del sistema nervoso, della gestione dello stress, dell’ansia e del sonno, tutti possibili nemici del microbiota».

Contrastare l’infiammazione

Un altro potenziale meccanismo riguarda le modifiche indotte dall’attività fisica nel sistema immunitario grazie all’aumentare di comunità batteriche che, attraverso la fermentazione, producono acidi grassi a catena corta come il butirrato. «Diversamente dagli altri grassi, il butirrato viene assorbito senza necessità di legarsi ad alcuna molecola» chiarisce l’esperto. «Passa subito la barriera intestinale e diventa il carburante principale delle cellule “locali” il cui ruolo è fondamentale: fungere da barriera, così da contrastare l’infiammazione che è alla base di molte patologie cronico-degenerative come obesità e diabete, e rafforzare le nostre difese immunitarie. Insomma, i benefici del movimento sembrano dipendere dalla crescita delle modifiche dell’ambiente in cui il microbiota vive. Queste modificazioni migliorano il microbiota e agevolano la variabilità del suo microbioma, l’insieme dell’intero corredo genetico dei microbi». Il prossimo passo sarà capire, per esempio, come i diversi tipi di esercizi e la loro durata possano alterare la comunità microbica o come i cambiamenti possano essere differenti a seconda dell’indice di massa corporea di ogni soggetto. «Per ora è stato dimostrato con più certezza che lo sport moderato di 30-60 minuti favorisce la qualità del microbioma. Quindi è consigliabile muoversi un’ora tutti i giorni: lo stress ossidativo è inferiore rispetto a quando ci si allena quattro ore in una volta sola a settimana o tre ogni giorno», conclude l’esperto.

Cosa mettere in tavola

Il microbiota, considerato un vero e proprio organo, è costituito da centomila miliardi di batteri, virus, funghi che nel nostro intestino si contendono spazio e cibo. «Tanto più è ampio e differenziato, tanto più sarà performante. Oggi siamo arrivati a contare nell’intestino oltre mille specie diverse di batteri», dice Vincenzo Monda. «La maggior parte è utile nel nutrire le cellule, producendo nutrienti e vitamine da sostanze altrimenti non digeribili, prevenire la colonizzazione di virus e batteri nocivi, rafforzare le difese del sistema immunitario influenzando l’entità dell’infiammazione, regolare il metabolismo dei grassi. Un microbiota alterato si associa a una maggiore presenza di obesità, malattie cardiometaboliche e autoimmuni. Per aiutare a farlo prosperare in modo sano è d’aiuto un’alimentazione varia con più di 30 alimenti vegetali diversi a settimana. Oltre a verdura e frutta, a tavola non devono mancare cereali integrali, grani antichi come miglio e grano saraceno, legumi non decorticati, frutta secca e molta acqua. Le fibre di questi alimenti sono il cibo preferito dei nostri batteri “amici”, salvo diverse indicazioni di uno specialista. L’alimentazione da sola non basta. Si è visto, infatti, che chi cambia la dieta migliora più lentamente rispetto a chi, a parità di dieta, aggiunge una sessione di sport giornaliero. Anche evitare gli abusi di farmaci con le cure fai da te e il fumo sono fattori che possono avere un effetto positivo sul microbiota. In quanto tempo si percepiscono i cambiamenti? Se si parte da una situazione microbica non ottimale, bastano 7-10 giorni».

Ecco perchè allenarsi riduce il rischio di morte. Allenarsi regolarmente con i pesi, abbinando gli esercizi a un'attività aerobica costante, riduce il rischio di morte per tutte le malattie, tranne il cancro. Gioia Locati Piccole Note il 25 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Fare regolarmente esercizio con i pesi è legato a un minor rischio di morte per qualsiasi causa, con la sola eccezione del cancro, secondo uno studio pubblicato sul British Journal of Sports Medicine.

Le attuali linee guida sull'attività fisica per tutti gli adulti raccomandano almeno 150 minuti settimanali di attività aerobica di intensità moderata, o un minimo di 75 minuti di attività aerobica di intensità vigorosa, o una combinazione uguale delle due.

“È suggerito a tutti gli adulti un lavoro sui principali gruppi muscolari. Tuttavia, mentre l'esercizio aerobico è ormai associato a un minor rischio di morte, non era chiaro se allenarsi con i pesi potesse avere effetti simili” ha spiegato Jessica Gorzelitz, del National Cancer Institute, Rockville, Stati Uniti, prima autrice del lavoro.

Lo studio

Per meglio chiarire, i ricercatori hanno valutato separatamente e congiuntamente il potenziale impatto dell'esercizio con i pesi e delle attività aerobiche sul rischio di morte tra gli anziani. I ricercatori hanno chiesto a 104.002 individui se si fossero allenati con i pesi nell'ultimo anno e, in caso affermativo, con quale frequenza lo avessero fatto. Sono stati inoltre generati quattro gruppi di attività in base ai minuti settimanali totali di attività aerobica, fra intensa e moderata.

Complessivamente, sono state incluse nell'analisi finale le risposte di 99.713 persone, di cui 28.477 sono morte in una media di nove anni e mezzo di monitoraggio. Quasi un intervistato su quattro (23%) ha riferito di fare qualche attività di sollevamento pesi, e il 16% ha affermato di essersi allenato regolarmente con i pesi da una a sei volte a settimana. Quasi un terzo (32%) era sufficientemente attivo dal punto di vista aerobico, soddisfacendo (24%) o superando (8%) le linee guida.

Ebbene, l'analisi dei dati ha mostrato che l'esercizio fisico con i pesi e l’attività aerobica da moderata a intensa erano entrambi associati indipendentemente a un minor rischio di morte per qualsiasi causa, così come per malattie cardiovascolari, ma non per cancro. Complessivamente, allenarsi con i pesi in assenza di attività aerobica era associato a un rischio di morte inferiore del 9-22%. Inoltre, tra coloro che non si esercitavano con i pesi, l’esercizio aerobico era associato a un rischio di morte inferiore del 24-34% per qualsiasi causa, rispetto a coloro che non riferivano di fare alcun tipo di esercizio. Ma il rischio più basso di morte è stato riscontrato tra coloro che hanno affermato di aver svolto entrambi i tipi di attività fisica, arrivando a una riduzione del rischio del 41-47%.

L’invito dell’Oms a muoversi

Tuttavia, e non solo a causa della pandemia, nei Paesi occidentali sono più numerosi i sedentari. L’Oms prevede che entro il 2023 quasi 500 milioni di persone si ammaleranno, con costi che sfioreranno i 300 miliardi di dollari, pari a 27 miliardi all'anno, se i governi non metteranno in campo misure urgenti per incoraggiare i cittadini a cambiare vita. L’Organizzazione mondiale della sanità ha stilato un rapporto sull'impatto dell'inattività fisica in termini di salute globale.

In base ai dati raccolti in 194 Paesi l'Oms rileva progressi lenti e politiche insufficienti a prevenire le conseguenze mediche della 'pigrizia cronica' e il loro carico su "sistemi sanitari già sopraffatti". Ecco perché mezzo miliardo di cittadini del pianeta sarà a rischio di contrarre patologie cardiache, obesità, diabete e altre malattie non trasmissibili.

Meno della metà delle nazioni analizzate - emerge dal report - si è dotata di un piano nazionale sull'attività fisica, che dove esiste è operativo in meno del 40% dei casi e nel 28% risulta non finanziato o non attuato. Solo il 30% dei Paesi ha definito linee guida nazionali sull'esercizio fisico per tutte le fasce d'età. Mentre quasi tutti riferiscono di avere attivato un sistema per il monitoraggio dell'attività fisica negli adulti, il 75% degli Stati monitora l'attività fisica tra gli adolescenti e meno del 30% quella nei bimbi minori di 5 anni. Ancora, poco più del 40% delle nazioni dispone di standard di progettazione stradale pensati per rendere più sicuri gli spostamenti a piedi e in bicicletta. Un quadro peggiorato dalla pandemia di Covid-19, che non solo ha bloccato le iniziative di promozione dello sport - spiega l'Oms - ma ne ha anche influenzato l'attuazione, amplificando le disuguaglianze nell'accesso all'esercizio fisico.

Con l'obiettivo di aiutare le nazioni in questo compito, il Piano d'azione globale Oms sull'attività fisica 2018-2030 (Gappa) definisce 20 raccomandazioni comprese politiche per strade più sicure, per incoraggiare gli spostamenti a piedi o in bicicletta, per fornire più programmi e opportunità di sport in contesti chiave come i servizi per l'infanzia, le scuole, l'assistenza sanitaria di base e il lavoro.

Ecco come l'attività fisica allunga la vita. Un allenamento costante, più o meno intenso, allontana patologie che possono portare alla morte. Ecco tutti i benefici legati all'attività fisica di uno studio americano durato 30 anni. Alessandro Ferro il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Che fare sport facesse bene lo sapevano tutti ma le conseguenze positive non soltanto a breve termine (dimagrimento e stato di forma) ma di vita: infatti, un'attività fisica costante allontana la morte e patologie anche importanti dovute alla sedentearità o semplicemente alla mancanza di esercizi per il nostro corpo.

I benefici dell'attività fisica

A entrare nello specifico è uno studio molto importante condotto negli Stati Uniti e pubblicato sulla rivista scientifica Circulation dal titolo "Intensità dell'attività fisica nel tempo libero a lungo termine e mortalità per tutte le cause e cause specifiche". Hanno fatto parte della ricerca più di 116mila partecipanti in un arco di tempo di 30 anni, dal 1988 al 2018. Secondo le linee guida che ha tracciato il Dipartimento della Salute degli Usa, fare sport in un arco di tempo tra 150 e 300 minuti settimanali allontanerebbe lo spettro di patologie tenendo il soggetto in perfetta forma. Lo stesso vale anche per i più sportivi ai quali basterebbero anche 75-150 minuti di attività purché sia intensa.

I risultati

Chi ha seguito i consigli delle linee guida con l'attività intensa ha visto ridurre il rischio di morte legato alle malattie cardiovascolari fino al 31%, e un 19% per tutte le altre cause generiche rispetto a quelli che sono sportivi. Invece, le persone che hanno seguito la linea moderata con un allenamento meno intenso ma più lungo hanno visto un calo della mortalità per malattie cardio compreso tra il 27% e il 33%, tra il 21% e il 23% mortalità si è ridotta, generalmente, anche per tutte le altre motivazioni. È importante anche un'altra scoperta: per i più fanatici che si allenavano quasi senza sosta fino a quattro volte le "dosi" consigliate, non sono stati riscontrati cambiamenti significativi ma le percentuali sono rimaste le stesse. Come dire: allenarsi si ma senza che ne diventi una fissazione, il corpo ha anche bisogno di recuperare dagli sforzi.

"Lo sport è come i farmaci"

Le indicazioni per allenarsi e mantenere un fisico una forma è paragonabile ai farmaci: se c'è un dosaggio inferiore rispetto a quello che prescrive il medico il beneficio non ci sarà, al contrario "potrebbero esserci dei danni": è quanto ha affermato a Repubblica il prof. Gianfranco Beltrami, vice presidente vicario Federazione medico sportiva italiana. "L'esercizio, il movimento, va personalizzato. È il medico dello sport che deve prescrivere il corretto livello di attività, in base alla storia clinica del soggetto, all'età, al sesso. Poi, può essere incrementato", ha aggiunto. In ogni caso, 30 anni di ricerca hanno dimostrato un calo importante del rischio di morte per le malattie cardiovascolari e per altre patologie: ecco perché fare sport "lo consiglierei a tutti perché l'attività fisica va fatta correttamente per non andare incontro a problemi".

Qui si apre un altro capitolo: allenarsi male può provocare "mal di schiena, contusioni, anche logorio di muscoli e tessuti. Per non parlare del cosiddetto mancato recupero dopo un allenamento, che può essere anche un lungo giro in bicicletta", spiega l'esperto. È dannoso portare il proprio fisico allo stremo, la stanchezza va rispettata e serve il tempo necessario per recuperare. L'Oms ha spiegato che ogni anno muoiono circa 3,2 milioni di persone per problemi legati alla vita sedentaria: l'esercizio fisico riduce anche la possibilità di contrarre il diabete 2 e influisce positivamente anche sul benessere mentale di ognuno di noi.

Tai Chi, caratteristiche e benefici per gli over 60. Il Tai Chi è un'arte marziale conosciuta da diversi secoli, che può rivelarsi molto utile anche per mantenersi in forma: i benefici per gli over 60. Claudio Schirru il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Quando si parla di Tai Chi, non tutti in Italia sono pienamente a conoscenza dei suoi vantaggi. Questo perché, malgrado si tratti di un'arte marziale cinese risalente a diversi secoli fa, nel Bel Paese questa pratica è arrivata in tempi relativamente recenti. Diversi sono però i benefici a tutte le età, anche tra gli over 60.

Anche nota come Tai Chi Chuan, questa pratica è un'arte marziale interna. Ciò vuol dire che non è strutturata per consentire all'allievo di apprendere una serie di tecniche mirate esclusivamente al combattimento, ma permette di modellare il corpo allineandolo allo spirito. Con il tempo ha acquisito una sempre maggiore propensione alla cura e al mantenimento del benessere.

Come si pratica il Tai Chi 

La pratica del Tai Chi Chuan o Taijiquan prevede l'esecuzione di movimenti lenti e consapevoli, raccolti all'interno di sequenze ben definite dette "forme". Questa successione di tecniche mima il combattimento con un avversario ma lo fa senza mai porre realmente l'allievo a contatto con qualcun'altro.

L'obiettivo principale è quello di ottenere un equilibrio interiore equilibrando gli opposti, lo Ying e lo Yang. Malgrado questo è opportuno ricordare che questa resta pur sempre un'arte marziale e come tale può essere intesa. Da questo punto di vista ha come caratteristica quella di sfruttare la forza dell'avversario, consentendo di difendersi anche da avversari potenzialmente più forti fisicamente.

Benefici per gli over 60 

Il Tai Chi è considerato un'attività fisica moderata, quindi adatta al mantenimento di un buono stato di forma generale. Gli over 60, ma anche adulti e bambini, che dovessero avvicinarsi a quest'arte marziale potranno godere di benefici sia dal punto di vista mentale che fisico.

Dal punto di vista fisico sono da sottolineare soprattutto alcuni aspetti molto interessanti legati alla mobilità e alla stabilità. Praticare il Tai Chi Chuan permette di migliorare la risposta del corpo sia in termini di agilità, che per quanto riguarda l'equilibrio o persino la prontezza di riflessi. In più risulta benefica anche per attenuare gli effetti di una vita troppo sedentaria, che tuttavia sarebbe opportuno rendere più attiva anche al di là di questa pratica.

Esistono poi diversi studi che hanno posto l'accento su alcuni benefici specifici, a tutto vantaggio anche degli over 60. Come sostengono i ricercatori del National Centre for Complementary and Integrative Health, tramite una pratica regolare del Tai Chi è possibile ridurre i fastidi legati all'osteoartrite: ad esempio tenendo sotto controllo il dolore alle ginocchia; a beneficiarne sarebbero inoltre i pazienti affetti da fibromialgia.

Secondo alcune linee guida dell'American College of Physicians il Tai Chi è risultato persino più efficace, al pari dello Yoga, dell'ibuprofene o del paracetamolo nel contrastar il mal di schiena. Esistono infine anche diversi benefici per quanto riguarda l'aspetto più strettamente mentale.

I vantaggi per la mente riguardano ad esempio la capacità di gestire lo stress e il nervosismo. Chi pratica Tai Chi con regolarità tende ad acquisire una maggiore reattività e un più evidente autocontrollo nelle situazioni che altrimenti porterebbero ad alti livelli di ansia. A beneficiare di questa pratica saranno anche le relazioni personali.

Over e ansia, 4 tecniche di respirazione consapevole. Ansia e stress, ecco perché la respirazione è importante e quali sono le tecniche migliori da utilizzare per arginare questa situazione disagevole. Monica Cresci il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.  

I disturbi d'ansia anche dopo i 60 anni possono incidere sulla qualità della vita, si manifestano come stato psichico ed emotivo con sintomi anche fisici, ad esempio la tensione e la respirazione affannosa. È una condizione di disagio che può rivelarsi con intensità differente, non a caso la parola ansia deriva da angĕre, che significa stringere. Le emozioni spesso risultano in crescendo e si presentano attraverso stati di inquietudine, preoccupazione, angoscia e anche paura.

Questa particolare tensione psicofisica colpisce anche i senior, può essere sia fisiologica o anche patologica e subentrare come conseguenza di una serie di preoccupazioni legate alla salute, al quotidiano, alla condizione finanziaria e molto altro. Alcune tecniche di respirazione possono risultare di grande supporto, così da arginare l'ansia fino a gestirla nel modo giusto.

Il legame tra massa muscolare e buona respirazione

Ansia, tutte le cause e i sintomi 

Le cause che possono agevolare l'ansia possono essere molteplici e, ancora oggi, non del tutto chiarite ma esistono una serie di fattori ricorrenti. Ad esempio di tipo ereditario, di tipo biologico legate a una produzione inferiore di serotonina, ma anche inconsce come conseguenza di conflitti interiori inconsapevoli e magari legati all'infanzia. Spesso condizioni non risolte e non affrontate, conflitti psicologici derivati da situazioni disagevoli e del quotidiano. A questi si possono aggiungere problemi di natura fisica, personale o economica, oltre allo stress ambientale. Corpo e mente cercano di allontanare questi conflitti relegandoli nell'inconscio, come meccanismo di difesa. L'ansia si manifesta attraverso una sintomatologia precisa, molto riconoscibile come:

tensione muscolare e tremori

senso di irrequietezza

senso di paura e di pericolo

paura di morire

paura di perdere il controllo

apprensione e tensione emotiva interiore

vertigini, nausea, diarrea, minzione frequente

stanchezza, testa pesante

respiro affannoso, bocca secca

vampate di calore, sudorazione eccessiva

difficoltà a deglutire, formicolii

difficoltà di concentrazione, difficoltà a riposare serenamente

irritabilità, fobie e paure incontrollate

Ansia da trasloco, come gestirla

Ansia, tecniche di respirazione più utili 

Imparare a gestire l'ansia è fondamentale, a partire dal controllo del respiro e dell'iperventilazione che agevola un'immissione eccessiva di ossigeno e una relativa diminuzione di anidride carbonica nel sangue. Questo favorisce una vasocostrizione sanguigna e una minore irrorazione dello stesso cervello. Respirare in modo controllato aiuta a domare l'ansia, ecco come.

A narici alternate

Tipica dello yoga o della meditazione aiuta a placare l'ansia, è importante sedersi comodamente per terra a gambe incrociate oppure sui talloni con schiena dritta. Si espira profondamene, si appoggiano indice e medio della mano destra sulla fronte e pollice sulla narice destra. La mano sinistra è appoggiata sul ventre e gli occhi sono chiusi. Si inspira con la narice sinistra, poi la si chiude con il mignolo e si espira a lungo con la narice destra. A questo punto si ripete alternando sempre le narici e le varie chiusure e aperture.

Diafframmatica o addominale

È considerata una respirazione consapevole e utile a ridurre lo sforzo effettuato dai polmoni per respirare. Tutto merito del diaframma, il muscolo collocato proprio sotto i polmoni, una respirazione che migliora la velocità del battito cardiaco in favore di una maggiore calma. L'ossigenazione è più equilibrata, in tandem a una sensazione di calma in grado di rilassare corpo e mente. Basta sdraiarsi per terra, meglio sopra un tappetino con le gambe piegate e i piedi appoggiati a terra, oppure anche sul letto con i cuscini sotto alla testa e alle ginocchia. Una mano andrà appoggiata sul petto e l'altra sullo stomaco, in corrispondenza del diaframma. Si ispira dal naso coinvolgendo i muscoli dello stomaco, per poi espirare dalla bocca lasciando le labbra leggermente socchiuse. Sempre con il supporto dei muscoli addominali così da attivare lo stesso diaframma.

Espirazione profonda

Serve a liberare correttamente i polmoni per regolare i tempi di una nuova respirazione, una nuova ossigenazione in grado di attivare anche il sistema parasimpatico legato alla calma e al rilassamento. Si parte espirando completamente tutta l'aria presente nei polmoni fino a svuotarli, per poi procedere con una nuova inspirazione. Si ripete l'operazione allungando di qualche secondo la tempistica legata all'espirazione, continuando in questo modo anche per cinque minuti. La tecnica è di facile esecuzione, si può praticare sia in piedi che seduti.

Respirazione consapevole

Una soluzione utile a rallentare l'ansia approfondendo la conoscenza di se stessi, di ciò che accade nel momento della pratica e della respirazione. È detta consapevole, si può effettuare sia seduti che in piedi, e consiste nell'inspirare ed espirare come di consueto ma restando in ascolto dei segnali lanciati dal corpo. Partendo con un respiro lento nasale, profondo e continuo osservando la pancia e la presenza di eventuali tensioni o dolori. Per poi espirare come di consueto. Ciò che serve è focalizzare l'attenzione su immagini calme, come le onde del mare, il rumore del vento estivo, il suono delle foglie in movimento. Una piccola meditazione legata alla respirazione ma utile per calmarsi, così da riprendere le energie perse attraverso l'ansia.

·        La Sindrome di Turner.

Sindrome di Turner: cause, sintomi e trattamento. Oggi la qualità della vita delle pazienti è nettamente migliorata grazie alle nuove terapie ormonali e alla possibilità di eseguire i test diagnostici con maggiore facilità. Maria Girardi il 3 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Secondo le statistiche colpisce una donna ogni 2-2.500 nate ed è quindi un disturbo raro. Stiamo parlando della sindrome di Turner, nota anche con il nome di monosomia X, ovvero una malattia genetica che interessa esclusivamente il sesso femminile. Le malattie genetiche non comuni (attualmente quelle conosciute sono circa quattromila), sono l'esito di una o più alterazioni dei cromosomi, ossia strutture che si trovano nel nucleo delle cellule e che presentano tutte le caratteristiche genetiche di un individuo, il cosiddetto genoma. In ogni cromosoma ci sono aree in cui sono presenti molti geni. Si tratta di sequenze di DNA contenenti le "istruzioni" per produrre determinate proteine. Queste ultime creano, ad esempio, i tessuti dell'organismo e determinano le caratteristiche di ciascun soggetto, come il colore degli occhi o dei capelli.

Il patrimonio genetico è composto da 22 autosomi o cromosomi non sessuali e da 2 cromosomi sessuali (X e Y). Ogni cellula contiene due copie di autosomi. Per i cromosomi sessuali, invece, esiste una sola copia. Dalla madre si eredita sempre il cromosoma X. Dal padre è possibile ereditare il cromosoma X (il nascituro sarà femmina) oppure il cromosoma Y (il nascituro sarà maschio). Nella sindrome di Turner, per la precisione, si evidenzia l'assenza o la presenza parziale di uno dei due cromosomi sessuali X pertanto chi ne soffre, come vedremo, ha dei caratteri somatici particolari. Le malattie genetiche, alle quali la ricerca dedica attenzioni specifiche, sono classificate in quattro gruppi: cromosomiche, monogeniche, mitocondriali e multifattoriali. La sindrome di Turner è una patologia molto complessa. Scopriamo insieme quali sono le cause e in che modo si manifesta.

Le cause della sindrome di Turner

La sindrome di Turner, dunque, è caratterizzata dall'assenza o dalla presenza parziale di uno dei due cromosomi sessuali X. In una donna sana il patrimonio cromosomico, chiamato anche cariotipo, è 46XX. La malattia, al contrario, presenta due cariotipi differenti. In circa il 50% dei pazienti si riscontra il cariotipo 45X0. La totale scomparsa del cromosoma X è definita monosomia completa. Il secondo cariotipo, quello a mosaico, è diagnosticato nel 25% dei casi. Chi ne è portatore può avere cellule con cariotipo normale e cellule con cariotipo 45X0.

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Ma per quale motivo si verificano queste alterazioni cromosomiche? Dopo anni di studi genetici si è giunti alla conclusione che esse possono essere la conseguenza di un errore durante il processo di formazione dei gameti (le cellule sessuali) o di un errore durante il processo di divisione cellulare dell'uovo fecondato. Nel primo caso l'anomalia, chiamata "fenomeno di non disgiunzione", genera una cellula sessuale con un patrimonio di cromosomi sessuali alterato. Nel secondo caso, invece, l'aberrazione è limitata alla linea cellulare discendente dalla cellula protagonista dello stesso errore. Le alterazioni descritte sono imprevedibili, non si conoscono infatti le cause della loro insorgenza.

I sintomi della sindrome di Turner

La sintomatologia della sindrome di Turner varia a seconda dell'età della paziente. Nella fase prenatale e durante l'infanzia la manifestazione tipica è il linfedema, ossia un ristagno di linfa in alcune parti del corpo (specialmente a livello di collo, mani e caviglie) che provoca gonfiori localizzati. Le anomalie renali, come la mancanza di un rene o la presenza di un rene a ferro di cavallo) sono diagnosticate in circa un terzo dei soggetti così come le malformazioni cardiovascolari congenite (stenosi della valvola aortica, valvola aortica bicuspide, rigurgito aortico).

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Durante i primi anni di vita, caratterizzati da un ritmo lento di crescita, sono inoltre peculiari alcune anomalie fisiche: petto ampio, ptosi, orecchie basse, mandibola piccola, piede piatto, statura bassa, bocca a pesce, presenza di numerosi nei e dita sia di mani che di piedi più corte del normale. Nel corso dell'adolescenza e dell'età adulta permane la bassa statura. L'altezza media, infatti, si aggira attorno ai 140 centimetri. Ad essa si aggiunge lo sviluppo sessuale incompleto. L'insufficiente produzione di estrogeno e progesterone, infatti, porta all'assenza di mestruazioni e quindi alla sterilità.

Pur non essendoci un ritardo mentale, le donne con sindrome di Turner possono sperimentare alcune difficoltà nell'apprendimento delle abilità non verbali. Sono invece purtroppo frequenti diverse complicanze: tiroidite di Hashimoto e conseguente ipotiroidismo, diabete, obesità, problemi di vista, perdita dell'udito, disturbi scheletrici, ipertensione, celiachia, reflusso gastroesofageo, infezioni renali ricorrenti.

La diagnosi della sindrome di Turner

L'anamnesi e l'esame obiettivo sono utili ma non sufficienti per diagnosticare la sindrome di Turner dopo la nascita. A tal proposito è necessario effettuare un test genetico il cui scopo è quello di analizzare il profilo cromosomico della paziente. Esso si esegue con un prelievo di linfociti dal sangue periferico dal quale è poi possibile ricavare la mappa dei cromosomi e le loro eventuali anomalie. I tempi di attesa sono piuttosto brevi e si aggirano attorno a 15-20 giorni.

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La diagnosi prenatale, invece, è possibile mediante l'amniocentesi, la villocentesi o il test del DNA fetale. L'amniocentesi, praticata al quarto mese di gravidanza, consiste nel prelievo di una piccola quantità di liquido amniotico mediante l'introduzione di un ago attraverso l'addome. La villocentesi è un esame invasivo durante il quale viene prelevata una piccola porzione di villi coriali, ossia piccole propaggini della placenta in formazione. Si esegue tra la decima e la tredicesima settimana di gestazione. Il test del DNA fetale, infine, è un semplice prelievo di sangue grazie al quale è possibile misurare quantità di specifiche sequenze di DNA per ogni cromosoma. Il DNA fetale si rileva a partire da 4-5 settimane di gestazione.

Il trattamento della sindrome di Turner

Non esiste un trattamento specifico per la sindrome di Turner, le cure (variabili da paziente a paziente) servono a tenere sotto controllo la sintomatologia. Essendo questa una patologia molto complessa, il suo monitoraggio richiede la collaborazione di più figure professionali: medico genetista, endocrinologo, urologo, cardiologo, oftamologo, otorinolaringoiatra. Fondamentale nella gestione della malattia è la terapia ormonale basata sulla somministrazione dell'ormone della crescita e degli ormoni sessuali femminili.

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L'ormone della crescita viene iniettato una volta al giorno a partire dall'infanzia fino all'età di 15-16 anni. L'unica complicazione è rappresentata dal possibile instaurarsi di uno stato di iperglicemia, pertanto è fondamentale controllare con costanza i valori glicemici. La somministrazione degli ormoni sessuali femminili (estrogeno e progesterone) orale o transcutanea inizia verso gli 11 anni e termina con l'avvento della menopausa (intorno ai 50 anni). Essa è indispensabile per indurre e regolarizzare il ciclo mestruale.

·        Il Sonno.

D. d. D. per il “Corriere – Salute” il 17 dicembre 2022. 

Al momento di dormire, se la mente si mette a vagare evocando pensieri negativi è facile che il sonno faccia fatica ad arrivare e quando finalmente arriva sia di qualità meno riposante. 

Così il giorno dopo può accadere che la mente non abbia recuperato, le funzioni psichiche superiori funzionino meno bene e di conseguenza diventi difficile concentrarsi su compiti specifici, creando spazio per ulteriori attività di pensiero spontaneo vagante. È un circolo vizioso messo in evidenza da Ana Lucía Càrdenas-Egúsquiza e Dorthe Berntsen del Department of Psychology and Behavioral Sciences della Aarhus University danese in un articolo di revisione su sonno e day-dreaming pubblicato sulla rivista Consciousness and Cognition .

Il day-dreaming, il sognare a occhi aperti, è un'attività che può essere abbastanza facilmente studiata in laboratorio: soggetti ai quali è stato affidato un compito che richiede attenzione vengono periodicamente interrotti chiedendo loro di riferire se in quel momento sono focalizzati sul compito o se la loro mente sta invece vagando. È con esperimenti simili che si è verificato che il day-dreaming rappresenta normalmente una parte significativa delle attività cognitive, occupando una buona parte del pensiero di chi è sveglio. 

Negli studi che esplorano il rapporto tra day-dreaming e sonno si fa distinzione tra un day-dreaming distruttivo e uno positivo. «Il day-dreaming distruttivo è caratterizzato da pensieri autogenerati che interferiscono con la concentrazione necessaria per il compito che si sta svolgendo e che sollevano emozioni di tipo negativo» dicono le autrici dello studio.

«Al contrario il day-dreaming positivo è composto da pensieri autogenerati piacevoli e pianificanti che offrono risultati produttivi e sono accompagnati da sensazioni di benessere ed emozioni positive». 

Chi ha la tendenza a produrre day-dreaming distruttivo si trova più frequentemente in condizioni di insonnia, e comunque il suo sonno è di cattiva qualità, e perfino i sogni possono essere influenzati negativamente trasformandosi più spesso in incubi. Così che il giorno seguente aumenta la probabilità di avere una sensazione di stordimento e di sonnolenza che interferisce con le attività lavorative e relazionali.

Il fenomeno sembra essere più frequente nelle donne, che d'altra parte sono in effetti più frequentemente degli uomini colpite sia dal fenomeno dei pensieri negativi al momento di addormentarsi, sia da fenomeni di tipo ansioso e depressivo. «Spendiamo approssimativamente un terzo delle nostre vite dormendo o tentando di farlo» concludono le autrici. «Se non dormiamo quanto ci servirebbe, allora sperimentiamo sensazioni stressanti e spiacevoli». 

Lo stress che ne deriva, sostenuto spesso proprio da pensieri automatici di stampo negativo che interferiscono con il sonno normale, è rilevabile attraverso un'anomala attivazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, responsabile di sintomi quali un aumento della pressione arteriosa, sia sistolica sia diastolica, un aumento della frequenza cardiaca, incremento della produzione di cortisolo.

Stefano Lorenzetto per “Oggi” il 31 ottobre 2022.

Dormire il sonno del giusto è la regola per il professor Luigi Ferini Strambi. Il primario del Centro di medicina del sonno del San Raffaele Turro di Milano non ha mai passato una notte con gli occhi sbarrati. Qualora dovesse capitargli, invece delle pecore potrebbe contare i pazienti che ha avuto in oltre 40 anni di carriera: decine di migliaia. Nato a Tolentino (Macerata) il 3 luglio 1955, sposato un paio di volte (due figli dal primo matrimonio, due dal secondo), laureato in medicina nel 1980, specializzato in neurologia, è statori cercatore presso lo Sleep disorder sand research center del Baylor college of medicine di Houston, in Texas.

Ferini Strambi, past president della World association of sleep medicine e dell’ Associazione italiana medicina del sonno, è fra i massimi studiosi delle molteplici patologie che riguardano 8 milioni di italiani e bruciano ogni anno 5 miliardi di Pil in degenze, farmaci, giornate di lavoro perse, incidenti, scarsa produttività. Il suo paziente più illustre fu Francesco Cossiga, ricoverato in gran segreto, «ma andavo a trovarlo anche a Roma, ed erano visite spassose che non duravano mai meno di quattro ore». 

Ricorse a lungo alle sue cure anche Pietro Fiordelli, il vescovo di Prato processato nel 1956 per la lettera in cui, sulla base del codice di diritto canonico, qualificava «pubblici concubini» e «pubblici peccatori» due battezzati che avevano deciso di sposarsi in municipio. Me lo confidò l’interessato, a distanza di 42anni ancora vittima degli incubi notturni per una vicenda che indusse Pio XII a cancellare l’udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e il cardinale Giacomo Lercaro, poi progressista, a parare a lutto le chiese di Bologna e a far suonare a morto le campane. 

Amazon sta per lanciare Halo Rise, dispositivo da 139,99 dollari per il monitoraggio della qualità del sonno. Che cosa ne pensa, professore?

«Utile per ricordare l’importanza del sonno. Bisognerebbe confrontarlo con le metodiche tradizionali di registrazione per verificarne l’attendibilità. Sicuramente non utile per una diagnosi». 

Come mai è stato attratto dal sonno?

«Da studente, all’ospedale Pini, i miei compagni si offrivano come cavie, io facevo lo sperimentatore. Poco dopo che s’erano addormentati, gli iniettavo la fisostigmina, ricavata da una fava usata per il giudizio di Dio dalla tribù degli Efik in Nigeria. Dal sonno pesante passavano in un minuto alla fase Rem. Manipolare l’attività cerebrale mi parve esaltante». 

Ricovera i pazienti per vederli dormire?

«Certo. Vengono da tutta Europa e persino dagli Stati Uniti. Ho 12 posti letto con medici e tecnici che lavorano 24 ore su 24, ma soprattutto di notte ».

A che serve il sonno?

«Me lo chiese anche un tassista di Roma». 

L’equiparazione mi lusinga.

«Era per dire che vorrà una risposta rapida. In estrema sintesi, ci sono due fasi nel sonno: non Rem e Rem, acronimo di rapid eye movement, movimento oculare rapido. La prima, più profonda, dura 2-3ore e dà riposo a corpo e mente. La seconda è quella dei sogni bizzarri, una messinscena di pulsioni oscure che di giorno controlliamo, ed è fondamentale per il consolidamento della memoria. Nella fase non Rem il sistema linfatico fa pulizia nel cervello, eliminale proteine e le sostanze nocive. Nella fase Rem resetta la parte emotiva». 

Chi non dorme rischia la vita?

«Sì, e tante malattie. Il sonno inibisce il cortisolo, l’ ormone dello stress. Quindi mette a riposo il cuore e abbassa la pressione arteriosa, altrimenti moriremmo tutti di ictus o infarto. Il guaio è che solo il 20 per cento di coloro che soffrono di insonnia persistente lo riferisce al medico di famiglia». 

Per quale motivo tacciono?

«Temono che gli prescriva farmaci. O non lo reputano un fattore importante». 

Eppure i sedativi ipnotici sono molto diffusi.

«Il 10 per cento degli insonni assume benzodiazepine, Z drugs, antidepressivi. Ho pazienti che devo ricoverare  per  disintossicarli: arrivano a consumare 4-5 boccette di Lormetazepam al giorno». 

È pazzesco.

«Concordo. Ma  va detto che senza farmaci l’insonnia può cronicizzarsi. Non si cura con la melissa». 

Quante ore di sonno servono per notte?

«Potrei risponderle da 6 a 9. Però non conta la quantità, bensì la qualità. Se russo e ho le Osas, apnee ostruttive del sonno, quando mi alzo sarò uno straccio. È un problema enorme, che riguarda 5 uomini e 3 donne su 100. Eppure alle patologie del sonno, che investono il 15 per cento della popolazione, sa quanto tempo dedicano i docenti universitari durante le lezioni nei sei anni di medicina? Un’ora e mezza in tutto! È il mio grande cruccio».

I risvegli notturni devono allarmare?

«La nicturia, cioè la frequente necessità di interrompere il riposo per andare in bagno, nell’uomo non è solo indizio di ipertrofia prostatica benigna. Potrebbero c’entrare le apnee ostruttive, prima causa di inicturia. Infatti la terapia ventilatoria con Cpap normalizza l’ormone natriuretico e le fa scomparire sin dalla prima notte di trattamento. Ha idea di quante prostate ho salvato in questo modo?». 

L’otorinolaringoiatra non risolve?

«Vedo più di 3 mila pazienti l’anno che soffrono di apnee notturne e ne indirizzo verso la chirurgia plastica su turbinati nasali, ugola, palato e faringe solo 5 ogni 100. Per il resto ricorro alla terapia posizionale con Night shift, un collarino elettronico che impedisce di stare supini e costringe a dormire sul fianco. O prescrivo Mad, un apparecchio intraorale che fa avanzare leggermente mandibola e lingua, rende più pervie le prime vie aeree ed evita che collassino durante il sonno. Inoltre va ridotto il peso: calare di 10chili equivale a perderne uno nel collo». 

Giacere sul dorso con il viso e il petto rivolti all’insù fa così male alla salute?

«Sì. Il sistema glinfatico non funziona bene inposizione supina. Bisogna dormire su un fianco». 

 La mancanza di sonno porta alla depressione?

«Aumenta di 2,5 volte il rischio di andare incontro a questa sindrome. Il risveglio precoce precede di un paio di settimane l’esordio della depressione unipolare. Invece il depresso bipolare non soffre di insonnia, anzi dorme tanto e sta sempre a letto».

Meglio coricarsi a pancia piena oppure vuota?

«A metà. Ma non 5minuti dopo cena. La fame non va bene, provoca un calo eccessivo della glicemia». 

Il reflusso gastroesofageo influisce sul riposo?

«È uno dei sintomi più strettamente correlati con le apnee. Le Osas sono la prima causa di ipertensione farmacoresistente, vale a dire pressione alta che neppure la combinazione di 3-4 medicinali riesce a curare. Solo che a un congresso di cardiologi ho accertato che appena il 15 per cento di loro lo sapeva». 

Tutti sognano?

«Tutti. Ma 10 minuti di sonno non Rem cancellano i sogni. Tra i 50 e i 70anni se ne memorizzano in media5-6almese. Le donne ricordano di più».

Ha curato molti sonnambuli?

«Parecchie decine. Ricordo in particolare un ragazzo che andò sul terrazzo, inforcò la bici, cadde nel vuoto e se la cavò solo con qualche frattura. È una condizione legata al risveglio parziale di alcune aree del cervello durante il sonno profondo. Il sonnambulo va ricondotto a letto con molta delicatezza, perché si trova inuna situazione di confusione e potrebbe avere reazioni violente. Spesso non c’è deambulazione: il soggetto si siede sulle coltri, si guarda attorno, parla e si rimette giù». 

Tenere il televisore in camera: giusto o sbagliato?

«Sbagliato. La terapia cognitivo-comportamentale per l’insonnia ha come prima regola che il letto serva per dormire. Beh, ogni tanto anche per qualcos’altro, avendone la possibilità. Ma non certo per guardare telegiornali, film e reality show».

Fa male compulsare telefonini e tablet prima di addormentarsi?

«Malissimo. La luce dei display inibisce il rilascio della melatonina, indispensabile per un buon riposo. In un decennio i ragazzi sotto i 20 anni che hanno problemi di insonnia sono raddoppiati, dal 10 al 20 per cento. Vanno a letto con due cellulari accesi, lasciando attive le notifiche, che provocano un sonno frammentato. Si coricano alle 4, dormono di mattina. Un’anarchia che li espone maggiormente al diabete e alle infezioni. A Wuhan, dove iniziò la pandemia, si è constatato che i cattivi dormitori colpiti dal Covid hanno più probabilità di finire in terapia intensiva rispetto ai buoni dormitori». 

Lavorare di notte è poco salutare?

«Eccome. Nei turnisti sono in agguato ipertensione e altri disturbi cardiocircolatorie gastroenterici ».

Togliere l’ora legale è deleterio?

«Sì. Andrebbe mantenuta. La luce migliora l’umore, facilita movimento e relazioni. L’andirivieni fra ora solare e ora legale è una somma di mini jet lag ». 

Il sonnellino pomeridiano aiuta?

«Solo se dura 20 minuti. Fa male imitare un mio collega bolognese che, finito il pasto di mezzodì, s’infilava il pigiama e dormiva per tre ore». 

Pare che Bettino Craxi riuscisse a schiacciare un pisolino stando in piedi, appoggiato al muro.

«Può essere. Il cervello ha la facoltà di dormire a pezzi. Si chiama sonno locale. Sei sveglio, ma in quel momento una parte dell’encefalo dorme». 

È mai rimasto sveglio la notte?

«Assolutamente no. La mia latenza di addormentamento varia da 5 a 10 secondi. È così per tutti a casa nostra. Compreso il cane».

·        Attenti a quei farmaci.

Farmaci vegetali: definizione e meccanismi d’azione.  Andrea Soglio su Panorama il 06 Dicembre 2022

La sicurezza del farmaco vegetale è pari a quella dei prodotti convenzionali e viene valutata secondo i criteri di farmacovigilanza applicabili a ogni tipo di farmaco. ma se ne sa ancora poco

Quello del farmaco vegetale è un tema straordinariamente ancora poco noto, persino presso la categoria dei professionisti di settore: se il farmacista solo parzialmente lo inquadra, in generale c’è bassa conoscenza di questa tipologia di prodotto. «Per farmaco vegetale- spiega il prof Marco Biagi Farmacologo e referente scientifico di Schwabe- si intende una preparazione vegetale che ha subìto tutto l’iter sperimentale e registrativo per essere utilizzata con la finalità di un qualunque farmaco, sia esso di origine naturale, sintetica o biologica. Il farmaco vegetale rientra quindi nell’accezione più ampia del termine “farmaco” , è un farmaco a tutti gli effetti, che ha avuto la stessa sperimentazione e lo stesso iter registrativo del farmaco di sintesi, l’unica differenza è che i principi attivi sono rappresentati da una preparazione vegetale, come per esempio un estratto secco o liquido, oppure un olio essenziale».

 Dal punto di vista normativo, un farmaco vegetale è registrato secondo l’iter autorizzativo del farmaco, quindi secondo quanto stabilito dalla direttiva 2001/83/CE, recepita in Italia con il D. Lgs 219/2006, e dalla direttiva 2004/24/CE, che norma in maniera specifica i medicinali vegetali tradizionali. Nello specifico, il farmaco vegetale contiene un mix di costituenti. Aspetto, questo, che lo rende chimicamente affascinante, sebbene di più difficile approccio: a differenza del farmaco di sintesi, costituito da una sola molecola, il farmaco vegetale ne contiene diverse. Si tratta dell’unico contesto farmaceutico in cui si ha a che fare per definizione con la complessità chimica, motivo per cui le aziende internazionali di farmaci vegetali si occupano esclusivamente di questo. La produzione di farmaci vegetali prevede controlli di qualità normati ufficialmente a livello nazionale, europeo e internazionale dalle autorità di controllo farmaceutico, come AIFA ed EMA. Il farmaco vegetale è il prodotto di qualità farmaceutica dove ogni singolo step della filiera deve essere compliante ai requisiti delle farmacopee e dei test di legittimazione, subendo il più diversificato numero di controlli qualità: dalla coltivazione alla raccolta, dal processo di estrazione a quello di preparazione. Quanto è efficace e sicuro un farmaco vegetale?

«La sicurezza del farmaco vegetale è pari a quella dei farmaci convenzionali e viene valutata secondo i criteri di farmacovigilanza applicabili a ogni tipo di farmaco. Riguardo l’efficacia, secondo il tipo di farmaco, sono necessari per la registrazione elementi diversificati: 1) nel caso di nuovi farmaci da registrare in maniera convenzionale, viene eseguito tutto l’iter sperimentale richiesto a qualunque altro farmaco; 2) nel caso di farmaci di uso consolidato, già presenti sul mercato della UE come tali o come stretti congeneri da almeno dieci anni, è richiesta la presenza di almeno uno studio clinico di adeguata qualità che dimostri l’efficacia del prodotto, ma anche la valutazione positiva dell’EMA con pubblicazione di una monografia dedicata; 3) nel caso, infine, di prodotti che hanno un sufficiente grado di tradizione d’uso in Europa da almeno quindici anni, anche in assenza di medicinali già in commercio, l’EMA non richiede nuova sperimentazione, in quanto l’efficacia si basa sulla letteratura e ancora una volta sulla valutazione positiva dell’Autorità con pubblicazione di una monografia specifica. È questa l’unica deroga concessa ai farmaci vegetali tradizionali». In che modo il farmaco vegetale si differenzia dai medicinali omeopatici e dagli integratori alimentari? «Per gli elementi di diagnosi e di intenzione terapeutica, il farmaco vegetale non si distingue dal farmaco di sintesi: entrambi si caratterizzano per la presenza di molecole che svolgono un’attività biologica. Il farmaco omeopatico, invece, ha la sua ragion d’essere in concetti di diagnosi e terapia che vanno in direzione diversa, dove non è l’interazione chimica a essere chiamata in causa, quanto piuttosto elementi di tipo fisicoenergetici». Farmaco vegetale e omeopatico sono, quindi, due tipologie di prodotto completamente diverse che hanno come unico punto in comune, in alcuni casi, l’utilizzo di piante medicinali quali materia prima di partenza. Anche i medicinali omeopatici – specificamente normati per quanto riguarda produzione e controllo qualità – fanno parte della categoria dei farmaci, motivo per cui si fa confusione. L'integratore alimentare a livello europeo è regolamentato dalla direttiva 2002/46/CE, secondo la quale sono autorizzati quei prodotti che costituiscono una fonte concentrata di sostanze aventi effetto nutritivo o fisiologico. Tale direttiva riconosce agli integratori alimentari anche una finalità fisiologica (molte sostanze possono avere un claim salutistico), ma non farmaceutica. Per definizione, l’integratore alimentare si riferisce al settore alimentare, può vantare un’azione esclusivamente legata al mantenimento dello stato di salute o alla prevenzione di uno stato patologico, ma non curativa. L'intenzione d’uso e la finalità dell’integratore sono completamente diverse da quelle del farmaco. Ne consegue che l’iter di controlli e sperimentazioni sono diversi e i prodotti non sono approvati da AIFA e EMA, ma più semplicemente notificati al Ministero della Salute. A differenza di quello che accade negli altri Paesi, in Italia assistiamo a uno scenario estremamente interessante: ci sono integratori alimentari di altissima qualità, con importanti e razionali effetti positivi sulla salute, ma altri che devono essere guardati con una certa cautela perché solo frutto di marketing, puntato sul vacuo concetto del naturale. Certo è che il settore degli integratori alimentari – spinto anche dall’ampia diffusione sul mercato – ha avuto un enorme successo in Italia. Basti pensare che negli ultimi quindici anni, a fronte di una quarantina di farmaci vegetali registrati, sono stati notificati oltre 90 mila integratori alimentari diversi. Il farmaco vegetale può dare reazioni avverse?

«Certamente - prosegue il prof Biagi - per questo i farmaci vegetali sono sottoposti a strettissimi controlli di farmacovigilanza: i loro foglietti illustrativi sono revisionati da AIFA periodicamente e aggiornati in seguito alle segnalazioni di effetti collaterali. Le reazioni avverse dichiarate forniscono gli elementi per poter valutare al meglio il vantaggio di assumere tali farmaci, in nome della sicurezza». I vantaggi del farmaco vegetale -Il farmaco vegetale rappresenta l’eccellenza della fitoterapia, grazie a qualità, efficacia, e sicurezza. - è autorizzato e garantito dall’istituzione, è autorizzato con AIC, e non può essere commercializzato senza autorizzazione AIFA -cura patologie e lo fa con un meccanismo d’azione farmacologica - racchiude e governa la complessità della pianta riuscendo ad esprimere il massimo del potenziale curativo - tutela il professionista ed il paziente circa il contenuto e l’effetto del prodotto - Una richiesta molto frequente è come curare le infezioni delle vie respiratorie, in adulti e bambini. Il ricorso agli antibiotici è spesso controindicato perché sono infezioni prevalentemente virali sulle quali l’antibiotico non ha effetto. Un riscontro invece positivo arriva proprio dell’estratto di radice del Pelargonio, una pianta medicinale che cresce solo nell’Africa del Sud. Questa varietà medicinale di geranio agisce come antivirale, antibatterico e fluidificante del muco Con la consulenza del prof Marco Biagi, Farmacologo, Dip. di Scienze Fisiche, della Terra e dell'Ambiente Università degli Studi di Siena. Direttore del Master II Livello in Fitoterapia Applicata Università di Siena. Segretario Generale della Società Italiana di Fitoterapia. Referente Scientifico Schwabe

I farmaci gastroprotettori possono far aumentare la glicemia? Lucia Briatore su Il Corriere della Sera il 24 Settembre 2022.  

Diverse ricerche pubblicate negli ultimi anni hanno fatto sospettare che l’uso continuativo e prolungato di questa classe di medicinali (tra i primi dieci più utilizzati al mondo) possa aumentare il rischio di sviluppare il diabete mellito

Ho 62 anni, sono in sovrappeso e da circa un anno assumo pantoprazolo per un reflusso gastroesofageo. Negli ultimi esami che ho eseguito la glicemia è risultata un po’ alta: il pantoprazolo potrebbe essere la causa del problema? Che cosa posso fare per evitare che peggiori ulteriormente?

Risponde Lucia Briatore, diabetologa, Asl 2 Savonese, Pietra ligure, Associazione Medici Diabetologi (VAI AL FORUM)

Gli inibitori della pompa protonica (detti PPI), di cui fa parte anche il pantoprazolo, sono tra i primi dieci farmaci più utilizzati nel mondo per trattare malattie correlate all’acidità gastrica, come l’ulcera peptica e la malattia da reflusso gastroesofageo. Diverse ricerche pubblicate negli ultimi anni hanno fatto sospettare che l’uso continuativo e prolungato di questa classe di farmaci possa aumentare il rischio di sviluppare il diabete mellito. I dati a riguardo non sono tutti concordanti: uno studio condotto a Taiwan, per esempio, riporta un effetto protettivo dei PPI per lo sviluppo di diabete. L’ultima ricerca su questi farmaci è stata fatta da studiosi italiani utilizzando i registri farmaceutici della Regione Lombardia. I ricercatori dell’Università di Milano Bicocca hanno osservato oltre 50mila persone che hanno ricevuto la diagnosi di diabete mellito, rilevando come l’uso prolungato e continuativo di un farmaco della classe PPI aumenti il rischio di sviluppare la patologia.

Le possibili cause

L’associazione tra uso di PPI e diabete è risultata più evidente nelle persone che presentano contemporaneamente più malattie e che quindi hanno uno stato di salute più compromesso. Sono state fatte diverse ipotesi per giustificare questo ipotetico legame tra antiacidi e diabete. Una riguarda le alterazioni del microbiota intestinale, cioè di quella serie di batteri presenti normalmente nell’intestino in grado di giocare un ruolo protettivo o peggiorativo nei confronti di molte malattie. È noto che l’uso continuativo di PPI possa modificare il tipo di batteri che colonizzano il cavo orale e l’intestino e questo può influire sul metabolismo glucidico, favorendo lo sviluppo di diabete. Altre ipotesi riguardano alterazioni dell’ormone IGF-1 e l’ipomagnesemia (diminuzione di magnesio nel sangue) indotta dai PPI, che può contribuire a una infiammazione cronica la quale, a sua volta, peggiora il metabolismo glucidico.

PPI solo se indicati

Tutte le ricerche condotte fino ad ora hanno il limite di non confrontare contemporaneamente gruppi omogenei di pazienti, ma di guardare a posteriori quello che è successo in persone che assumevano i farmaci, con il grosso limite di non poter escludere fattori confondenti che fanno aumentare il rischio di diabete. Tra questi i più importanti potrebbero essere il sovrappeso e l’obesità: è noto che il sovrappeso è associato al riflusso gastroesofageo (quindi molte persone possono aver bisogno di assumere PPI per tale motivo), ma i chili di troppo sicuramente contribuiscono ad aumentare il rischio di diabete. Dunque, da un punto di vista pratico, come bisogna comportarsi? Alla luce delle conoscenze attuali dobbiamo cercare di utilizzare i PPI nei casi in cui sono indicati e indispensabili, facendo attenzione a sospendere il trattamento quando non è più necessario ed evitando un utilizzo prolungato di questi farmaci a scopo preventivo.

Attenti a quei farmaci. Sono diversi i farmaci che compromettono l'equilibrio dei batteri intestinali, tra i quali figurano gastroprotettori e antidepressivi. Dalla salute del microbioma dipende anche la risposta individuale alle terapie. Gioia Locati il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.

L’alterazione del microbioma intestinale non è solo un effetto spiacevole dell’assunzione di antibiotici. Ci sono anche altri farmaci che ne stravolgono l’equilibrio. Non solo disbiosi però. Uno studio pubblicato sulla rivista internazionale di gastroenterologia, Gut, mostra che la relazione tra assunzione di medicinali e intestino è biunivoca.

La composizione della flora batterica può cambiare sotto l’azione di alcuni farmaci, ma, viceversa, può anche essere responsabile della risposta individuale agli stessi. Un medicinale può risultare efficace su alcuni pazienti e non avere alcun effetto su altri. Secondo gli autori il microbioma è in grado di metabolizzare i medicinali ed è responsabile della loro bio disponibilità. Insomma, un intestino sano significa anche, che, quando dovessimo ammalarci, si hanno più probabilità che la terapia raggiunga il suo scopo.

Quali farmaci sono tossici per il microbioma

Lo studio ha preso in esame gli inibitori di pompa protonica (i gastroprotettori più prescritti); la metformina, impiegata per controllare la glicemia nei diabetici; alcuni anti depressivi, gli inibitori selettivi della serotonina e i lassativi. Tranne i lassativi i primi 4 gruppi di farmaci sono molto più prescritti e consumati degli antibiotici. Secondo gli autori anche le statine (prescritte per abbassare il colesterolo) e gli oppioidi hanno un’azione sull’intestino.

I gastroprotettori possono ridurre la barriera di acidità dello stomaco: può accadere così che i microbi della bocca arrivino direttamente all’intestino, provocando disbiosi. Fra le conseguenze peggiori vi è lo sviluppo di infezioni comprese quelle da Clostridium difficile.

Lo studio rivela che vi è una seconda modalità d'azione, e cioè che i farmaci possono modificare i microambienti intestinali e influenzare direttamente la crescita batterica. Ad esempio, si è visto che la metformina aumenta significativamente l'Escherichia coli e riduce l'insieme di altri batteri creando disequilibrio.

Cos’è la farmacomicrobiomica

Gli autori affermano che in futuro la branca che indaga l'interazione fra microbioma e la risposta ai farmaci (farmacomicrobiomica) verrà ampiamente utilizzata. Con l’aiuto del sequenziamento di nuova generazione si è osservato che vi è una grande variabilità individuale negli ecosistemi intestinali. Solo una minoranza di microbi intestinali è condivisa dalla maggior parte degli individui. In un set di dati europeo di 3.000 campioni, appena 17 batteri sono stati identificati presenti in più del 95% di tutti i campioni. La maggior parte dei batteri è rara. Si ipotizza così la possibilità di modulare il microbioma intestinale di alcuni pazienti in trattamento antitumorale per migliorare l’efficacia delle cure.

·        Le malattie più temute.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 giugno 2022.

Negli ultimi anni gli esperti hanno scoperto una serie di piccoli segnali che possono indicare un rischio di morte prematura alto. L’ultimo in ordine di tempo riguarda la nostra capacità di restare in equilibrio su una gamba per più di dieci secondi. Ricercatori brasiliani hanno monitorato 2.000 persone di età compresa tra i 50 e i 75 anni e hanno scoperto che i volontari che non erano riusciti a completare il test avevano l’84% in più di probabilità di morire presto rispetto agli altri. Ecco i segnali a cui prestare attenzione e che dovrebbe spingerci a fare ulteriori controlli.

In equilibrio su una gamba

Secondo l’ultimo studio, pubblicato sul British Journal of Sports Medicine, chi non riesce a restare in equilibrio su una gamba per dieci secondi ha il doppio delle probabilità di morire rispetto a quelli che ci sono riusciti. Nel corso dello studio, condotto dai ricercatori della Clinica di Medicina dell'Esercizio CLINIMEX a Rio de Janeiro, al quale hanno partecipato 1.700 persone tra i 50 e i 75 anni che si è svolto nel corso di sette anni, sono morte 123 persone. 

Camminare velocemente

Le persone anziane che camminano lentamente corrono molti più rischi di morire prematuramente. I ricercatori dell’Istituto nazionale francese di salute e ricerca medica hanno misurato la velocità a cui camminavano 3.200 over 65, monitorandoli poi per i cinque anni successivi. 

La velocità dei partecipanti è stata misurata in tre punti diversi di un corridoio lungo sei metri. I risultati hanno mostrato che gli uomini più lenti procedevano a una velocità di 90m/minuto, i più veloci a 110 m/minuto. Le donne mantenevano una media tra gli 81m/minuto e i 90m/minuto. 

Negli anni successivi sono morte 200 persone. Secondo gli scienziati, i camminatori più lenti avevano il 44% in più di probabilità di morire entro la fine dello studio rispetto al gruppo più veloce. 

Seduto e in piedi

Anche il semplice esercizio di sedersi e alzarsi senza aggrapparsi a niente può essere un segnale da tenere sotto controllo. Chi fatica a rialzarsi senza sostegno ha probabilità cinque volte maggiori di morire giovane. Lo ha scoperto un team di scienziati dell’Università Gama Filho in Brasile: hanno reclutato 2.002 persone di età compresa tra i 51 e gli 80 anni, chiedendo loro di eseguire il test.

Ai partecipanti, scalzi e vestiti con abiti larghi, è stato chiesto di sedersi sul pavimento e incrociare le gambe senza usare mani, ginocchia, gomiti o il lato delle gambe come supporto. Quindi i volontari si sono dovuti alzare, sempre senza aiuti. Ogni partecipante partiva da un punteggio di 10, e veniva penalizzato di un punto ogni volta che faceva uso di un aiuto.  

I risultati, pubblicati sull’European Journal of Preventive Cardiology nel 2021, hanno mostrato che chi ha ottenuto un punteggio finale da 0 a 3, aveva 5,4 volte più probabilità di morire. Secondo gli scienziati, i punteggi bassi indicano persone che hanno perso mobilità, flessibilità e muscolatura, tutti segnali di cattiva salute.

Camminare per le scale

Se siete in grado di salire senza problemi quattro rampe di scale non avete di che preoccuparvi. Ricercatori spagnoli hanno portato 12.000 persone su un tapis roulant, aumentandone gradualmente la difficoltà e monitorando il loro cuore. Poi hanno seguito i partecipanti per altri cinque anni, pubblicando nel 2018 i risultati sull’European Heart Journal. 

I ricercatori hanno scoperto che i tassi di mortalità per tutte le cause erano quasi tre volte più alti nei partecipanti ritenuti in cattive condizioni di salute rispetto ai loro coetanei più in forma. Tra chi ha ottenuto buoni risultati nel test, è morto solo l’1,2%. Secondo gli scienziati questo test si può ripetere in casa salendo quattro piani di scale senza fermarsi a un ritmo normale. 

La forza della presa

Anche non essere in grado di stringere la mano con decisione potrebbe essere un segnale di cui preoccuparsi. Uno studio ha rilevato che le persone con una presa debole hanno fino al 20% in più di morire presto. 

Scienziati scozzesi hanno esaminato la forza della presa di 500.000 volontari di età compresa tra i 40 e i 69 anni attraverso uno strumento chiamato dinamometro manuale. Nei sette anni successivi allo studio, sono morti 13.322 partecipanti. I risultati, pubblicati sul British Medical Journal nel 2018, hanno mostrato che per ogni 5kg in meno di forza, il rischio di morte per una qualsiasi causa cresceva di un quinto. 

Secondo i ricercatori la forza nella presa indica lo stato di salute dei muscoli scheletrici. 

Sollevamento

Chi fatica a completare dieci flessioni ha quasi il doppio delle probabilità di subire un infarto o un ictus rispetto a chi riesce a realizzarne 40. 

Un team internazionale di ricercatori ha deciso di verificare se esiste un legame tra la forma fisica e le malattie cardiovascolari. Hanno reclutato 1.100 vigili del fuoco, ai quali, tra il 2000 e il 2010, è stato chiesto regolarmente di completare il maggior numero di flessioni. Durante le valutazioni, i medici hanno impostato un metronomo a 80 battiti al minuto e hanno contato il numero di flessioni completate dai vigili interrompendo il conteggio o perché avevano saltato tre battiti, o perché si erano fermati, o perché avevano raggiunto 80.

Nel corso dei 10 anni in cui sono stati monitorati, a 37 di loro sono state diagnosticate malattie cardiache. Ma quelli che sono riusciti a fare più di 40 flessioni avevano il 96% in meno di probabilità di soffrirne rispetto a chi ne realizzava meno di 10. 

Secondo i medici le flessioni sono un indicatore della forza muscolare, che protegge dai decessi per tutte le cause e dall’ipertensione. 

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 23 marzo 2022.

Per 2 italiani su 3 il cancro è la malattia più temuta in assoluto, nonostante esistano molte altre patologie che comportano peggiori sofferenze e che hanno minori probabilità di sopravvivenza, ma essendo queste, come incidenza, molto meno frequenti dei tumori maligni, vengono percepite come una minaccia remota.

In effetti chiunque di noi conosce una persona a cui ed stato diagnosticato il cancro, che si tratti di un amico, di un conoscente o un familiare, per cui si sviluppa la convinzione che, con il passare degli anni, sia una malattia con cui dovere farci i conti con una alta probabilità, nonostante tutti ormai sono informati sui fattori di rischio per prevenirla, ai quali però non molti credono, convinti come sono che il tumore colpisca in maniera casuale o fatale, e che non lasci modo di evitarlo o difendersi in modo davvero efficace quando aggredisce l'organismo.

TUMORE

Nel mondo il cancro oggi è responsabile di 1 decesso su 3, in genere dopo un lungo percorso terapeutico, ed in persone con più di 60 anni, anche se rappresenta purtroppo una causa frequente di morte pure tra i giovani, e nonostante i progressi della medicina abbiano consentito un numero elevatissima di cure innovative e reali guarigioni per molte forme tumorali che fino a pochi decenni fa non avevano alcuna aspettativa di vita.

DEMENZA

Molto più in basso del cancro si colloca il timore delle demenze, patologia in costante aumento nel panorama sanitario mondiale, dovuto alla paura della perdita dell'autosufficienza fisica e mentale, uno stato patologico al quale migliaia di figli assistono sconcertati ed impotenti, quando vedono i loro genitori, fino ad allora autonomi, che in genere si sono presi curo di loro stessi fisicamente, mentalmente e spiritualmente per tutta la vita, degenerare cerebralmente lentamente o velocemente, a causa di diverse malattie neurologiche che appassiscono il loro cervello a vari livelli, spegnendone molte attività, rubandone la memoria, cancellandone i ricordi, compromettendone le capacità cognitive e razionali, e rendendo le persone fondamentali della vita, una volta punto di riferimento essenziali, come regrediti all'infanzia, se non ritardati mentalmente, al punto di essere addirittura incapaci di riconoscere finanche la propria prole. 

Fortunatamente le demenze sono in genere una patologia dell'età matura, ma restano comunque uno strazio per i familiari che spessissimo si trovano di fronte ad un invecchiamento precoce del cervello di madri o padri, un declino psicologicamente inesorabile e sempre mal accettato, del quale si devono necessariamente occupare a lungo, e per il quale tuttora non esistono terapie preventive per evitalo, ritardarlo e curarlo, né tantomeno risolutive.

INFARTO

Al terzo posto si classifica la fobia delle malattie cardiovascolari, in particolare la paura dell'infarto del miocardio, dell'ictus cerebrale o della crisi ipertensiva apoplettica, tre condizioni patologiche che spingono centinaia di pazienti al giorno a frequenti visite cardiologiche od accessi al pronto soccorso in caso di comparsa di sintomi quali tachicardia, aritmie, fastidi o dolori al petto, al braccio sinistro, o mal di testa, per ricevere rassicurazioni sul proprio stato di salute e diminuire l'ansia attivata dalla comparsa improvvisa dei disturbi. 

Gli eventi stressanti dovuti al Covid degli ultimi due anni, sono stati capaci di indurre in migliaia di soggetti risposte eccessive dell'organismo attraverso meccanismi di elaborazione ed amplificazione degli stimoli di tipo individuale, al punto che negli ultimi mesi sono aumentate in Italia le diagnosi di cancro, molte delle quali dovute ai mancati controlli preventivi durante l'epidemia.

La buona notizia arriva dai vaccini mRna, ovvero RNA messaggero, sinterizzati dalle multinazionali Pfizer BioNTech e Moderna per contrastare il virus Sars Cov2, i quali sono in fase avanzata di sperimentazione clinica su gruppi di volontari e di malati ed applicati in una nuova variante vaccinale contro i tumori solidi, come il melanoma e il cancro del colon-retto, che stanno dando risultati molto incoraggianti in termini di efficacia e cura, con una previsione di averli pronti in commercio entro 4-5 anni, addirittura personalizzati sul tipo di cancro e probabilmente estesi anche ad altri tipi di tumori di altri organi. 

Con lo stesso meccanismo risultato ottimale per il Covid19, questi nuovi vaccini Anti-Cancro identificano elementi specifici del tumore maligno ed inducono il sistema immunitario ad attivare una risposta in grado di eliminare tutte le cellule cancerogene che incontrano e quindi portare a guarigione completa il soggetto.

Oggi sono già in uso Vaccini anticancro divenuti "tradizionali", come quelli contro l'Hpv, il Papilloma virus che causa il tumore del collo dell'utero e della testa e collo, e quello antiepatite B, responsabile del tumore del fegato, ma questi nuovi Vaccini Rna-m , oltre ad avere un ruolo "terapeutico" , cioè essere in grado di favorire la produzione di anticorpi in grado di aggredire ed eliminare tutte le cellule cancerogene in circolo, ne avranno uno ancora più importante, quello di "Vaccino Preventivo" del cancro, una nuova linea si ricerca che produrrà evidenze scientifiche straordinarie, sia nell'approccio terapeutico che preventivo della malattia più temuta come il cancro, e questi vaccini in un breve futuro potranno essere somministrati a centinaia di migliaia, se non di milioni di pazienti a rischio di cancro, salvando loro la vita. Con buona pace del popolo dei No-Vax che ancora si presenta in piazza a contestare e criticare, con inaudita ignoranza, la straordinaria potenza della Scienza.

·        Il Dolore.

Lieve, acuto, cronico: tutti conosciamo il dolore. Come sarebbe vivere senza? Anna Meldolesi e Chiara Lalli su Il Corriere della Sera il 5 Ottobre 2022.

I genetisti hanno identificato una mutazione che interrompe il segnale mandato dai tessuti danneggiati al cervello: ma c’è da chiedersi se davvero ha senso (in una società già invasa dalle pillole analgesiche) propagandare l’addio alla sofferenza fisica. Lo avrebbe per i pazienti oncologici, per ferite gravi o malattie dolorose come l’osteoartrite

Questo doppio articolo, pubblicato su «7» in edicola il 30 settembre, fa parte della rubrica del magazine del Corriere «Due punti». Intesi come due punti di vista che qui troverete pubblicati online in sequenza: prima l’articolo di Anna Meldolesi, poi quello di Chiara Lalli. Buona lettura

ANNA MELDOLESI: Ci imbottiamo di pillole analgesiche per ogni fastidio, ma coltiviamo anche un’idea salvifica della sofferenza. Le contraddizioni psicologiche e culturali abbondano in campi che vanno dall’aborto all’anestesia epidurale in sala parto, dalle cure palliative fino ai disturbi dell’ansia. Quanto è possibile (e desiderabile) azzerarlo Immaginate un mondo completamente libero dalle sofferenze fisiche. In cui si cade e ci si taglia senza un ahi, senza una lacrima. Sogno o incubo? Una prima provvisoria risposta possiamo cercarla nell’ultimo film di David Cronenberg, che in origine doveva chiamarsi Painkillers (antidolorifici) anziché Crimini del futuro . Mette in scena un mondo analgesico, in cui la chirurgia è diventata una forma estrema di body art. Le performance ricordano le dissezioni degli antichi teatri anatomici, ma i corpi aperti davanti al pubblico sono vivi (e svegli).

L’assenza del dolore ha cambiato anche il modo di cercare il piacere e l’umanità sta evolvendo nuovi rudimentali organi. L’ispirazione potrebbe essere arrivata da Nature , che nel 2006 ha riportato la storia di un ragazzo pakistano, che sfruttava la propria insensibilità agli stimoli dolorosi per esibirsi con carboni ardenti, lame, salti nel vuoto. Insensibile non vuol dire invincibile, purtroppo. Il dolore, anzi, serve proprio alla sopravvivenza. Non accorgersi di lesioni e fratture si traduce in disattenzioni fatali e assenza di cure. Il ragazzo, in effetti, è morto tragicamente, lanciandosi da un tetto all’età di quattordici anni.

Studiando lui e i suoi familiari, i genetisti hanno identificato una mutazione che interrompe il segnale mandato dai tessuti danneggiati al cervello. Nessuno vorrebbe questa anomalia nel mondo reale. Ma se invece di mutare in modo permanente il gene interessato, fosse possibile spegnerlo e riaccenderlo, questo sì che sarebbe utile. Non certo per i fastidi comuni, ma per i pazienti oncologici, per le ferite gravi o le malattie dolorose come l’osteoartrite. Gli specialisti di editing genomico ci stanno lavorando, ma è presto per sapere se funzionerà.

Il dolore fa paura, ma anche l’idea di azzerarlo, paradossalmente, può generare inquietudine. Se n’è detto preoccupato persino Putin in un discorso tenuto nel 2017 al Festival della gioventù. Secondo lui disporre di soldati immuni alla sofferenza sarebbe più pericoloso delle armi atomiche (personalmente temo di più gli ordigni russi, nucleari e non). L’idea che insieme alla capacità di soffrire se ne andrebbe qualcosa della nostra umanità, comunque, è abbastanza diffusa. Quando non avevamo rimedi efficaci, ci siamo abituati a considerare il dolore un banco di prova per il carattere, uno stimolo per la crescita personale, una via per l’elevazione spirituale. No pain no gain . E oggi? L’aspirazione a non soffrire è ben visibile nei nostri armadietti traboccanti di farmaci ma ci sono anche strazi evitabili perpetuati per timore della medicalizzazione. Basta pensare all’attenzione insufficiente alle pene dei malati terminali e alla filosofia del «partorirai con dolore».

Il dolore è utile o inutile? Tutt’e due le cose. O meglio, è utile come avvertimento che qualcosa non va o che qualcosa si è rotto ma poi è come una sirena di un allarme che continua ad avvertirti di quello che già sai e quindi puoi spegnerla perché ha esaurito la sua funzione. Poi ognuno fa quello che vuole, ovviamente, e se vi fa piacere conservatevi quel rumore fastidioso nelle orecchie. Ci sono persone che assegnano al dolore significati bizzarri ma legittimi se non hanno la pretesa di convincerci che l’analgesia e l’anestesia non siano le scoperte più importanti dell’umanità. Ogni volta che qualcuno ha nostalgia di un’epoca passata, obietto «ma andavi dal dentista senza anestesia!» (o se andiamo ancora più indietro, andavi da uno con le pinze arrugginite). Eppure la credenza che un giorno quel dolore ti sarà utile, che nobiliterà la tua vita, è ancora molto diffusa. Si banalizza l’aborto se non è doloroso - quante volte lo abbiamo sentito? Ma che cosa vuol dire? È un segno di coraggio, di ardimento, resistere al dolore eroicamente, senza urlare, senza agitarsi, senza minacciare i presenti di recuperare almeno un Valium. Ma perché?

Poi è buffo in questo momento in cui viviamo in un mondo in cui ogni piccola disavventura diventa un trauma mortale, la vulnerabilità è un mito, l’esposizione del vittimismo ha rimpiazzato la testa del cervo nei saloni dei cacciatori. Guarda come sono fragile, guarda come crollo davanti al primo che alza la voce. E se è sciocco considerare la resistenza al dolore come un segno di santità - poi, ripeto, ognuno fa quello che vuole - è forse perfino più sciocco intasare gli ospedali con tagli superficiali scambiati per prodromi di emorragie mortali e con malattie immaginarie. Anticipo una obiezione: ci sono alcuni malati immaginari reali, cioè afflitti da quelle forme di ansia che non hanno una ragione se non nella propria ansia - che è una malattia e non un capriccio.

Uno dei libri più ansiogeni l’ha scritto nel 2014 Scott Stossel e si intitola My age of anxiety: fear, hope, dread, and the search for peace of mind (la traduzione italiana pare il nome di un massaggio ayurvedico purtroppo: Ansia. Paure e speranze alla ricerca di una pace interiore). La storia della sua ansia è la storia di sintomi molto veri e molto spaventosi da fine del mondo. La convinzione della utilità del dolore dopo l’avvertimento non solo non può giustificare l’imposizione o la prosecuzione della sofferenza, se il diretto interessato non vuole, ma nemmeno la riduzione del dolore a una “percezione” - come se bastasse a fartelo passare. Se siete masochisti o volete andare in paradiso grazie al sacrificio sofferente del vostro corpo, siete sempre liberi di farlo. Ma da soli.

·        I Trapianti.

La storia d’amore tra mamma e figlio. Ha un tumore curabile col trapianto, il figlio dona alla mamma parte del fegato: “L’ha rimessa al mondo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Aveva visto sua mamma soffrire e spegnersi lentamente. Quando gli hanno detto che un trapianto l’avrebbe potuta salvare lui non ci ha pensato due volte: le avrebbe donato parte del suo fegato pur di salvarla. Una bella storia di amore tra mamma e figlio successa a Modena dove un 38enne ha donato parte del suo fegato alla mamma 68enne e così le ha permesso di continuare a vivere. A raccontare la bella storia è il Centro Nazionale Trapianti.

“Di norma, sono i genitori a dare la vita ai figli – scrive il Centro Nazionale Trapianti su Facebook – Qualche volta, però, succede il contrario. Come a Modena, dove un uomo di 38 anni ha donato una parte del suo fegato alla madre, colpita da un tumore epatico curabile solo con il trapianto. Una storia d’amore bella come tutte le donazioni da vivente, ma stavolta con qualcosa in più: l’equipe del centro trapianti dell’Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena, guidata da Fabrizio Di Benedetto, ha eseguito il prelievo della porzione di fegato usando esclusivamente un robot”.

Si tratta di uno dei pochissimi casi al mondo in cui è stata usata questa innovativa tecnica, il secondo in Italia. L’intervento ha avuto successo: “È stato talmente poco invasivo che il donatore è tornato a casa dopo solo 48 ore, e la trapiantata dopo 6 giorni: a riprova che la donazione da vivente è un’opzione sicura per chi dona ed estremamente efficace per chi riceve l’organo”, scrive su Facebook il Centro Nazionale Trapianti. E conclude con un’immagine evocativa: “Pensate: il fegato è stato prelevato da una piccola incisione sopra il pube, come in un parto cesareo. E in fondo, questo dono assomiglia proprio a un parto al contrario: quello di un figlio che rimette al mondo sua madre”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da rainews.it il 9 marzo 2022.

È morto il primo paziente al mondo cui fu trapiantato un cuore di maiale geneticamente modificato. L'uomo è deceduto due mesi dopo l'operazione. Lo ha annunciato l'ospedale dell'Università del Maryland, dove David Bennett, 57 anni, era ricoverato. Bennett, spiega un comunicato dell'ospedale, è morto ieri ma le sue condizioni erano cominciate a peggiorare già da alcuni giorni. Quando è stato accertato che non si sarebbe più rimesso gli sono state somministrate cure palliative. 

Il trapianto era stato effettuato venerdì 7 gennaio 2022 e l’operazione sembrava riuscita. Bennett decise di sottoporsi all'operazione chirurgica, ancora sperimentale, perché non aveva alternativa né poteva aspettare il cuore di un donatore umano. Sapeva di essere in un vicolo cieco: «Morire o fare il trapianto. E voglio vivere. So che è un passo nel buio ma è la mia scelta definitiva», disse prima dell'intervento. Il nuovo cuore funzionò e l'organismo non diede segni di rigetto immediato o di eventuali infezioni.  

L'operazione avvenuta nel Maryland ha avuto un vago precedente perché nel 2021 alcuni chirurghi a New York trapiantarono un rene di un maiale geneticamente modificato su una persona cerebralmente morta. Sono anni che gli scienziati lavorano a tecnologie di editing genetico e agli xenotrapianti, ossia i trapianti di organi e cellule da una specie diversa dall'uomo. Negli anni '60 furono trapiantati in alcuni pazienti i reni di scimpanzé, ma il paziente più fortunato visse 9 mesi. Nel 1983, venne trapiantato un cuore di babbuino in un bimbo, ribattezzato Baby Fae, che però visse venti giorni appena. 

I suini offrono il vantaggio di esser facili da allevare e raggiungono le dimensioni adatte a essere trapianti in un corpo umano in appena sei mesi. Considerato che il fenomeno del rigetto è frequente anche con il trapianto da esseri umani, l'obiettivo di utilizzare animali è creare organi in numero sufficiente per rispondere alle esigenze delle migliaia di pazienti che ne hanno bisogno. Anche se questo solleva innumerevoli dubbi di carattere etico e morale.

Stati Uniti, primo trapianto con cuore di maiale geneticamente modificato. Adriana Bazzi su Il Corriere della Sera l'11 gennaio 2022.

Il paziente è il 57enne David Bennett, che per una malattia cardiaca si trovava in condizioni disperate. «O morire o fare questo trapianto», ha detto prima dell’intervento.

Non aveva alternative, David Bennet: morire o accettare un tipo di trapianto mai eseguito prima. Ha scelto la seconda opzione e oggi questo cinquantasettenne americano è diventato il primo uomo al mondo con un cuore di maiale geneticamente modificato.

Condizioni disperate

A tre giorni dall’intervento, eseguito dai medici dell’University of Maryland Medical Center a Baltimora, sta bene, respira da solo e spera di continuare a vivere la sua vita, anche se è prematuro, al momento, fare previsioni. I medici hanno ottenuto uno speciale permesso dalle autorità regolatorie americane per mettere in pratica questa nuova procedura proprio per il fatto che il paziente, altrimenti, non avrebbe avuto possibilità di sopravvivere: nelle sei settimane precedenti il trapianto, non era cosciente ed era collegato a macchinari che lo tenevano in vita, dopo che gli era stata diagnosticata una malattia cardiaca terminale. In quelle condizioni, i medici non procedono a un classico trapianto con organo di donatore, date le scarse chance di sopravvivenza del paziente, e hanno così proposto l’impiego di uno xenotrapianto (appunto con un organo da animale).

La tecnica usata

«È un primo passo verso la soluzione del problema della scarsità di organi», ha commentato Bartley Griffith, uno dei chirurghi che hanno eseguito l’intervento. Da tempo i ricercatori stanno percorrendo la strada della manipolazione genetica degli organi di maiale (l’animale più vicino all’uomo per caratteristiche del suo sistema immunitario, tant’è vero che già da tempo si usano valvole cardiache di maiale da trapiantare nell’uomo), manipolazione oggi resa più semplice grazie alla nuova tecnica del «taglia e cuci del Dna» (CRISPR, ne abbiamo parlato QUI, ndr) che permette di eliminare quei geni, propri del maiale, capaci di innescare nel paziente ricevente un rigetto. Già nell’ottobre scorso chirurghi della New York University Langone, guidati da Robert Montgomery, avevano collegato un rene di maiale, geneticamente modificato, a una paziente con una gravissima malformazione renale e tenuta artificialmente in vita. Dopo l’intervento il rene ha cominciato a funzionare, senza segni di rigetto: i medici hanno monitorato la funzionalità renale per 54 ore prima di staccare la spina alla donna già cerebralmente morta.

Antonio G.Rebuzzi (Professore di Cardiologia Università Cattolica Roma) per il Messaggero il 12 gennaio 2022.  

Il cuore è stato prelevato da un maiale geneticamente modificato e trapiantato nel petto di un paziente americano. Il signor David Bennett, 57 anni del Maryland, aveva una condizione cardiaca così grave da non poter neppure rientrare nella lista d'attesa. È il primo trapianto riuscito di cuore di maiale in un essere umano.  

L'operazione, durata otto ore, si è svolta venerdì scorso a Baltimora, ospedale dell'Università del Maryland. I medici, a distanza di tre giorni, commentano l'evento con soddisfazione. «C'è polso, pressione, è un cuore - fa sapere Bartley Griffith, responsabile del programma di trapianto cardiaco - Il muscolo lavora e sembra normale. Siamo galvanizzati, anche se non sappiamo come andrà a finire. Non è mai stato fatto prima». 

Il cuore del maiale, prima di arrivare all'intervento, è stato sottoposto a modificazioni genetiche tali da prevenire la formazione di anticorpi in grado di alterare l'endotelio (tessuto interno delle arterie) e la coagulazione provocando, quindi, il rigetto. Oltre che sul cuore si stanno facendo sperimentazioni con organi di maiale per arrivare all'innesto di reni, fegato e polmoni. Questa è la sfida dei chirurghi di Baltimora. 

Questa è la nostra sfida dal momento che da noi come, appunto, negli Stati Uniti, i cuori da trapiantare sono pochi e tanti i pazienti in attesa. Obiettivo dei ricercatori, dunque, è stato quello di permettere la produzione di proteine che bloccano il rigetto. A risentire pesantemente degli effetti della pandemia è stata anche l'attività dei trapianti in tutto il mondo. Per questo il lavoro compiuto a Baltimora viene accolto come uno spiraglio di luce. 

Le donazioni, in Italia nel 2020, sono calate del 31% e i trapianti del 22,5% (4 mila in meno rispetto all'anno prima). Una diminuzione che ha colpito tutti gli ambiti di intervento. Sono state, secondo i dati del Centro nazionale trapianti, 3.441 le operazioni effettuate nel 2020, 373 in meno rispetto al 2019. I trapianti di cuore sono stati 239 (-2,4% in dodici mesi). Si contano 8.291 i pazienti iscritti nelle liste d'attesa del sistema informativo trapianti: 670 aspettano un cuore. 

Sarebbe davvero un grande traguardo, è dai primi anni Ottanta che si susseguono tentativi per poter utilizzare cuori di maiali o babbuino nei pazienti cardiopatici gravi. Il primo esperimento è datato 1984, Usa. Venne trapiantato in una bimba di trenta giorni, fu dato il nome Baby Fae, un cuore di babbuino: dopo poche settimane sopravvenne il rigetto. La piccola soffriva con un difetto cardiaco grave conosciuto come sindrome del cuore sinistro ipoplasico. Questo evento ha segnato l'alba dei trapianti di cuore infantile. 

Due anni più tardi si trapiantò un cuore di maiale nel petto di un babbuino ma l'esito fu assolutamente drammatico. La compatibilità era pari a zero. Si cominciarono, così, a sperimentare, per l'organo da innestare, dei farmaci capaci di modulare le incompatibilità dei sistemi immunitari e di coagulazione tra maiale e babbuino. 

Obiettivo era evitare la trombosi e il rigetto. Passo dopo passo si è arrivati, nel 2016, ad utilizzare gli anticorpi monoclonali abbinati a steroidi per far battere a lungo l'organo di suino nel primate. Da allora, una serie di successi ci hanno permesso di cominciare a seguire con fiducia i diversi interventi. Il cuore artificiale, d'altronde, non può rappresentare un realistico futuro terapeutico. 

Nato per fare da ponte verso il trapianto si è rivelato un salvavita a lungo termine. Posizionato all'interno dell'organo del paziente è stato progettato per funzionare al meglio qualche mese, forse un anno. E, invece, causa penuria di donazioni molti devono convivere con un corpo estraneo che, a lungo andare, porta con sé diverse complicazioni. Una strada non percorribile. 

Il cuore artificiale, lo vediamo nella maggior parte dei pazienti, è responsabile di complicazioni neurologiche, infezioni, sanguinamenti, alterazioni della coagulazione. Per non parlare della qualità della vita di queste donne e questi uomini sempre preoccupati che il sistema di alimentazione subisca un'interruzione.

Da liberoquotidiano.it il 16 gennaio 2021.

La storia del primo trapianto di cuore da maiale a uomo ha sconvolto la comunità scientifica e commosso il mondo. Ora però si scopre che il paziente, l'americano David Bennett, ha un passato oscuro: 34 anni fa aveva pugnalato un uomo riducendolo su una sedia a rotelle. E così il "miracolo di Baltimora" sconvolge, sì, ma per un altro motivo. 

A denunciare il tutto in diretta al programma Today di Radio 4, come riporta la Bbc, è stata Leslie Shumaker, sorella di Edward Shumaker ferito alla schiena nel 1988 proprio da Bennett. "Mia figlia mi ha mandato un messaggio con la notizia, aggiungendo: 'Mamma, questo è l'uomo che ha pugnalato lo zio Ed'".

Bennett era stato condannato a 10 anni di carcere per l'aggressione, scatenata da motivi di gelosia: sua moglie si era seduta sulle gambe di Shumaker, scatenando il raptus del marito. Ferito gravemente, Shumaker è rimasto paralizzato, per poi venire colpito da un ictus devastante nel 2005 e morire nel 2007. "Lo si dipinge come un eroe e un pioniere - accusa ora la sorella, riferendosi a Bennett -, ma non è niente di tutto questo. Penso che i medici che hanno fatto l'intervento dovrebbero ricevere gli elogi per quello che hanno fatto, non Bennett".

Trapiantato con un cuore di maiale, cosa c'è dietro la morte? Laura Cataldo il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il 57enne David Bennett aveva accettato di ricevere il cuore di un suino ma dopo due mesi è deceduto. Dopo attenti esami si ipotizza quale possa essere stata la causa.

David Bennett era stato il primo uomo a cui era stato trapiantato un cuore animale, ma solo due mesi dopo l'operazione avvenuta a gennaio il suo stato di salute si è aggravato fino al decesso per cause che fino ad oggi non erano state accertate.

Il mondo della medicina era rimasto impressionato da come l'uomo stava reagendo all'intervento, unico nel suo genere. Il trapianto era stato condotto dai professionisti dell'Università del Maryland e inizialmente non vi era stata alcuna complicazione. L'entusiasmo però è durato poco e la salute dell'uomo è peggiorata portando alla morte il paziente dopo 60 giorni.

L'evento unico

Bennett aveva accettato l'operazione dopo essere stato messo in varie liste d’attesa per ricevere un cuore umano. Data la particolare gravità della patologia di cui soffriva, l'unica soluzione rapida era quella di procedere con il trapianto di un cuore animale, un maiale precisamente. Il paziente dopo l'intervento non ha mostrato alcun segno di rigetto dell’organo geneticamente modificato, ma nonostante stesse bene e avesse cominciato a fare fisioterapia, non era stato ancora dimesso dall'ospedale. Dopo qualche giorno di stazionarietà la situazione è peggiorata in modo sempre più fino al decesso dell'uomo avvenuto lo scorso 8 marzo.

Le analisi sul caso

Pare che i medici abbiano trovato una risposta a ciò che è avvenuto. Gli scienziati del Maryland, dopo vari studi sul corpo della vittima, hanno fatto sapere di aver trovato nell’organismo della vittima tracce di Citomegalovirus Suino, un noto virus che infetta i maiali. La precaria situazione di salute e la presenza del virus nel suo organismo sarebbero state letali.

Le ricerche però non si sono fermate e gli interrogativi rimangono molti. Pare infatti che il cuore del maiale trapiantato fosse stato modificato geneticamente, in modo che il sistema immunitario dell'uomo non rigettasse l'organo animale. Inoltre, prima di effettuare l'operazione, gli scienziati avevano effettuato numerosi screen sul suino per rivelare ogni minima traccia di virus o malattie che potessero mettere a rischio la salute dell'uomo già molto fragile. Dalle prime ricerche i medici non avevano rivelato alcune anomalie e per questo avevano dato il via per l'operazione. La prima segnalazione del virus è avvenuta circa 20 giorni dopo l'intervento, ma non aveva allarmato i medici perché si trovava a un livello quantitativo così basso da far sembrare che si trattasse di un errore. Oggi invece si pensa che proprio il citomegalovirus sia stata la causa che ha provocato il peggioramento dello stato di salute del signor Bennet.

"Abbiamo capito una cosa importante e in futuro probabilmente riusciremo ad evitare il problema, ma dobbiamo proseguire con l’obiettivo di utilizzare organi animali per salvare vite umane", ha detto in un'intervista il dottor Bartley P. Griffith, medico che ha eseguito il trapianto dell'uomo.

Martina Piumatti per “il Giornale” il 22 novembre 2022.

II contatto avviene in rete. Le tariffe variano e si paga in bitcoin. Oggi il grosso del traffico d'organi viaggia su internet, per un giro d'affari complessivo che vale qualcosa come un miliardo e 500 milioni di dollari. Un business globale dai margini enormi che gode di una domanda costante. E che ha in Europa un tassello chiave. Il traffico d'organi è vietato ovunque, tranne che in Iran e Yemen. 

Ma almeno il 10% dei 180mila trapianti praticati ogni anno in tutto il mondo ricostruisce il Global Financial Integrity di Washington, uno dei maggiori centri di analisi delle transazioni illecite - è illegale. Significa che quasi 20mila interventi annui vengono fatti con organi procacciati sul mercato nero.

«La denominazione traffico d'organi - ci spiega Patrizia Borsellino, docente di filosofia del (...) diritto all'Università Bicocca e autrice insieme a Franca Porciani di Vite a perdere. I nuovi scenari del traffico d'organi - comprende principalmente due casistiche. C'è il traffico legato alla tratta di esseri umani, caratterizzato dall'appropriazione violenta degli organi, che il più delle volte porta alla morte delle vittime. 

Poi, c'è un ulteriore livello di aberrazione, dove la coercizione è dettata dalla povertà e dalle estreme condizioni di vita. Qui si parla di compravendita vera e propria perché implica il consenso di chi offre un organo in cambio di denaro, di un viaggio verso l'Europa o di un qualche millantato vantaggio. Che però non c'è mai»

Spesso il traffico d'organi con espianto forzato si intreccia alla tratta di esseri umani che lucra lungo le principali rotte migratorie verso i paesi occidentali e che, secondo il CounterTrafficking Data Collaborative, nel 2021 ha riguardato 156mila casi in 189 stati diversi. Da Libia, Egitto, Libano a Kosovo, Afghanistan, Cina, Africa sub-sahariana, sud-est asiatico.

«Negli Stati membri dell'Unione europea, - sostengono dalla Commissione - è un crimine raro perché, richiedendo una preparazione medica di alto livello, oltre che conservazione e stoccaggio conformi ad elevati standard tecnici, difficilmente passerebbe inosservato». 

Eppure, anche se in Europa il trapianto di organi è strettamente monitorato e registrato, dai database delle persone in lista d'attesa a quelli di organi e donatori, qualcosa riesce a bypassare controlli incrociati. II «mercato rosso», come l'ha definito Scott Carney nel suo libro-inchiesta, non è solo un business illegale che ingrassa sulla pelle e la carne di chi non ha altre chance che vendersi.

Ma anche una rete criminale che sfugge alle maglie strette della legislazione, grazie a una filiera super organizzata che lucra sulla disperazione di chi non ha più niente per vivere (i donatori-venditori) e di chi non può più aspettare i tempi del trapianto legale per sopravvivere (gli acquirenti). 

Poi, al di là dei disperati, c'è un mondo di sciacalli pronti a tutto. Dai procacciatori on-line delle persone a cui espiantare ciò che serve ai fornitori, ai broker che reclutano i compratori e contrattano prezzi e provvigioni, a personale e strutture medico-sanitarie estere compiacenti, che mascherano i trapianti illegali come chirurgia estetica o interventi dentistici.

Fino a vere e proprie agenzie di spedizioni, che consegnano gli organi in 48 ore o che organizzano i viaggi del «turismo trapiantologico» là dove la legge è più morbida e i controlli latitano. Il tutto garantito da un sistema di pagamento in bitcoin studiato per eludere i tracciamenti. Versamenti sotto i 10mila dollari, per non destare sospetti. Poi, il resto si muove attraverso paesi come Francia, Germania e Stati Uniti tramite piccoli pagamenti con i vari servizi di money transfer, difficili da rintracciare. 

E il matching tra domanda e offerta avviene online, attraverso i social media e i siti di blog sui trapianti Il nuovo volto del traffico d'organi è digitale. Basta una semplice ricerca sul dark web. Dai singoli organi spediti ovunque al servizio completo di acquisto, organo con annesso trapianto. In pochi click si trova di tutto. Digitando «organs for sale» compare una sfilza di offerte, tra cui «Wellcome to Organ City», un sito strutturato come un vero e proprio commerce. Di organi. 

Con tanto di foto e recensioni entusiasti. che dei clienti, si vanta di disporre dei migliori medici al mondo provenienti dai più svariati paesi (India, Stati Uniti, Australia, Cina, Emirati Arabi Uniti e Unione europea) e di consegnare ovunque senza alcun problema.

I prezzi vanno dai 50mila dollari per i polmoni ai 100mila per il cuore. Segue poi una spiegazione dettagliata per acquistare bitcoin con carta di credito o per saldare direttamente sul portafoglio di Organ City con QR code da scansionare e inserire. Ultimo passaggio: inviare una mail con la ricevuta per la conferma.

In calce: «Grazie attendiamo di leggerti al più presto, dopo che hai pagato». Gli organi si possono comprare, ma anche vendere. Scandagliando il dark web, compare la Kidney sale foundation, il portale di una sedicente clinica basata in India che millanta di essere l'eccellenza nella compravendita. In pratica, recluta online persone disposte a vendere un rene. 

«Vuoi vendere il tuo rene per soldi? I pazienti, le famiglie hanno messo le loro vite e la loro salute nelle nostre mani e del nostro team del Columbia Asia Hospital India recita lo slogan pubblicitario che campeggia nell'homepage - ed è nostra prima responsabilità proteggerli dai danni con un trattamento di classe mondiale».

Poi, basta prenotare via whatsapp una visita con il loro team di nefrologi «per ottenere un sacco di soldi». Il mercato degli organi non risparmia nemmeno i social network. Da Facebook a Instagram, dove si trovano post di utenti disposti a vendere un pezzo di fegato o un rene per saldare i debiti: «Ho bisogno di fondi il prima possibile, voglio vendere un rene. Per favore, se qualcuno è a conoscenza del luogo o del sito, mi informi appena può. Se vuoi risolvere tutti i problemi di debiti, devi essere pronto a fare sacrifici».

«Sono pronto a donare». Oppure profili che raccolgono brevi annunci sotto 'hashtag #kidneydonor (donatori di rene, ndr). I più si limitano a scrivere il proprio gruppo sanguigno, invitando chi è interessato a contattarli in privato. «Sono 0+. Chi ha bisogno mandi un messaggio in direct».

Poi, ci sono i pacchetti «all inclusive», comprensivi di organo e trapianto. Organs transplants si presenta come il «mercatino nero degli organi per combattere la morte prematura dovuta alle lunghe liste d'attesa per un trapianto». Ma subito dopo avverte: «Tutte le nostre operazioni sono considerate illegali. Lavoriamo sotto copertura con esperti provenienti da tutto il mondo. Il nostro team non è legalmente registrato per operare.

Per questo, non accetteremo accordi documentati e manterremo riservata l'identità dei nostri clienti». La sede è negli Stati Uniti, ma hanno filiali anche in Russia, Francia, India, Indonesia, Australia, Brasile. Mentre accettano clienti di ogni nazionalità, ma preferibilmente da Usa o Europa. La procedura, promettono, è semplice. Per un costo compreso tra 222mila (rene) e 857mila dollari (cuore). 

«Quando è disponibile il donatore, in meno di tre giorni ti verrà inviata un'email con le indicazioni per l'acconto e il luogo dove incontrare il nostro team. Dopo l'intervento, sarai tenuto sotto la nostra unità di terapia intensiva per un adeguato monitoraggio. Non sarà consentita alcuna telefonata». 

Se non ci si fida dei loro esperti, preferendo «il proprio ospedale di fiducia», non c'è problema: «Fai l'ordine online indicando la data dell'intervento e ti consegneremo il tuo organo in tempo».

·        Il Tumore.

Mihajlovic? Un leone, ma stop alla retorica dell'eroe-guerriero. Nell’annunciare la morte di un personaggio famoso, sportivo, artista, politico, intellettuale che sia stato, sui giornali e ancor più sui social media, si ricorre spessissimo alla metafora combattente. Pino Donghi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Dicembre 2022

Molte lacrime per il calcio. Di infinita gioia quelle argentine, sconsolate quelle dei francesi, immensamente tristi e senza facile conforto quelle dei familiari e dei molti tifosi di Sinisa Mihajlovic, l’ex calciatore e allenatore, da ultimo del Bologna, scomparso ventiquattrore prima della finale della Coppa del Mondo in Qatar. Nel ricordare il campione serbo sono stati moltissimi a testimoniare le sue doti di guerriero, e così lo ha salutato anche la premier Giorgia Meloni, «Hai lottato come un leone, in campo e nella vita. Un esempio». Non è la prima volta, anzi. Nell’annunciare la morte di un personaggio famoso, sportivo, artista, politico, intellettuale che sia stato, sui giornali e ancor più sui social media, si ricorre spessissimo alla metafora combattente. Coraggio, forza, determinazione, in qualche caso spavalda accettazione della sfida finale sono celebrati come gli atteggiamenti che, si suggerisce implicitamente, dovrebbero essere assunti da chiunque si trovi nella difficile contingenza di una diagnosi a dir poco severa quanto potenzialmente infausta. E se si entra in una libreria, tra gli scaffali, non sono pochi gli esempi di letterari mémoir redatti da pazienti, non necessariamente illustri, che raccontano - o hanno raccontato, purtroppo - l’ultima e definitiva battaglia. Un genere. Con alcune, non marginali, controindicazioni. Personalmente non ha conosciuto Mihajlovic altro che seguendolo da telespettatore, e che sia stato effettivamente «un leone» tanto da giocatore che da allenatore e, da ultimo, combattendo come un guerriero contro la leucemia che lo aveva colpito, non esito a crederlo. Né, in linea di principio e anche solo assecondando il buon senso, posso dubitare dell’utilità di una risposta proattiva e di un atteggiamento positivo quando ci si trovi nella scomoda condizione di chi riceve una brutta notizia dal proprio medico. Ma non ci si può nemmeno meravigliare se, invece, sia lo sconforto e il timore panico a catturarci. Perché vergognarsi di avere paura? L’esaltazione del coraggio e della forza, la celebrazione dello spirito guerriero può fare credere, del tutto inopportunamente, che siano queste (e solo queste) le caratteristiche che possono contraddistinguere (e scegliere) quello che ce la farà dall’altro destinato a soccombere. Ripeto: avere una disposizione fiduciosa nei confronti della vita, a maggior ragione nelle contingenze avverse, è sicuramente una qualità su cui poter contare, ma di qui a sentirsi in colpa perché non si avverte lo spirito del guerriero ruggire al cospetto del professionista in camice bianco che ci ha appena comunicato che siamo malati di cancro… beh! Di più: potremmo addirittura colpevolizzarci. Com’è che Mihajlovic ha combattuto come un leone mentre io me la sto facendo sotto? Oltre che malato, e grave, sono anche un codardo? Un po’, troppo, in effetti. Un po’ ingiusto.

Di tumore, purtroppo, si muore ancora, ma molto è cambiato. Dagli anni in cui a una diagnosi oncologica si aggiungeva, come fosse un suffisso, una condanna in mesi - tre, sei, massimo dodici - è passato, per fortuna, molto tempo e fenomenali sono stai gli avanzamenti terapeutici. Sempre più spesso capita di incontrare amici, conoscenti, di ascoltare storie di convivenza con la malattia che va avanti per anni, anche tanti. Non è un caso. In oncologia, per la maggioranza degli specialisti, in luogo di una improbabile e definitiva eradicazione della malattia, è proprio la strategia della convivenza quella che si pensa perseguibile: una coesistenza difficile ma non impossibile, e che richiede attenzione, ascolto e molta, tanta pazienza. E senza dimenticare che il medico, qualunque medico, è tenuto a prendersi cura dei propri pazienti, a provare a curarli al meglio delle sue conoscenze e capacità, ma quanto a ottenere la guarigione… solo chi professa con passione la medicina sa quanto è miracoloso, quasi ogni volta. Scandali e mal practise a parte - ci sono anche quelli, e vanno combattuti senza incertezze - non dovremmo mai sottovalutare la difficoltà, ogni volta, per un bravo professionista, di fare la scelta migliore per quel singolo paziente, con quella specifica patologia, nelle sua individuale manifestazione. La medicina o è personalizzata o non è. Ed è difficile. Per fortuna, e tra le tante dichiarazioni di chi Mihajlovic lo ha invece conosciuto, ne ho trovata una autografa dello stesso campione serbo: «Non penso di essere un eroe, sono un uomo normale con pregi e difetti. Ho solo affrontato questa cosa per come sono io, ma ognuno la deve affrontare come vuole e può».

Si può essere eroi anche a colpi di sorriso, non bisogna per forza assumere l’espressione bellicosa del Re della foresta (un consiglio che mi sentirei di rivolgere a molti calciatori, inutilmente rabbiosi). Sarebbe normale gioire per le cose belle. Che detto a qualche giorno dal Natale, credenti o meno, credo si possa condividere. Mille auguri!

Marcatore sangue per diagnosi precoce cancro al rene: la scoperta dell'Uniba. È il risultato di una ricerca effettuata dall’unità di Urologia, Andrologia e Trapianto dell’Università di Bari Aldo Moro: gli esiti sono stati pubblicati sull'ultimo numero della rivista «International Journal of Molecular Sciences 2022». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Dicembre 2022

Grazie all’identificazione e caratterizzazione dal punto di vista molecolare, oggi sarà possibile diagnosticare con maggiore tempestività, attraverso un marcatore del sangue già impiegato, un sottotipo di carcinoma renale molto aggressivo e, sino ad oggi, difficile da individuare. È il risultato di una ricerca effettuata dall’unità di Urologia, Andrologia e Trapianto dell’Università di Bari Aldo Moro: gli esiti sono stati pubblicati sull'ultimo numero della rivista «International Journal of Molecular Sciences 2022». In questo studio - spiega l’Università - i ricercatori e chirurghi hanno identificato e caratterizzato dal punto di vista molecolare un particolare sottotipo di carcinoma renale con caratteristiche di alta aggressività. E’ stato infatti evidenziato che quei tumori renali che iper-esprimono una particolare proteina di membrana chiamata Mucina 1, presentano peculiari alterazioni del metabolismo cellullare e possono essere identificati attraverso il dosaggio di un marcatore presente nel sangue.

Questo marcatore conosciuto col nome di CA15-3, è ampiamente utilizzato nella pratica clinica per la diagnosi e il follow-up delle donne con tumore della mammella. Poiché deriva dalla Mucina 1, i ricercatori baresi hanno scoperto che i suoi livelli si presentano alterati anche in quella sottopopolazione di pazienti con forme più aggressive di carcinoma renale. Questa scoperta è stata validata in una popolazione di quasi 500 pazienti tutti operati presso l’U.O. di Urologia Universitaria del Policlinico di Bari. Gli autori della ricerca sono Giuseppe Lucarelli, Monica Rutigliano, Davide Loizzo, Nicola Antonio di Meo, Francesco Lasorsa, Mauro Mastropasqua, Eugenio Maiorano, Cinzia Bizzoca, Leonardo Vincenti, Michele Battaglia, Pasquale Ditonno. Il carcinoma renale a cellule chiare rappresenta il tumore maligno più frequente del rene ed uno dei tumori più aggressivi dell’uomo. La mancanza di sintomi specifici e la sua spiccata resistenza ai farmaci chemioterapici lo rendono uno dei tumori più difficili da diagnosticare e da trattare.

L’impatto economico del mieloma multiplo: oltre 10 mila euro l’anno per pazienti e caregiver. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2022.

Spese per assistenza, farmaci e visite specialistiche si aggiungono a giornate di lavoro perse e ridotta capacità produttiva. Il 53% dei malati e il 24,5% dei familiari ha dovuto abbandonare il proprio impiego

Riduzione e abbandono dell’attività lavorativa, perdita delle giornate di lavoro e calo della capacità produttiva che ammontano a oltre 8mila euro di costi indiretti per il paziente ogni anno. In aggiunta costi diretti sanitari e non sanitari annui di oltre 2mila euro dovuti principalmente a spese per l’assistenza personale, l’acquisto di farmaci e le visite specialistiche. Il mieloma multiplo, la seconda neoplasia ematologica per incidenza, quindi non solo comporta un impatto negativo a livello fisico e psicologico per il paziente ma è caratterizzato da «tossicità finanziarie» che si traducono in difficoltà economiche sia per i pazienti che i caregiver. Sono questi i principali risultati dell’indagine «Viaggio nei costi accessori sostenuti da pazienti e caregiver di mieloma multiplo», promossa da dell'Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail), in collaborazione con l’EMN Research Italy, il Centre for economic and international studies and HTA (EEHTA) CEIS di Tor Vergata e con il contributo non condizionante di Sanofi e Takeda, che si pone l’obiettivo di fornire degli strumenti di riflessione per i clinici e le istituzioni per poter ottimizzare i processi di gestione del mieloma multiplo e delle risorse utilizzate, così da poter migliorare la qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie, oltre che l’efficienza del Sistema nel suo complesso.

Pazienti e familiari costretti a lasciare il lavoro

Il «viaggio» tra i costi economici diretti e indiretti dei pazienti con mieloma multiplo e dei loro caregiver è stato realizzato attraverso un questionario messo a punto da un gruppo di esperti costituito da ematologi di rilievo nazionale, distribuito in versione cartacea e online a pazienti afferenti ai vari Centri di ematologia dell’EMN Italy - European myeloma network Italy e ai loro caregiver. «Il mieloma è una di quelle patologie per le quali è più pressante la necessità di indagare a fondo le esigenze e le richieste dei pazienti proprio per il forte “peso” che questa malattia ha sulla vita delle persone colpite e del loro nucleo familiare. Per questo Ail si è fatta promotrice di questo “viaggio” — afferma Giuseppe Toro, presidente nazionale Ail —: i dati emersi dall’indagine saranno motivo di attenta riflessione da parte nostra, dei clinici e dei pazienti. In particolare, un dato ci ha colpito: l’impatto della malattia sull’attività lavorativa di pazienti e caregiver. Il 53,1% dei pazienti e il 24,5% dei caregiver sono costretti ad abbandonare il proprio lavoro. Riteniamo sia necessario intervenire in questo ambito con azioni di politiche sociali per mitigare l’emorragia di risorse a scapito della qualità di vita dei pazienti e caregiver».

I costi

Il mieloma multiplo è caratterizzato da un costo elevato della malattia rispetto ad altri tipi di tumore sia per il paziente che per il Sistema. «Complessivamente, i costi totali annui per un paziente sono stati stimati pari a 10.438 euro, dei quali il 78% relativo a costi indiretti, dovuti ad assenteismo e presenteismo, e il 22% a costi diretti sanitari e non sanitari — illustra Francesco Saverio Mennini, direttore EEHTA-CEIS all'Università di Roma Tor Vergata e presidente della Società italiana di health technology assessment —. I costi sono risultati strettamente legati all’età del paziente: molto più alti per i pazienti in età lavorativa (circa 11.886 euro), più bassi per le fasce d’età più anziane, per le quali i costi indiretti erano dovuti al caregiver (circa 2.628 euro). A questo dato è importante aggiungere quello relativo al sistema previdenziale. Tra il 2014-2019 è stato registrato un incremento dei beneficiari di assegni ordinari di invalidità (+35%), accompagnato da una riduzione dei beneficiari di pensioni di inabilità (-3%). Questo ha determinato un incremento del 43% dei costi sostenuti dal sistema previdenziale per gli assegni ordinari. Se confrontati con i valori relativi alle altre patologie oncologiche, il mieloma è secondo solo al tumore al polmone, evidenziando una volta di più l’impatto tanto in termini di costi che di disabilità che provoca questa patologia». 

Le terapie

In Italia si stimano circa 6mila nuovi casi annui e sono poco più di 35mila le persone che convivono con la patologia e che sono in trattamento o in follow-up presso Istituti di cura universitari o ospedalieri. Grazie ai molti progressi fatti nelle terapie, i pazienti oggi vivono più a lungo: «La sopravvivenza — spiega Mario Boccadoro, Università di Torino, vice presidente European myeloma network (EMN) — è cambiata negli ultimi 5-10 anni in modo importante, aumentando da tre a cinque volte. I pazienti che abbiamo iniziato a curare 10 anni fa hanno sopravvivenze da 8 a 10 anni. Nel frattempo, la ricerca è andata avanti e le terapie sono ancora migliorate, con risposte complete dal 20 al 70%; quella che sarà la sopravvivenza che saremo riusciti a ottenere con i risultati degli ultimi due-tre anni la vedremo tra 10 anni». Attualmente per i pazienti più giovani, o che sono in buone condizioni di salute, senza comorbidità e sotto i 70 anni, il trapianto autologo è la terapia d’elezione. Il trapianto viene effettuato dopo una preparazione con farmaci che servono a ridurre il numero delle cellule maligne (induzione): si possono usare associazioni di quattro farmaci che rendono sempre più profonda la risposta; al trapianto segue una terapia di mantenimento con un farmaco orale. Per i pazienti più anziani con patologie associate, si utilizzano le ultime generazioni di anticorpi monoclonali, inibitori del proteosoma, immunomodulanti e cortisone. 

L'impatto della malattia

Il mieloma multiplo ha un impatto pesante sulla vita quotidiana dei pazienti dal momento della diagnosi e in seguito a causa del dolore persistente e delle complicanze associate. «Il paziente subisce un primo, importante shock al momento della diagnosi: sentirsi comunicare una diagnosi di mieloma, che oggi è curabile ma è pur sempre ancora inguaribile, è molto angosciante — sottolinea Daniele Derudas, dirigente medico nell'Ematologia e Centro trapianti midollo osseo dell'Ospedale oncologico di riferimento regionale «Armando Businco» di Cagliari —. In seguito, dato che la malattia interessa diversi organi, il paziente ne subisce le conseguenze nel lungo periodo. L’interessamento scheletrico di solito è molto diffuso con lesioni ossee, fratture e naturalmente il dolore persistente è l’aspetto che più condiziona la quotidianità e la psiche dei pazienti e che impatta in modo molto significativo sulla qualità della vita. I pazienti possono perdere l’autonomia e tendono ad avere sempre più bisogno degli altri per svolgere alcune normali attività come recarsi in ospedale per i controlli, alzarsi dal letto, fare la spesa. Tutto questo mina l’autostima e la fiducia in sé stessi». 

Ospedali vicino casa

Dall’indagine emerge anche un dato positivo: il 52% dei pazienti riesce a curarsi nel Centro di riferimento vicino alla propria residenza e non ha necessità di spostarsi. La rete dei Centri di ematologia è quindi ben distribuita sul territorio nazionale. Il 42% degli interpellati ha fatto brevi spostamenti e solo per il 6% recarsi in un’altra Regione ha comportato la necessità di trovare un alloggio: il 10% di questi ultimi ha trovato accoglienza a titolo gratuito nelle Case alloggio dell’Ail. «Ail è da sempre accanto ai pazienti e alle famiglie, sostenendo la ricerca scientifica e offrendo supporto e servizi di assistenza sul territorio — ricorda il presidente Toro —: trasporto (2.221 viaggi solidali, 9.054 trasporti da e verso l’ospedale), assistenza domiciliare, supporto psicologico, accoglienza gratuita nelle Case alloggio per pazienti e caregiver (2.304 persone ospitate in un anno); tutte attività indispensabili per ridurre i costi indiretti e aiutare le famiglie più vulnerabili a contrastare le spese che gravano il peso della patologia». «I gruppi Ail Pazienti, infine, portano avanti da tempo attività di empowerment per malati e familiari e attività rivolte alla tutela dei diritti del malato ematologico — conclude Felice Bombaci, coordinatore nazionale gruppi Ail Pazienti —: un lavoro che richiede impegno continuo e ha un valore molto importante per la nostra associazione. Oltre a fornire terapie, però, bisogna prendersi cura della “persona” e dei suoi bisogni, perché la vita dopo una diagnosi di tumore del sangue deve continuare e i pazienti hanno molte altre esigenze oltre a farmaci, visite mediche ed esami. Il nostro compito è affiancare le persone malate al di là dell’aspetto medico e assistenziale; una diagnosi di mieloma multiplo comporta problematiche sociali, lavorative, economiche. La vita della famiglia continua e una patologia non deve impedire lo sviluppo di progetti che ogni persona ha per il suo futuro».

Numeri allarmanti ma aumenta la sopravvivenza. Tumori in aumento, oltre 14mila casi in più in due anni: le cattive abitudini peggiorate con il Covid. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Dicembre 2022

Il tumore al seno resta quello più diffuso, seguito da colon-retto, polmone, prostata e vescica. I numeri delle persone che si ammalano di tumore sono allarmanti: nel 2022 si stimano 390.700 nuovi casi con un incremento di 14.100 casi in due anni. Che significa più 1000 nuovi casi al giorno. Complice dell’aumento dei numeri anche la pandemia che ha ostacolato la prevenzione: le persone solo recentemente sono tornati a fare screening come prima. Sono questi i dati de “I numeri del cancro in Italia 2022″, il censimento ufficiale, giunto alla dodicesima edizione, che descrive gli aspetti relativi alla diagnosi e terapia delle neoplasie grazie al lavoro dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori), Fondazione AIOM, Osservatorio Nazionale Screening (ONS), PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), PASSI d’Argento e della Società Italiana di Anatomia Patologica e di Citologia Diagnostica (SIAPeC-IAP).

Nel 2020 le nuove diagnosi erano 376.600, per quest’anno si stimano, invece, 390.700 nuove diagnosi di cui 205.000 negli uomini e 185.700 nelle donne. “Come emerge dall’analisi, a seguito di decenni caratterizzati da notevoli progressi, la pandemia di Covid-19 ha determinato una battuta d’arresto nella lotta al cancro, causando in Italia, nel complesso, un forte rallentamento delle attività diagnostiche in campo oncologico, con conseguente incremento delle forme avanzate della malattia. Questi ritardi sicuramente influiranno sull’incidenza futura delle patologie neoplastiche”, ha detto Orazio Schillaci, Ministro della Salute nella prefazione del volume.

Secondo il report il tumore più frequentemente diagnosticato nel 2022, è il carcinoma della mammella (55.700 casi, +0,5% rispetto al 2020), seguito dal colon-retto (48.100, +1,5% negli uomini e +1,6% nelle donne), polmone (43.900, +1,6% negli uomini e +3,6% nelle donne), prostata (40.500, +1,5%) e vescica (29.200, +1,7% negli uomini e +1,0% nelle donne). “Queste stime per l’Italia per il 2022 sembrano indicare un aumento del numero assoluto dei tumori, in gran parte legato all’invecchiamento della popolazione, in apparente contrasto con l’andamento decrescente dei tassi di incidenza osservato se, ipoteticamente, si considera invariata l’età dei cittadini. Questi dati aggiornati invitano sempre di più a rafforzare le azioni per contrastare il ritardo diagnostico”, ha detto Saverio Cinieri, presidente Aiom.

Grande importanza anche ai numeri degli screening che dopo la pandemia sono tornati ai livelli di prima. Il problema è che proseguono a velocità differenti: quello mammografico raggiunge la copertura del 46%, per il colon-retto (ricerca del sangue occulto nelle feci) del 30% e per la cervice uterina del 35%. In aumento anche gli interventi chirurgici. “Questa edizione contiene l’aggiornamento al 2021 dell’indagine contenuta nella scorsa edizione sull’impatto dell’infezione da SARS-CoV-2 sugli interventi chirurgici dei tumori della mammella e del colon-retto – evidenzia Guido Mazzoleni, Azienda Sanitaria di Bolzano, Registro Tumori di Bolzano, Referente SIAPeC-IAP. I risultati aggiornati fanno emergere, in generale e per entrambi i tumori, un aumento dei casi operati nel 2021 rispetto al 2020 e un incremento della percentuale dei tumori pTis, cioè in stadio iniziale, nel 2021 rispetto agli anni precedenti, sia nella mammella che nel colon-retto, a conferma di una ripresa degli screening oncologici”.

L’aumento del numero dei casi è dovuto si all’aumento degli screening, ma secondo gli oncologi anche a stili di vita scorretti: il 33% degli adulti è in sovrappeso e il 10% obeso, il 24% fuma e i sedentari sono aumentati dal 23% nel 2008 al 31% nel 2021. Nel 2021 in Italia, il 52% dei 18-69enni consuma 1-2 porzioni di frutta o verdura al giorno, il 38% consuma 3-4 porzioni, mentre solo il 7% ne consuma la quantità raccomandata dalle linee guida (cinque porzioni al giorno). “Per quanto riguarda i fattori di rischio comportamentali – ha sottolineato il ministro Schillaci – i dati raccolti durante il biennio 2020-2021 segnano un momento di accelerazione per lo più in senso peggiorativo. Si tratta di un dato che non può non destare preoccupazione se si considera che il 40% dei casi e il 50% delle morti oncologiche possono essere evitati intervenendo su fattori di rischio prevenibili, soprattutto sugli stili di vita”. E queste cattive abitudini sarebbero aumentate con il Covid.

Una buona notizia c’è: a fronte dei 2 milioni e mezzo di cittadini che vivevano in Italia nel 2006 con una pregressa diagnosi di tumore, si è passati a circa 3,6 milioni nel 2020, il 37% in più di quanto osservato solo 10 anni prima. L’aumento è stato particolarmente marcato per coloro che vivono da oltre 10 o 15 anni dalla diagnosi. Nel 2020, circa 2,4 milioni di persone (65% del totale) hanno ricevuto la diagnosi da più di 5 anni, mentre 1,4 milioni (39% del totale) da oltre un decennio. Sono oltre un quarto (27%) le persone guarite tra quelle che vivono dopo una diagnosi di tumore.

Ma c’è un’altra questione a fare da contropartita: le difficoltà concrete che i pazienti oncologici incontrano e per i quali è indispensabile pensare a una legge. “In Italia i pazienti oncologici guariti rischiano ancora di incontrare concrete difficoltà quando, ad esempio, cerchino di stipulare un’assicurazione sulla vita o richiedano un mutuo o un finanziamento bancario. Ecco perché è fondamentale attuare, anche in Italia, una legge sul ‘Diritto all’Oblio’, seguendo l’esempio di altri Paesi europei”, dichiara Giordano Beretta, presidente Fondazione Aiom.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Cancro al fegato, individuata una firma molecolare che predice l’efficacia dell’immunoterapia. Valentina Guglielmo su La Repubblica il 13 Dicembre 2022.

Uno studio, in parte italiano, ha identificato 11 geni in grado di predire la risposta all’immunoterapia. Che in futuro potrebbe permettere il trapianto di fegato anche in alcuni casi oggi esclusi da questa possibilità

Individuare i pazienti con tumore al fegato che rispondono meglio all'immunoterapia. A renderlo possibile è uno studio, in parte italiano, che ha identificato per la prima volta una firma molecolare del carcinoma epatico che predice al sensibilità a questi farmaci. Una scoperta importante se si considera che, anche grazie ad essa, la Società europea per il trapianto degli organi (Esot) ha deciso di includere l’immunoterapia per i tumori del fegato come trattamento neo-adiuvante (che si esegue prima della chirurgia) nelle sue prossime linee guida: un cambiamento che potrebbe consentire il trapianto in alcuni casi oggi esclusi da questa possibilità.

Una firma molecolare per prevedere l’efficacia dell’immunoterapia

Nello studio pubblicato su Gastroenterology, i ricercatori - tra cui Vincenzo Mazzaferro, Direttore della Struttura Complessa di Chirurgia Epato-Gastro-Pancreatica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) e professore di chirurgia all’Università di Milano (UniMi) - hanno individuato una sorta di “etichetta molecolare” in grado di determinare a monte la probabilità di successo dei farmaci immunoterapici. “Abbiamo identificato una firma molecolare predittiva, denominata IFNAP, che è costituita dalla combinazione di undici geni”, spiega Mazzaferro: “Questa firma predice la sensibilità delle cellule tumorali del carcinoma epatico alla classe di farmaci immunoterapici anti-PD1, indipendentemente dall’origine del tumore stesso”.

Per identificare la presenza della firma molecolare IFNAP sul tumore, gli scienziati hanno testato due metodi: una biopsia prognostica eseguita direttamente sul tessuto tumorale e una biopsia liquida, in grado di identificare e prelevare frammenti di cellule tumorali nel sangue. Quest’ultima, come mostra un secondo studio pubblicato su Gut, si è mostrata in grado di identificare correttamente i pazienti trattabili nel 90% dei casi. Con un indubbio vantaggio anche per il paziente che viene sottoposto solo a un prelievo di sangue.

L’immunoterapia nel tumore del fegato

I farmaci immunoterapici negli ultimi anni stanno giocando un ruolo sempre più importante nel trattamento di tumori prima considerati incurabili. Si tratta di una terapia che potenzia l’azione del sistema immunitario reclutando un gran numero di cellule in grado di riconoscere e distruggere le cellule tumorali. Il problema, nel caso del tumore al fegato, è che solo il 20% dei pazienti trattati risponde in maniera positiva, e fino ad ora la ricerca non è stata in grado di identificare da quali fattori dipenda l’esito. Ecco perché aver individuato una firma molecolare in grado di predire l’efficacia dell’immunoterapia è tanto importante.

Potenziare l’efficacia dei farmaci immunoterapici

Oltre a identificare in quali casi l’immunoterapia può funzionare per combattere il tumore al fegato, i ricercatori stanno anche studiando le strategie per aumentarne l’efficacia, come dimostra un'ulteriore ricerca pubblicata sempre su Gut. “Trattamenti fisici quali la radio-embolizzazione possono preparare il terreno alla terapia vera e propria - prosegue Mazzaferro -. In pratica, stimolano la produzione di antigeni specifici tumorali, in grado di attivare gruppi di cellule immunocompetenti contro il tumore, che verranno quindi potenziati dai farmaci immunoterapici”. 

La decisione dell'ESOT

Questi studi non solo ampliano il ventaglio di possibilità di soluzioni terapeutiche per la cura del tumore epatico - attualmente la quinta più frequente causa di morte per cancro a livello mondiale – ma possono cambiare l’approccio strategico al trattamento di questa tipologia di tumore. “Ci vorranno ancora ulteriori ricerche per ottenere terapie sempre più personalizzate”, conclude Sherrie Bhoori, specialista in gastroenterologia ed epatologia dell’INT - ma è significativa la decisione della European Society for Organ Transplantation: esaminati i risultati dei lavori scientifici, è stato approvato l’inserimento dell’immunoterapia neo-adiuvante nelle prossime Linee Guida europee. Questo approccio terapeutico diventa quindi una tra le possibili strategie da adottare in casi selezionati, in particolare quando è presente la firma molecolare”.

Colangiocarcinoma, il tumore delle vie biliari che dà pochi sintomi (vaghi) e cresce molto velocemente.  Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022

Solo il 25% dei malati è candidabile alla chirurgia salvavita e fare riferimento a Centri di esperienza è fondamentale, insieme ai test genetici, per scegliere le strategie terapeutiche più efficaci per i singoli pazienti

È un tumore raro e subdolo, perché non dà sintomi iniziali e cresce molto rapidamente. Viene così riconosciuto spesso quando è ormai in fase avanzata e difficile da curare. Per questo il colangiocarcinoma resta un «nemico ostico»: solo un paziente su quattro è, infatti, candidabile alla chirurgia salvavita. Inoltre, sebbene siano ormai conosciute diverse mutazioni genetiche che rendono la malattia potenzialmente trattabile con nuovi farmaci a bersaglio molecolare, il test di profilazione molecolare non viene ancora non garantito a tutti i pazienti dal Servizio sanitario nazionale. A richiamare l'attenzione su questa neoplasia, diagnosticata a oltre 5mila italiani ogni anno, sono i pazienti stessi, protagonisti e testimoni al primo convegno nazionale sul colangiocarcinoma promosso e organizzato dall'Associazione italiana colangiocarcinoma (APIC), una delle tre associazioni pazienti a livello mondiale, con l’americana Cholangiocarcinoma Foundation e l’inglese AMMF.

Che cos'è il colangiocarcinoma

L’incontro, di recente tenuto a Bologna, è stato un momento di confronto aperto tra malati, specialisti e associazioni per accendere i riflettori su una neoplasia misconosciuta persino tra gli stessi medici e di cui si parla poco. Il colangiocarcinoma è una neoplasia maligna che ha origine dalla proliferazione rapida e incontrollata dei colangiociti, le cellule che costituiscono le pareti dei dotti biliari. I dotti biliari sono i canali che trasportano la bile dal fegato all’intestino e, in base alla sede d’insorgenza del tumore, si distinguono i colangiocarcinomi intraepatici (se si sviluppano all’interno del fegato) ed extraepatici (se nascono dalle vie biliari esterne). Colpisce soprattutto gli uomini, in particolare dopo i 70 anni, ma è sempre più frequente rispetto al passato la sua comparsa in giovani adulti. A complicare le cose c'è il fatto che la malattia è spesso caratterizzata da sintomi generici (come per esempio dolore addominale, perdita di peso, nausea, un generale senso di debolezza e stanchezza), che possono essere facilmente sottovalutati o confusi con quelli di altre patologie.

Esordio fulmineo

«L’informazione può fare la differenza — dice Paolo Leonardi, presidente di APIC, nata nel 2019 per offrire un punto di riferimento ai malati, con aggiornamenti continui su terapie e centri specializzati —: siamo di fronte a un tumore che non dà segni di sé, se si eccettuano i casi di ittero con una colorazione giallognola delle sclere degli occhi e della pelle che compare in una fase già avanzata di malattia. E che cresce velocemente: raddoppia il suo volume ogni 28 giorni, portando a morte in pochi mesi (a 5 anni dalla diagnosi è vivo soltanto il 16% dei pazienti, ndr), se non si interviene in modo tempestivo. È necessario indirizzare i pazienti a Centri specializzati e a chirurghi competenti ed esperti, perché si tratta di una chirurgia molto delicata e complessa». L'intervento è il primo passo fondamentale per poter sperare nella guarigione, ma non sempre è praticabile per via della diagnosi tardiva. In ogni caso è fondamentale farsi curare in un Centro con esperienza, sia nell’operazione (non semplice per la complessità stessa dell’area in cui si trova la neoplasia) sia nella diagnosi e nelle cure, che richiedono un team multidisciplinare di professionisti esperti in questa specifica patologia.

Test genetici e nuove cure

La ricerca scientifica negli ultimi anni ha evidenziato che, nel complesso, circa la metà dei colangiocarcinomi presenta una o più mutazioni potenzialmente trattabili con farmaci a bersaglio molecolare. Come nel caso dell’alterazione del gene FGFR2, la più frequente, per la quale oggi esiste (ed è già rimborsata in Italia) una nuova cura per i pazienti con malattia avanzata localmente o metastatica e già trattati con chemioterapia, che riduce le dimensioni del tumore e porta a un miglioramento della sopravvivenza mediana di oltre un anno e mezzo. «Per questo tutti i pazienti andrebbero sottoposti a profilazione molecolare per identificare eventuali mutazioni genetiche (con la metodica NGS, cioè Next Generation Sequencing, in grado di utilizzare pannelli di grandi dimensioni rispetto al modello “singolo gene”, migliorando la capacità di catturare le mutazioni molecolari), ma purtroppo ad oggi i test genetici non sono rimborsati dal Ssn nonostante siano necessari per prescrivere le nuove terapie mirate a bersaglio molecolare — conclude Leonardi —. Infine c’è il grande problema dei nuovi farmaci: i tempi di approvazione in Italia sono lunghissimi, anche tre anni, mentre chi ha un colangiocarcinoma non può aspettare. APIC intende creare attorno ai malati e alle loro famiglie una rete di supporto affinché non si sentano soli e intende spingere sulle autorità regolatorie per abbreviare il più possibile i tempi di approvazione dei farmaci innovativi».

Le era stato diagnosticato un sarcoma di Ewing. Chi è Alice Manfrini, la storia della 24 enne stroncata da un tumore: aveva raccontato sui social la sua malattia. Elena Del Mastro su Il Riformista il  16 Novembre 2022 

Aveva trovato la forza di combattere e, attraverso i social, un modo per esorcizzare la malattia. Così Alice Manfrini, 24 anni, aveva iniziato a raccontare la sua vita e la sua battaglia contro un tumore, il sarcoma di Ewing, una neoplasia rara e aggressiva tipica di adolescenti e giovani adulti, spesso diagnosticata quando è già in stadio avanzato. È morta il 7 novembre, a Bologna, la sua città. Già dai primi di novembre sui social circolavano messaggi di cordoglio, ma solo qualche giorno dopo la notizia ufficiale è rimbalzata sui social. Alice era amata e conosciuta in tutta Italia.

Il sarcoma le è stato diagnosticato a febbraio 2021, il giorno dopo l’ultimo esame all’università. La prima chemio l’aveva fatta mentre preparava la tesi di laurea in Economia, poi ha combattuto con forza tra cinque cicli di chemio e vari interventi chirurgici. Ha affrontato quell’incubo con ottimismo raccontando la sua quotidianità su TikTok. Il suo profilo era seguito da oltre 48mila persone, alcuni video hanno raggiunto anche un milione di visualizzazioni. L’ultimo video appena 15 giorni fa non la ritraeva in volto ma sulle immagini di un gattino che gioca aveva raccontato ai suoi follower il suo stato di salute. Non era mai apparsa abbattuta o triste, ma sempre in lotta e positiva che tutto si sarebbe sistemato.

I primi sintomi per lei sono arrivati a giugno 2021 con un dolore al ginocchio. Dalle prime radiografie non era emerso nulla. Poi i dolori diventarono via via più forti e insopportabili. “A ottobre —raccontava in una lunga intervista a Today — ho preso il Covid e sono stata ferma un mese. Dopo ho provato a prenotare, ma i centri erano pieni perché dovevano recuperare il lavoro perso nel lockdown”, E così solo a febbraio arriva la diagnosi: sarcoma di Ewing.

Raccontava di se da casa, dall’ospedale, dall’auto, aggiornava i follower sul risultato delle analisi e sul suo stato d’animo. Raccontava che l’idea di raccontarsi sui social le era venuta durante le lunghissime ore in ospedale e nei momenti da sola che il Covid aveva reso in quel periodo molto frequenti. “Sdrammatizzare is the way – aveva detto – Questa è la mia routine: mi sveglio, so di essere così e non ne faccio un dramma”. Il seguito che ah avuto è stato impressionante.

“Mai mi sarei aspettata un simile riscontro – aveva detto, come riportato dal Corriere – Sdrammatizzare mi è venuto naturale perché sono cresciuta in una famiglia ironica ed autoironica. E mai avrei voluto che passasse un messaggio vittimistico. Il mio ragazzo, poi, è il re della burla. Mi aiutano molto le parole che mi scrivono le persone. Leggo tutti i commenti e cerco di rispondere a più persone possibile. Se quello che faccio può essere d’aiuto è per me ragione di grande felicità. Oltre ad essere un modo per invitare alla prevenzione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Fibroma uterino, trovato nesso con la presenza di ftalati nell'ambiente. Noemi Penna su La Repubblica il 16 Novembre 2022.

I ricercatori sono riusciti a dimostrare il nesso causale tra questa neoplasia benigna e gli ftalati ambientali, sostanze chimiche tossiche presenti in decine di prodotti di consumo quotidiano

Il fibroma uterino è il tumore femminile benigno più comune: colpisce una donna su tre e anche se nella maggior parte dei casi passa inosservato, può portare a sanguinamento, anemia, aborti spontanei e infertilità. Per la prima volta, i ricercatori della Northwestern Medicine hanno dimostrato un nesso causale tra questa neoplasia benigna e gli ftalati ambientali, sostanze chimiche tossiche presenti in decine di prodotti di consumo quotidiano.

Cosa sono e a cosa servono gli ftalati

Gli ftalati sono universalmente riconosciuti come tossici ma vengono comunque adoperati, soprattutto a livello industriale. Vengono aggiunti alle materie plastiche per migliorarne flessibilità e modellabilità, ma si trovano ovunque, dai rivestimenti delle auto agli smalti per unghie così come nei farmaci e nei contenitori alimentari.

In Europa sono in parte vietati, limitati o soggetti a restrizioni in concentrazione superiore allo 0,1%. È di pochi giorni fa il richiamo e il ritiro dal mercato italiano di lotti di palloncini per bambini proprio per la presenza di ftalati vietati.

Questi divieti però non si applicano agli articoli esclusivamente per uso industriale, agricolo o all'aperto a condizione che nessun materiale entri in contatto con la mucosa o la pelle umana, così come a tutti gli articoli acquistati all'estero o immessi sul mercato prima del 7 luglio 2020.

La dispersione nell'ambiente

Ora questa ricerca appena pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences accende i riflettori anche sulla loro dispersione nell'ambiente.

"Sono più che semplici inquinanti ambientali e possono causare danni specifici ai tessuti umani", spiega Serdar Bulun, primario di Ostetricia e ginecologia della Feinberg School of Medicine della Northwestern University, autore principale della ricerca. "Gli ftalati sono ovunque, compresi gli imballaggi alimentari, i prodotti per i capelli e il make-up, e il loro utilizzo non è vietato qui negli Stati Uniti".

Il Dehp, interferente endocrino

Il nuovo studio ha rilevato che le donne con un'elevata esposizione a determinati ftalati come il dietilesilftalato - il Dehp, il plastificante più frequentemente utilizzato per ammorbidire i dispositivi medici in pvc - mostrano una crescita maggiore e altrimenti ingiustificata dei fibromi uterini. E i ricercatori sperano possa essere un motivo in più per vietare definitivamente questi prodotti chimici.

Precedenti studi epidemiologici avevano già indicato un'associazione tra l'esposizione agli ftalati e la crescita del fibroma uterino, ma "ora siamo riusciti a trovare i meccanismi alla base di questo legame", annunciano i ricercatori americani.

Il Dehp è a tutti gli effetti un interferente endocrino in grado di scatenare un percorso ormonale che attiva la via della chinurenina. Il sistema endocrino partecipa alla regolazione di numerose funzioni fisiologiche dell'organismo come la riproduzione, l'immunità e il comportamento umano attraverso gli ormoni. Ecco perché gli interferenti endocrini possono causare effetti avversi, spegnendo oppure modificando i segnali inviati dagli ormoni.

In questo caso specifico, il dietilesilftalato può controllare le chinurenine che agiscono legandosi a un recettore, Ahr, che si trova sul citoplasma delle cellule e funge da interruttore: di solito ci protegge da reazioni autoimmunitarie pericolose, ma serve anche al tumore per sottrarsi alle difese dell'organismo.

"È interessante notare come Ahr sia anche il recettore degli idrocarburi arilici e come l'uso della diossina durante la guerra del Vietnam abbia causato significative anomalie riproduttive nelle popolazioni esposte", sostiene Bulun, ipotizzando un altro possibile "attivatore" dei fibromi uterini.

l Dehp può passare al feto in gravidanza

A livello internazionale, il Dehp è lo ftalato più utilizzato. "Sebbene ci sia stata una crescente preoccupazione e alcune restrizioni siano state attuate nei paesi dell'Unione Europea, è ancora ampiamente utilizzato per il confezionamento di prodotti alimentari e sanitari negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Può essere rilasciato gradualmente dai prodotti di consumo in ambienti interni come case, scuole, asili nido, uffici e automobili. Si deposita sui pavimenti e su altre superfici e può accumularsi in polvere e aria che inaliamo e tocchiamo. Durante la gravidanza, poi, il Dehp può anche passare al feto", conclude il ginecologo, convinto del fatto che bisogna far qualcosa al più presto per limitarne l'utilizzo e la diffusione nell'ambiente.

Ideato in Italia, testato in Usa: il vaccino anticancro salva 9 persone su 12. Vito Salinaro su Avvenire il 12 novembre 2022.

Funziona come un cavallo di Troia. Si avvale di farmaci immunoterapici per eludere le difese del cancro e porta in circolo le istruzioni perché il sistema immunitario riconosca il nemico e lo aggredisca in modo più selettivo e potente di quanto sperimentato sinora, innescando anche una memoria capace di reagire, a distanza di anni, ad eventuali recidive della malattia. È questa la potenzialità del vaccino anti-cancro studiato nel laboratorio di Immunoregolazione Armenise-Harvard dell’Italian Institute for Genomic Medicine che ha sede nell’Istituto oncologico di Candiolo, alle porte di Torino, in collaborazione con la biotech italo-svizzera Nouscom.

Sperimentato per la prima volta negli Stati Uniti, dove si sta concludendo la fase 1, su 12 pazienti affetti da un sottotipo di cancro del colon, con metastasi diffuse, e non più rispondenti ad alcuna terapia, l’antidoto ha ottenuto risposte straordinarie: a distanza di più di due anni dall’inoculazione, 9 pazienti stanno bene; in alcuni al momento non c’è più traccia della malattia, in altri il male è regredito. Solo 3 non ce l’hanno fatta: «Il risultato ha superato le nostre aspettative – dice Luigia Pace, direttrice del laboratorio Armenise-Harvard -; ora stiamo cercando anche di capire perché alcune persone non ce l’hanno fatta». Presto la sperimentazione del vaccino potrebbe arrivare anche negli ospedali italiani. «Lo studio ci è stato presentato – conferma l'Aifa ad Avvenire - ed è in valutazione da parte dell'Istituto superiore di sanità (Commissione di fase I), trattandosi di uno studio di fase I-II».

Eppure in questa scoperta, come spesso accade, c’è della casualità. «In parte è così – sorride Pace, romana, immunologa di formazione, un cervello di ritorno con enormi prospettive, dopo aver maturato importanti esperienze in Francia e Germania -. Dirò la verità: stavamo studiando i meccanismi della risposta immunitaria indotta dalle infezioni e dai vaccini Rna messaggero contro il Sars-CoV-2. La nostra attenzione era focalizzata su una particolare popolazione di linfociti T, e quindi del nostro sistema immunitario, e sulla loro capacità di aggredire il virus. Ci siamo detti: perché non proviamo a fare altrettanto con i tumori? E cioè ad utilizzare un vaccino che potenzi e renda permanente l’effetto dei farmaci immunoterapici contro il cancro?». Certo, occorre andarci cauti, serviranno molte altre ricerche per confermare le valutazioni iniziali. Ma i risultati della sperimentazione di fase 1 hanno destato stupore in tutto il mondo, e sono stati illustrati su Science Translational Medicine.

Una delle più importanti speranze contro il cancro è dunque nata in piena pandemia?

Direi di sì, grazie ad un grande sforzo di più attori: dall’Istituto di Candiolo, che ha “arruolato” 400 persone, ad Airc, Fondazione Armenise, Compagnia San Paolo, fino al ministero della Salute. Abbiamo utilizzato il patrimonio di conoscenze raccolto sui meccanismi della lotta ai virus per combattere il cancro. E andiamo avanti continuando a non perdere di vista i virus. L’ideale sarebbe indirizzare la risposta che utilizziamo contro questi agenti infettivi, come il virus dell’influenza, che viene eliminato dopo una o due settimane, anche contro i tumori. Perché il cancro, a differenza dei virus, cresce in continuazione e il sistema immunitario esaurisce progressivamente la sua azione di difesa.

Eppure siete riusciti a guidare i linfociti T con una precisione senza precedenti dando loro una prospettiva a “lungo termine”… Ma come agiscono queste cellule?

Dopo gli anticorpi, i linfociti T rappresentano la seconda linea di difesa del sistema immunitario. Alcuni linfociti T sono anche definiti “killer” perché, dotati di un recettore chiamato Tcr, sono capaci di riconoscere la presenza delle mutazioni delle molecole ostili nelle cellule tumorali, e distruggerle. Non sempre, però, riescono a scovare il cancro, il quale è abilissimo a camuffarsi. Abbiamo allora preparato un vaccino per istruire il sistema immunitario a riconoscere il nemico.

Come avete fatto?

La nostra sperimentazione ha riguardato il cancro del colon. Il vaccino è stato associato a farmaci immunoterapici specifici per bloccare i freni inibitori, quelli che il cancro utilizza per “spegnere” la risposta immunitaria. Abbiamo usato un adenovirus di gorilla, reso innocuo, incaricato di traghettare diverse proteine, divenute disfunzionali, nelle cellule tumorali contro cui indirizzare il sistema immunitario. Il nostro preparato ha le sembianze di un virus. Il sistema immunitario, riconoscendolo come tale, si attiva e lo colpisce.

Perché avete scelto un vaccino a vettore virale?

In realtà si possono utilizzare vaccini a Rna o a vettore virale. Quelli Rna di Pfizer-BionTech e Moderna, efficaci contro il Sars-CoV-2, nascono proprio dalla lotta contro i tumori, in particolare contro il melanoma. Possono essere utilizzati entrambi.

Qual è il vantaggio dell’uso di un vaccino rispetto alle terapie attuali?

I vantaggi sono due. Rispetto ai farmaci che hanno una loro emivita e quindi dopo un po’ di tempo cessano di esistere, le cellule del sistema immunitario istruite a combattere i tumori possono restare nel nostro organismo per molti anni. Il secondo vantaggio è che, attraverso la medicina di precisione, si possono cercare le mutazioni di ogni singolo paziente, perché ogni individuo ha un tumore diverso dall’altro, e, una volta identificate, associarle ai vaccini; e così ogni paziente disporrà di un vaccino personalizzato. Questa azione è resa più agevole perché unita a farmaci che bloccano la proteina “Pd1” che frena il sistema immunitario. Insomma, stiamo approntando un’arma letale che cerca le mutazioni del tumore e potenzia di gran misura la risposta immunitaria.

È grazie a questi “freni” che fino ad oggi i tumori hanno potuto sopraffarci?

I tumori utilizzano “molecole inibitorie” che spengono proprio i linfociti. Noi stiamo analizzando una particolare popolazione di linfociti, “Cd8 staminali”, con caratteristiche simili alle cellule staminali, che riescono a sfuggire ai meccanismi di esaurimento a cui di solito vanno incontro le cellule immunitarie anti-cancro. Insomma, è come avere una riserva di difese che si attiva, anche a distanza di anni, per impedire la formazione di metastasi.

Quanto siamo vicini ad eliminare definitivamente gli ostacoli che il tumore crea tra i farmaci e la malattia?

Ci stiamo lavorando. Quel che è certo è che l’immunoterapia moderna per il momento è arrivata a identificare questi ostacoli, questi freni. È una scoperta premiata, nel 2018, con il Nobel della medicina conferito agli scienziati James Allison e Tasuku Honjo. Adesso cerchiamo di fare un passo avanti.

Il vostro vaccino può essere utilizzato contro altre forme di cancro?

Sì. A patto che si identifichino le mutazioni e le risposte nei diversi soggetti, perché non tutte sono uguali, ecco perché bisogna lavorare sui modelli predittivi. È un’attività già in corso con Nouscom. Altre aziende biotech stanno facendo altrettanto. Gli obiettivi più studiati sono il tumore del polmone e il melanoma.

Perché negli Usa si è già alla fine della Fase 1 e in Italia non avete ancora potuto iniziare? Non è paradossale che scienziati italiani debbano fare sperimentazioni utilizzando biotech svizzere e appoggiandosi su ospedali americani?

Siamo in attesa dell’autorizzazione Aifa che spero arrivi il più presto possibile. In diversi centri, come a Candiolo, siamo pronti per trattare i primi pazienti. Più in generale in Italia non c’è questa grande attenzione nel favorire la creazione di giovani biotech. Per tornare al discorso sugli Usa, ad Harvard per esempio, tutte le buone idee passano attraverso le biotech e poi diventano veri e propri progetti industriali. Che arricchiscono l’intero Paese.

Rivoluzione mieloma multiplo: così sono migliorate le prospettive dei pazienti. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Per chi soffre del tumore del sangue diagnosticato al musicista Giovanni Allevi, con l'arrivo di nuove terapie le aspettative sono notevolmente migliorate. Come gestire il dolore osseo.

I medici che curano i malati di cancro sono per natura cauti a parlare di guarigione. Quelli esperti e scrupolosi lo sono ancor di più, sempre alla ricerca di un corretto equilibrio fra infondere coraggio e speranza, senza eccedere nelle false illusioni. Oncologi ed ematologi, abituati a convivere con il dolore di tanti pazienti e familiari, non amano la parola «rivoluzione». Eppure, raramente, la utilizzano: quando davvero il cambiamento è grande e i progressi sono sia significativi sia scientificamente dimostrati. È accaduto di recente, durante il congresso della Società Italiana di Ematologia (Sie), quando si è parlato degli avanzamenti compiuti nella terapia del mieloma multiplo. Di questa neoplasia del sangue, diagnosticata ogni anno a circa 5.700 italiani per lo più ultra70enni, si è parlato di recente quando il musicista Giovanni Allevi ha comunicato tramite i social di soffrirne e di aver iniziato un faticoso iter di cure che lo terrà per un po’ lontano dalle scene.

Cambio di prospettive dal Duemila

Molti fan si chiedono quali siano le prospettive di cura del giovane pianista e compositore. La buona notizia è che sono molto migliorate grazie ai passi avanti iniziati nel Duemila, come spiega Michele Cavo, direttore dell’Istituto di Ematologia Seràgnoli all’Università degli Studi di Bologna e IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria bolognese: «La terapia del precedente millennio impiegava pressoché esclusivamente farmaci chemioterapici (primo tra tutti il melfalan), somministrati a basse dosi nei pazienti “anziani”. Oppure ad alte dosi, con successivo trapianto di cellule staminali autologhe (dello stesso paziente) nei “giovani”, cioè in chi generalmente aveva un’età inferiore ai 65 anni. La sopravvivenza media era di circa tre anni nel primo gruppo e di circa cinque nei soggetti sottoposti a trapianto. La malattia era ritenuta ineluttabilmente fatale, soprattutto perché portava sempre o quasi a recidive».

E adesso qual è la situazione?

«Dall’inizio degli anni Duemila l’approccio terapeutico è cambiato radicalmente grazie alla disponibilità di farmaci biologici, non chemioterapici, quali gli immunomodulatori, gli inibitori del proteasoma e gli anticorpi monoclonali – risponde Cavo, membro del direttivo Sie -. Questi farmaci, combinati tra di loro e in maniera continuativa, hanno considerevolmente aumentato la sopravvivenza mediana che oggi supera i sette anni nei malati “anziani” con malattia di nuova diagnosi ed è di oltre 10 anni nei pazienti sottoposti a trapianto autologo. Di questi ultimi, oggi, almeno il 30% sono liberi da progressione della malattia a lungo termine. Ovvero, seppure con cautela, possono essere considerati “operativamente” guariti».  

Quali cure sono arrivate che hanno cambiato prospettive?

«Oggi abbiamo a disposizione, già approvati e utilizzati anche in Italia, 20 diversi regimi terapeutici comprensivi di nuovi farmaci appartenenti alle tre principali classi (cioè immunomodulatori, inibitori del proteasoma e anticorpi monoclonali “classici” e coniugati con agenti citotossici). Sono utilizzabili sia per chi ha appena ricevuto la diagnosi sia per chi ha una malattia ricaduta oppure refrattaria (cioè che oppone resistenza alle cure, ndr). Tutti questi medicinali ci hanno consentito di aumentare non solo la percentuale di risposta, ovvero il numero dei pazienti che traggono beneficio dalle terapie (che arriva sino al 90% e oltre), ma anche la sua “profondità” (cresce dunque la quota di persone senza malattia minima residua: cioè negli esami specifici non viene individuata neppure una singola cellula tumorale tra 100mila - un milione di cellule normali, ndr) e di estenderne la durata».

Ci sono altre novità all’orizzonte?

«Nuovi e più potenti farmaci immunomodulanti, farmaci con innovativi meccanismi di azione (come, ad esempio, gli inibitori delle esportine), anticorpi bispecifici e CAR-T. Sia per la terapia con linfociti T del paziente geneticamente modificati per esprimere un recettore chimerico diretto con un antigene plasmacellulare (CAR-T) sia per gli anticorpi bispecifici in grado di reindirizzare i linfociti T del paziente in prossimità delle cellule tumorali e di eliminarle selettivamente è attesa l’autorizzazione da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco alla rimborsabilità. L’indicazione d’uso per entrambe queste terapie sarà rivolta al trattamento dei pazienti che hanno già ricevuto le tre principali classi di farmaci e che sono refrattari all’ultima terapia ricevuta».

Il dolore osseo: uno dei sintomi più duri per i pazienti

«È presente in circa due terzi dei pazienti di nuova diagnosi, altera negativamente la qualità di vita e talvolta porta all’allettamento. È il risultato dell’iper-attività, provocata dal mieloma, delle cellule deputate al riassorbimento della matrice ossea (osteoclasti) e della ridotta attività delle cellule deputate alla sintesi di nuovo osso (osteoblasti). Ne deriva una perdita di massa ossea eccedente di molto la sua sintesi. I bisfosfonati, unitamente alle terapie con nuovi farmaci, ribilanciano questo alterato rapporto inibendo l’attività degli osteoclasti. Poi, in casi particolari, come quello dei pazienti con crolli vertebrali, può essere utile valutare con lo specialista ortopedico l’indicazione a eseguire un intervento di vertebroplastica».

Campanelli d’allarme

Quali sono i «campanelli d’allarme» da non trascurare per una diagnosi precoce? Cosa deve preoccupare? «La sintomatologia dolorosa – conclude Cavo - non interessa le articolazioni, mentre dolori ossei persistenti o ingravescenti, più spesso in una sede fissa, devono portare il paziente a consultare il proprio medico di fiducia che valuterà l’indicazione a consigliare l’esecuzione di specifici esami del sangue e indagini radiologiche. Di particolare utilità, la tomografia assiale computerizzata (TAC) o con emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica nucleare (RMN)».

Da ansa.it il 6 novembre 2022.

Esiste "un'elevata probabilità" che a causare il tumore sia stato il cellulare.

Lo ha stabilito una sentenza della Corte d'Appello di Torino, che ha confermato, la decisione del Tribunale di Aosta che aveva condannato l'Inail a pagare la rendita per malattia professionale a un lavoratore, ora in pensione, tecnico specializzato delle Cogne Acciai Speciali. 

L'uomo, 63 anni, tra il 1995 e il 2008, ha usato, per motivi di lavoro, il telefonino per più di diecimila ore, con una media di 2 ore e mezza al giorno.

Un utilizzo che ha causato un tumore benigno intracranico e una conseguente "sordità sinistra, paresi del nervo facciale, disturbo dell'equilibrio e sindrome depressiva". 

Nel 2020 il Tribunale di Aosta aveva riconosciuto il nesso causale tra l'utilizzo del cellulare e l'insorgenza del neurinoma del nervo acustico, ma l'Inail aveva fatto ricorso in appello chiedendo una nuova consulenza. La Corte aveva nominato come consulente il professor Roberto Albera, ordinario di Otorinolaringoiatra dell'Università di Torino: "Appare ben evidente che al momento l'etiologia del neurinoma dell'acustico non è conosciuta - afferma la consulenza tecnica - ma che tra i fattori concasuali vi sia l'esposizione a radiofrequenze se la dose espositiva è stata di sufficiente entità".

L'uomo, che ha ottenuto una rendita mensile di circa 400 euro, è rappresentato dagli avvocati Stefano Bertone, Chiara Ghibaudo e Jacopo Giunta dello Studio Ambrosio & Commodo. "Si tratta di una sentenza importante scritta da scienziati fra scienziati - spiegano i legali - in cui il ruolo dei giuristi è stato marginale, e che dimostra che le radiofrequenze possono causare un tumore". 

Torino, colpito da tumore dopo uso prolungato del cellulare: per la Corte d’Appello ha diritto a una rendita. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022.

Un tecnico specializzato di un’acciaieria è diventato sordo dall’orecchio sinistro: per 13 anni ha usato il telefono cellulare, per lavoro, per circa due ore e mezza al giorno

Per 13 anni, tra il 1995 e il 2008, ha usato il telefono cellulare per circa due ore e mezza al giorno. Era una necessità di lavoro. E ora l’Inail è stata condannata dalla Corte d’Appello di Torino a riconoscere all’uomo, un 63enne aostano, una rendita di 300 euro al mese. Perché le radiofrequenze irradiate dal telefonino gli hanno provocato un tumore benigno (un neurinoma del nervo acustico) che lo ha reso sordo dall’orecchio sinistro, con conseguente paresi facciale. Dopo il caso di Roberto Romeo, l’ex dipendente Telecom che per primo fece causa all’Inail perché gli fosse riconosciuta la malattia professionale per aver sviluppato un tumore alla testa a causa di un uso massiccio del telefonino, una nuova sentenza sancisce il nesso causale tra l’esposizione alle radiofrequenze rilasciate dalla telefonia mobile e l’insorgere della malattia.

Il caso, patrocinato dagli avvocati dello studio legale Ambrosio & Commodo, ha come protagonista un tecnico specializzato di un’acciaieria valdostana, che subito dopo essere andato in pensione aveva scoperto il tumore all’orecchio. In primo grado il Tribunale di Aosta aveva confermato il nesso causale. Ma l’Inail aveva deciso di ricorrere in appello. I giudici torinesi, per sfatare ogni dubbio, hanno deciso di disporre una nuova perizia e affidarla al professor Roberto Albera (ordinario di Otorinolaringoiatria dell’Università di Torino, autore di oltre 400 pubblicazioni). Il luminare, dopo mesi di confronto e studio con gli esperti di parte, ha confermato «l’elevata probabilità» del collegamento causale tra l’uso del telefono e il tumore anche «in relazione all’esclusione dell’intervento di fattori causali alternativi». «Appare ben evidente — si legge nella consulenza — che al momento l’etiologia del neurinoma dell’acustico non è conosciuta, ma che tra i fattori concausali vi sia l’esposizione a radiofrequenza se la dose espositiva è stata di sufficiente entità». Nel caso del 63enne aostano è stata calcolata una esposizione lavorativa «per non meno di 10.361 ore dal 1995 al 2008, a radiofrequenza da utilizzo di telefono cellulare con tecnologia Etacs fino al 2005».

«Questa sentenza è stata scritta da scienziati e non da giuristi. E conferma i rischi connessi all’uso del cellulare — spiegano gli avvocati Renato Ambrosio e Stefano Bertone —. Si profilano nuovi problemi legali: sia Romeo che il nostro odierno assistito usavano cellulari omologati e settati secondo indicazioni di scienziati, che rassicuravano sostenendo l’innocuità per esposizioni sotto una certa soglia. Ciò nonostante hanno subito gravissimi danni alla salute». Al momento lo studio di via Bertola sta portando avanti altre cinque cause analoghe di fronte ad altri tribunali italiani. «Il nostro lavoro — insistono i legali — non è solo assistere persone che hanno riportato un danno, ma diffondere anche la cultura della prevenzione. Dopo la sentenza Romeo siamo stati contattati dai consulenti per la sicurezza di un grande gruppo automobilistico torinese, che su richiesta dei clienti erano interessati a studiare la sentenza». Per gli avvocati diversi accorgimenti possono rappresentare uno strumento di tutela: «La distanza resta il migliore alleato, non andrebbero mai tenuti a contatto con il corpo. Lo scarico di un motore diesel lo si percepisce con l’olfatto, la lama tagliente di un coltello con il tatto, ma le radiofrequenze si percepiscono solo con rilevatori elettrici. E ciò determina in chi li usa una incongrua sensazione di rassicurazione».

"Non riusciamo a trovare spiegazioni": la storia della donna sopravvissuta a 12 tumori. Il primo tumore durante l'infanzia, poi, nel corso della sua vita, altri 11. L'incredibile storia di una donna di 36 anni, sopravvissuta alle malattie. Lo studio che dà speranza. Federico Garau su Il Giornale il 3 Novembre 2022. 

Una storia a dir poco incredibile quella che arriva dalla Spagna: una donna di 36 anni è sopravvissuta a ben 12 tumori, alcuni dei quali anche maligni. Un caso che sta letteralmente impressionando i medici, i quali non riescono a venire a capo di un simile fenomeno. A riportare il caso è il biologo Marcos Malumbres del Centro nazionale di ricerca oncologica (Cnio), che ha parlato alla rivista Science Advances.

La storia della giovane donna è a dir poco incredibile. 12 differenti tumori comparsi in varie zone del corpo, 5 dei quali maligni. Oltre a ciò, la 36enne soffre di alterazioni cutanee e microcefalia. Un quadro complesso, che tuttavia non ha impedito alla paziente di proseguire con la sua vita, sopravvivendo ai tanti mali che l'hanno colpita. Il primo tumore, fanno sapere i medici del Cnio, già nella tenera infanzia.

L'incredibile studio

Ma come è stato possibile tutto ciò? Come è riuscita la donna a sopravvivere? "Ancora non riusciamo a capire come questa persona possa essersi sviluppata durante la fase embrionale, né come sia riuscita a superare tutte le sue malattie", ammette lo scienziato Marcos Malumbres in un'intervista concessa ad Agenciasinc.es.

Il gruppo che ha lavorato al caso della 36enne è però certo di una cosa: studiare la storia genetica della donna potrebbe essere d'aiuto per mettere a punto "un percorso finalizzato a rilevare le cellule con potenziale tumorale con largo anticipo rispetto ai test clinici e alla diagnostica per immagini; e anche un nuovo modo per stimolare la risposta immunitaria contro un processo cancerogeno”.

Nuove metodologie di diagnosi, quindi, e terapie innovative per risvegliare il sistema immunitario e aiutarlo a combattere il cancro. Nel caso della 36enne, colpita più volte nella sua vita dalla malattia, gli scienziati hanno riscontrato delle anomalie in uno specifico gene. Sottoponendo a sequenziamento il suo genoma, infatti, è apparsa un'alterazione a livello del gene MAD1L1, fondamentale per la divisione delle cellule. Cosa comporta questo? Basti pensare che molti tumori si sviluppano proprio da mutazioni/alterazioni cellulari. Nel caso del gene MAD1L1, un suo malfunzionamento provoca delle modiche al numero di cromosomi ereditati dalle cellule figlie.

Non solo. Gli scienziati hanno spiegato che in caso di mutazioni in entrambe le copie di questo gene (una derivata dal padre, l'altra dalla madre) l'embrione muore in utero. Questo, almeno, negli animali. La 36enne ha entrambe copie mutate, tuttavia è sopravvissuta, pur con i sopracitati problemi di salute.

Come sono scomparsi i tumori?

Resta da capire come la donna sia riuscita a sopravvivere a ben 12 tumori diversi. Un bel grattacapo, anche per i medici che hanno seguito il caso.

I tumori aggressivi, ricordiamolo, sono stati 5. A sorprendere, tuttavia, è la relativa facilità con cui sono scomparsi. Secondo il dottor Marcos Malumbres “la produzione costante di cellule alterate ha generato una risposta difensiva cronica nei confronti di queste cellule nel paziente”, cosa che ha aiutato i tumori a scomparire. “Pensiamo che questo possa essere utile per altri pazienti: potenziare la loro risposta immunitaria li aiuterebbe a rallentare lo sviluppo del tumore”, ha aggiunto.

Si tratta di una scoperta senza precedenti. Il sistema immunitario può, all'occorrenza, scatenare contro le cellule alterate una risposta difensiva tale da far regredire la malattia. "Questo studio potrebbe aprire nuove opzioni terapeutiche in futuro", ha dichiarato con entusiasmo Malumbres. Il 70% dei tumori, ricordiamolo, deriva da cellule con numero alterato di cromosomi.

Simona De Ciero per corriere.it l'1 novembre 2022.

Asportato un tumore ovarico di oltre settanta chilogrammi grazie a un doppio intervento effettuato all’ospedale Molinette di Torino. Il tumore pesava più della paziente stessa, tanto da impedirle di camminare. 

La signora si è presentata in pronto soccorso alcune settimane fa perché avvertiva forti difficoltà respiratorie e, dopo una serie di esami, i medici hanno appurato che l’insufficienza era causata da una formazione espansiva addominale benigna ma enorme. «Abbiamo eseguito un intervento abbastanza impegnativo e siamo tutti molto soddisfatti visto che la signora ora sta benissimo – commenta il dottor Francesco Moro della Chirurgia universitaria 2 diretta dal professor Renato Romagnoli – un recupero molto veloce, se si pensa che la donna in pochi giorni è passata da un volume di 150 chilogrammi a uno di circa 50, corrispondente al suo peso-forma».

La situazione è apparsa da subito gravissima; la donna, infatti, rischiava di morire per la compressione che l’addome esercitava su polmoni e altri organi. La paziente è stata intubata e sottoposta a ventilazione meccanica dalla Rianimazione del pronto soccorso. Una volta stabilizzata, poi, è stata trattata chirurgicamente. La prima parte d’intervento è stata eseguita dal dottor Ezio Falletto della Chirurgia d’urgenza universitaria 1 (diretta dal professor Mario Morino) che aspirato la parte liquida tumorale raccolta tutta dentro una cisti: ben 52 litri di materiale.

«Un passaggio essenziale per poter procedere con la rimozione in blocco del cistoadenoma dell’ovaio del peso di circa 25 kg – prosegue Moro, che ha operato nella seconda fase dell’intervento – drenare al paziente, infatti, è significato anche poterla estubare e farle superare la fase critica con cui si è presentata in ospedale, e questo ci ha dato un minimo di tempo per ragionare sul da farsi». 

Il tempo intercorso tra l’aspirazione e la rimozione chirurgica della massa, eseguita in blocco, è stato essenziale ha contribuito a trasformare questo intervento di frontiera in un successo. Solo 4 giorni dopo la seconda operazione, infatti, la donna è stata trasferita dalla rianimazione al reparto di chirurgia per poi essere spostata al reparto di Dietetica e Nutrizione clinica. «Bisognava rimetterla in piedi e farla ingrassare di sette chilogrammi».

Estratto dell’articolo di Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 2 novembre 2022.

Settanta chili. Quando i chirurghi hanno estratto dall'addome di una giovane paziente una massa tumorale così grande non potevano immaginare che pesasse così tanto. Più della donna stessa. 

Ha dell'eccezionale, l'intervento effettuato all'ospedale Le Molinette di Torino dove è stata asportata, appunto, una neoformazione ovarica di oltre 70 chili. La paziente, ignara della natura dei suoi disturbi, si era recata al pronto soccorso per insufficienza respiratoria, così grave da dover essere immediatamente assistita dai rianimatori.

Quella massa enorme che le era cresciuta nell'addome, fino ad occuparlo tutto, adesso spingeva sul diaframma e le comprimeva i polmoni, che non potevano più espandersi. 

La donna ha rischiato di morire soffocata. Per questo i rianimatori delle Molinette l'hanno subito intubata per stabilizzare le condizioni. Poi alla TAC l'incredibile sorpresa: la presenza di una massa enorme, una cisti ovarica gigante, grande come una persona. Le è stata subito drenata dal dottor Ezio Falletto della Chirurgia d'Urgenza 1 universitaria: 52 litri di liquido. È stato così ridotto notevolmente il volume della massa, consentendo nei giorni successivi, al dottor Francesco Moro della Chirurgia 2 universitaria delle Molinette di asportare la neoformazione. […] 

Questo caso stupisce per le dimensioni e per il fatto che la paziente non si sia allarmata per l'imponente aumento di peso. È importante, anche in fase più precoce, dare peso ai sintomi d'allarme di una massa addominale, che possono andare dal gonfiore, ai dolori addominali, alla stitichezza, alla perdita di appetito per un senso di pienezza gastrica perché la massa comprime lo stomaco. 

I cistoadenomi ovarici possono però raggiungere dimensioni importanti prima di dare sintomi. Nel caso di Torino, esemplare è stata la condotta dei medici. Un intervento di questa complessità richiede un grande lavoro d'équipe e la messa in campo di tante competenze».

La neoformazione scoperta alle Molinette è originata dalle cellule epiteliali dell'ovaio che, oltre a moltiplicarsi in modo incontrollato, secernono anche una sostanza gelatinosa. Anche se le cellule non hanno le caratteristiche della malignità, un tumore di queste dimensioni può risultare comunque mortale per l'effetto massa che determina sugli organi vitali, come i polmoni, determinandone una grave disfunzione. La compressione sulle vene può inoltre condurre alla formazione di trombi ed embolie polmonari, con esito spesso fatale. […]

"Sei troppo giovane per la mammografia". Ora ha un tumore al quarto stadio. Nel 2018 i medici le avevano detto che era troppo giovane per sottoporsi a una mammografia, nonostante avesse un nodulo al seno. Adesso ha un tumore al quarto stadio. Valentina Dardari il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Nel 2018 i medici a cui si era rivolta le avevano detto che era troppo giovane per sottoporsi a una mammografia, nonostante avesse un nodulo al seno. Adesso ha un tumore al quarto stadio. Questa è la tragica avventura capitata a Philecia La'Bounty, modella e ora seguitissima sul suo profilo Tik Tok, seguito da oltre 40mila followers. Come raccontato da il Messaggero, la donna, dopo aver sentito un grumolo al seno, aveva deciso di farsi visitare, ma i medici a cui si era rivolta le avevano assicurato che non vi era nulla di cui preoccuparsi visto che, a loro parere, si poteva trattare solo di un nodulo benigno.

La sua battaglia su Tik Tok

I sanitari si erano anche rifiutati di sottoporla a una mammografia perché considerata inutile data la sua giovane età. Dopo 8 mesi e diverse visite mediche, la ragazza ha scoperto di avere un tumore al seno ormai al quarto stadio. Il cancro si era infatti diffuso in altre zone del corpo, e in particolare ai polmoni, ai linfonodi e allo sterno. Subito ha confessato di aver pensato“alla morte, come fa la maggior parte delle persone quando sente la parola cancro”, sentendosi delusa e abbandonata dai medici. Dopo aver avuto la terribile diagnosi, la donna ha dovuto sottoporsi a una menopausa farmacologica, a causa dalla chemioterapia utilizzata per trattare il tumore.

Sui social la 35enne ha confessato di sentirsi ogni mattina come una vecchietta, con le articolazioni rigide, stanca e sofferente. Dopo aver scoperto che la chemioterapia avrebbe potuto renderla sterile, Philecia ha deciso di congelare dieci ovuli. La vita è cambiata non solo a lei, ma anche al marito, alla sua famiglia, e ai suoi amici più cari. “Cerco di non pensare troppo a come sarebbe potuta andare se i medici se ne fossero accorti prima. Tanto questo non mi farà scomparire la fase”, ha spiegato su Tik Tok, anche perché pensare che avrebbe potuto avere a che fare con un tumore al secondo stadio, e non al quarto, è scoraggiante.

Cosa vuol dire un tumore al quarto stadio

In linea generale, i tumori al primo stadio sono di piccole dimensioni, localizzati e solitamente curabili; allo stadio II e III sono solitamente solo localmente avanzati e/o hanno coinvolto linfonodi vicini; al quarto stadio si considerano invece i tumori inoperabili o metastatici, ovvero che hanno coinvolto altre zone del corpo, anche lontane. Secondo gli studi, in questo ultimo caso i pazienti hanno solo il 22% di possibilità di sopravvivere oltre i 5 anni dalla diagnosi. La modella ha scelto di utilizzare il social per raggiungere quante più persone, spiegando loro i rischi che si corrono senza una prevenzione adeguata, i sintomi e anche per dare informazioni riguardo la menopausa precoce. Proprio riguardo quest’ultimo aspetto, la ragazza ha spiegato: “È più comune nelle giovani donne di quanto la gente si aspetti. C'è un'epidemia di giovani donne che scoprono di avere un cancro al seno e di conseguenza sono state messe in menopausa precoce, e nessuno ne parla”. La 35enne ha detto di sentirsi orgogliosa e realizzata quando riceve dei messaggi da persone che grazie a lei non si sentono sole.

L'importanza della prevenzione

Per controllare il seno non c’è solo la mammografia. Si può iniziare da sole, facendo attenzione a eventuali cambiamenti delle sue dimensioni o della forma e con l'autopalpazione. La forma del seno infatti cambia nel corso del tempo, sia in periodo mestruale che con l’invecchiamento o la gravidanza. Nel caso in cui ci siano dei dubbi sul suo cambiamento, ci si può rivolgere a un esperto. È importante controllare anche eventuali arrossamenti o secrezioni. Se fuoriesce del liquido dal capezzolo, senza che venga pressato, è meglio recarsi dal medico per un controllo.

Gonfiori, ecco a quali fare attenzione

Si deve fare particolare attenzione alla presenza di gonfiori o grumi, non necessariamente al seno, ma anche nella zona sotto le ascelle e fino alla clavicola. Anche i grani della pelle devono essere controllati: se l’area del seno ha la forma di una buccia d’arancia è meglio fare una visita medica. Anche se il capezzolo da un momento all’altro è tirato verso l'interno o cambia forma o posizione, conviene prenotare una visita. Infine, un altro segnale può essere un dolore costante al seno o all’ascella. Anche se sentire male nella zona del seno è abbastanza normale. Per esempio potrebbe essere più indolenzito nei giorni precedenti al ciclo. Se abbiamo dei dubbi comunque meglio farci vedere, tanto per essere più tranquille.

Brindisi, l'odissea di una 37enne con un tumore al seno. La lettera e la storia della malattia per dare speranza ad altre donne. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente lettera alla «Gazzetta» inviataci da una mamma 37enne.

Voglio raccontare la mia storia perché quello che è accaduto a me, possa dare voce e speranza a tante altre donne che soffrono in silenzio e combattono ogni giorno la malattia. Sono madre di due splendidi bambini. Ho scoperto di avere un tumore al seno triplo negativo subito dopo la nascita della mia seconda figlia all’età di 34 anni. Dopo aver fatto tutti gli approfondimenti ed esami necessari decisi di iniziare il mio percorso di cura presso l'ospedale «Perrino» di Brindisi dov’è presente la Breast Unit per la cura del tumore al seno e dove in teoria ogni donna dovrebbe essere seguita con più attenzione, cosa che è invece purtroppo non è accaduta. Perché tutto è rimasto sulla carta.

Oggi, dopo aver subito un’operazione di mastectomia omolaterale, mi sento una donna ancora ferita ma viva, perché sono convinta che proprio nel posto in cui avrebbero dovuto curarmi e sentirmi al sicuro mi stavano invece lasciando morire, ma grazie a Dio ad altri io devo la mia vita. Prima di cominciare il mio percorso terapeutico mi spiegarono che, nel mio caso sarebbe stato più conveniente rimpicciolire e quindi ridurre la massa tumorale con la chemioterapia per poi rimuoverla successivamente con un intervento. Così l’oncologa che mi avrebbe seguita, mi illustrò il programma terapeutico da seguire e mi disse che dopo la fine dei cicli di chemioterapia, avrei dovuto subire un intervento di quadrantectomia. Prima di cominciare la chemioterapia parlai anche con lo psiconcologo (fu quello il primo e ultimo colloquio). Il mio percorso di cura prevedeva un trattamento neoadiuvante per 4 cicli ogni 21 giorni e successivamente taxolo per 12 settimane. Mi sottoposi al primo trattamento. Tutto sembrava procedere bene. Poco prima di terminare i primi 4 cicli però cominciai ad avere il sospetto che qualcosa non stesse funzionando. Nel frattempo avevo già tagliato tutti i capelli, ma della figura dello psiconcologo neppure l'ombra e io morivo dentro. Nonostante abbia sempre chiesto, se tutto stesse procedendo bene, la risposta che ricevevo è sempre stata affermativa, senza aggiungere una sola parola. Solo silenzio e mentivano. Tra la fine del primo trattamento e l'inizio del secondo non fui sottoposta ad alcun controllo, neppure ad una banale ecografia. Gli unici controlli previsti erano gli esami del sangue. Cominciai anche il secondo trattamento, quello con il taxolo, ma il tumore anziché rimpicciolirsi, cresceva ed era visibile anche ad occhio nudo.

Ho trascorso notti intere a piangere e a pregare in silenzio, impotente di fronte alla malattia, con la paura di morire giorno dopo giorno, fino a quando decisi di prendere in mano la mia vita. A quel punto decisi di fare privatamente un’ecografia e i miei sospetti purtroppo cominciarono a prendere forma. Decisi allora di chiedere spiegazioni e quando mostrai quell’ecografia, con molta freddezza e piuttosto infastidita, una dottoressa rispose che non dovevamo trarre conclusioni affrettate, che avevano dei protocolli da rispettare e delle linee guida da seguire e che, dopo mie continue e ripetute sollecitazioni, potevo approfondire con una mammografia e risonanza. L’altra presente, invece, mi disse che aveva fatto bene a fare quell’ecografia. A questo punto mi sorge spontanea una domanda, perché se tutti vedevano e sapevano che qualcosa non stava funzionando, non sono intervenuti subito, ma si sono attivati solo quando sono stati messi con le spalle muro di fronte a quella famosa ecografia, scongiurando in questo modo conseguenze ben più serie? Non metto in dubbio che i protocolli dovessero essere rispettati, ma si poteva intervenire prima.

E dov’era in tutto questo la figura dello psiconcologo che sulla carta avrebbe dovuto darmi sostegno e supporto? E ancora una volta morivo dentro, sola. A quel punto mi disse anche che, per avere l'impegnativa con gli esami prescritti potevo tranquillamente tornare tra una settimana perché quel giorno avevano problemi con il sistema operativo del pc, ma io non potevo aspettare che il tumore che sentivo crescere dentro di me, mi divorasse anche l'anima e tornai il giorno dopo. Ero gia al settimo trattamento con taxolo settimanale e nel frattempo contattai lo IEO dove effettuai una visita specialistica perché a quelli, avevo deciso di affidare la mia vita. Il dottore confermò i miei timori e le mie paure e mi spiegò che se l'oncologo in assenza di una terapia sostituiva, avesse dato parere positivo, lui mi avrebbe inserito in una lista d’attesa e mi avrebbe operato. Così quando tornai, riferì alla dottoressa e decise che era arrivato il momento di intervenire per programmare l'intervento, messa con le spalle al muro per la seconda volta. Ma per me era già troppo tardi. Interrotto il trattamento con il taxolo sono stata operata.

Ho subìto un intervento di mastectomia laterale sinistra e dissezione ascellare omolaterale. Esattamente nel periodo in cui, secondo i loro schemi, avrei dovuto finire la chemioterapia, io ero già stata operata. È in quel preciso giorno sono rinata. Mi fu chiesto in seguito, se volessi partecipare ad uno studio di ricerca clinica per la sperimentazione di un farmaco immunoterapico nel trattamento del tumore mammario triplo negativo ad alto rischio. Allora mi chiedo, se possedevo tutti i requisiti necessari per poter accedere a questo studio, perché nel momento in cui hanno capito che la risposta del mio organismo alla chemioterapia non è stata soddisfacente, non hanno deciso di operarmi subito e si sono attivati solo in seguito alle mie ripetute sollecitazioni e sopratutto dopo la visita allo IEO? Alla luce di quanto successo sono convinta che se non avessi fatto quell’ecografia privatamente e non avessi interrotto la chemioterapia, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente.

Le parole scritte sulla diagnosi di ricovero presso lo IEO che recitavano cosi «carcinoma T4 a cute quasi ulcerata per circa 4 cm in progressione clinica da operare» risuonano giorno e notte nella mia mente. Perché purtroppo ci sono parole che non si possono dimenticare e cicatrici che rimarranno incise per sempre nel mio corpo e nella mia mente.

Quali sono i tumori ereditari? Chi è più predisposto al cancro? Quando chiedere una consulenza genetica? Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022

Quella di poter ereditare un tumore è una paura diffusa, ma solo una quota minoritaria di tutte le neoplasie diagnosticate viene inserita nella categoria dei tumori ereditari e famigliari. Ecco quando è possibile accedere al test genetico per la quantificazione del rischio attraverso il Servizio sanitario nazionale

Quanti sono i tumori «ereditari»

A lungo si è ritenuto che circa il 5-10% degli individui fosse portatore di mutazioni associate alle «sindromi ereditarie», ovvero quelle condizioni che conferiscono un aumentato rischio di sviluppare alcuni tumori. In seguito ai recenti progressi nel campo della genetica, oggi si ritiene che questa percentuale possa arrivare fino al 17%. La maggior parte delle persone che hanno un familiare stretto (genitore, fratello o sorella, ma anche nonni o zii) che ha avuto un tumore non corre pericoli superiori al resto della popolazione.

«Non bisogna dimenticare che la genetica è solo uno dei fattori che portano a sviluppare una malattia, ma conta anche altro: stili di vita, ambiente, specifici fattori scatenanti — spiega Antonio Russo, direttore dell’Oncologia a Palermo e membro del consiglio direttivo dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) —. Certo, si sta rivelando fondamentale nella prevenzione e nella diagnosi precoce, ma anche nella scelta delle cure e nello scoprire malattie familiari ed ereditarie».

I numeri

«Sul totale dei casi di cancro soltanto una minima parte oggi viene catalogata come “ereditaria” — prosegue Lorena Incorvaia, ricercatrice in Oncologia Medica presso l’Università di Palermo e Coordinatrice Nazionale del Working Group AIOM Giovani —. Le ultime statistiche disponibili per l’Italia stimano circa 377mila nuovi casi di tumore di cui di cui circa il 5-10% (fino a quasi 40mila) a trasmissione ereditaria. Sono state stimate, per esempio, circa 55mila nuove diagnosi di tumore della mammella, 43.700 del colon-retto e 5.200 dell’ovaio: sul totale. circa 5.500 dei primi, 1.800 dei secondi e 1.000 dei terzi sarebbero classificabili come tumori ereditari. Gli esami che vanno alla ricerca di mutazioni genetiche che predispongono all’insorgenza dei tumori (eseguiti con un semplice prelievo di sangue) vengono offerti gratuitamente, in strutture specializzate e secondo precisi protocolli, a chi soddisfa specifici requisiti (definiti “criteri per l’invio alla consulenza genetica oncologica”). Si tiene conto, per esempio, del numero di parenti affetti da tumore, dell’età alla diagnosi, del tipo di cancro, della presenza di tumori multipli o bilaterali nella stessa persona».

Quando si può chiedere consulenza genetica

La consulenza oncogenetica per rischio di tumore alla mammella e all’ovaio, ma anche pancreas e prostata (principalmente legati ai geni BRCA1 e BRCA2, ma anche altri come BARD1, ATM, CHEK2, RAD51C, RAD51B, PALB2) può essere richiesta al Servizio Sanitario Nazionale in specifiche circostanze:

1) tumore al seno maschile

2) tumore al seno bilaterale prima dei 50 anni

3) tumore al seno e all’ovaio nella stessa persona

4) tumore al seno tipo “triplo negativo” prima dei 60 anni o tumore al seno di qualsiasi tipo prima dei 36 anni

5) tumore dell’ovaio (non mucinoso o borderline), del pancreas o della prostata in stadio avanzato

6) tumore al seno prima dei 50 anni e almeno un parente prossimo con tumore di ovaio, prostata o pancreas

7) tumore al seno prima dei 50 anni e almeno un parente prossimo con tumore al seno bilaterale, prima dei 50 anni o in un uomo

8) tumore al seno e almeno 2 casi tra i parenti prossimi di tumore a seno, ovaio, pancreas o prostata all’interno dello stesso ramo familiare

9) tumore alla prostata e almeno un familiare (figlio, fratello o padre) con tumore della prostata prima dei 60 anni

10) tumore alla prostata e almeno 2 familiari prossimi con tumore alla prostata prima dei 50 anni

11) tumore del pancreas e almeno 2 parenti (genitore, fratello o figlio) con tumore del pancreas

12) tumore del pancreas e almeno 3 familiari prossimi con tumore al pancreas

13) sospetto di una sindrome associata a un aumento del rischio di tumore del pancreas

Consulenza genetica per il colon

La consulenza genetica per rischio di tumore al colon (principalmente i geni MLH1, MSH2, MSH6, PMS6 e APC, ma anche MUTYH, NTHL1, POLE, POLD1, STK11, SMAD4, BMPRR1A, GREM1) può essere richiesta al Ssn in presenza di queste condizioni:

1) tumore del colon prima dei 50 anni

2) più di un tumore del colon (o tumori correlati: utero, ovaio, vescica, stomaco, pancreas) nella stessa persona

3) tumore del colon in una persona con multipli polipi del colon

4) più casi di tumore del colon (o tumori correlati) tra i familiari stretti dello stesso ramo (materno o paterno)

5) almeno un caso di tumore del colon o tumori correlati prima dei 50 anni tra i parenti stretti

Tumore allo stomaco

La consulenza genetica per rischio di tumore allo stomaco (principalmente il gene CDH1, ma anche CTNNA1) può essere richiesta al Ssn in queste circostanze:

1) tumore gastrico “diffuso” prima dei 50 anni

2) tumore gastrico “diffuso” e storia (personale o nella famiglia) di labio- o palatoschisi

3) tumore gastrico “diffuso” e carcinoma lobulare del seno nella stessa persona prima dei 70 anni

4) tumore gastrico “diffuso” in persone di etnia Maori

5) tumore “lobulare” del seno bilaterale nella stessa persona prima dei 70 anni

6) almeno due casi tra i familiari stretti di questo, di cui almeno 1 di tipo “diffuso”

7) almeno un caso tra i familiari stretti di tumore del seno “lobulare” prima dei 70 anni e un di tumore gastrico “diffuso”

8) almeno 2 casi tra i familiari stretti di tumore del seno “lobulare” prima dei 50 anni

Il melanoma

La consulenza genetica per rischio di melanoma (principalmente i geni CDKN2A e CDK4, ma anche BAP1, POT1, TERF2IP, ACD, TERT, MITF, MC1R, ATM, PALB2) può essere richiesta al Servizio sanitario in queste circostanze:

1) pazienti con melanoma e almeno 2 membri della famiglia colpiti da melanoma

2) pazienti con melanoma e con almeno un familiare colpito da tumore del rene o del pancreas o mesotelioma

3) persone con storia di più diagnosi melanoma o diagnosi di melanoma e mesotelioma, tumore del rene o del pancreas

3) persone con storia di nevi di spitz atipici

4) persone con sospetto di sindrome associata a rischio di melanoma

L’iter della richiesta di consulenza genetica

«La predisposizione eredo-familiare e il relativo rischio oncologico vengono stabiliti durante una visita specialistica, che prende il nome di counseling oncogenetico, svolta da un gruppo multidisciplinare che può essere composto da diverse figure professionali (oncologo, genetista, psiconcologo)– spiega Antonio Russo -. Si valuta tutta la documentazione dell’interessato e dei suoi familiari e si crea l’albero genealogico per almeno tre generazioni precedenti per stimare il rischio ereditario. Poi, se i requisiti necessari sono soddisfatti, si propone un prelievo ematico per accertare la presenza di una mutazione nei geni che ad oggi risultano associati con la predisposizione ereditaria a sviluppare alcuni tipi di tumore. Nel caso in cui il test risultasse positivo può, a sua volta, essere esteso ai familiari più prossimi in prima istanza e così via di generazione in generazione laddove uno o più di essi risultassero positivi».

La scelta della persona su cui effettuare il test è fondamentale per aumentare al massimo la possibilità di individuare l’eventuale predisposizione genetica. «Quando il soggetto che richiede la consulenza è una persona sana, viene solitamente proposto di coinvolgere un parente prossimo che abbia già sviluppato il tumore - chiarisce Incorvaia - . In questo caso, infatti, si ha una maggiore probabilità di riscontrare l’eventuale mutazione e il test genetico consentirà di dirimere sulla presenza o meno della predisposizione in tutta la famiglia.

Si è poi diffuso negli ultimi anni un nuovo modello di consulenza, definito “mini-counseling”, effettuato dall’oncologo (o da altri specialisti del percorso diagnostico e terapeutico oncologico): viene utilizzato soprattutto quando l’individuazione di una mutazione genetica (ad esempio BRCA) può essere determinante nel decidere la terapia oncologica (chirurgica o farmacologica) più appropriata. Il modello del mini-counseling è al momento utilizzato principalmente in alcuni tipi di tumore (ad esempio ovaio e prostata), ma verrà a breve esteso anche ad altri».

Indagini genetiche solo in centri specializzati

Nell’accedere al counseling oncogenetico è importante rivolgersi a centri specializzati, che abbiano un team multidisciplinare dedicato. «Qualora venga individuata una mutazione in un gene di predisposizione in un soggetto sano, in alcune regioni italiane il genetista medico può assegnare una specifica esenzione dal pagamento del ticket (D99) per patologia eredo-familiare - precisa Russo -. In questo modo i portatori sani della mutazione genetica identificata nella famiglia possano essere sottoposti alle opportune strategie di sorveglianza intensificata o prevenzione vale a dire a controlli periodici e/o interventi di chirurgia preventiva o “di riduzione del rischio”» .

Diversità fra le regioni italiane

«In materia di esenzione dal pagamento del ticket (D99) per patologia eredo-familiare la situazione italiana non è uniforme - conclude Incorvaia -: a oggi le regioni in cui è possibile rilasciarla sono Campania, Emilia-Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sicilia, Valle D’Aosta e Veneto, oltre alla Provincia autonoma di Trento. I dati al riguardo sono forniti dall’associazione aBRCAdabra, una della principali associazioni italiane per portatori di mutazioni dei geni BRCA. Scoprire di essere a rischio di sviluppare un tumore e dover decidere cosa fare può avere un contraccolpo psicologico enorme: è indispensabile che queste indagini genetiche vengano effettuate in tutte le regioni italiane all’interno di centri e Percorsi di Diagnosi, Trattamento e Assistenza per persone ad alto rischio eredo-familiare (PDTA Alto Rischio), dove vengono fornite tutte le informazioni e l’assistenza necessarie».

Così la dieta mediterranea aiuta contro il cancro. Accanto alla terapia anti cancro, una dieta mediterranea rallenterebbe la progressione della malattia: ecco la scoperta dei ricercatori olandesi. Alessandro Ferro il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Quali sono le evidenze

 "Ecco l'importanza della dieta"

 La porta verso il futuro

La dieta mediterranea, oltre a fare bene alla salute, riuscirebbe anche a fermare anche l'avanzata di alcune forme di cancro. La scoperta è stata fatta da alcuni ricercatori dal Centro Medico Universitario di Groningen, nei Paesi Bassi. È importante sottolineare che il cibo, da solo, non basta ma se è associato alla terapia con immunoterapici può funzionare.

Quali sono le evidenze

Lo studio in questione è stato condotto su 91 pazienti con melanoma in stato avanzato: coloro i quali associavano il trattamento contro il tumore a una corretta dieta mediterranea hanno avuto risultati migliori di coloro i quali avevano un'alimentazione diversa, e minori possibilità che il cancro potesse tornare a crescere e svilupparsi. Nello specifico, i ricercatori si sono accorti che ottimi alleati contro la malattia erano soprattutto tutti gli alimenti integrali e i legumi: infatti, risultava anche un minor interessamento di effetti collaterali dell'apparato digerente. Invece, chi assumeva un'alimentazione dove erano ben presenti carni rosse e insaccati sviluppavano maggori effetti collaterali.

"Ecco l'importanza della dieta"

La prof. Laura Bolte, primo autore dello studio e dottoranda sotto la supervisione del Prof. Rinse Weersma dell'University Medical Center Groningen ha commentato dicendo che l'Ici (inibitori del ceckpoint immunitario) "ha contribuito a rivoluzionare il trattamento di diversi tipi di tumori avanzati" e che lo studio sottolinea "l'importanza della valutazione dietetica nei pazienti oncologici che iniziano il trattamento con Ici e supporta il ruolo delle strategie dietetiche per migliorare i risultati e la sopravvivenza dei pazienti", come viene riportato dalla rivista scientifica Eurekalert. Come vediamo, quindi, c'è un concorso di cause: le terapie da sole non funzionano se non sono accompagnate da un'alimentazione equilibrata.

Oltre ad avere una risposta globale soddisfacente, la dieta mediterranea ha consentito la mancata progressione della malattia dopo 12 mesi. La ricercatrice ha spiegato che gli alimenti principe sono stati i grassi mono e polinsaturi da olio d'oliva, noci e pesce, polifenoli e fibre di verdura, frutta e cereali integrali, i quali sono stati associati a una migliore risposta ai farmaci immunoterapici. "Gli Ici hanno avuto molto successo nel trattamento del melanoma, agiscono bloccando i checkpoint del sistema immunitario che poi costringono i linfociti T del corpo ad attaccare i tumori".

La porta verso il futuro

Il rapporto tra la risposta dell'Ici con la dieta e il microbioma intestinale "apre un futuro promettente ed entusiasmante per migliorare le risposte al trattamento", sottolinea Laura Bolte. Attualmente diversi studi clinici sono in corso per studiare l'effetto di una dieta ricca di fibre, chetogenica e che preveda l'integrazione di Omega-3. "Poiché la terapia Ici viene estesa a vari tipi di tumore, compresi i tumori dell'apparato digerente, questi studi potrebbero sbloccare i benefici del trattamento per un ampio gruppo di malati di cancro in futuro", ha concluso.

Il tumore al fegato che «si nasconde»: le cause e i sintomi difficili da interpretare del colangiocarcinoma. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Sette neoplasie su 10 sono scoperte e in modo «casuale»: i sintomi iniziali sono poco specifici e si arriva alla diagnosi con altre analisi. La sopravvivenza a 5 anni è pari al 17% negli uomini e al 15% nelle donne 

Il 25% dei casi di colangiocarcinoma intraepatico è scoperto «per caso», cioè in maniera accidentale in seguito a esami eseguiti per altri motivi. Le difficoltà legate alla mancanza di sintomi specifici conducono troppo spesso a diagnosi in fase avanzata (oltre il 70%). Soltanto il 25% dei pazienti infatti è candidato alla chirurgia con intento curativo. Per le persone che presentano la malattia localmente avanzata o metastatica con la specifica alterazione di un gene (FGFR2) e già trattate con la chemioterapia è disponibile da pochi mesi in Italia una nuova terapia mirata che consente di ridurre le dimensioni del tumore, migliorando la sopravvivenza. I passi in avanti della ricerca devono però essere accompagnati da un cambiamento culturale nell’approccio alla malattia. Vanno sensibilizzati i medici non specialisti, perché sappiano riconoscere i primi segni della neoplasia, e va istituito un registro dei centri di riferimento, che possono garantire un approccio multidisciplinare con team dedicati.

Sintomi e fattori di rischio

Inoltre tutti i pazienti devono essere sottoposti alla profilazione genomica, per individuare eventuali alterazioni molecolari per la scelta della migliore terapia. «Il colangiocarcinoma è un tipo di tumore primitivo del fegato che ha origine dai colangiociti, le cellule che rivestono i dotti biliari, cioè i canali che trasportano la bile dal fegato all’intestino – spiega Lorenza Rimassa, Professore Associato di Oncologia Medica presso Humanitas University, IRCCS Humanitas Research Hospital di Rozzano (Milano) -. Il colangiocarcinoma è una patologia rara ma in costante crescita, ogni anno in Italia si stimano circa 5400 nuovi casi. Si distingue in base alla sede d’insorgenza in intraepatico, se si sviluppa all’interno del fegato, ed extraepatico, se nasce dalle vie biliari extraepatiche. Le forme intraepatiche si manifestano nei pazienti affetti da malattie delle vie biliari, come colangite sclerosante primitiva e calcoli biliari. Nei Paesi occidentali sono in aumento proprio queste forme, su cui incidono anche gli stili di vita scorretti. Tra i fattori di rischio, infatti, vi sono la sindrome metabolica, l’obesità, la steatosi e cirrosi epatica, l’epatopatia cronica, l’abuso di alcol e il fumo di sigaretta. Ma, nella maggior parte dei casi, è difficile identificare una specifica causa». La diagnosi è più semplice nelle forme extraepatiche, spesso caratterizzate da ittero (colorito giallo della cute e delle sclere, dovuto all’accumulo di bilirubina nel sangue) con urine scure, feci biancastre e prurito (per l’aumento dei livelli di sali biliari nel sangue).

Un quarto dei casi scoperto per caso

Il colangiocarcinoma intraepatico di solito è asintomatico per lungo tempo e i sintomi iniziali, ad esempio dolore addominale, perdita di peso, nausea, malessere, non sono specifici. «Ecco perché circa un quarto dei casi di carcinoma intraepatico è scoperto in modo accidentale, ad esempio a seguito di un’ecografia addominale eseguita per altri motivi – sottolinea Rimassa -. Possono trascorrere sei mesi dalla comparsa dei primi sintomi alla diagnosi certa. Da qui la necessità di un cambiamento culturale con campagne di sensibilizzazione che coinvolgano tutti i medici non specialisti, a partire dai medici di famiglia, per migliorare il loro livello di conoscenza di una neoplasia rara ma molto aggressiva. Solo così potremo migliorare i tempi per arrivare alla diagnosi». La sopravvivenza a 5 anni è pari al 17% negli uomini e al 15% nelle donne, ma se la malattia è riscontrata in uno stadio precoce arriva fino al 50%. «La chirurgia, se effettuata sulla malattia in stadio iniziale, può avere esito risolutivo – dice Alfredo Guglielmi, Professore Ordinario di Chirurgia Generale ed Epatobiliare all’Università di Verona -. Purtroppo solo il 25% dei pazienti è candidato all’intervento, che è particolarmente difficile perché richiede l’utilizzo di tecniche avanzate, chirurghi con una formazione specifica, team multidisciplinari e centri di alta specializzazione».

Chirurgia e farmaci

«Con l’affinamento delle tecniche chirurgiche, questi interventi sono diventati sempre più sicuri e possono garantire buoni risultati a lungo termine - prosegue Guglielmi -. Si procede con la resezione epatica per il colangiocarcinoma che cresce all’interno del fegato e con la resezione del pancreas per il tumore che si sviluppa al di fuori dal fegato o dentro la testa del pancreas. Il trattamento chirurgico mira alla rimozione completa della neoplasia. In molti casi, dopo l’intervento è indicata una chemioterapia precauzionale». Nei pazienti che non possono essere operati o nei quali la malattia si è ripresentata, oggi il trattamento di prima scelta è rappresentato dalla chemioterapia, a breve associata all’immunoterapia, che non è risolutiva ma contribuisce a controllare l’evoluzione del tumore, anche se nella maggior parte dei pazienti la malattia si ripresenta.

Mutazioni genetiche

«Circa la metà dei colangiocarcinomi intraepatici presenta una o più mutazioni geniche, alcune trattabili con farmaci a bersaglio molecolare – afferma Giancarlo Pruneri, Ordinario di Anatomia Patologica all’Università degli Studi di Milano e direttore del Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano -. L’analisi anatomo-patologica e la stadiazione del tumore devono sempre accompagnarsi alla ricerca di mutazioni, da eseguire tramite le nuove tecniche di sequenziamento genico. In particolare, il test NGS (Next Generation Sequencing) fornisce la visione più completa di un ampio numero di geni: è in grado di analizzare oltre 300 mutazioni geniche e può individuare le alterazioni molecolari da minime quantità di tessuto. L’utilizzo di pannelli di grandi dimensioni, rispetto al modello "single gene", migliora la capacità di catturare le alterazioni molecolari utili per consentire l’accesso a terapie mirate». La fusione o il riarrangiamento del recettore 2 del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR2) è presente in circa il 10% dei colangiocarcinomi intraepatici. Lo scorso giugno l'Agenzia Italiana del Farmaco  (Aifa) ha approvato la rimborsabilità di una nuova terapia mirata (pemigatinib), per il trattamento della malattia localmente avanzata o metastatica con fusioni o riarrangiamenti del gene FGFR2 che hanno manifestato progressione del tumore dopo almeno una linea precedente di terapia sistemica.

Trattamento di seconda linea

Si tratta di un importante cambiamento nel trattamento in seconda linea, finora privo di una terapia personalizzata. Pemigatinib ha dimostrato di offrire un importante beneficio in termini di risposte obiettive, cioè di riduzione delle dimensioni del tumore, nel 37% dei pazienti. Inoltre ha evidenziato una sopravvivenza mediana di quasi un anno e mezzo (17,5 mesi). «Un risultato molto importante, perché siamo di fronte a pazienti pretrattati – conclude Rimassa -. Per comprendere la portata del dato, basta pensare che nella prima linea di trattamento con la chemioterapia la sopravvivenza mediana è di circa un anno. Valutazione in un centro di riferimento, discussione del percorso di cura da parte di un team multidisciplinare e profilazione molecolare per la ricerca delle mutazioni sono i tre passaggi fondamentali per garantire la migliore assistenza ai pazienti con colangiocarcinoma. È importante che venga istituito quanto prima un registro dei centri di riferimento che trattano ogni anno un alto volume di casi, seguendo l’esempio delle Breast Unit per il carcinoma della mammella». L’approccio multidisciplinare e la profilazione genomica sono stati al centro del convegno nazionale «FIrST-in Colangiocarcinoma», che si è svolto a Napoli (i materiali del convegno sono disponibili sul sito colangiocarcinoma.net).

Cos'è il "fumo di terza mano" e perché è nocivo per la salute. Oltre al fumo diretto e a quello passivo, esiste una terza tipologia altrettanto dannosa per la salute umana. Ecco di cosa si tratta e cosa hanno scoperto gli studiosi. Alessandro Ferro il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

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 Cos'è la "terza mano"

 Da una a 10 sigarette

 Cosa succede in auto

Il fumo di una sigaretta può provocare danni e problematiche in molte sue forme. Ben sappiamo, da decenni, che è una delle cause primarie del tumore ai polmoni dei fumatori ma gli effetti negativi si notano anche nei cosiddetti "fumatori passivi", coloro i quali si trovano a respirare le emissioni novice prodotte direttamente dal fumo. Il ministero della Salute fa sapere che anche l'esposizione involontaria può portare ad assumere "sostanze cancerogene e di altri componenti tossici e nocivi per la salute". Ma c'è una terza tipologia di fumo passivo sconosciuta ai più ma che è ugualmente nociva e potenzialmente pericolosa per il nostro organismo.

Cos'è la "terza mano"

I fumatori, senza volerlo, veicolano sostanze tossiche anche quando materialmente non stanno fumando nessuna sigaretta: è il caso degli ambienti chiusi e scarsamente areati (vedi cinema e teatri) che, spettacolo dopo spettacolo, accumulano nell'aria così come nelle varie superfici alcune sostanze che derivano direttamente dalla combustione del tabacco e, inconsapevolmente, vengono respirati e assunti dallo spettatore in sala. Lo spiega bene il team dell'Ospedale Bambino Gesù che parla di "fumo di terza mano" quando c'è l'ingestione o l'assorbimento attraverso la pelle "delle sostanze depositate nell'ambiente e passate al bambino tramite contatto involontario". Attenzione, perché quello che vale per i più piccoli è lo stesso pure per adulti e anziani.

Da una a 10 sigarette

Come avrete capito, è una sorta di fumo passivo ma senza nessuno vicino dal quale insipiriamo le sostanze: infatti, deriva tutto esclusivamente dall'ambiente chiuso in cui ci troviamo. Come riporta Science, uno studio ha valutato i rischi collegati a questo particolare tipo di situazione: il lavoro ha preso in esame un cinema a Mainz, in Germania, dove da 15 anni vige l'assoluto divieto di accendere sigarette e quant'altro. Il prof. Drew Gentner, ingegnere ambientale alla Yale University e autore principale dello studio, assieme al suo team ha posizionato uno "spettrometro di massa", una macchina in grado di rilevare le sostanze chimiche all'interno dei condotti di areazione del cinema. Ebbene, soltanto in 4 giorni, i ricercatori hanno scoperto fino a 35 diverse sostanze chimiche direttamente collegate al tabacco (tra cui benzene e formaldeide). Eppure, lì dentro nessuno si era mai azzardato ad accendere una sola sigaretta.

"L'unico modo in cui i contaminanti avrebbero potuto farsi strada era attaccarsi ai vestiti e ai corpi dei membri del pubblico che erano stati intorno al fumo prima di entrare", hanno spiegato i ricercatori, aggiungendo che era come se uno spettatore si fosse trovato davanti a una persona che fumasse tra una e 10 sigarette nell'arco del film. Georg Matt, psicologo della San Diego State University, da oltre 20 anni studia il fumo di terza mano per scovare tutte le sostanze chimiche depositate sulle superfici dal fumo del tabacco: un altro studio ha messo in luce come il fumo di terza mano possa resistere anche in appartamenti vuoti fino a 2 mesi dopo che i fumatori si sono trasferiti. Tempi ancora più lunghi per un classico casinò con una durata record di sei mesi.

Cosa succede in auto

Neanche a dirlo, uno degli ambienti chiusi che si impregna maggiormente di queste sostanze è l'auto, con i componenti della sigaretta che si depositano sui sedili ma in generale sugli interni e a nulla serve abbassare soltanto il finestrino. Alcuni studi hanno dimostrato che possono esserci concentrazioni nocive anche 20 volte superiori a quelle degli ambienti domestici. Chi respira questa robaccia può andare incontro a malattie di carattere respiratorio (asma e bronchiti) fino a patologie in grado di innescare perfino l'aterosclerosi.

Tumori, più decessi al Nord. La pianura Padana e in particolare la provincia di Lodi sono tra le aree più a rischio in Italia. Lo studio, condotto dai ricercatori delle Università di Bologna e di Bari e del Cnr, è stato pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment. Mariagiulia Porrello il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Decessi per cancro: l’inquinamento ambientale ha un ruolo rilevante. E purtroppo contro un ambiente insano uno stile di vita di qualità è utile sì, ma non decisivo. A dimostrarlo è un ampio studio, basato su innovativi metodi di intelligenza artificiale, condotto su scala nazionale dai ricercatori dell’Università di Bologna, dell’Università di Bari e del Cnr.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science of the Total Environment e l'intera banca dati decennale (2009-2018) sui tassi di mortalità per cancro messa a punto dagli studiosi, realizzata a partire dai registri ISTAT, è stata pubblicata con accesso libero.

I tumori nel mondo e in Italia

I tumori sono oggi la seconda causa di morte al mondo dopo le malattie cardiovascolari. Tra le cause principali ci sono lo stile di vita, in particolare abitudini come obesità, sedentarietà, scorretta alimentazione, alcolismo e fumo, e fattori casuali o genetici. Ed anche l’inquinamento ambientale fa la sua parte. In Italia si contano circa 400 mila nuovi casi di tumori maligni all’anno, con una media annuale di decessi per tumore, secondo i registri oncologici italiani, di circa tre morti ogni mille persone.

La correlazione tra morti per tumore e inquinamento: lo studio

Il gruppo di ricercatori ha analizzato i legami tra mortalità per cancro, fattori socioeconomici e fonti di inquinamento ambientale in Italia, su scala regionale e provinciale.

Quello che è emerso è che la mortalità per cancro tra gli italiani non ha una distribuzione né casuale né spazialmente ben definita. Il numero dei decessi infatti supera quello della media nazionale soprattutto dove l’inquinamento ambientale è più elevato. E ciò anche se si tratta di zone in cui le abitudini di vita sono in genere più sane.

Gli studiosi hanno preso in considerazione 35 fonti ambientali di inquinamento, quali, ad esempio, industrie, pesticidi, inceneritori e traffico automobilistico. Gli esperti hanno quindi rilevato che la qualità dell’aria è al primo posto per importanza per quanto riguarda l’associazione col tasso medio di mortalità per cancro. Seguono la presenza di siti da bonificare, le aree urbane, la densità dei veicoli a motore e i pesticidi.

Inoltre, altre specifiche fonti ambientali di inquinamento si sono rivelate significative per la mortalità di alcune tipologie di tumore. Per esempio, l’incidenza della mortalità da tumori al tratto gastrointestinale aumenta dove sussistono aree coltivate. La vicinanza a strade e acciaierie incrementa le morti per cancro alla vescica. Tumori alla prostata e linfomi sono più diffusi in aree urbane a forte industrializzazione.

Le zone maggiormente a rischio in Italia

Lo studio ha messo in luce dati interessanti sul tasso di mortalità da tumore nel decennio 2009 – 2018 delle singole aree. La provincia “peggiore” in questo senso è risultata quella di Lodi, seguita da Napoli, Bergamo, Pavia, Sondrio e Cremona. La prima provincia del centro Italia è Viterbo (11° posizione), seguita da Roma (18°), mentre al sud, oltre alla provincia di Napoli, solo quella di Caserta (8°) rientra nelle prime 10 per mortalità da tumore.

Le regioni italiane in cui si muore di più di cancro sono quelle più inquinate. E questo nonostante in tali zone gli altri fattori di norma associati al rischio di cancro (come sovrappeso, fumo, basso reddito, alto consumo di carne e basso consumo di frutta e verdura) non siano molto presenti.

“Questi risultati non mettono in discussione, ovviamente, il fatto che uno stile di vita più sano aiuta a ridurre il rischio di cancro - dichiara in una nota dell’ateneo bolognese Roberto Cazzolla Gatti, professore del Dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali dell'Università di Bologna e primo autore dello studio - così come non contestano gli sforzi per arrivare a comprendere le basi genetiche che possono favorire l’insorgere dei tumori. I nostri risultati, però – aggiunge - ci danno buone ragioni per credere che vivere in un’area altamente inquinata può annullare i benefici che si ottengono con uno stile di vita sano e indurre lo sviluppo di tumori con una frequenza maggiore”.

Dato che la vita dipende strettamente dalla salute dell’ambiente, è necessario, secondo il primo autore dell’opera, dare priorità non solo alla ricerca di cure per il cancro, ma anche alla riduzione e alla prevenzione della contaminazione ambientale.

"I dati mostrano buone, anche se preliminari, evidenze che un migliore stile di vita e una maggiore attenzione alle problematiche socio-economiche e sanitarie possono ridurre solo in parte il rischio di morire di cancro, se la qualità dell'ambiente viene sottovalutata", spiega Cazzolla Gatti. "Questo – precisa - potrebbe spiegare il motivo per cui abbiamo osservato che le persone che vivono nelle regioni del Nord Italia, in particolare quelle situate nella Pianura Padana, tra la Lombardia e il Veneto, aree fortemente industrializzate, esposte a livelli di inquinamento ambientale molto elevati, mostrano un eccesso di mortalità per cancro significativo rispetto a chi vive nelle regioni centro-meridionali (ad eccezione di alcune località anch’esse molto inquinate, come la Terra dei Fuochi in Campania)”. E questo nonostante godano di una migliore salute e abbiano accesso più facile all’assistenza sanitaria.

Tumore dell’appendice, i sintomi del raro carcinoma a cui fare attenzione. Franco Marchetti su Il Corriere della Sera il 14 Ottobre 2022.

Su 100 appendicectomie una nasconde un cancro che, se non trattato, può provocare gravi complicanze. Nel 60-70% dei casi si guarisce

Su 100 appendici asportate una nasconde un tumore che, pur non essendo spesso aggressivo, se non adeguatamente trattato può provocare una grave complicazione, lo pseudomixoma del peritoneo, malattia in cui l’intera cavità addominale viene invasa da una sorta di gelatina frammista a cellule neoplastiche.

Sintomi subdoli

«Molto spesso il tumore dell’appendice provoca la perforazione dell’appendice stessa , ma solo nella metà dei casi si manifesta con un quadro di appendicite acuta» spiega Marcello Deraco, responsabile della S. S. Tumori Peritoneali dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Si tratta dei pazienti più “fortunati” perché hanno dei sintomi, quindi vanno in pronto soccorso, vengono operati di appendicectomia e il tumore viene rimosso. «Spesso ci sono però delle perforazioni dell’appendice in cui il muco che esce non provoca una reazione infiammatoria, per cui il paziente magari avverte fastidio, o comunque sintomi modesti cui non dà peso – aggiunge il chirurgo –. Il materiale, però, continua a uscire, continua a prodursi ulteriore materiale e si forma lo pseudomixoma. La malattia va avanti per mesi, anni finché il paziente a un certo punto si accorge di avere la pancia gonfia, che il vestito non gli entra, che la cintura non si chiude, va a fare un’ecografia e scopre la malattia».

Terapie

La buona notizia è che nella maggior parte dei casi (fra il 60 e il 70%), se ben curato, lo pseudomixoma guarisce completamente. La terapia consiste in un intervento chirurgico molto lungo e complesso seguito da un lavaggio dell’addome con una soluzione di chemioterapici riscaldata alla temperatura di 42 gradi. I dati di confronto con il passato parlano chiaro: «Quando veniva trattato con terapie “non radicali” la sopravvivenza mediana era di 36 mesi, adesso siamo passati a una media di 220 mesi – precisa Deraco – . Questo significa che il trattamento ha cambiato la storia naturale della malattia». Qualche problema può esserci però anche per i pazienti più “fortunati”, quelli in cui il tumore dell’appendice si era presentato sotto forma di appendicite acuta e che erano stati operati. In questi casi la raccomandazione è di rivolgersi a un centro di riferimento.

Malattia rara

«Essendo una malattia rara, che non tutti i chirurghi conoscono bene, accade che si applichino trattamenti che non sono coerenti con la situazione e così può accadere che venga asportato il colon destro in casi in cui non ce n’è assolutamente bisogno o che al contrario in pazienti in cui si dovrebbe procedere con una radicalizzazione, per esempio una emicolectomia destra o una peritonectomia selettiva, non viene fatto niente – prosegue il chirurgo – . In realtà, la decisione dipende da una serie di fattori: se il tumore è perforato o non è perforato, il tipo istologico del tumore, se interessa o meno il peritoneo e così via. Insomma, ci sono molti elementi che, considerati insieme, consentono di procedere nella maniera migliore per il paziente, secondo le indicazioni contenute in un documento di consenso che abbiamo redatto come AIOM (Associazione italiana di oncologia medica)».

Progetto europeo

La necessità di affinare le conoscenze sui tumori dell’appendice e sullo pseudomixoma del peritoneo hanno portato alla realizzazione di un progetto di ricerca europeo che coinvolge studiosi italiani, spagnoli e britannici. Reso possibile anche grazie al sostegno di AIRC, il progetto «Accelerator Award on Appendiceal Mucinous Neoplams and Pseudomyxoma Peritonei», di cui Marcello Deraco è il principale ricercatore, si propone di trovare degli strumenti per definire in maniera più precisa la prognosi del singolo paziente in base alle caratteristiche pure genetiche del tumore con conseguente personalizzazione del trattamento ma anche, una volta individuati errori nel profilo genetico dei tumori, di trovare farmaci target in grado di agire in maniera mirata sul difetto presente nella cellula tumorale. I frutti di questa ricerca potranno essere particolarmente utili soprattutto a quella minoranza di pazienti in cui la malattia recidiva, per i quali un nuovo intervento chirurgico non sempre è possibile e in cui i farmaci chemioterapici attualmente disponibili non sono efficaci.

Perché i bambini si ammalano di tumore? Cosa ha scoperto, finora, la scienza. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 10 Ottobre 2022.

Ogni anno in Italia circa 2.300 bambini e adolescenti ricevono una diagnosi di tumore. Esistono fattori di rischio genetici e ambientali. Quanto alle altre cause ci sono molti sospetti e poche certezze. 

Molti progressi sono stati fatti, nei decenni più recenti, sul fronte delle terapie e della diagnosi precoce dei tumori pediatrici, ma ancora poco si conosce su come originano: per circa il 90 per cento dei casi la causa è ancora oggi ignota e si ipotizza che siano dovuti all’effetto dell’interazione tra vari fattori esterni con il patrimonio genetico di ciascuno di noi, che varia molto da soggetto a soggetto anche all’interno della stessa famiglia. I fattori di rischio studiati sono numerosi, ma le conclusioni sono ancora molto incerte.

Guarigioni in crescita

Ogni anno nel mondo oltre 300mila bambini e adolescenti ricevono una diagnosi di cancro: sono più di 60 i sottotipi diversi di tumori che colpiscono i più giovani e in Italia si registrano più o meno 1.500 diagnosi annue nella fascia di età 0-14 anni e 800 in quella adolescenziale, tra i 15 e i 19 anni, con una ripartizione per tipo di tumore differenziata secondo le fasce di età. Sebbene le guarigioni siano in continuo aumento (oggi oltre l’80% dei giovanissimi malati guarisce, con punte del 90% per leucemie, linfomi e tumori del rene, che sono peraltro fra le patologie più comuni in questa fascia d’età), le neoplasie restano la prima causa di morte per malattia durante l'infanzia. «Purtroppo è ancora limitata l’informazione su come nascono i tumori, soprattutto rispetto a quelli che esordiscono in età pediatrica, ma è stata dimostrata l’esistenza di precisi fattori di rischio, che si possono suddividere in genetici e ambientali — spiega Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Oncoematologia pediatrica e terapia cellulare e genica dell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma —. Il ruolo dei fattori genetici nelle neoplasie pediatriche è un argomento ampiamente dibattuto e ancora lontano da una conclusione definitiva. In sintesi si può dire che, oltre al paradigmatico e ben noto caso del retinoblastoma (che colpisce l’occhio) e del nefroblastoma (che interessa il rene), il numero dei tumori determinati geneticamente è relativamente modesto, pari ad appena il 4-6 per cento del totale dei casi».

Predisposizione genetica

Solo per i retinoblastomi è stato calcolato che la componente genetica si aggiri intorno al 50 per cento circa, mentre per i nefroblastomi sarebbe nell’ordine del 5 per cento. Questi tumori (chiamati anche ereditari perché l’alterazione genetica implicata nella trasformazione cancerogena delle cellule interessa le cellule germinali) sono inquadrabili nelle cosiddette «sindromi neoplastiche familiari» quali, per esempio, la neurofibromatosi di tipo I (che predispone al rischio di sviluppare la leucemia mielo-monocitica giovanile o il neuroblastoma, il tumore solido più frequente dell’età pediatrica) e la sindrome di Li-Fraumeni, il cui riconoscimento diventa essenziale ai fini di una corretta prevenzione, oltre per la modulazione di scelte relative al trattamento. Ciò significa che, quando queste sindromi sono presenti in un gruppo familiare, i suoi membri hanno una predisposizione genetica ai tumori ovvero un aumentato rischio di sviluppare una neoplasia e devono quindi sottoporsi a speciali controlli. «Negli ultimi anni sono state riconosciute altre condizioni eredo-familiari predisponenti allo sviluppo di leucemie acute, sia mieloidi che linfoidi — precisa Locatelli —. Inoltre, anche nell’ambito delle sindromi mielodisplastiche dell’età pediatrica, sono state recentemente riconosciute mutazioni a carico di geni, quali GATA-2 o SAMD9, che sottendono allo sviluppo di queste condizioni pre-leucemiche. Non può, infine, essere dimenticato il rischio incrementato di sviluppare quadri di leucemia acuta (soprattutto mieloide nei primi 5 anni di vita e poi linfoide) che hanno i bambini affetti da sindrome di Down, la più nota delle alterazioni dell’asseto costituzionale dei cromosomi».

Fattori esterni

Inoltre, a differenza di quanto dimostrato nei tumori dell’adulto, si ritiene che per meno del 3 per cento dei tumori pediatrici sia plausibile una diretta correlazione con esposizioni ambientali (infezioni, agenti fisici o sostanze chimiche). In particolare i fattori esterni per cui è stato dimostrato in modo sicuro un aumento del rischio di tumori pediatrici sono le radiazioni ionizzanti (inclusa la radioterapia e l’uso scorretto delle radiazioni a scopo diagnostico durante la gravidanza) che causano un ampio spettro di tumori ematologici e solidi. In particolare, le neoplasie indotte da pregresso trattamento radiante erogato per un determinato tipo di tumore vengono definite come neoplasie secondarie, spesso connotate da probabilità di guarigione inferiori rispetto a quelli dei tumori primitivamente insorti. Una menzione particolare meritano le neoplasie indotte da infezioni virali quali, per esempio, i linfomi provocati dall’infezione dal virus di Epstein-Barr in condizioni d’immunodeficienza congenita o acquisita con farmaci. 

Molti sospetti, poche conferme

«Molto maggiore è il numero di fattori sospetti, per ora senza inconfutabili evidenze di solida certezza di nesso causale in pediatria — conclude Locatelli —: l’esposizione diretta a gas di scarico (per il benzene) o a pesticidi, l’esposizione a campi elettromagnetici a bassa frequenza. Sono anche state studiate le esposizioni lavorative dei genitori fino da prima della concezione del bimbo, così come le loro abitudini di vita, la dieta, il consumo di tabacco e alcol. Dal punto di vista della prevenzione, in linea di principio è bene evitare esposizioni dei bambini non solo ad agenti nocivi noti, ma anche a quelli sospetti, nell’attesa che la comunità scientifica dimostri la loro sicurezza».

Tumori gastrointestinali, troppe diagnosi in ritardo: poca attenzione ai sintomi e alla prevenzione. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2022.

Dolore addominale persistente, perdita di peso senza causa evidente, nausea, inappetenza, un generale senso di debolezza e stanchezza, sangue nelle feci o diarrea. Sintomi spesso sottovalutati o confusi con quelli di altre patologie, ma che per 78mila italiani ogni anno preannunciano la scoperta di un tumore gastro-intestinale. Tanti sono i nuovi casi diagnosticati ogni anno nel nostro Paese di cancro al colon retto, allo stomaco, al pancreas o alle vie biliari. Malattie che se da un lato vengono troppo spesso individuate tardi, quando sono ormai in fase avanzata, più difficili da curare e con meno probabilità di guarire, d’altro canto possono pure in gran parte essere prevenute con corretti stili di vita. E che è importante siano trattate in centri di riferimento, dove lavorano specialisti di esperienza e che si confrontano in gruppi multidisciplinari. Per questo l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) ha deciso di lanciare una nuova campagna informativa, presentata oggi a Roma durante la seconda giornata del congresso nazionale Aiom. «Come sempre in oncologia bisogna puntare sulle diagnosi precoci e le terapie efficaci – ricorda Giordano Beretta, presidente di Fondazione Aiom -. Il tempo è prezioso e individuare una neoplasia ai primi stadi significa poter intervenire in modo meno invasivo, con maggiori possibilità di eradicarla del tutto».   

Colon: 8 su 10 si potrebbero evitare

Ecco perché è importante non trascurare sintomi, seppur vaghi e parlare con un medico che deciderà se e quali accertamenti fare in base al singolo caso. C’è poi un semplice esame che può salvare la vita: il test del sangue occulto nelle feci (Sof) viene offerto dal Servizio sanitario nazionale a tutti i cittadini fra i 50 e i 70 anni che ricevono, ogni due anni, una lettera da parte della propria Asl con l’invito ad andare nella farmacia più vicina a ritirare un piccolo contenitore nel quale raccogliere un campione di feci, per poi restituirlo e ricevere la lettera con il referto a casa nell’arco di un paio di settimane. « Con 43.700 nuovi casi annui è il secondo tipo di cancro più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo nella poco ambita classifica dei più letali – aggiunge Beretta -: 8.700 casi l’anno sono individuati quando hanno già sviluppato metastasi, ma nove tumori del colon su 10 potrebbero essere evitati individuando adenomi e polipi prima che evolvano in un carcinoma vero e proprio. Ci vogliono anni, ma la metà degli italiani butta l’invito a fare il test Sof nel cestino».  

Stomaco, pancreas, colangiocarcinoma: tante diagnosi in ritardo

«Per le altre patologie invece non esistono esami di screening da poter fare a tappeto su tutta la popolazione di una certa età – spiega Saverio Cinieri, Presidente Nazionale AIOM. Anzi sono malattie oncologiche silenti e che tendono a comparire con segnali evidenti quando ormai è tardi. Ogni anno in Italia sono 14.500 le diagnosi di tumore allo stomaco, 14.300 quelle al pancreas e 5.400 i colangiocarcinomi, rari tumori delle vie biliari. Sono tutte malattie che ancora troppo spesso vengono individuate in stadio avanzato, non di rado metastatico, quando abbiamo meno trattamenti efficaci a disposizione, anche se negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate e in alcuni casi, grazie alle nuove terapie migliora l’aspettativa di vita dei pazienti, in qualità e quantità». I numeri inquadrano il problema: soltanto il 7% delle neoplasie gastriche è diagnosticato nelle fasi iniziali, così la sopravvivenza dei pazienti a cinque anni è attorno al 30% (rispetto al 65% del colon), per il colangiocarcinoma scende purtroppo al 15% e per il pancreas è di poco superiore al 10%.  

L’importanza dell’esperienza

«La ricerca scientifica ha messo a punto, nel corso degli ultimi anni, dei trattamenti chemioterapici e farmaci innovativi che stanno migliorando progressivamente le opportunità di cura e aumentando l’aspettativa di vita - dice Nicola Silvestris, membro del consiglio direttivo Aiom -. Vogliamo dare speranza a malati e familiari e sottolineare l’importanza di gestire le quattro neoplasie in stadio avanzato solo in centri di riferimento e che garantiscano un reale approccio multidisciplinare. Sono diverse le figure professionali coinvolte: oncologo, chirurgo, anatomo-patologo, radioterapista, nutrizionista e psicologo. Le strutture sanitarie devono avere le giuste competenze e tecnologie soprattutto per la somministrazione dei trattamenti chirurgici. Sono operazioni difficili e che possono presentare molte complicanze. Emblematico in questo senso è il tumore del pancreas che può essere curato con il bisturi nel 20% dei casi: diverse ricerche, anche italiane, hanno chiaramente dimostrato che la mortalità è più elevata nei centri che operano poco». 

I tumori del tratto gastro-intestinale risentono di stili di vita scorretti a partire dall’alimentazione. «Alla cattiva alimentazione è riconducibile più del 30% di tutti i carcinomi solidi - ricorda Filippo Pietrantonio, membro del Direttivo Aiom – e ciò che mettiamo nel piatto influisce pesantemente anche sulle neoplasie dell’apparato digerente Fattori dietetici quali il consumo di carni rosse e di insaccati, farine e zuccheri raffinati e il consumo di cibi salati, conservati o affumicati fanno salire il pericolo di ammalarsi, come l’eccessivo consumo di bevande alcoliche e il fumo. Le probabilità aumentano anche per chi è sovrappeso, obeso e per chi fa scarsa attività fisica». L’iniziativa informativa Aiom «Qualità di vita nel Paziente con Neoplasia Avanzata nei Tumori Gastro-Intestinali» (resa possibile da un educational grant del Gruppo Servier in Italia) partirà nelle prossime settimane e prevede una campagna social specifica sugli account ufficiali della società scientifica. Verranno poi organizzati quattro webinar a ridosso delle giornate mondiali dedicate alle neoplasie (novembre per pancreas e stomaco; febbraio per colangiocarcinoma e marzo per colon-retto).

 Tumore al pancreas, i sintomi da non trascurare: che cosa si può fare oggi. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

L’improvvisa comparsa del diabete e le feci chiare tra i segnali della malattia. Gli interventi vanno eseguiti solo in centri con esperienza. A 5 anni dalla diagnosi solo il 10% dei pazienti è ancora vivo. 

Pochi e lenti, eppure anche per nel tumore al pancreas i progressi negli ultimi anni ci sono stati: l’aspettativa di vita che era per lo più di pochi mesi per un numero crescente di malati che oggi si riescono a operare arriva anche fino a tre anni. Certo molto meno rispetto ad altri tipi di cancro e, soprattutto, di quanto sperano i diretti interessati, le loro famiglie e gli specialisti che li curano.

Che cosa è cambiato

«I pazienti si sentono spesso soli ad affrontare una neoplasia difficile, con una prognosi severa – dice Massimo Falconi, presidente dell’Associazione italiana studio pancreas (AISP) durante il congresso annuale appena tenutosi a Bergamo -. Noi esperti di questa patologia abbiamo lavorato sodo, fatto tante ricerche e siamo arrivati a delle piccole-grandi conquiste: negli ultimi 20 anni l’efficacia e la sicurezza della chemioterapia sono migliorate grazie all’aumento dei farmaci disponibili e al loro utilizzo in combinazione. Abbiamo capito e dimostrato quale chemio somministrare prima dell’intervento chirurgico e per quanto tempo. E’ ormai evidente che l’operazione va fatta solo in centri con determinati requisiti, dove si concentrano più mani esperte. E abbiamo anche scoperto alcune tipologie di persone più a rischio d’ammalarsi, in moto da poterle “sorvegliare” (come i portatori dei geni BRCA mutati). Così abbiamo guadagnato mesi di vita per ciascun paziente, mesi preziosi, ma certo non basta».esto

Si fa poca ricerca

L’AISP integra da più di 40 anni in un contesto multidisciplinare tutte le professionalità (chirurghi, oncologi, gastroenterologi, radiologi, radioterapisti e altre ancora) interessate alla ricerca scientifica e alla cura delle malattie del pancreas. La missione dell’associazione è educazionale, scientifica e di supporto a pazienti e familiari. «Si fa troppa poca ricerca su questo tumore ed è quasi del tutto finanziata dalle associazioni di malati, nate quasi tutte in ricordo di qualcuno che non c’è più – spiega Silvia Carrara, Gastroenterologia e Endoscopia Digestiva all’Humanitas di Milano, che in AISP segue i rapporti con i rappresentati dei malati -. Sono i parenti che si rimboccano le maniche per trovare i fondi da destinare a studi e sperimentazioni. Dobbiamo ringraziare loro, l’industria farmaceutica in questo settore investe davvero molto poco».  «Anche dalle Istituzioni, lente nel prendere decisioni, serve molto più sostegno – prosegue Michele Reni, oncologo e responsabile del programma strategico di coordinamento clinico del Centro del Pancreas al San Raffaele di Milano -. Qualche anno fa dalle sperimentazioni emergeva un nuovo farmaco efficace in una piccola percentuale di pazienti, ma in Italia purtroppo non è stato approvato. Da anni, poi, aspettiamo che si creino le Pancreas Unit, ovvero dei centri ospedalieri che abbiamo un’equipe altamente specializzata e determinati criteri per poter trattare un tumore del pancreas: è un passaggio determinante».

I sintomi

«Il tumore del pancreas è insidioso perché in fase precoce non dà sintomi particolari e i segnali più evidenti compaiono quando ha ormai iniziato a diffondersi agli organi circostanti o ha ostruito le vie biliari - ricorda Alessandro Zerbi, responsabile della chirurgia pancreatica dell'Istituto Humanitas di Milano -. È bene parlare con un medico in caso di comparsa improvvisa del diabete in un adulto senza fattori di rischio specifici; dolore persistente nella zona dello stomaco o a livello della schiena al punto di passaggio tra torace e addome; importante calo di peso non giustificabile; steatorrea (cioè feci chiare, oleose, poco formate, che tendono a galleggiare); comparsa di trombi nelle vene delle gambe, soprattutto in età giovanile o senza fattori di rischio specifici; diarrea persistente non spiegata da altre cause».

Troppi morti negli ospedali con poca esperienza

Diversi studi lo dimostrano, numeri alla mano, che servono centri specializzati nella cura: dei 395 ospedali italiani censiti da una ricerca coordinata dal San Raffaele e pubblicata sul British Journal of Surgery nel 2020, ben 300 (il 77% delle strutture) aveva realizzato in media solo tre operazioni al pancreas all’anno. «Un numero troppo basso, considerando che la chirurgia pancreatica è la più complessa di tutta l'area addominale — sottolinea Falconi, direttore del Centro del Pancreas del San Raffaele—. Il risultato è che la mortalità sul territorio varia da un 3% nei centri più eccellenti e a maggior volume fino a oltre il 25% in altri centri di minor esperienza, con risultati disastrosi per i pazienti».

Ogni anno 14 mila nuove diagnosi in Italia

In Italia il tumore al pancreas colpisce ogni anno circa 14.000 persone, la maggior parte delle quali fra i 60 e gli 80 anni. Aggressivo e ancora difficile da combattere (a 5 anni dalla diagnosi è vivo in media il 10% dei pazienti), resta un nemico difficile da combattere anche perché spesso viene scoperto in fase avanzata. «Ma le aspettative di vita aumentano se si riesce ad avere una diagnosi precoce, per cui è bene non trascurare alcuni campanelli d’allarme e fare il possibile per prevenirlo – conclude Reni - . Oltre a fumo, diabete, obesità e vita sedentaria, a far aumentare le possibilità di sviluppare un cancro del pancreas è la pancreatite cronica, uno stato d’infiammazione permanente fra le più gravi conseguenze di un abuso cronico di alcol. Infine, la storia familiare è responsabile di quasi il 10% dei tumori pancreatici, che in alcuni casi è possibile spiegare nel contesto di patologie geneticamente trasmissibili note».

Tumori, il 71% delle persone transgender non accede agli screening. Elisa Manacorda su La Repubblica il 23 Settembre 2022.

Dai dati del convegno "Giornate dell'etica in oncologia" di Assisi emerge anche che il 32% ha subito discriminazioni da parte del personale sanitario

Un uomo con tumore alle ovaie, una donna con tumore alla prostata. Una situazione che gli oncologi devono cominciare a prendere sempre più spesso in considerazione, visto che la popolazione transgender e gender non conforming (cioè di genere diverso da quello dichiarato alla nascita), è in aumento. E i primi tra coloro che hanno intrapreso in passato un percorso di transizione verso l’altro sesso stanno ora raggiungendo l’età nella quale il rischio di sviluppare una qualche forma di tumore diventa più concreto. Di loro si parla oggi ad Assisi, al Convegno Aiom sulle Giornate dell’etica in Oncologia. “Tra il 2 e il 4 per cento dei pazienti oncologici in trattamento attivo presso la nostra struttura è transgender”, dice per esempio Davide Dalu, oncologo al Sacco di Milano, “eppure gli operatori sanitari non sono ancora pronti ad accogliere e gestire nel migliore dei modi questi pazienti”, aggiunge Dalu, se è vero che - come dimostrano i risultati di una indagine realizzata in collaborazione con ELMA Research su 190 persone transgender e gender non conforming - gli ospedali rappresentano il quinto luogo in cui questi pazienti subiscono discriminazioni (dopo gli spazi comuni all’aperto, la scuola, i mezzi di trasporto pubblici e i locali notturni). Il 32% infatti riferisce di essere stato vittima di comportamenti discriminatori da parte del personale sanitario. Una discriminazione che può assumere diverse forme: dall’utilizzo del nome assegnato alla nascita al posto di quello scelto, ad atteggiamenti di curiosità inappropriata, a un comportamento meno rispettoso di quello riservato agli altri pazienti, all’ignorare necessità specifiche, al biasimo per il problema clinico fino all’utilizzo di un linguaggio aggressivo. Le cause? La mancanza di esperienza nel trattamento dei problemi specifici di queste persone, la scarsa conoscenza delle loro esigenze cliniche, talvolta anche paura o pregiudizio.

Discriminazione e difficoltà di accesso a prevenzione e cure

Dall’altro lato, quasi la metà degli oncologi (46,2%) riconosce che questi pazienti siano discriminati nell’accesso all’assistenza oncologica e il 18,4% è stato testimone di episodi di questo tipo riconducibili all’identità di genere da parte di operatori sanitari. Una delle conseguenze di questa distanza tra la popolazione LGBTQI+ e il mondo dell’assistenza sanitaria è che il 71 per cento delle persone transgender non ha mai partecipato ad alcun programma di screening anticancro, e quasi un terzo non è in grado di trovare informazioni specifiche per la prevenzione oncologica declinate sulla propria condizione specifica. Molte di loro, inoltre, accedono ai centri per affrontare i problemi oncologici con sensibile ritardo (67,9%), non hanno fiducia nei professionisti della sanità (57%), non accedono del tutto ai centri di cura (44,6%) e non ricevono cure appropriate (22,6%). 

Comprendere e gestire il rischio di tumore nelle persone transgender

E invece il rischio di tumore per questa popolazione c’è e va riconosciuto: nella fase di transizione fra i sessi, queste persone vanno incontro a cambiamenti biologici così importanti da poter favorire l’insorgenza del cancro. “Penso per esempio alla somministrazione di ormoni nelle transizioni MtF, cioè da uomo a donna, per inibire la crescita dei peli o per sviluppare il seno”, sottolinea Saverio Cinieri, Presidente Nazionale AIOM, “aumentando il rischio di tumore”. Non solo: anche in seguito a chirurgia per la trasformazione dell’apparato genitale, la prostata può non essere rimossa e diventare sede di tumore. Con un contorno di questioni legali se il medico di famiglia non può prescrivere un esame del PSA (il marcatore che si utilizza per valutare il rischio di neoplasia alla prostata) a quella che anche all’anagrafe è ormai una donna. 

Formare gli operatori sanitari

Questioni complesse, delicate, spesso sommerse, che coinvolgono aspetti biologici, psicologici, sociali. Che Aiom ha deciso di affrontare, visto che negli ultimi 5 anni il 41,3% degli oncologi ha curato almeno un paziente transgender o gender non conforming colpito da tumore. “L’Oncologia si deve aprire alle molteplici sfaccettature della società e deve essere pronta ad accoglierle con un linguaggio inclusivo – spiega Giordano Beretta, Presidente Fondazione AIOM - Così come individuiamo i sottogruppi di pazienti in base alle alterazioni molecolari per scegliere il trattamento migliore, dobbiamo anche capire come trattare alcuni gruppi di pazienti che hanno bisogno di particolare attenzione per essere curati al meglio”. Per migliorare la qualità dell’assistenza, continuano gli oncologi riuniti ad Assisi, è necessario implementare la formazione dei professionisti, investire in campagne istituzionali per proteggere questi cittadini da ogni forma di discriminazione basata sull’identità di genere e prevedere studi clinici che li includano, considerando le loro specifiche esigenze. 

“La scelta di occuparsi della salute della comunità LGBTQIA+ pone Aiom in linea con le decisioni adottate da tempo dalle società scientifiche dei principali Paesi Europei e degli Stati Uniti”, aggiunge Filippo Pietrantonio dell’Oncologia Medica Gastroenterologica alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano e membro del Direttivo Nazionale Aiom. “È necessario impegnarsi di più per ridurre le disparità di accesso ai trattamenti e agli screening anticancro, che ancora esistono per alcune categorie. Spesso il timore di subire discriminazioni rappresenta per questi cittadini una barriera nei confronti della prevenzione e delle cure”.

Tumore ai testicoli: i sintomi che gli uomini sotto i 40 anni non devono sottovalutare. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022.

Ogni tumefazione dura, indolente e a crescita progressiva va fatta vedere a un medico per la diagnosi precoce. Oltre il 90% dei pazienti guarisce definitivamente. Preservare la fertilità e diventare padri è possibile 

È la forma di tumore più frequente negli uomini con meno di 40 anni: in Italia si contano circa 2mila nuovi casi ogni anno. Fortunatamente, però, ha una bassissima mortalità e più di 9 pazienti su 10 riescono a guarire in modo definitivo. Così, oggi, oltre 63mila connazionali vivono dopo aver ricevuto la diagnosi di tumore germinale del testicolo, malattia altamente curabile, ma che non deve essere sottovalutata. «È una neoplasia in cui i risultati in termini di guarigioni sono eccellenti – sottolinea Ugo De Giorgi, direttore dell'Oncologia Clinica e Sperimentale presso IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori (IRST) “Dino Amadori” -. Tuttavia la diagnosi del tumore presenta delle conseguenze non trascurabili sulla vita del paziente. Il testicolo è un organo fortemente associato alla mascolinità, alla sfera sessuale e ovviamente anche alla fertilità. Oggi la fertilità si può preservare anche per chi ha subito l’asportazione dell’organo e poi ha ricevuto chemio o radioterapia».

I sintomi

I sintomi, di cui essere consapevoli e da non sottovalutare, comprendono: rigonfiamento del testicolo, perdita di volume, sensazione di pesantezza o improvvisa formazione di liquido nello scroto, dolore sordo nella parte inferiore dell’addome o all’inguine , dolore o senso di disagio al testicolo, sangue nelle urine. «La patologia colpisce soprattutto uomini con meno di 40 anni e un paziente guarito ha il diritto di tornare a una vita normale - aggiunge De Giorgi, segretario dell’Italian Germ cell cancer Group (IGG), in cui congresso nazionale appena conclusosi a Milano -. L’autopalpazione del testicolo è importante per la diagnosi precoce e andrebbe effettuata a partire dalla pubertà. Visto che la maggior parte dei pazienti è giovane è fondamentale che i ragazzi ricevano, prima di iniziare l'iter di cure, tutte le informazioni necessarie per poter diventare padri in futuro. Bisogna inserire il malato in un adeguato percorso di assistenza e stabilire che esami svolgere, con quali tempistiche, se prevedere o meno il coinvolgimento dell’andrologo o di altri specialisti. Incluso uno psicologo, che può dare un sostegno prezioso per aiutare a gestire al meglio l'impatto psicologico della malattia».

I controlli

Nei maschi con storia di criptorchidismo (la mancata discesa del testicolo nel sacco scrotale), un’anomalia non grave che riguarda molti bambini, atrofia testicolare, precedente tumore testicolare o familiari di primo grado affetti dalla malattia, oltre all'autopalpazione è indicata anche una visita urologica specialistica annuale. «Nei ragazzi, ogni tumefazione dura, indolente e a crescita progressiva del testicolo deve far pensare alla presenza di un tumore e non, come spesso succede, ai postumi di un’infiammazione, magari legata ad una pallonata un po’ più violenta del solito - precisa Nicola Nicolai, responsabile Sdell'Urologia e Chirurgia del Testicolo all'Istituto Nazionale Tumori (INT) di Milano e presidente IGG -. L’autopalpazione, così come avviene per il tumore al seno nelle donne, è fondamentale per ottenere una diagnosi precoce». Proprio perché si tratta di un tumore raro, il solo fatto di parlarne e, di tanto in tanto, ricordare che esiste può rappresentare un aiuto alle terapie. «Sensibilizzare genitori, giovani e medici di famiglia a questa evenienza, infatti, consente di ridurre il numero dei pazienti con diagnosi tardiva e raggiungere l’obiettivo guarigione utilizzando trattamenti meno invasivi, con minori effetti collaterali - prosegue Nicolai -. Per questo è fondamentale l’apporto anche dell’associazione dei pazienti con tumore del testicolo AITT, molto attiva con varie iniziative, in molteplici livelli, inclusi i social media, utili a raggiungere i più giovani».

Le terapie

Se la malattia è individuata in fase iniziale ed è limitata al testicolo, la chirurgia, con o senza radioterapia, rappresenta la prima scelta. Nelle forme più avanzate, invece, è necessario utilizzare la chemioterapia. Al convegno di Milano sono poi state illustrate anche le ultime novità della ricerca medico-scientifica: «Nel tumore del testicolo le cure “tradizionali”, come la chirurgia o la chemio, sono efficaci e garantiscono ottimi risultati anche nelle forme di malattia avanzata - spiega Franco Nolè, direttore dell'Oncologia Medica Urogenitale e Cervico Facciale dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e presidente del convegno di IGG -. Ben il 93% dei pazienti, infatti, è senza malattia a cinque anni dalla diagnosi e può essere considerato guarito. Per migliorare ulteriormente questa percentuale, ci stiamo perciò concentrando sull’analisi approfondita delle caratteristiche genetico-molecolari e sulla familiarità del cancro. Stiamo conducendo studi, anche nel nostro Paese, sull’uso di nuovi biomarcatori per l’individuazione precoce della recidiva di malattia».«È una forma di cancro sulla quale bisogna ancora lavorare – conclude Paolo Andrea Zucali, responsabile dell'Oncologia del tratto genitourinario dell’Humanitas Cancer Center di Rozzano e presidente del congresso milanese -. Nel nostro Paese riusciamo a garantire ai pazienti un’ottima assistenza, i pazienti italiani hanno tra le più alte chance di cura in Europa. Alcuni nostri centri sono di riferimento anche a livello internazionale perché presentano i più alti volumi di attività a livello europeo. Questo vale nell’erogazione di trattamenti complessi come la chirurgia retroperitoneale o la chemioterapia ad alte dosi con trapianto di staminali».

Tumore al colon, il rischio aumenta per chi consuma troppi cibi ultra-processati e bibite zuccherate.  Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022 

Il legame pericoloso registrato tra gli uomini. Le probabilità aumentano anche per chi è sovrappeso, obeso e fa poca attività fisica. Nove casi su dieci si potrebbero evitare con i controlli. 

Parola d’ordine: «moderazione», ovvero alimentazione equilibrata. A tornare sul tema carni rosse e ultra-processate è uno studio americano pubblicato sulla rivista British Medical Journal che ha analizzato i dati relativi a oltre 200mila persone derivanti da tre diverse ricerche e riguardanti un periodo lungo ben 25 anni.Tutti i partecipanti hanno risposto a questionari inerenti le loro abitudini alimentari e, in particolare, a domande sul consumo di una lista specifica di 130 cibi. I risultati indicano che il rischio di ammalarsi di cancro al colon sale negli uomini che mettono più spesso in tavola cibi e bevande ultra-processati: ovvero salati, essiccati, fermentati, affumicati, trattati con conservanti o in altre maniere per migliorarne il sapore o la conservazione, includendo anche nella lista le bibite zuccherate. Per le donne, invece, non è stato rilevato uno specifico legame pericoloso.

Il 90% dei casi si potrebbe evitare

Con oltre 43.700 nuovi casi registrati ogni anno, è il secondo tipo di tumore più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo nella poco ambita classifica dei più letali, ma la mortalità in Italia è in calo. «La sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi oggi si aggira attorno al 65% ed è progressivamente migliorata negli anni, sia grazie al programma di screening nazionale di diagnosi precoce con la ricerca del sangue occulto nelle feci sia per l’importante avanzamento nelle terapie» spiega Carmine Pinto, direttore Oncologia medica AUSL-IRCCS di Reggio Emilia. Resta poi il fatto, importantissimo, che nove casi su dieci si potrebbero evitare se tutti facessero i controlli, ma la metà degli italiani non coglie l’opportunità. C'è, infatti, un metodo efficace, gratis (in Italia) e del tutto indolore per eliminare le lesioni pre-cancerose prima che si trasformino in una neoplasia vera e propria: il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof). «I carcinomi colon-rettali si sviluppano a partire da adenomi che impiegano anni, in media una decina, per trasformarsi in forme maligne — spiega Pinto —. È in questa finestra temporale che lo screening con il Sof consente di fare una diagnosi precoce ed eliminare i polipi intestinali prima che abbiano acquisito caratteristiche pericolose ed evolvano in un tumore maligno».

Differenza tra sessi e casi in aumento fra i ragazzi

Lo studio condotto dai ricercatori delle Università di Harvard e Tufts ha concluso che il rischio di cancro al colon retto è più elevato del 29% negli uomini che consumano quantità elevate di alimenti e bevande ultra-processati rispetto a chi ne fa un utilizzo ridotto. Gli stessi autori dello studio hanno specificato che non è poi chiaro perché ci sia una differenza con il sesso femminile, avanzando diverse ipotesi: ad esempio il fatto che le donne prediligano un'alimentazione differente ricca spesso anche di cibi sani (frutta, verdura, yogurt, eccetera) che potrebbero in qualche modo «controbilanciare» gli effetti nocivi degli ultra-processati. Oppure potrebbero intervenire fattori ormonali o ancora essere una casualità legata ai campioni di popolazione considerati in queste ricerche. Certo è che negli Stati Uniti da anni il tumore del colon è in crescita in particolare nei ragazzi fra 20 e 34 anni (le stime prevedono addirittura un raddoppio dei casi entro il 2030), mentre grazie allo screening diminuisce negli ultra 50enni, e fra i maggiori indiziati ci sono proprio gli stili di vita scorretti. a partire dalla dieta. Nel 2015 gli esperti dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) dell’Oms hanno a inserito le carni rosse e lavorate fra le sostanze che possono causare il cancro, invitando alla moderazione nel consumo senza però essere eccessivamente allarmisti.

Chi rischia di più

Sovrappeso, obesità, cattiva alimentazione e sedentarietà sono i principali responsabili noti di tumore del colon. «Un ruolo cruciale nella prevenzione è dato dall’alimentazione - chiarisce Pinto -: fattori dietetici quali il consumo di carni rosse e insaccati, farine e zuccheri raffinati e il consumo di cibi salati, conservati o affumicati fanno salire il pericolo di ammalarsi, come l’eccessivo consumo di bevande alcoliche e il fumo. Le probabilità aumentano anche per chi è sovrappeso, obeso e fa poca attività fisica. Una protezione, invece, può essere prodotta dal consumo di frutta e verdure, carboidrati non raffinati, vitamina D e calcio. Molti studi negli anni, anche in Europa, hanno correlato gli alimenti ultra-processati (in particolare le carni e i drink dolcificati) all'insorgenza di carcinoma del colon-retto. Intervengono molti cofattori come zuccheri presenti, additivi, fibre, equilibrio alimentare, obesità, attività fisica che ne rendono difficile spesso una valutazione e quantificazione. Rimane quindi da considerare come sempre l'importanza di un equilibrio nella dieta tra i diversi elementi costitutivi e soprattutto la quantità e la frequenza di carni e di carni processate assunte - conclude l'esperto -. Altre ricerche scientifiche hanno evidenziato che la dose, ovvero le quantità di cibi processati consumate, ha un suo peso: il pericolo sale quanto maggiore è la quantità di alimenti poco sani che una persona decide di mettere in tavola. Quindi come sempre l'importante è una dieta equilibrata (quella mediterranea è fra le più sane al mondo) e un'adeguata attività fisica, senza demonizzare un singolo alimento o fattore».

Polipo o tumore al colon, quali sintomi? Ecco perché l’attore Ryan Reynolds ha pubblicato la sua colonscopia. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 15 Settembre 2022.

Il cancro al colon è fra i più diffusi e letali al mondo, ma ben 9 casi su 10 si sviluppano da lesioni pre-cancerose che potrebbero essere scoperte eseguendo esami di prevenzione. L’attore che ha interpretato Deadpool ha diffuso un video per far conoscere il test salvavita

Il video sui social

«Ho perso una scommessa, ho pagato pegno, eppure ci ho guadagnato». Così l’attore canadese-americano Ryan Reynolds (interprete del personaggio Deadpool, tra gli altri) commenta sui social media il video, da lui stesso diffuso, che documenta la sua colonscopia: rendere pubblica l'esecuzione dell'esame era, in effetti, la punizione prevista per il perdente. Anche l'amico vincitore Rob McElhenney si è però sottoposto all'esame e ha condiviso le immagini perché i due colleghi hanno, in realtà,  deciso di sensibilizzare le persone sul tumore al colon e sulla necessità di sottoporsi regolarmente ai controlli preventivi, dopo una certa età. Grazie alla colonscopia, i medici hanno individuato al 45enne Reynolds un polipo e lo hanno prontamente rimosso.

Polipi e adenomi si trasformano in tumori

«Quasi il 90% dei tumori del colon-retto si sviluppa a partire da adenomi che impiegano anni (una decina in media) per trasformarsi in forme maligne — spiega Giordano Beretta, presidente della Fondazione Aiom, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica —. È in questa finestra temporale che la prevenzione è decisiva. In Italia, prima ancora di eseguire una colonscopia, lo screening con il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (in sigla Sof) consente di fare una diagnosi precoce ed eliminare i polipi prima che abbiano acquisito caratteristiche pericolose. Nel nostro Paese viene offerto gratuitamente a tutti i cittadini tra i 50 e i 70 anni, eppure in media solo la metà accetta l'invito che arriva a casa da parte della Asl».

Il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci

Il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof) è efficace e del tutto indolore.  «Si esegue mediante la raccolta di un campione di feci, che può svelare un sanguinamento, non visibile a occhio nudo, che può avere avuto origine da una lesione precancerosa (quale un adenoma o un polipo) a da un carcinoma già sviluppato — spiega Beretta, direttore dell'Oncologia all'ospedale di Pescara —. Se il Sof risulta positivo, si invia il paziente a fare una colonscopia che permette di evidenziare e asportare un’eventuale lesione o di eseguire una biopsia. Troppi italiani rifiutano l’invito al Sof che, come dimostrano le statistiche, diminuisce  in modo significativo sia il pericolo di ammalarsi di carcinoma colorettale sia quello di morirne».

La colonscopia

Il gesto di Ryan Reynolds è importante perché vuole contribuire a scardinare le resistenze contro un esame, la colonscopia, da molti considerato, erroneamente, doloroso. «Si esegue facendo passare un endoscopio, ovvero un tubo sottile e flessibile con una telecamera all’estremità, attraverso il retto e per tutta la lunghezza del colon — spiega l'esperto —. Attraverso questo strumento, il medico esperto riesce a visualizzare eventuali segni di cancro o lesioni precancerose, che vengono anche contestualmente rimossi (se le dimensioni lo consentono), in modo da essere subito analizzati. L’esame in sé dura in media circa mezz’ora e con un’adeguata sedazione non si avverte alcun male. Sulla base degli esiti si decidono poi i controlli successivi ai quali sottoporre il paziente. Alle presone a rischio maggiore di cancro, per familiarità e o patologie infiammatorie croniche intestinali, vieni in genere suggerito l'esame attorno ai 45-50 anni (o prima)».

I sintomi da non trascurare

Il cancro al colon, specie nelle sue prime fasi (quando sarebbe più semplice da guarire e le probabilità di guarire maggiori) spesso non manifesta sintomi particolari. I principali campanelli d’allarme che devono essere segnalati al medico, soprattutto dopo i 50 anni, sono: presenza di sangue rosso vivo, talvolta misto a muco, nelle feci, senso di incompleta evacuazione, defecazione in più tempi ravvicinati, perdita di peso senza causa evidente, senso di spossatezza, febbricola, specialmente nelle ore serali.

Chi è più a rischio di ammalarsi?

Sovrappeso, obesità, cattiva alimentazione e sedentarietà sono i principali indiziati. In particolare fattori dietetici quali il consumo di carni rosse e di insaccati, farine e zuccheri raffinati e il consumo di cibi salati, conservati o affumicati fanno salire il pericolo di ammalarsi, come l’eccessivo consumo di bevande alcoliche e il fumo. «Circa un terzo dei tumori del colon-retto, poi, presenta caratteristiche di familiarità ascrivibile a mutazioni genetiche ereditarie — spiega Beretta —. Sappiamo poi che il pericolo di cancro al colon è più alto per chi soffre di sindromi (anch’esse ereditarie) quali la poliposi adenomatosa familiare (FAP) e la sindrome di Lynch: a queste persone si suggeriscono controlli specifici».

Quali sono i numeri del cancro al colon?

Con oltre 43.700 nuovi casi registrati ogni anno il cancro del colon-retto è il secondo tipo di cancro più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo nella poco ambita classifica dei più letali. E le diagnosi sono in aumento, specie fra i giovani. Eppure nove tumori su dieci potrebbero essere evitati eliminando le lesioni pre-cancerose prima che si trasformino in una neoplasia vera e propria, eseguendo test Sof e colonscopia. Oggi, grazie alla diagnosi precoce, il 65% di chi si ammala riesce a sconfiggere la neoplasia. 

Tumore dell’ovaio, buone speranze di guarigione anche per chi ha una diagnosi in stadio avanzato. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022

I dati aggiornati di due studi dimostrano che con la terapia mirata migliora la sopravvivenza per le donne con un carcinoma difficile da trattare: due su tre sono vive a cinque anni dalla scoperta della malattia. 

Considerato ancora oggi uno dei tumori più difficili da curare tra le neoplasie ginecologiche, il cancro dell’ovaio colpisce circa 5.200 donne ogni anno solo in Italia, con 3mila decessi annui, anche perché la diagnosi è tardiva nell’80% dei casi, visto che la malattia non causa sintomi specifici nelle fasi iniziali. Per questo gli esperti usano sempre molta prudenza quando parlano delle novità presentate durante i congressi scientifici. Questa volta però, anche due fra le maggiori specialiste nella cura di questa patologia, lasciano trapelare un pur sempre cauto ottimismo: dopo anni di piccoli e continui avanzamenti, potremmo davvero essere a una «svolta epocale» che lascia sperare di poter parlare di guarigione anche in quelle pazienti che arrivano a scoprire la neoplasia in stadio avanzato.

Un vero prolungamento della sopravvivenza

Nicoletta Colombo, direttore del Programma di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano professore associato all’Università Milano-Bicocca, e Domenica Lorusso, professore associato di Ostetricia e Ginecologia e responsabile della Programmazione di Ricerca Clinica della Fondazione Policlinico Universitario A.Gemelli di Roma, sono avvezze a toni molto cauti, abituate a parlare ogni giorno con donne e familiari che si trovano ad affrontare un tipo di cancro che ha spesso una prognosi severa. Nel commentare i dati scientifici di due ampi studi presentati durante il congresso della Società Europea di Oncologia (European Society for Medical Oncology – Esmo), in corso a Parigi, sono però concordi: per la prima volta non si parla soltanto di un piccolo progresso che fa guadagnare mesi, seppur preziosi, ma di un vero e proprio prolungamento della sopravvivenza a lungo termine, che perdura per anni. «La sopravvivenza a 5 anni delle donne con diagnosi di carcinoma ovarico è ancora bassa ,il 43% - spiega Colombo - , Oggi però ci sono terapie mirate. In presenza di specifiche mutazioni genetiche, questa neoplasia può essere trattata con una terapia mirata, olaparib, capostipite della classe dei PARP inibitori, in grado di tenere sotto controllo la malattia e di cambiare la pratica clinica. E lo dimostrano i risultati positivi del follow-up a lungo termine degli studi di fase III PAOLA-1 e SOLO-1».«Storicamente il tasso di sopravvivenza a cinque anni delle pazienti con nuova diagnosi di carcinoma ovarico avanzato è del 10-40% – commenta Saverio Cinieri, dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) -. Ottenere la sopravvivenza a lungo termine in queste donne è cruciale, perché il setting di prima linea offre il maggior potenziale per influire sulla sopravvivenza, per questo sono molto importanti i dati aggiornati degli studi presentati a Parigi, con due pazienti su tre vive»

Lo studio PAOLA-1

PAOLA-1 è uno studio di fase tre, che ha valutato l’efficacia e la sicurezza di olaparib in aggiunta a chemioterapia e bevacizumab, rispetto a bevacizumab da solo, come trattamento in prima linea di mantenimento in donne con tumore ovarico sieroso o endometrioide, delle tube di Falloppio o peritoneale, avanzato, in stadio FIGO III-IV di alto grado, che hanno mostrato risposta completa o parziale al trattamento in prima linea con chemioterapia contenente platino e bevacizumab. «Circa Il 70% delle donne con malattia avanzata va incontro a recidiva entro due anni – dice Colombo -. Il trattamento mirato nel setting di mantenimento di prima linea è fondamentale per aiutarle a vivere più a lungo, ritardando la progressione della malattia. I risultati a cinque anni dello studio PAOLA-1 dimostrano che il 65,5% delle pazienti HRD positive (ovvero positive al deficit di ricombinazione omologa), trattate con olaparib in combinazione con bevacizumab, è vivo a cinque anni rispetto al 48,4% con bevacizumab da solo. La combinazione ha ridotto il rischio di morte del 38%, confermando ulteriormente il beneficio clinicamente significativo di sopravvivenza a lungo termine. Inoltre, l’aggiunta di olaparib ha portato la sopravvivenza libera da progressione a una mediana di quasi 4 anni, cioè a 46,8 mesi rispetto a 17,6 con bevacizumab da solo». Le deficienze di ricombinazione omologa (HRD), che definiscono un sottogruppo di carcinoma ovarico, comprendono un’ampia gamma di anormalità genetiche, incluse le mutazioni BRCA e altre. Come nel caso delle mutazioni BRCA, HRD interferisce con i normali meccanismi cellulari di riparazione del DNA e conferisce sensibilità agli inibitori PARP, compreso olaparib.

Lo studio SOLO-1

SOLO-1 è uno studio multicentrico di fase tre, controllato da placebo, per la valutazione dell’efficacia e della sicurezza di olaparib in compresse come monoterapia di mantenimento rispetto a placebo, nelle pazienti con nuova diagnosi di carcinoma ovarico avanzato con mutazione BRCA a seguito di chemioterapia a base di platino. Lo studio ha coinvolto 391 pazienti con mutazione BRCA1 o BRCA2 in risposta clinica completa o parziale a seguito di chemioterapia a base di platino. Le pazienti sono state randomizzate a ricevere olaparib o placebo fino a due anni o a progressione di malattia (a discrezione dell’oncologo). «I risultati a lungo termine dello studio SOLO-1, nel carcinoma ovarico avanzato con mutazione BRCA, confermano che il beneficio di olaparib in monoterapia nel setting di mantenimento di prima linea si estende ben oltre il limite massimo di trattamento di due anni continuando a produrre un miglioramento clinicamente significativo della sopravvivenza globale per più di sette anni – sottolinea Lorusso -. Olaparib ha ridotto il rischio di morte del 45% e, a sette anni, il 67% delle donne era vivo rispetto al 47% con placebo. Inoltre, il tempo medio alla prima terapia successiva era di 64 mesi con olaparib rispetto a 15,1 mesi con placebo. Questi dati ci permettono di affermare che oggi, per alcune pazienti con tumore ovarico avanzato, la guarigione è possibile».

L’inquinamento fa ammalare di tumore al polmone soprattutto chi non ha mai fumato. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 10 Settembre 2022.  

Un nuovo studio britannico mette in luce i meccanismi scatenati dalle polveri sottili che innescano mutazioni genetiche e possono portare alla formazione di una neoplasia 

Che fra i molti danni per la salute causati dallo smog ci fossero anche i tumori non è, purtroppo, una novità: dal 2013 l’inquinamento atmosferico in generale e il particolato atmosferico (ovvero le cosiddette polveri sottili) sono catalogati fra i cancerogeni certi per gli esseri umani dalla massima autorità in materia, l'International Agency for Research on Cancer (Iarc) di Lione, l’agenzia dell’Organizzazione Mondiale di Sanità. Ora però pare che a farne le spese potrebbero essere in modo particolare i polmoni dei non fumatori che sembrano esposti a rischio maggiore di carcinoma polmonare non a piccole cellule, la forma più frequente di cancro dell’apparato respiratorio. È quanto emerge da un nuovo studio presentato durante il congresso della Società Europea di Oncologia (European Society for Medical Oncology – Esmo) in corso a Parigi: un team di ricercatori britannici ha infatti individuato diversi meccanismi che paiono favorire la formazione di una neoplasia in persone che non hanno mai acceso una sigaretta.  

Il tumore più letale in Italia

L’inquinamento ambientale (in particolare quello atmosferico) include varie sostanze cancerogene provenienti da attività umane (traffico veicolare, industrie, riscaldamento domestico) o da sorgenti naturali (radiazioni ionizzanti, raggi ultravioletti) e si stima che in Italia sia responsabile di circa 5 casi di cancro su 100. «Quello al polmone è ancora oggi il tumore più letale in Italia e, con 41mila nuovi casi annui, è uno dei più frequenti - ricorda Silvia Novello, ordinario di Oncologia medica all'Università di Torino, responsabile dell'Oncologia polmonare al “San Luigi Gonzaga” di Orbassano -. Per prevenirlo perché basterebbe non fumare, visto che l'85% dei casi è dovuto al tabacco, anche se un caso su cinque riguarda i non tabagisti».  

Cause di cancro in chi non fuma

Le statistiche indicano che circa il 15-20% delle persone che si ammalano non fuma. Come mai? È ’ certo il ruolo cancerogeno di radon, asbesto o amianto, metalli pesanti (quali cromo, cadmio e arsenico) e dell’inquinamento atmosferico — commenta Novello, che è anche presidente di WALCE Onlus (Women against lung cancer in Europe) —. Ed è ancora troppo sottovalutato il ruolo del fumo di seconda mano, che invece fa lievitare il pericolo: in Italia i fumatori passivi sono ancora molti, un fatto gravissimo soprattutto per i bambini». Poi gli esperti provano da anni a chiedere risposte al Dna e va in questa direzione anche l’indagine presentata dagli studiosi del Francis Crick Institute e del University College di Londra, sostenuta da Cancer Research UK. Le conclusioni del loro lavoro indicano, infatti, che le cellule con mutazioni nei geni EGFR e KRAS possono diventare cancerogene quando vengono in contatto costante e prolungato con l’inquinamento atmosferico.  

Il nuovo studio

«Le stesse particelle inquinanti trovate nell’aria e derivanti dai combustibili fossili che stanno provocando cambiamenti climatici disastrosi hanno un impatto anche sulla salute degli esseri umani – sottolinea Charles Swanton, autore principale della ricerca presentata al convegno Esmo 2022 -. I nostri dati sono basati sia su persone sia su indagini di laboratorio e provano che l’incremento nell’esposizione alle polveri sottili (particolato 2,5) è collegato a un aumento del rischio di carcinoma polmonare non a piccole cellule con mutazione genetica del gene EGFR». Gli scienziati britannici hanno sia analizzato i dati relativi a quasi 464mila persone non tabagiste residenti in Inghilterra, Taiwan e Sud Corea, sia studiato in laboratorio gli effetti dello smog su campioni di tessuto polmonare sano. È così emerso che le polveri PM 2,5 favoriscono l’instaurarsi di meccanismi che possono portare alla trasformazione cancerogena di cellule polmonari che hanno la mutazione dei geni EGFR e KRAS. «La ricerca scientifica ha anche permesso di capire che ogni mutazione del DNA e dei geni coinvolti rende ciascun tumore unico – conclude Novello -: ALK, EGFR, KRAS, BRAF, ROS, RET, MET sembrano sigle incomprensibili, che hanno invece un valore decisivo per i malati. Sono i nomi dei geni che hanno un ruolo determinante nelle neoplasie polmonari e proprio in presenza di queste “sigle” si possono oggi utilizzare nuovi farmaci, che hanno aperto speranze, fino a pochi anni fa non immaginabili». 

Tumori di testa e collo, riconoscere i primi sintomi fa la differenza. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

Con una diagnosi precoce il tasso di sopravvivenza arriva anche al 90%. Dal 19 al 23 settembre 120 centri offrono gratuitamente visite ed esami. Ecco i sintomi da non ignorare (se durano oltre tre settimane) 

Hai la testa a posto? Dopo due edizioni declinate in modalità digitale a causa della pandemia da Covid-19, torna in presenza dal 19 al 23 settembre la Make Sense Campaign, la campagna europea di educazione e sensibilizzazione alla diagnosi precoce dei tumori del distretto testa-collo, promossa in Italia dall’Associazione Italiana di Oncologia Cervico-Cefalica (AIOCC). Il motto dell’edizione italiana , «hai la testa a posto» vuole spingere gli italiani a porre attenzione ai sintomi dei carcinomi cervico-cefalici, spesso ignorati o associati a malattie stagionali come un comune mal di gola o a un raffreddore. Questo tipo ci tumore ha colpito anche Daniele Bossari, conduttore televisivo e radiofonico, vincitore del «Grande Fratello Vip» nel 2017.

La diffusione

A discapito della sua estesa diffusione, non molti sanno che il carcinoma della testa e del collo è il settimo tumore più comune in Europa, con un’incidenza di circa la metà rispetto al cancro del polmone ma di due volte superiore a quello del collo dell’utero. Per tumore cervico-cefalico (o del testa-collo) si intendono tutti i tumori che si sviluppano nell’area della testa e del collo ad esclusione di occhi, orecchie, cervello ed esofago. Uno degli aspetti più problematici di questa malattia è che è difficile da identificare: si manifesta infatti con sintomi comuni, che tendiamo a ignorare o associare a malattie stagionali. Solo in Italia infatti, nel 2020, 9.900 persone hanno ricevuto una diagnosi di tumore testa-collo e 4.100 non sono sopravvissute alla malattia.

I centri disponibili

Dal 19 al 23 settembre oltre 120 centri, tra realtà pubbliche e private, dislocate sull’intero territorio nazionale, organizzeranno giornate di diagnosi precoce a porte aperte ad accesso libero o su prenotazione, per sottolineare, con un’azione condivisa, l’importanza di una diagnosi rapida (qui l’elenco completo dei centri)

I sintomi

Gli esperti concordano nel dire che una rapida comprensione dei sintomi della malattia è cruciale per una diagnosi precoce, in presenza della quale il tasso di sopravvivenza sale all’80-90%, contro un’aspettativa di vita di soli 5 anni per coloro che scoprono la malattia in fase avanzata.

Ma quali sono i sintomi? Scoprire la presenza di queste neoplasie è teoricamente semplice, perché spesso sono identificabili già con un’approfondita visita otorinolaringoiatrica, ma è  importante che le persone non trascurino i possibili sintomi. Senza allarmarsi troppo, perché si tratta spesso di segnali comuni a semplici patologie infiammatorie, è bene non ignorare ulcerazioni in bocca, difficoltà nella deglutizione, mal di gola o mal d’orecchio, raucedine persistente, gonfiore a livello del collo che perdurano per più di tre settimane. Gli esperti suggeriscono di tenere sempre a mente la regola 1per3: se presente anche solo uno di questi sintomi per tre settimane o più, è necessario rivolgersi al medico: dolore alla lingua, ulcere che non guariscono e/o macchie rosse o bianche in bocca; dolore alla gola; raucedine persistente; dolore e/o difficoltà a deglutire; gonfiore del collo; naso chiuso da un lato e/o perdita di sangue dal naso.

Le terapie

Sono diversi gli approcci terapeutici oggi disponibili a seconda del tipo di tumore ma anche della sottosede e dello stadio di malattia: la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia, l’immunoterapia e la terapia biologica. Trattandosi di tumori che colpiscono il volto e organi importanti e decisivi per la qualità della vita, l’impatto estetico e psicologico non è secondario e la riabilitazione è un fatto essenziale

I fattori di rischio

È stata riscontrata un’infezione da Papillomavirus umano (Hpv) nel 31% dei soggetti con tumore dell’orofaringe e meno frequentemente in malati con tumori del cavo orale e della laringe.  L'Hpv è il primo responsabile del cancro alla cervice uterina, ma è stato dimostrato che è responsabile anche della formazione di tumori che colpiscono vulva, vagina, pene e ano (forme di cancro assai rare) e dell'area testa-collo, oltre che di lesioni precancerose (condilomi genitali) maschili e femminili: ecco perché è importante sfruttare l'opportunità della vaccinazione offerta gratuitamente a tutti i 12enni italiani. Ad avere un ruolo negativo sono anche l'alimentazione scorretta (dieta povera in vitamine del gruppo A e B, vale a dire frutta e verdura fresca), una scarsa e non corretta igiene orale soprattutto in chi usa protesi dentarie e un’esposizione al virus di Epstein-Barr (un tipo di herpes virus che si trasmette attraverso la saliva ed è associato ai tumori del rinofaringe) o a polveri e a sostanze come quelle che si respirano in determinati ambienti lavorativi.

I telefonini non causano i tumori del cervello. Lo conferma uno studio. Redazione Internet su Avvenire il 6 settembre 2022.

Anche se in Scandinavia negli ultimi 35 anni si è osservato un incremento dei casi di gliomi, una famiglia di tumori del sistema nervoso centrale, questo aumento non è connesso all'uso dei telefonini. È questa la conclusione di uno studio coordinato dall'International Agency for Research on Cancer (Iarc) e pubblicato sulla rivista Environment International.

I ricercatori hanno analizzato i registri dei tumori di Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia per censire tutti i casi di tumore al sistema nervoso tra il 1979 e il 2016. Si sono quindi concentrati sulla popolazione maschile che all'inizio degli anni Novanta aveva tra i 35 e i 44 anni, i primi a utilizzare i telefoni cellulari.

«Se i campi elettromagnetici a radiofrequenza emessi dai telefoni cellulari causassero gliomi, il marcato aumento nell'uso dei telefoni cellulari nella popolazione generale negli ultimi decenni si tradurrebbe in un aumento della comparsa di tumori», spiegano i ricercatori. L'analisi, invece, non ha riscontrato nessun legame tra l'uso del telefonino, soprattutto in quella fetta della popolazione, e l'aumento del rischio di tumori.

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«Nei Paesi nordici, l'uso dei telefoni cellulari è aumentato notevolmente a metà degli anni novanta, soprattutto tra gli uomini di mezza età. I tassi di incidenza di glioma registrati in questi Paesi hanno seguito tendenze a lungo termine di piccoli e graduali incrementi. Tra il 1979 e il 2016 non sono state osservate modificazioni di questi trend», scrive in una nota la Iarc. «Questa osservazione è compatibile con l'assenza di qualsiasi impatto misurabile dell'uso del cellulare sul rischio di sviluppare questo tipo di tumore, per le tecnologie utilizzate in passato e ai livelli di esposizione incontrati in quel momento».

Bimba nasce con 100 tumori, poi il miracolo: guarita dopo 18 mesi. Alla piccola Rachael era stata diagnostica una rara forma di miofibromatosi che colpisce tutti gli organi, le ossa e i muscoli del corpo. Rosa Scognamiglio il 28 Agosto 2022 su Il Giornale.

Quando la piccola Rachael Young è nata, c'erano scarsissime possibilità che potesse sopravvivere. I medici le avevano trovato 100 tumori in tutto il corpo per via di una rara forma di miofibromatosi, una malattia che aggredisce gli organi, i muscoli e le ossa. Ma dopo 18 mesi di chemioterapia, quasi per miracolo, la bimba è completamente guarita: ora sta bene. "È stato un enorme sollievo quando ci hanno detto che i tumori erano scomparsi", ha raccontato mamma Kate in una intervista al tabloid inglese The Mirror.

La storia di Rachael

Il calvario di Rachael è cominciato a poche ore dalla nascita. I tumori erano presenti in ogni parte del corpo, compreso il cuore. Le condizioni generali di salute erano talmente critiche che i medici avevano suggerito ai genitori di prepararsi al peggio. "È stato uno shock tremendo per noi. - ha ricordato la mamma della bimba -Avevo avuto una gravidanza sana, quindi non avevamo idea di cosa potesse essere successo. Non avevamo mai sentito parlare di questa malattia prima. che non avevano mai visto niente del genere in 40 anni e non sapevano se avrebbero potuto curare Rachael perché non avevano un caso con cui confrontarla. È stato un inizio così deprimente per lei".

La terapia sperimentale

Fortunatamente, però, i tumori diagnosticati alla bimba erano benigni ma "poiché ce n'erano così tanti, - ha spiegato Kate Young - potevano causarle danni potenzialmente letali. Così i medici hanno deciso che la chemioterapia era il modo migliore per curarli". La piccola Rachael è stata sottoposta a uno studio di ricerca iniziando un trattamento chemioterapico intensivo all'ospedale di Addenbrooke, a Cambridge, ad appena due settimane dalla nascita. "Era costantemente malata con la chemioterapia e ha anche avuto molte infezioni. Doveva essere nutrita attraverso un tubo. È stato straziante", ha ricordato ancora Kate.

La guarigione

Dopo 18 mesi di chemioterapia, è arrivata la bella notizia. Durante una risonanza magnetica, i medici si sono accorti che tutti i tumori erano scomparsi. "È stato un enorme sollievo quando ci hanno detto che i tumori erano completamente scomparsi e non erano più visibili su nessuna delle scansioni", ha detto la mamma della bimba. Trattandosi di neoplasie benigne, sviluppatesi nell'utero, è anche improbabile che ritornino. Tuttavia, per i prossimi mesi, Rachael continuerà a essere monitorata. "Quando a pochi giorni dalla sua nascita ci è stato detto che aveva più di 100 tumori, abbiamo pensato che avremmo dovuto affrontare un futuro senza di lei - ha concluso Kate Young -Ora invece ci è stata data tanta speranza. La nostra speranza si chiama Rachael".

Una “sfilata” benefica. Ad Avetrana "Sfila la Vita”, in passerella le donne in terapia oncologia. La Redazione de La Voce Di Manduria giovedì 25 agosto 2022.

“Mi chiamo Tonia Serio sono una donna di 52 anni e sono in terapia oncologica dal 2019 quando ho scoperto di avere un tumore partito dal seno. Con mio marito Tonio, abbiamo pensato di fondare “io vivo a colori”, un’associazione no-profit. Essendo stata in passato una PR e organizzatrice di eventi x 9 anni, ho iniziato a organizzare eventi per raccogliere fondi per acquistare uno scanner venoso da donare al reparto oncologia di Gallipoli dove sono in terapia”.

Nasce così, e per questi scopi, la serata di raccolta fondi “Sfila la Vita” che si terrà domani sera, venerdì 26 agosto, in Piazza Vittorio Veneto ad Avetrana, con il patrocinio del Comune di Avetrana e della BCC di Avetrana.

Una “sfilata” benefica con protagoniste ragazze attualmente in terapia oncologica alla quale si alterneranno vari interventi da parte di medici oncologici, psicoterapeuti e nutrizionisti, il tutto condito da spettacoli di ginnastica artistica, cantanti e musicisti. 

Durante la serata verranno inoltre lanciati alcuni palloncini bianchi in ricordo di chi non è riuscito a superare il cancro.

La serata avetranese avrà inoltre due testimonial d’eccezione: la conduttrice ed attrice Linda Colini (protagonista della nona serie di “Don Matteo” e interprete di Cecilia Castelli in “Centrovetrine”) e l’attore Jgor Barbazza (“Il Paradiso delle signore”, “Un posto al sole”, “Don Matteo” e tanti altri ruoli in varie fiction italiane di successo).

“La raccolta dei fondi si svolgerà – ci fa sapere l’organizzatrice Tonia Serio - tramite la vendita di biglietti utili alla partecipazione all’estrazione finale di numerosi premi e, naturalmente, tutto il ricavato andrà a finanziare l’acquisto di uno scanner venoso da donare al reparto oncologico dell’ospedale di Gallipoli. La stessa serata – continua Tonia - sarà una interessante occasione per sostenere il messaggio di fiducia nella prevenzione delle malattie oncologiche e nel rapporto medico/paziente; il non trattare il cancro come un tabù perché il dialogo e il confronto positivo possono spesso accelerare i benefici della terapia; il sostegno psicologico alle famiglie e soprattutto vivere la vita ogni giorno con un punto interrogativo per poterne godere a pieno tutte le sfaccettature.”

“Durante la chemioterapia ho scritto un libro: "Forse domani sarà tutto passato” e con il ricavato delle vendite – ci fa sapere sempre la protagonista ed ideatrice dell’iniziativa - abbiamo fatto costruire una cisterna in Mozambico grazie ad un frate cappuccino missionario in quelle zone. Stava ricostruendo un orfanotrofio buttato giù da un uragano. Fatto ciò, con mio marito Tonio, abbiamo pensato di fondare la nostra associazione no-profit”. Gabrio Distratis

Linfociti killer, così tagliano la comunicazione ai tumori. Si chiamano Nkt, natural killer t, e riescono a modificare il microambiente che permette al tumore di crescere. E possono essere usati per colpirlo. Studio italiano su Science Immunology. La Repubblica il 19 Agosto 2022.

Si chiamano NKT (Natural Killer T), e sono particolari linfociti modificati geneticamente che possono essere utilizzati contro le cellule tumorali su due fronti: modificando il

microambiente tumorale stimolando la reazione del nostro sistema immunitario contro la malattia e, contemporaneamente, colpendo selettivamente le cellule tumorali. In un articolo appena pubblicato sulla rivista Science Immunology i ricercatori del Laboratorio di Immunologia Sperimentale dell'Irccs Ospedale San Raffaele di Milano hanno dimostrato, in modelli preclinici, la loro efficacia aprendo la strada a nuove possibilità di intervento.

Il gruppo di ricerca del San Raffaele 

Armato i linfociti con l'ingegneria genetica

I ricercatori, sotto la guida di Paolo Dellabona e Giulia Casorati, hanno potenziato la naturale attività antitumorale dei linfociti NKT, armando con tecniche di ingegneria genetica queste cellule con un secondo recettore (TCR) specifico per antigeni tumorali. In questo modo le cellule NKT hanno acquisito una doppia funzione, che consiste nella loro capacità naturale di modificare il microambiente neoplastico, mediata dal proprio TCR endogeno, combinata alla nuova abilità di uccidere in modo diretto le cellule tumorali, grazie all'espressione del TCR esogeno.

I risultati della ricerca, sostenuta da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, dimostra le potenzialità delle cellule NKT armate con recettori antitumorali (TCR o anche CAR) per l'immunoterapia del cancro, applicabile a neoplasie sia solide che ematologiche.

Le cellule NKT

Le cellule NKT, scoperte nei primi anni Novanta grazie al contributo di Giulia Casorati e Paolo Dellabona, sono un particolare tipo di globuli bianchi: da qualche anno è nota la loro capacità di eliminare dal microambiente tumorale alcune cellule immunitarie che vengono 'corrotte' dal tumore e ne sostengono la progressione, come i macrofagi. In tal modo le cellule NKT favoriscono il ripristino della risposta immunitaria contro le cellule tumorali. Ma non solo: ciò che rende le funzioni di queste cellule universali è il fatto che  sono identiche in tutti gli individui. "Grazie a queste caratteristiche, le cellule NKT prelevate da un qualsiasi donatore possono essere utilizzate per trattare qualsiasi paziente e questo fa sì che esse rappresentino una piattaforma cellulare applicabile in modo universale nell'immunoterapia cellulare del cancro", spiegano Dellabona e Casorati che, in studi recenti, hanno anche dimostrato il ruolo cruciale delle NKT nella risposta immunitaria antitumorale.

Funzionano anche sul microambiente tumorale

Nello specifico, questi speciali linfociti infiltrano il microambiente tumorale dove promuovono la risposta immunitaria diretta contro le cellule cancerose, attraverso l'eliminazione di particolari cellule del sangue, chiamate macrofagi, che esercitano una forte azione immunosoppressiva che è quella che sostiene localmente la progressione della neoplasia (Cortesi Cell Reports 2018). Questo meccanismo d'azione delle cellule NKT è considerato di particolare interesse per la cura del cancro, poiché l'immunosoppressione che si genera a livello del microambiente tumorale è considerata uno dei principali ostacoli all'efficacia delle terapie antitumorali, in particolare per l'immunoterapia cellulare.

Le due funzioni di Nkt

In questo nuovo studio il gruppo di ricerca ha ulteriormente potenziato l'attività antitumorale dei linfociti NKT, modificandoli geneticamente in modo da far loro esprimere un recettore antigenico (TCR) specifico per un antigene tumorale. Le cellule NKT hanno così acquisito due funzioni antitumorali contemporanee: da un lato, la loro naturale capacità di eliminare le cellule che sopprimono il microambiente tumorale, dall'altro la nuova capacità di uccidere in modo diretto le cellule neoplastiche. Il risultato di questa azione antitumorale combinata delle cellule NKT è il controllo particolarmente efficace della progressione neoplastica in modelli sperimentali.

Non aggrediscono i tessuti normali

Spiega Gloria Delfanti, prima autrice dello studio che è stato oggetto del suo dottorato di ricerca presso l'Università Vita-Salute San Raffaele: "Una volta prelevate da un donatore e trasferite, queste cellule hanno la caratteristica di non aggredire i tessuti normali del ricevente, a differenza degli altri linfociti T. Questo è un enorme vantaggio perché permetterebbe di ottenere da pochi donatori sani una banca di cellule NKT che, una volta espanse e modificate geneticamente in laboratorio con recettori antitumorali, possono essere successivamente trasferite ad ogni paziente il cui tumore esprima il determinato antigene bersaglio".

E adesso, l'applicazione clinica

"Con il nostro lavoro abbiamo identificato i meccanismi di azione delle cellule NKT armate geneticamente contro antigeni tumorali. Abbiamo inoltre contribuito a fornire nuove informazioni utili per migliorarne l'uso nell'immunoterapia adottiva del cancro, una pratica che negli ultimi anni sta ottenendo risultati clinici promettenti. Con questo studio abbiamo anche dimostrato, in modelli sperimentali, la possibilità di combinare questa terapia cellulare con l'utilizzo di nano-tecnologie che stimolano specificatamente le cellule NKT. La combinazione permette di sostenere ulteriormente l'attività antitumorale delle cellule NKT nel tempo, per contrastare meglio i tumori più aggressivi e metastatici. Le cellule NKT modificate con CAR stanno attirando crescente interesse per l'immunoterapia del cancro grazie ai risultati estremamente incoraggianti ottenuti negli Stati Uniti nella cura sperimentale di tumori solidi pediatrici e linfomi dell'adulto. I nostri sforzi futuri saranno ora mirati verso l'applicazione clinica dei risultati ottenuti in questo studio sperimentale", concludono i coordinatori dello studio.

Tumori, ogni anno 4 milioni e mezzo di morti per fattori di rischio evitabili. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022.

Fumo, alcol e peso eccessivo le cause principali. Ma gli stili di vita poco sani aumentano nel tempo: più 20% in nove anni dal 2010 al 2019. L’Europa centrale una tra le zone «peggiori». 

Tutti ormai sanno che in salute il cosiddetto «stile di vita» (sano o malsano) conta tantissimo, ma forse è un «adagio» talmente ripetuto che non colpisce (e incide) abbastanza. Uno studio internazionale, che ha coinvolto oltre mille ricercatori, ha voluto quantificare, rispetto ai tumori, quanti decessi si sarebbero davvero potuti evitare con stili di vita salutari.

Numeri impressionanti

Utilizzando il Global Burden of Disease, uno studio che fornisce le stime sanitarie globali più complete (esaminando le tendenze mondiali, nazionali e regionali per la mortalità e la morbilità dovute a malattie, lesioni e fattori di rischio principali) i ricercatori hanno calcolato che fumo, alcol, peso eccessivo e altri fattori di rischio noti sono stati responsabili di quasi la metà dei decessi per cancro nel mondo nel 2019: 4,45 milioni. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista «The Lancet».

I fattori di rischio e i tumori che provocano

In particolare i decessi evitabili sono stati il 44,4% del totale dei morti per cancro e, non meno impressionante, 105 milioni di anni di vita in salute persi a causa di comportamenti evitabili (il parametro è il DALY, disability-adjusted life year, che misura il numero di anni persi a causa di malattia, disabilità o morte prematura). La ricerca ha preso in considerazione l’impatto di 34 fattori di rischio comportamentali, metabolici, ambientali e occupazionali sul numero di decessi per cancro nel 2019.

I fattori di rischio con un maggiore impatto sono risultati appunto il fumo, l’alcol e l’alto indice di massa corporea, in ordine di importanza, ma ci sono anche fattori come inquinamento ambientale e sesso non sicuro tra i principali. Tra i decessi influenzati dai fattori di rischio, più di un terzo è dovuto al cancro al polmone su cui incide pesantemente il fumo, seguito dal cancro del colon e cancro del retto, cancro esofageo e cancro dello stomaco nei maschi, e cancro della cervice, cancro del colon e del retto e cancro del seno nelle donne.

In rosso le zone della terra in cui maggiormente si registrano decessi per tumore legati a comportamenti evitabili, in blu le zone meno colpite dal «fenomeno» (fonte BMJ)

Peggiori comportamenti per i maschi

I maschi sono risultati più soggetti a subire i fattori di rischio perché tra tutti i decessi per cancro le morti per queste cause hanno rappresentato negli uomini il 50,6% del totale e nelle donne il 36,3%.

A livello globale nel 2019, le prime cinque regioni in termini di tassi di mortalità standardizzati per età per cancro attribuibili al rischio erano l’Europa centrale, l’Asia orientale, il Nord America ad alto reddito, l’America Latina meridionale e l’Europa occidentale.

Altra considerazione notevole: gli stili di vita poco sani aumentano nel tempo, dal 2010 al 2019, i decessi globali per cancro attribuibili al rischio evitabile sono aumentati del 20,4%. L’aumento percentuale maggiore di decessi per cancro attribuibili tra le categorie di fattori di rischio di livello 1 è stato nei rischi metabolici (legati ad alimentazione e massa corporea), che sono aumentati del 34,7% dal 2010 al 2019.

Perché i tumori colpiscono più gli uomini rispetto alle donne? Vera Martinella su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.

Secondo un nuovo studio il motivo per cui il tasso di insorgenza di neoplasie risulta più elevato tra i maschi potrebbe non essere legato alle differenze comportamentali quanto piuttosto alle peculiarità biologiche dei due sessi

Le ultime stime raccolte dall’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum) per il 2020 dicono che in Italia sono circa 377mila le nuove diagnosi di cancro annue, 195mila negli uomini e 182mila nelle donne. Il motivo per cui il tasso di insorgenza di neoplasie risulta più elevato tra gli uomini rispetto alle controparti femminili potrebbe non essere legato alle differenze comportamentali, quanto piuttosto alle peculiarità biologiche dei due sessi. È quanto ipotizza uno studio pubblicato sulla rivista Cancer e condotto dagli scienziati del National Cancer Institute. Il team, guidato da Sarah S. Jackson, ha valutato le differenze nel rischio di cancro per ciascuno dei 21 siti di cancro tra 171.274 maschi e 122.826 femmine, di età compresa tra 50 e 71 anni.

I dati della nuova indagine

Nell’ambito dello studio del National Institutes of Health - American Association of Retired Persons Diet and Health, i ricercatori hanno raccolto informazioni dal 1995 al 2011. Nel periodo di osservazione, si sono verificati 17.951 nuovi tumori negli uomini e 8.742 casi nelle controparti femminili. Sebbene sia stato precedentemente ipotizzato che il rischio per gli uomini sia più elevato a causa di differenze comportamentali, come una maggiore tendenza al consumo di alcol e a un’alimentazione scorretta, gli scienziati ipotizzano che questi fattori non siano sufficienti a spiegare le divergenze. Il rischio di sviluppare forme di cancro o neoplasie era da 1,3 a 10,8 volte superiore negli uomini, ad eccezione dei tumori della tiroide e della cistifellea, che invece sembravano più comuni nelle donne. La probabilità di sviluppare una malattia oncologica risultava più elevata per gli uomini anche in caso di abitudini comportamentali ed esposizione simili. Questi dati, osservano gli esperti, suggeriscono che le differenze biologiche tra i generi potrebbero svolgere un ruolo chiave nella suscettibilità al cancro. «I soli fattori ambientali e comportamentali — sostiene Jackson — non sono sufficienti a spiegare le differenze nei tassi di insorgenza di cancro. Ciò implica che esistono differenze biologiche intrinseche che possono influenzare la suscettibilità ai tumori».

I numeri italiani

Il tumore più frequentemente diagnosticato, nel 2020 in Italia, è stato il carcinoma della mammella (54.976 nuovi casi), seguito dal colon-retto (43.702), polmone (40.882), prostata (36.074) e vescica (25.492). In particolare, nel sesso femminile, continua la preoccupante crescita del carcinoma del polmone (+3,4% annuo), legata all’abitudine al fumo di sigaretta, il principale fattore di rischio oncologico. Dall’altro lato, si impone il «caso» del colon-retto, in netto calo in entrambi i sessi, grazie all’efficacia dei programmi di screening. Nel nostro Paese, dove la sopravvivenza è migliore della media europea, cala il numero di morti e cresce la quota di chi supera la malattia: 3,6 milioni di connazionali sono vivi dopo il cancro. Nelle donne la sopravvivenza a 5 anni raggiunge il 63%, migliore rispetto a quella degli uomini (54%), in gran parte legata al fatto che nel sesso femminile il tumore più frequente è quello della mammella, caratterizzato da una prognosi migliore rispetto ad altre neoplasie.

Non esiste un’unica causa

E se non bisogna dimenticare che oltre un terzo delle neoplasie si può prevenire con stili di vita corretti, riuscire a capire motivi e cause scatenanti dei vari tipi di cancro (e della loro maggiore o minore gravità) sarebbe un passo fondamentale per prevenire ogni volta possibile la malattia e riuscire a curarla con successo. Per quanto ne sappiamo oggi, non esiste quasi mai, tranne in alcune rare forme ereditarie, un’unica causa che possa spiegare l’insorgenza di un tumore. Al suo sviluppo concorrono diversi fattori, alcuni dei quali non sono modificabili, come i geni ereditati dai propri genitori o l’età, mentre su altri si può intervenire per ridurre il rischio di andare incontro alla malattia.

Tumore al seno: nuovi farmaci efficaci hanno dato risultati importanti. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.

Le novità maggiori che arrivano dal più importante congresso americano sulle diverse sperimentazioni per i pazienti con questa neoplasia e con forme aggressive

Dal San Antonio Breast Cancer Symposium (SABCS), il più importante congresso internazionale sul tumore al seno appena conclusosi negli Stati Uniti, arrivano importanti novità e decisive conferme per le donne con questa neoplasia, sia in fase avanzata o metastatica, sia in stadio precoce.

Il punto in Italia

Numerosi studi presentati al convegno in Texas hanno infatti messo in luce i progressi ottenuti con diversi farmaci sperimentali in differenti sottotipi di cancro. «Anche se il tumore al seno è fra quelli con le percentuali di sopravvivenza migliori, tanto che nove donne su dieci in Italia sono vive cinque anni dopo la diagnosi, servono nuove strategie di cura efficaci - sottolinea Saverio Cinieri, presidente dell’Associazione italiana oncologia medica (Aiom) -. Questa neoplasia resta infatti la più diffusa fra le donne del nostro Paese (sono 55mila i nuovi casi annui) e soprattutto contro i le forme più aggressive e in quelle giunte in stadio metastatico abbiamo bisogno di strategie innovative per allungare la vita delle pazienti o per aumentare il numero di guarigioni».

Due nuove cure dopo l'ormonoterapia

I risultati degli studi SERENA-2 e CAPItello-291 indicano che due nuove molecole, capivasertib e camizestrant, migliorano la sopravvivenza libera da progressione di malattia in pazienti con carcinoma della mammella metastatico già trattato con terapia ormonale. In pratica, dagli esiti delle sperimentazioni emerge che con l'uso di questi farmaci in donne che già hanno un tumore in fase avanzata si riduce il rischio che la malattia progredisca e si riesce a tenerla sotto controllo per un periodo più lungo. «Circa il 70% di tutti i tumori al seno è costituito dal sottotipo positivo per recettori ormonali (HR+) e con bassa espressione della proteina HER2 (HER2-low) o HER2 negativo — spiega Cinieri, direttore dell’Oncologia Medica e Breast Unit dell’Ospedale Perrino di Brindisi —. Le terapie ormonali sono abitualmente utilizzate per il trattamento del carcinoma della mammella positivo ai recettori ormonali. Tuttavia, queste pazienti sviluppano spesso resistenza alle terapie ormonali attualmente disponibili per la malattia avanzata e vanno incontro a progressione di malattia. Da qui la necessità urgente di nuove cure. Capivasertib e camizestrant hanno il potenziale per rispondere a questo forte bisogno clinico».

Nello studio di fase tre (l'ultima prevista prima dell'approvazione di un nuovo medicinale) CAPItello-291, capivasertib (un inibitore selettivo di AKT) in combinazione con fulvestrant (un tipo di terapia ormonale) ha determinato un miglioramento clinicamente rilevante e statisticamente significativo della sopravvivenza libera da progressione di malattia rispetto a placebo più fulvestrant in pazienti con tumore al seno localmente avanzato o metastatico positivo per i recettori ormonali (HR+), con bassa espressione di HER2 (HER2-low) o HER2 negativo, che hanno sviluppato una recidiva o progressione di malattia durante o dopo terapia endocrina (con o senza inibitore di CDK4/6). I risultati mostrano come capivasertib in combinazione con fulvestrant riduca del 40% il rischio di progressione di malattia o morte e, in un sottogruppo di donne con specifiche alterazioni genetiche (PI3K, AKT o PTEN), il pericolo è calato fino al 50%. «Le alterazioni PI3K, AKT, PTEN sono frequenti nel tumore al seno, interessano circa la metà delle pazienti con malattia metastatica HR-positiva e HER2-negativa — dice Alberto Zambelli, Professore associato di Oncologia medica all’Humanitas University di Milano —. I dati di questo trial, che ha coinvolto 708 pazienti, dimostrano che capivasertib rappresenta una nuova e importante opzione terapeutica, potenzialmente capace di cambiare l’attuale pratica clinica nel trattamento di questo tipo di cancro. In particolare, questo nuovo medicinale ha dimostrato di ritardare la progressione di malattia in pazienti che avevano già fallito una precedente terapia (quella di combinazione anti-estrogenica più inibitori di CDK4/6)». Gli eventi avversi più comuni, che si sono verificati nel 20% o più dei pazienti, sono stati diarrea (72,4%), nausea (34,6%), rash (38%), fatigue e vomito (20%).

Il trial SERENA-2

SERENA-2 è invece uno studio di fase due, che ha arruolato 240 pazienti in post-menopausa con cancro al seno localmente avanzato o metastatico con positività al recettore per gli estrogeni (ER+), precedentemente trattate con terapia endocrina: camizestrant (un potente SERD, ovvero degradatore selettivi del recettore degli estrogeni, di nuova generazione) ha ridotto significativamente il rischio di progressione di malattia o morte del 42% (al dosaggio di 75 milligrammi) rispetto a fulvestrant, attuale standard di cura come SERD. «Questi dati costituiscono un importante passo avanti verso una potenziale nuova terapia ormonale per pazienti con malattia avanzata dipendente dal recettore per gli estrogeni — chiarisce Giampaolo Bianchini, responsabile della Breast Unit presso il Dipartimento di oncologia dell’IRCSS Ospedale San Raffaele di Milano —. Secondo i risultati dello studio SERENA-2 camizestrant ha dimostrato quasi un raddoppio della sopravvivenza libera da progressione mediana rispetto all’attuale farmaco disponibile che appartiene alla stessa classe di SERD. Camizestrant, inoltre, è stato ben tollerato e ha mostrato simile efficacia ad entrambe le dosi testate (75e 150 milligrammi)».

Il trial monarchE

Al congresso SABCS sono poi stati illustrati anche i dati aggiornati dello studio di fase tre monarchE, contemporaneamente pubblicati anche sulla rivista scientifica The Lancet Oncology e indicano che l'aggiunta di una terapia mirata (abemaciclib) alla cura ormonale standard, dopo l'interveno chirurgico, fa calare le probabilità di ricaduta e metastasi nelle pazienti che hanno avuto una diagnosi negli stadi iniziali, ma con una neoplasia «pericolosa». «I numeri che emergono da monarchE sono di estrema rilevanza clinica sia per l’entità del beneficio indotto da abemaciclib, sia perché questo beneficio riguarda  pazienti con tumore che, pur nelle fasi iniziali, risulta a più alto rischio di ricaduta dopo l’intervento», commenta Lucia Del Mastro, Professoressa di Oncologia dell’Università di Genova e direttore della Clinica di Oncologia Medica dell’Ospedale Policlinico San Martino. La sperimentazione ha coinvolto 5.637 ha incluso donne e uomini con cancro al seno con tumore al seno sensibile agli ormoni: positivo al recettore ormonale (HR+) e negativo per il recettore del fattore di crescita epidermico umano (HER2-), linfonodo-positivi e con un alto rischio di recidiva. I risultati aggiornati derivano da un'analisi che riflette un periodo di osservazione medio di 3,5 anni nel quale tutte le pazienti hanno completato o interrotto il periodo di trattamento previsto di due anni con abemaciclib. Gli esiti illustrati al convegno texano indicano che il rischio di sviluppare una malattia invasiva è risultato ridotto del 33,6%; il tasso di sopravvivenza libera da malattia invasiva a quattro anni è stato dell'85,8% per i pazienti trattati con abemaciclib più ormonoterapia rispetto al 79,4% per chi ha fatto la sola ormonoterapia. L’aggiunta di abemaciclib in adiuvante (cioè dopo l'operazione) ha anche ridotto il rischio di sviluppare una malattia metastatica del 34,1%. Il tasso di sopravvivenza libera da malattia a distanza a quattro anni con abemaciclib è stato pari al 88,4% rispetto all'82,5% per chi ha seguito solo terapia endocrina. «Vediamo confermare il profilo di efficacia e di sicurezza della molecola — aggiunge Valentina Guarneri, professoressa ordinaria di Oncologia Medica, Direttore Unità Operativa Complessa di Oncologia 2, Istituto Oncologico Veneto IRCCS —. Il continuo rafforzamento del beneficio di abemaciclib in fase adiuvante a quattro anni sottolinea ulteriormente l'importanza potenziale di questi dati per donne e uomini affetti da questo tipo di carcinoma mammario precoce».

Il trial DESTINY-Breast03

Oggi, in Italia, vivono più di 834mila donne dopo la diagnosi di cancro al seno: alcune sono guarite, altre sono in trattamento, circa 37mila convivono con una forma metastatica. Per queste ultime possono essere importanti gli esiti contenuti nell'analisi aggiornata di DESTINY-Breast03, pubblicata contemporaneamente al congresso su The Lancet. «Abbiamo condotto tanti studi per cercare di comprendere meglio l’evoluzione della malattia, i motivi alla base del pericolo di ricaduta e metastasi anche dopo 15 o 20 anni dal primo tumore al seno, le caratteristiche dei vari sottotipi di cancro, con l’obiettivo di calibrare al meglio la cura su ogni donna per ottenere il massimo risultato possibile con la minore tossicità  — conclude Giuseppe Curigliano, professore di Oncologia Medica all’Università di Milano e direttore della Divisione Sviluppo di Nuovi Farmaci per Terapie Innovative all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano —. Le pazienti con carcinoma mammario metastatico HER2 positivo, sottoposte a precedenti terapie, nella maggioranza dei casi vanno incontro a una progressione della malattia in meno di un anno. Proprio alla luce di questo è notevole e consistente il beneficio riscontrato nei pazienti che hanno ricevuto trastuzumab deruxtecan in DESTINY-Breast03, uno studio che ha incluso 524 malati con carcinoma mammario HER2-positivo metastatico precedentemente trattato con trastuzumab e chemioterapia. Trastuzumab deruxtecan ha significativamente ridotto il rischio di morte rispetto a trastuzumab emtansine (T-DM1), un altro anticorpo coniugato anti HER2 e precedente standard di cura. Questo vantaggio è stato osservato anche nelle donne con metastasi cerebrali. Non solo. La superiorità di trastuzumab deruxtecan è emersa inoltre in termini di risposte obiettive e di controllo di malattia». 

Cancro al seno: i sintomi che le donne (e i maschi) di ogni età non devono sottovalutare. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022.

Ogni anno in Italia si ammalano di tumore al seno circa 55mila donne: l’80 per cento ha più di 50 anni, ma l’incidenza nelle 30-40enni è in crescita. Le possibilità di guarire, se la diagnosi è precoce, sfiorano il 90 per cento. «Ecco perché è fondamentale che tutte le donne, più o meno giovani, si prendano cura della loro salute, siano informate e seguano quelle poche regole salutari che possono essere di grande aiuto nel tenere lontana la malattia», dicono gli esperti di Fondazione Umberto Veronesi

Quali sono i sintomi del cancro del seno?

Il sintomo più comune è la presenza di un nodulo che non causa dolore e ha contorni irregolari. Altri segnali frequenti sono il rigonfiamento di una parte o di tutto il seno, la trasformazione della pelle che tende a diventare a buccia d’arancia, cambiamenti nella forma della mammella come la presenza di avvallamenti, alterazioni del capezzolo (all’infuori o in dentro), perdite di liquido o sangue dal capezzolo, rigonfiamento dei linfonodi nell’ascella, intorno alla clavicola o al collo. In tutti questi casi è necessario consultare il proprio medico che potrà richiedere gli esami più opportuni.

Anche gli uomini possono ammalarsi di cancro del seno?

Sì, benché sia molto più raro che fra le donne, può colpire anche i maschi. In media ogni anno si contano circa 500 nuovi casi di carcinoma mammario fra gli italiani, con tassi di sopravvivenza peggiori rispetto alle donne perché la diagnosi è spesso tardiva. È quindi importante che anche gli uomini prestino attenzione a eventuali noduli o altri sintomi e si facciano vedere da un medico senza temporeggiare.

Quali sono i fattori di rischio noti per il tumore al seno?

Sovrappeso o obesità, fumo, eccessivo consumo di alcolici, sedentarietà (chi fa attività fisica regolare ha molte meno probabilità di ammalarsi). E poi c’è la familiarità: chi ha familiari di primo grado (madri, nonne, zie, sorelle) che hanno sviluppato un carcinoma mammario ha maggiori probabilità di ammalarsi. Infine la genetica: esistono varianti genetiche, per esempio i geni BRCA1 E BRCA2, che aumentano notevolmente il rischio di ammalarsi.

Cosa sono i geni BRCA1 e BRCA2?

BRCA1 e BRCA2 sono i primi geni a essere stati individuati come responsabili dell’insorgenza del cancro al seno (e anche di ovaio, pancreas e prostata). Le mutazioni a carico di questi due geni, che possono essere trasmesse ai figli, sono responsabili di circa il 4-8 per cento di tutti i tumori del seno. Chi è portatrice di queste mutazioni ha un rischio di sviluppare la malattia nel corso della vita tra il 45 e il 90 per cento. Inoltre, i tumori associati a mutazioni di BRCA1 e BRCA2 tendono a presentarsi più precocemente. Non solo: le mutazioni a carico dei geni BRCA1 e BRCA2 espongono a un rischio del 20-40 per cento di sviluppare un cancro dell’ovaio, un tumore raro nella popolazione generale (con un’incidenza di un caso ogni 100 donne) e di difficile diagnosi precoce. Le mutazioni del gene BRCA1 conferiscono un aumento di rischio di andare incontro a un tumore mammario anche agli uomini che ne sono portatori e, per questo, chi ne è affetto va tenuto sotto controllo. 

Le donne con una protesi al seno hanno più rischi di ammalarsi?

L’impianto di una protesi al seno è una procedura sicura, anche perché tutte le donne che hanno protesi mammarie effettuano già regolarmente un controllo annuale con ecografia mammaria che può identificare precocemente eventuali anomalie. Va però detto che l’impianto di una protesi al seno può aumentare il rischio di incorrere in un tumore chiamato linfoma anaplastico a grandi cellule: si tratta di un rischio molto basso, anche perché è una forma di cancro rarissima (e ben curabile).

È vero che chi ha il seno più grosso ha più probabilità di avere tumori?

No, la probabilità di ammalarsi non dipende dalla taglia. Certo un seno più piccolo può essere meglio esplorabile con la palpazione, mentre per le donne con mammelle più grandi trovare da sole eventuali noduli o anomalie può essere più difficile.

Un trauma al seno può causare un tumore?

No. Una botta al seno può provocare un ematoma, gonfiore, dolore, magari nodularità benigna. Nel caso comunque si abbiano dubbi per sintomi che non passano dopo lungo tempo basta rivolgersi al proprio medico.

È vero che se sono sovrappeso corro più pericoli di sviluppare un tumore al seno?

Sì, l’eccesso di peso, specie quando si supera la soglia dell’obesità, è uno dei principali fattori di rischio del cancro mammario. Molti studi hanno ormai confermato che le donne in sovrappeso o obese hanno maggiori probabilità di sviluppare un carcinoma mammario (pare che l’obesità aumenti i livelli di estrogeni che stimolano la crescita del tessuto mammario).

Bere alcolici e fumare fanno salire il pericolo di carcinoma mammario?

Sì, decine di studi hanno chiarito che bere alcol aumenta il rischio di cancro al seno e le probabilità di ammalarsi crescono all’aumentare della quantità consumata. Anche per il tabacco, il rischio è tanto più alto quanto più precocemente si è iniziato a fumare, quante più sigarette si è fumato e quanto più a lungo lo si è fatto.

Che relazione c’è fra gravidanza e cancro al seno?

Il numero di figli e l’età a cui si concepisce il primo figlio sono due tra i fattori che influenzano il rischio di ammalarsi di cancro al seno. Complessivamente si stima che avere almeno un bambino diminuisca il rischio di tumore al seno di circa il 30 per cento rispetto a non averne affatto. Le probabilità di ammalarsi si riducono ulteriormente di circa il 7 per cento per ogni figlio in più. Le ragioni di ciò non sono completamente chiare, ma l’ipotesi più accreditata è che siano dovute al fatto che la gravidanza riduce l’esposizione delle cellule del seno agli ormoni estrogeni.

Allattare protegge il seno?

È vero: allattare al seno riduce il rischio di ammalarsi di cancro al seno. Tuttavia, occorre allattare per lunghi periodi per conseguire vantaggi significativi. Si stima che per le madri il rischio di cancro al seno si abbassi del 4 per cento per ogni 12 mesi di allattamento. Si suppone che ciò avvenga perché le donne durante l’allattamento fanno una dieta più salutare, non bevono alcolici e non fumano. Inoltre, le donne che allattano hanno meno cicli mestruali e ciò significa minore esposizione a fluttuazioni degli ormoni sessuali. Infine, è probabile che la necessità di produrre il latte, limiti la capacità delle cellule del seno di comportarsi in maniera anomala e favorisca il loro completo sviluppo.

Dieta e cancro al seno: cosa fa bene e cosa fa male davvero?

È molto difficile isolare il contributo di ogni singola classe di cibi o nutrienti. Tuttavia sembra ormai chiaro che, oltre all’alcol (il cui legame con il cancro al seno è ben noto), il rischio di ammalarsi è più alto per le persone che consumano elevate quantità di grassi. Esistono poi alimenti che svolgono un’azione protettiva contro questa patologia: benefici sono i cibi contenenti fitoestrogeni (dunque soia e derivati, ma anche alghe, semi di lino, cavolo, legumi, frutti di bosco, cereali integrali), così come molte crucifere (rape, senape, rucola, cavolfiore, cavolini di Bruxelles, ravanelli, cavolo) e le fibre in generale che agiscono in modo positivo nei confronti del metabolismo degli ormoni.

Mammografia, ecografia risonanza magnetica: chi deve fare quali controlli e quando?

In Italia, per la diagnosi precoce del tumore al seno, esiste uno screening con mammografia: ogni due anni le donne tra i 50 e i 69 anni sono invitate dalla Asl a effettuare gratuitamente questo esame. Diverse Regioni si sono già attivate per continuare con i controlli anche prima dei 50 anni e oltre i 70, quando è importante non abbassare la guardia e i vantaggi del controllo mammografico possono ancora essere rilevanti. Ad oggi la risonanza magnetica in aggiunta alla mammografia e alla visita senologica è indicata soltanto per donne con aumentato rischio di cancro al seno o con caratteristiche anatomiche che rendono poco efficaci i tradizionali strumenti diagnostici. L’ecografia, inoltre, consente un’ottima valutazione delle dimensioni delle formazioni presenti nel seno e dei loro bordi (una caratteristica importante per indirizzare verso una diagnosi di tumore o escluderla), ma non è un buono strumento per identificare le microcalcificazioni: per le sue caratteristiche l’ecografia rappresenta l’indagine di elezione per le donne più giovani, mentre dopo i 40 anni dovrebbe essere abbinata a una mammografia e a una visita senologica.

Cosa si deve fare prima dei 40 anni?

Autopalpazione del seno una volta al mese e se si nota qualcosa di strano rivolgersi a un medico. Poi, molti specialisti concordano sul fatto che il programma di prevenzione (per tempistica dei controlli e tipologia di esame, se ecografia o mammografia eventualmente abbinate a risonanza magnetica) debba essere elaborato «su misura», tenendo conto dei vari fattori di rischio che ha ogni donna e della forma anatomica del suo seno. Al momento attuale si suggerisce alle 40enni un esame mammografico all’anno, eseguito però in centri dove si diagnosticano (e si trattano) molti casi di tumore ogni anno. Dove, cioè, i medici radiologi e senologi hanno un’esperienza sufficiente per scongiurare il pericolo di trattamenti in eccesso. In generale, magari durante la visita annuale ginecologica, è comunque consigliata un’ecografia (esame indolore che dura pochi minuti e vede bene attraverso i tessuti di un seno giovane) a cominciare dai 30 anni.

La terapia ormonale sostitutiva può aumentare il rischio di ammalarsi?

Il legame tra terapia ormonale sostitutiva (in sigla TOS ) e cancro al seno è uno dei principali timori delle donne da quando, nel 2002, un ampio studio americano ha osservato un lieve aumento dei casi di tumore del seno nelle donne che assumevano estrogeni e progestinici. Da allora si è diffuso un clima di forte diffidenza nei confronti della terapia ormonale sostitutiva che, però, non è giustificato: l’aumento di rischio di cancro al seno, infatti, è molto piccolo; si riferisce inoltre a stime condotte su donne che hanno assunto farmaci poco impiegati in Italia, dove si prediligono molecole più vicine a quelle naturalmente prodotte dall’organismo, e a dosaggi più elevati rispetto a quelli in uso nel nostro Paese. Infine è legato a periodi di assunzione molto lunghi (più di 5 anni). È quindi ragionevole non eliminare del tutto l’ipotesi di ricorrere alla terapia ormonale sostitutiva soprattutto se i disturbi legati alla menopausa sono molto intensi.

Da open.online l'8 agosto 2022.  

Il professore del San Raffaele parla della terapia sperimentale con il farmaco Dostarlimab 

Il professor Roberto Burioni oggi su Repubblica parla delle cure contro il cancro. E racconta della ricerca del Memorial Sloan Kettering Cancer Center (MSK) su dodici pazienti con un tumore del retto localmente avanzato e con un deficit di funzionalità del sistema di riparazione del Dna (MMR). Che ha avuto risultati straordinari: dopo sei mesi di terapia con il farmaco Dostarlimab il cancro è scomparso. Senza chemioterapia, radioterapia o chirurgia.

Il professore del San Raffaele avverte che il tumore potrebbe tornare negli anni e le sue alterazioni genetiche lo rendevano più vulnerabile. Ma l’ottimismo c’è lo stesso: «Il farmaco che è stato somministrato impedisce al tumore di bloccare le cellule immunitarie. Non si vede più niente, i pazienti appaiono completamente guariti». 

«Ecco, la scomparsa completa di 12 cancri del retto in 12 pazienti, senza neanche l’intervento chirurgico, è qualcosa che non si era mai visto prima, e che non può non lasciarci a bocca aperta», conclude Burioni. La vicenda è stata raccontata all’ultimo Congresso Mondiale di Oncologia. I ricercatori hanno condotto uno studio su 12 pazienti con età media di 54 anni (il 62% donne). 

La loro diagnosi era di un adenocarcinoma rettale di stadio 2 e 3 con deficit di riparazione del mismatch. A questi pazienti è stato somministrato un anticorpo monoclonale anti-PD-1, il dostarlimab in monoterapia, ogni tre settimane per sei mesi a cui far seguire poi chemioradioterapia standard o chirurgia.

Tutti i 12 pazienti che hanno iniziato il trattamento hanno ottenuto una risposta clinica completa senza evidenza di tumore dalla risonanza magnetica, dalla PET, dall’endoscopia, dall’esame rettale o dalla biopsia. In Italia vengono diagnosticati ogni anno 44 mila casi di tumore al colon-retto. Colpisce preferibilmente le persone con più di 60 anni. I fattori di rischio sono il fumo, l’obesità, la scarsa attività fisica e il consumo di carni rosse e insaccati. Il 65% dei pazienti sconfigge la malattia, ma quando il tumore è individuato in fase avanzata, le possibilità di batterlo sono limitate.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'11 agosto 2022.

Un solo farmaco, testato in modo sperimentale su 12 pazienti affetti da cancro del colon -retto in fase avanzata e giudicato ormai inoperabile, con previsione di sopravvivenza limitata, si è rivelato in grado di distruggere ed eliminare completamente la massa tumorale maligna fin nei suoi meandri più nascosti, portando i malati alla completa remissione di malattia, ovvero alla guarigione, senza la necessità di intervenire in seguito con le terapie oncologiche classiche già programmate, chemioterapia, radioterapia o chirurgia standard, in nessuna delle persone trattate, poiché ritenute non più necessarie.

L'annuncio sorprendente, che ha letteralmente lasciato a bocca aperta centinaia di scienziati presenti al congresso mondiale organizzato dall'Asco, la Società americana di Oncologia medica, è dovuto all'effetto di una sola molecola, l'anticorpo monoclonale Dostarlimab, un farmaco immunoterapico che ha rivelato una efficacia del 100% nella remissione dei tumori colon-rettali al III o IV stadio, ovvero in fase talmente avanzata da considerarsi ormai intrattabili, regalando ai pazienti, al termine della cura, la totale scomparsa della lesione tumorale, e la cui sopravvivenza non è stata messa più in discussione.

LA RISPOSTA Questa terapia sperimentale, promossa dal Memorial Sloan Kettering Center di New York, in collaborazione con l'Università di Yale, il cui studio è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha ottenuto nelle persone selezionate una risposta clinica completa, senza più l'evidenza del tumore alla Risonanza Magnetica, alla Tac, alla Pet, alla valutazione endoscopica diretta ed alla biopsia, senza sospetti di progressione o recidive, e soprattutto senza che fossero segnalati eventi avversi. 

L'anticorpo monoclonale Dostarlimab, (nome commerciale Jemperli), approvato dalla Commissione Europea nel 2021 per il cancro endometriale ricorrente e metastatico, ha dimostrato una efficacia così sorprendente per gli stessi ricercatori, proprio sull'adenocarcinoma colorettale più temibile, ovvero quello con mutazioni che determinano deficit di riparazioni cellulari, e che di solito non risponde alla chemioterapia o radioterapia standard, una patologia che conduce a morte i pazienti in pochi mesi.

Tale farmaco, progettato per bloccare il recettore della morte che frena il sistema immunitario, in modo da rafforzare le difese contro le cellule tumorali nei pazienti affetti da tale tipo di cancro, è stato somministrato per via endovenosa ogni tre settimane per un totale di sei mesi, ed al termine del periodo di follow-up tutti i pazienti hanno avuto incredibilmente una risposta clinica positiva, inaspettata e straordinaria, con remissione completa della malattia oncologica, un evento questo registrato come il primo in assoluto nella storia mondiale del cancro.

L'entusiasmo di tale sperimentazione, ancora più palpabile nei malati che si sentivano "miracolati'" nonostante la dovuta cautela e la vigilanza necessaria dopo la remissione di malattia, ha galvanizzatola comunità scientifica internazionale, poiché questo risultato potrebbe davvero rappresentare una svolta nel trattamento contro il cancro del colon-retto, ed ipotizzare di essere di fronte alla più grande e corposa novità nelle terapia di uno dei principali "big-killer" tra le patologie oncologiche più diffuse al mondo. 

Gli anticorpi monoclonali sono l'unica vera grande scoperta della ricerca scientifica e farmacologica degli ultimi decenni, e sono proteine prodotte in laboratorio in grado di imitare le capacità del sistema immunitario nel combattere i virus e di impedire ai tumori di bloccare le cellule della difesa, andando a distruggere le cellule in replicazione tumorale, selezionandole e lasciando intatte quelle sane, a differenza dell'azione dei farmaci chemioterapici, la cui azione distruttiva non fa distinzioni.

LA RIVOLUZIONE Queste molecole hanno rivoluzionato l'approccio terapeutico di molti tipi di tumori solidi, compresi quelli liquidi del sangue, linfomi, mielomie leucemie, garantendo remissioni di malattie e guarigioni in moltissimi tipi di cancro una volta definiti incurabili e dal destino segnato.

Il Dostarlimab (Jemperli) oggi viene utilizzato con successo anche contro i tumori endometriali dell'utero in fase avanzata, e sta per essere sperimentato su ulteriori tipi di cancro di altri organi vitali, soprattutto quelli che registrano un deficit nel sistema di riparazione del Dna (MMR, Mismathch Repair), mutazioni che portano al facile sviluppo del tumore maligno, e tale medicinale ha registrato un ottimo profilo di tollerabilità, suggerendo la possibilità che questa molecola entri a breve e a pieno titolo nel protocollo del trattamento di questo tipo di tumore.

In Italia ogni anno vengono diagnosticati oltre 46mila casi di cancro del colon-retto, che colpisce preferibilmente le persone over 60 e in sovrappeso che non fanno prevenzione (colonscopia ogni 4/5 anni), e tale patologia risulta letale se non individuata in tempo, con una mortalità purtroppo ancora del 35%. 

Fatti e informazioni che tutti dovrebbero conoscere sui tumori del sangue. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.

Ogni anno sono circa 30mila gli italiani che si ammalano di una neoplasia ematologica. Come l’allenatore del Bologna Sinisa Mihajlovic, che nell’estate del 2019 ha ricevuto la diagnosi di leucemia mieloide acuta, e il musicista Giovanni Allevi, che a luglio ha scoperto un mieloma. Progressi nella ricerca scientifica e nuove terapie efficaci hanno portato grandi miglioramenti nella qualità di vita dei pazienti. Ecco cosa è importante sapere secondo gli esperti della Società italiana di ematologia

Nuovi casi e guarigioni in Italia

«Il numero delle diagnosi di tumore al sangue è destinato ad aumentare insieme all’invecchiamento generale della popolazione — spiega Emanuele Angelucci, direttore dell’Unità di Ematologia e terapie cellulari all’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e vicepresidente della Società italiana di ematologia (Sie) —. Fortunatamente, però, oggi le speranze di vita sono maggiori e il 40% circa dei malati può aspirare alla guarigione. Inoltre, i rapidi progressi della medicina hanno reso croniche molte di quelle che una volta erano considerate malattie mortali». Come nei casi dell’ex calciatore Mihajlovic, già curato anche dopo una ricaduta, e del pianista e compositore Allevi, le prospettive dei pazienti oggi sono cambiate in meglio.

Colpiscono soprattutto gli anziani

Ogni anno in Italia un nuovo caso di tumore ogni sette è una neoplasia ematologica. Due terzi dei malati sono persone con più di 65 anni.

Esistono più di 100 sottotipi diversi

«Sono attualmente ben caratterizzati più di 100 differenti tipi di tumori del sangue — dice Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia (Sie) e direttore della Divisione di Ematologia alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano —. Esistono decine di sottotipi diversi di appartenenti a tre grandi macro-gruppi: leucemie, linfomi e mielomi, che sono i più noti tra i non addetti ai lavori. Meno diffusa è la conoscenza delle neoplasie del sangue appartenenti ai gruppi delle sindromi mielodisplastiche o delle neoplasie mieloproliferative croniche».

Alcune malattie sono aggressive, altre meno

«Non tutti i tipi di neoplasie del sangue si manifestano nello stesso modo — chiarisce Angelucci —. Certe malattie possono manifestarsi in forma acuta (più grave e con un decorso aggressivo), ma la maggior parte in realtà tende ad avere un andamento molto “lento” o cronico. Le forme acute possono avere un esordio che configura una vera e propria emergenza clinica, tanto che circa il 20% dei nuovi pazienti ricorre al pronto soccorso prima di ricevere la diagnosi definitiva di neoplasia del sangue».

Tumori che possono evolvere da indolenti ad aggressivi

«Anche alcune forme croniche posso mostrare durante il decorso una più o meno rapida modificazione delle loro caratteristiche cliniche – prosegue Angelucci -. L’acquisizione di una o più mutazioni aggiuntive a carico del genoma delle cellule cancerose può indurre la malattia a diventare improvvisamente molto aggressiva e poco responsiva ai trattamenti. È il caso, per esempio, delle mielodisplasie che possono trasformarsi più o meno rapidamente in una leucemia acuta o della leucemia mieloide cronica che, prima dell’introduzione dei nuovi farmaci biologici a bersaglio intracellulare, si trasformava invariabilmente anch’essa in una leucemia acuta».

225mila italiani vivi dopo una diagnosi di tumore del sangue

«La sopravvivenza media attesa per i pazienti con malattie neoplastiche del sangue in Italia è dell’87% a un anno, del 65 % a cinque anni e poco meno del 60% dei malati è vivo dopo 10 anni dalla diagnosi — dice Corradini —. Si calcola inoltre che, grazie anche in relazione alle sempre più efficaci terapie utilizzate in questo tipo di tumori, vivono in Italia oltre 225mila persone con una diagnosi di tumore del sangue».

«Sorvegliati speciali», quando le terapie non servono

«Poco più di un decimo dei pazienti vivi con un tumore del sangue, cioè circa 25mila connazionali circa, sono solo in osservazione clinica “attenta”, cioè adottando la strategia nota come “wait and watch” (ovvero attendi e sorveglia) — spiega Angelucci —. Per questi tipi di pazienti la terapia immediata non si associa a benefici clinici e possono convivere con la loro malattia sotto stretta sorveglianza degli specialisti ematologi che valuteranno se e quando sottoporli al trattamento».

Leucemie e linfomi: i tumori più frequenti nei bambini

Le neoplasie ematologiche (soprattutto diversi tipi di leucemie e linfomi) rappresentano le forme di tumore più frequenti in età pediatrica. Il tumore in bambini e adolescenti resta un evento raro, ma ogni anno nel nostro Paese sono circa 2.200 le diagnosi in giovani sotto i 18 anni d’età. I tassi di guarigione di bambini che si ammalano di leucemie e linfomi sfiorano il 90%, ma il cancro rappresenta nel mondo occidentale la prima causa di morte per malattia nei bambini.

I sintomi che devono insospettire

Le cause delle neoplasie ematologiche in molti casi non sono note, tuttavia è importante non sottovalutare alcuni segnali, in modo da poter giungere tempestivamente a scoprire eventuali tumori. Purtroppo è difficile giungere a una diagnosi precoce: i segnali iniziali sono sempre piuttosto vaghi e poco specifici perché potrebbero essere spia anche di molte altre patologie (non di rado simili a quelli di una brutta influenza).

Quando vedere un dottore

«È però importante parlare con un medico in presenza di: febbre o febbriciattola ripetute (in particolare pomeridiana o notturna) e un senso di debolezza che perdurano senza cause apparenti per più di due settimane; dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono; perdita di appetito e dimagrimento improvviso e ingiustificato; formazione di ematomi o lividi spontanei; sanguinamenti e ulcerazioni che non guariscono (come le ferite e le infezioni del cavo orale); gonfiore indolore di un linfonodo superficiale del collo, ascellare o inguinale — conclude Corradini —. Possono essere presenti anche una sudorazione eccessiva, soprattutto di notte, che obbliga a cambiare gli indumenti e un prurito persistente diffuso su tutto il corpo».

Cos’è la leucemia mieloide acuta, la terribile malattia diagnosticata a Sinisa Mihajlovic. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Era l’estate del 2019 quando a Sinisa Mihajlovic i medici diagnosticarono una leucemia mieloide acuta. Un tumore del sangue molto aggressivo a cui sopravvive solo il 35-40% dei pazienti. Nonostante il tecnico serbo avesse lottato con tutte le sue forze, sottoponendosi a pesanti chemio e al trapianto di midollo, non ce l’ha fatta. È morto dopo tre anni e mezzo di battaglie. Un grave lutto per tutto il mondo dello sport.

La drammatica diagnosi è arrivata nell’estate del 2019 appena tornato dalle vacanze in Sardegna. Subito iniziò i pesanti cicli di chemioterapia e alla fine di ottobre 2019 si sottopose a trapianto di midollo osseo che gli aveva dato speranza nella sua lotta contro il male. A dicembre dello stesso anno l’allenatore aveva ripreso il suo posto in panchina. Poi a marzo 2022 l’annuncio in conferenza stampa che la malattia era tornata e aveva bisogno di iniziare nuovamente le cure. La leucemia mieloide acuta è un tumore molto aggressivo che si manifesta soprattutto negli uomini sopra i 60 anni.

“A oggi la terapia più efficace per molti pazienti resta il trapianto di midollo da donatore: la leucemia mieloide acuta, infatti, origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa molto rapidamente – ha spiegato al Corriere Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia (Sie) -. Succede però spesso, purtroppo, che la malattia si ripresenti dopo il trapianto. In base a diversi fattori prognostici del singolo paziente e all’aggressività della malattia, in circa la metà dei malati con leucemia mieloide acuta sottoposti a trapianto di midollo da donatore, il tumore si manifesta nuovamente a distanza di tempo”.

Come per tutti i tumori le cure sono una corsa contro il tempo. Più tardi si ricade nella malattia meglio è perché è sintomo che il corpo ha reagito bene al trapianto. “Ci sono poi nuovi farmaci efficaci che possono essere utilizzati, ma non sempre funzionano come sperato, purtroppo – dice Corradini, che è anche direttore della Divisione di Ematologia della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. È proprio sul fronte della lotta alle recidive che oggi si concentrano gli sforzi di molti ricercatori per trovare ulteriori cure in grado di debellare il tumore quando ritorna”. In Italia ogni anno sono circa 32mila le persone che si ammalano di questo terribile tumore del sangue.

Spesso i sintomi dei tumori del sangue non sono molto chiari e si manifestano anche come molto comuni o blandi. per esempio, febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna), un senso di debolezza che perdura, dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono. Così, un paziente su quattro ha dichiarato di non essersi rivolto immediatamente al medico per la difficoltà di cogliere la gravità della situazione anche a causa di sintomi che sembrano inizialmente sopportabili.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Che cosa è la leucemia mieloide acuta, la malattia di cui è morto Mihajlovic. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022

La leucemia mieloide acuta, diagnosticata a Sinisa Mihajlovic, è un tumore del sangue che colpisce ogni anno circa 3.500 persone in Italia, che origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa rapidamente

È un tumore del sangue molto aggressivo quello che si è portato via Sinisa Mihajlovic, come dimostrano purtroppo le statistiche: a cinque anni dalla diagnosi di leucemia mieloide acuta , infatti, sopravvive soltanto il 35-40% dei pazienti.

Era l’estate del 2019, quando, di ritorno da una vacanza in Sardegna, all’ex allenatore del Bologna veniva diagnosticata la malattia . Erano subito iniziati i pesanti cicli di chemioterapia e, alla fine di ottobre 2019, si era sottoposto al trapianto di midollo osseo da donatore che gli aveva restituito la speranza. A dicembre 2019, poco meno di cinque mesi dopo il primo ricovero in ospedale, l’ex calciatore aveva ripreso il suo posto in pianta stabile in panchina e da allora non l’aveva più abbandonato, pur sottoponendosi sempre ai controlli previsti per tutti i malati con il suo stesso percorso clinico. Fino all’annuncio dato a marzo 2022 in conferenza stampa: la malattia era tornata e Sinisa aveva iniziato un nuovo pesante iter di cure.

Quando il trapianto non funziona e il tumore ritorna

La leucemia mieloide acuta è una patologia estremamente aggressiva che colpisce con maggior probabilità gli uomini sopra i 60 anni, sebbene possa insorgere anche nei bambini. «A oggi la terapia più efficace per molti pazienti resta il trapianto di midollo da donatore: la leucemia mieloide acuta, infatti, origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa molto rapidamente — spiega Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia (Sie) —. Succede però spesso, purtroppo, che la malattia si ripresenti dopo il trapianto. In base a diversi fattori prognostici del singolo paziente e all’aggressività della malattia, in circa la metà dei malati con leucemia mieloide acuta sottoposti a trapianto di midollo da donatore, il tumore si manifesta nuovamente a distanza di tempo».

In pratica, anche i nuovi linfociti (le cellule del sistema immunitario deputate alla difesa del nostro organismo) ricevuti attraverso il trapianto da una persona sana non riescono a combattere la neoplasia che torna con una recidiva.

Più tardi si ricade meglio è (e per Sinisa erano passati quasi due anni e mezzo dal trapianto, ndr) perché il trascorrere del tempo indica che l’organismo del paziente è comunque riuscito a reagire . «Ci sono poi nuovi farmaci efficaci che possono essere utilizzati, ma non sempre funzionano come sperato, purtroppo — dice Corradini, che è anche direttore della Divisione di Ematologia della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano —. È proprio sul fronte della lotta alle recidive che oggi si concentrano gli sforzi di molti ricercatori per trovare ulteriori cure in grado di debellare il tumore quando ritorna».

Un impatto importante

Ogni anno sono circa 32mila gli italiani che si ammalano di un tumore del sangue, che in due terzi dei casi colpisce persone con più di 65 anni. La diagnosi di leucemia mieloide acuta arriva presto, in genere entro due settimane dal primo accesso del paziente al Centro di cura ed è accompagnata da emozioni quali paura, sconforto, rabbia, preoccupazione. Come emerge anche da un’indagine promossa dall'Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail), «la scoperta di una patologia aggressiva come questa crea angoscia e preoccupazione nelle persone che ne sono colpite e comporta per la famiglia e il caregiver un impatto molto importante — sottolinea Sergio Amadori, ordinario di Ematologia e consigliere nazionale Ail —. Oggi lo scenario nazionale della presa in carico è di buona qualità (la sopravvivenza in Italia per molti tipi di cancro è superiore alla media europea). Il paziente, nel momento in cui comincia ad avere dei sintomi che fanno sospettare una malattia del sangue, viene inviato in un Centro di Ematologia che si preoccupa di affrontare il percorso diagnostico e terapeutico fino alla possibile guarigione o follow-up. La diagnosi deve essere fatta in tempi il più rapidi possibile».

Sintomi poco chiari

I sintomi di molti tumori del sangue sono per lo più vaghi, poco specifici e comuni a tanti disturbi, anche poco gravi: per esempio, febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna), un senso di debolezza che perdura, dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono. Così, un paziente su quattro ha dichiarato di non essersi rivolto immediatamente al medico per la difficoltà di cogliere la gravità della situazione anche a causa di sintomi che sembrano inizialmente sopportabili. Quasi il 60% si rivolge in prima battuta al medico di famiglia prima di essere indirizzato dall’ematologo. In ogni caso, entro due settimane dalla comparsa dei sintomi, l’80% dei pazienti viene preso in carico. Nella grande maggioranza dei casi (88%) l’ematologo comunica personalmente al paziente la diagnosi e ritiene molto importante il supporto che da Ail può arrivare ai malati. «I risultati di questa indagine ci confortano nella scelta di collaborare con gli ematologi, con i medici di medicina generale e con quanti operano sul territorio — conclude Giuseppe Toro, presidente nazionale Ail —. E proseguiremo con le nostre campagne di raccolta fondi per dare sostegno alla ricerca scientifica e garantire ai nostri pazienti terapie sempre più innovative ed efficaci che possano migliorare sempre di più la loro qualità di vita».

Tumore al fegato, approvata in Italia una nuova terapia. Alessandro Ferro il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nuove speranze per una tipologia di tumore al fegato. L'azione di due farmaci riuscirebbe a bloccarne la progressione e contribuirebbe al miglioramento del quadro generale.

Una speranza in più per curare con successo un particolare tipo di tumore al fegato: il carcinoma epatocellulare avanzato. Chiamato anche Hccmm, di solito non provoca alcun sintono durante le prime fasi della malattia ma, se si manifestano, si può incorrere alla perdita di peso, ingiallimento della pelle e del bianco degli occhi (ittero) e gonfiore del ventre. Adesso, però, la speranza arriva da una cura appena approvata dall'Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco).

Il nuovo doppio farmaco

Grazie agli ottimi risultati ottenuti in fase tre dopo quasi nove mesi su 500 pazienti, il farmaco atezolizumab, assieme al bevacizumab, riuscirebbe a migliorare la sopravvivenza dei pazienti malati e bloccare la progressione della malattia. I numeri sono incoraggianti: il 42% dei pazienti riuscirebbe a sopravvivere e, dopo un follow up di 15 mesi, il rischio morte sembra ridursi del 34%. Rispetto alla cura precedente, con il sorafenib, questa sembra una terapia nettamente migliore. "L’approvazione della combinazione atezolizumab-bevacizumab rappresenta una pietra miliare nella cura del carcinoma epatocellulare", ha affermato al Corriere della Sera Antonio Gasbarrini, Direttore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS. "Dopo più di 10 anni di immobilità è finalmente disponibile un trattamento di prima linea capace di prolungare la sopravvivenza dei pazienti con una neoplasia non operabile, particolarmente delicati perché affetti anche da una disfunzione del fegato".

"Grande passo avanti"

Con questa cura, i malati sono riusciti a sopravvivere mediamente per quasi due anni (19,2 mesi), ed è il risultato più lungo mai ottenuto "da uno studio di fase tre in questa neoplasia. È un grande passo avanti", aggiunge Gasbarrini. Grazie all'azione congiunta dei due farmaci, poi, è stato osservato un miglioramento generale della qualità di vita con sintomi anche minori. "Sono i dati migliori finora ottenuti nella storia della terapia dell’epatocarcinoma e sono confortanti sotto il profilo di maneggevolezza e tollerabilità", ha aggiunto al quotidiano il prof. Fortunato Ciardiello, Ordinario di Oncologia Medica e Prorettore dell'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli".

La sintomatologia

Purtroppo, in questa patologia, le diagnosi precoci fanno la differenza ma non sempre sono possibili. Ecco perché questo tumore è al quinto posto come mortalità dopo quello al polmone, colon-retto, mammella e pancreas. Oltre a quelli sopra menzionati, i primi sintomi appaiono fase avanzata e si manifestano con dolore nella parte superiore dell’addome che può arrivare a interessare anche schiena e spalle oltre ad una colorazione scura delle urine e alla febbre. Si tratta di una patologia complessa che ha bisogno dell'intervento di più specialistici, dai gastroenterologi a chirurghi e radiologi così da saper indirizzare il paziente verso le cure e strutture più appropriate.

Le statistiche dicono che sono stati registrati quasi 13mila casi nel 2020, la maggior parte dei quali causati dalle epatiti B e C e da altre malattie del fegato. Al momento, soltanto nel 10% dei casi la chirurgia può risolvere la problematica se viene scoperta allo stadio iniziale.

Perché molti tumori sono resistenti alle terapie a bersaglio molecolare? Le risposte anche dai modelli matematici. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.

Un gruppo di scienziati ha provato a trovare le spiegazioni utilizzando un approccio che combina modelli matematici ed esperimenti di laboratorio. 

Una delle strategie terapeutiche più promettenti per i pazienti oncologici è costituita dalle terapie a bersaglio molecolare: veicolando il farmaco in modo specifico alle cellule tumorali che portano in superficie un determinato bersaglio, le cosiddette target therapy garantiscono una maggiore precisione e una minore tossicità rispetto alle chemioterapie tradizionali. La loro efficacia è però spesso limitata dallo sviluppo di tolleranze e resistenze da parte dei tumori, che possono così dare luogo a metastasi. Capire in che modo il cancro riesca ad aggirare l'ostacolo è stato l'obiettivo che si sono prefissi i ricercatori italiani che hanno pubblicato uno studio sull’autorevole rivista scientifica Nature Genetics.

Un approccio che combina matematica e biologia

Lo sviluppo di metastasi e di resistenza alle terapie sono la principale causa di ricadute nei pazienti oncologici: in alcuni casi la recidiva è rapida, ed è dovuta ad alterazioni genetiche già esistenti nella massa tumorale prima della somministrazione del trattamento. In altri, invece, il tumore riappare dopo molto tempo, anche anni dopo la diagnosi, e in motivi ancora non sono chiari. La capacità di prolungare l'efficacia di un trattamento è a oggi limitata dalla scarsa conoscenza dei molteplici meccanismi che portano allo sviluppo della resistenza. Un passo avanti in questa direzione è però stato fatto dai ricercatori di IFOM, Università di Torino, Università degli Studi di Milano e Candiolo Cancer Institute FPO IRCCS, guidati da Marco Cosentino Lagomarsino e Alberto Bardelli, grazie al sostegno di Fondazione AIRC e di un grant ERC dell’Unione europea. Il gruppo interdisciplinare, costituito da fisici e biologi, ha investigato la resistenza alle terapie a bersaglio molecolare da un punto di vista quantitativo e con un approccio inedito che combina la matematica alla biologia. Più precisamente, grazie agli strumenti matematici le cellule tumorali sono state caratterizzate nelle loro diverse sottopopolazioni, raggiungendo ottimi livelli di dettaglio e approfondimento.

Sulla scia dei premi Nobel

«Abbiamo adottato un metodo molto simile a quello originariamente utilizzato, nel 1943, da Salvador Luria e Max Delbrück per studiare lo sviluppo di resistenza nei batteri – dice Marco Cosentino Lagomarsino, di IFOM e Università degli Studi di Milano –. Quell’esperimento pionieristico diede un impulso fondamentale alla moderna genetica sperimentale e si dimostrò cruciale allo sviluppo della biologia molecolare, al punto che i due scienziati ricevettero il premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1969. Lo stesso approccio era però stato utilizzato finora in modo assai limitato nelle cellule umane, verosimilmente per la complessità e la durata degli esperimenti richiesti. Occorre infatti campionare e caratterizzare tantissime cellule, nel nostro caso ottenute da pazienti affetti da tumore al colon retto, sia durante il trattamento farmacologico che in condizioni normali di crescita».  «I risultati ottenuti con gli esperimenti di laboratorio si sono arricchiti delle analisi matematiche e viceversa – spiega Alberto Bardelli – e la collaborazione è stata essenziale per la buona riuscita del progetto. Da un lato le considerazioni teoriche preliminari basate sui modelli matematici ci hanno permesso di progettare gli esperimenti in maniera ottimale per i nostri scopi. Dall'altro, i risultati degli esperimenti di genetica e biologia molecolare ci hanno permesso di applicare modelli matematici per pensare a protocolli di trattamento innovativi, che possano in prospettiva portare a una riduzione della resistenza alle terapie». 

Le cellule cancerose vanno a dormire

Cosa hanno evidenziato i ricercatori in laboratorio? 

«Abbiamo osservato che le terapie a bersaglio molecolare inducono nelle cellule tumorali la transizione a uno stato di letargo, rendendole in grado di tollerare temporaneamente il trattamento - racconta Mariangela Russo, prima autrice dell’articolo, dell’Università di Torino e Candiolo Cancer Institute –. Queste cellule, chiamate appunto “persistenti”, essendo tolleranti alla terapia, hanno potenzialmente tempo di acquisire mutazioni genetiche che le rendono in grado di replicarsi in presenza del farmaco, causando così una recidiva di malattia. I nostri studi ci hanno permesso di capire che la terapia induce un aumento significativo della capacità di mutare delle cellule persistenti: non solo le cellule tumorali persistenti hanno del tempo per sviluppare mutazioni a loro favorevoli, ma la terapia rende questo processo più veloce».  

Quali risposte hanno fornito i modelli matematici? 

«Ci hanno permesso di interpretare e predire con maggiore precisione il comportamento delle cellule tumorali durante i trattamenti – risponde Simone Pompei di IFOM, che è co-primo autore dell’articolo e ha sviluppato i modelli matematici utilizzati –. In questo modo abbiamo calcolato che le cellule persistenti mutano fino a 50 volte più velocemente delle cellule tumorali. Questo significa che le cellule persistenti, anche se presenti in piccolo numero, comportano un’alta probabilità di recidiva».

Quali i prossimi passi?

«Oltre a portare una maggiore comprensione dei meccanismi molecolari alla base della resistenza alle terapie i risultati ottenuti nello studio aprono a nuove possibilità per prevenire l’insorgere della resistenza e impedire lo sviluppo di metastasi – concludono Cosentino Lagomarsino e Bardelli –. In futuro i medici potrebbero modulare le dosi e i tempi di somministrazione dei farmaci antitumorali in modo da minimizzare la probabilità di recidiva di malattia».  Ma la strada è ancora lunga.

Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” l'1 luglio 2022.

Scambia un melanoma per una verruca durante un controllo di routine. Una dermatologa, Carla V., è stata condannata dal giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Perugia a 8 mesi di reclusione con l'accusa di omicidio colposo per aver causato la morte di Giulia Cavallone, 36 anni, giovane magistrato del Tribunale capitolino e figlia dell'attuale procuratore generale della Corte di appello di Roma, Roberto Cavallone (che da pm aveva seguito l'indagine bis sulla morte di Simonetta Cesaroni a via Poma). […] 

È il 4 novembre del 2013, la vittima, insospettita da un neo comparso su un polpaccio, prenota una visita presso lo studio privato della dermatologa, dalla quale si reca ancora una volta il 18 giugno del 2014. Nel corso di entrambe le visite, la dottoressa la tranquillizza, dicendole che si tratta di una verruca seborroica, «nonostante la presenza di elementi di sospetto», si legge ne capo di imputazione. Inoltre, «ometteva di ricorrere a un esame strumentale più approfondito della lesione e, comunque, di avviare con urgenza la paziente alla competenza di un esperto».

Dunque, non viene prelevato nessun campione dalla lesione, al fine di esaminarlo istologicamente. A luglio del 2014, otto mesi dopo la prima visita, però, alla vittima viene fatta una diagnosi del tutto inaspettata presso l'Ospedale San Camillo. I medici asportano d'urgenza la lesione sospetta e concludono che non si tratta di una verruca, come stabilito dalla collega, bensì di un melanoma modulare maligno ulcerato.

Una risposta che, però, è arrivata troppo tardi: il melanoma è al quarto stadio. L'asportazione del tessuto, un intervento successivo e le cure con i farmaci non hanno impedito la sua evoluzione. Le metastasi si diffondono nel corpo della donna arrivando a colpire cervello, polmoni, cuore, fegato e intestino: non c'è più niente da fare. Il giudice muore il 17 aprile del 2020. Un epilogo, che, come emerso nel corso dell'udienza preliminare davanti al giudice di Perugia si poteva evitare con un'asportazione tempestiva della lesione. […]

Giudice morta a 36 anni per un tumore, otto mesi alla dermatologa: «Non ha riconosciuto il melanoma». Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.

La macchia che aveva Giulia Cavallone scambiata per una verruca seborroica. Rongioletti, primario al San Raffaele: «Condanna eccessiva, ma doveva asportare e fare l’istologico». Cos’è un melanoma. 

Otto mesi di reclusione per omicidio colposo alla dermatologa accusata di avere definito come «verruca seborroica» un neo sul polpaccio e che in realtà era un «melanoma nodulare maligno ulcerato» da cui è partita la forma tumorale che ha causato la morte del giudice al tribunale di Roma Giulia Cavallone, 36 anni. È quanto deciso oggi dal gup di Perugia. La donna, che si era occupata come giudice monocratico del processo a carico di 8 carabinieri accusati, a vario titolo, di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi, si è spenta il 17 aprile del 2020 appunto a soli 36 anni dopo aver lottato a lungo con la malattia che non le aveva dato scampo.

La diagnosi sbagliata

La famiglia sta portando avanti questa battaglia già iniziata dalla Cavallone quando era ancora in vita per impedire che quanto accaduto «non abbia a ripetersi in futuro». L’errata valutazione di quel neo — secondo il capo d’imputazione — non è stata risolta dall’asportazione di un’ampia zona di derma nell’area interessata dalla formazione cancerosa, e poi da «un intervento linfoadenectomia inguinale ed iliaco-otturatoria sinistra». Nulla hanno potuto neanche le cure con «farmaci immunomodulanti e a bersaglio molecolare». Perché così è arrivata la fine con «metastasi cerebrali, polmonari, cardiache, epatiche, gastrointestinali e linfonodali». Non aver diagnosticato correttamente il melanoma alla Cavallone è stato per la giudice un errore fatale. «Purtroppo può succedere perché sia il melanoma che la verruca seborroica si presentano come due macchie scure — spiega Franco Rongioletti, 64 anni, primario di dermatologia clinica dell’Ospedale San Raffaele e ordinario di dermatologia all’Università Vita-salute San Raffaele —. Nel 90% dei casi si distinguono soprattutto se il dermatologo usa il dermatoscopio che ingrandisce la lesione e permette di vedere anche in profondità ma rimangono comunque dei casi dove la distinzione non è semplice. La cosa migliore rimane sempre quella di asportare e fare l’esame istologico che non dà margini di errore».

«Una condanna eccessiva»

Sulla decisione del gup umbro hanno espresso «soddisfazione» gli avvocati di parte civile, Stefano Maccioni e Nicola Di Mario. «Attendiamo di leggere le motivazioni per un più attento esame — hanno detto —. È stata riconosciuta una condotta colposa della dermatologa e il nesso di causalità tra questa e il decesso della dottoressa Giulia Cavallone». I difensori dell’imputata, avvocati Alberto Biffani e Myriam Caroleo Grimaldi, precisano invece che «la nostra assistita aveva inviato la paziente a un chirurgo oncologo per l’asportazione della lesione. Attenderemo il deposito delle motivazioni per comprendere il ragionamento seguito dal GUP e proporre appello».

Sulla condanna, si esprime ancora il professor Rongioletti. «Una pena eccessiva perché ha fatto un errore che può succedere. Anche a me è capitato di vedere delle lesioni che mi sembravano delle verruche seborroiche solo che ho fatto l’asportazione e l’esame istologico mi ha fatto capire che si trattava di un melanoma. Ecco, la dermatologa sotto processo avrebbe dovuto procedere anche lei così». Il primario di dermatologia dell’ospedale San Raffaele di Milano tiene però a chiarire che «la paziente è morta di melanoma e non per un neo». «Un chiarimento doveroso perché parliamo di due cose completamente diverse — spiega — . Il neo è una lesione benigna, un tumore benigno dei melanociti mentre il melanoma è una lesione maligna, un tumore dei melanociti maligno che può portare alla morte. Se si toglie un neo non si muore mai. Ancora oggi, quando per prevenzione consiglio l’asportazione di nei dalle caratteristiche brutte mi sento dire dai pazienti che non lo vogliono fare perché “togliendo i nei si può morire”. Niente di più falso. Si può morire invece quando si toglie un melanoma troppo tardi ma se lo si toglie nella fase iniziale e superficiale la guarigione è praticamente del 100%».

Ogni anno 100.000 nuovi casi di melanoma nel mondo

Ogni anno nel mondo sono più di 100.000 i nuovi casi di melanoma. Secondo i dati Airtum , l’Associazione Italiana Registri Tumori, la sua incidenza nel nostro Paese è raddoppiata negli ultimi dieci anni e nel 2020 sono stati diagnosticati circa 14.900 nuovi casi di cui 8.100 nei maschi e 6.700 nelle donne. Prevenire la formazione di un melanoma e intervenire per tempo è possibile, effettuando innanzitutto la cosiddetta «mappatura» dei nei, meglio con un video-dermatoscopio, e regolando l’esposizione della pelle al sole. Spiega Rongioletti: «Noi dermatologi consigliamo la mappatura una volta l’anno però ci possono essere delle eccezioni, come quando vediamo dei pazienti con nevi displastici o atipici caratterizzati da un colore diverso, bordi irregolari o note di asimmetria (caratteristiche che possono simulare un melanoma), oppure pazienti con molti nei. Il numero critico è tra i 50 e i 100 nei, allora è meglio fare la mappatura ogni sei mesi». Relazione tra neo e melanoma? «Nel 70% dei casi il melanoma nasce già melanoma, solo che quando è di un millimetro è difficile riconoscerlo. Il 30% invece nasce da un nevo, o neo, preesistente. In questo caso quindi un neo può essere un precursore del melanoma». Altri consigli? «L’esposizione solare è uno dei fattori di rischio per lo sviluppo del melanoma. Non bisognerebbe esporsi nelle ore in cui ci sono gli ultravioletti più dannosi, dalle 11, 12 del mattino alle 16, 17 del pomeriggio. Bisogna comunque usare sempre una protezione con fattore di protezione 50+ (30 è il minimo). Soprattutto se le persone sono bionde, o rosse, con la pelle e gli occhi chiari, di tipo anglosassone. Un ulteriore fattore di rischio è il melanoma familiare, se qualcuno cioè dei parenti stretti ha avuto dei melanomi, il controllo deve essere almeno annuale. L’aumento del numero dei casi di melanoma è in aumento progressivo e si pensa che sia legato proprio al fatto che le persone tendono a esporsi sempre più al sole rispetto a qualche anno fa».

Da tgcom24.mediaset.it il 29 giugno 2022.

Il 10% dei casi di cancro in Europa sono causati dall'inquinamento dell'ambientale anche nei posti di lavoro. Lo sostiene nel rapporto "Battere il cancro - il ruolo dell'ambiente europeo", l'Agenzia per l'ambiente dell'Unione europea (qui il report completo in inglese). L'inquinamento dell'aria, all'esterno e negli edifici, è collegato all'1% di tutti i casi di cancro in Europa, e causa circa il 2% di tutte le morti per tumore. 

Solo per il cancro ai polmoni, la percentuale sale al 9% delle morti. L'esposizione al radon è legata al 2% di tutti i casi di tumore, e la radiazione ultravioletta naturale al 4%, specie per il melanoma.

Fumo passivo e altri ambienti di lavoro - Il fumo passivo può aumentare il rischio di cancro fino al 16% in persone che non hanno mai fumato. Alcune sostanze chimiche usate nei luoghi di lavoro in Europa e rilasciate nell'ambiente sono cangerogene: piombo, arsenico, cromo, cadmio, acrylamide, pesticidi, Bisfenolo A e Pfas. L'amianto provoca dal 55 all'88% dei casi di tumore al polmone sul posti di lavoro, oltre a colpire laringe e ovaie. 

Paolo Colonnello per “la Stampa” il 27 giugno 2022.

Per dare uno sguardo futuro bisogna allungarsi fino a Pavia e osservare la nascita di un cantiere che nei prossimi anni diventerà il centro di adroterapia più avanzato d'Italia e unico al mondo per la lotta ai tumori, il nuovo progetto di espansione del Cnao, Centro nazionale di adroterapia oncologica, fondazione di diritto privato finanziata e partecipata dal pubblico. 

Al Cnao, infatti, verrà installato un acceleratore di protoni che inviati su un bersaglio produrranno fasci di neutroni; questi ultimi, interagendo con un atomo di un particolare elemento chimico, il Boro-10, veicolato nell'organismo con un farmaco, andranno a colpire le cellule tumorali con grande selettività.

È una terapia sperimentale, che si realizzerà in una o due sedute e si prevede possa essere molto efficace per combattere tumori particolarmente complessi che non rispondono alle terapie tradizionali e non sono operabili.

Questa metodica si aggiungerà alle terapie già erogate dal Cnao con protoni e ioni carbonio grazie a cui oggi sono già stati trattati oltre 4 mila pazienti. Una rivoluzione, soprattutto se si pensa che per un risultato del genere, fino a pochi anni fa ci sarebbe voluto addirittura un reattore nucleare. L'accordo preso dal Cnao con l'Università di Pavia, il Politecnico di Milano e l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, insieme alla Tae Life Sciences di Los Angeles, rappresenta una grande speranza nella lotta ai tumori. 

Inoltre, il programma di espansione del Cnao, questa volta con Infn e anche con la società di ingegneria HiFuture, prevede nei prossimi due anni l'installazione di una terza sorgente di particelle, in aggiunta alle due esistenti da cui oggi già si estraggono ioni carbonio e protoni, che permetterà di utilizzare ferro, litio, elio e ossigeno. Queste particelle saranno applicate anche alla sperimentazione tecnologica e per la simulazione di radiazioni cosmiche. Infine, è prevista l'aggiunta di una nuova sala con acceleratore e testata rotante dedicata ai soli protoni in particolare per i pazienti pediatrici, ma non solo. Davvero è il futuro.

E infatti il presidente del Cnao, l'ex rettore della Statale Gianluca Vago, è da una parte orgoglioso e dall'altra un po' preoccupato. 

Perché presidente?

«Non vorrei che passasse l'idea che con queste iniziative si risolverà ogni problema per combattere il cancro. Siamo su una buona strada, ma va ancora fatto un grande lavoro di messa a punto e sperimentazione. Bisogna provare in ogni direzione, ma vorrei fossimo consapevoli che questa cosa non verrà fatta domattina». 

Quando allora?

«Ci vorranno ancora due o tre anni almeno. Poi però avremo armi in più che andranno utilizzate con intelligenza, anche in combinazione con le altre terapie innovative disponibili». 

E che saranno passate dal servizio pubblico, giusto?

«Sì, dopo la fase di sperimentazione, faremo richiesta di inserimento nel Servizio Sanitario Nazionale. Oggi le nostre terapie con ioni carbonio e protoni sono già erogate all'interno dell'Ssn. Il Cnao è stato voluto dal ministero della Salute e fondato da importanti centri di cura come il Policlinico, il Besta, l'Istituto Tumori e lo Ieo di Milano e il San Matteo di Pavia. Il partner che ha messo a disposizione l'acceleratore per i neutroni è un privato, la Tae Life Sciences di Los Angeles, un'azienda innovativa del settore energetico che decidendo di investire su di noi e in Italia ha riconosciuto implicitamente la nostra serietà e la nostra affidabilità». 

Quante persone potranno curarsi con queste terapie?

«Spero tante. Il fatto che basteranno una o due sedute per il trattamento, significa che aumenteremo notevolmente il numero di pazienti che si potranno curare». 

Come è stato possibile arrivare a un acceleratore per produrre fasci di neutroni che potesse essere contenuto in un normale edificio?

«Come spesso accade, è stata la miniaturizzazione a consentire questa metodica. Una volta la produzione di neutroni richiedeva reattori impegnativi, sia per dimensioni che per logistica. Noi ci siamo arrivati perché siamo stati contattati da questa company americana che studia la fusione nucleare e come "by product" di questa tecnologia è stata realizzata la macchina che installeremo al Cnao». 

Quanto costerà alla collettività?

«Nulla, perché è la stessa società di Los Angeles a sostenere i costi, anzi hanno anche dato un significativo contributo per la realizzazione dell'edificio. Noi saremo per loro un centro di sperimentazione avanzata in ambito clinico». 

Come funziona questa terapia?

«È una tecnica diversa rispetto alla radioterapia convenzionale, che colpisce direttamente la neoplasia. Questa tecnica invece sfrutta l'azione dei neutroni sull'isotopo del Boro-10, che viene veicolato con un farmaco all'interno della zona tumorale. Qui, una volta combinato con i neutroni, il Boro si spacca e libera delle particelle che distruggono la cellula tumorale in modo altamente selettivo. Insomma, un'arma in più per quella che oggi viene chiamata oncologia di precisione».

Cosa manca per rendere questa terapia definitiva?

«Il punto su cui si sta lavorando è trovare un nuovo trasportatore del Boro che lo veicoli il più possibile nelle sole cellule neoplastiche». 

Che tempi ci saranno?

«Nel 2024 completeremo i lavori del nuovo edificio e di installazione della macchina al suo interno. Poi seguirà la fase di sperimentazione, anche con i test sull'uomo, per ottenere la certificazione di utilizzo clinico. Insomma, contiamo di arrivare a trattare i primi pazienti entro la fine del 2025». 

Che vantaggi ci saranno nella cura dei tumori?

«Oltre alla possibilità di limitare il trattamento a poche sedute, almeno potenzialmente si potranno trattare più lesioni contemporaneamente, come può accadere nel paziente con metastasi. Naturalmente occorrerà ottimizzare le dosi di neutroni per minimizzare gli effetti non voluti, e soprattutto riuscire a ottenere una tecnica di trasporto del Boro, che riconosca nel modo più selettivo possibile le cellule neoplastiche rispetto a quelle normali. Poi, grazie alla terza sorgente, sperimenteremo anche l'utilizzo dell'ossigeno e dell'elio che sembrano piuttosto promettenti per alcuni tipi di tumore. Insomma, siamo inseriti in un'iniziativa davvero importante. Tra un paio d'anni saremo un centro unico al mondo».

Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 22 giugno 2022.

Jovanotti ha pubblicamente raccontato la storia di Teresa, l'amatissima figlia che a 22 anni, nell'estate 2020, ha ricevuto la diagnosi di linfoma di Hodgkin. Un tumore del sistema linfatico. Nei primi mesi del 2021, l'annuncio della guarigione.

Sempre contro un cancro del sangue, negli ultimi tempi, ha lottato e lotta Sinisa Mihajlovic, l'allenatore del Bologna, trattato per una leucemia mieloide acuta nel 2019. Chemio e trapianto di midollo da donatore non familiare.

«Quel giorno sono nato per la seconda volta» il commento di Sinisa. Lo scorso marzo, è stato lui stesso a parlare di una recidiva e di un nuovo progetto di cura, che questa volta prevede un'infusione di Car-T, i linfociti del paziente ingegnerizzati per diventare soldati contro la leucemia.

Poi, nei primi mesi dell'anno, è stata la volta di Alessandro Baricco, scrittore, che attraverso i social ha informato tutti di avere una leucemia mielomonocitica cronica. E che si sarebbe sottoposto a trapianto di cellule staminali donate dalla sorella Enrica. «Donna - ricorda il romanziare - che ai miei occhi era già piuttosto speciale prima di questa avventura, figuriamoci adesso». Dopo tre settimane dal trapianto all'Istituto Candiolo vicino a Torino è tornato a casa.

IL CORAGGIO Qualche giorno fa, il musicista Giovanni Allevi, ha scritto che stava cercando di tradurre in note questa parola «dal suono dolce, ma non per questo meno insidiosa»: mieloma. Da tre mesi soffriva di un terribile mal di schiena. Dopo esami e controlli si è scoperto di avere un mieloma, è un tumore che colpisce un tipo particolare di cellule del midollo osseo, le plasmacellule. 

Sono i volti noti (che hanno avuto il coraggio di raccontarsi) delle malattie onco-ematologiche, tumori del sangue: 30 mila nuovi casi l'anno in Italia, che colpiscono a tutte le età. Anche se, con poche eccezioni, si presentano più frequenti nell'anziano.

Grazie alla ricerca adesso i pazienti hanno più probabilità di guarire o convivere per anni con la malattia grazie a una buona qualità di vita. Il nostro Paese può contare su un'Ematologia tra le migliori del mondo. E non da oggi. Un luminare del campo è stato il professor Franco Mandelli fondatore, tra l'altro, dell'Associazione Italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma (Ail.it) che ieri ha celebrato Giornata Nazionale per la lotta contro queste patologie. Mandelli aveva intuito con chiarezza l'importanza, oltre che della ricerca e della cura, anche del volontariato. E quest' anno l'Ail è anche impegnata nell'ambito del conflitto in Ucraina per consentire ai malati di curarsi nel nostro Paese e per inviare materiale sanitario richiesto dagli ematologi «con i quali siamo in contatto», come ha ricordato il presidente Pino Toro ricevuto con una delegazione al Quirinale da Sergio Mattarella.

L'INSEGNAMENTO Oggi i volontari dell'associazione superano di poco i ventimila, solo a Roma se ne contano 1670. «Il professor Mandelli ricorda Maria Luisa Rossi Viganò, Presidente di Ail Roma mi ha insegnato a essere una volontaria. E a osare, come lui ha fatto sempre nel corso della vita. Oggi ci troviamo un impero costruito da lui per il pubblico, per gli ospedali, per le case alloggio, per tutto quello che serve a traghettare le persone dallo status di malato a quello di guarito. Perché di guariti oggi ce ne sono molti». 

Due sono le ultime realizzazioni di Ail Roma a favore dell'Ematologia del Policlinico Umberto I, diretta dal professor Maurizio Martelli: il nuovo Pronto soccorso di Ematologia di via Benevento e il Giardino di Silvana, un abbraccio che i volontari dell'Ail hanno voluto donare ai malati e ai loro familiari per rendere meno dura l'attesa tra un prelievo e una visita. Un piccolo spazio fiorito e profumato, intitolato alla dottoressa Silvana Bedini, assistente per oltre 30 anni del professor Mandelli e volontaria Ail.

Che ha voluto, con un lascito testamentario, proiettare il suo impegno al di là dei confini della sua vita. 

LE SALE «Il Pronto soccorso ematologico di via Benevento, oggi diretto dal dottor Corrado Girmenia ricorda la presidente Viganò - è un'interfaccia diretta tra struttura ematologica e territorio che assiste sia i pazienti già seguiti per malattie del sangue, che le persone con sospetta nuova diagnosi. Offrendo loro una corsia preferenziale». Il nuovo pronto soccorso Ematologico dell'Umberto I, inaugurato alla presenza di Alessio D'Amato, assessore alla Sanità della Regione Lazio e di Barbara Funari, assessore alle Politiche sociali e alla salute di Roma Capitale, è dotato di 6 sale a un letto, 5 box a un letto e un open space per 3-4 barelle. Ogni anno sono oltre 2.400 gli accessi al pronto soccorso ematologico dell'Umberto I, che segue attualmente circa 2.500 pazienti in terapia attiva.

Cancro, le metastasi si diffondono ulteriormente quando i pazienti dormono: risultati della ricerca. Da twnews.it il 22 giugno 2022.

ETH Secondo un nuovo studio condotto dagli esperti dell'ETH di Zurigo e pubblicato sulla rivista scientifica Nature, cancer Easier in il corpo notturno prevalente

Il sonno notturno è essenziale per la salute delle persone, ma recenti studi sui tumori hanno messo in dubbio questo problema. Secondo un nuovo studio condotto dagli esperti dell'ETH di Zurigo e pubblicato sulla rivista scientifica Nature, il cancro si diffonde più facilmente nel corpo durante la notte quando il paziente dorme. In realtà è come se il cancro si svegliasse nel cuore della notte e favorisse la formazione di metastasi. Pertanto, il tumore cresce maggiormente di notte e non cresce indifferentemente in nessun momento della giornata come ipotizzato in precedenza. Secondo gli studiosi, l'aumento dei livelli di melatonina, un ormone prodotto dall'organismo che svolge un ruolo essenziale nelle funzioni fisiologiche del sonno e nella regolazione del ciclo del sonno , sono tumori durante la notte. Risveglio.

Principali risultati dello studio

I risultati sono molto importanti in quanto possono aiutare i medici a prendersi cura dei malati. Questo studio è stato condotto su pazienti con cancro al seno, ma i risultati potrebbero essere gli stessi per altri tipi di cancro. I ricercatori hanno prelevato campioni di sangue da 30 donne con cancro al seno alle 4:00 e alle 10:00 , e durante il sonno di pazienti sono state trovate le cellule tumorali circolanti che causano metastasi. Ho scoperto che era quasi quattro volte più di grandi dimensioni. .. Tuttavia, va notato che l'elevata prevalenza di queste cellule non significa che il cancro abbia maggiori probabilità di diffondersi nel corpo. .. Successivamente, lo studio si è spostato sui topi per vedere se l'iniezione di cellule notturne potesse causare tumori. Pertanto, a conferma dell'ipotesi, cioè "il tumore si risveglia quando la persona colpita dorme - Professor Aceto, oncologo molecolare- a nostro avviso, questi risultati determinano sistematicamente quando eseguire una biopsia. Può indicare la necessità di un medico per l'iscrizione. Aiuta a rendere i dati veramente comparabili. " 

La chemioterapia notturna potrebbe rivelarsi più efficace

Questo risultato ha anche importanti implicazioni per la chemioterapia che ho. Secondo la professoressa Sunitha Nagrath, chimica dell'Università del Michigan, "La dipendenza dal tempo della dinamica delle cellule tumorali circolanti può cambiare il modo in cui i medici valutano e trattano i pazienti. Dati a riposo che mostrano la crescita e il rilascio di cellule tumorali circolanti suggeriscono che i medici potrebbero dover essere più consapevoli di quando possono essere somministrati determinati trattamenti, come la chemioterapia.

Andrea Cappelli per “Libero quotidiano” il 10 Giugno 2022.

Un nuovo farmaco potrebbe rivoluzionare la cura del cancro al retto (e, in prospettiva, di tutti i tumori). Il suo nome è Dostarlimab: questo anticorpo monoclonale è stato somministrato in via sperimentale a un campione di 14 pazienti, rivelandosi efficace al 100% nella lotta contro questa particolare tipologia di tumore. 

A effettuare il test è stato un gruppo di ricercatori del Memorial Sloan - Kettering Cancer Center di New York, uno degli istituti più rinomati a livello mondiale per la cura contro il cancro. Tutte le persone che hanno preso parte allo studio erano affette da cancro al retto e non erano state sottoposte ad alcun trattamento in precedenza. 

Con grande sorpresa degli esperti, al termine del ciclo di somministrazione del medicinale il cancro è scomparso nel 100% dei pazienti, senza bisogno di ricorrere a interventi chirurgici o a cicli di radio/chemioterapia.

Come prevedibile, la notizia ha generato una grande ondata di entusiasmo, tanto da essere pubblicata pochi giorni fa sulla prestigiosa rivista scientifica New England Journal of Medicine. Commentando gli esiti dello studio Andrea Cercek, oncologa del Memorial Sloan, ha invitato alla prudenza: «Ci sono state molte lacrime di gioia al termine della sperimentazione - ha rivelato l'esperta al Washington Post -.Tuttavia, è necessario un follow up più lungo per esaminare la durata della risposta al trattamento in questa popolazione di pazienti. Si tratta di un piccolo studio, la cautela è d'obbligo». 

Il campione preso in esame - vario per etnia e età anagrafica - è infatti troppo ristretto per arrivare a conclusioni di più ampia portata.

Resta il fatto che i suoi esiti segnano un primo, decisivo passo nell'individuazione di un percorso di cura contro il cancro al colon/retto, in grado di prescindere da terapie più invasive come la chemio o la radioterapia. Nel dettaglio, il test ha avuto una durata complessiva di sei mesi. 

Ogni tre settimane i ricercatori del Memorial Sloan hanno somministrato nove dosi di Dostarlimab per via endovenosa ai 14 pazienti (età media 54 anni, il 67% di sesso femminile) affetti da adenocarcinoma rettale di stadio II e III. Al termine del ciclo di cura, la terapia si è rivelata pienamente efficace su tutti loro, «senza evidenza di tumore alla risonanza magnetica, alla tomografia a emissione di positroni con 18F-fluorodeossiglucosio, alla valutazione endoscopica, all'esame rettale o alla biopsia».

Il documento che presenta i risultati finali dello studio è stato presentato domenica scorsa a Chicago, durante il congresso mondiale Asco (Società americana di oncologia clinica). 

«Tutte le stelle si sono allineate in modo perfetto - ha commentato al WP Sascha Roth, 41 anni, primo paziente a entrare nella fase sperimentale dello studio a fine 2019 -. Se avessi fatto prima un'infusione di chemio, non avrei avuto la possibilità di prendere parte al trial». Residente a Bethesda, nel Maryland, Roth gestisce un negozio di mobili.

Il tumore le fu diagnosticato a settembre 2019, dopo la comparsa dei primi sintomi sospetti: «Pensavo i medici mi avrebbero detto che avevo un'allergia al glutine. Di certo non mi aspettavo una diagnosi di cancro». Dopo la prima infusione di Dostarlimab, la giovane si è concessa una vacanza in Florida, facendo anche attività sportiva. A metà del percorso di sperimentazione, le dimensioni del tumore si erano sensibilmente ridotte. A ridosso del termine dei sei mesi arriva la chiamata della dottoressa Cercek: chemio e interventi chirurgici non erano più necessari, almeno per il momento.

Prima di cantare vittoria, infatti, sarà necessario un periodo di osservazione più lungo, oltre all'esecuzione del test su un campione più vasto. Non è escluso, infatti, che nel medio periodo il tumore possa ripresentarsi nei pazienti che si sono sottoposti per primi alla sperimentazione del monoclonale. Ma oggi, a prevalere, è l'ottimismo: «Sento un sentimento universale di gratitudine, ma anche di speranza per gli altri - ha affermato la giovane Sascha Roth -. Speranza per tutti i tumori».

Tumore del retto eliminato con un nuovo farmaco in 12 pazienti: i risultati molto promettenti di un piccolo studio. Vera Martinella su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

Una sperimentazione su pochi malati, che necessita di ulteriori conferme, importante sia perché la neoplasia «scompare» senza chemio, radio e chirurgia sia perché permette di migliorare la qualità di vita dei pazienti.

Una piccola sperimentazione che ha coinvolto soltanto 12 malati, ma che dagli esperti è stata giudicata particolarmente importante per diversi motivi. Tanto da meritarsi non solo la presentazione durante i lavori del Congresso americano di oncologia (Asco), ma anche la pubblicazione dei risultati sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine . Un nuovo farmaco è stato somministrato per sei mesi a una dozzina di pazienti con un carcinoma rettale in stadio localmente avanzato e in tutti i partecipanti al trial il tumore risulta «completamente eliminato»: non ce n'è traccia, sei mesi dopo la fine della cura, ai vari esami di controllo effettuati. Non solo. I partecipanti (giovani, età media 54 anni) hanno ricevuto un anticorpo monoclonale al posto della cura attualmente standard, molto più invasiva: una combinazione di chemio e radioterapia seguita dall'intervento chirurgico di resezione del retto, cioè la parte finale dell'intestino, senza la quale si è costretti a vivere con la stomia, ovvero con il sacchetto per la raccolta delle feci.

Una nuova prospettiva molto importante

«Stiamo alla finestra molto ottimisti, aspettando il consolidamento dei dati — commenta Carmine Pinto, direttore dell'Oncologia medica Clinical Cancer Center IRCCS AUSL di Reggio Emilia —. È una sperimentazione di fase 2 su pochi pazienti, quella in cui si testano sicurezza ed efficacia di un nuovo medicinale, quindi bisogna attendere le indispensabili conferme su numeri più ampi di persone seguite per un lasso di tempo più lungo. Certo è che i risultati sono decisamente importanti: lo studio presentato all'Asco di Chicago apre una prospettiva terapeutica nuova, da una parte confermando l'elevata attività e validità dell'immunoterapia in uno specifico gruppo di pazienti con cancro del retto, dall'altra parte migliorando in modo decisamente notevole la vita dei pazienti che potrebbero evitare non solo chemio e radioterapia, ma anche la chirurgia con stomia permanente: essere stomizzati significa essere incontinenti e vivere con apposite sacche adesive per la raccolta di feci». Un vantaggio rilevante per le circa 9mila persone che ogni anno in Italia ricevono la diagnosi di carcinoma del retto. Sono in media 60-70enni, ma come per il cancro al colon, sono in crescita i casi nella popolazione più giovane, anche prima dei 50 anni.

I dettagli dello studio

I ricercatori del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York hanno reclutato 12 pazienti con adenocarcinoma rettale di stadio 2 e 3 e con deficit di riparazione del mismatch (MSI-H), ovvero uno specifico sottogruppo di malati con una mutazione che implica una minore risposta a chemioterapia e radioterapia, richiedendo più spesso l'invasivo intervento chirurgico per la resezione. «Ma queste mutazioni agevolano anche l'azione del sistema immunitario, che viene spinto ad attaccare le cellule malate — spiega Pinto, che è anche presidente della Federation of italian cooperative oncology groups (Ficog) —. Così nei partecipanti allo studio è stato valutato se il trattamento con dostarlimab (un anticorpo monoclonale anti-PD1), somministrato ogni 3 settimane per 6 mesi, potesse essere curativo ed evitare la chemio-radioterapia neoadiuvante (pre intervento), la successiva chirurgia e chemioterapia adiuvante (post intervento). Tutti i malati hanno avuto una remissione completa: non c'è senza evidenza di tumore ai controlli effettuati con risonanza magnetica, PET, endoscopia, esame rettale o biopsia. Nessun partecipante durante il periodo di follow up (minimo 6 masi e massimo 25) ha avuto una progressione o una recidiva della neoplasia, per cui non è stato necessario procedere con altre cure. La tollerabilità è stata buona, quella attesa e ben nota da immunoterapia. I dati andranno sostenuti in un ampio numero di pazienti e daun periodo di osservazione più lungo». 

Chi rischia di più

Con quasi 44mila nuovi casi registrati nel 2020, il tumore del colon-retto è il secondo tipo di cancro più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo nella poco ambita classifica dei più letali. Eppure nove casi su dieci potrebbero essere evitati perché c’è un metodo efficace, gratis (in Italia) e del tutto indolore per eliminare le lesioni pre-cancerose prima che si trasformino in una neoplasia vera e propria: il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof). Quanto sia utile partecipare allo screening lo dimostrano i numeri: non solo cresce il numero di malati che sopravvivono a lungo dopo la scoperta del tumore (merito anche delle nuove terapie disponibili), ma diminuisce anche il numero di casi di cancro diagnosticati perché vengono individuati e asportati polipi e adenomi quando ancora non sono evoluti in carcinoma. Eppure, specie negli Stati Uniti, i casi sono in crescita in particolare nei ragazzi fra 20 e 34 anni (le stime prevedono addirittura un raddoppio dei casi entro il 2030), mentre grazie allo screening diminuisce negli ultra 50enni. Sovrappeso, obesità, cattiva alimentazione e sedentarietà sono i principali indiziati. In particolare fattori dietetici quali il consumo di carni rosse e di insaccati, farine e zuccheri raffinati e il consumo di cibi salati, conservati o affumicati fanno salire il pericolo di ammalarsi, come l’eccessivo consumo di bevande alcoliche e il fumo. Circa un terzo dei pazienti con tumore del colon-retto, poi, presenta caratteristiche di familiarità ascrivibile a mutazioni genetiche ereditarie e a queste persone sono consigliati dei controlli specifici.

Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” l'8 giugno 2022.  

Riapre i battenti, a Chicago, dopo due anni di lavori online l'Asco, il congresso più importante del mondo per l'oncologia. E lo fa alla grande, con tante soluzioni innovative e concrete per le persone che vivono con un tumore. Buone prospettive per diversi tipi di cancro. 

Si chiama Destiny-Breast04 lo studio più importante presentato quest' anno. Così importante, per il tumore del seno, da meritare una standing ovation da parte degli oncologi di tutto il mondo durante la presentazione in sessione plenaria. La ricerca ha confrontato gli effetti del trastuzumab deruxtecan (della nuovissima classe degli anticorpo-farmaco coniugati), con quelli della chemioterapia tradizionale, su un gruppo di 557 donne con tumore del seno metastatico a bassa espressione della proteina HER2: il nuovo farmaco ha raddoppiato la sopravvivenza libera da progressione di malattia, riducendo del 36% il rischio di morte delle pazienti.

IL CONTROLLO È un risultato che rivoluziona la pratica clinica. «Questa nuova chemioterapia smart commenta Saverio Cinieri, presidente dell'Associazione italiana di oncologia medica ha meno effetti collaterali e migliora sia il tempo di controllo della malattia, che la sopravvivenza. Porterà via via ad abbandonare la chemioterapia tradizionale aspecifica, in diversi tipi di tumore. Non solo in quelli del seno, ma anche di vescica, cervice uterina, polmone e gastro-intestinali».

A Chicago la conferma dei successi della immunoterapia, su melanoma e su polmone (per questo in fase pre-chirurgica).

Parliamo di una nuova filosofia di trattamento che risveglia le difese immunitarie del paziente per scatenarle contro il tumore.

Un esempio emblematico viene, appunto, dal melanoma, neoplasia della pelle molto aggressivo. 

«Prima dell'immunoterapia ricorda il professor Paolo Ascierto, Direttore Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative del Pascale di Napoli - i pazienti con melanoma metastatico non avevano davanti più di sei mesi di vita; oggi la metà di quelli trattati con una doppietta di immunoterapici (ipilimumab e nivolumab) è ancora viva dopo 7 anni e mezzo. Grazie a queste terapie, siamo riusciti insomma a cronicizzare la malattia e a portare a guarigione i pazienti diagnosticati in fase precoce».

E l'Istituto Pascale di Napoli, grazie al professor Ascierto, continua a fare scuola nel campo dell'immunoterapia nel mondo.

È qui che dal 2017 sono partiti gli studi su un nuovo immunoterapico, il relatlimab, della nuova classe degli anti-LAG3, che sta dando risultati molto interessanti in associazione con il vecchio nivolumab.

Immunoterapia vincente anche in un altro tumore difficile, quello del polmone. Associare alla chemioterapia il nivolumab, prima dell'intervento chirurgico per tumore del polmone in fase iniziale, riduce il rischio di recidive dell'80%.

L'OPERAZIONE «I risultati di questo studio sono davvero significativi - commenta Federico Cappuzzo, Direttore dell'Oncologia Medica 2 all'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma - e cambieranno le linee guida del trattamento in fase precoce. Ad oggi, l'intervento chirurgico è considerato l'unico strumento per ottenere la guarigione definitiva. Una percentuale compresa tra il 30% e il 55% dei pazienti però sviluppa recidiva dopo la chirurgia, confermando quindi la forte necessità di opzioni terapeutiche aggiuntive. Se l'intervento chirurgico è preceduto da nivolumab più chemioterapia, è possibile ottenere un'importante regressione tumorale e una potenziale guarigione».

LE COMBINAZIONI Nuove strade anche per il tumore squamoso dell'esofago. «È una patologia - spiega Sara Lonardi, Direttore dell'Oncologia 3 all'Istituto Oncologico Veneto Irccs di Padova che per anni è stata considerata priva di terapie efficaci. La sopravvivenza mediana di questi pazienti non superava i 10 mesi. Ma associando alla chemio l'immunoterapia con nivolumab o la doppietta nivolumab-ipilimumab si arriva a raddoppiare la sopravvivenza di queste persone con tumore avanzato o metastatico».

Buone notizie infine anche per il tumore del colon metastatico. La terapia di combinazione con chemio e panitumumab (un anticorpo monoclonale) nelle forme metastatiche non operabili riduce il rischio di morte del 18%, rispetto allo standard di terapia è il primo successo ottenuto per questo tumore con una terapia biologica, da dieci anni a questa parte. 

Cancro, il nuovo decalogo: in tavola cambia tutto, ecco i cibi che devi davvero evitare. Libero Quotidiano il 07 giugno 2022

Dopo dieci anni dalla edizione precedente il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (World Cancer Research Fund) ha aggiornato gli studi scientifici dedicati al rapporto tra alimentazione, stili di vita e tumori e redatto un nuovo vademecum con le raccomandazioni degli esperti per prevenire le malattie oncologiche e vivere a lungo.

Normopeso - Di fondamentale importanza è avere un "normopeso", che significa avere un adeguato indice di massa corporea. L'Imc si ottiene calcolando il rapporto tra il peso dell’individuo, in chilogrammi, e la sua altezza, in metri al quadrato (kg/m2). Quando il risultato è compreso tra 18.5 e 24.9 significa che il peso è nella norma.

Attività fisica - Per ridurre il rischio di ammalarsi bisogna mantenersi fisicamente attivi: basta una camminata veloce per almeno mezz’ora al giorno. Man mano che le prestazioni migliorano bisogna prolungare l’esercizio fisico fino a un’ora a sessione oppure dedicarsi a sport più impegnativi. 

Dieta sana - La dieta deve essere varia e ricca di cereali integrali, verdura, frutta e legumi. In sostanza, è sufficiente seguire la dieta mediterranea. Dal punto di vista nutrizionale, cereali integrali, verdura, frutta e legumi sono ricchi di sostanze, chiamate "fitocomposti", che sono esclusivi del mondo vegetale.  Le fibre dovrebbero essere introdotte quotidianamente (circa 30 g/giorno) poiché hanno un ruolo protettivo contro i tumori dell’ultimo tratto dell’intestino. 

Fast food - Evitare e ridurre “fast food” e merendine, in genere ricchi di grassi, zuccheri e sale. Se una sana alimentazione si basa prevalentemente sul consumo di alimenti di origine vegetale, è chiaro che questi cibi vanno assunti di rado.

Carni rosse - Carne suina, bovina (anche il vitello), capra, pecora, agnello e cavallo andrebbero ridotte. Il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro raccomanda di non superare le tre porzioni a settimana, che equivalgono a un totale di circa 350-500 grannu. Meglio la carne bianca.

Bevande zuccherate - Forniscono tante calorie senza aumentare il senso di sazietà e favoriscono direttamente la probabilità di sviluppare sovrappeso e obesità. A tavola si dovrebbe bere solo acqua, queste bevande meglio evitarle.

Alcol - Le bevande alcoliche non dovrebbero essere consumate affatto. Si consiglia di limitarne la quantità consumando a pasto un bicchiere di vino (125 ml) al giorno per le donne e due per gli uomini. La quantità di alcol presente in un bicchiere di vino è circa pari a quella contenuta in una lattina di birra.

Allattamento - Allattare i bambini al seno per almeno sei mesi.  Gli studi sulla popolazione femminile mostrano che le donne che allattano i figli fino ai sei mesi hanno un rischio minore di sviluppare un tumore al seno. 

Da leggo.it l'11 maggio 2022.

Una pillola aiuterà a combattere il tumore al polmone. Lo conferma uno studio clinico di fase I/II presentato al recente congresso dell'American Association for Cancer Research (AACR) che ha confermato l'efficacia del farmaco «sotorasib» anche in pazienti su cui altre terapie hanno fallito. 

Il farmaco si prende per bocca ed è efficace su persone con tumore al polmone non a piccole cellule (NSCLC), che si colloca tra le principali cause di morte al mondo per tumore. Il suo principio attivo è un inibitore specifico di una molecola tumorale, KRAS, che è il più importante oncogene individuato finora, presente in circa il 20% dei tumori. 

La conferma arriva da CodeBreaK 100, studio clinico di fase I/II, condotto su pazienti in stadio avanzato e con mutazione 'KRAS' . I ricercatori hanno raccolto dati relativi a 174 pazienti che a seguito di precedenti terapie, (soprattutto chemioterapia e immunoterapia) sono stati trattati con una singola dose orale giornaliera di 960 mg di sotorasib. Il 40,7% dei pazienti ha risposto alla terapia con una riduzione del tumore, completa o parziale. In particolare, 5 pazienti hanno ottenuto una risposta completa e 65 pazienti una risposta parziale.

Con la nuova terapia inoltre, la sopravvivenza mediana globale (ovvero il tempo di sopravvivenza del 50% dei pazienti) è stata di 12,5 mesi, con il 32,5% dei pazienti ancora in vita dopo due anni. «I risultati a 2 anni dello studio CodeBreaK 100 sono incoraggianti perché confermano il ruolo di sotorasib quale primo farmaco con approccio target verso una mutazione finora trattata con chemioterapia e/o immunoterapia nel tumore del polmone non a piccole cellule con mutazione di KRAS in stadio avanzato» ha commentato Marcello Tiseo, Responsabile del PDTA di Oncologia Toracica dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma.

«Il tasso di risposta intorno al 40% è decisamente superiore rispetto al 10% che eravamo abituati a ottenere con la chemioterapia. Anche la sopravvivenza a due anni del 32,5% rappresenta un vantaggio rispetto a quanto ottenevamo in precedenza e indica una possibilità di controllo della malattia anche a più lungo termine».

Leucemia mieloide acuta: i bisogni dei malati e i sintomi. Come si vive con questo tumore. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2022.

È un tumore aggressivo (lo stesso diagnosticato a Mihajlovic) e l'impatto iniziale è molto duro. Gestione multidisciplinare, assistenza domiciliare e supporto psicologico le principali esigenze per una migliore qualità di vita.

La leucemia mieloide acuta è tumore del sangue che colpisce ogni anno circa 3.500 persone in Italia, che origina nelle cellule staminali presenti nel midollo osseo e si sviluppa molto rapidamente. È lo stesso tumore diagnosticato all'ex calciatore Sinisa Mihajlovic, spesso aggressivo, per il quale fortunatamente i progressi della ricerca scientifica hanno reso recentemente disponibili nuove cure in grado di allungare la sopravvivenza dei malati. Ma come vivono i pazienti italiani che soffrono di questa neoplasia? E i loro familiari? Quasi sono le loro necessità maggiori? A queste e altre domande ha cercato di rispondere l’indagine promossa dall'Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail), realizzata da Doxa Pharma.

Patologia aggressiva 

Ogni anno sono circa 32mila gli italiani che si ammalano di un tumore del sangue, che in due terzi dei casi colpisce persone con più di 65 anni. La diagnosi di leucemia mieloide acuta arriva presto, in genere entro due settimane dal primo accesso del paziente al centro di cura ed è accompagnata da emozioni quali paura, sconforto, rabbia, preoccupazione. «La scoperta di una patologia aggressiva come questa crea angoscia e preoccupazione nelle persone che ne sono colpite e comporta per la famiglia e il caregiver un impatto molto importante - sottolinea Sergio Amadori, Ordinario di Ematologia e consigliere nazionale Ail –. Oggi lo scenario nazionale della presa in carico è di buona qualità (la sopravvivenza in Italia per molti tipi di cancro è superiore alla media europea). Il paziente nel momento in cui comincia ad avere dei sintomi che fanno sospettare una malattia del sangue viene inviato in un centro di ematologia che si preoccupa di affrontare il percorso diagnostico e terapeutico fino alla possibile guarigione o follow-up. Questo però è solo un aspetto della gestione di questi pazienti complessi, in cui il ruolo dei familiari, del caregiver, dei volontari e dei servizi territoriali diventa altrettanto importante. Naturalmente esistono alcune criticità. Non sempre, ad esempio, le strutture sono perfettamente organizzate per poter seguire l’intero percorso di cura del paziente. E questo è un punto fondamentale perché la diagnosi deve essere fatta in tempi il più rapidi possibile».Per il progetto «Leucemia Mieloide Acuta. Un viaggio da fare insieme» (realizzato con il supporto non condizionante di AbbVie), pazienti, caregiver, ematologi e volontari Ail hanno risposto a questionario online validato da un board scientifico composto da ematologi per mettere a fuoco il percorso malato e la sua qualità di vita, la gestione della patologia da parte dei clinici, i bisogni e le richieste di tutte le figure coinvolte.

Come inizia: i sintomi 

I sintomi di molti tumori del sangue sono per lo più vaghi, poco specifici e comuni a tanti disturbi, anche poco gravi: ad esempio, febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna), un senso di debolezza che perdura, dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono. Così, un paziente su quattro dichiara di non essersi rivolto immediatamente al medico per la difficoltà di cogliere la gravità della situazione anche a causa di sintomi che sembrano inizialmente sopportabili. Quasi il 60% si rivolge in prima battuta al medico di famiglia prima di essere indirizzato dall’ematologo. In ogni caso, entro due settimane dalla comparsa dei sintomi, l’80% dei pazienti viene preso in carico. Nella grande maggioranza dei casi (88%) l’ematologo comunica personalmente al paziente la diagnosi e ritiene molto importante il supporto che da Ail può arrivare ai malati.  «I risultati di questa indagine ci confortano nella scelta di collaborare con gli ematologi, con i medici di medicina generale e con quanti operano sul territorio - dice Giuseppe Toro, presidente nazionale Ail –. E proseguiremo con le nostre campagne di raccolta fondi per dare sostegno alla ricerca scientifica e garantire ai nostri pazienti terapie sempre più innovative ed efficaci che possano migliorare sempre di più la loro qualità di vita».

I diversi sottotipi

Il numero delle diagnosi di tumore al sangue è destinato ad aumentare insieme all’invecchiamento generale della popolazione, ma crescono anche le percentuali di guarigioni e di persone che convivono a lungo (anche diversi anni) con la neoplasia. Certo molto dipende dal tipo malattia ematologica in questione: ne esistono decine di sottotipi diversi appartenenti a tre grandi macro-gruppi: leucemie, linfomi e mielomi, che possono manifestarsi in forma acuta (più grave e aggressiva) o cronica. «Sotto il nome di leucemia mieloide acuta si riconoscono molte malattie che negli anni abbiamo imparato ad identificare grazie alla genetica e alla biologia molecolare – spiega Alessandro Rambaldi, professore di Ematologia, Dipartimento di Oncologia e Ematologia, Università di Milano e Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Papa Giovanni XXIII di Bergamo –: per questa ragione i pazienti sono riferiti a centri o a reti organizzative che garantiscano a ciascun paziente il più profondo e completo inquadramento biologico della loro malattia. Non ci si può prendere cura di pazienti ematologici se non si hanno a disposizione i laboratori per caratterizzare queste malattie. Capire quale forma abbiamo di fronte è cruciale anche per la scelta del trattamento. A una prima valutazione dei dati clinici ed ematologici deve seguire una prima valutazione della funzione del suo midollo osseo. Questa è una diagnosi d’emergenza. Subito dopo, partono tutta una serie di indagini per la caratterizzazione immunologica e citogenetica e molecolare che possono prevedere l’evoluzione, quantificare le cellule leucemiche e scegliere la terapia più adatta». 

Le nuove terapie 

Nonostante i notevoli progressi conseguiti negli ultimi anni, i trattamenti disponibili per la cura della leucemia mieloide acuta sono ancora limitati. Dal punto di vista degli ematologi il principale bisogno (78% delle risposte) è legato proprio alla disponibilità di farmaci innovativi. «Le terapie introdotte in questi ultimi anni sono farmaci che colpiscono specifici target cellulari – dice Alessandro Maria Vannucchi, direttore dell'Ematologia dell’azienda ospedaliera Careggi e della Scuola di Specializzazione in Ematologia dell’Università di Firenze –: questo differenzia le nuove molecole dagli schemi chemioterapeutici che sono stati utilizzati finora, che peraltro continuano a rappresentare lo scheletro sostanziale del trattamento di questa neoplasia. Alcuni di questi farmaci possono essere utilizzati in associazione alla terapia convenzionale, altri possono essere utilizzati in particolari gruppi di pazienti, per esempio nei cosiddetti “unfit” cioè nei soggetti che non hanno le caratteristiche per poter tollerare una chemioterapia convenzionale; altri ancora per pazienti che hanno perso la risposta al primo trattamento o per mantenere una risposta dopo il trapianto di cellule staminali. Questa serie di nuove molecole sta modificando il panorama terapeutico attuale della neoplasia, assicurando significativi miglioramenti in termini di sopravvivenza o di assenza di recidiva della malattia, ma nessuno di questi può da solo portare a guarigione». 

Perché serve un team composto da più esperti

Dal sondaggio emerge che nella maggioranza dei casi (80%) i pazienti italiani sono seguiti da un team multidisciplinare: ematologo, infermiere, psicologo e nutrizionista sono le figure oggi più attive sul paziente. Circa il 70% di pazienti, caregiver e volontari giudicano il team multidisciplinare come un elemento estremamente importante, ma viene auspicato anche l’inserimento dell’infettivologo e del palliativista, per un’assistenza il più completa possibile. «La presenza di diversi specialisti è importante perché si tratta di un malato complesso che nel decorso della malattia può presentare diverse complicanze ed ha esigenze molto peculiari a cominciare dalla nutrizione e dal supporto psicologico – sottolinea Fabio Efficace, responsabile Studi Qualità di Vita alla Fondazione GIMEMA – . Serve agire in completa sinergia e con un coordinamento ben organizzato: dati di letteratura confermano come il team multidisciplinare abbia ripercussioni positive addirittura sulla sopravvivenza e sulla migliore qualità di vita del paziente. La comunicazione è anche un aspetto cruciale così come la rapidità con cui vengono condivisi i dati di laboratorio, le condizioni cliniche del paziente e su come accetta e affronta la malattia». 

Come migliorare la qualità di vita

Pazienti, caregiver, ematologi e volontari ritengono comunque che il livello di qualità di vita dei pazienti con leucemia mieloide acuta risulti non elevato. La gestione dell’aspetto emotivo-psicologico è ciò che secondo ematologi, pazienti e volontari impatta maggiormente sul benessere dei pazienti. Anche il caregiver ne paga chiaramente le conseguenze, in particolare per l’impegno di cui il malato necessita e per il carico emotivo che deve affrontare.  Come migliorare? Secondo gli interpellati la proposta più apprezzata riguarda servizi di assistenza domiciliare che siano in grado di dare continuità alla gestione ospedaliera del paziente, ai quali va sicuramente affiancato un supporto psicologico per aiutare malati e familiari nella gestione quotidiana della patologia e del suo impatto sulla vita delle persone interessate.

Vera Martinella per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2022.

 La scoperta della malattia la settimana scorsa, l'intervento chirurgico pochi giorni dopo, il più in fretta possibile. Perché quando c'è di mezzo un tumore il tempo è prezioso: diagnosi precoce e cure tempestive possono fare una grande differenza. 

Almeno su questo Fedez è stato fortunato perché i sintomi dei tumori neuroendocrini sono poco chiari o assenti, così il 60% dei pazienti arriva a individuare la malattia in ritardo, quando la massa tumorale raggiunge dimensioni significative o compromette la funzionalità degli organi colpiti.

«Oltre a essere rari i NETs (dall'inglese Neuro-Endocrine Tumors) sono quasi sempre "silenziosi" e solo nel 20% dei casi danno sintomi specifici legati all'iperproduzione di ormoni - spiega il professore Massimo Falconi, direttore del Centro del Pancreas dell'IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, che con la sua equipe ha operato il rapper -. Sono un gruppo di neoplasie molto diverse fra loro, alcune aggressive altre "indolenti", ovvero che evolvono lentamente».

Di cosa si tratta esattamente?

 «Parliamo di tumori che hanno origine dal sistema neuroendocrino, costituito da cellule con caratteristiche tipiche sia delle cellule endocrine, quelle che producono gli ormoni, sia di quelle nervose. Queste cellule sono presenti in tutto l'organismo, quindi i NETs possono colpire organi differenti quali pancreas (come nel caso di Fedez, ndr ), intestino, polmoni, tiroide, timo o ghiandole surrenali». 

Sono pericolosi?

«È molto difficile dare una risposta univoca per le decine di sottotipi diversi di tumori neuroendocrini. In base all'aspetto delle cellule neoplastiche, i NETs si possono suddividere in "ben differenziati", che crescono in genere lentamente e sono meno aggressivi (ma comunque potenzialmente maligni, possono dare metastasi anche dopo molti anni) e "scarsamente differenziati", che si sviluppano più velocemente e hanno maggiori probabilità di essere metastatici fin dall'inizio». 

Quali sono le terapie?

«Siamo di fronte a patologie molto diverse fra loro, che richiedono un approccio personalizzato. Se il tumore viene scoperto agli inizi ed è localizzato, la chirurgia radicale, ovvero l'eliminazione di tutta la massa neoplastica, può portare a guarigione alte percentuali di pazienti. Spesso l'intervento chirurgico è complesso: punta ad asportare completamente la malattia, preservando il più possibile la funzione dell'organo».

E se le cose si complicano?

«Se la rimozione del tumore è parziale o se la scoperta è tardiva e ci sono già metastasi, oppure in caso di recidive che si presentano nel tempo, oggi abbiamo comunque a disposizione diversi tipi di farmaci. 

Dalla chemioterapia (efficace solo in alcune forme) agli analoghi della somatostatina, dai farmaci a "bersaglio" fino alle strategie locoregionali (come l'embolizzazione o la termoablazione epatica). Recentemente poi è stata approvata anche in Italia la nuova terapia radiorecettoriale, in grado di veicolare un'energia "distruttiva" mirata in modo specifico sulle cellule cancerose». 

Si può guarire?

«Anche in questo caso tutto dipende dal tipo di tumore presente nel singolo malato e dallo stadio della neoplasia al momento della diagnosi (se è in fase iniziale o avanzata). Ma la sopravvivenza a 5 anni nel nostro Paese è alta, superiore al 60%. 

Negli ultimi anni, con le nuove terapie abbiamo fatto passi in avanti significativi. È però determinate essere curati in centri di riferimento, dove operano gruppi multidisciplinari di esperti, perché servono le competenze di diversi specialisti». 

Guariti dal cancro e burocrazia: serve una legge per il «diritto all'oblio». Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 23 gennaio 2022.

Altri Paesi europei hanno già preso provvedimenti perché chi ha superato un tumore non sia obbligato a dichiarare la sua malattia. A rischio mutui, assicurazioni, posto di lavoro e adozioni.

Di «diritto all'oblio» sentiremo parlare spesso nei prossimi mesi. A chiedere di essere tutelati dalle discriminazioni che incombono su di loro sono milioni di italiani, curati per un tumore dal quale sono guariti, ma che rischiano di non poter aver accesso a cose della vita di tutti giorni: l’ottenimento di mutui, la stipula di assicurazioni sulla vita, l’assunzione in un posto di lavoro o l’adozione di un figlio. Il motivo? Oggi in Italia devono dichiarare la loro pregressa malattia e questo rischia di compromettere la loro possibilità di vedersi concedere ciò che chiedono. Nasce da questi presupposti la prima campagna per il riconoscimento del diritto all’oblio oncologico lanciata da Fondazione Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) con l’obiettivo di ottenere una legge che protegga le persone che hanno avuto una neoplasia, sul modello di quanto già fatto in Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda e Portogallo.

La parola «guarigione» non è più un tabù

Sono circa 377mila i nuovi casi di tumore diagnosticati ogni anno nel nostro Paese e, stando alle ultime rilevazioni,  sono 3,6 milioni i connazionali vivi dopo una diagnosi di cancro: almeno un paziente su quattro (il 27%), quasi un milione di persone, può considerarsi del tutto guarito perché è tornato ad avere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale. «La parola “guarigione” non è più un tabù — sottolinea Giordano Beretta, presidente di Fondazione Aiom —. Oggi, grazie ai tanti progressi fatti con la prevenzione, la diagnosi precoce e le nuove terapie, molti tumori vengono curati e altri possono essere cronicizzati: per questa ragione i pazienti che vivono anche a molti anni di distanza da una diagnosi sono aumentati. Certo bisogna tenere presente che ogni neoplasia richiede un tempo diverso perché chi ne soffre sia definito guarito: se, per esempio, per il cancro della tiroide sono necessari meno di 5 anni dalla conclusione delle cure, per il melanoma e il tumore del colon meno di 10. Molti linfomi, mielomi e leucemie e i tumori della vescica e del rene richiedono 15 anni. Per essere “guariti” dalle neoplasie di seno e prostata ne servono fino a 20».

Pazienti acuti, cronici, a lungo termine hanno necessità diverse

Le fila di malati oncologici ed ex si ingrossano ogni anno di più, ma quello che gli esperti evidenziano da tempo è la necessità di avere ben chiare le distinzioni fra le diverse categorie. Ci sono i pazienti cosiddetti acuti, che hanno avuto la diagnosi da poco e sono ancora nel ciclo di trattamenti o hanno avuto una prima ricaduta. C’è poi la sempre più vasta schiera dei malati cronici, che possono convivere con il tumore anche per anni, alternando fasi di remissione della malattia a recidive o lente progressioni: un gruppo in crescita che può avere una buona qualità di vita. Ci sono poi i malati a lungo termine, che non hanno segni di malattia da anni, ma per il tipo di tumore di cui hanno sofferto restano a rischio di ricadute (anche dopo molto tempo) o, per le terapie eseguite, hanno maggiori probabilità di sviluppare secondi tumori. «Infine i guariti, la cui aspettativa di vita torna uguale a quella di coetanei che non hanno mai avuto il cancro — spiega Beretta —. Hanno il diritto di sentirsi definire guariti e godere a pieno, a livello sociale e lavorativo, oltre che medico e psicologico, di questo status. C’è una forte discriminazione sociale nei loro confronti, che deve essere combattuta. Come Fondazione Aiom abbiamo deciso di provare a cambiare le cose: con la campagna “Io non sono il mio tumore”, che prevede una raccolta firme e una guida sul diritto all’oblio oncologico».

La campagna e una raccolta firme

A sostegno dell’iniziativa sono stati realizzati la prima guida sul diritto all’oblio oncologico, un portale web (dirittoallobliotumori.org) e una  campagna social, per promuovere la raccolta firme. Lo scopo è raggiungere 100mila adesioni, che verranno portate al Presidente del Consiglio per chiedere l’approvazione della legge. Tutti potranno contribuire lasciando il proprio nome, sia online che nei reparti di oncologia e nelle piazze: pazienti, caregiver, familiari, cittadini. La guida è scaricabile dal sito e sarà distribuita negli ospedali, per informare chi ancora non è a conoscenza di questa opportunità e invitarlo ad agire perché le cose possano cambiare. Il portale offre inoltre ai pazienti la possibilità di raccontare la propria storia, per mettere in luce il problema e condividere le esperienze. Negli ultimi due anni diversi Paesi europei hanno emanato una legge che garantisce agli ex pazienti il diritto a non dichiarare la propria malattia se sono guariti. In Italia, invece, per richiedere molti servizi è ancora necessario dichiarare se si è avuto il cancro nonostante la guarigione. «La legge permetterebbe di non essere più considerati pazienti dopo 5 anni dal termine delle cure se la neoplasia è insorta in età pediatrica e dopo 10 se ci si è ammalati in età adulta» precisa Beretta.

Appello alle istituzioni

«La situazione difficile che molti ex-pazienti si trovano a vivere non è più accettabile — dice Antonella Campana, vicepresidente di Fondazione Aiom e membro del coordinamento volontari di IncontraDonna —. È necessario muoversi verso un futuro libero dallo stigma della malattia oncologica. La tutela dei diritti dei pazienti oncologici passa anche attraverso il riconoscimento giuridico di una guarigione dal cancro». «Noi pazienti sappiamo cosa significhi essere trattati da persone fragili, perennemente malate — prosegue Monica Forchetta, presidente Apaim, Associazione pazienti Italia melanoma —. La neoplasia spesso diventa un’etichetta, anche quando non c’è più. Oggi, però, le persone guarite sono così tante che è necessario rendersi conto dell’entità del problema e intervenire per risolverlo». «Riteniamo si tratti di una grande sfida etica e sociale, un cambio di paradigma che parte dai pazienti insieme alla cittadinanza, la comunità scientifica e le istituzioni —  aggiunge Ornella Campanella, presidente dell’associazione aBRCAdabra —. Vogliamo diffondere questo messaggio: anche se sei o sei stato paziente oncologico, tu non sei il tuo tumore. Questo dovrebbe mettere anche la parola fine all’equazione cancro uguale male incurabile». Si aggiunge all'appello anche Lucia Belli, infermiera e membro del Cda di Fondazione Aiom: «Siamo sicuri che troveremo anche le istituzioni dalla nostra parte — conclude —. Chiediamo a tutti i cittadini che si mobilitino con noi per il raggiungimento dell’obiettivo».

Dal cancro si guarisce. Ma rimane l'etichetta. Fulvio Fulvi su Avvenire.it il 22 gennaio 2022.

Esiste un grosso problema per chi è guarito da un tumore: la burocrazia. Che lo considera ancora un malato negandogli così alcuni diritti. Perché se vuole ottenere un mutuo, stipulare un’assicurazione sulla vita o un contratto di lavoro, ma anche se intende adottare un figlio o accedere a certi servizi pubblici, è obbligato a dichiarare se ha avuto un cancro e per questo rischia di essere penalizzato. È accaduto, per esempio, che al ritorno al lavoro l’ex malato di tumore abbia scoperto di essere stato spostato in un altro settore o demansionato, se non addirittura licenziato. Non basta, dunque, essere usciti dall’incubo della terribile malattia, con tanto di certificato medico, per diventare uguale agli altri. Il cancro diventa un’etichetta che può rimanere attaccata addosso per sempre.

Il problema in Italia riguarda oltre un milione di persone. E si tratta di discriminazioni sociali che possono incidere non poco nella loro vita quotidiana e nel futuro di altrettante famiglie. È per questo che Fondazione Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) ha lanciato una campagna nazionale, anche social, per il riconoscimento del “diritto all’oblio oncologico”. Si chiama “Io non sono il mio tumore”. L’obiettivo è di ottenere una legge di iniziativa popolare che tuteli chi ha avuto una neoplasia e per questa ragione non può usufruire a pieno dei diritti che gli spettano. Per chiedere una specifica normativa bisogna raggiungere 100mila firme da presentare al presidente del Consiglio dei ministri. Tutti potranno contribuire lasciando il proprio nome, sia sul web (dirittoallobliotumori.org) che nei reparti di oncologia degli ospedali e nelle piazze: impegnati in prima linea, con le associazioni, caregiver, familiari, cittadini e pazienti. Il portale offre inoltre ai pazienti la possibilità di raccontare la propria storia, per mettere in luce il problema e condividere le esperienze. Oggi sono 3,6 milioni gli italiani che vivono con una diagnosi di tumore. Il 27% di loro, circa un milione, è guarito.

La legge permetterebbe di non essere più considerati pazienti dopo 5 anni dal termine delle cure se la neoplasia è insorta in età pediatrica e dopo 10 se ci si è ammalati in età adulta. Un simile provvedimento è in vigore da tempo anche in Francia, Lussemburgo, Belgio Olanda e Portogallo. A illustrare la proposta, ieri a Roma, Antonella Campana di IncontraDonna, Monica Forchetta di Apaim Associazione Pazienti Italia Melanoma e Ornella Campanella di aBRCAdabra, componenti del consiglio di amministrazione di Fondazione Aiom presieduto da Giordano Beretta.

·        L’Ictus.

Ictus, ogni minuto è prezioso per salvare la vita ed evitare disabilità. Sintomi, terapie, come prevenirlo. Maria Giovanna Faiella su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Nel nostro Paese è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e i tumori. Colpisce ogni anno circa 185mila persone. I pazienti sopravvissuti, con esiti invalidanti, sono circa un milione

Fare presto

«Ogni minuto è prezioso» quando colpisce l’ictus. Per ogni secondo che si ritarda sono bruciati 32mila neuroni e per ogni minuto ben 1,9 milioni. Ecco perché gli esperti ribadiscono una volta di più , in occasione della giornata mondiale contro l’ictus cerebrale che ricorre il 29 ottobre, quanto sia importante riconoscere tempestivamente i sintomi, in modo da chiamare subito il 118 o 112 e farsi accompagnare non in un qualsiasi ospedale ma in quello dotato di Centri specializzati (Stroke Unit) in grado di somministrare le terapie migliori.

L’ictus è la prima causa di disabilità e la terza causa di morte (dopo le malattie cardiovascolari e i tumori). Ogni anno solo nel nostro Paese l’ictus colpisce circa 185mila persone, secondo i dati della Società italiana di neurologia e dell’Italian Stroke Association. I connazionali che hanno avuto un ictus e sono sopravvissuti, con esiti più o meno invalidanti, sono oggi circa un milione.

Che cos’è l’ictus

«Questa temibile condizione – spiega il professor Mauro Silvestrini, presidente di Italian Stroke Association – si manifesta con la comparsa improvvisa di un deficit neurologico dovuto al fatto che l’afflusso del sangue diretto al cervello si interrompe improvvisamente per l’occlusione di un’arteria (in questo caso si parla di infarto cerebrale o ictus ischemico) o per la rottura di un’arteria (emorragia cerebrale o ictus emorragico)».

Riconoscere i sintomi

Quali sono i segnali “spia” di un ictus? Risponde il professor Alfredo Berardelli, presidente della Società Italiana di Neurologia: «La comparsa improvvisa di perdita di forza o sensibilità a un braccio o a una gamba, la bocca che si storce, l’oscuramento o la perdita della vista da un solo occhio o in una parte del campo visivo, l’incapacità di esprimersi o di comprendere ciò che ci viene detto, un mal di testa violento, sono tutte potenziali manifestazioni di un ictus. Di fronte a questi sintomi – sottolinea il neurologo – è importante chiamare subito il 118 o recarsi in ospedale, perché la possibilità di essere curati è legata alla precocità della somministrazione delle terapie».

Centri di cura specializzati

Quando colpisce l’ictus «è fondamentale che la persona venga portata il più rapidamente possibile negli ospedali, possibilmente dotati dei Centri organizzati per il trattamento, cioè le Unità Neurovascolari (Centri Ictus o Stroke Unit) – sottolinea il presidente di ALICe Italia Odv (Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale) Andrea Vianello, colpito da ictus nel 2019 –. Solo così si può pensare di ridurre il rischio di mortalità ed evitare ictus particolarmente gravi, cercando di limitare danni futuri e, in particolare, le conseguenze di disabilità, molto spesso invalidanti, causate da questa malattia».

Secondo i parametri indicati dal DM 70 del 2015 in Italia dovrebbero essere disponibili complessivamente 300 Unità Neurovascolari (o Stroke Unit). «Attualmente – riferisce il professor Danilo Toni, direttore dell’Unità “Trattamento Neurovascolare” al Policlinico Umberto I di Roma e presidente del Comitato tecnico-scientifico di ALICe Italia – le Unità Ictus sono 220, con un recupero del Sud, anche se siamo ancora a una copertura pari a circa il 60% del necessario».

Le terapie

Più precoce è l’intervento, più sono efficaci le terapie e minori sono le complicanze del trattamento, ribadiscono i neurologi.

Per l’emorragia cerebrale esistono diverse indicazioni per contenere l’estensione del sanguinamento, mentre sono in fase di sviluppo veri e propri approcci di terapia specifica.

Per l’ictus ischemico sono disponibili da tempo farmaci fibrinolitici che dissolvono il materiale ostruttivo a livello arterioso, permettendo quindi di ripristinare il flusso di sangue e limitare i danni al tessuto cerebrale. In alcuni casi, la terapia farmacologica può essere associata o sostituita dai trattamenti endovascolari, tecniche che richiedono un’alta specializzazione e, per questo, non possono essere effettuate ovunque, ma solo ed esclusivamente negli ospedali dotati di Centri specializzati.

Non tutte le persone colpite da ictus, però, ricevono le cure giuste nei tempi giusti. «Alla trombolisi sono sottoposti circa l’80% dei pazienti che ne hanno bisogno e alla trombectomia meccanica circa il 75% di coloro che ne necessitano» dice il professor Danilo Toni.

È possibile prevenirlo (e come)?

Il messaggio dei neurologi è chiaro: molti ictus potrebbero essere prevenuti semplicemente curando in modo adeguato i fattori di rischio che si possono modificare, quali la pressione alta, l’aumento dei grassi e degli zuccheri nel sangue, alcune anomalie della funzione cardiaca, in particolare la fibrillazione atriale.

Anche gli stili di vita hanno un ruolo nell’insorgere dell’ictus, per cui vanno evitate alcune abitudini dannose come il fumo, il consumo eccessivo di alcol, l’uso di sostanze di abuso, la sedentarietà, un’alimentazione scorretta che comporta la tendenza al sovrappeso fino all’obesità. Gli esperti consigliano un’attività fisica regolare, anche mezz’ora di passeggiata cinque/sei volte a settimana, un’alimentazione sana e bilanciata, il controllo della pressione arteriosa e un consulto periodico col proprio medico curante per verificare l’eventuale presenza degli altri fattori di rischio.

·        Fibromialgia, Endometriosi, Vulvodinia: patologie diffuse ed invisibili.

Perché chi soffre di fibromialgia (come Lady Gaga) è ancora considerato un malato «immaginario»? Carlo Selmi su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.

La diagnosi rimane difficoltosa e spesso sono necessari molti anni e numerose visite prima di avere una definizione, soprattutto perché le indagini strumentali edi laboratorio risultano ripetutamente negative.

Ho 32 anni e sono affetto da «qualcosa» da 10. Ho fatto molte ricerche, alcuni medici mi hanno diagnosticato la fibromialgia, poi confutata da altri esperti. Ho continuato a spendere soldi, sono stato trattato come un «malato immaginario», incompreso, ridicolizzato. Ora mi hanno diagnosticato di nuovo questa strana patologia, dandomi integratori e un farmaco per i dolori. Ho provato a farmi prescrivere qualcosa che non sia di origine farmacologica, senza però ottenere nulla. Dopo essermi vaccinato contro Covid, mi pare di essere peggiorato. Potete aiutarmi a capire di cosa soffro e indicarmi una strada per stare meglio?

Risponde Carlo Selmi, responsabile Reumatologia e immunologia clinica, Istituto Humanitas; professore di Medicina interna, Humanitas University, Milano (VAI AL FORUM)

Nonostante ci sia certamente una maggior attenzione rispetto al passato, la diagnosi di fibromialgia rimane difficoltosa e spesso sono necessari molti anni e numerose visite prima di avere una definizione, soprattutto perché le indagini strumentali e di laboratorio sono ripetutamente negative e i classici farmaci sono spesso inefficaci sul dolore, causando la falsa convinzione che si tratti di una «malattia immaginaria». Il trattamento rimane purtroppo in molti casi insoddisfacente: si basa su farmaci che riducono il dolore e su cambiamenti di stile di vita, in particolare controllo del peso e attività fisica. L’infezione da Covid porta spesso a un peggioramento prolungato della fibromialgia ed è quindi prioritario prevenirla; non ci sono controindicazioni alla vaccinazione, anche se spesso questa si associa a effetti collaterali fastidiosi (seppure di breve durata).

DIRITTO ALLA SALUTE. «Non siamo pazze, siamo malate». Affette dalle patologie invisibili sono senza diagnosi né cure.

Fibromialgia, endometriosi, vulvodinia. Malattie diffuse ma pochi centri. E nessuna assistenza del servizio sanitario nazionale. Marialaura Iazzetti su L'Espresso il 17 Gennaio 2022.  

Quando raccontano la loro storia, Erika e Giusy pronunciano frasi simili: «Credevano fossi pazza», «per avere una diagnosi ho dovuto aspettare anni», «mi ero arresa», «ora mi sento libera». Erika e Giusy soffrono di due patologie differenti. Vengono chiamate malattie invisibili: sono disturbi incurabili e poco studiati, che colpiscono milioni di persone ma non sono ancora del tutto riconosciute dallo Stato.

Vulvodinia: cos’è e come risolverla? Risponde la ginecologa. Le risposte ai dubbi più comuni sulla ginecologia, a cura della Dottoressa Raffaela Di Pace, ginecologa, Dottore di ricerca in Fisiopatologia della Menopausa e Consulente sessuologo. RAFFEALA DI PACE su Io Donna.it il 29 Marzo 2022.

Fino a qualche tempo fa la Vulvodinia veniva spesso considerata una condizione psicologica più che una malattia, e ancora oggi è ampiamente sottodiagnosticata e spesso viene invece confusa con il vaginismo (una fobia che impedisce la penetrazione o il solo sfioramento della zona dei genitali). 

Vulvodinia: che cos’è il dolore vulvare

Oggi si inizia a parlarne di vulvodinia come malattia invalidante, poco diagnosticata e quindi ancora non ben curata e nemmeno riconosciuta del nostro Sistema Sanitario Nazionale, pertanto tutte le cure sono a carico della paziente. La vulvodinia, ovvero il dolore vulvare, non è una sindrome rara e soprattutto il dolore e la diagnosi tardiva arrivano a compromettere la qualità di vita anche sessuale di donne giovani. Cosa si intende per vulvodinia?

La vulvodinia è in realtà una sindrome neuropatica caratterizzata dall’infiammazione dei nervi dell’area genitale esterna femminile e pelvica dovuta ad una ipersensibilità delle terminazioni nervose a livello vulvare e dell’ingresso vaginale.

Le cause della Vulvodinia

Può avere cause diverse che vanno dalle infezioni batteriche o micotiche, alla atrofia vulvo -vaginale per menopausa o per condizioni associate ad una basso tenore ormonale come utilizzo di contraccettivi a dosaggio troppo basso o l’allattamento.

Inoltre lesioni del nervo pudendo da parto o traumi, anche da rapporti sessuali,

interventi chirurgici

malattie come la endometriosi che, pur creando un dolore profondo alla penetrazione, spesso generano una sorta di reazione di difesa con difficoltà anche all’introito vaginale.

Un dolore molto particolare

Le donne affette da vulvodinia presentano un alterato processo sensoriale delle vie del dolore. Si tratta di un’iperattività di alcune cellule (probabilmente i mastociti) che alterano le strutture nervose, rilasciando sostanze infiammatorie nel tessuto circostante, e inducendo un’iperattività contrattile dei muscoli del pavimento pelvico.

Se in condizioni fisiologiche, l’organismo cerca di riequilibrare una situazione di iperstimolazione di queste cellule, nelle donne con vulvodinia questo non accade e lo stimolo doloroso continua».

La Dottoressa Raffaela Di Pace, ginecologa

La vulvodinia si presenta in genere con sintomi a livello vulvare quali bruciore, irritazione, secchezza, sensazione di abrasione e tagli sulla mucosa, tensione, dolore costante nella regione vulvare. In alcuni momenti, la donna può riferire anche gonfiore di questa zona, impossibilità a rimanere seduta, cistiti ricorrenti e dolore pelvico cronico. A questo nella maggioranza, ma non nella totalità dei casi, si associa una importante reazione di contrattura dei muscoli che circondano l’ingresso vaginale che aumenta la sensibilità di questa zona.

Si tratta di sintomi che, ancora oggi, sono troppo spesso confusi per altre patologie o trattati come un’infezione: per questo motivo, è ancor più importante che la donna con dolore o disturbi vulvari si rivolga a ginecologi esperti di vulvodinia.

Quali sono gli esami da fare per la diagnosi di vulvodinia?

La visita ginecologica prima di tutto ci aiuta ad avere il sospetto diagnostico di vulvodinia. Non è sempre facile visitare una donna con questo tipo di problema perché il dolore evocato, da un lato ci aiuta a capire il sintomo e fare la diagnosi ma dall’altro crea nella paziente male e disagio. Un accurato esame però ci permette di valutare il livello di infiammazione della mucosa vulvare, l’ipertono dei muscoli che circondano l’introito vaginale e la capacità o meno di ridurre tale contrattura con il rilassamento.

Che cos’è lo swab test

Indispensabile per la diagnosi è lo swab test. L’esame, come il nome suggerisce, si esegue con un tocco effettuato con un cotton fioc nella zona vulvare e soprattutto nel vestibolo, cioè la zona di passaggio tra vulva e vagina per vedere se un semplice stimolo di toccamento possa invece essere percepito come doloroso proprio per la ipersensibilità delle fibre nervose. Il concetto è quello dalla allodinia, cioè la percezione di uno stimolo che normalmente non è doloroso, come tale.

Un approccio multidisciplinare

Fatta la diagnosi, l’approccio deve essere multidisciplinare, perché diversi sono gli aspetti coinvolti nella risoluzione del problema. Sono utili i principi attivi di tipo neurologico (Amitriptilina, pregabalin) che agiscono sull’alterazione della percezione sensoriale e permettono di riportare alla norma la stimolazione delle fibre nervose.

Ancora possono essere utili prodotti a base di sostanze con una elevata azione di rilassamento o anestetica che possono essere applicati localmente in modo da evitare gli effetti collaterali sistemici. Nell’ultimo periodo si è anche cominciato ad utilizzare sostanze nuove come la cannabis contenuta in ovuli o creme.

L’aiuto della fisioterapia

Importantissimo è riacquisire il controllo della muscolatura che circonda l’ingresso vaginale che spesso presenta una ipercontrattura non controllabile volontariamente della paziente. È pertanto molto importante lavorare con un fisioterapista o con una ostetrica che abbiano avuto una formazione adeguata e che siano esperti del pavimento pelvico che, con più metodi, possono aiutare la paziente a riacquisire un controllo volontario di tale muscolatura.

Il sesso e il dolore

La forte implicazione con la sessualità che questo tipo di patologia comporta la alterata associazione attività sessuale – dolore e non piacere. Le problematiche secondarie di desiderio e d’eccitazione che ne conseguono, rendono spesso indispensabile l’intervento di un sessuologo, se non lo è il ginecologo che ha preso in carico la paziente. Questo intervento, in sintonia con le altre figure che abbiamo visto, deve ricreare un concetto di sessualità come piacere e non come dolore, permettendole di ritornare a una vita sessuale normale e gratificante.

Leggi qui tutti gli articoli della dottoressa Di Pace su iO Donna.

Vulvodinia, la malattia della fidanzata di Damiano dei Maneskin: ecco che cos'è. Le Iene News il 12 maggio 2021. L’identità della fidanzata di Damiano dei Maneskin sembra esser stata rivelata: è Giorgia Soleri, una modella e influencer di 25 anni che in passato aveva raccontato della sua malattia: la vulvodinia. Un tema di cui noi de Le Iene ci siamo occupati con Nina Palmieri: colpisce una donna su 7 e ha pesanti ripercussioni nella vita di tutti i giorni. La “malattia invisibile”: è spesso chiamata così la vulvodinia, che colpisce una donna su sette ma su cui purtroppo si sa e se ne parla ancora troppo poco. La notizia dell’identità della fidanzata di Damiano dei Maneskin, Giorgia Soleri, ha riportato la vulvodinia sotto i riflettori: la modella e influencer di 25 anni ne aveva parlato in passato sul suo profilo Instagram. Un tema di cui ancora oggi si parla troppo poco: noi de Le Iene ne avevamo parlato con la nostra Nina Palmieri, che aveva spiegato cos’è la vulvodinia e come impatta in modo devastante sulla vita delle donne che ne soffrono. Parliamo di una patologia che colpisce l’organo genitale femminile, dovuta alla crescita di piccole terminazioni nervose, in maniera disordinata, a livello vulvare. Ce l’aveva spiegata un medico, uno di quei pochi in Italia che la conoscono e se ne occupano: “Un nervo è un po’ come un cavo elettrico, deve portare un segnale, la corrente. Quando queste terminazioni perdono l’orientamento, te lo portano in maniera disordinata”. Le conseguenze, per chi è affetta da vulvodinia, sono davvero difficili da accettare, perché i nervi che impazziscono danno letteralmente la scossa e il dolore si manifesta in modo molto diversi da donna a donna. Come in Valentina, che a Nina Palmieri aveva spiegato: “Senti degli spilli conficcati dentro la carne, costantemente”.  “Senti bruciare le viscere proprio, perché ti coinvolge tutto proprio”, aveva aggiunto Rossella. “Sono stanca, stanca mentalmente di pensare a questa cosa. Dodici anni son lunghi, la vita di prima non me la ricordo più”. La patologia, che in pochissimi riescono a diagnosticare e a curare, richiede decine di medicinali assunti ogni giorno, che talora non riescono comunque a placare le sofferenze. Colpisce il 15% delle donne, una su 7. E il dolore porta con sé tutta una serie di quotidiane privazioni. Potete vedere il servizio di Nina Palmieri in testa a questo articolo.

LA SOFFERENZA DIETRO “CORALINE”. Tutti guardano Damiano dei Maneskin e non le battaglie della fidanzata Giorgia Soleri. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 09 febbraio 2022.

Da giorni viene esaltato Damiano dei Maneskin per aver ringraziato la sua ragazza Giorgia Soleri per avergli ispirato la canzone Coraline. Nonostante lui l’abbia messa al centro nessuno però dà risalto ai meriti della ragazza.

Lei è Giorgia Soleri, fotomodella, femminista, ragazza di 26 anni, donna che ha lottato perché la sua malattia (e tra l’altro ne ha più di una) fosse riconosciuta come tale.

Tutto questo mentre Damiano splende di suo, si gode il successo e viene apprezzato - se non solo come cantante- al massimo come fidanzato intelligente di una ragazza intelligente. Perché l’immagine dell’eroe romantico non serve a lui e, soprattutto, alle donne.

Da qualche giorno gira sul web un post scritto da una dottoressa nel campo della nutrizione che si avventura in una breve analisi affettivo-relazionale commentando la storia d’amore tra Damiano dei Maneskin e la fotomodella Giorgia Soleri. Niente di grave, se non ci fossero almeno due grossi problemi: il primo è che quello che ha scritto la dottoressa è profondamente sbagliato e maschiocentrico e il secondo è che questo post è diventato, come si dice, “virale”. Non so su quante bacheche l’ho visto ripreso negli ultimi giorni, è citato addirittura da siti e articoli di giornale, è diventato il tormentone 2.0 tra donne e ragazzine. Il post dice questo:

«Damiano dei Maneskin ha dedicato Coraline alla sua fidanzata Giorgia Soleri, che ha convissuto per anni con malattie, all'epoca invisibili, come vulvodinia ed endometriosi, ha sofferto senza essere capita e creduta dai medici. Damiano ha ringraziato Giorgia per avergli dato l'opportunità di vivere tutto questo.

Damiano ha rivelato che Giorgia è stata la musa ispiratrice di Coraline. Damiano dopo essersi esibito al concerto dei Rolling Stones, dopo aver fatto un tour mondiale ha partecipato ad un sit in per far conoscere la vulvodinia all'Esquilino a Roma, con sì e no 20 gatti presenti, come uno qualsiasi. Damiano ha spostato impegni lavorativi per accompagnare Giorgia al convegno sulla vulvodinia e neuropatia del pudendo e l'ha supportata, abbracciata ed applaudita. Damiano ha cantato Coraline guardando Giorgia. Damiano David. Donne, non accontentatevi di uno stronzo qualsiasi che manco risponde ad un messaggio».

A parte i toni adolescenziali del post su cui intendo sorvolare, mi stupisco che tante donne non abbiano compreso quanto l’angolazione da cui si racconta questa vicenda sia perniciosa e ingiusta. Intanto partirei da qui: l’evento a cui avrebbero partecipato “20 gatti” era per la verità un convegno sulla vulvodinia, convegno in cui veniva presentata la proposta di legge perché venga riconosciuta come malattia cronica e invalidante, con tutte le tutele del caso.

Un traguardo importante, che deve molto all’impegno di Giorgia Soleri. Da molto tempo, infatti, la ventiseienne si spende in questa battaglia, raccontando la sua storia personale di sofferenza e facendosi portavoce di tante ragazze che non sono state credute nel loro dolore o hanno avuto diagnosi tardive, sbagliate, incerte.

Dunque, non si comprende perché quello elogiato in un articolo che racconta il lungo iter che ha portato fin qui Giorgia Soleri sia Damiano dei Maneskin. Che qui ha un ruolo laterale, quello al massimo del compagno amorevole che gioisce assieme alla sua fidanzata per questo traguardo. Fine. Nulla di più. O meglio, Damiano ha scritto anche una canzone sulla vicenda, “Coraline”, che ha cantato con delicata commozione al Festival di Sanremo. Una canzone che non solo mette al centro la sua fidanzata (o, come suggerisce qualcuno “una donna”) , col dolore patito e la forza nell’affrontarlo, ma accompagnata da un gesto importante e prezioso (questo sì): Damiano, dopo averla cantata, su Instagram ha ringraziato Giorgia perché «questa canzone me l’hai fatta vivere e scrivere». 

IL FINTO ROMANTICISMO 

Nel post orribilmente finto-romantico della dottoressa c’è invece l’eroicizzazione del maschio famoso, quello che apre i concerti dei Rolling Stones, quello celebre dei due che si scomoda («trova il tempo» ha scritto Repubblica e non solo) per accompagnare la fidanzata malata (perché di lei solo questo si è sottolineato, del suo impegno da attivista neppure mezza riga) a un incontro con 20 gatti. «Non accontentatevi di uno stronzo qualunque», chiude la dottoressa con lo slogan che dovrebbe rappresentare l’inno della donna che non elemosina nulla, che merita un Damiano accanto. 

Ma pensate un po’. Meritiamo un uomo che ci accompagni a un convegno sulla malattia di cui soffriamo, mentre si presenta la legge perché quella malattia sia riconosciuta come invalidante, legge per la quale mi sono spesa anima e corpo. Un eroe, insomma. Magari merito perfino un uomo che mi aiuti a scaricare l’auto piena di buste della spesa e venga a prendermi in clinica dopo il parto. Che magari si prenda tre ore dal lavoro e sposti il calcetto per me, se si tratta di venire alla mia cerimonia di laurea.

Davvero un’aspirazione colma di ambizione. Ora, ci sarebbe molto altro da dire. Per esempio che Damiano ha fatto quello che si fa nella vita quando si ama qualcuno (che sia una fidanzata, una sorella o un’amica), ovvero condividere un momento importante, esserci. Tifare per l’altro. Essere fieri del suo traguardo. E questo non è più speciale se quel qualcuno accanto a te nei momenti che contano è il leader di una band mondiale, il manager di una multinazionale o un calciatore famoso.

All’interno di una relazione si è Giorgia e Damiano. Fine. Traslare lo status professionale dei due nella lettura di un episodio banalissimo che ha a che fare con l’equilibro di una qualsiasi, normale relazione affettiva (il famoso che calca palchi da superstar/la sconosciuta malata che va a convegni con quattro gatti) è una scelta narrativa sbagliata, stupida e antidiluviana. 

Tanto più che Giorgia e Damiano appaiono due persone perfettamente centrate e a fuoco, ognuno nel proprio ambito, entrambi ben attenti a conservare la propria identità, legittimamente avari nel condividere la loro intimità. Giorgia è l’anti-groupie, moderna, mai ombra di nessuno, mai luce riflessa, ha continuato dritta per la sua strada a raccontare il suo lavoro, a condividere le sue foto sexy, i suoi adv, le sue amiche, le poesie, i suoi gatti.

Si è scusata per delle frasi razziste pronunciate tempo fa, e l’ha fatto in prima persona senza che lui intervenisse a farle da facile spalla. Non ha mai postato una foto con Damiano, lancia messaggi femministi talvolta ingenui ma sempre preziosi, rifiuta l’abbagliante tentazione di essere la fidanzata di. È Giorgia Soleri, fotomodella, femminista, ragazza di 26 anni, donna che ha lottato perché la sua malattia (e tra l’altro ne ha più di una) fosse riconosciuta come tale.

Tutto questo mentre Damiano splende di suo, si gode il successo e viene apprezzato- se non solo come cantante- al massimo come fidanzato intelligente di una ragazza intelligente. Perché l’immagine dell’eroe romantico non serve a lui e, soprattutto, alle donne.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Damiano dei Maneskin e la fidanzata Giorgia Soleri, insieme contro la vulvodinia. La modella sta contribuendo a far luce sulla malattia della quale è affetta. A sostenerla, in scena e nei convegni sul tema, c'è il fidanzato Damiano David. Giulia Mattioli su La Repubblica il 9 febbraio 2022.

Hanno sorpreso molti spettatori le lacrime di Damiano David sul palco di Sanremo: dopo aver cantato Coraline, il frontman dei Maneskin non ha trattenuto l’emozione. Lacrime presumibilmente legate alla presenza all'Ariston della fidanzata Giorgia Soleri, alla quale la canzone è dedicata: la "fiaba" narrata nel pezzo parla anche della sua esperienza e dei suoi problemi con la vulvodinia, come si evince dalle parole che il cantante ha consegnato ai social dopo l'esibizione. 

La modella in passato ha raccontato pubblicamente la sua storia “fatta di dolore cronico e ritardo diagnostico, tra vulvodinia, ipertono pelvico, endometriosi e adenomiosi”. È anche (forse soprattutto) grazie a lei che si recentemente è iniziato a parlare di questa patologia: “La mia storia è la storia di molte persone, e ci siamo stancate di essere considerate invisibili”, ha spiegato Giorgia Soleri. “Mi sento in dovere di mantenere alta l’attenzione su un argomento che non ha mai avuto considerazione o risonanza né a livello medico, né a livello sociale”.   

Una missione che implica non solo la divulgazione a mezzo social della sua esperienza, ma anche l'adesione ad eventi, manifestazioni e convegni dedicati. Accanto a lei, Damiano, che in diverse occasioni ha partecipato contribuendo a dare ulteriore visibilità alla causa. Lo scorso novembre, per esempio, il cantante dei Maneskin e la modella hanno partecipato a Roma ad un convegno che aveva l’obiettivo di “far conoscere le due patologie (vulvodinia e neuropatia del pudendo, ndr) ad oggi ancora poco note anche in ambito medico e sensibilizzare la classe politica, spiegando quale supporto avrebbero bisogno i e le pazienti da parte del Servizio Sanitario Nazionale”. 

Organizzato dal comitato delle associazioni italiane che si occupano di queste sindromi, l’evento ha presentato una proposta di legge per riconoscere la vulvodinia come malattia cronica invalidante e per inserirla nei livelli essenziali di Assistenza. 

Ad oggi infatti, il Servizio sanitario nazionale non copre i costi di questa sindrome. Eppure, la vulvodinia è un disturbo diffuso: secondo le stime di Aiv – Associazione Italiana Vulvodinia - colpisce il 12-15% delle donne nel corso della loro vita. “Pur essendo una patologia frequente, può rimanere non diagnosticata e non curata per anni. Questa forma di dolore è trascurata dalla maggior parte dei medici perché viene percepita come difficile da affrontare, oppure come ‘psicogena’, e quindi di competenza dello psicologo. Va invece affermato con chiarezza che questa è una lettura obsoleta della patologia: la vulvodinia è un disturbo con solidissime basi biologiche”, fa sapere l’associazione. 

Ma cos'è la vulvodinia? Il termine indica una varietà di condizioni cliniche il cui sintomo comune è “un dolore cronico, continuo o intermittente, spontaneo o provocato, e invalidante che interessa i genitali esterni femminili”, spiega Aiv. La vulvodinia può essere fortemente invalidante, provocando non solo forte dolore durante i rapporti sessuali, ma nella quotidianità. 

“Mi sono sentita dire di tutto, che sono pazza, ansiosa, frigida, bugiarda. Che ho paura del sesso, che dovrei masturbarmi di più. La parte peggiore è l’estrema solitudine in cui vieni buttata, giudicata da chi hai intorno e incompresa da chi dovrebbe trovare una diagnosi. Impari a considerare quel dolore come parte di te, è la tua quotidianità”, ha spiegato in un post Instagram Giorgia Soleri.

Il parere dell'esperta 

"Vulvodinia significa dolore alla vulva", spiega l'ostetrica e divulgatrice Violeta Benini. "Possiamo parlare di due diverse vulvodinie. Una intesa come neuropatia, laddove lo swab test è positivo (si tocca la vulva con un cotton fioc in punti specifici per verificare se c’è dolore, ndr) ma le mucose sono integre, rosee, non irritate, perfettamente sane. E poi c’è la vulvodinia in cui il dolore, i fastidi, il bruciore o la positività stessa dello swab test è data da mucose molto infiammate, arrossate, ulcerose. Questo bruciore si può percepire su tutto il vestibolo e su tutto il clitoride, o in punti specifici. Spesso i tamponi risultano negativi, ma c’è comunque una vaginosi, che si vede dalle secrezioni e dalle mucose che sono evidentemente alterate". 

"La neuropatia va curata con farmaci specifici, non di rado antidepressivi e farmaci off-label, (ovvero con indicazioni diverse da quelle per le quali il medicinale è stato autorizzato, secondo definizione Aifa) e terapie che migliorano lo stato di salute dei nervi", prosegue la specialista. "Se invece c’è in corso una vaginosi serve una cura per il microbiota vaginale e per le mucose. Ogni vaginosi ha bisogno di terapie specifiche (per esempio con lattobacilli acidofili, integratori, creme cicatrizzanti), ma in due o tre mesi si sta meglio. A volte succede che una vaginosi venga curata come una neuropatia, e così il problema si trascina per anni: per fare una diagnosi accurata bisogna osservare la vulva". 

"Lo stato infiammatorio più tutta una serie di cattive abitudini portano i muscoli ad essere tesi. Un muscolo contratto stringe, costringe, blocca i nervi, che in quel momento possono funzionare peggio. Molti dei sintomi che riportano le pazienti con vulvodinia sono riconducibili all’ipertono del pavimento pelvico, ovvero a una contrattura della muscolatura, come un frequente tenesmo (contrazione dello sfintere vescicale, ndr), dolore in posizioni profonde, male all’inguine, sensazione di dover urinare spesso", aggiunge Benini. 

"Ribadisco, bisogna osservare la vulva. Troppo spesso ci si limita a fare il tampone e basta, che non sempre permette di vedere se c’è un’alterazione, un’infezione. Così si finisce per non curare. O peggio, si rischia di sentirsi dire ‘se ti fa male metti il lubrificante o cambia fidanzato, stringi i denti, sopporta’. E lo stesso accade con l’endometriosi", conclude l'ostetrica. 

E difatti, tornando a Giorgia Soleri, la modella si è fatta portavoce anche di questo tema legato alla salute femminile, altrettanto trascurato: l’endometriosi. Lei ne soffre sin dall’adolescenza, ma le è stata diagnosticata solo lo scorso anno, quando, finalmente, si è sottoposta all’intervento chirurgico che le ha permesso di conoscere “Un corpo nuovo, un corpo senza dolori”.

«Ho la Vulvodinia e nessuno mi crede». Alessia Ferri l'1 luglio 2021 su Vaniyfair.it. La Vulvodinia è una malattia invalidante, che colpisce molte donne ma che spesso si perpetua in un tessuto sociale e medico che invece di supportarle le isola. Pochi, infatti, gli specialisti che ne riconoscono l’esistenza e sanno come intervenire. Ne abbiamo parlato con chi soffre ogni giorno e con chi prova ad aiutarle. «Al settimo mese di gravidanza ho iniziato a sentire scosse e dolori fortissimi, come se una miriade di aghi bollenti mi trafiggessero la vagina esternamente. Ogni giorno, costantemente, anche di notte, senza sosta». Comincia così, tutto d’un fiato, il racconto di Alice Cussotto, che un momento prima si godeva l’attesa di un bambino, e quello successivo veniva scaraventata in un incubo al quale solo mesi dopo avrebbe saputo dare un nome: Vulvodinia.

COS’È LA VULVODINIA

La Vulvodinia è una sindrome cronica dolorosa, che colpisce il 16% circa delle donne (incidenza sotto stimata perché spesso non si arriva alla diagnosi), ma della quale si sa ancora pochissimo. I sintomi, infatti, possono essere diversi e vanno dalle sensazioni simili a punture di spillo o abrasioni nella zona vulvare, al dolore durante i rapporti sessuali, fino a disfunzioni nella minzione, bruciore, irritazione, secchezza a livello vaginale, percezione di avere tagli sulla mucosa e molto altro. Le cause non sono ancora note. A volte tutto parte dall’infiammazione del nervo pudendo ma gli imputati possono essere anche traumi, predisposizione genetica o infezioni batteriche. Alice fino al giorno della comparsa dei dolori lancinanti non aveva avuto avvisaglie. «Stavo benissimo ed ero serena quando è iniziato il calvario. Ricordo di aver cambiato mille medici e tutti mi parlarono erroneamente di candida, curandomi di conseguenza e peggiorando la situazione. Alla fine sono giunta alla diagnosi ma essendo incinta non potevo fare nulla, quindi ho convissuto con il dolore fino al parto, un cesareo programmato perché la via naturale sarebbe stata impossibile da percorrere». Successivamente è iniziato un percorso di cura a quella che, nel suo caso, si è rivelata un’infezione del nervo pudendo dovuta a un tipo di papilloma virus. «A distanza di un anno posso dire di aver provato di tutto, dai farmaci a punture di cortisone e lidocaina in vagina, alla fisioterapia. Oggi la situazione è un po’ migliorata, anche se alterno giorni sopportabili ad altri in cui il dolore non mi fa alzare da letto. Se penso al futuro non ho certezze, né per quanto riguarda la guarigione né il resto della mia vita. Sono ancora in maternità ma dopo non so come farò, adesso non riuscirei a lavorare». Le manifestazioni della Vulvodinia sono molto diverse tra loro e non per tutte sono costanti nelle 24 ore, tuttavia si tratta quasi sempre di una patologia invalidante, come confermato da Bruna Orlandi. «Mi sono ammalata nel 2010, a 33 anni. Ho sempre urinato più della norma ma null’altro. Poi un giorno, dopo una visita medica di approfondimento ho iniziato a stare male. Nel mio caso l’inizio di tutto è stato qualcosa di meccanico che ha provocato una sorta di tilt al corpo e, che mi ha portato a fare pipì 60 o 70 volte al giorno, arrivando a produrne anche oltre 4 litri». A quel punto per lei, come per quasi tutte le donne accomunate dalla patologia, al calvario fisico si è aggiunto quello emotivo.

IL PROBLEMA DI NON ESSERE CREDUTE

«Andavo dai medici e non venivo creduta. Oltre al problema della minzione, per il quale mi dicevano di bere meno, e del bruciore costante, provavo anche dolore durante i rapporti sessuali. Uno specialista mi suggerì di cambiare compagno, un altro che avrei dovuto divertirmi a letto e non farmi venire queste paturnie. Come se fosse tutto riconducibile a quella sfera e, soprattutto, fosse colpa mia». Bruna, che oggi grazie alla cura giusta sta molto meglio, Alice e molte altre, hanno dovuto quindi fare i conti anche con la solitudine. «Il primo passo è convincere chiunque, anche i familiari spesso, che non sei fuori di testa», commenta Paola che, sulla vicenda, ha scritto anche un libro, Nonostante libera, un atto di denuncia verso l’immobilismo del sistema medico e il racconto del senso di vuoto nel quale versano le vittime di Vulvodinia.

VULVODIANIA ONLINE AIUTA LE DONNE A RICONOSCERE LA PATOLOGIA

A cercare di farle sentire meno sole e, soprattutto, ad informarle, è nato il progetto Vulvodinia Online, che attraverso una campagna di informazione si pone l’obiettivo di far conoscere questa patologia il più possibile e di creare una rete tra donne, medici e società. «Il ritardo diagnostico può fare molti danni perché se non si individua per tempo, la Vulvodinia si cronicizza. Chi ce l’ha ma ancora non lo sa, spesso passa le notti su Google a cercare risposte ai propri dubbi, quindi abbiamo creato un sito dove descriviamo i sintomi più comuni con parole semplici», spiega Paola Nicoli, una delle responsabili dell’iniziativa che si sviluppa anche su Facebook e alla quale collabora l’AIV, Associazione Italiana Vulvodinia Onlus. «Molti medici non sono solo impreparati, ma non credono proprio nella malattia, mentre noi siamo qui per dire che esista eccome. Fino a quando questo concetto non verrà chiarito, sarà impossibile anche far fronte a un altro problema: il fatto che la Vulvodinia non sia riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale, e che quindi ogni spesa per le cure sia a carico delle pazienti».

IL PROBLEMA DELLA MEDICINA DI GENERE

Il 7 aprile 2021 è stata depositata alla Camera dei Deputati la proposta di legge per riconoscere la vulvodinia come malattia invalidante, ma in attesa che ciò accada la lotta è anche di genere. Già perché dietro alla reticenza a parlarne nei termini appropriati c’è, come spesso accade quando si affronta il tema della salute femminile, l’ombra del patriarcato. Il primo errore è quello di associarla solo al dolore durante i rapporti sessuale, aspetto molto comune ma non sempre presente e unico. «Da lì si perpetua la visione maschilista secondo cui se un problema in ambito sessuale femminile non abbia a che fare con la riproduzione sia secondario. Si tratta di un fattore culturale che sia la società civile sia la classe medica si trascina da anni. La sessualità delle donne è sempre stata poco indagata, basti pensare che il funzionamento della clitoride è studiato nel dettaglio da pochi decenni e che per anni si sia parlato di Isteria. Non è esagerato pensare che se la stessa malattia, a specchio, avesse colpito gli uomini, forse una soluzione ci sarebbe già o l’impegno nel trovarla sarebbe maggiore. Le medicina di genere è una questione enorme e il modo in cui la Vulvodinia viene trattata ne è un chiaro esempio», conclude Paola Nicoli.

Vulvodinia, la storia di Beatrice Maddalena. Iacopo Melio incontra Beatrice, che a 25 anni ha iniziato a soffrire della «malattia fantasma». Ecco il suo racconto, tra la difficoltà (e l'importanza) di ottenere una diagnosi e il lungo percorso di guarigione per riuscire tornare a una vita normale. IACOPO MELIO il 7 febbraio 2022 su Vaniyfair.it

«I primi dolori sono iniziati nel 2016, quando avevo venticinque anni. Mi trovavo in vacanza con il mio ex fidanzato e durante un rapporto intimo ho iniziato a percepire dolori lancinanti, come se degli spilli mi stessero pungendo».

Beatrice Maddalena ha trent’anni, vive a Milano ed è bella come il sole. Lo è per l’entusiasmo che mette in ogni singola parola, e lo tocco con mano quando mi parla di un aspetto tremendo ma con una leggerezza persistente, mai superficiale, anzi, seria e consapevole. Ma sollevata, serena.

«Era una sensazione mai provata prima, e poi non conoscevo l’esistenza della “vulvodinia”, per questo in un primo momento ho pensato che il mio malessere fosse legato a una candidosi. Dopo mesi, però, ho continuato a sentirmi male e i rapporti si sono azzerati per il dolore».

Beatrice è laureata in Lingue e Letterature straniere, e la sua passione per il mondo accademico l’ha portata a lavorare come “advisor” per una prestigiosa Business School americana. Ma non è per raccontarmi della sua brillante carriera che mi ha scritto, bensì come sia riuscita ad affrontare una malattia fin troppo comune ma della quale, purtroppo, non si parla abbastanza.

«Talvolta faticavo a rimanere seduta per molto tempo. Non riuscivo ad andare in bicicletta né a correre. La patologia mi è stata diagnosticata per la prima volta verso la fine del 2017 dal Dottor Riccardo Viganò, specialista milanese che lavora anche al San Raffaele, che ringrazierò sempre di cuore per avermi supportato all’inizio del mio percorso di guarigione».

Già, «guarigione», perché questo è ciò che Beatrice Maddalena vorrebbe comunicare a chi si trova nella sua stessa situazione: se da un lato la medicina parla raramente di guarigione completa, dall’altro serve ribadire che raggiungere una soddisfacente qualità di vita è possibile. E iniziare per tempo un percorso mirato può fare la differenza:

«È stato il Dottor Viganò a prescrivermi integratori a base di Palmitoiletanolamide. Dopo un iniziale miglioramento, ho avuto ricadute a causa probabilmente di una brutta varicella e dell’assunzione della pillola antinconcezionale, che mi causava una forte secchezza vaginale e non contribuiva alla guarigione del disturbo. Mi sono rivolta successivamente al Dottor Murina e al Dottor Nelva Stellio dell’Ospedale Buzzi, che insieme al Dottor Tassan e alle ostetriche del Centro Medico Santagostino, sempre di Milano, mi hanno aiutata a guarire grazie a un approccio multidisciplinare: respirazione diaframmatica, tens, integratori e farmaci. Ho inoltre iniziato - e ormai terminato - una terapia con uno psicoterapeuta, che è stato per me un validissimo supporto per combattere il disturbo e affrontarlo nel quotidiano». 

Nomi, cognomi e cliniche, sono quelli che Beatrice, con sicurezza, intende dichiarare visti i risultati raggiunti con un percorso strutturato, fatto anche di aiuti esterni rispetto alle normali terapie farmacologiche, comunque fondamentali. «Personalmente ho riscontrato benefici e miglioramenti grazie allo yoga. Per questo utilizzo un’app poco costosa e davvero divertente che consiglio a tutte, si chiama «DownDog»: si possono eseguire esercizi anche per quindici minuti al giorno scegliendo la pratica che si vuole. In questo caso consiglio sempre di non fare sforzi fisici eccessivi ma di scegliere pratiche rilassanti, come ad esempio lo “Yin”. Inoltre mi alleno in piscina una volta alla settimana per circa quaranta minuti, seguo una dieta equilibrata e povera di zuccheri, evito latticini, caffè, alcol e cibi ricchi di ossalati… E poi indosso quasi sempre biancheria intima bianca e di cotone!».

L’entusiasmo con cui Beatrice elenca quelli che, alla fine, sono consigli dettati dalla sua unica e personale esperienza, è dovuto appunto alla sua idea che, con una corretta terapia, si possa tornare a fare la vita che si è sempre fatto, seppur con dei piccoli accorgimenti. Ovviamente, in base alla gravità della patologia e al ritardo impiegato nel diagnosticare il disturbo: «Ciò che mi sento di consigliare alle altre ragazze è cercare di ottenere una corretta diagnosi il prima possibile, e di seguire con impegno e costanza il proprio percorso di guarigione. Io per stare meglio ci ho impiegato circa tre anni. Ma la qualità di mia vita è oggi ottima: faccio quello che ho sempre fatto, ogni giorno, solo con qualche piccola attenzione».

Qualche lieve fastidio è tornato, ammette, soprattutto durante l’estate o in periodi di stress, che però è sempre riuscita a gestire con tranquillità, senza nemmeno il bisogno di ricorrere ai farmaci. Un eccesso di fortuna o cure giuste nel momento giusto? Nessuno può dirlo con certezza, di sicuro la sua forza l’ha aiutata: «Nei momenti più bui è stato fondamentale fare affidamento sulla volontà di stare bene, mantenendo (per quanto sia possibile) un atteggiamento positivo. Purtroppo la vulvodinia è ancora un disturbo poco conosciuto e spesso sottovalutato o trascurato nel campo medico e da chi ci circonda, probabilmente per ignoranza. La mia famiglia e i miei amici si sono però sempre impegnati nello starmi vicino, ma la verità è che solo chi soffre di questo può capire davvero cosa si prova».

In tutto questo, cosa e come è cambiato nella sua vita affettiva?

«Durante gli anni in cui ho sofferto di vulvodinia ho fatto molta fatica a gestire la mia relazione, che poi è anche terminata seppur per altri motivi, oltre naturalmente a quello legato all’intimità di coppia. La vulvodinia è un disturbo che può complicare le relazioni ed è difficile da gestire, sia per coloro che ne sono affette sia per gli eventuali partner. È davvero importante cercare di restare il più uniti possibili, facendosi forza a vicenda. Tuttavia, sono convinta che se un rapporto è forte, gli ostacoli si possono superare: insieme».

Sono stati anni complessi per lei, indubbiamente quelli più duri della sua vita. Ha cercato di non darsi per vinta nonostante gli ostacoli e il dolore, sia fisico che psicologico. Ha imparato e gestire la sua emotività e a non arrendersi mai, uscendone molto più forte. «Una sofferenza è sempre una sofferenza, ma ciò che non ci uccide ci rende più forti e soprattutto più consapevoli, sia del nostro corpo che della nostra persona. E ho anche imparato a dare più importanza alla relazione tra mente e corpo».

Infine, un messaggio a chi si è ritrovata nelle sue parole: «Affidatevi a un ginecologo esperto di vulvodinia e intraprendete subito un percorso di guarigione. Nel mio piccolo, sono sempre a disposizione per supportare chi ha bisogno di consigli o conforto: so che cosa state vivendo e vi sono vicina, con tutto il cuore. Per questo vi chiedo di non smettere mai di credere che in un futuro vicino possiate tornare a vivere la vita di prima».

Vulvodinia, quella patologia invisibile che la sanità italiana deve riconoscere.  La Vulvodinia e la Neuropatia del pudendo sono spesso invalidanti ma ancora non riconosciute dal Servizio Sanitario Nazionale. Per questo alcune associazioni hanno formulato una proposta di legge perché le cose cambino, e in fretta. ALESSIA FERRI l'11 novembre  2021 su Vaniyfair.it

«Ho la Vulvodinia e nessuno mi crede». La Vulvodinia è una malattia invalidante, che colpisce molte donne ma che spesso si perpetua in un tessuto sociale e medico che invece di supportarle le isola. Pochi, infatti, gli specialisti che ne riconoscono l’esistenza e sanno come intervenire. Ne abbiamo parlato con chi soffre ogni giorno e con chi prova ad aiutarle

Esiste il Covid? Chiedetelo a me che ho la fibromialgia. Non è una semplice influenza come dite. Roberta brunetti su La Voce di Manduria - giovedì 03 febbraio 2022.

Voi potete fare quello che volete, ognuno è libero di fare le sue scelte, vax, no vax, a me non importa, sono contenta che mia mamma mi abbia cresciuta facendo i vaccini, altrimenti io a quest'ora con tutte le patologie che ho, non sarei neanche viva. Volevo solo dire due paroline a quelle persone che fanno tanto i dottori, sia sui social (come Facebook ad esempio), sia nella vita reale. Quando dite che il Covid non esiste, che è una cavolata dettata dal governo solo per fare soldi, vi sbagliate di grosso. Il governo ci può anche mangiare belli miei, ma il Covid esiste davvero, mi dispiace smentire le vostre convinzioni del cavolo!

Non è una semplice influenza come dite. Può essere semplice solo per chi è asintomatico o lo prende in forma leggera. Non è semplice per chi ha la fibromialgia come me, perché ti colpisce le ossa, i muscoli, in particolare le gambe e i polsi.

Non è semplice avere dolori al petto e non riuscire a respirare, non riuscire quasi a camminare perché sei piena di dolori, avere continuo mal di testa, affogarti perché sei piena di muchi, non riuscire ad avere le forze neanche per alzarti e andare in bagno, e non è tutto, perché questi sintomi che ho avuto, sono pochi rispetto a chi è finito in terapia intensiva intubato o a chi di questo virus è morto.

E mi dispiace anche dire che purtroppo quando hai il Covid, dopo non si è più gli stessi, almeno per me. I postumi Covid mi rimarranno. Non andranno più via. E poi vorrei vedere voi paladini della giustizia convivere ogni giorno con tutte le ossa spezzate e i dolori muscolari, vedervi fare tutte le attività quotidiane in quel modo.

Quanti come me hanno la fibromialgia? E ho solo 20 anni. Il covid non guarda in faccia nessuno. Ne bambini, ne giovani e ne adulti. Spesso non mi sono espressa su questo argomento, solo perché non mi va di stare a perdere tempo con gente ignorante che non capirebbe il mio discorso, ma adesso che ho avuto il covid, ho capito che anche uscire fuori e buttare la spazzatura è un segno di sollievo.

Non è facile stare chiusa 28 giorni in casa, senza neanche poterti affacciare dalla finestra. Ma non perché in casa non puoi fare nulla, sono le condizioni in cui stai in salute che non ti permettono di goderti il tempo in modo corretto in casa. Il covid uccide sia fisicamente che psicologicamente.

Parlate tanto di green pass e non green pass, anche io non sono d'accordo su questa distinzione, ma quando dite: "sta succedendo come gli ebrei", "meglio che venga un terremoto", siete delle capre ignoranti perché non potete paragonare minimamente tutto ciò a quello che hanno vissuto le vittime dell’olocausto o le famiglie distrutte dal terremoto. Parlate, giudicate la gente che si vaccina, le persone che hanno un’attività che seguono le regole, parlate parlate e parlate, e sapete perché parlate? Perché se parlate e manifestate, avete il culo coperto, ecco perché. Una persona che ha un’attività in cui ha impiegato anni e anni di sacrifici per metterla su, non può permettersi di andare a manifestare e rischiare di chiudere o perdere tutto, perché così quelle persone che hanno una famiglia, non mangiano più e non danno da mangiare neanche alle persone che ci lavoro li per loro.

Scende in piazza a manifestare e mettersi contro lo Stato, solo chi ormai ha già perso tutto, e quindi se fallisce l'attività automaticamente non ha niente da perdere. Detto ciò, non mi importa di ciò che voi volete fare della vostra vita, però almeno un po' di rispetto per tutti.

Roberta Brunetti

·        La Sla, sclerosi laterale amiotrofica.

Sla, sclerosi laterale amiotrofica: quali sono i sintomi iniziali della malattia. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022.

La patologia neurodegenerativa progressiva colpisce i motoneuroni, cioè le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della muscolatura volontaria. Come si arriva alla diagnosi dopo i segni di esordio

La denuncia

In occasione della Giornata nazionale Sla, che ricorre il 18 settembre, quest’anno l’Associazione italiana dei pazienti – AISLA denuncia: con l’avanzare della malattia diventano necessarie apparecchiature elettromedicali spesso salvavita, ma alcune di queste non sono comprese nell’elenco che dà diritto al «bonus elettricità». «Dalle segnalazioni verificate dal nostro Dipartimento socio-sanitario – spiega Fulvia Massimelli, presidente nazionale AISLA – è emerso che la “macchina della tosse” e il “comunicatore oculare” non rientrano nell’elenco che consente di ottenere il bonus “elettricità”. Lo abbiamo segnalato alla segreteria tecnica del ministero della Salute e ci hanno assicurato che stanno lavorando per far sì che queste apparecchiature siano inserite nell’elenco che dà diritto alle agevolazioni» (QUI le altre iniziative di sostegno legate alla giornata nazionale).

Che cosa è la Sla

La Sla, sclerosi laterale amiotrofica, è una malattia neurodegenerativa che provoca una degenerazione dei motoneuroni, le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della muscolatura scheletrica. La Sla presenta una caratteristica che la rende particolarmente drammatica: pur bloccando progressivamente tutti i muscoli, non toglie la capacità di pensare e la volontà di rapportarsi agli altri. La mente resta vigile ma prigioniera in un corpo che diventa via via immobile (fonte Aisla e Arisla)

I sintomi

I primi segni della malattia possono essere abbastanza differenti nelle diverse persone, spesso includono debolezza muscolare o rigidità. Una persona potrebbe avere difficoltà ad afferrare una penna o sollevare una tazza di caffè, mentre un’altra persona potrebbe sperimentare un cambiamento nel tono della voce quando parla. I sintomi possono iniziare nei muscoli che controllano la parola e la deglutizione o nelle mani, braccia, gambe o piedi. Non tutte le persone con SLA sperimentano gli stessi sintomi o la stessa sequenza di progressione. La progressione, infatti, non è sempre una linea retta. Non è infrequente avere periodi che durano da settimane a mesi in cui c’è poca o nessuna perdita di funzione. Generalmente alla progressione della debolezza e della paralisi muscolare degli arti e del tronco segue la debolezza dei muscoli che controllano le funzioni vitali come la parola, la deglutizione e la respirazione (fonte Aisla e Arisla).

La progressione

La velocità con cui la Sla progredisce può essere abbastanza variabile da una persona all’altra. Sebbene il tempo medio di sopravvivenza sia tra i tre a i cinque anni, molte persone vivono dieci o più anni. Quando i muscoli respiratori sono colpiti, alla fine, è necessario un supporto ventilatorio permanente per assistere la respirazione. Poiché la Sla attacca solo i motoneuroni, non compromette gli organi interni (cuore, fegato, reni) e anche il senso della vista, del tatto, dell’udito, del gusto e dell’olfatto non sono influenzati. Per molte persone, i muscoli degli occhi e della vescica non sono generalmente compromessi (fonte Aisla e Arisla).

Le cause

In oltre il 90% dei casi la malattia è sporadica e sulle sue cause non c’è ancora certezza. Il 5-10% dei casi sono di Sla familiare, presentano cioè dei precedenti in famiglia. È comunque ormai accertato che la Sla non è dovuta a una singola causa, ma è determinata dal concorso di più circostanze. Esiste una predisposizione genetica: sono stati individuati ormai oltre 20 geni le cui mutazioni sono coinvolte nello sviluppo della malattia. Tali mutazioni tuttavia sono state riscontrate anche in soggetti che nel corso della loro vita non hanno sviluppato la Sla per un fenomeno che viene denominato «penetranza incompleta». Questo significa che il ruolo delle mutazioni geniche oggi note può essere considerato quello di contribuire allo sviluppo della malattia.

La diagnosi

La Sla è una malattia difficile da riconoscere. Oggi non esiste alcun test o procedura per confermare senza alcun dubbio la diagnosi. È attraverso un attento esame clinico, ripetuto nel tempo da parte di un neurologo esperto, e una serie di esami diagnostici per escludere altre patologie che emerge la diagnosi. La Sla in genere progredisce lentamente e la gravità può variare molto da un paziente all’altro.

Le cure

Al momento non esiste una terapia capace di guarire la Sla: ad oggi sono solo due i farmaci indicati per la Sla, il riluzolo e l’edaravone, che possono rallentare il decorso della malattia di pochi mesi. Anche la ricerca sulle cellule staminali non ha dato i risultati sperati. Attualmente, la principale cura dei pazienti è l’intervento tempestivo per gestire i sintomi. Tuttavia, grazie al supporto degli ausili tecnologici, la maggiore consapevolezza delle esigenze dei pazienti e l’aumento dei centri clinici specializzati, la qualità della vita dei pazienti è molto migliorata nel corso degli anni. Per maggiori informazioni sulla cura e l’assistenza della SLA, visitare l’Associazione italiana dei pazienti – AISLA. L’associazione intende offrire un sostegno concreto a pazienti e famiglie, attraverso una presenza capillare su tutto il territorio nazionale, in sinergia con le organizzazioni nazionali e internazionali e con le istituzioni sanitarie (fonte Aisla) e Arisla).

·        La Sclerosi Multipla.

Una scoperta rivela: "Legame tra la sclerosi multipla e il virus della mononucleosi". Gerry Freda il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Dietro una diagnosi di sclerosi si celerebbe un'infezione da virus di Epstein-Barr, ossia da un herpes che causa la mononucleosi.

Una recente ricerca scientifica sembra avere fatto luce sulla causa della sclerosi multipla, malattia cronica autoimmune che provoca nelle persone la progressiva perdita dell'uso degli arti, fino alla completa paralisi. Lo studio in questione è stato pubblicato giovedì 13 gennaio sulla rivista Science ed è stato diretto da Alberto Ascherio, professore di epidemiologia e nutrizione alla Harvard Chan School. A detta degli autori della pubblicazione, la Sla potrebbe essere causata da un virus comune, ossia da quello che si cela dietro la "malattia del bacio".

Lo studio diretto dal professor Ascherio suggerisce infatti che la malattia neurologica cronica potrebbe provenire da un'infezione di Epstein-Barr, un virus dell'herpes che causa la mononucleosi infettiva. Quest'ultima consiste in una febbre ghiandolare ed è nota in gergo come "malattia del bacio" per il fatto che si trasmette molto facilmente attraverso la saliva.

Il virus di Epstein-Barr, che provoca generalmente affaticamento, febbre, eruzioni cutanee e ghiandole gonfie, potrebbe anche alla lunga, hanno constatato gli autori della recente ricerca, predisporre un'infezione latente e permanente nel corpo umano, che potrebbe essere una delle principali cause della sclerosi multipla.

Per arrivare a tale conclusione, il team di scienziati diretto da Ascherio ha esaminato 955 giovani adulti a cui era stata diagnosticata la sclerosi multipla mentre prestavano servizio attivo nell'esercito. Grazie all'analisi in questione, gli esperti hanno scoperto che il rischio di sclerosi multipla aumenta di 32 volte dopo avere avuto l'herpes di Epstein-Barr. Nessun altro virus aumenterebbe la probabilità di sviluppare la malattia autoimmune incriminata. Dal dato emerso analizzando quelle reclute, i ricercatori sono poi arrivati alla conclusione per cui il ritardo tra la contrazione del virus della mononucleosi e lo sviluppo dei sintomi della sclerosi potrebbe essere dovuto alla stimolazione ripetuta del sistema immunitario appena il virus latente si riattiva. Progressivamente, la "malattia del bacio" fa sì che il sistema immunitario attacchi i neuroni nel cervello e nel midollo spinale, danneggiando permanentemente il sistema nervoso centrale fino a trascinare le persone verso uno stadio avanzato di sclerosi.

Il professor Ascherio ha quindi evidenziato l'importanza della scoperta effettuata dalla sua équipe, affermando: "L'ipotesi che l'herpes causi la Sclerosi Multipla è stata studiata dal nostro gruppo e da altri per diversi anni, ma questo è il primo studio che fornisce prove convincenti di causalità. Questo è un grande passo perché suggerisce che la maggior parte dei casi di Sclerosi Multipla potrebbe essere prevenuta fermando l'infezione da Epstein-Barr e che prendere di mira questo virus potrebbe portare alla scoperta di una cura".

Tuttavia, i medesimi esperti hanno subito messo in chiaro che è quasi impossibile stroncare la circolazione del virus della "malattia del bacio", che sarebbe alla base dello sviluppo della Sla. Fermare l'herpes, nel dettaglio, sarebbe estremamente difficile per il fatto che circa il 95% degli adulti è ad oggi infetto dal microbo della mononucleosi. Ascherio ha comunque voluto lasciare intravedere uno spiraglio di speranza in tema di prevenzione: "Attualmente non c'è modo di prevenire o curare efficacemente l'infezione da 'malattia del bacio', ma un vaccino contro l'EBV o il targeting del virus con farmaci antivirali specifici potrebbero in definitiva prevenire o curare la sclerosi".

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

·        Il Cuore.

«Ho il colesterolo alto ma non prendo farmaci: ogni quanto devo controllare il cuore?». Pietro Palermo su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Vanno valutate la presenza, o la necessità di verificare, i fattori di rischio cardiovascolare e l’eventuale comparsa di sintomi

Ho 49 anni e il colesterolo alto: per fortuna ho anche l’HDL, ovvero il colesterolo «buono», abbastanza elevato. Non fumo e non bevo, seguo una dieta sana. Non assumo statine auspicando che, riprendendo lo sport (corsa di 40/50 minuti, 4/5 volte a settimana), il problema si possa contenere. Temo che i farmaci siano epatotossici e non mi rassegno all’idea di invecchiare. Nella mia situazione, con quale frequenza dovrei fare un controllo al cuore?

Risponde Pietro Palermo, responsabile Unità Cardiologia riabilitativa, Centro cardiologico Monzino, Milano

Innanzitutto una precisazione sul valore di colesterolo che, come ha ben sottolineato, va tenuto sotto controllo in quanto è uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare. Le linee guida internazionali specificano che i valori di colesterolo LDL (low density lipoprotein) che è il cosiddetto colesterolo «cattivo», debba essere al di sotto di alcuni valori target stabiliti in base ai fattori di rischio del paziente. Esistono delle specifiche tabelle (score), un sistema di valutazione del rischio per eventi cardiovascolari fatali a dieci anni che prende in considerazione il valore della pressione arteriosa sistolica, il valore del colesterolo totale e l’abitudine al fumo (tabelle distinte per uomo e donna). Per soggetti con un basso rischio cardiovascolare è consigliato avere un colesterolo LDL inferiore ai 116 mg/dl.

I soggetti che invece in anamnesi hanno una malattia cardiovascolare già documentata, i pazienti con ipercolesterolemia familiare, i diabetici e coloro che presentano più fattori di rischio, insieme a coloro che hanno insufficienza renale cronica, sono considerati a rischio alto o molto alto. Il valore di colesterolo LDL raccomandato in questi pazienti è rispettivamente inferiore a 70 mg/dl (rischio alto) e inferiore a 55 mg/dl (rischio molto alto). Per coloro che hanno avuto una recidiva di malattia cardiovascolare negli ultimi due anni il valore scende a meno di 40 mg/dl. L’obiettivo per ogni soggetto è da perseguire con le raccomandazioni sullo stile di vita, la dieta, l’attività fisica e - se occorre - con la prescrizione di farmaci. Le statine sono una delle opzioni, ma esistono oggi diverse alternative farmacologiche.

Lei ha sottolineato la possibilità di un effetto tossico delle statine sul fegato. Più appropriato parlare di effetti collaterali o di non tolleranza del farmaco, che può dare anche dolore ai muscoli. Non succede a tutti ma solo a una minoranza di pazienti e in tal caso si cambia strategia terapeutica. Il beneficio della riduzione del colesterolo LDL è di gran lunga maggiore del rischio di avere alcune intolleranze. Lei dice inoltre che ha ripreso a fare attività fisica dopo un periodo di inattività. Tenga presente che praticare movimento in modo regolare conduce ad avere un effetto positivo sui valori di pressione arteriosa e una significativa riduzione della frequenza cardiaca a parità di carico di lavoro eseguito. Infine, da non sottovalutare, è un effetto positivo sulla psiche, dato che si genera benessere.

L’allenamento regolare porta anche ad avere brevi tempi di recupero della frequenza cardiaca dopo un esercizio. Unico accorgimento: la ripresa dell’allenamento, dopo un periodo di inattività, va fatta in modo graduale e costante. Infine, ogni quanto fare un controllo dal cardiologo? Dipende dalla presenza e dalla necessità di controllare i fattori di rischio cardiovascolare e dall’eventuale comparsa di sintomi da indagare. Per un cinquantenne che, come lei, è particolarmente attento allo stile di vita (e in caso di ecocardiogramma normale), è sufficiente controllare il quadro lipidico, con la collaborazione del medico di famiglia, e vedere il cardiologo una volta all’anno o ogni due anni. 

Da “il Messaggero” il 12 gennaio 2022.  

Consumare più di 7 grammi (una quantità superiore a mezzo cucchiaio) di olio d'oliva al giorno è associato a un minor rischio di mortalità per malattie cardiovascolari, per cancro, malattie neurodegenerative e respiratorie. Come si legge in uno studio pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology. 

Il lavoro ha rilevato che la sostituzione di 10 grammi al giorno di margarina, burro, maionese e grasso di latte con la quantità equivalente di olio d'oliva è associata a un minor rischio di patologie gravi. I ricercatori hanno analizzato 60.582 donne e 31.801 uomini statunitensi privi di malattie cardiovascolari e non colpiti da tumore all'inizio della ricerca nel 1990. Durante i 28 anni di follow-up, è stata valutata la dieta.

Il questionario chiedeva con quale frequenza si consumassero determinati alimenti, grassi e oli. Nonché di quale tipo si utilizzassero per cucinare e aggiungessero a tavola. Quando i ricercatori hanno confrontato coloro che consumavano raramente o mai olio d'oliva con chi si trovava nella categoria di consumo più alto è emerso che questi ultimi avevano il 19% in meno di rischio di mortalità cardiovascolare, il 17% in meno per cancro, il 29% in meno per patologie neurodegenerativa e il 18% in meno per quelle respiratorie.

Malattie cardiache, ecco i farmaci che possono aumentare il rischio decesso: la sentenza nello studio. Libero Quotidiano il 12 gennaio 2022.

Potrebbe esserci un'associazione tra i trattamenti contro depressione e ansia e le patologie cardiovascolari: lo rivela una ricerca danese coordinata da Pernille Fevejle Cromhout dell’Ospedale Universitario di Copenaghen. Lo studio - citato da Repubblica - segnala non solo l'importanza di una valutazione psicologica per le persone che hanno delle malattie cardiache, ma anche la necessità che il cardiologo tenga in considerazione l'eventuale assunzione di farmaci per problemi della psiche. 

Stando all’indagine, inoltre, pare che farmaci di questo tipo siano diffusi soprattutto tra le donne, gli anziani, i fumatori, chi vive da solo e chi ha minori livelli di istruzione. Lo studio ha analizzato ben 12.913 pazienti ricoverati per cardiopatia ischemica, aritmie, insufficienza cardiaca o cardiopatia valvolare. Questi ultimi hanno completato un questionario dopo essere stati dimessi dall'ospedale. In particolare, si sono valutate le informazioni sul consumo di farmaci, traendo i numeri dai registri nazionali. Così si è scoperto che il 18% dei pazienti, quasi uno su cinque, aveva avuto la prescrizione di almeno una confezione di farmaci destinati ad agire sullo stato psicologico, come le benzodiazepine e i classici antidepressivi.

“I pazienti con malattie cardiache che soffrono di ansia dovrebbero informare gli operatori sanitari coinvolti nel loro trattamento come farebbero con qualsiasi altra condizione coesistente - si legge nello studio -. E dovrebbero anche chiedere che la loro ansia sia riconosciuta come importante e pari rispetto alla loro malattia cardiaca".

·        I Polmoni.

Estratto dell'articolo di Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 20 Novembre 2022. 

Siamo l'aria che respiriamo, e non solo il cibo che mangiamo, come diceva il filosofo tedesco Ludwig Feurbach.

A ricordarcelo è la Società Italiana di Pneumologia che, a Catania, ha appena concluso il suo congresso annuale. Messaggio ancora più valido oggi che i polmoni ricevono attacchi da più fronti: Covid, Long Covid, influenza, freddo, scambio di virus e batteri più frequente degli scorsi anni in cui indossavamo le mascherine. Come proteggerli? Primo passo: respirare aria pulita più che si può. 

«Il Covid afferma il professor Carlo Vancheri, presidente della Società Italiana di Pneumologia - ci ha fatto capire quanto siano importanti i nostri polmoni. È dunque importante controllarli regolarmente prima che si ammalino, attraverso una visita pneumologica e la spirometria che ci dà un'indicazione importante della salute dei polmoni.

È fondamentale proteggerli. Sul lavoro va evitata l'inalazione di gas, pesticidi, idrocarburi e fertilizzanti; in casa, fare attenzione ai prodotti per la pulizia, ma anche a candele profumate, bastoncini d'incenso, diffusori di fragranze per l'ambiente, che possono rilasciare molecole irritanti per i polmoni, pericolose soprattutto per chi soffre d'asma e allergie respiratorie».

LE POLVERI La pandemia, dunque, ha focalizzato l'attenzione su un organo spesso ignorato. Eppure, nel nostro Paese, il numero dei pazienti con patologie pneumologiche non è basso: il 5% della popolazione soffre di asma, con punte del 7-8% in età pediatrica, il 10% ha la broncopneumatia cronica ostruttiva (Bpco).

(…) Molto importante è anche riconoscere i campanelli d'allarme. Da non sottovalutare segnali che possono arrivare dalle vie respiratorie: mancanza di fiato, tosse frequente o cronica, iperproduzione di muco, respiri con sibilo o rantoli. (…)

Una delle malattie polmonari croniche più diffuse tra gli italiani è la BPCO, che si manifesta con tosse, secrezioni bronchiali persistenti e difficoltà respiratorie (dispnea), prima solo da sforzo, poi anche a riposo. (…)

Ma con l'approssimarsi dell'inverno e la rimozione delle mascherine, a preoccupare sono anche le malattie virali caratteristiche di questo periodo, dall'influenza, al Covid-19, all'infezione da virus respiratorio sinciziale che colpisce i più piccoli, ribattezzate dagli americani la tripledemic del prossimo inverno. 

Cambiare le abitudini? L'attività fisica è sicuramente uno scudo per i polmoni, anche se si hanno piccoli problemi. Ogni programma di esercizio deve essere strutturato nel tempo per permettere all'organismo di adattarsi. È importante svolgere l'attività fisica al proprio ritmo. Se si arriva a farsi mancare il fiato tanto da non riuscire a parlare, rallentare il ritmo o, se necessario, fare una breve pausa.

Polmoni: come mantenerli efficienti a lungo. I consigli pratici (anche) per la respirazione. Anna Fregonara su Il Corriere della Sera il 10 novembre 2022.

Respiriamo 23mila volte al giorno, senza accorgercene. Un intenso lavoro per i nostri polmoni che abbiamo «riscoperto» con la pandemia di Covid-19, eppure non pensiamo mai a come mantenerli efficienti a lungo. Un po’ come capita ai reni, i polmoni sono un organo «brutto anatroccolo»: si ignora, per esempio, che a causa dello stress ossidativo possono invecchiare, anche più rapidamente dell’organo esterno per eccellenza, la pelle. Di questo si è parlato al Tempo della Salute, in un incontro con Maria Pia Foschino Barbaro, professore ordinario malattie apparato respiratorio Università di Foggia, Mike Maric, ex campione mondiale di apnea, medico specialista e docente all’Università di Pavia e Lisa Migliorini, runner, influencer e fisioterapista.

Quanto ne sanno gli italiani

«Circa 1 italiano su 3 non è soddisfatto della salute dei propri polmoni. La percentuale aumenta tra i fumatori (54%) e tra chi vive in aree inquinate (35%)», spiega la professoressa Barbaro, facendo riferimento ai dati emersi dall’indagine sulla nostra salute polmonare condotta nell’ambito della campagna educazionale «Proteggi i tuoi polmoni», promossa da Zambon Italia. «Quando i soggetti riconoscono che la salute dei propri polmoni non è ottimale avvertono in misura maggiore una serie di disturbi: senso di affaticamento (il 60%, più 17 punti percentuali rispetto alla popolazione generale), mancanza di fiato (54%, +25 punti), disturbi del sonno (59%, +18 punti), tosse frequente o cronica (53%, +29 punti), iperproduzione di muco (51%, +26 punti), respiri con sibilo o rantoli (48%, +29 punti). L’aspetto positivo è che 3 su 4 vorrebbero saperne di più».

Come invecchiano

L’apparato respiratorio raggiunge il suo pieno sviluppo attorno ai 25 anni. «Dopodiché, con il passare del tempo, i polmoni cominciano a perdere gradualmente la loro funzionalità, anche in assenza di malattie», prosegue Barbaro. «Inoltre, con l’avanzare dell’età anche il sistema immunitario perde la sua capacità di organizzare una difesa cellulare efficace contro le infezioni e il risultato finale è l’accumulo di radicali liberi. Esposizioni a fattori di rischio come fumo di sigaretta, inquinamento ambientale, domestico e professionale possono determinare la produzione di sostanze ossidanti, veleni delle cellule che innestano stress ossidativo e processi infiammatori, condizioni che si amplificano a vicenda e che sono presenti in tante malattie croniche di oggi».

Così si aiutano i polmoni

«Il primo passo per rallentare il declino della funzionalità polmonare è smettere di fumare: con la prima boccata inaliamo 19 miliardi di radicali liberi. Non è mai troppo tardi smettere, a qualunque età», prosegue Barbaro. «Per aumentare, invece, la capacità dei tessuti di eliminare i radicali liberi e favorire una risposta più efficace alle invasioni batteriche e virali è importante acquisire buone abitudini: movimento, corretta respirazione e alimentazione varia e sana ricca di antiossidanti, quindi con molta frutta e verdura. Il glutatione, prodotto dal fegato, è il principale antiossidante delle nostre cellule ed è la chiave per contrastare lo stress ossidativo e per incrementare le capacità di difesa immunitaria. Un suo deficit può comportare un maggiore rischio di danno polmonare. Per questo è importante rigenerarlo e accrescere le riserve endogene. A proposito dell’inquinamento domestico, invece, impariamo a ventilare i locali e a mantenere puliti i filtri del condizionatore».

Respiro e sport

«Il respiro è il grande alleato per gestire lo stress, le emozioni, l’ansia quotidiana», aggiunge l’atleta Migliorini. «Il trucco è imparare la respirazione diaframmatica: il diaframma è il muscolo principale artefice del buon respiro. Inserire esercizi mirati di corretta e consapevole respirazione, accanto a trattamenti riabilitativi ed esami medici, aiuta a migliorare la sintomatologia delle cervicalgie, per esempio. Inoltre, una cattiva respirazione penalizza la performance atletica. Quando corro e mi sento in affanno adotto un trucco: espiro con un tempo più lungo rispetto all’inspirazione, in questo modo interrompo il ritmo e ricomincio con uno nuovo ciclo di respirazione che sarà certamente migliore».

Il miglior antistress

«Nonostante sia così semplice respirare, molti lo fanno male». Parola del campione del mondo di apnea (ha trattenuto il fiato per 6 minuti e 15 secondi) Maric che ha fatto del respiro una professione diventata anche la trama di Broken Breath, il docufilm che racconta la sua storia, finalista all’Ocean Film Festival World Tour. «Anche a me è capitato di perdere il fiato quando nel 2005 il mio migliore amico, Filippo, con il quale sarei dovuto partire il giorno successivo, è andato in mare e non è più uscito da quel mare. Da quel giorno mi è venuta paura di uscire di casa, mangiavo solo gelato, ho cominciato a soffrire di insonnia. Come ho superato quel momento difficile? Lavorando sul respiro e sulla mente, strumenti che permettono di andare oltre i propri limiti anche nella vita di tutti i giorni. Dovremmo imparare a “orientalizzarci” perché la respirazione aiuta a combattere il mal di schiena, i disturbi legati alla postura scorretta, i problemi di digestione. Il respiro ridà equilibrio, connette con le emozioni, consente di vivere meglio, di combattere lo stress. È la principale forma di autocontrollo, è un meraviglioso regolatore delle nostre emozioni».

·        I calcoli renali.

DAGONEWS il 14 settembre 2022.  

Chiunque abbia sofferto di calcoli renali dolorosi sarà pronto a provare qualsiasi cosa per non soffrirne mai più. Ma invece di bere acqua per espellerli naturalmente, gli esperti ritengono che esista un altro modo per liberarli dal corpo: fare sesso o masturbarsi tre volte a settimana funziona 

Secondo uno studio indonesiano pubblicato sul “Journal of Sexual Medicine”, la contrazione e il rilassamento del collo della vescica, che si verificano durante l'orgasmo e l'eiaculazione, potrebbero anche aiutare a far passare i calcoli. Questo perché quando i muscoli si rilassano, l'urina è incoraggiata a passare attraverso l'uretra insieme ai calcoli.

Il dottor Yudhistira Pradnyan Kloping e il suo team hanno esaminato in che modo gli atti sessuali hanno influenzato la presenza di calcoli o meno: i risultati mostrano che il tasso di espulsione è 5,7 volte superiore nel gruppo che fa sesso almeno tre volte a settimana.

·        La Prostata.

Antonio Giangrande: Non dovevo nascere.

A proposito di figlicidio. Alla morte di mio padre ogni tabù è caduto. Mia madre mi ha raccontato che sono un sopravvissuto. Uno che non doveva nascere.

Mia nonna paterna era la matrona della famiglia. Era lei a decidere le sorti dei suoi otto figli: quattro maschi e quattro femmine.

Era lei a decidere anche nelle loro famiglie.

Mio padre e mia madre erano appena sposati ed era mia nonna paterna a decidere il loro destino.

Li costrinse ad emigrare per lavorare.

Ma c’era un problema: mia madre era incinta. Ed era un intoppo.

La portò dalla “mammana”, una ostetrica casalinga.

La signora chiese a mia madre: perché vuoi abortire?

Essa, ignara, rispose: cosa è l’aborto?

Era stata portata in quel posto senza sapere cosa dovesse fare. Portata dalla madre di mio padre e, sicuramente, con l’assenso di lui, perché io non ho mai saputo di questo fatto, né che ci siano state ripercussioni nei rapporti tra mio padre e sua madre.

La “mammana” chiese a mia madre: tu lo vuoi questo bambino? Sì, rispose mia madre.

La “mammana” disse a mia nonna paterna: se anziché tua nuora, fosse tua figlia, faresti fare questa cosa? No, rispose mia nonna paterna.

La “mammana” intimò a mia nonna: porta a casa sta piccina e lasciala stare.

Oggi sono qui a raccontare quest’episodio. La mia vita è stata una sofferenza perenne di uno che non doveva nascere: un inaccettato per tutta la vita, avvinghiato da povertà ed ignoranza.

Oggi mio padre è morto per tumore alla prostata. Male che si lascia in eredità.

Mio padre era uno che nulla faceva per gli altri, ma lo pretendeva per sé.

Mio padre, però, sicuramente, era uno che dava. E a me, tra le altre cose, ha dato il suo male.

 Oggi, però, sono qui a raccontare che sono un sopravvissuto che non doveva nascere. E tutto quel che è successo è tutto di guadagnato. Sicuro di aver guadagnato 60 anni di vita, pur tribolata.

È il quarto tumore più diffuso dopo i 50 anni, ma gli italiani non lo conoscono: sintomi e cause del cancro alla vescica. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.  

Un sondaggio rivela: oltre sei intervistati su dieci non hanno mai segnalato campanelli d'allarme al medico. Una nuova iniziativa riunisce medici, pazienti e istituzioni: 21 esperti per cambiare in meglio il percorso di cura 

Con oltre 25.500 nuovi casi ogni anno in Italia, il tumore alla vescica è la quarta forma di cancro più frequente nel nostro Paese dopo i 50 anni: nonostante colpisca soprattutto gli uomini, i numeri sono in crescita nel sesso femminile. Eppure è una malattia ancora poco conosciuta e sottostimata dalla maggioranza degli italiani, che non sanno come si possa prevenirlo e riconoscerne i primi sintomi. Come dimostrano i dati raccolti per il progetto «U-Change» con l’obiettivo di capire quanto ne sanno gli italiani sul tumore della vescica.

I sintomi

Un numero su tutti rende bene l'idea: il 61% degli interpellati non è mai andato dal proprio medico per segnalare segni o sintomi come sangue nelle urine o bruciore durante la minzione. «Il carcinoma uroteliale, chiamato più comunemente tumore della vescica, è una neoplasia maligna che ha origine dall’urotelio, la mucosa che riveste internamente la vescica e le alte vie urinarie che convogliano l’urina dal rene nella vescica, che è l’organo più colpito da questo tumore — spiega Sergio Bracarda, direttore del Dipartimento di Oncologia all'Azienda ospedaliera Santa Maria di Terni —. Nell'80% dei casi la neoplasia interessa gli uomini, ma i numeri fra le donne sono in aumento e la patologia, nel sesso femminile, viene spesso riconosciuta tardi, oltre ad avere caratteristiche di maggiore aggressività. Il sintomo caratteristico è la presenza di sangue nelle urine (ematuria), ma non vanno trascurati neppure stimolo frequente e urgenza di urinare, bruciore, dolore pelvico e dolore alla schiena. E le cistiti ricorrenti, sovente sottovalutate dai pazienti e dagli stessi medici». In assenza di cure tempestive, la malattia può diffondersi alla parete muscolare che la circonda l'urotelio e raggiungere i linfonodi o altri organi come polmoni, fegato, ossa. «Arrivare alla diagnosi velocemente è fondamentale — continua l'esperto —, perché influenza la sopravvivenza futura, così come l’approccio terapeutico che, a seconda dello stadio del tumore, prevede interventi anche combinati tra chirurgia, chemioterapia, radioterapia e immunoterapia».

Chi rischia di più: lavoratori e tabagisti

Dal sondaggio, condotto da Nume Plus e presentato durante il congresso dell'associazione PaLiNUro (Pazienti liberi dalle neoplasie uroteliali), emerge che il 34% dei connazionali non sa quale sia lo specialista che si occupa di questa patologia, soltanto il 52% riconosce come causa principale il tabacco (inoltre circa un quarto dei casi è attribuibile a esposizioni lavorative in settori dove vengono impiegati soprattutto gli uomini), mentre quasi il 50% è convinto che il principale fattore di rischio sia la predisposizione genetica. «Il fumo di sigaretta è da solo responsabile della metà dei casi circa — sottolinea Bracarda, che è anche presidente di SIUrO, Società italiana di uro-oncologia —, ma ci sono anche altri fattori di rischio come quello professionale, per esempio l’esposizione a coloranti (responsabile di un altro 5-6% dei casi) e la dieta, in cui sembra chiamato in causa l’alcol. Tra i cancerogeni ambientali vanno poi ricordate la presenza di arsenico nell’acqua potabile, le amine aromatiche e i pesticidi agricoli». La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è di circa l’80% negli uomini e del 78% nelle donne, un dato dovuto al fatto che due terzi delle forme sono non infiltranti, cioè non hanno invaso la parete muscolare e hanno quindi un decorso più favorevole e una possibilità di guarigione più alta. Oggi sono disponibili in Italia diverse nuove cure che puntano a tenere sotto controllo la neoplasia quando arriva in fase avanzata e metastatica.

Il progetto U-Change

Con l’obiettivo di analizzare l’attuale modello di cura per il tumore della vescica, identificarne le criticità e disegnare un futuro modello di cura è nato il progetto «U-Change», ideato e realizzato da Nume Plus di Firenze, con il contributo non condizionante di Astellas Pharma, cui hanno partecipato 21 esperti tra medici, pazienti e istituzioni. «L'obiettivo era ambizioso: per la prima volta, mettere sullo stesso piano i diversi attori che intercettano il paziente colpito da carcinoma avanzato della vescica nelle varie tappe del suo viaggio — racconta Bracarda —. Tutto il panel degli esperti ha esplorato le diverse dimensioni, discutendo e concordando sia le attuali limitazioni dei modelli di cura, sia le proposte di miglioramento per la costruzione di un futuro modello di cura ancora più efficace». «È necessario promuovere delle efficaci campagne informative per aumentare il livello di conoscenza sia dei fattori di rischio, sia delle nuove possibilità terapeutiche — conclude Edoardo Fiorini, presidente dell'Associazione PaLiNUro —. Il progetto “U-Change” conferma la necessità che società scientifiche e associazioni di malati coinvolgano le istituzioni e gli altri professionisti sanitari in campagne informative sull’importanza della diagnosi precoce, dei fattori di rischio e delle opportunità di terapie. Coniugi, partner e familiari sono spesso poco informati, addestrati e supportati nelle diverse fasi del percorso della malattia. È importante quindi fornirgli servizi di conoscenza della patologia, gruppi di ascolto, materiale educazionale».

Tumore alla prostata, cosa favorisce il cancro: studio rivoluzionario. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022

Uno studio italiano ha scoperto un meccanismo molecolare che favorisce lo sviluppo del cancro alla prostata e che, se disinnescato, consente di arrestare la crescita delle cellule tumorali. Autori della ricerca - che potrebbe aprire la strada a nuovi approcci terapeutici - sono scienziati dell'università Cattolica Campus di Roma, in collaborazione con l'ateneo capitolino Tor Vergata. Al centro di questo meccanismo ad azione oncogenica, descritto sulla rivista Nature structural & molecular biology, ci sono due molecole, chiamate Sam68 e XRN2 che si siedono sugli Rna messaggeri (molecole che contengono il codice genetico per la sintesi delle proteine, le stesse usate alla base dei vaccini anti-Covid) e li rendono più efficienti, favorendo così la proliferazione delle cellule prostatiche.

"Era già noto che i tumori in generale, e in particolare quello della prostata, presentano degli Rna messaggeri con regioni regolatorie più corte, e che questa caratteristica è associata al potenziale proliferativo delle cellule tumorali. Il nostro lavoro descrive un meccanismo molecolare che promuove questo accorciamento degli Rna messaggeri nel tumore della prostata", spiega in una nota Claudio Sette, ordinario di Anatomia umana alla facoltà di Medicina e chirurgia dell'università Cattolica, coordinatore della ricerca insieme a Pamela Bielli, associato di Anatomia Umana alla facoltà di Medicina dell'Università di Tor Vergata. Lo studio è stato condotto da Marco Pieraccioli, Dipartimento di Neuroscienze dell'Università Cattolica, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs. "Poiché è già in uso clinico contro alcune malattie una classe di farmaci detti oligonucleotidi anti-senso - dei cerotti genetici che aderiscono agli Rna messaggeri e li disinnescano - ipotizziamo che lo sviluppo di specifici oligonucleotidi anti-senso possa disinnescare questo meccanismo molecolare", spiega ancora Sette. 

L'utilizzo degli Rna messaggeri è determinato da regioni regolatorie nella parte terminale del filamento: queste regioni sono riconosciute da proteine che ne promuovono la funzione. Il taglio e la terminazione degli Rna possono avvenire in punti diversi della regione regolatoria, e questo processo, chiamato poliadenilazione alternativa, determina la lunghezza dell'Rna ed è regolato da queste proteine. "Abbiamo scoperto - continua Sette - che Sam68 e XRN2 legano e reprimono i siti di poliadenilazione più distali, favorendo quindi la produzione di Rna più corti e più efficienti. La prospettiva - conclude - è sviluppare strumenti per bloccare l'attività di queste proteine di legame all'Rna e disinnescare, quindi, questo meccanismo molecolare oncogenico. Infatti, gli oligonucleotidi anti-senso sono ormai in uso clinico, per esempio nella terapia per la Atrofia muscolare spinale, quindi questo approccio è fattibile. Naturalmente la strada in questa direzione è ancora lunga".

Tumore alla prostata, ora c’è il «naso elettronico». «Diag-nose» frutto di una ricerca di Humanitas e politecnico Milano. Esame attendibile nell’ 85% dei casi. Redazione Speciali su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Dicembre 2022

Diagnosticare il tumore della prostata attraverso una metodica non invasiva e con una maggiore accuratezza rispetto alle procedure diagnostiche tradizionali è una realtà sempre più vicina. Lo confermano i dati di uno studio pubblicato dalla rivista scientifica International Journal of Urology, nel quale è stata testata l’efficacia del primo prototipo di naso elettronico che identifica la presenza della neoplasia a partire da un campione di urina, attraverso il riconoscimento di specifiche molecole volatili.

«Diag-Nose» - questo il nome del progetto da cui è nato un primo prototipo sperimentale - deriva dalla stretta collaborazione tra Humanitas e Politecnico di Milano. I risultati preliminari sono incoraggianti: l’esame identifica correttamente la presenza del tumore in pazienti malati nell’85,2% dei casi e risulta correttamente negativo nei pazienti sani nel 79,1% dei casi. Non solo. Il prototipo presenta ulteriori elementi significativi rispetto al tradizionale metodo della biopsia: oltre a essere un esame invasivo, la biopsia ha un tasso di falsi negativi piuttosto elevato nei tumori in fase precoce, dovuto al fatto che si preleva e analizza solo una piccola porzione dell’organo.

Lo studio è stato condotto da marzo 2020 a marzo 2021 in Humanitas Mater Domini, a Castellanza, e all’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. Il progetto ha coinvolto 174 persone, divise in due gruppi: 88 pazienti con tumore alla prostata di diverso grado e stadio di progressione, confermato dall’esame istologico positivo, e 86 persone del gruppo definito di controllo", composto da soggetti femminili o da uomini di diversa età ma senza familiarità alla patologia e con visita ed esami (tra cui il PSA) negativi.

Il naso elettronico è l’evoluzione di uno studio ben più grande: condotto dal 2012 da Humanitas con la collaborazione del Centro Militare Veterinario di Grosseto (Cemivet) e patrocinato dallo Stato Maggiore della Difesa. Questa ricerca ha rivelato come i cani, debitamente addestrati, siano in grado di riconoscere il tumore della prostata annusando l’urina delle persone malate.

Per ogni persona è stato poi raccolto un campione di urina e analizzato presso i laboratori della professoressa Laura Capelli al Dipartimento di Chimica Materiali e Ingegneria Chimica del Politecnico di Milano. Il naso elettronico ha dimostrato di identificare correttamente come positive le persone con tumore nell’85,2% dei casi. L’accuratezza - ovvero la capacità di fare una diagnosi corretta, sia essa di negatività o positività - è dell’82,1%. Se si considerano solo gli uomini di età superiore ai 45 anni, la fascia di età più interessata dalla malattia, ma anche la più difficile da diagnosticare correttamente, l’accuratezza si attesta all’81%. «La biopsia alla prostata è oggi il gold standard per la diagnosi del cancro di questa ghiandola. Nonostante la maggior precisione che oggi l’esame ha raggiunto grazie all’utilizzo delle immagini di risonanza magnetica nel guidare il prelievo di tessuto, il tasso di rilevamento del tumore raggiunge al massimo il 48,5%. Una percentuale significativamente inferiore rispetto a quella del naso elettronico che, oltre ad un’accuratezza diagnostica maggiore, limiterebbe il disagio e le complicanze per il paziente», spiega il promotore dello studio, Gianluigi Taverna, responsabile Urologia di Humanitas Mater Domini e medico-ricercatore dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas.

«La scoperta - racconta Taverna - ha certificato che il tumore della prostata produce delle sostanze organiche volatili specifiche, chiamate tecnicamente VOCs (Volatile Organic Compounds), che il cane è in grado di riconoscere con grande accuratezza. Abbiamo deciso di partire da questa potenzialità per sviluppare un dispositivo diagnostico ad alta tecnologia, che potesse entrare a far parte dell’attività clinica quotidiana».

Il naso elettronico, sviluppato nell’ambito del progetto Diag-Nose, è dunque un prototipo nato dalla riproduzione dell’olfatto canino, realizzato grazie a una serie di sensori in grado di analizzare le sostanze volatili rilasciate nell’aria dai campioni di urina. «Come per i cani, anche il naso elettronico ha attraversato una fase di training, condotta su circa 530 persone, che ha permesso agli ingegneri del Politecnico di Milano, alla Professoressa Laura Capelli e alla Dottoressa Carmen Bax, di affinare i parametri di analisi e di insegnare al device a distinguere se il campione di urina appartenesse a una persona sana o con tumore della prostata. Il successo di questo training è stato confermato dallo studio pubblicato sull'International Journal of Urology», precisa Fabio Grizzi, ricercatore presso i laboratori dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas, dove è anche responsabile del servizio di istologia.

«Il progetto Diag-Nose è un bellissimo esempio dei risultati che si possono ottenere con un team multidisciplinare ed affiatato. Oltre ad avere vinto il primo premio "Disruptive Innovation" nella competizione S2P promossa da Politecnico, PoliHub e Deloitte nel 2019, oggi il progetto ha ricevuto un importante finanziamento POC da un fondo di Venture Capital per la validazione della macchina», commenta Laura Capelli, Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica del Politecnico di Milano. «Perché il naso elettronico possa effettivamente entrare a far parte della pratica clinica quotidiana saranno però necessari ulteriori studi su larga scala, che ci permetteranno di confermare i risultati già ottenuti e approfondire il potenziale del prototipo. Il prossimo passo per rendere il naso elettronico una realtà, è dunque quello di validarlo coinvolgendo istituti clinici internazionali».

Tumore della prostata, ma non solo: cosa può «dire» e quando fare il test del Psa. Vera Martinella su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022

Valori elevati provano la presenza di un disturbo della ghiandola prostatica: può essere un’infiammazione, un aumento del volume, un’infezione o un carcinoma. In Italia un uomo su otto avrà una diagnosi di cancro alla prostata

Prevenire è meglio che curare e scoprire una malattia in stadio iniziale significa sia doversi sottoporre a cure meno invasive, sia avere maggiori probabilità di guarire. È seguendo questi principi che la Commissione Europea ha recentemente aggiornato le raccomandazioni sugli esami consigliati per la diagnosi precoce del cancro, inserendo il test del Psa per il tumore alla prostata nei maschi dai 50 fino ai 70 anni.

La controversia

Per anni gli esperti hanno dibattuto sui pro e contro di questo esame. Se da un lato, infatti, ha il vantaggio d’essere di semplice effettuazione perché avviene tramite un normale prelievo di sangue che misura l’antigene prostatico specifico, dall’altro può portare a un eccesso di ulteriori esami diagnostici e di terapie. Perché? «Valori elevati nell’esito dell’esame provano la presenza di un disturbo della ghiandola prostatica: può essere un’infiammazione (prostatite), un aumento del volume (ipertrofia), un’infezione o un tumore — risponde Sergio Bracarda, presidente della Società italiana di uro-oncologia (SIUrO) —. Per questo, prima di allarmarsi e di decidere qualsiasi intervento, che potrebbero comportare trattamenti inutili, bisogna valutare bene i risultati e procedere, se necessario, con altre indagini». Per capire meglio la storia del Psa si può ricorrere a grandi indagini americane condotte su diverse migliaia di uomini: a partire dagli anni Novanta questo esame ha avuto una grande diffusione soprattutto negli Stati Uniti, dove le società scientifiche American Urological Association e American Cancer Society hanno iniziato a raccomandarlo come test di screening, al pari della mammografia per la diagnosi precoce del cancro al seno, a tutti i maschi dai 50 anni in poi. 

Troppe biopsie

L’uso «a tappeto» del Psa su uomini sani ha però portato alla scoperta di moltissimi casi di tumori indolenti, ovvero poco aggressivi, che crescono lentamente e che raramente possono diventare un problema per gli interessati. «Milioni di uomini nell’arco di diversi decenni si sono sottoposti a esami di approfondimento (l’esito di Psa alterato portava inevitabilmente alla biopsia a prelievo multiplo) e a terapie in eccesso (con importanti effetti collaterali quali impotenza e incontinenza) — spiega Alberto Lapini, che ha appena terminato la presidenza SIUrO ed è direttore della Prostate Cancer Unit all’ospedale Careggi di Firenze —. Oggi sappiamo che quel tipo di carcinoma è "buono" e può essere tenuto soltanto sotto controllo. Così nel 2008 negli Usa è arrivato uno stop all’uso "indiscriminato" del test su maschi sani». Questo tuttavia ha condotto, negli anni successivi, a un aumento di tumori scoperti tardi, in fase localmente avanzata o metastatica.

Esami e terapie su misura

Nel frattempo però la ricerca scientifica ha evidenziato l’utilità di un particolare tipologia di risonanza magnetica, detta multiparametrica, che consente di ridurre il numero di biopsie inutili e per le sue caratteristiche permette di evidenziare i casi che meritano di essere biopsiati e quelli ritenuti non pericolosi. «Le nuove raccomandazioni europee nascono quindi da questi presupposti e dalle migliori conoscenze scientifiche oggi a disposizione — continua Lapini —: disponiamo di diversi esami di approfondimento che ci consentono di evitare di biopsie inutili e sappiamo calcolare meglio chi sono gli uomini a rischio. Non solo, per quelle neoplasie che abbiamo imparato a classificare come "non clinicamente significative" abbiamo messo a punto i programmi di sorveglianza attiva per tenere sotto controllo il tumore, posticipando eventuali trattamenti al momento in cui la malattia cambia atteggiamento, se lo cambia. Rimandando così, per anni o per tutta la vita, insieme alle terapie anche i loro possibili effetti collaterali».

Chi deve fare il Psa e quando

A conti fatti, comunque, nella vita un uomo su otto in Italia avrà una diagnosi di cancro alla prostata. Con 36mila nuovi casi ogni anno è il tipo di cancro più frequente nel sesso maschile dopo i 50 anni, ma i numeri sono in aumento anche fra i più giovani. La buona notizia è che, se identificato in fase iniziale, oggi oltre il 90% dei pazienti riesce a guarire o a convivere anche per decenni con la malattia. Ma allora chi deve fare il Psa e quando? «È utile e va consigliato agli uomini che hanno sintomi prostatici, ovvero problemi urinari, a partire dai 50 anni e quelli che hanno familiarità dovrebbero iniziare tra i 40 e i 45 anni — chiarisce Giario Conti, segretario della SIUrO —. Spiegando però bene quali sono i vantaggi e i limiti della metodica e cosa potrebbe essere necessario effettuare qualora questo esame risultasse non nei limiti di normalità».

I sintomi

Difficoltà a iniziare la minzione, flusso urinario debole, necessità di "spingere" durante la minzione, incompleto svuotamento della vescica, elevata frequenza delle minzioni, urgenza di svuotare la vescica e presenza di minzioni notturne. Sono sintomi che si accompagnano all’ipertrofia prostatica benigna, molto comune nei maschi over 50 e che quindi non devono allarmare, ma che non devono essere sottovalutati e ignorati. Basta parlarne con il medico di famiglia che valuterà se è necessaria la visita con lo specialista urologo. «Bisogna che i pazienti sappiano che anticipa la diagnosi di tutti i tumori, sia "buoni" che "cattivi", aggressivi o meno — conclude Conti —. Gli uomini devono essere informati correttamente (prima di fare il Psa in modo volontario) dei possibili risultati e che, in caso di diagnosi di carcinoma, vengano curati all’interno di strutture multidisciplinari. Basta questo a risolvere il problema di terapie in eccesso: informarlo di tutte le opzioni che ha a disposizione nel suo caso. Se il team è composto da più specialisti, il paziente sarà veramente al centro della discussione e riceverà tutte le informazioni necessarie».

Che cosa può falsare l'esito del Psa

Non esiste un valore normale di Psa valido per tutti gli uomini, quindi una soglia di allarme universale. Il livello di Psa cresce con l’età e per la presenza di altre malattie o disfunzioni prostatiche (infezioni urinarie o ipertrofia prostatica benigna) e può risultare nella norma nel 30% dei pazienti affetti da tumore della prostata. Il livello di Psa può risentire leggermente di una serie di condizioni: rapporto sessuale recente, visita con esplorazione digito-rettale, ecografia transrettale, inserimento di catetere o cistoscopia, minimi traumatismi, per esempio in bici o alla guida prolungata della moto. «Per cercare d’individuare coloro che realmente dovrebbero fare la biopsia sono stati e ancora vengono proposti test aggiuntivi come la Psa density e/o velocity o marcatori come Pca3 (che si esegue sulle urine) che però non si sono dimostrati efficaci per selezionare i candidati alla biopsia — chiarisce Sergio Bracarda, che è anche direttore del Dipartimento di Oncologia all’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni —. Il tempo di raddoppiamento del Psa (doubling time) è invece utile in determinate situazioni, in particolare in caso di progressione di malattia, non alla diagnosi».

PSA, i valori normali a 60 anni. Un valore superiore del PSA può essere indicativo di una patologia benigna o maligna alla prostata. Quando fare il test e come interpretare l'esito dell'esame. Rosa Scognamiglio il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'antigene prostatico specifico, meglio noto con la sigla di PSA, è un enzima prodotto dalle cellule epiteliali della prostata che serve a fluidificare il liquido seminale. In ambito diagnostico, invece, viene utilizzato come marcatore di eventuali condizioni anomale della ghiandola prostatica: dalle malattie benigne (tipo l'ipertrofia prostatica) a quelle più severe (ad esempio, il tumore alla prostata). I valori ritenuti "normali" dipendono da una molteplicità di fattori, in primis l'età del paziente e dalla presenza di patologie preesistenti o pregresse.

I valori del PSA 

Generalmente il valore di PSA considerato nella norma è inferiore ai 4ng/ml (nanogrammo per millimetro ndr). È bene precisare, però, che non si tratta di una soglia assoluta di normalità poiché il dato deve essere interpretato in base all'età dell'individuo e dipende da una serie di discriminanti.

Nelle persone di età compresa tra i 60 e 69 anni, il limite fissato dagli esperti è di 4.5 ng/ml. Tuttavia, non sempre un'oscillazione del valore di PSA indica necessariamente l'insorgenza di una malattia grave. Studi recenti hanno dimostrato, infatti, che livelli superiori di PSA non sono riconducibili ad una diagnosi di cancro (il rapporto statistico è di 3 casi su 10).

In linea di massima, si può affermare che più è elevato il valore del PSA e maggiore sarà la probabilità che un individuo abbia sviluppato una patologia prostatica. I valori compresi tra 4 e 10 ng/ml sono indicativi tre possibili condizioni:

infettiva o infiammatoria (prostatite);

benigna (ipertrofia prostatica benigna);

maligna (cancro della prostata).

In ogni caso, per avere una corretta interpretazione del dato, bisogna rivolgersi a uno specialista oppure al proprio medico di base.

Il test del PSA 

Fino a qualche tempo fa il test del PSA veniva utilizzato come screening del cancro alla proposta per gli uomini in età superiore ai 50 anni. Ad oggi, molti ricercatori ritengono che l'esame abbia una sensibilità relativamente bassa specialmente per le persone in età avanzata nelle quali, per via di una molteplicità di fattori, il valore del PSA può risultare alterato.

Tuttavia rimane uno strumento diagnostico fortemente consigliato per chi abbia familiari in linea diretta che abbiano sviluppato il tumore alla prostata. In tal caso, il monitoraggio dovrebbe essere costante e ripetuto nel tempo a partire dal 40esimo anno di età.

Quanto al test del PSA consiste in un normale esame del sangue che viene eseguito in laboratorio o presso una struttura ospedaliera del territorio. I valori, espressi in nanogrammi per millilitro (ng/ml), sono da considerare indicatori della salute prostatica.

Prima di sottoporsi all'esame, in considerazione del fatto che le eventuali oscillazioni possono dipendere da una varietà di condizioni, è consigliato evitare eiaculazioni e limitare l'attività fisica nelle 24/48 ore precedenti al test. Infine, occorre segnalare la presenza di eventuali infezioni delle vie urinarie poiché potrebbero incidere sull'esito dell'esame.

Prostata, tutti gli esami da fare per scoprire se c’è un tumore. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2019.

Dal «famoso» Psa fino alla biopsia, ecco quali sono gli accertamenti da eseguire per indagare la presenza del più diffuso tipo di cancro nei maschi italiani (nel 2021 sono state circa 36mila le nuove diagnosi) che, se identificato in fase iniziale, consente di guarire in oltre il 90 per cento dei casi. Da tempo gli specialisti cercano le strategie più efficaci per individuare un carcinoma prostatico, distinguendo quelli aggressivi da quelli meno pericolosi.

Non ignorate questi sintomi

«Pur non esistendo sintomi caratteristici del carcinoma della prostata all’esordio, non bisogna ignorare la comparsa di vari problemi urinari - spiega Alberto Lapini, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) e responsabile della Prostate Cancer Unit all'ospedale Careggi di Firenze -, quali: difficoltà a iniziare la minzione,flusso urinario debole, necessità di “spingere” durante la minzione, incompleto svuotamento della vescica, elevata frequenza delle minzioni, urgenza di svuotare la vescica e presenza di minzioni notturne. Sono sintomi che si accompagnano all’ipertrofia prostatica benigna, molto comune nei maschi dopo i 50 anni e che quindi non devono allarmare, ma che non devono essere sottovalutati e ignorati. Basta parlarne con il medico di famiglia che valuterà se è necessaria la visita con lo specialista urologo facendola precedere da eventuali esami. Questa semplice attenzione potrà essere la prevenzione migliore del carcinoma prostatico consentendo una diagnosi precoce e tempestiva».

La visita: chi è più a rischio

«L’iter diagnostico dovrebbe cominciare dal medico di medicina generale, che effettua una visita e raccoglie informazioni sulla storia familiare e sulle condizioni generali - dice Giario Conti, segretario della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) -. Dopo la visita, se lo ritiene opportuno, può suggerire di consultare l’urologo per una più approfondita valutazione ed eventuale esecuzione di ulteriori esami. È sempre bene parlare con il medico di famiglia o con l’urologo che possono valutare meglio cosa è bene fare, specie in chi è più a rischio di cancro alla prostata: ovvero gli uomini che hanno parenti di primo grado (padre e fratelli) con la malattia (soprattutto se manifestata in età inferiore ai 55 anni), oppure quelli che hanno familiari che hanno avuto un carcinoma della mammella e/o dell'ovaio (per via dei geni BRCA)».

Il test del Psa

Il test del PSA è di semplice esecuzione perché avviene tramite un normale prelievo di sangue (che misura l’antigene prostatico specifico). «È consigliato dai 50 anni, ma gli uomini che hanno familiarità dovrebbero iniziare tra i 40 e i 45 anni - prosegue Lapini -. Ad un paziente con sintomi prostatici l’urologo può proporre di eseguire il Psa spiegando cosa è quali sono i vantaggi e i limiti della metodica e cosa potrebbe essere necessario effettuare qualora questo esame risultasse non nei limiti di normalità. Quello che però non bisogna mai dimenticare è che valori elevati di Psa non significano obbligatoriamente tumore indicano piuttosto che qualcosa non va a livello prostatico -: può trattarsi infatti di un’infiammazione (prostatite) o di aumento del volume della ghiandola (ipertrofia), ma possono essere chiamati in causa anche fattori fisiologici come un rapporto sessuale precedente al prelievo. Esistono a tal proposito delle regole da rispettare per un prelevo corretto che il medico spiegherà nel dettaglio. In caso di ripetizione dell’esame è corretto eseguirlo nello stesso laboratorio per le differenze che possono esistere tra laboratori e che porterebbero ad allarmismi ingiustificati».

PCA3, PHI e gli altri test se il Psa è alterato

Il test del Psa, pur essendo un buon indizio (e non una prova) di tumore, non è però in grado di distinguere tra tumori aggressivi e quelli definiti indolenti: per questo è importante che gli uomini siano informati correttamente sui possibili pro e contro. «L’utilizzo del Psa può causare un eccesso di diagnosi (perché un valore alterato induce alla prescrizione della biopsia, l’unico esame al momento in grado di diagnosticare il tumore della prostata) e di conseguenti terapie inappropriate - chiarisce Benedetto Galosi, direttore della Clinica Urologica all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona -. Per cercare di individuare coloro che realmente dovrebbero fare la biopsia sono stati e ancora vengono proposti dei test aggiuntivi come la valutazione del rapporto Psa libero/totale, la Psa density e/o velocity, il proPSA e l’indice PHI (il cosiddetto indice di salute prostatica che si effettua con un prelievo di sangue) o marcatori come PCA3 (un esame che si esegue sulle urine), che in realtà non si sono dimostrati efficaci per selezionare i candidati alla biopsia».

Esplorazione rettale

È l’esame che suscita da sempre le «antipatie» degli uomini e reazioni di pudore, perché l’urologo, dopo aver indossato un guanto lubrificato, inserisce un dito attraverso l’ano per palpare la prostata, valutandone le dimensioni e la consistenza, e riscontrare l’eventuale presenza di noduli sospetti. «Può essere fastidioso, ma in generale non è doloroso - chiarisce Luigi Da Pozzo, direttore dell’Urologia all’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo -. Se il valore del PSA e l’esplorazione rettale danno luogo a un sospetto di neoplasia prostatica, si consiglia di effettuare una biopsia della prostata. È in grande evoluzione, però, l’uso della risonanza magnetica multiparametrica, un esame molto sofisticato che, quando indicato, è in gradi di descrivere con grande precisione gli aspetti anatomici della prostata e di identificare possibili lesioni, indicano anche le probabilità che si tratti di un tumore clinicamente significativo oppure no».

Risonanza magnetica multiparametrica

«È una particolare tipologia di risonanza magnetica - dice Galosi -, che sta modificando lo standard diagnostico del carcinoma prostatico. Prevede l’acquisizione di parametri multipli: evidenzia la morfologia della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti e al contempo rileva aree con caratteristiche particolari, diverse nel tessuto sano e in quello tumorale, consentendo di identificare uno score denominato PIRADS che va da 1 a 5: le forme con PIRADS 4-5 meritano in genere di essere biopsiate, quelle 1 e 2 invece no; i PIRADS 3, in cui esiste più indecisione, devono essere valutate di volta in volta considerando tutti i dati clinici disponibili. La European Association of Urology ha indicato nelle sue linee guida la possibilità di prendere in considerazione questo esame soprattutto dopo una prima biopsia negativa, ma con persistente sospetto clinico di tumore. Questo potrebbe da un lato ridurre il numero di biopsie non necessarie e dall’altro migliorare l’efficienza dell’esame bioptico che oltre a “mappare” tutta la prostata potrà anche eseguire prelievi mirati sui bersagli indicati dal radiologo. Ci sono però due problemi da tenere in considerazione: primo, per lo studio multiparametrico della prostata sono necessarie una tecnologia particolare e un radiologo esperto nell’interpretazione di queste immagini; secondo, onde evitare che si creino liste d’attesa molto lunghe (visto che la riduzione del numero di biopsie porterà inevitabilmente a un aumento delle richieste di risonanza), occorrerà una pianificazione nazionale per garantire l’accesso al test su tutto il territorio».

Biopsia

Si esegue normalmente durante l’ecografia in anestesia locale. «La biopsia può essere fastidiosa e causare un sanguinamento che, nella maggior parte dei casi, è leggero e si manifesta con tracce di sangue nelle urine e nello sperma nei giorni successivi - dice Da Pozzo -. Per questo si somministrano antibiotici per prevenire eventuali infezioni. In pratica con la biopsia si prelevano alcuni campioni di cellule dalla prostata che sono poi inviati al laboratorio di anatomia patologica per l’esame istologico al microscopio. Ma per come è fatta la ghiandola prostatica e per il tipo di tumore, la biopsia potrebbe dare un esito negativo anche quando in realtà il tumore è presente. È per questo motivo che a volte si chiede di ripeterla a distanza di mesi e che si continuano a cercare nuovi e più accurati sistemi diagnostici. L’avvento della risonanza magnetica multiparametrica sta modificando anche il modo di eseguire la biopsia in quanto, identificando delle zone sospette, consente di orientare le biopsie su queste aree garantendo livelli elevati di accuratezza (biopsia Fusion)».

TUMORE ALLA PROSTATA. Vera Martinella per corriere.it il 7 ottobre 2022. 

Un uomo su otto in Italia farà i conti con una diagnosi di tumore alla prostata che, con 36mila nuovi casi diagnosticati ogni anno in Italia, è il tipo di cancro più frequente nel sesso maschile dopo i 50 anni. Grazie a diagnosi precoce e terapie sempre più efficaci, oggi  oltre il 90% dei pazienti riesce a guarire o a convivere anche per decenni con la malattia. Molte nuove opzioni sono disponibili oggi anche per quei pazienti, circa 7mila in più ogni anno in Italia, che hanno una neoplasia metastatica, come hanno illustrato gli specialisti della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) riuniti in questi giorni a Firenze per il loro congresso nazionale. 

Affidarsi a un centro con diversi esperti in team

Cos'è importante che sappia un malato con un carcinoma prostatico metastatico? «Che è fondamentale farsi curare da un team multidisciplinare, nel quale diversi esperti lavorano in stretta collaborazione fra loro - risponde Sergio Bracarda, presidente SIUrO -. Un discorso che vale per tutti gli uomini che devono affrontare un tumore alla prostata, in qualsiasi fase. Abbiamo fatto tanti progressi perché abbiamo a disposizione molte terapie efficaci: chirurgia, radioterapia, moltissimi farmaci vecchi (ma ancora validi) e nuovi e, per chi ha una neoplasia ai primi stadi e poco aggressiva, c'è anche la sorveglianza attiva.

Un'offerta vasta comporta anche un panorama complesso e dover fare diverse scelte, che tengano conto pure dei desideri dell'uomo, della sua qualità di vita. Insomma, bisogna valutare numerosi parametri e se i diversi esperti si confrontano è più facile raggiungere la soluzione più indicata  al singolo caso». Diversi studi, del resto, lo hanno dimostrato scientificamente: la collaborazione fra i vari esperti (urologo, radioterapista, oncologo, psicologo, sessuologo, riabilitatore e altri ancora) all'interno del team consente di fare scelte terapeutiche più corrette a tutto vantaggio del malato, sia per la quantità della vita sia per la qualità delle sue giornate.

I sintomi che indicano un tumore che avanza

Non meno importante è fare attenzione ad alcuni sintomi: stanchezza cronica, dolore (soprattutto alle ossa), debolezza, disturbi urinari, difficoltà a dormire o a svolgere normali attività quotidiane, come camminare o salire le scale. Sono i campanelli d’allarme che dovrebbero mettere in allerta perché potrebbero indicare che la malattia sta peggiorando.

«Parlarne subito con l’oncologo, l’urologo o il radioterapista è fondamentale, in modo da poter iniziare subito la terapia più efficace nel singolo caso con due scopi - chiarisce Alberto Lapini, che termina durante il congresso la presidenza SIUrO ed è direttore della Prostate Cancer Unit all'ospedale Careggi di Firenze -: bloccare l’evoluzione del cancro (e la comparsa o l'evoluzione delle metastasi) e mantenere una buona qualità di vita, senza dolore o altri disturbi, con vantaggi anche sull’allungamento della sopravvivenza».

Mutazioni genetiche e rischi in famiglia

Essere curati in centri di vasta esperienza è decisivo anche alla luce delle nuove conoscenze sulle cause della malattia: è ormai certo, infatti, che alla mutazione dei geni BRCA (e in particolare di BRCA 2) sia dovuta una quota dei carcinomi prostatici, che in questo caso tendono a essere particolarmente aggressivi e a dare metastasi. Grazie alla possibilità di ricercare la mutazione su tessuto bioptico o su prelievo ematico, il team multidisciplinare che assiste il malato può selezionare al meglio la terapia da proporre al paziente.

«Bisognerebbe proporre l’esecuzione del test BRCA a tutti i pazienti con carcinoma prostatico metastatico per valutare la possibilità di utilizzare, quando indicato, una terapia individualizzata (esistono dei farmaci mirati, i cosiddetti PARP-inibitori, in grado di rallentare la crescita del tumore) – aggiunge Lapini -. Sappiamo poi che i geni BRCA mutati sono collegati a tumori di ovaio, seno e pancreas, per cui ha grande importanza fare, quando indicato, un vero e proprio counseling genetico anche in altri componenti del nucleo familiare».

Recenti statistiche indicano che circa il 10-15% dei casi di tumore alla prostata è ereditario e una percentuale non trascurabile (tra il 20 e il 30%) presenta una mutazione dei geni BRCA1/2 o ATM che si associa spesso a una malattia potenzialmente meno responsiva ai farmaci più comunemente utilizzati.

I farmaci

«Il trattamento del carcinoma prostatico metastatico comprende – dice Bracarda, direttore del Dipartimento di Oncologia e dell'Oncologia Medica e Traslazionale dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni –. La scelta della terapia dipende dalle caratteristiche del paziente e della malattia. Innanzitutto bisogna distinguere fra chi è metastatico fin dalla diagnosi, che ha quindi una neoplasia più aggressiva, e quei malati che invece arrivano alle fasi più avanzate col passare del tempo. 

Un tempo che è lungo diversi anni e che può essere prolungato in entrambi i casi. La cura standard per gli uomini con un carcinoma prostatico metastatico è stata per decenni la terapia ormonale: il testosterone prodotto dai testicoli maschili, infatti, stimola la crescita del tumore e l'ormonoterapia cerca di contrastare questa azione rallentando o bloccando la sintesi del testosterone (deprivazione androgenica).

Per i pazienti che vanno in progressione in corso di terapia ormonale di prima linea, i cosiddetti “resistenti” alla castrazione, esiste oggi un ampio ventaglio di opzioni terapeutiche: farmaci chemioterapici, un radiofarmaco e farmaci ormonali di nuova generazione». Si riesce così, in molti casi, a prevenire le metastasi ossee, ad allungare (anche di diversi anni) la sopravvivenza dei malati, che possono condurre una vita pressoché normale.

La radioterapia

Contro le metastasi utilissima può rivelarsi pure la radioterapia che, grazie a macchinari e a un imaging sempre più sofisticati, colpisce meglio il «bersaglio» ed e da sempre meno effetti collaterali. «Il carcinoma prostatico nei suoi stadi iniziali può anche essere curato e guarito soltanto con un trattamento radiante - conclude Rolando D’Angelillo, professore di Radioterapia all’Università di Roma Tor Vergata -. radiazioni sempre più efficaci e precise vengono in aiuto pure nei pazienti metastatici, a scopi ablativi ad esempio per le lesioni ossee. Oppure in combinazione con alcuni farmaci, o ancora per ritardare l'impiego di altri medicinali: anche per questo è così fondamentale la collaborazione fra i vari esperti».

Salento Puglia e mondo. L’Ospedale Generale Regionale “F. Miulli” è l'unico centro in provincia di Bari ad effettuare il nuovo trattamento mini-invasivo. Al Miulli riduzione della prostata ingrossata senza intervento chirurgico. La Redazione il 15 giugno 202 su La Voce di Manduria.

Ci sono buone notizie per gli uomini pugliesi che soffrono di Ipertrofia Prostatica Benigna (IPB), patologia che ogni anno viene diagnosticata a 7 milioni di uomini italiani, poiché all’U.O.C. di Urologia dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari) sono appena stati introdotti i nuovi sistemi mini-invasivi che risolvono questa patologia maschile senza intervento chirurgico. Il trattamento denominato "Rezum", una rivoluzione terapeutica arrivata in Italia poco più di un anno fa e ora per la prima volta nella provincia di Bari, viene effettuato in endoscopia, dura pochi minuti e impiega solo vapore acqueo per denaturare le cellule ed eliminare il tessuto prostatico in eccesso. Con il nuovo trattamento si registrano miglioramenti visibili dopo circa un mese, con rapida ripresa delle attività quotidiane. Fondamentale è inoltre la preservazione delle normali funzioni sessuali come erezione ed eiaculazione, nonché il mantenimento della corretta funzione urinaria. 

L’Ipertrofia Prostatica Benigna colpisce circa l’80% degli over 50 e si manifesta con l’aumento volumetrico della prostata, piccola ghiandola attraverso cui passa l’uretra, ovvero il condotto che dalla vescica porta l’urina verso l’esterno. Quando la prostata si ingrossa, essa va a comprimere proprio l’uretra, ostacolando la fuoruscita dell’urina. La patologia è progressiva, peggiora con il tempo e, se non adeguatamente trattata, può provocare danni permanenti alla vescica. Le prime terapie sono, in genere, farmacologiche e prevedono alfa-bloccanti, oppure inibitori della 5-reduttasi. Quando però i farmaci non risultano efficaci, si rende necessario l’intervento chirurgico tradizionale (TURP), oppure il ricorso a soluzioni terapeutiche alternative.   

Il trattamento "Rezum" è minimamente invasivo e si basa sul passaggio tra il vapore acqueo e le cellule dell’adenoma prostatico. Il vapore, prodotto da un generatore, viene iniettato nella prostata in dosi controllate di 9 secondi, con un totale di "somministrazioni" per ogni seduta stabilite dall’urologo, in base alle condizioni cliniche del paziente. Il vapore iniettato nel tessuto prostatico si concentra in modo preciso nello spazio interstiziale tra le cellule tissutali. A contatto con la temperatura corporea, il vapore si raffredda e si condensa, liberando l’energia termica immagazzinata che genera, in questo modo la denaturazione delle cellule. Progressivamente, le cellule denaturate vengono assorbite dal normale metabolismo corporeo, riducendo così il volume del tessuto prostatico che occlude l’uretra, mentre la condensazione del vapore genera anche il “collasso” del sistema vascolare, rendendo la procedura non cruenta. 

«Il nostro Ospedale», spiega il dott. Giuseppe Mario Ludovico, Direttore dell'U.O.C. di Urologia del Miulli, «è l’unico del territorio provinciale a effettuare questi interventi con ricoveri abbreviati e in condizioni di massima sicurezza per il paziente. Le caratteristiche non invasive della procedura ci permettono di intervenire anche su pazienti problematici, sottoposti a terapie anticoagulanti, portatori di cateteri o di dispositivi medici, condizioni che spesso precludono gli interventi. Abbiamo già verificato che la procedura "Rezum" non genera fenomeni di incontinenza, neppure temporanei, una complicanza che può presentarsi, invece, dopo interventi chirurgici di altro tipo». 

Le raccomandazioni all’utilizzo di "Rezum" sono state anche ufficializzate dal National Institute for Health and Care Excellence (NICE), l’ente inglese che definisce le linee-guida sulle soluzioni terapeutiche più efficaci ed economiche per il sistema sanitario UK, evidenziandone l’efficacia clinica, la sicurezza e rapidità di esecuzione, ma anche il basso rischio di disfunzioni sessuali e il miglioramento complessivo della vita.

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 23 novembre 2021. Il cancro dell'utero è diventato una malattia rara grazie alla Vaccinazione HPV (Human Papilloma Virus), non obbligatoria, consigliata e somministrata dal 2006 alle ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni gratuitamente dal servizio sanitario nazionale, e i risultati epidemiologici di tale vaccinazione mostrano tutto il potere della scienza, poiché sono la prima prova diretta e mondiale della capacità di un vaccino di prevenire e debellare il cancro, quello genitale e orale causato dal Papilloma Virus. L'infezione da Papilloma Virus è in assoluto la più frequente infezione sessuale trasmessa tra uomini e donne, e questo agente virale è classificato come il secondo patogeno responsabile di cancro nel mondo, in quanto può causare tumori maligni in tutte le zone interessate durante un rapporto sessuale, dove il virus attecchisce e va ad insediarsi e a proliferare con la sua azione maligna in ambiente protetto caldo-umido, dalla cervice uterina, alla vagina, alla vulva, all'ano e al pene, fino alla cavità orale, al faringe e laringe. Il Papilloma Virus nelle stesse sedi naturalmente causa inizialmente lesioni benigne, come displasie, verruche e condilomi genitali, che però se non vengono curate adeguatamente, negli anni possono trasformarsi, malignizzare e dare origine a carcinomi spesso letali, la cui causa necessaria per svilupparsi è appunto la presenza e persistenza dell'infezione del temibile Hpv.

ASSENZA DI SINTOMI Quando si contrae sessualmente tale patologia, l'assoluta assenza di sintomi iniziali ne favorisce la diffusione con i vari partner, perché la maggior parte degli individui affetti non è a conoscenza del processo infettivo in corso, e nonostante parte delle infezioni regredisca spontaneamente, nei molti casi di persistenza e cronicizzazione, la stessa evolve negli anni in lesione prima pre-cancerosa, per poi diventare carcinoide. Un poderoso studio scientifico, pubblicato sul Lancet il mese scorso, ha riscontrato un calo del 97% delle lesioni precancerose delle cellule nelle ragazze vaccinate in Inghilterra in età puberale, le quali, una volta intrapresa l'attività sessuale, pur essendo venute a contatto con il Papilloma Virus non hanno sviluppato lesioni neoplastiche, nemmeno con i ceppi virali ritenuti ad “alto rischio”, proprio grazie alla protezione vaccinale. Meno vigoroso risulta invece il calo delle lesioni cancerose più pericolose delle prime vie respiratorie, laringe e farine, e del cavo orale, ove l'infezione si trasmette attraverso il sesso orale, ovvero tra il contatto tra mucose e genitali, e tale fenomeno è attribuibile al fatto che gli adolescenti di sesso maschile sono più restii a sottoporsi alla vaccinazione, soprattutto in Italia, nonostante sia dimostrato che sono gli uomini, in numero enormemente maggiore, generalmente ignari dell'infezione poiché asintomatici, e non vaccinati, a diffondere il virus alle loro partner.

DIAGNOSI CLINICA La diagnosi clinica della presenza dell'infezione da HPV viene eseguita attraverso l'esecuzione del Pap Test, con biopsie mirate a mucose genitali (colposcopia) e bronchiali (laringoscopia), gli unici esami che permettono di confermare l'insediamento nelle mucose dei vari ceppi virali e di testarne la pericolosità in termini evolutivi, per poi valutate l'eventualità di asportazioni parziali o totali dei tessuti interessati dal processo neoplastico. Fortunatamente l'infezione da Hpv spesso non è evolutiva verso lo stadio tumorale, ma l'attenzione dei medici è sempre alta verso questo virus capace di sviluppare neoplasie evitabili anche letali. Scrivo oggi questo articolo per sensibilizzare e fidelizzare la popolazione ancora scettica nei confronti dei vaccini a mRna, come quelli attualmente in uso contro il Covid19, poiché queste meravigliose molecole recentemente sintetizzate, nei prossimi cinque-dieci anni, porteranno a un cambio di paradigma non solo contro le malattie infettive che provocano il cancro, ma permetteranno di sviluppare veri e propri Vaccini anti-Cancro addirittura personalizzati sul singolo paziente e sulla singola neoplasia, a partire dalle caratteristiche di ogni tumore maligno, e quando saranno a disposizione sul mercato i pazienti dovranno aspettare solo un mese per la consegna del loro specifico vaccino salvavita. La Pfizer-BioNTech ha recentemente annunciato di aver pronta la versione anticancro del vaccino antiCovid, anzi di avere ben 15 vaccini mRna anticancro in fase di test clinici, il più avanzato dei quali è quello contro il temibile melanoma, che riconosce le cellule cancerose distruggendole a cascata, ed uno che sembra ottimale per il carcinoma del colon-retto, e dai risultati pubblicati sembrano specifici anche per prevenire la ricorrenza e le recidive dei tumori maligni. E lo slogan che l'azienda farmaceutica diffonderà per il lancio sul mercato internazionale degli innovativi vaccini nel cancro, affidato a Ugur Sahin, cofondatore della BioNTech, sarà: «Si incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta». Durante la pandemia da Covid19 gli scienziati internazionali hanno infatti compreso l'enorme potenzialità che c'era, grazie all'Rna Messaggero, di fornire informazioni direttamente alle cellule immunitarie, codificandole per poi lasciare che il sistema immunitario faccia quello che sa fare meglio, ovvero proteggere il nostro corpo dalle minacce infettive, infiammatorie e tumorali, e questa pandemia è stata per la scienza il battesimo di fuoco per questa incredibile tecnologia bio-ingegneristica che salverà milioni di persone del mondo dalla malattia del secolo, il cancro appunto. E salverà forse anche coloro che ad oggi ancora sbraitano ignorantemente e ignobilmente contro il salvifico e benedetto vaccino mRna antiCovid. 

Prostata ingrossata a 60 anni: dieta e rimedi naturali utili. Claudio Schirru il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Quello della prostata ingrossata è un problema che coinvolge molti uomini, soprattutto dopo i 60 anni: ma in che modo può contribuire la dieta e quali rimedi naturali si rivelano utili?

La prostata ingrossata è una condizione tendenzialmente comune per coloro che hanno superato i 60 anni. Definita in termini medici ipertrofia prostatica benigna (BPH), si caratterizza per un aumento delle dimensioni della ghiandola prostatica derivante dalla formazione di noduli e dall'incremento numerico delle cellule prostatiche epiteliali e stromali.

La causa principale di questo problema è l'invecchiamento, che con il passare del tempo induce una serie di cambiamenti ormonali nel corpo dell'uomo. Superati i 60 anni si consiglia di sottoporsi a controlli periodici, così tenere sotto controllo l'eventuale insorgenza di neoplasie.

A differenza del tumore alla prostata, la BPH non desta particolari preoccupazioni, pur richiedendo i giusti interventi per evitare qualsiasi tipo di problema. Oltre al seguire scrupolosamente le indicazioni del medico curante è possibile migliorare la situazione con una dieta mirata e alcuni rimedi naturali. 

Quali sono i sintomi della prostata ingrossata? 

Nelle sue forme più lievi la prostata ingrossata può risultare sostanzialmente asintomatica. Quando a uno stadio più avanzato o comunque nei soggetti più sensibili può portare a difficoltà nell'urinare, in relazione sia alla produzione urinaria che all'atto stesso della minzione.

Tra i sintomi principali la disuria, che si caratterizza per una sensazione di bruciore e dolore al momento della minzione. Sintomatologia spesso accompagnata da una produzione urinaria scarsa (pollachiuria) e irregolare. Si può essere soggetti anche all'improvvisa necessità di urinare e alla sensazione di non aver completamente svuotato la vescica. Solo in rari casi viene segnalata la presenza di sangue nelle urine (ematuria).

Dieta 

Guardiamo ora a quella che può essere una dieta indicata nel caso di prostata ingrossata. Gli over 60 con questa condizione dovrebbero orientarsi verso piatti vegetali e poveri di grassi. Su tutto vale la regola di eliminare, almeno in via provvisoria, il consumo di carne rossa, insaccati, cibi grassi e zuccheri.

Via libera dopo i 60 anni a quegli alimenti ricchi di antiossidanti e/o che possono contribuire a sopperire le proteine non assunte tramite i derivati animali. Sì ai fagioli rossi, alla soia (inclusi derivati come tofu, tempeh e latte di soia), alle lenticchie, ma anche ai cuori di carciofo.

Ridurre anche il consumo cibi contenenti Omega 6, questi ultimi considerati co-fattori dell'infiammazione prostatica. Tra gli alimenti sconsigliati figurano, oltre a carne e derivati, anche le uova, i fritti, le farine raffinate e i formaggi grassi.

Tutt'altro discorso per quanto riguarda gli Omega 3, che vanno invece assunti in buone quantità. Spazio quindi al pesce azzurro, all'olio extravergine di oliva, al riso integrale, oltre che a carote, zucchine, finocchio, cavolo, zucca, rape e cicoria. Da non dimenticare anche le banane verdi, le prugne, le mele e le pere.

Rimedi naturali per la prostata ingrossata 

Eccoci infine ai rimedi naturali per la prostata ingrossata. Da tenere in considerazione che le soluzioni migliori sono quelle ad alto contenuto di antiossidanti e capaci di contrastare gli stati infiammatori. Ottimi quindi i mirtilli rossi, come in generale si rivelano molto efficaci i frutti di bosco.

Tra i rimedi naturali consigliati in caso di prostata ingrossata figura anche la radice di ortica, capace di aiutare a contrastare le eventuali difficoltà nell'urinare. Claudio Schirru

Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 agosto 2021. Secondo un nuovo studio, gli uomini che eiaculano più spesso hanno un rischio inferiore di sviluppare il cancro alla prostata. I ricercatori dell'Università di Harvard hanno analizzato i dati di quasi 32.000 uomini e hanno scoperto che eiaculare almeno 21 volte al mese riduce di un terzo il rischio di sviluppare il tumore. I legami tra eiaculazione e cancro alla prostata non sono completamente noti. Tuttavia, alcuni credono che l'eiaculazione potrebbe liberare la prostata dagli agenti cancerogeni, ridurre l'infiammazione e anche portare a meno stress e dormire meglio, il che può ridurre il rischio di cancro. L'American Cancer Society afferma che il cancro alla prostata è il cancro più comune negli uomini statunitensi dopo il cancro della pelle. Si stima che a un uomo su otto verrà diagnosticato un cancro alla prostata nel corso della sua vita. Nel 2021, si prevede che a più di 248.500 uomini verrà diagnosticato un cancro alla prostata e più di 34.000 moriranno a causa della malattia. Ma il cancro alla prostata in genere cresce lentamente e, se rilevato precocemente mentre è ancora confinato alla ghiandola prostatica, c'è una possibilità di successo del trattamento. I ricercatori, che hanno pubblicato i loro risultati su European Urology, hanno analizzato i dati auto-riferiti sull'eiaculazione degli uomini che hanno partecipato allo studio. Lo studio è stato condotto dal 1992 al 2010, e gli uomini hanno completato i sondaggi mensilmente. La frequenza dell'eiaculazione è stata misurata quando gli uomini hanno iniziato lo studio, tra i 20 e i 40 anni. Dopo aver analizzato i dati e averli messi in relazione ad altri fattori, come l’indice di massa corporea, l’attività fisica, il consumo di cibo e alcol e i fattori di stress, hanno determinato che gli uomini che eiaculavano frequentemente - almeno 21 volte al mese - avevano un terzo in meno di probabilità di sviluppare il cancro rispetto quelli che eiaculavano dalle quattro alle sette volte al mese. «Questi risultati forniscono ulteriori prove di un ruolo benefico dell'eiaculazione più frequente durante la vita adulta nell'eziologia del cancro alla prostata, in particolare per le malattie a basso rischio», hanno scritto gli autori. Il legame tra eiaculazione e cancro alla prostata è stato controverso tra i ricercatori. Uno studio di Harvard del 2004 non ha trovato collegamenti tra eiaculazione e cancro alla prostata. Uno studio australiano pubblicato nel 2003 ha scoperto che gli uomini che eiaculavano spesso in giovane età adulta crescevano con un rischio ridotto di cancro.  Uno studio del 2008 condotto dall'Università di Cambridge ha scoperto che i tassi di cancro alla prostata aumentavano insieme alla masturbazione frequente. «Ci sono stati altri studi contraddittori. Ma la maggior parte di loro concorda sul fatto che c'è una diminuzione dell'incidenza del cancro a basso rischio», ha detto a Mashable il dottor Odion Aire, un esperto di urologia sudafricano. «Non c'è un verdetto chiaro per il cancro ad alto rischio, dallo studio». Gli uomini che hanno maggiori probabilità di sviluppare il cancro alla prostata hanno più di 50 anni e hanno origini africane. Anche mangiare molti latticini, fumare o essere obesi sono fattori che aumentano il rischio di contrarlo.  Alcuni credono che ci siano anche fattori genetici che rendono alcuni uomini più vulnerabili alla malattia. Gli esperti raccomandano che gli uomini a rischio di cancro alla prostata conducano test semi-regolari, perché scoprirlo presto potrebbe renderlo più facile da trattare.

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 20 febbraio 2021. Si dice che l' amore sia la medicina più potente di tutte. Sarà davvero così? In parte. Perché se è vero che di solo amore non si vive, è altrettanto corretto affermare che l' amore, da solo, non guarisce. Ha però una grande capacità di cura, che potenzia le sempre necessarie terapie mediche. La scienza ufficiale è molto cauta su questo punto, nonostante sia appurato che un amore intenso e felice possa riaccendere la voglia di vivere e agisca positivamente sul sistema immunitario, rinvigorendolo. E poi c' è il sesso, un vero toccasana per la salute, a patto che sia protetto contro le malattie sessualmente trasmissibili in caso di rapporti occasionali. I suoi benefici? Tanti: dal sonno alla pressione arteriosa, dalla linea al tono dell' umore. Non solo. Gli scienziati hanno scoperto che una sana attività sessuale allenta lo stress, fa bene al cuore, riduce il rischio di cancro alla prostata, potenzia le capacità mentali, aumenta l' autostima e fa passare il mal di testa (lo dice uno studio di ricercatori tedeschi, secondo i quali l' amplesso stimola il rilascio di endorfine nel cervello, sostanze che vengono chiamate "gli ormoni del benessere" e che sono antidolorifici prodotti dal nostro organismo). Avete capito bene, amiche mie: quelle volte che non avete voglia di concedervi (in fondo è un vostro diritto), meglio accampare un' altra scusa per essere prese sul serio. Ironie a parte, il vero nemico delle donne a letto si chiama "vestibolite vulvare" ed è causa di dolori così forti da costringere molte di loro a rinunciare ad avere rapporti, con conseguenti ricadute nella vita di coppia e non solo (può portare anche alla depressione). Sentiamo il parere della dottoressa Concetta Miele: ginecologa, psicoterapeuta e consulente sessuale di Napoli.

Dottoressa, è possibile per queste donne tornare ad avere un' appagante attività sessuale, senza più provare dolore?

«Sì è possibile. La vestibolite vulvare è legata all' iperattivazione di una cellula, il mastocita, che oltre a produrre sostanze infiammatorie, determina l' aumento delle terminazioni nervose periferiche del dolore. Il dolore, da campanello d' allarme, se trascurato cronicizza diventando neuropatico (si genera nelle stesse vie del dolore). Spesso si sottovaluta il dato organico e si ascrive la sintomatologia a un disturbo psicologico, che sicuramente coesiste quando la paziente diventa "impenetrabile". L' esame obiettivo e la storia clinica dell' interessata: età, infezioni vulvo-vaginali ripetute, microtraumi, stili di vita, iperattività dei muscoli perivaginali che può essere presente prima della vestibolite (vaginismo) o determinata dal dolore (dispareunia), consentono una corretta diagnosi. La terapia si basa sulla riduzione dell' attività del mastocita con l' uso di farmaci quali amitriptilina, acido alfa lipoico, Pea. Localmente si consiglia l' uso di gel specifici. È indicato il rilassamento dei muscoli perivaginali con fisioterapia, biofeedback di rilassamento, esercizi di yoga, automassaggio. Un percorso psicoterapeutico che agisca sull' ansia da prestazione (non è solo maschile), sulla ristrutturazione dell' immagine corporea e sui sensi di colpa sarebbe auspicabile, come auspicabile sarebbe il coinvolgimento del partner, che spesso avverte il rifiuto nell' intimità come un rifiuto personale. Il percorso richiede tempo e pazienza sia da parte delle utenti, sia da parte dello specialista dedicato. Inoltre i medici devono conoscere e riconoscere la patologia, per poter suggerire i trattamenti opportuni ricordando che "far bene l' amore, fa bene all' amore"».

Giampiero Valenza per "il Messaggero" il 25 dicembre 2021. Nella lotta ai tumori la radioterapia è un po' come puntare il mirino di un fucile sulle cellule cancerose. Quando si decide di premere il grilletto e di sparare le radiazioni queste vengono distrutte una ad una. La tecnica oggi si fa sempre più hi-tech, tanto che c'è chi la chiama chirurgia virtuale. Perché si interviene nell'organismo senza fare alcun taglio. Un tipo di cura in netta crescita. «Per molti tumori la radioterapia costituisce una valida alternativa all'intervento chirurgico e per altri ancora rappresenta l'unica possibilità di cura - spiega Cinzia Iotti, direttore della Radioterapia oncologica dell'Ausl-Irccs di Reggio Emilia e presidente eletto dell'Airo, l'Associazione italiana di radioterapia e oncologia clinica - La radioterapia è una disciplina in continua evoluzione. Direi straordinaria, evoluzione. Il suo impiego, da sola o in associazione con altre terapie, sta guadagnando settori sempre più ampi, anche nel paziente metastatico a cui un tempo si somministravano solo trattamenti puramente palliativi e che oggi può invece contare su approcci terapeutici molto più ambiziosi, mirati a migliorare la sua attesa di vita». 

LE CELLULE 

Quattro malati oncologici su dieci sono stati curati così, almeno per un ciclo. Proprio l'Airo ha fatto i conti di quanti pazienti sono passati, nel solo 2020, nei 104 centri italiani. I numeri raggiunti potrebbero riempire una media città. Sono stati, infatti, quasi 100.000: 47.044 al Nord, 34.686 al Centro e 18.014 nel Mezzogiorno. Tra loro, in 15.000 l'hanno usata per sferrare l'agguato finale ed eliminare completamente il tumore: circa la metà (il 48%) per le forme della prostata, il 21% per quelli alla testa e al collo, il 9% per il tumore della cervice uterina e il 22% per la forma non a piccole cellule che colpisce il polmone. Non tutti i raggi anti-cancro, quindi, si sono spenti durante la pandemia. «La radioterapia, ci dicono i dati, ha saputo affrontare le criticità e ha quasi sempre risposto alla domanda dei pazienti oncologici - commenta Vittorio Donato, presidente di Airo, capo dipartimento di Oncologia e direttore della divisione di Radioterapia dell'azienda ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma - Non ci sono state, ad esempio, battute d'arresto per i tumori testa-collo che sono considerati malattie rare e per il tumore della prostata che è stata la neoplasia più trattata dai radioterapisti con intento curativo». I primi raggi X per curare il cancro vennero usati dal medico americano Emil Grubbe. Era il 1896 e da allora la strada ne è stata fatta tanta. Oggi si usa un approccio integrato, con più professionalità che trattano uno stesso caso (oncologi, altri specialisti, fisici, ingegneri), e con la ricerca e nuovi macchinari che hanno permesso di ridurre i cicli.  

LE SEDUTE 

Si va meno in ospedale e a guadagnarci è anche la qualità della vita. Si è passati da 30-40 sedute tra le 6 e le 8 settimane a 20 sedute in un mese fino alle cure lampo, da 1 a 5. Gli effetti si vedono anche quando si fa il mix e alla radio si aggiunge la chemioterapia. Secondo l'indagine i centri che in Italia sono in grado di somministrarle tutte e due sono solo il 40%. Principalmente si tratta di strutture universitarie e grandi realtà ospedaliere. «Oltre il 56% dei tumori testa-collo vengono trattati in concomitanza con la chemioterapia, che vuol dire che il trattamento multimodale è vincente e porta a risultati ottimali anche se di difficile gestione - commenta Marcello Mignogna, direttore della Radioterapia oncologica dell'ospedale San Luca di Lucca e consigliere nazionale di Airo  La tecnica maggiormente usata è l'intensità modulata, quella modalità che consente di disegnare con estrema precisione la distribuzione della dose agli organi interessati dalla malattia e agli organi a rischio». L'obiettivo è quello di risparmiare quanto più possibili gli organi nobili che non sono coinvolti dalla malattia e che devono continuare a funzionare nella maniera corretta.  

LE DOSI 

Proprio il mirino che con perfezione millimetrica colpisce le cellule cancerose è al centro di diversi successi contro il tumore alla prostata, che rappresenta circa il 20% delle forme di cancro dell'uomo. Il 94% dei casi viene trattato con macchine di radioterapia che erogano fasci a intensità modulata, una tecnica che consente di somministrare la dose di raggi in modo efficace e puntuale. 

Metodo Di Bella: guariti dal tumore al seno e alla prostata senza chemio e senza radio. Giovanna Taormina mercoledì 12 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Il Metodo Di Bella continua a ottenere risultati. La “scelta antitumore” ideata dal professor Luigi Di Bella è stata portata avanti dal figlio Giuseppe. Dalla morte del padre il dottor Giuseppe Di Bella si è dedicato esclusivamente alla cura dei malati di cancro e alla ricerca scientifica con la creazione di una Fondazione. Ora parla di risultati. «Dal 2004 a oggi si sono presentati 533 tumori alla prostata», spiega in un’intervista a Radio Radio. Di questi una recente pubblicazione della Fondazione ha documentato come almeno «sedici casi hanno risposto molto bene senza operazione, senza chemio, senza radio, applicando come terapia di prima linea il Metodo Di Bella». Una notizia che non è sfuggita al mondo della comunità scientifica. Lo stesso Giuseppe Di Bella ha annunciato di aver ricevuto un invito dalla Società Europea di Oncologia per un Congresso che si svolgerà il prossimo autunno a Vienna. «Un altro degli elementi che cerchiamo di risolvere con la collaborazione dei colleghi è quello di potere cominciare a revisionare dei risultati. Quando io devo esaminare 533 cartelle per pubblicare un caso e per portarlo a un congresso devo dare tutta una serie di elementi. Ad un certo punto siamo stati invitati a un congresso di oncologia a Vienna». E poi ancora. «Adesso abbiamo tempo fino a settembre per il congresso di Vienna. Adesso in studio ho quattro dottoresse che collaborano, mi stanno aiutando… Comunque si sta facendo un certo tipo di lavoro. Ne approfitto per dire una cosa: la differenza tra il nostro risultato e il risultato delle terapie attuali è soprattutto l’intervento su quel percorso più insidioso del tumore per mutazione. Perché inizialmente oggi l’oncologia ottiene buoni risultati per il tumore alla prostata. Anche al di fuori dell’intervento. Perché fanno un blocco dell’ormone sessuale maschile che ha un ruolo importante nella crescita». Di Bella spiega come muta il tumore. «Ora, quello dura per un po’ di tempo. Dopo un po’ di tempo cosa succede? La siero-tumorale per mutazione diventa ormono-resistente. E non intervengono neanche sul meccanismo di crescita primario del tumore che è l’ormone della crescita. Se io mi prendo in cura un paziente con tumore alla prostata, che rifiuta l’operazione, rifiuta la radioterapia (…), io faccio un blocco completo dell’accesso a tutto quello che fa crescere i tumori. Contemporaneamente gli impedisco le vie di fuga dei tumori, le mutazioni». Il dottor Di Bella spiega a Radio Radio che «è un percorso che in alcuni casi, attenzione in alcuni casi, può consentire l’eliminazione del tumore. Attenzione: nelle banche dati mondiali non c’è una casistica di tumori della mammella guariti senza operazione. Uno che sia uno pubblicato con terapie oncologica non esiste. Ce ne sono venti pubblicati e curati con la Terapia Di Bella, non operati, non chemio, non radio trattati…».

Tumore della prostata, farmaci efficaci e buona qualità di vita. Nel mese dedicato alla salute maschile, i dati sulla neoplasia ci dicono che nuove molecole permettono di ridurre il rischio di morte senza effetti collaterali gravi. su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. Novembre è il mese dedicato alla salute maschile. E il tumore della prostata è quello di cui si parla di più. Soprattutto per i suoi numeri: è infatti il secondo tumore più comunemente diagnosticato negli uomini e la quinta causa di morte per cancro nei maschi a livello mondiale. Ogni anno, in Italia, si stimano circa 37mila nuovi casi di tumore della prostata, ma grazie ai farmaci sviluppati negli ultimi anni, più del 90% è vivo a 5 anni dalla diagnosi. Gli uomini affetti da carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione sono generalmente attivi e non presentano sintomi, ma sono a rischio elevato di sviluppare la malattia metastatica; circa un terzo dei pazienti con carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione sviluppa metastasi entro due anni. Una delle sfide più importanti è quindi quella di evitare l'insorgenza di metastasi, mantenendo inalterata la qualità di vita. "Novembre è il mese dedicato alla salute maschile, ed è sempre più importante poter disporre di armi efficaci come darolutamide per aiutare i pazienti con tumore della prostata a vivere meglio. I sintomi locali correlati all'apparato genitourinario possono influire negativamente sulla qualità di vita dei pazienti. Al momento della scelta del trattamento in un paziente con carcinoma della prostata non metastatico resistente a castrazione è importante, quindi, valutare farmaci come darolutamide che aiutano ad aumentare la durata di vita, riducendo il rischio complicanze correlate alla ripresa di malattia con un ottimo profilo di tollerabilità. Oltretutto, capire meglio il profilo di tollerabilità di una terapia aiuta a prevenire e a gestire gli eventi avversi indesiderati come fatigue, deficit cognitivo e ipertensione," afferma Daniele Santini, Ordinario di Oncologia medica presso l'università Campus Bio-Medico di Roma. "Gli ultimi risultati presentati confermano che il trattamento con darolutamide per un periodo prolungato permette ai pazienti di mantenere una vita sociale e lavorativa attiva". Nello studio di fase III ARAMIS, darolutamide, inibitore orale del recettore per gli androgeni, ha infatti dimostrato di ridurre il rischio di morte del 31% e di migliorare la sopravvivenza libera da metastasi, senza compromettere la qualità di vita dei pazienti. Risultati che sono stati confermati dalle  analisi dello studio ARAMIS presentate al Congresso dell'Associazione Americana di Urologia  e al Congresso della Società Europea di Oncologia Medica che hanno valutato darolutamide nei pazienti con carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione (nmCRPC). I dati di queste analisi forniscono una ulteriore evidenza che rafforza il profilo di efficacia e tollerabilità noto di darolutamide nei pazienti con carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione, con un progresso significativo della sopravvivenza libera da metastasi (MFS) e della sopravvivenza globale (OS), e un profilo di sicurezza favorevole in un periodo di trattamento prolungato paragonabile alla sola terapia di deprivazione androgenica (ADT).

Tumore alla prostata, ecco quali uomini rischiano di più e che cosa devono fare. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2021. Più casi in famiglia, geni ereditari, dieta scorretta e chili di troppo fanno salire il rischio. Prevenzione poco diffusa, ma basta una visita con l'urologo e il test del Psa dai 50 anni poi. Un uomo su otto in Italia farà i conti con una diagnosi di tumore alla prostata. Con 36mila nuovi casi diagnosticati nel 2020 in Italia è il tipo di cancro più frequente nel sesso maschile dopo i 50 anni, ma i numeri sono in aumento anche fra i più giovani. La buona notizia è che, se identificato in fase iniziale, oggi oltre il 90% dei pazienti riesce a guarire o a convivere anche per decenni con la malattia. La cattiva è sempre la stessa da anni: gli uomini sono restii ai controlli e la diagnosi precoce in oncologia può salvare la vita. «Sarebbe bene che tutti gli uomini dall’adolescenza in poi facessero almeno una visita l’anno dall’urologo per verificare lo stato di salute di reni vescica, prostata e organi genitali. Esattamente come fanno le donne con il ginecologo — sottolinea Giuseppe Carrieri, direttore del Dipartimento di Urologia all’Università di Foggia e componente del Comitato esecutivo della Società italiana di urologia (Siu), in occasione del 94esimo Congresso nazionale della società scientifica che si apre oggi a Riccione —. Poi a partire dai 50 anni, e dai 45 anni se c’è familiarità e si rischia di più, si parte con l’esame del Psa e, se è necessario approfondire, con la risonanza magnetica multiparametrica della prostata».

Gli esami: Psa e risonanza magnetica multiparametrica

Il test del Psa è un utile strumento di diagnosi precoce del tumore alla prostata: può favorire la scoperta della malattia in stadio iniziale, quando è più facile da curare e si può guarire definitivamente. Oggi è anche certo che può portare a molti casi di diagnosi e trattamenti in eccesso perché vengono anche individuati i tumori cosiddetti «indolenti», che clinicamente non sono significativi (in pratica potrebbero non comportare mai alcuna conseguenza per la salute degli uomini), con il rischio di un conseguente sovra-trattamento (cioè l’adozione di terapie inappropriate che comportano costi inutili per il Sistema sanitario e, in termini di effetti collaterali, anche per i pazienti). È in questo contesto che la risonanza magnetica multiparametrica ha un’importanza strategica, come hanno dimostrato sempre più ricerche negli ultimi anni — aggiunge Carrieri — . Questo esame evidenzia la morfologia della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti e rileva aree con caratteristiche particolari, diverse nel tessuto sano e in quello tumorale, consentendo di identificare le forme che meritano di essere biopsiate e quelle ritenute non pericolose».

Tumori da sorvegliare o da trattare

Gli uomini con una neoplasia non «pericolosa» possono poi tenere solamente sotto controllo la malattia con una strategia ben definita, la sorveglianza attiva, senza sottoporsi a cure che possono avere conseguenze come disfunzione erettile e incontinenza urinaria. «Le terapie a disposizione per il tumore alla prostata oggi sono moltissime — spiega Francesco Porpiglia, direttore dell’Urologia all’Università di Torino e all’Azienda Ospedaliera San Luigi Gonzaga di Orbassano —, sia per un carcinoma ai primi stadi, quando è localizzato e non ha ancora dato metastasi, sia nelle fasi più avanzate di malattia, dove abbiamo nuove molecole in grado di allungare e migliorare la vita anche dei pazienti più “difficili” da curare. E individuare un’alterazione genica nei nostri malati è sempre più determinante per scegliere la strategia terapeutica migliore nel singolo caso».

Chi rischia di più: eredità in famiglia

Ma chi è più a rischio di ammalarsi? «Senza dubbio chi ha una familiarità per questa patologia, che ha anche maggiori probabilità di avere una neoplasia più aggressiva e in età più precoce — risponde Carrieri —. Ovvero gli uomini con parenti di primo grado (padre e fratelli) con la malattia, soprattutto se manifestata in età inferiore ai 55 anni. Oppure quelli che hanno familiari con un tumore ereditario della mammella e/o dell'ovaio (per via dei geni BRCA). Gli uomini con un parente di primo grado affetto da questa malattia presentano un rischio fino a 3 volte più alto di svilupparla. Per chi invece ha più di un familiare colpito il rischio aumenta addirittura di 5 volte». Infatti recenti statistiche indicano che circa il 10-15% dei casi di tumore alla prostata è ereditario e una percentuale non trascurabile (tra il 20 e il 30%) presenta una mutazione dei geni BRCA1/2 o ATM che si associa spesso a una malattia potenzialmente meno responsiva ai farmaci più comunemente utilizzati. «Per questo è fondamentale identificare le mutazioni genetiche nelle forme avanzate della malattia, poiché in questa fase il tumore diventa un bersaglio sensibile a nuovi farmaci, come gli inibitori di PARP, efficaci nel contrastare le neoplasie causate da un gene BRCA mutato e già ampiamente utilizzati con successo contro il cancro di seno e ovaio, disponibili per la prostata solo in protocolli sperimentali» aggiunge Porpiglia.

Dieta scorretta e sindrome metabolica

Dunque anche gli uomini possono eseguire le indagini genetiche, che vanno però effettuate in condizioni ben precise. «Per esempio, in caso di multipli membri della propria famiglia con storia di tumore di prostata diagnosticato in giovane età oppure nel caso in cui sia presente un componente della famiglia con già nota mutazione genetica — precisa Porpiglia —. Attualmente sono rimborsabili solo in situazioni specifiche all’interno di un counseling genetico». Chi è poi più in pericolo? «Altri fattori di rischio vanno riscontrati nelle abitudini alimentari e nello stile di vita — conclude Carrieri —. A far lievitare le probabilità di ammalarsi sono soprattutto un alto contenuto di proteine nella dieta e la sindrome metabolica, una patologia caratterizzata da aumento della circonferenza dell’addome, ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia, ridotti livelli di colesterolo “buono” HDL e aumento della glicemia a digiuno. Se si hanno anche solo tre su cinque di queste caratteristiche si soffre di sindrome metabolica e sale il rischio di cancro perché si crea un microambiente favorevole alle cellule cancerose per svilupparsi e prolificare».

Vera Martinella per il Corriere.it il 10 ottobre 2021. Allungare la sopravvivenza e migliorare la qualità di vita dei pazienti con una forma più aggressiva di tumore alla prostata che, con circa 36mila nuovi casi individuati nel 2020 in Italia, è il tipo di cancro più frequente fra i maschi del nostro Paese. Sono questi gli obiettivi a cui puntano molte ricerche presentate durante l'ultimo congresso della European Society of Medical Oncology (Esmo). Grazie alla diagnosi precoce e ai progressi scientifici oggi il 90% dei pazienti è ancora vivo dopo 10 anni dalla diagnosi: un traguardo importante, soprattutto se si pensa che è una forma di cancro tipica dell’età avanzata e che la maggior parte dei malati ha più di 70 anni. In un’elevata percentuale di casi, però, la malattia evolve in una forma resistente alle terapie e metastatizza. Gli esiti di due sperimentazioni illustrate al convegno europeo indicano che una nuova combinazione di farmaci, già ampiamente conosciuti, può prolungare la vita degli uomini con un carcinoma prostatico sensibile agli ormoni e i risultati di un altro studio indicano come sia possibile, in chi ha invece una forma metastatica resistente alla terapia ormonale, arginare il dolore e ritardare peggioramenti nella quotidianità. Quando la neoplasia arriva a uno stadio avanzato nel 90% dei pazienti compaiono metastasi alle ossa che possono determinare un aumentato rischio di fratture, forte dolore, immobilità e di conseguenza ridurre la qualità di vita. La cura standard per gli uomini con un carcinoma prostatico metastatico è stata per decenni la terapia ormonale: il testosterone prodotto dai testicoli maschili, infatti, stimola la crescita del tumore e l'ormonoterapia cerca di contrastare questa azione rallentando o bloccando la sintesi del testosterone (deprivazione androgenica). Nel 2015, poi, è stato dimostrato che aggiungere il chemioterapico docetaxel migliorava la sopravvivenza dei malati e nel 2017 allo stesso risultato si è arrivati somministrando, insieme all'ormonoterapia, un agente ormonale di nuova generazione, abiraterone. Ma quale, fra le diverse opzioni, fosse il mix migliore fino a ora non era chiaro. I risultati delle studio PEACE-1, presentati al congresso Esmo 2021, indicano che utilizzare tutti e tre i medicinali (deprivazione androgenica, più docetaxel, più abiraterone) è la soluzione migliore soprattutto per gli uomini con una neoplasia molto aggressiva, con metastasi multiple. «Questo è il primo trial a indicare che ai pazienti con un carcinoma prostatico metastatico sensibile agli ormoni andrebbe offerta la tripletta, anche considerando che gli effetti collaterali sono stati per lo più lievi e la cura ben tollerata - ha commentato Karim Fizazi, oncologo medico dell'Institute Gustave Roussy di Villejuif, in Francia, e primo autore della ricerca -. In questo modo siamo riusciti ad aggiungere due anni e mezzo senza che la malattia progredisca: per la prima volta questi uomini possono aspettarsi di vivere oltre cinque anni dalla diagnosi, mentre prima la media era inferiore a tre». Lo studio STAMPEDE si è invece concentrato su malati con un carcinoma prostatico sensibile agli ormoni e localizzato, cioè senza metastasi, ma ad alto rischio di svilupparle. Circa il 20% dei casi al momento della diagnosi è in questa situazione e generalmente gli uomini ricevono ormonoterapia per due o tre anni abbinata a radioterapia a prostata e pelvi per prolungare la sopravvivenza. Ricerche precedenti hanno indicato che l'aggiunta di chemioterapia con docetaxel allonta il momento in cui la malattia progredisce, ma non allunga la vita dei malati. Ai partecipanti alla sperimentazione, è stata somministrata l'ormonoterapia da sola oppure associata ad abiraterone e predinisone. «Le conclusioni indicano che tutti i pazienti con questo tipo di tumore dovrebbero essere valutati per ricevere in aggiunta due anni di abiraterone - ha spiegato l'auore principale dello studio Gerhardt Attard, dell'Urological Cancer Research Center allo University College di Londra -. In questo modo si allungano sia il periodo precedente alla comparsa di metastasi sia la durata della vita dei malati. Ora dobbiamo valutare se la cura abbia gli stessi effetti somministrata per un periodo più breve oppure se, prendendola più a lungo, si possano ottenere risultati anche migliori». Infine, una terza sperimentazione (VISION) ha coinvolto 831 malati con carcinoma della prostata progressivo metastatico resistente alla castrazione, che sono trattati con 177Lu-PSMA-617, nuova terapia mirata con radioligando, in aggiunta al miglior standard di cura. Numerosi pazienti con questo tipo di neoplasia lamentano disabilità fisiche e notevole dolore perché le metastasi alle ossa possono determinare un aumentato rischio di fratture, grande sofferenza, immobilità e di conseguenza ridurre la qualità di vita. Gli esiti del trial indicano che, con il nuovo farmaco, migliora la quotidianità dei malati e si ritarda la comparsa dei sintomi più invalidanti. «Una componente non trascurabile del tumore alla prostata in stadio metastatico è la sintomatologia particolarmente debilitante e causa di ulteriori complicazioni per lo stato di salute e il benessere psico-fisico del paziente - ha commentato Giuseppe Procopio, responsabile dell'Oncologia medica genitourinaria della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Ad avvalorare l'importanza dei dati di questo studio presentati ad Esmo 2021 è il fatto che la terapia con radioligando apre una nuova prospettiva rivelandosi un’efficace opzione terapeutica, in grado di offrire ai pazienti, insieme a una buona tollerabilità, anche una prognosi favorevole in termini di durata e anche di qualità di vita». All’ultimo congresso americano Asco erano stati presentati i dati di efficacia e sicurezza dello studio VISION, in cui la terapia oncologica con radioligando in aggiunta al miglior standard di cura ha ottenuto una riduzione sia del 38% del rischio di morte sia del 60% del rischio di progressione della malattia. «Ora è possibile iniziare a pensare di personalizzare le scelte terapeutiche in modo estremamente preciso, consentendo una prognosi migliore anche ai pazienti più complessi, per i quali tutto questo si traduce in un aumento della durata e della qualità di vita - ha concluso Marcello Tucci, direttore dell'Oncologia all'Ospedale Cardinal Massaia di Asti -. Per i pazienti con carcinoma prostatico metastatico lo scenario è oggi del tutto diverso rispetto a pochissimo tempo fa ed è tuttora in continua, rapidissima evoluzione come in pochi altri settori dell’oncologia. Questi ultimi del trial VISION vanno a sottolineare i risultati positivi sulla qualità di vita, confermando le potenzialità di questo trattamento». 

Tumore alla prostata a basso rischio: la sorveglianza «attiva» è meglio di una terapia. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 17 agosto 2021. Gli uomini con una neoplasia non «pericolosa» possono vivere anni tenendo sotto controllo la malattia, senza sottoporsi a cure che possono avere conseguenze come disfunzione erettile e incontinenza urinaria. Quello alla prostata è il cancro più frequente tra i maschi a partire dai 50 anni di età di cui in Italia si registrano circa 36mila nuove diagnosi ogni anno, ma in circa 4 casi su 10 si tratta di carcinomi non aggressivi, a basso rischio di progressione, che possono essere tenuti soltanto sotto controllo e non necessitano di cure immediate. In questo modo gli uomini possono continuare a svolgere le proprie attività quotidiane senza dover affrontare quelle che sono le conseguenze indesiderate più frequenti e più temute delle terapie: disfunzione erettile e incontinenza urinaria. Nuove prove a favore dei programmi di «sorveglianza attiva», soprattutto per i maschi ultra 60enni, arrivano dai risultati di due ricerche presentate durante l’ultimo congresso della Società Europea di Urologia (Eau), uno svedese e l’altro coordinato dall’associazione pazienti Europa Uomo. «La mortalità è in calo dal Duemila ed è fondamentale che le terapie vengano personalizzate sul singolo paziente in base alle sue caratteristiche e al tipo di neoplasia, alla sua aggressività, al rischio che la malattia peggiori - sottolinea Riccardo Valdagni, direttore del Programma Prostata all’Istituto Nazionale Tumori (Int) di Milano e professore associato di Radioterapia all’Università degli Studi di Milano -. Dev’essere chiaro che non tutti i tumori vanno necessariamente curati: a volte servono trattamenti aggressivi, altre si deve soltanto tenere sotto osservazione il paziente ed evitargli così cure inutili e possibili effetti collaterali severi».

Sorveglianza utile per gli over 60. Nel primo studio sono stati analizzati i dati contenuti nello Sweden's National Prostate Cancer Register, il registro svedese che raccoglie le informazioni relative agli uomini di quel Paese che dal 1998 hanno ricevuto una diagnosi di carcinoma prostatico, 23.649 dei quali sono stati eseguiti con la sorveglianza attiva. «Questa opzione, introdotta nella pratica clinica da ormai quasi 20 anni, è riservata solo a determinate tipologie di malati: quelli con un carcinoma di piccole dimensioni e non aggressivo - chiarisce Valdagni, che è anche direttore della Radioterapia dell’Int, il centro italiano con maggiore esperienza in questa strategia -. Prevede di tenere sotto controllo il tumore, posticipando eventuali trattamenti al momento in cui la malattia cambia atteggiamento, se lo cambia. Rimandando così, per anni o per tutta la vita, insieme alle terapie anche i loro possibili effetti collaterali. Dal 2004 abbiamo seguito circa 1300 pazienti in Int e ad oggi nessuno di loro, in sorveglianza attiva, è deceduto o ha sviluppato metastasi». I ricercatori dell’Università di Gothenburg hanno valutato sia il numero di pazienti in sorveglianza attiva che negli anni sono deceduti a causa della neoplasia, sia la quota di quanti sono passati dai soli controlli a un trattamento (chirurgia, radioterapia o brachiterapia) e hanno concluso che, in particolare per i pazienti over 60, il monitoraggio è una scelta vincente: la maggior parte dei pazienti ha vissuto, infatti, 10 anni o più a lungo senza doversi sottoporre a una terapia e la percentuale di decessi è risultata molto bassa.

La scelta spetta ai pazienti. «Oggi si stima che circa il 40% dei casi diagnosticati ogni anno in Italia appartenga a una categoria di rischio basso o molto basso di progressione – ricorda Valdagni -. Questi pazienti hanno elevate probabilità che il loro tumore resti fermo nel tempo, non cresca, non dia metastasi e l’aspettativa di vita di queste persone è sempre più lunga. Di fronte a un tumore prostatico in classe di rischio basso, le soluzioni terapeutiche ottimali sono diverse: chirurgia, radioterapia, brachiterapia o sorveglianza attiva -. A parità di efficacia, la scelta va fatta prendendo in considerazione i possibili effetti collaterali. Sono gli uomini che, soppesando pro e contro di ogni opzione, devono stabilire cosa è meglio per la loro qualità di vita». Un altro studio presentato al convegno Eau 2021 ha analizzato proprio l’impatto del monitoraggio sulla vita sessuale dei malati, partendo da quanto i diretti interessati hanno riportato in appositi questionari sulla qualità di vita. «Lo studio EUPROMS (Europa Uomo Patient Reported Outcome Study) è il primo condotto direttamente da pazienti per altri pazienti – spiega Bernardo Rocco, presidente del Comitato Scientifico di Europa Uomo Italia, professore ordinario di Urologia all’Università degli Studi di Milano e direttore dell’Urologia all’Ospedale San Paolo -. Circa 3mila uomini in 24 Paesi europei hanno risposto all’indagine da casa loro, in modo da avere il tempo e la comodità per rispondere in modo esaustivo e sereno: meno del 45% degli interpellati in sorveglianza attiva ha riportato disturbi dell’erezione, mentre si sale al 70-90% dei maschi sottoposti ai trattamenti».

Visite dall’urologo dopo i 50 anni. Fortunatamente oggi oltre il 90% dei pazienti è ancora vivo dopo 10 anni dalla diagnosi di tumore prostatico: un traguardo importante, ottenuto grazie alla prevenzione e ai progressi della ricerca e della tecnologia. «Laddove i programmi di prevenzione si sono allentati, come è avvenuto negli Stati Uniti, si è riscontrato un aumento di casi diagnosticati in fase più avanzata - conclude Rocco - . E quanto più l’intervento non è tempestivo, tanto peggiori saranno gli esiti dei trattamenti. Citando le parole del professor Van Poppel, presidente del Comitato Scientifico di Europauomo, “la diagnosi precoce deve avvenire attraverso una strategia di screening adattata al rischio del singolo paziente, e questo consentirà di salvare altre vite”. Ed è proprio la visita urologica il momento nel quale si imposta la giusta strategia, sia di prevenzione che di eventuale trattamento: è consigliata a partire dai 50 anni o anche dai 45 in caso di famigliarità. E se viene diagnosticato il tumore prostatico? Sarà sempre l’urologo a valutare la possibile sorveglianza o viceversa la necessità di un trattamento attivo del tumore. Trattamento che, per garantire i massimi risultati sia oncologici che funzionali, dev’essere eseguito in centri di riferimento che dispongano delle risorse mediche, tecnologiche, organizzative, richieste per la gestione del tumore maschile più frequente».

Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 agosto 2021. Secondo un nuovo studio, gli uomini che eiaculano più spesso hanno un rischio inferiore di sviluppare il cancro alla prostata. I ricercatori dell'Università di Harvard hanno analizzato i dati di quasi 32.000 uomini e hanno scoperto che eiaculare almeno 21 volte al mese riduce di un terzo il rischio di sviluppare il tumore. I legami tra eiaculazione e cancro alla prostata non sono completamente noti. Tuttavia, alcuni credono che l'eiaculazione potrebbe liberare la prostata dagli agenti cancerogeni, ridurre l'infiammazione e anche portare a meno stress e dormire meglio, il che può ridurre il rischio di cancro. L'American Cancer Society afferma che il cancro alla prostata è il cancro più comune negli uomini statunitensi dopo il cancro della pelle. Si stima che a un uomo su otto verrà diagnosticato un cancro alla prostata nel corso della sua vita. Nel 2021, si prevede che a più di 248.500 uomini verrà diagnosticato un cancro alla prostata e più di 34.000 moriranno a causa della malattia. Ma il cancro alla prostata in genere cresce lentamente e, se rilevato precocemente mentre è ancora confinato alla ghiandola prostatica, c'è una possibilità di successo del trattamento. I ricercatori, che hanno pubblicato i loro risultati su European Urology, hanno analizzato i dati auto-riferiti sull'eiaculazione degli uomini che hanno partecipato allo studio. Lo studio è stato condotto dal 1992 al 2010, e gli uomini hanno completato i sondaggi mensilmente. La frequenza dell'eiaculazione è stata misurata quando gli uomini hanno iniziato lo studio, tra i 20 e i 40 anni. Dopo aver analizzato i dati e averli messi in relazione ad altri fattori, come l’indice di massa corporea, l’attività fisica, il consumo di cibo e alcol e i fattori di stress, hanno determinato che gli uomini che eiaculavano frequentemente - almeno 21 volte al mese - avevano un terzo in meno di probabilità di sviluppare il cancro rispetto quelli che eiaculavano dalle quattro alle sette volte al mese. «Questi risultati forniscono ulteriori prove di un ruolo benefico dell'eiaculazione più frequente durante la vita adulta nell'eziologia del cancro alla prostata, in particolare per le malattie a basso rischio», hanno scritto gli autori. Il legame tra eiaculazione e cancro alla prostata è stato controverso tra i ricercatori. Uno studio di Harvard del 2004 non ha trovato collegamenti tra eiaculazione e cancro alla prostata. Uno studio australiano pubblicato nel 2003 ha scoperto che gli uomini che eiaculavano spesso in giovane età adulta crescevano con un rischio ridotto di cancro.  Uno studio del 2008 condotto dall'Università di Cambridge ha scoperto che i tassi di cancro alla prostata aumentavano insieme alla masturbazione frequente. «Ci sono stati altri studi contraddittori. Ma la maggior parte di loro concorda sul fatto che c'è una diminuzione dell'incidenza del cancro a basso rischio», ha detto a Mashable il dottor Odion Aire, un esperto di urologia sudafricano. «Non c'è un verdetto chiaro per il cancro ad alto rischio, dallo studio». Gli uomini che hanno maggiori probabilità di sviluppare il cancro alla prostata hanno più di 50 anni e hanno origini africane. Anche mangiare molti latticini, fumare o essere obesi sono fattori che aumentano il rischio di contrarlo.  Alcuni credono che ci siano anche fattori genetici che rendono alcuni uomini più vulnerabili alla malattia. Gli esperti raccomandano che gli uomini a rischio di cancro alla prostata conducano test semi-regolari, perché scoprirlo presto potrebbe renderlo più facile da trattare.

Vera Martinella per il “Corriere della Sera” l'8 luglio 2021. Dopo anni di discussioni e la raccolta di una vastissima mole di dati, la comunità scientifica ha trovato un accordo sul test del Psa come strumento di prevenzione per la diagnosi precoce del tumore alla prostata: l'esame è utile e va consigliato agli uomini a partire dai 50 anni, ma è fondamentale che la sua esecuzione venga prescritta dai medici seguendo ben precise linee guida per due motivi. Prima di tutto perché se emergono dati fuori dai valori normali nel referto vanno ben interpretati dall'urologo che li deve spiegare al paziente e c'è a quel punto un nuovo iter di accertamenti da seguire allo scopo di ridurre il numero di biopsie inutili. La seconda ragione è che anche quando si arriva ad appurare la presenza di un tumore a non è detto che questa vada trattato e se non è «pericoloso» è utile promuovere l'utilizzo della cosiddetta sorveglianza attiva. Come si è arrivati a questa decisione? Importanti studi internazionali hanno coinvolto centinaia di migliaia di uomini in Europa e negli Stati Uniti e i loro esiti sono stati confrontati con le statistiche relative ai nuovi casi diagnosticati e alla mortalità per carcinoma prostatico negli ultimi 20 anni. «Il cuore del problema è evitare sia il rischio di diagnosi e di trattamenti in eccesso, sia di arrivare tardi alla scoperta del tumore, compromettendo le possibilità di guarigione - spiega Alberto Lapini, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (Siuro) e responsabile Prostate Cancer Unit all'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze -. A partire dagli anni Novanta la grande diffusione del test del Psa e l'aumento del numero delle biopsie hanno provocato una crescita delle diagnosi di carcinoma prostatico, in particolare di forme limitate e a basso rischio di progressione dove il trattamento poteva creare più problemi (incontinenza e disfunzione erettile) che vantaggi».  La ricerca scientifica ha infatti confermato che un gran numero di neoplasia prostatiche sono «clinicamente non significative»: si tratta cioè di tumori indolenti, di piccole dimensioni, non aggressivi e che non influiscono sulla vita del malato. Così nel 2008 gli esperti della Task Force americana si sono pronunciati contro l'utilizzo del Psa, ma questo ha portato a un drastico calo nell'esecuzione del test e, conseguentemente, ha determinato un aumento significativo di casi localmente avanzati o metastatici alla diagnosi. «Si potrebbe dire che, basandoci sulle migliori conoscenze scientifiche raccolte negli anni, ora abbiamo finalmente trovato la giusta via di mezzo - prosegue Lapini - e l'Associazione di Urologia Europea (Eau) ha impostato un programma di diagnosi precoce del cancro alla prostata che permette un bilanciamento tra il non fare niente o il fare troppo. Si tratta di un progetto innovativo (proposto alla Commissione europea nell'ambito del piano per battere il cancro 2021-2027) che è stato sposato e viene portato avanti da tutte le società scientifiche italiane che si occupano di urologia. In pratica, è stato elaborato un algoritmo che prevede un utilizzo «razionale» del Psa, che tiene conto di diverse fasce d'età e dei fattori di rischio degli uomini. E, quando necessario, dopo la visita con esplorazione rettale e in presenza di un Psa sospetto, prevede la valutazione del Psa-density e della risonanza magnetica multiparametrica della prostata come passaggi successivi di approfondimento diagnostico, prima di arrivare a una biopsia». La densità del Psa mette in rapporto il valore del Psa con il volume prostatico: da prostate più «grandi» ci si aspetta una produzione maggiore (e dunque livelli più elevati) di Psa. La risonanza multiparametrica, inoltre, analizza tre parametri (densità, diffusione e vascolarizzazione) ed evidenzia la morfologia della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti e al contempo rileva aree con caratteristiche particolari, diverse nel tessuto sano e in quello tumorale. «Bisogna che tutti gli uomini abbiano ben presente che valori elevati nell'esito del Psa (il test del sangue che misura l'antigene prostatico specifico) provano la presenza di un disturbo della ghiandola prostatica: può essere un'infiammazione (prostatite), un aumento del volume (ipertrofia), un'infezione o un tumore. Per questo, prima di allarmarsi e di decidere qualsiasi intervento bisogna valutare bene i risultati e procedere, se necessario, con altre indagini» chiarisce Giario Conti, primario di Urologia all'Ospedale S. Anna di Como e segretario della SIUrO. E anche quanto l'iter porta a una diagnosi di cancro, bisogna tener presente che fino a circa il 40 per cento dei casi di carcinoma prostatico corrisponde a tumori «potenzialmente insignificanti». Quindi, invece di trattarli ed esporre la persona alle conseguenze indesiderate che le tradizionali cure (chirurgia, radioterapia e brachiterapia) possono avere, vanno soltanto tenuti sotto osservazione. «La "sorveglianza attiva" è sicura ed efficace - conclude Conti. Il presupposto su cui si basa questa strategia è che l'evoluzione dei tumori a basso rischio sia così lenta (e solo locale, senza metastasi) da poter evitare o rinviare il trattamento e al tempo stesso mantenere la finestra di curabilità. Se la patologia cambia siamo in grado di interrompere il percorso osservazionale, intervenire tempestivamente e indirizzare il paziente al trattamento».

·        L'incontinenza urinaria.

Da ANSA il 17 ottobre 2022.

Fino a 5 milioni di italiani combattono ogni giorno con l'incontinenza urinaria, un problema che riguarda soprattutto le donne, che rappresentano un caso su 5 intorno ai 50 anni. Superati i 75 anni, il disturbo colpisce in misura uguale i due sessi e a soffrirne potrebbe essere un numero ben maggiore di persone, fino a 20 milioni di italiani, e si calcola che solo il 25% dei pazienti decide di iniziare una terapia. Sono i dati emersi durante il 95° Congresso nazionale della Società Italiana di Urologia (SIU) in corso a Riccione. 

"La paura di non riuscire a controllare la vescica è invalidante - spiega Antonio Rizzotto, presidente SIU e direttore del dipartimento di Urologia all'ASL di Viterbo, Ospedale Belcolle. Ecco perché diventa fondamentale rivolgersi al medico di base e in seguito all'urologo".

I percorsi di cura possibili sono tanti: possono basarsi su piccoli cambiamenti delle abitudini nella vita quotidiana (perdere qualche chilo di troppo, bere in modo regolare e normalizzare le pause tra una minzione e l'altra) oppure su tecniche di riabilitazione che puntano a rafforzare i muscoli del pavimento pelvico (esercizi di Kegel) - prosegue Rizzotto -. Ma se l'urologo lo ritiene opportuno, si può ricorrere ai farmaci e anche alla chirurgia".

Nella stragrande maggioranza dei casi l'incontinenza è curabile, anzitutto attraverso i farmaci, sottolinea Rizzotto. La tipologia più facilmente trattabile e risolvibile con le medicine è quella "da urgenza", che in genere ha origine della vescica e si manifesta con uno stimolo impellente. Le terapie regolarizzano la contrazione della vescica. 

Anche l'incontinenza "da sforzo", dovuta al fatto che lo sfintere non chiude come dovrebbe per cui basta un colpo di tosse, uno starnuto o prendere in braccio un bambino per perdere alcune gocce di urina, è curabile: "in questo caso la via più efficace è sicuramente la fisioterapia indirizzata al rafforzamento dei muscoli del pavimento pelvico. 

Non dimentichiamo, infine - conclude Rizzotto - che anche l'incontinenza totale si può risolvere grazie all'impianto di uno sfintere artificiale, una protesi collaudata ormai da decenni che consente di liberarsi una volta per tutte del problema"

·        La Tiroide.

Tiroide, problemi per una persona su 10: le regole della prevenzione a tavola. Tina Simoniello su La Repubblica il 24 Maggio 2022.

Sei milioni di italiani soffrono di una patologia tiroidea. Per lo più malattie non gravi e prevenibili. A partire da una buona alimentazione: mediterranea e con sale iodato.

È a forma di farfalla, sta alla base del collo, e regola i processi metabolici e il consumo energetico dell'organismo. La tiroide è la ghiandola endocrina probabilmente più nota, o almeno quella di cui si sente parlare più spesso. Non a caso, perché gli italiani colpiti da una qualche patologia tiroidea: dall'ipotiroidismo alll'ipertiroidismo (una ghiandola che funziona troppo poco o troppo), ai noduli (che colpiscono più del 50% delle donne), dalle tiroiditi autoimmuni ai tumori, sono circa 6 milioni: uno su 10. Ed è proprio per la notevole diffusione di queste malattie che una informazione corretta su quest'organo è necessaria.

Malattie curabili

"Tiroide e salute: io mi informo bene" è infatti il claim della Settimana Mondiale della Tiroide 2022, in programma dal 25 al 31 maggio col patrocinio nel nostro paese dell'ISS, Istituto Superiore di Sanità e promossa dalle principali società scientifiche endocrinologiche mediche e chirurgiche. "Le malattie della tiroide sono curabili: abbiamo trattamenti farmacologici e chirurgici per tutte le situazioni inclusi i tumori", dice Alfredo Pontecorvi, direttore di UOC di medicina interna, endocrinologia e diabetologia presso Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli- IRCCS e ordinario di Endocrinologia all'università Cattolica del Sacro Cuore.

La dieta giusta per la tiroide

Ma "le patologie tiroidee si possono anche prevenire - aggiunge - con una alimentazione che assicuri un adeguato apporto di iodio e di selenio". Che sintetizzando potremmo definire una dieta mediterranea con la sostituzione del sale da cucina con il sale iodato, un prodotto che dal 2005 grazie al programma di iodoprofilassi (Legge 21 marzo 2005, n°55) è obbligatoriamente venduto in ogni punto vendita alimentare ed utilizzato nelle mense scolastiche e aziendali "Occorre moderazione nell'utilizzo del sale, ma si dovrebbe usare sempre quello fortificato con iodio", aggiunge Pontecorvi.

Lo iodio e gli ormoni tiroidei

Lo iodio è un microelemento senza il quale gli ormoni tiroidei - T3 e T4, cioè triiodotironina e tiroxina - non potrebbero essere sintetizzati. T3 e T4 sono piccole molecole entrambe risultanti dalla fusione di due aminoacidi tirosina e dall'aggiunta di 3 atomi di iodio nel caso di T3 o di  4 atomi di iodio nel caso di T4.

Lo iodio viene assunto attraverso l'alimentazione (a proposito lo iodio non si respira, si mangia: l'aria di mare c'entra poco con la salute della tiroide), ma per ragioni geologiche, sulla crosta terrestre della nostra Penisola, di iodio ce n'è in quantità molto ridotta. Ce n'è invece di più nelle acque del mare e dei laghi.

Ebbene, se non assumiamo iodio a sufficienza, per il meccanismo di compensazione tipico delle ghiandole endocrine, aumenta il livello di un altro ormone, il TSH, prodotto dall'ipofisi con il compito di stimolare la tiroide a lavorare, cioè a produrre più ormoni. Un fenomeno di feedback negativo che, se esasperato e protratto nel tempo, può far aumentare di volume la ghiandola provocando l'insorgenza del gozzo (l'ingrossamento della tiroide in toto) e alla formazione di noduli.

"Con l'uso diffuso e estensivo dell'ecografia quella dei noduli tiroidei è diventata una epidemia perché se si effettua una eco tiroidea a un gruppo di donne più del 50% mostra la presenza di un nodulo. Ma va subito detto che in circa il 95% dei casi quel nodulo è benigno. Prevenire il gozzo e la formazione di noduli passa attraverso l'adeguato apporto di iodio nel corso di tutta la vita, anzi a partire dalla vita intrauterina", aggiunge Pontecorvi.

Pesci, crostacei, molluschi e alghe

Un tempo, quando la nostra alimentazione era basata sui prodotti locali assumevamo iodio in quantità molto scarsa, oggi consumiamo cibo proveniente da zone del mondo nelle quali non c'è carenza di iodio quindi il problema si è progressivamente attenuato, è il fenomeno della iodinazione silente della popolazione.

Ma in Italia abbiamo comunque una carenza di iodio e quindi dobbiamo supplementare la nostra alimentazione. Gli alimenti che contengono più iodio sono il pesce di mare (ma anche di lago) e poi crostacei e molluschi. Ce n'è tantissimo nelle alghe marine e nei mirtilli, ce n'è a sufficienza nelle uova, nel latte e nei derivati. "Quindi sì a una dieta variegata e sì al consumo di pesce, almeno 2-3 volte alla settimana. Oltre agli alimenti - dice l'esperto - contengono iodio alcune caramelle per il mal di gola, disinfettanti, dentifrici, mezzi di contrasto iodato, medicine per le aritmie cardiache: questa si chiama iodinazione indiretta, e in qualche caso può essere anche rilevante".

Quando iodio al giorno?

Per mantenere la tiroide in salute gli adulti devono assumere 150 microgrammi di iodio al giorno. Ma durante la gravidanza e l'allattamento i livelli aumentano. Il sale iodato ne contiene 30 microgrammi ogni grammo. Quindi, consumare quotidianamente i 5 g di sale raccomandati, sotto forma di sale iodato, garantisce il giusto apporto quotidiano di iodio. Il sale iodato non è una medicina, è un alimento e può essere assunto da chiunque, anche da chi prende farmaci per la tiroide e lo iodio può nuocere alla salute solo quando si superano 600 microgrammi al giorno "una situazione che di fatto davvero non rischiamo. In Italia stando agli ultimi dati Iss, oltre il 70% della popolazione è supplementata bene con lo iodio", dice lo specialista.

Il ruolo del selenio

Anche questo elemento è fondamentale per la salute della tiroide. Il selenio non partecipa alla sintesi degli ormoni tiroidei ma è però necessario a far funzionare le desiodasi, gli enzimi che, tagliando via un atomo di iodio, trasformano T4 in T3. Questa è una reazione essenziale, giacché la tiroide produce soprattutto T4, e solo una piccola quantità di T3 "ma è T3 il vero ormone tiroideo, circa 10 volte biologicamente più potente di T4 - spiega Pontecorvi - che infatti sui può considerare un pre-ormone".

Che cosa mangiare

Le noci del Brasile sono la migliore fonti di selenio, che si trova però anche nella carne, nei latticini, nel riso integrale, nei legumi, in alcune patate, nelle uova e nei funghi, e nel pesce: 85 grammi tonno a pinna gialla, per esempio, contengono circa 90 microgrammi di selenio. "Iodio e selenio sono i due microelementi più importanti per una corretta disfunzione tiroidea anche se una carenza di selenio non sembra si registri nella nostra alimentazione", dice l'endocrinologo. Che aggiunge: "Si sentono e si leggono in giro tante diete ad hoc per la tiroide, ma le evidenze scientifiche ad oggi ci dicono che solo iodio e selenio sono essenziali per la salute di questa ghiandola e per il corretto funzionamento dei suoi ormoni".

La questione del peso

"Ingrasso troppo, sarà questione di tiroide?" parole che si sentono pronunciare molto di frequente. Ma le cose stanno davvero così? Oppure, che la tiroide sia colpevole dei nostri aumenti ponderali è un po' un mito? "La tiroide regola il metabolismo e la produzione di energia di tutte le cellule. Un ipotiroideo, una persona la cui tiroide funziona di meno tende a consumare meno energia, riducendo il suo metabolismo basale. Ma nella maggior parte dei casi gli ipotiroidismi sono lievi, per avere un effetto evidente sul peso ci vuole un prolungato periodo di inattività della ghiandola", prosegue Pontecorvi. Che aggiunge: "Che gli ormoni tiroidei possano influenzare il peso corporeo è chiaramente dimostrato dalle forme di grave ipertiroidismo, cioè di eccessiva produzione di T3 e T4, che possono arrivare far perdere fino a 5-7 chili in un mese. Ma si tratta di un dimagrimento nocivo perché anche a carico della massa magra".

"Il paziente ipertiroideo infatti sviluppa una miopatia ipertiroidea che a volte non gli consente di salire le scale di casa, ecco perché utilizzare ormoni tiroidei nei cocktail dimagranti, come si usava qualche tempo fa, è un errore: gli ormoni tiroidei fanno leggere meno chili sulla bilancia, ma a tutto svantaggio del muscolo. Appena si smette di assumerli, e ci si ritrova con meno massa muscolare, luogo dove si bruciano le calore, e si riprende peso".

La gravidanza e i bambini

Le malattie della tiroide sono comuni anche nei bambini, a partire dall'ipotiroidismo congenito, che riguarda un bambino ogni 2500-3000. Si tratta della malattia tiroidea più frequente in età pediatrica ma per fortuna da anni tutti i bambini alla nascita vengono sottoposti a screening.

Un'altra patologia frequente nell'età evolutiva è la tiroidite di Hashimoto, una patologia autoimmune comune tra le femmine in età adolescenziale. "Più rari sono gli ipotiroidismi centrali causati da malattie genetiche o da malformazioni del sistema nervoso centrale, con un frequenza di un caso ogni 25mila bambini", dice Mohamad Maghnie direttore della Clinica Pediatrica dell'Istituto Gaslini, Università di Genova. Proprio all'ospedale pediatrico Gaslini il 25 maggio alle 17.00 è previsto un incontro sull'argomento Nutrizione iodica in gravidanza e in età pediatrica, e il 31 maggio dalle 14.00 alle 17.30 un Open Day per eseguire, gratuitamente e senza prenotazione, visite specialistiche endocrinologiche a bambini e adolescenti con sospetta o accertata patologia tiroidea (info: robertogastaldi@gaslini.org )

Rischio per i bambini

"Quando una donna in gravidanza non sa di avere una malattia tiroidea oppure assume poco iodio - riprende Maghnie - per il bambino che nascerà c'è il rischio di andare incontro a problemi cognitivi intorno agli 8-10 anni, come abbiamo dimostrato lo scorso anno pubblicando uno studio sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, questo perché la tiroide è coinvolta nello sviluppo del sistema nervoso", aggiunge il pediatra.

Ecco ma ora dalle malattie passiamo alla prevenzione, cioè alla dieta per una tiroide in salute, sia delle donne in gravidanza che dei bambini. "Fino alla pubertà la quantità di iodio raccomandata è compresa tra 40 microgrammi (il neonato) e 120. Dopo lo sviluppo il fabbisogno raccomandato è di 150 microgrammi, come per gli adulti - dice il pediatra - Le donne in gravidanza devono assumere 250 microgrammi di iodio: il feto nel primo trimestre non produce ormoni tiroidei in proprio, in questa fase dipende completamente da quelli materni per svilupparsi correttamente. La donna che allatta ha bisogno 250-300 microgrammi di iodio. Per raggiungere questi livelli sono importanti due cose: mangiare in maniera corretta, che significa per le donne incinte e che allattano e per i bambini svezzati soprattutto pesce, 2 o 3 volte alla settimana, e in particolare pesce azzurro, sardine, salmone, tonno...e poi - tiene a dire Maghnie - integrare lo iodio attraverso il sale iodato. Solo l'alimentazione, benché molto ricca di alimenti ad alto contenuto di iodio, potrebbe non essere sufficiente a raggiungere il  fabbisogno necessario di questo microelemento che essenziale per salute della ghiandola tiroidea". Un'ultima indicazione: quando si preparano i pasti non aggiungere sale iodato in cottura: la bollitura, la frittura o la cottura alla griglia fanno perdere al sale il 20-30% dello iodio.

·        L’Anemia.

Anemia, la dieta per contrastarla. Carenza di ferro e livelli troppo bassi, ecco l'anemia, tutte le indicazioni per riconoscerne i sintomi, tra prevenzione, cura e dieta adeguata. Monica Cresci il 27 Settembre 2022 su Il Giornale. 

L'anemia è nota anche come anemia sideropenica ed è legata ai livelli di ferro presenti nel sangue e a un'eventuale carenza, infatti in latino la parola sìderos significa ferro e penìa invece povertà. Conosciuta anche come anemia marziale, la problematica rimarca l'importanza del ferro per l'organismo, in particolare per il trasporto di ossigeno nel sangue. Del resto il ferro riveste un ruolo importante per la salute personale, perché contribuisce alla formazione dell'emoglobina. Una proteina importante presente nei globuli rossi, responsabile del trasporto di ossigeno nei tessuti e nel sangue, come già accennato. Scopriamo cos'è l'anemia, le cause, i sintomi e il ruolo di una dieta equilibrata. 

Una carenza di ferro può indicare la presenza dell'anemia che, in questo caso, è definita sideropenica. Ma la condizione si può presentare anche a fronte di altre condizioni come, ad esempio, una carenza di vitamina B12 e di folati, oppure per un'infiammazione a livello del midollo osseo quale centro della produzione dei globuli rossi. Anche l'insufficienza renale cronica può incidere, impattando sulla produzione di eritropoietina ovvero l'ormone che regola la produzione di globuli rossi. Ci sono anche una serie di condizioni maggiormente invalidanti quali le mielodisplasie, le leucemie, i mielomi e linfomi. Infine tra le cause che possono causare l'anemia sono presenti sanguinamenti ed emorragie, in alcuni casi di tipo latente e occulto all'interno del corpo, oppure durante la gravidanza e l'allattamento, a causa di interventi e operazioni chirurgiche riguardanti il tubo digerente, fino a una serie di difetti metabolici quali le malattie intestinali, la celiachia. Senza dimenticare l'alimentazione che può favorire la condizione, se non scelta in modo equilibrato e adeguato. La problematica si palesa attraverso una serie di sintomi comuni e ricorrenti, quali:

spossatezza

stanchezza e debolezza

mal di testa e insonnia

irritabilità

affanno, fiato corto

pallore, mani e piedi freddi

dolore toracico

unghie fragili, caduta dei capelli

bruciore alla gola

vertigini

formicolio alle gambe

Legumi, qual è la loro importanza per l'alimentazione

Rimedi e alimentazione mirata 

Per verificare i livelli di ferro nel sangue il medico dovrà prescrivere gli esami del sangue per valutare i quantitativi di ferritina, cioè il ferro di scorta nel fegato, ma anche la sideremia, quello che circola nel sangue, e la transferrina la proteina responsabile del trasporto del ferro nel sangue. Il medico potrà prescrivere l'assunzione di integratori e medicinali specifici, e in caso di mancata risposta suggerire esami e test mirati. Per prevenire questa condizione è necessario seguire un'alimentazione varia, equilibrata, ben bilanciata, che includa necessariamente cibi ricchi di ferro sia di origine animale che vegetale.

Nel primo caso si parla di ferro eme ovvero facilmente assimilabile dall'organismo e presente nella carne, come ad esempio quella rossa, da assumere non più di due volte la settimana e da alternare con prosciutto o bresaola, seguita da carne di tacchino, carne di maiale, frattaglie, fegato, pesce, tuorlo d’uovo, vongole e frutti di mare. I cibi di origine vegetale sono considerati non eme, con un processo di assorbimento più complesso ma che può trovare sostegno nell'integrazione della vitamina C. I più comuni sono la frutta e la verdura, in particolare a foglia verde scuro, ad esempio rucola, spinaci, ma anche le erbe aromatiche come prezzemolo, rosmarino, basilico. Se combinati con alimenti ricchi di vitamina C ne migliorano l'assorbimento, ad esempio pomodori, kiwi, fragole, agrumi. Il ferro è molto presente anche nei legumi quali ceci e lenticchie, nei funghi secchi, nella frutta secca soprattutto mandorle e pistacchi, nelle alghe e nel cacao amaro.

·        Il Diabete.

Diabete, si aggiungono nuovi farmaci alla lista di quelli prescrivibili dal medico di famiglia. Maria Giovanna Faiella su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022.

Con la «Nota 100» di Aifa alcune molecole innovative non saranno più «ordinabili» solo dagli specialisti. Una semplificazione per risparmiare ai pazienti lunghe attese

Una persona con diabete su tre è in cura con farmaci innovativi che fino a pochi mesi fa richiedevano il piano terapeutico, una particolare prescrizione fatta dal diabetologo del Servizio sanitario nazionale, da rinnovare periodicamente, anche ogni sei mesi. Da gennaio, con l’introduzione della «Nota 100» da parte dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), anche i medici di famiglia possono prescrivere questi medicinali agli adulti con diabete di tipo 2 in controllo glicemico non adeguato, cioè con emoglobina glicata superiore ai valori considerati dal dottore ottimali per l’assistito. La prescrizione di inibitori del SGLT2, agonisti recettoriali del GLP1, inibitori del DPP4 a carico del Ssn, da parte di medici curanti e specialisti, va fatta secondo le indicazioni contenute nella Nota Aifa, che si basano sulle principali evidenze disponibili e sulle Linee guida «La terapia del diabete mellito di tipo 2» elaborate da Società Italiana di Diabetologia e Associazione Medici Diabetologi e approvate dall’Istituto Superiore di Sanità a luglio 2021.

Che cosa cambia

«La prescrivibilità non cambia l’assistenza ma facilita l’accesso a farmaci innovativi preziosi per tutte le persone con diabete» osserva Agostino Consoli, che ha appena concluso la presidenza della Società italiana di diabetologia (SID) e ordinario di Endocrinologia all’Università di Chieti-Pescara. Gli fa eco il dottor Walter Marrocco, responsabile scientifico della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg): «Si è semplificato l’accesso alle cure più appropriate, agevolando il percorso del paziente e la sua aderenza alla terapia. Prima della nota 100, per accedere ai farmaci innovativi il paziente doveva recarsi dal medico di famiglia per la prescrizione della visita specialistica, poi andare dal diabetologo che redigeva il piano terapeutico, infine ritornare dal medico curante che registrava il piano e compilava la ricetta.

Accesso facilitato

«Ora basta andare dal medico curante, vicino casa. E il paziente non corre il rischio, come succedeva prima, di restare senza terapia in attesa dell’appuntamento con lo specialista per il rinnovo del piano terapeutico scaduto. Inoltre — continua Marrocco —, la possibilità per il medico di medicina generale di prescrivere direttamente farmaci innovativi di prima scelta, in base alle Linee guida, migliora nettamente l’appropriatezza e l’efficacia del suo intervento non solo nei confronti dell’assistito con diabete ma anche dei pazienti diabetici con altre patologie croniche associate, come quelle cardiovascolari e renali che, grazie a questi farmaci, si possono curare meglio».

Consumi in aumento

Da recenti dati del Centro Studi della Fimmg (su banca dati Netmedica), ricavati dal confronto delle prescrizioni di antidiabetici fatte da 250 medici di famiglia nei primi 9 mesi dell’anno scorso e quelle effettuate nei primi 9 mesi di quest’anno, risulta che «rispetto al 2001 c’è stato un aumento significativo dell’utilizzo di questi medicinali — riferisce Marocco —. Contemporaneamente si registra una riduzione dei trattamenti con sulfoniluree (in particolare della glibenclamide), indicate dalle recenti Linee guida come farmaci di terza scelta, cioè da utilizzare dopo aver verificato l’appropriatezza all’uso degli altri farmaci, quali in primis metformina, ma anche glifozine e agonisti recettoriali del GLP1, DPP4». Aggiunge Consoli: «Le sulfoniluree, secondo le Linee guida, andrebbero progressivamente sospese perché sono efficaci per il controllo glicemico ma non nel proteggere dalle complicanze specialmente quelle cardiache e, soprattutto, chi le assume corre il rischio di avere crisi ipoglicemiche».

Avvio del trattamento

«La prima prescrizione può essere fatta sia dal medico di medicina generale sia dallo specialista diabetologo — specifica il past president della Sid —. In ogni caso è necessario che il paziente abbia alcuni requisiti che rendano indicato questo o quel farmaco, quindi occorrono un’accurata anamnesi e i risultati di alcuni esami che consentano di stabilire qual è la funzione renale, di calcolare il rischio cardiovascolare e, ovviamente, il controllo glicemico». Per la prima prescrizione, alcune associazioni rimangono di esclusiva competenza del diabetologo, vale a dire: inibitori SGLT2 + inibitori DPP4, o anche inibitori SGLT2 + agonisti recettori GLP1, sia in modalità precostituite (molecole abbinate) sia estemporanee (molecole in confezioni diverse, associate dal paziente).

Piano terapeutico in scadenza

«Complessivamente oltre un terzo dei pazienti è in cura coi medicinali inseriti in nota 100 — riferisce Consoli —. Quando il vecchio piano terapeutico scade (in genere dopo sei mesi o un anno), si può rinnovarlo dal medico di medicina generale, il quale verifica le condizioni cliniche che rendono indicato l’utilizzo di quel farmaco e poi inserisce l’assistito nel nuovo piano terapeutico con nota 100».

Piano terapeutico da modificare

Spiega il presidente della Società italiana di diabetologia: «Se il medico di famiglia decide di cambiare la terapia perché non va più bene, può farlo in autonomia, oppure può avvalersi della consulenza dello specialista su come modificare la terapia in atto. Si tratta di una decisione clinica che prescinde dalla possibilità di cambiare la prescrizione di rimborsabilità». «La nota 100 — prosegue Consoli — è un’occasione per una spinta ulteriore a un’interazione virtuosa tra medici di medicina generale e specialisti di diabetologia. È impossibile pensare, infatti, che gli specialisti diabetologi possano prendere in carico, in toto, più di 4 milioni di persone con diabete».

Prescrizione online: i vantaggi

Per poter effettuare la prescrizione dei farmaci in Nota 100 il medico deve compilare la scheda allegata, che fino a novembre era in formato cartaceo. Dal primo dicembre è disponibile la scheda di prescrizione informatizzata, quindi il dottore può compilarla telematicamente attraverso il sistema Tessera Sanitaria (TS). «Sicuramente, almeno nei primi periodi, la procedura di prescrizione online sarà un ulteriore impegno per i medici prescrittori - inclusi quelli di famiglia - , ma consentirà di recuperare informazioni cliniche importanti — commenta Marrocco —. La scheda, ovvero il piano terapeutico, contiene infatti informazioni sul mancato raggiungimento/mantenimento degli obiettivi glicemici individuali prefissati, sull’eventuale rischio cardiovascolare del paziente, sull’esistenza di una malattia renale cronica, sull’eventuale controindicazione o intolleranza ad alcune molecole e altri dati clinici.

«È auspicabile — sottolinea il responsabile scientifico della FIMMG — che l e procedure informatiche per la prescrizione dei farmaci della Nota 100 siano il più possibile snelle e che si evitino problemi tecnici, troppo spesso causa di perdita di tempo nella nostra pratica quotidiana. È comunque opportuno fare una valutazione, a breve distanza di tempo, per verificare la funzionalità del sistema e le ricadute in termini di salute a favore dei pazienti» conclude Marrocco.

Dagotraduzione dal DailyMail il 29 maggio 2022.

Secondo un nuovo studio, quasi mezzo miliardo di persone nel mondo ha il diabete, ma la maggior non se ne rendo conto. 

I ricercatori dell’Università del Michigan hanno scoperto che il numero di persone che convivono con la malattia è quadruplicato dal 1980 ad oggi. Non solo. Il diabete non è più appannaggio dei paesi più ricchi, ma l’80% dei malati vive in paesi a basso o medio reddito. 

Lo studio è stato pubblicato su The Lancet e non ha avanzato teorie sui motivi della crescita esponenziale della malattia: in passato altri studi avevano individuato tra le cause i grandi spostamenti dalla campagna alla città, l'alimentazione e lo stile di vita.

I ricercatori hanno elaborato la previsione dopo aver esaminato 68.000 persone di età compresa tra i 25 e i 64 anni in 55 paesi a basso e medio reddito. Hanno scoperto così che circa la metà aveva il diabete, e più della metà dei malati non ne era cosciente. 

Quasi il 90% dei volontari aveva un diabete di tipo2, che a differenza del tipo1, chiamato giovanile, si manifesta con l’avanzare dell’età. 

Lo studio ha anche scoperto che i paesi più poveri hanno una maggiore prevalenza di diabete, ma che i malati che vivono lì hanno molte meno possibilità di accedere alle cure. In particolare, a essere colpite dal disturbo sono state le isole più piccole dell’Oceano Pacifico meridionale.

Il diabete può triplicare il rischio di infarto, portare a ictus, insufficienza renale, cecità, danni ai nervi. Inoltre si hanno 20 volte più probabilità di subire un’amputazione della gamba.

Diabete, i sintomi poco conosciuti. Glicemia alta per un milione di persone ignare. Elena Meli su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2022. 

Ogni giorno trascorso con troppo glucosio nel sangue provoca danni (per esempio alterazioni della vista), per questo la diagnosi precoce è fondamentale. Tuttavia il diabete spesso non dà sintomi evidenti. Ecco i segnali meno noti che potrebbero essere una spia della malattia

Gengive infiammate

In Italia i diabetici sono circa 4 milioni, ma si stima ci sia almeno un altro milione di persone del tutto ignare di avere la glicemia troppo alta. È bene quindi fare attenzione ad alcuni segni poco conosciuti (oltre alla sete costante e al frequente bisogno di urinare) che potrebbero essere una spia della malattia.

Esiste una correlazione strettissima fra malattie delle gengive e diabete: in chi soffre di parodontite, ovvero l’infiammazione gengivale di grado più serio che si manifesta con gonfiore, sanguinamenti, fastidio e ipersensibilità ai denti, la probabilità di diabete è del 20 per cento più elevata. Spesso è proprio il dentista il primo a sospettare la glicemia alta, tanto che la Società Italiana di Parodontologia ha di recente stilato un documento congiunto con i diabetologi per ribadire l’opportunità di indirizzare ai controlli i pazienti con gengive infiammate, specialmente se hanno altri fattori di rischio per il diabete come sovrappeso, obesità, sedentarietà.

Tra l’altro curare denti e gengive aumenta la possibilità di tenere sotto controllo anche il diabete: per esempio il valore dell’emoglobina glicata, indicativo dell’andamento della glicemia negli ultimi due, tre mesi, risente positivamente della diminuzione dell’infiammazione gengivale tramite interventi specifici del dentista, come la decontaminazione meccanica del biofilm di placca sui denti.

Alterazioni della pelle

Alcune condizioni cutanee possono essere segno di diabete di tipo 2. Una è l’acantosi nigricans, che si presenta con aree dove la pelle è più spessa e scura, spesso in prossimità di pieghe cutanee come le ascelle ma anche su mani, piedi, gomiti e ginocchia; dipende dall’aumento dei livelli di insulina in circolo che si ha nel caso di diabete di tipo 2, quando i tessuti diventano resistenti all’azione di questo ormone. Possono essere sintomi cutanei anche la pelle molto secca, soprattutto agli arti inferiori, e nel caso del diabete di tipo 1 la comparsa di ispessimenti cutanei su mani, piedi, fronte che rendono la cute più rigida (accade a circa una persona su tre) o la xantomatosi, più frequente nei maschi con diabete di tipo 1, in cui su mani, piedi e braccia compaiono piccole papule pruriginose con un alone rossastro.

Infezioni frequenti per lo «zucchero in circolo»

Chi ha il diabete ha un maggior rischio di infezioni batteriche a causa dell’eccesso di zucchero in circolo, che «nutre» anche i germi, e della contemporanea diminuzione delle difese immunitarie che si associa alla malattia; sono comuni per esempio infezioni ricorrenti della cute e delle vie urinarie. Altrettanto frequenti le infezioni fungine, per esempio provocate dalla Candida: in chi ha la glicemia alta vaginosi, piede d’atleta e simili possono essere il primo segno tangibile del diabete.

Alterazioni della vista

Le alterazioni dei vasi sanguigni connesse al diabete possono danneggiare la retina provocando una visione sfocata, difficoltà nella lettura o la comparsa di «mosche volanti» nel campo visivo.

Alterazioni dell’udito

Avere il diabete raddoppia il rischio di perdere l’udito perché la malattia danneggia il nervo acustico, alterando il modo con cui i segnali uditivi vengono trasmessi dall’orecchio interno al cervello.

Pipì a letto

Nei bambini che non hanno più il pannolino tornare a bagnare spesso il letto di notte può essere un segno di diabete di tipo 1; non bisogna però impensierirsi subito, l’evento deve capitare con una certa frequenza e in genere si accompagna anche ad altri segni a cui si deve fare attenzione, come l’aumento della sete e della fame e/o una perdita di peso.

·        Vampate di calore.

Vampate di calore a 70 anni, cause e rimedi. Cosa provoca le vampate di calore nelle donne e negli uomini over 70 anni e come minimizzare il fastidio, anche sperimentando alcuni rimedi naturali. Teresa Barone il 19 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Le vampate di calore sono una delle manifestazioni tipiche della menopausa, ma non solo. Queste fastidiose e improvvise sensazioni di incremento della temperatura corporea, infatti, possono comparire anche più avanti negli anni e, contrariamente a quanto si possa pensare, coinvolgono sia le donne sia gli uomini anche intorno ai 70 anni.

Capire la causa delle vampate può essere utile per trovare il rimedio più efficace e minimizzare i fastidi correlati, attenuando un problema che se trascurato rischia di compromettere la qualità della vita. In ogni caso, è sempre preferibile rivolgersi al proprio medico per ottenere un parere professionale e accertarsi dei fattori che determinano questo disturbo.

Come si manifestano le vampate di calore 

Le vampate di calore negli anziani insorgono in modo improvviso, generando una sensazione di forte aumento della temperatura soprattutto nella parte superiore del corpo, in particolare nel torace, nel collo e nel viso.

Alcune volte può comparire anche rossore, spesso accompagnato da un aumento della frequenza cardiaca e della sudorazione, fenomeno temporaneo che dura generalmente alcuni minuti. Le vampate, inoltre, possono fare la loro comparsa in qualsiasi momento della giornata e indipendentemente dalle condizioni climatiche esterne.

Le possibili cause delle vampate 

Escludendo la menopausa, che rappresenta la principale ragione delle vampate di calore nelle donne, la lista delle altre possibili cause include diverse patologie e altre condizioni legate spesso a disfunzioni ormonali. Negli uomini, ad esempio, le vampate sono spesso legate alla progressiva riduzione del testosterone e degli androgeni che si verifica durante l’invecchiamento.

L’elenco dei fattori scatenanti comprende anche:

assunzione di alcune tipologie di farmaci;

attacchi di panico;

diabete;

pressione bassa;

ipertiroidismo;

patologie tumorali, ad esempio relative alla prostata e ai testicoli;

rosacea;

couperose.

Rimedi efficaci contro le vampate di calore 

Spesso le vampate di calore sono una condizione transitoria di breve durata, destinata a risolversi spontaneamente. In altri casi, invece, può richiedere l’intervento del medico e l’assunzione di farmaci specifici, talvolta basati su terapie ormonali sostitutive.

Più in generale, per lenire i disturbi generati dalle vampate è possibile adottare alcune strategie efficaci e sperimentare alcuni rimedi utili, anche solo modificando le proprie abitudini alimentari. Uno degli accorgimenti più utilizzati, ad esempio, prevede la rinuncia ai cibi piccanti o troppo speziati, così come alle bevande alcoliche, al cioccolato e alla caffeina.

Da inserire nell’alimentazione di tutti i giorni, invece, sono sicuramente i cibi ricchi di vitamine e sali minerali indispensabili per integrare le sostanze perse con la sudorazione. Tra i rimedi naturali da provare figura indubbiamente la salvia: assunta sotto forma di tisana, rappresenta un prezioso alleato per contrastare gli effetti delle vampate e regolare la temperatura corporea.

Può essere di aiuto, inoltre, sia evitare i forti sbalzi di temperatura sia cercare di mantenere il peso forma e svolgere quotidianamente attività fisica, anche solo concedendosi una passeggiata all’aperto. Un valido supporto, infine, può essere dato anche dalla scelta degli indumenti: meglio capi traspiranti e leggeri, realizzati in cotone o lino e tessuti naturali, da indossare a strati in modo da alleggerirsi o coprirsi a seconda della necessità.

·        Mancanza di Sodio.

Mancanza di sodio: cause, sintomi, rimedi. Cosa provoca la carenza di sodio e come correre ai ripari per gestire i sintomi adottando i rimedi giusti, alimentari e non. Teresa Barone l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Il sodio presente nel sangue svolge un ruolo fondamentale per preservare la salute, sia garantendo una buona funzionalità muscolare e nervosa sia regolando la trasmissione dei nutrienti e dell’acqua all’esterno e all’interno delle cellule. Una carenza di questo minerale, quindi, può causare diverse problematiche anche di natura neurologica soprattutto ai danni dei soggetti più anziani.

La mancanza di sodio, chiamata in gergo medico iponatria o iponatriemia, si manifesta quando la concentrazione di questo elemento nel sangue scende oltre il livello di guardia. Il fattore età rappresenta un aumento del rischio di andare incontro a iponatria, specialmente se si assumono farmaci diuretici come terapia contro l’ipertensione: disturbo molto comune in età avanzata, porta spesso a eliminare drasticamente l’apporto di sale dalla dieta quotidiana. Questa sostanza, infatti, rappresenta la fonte maggiore di sodio dal punto di vista alimentare.

Cause della carenza di sodio 

Quali sono le principali cause della carenza di sodio nel sangue? Come anticipato sopra, il sodio cala quando l’organismo elimina elevate quantità di acqua ad esempio assumendo diuretici. Questa condizione può anche essere dovuta all’uso di farmaci antidepressivi o antidolorifici, a uno stato di disidratazione trascurata, alla presenza di patologie che coinvolgono i reni, il fegato, la tiroide o la ghiandola surrenale.

Anche una dieta a basso contenuto di sodio conduce spesso a una graduale carenza. In tutti questi casi è fondamentale tenere sotto controllo i livelli di sodio nel sangue, chiedendo consiglio al proprio medico e sottoponendosi regolarmente a prelievi ematici per monitorare i valori.

Come si manifesta l’iponatriemia 

La carenza di sodio può manifestarsi originando una serie di sintomi anche diversi tra loro, soprattutto se si tratta di cali improvvisi e repentini. Ecco una lista delle manifestazioni più comuni:

debolezza;

stanchezza;

stato confusionale;

nausea e vomito;

mal di testa;

crampi e dolori muscolari;

astenia;

irritabilità;

riflessi progressivamente rallentati;

alterazioni del battito cardiaco.

In rari casi, inoltre, livelli molto bassi di sodio possono avere sintomi decisamente più gravi come la perdita di coscienza, la mancanza di equilibrio, epilessia, convulsioni e rischio di coma.

Carenza di sodio: tutti i rimedi

 In caso di grave carenza di sodio si rende necessaria l’integrazione di soluzioni saline ipertoniche, che vengono somministrate in endovena sotto stretto controllo medico. Oltre ai farmaci specifici e alle terapie decise dagli specialisti che possono comprendere anche una riduzione dei diuretici, è possibile ricorrere ad altri integratori alimentari.

Sempre dal punto di vista alimentare, inoltre, chi soffre di mancanza di sodio può inserire nella dieta alcuni cibi che sono particolarmente ricchi di questa sostanza. Nell’ambito di una dieta normosodica, infatti, è possibile consumare con moderazione:

formaggi stagionati;

legumi precotti e conservati in acqua salata;

salsa di soia;

diversi prodotti da forno con integrazione di sale;

molluschi e crostacei;

alimenti in salamoia;

salumi e insaccati.

Si tratta spesso di cibi contenenti sodio ma anche elevate quantità di grassi saturi, che dovrebbero essere assimilati in quantità limitate. Per questo motivo è sempre importante valutare qualsiasi modifica alla propria alimentazione con il medico, per non aumentare il rischio di andare incontro ad altre problematiche di salute.

·        L’Asma.

Che cosa è l’asma grave e quali sono i sintomi a cui fare attenzione. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.

La campagna informativa «E se fosse asma grave» vuole migliorare la conoscenza della patologia anche in relazione alla presenza di rinosinusite cronica con poliposi nasale. Una terapia è possibile

Daniela è una docente di 52 anni, sposata, due figli. Insegna italiano alle scuole medie, ama la montagna. Un giorno, all’improvviso, durante una lezione sente un forte dolore al petto: le manca il respiro, la voce. In una sola parola quella sensazione è pura angoscia. Al pronto soccorso la diagnosi parla di attacco d’asma bronchiale. Non una malattia dei bambini, come molti pensano, ma una patologia che può insorgere anche da adulti. Dopo l’inizio della terapia inalatoria le cose sembrano andare meglio, ma è solo un’illusione temporanea perché in verità Daniela soffre di asma grave, ma il percorso che l’ha portata a una diagnosi e a una terapia efficace che ora le permette di tenere sotto controllo la malattia è stato lungo e tortuoso, con tanti alti e bassi, tra la voglia di nascondersi alternata al desiderio di combattere.

La storia di Daniela è raccontata in un podcast che si può ascoltare gratuitamente in tutte le principali piattaforme e fa parte della campagna informativa «E se fosse asma grave?» promossa da GSK Italia con il patrocinio dell’Associazione Nazionale Pazienti Respiriamo Insieme. L’obiettivo, grazie a una pagina Facebook dedicata e il sito «E se fosse asma grave», ricco di informazioni schematiche e chiare, è diffondere una maggiore consapevolezza sull’asma grave e sulla rinosinusite cronica con poliposi nasale, patologia spesso associata ma di difficile diagnosi.

L’asma grave associata a rinosinusite cronica con poliposi nasale

In Italia sono 300 mila i pazienti che soffrono di asma grave e 4 su 10 di questi soffrono anche di rinosinusite cronica con poliposi nasale. Spesso però la presenza dell’una non viene collegata all’altra o addirittura una insorge prima dell’altra non permettendo al paziente di correlare le due patologie. Può quindi trascorrere molto tempo prima di arrivare a una diagnosi e trattare i sintomi correttamente con un importante impatto sulla qualità della vita. «Gli attacchi hanno iniziato a manifestarsi con maggiore frequenza, in modo assolutamente improvviso - ricorda Daniela - e quello che mi faceva soffrire era la loro imprevedibilità. Tossivo, avevo il respiro corto, ma la difficoltà più grande è stata convivere con l’idea che poteva capitarmi in qualunque momento. Così ho scelto di nascondermi».

I sintomi: la difficoltà ad espellere l’aria

L’asma è una malattia caratterizzata da sintomi respiratori variabili nel tempo e per intensità (affanno, respiro corto, costrizione toracica e tosse), insieme a una limitazione del flusso d’aria durante l’espirazione. È ancora Daniela a ricordare quella terribile sensazione: «Era come se i miei polmoni fossero pieni d’aria e faticassero ad espellerla tutta». Nell’asma, soprattutto se grave, è caratteristica una riduzione dell’aria durante l’espirazione. Ciò vuol dire che nel corso dell’espirazione l’aria viene espulsa più lentamente. Questo succede perché nell’asma vi è un’ostruzione delle via aeree, dovuta all’infiammazione dei bronchi. Le pareti dei bronchi risultano inspessite, con muco in eccesso e contrazione della muscolatura bronchiale. Si spiega così anche il tipico respiro sibilante

Quando l’asma diventa grave (e non controllata)

L’asma diventa grave quando non è controllata nonostante l’aderenza alla terapia inalatoria alla dose massima. Si parla di asma non controllata se: il paziente ha almeno due attacchi d’asma all’anno che richiedono l’utilizzo dei farmaci corticosteroidi orali o se il paziente ha almeno un attacco d’asma grave all’anno che comporta il ricovero in ospedale. Ma non solo: è possibile che l’asma non sia controllata se sintomi come affanno, respiro sibilante, tosse e costrizione toracica si presentano più di due volte a settimana, se limitano le attività quotidiane, se causano risvegli notturni o richiedono l’uso di broncodilatatori più di due volte alla settimana.

I meccanismi infiammatori

L’asma, in particolare l’asma grave, si accompagna frequentemente a patologie concomitanti che possono incrementare i sintomi respiratori e ridurre il controllo della malattia. Una di queste è la rinosinusite cronica con poliposi nasale, in presenza della quale l’asma può anche essere più severa e più difficile da controllare con sintomi come olfatto ridotto e congestione nasale. I pazienti che presentano entrambe le patologie soffrono di un’asma più difficile da controllare con un maggior rischio di incorrere in attacchi d’asma.

I meccanismi infiammatori alla base di asma grave e rinosinusite cronica con poliposi nasale possono essere simili. L’asma è un’infiammazione cronica delle basse vie aeree (bronchi), la rinosinusite cronica con poliposi nasale è un’infiammazione cronica delle alte vie aeree (cavità nasali). Se coesistenti, asma grave e rinosinusite cronica con poliposi nasale possono condividere lo stesso tipo di infiammazione, chiamata infiammazione di tipo 2. Nell’infiammazione di tipo 2 giocano un ruolo chiave alcuni globuli bianchi chiamati «eosinofili». È stata dimostrata una correlazione tra i livelli di eosinofili nel sangue e gli esiti dell’asma, come gli attacchi gravi e il livello di controllo dell’asma. I pazienti che soffrono di asma grave e rinosinusite cronica con poliposi nasale hanno livelli elevati di eosinofili sia a livello del sangue che della mucosa nasale e questo potrebbe essere associato alla riduzione dell’olfatto.

La diagnosi

La diagnosi di asma grave è possibile quando l’asma rimane non controllata nonostante la terapia inalatoria alla dose massima o quando richiede tale terapia per essere controllata. La spirometria è il primo passaggio per diagnosticare l’asma , con il controllo di altri fattori modificabili. Se, nonostante la terapia inalatoria l’asma risulta ancora incontrollata, allora può essere necessario verificare la presenza di altre patologie come rinosinusite cronica con poliposi nasale, esaminando le cavità nasali. Viceversa, in caso di rinosinusite cronica con poliposi nasale è possibile verificare la presenza di patologie a carico delle vie aeree inferiori come l’asma grave. «Convivere con l’asma grave e la rinosinusite cronica con poliposi nasale è decisamente impegnativo. – osserva Simona Barbaglia, presidente dell’Associazione nazionale pazienti Respiriamo Insieme APS - Nonostante non se ne parli ancora spesso quanto invece noi vorremmo, in Italia, si stima ci siano circa 120.000 pazienti con asma grave che soffrono anche di rinosinusite cronica con poliposi nasale. Questi dati indicano che c’è un forte bisogno di consapevolezza non soltanto perché questa condizione compromette la qualità di vita di chi ne soffre, ma anche per l’impatto fortemente negativo dal punto di vista psicologico. Per questa ragione come associazione patrociniamo la campagna “E se fosse asma grave?” che si pone l’obiettivo di informare i pazienti e di stimolarli ad assumere un ruolo attivo nel proprio percorso terapeutico senza adattarsi ad una qualità di vita non ottimale e senza rinunciare alle adeguate cure».

Il percorso di cura

Arrivare a una diagnosi di asma grave con rinosinusite cronica con poliposi nasale non è quasi mai un percorso semplice ma la malattia può essere tenuta sotto controllo se ci si affida a un centro specializzato con un team multidisciplinare, per questo è importante rivolgersi al medico di base quando i sintomi dell’asma non sono controllati. «Il percorso di cura di un paziente con asma grave e rinosinusite cronica con poliposi nasale può essere molto lungo e complesso con ritardi che riguardano sia la diagnosi sia l’accesso alle terapie. – precisa la professoressa Gianna Camiciottoli, professore Associato, Dipartimento Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche “Mario Serio”, Università di Firenze e Responsabile Unit Asma Grave AOU Careggi, Firenze. – Per questa ragione è fondamentale far conoscere ai pazienti l’importanza di un percorso diagnostico-terapeutico personalizzato basato sulla multidisciplinarietà e sulla medicina di precisione, che consente al team di specialisti di fornire tempestivamente una diagnosi corretta e di scegliere la terapia più efficace. A tal proposito, da poco abbiamo a disposizione nuove strategie terapeutiche mirate che hanno migliorato la gestione sia dell’asma grave che della poliposi nasale, quando le due malattie condividono lo stesso meccanismo dell’infiammazione. Questi pazienti con asma grave e poliposi nasale devono essere identificati e avviati ad un corretto percorso di diagnosi e cura»

·        Le Spine.

Cosa succede se non si toglie una spina dal dito? Davvero può arrivare al cuore? Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022.

La penetrazione di una scheggia o comunque di un piccolo corpo estraneo sotto la cute (o un’unghia) è assai frequente. Bisogna sempre toglierla? I miti da sfatare, cosa si rischia e come procedere per evitare che le infezioni arrivino al sangue

La barriera della cute va in tilt

È sicuramente capitato a tutti almeno una volta di ritrovarsi con una spina o una scheggia sotto pelle, quindi si sa quanto possa fare male e sia spesso difficile da togliere. Ma per quanto dolorosa e complicata possa rivelarsi l’operazione di rimozione, gli esperti raccomandano di eseguirla in ogni caso, onde evitare che insorgano infezioni, anche potenzialmente gravi: «Qualsiasi corpo estraneo di piccole dimensioni come una scheggia, che penetra attraverso la nostra cute, interrompe la fisiologica barriera di difesa del nostro corpo — avverte il professor Paolo Del Rio, Direttore di Clinica Chirurgica Generale dell’Azienda ospedaliera universitaria di Parma —. La cute funge infatti da barriera verso l'esterno e ci protegge, ma se una scheggia ne interrompe la continuità, questa può teoricamente diventare una porta di ingresso per le infezioni e per i batteri. Un corpo estraneo come una scheggia che di norma entra nel nostro corpo durante i lavori manuali all’aperto non è un oggetto sterile, per cui se possibile e in base alle dimensioni, alla posizione, alle opportunità e alle competenze, deve essere rimosso».

Il rischio infezioni nel sangue

Quando un corpo estraneo entra sotto cute, uno dei pericoli da scongiurare è che un’eventuale infezione possa arrivare nel flusso sanguigno: «Qualsiasi agente patogeno, ovvero in grado di sviluppare una malattia, se arriva nel circolo sanguigno diventa un agente “pericoloso” — spiega ancora il professor Del Rio — perché l’infezione da locale diventa sistemica. In altre parole, può diffondersi a tutto il corpo e determinare quei quadri clinici definiti con il termine di “sepsi” che, se non curati in un ambiente adeguato e intensivo, sono pericolosi per la vita del paziente. Mi preme però tranquillizzare i lettori su quest’ultimo punto, perché una scheggia sottocute, nonostante sia penetrata attraverso la nostra barriera naturale, raramente può essere causa di disseminazione per via ematica. La situazione clinica sarebbe invece differente per un’ampia lesione traumatica, contaminata, con una vasta superficie di entrata per le forme patogene». «Una spina è una potenziale via di ingresso anche del Clostridiun Tetani (il tetano, ndr) — continua il professor Del Rio — per cui, in caso di contaminazione con terra e lavori domestici, è opportuno verificare sempre la copertura con il vaccino specifico e comunicarlo al medico».

Come rimuovere il corpo estraneo

La rimozione del corpo estraneo può essere fatta anche a casa, evitando però di avventurarsi in manovre rischiose e con materiale non sterile. «Se la spina è piccola e superficiale, si può rimuovere con delle pinzette sterili, dopo avere disinfettato la zona di penetrazione — rassicura l’esperto —. Al contrario, quando la spina è penetrata in profondità, è difficile da asportare e non si hanno le competenze necessarie, si deve contattare il proprio medico curante o, in caso di urgenza, il Pronto Soccorso di riferimento». Che si opti per il fai-da-te o si ricorra all’assistenza sanitaria, è comunque fondamentale disinfettare sempre la zona di penetrazione, prima e dopo la rimozione.

La spina che arriva al cuore

È opinione diffusa che se un corpo estraneo, anche di piccole dimensioni come una spina o una scheggia, riesce ad arrivare al cuore, le conseguenze potrebbero essere fatali. Ma il professor Del Rio sfata questa classica leggenda metropolitana senza alcuna rilevanza scientifica. «I casi di corpi estranei entrati nel circolo sanguigno e causa di arresto cardiaco non sono correlati o correlabili a una semplice scheggia penetrata nella pelle e in genere si associano a traumi maggiori».

La rimozione naturale

In caso di lesioni accidentali comuni, il corpo estraneo è spesso superficiale e facilmente rimovibile e a volte è l’organismo stesso che lo espelle spontaneamente, senza provocare alcuna reazione infiammatoria. Può però capitare che questo processo di «rimozione naturale» non si verifichi o che non si riesca a togliere la scheggia: in questo caso cosa succede? «Se il corpo estraneo, in genere di dimensioni ridotte, rimane nel sottocute, il nostro organismo mette in atto un’operazione di difesa, che porta alla formazione di un “granuloma”, ovvero una sorta di “bolla protettiva” che avvolge il corpo estraneo con un processo cicatriziale che lo isola. In base alla posizione e al contatto con altre strutture, soprattutto quelle osteoarticolari delle estremità degli arti, il rischio è però che il corpo estraneo possa causare un dolore locale alla compressione».

·         La Calvizie.

Caduta dei capelli, le cause e i nuovi farmaci per bloccarla (anche per le donne). Antonella Sparvoli su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Stress, genetica e carenza di ferro tra le cause. Nuove terapie destinate ai casi più gravi possono contrastare l’alopecia grave, ma va fatta attenzione agli effetti collaterali 

Quello della caduta dei capelli è un problema che affligge molte persone, in prevalenza uomini, ma non mancano i casi tra le donne. A volte si tratta di un fenomeno transitorio, altre no. La perdita dei capelli, in termini medici alopecia , può essere anche spia di altre condizioni che, con un intervento mirato, possono risolversi a beneficio pure della chioma.

Quali sono i tipi più comuni di alopecia?

«L’alopecia androgenetica è la forma più diffusa. Interessa soprattutto i maschi anche se non esclusivamente. L’uomo in genere presenta una recessione dell’attaccatura alle tempie e una perdita di capelli al vertice, mentre la donna tende ad avere un diradamento diffuso su tutta la parte alta dello scalpo — spiega il professor Antonio Costanzo, Responsabile dell’Unità operativa di Dermatologia dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano (Milano) —. L’alopecia androgenetica, come suggerisce il nome stesso, ha una base genetica che determina un’ipersensibilità del follicolo pilifero agli ormoni androgeni. In pratica in queste persone, soprattutto nella zona centrale del cuoio capelluto, a livello dei follicoli piliferi, c’è un’elevata quantità di recettori per gli androgeni, i quali sono in grado di fermare il ciclo cellulare del capello e indurne la miniaturizzazione. Ciclo dopo ciclo i capelli si assottigliano fino a diventare come la peluria di un bambino. In genere nella donna si manifesta dopo la menopausa. Un’altra forma comune di alopecia è rappresentata dal telogen effluvium. È una caduta molto veloce, che si manifesta soprattutto nella donna. Sebbene talvolta la perdita dei capelli possa essere progressiva nella maggior parte dei casi si risolve entro tre mesi dall’inizio con una ricrescita totale. Tre le varie forme di alopecia, questa è probabilmente quella più legata a episodi stressanti, ma possono essere coinvolti anche squilibri ormonali, come quelli che possono intervenire durante la gravidanza o la menopausa, oppure disfunzioni della tiroide. Inoltre può essere associata a carenze di vitamine o di ferro, fattori entrambi che possono peggiorare la perdita di capelli. Non se ne conosce bene la causa, il meccanismo è quello dell’inibizione improvvisa della divisione delle cellule del follicolo pilifero: da quel momento in poi, seguendo il ciclo del capello, c’è una caduta profusa che però non lascia mai il cuoio cappelluto completamente scoperto. Questa caratteristica aiuta a differenziarla dal punto di vista diagnostico da altre forme di alopecia».

Che cos’è l’alopecia areata?

«È una malattia autoimmunitaria con una componente genetica. La presenza di alterazioni genetiche porta a una sovraproduzione di citochine infiammatorie da parte da cellule del sistema immunitario che le rilasciano attorno al follicolo pilifero, bloccandone la funzione. Inizia con piccole aree dove i capelli cadono, zone che poi cominciano ad allargarsi. Spesso la caduta può interessare anche le sopracciglia e i peli del corpo. Oggi sappiamo che durante la malattia si attivano proteine (enzimi) che segnalano l’infiammazione all’interno della cellula, chiamate Janus chinasi (Jak)».

Quali sono i possibili rimedi anti-caduta?

«Gli interventi sono diversi a seconda della causa. Le principali terapie che possono essere proposte per contrastare l’alopecia androgenetica sono rappresentate da minoxidil e finasteride. Il minoxidil è un farmaco che aumenta l’apporto di sangue al follicolo pilifero, la cui azione non è però ancora ben conosciuta. In genere viene applicato localmente, tuttavia di recente negli Usa è stata approvata una formulazione in compresse. Ha come effetto collaterale l’abbassamento della pressione, che può però essere vantaggioso in alcuni pazienti. Può essere usato da uomini e donne e anche nel telogen effluvium.

La finasteride, nata come farmaco per il tumore della prostata e l’ipertrofia prostatica benigna, blocca la trasformazione del testosterone in diidrossitestosterone, che è la forma attiva. La conseguenza è un’inibizione della funzionalità dei recettori per il testosterone. Va assunta per bocca e può trovare impiego anche nelle donne, ma non durante l’età fertile perché in caso di gravidanza può provocare la femminilizzazione del feto se di sesso maschile.

Di recente L’Agenzia europea del farmaco ha approvato alcuni nuovi medicinali per l’alopecia areata, che colpiscono in modo preciso il bersaglio. Si tratta degli inibitori di Jak, oggi già usati per altre malattie autoimmuni come artrite reumatoide e dermatite atopica. Questi farmaci sono stati approvati per pazienti con più di 18 anni con forme gravi, che non hanno avuto benefici dal trattamento con corticosteroidi. In Italia non sono ancora stati approvati, tuttavia alcuni centri hanno la possibilità di ricorrervi per uso compassionevole

Per il telogen effluvium bisogna cercare di capirne la causa. Se si identificano carenze vitaminiche o di ferro, occorre reintegrare questi nutrienti, mentre se c’è una disfunzione della tiroide serve una terapia mirata. In alcuni casi possono risultare utili integratori di amminoacidi essenziali, in particolare la cistina, oppure il minoxidil. In caso di alopecia areata a volte i capelli ricrescono in modo spontaneo. Se non accade si può intervenire con cortisone da applicare o iniettare sulle zone interessate. Talvolta sono usate terapie con sostanze urticanti che mirano a “liberare” il follicolo pilifero dall’aggressione del sistema immunitario».

Quali sono gli effetti collaterali più temuti?

Molti uomini sono restii ad assumere la finasteride per il timore di effetti collaterali sulla sessualità, come riduzione del desiderio e difficoltà ad avere un’erezione. «La frequenza di questi effetti indesiderati non è comune. Il dosaggio usato per l’alopecia androgenetica è infatti di 1 mg al giorno, in grado di bloccare in media il 10 per cento dei recettori per gli androgeni. Proprio per questo motivo nella maggior parte dei casi la sua assunzione non altera la funzione sessuale. Tuttavia qualora dovessero manifestarsi questi disturbi in pazienti più sensibili è possibile interrompere la terapia, eliminando così tali inconvenienti. I dati disponibili su questo farmaco indicano che può contribuire ad arrestare la caduta dei capelli

Che cos’è l’alopecia, il disturbo di cui soffre Jada Pinkett Smith. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

Le caratteristiche e come si fa la diagnosi. Le prospettive di terapia e le altre patologie che portano a calvizie ma sono differenti. 

Che cos’è e chi colpisce l’alopecia, il disturbo di cui soffre la moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith? 

L’alopecia areata è una malattia dovuta a una disfunzione del sistema immunitario che non riconosce più i follicoli, li considera «nemici» e dunque li attacca e ne blocca l’attività. 

Colpisce il 2% della popolazione, uomini e donne.

Nell’alopecia areata c’è la caduta dei capelli (nelle fasi attive della malattia anche più del 30% del totale) e a volte anche dei peli di altre parti del corpo (ciglia, sopracciglia, barba).

Può essere a chiazze (con zone prive di capelli o peli), totale (quando la perdita si manifesta in tutto il cuoio capelluto), universale (se cadono tutti i capelli e i peli del corpo). Anche in caso di alopecia areata, e nelle forme più gravi, spesso la ricrescita dei peli può avvenire senza alcun trattamento, in particolare entro un anno dall’inizio della malattia (percentuale di guarigione fra il 34 e il 50%). 

L’alopecia femminile in Italia colpisce circa quattro milioni di donne, specialmente dopo la menopausa, quando l’assetto ormonale cambia e i capelli si assottigliano e cadono sempre di più. 

Per la diagnosi nelle donne, un tempo il marcatore principale utilizzato era l’iper-androgenismo (l’eccesso di ormoni maschili), in realtà si è scoperto che l’alopecia femminile può essere presente anche con livelli normali degli ormoni maschili. Lo specialista di riferimento è comunque il dermatologo. 

Nell’alopecia areata è presente una forte predisposizione genetica e ne possono soffrire anche i bambini. 

Come terapia, si può scegliere tra medicinali che agiscono sulla componente autoimmune dell’alopecia areata (come i corticosteroidi) o tra principi attivi che possono favorire la ricrescita di peli e capelli (minoxidil, antralina). Vi sono anche sostanze che sensibilizzano la cute inducendo reazioni eczematose nell’area trattata (difenciprone, acido squarico). Nel paziente pediatrico trova scarsa indicazione e applicazione l’immunoterapia topica. Sono allo studio farmaci biologici promettenti, i cosiddetti JAK-inibitori, che potranno avere un utilizzo sia topico che sistemico. 

Qualsiasi cura dev’essere protratta per almeno 9-12 mesi prima di poterne valutare l’efficacia. 

Anche a seguito di un cancro accade che ci sia una calvizie più o meno pronunciata, in alcuni casi per colpa degli effetti diretti delle terapie sui follicoli piliferi, in altri anche solo a causa del forte stress a cui si è sottoposte. Uno dei farmaci impiegati a questo scopo è lo spironolattone, a lungo sotto la lente dei ricercatori per gli effetti estrogeno-simili che hanno fatto dubitare della sua sicurezza nelle pazienti con tumore al seno. Ora una ricerca pubblicata sul Journal of the American Academy of Dermatology sembra autorizzare alla tranquillità nell’uso di questo farmaco. 

La caduta dei capelli può essere dovuta ad altre cause: ad esempio il cosiddetto «telogen effluvium» e l’alopecia «androgenetica», la classica calvizie. 

Il «telogen effluvium» è una perdita intensa e generalizzata (fino al 20-30% del totale dei capelli), spesso estesa all’intero cuoio capelluto, che colpisce quasi esclusivamente le donne. Spesso è però seguita dalla ricrescita. Un caso tipico è quello del post-partum: durante la gravidanza l’aumentata produzione di estrogeni favorisce l’attività dei follicoli che, dopo il parto, non sono invece più stimolati. Inoltre durante l’allattamento aumenta la prolattina, un ormone che indebolisce ulteriormente i capelli. Un altro periodo a rischio è quello della menopausa, per lo squilibrio ormonale che si viene a creare. Vi sono poi, soprattutto nelle donne, forme di telogen cronico che non sono semplici periodi di caduta protratta ma vere alterazioni nella dinamica del ciclo del capello: ne consegue un impoverimento della massa, spesso con accentuazione della stempiatura. Per diagnosticare il telogen ci si sottopone a un esame chiamato tricogramma, tramite il prevede di capelli, che vengono poi distinti in base alla fase del loro ciclo di vita: anagen (crescita), catagen (involuzione) e telogen (riposo). Se la percentuale di telogen supera il 20% si può parlare di «telogen effluvium». 

L’alopecia «androgenetica» è appunto la calvizie più tipica degli uomini ed è irreversibile. In questo caso i follicoli si rimpiccioliscono e dunque i capelli si assottigliano, in particolare sulla fronte e sulle tempie. Questo fenomeno, in forma lieve, è molto frequente con l’avanzare dell’età, anche nelle donne. L’alopecia androgenetica colpisce circa il 70% degli uomini e il 40% delle donne, soprattutto dopo la menopausa: negli uomini si manifesta con la perdita di capelli sulla parte alta della testa (che spesso rimane completamente calva), nelle donne c’è un diradamento generalizzato.

Alopecia, cos'è e come riconoscere la malattia della moglie di Will Smith. Novella Toloni il 28 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'alopecia è una patologia infiammatoria in varie forme e gradi, che colpisce i follicoli portando alla perdita di capelli e anche peli.

Negli ultimi tempi pare che servano grandi nomi per portare all'attenzione del pubblico alcune malattie di cui si sente parlare poco, ma che in realtà colpiscono milioni di persone. È il caso dell'alopecia, una malattia autoimmune che porta al diminuzione parziale o totale dei capelli o dei peli.

La scenata fatta da Will Smith alla serata degli Oscar - per difendere la moglie Jada Pinkett Smith affetta da alopecia - ha puntato gli obiettivi su una problematica, che colpisce non solo gli uomini ma anche le donne con percentuali crescenti. Secondo un recente studio di Sanders, infatti, 4 milioni di italiane soffrono di alopecia (una donna su quattro) con incidenza maggiore - a seconda della tipologia - nelle donne in menopausa.

Ma cos'è l'alopecia e in cosa si differenza dalla più comune calvizie? I due termini vengono spesso confusi e in realtà sono molto simili. Il termine calvizie viene utilizzato principalmente per definire il processo di perdita dei capelli per lo più in età avanzata e in aree localizzate del cuoio capelluto. L'alopecia, invece, può colpire anche in età molto giovane, evolversi a chiazze sparse (interessando anche la peluria), ma soprattutto comporta la perdita di capelli a ciocche.

Le forme sono numerose e tutte differenti tra loro. Principalmente si dividono in alopecia non cicatriziale (le più diffuse) e cicatriziali (che si scatenano da malattie rare come lupus, porocheratosi di Mibelli o epidermoliosi bollosa distrofica). Le forme più comuni sono: l'alopecia androgenetica (che riguarda solo i capelli delle zone frontali e superiori del capo), l'alopecia areata (che si manifesta con chiazze glabre generalizzate), l'alopecia areata totale (con la caduta di tutti i capelli) e l'alopecia areata universale (che riguarda la caduta di tutti i peli del corpo).

Le cause sull'origine dell'alopecia sono ancora poco conosciute ma gli studi puntano l'attenzione su cinque fattori scatenanti: genetico; psicologico (da stress o evento traumatico); nutrizionale (carenza di proteine, vitamine o minerali), biologico (da diidrotestosterone) o immunologico (diminuzione delle difese immunitarie o malattie autoimmuni). A definire la tipologia e la progressione della malattia sono le scale di Hamilton-Northwood (per gli uomini) e di Ludvig (per le donne).

Come riconoscere l'alopecia

Trattandosi di una patologia infiammatoria cronica che interessa i follicoli, l'alopecia può colpire anche in età giovane, costituendo un serio inestetismo soprattutto per le donne. La forma più diffusa in questo caso è l'alopecia areata, che si manifesta con la caduta improvvisa dei capelli - spesso a ciocche - e principalmente a chiazze sparse. Difficilmente si hanno sintomi di allarme o dolore, salvo in alcuni casi in cui la perdita è anticipata da prurito. L'evolversi della patologia è soggettivo. In alcuni soggetti può essere rapida in altri, invece, può avanzare più lentamente. Il disturbo, inoltre, ha un andamento imprevedibile (e riconoscibile solo dopo un attento esame medico, che ne valuta il grado) tanto che in alcuni casi si risolve spontaneamente, mentre in altri casi si hanno recidive.

Maurizio Stefanini per "Libero quotidiano" il 18 gennaio 2021.  

Avete problemi di calvizie? Evitate il Mozambico. Un pelato, secondo la Polizia della ex-colonia portoghese, sarebbe stato ucciso e decapitato da una banda di criminali che volevano vendere poi la testa a un cliente venuto per ciò addirittura dal Mali. Per ragioni non chiare, il cliente si sarebbe però poi eclissato. Insomma, ha perso la testa. A quel punto i criminali hanno deciso non tanto di mettere la testa a posto ma di metterla in qualche posto, abbandonandola in una zona della città di Muandiwa dove la Polizia la ha appunto ritrovata. 

Da quei popoli Jivaro dell'Amazzonia spesso presenti nei fumetti di Mister No a quei Dayak del Borneo che erano invece un must nei romanzi del ciclo malese di Emilio Salgari o ai Celti dell'antichità, sono stati molti i popoli per cui fino a tempi anche recenti la caccia e collezione di teste umane era un hobby non solo rispettato, ma anche consigliato a un guerriero di successo: nell'idea non solo di misurare il valore, ma anche di potersi così impadronire delle virtù dell'ucciso.

In Mozambico però la cosa è più sordida: semplicemente, almeno dal 2017 si è diffusa la superstizione secondo cui le teste calve porterebbero fortuna, e anzi conterrebbero addirittura oro. Da quattro anni, perché è appunto il periodo da cui la polizia del Mozambico ha iniziato a doversi occupare di questo tipo di delitto. Più precisamente, nel giugno del 2017 ci furono addirittura cinque delitti di questo tipo, per cui furono arrestati due ventenni nel centro di Milange: località presso i confini con il Malawi che è anche raccomandata ai turisti dai tour operator.

«La convinzione è che la testa di un uomo calvo contenga oro», spiegò allora in conferenza stampa Afonso Dias, comandante della polizia nella provincia centrale dello Zambezia, in Mozambico. Perché proprio di un calvo? «Perché c'è l'idea che se non ha capelli è ricco». Pare che le vittime fossero tutte di età più o meno avanzata. 

Non solo in Mozambico ma anche in Malawi e Tanzania ci sarebbe la credenza che non solo la testa, ma anche altre parti del corpo umano porterebbero buona sorte in amuleti e pozioni: soprattutto in amore, ma non solo. E gli albini avrebbero a loro volta una carica positiva più forte, come i pelati. Sembra che idee del genere siano state propalate dagli stregoni, che in questo modo cercherebbero di sbolognare pezzi di cadavere già utilizzati per i loro rituali.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 9 gennaio 2022.

«Sembriamo più giovani di dieci anni e abbiamo più capelli, questo è quello che ho visto accadere nell'ultimo ventennio grazie ai progressi di Dermatologia e Tricologia», parola del professor Santo Mercuri che il 24 gennaio 2002 diventava primario di Dermatologia dell'Ospedale San Raffaele di Milano e che, con la sua chioma alla Sandokan e la sua pelle liscia, sembra il manifesto dei 50 che sono i nuovi 40.  

Mercuri, volto anche tv (Basta poco e Myr su La5), chirurgo dermatologico e pioniere della medicina estetica rigenerativa, ha clienti illustri, primo fra tutti, Silvio Berlusconi. 

Nei suoi quattro lustri di attività, cosa non è cambiato? 

«L'ossessione per la caduta dei capelli e per la bella capigliatura. D'altra parte, già gli antichi romani portavano parrucche. Nel '700, erano status symbol tanto che venivano rubate. Oggi studi scientifici hanno dimostrato che perdere i capelli provoca calo di autostima e problemi psicosociali». 

Sono molto afflitti i pazienti che arrivano da lei? 

«Arrivano con sacchetti-feticcio pieni di capelli perduti. Dicono: guardi, li ho raccolti tutti oggi sotto la doccia». 

 Quanti se ne possono perdere senza allarmarsi?

«Fino a 50 o 70 al giorno. Se sono di più, serve una diagnosi per capire la causa. Il motivo più frequente di visita tricologica è il telogen effluvium, una perdita violenta dovuta a ragioni come il parto, una febbre o il Covid...».  

Che progressi ci sono contro la caduta dei capelli? 

«La svolta è il PrP, il plasma ricco di piastrine, arricchito in monociti: una tecnica di medicina rigenerativa che in Italia abbiamo sviluppato noi e che consiste nel prelevare sangue dal paziente, separarlo dalle piastrine, concentrare i monociti che hanno capacità rigenerativa analoga alle staminali. Si fanno microiniezioni sul cuoio capelluto. In tre sedute, bloccano la caduta».  

E aiuta anche nella classica calvizie? 

«Aiuta chi i capelli ancora li ha, ma l'alopecia androgenetica evolve sempre coniugando il verbo cadere e mai il verbo crescere. È importante iniziare subito con farmaci come il Finasteride, che però può provocare calo del desiderio sessuale, per cui, i più preferiscono restare calvi. Poi, c'è il Minoxidil, che ha meno effetti collaterali».  

Un luogo comune falso sui calvi? 

«Che sono più virili. Nella calvizie, pesano gli ormoni ma non in quel senso».  

Quand'è che passa la mano ai chirurghi perché resta solo il trapianto? 

«Io sconsiglio il trapianto prima che la calvizie sia stabile, perché finché i capelli cadono, si rischia di entrare in una catena di operazioni. Oggi, c'è il turismo tricologico: molti vanno a fare il trapianto in Turchia, ma ci sono strutture serie e altre meno che fanno il trapianto anche se è troppo presto o troppo tardi. Ho pazienti di ritorno da lì a cui i capelli non sono cresciuti e una giovane l'ha scampata perché le ho dimostrato che i suoi erano solo indeboliti». 

Per la pelle, quali le novità per il ringiovanimento? 

«La parola d'ordine è rigenerare. Il PrP si fa anche su viso, collo, décolleté».  

Nel 2014, disse che Berlusconi aveva la pelle di un quindicenne. Oggi, che direbbe della sua pelle? 

«Non posso ripetermi sui 15 anni ma ce l'ha splendida: è merito della genetica».  

Se viene da lei, un aiutino glielo fornirà. 

«Dirò solo che ama un mio siero con ialuronico e collagene, non in vendita». 

Mettiamola così: una pelle matura da che trattamenti può trarre benefici? 

«Da ultrasuoni focalizzati o laser frazionale Frax, detto "lifting della pausa pranzo" perché non lascia segni e si può subito tornare al lavoro».  

Anche Emilio Fede è suo storico paziente. 

«Ma quando apparve gonfio in tv non fui io. Non posso prendermi quel merito».  

Cristiano Malgioglio ha raccontato che l'ha salvato da un melanoma che rischiava di farlo morire. 

«Era venuto a farmi vedere un neo, stava andando in Brasile e non l'ho fatto partire».  

Anche Al Bano è suo fan. 

«Siamo amici, gli ho consigliato il PrP per mantenere la bellezza della chioma».  

Lei come fa ad avere i capelli neri a 57 anni? 

«Non mi tingo, è Dna e uso integratori: basta farsi consigliare quelli giusti per noi».

·        Il Prurito.

Over e il prurito sulla schiena: cause e rimedi. Il prurito sulla schiena colpisce in particolare la categoria senior, è fastidioso oltre che molto frequente, scoprirne le cause è fondamentale per la salute. Monica Cresci il 6 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il prurito è una condizione molto frequente che può colpire tutti, ma in particolare le persone senior. Può agire sulla cute, specialmente quella della schiena, creando una forte sensazione di fastidio generando così la necessità impellente di grattarsi. La categoria maggiormente colpita è costituita da persone over 65, in particolare di sesso femminile. Per questo gli esperti spesso lo definiscono come prurito senile, una problematica fortemente sottovalutata o curata in modo errato. Il prurito non sempre viene affrontato nel modo giusto e può perdurare nel tempo, senza che venga affrontato correttamente. Individuarne la causa è il primo passo verso una soluzione utile, scopriamo come. 

Il prurito è una condizione fisica che attiva una risposta di tipo sensoriale e, spesso, soggettiva con un’intensità e un livello di sopportazione che possono variare da persona a persona. Una sensazione che può anche risultare spiacevole, e che può agevolare una serie di reazioni come l'irritabilità, l'agitazione oppure l'insonnia. Risultando particolarmente fastidioso e anche spiacevole tanto da spingere verso l'urgenza di grattare la parte interessata, così da produrre un sollievo anche se momentaneo. Una risposta naturale ma che può agevolare irritazione e infiammazione, specialmente se l'azione è ripetuta con forza e con costanza. Sollecitando, al contempo, nuovi livelli di prurito che richiedono cure specifiche. Il prurito senile, invece, colpisce varie parti del corpo ma con una specifica predilezione per la schiena. Nella maggioranza dei casi non è solo un'esternazione fastidiosa, ma spesso un vero campanello d'allarme che rimanda a molteplici cause. 

Il prurito alla schiena colpisce con frequenza anche la categoria over e, come accennato, può indicare la presenza di qualche problematica. Ad esempio può palesarsi come conseguenza di un'eccessiva sedentarietà, data dall'impossibilità di muoversi agevolmente rimanendo così a letto per buona parte della giornata. Tutto ciò favorisce una forte secchezza della cute che appare molto disidratata, sottile, ruvida e con una scarsa presenza di sebo, una condizione nota come Xerosi. Ma il prurito senile che colpisce la schiena può palesarsi anche come reazione dell'assunzione di farmaci e medicinali, oppure come segnale o conseguenza della presenza di alcune patologie come diabete, insufficienza renale ed epatica, linfomi cutanei e micosi fungoidi. In alcuni casi questa condizione è agevolata anche da un'igiene personale sommaria e spesso legata a una scarsa autonomia e difficoltà nel movimento.

In presenza di patologie e problematiche mediche la soluzione è data dalla cura proposta dallo specialista, come ad esempio il diabetologo per il diabete. Per quanto riguarda le problematiche e i fastidi cutanei è importante rivolgersi a un dermatologo esperto, così da effettuare un'analisi approfondita della cute. Ma il prurito senile trova un valido supporto anche in una igiene accurata, grazie all'impiego di prodotti mirati. Preferendo una doccia rapida ma efficace, con il supporto di detergenti indicati per pelli senior e per questo maggiormente idratanti perché arricchiti con oli, acidi grassi, aminoacidi e creatina. In alcuni casi un impacco freddo o con avena potrebbe produrre sollievo, anche se temporaneo. Ma il prurito potrebbe palesarsi anche come reazione psicosomatica e come conseguenza di un disagio emotivo, o come risposta a una condizione di difficoltà fisica ed esistenziale. Per questo un supporto di tipo familiare o anche psicologico potrebbero fare la differenza, risultando di grande supporto per risolvere il problema ritrovando la serenità persa. 

·        Le Occhiaie.

Occhiaie, rimedi e cure delle ombre scure sotto gli occhi. Le occhiaie sono un inestetismo che si presenta sotto forma di ombreggiatura più o meno scura nella zona intorno all’occhio. Molte sono le cause che le provacano, su cui si può però intervenire sia a livello medico che estetico. Roberta Damiata il 6 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Le principali cause

 I diversi tipi

 I consigli per prevenire le occhiaie

 Come attenuarle

 Il correttore giusto

 I prodotti consigliati

Le occhiaie, ovvero le ombreggiature più o meno scure che si formano nella zona intorno all'occhio, talvolta accompagnate anche da gonfiore, sono una problematica principalmente di tipo estetico, presente in moltissime persone. Sono causate da situazioni di varia natura e, nonostante vengano chiamate tutte genericamente allo stesso modo, non sono tutte uguali. Visivamente rendono lo sguardo stanco, andando a incidere sull’aspetto generale della persona; ma non si tratta soltanto di questo, perché vista l’incidenza della problematica, sono stati pubblicati diversi studi e ricerche mediche per individuarne le cause.

L’incidenza è molto alta, a prescindere dall’età e dal sesso. Ci sono moltissimi giovani che si ritrovano a dover fare i conti con questo inestetismo e a cercare soluzioni e trattamenti per eliminarle. Questo perchè trovandosi in una parte estremamente esposta del nostro corpo, possono andare a compromettere e influenzare negativamente anche la qualità della vita, per questo è importante capire come vengono, e come poter intervenire per minimizzarle.

Le principali cause

Vanno ricercate in diversi fattori:

disturbi della microcircolazione

Stress e ansia

Sonno e riposo insufficienti

Vecchiaia

Eccessiva pigmentazione della zona oculare, detta anche iperpigmentazione

Esposizione prolungata ai raggi UV, che possono accelerare il processo di invecchiamento cutaneo

Lassità cutanea, ossia l’assottigliamento della zona del contorno occhi dove la pelle è per natura più delicata e sottile

Disidratazione, considerata una delle cause delle occhiaie, dell’assottigliamento della zone perioculare e dell’invecchiamento cutaneo

Uso di alcuni medicinali

Alimentazione sbagliata, è stato dimostrato ad esempio che dopo un pasto eccessivamente salato possono comparire

Lacrima di valle, ossia la depressione del bordo inferiore dell’occhio che si manifesta principalmente in età avanzata

Oltre a queste, ci sono anche tante altre cause che possono portare alla comparsa di questo inestetismo, come:

Sbalzi termici importanti

Problemi ormonali

Genetica e familiarità del problema

Abuso di alcol

Sfregamento della zona del contorno occhi

Fumo di sigaretta

I diversi tipi

Innanzitutto, anche se vengono genericamente chiamate tutte allo stesso modo, si possono dividere in due diversi tipi:

quelle da edema: caratterizzate principalmente da un accumulo di liquidi sottocutaneo. L'edema si può formare quindi per un ristagno di liquidi (tra cui sangue) e ritenzione idrica. Queste portano alle caratteristiche ombre scure attorno agli occhi, discromie che hanno colore molto diverso dal resto del viso. In questo caso si parla proprio di occhiaie.

le Ptosi di grasso: si formano quando il normale grasso sottocutaneo esce dalla sua posizione e fuoriuscendo crea le inestetiche borse che, proprio per questo, non sono variabili come le occhiaie ma tendono a rimanere fisse. In questo caso la soluzione definitiva è quella di ricorrere alla blefaroplastica, un'operazione che prevede l'incisione e l'esportazione del grasso, ovviamente previa visita medica.

Tornando alle occhiaie, queste si differenziano anche per colore

Nere: dovute a vari fattori. A parte quelli già elencati e che riguardano le occhiaie in generale, quelle nere in particolare possono essere dovute all'iperpigmentazione (ossia un'eccessiva concentrazione di melanina) o a una congestione emodinamica (ossia a una micro-circolazione rallentata al punto che i vasi sanguigni vanno in stasi o, una volta spezzati, portano al ristagno del sangue).

Rosse: l'alone rossastro delle occhiaie è dovuto quasi sempre ai vasi capillari di questa zona, che sono più fragili e si spezzano. La pelle di questa zona è più sottile e il sangue sottocuraneo rimane visibile. Spesso sono causate anche dalla mancanza di idratazione.

Viola/Blu: le occhiaie dal tipico colore violaceo sono dovute spesso a carenza di ferro, nella maggioranza dei casi si notano solo per una sottigliezza eccessiva della pelle, che lascia trasparire i vasi sanguigni. Nello stadio più avanzato e profondo, diventano blu.

Grigie: il colore grigio è spesso dovuto solo a una particolare conformazione dell'incavo che non permette a questa zona di prendere abbastanza sole. Frequenti sono nelle persone che indossano occhiali.

Incavate: esistono poi delle occhiaie particolarmente incavate che magari non hanno un colore particolare ma risultano eccessivamente rientranti e quindi visibili.

Occhiaie nere

Sono le più frequenti e quelle che rendono il viso spento, invecchiato e affaticato. Queste sono molto più evidenti in chi ha per natura una pelle molto sottile nella zona intorno agli occhi; in più, anche la genetica gioca un ruolo fondamentale nella loro comparsa. Tra le cause secondarie associate alla comparsa delle occhiaie nere c'è anche:

Pianto

Consumo eccessivo di bevande alcoliche e caffè

Aumento di peso

Occhiali da vista che possono peggiorare o sottolineare il problema, perché il peso dell’occhiale che poggia sul naso può ostacolare il microcircolo

Anemia

I consigli per prevenire le occhiaie

Per alleviare e nascondere le occhiaie, è molto importate anche prevenirle con uno stile di vita corretto e un'alimentazione sana. Ecco alcuni suggerimenti.

Bere molto: l'acqua combatte la ritenzione idrica e favorisce l'idratazione e l'elasticità della pelle;

Fare sport: il movimento fisico favorisce la buona circolazione sanguigna;

Smettere di fumare: la nicotina è un potente vasodilatatore;

Seguire un'alimentazione ricca di verdura, frutta e vitamine: ancora, ottima per l'idratazione di tutto l'organismo e il benessere generale;

Dormire bene e a lungo: almeno otto ore al giorno. Soprattutto concentrati sulla buona qualità del sonno. Per migliorarla, evitare caffè e sostanze eccitanti tre ore prima di dormire, evitare di andare a dormire con i device accesi perché la loro luce blu inteferisce con il ritmo circadiano (il ritmo fisiologico caratterizzato da un periodo di circa 24 ore, ndr), fare esercizi di rilassamento o bere una tisana rilassante prima di dormire.

Fare ginnastica facciale: qualche esercizio per i muscoli del viso migliorerà la micro-circolazione.

Come attenuarle

Ci viene in aiuto il make up. L’industria cosmetica infatti, vista l’incidenza di tale problema, ha messo in commercio diversi prodotti studiati per risolvere e diminuire la visibilità di questo problema.

Il correttore giusto

Per scegliere il correttore migliore bisogna guardare al proprio tipo di pelle, in quanto il correttore liquido è più indicato per una pelle secca che necessita di idratazione; mentre quello compatto, così come quello in polvere, sono perfetti per chi ha una pelle da normale a grassa, perché ha un effetto opacizzante e non occlude i pori. L'altra attenzione nello sceglierlo è in base al colore delle nostre occhiaie, che abbiamo specificato sopra, perché questi prodotti sono stati formulati in base alla tipologia di occhiaia.

Il colore esatto

Viola: tende a coprire le occhiaie beige e le discromie; è più indicato per le pelli olivastre e scure

Rosa: non è molto coprente, ma è efficace per rendere l’incarnato più luminoso e uniforme

Verde: pensato per attenuare eventuali rossori e ridurre la visibilità dei capillari intorno agli occhi

Giallo: indicato per le occhiaie violacee

Arancione-pesca: ideale per coprire le occhiaie nere

I prodotti consigliati 

Correttore in stick Hide The Blemish - Rimmel London. Coprente in stick efficace contro le imperfezioni, i rossori e i segni della stanchezza. Texture cremosa, morbida e scorrevole, si sfuma facilmente e si uniforma ottimamente con l'incarnato per un risultato ottimamente naturale. Alta coprenza della pelle fino a 5 ore. Formato tascabile. 

Correttore liquido Can't stop won't stop - Nyx. Disponibile in 24 tonalità ad alta pigmentazione, questo leggerissimo correttore liquido non migra e si presta a tre diversi utilizzi sulla pelle. La formula, dal finish matte e facile da sfumare, è ottima per correggere le imperfezioni, illuminare il viso e realizzare un contouring impeccabile su determinate zone. Un prodotto multiuso, che alla texture cremosa aggiunge un'ottima coprenza e una durata pari a 24 ore. 

Correttore Liquido Infaillible 24h - L'Oreal Paris. Waterproof e ad elevata coprenza, ha una texture leggera. Corregge e valorizza l'incarnato per una tenuta infallibile fino a 24h. Coprenza ottimale, utilizzabile su occhiaie o piccole imperfezioni oppure su tutto il viso per un incarnato omogeno, Pelle dall'aspetto luminoso e naturale.

Ideale come base per il make-up. Formula innovativa con il 30% di pigmenti colorati per una coprenza maggiore. Texture leggera che lo rende facile da applicare. Pratico formato pocket.  

Correttore fluido multiuso - Maybelline New York. Nascondere le occhiaie, corregge le imperfezioni e illuminare la carnagione. Adatto anche per nascondere le rughe. Correzione ultra mirata, copertura modulabile, finitura naturale e tenuta a lunga durata, occhiaie e segni di affaticamento cancellati in un attimo. Formula arricchita con bacche di Goji e aloxyl per rallentare l'invecchiamento cutaneo. Punta in schiuma ricoperta di migliaia di micro fibre morbide per raggiungere ogni imperfezione.  

Correttore in stick giallo - Physicians formula. Non asciuga e assicura una facile applicazione. Il giallo nasconde macchie, occhiaie e altre piccole imperfezioni della pelle. Formula ipoallergenica, senza profumo e non comedogenica. Raccomandato da dermatologi e chirurghi plastici. 

·        La Vista.

Retinite pigmentosa, una retina artificiale ridona la vista. Mariagiulia Porrello su Il Giornale il 31 Ottobre 2022

Uno studio dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova ha mostrato come sia possibile ridare la vista, grazie ad una retina artificiale, a chi è diventato cieco a causa della malattia ereditaria

Tabella dei contenuti

 Che cos’è la retinite pigmentosa

 Lo studio italiano

 Le prossime tappe della ricerca

Riacquistare la vista dopo averla persa a causa della retinite pigmentosa non è fantascienza.

Un progetto dell’Istituto italiano di tecnologia e dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova ha sviluppato una tecnologia rivoluzionaria e poco invasiva che permette ai ratti di riacquistare la capacità di vedere. E così lo studio sull’uomo si avvicina.

Che cos’è la retinite pigmentosa

La retinite pigmentosa è una malattia genetica e, tra le degenerazioni visive che danneggiano il funzionamento dell’occhio, è ancora tra le cause principali di cecità nel mondo. La patologia inizia con una difficoltà della visione crepuscolare e notturna e si manifesta con restringimento progressivo del campo visivo.

Lo studio italiano

Un modo per ridare la vista a chi l’ha persa c’è ed è al centro dello studio condotto dalla dottoressa Simona Francia, dal gruppo di ricerca del prof. Fabio Benfenati, dall’Istituto italiano di tecnologia (IIT) e dall’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

Gli esperti hanno verificato che la somministrazione di nanoparticelle biocompatibili permette ai modelli sperimentali di riprendere a vedere.

“Da diversi anni studiamo le potenzialità di nanoparticelle polimeriche costituite da minuscole catene di molecole di carbonio, l’elemento alla base delle sostanze che compongono il nostro corpo – afferma in una nota dell'ateneo Fabio Benfenati, coordinatore dello studio – e nel 2020 avevamo ottenuto i primi successi dopo averle iniettate nella retina di roditori affetti da retinite pigmentosa portatori di una mutazione spontanea alla base anche della patologia umana".

I dati dell'esame sono positivi anche in relazione agli stadi più gravi della patologia. "I risultati ottenuti dall’ultimo progetto – dichiara Benfenati - hanno dimostrato che la strategia è vincente anche per le fasi più avanzate della malattia, quando cioè la retina non è più in grado di inviare le informazioni visive al cervello”.

La prima autrice dell’opera, Simona Francia, sottolinea inoltre come lo studio sia un’ulteriore tappa verso la terapia di patologie come la retinite pigmentosa e la degenerazione maculare legata all’età.

“Non solo queste nanoparticelle si distribuiscono ad ampie aree retiniche permettendo di guadagnare un ampio campo visivo – sono le sue parole - ma in virtù delle loro piccole dimensioni sono in grado di assicurare un recupero dell'acuità visiva. Inoltre, l’iniezione delle nanoparticelle permette non solo di registrare segnali elettrici dalla corteccia visiva che sembrava essersi spenta ma anche di formare memorie visive, come dimostrato dai test comportamentali.

Le prossime tappe della ricerca

L'analisi, portata avanti in collaborazione con il prof. Guglielmo Lanzani dell’Istituto italiano di tecnologia di Milano e la dott.ssa Grazia Pertile dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, permetterà di fare grandi passi avanti rispetto alle tecnologie finora disponibili. Gli studi clinici potrebbero partire già nel 2025.

Simona Francia ha ricevuto, per il progetto ReVISION, il premio della Fondazione Roche.

L’intervento di cataratta? Gli oculisti: attese che arrivano anche a tre anni. Maria Giovanna Faiella su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Si aspetta a lungo, nel pubblico, anche per visite oculistiche e cure necessarie a salvare la vista, come in caso di glaucoma, degenerazione maculare, retinopatia diabetica

Un intervento di cataratta? Si possono aspettare anche tre anni per farlo in una struttura del Servizio sanitario nazionale. Chi può permetterselo si rivolge al privato, pagando, altrimenti si attende. Come pure tocca aspettare per ottenere un appuntamento, nel pubblico, per la visita oculistica e per fare esami necessari alla diagnosi di patologie oculari che possono compromettere la vista. È il grido di allarme della Società Oftalmologica italiana (SOI). Se non si corre ai ripari subito, avvertono gli oculisti, potrebbero raddoppiare le persone cieche e ipovedenti entro il 2030. I motivi? Le malattie che compromettono la vista sono in crescita, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione. Secondo i dati di Iapb Italia onlus, l’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità, o ltre 3 milioni di italiani sono a rischio di patologie gravi quali glaucoma, degenerazione maculare, retinopatia diabetica . Da qui l’appello degli oculisti alle istituzioni perché sia garantito a milioni di connazionali l’accesso alle migliori cure oculistiche nei tempi giusti.

Non è chirurgia estetica

Prima di ricevere la diagnosi, denuncia la Società oftalmologica italiana, spesso il paziente è costretto ad affrontare un percorso tortuoso con oltre tre accessi alla struttura pubblica e attese che superano molti mesi; e sempre più persone si trovano a dover mettere mano al portafoglio per salvaguardare la salute dei propri occhi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i difetti della vista sono la principale causa di ipovisione e di cecità. In Italia, invece, sottolinea la Società scientifica, si continua a considerare l’eliminazione dei difetti di vista con l’impianto di cristallini artificiali a tecnologia avanzata come una chirurgia a scopo estetico, non prevista dal Servizio Sanitario Nazionale.

Per esempio, spiega il presidente della SOI, Matteo Piovella:«La chirurgia della cataratta, che è un intervento di c hirurgia oculare maggiore ad alta complessità, ma con lunghi tempi di attesa nel pubblico, corregge tutti i difetti di vista sia quelli da lontano che da vicino, permettendo alla persona di guidare, vedere la televisione, leggere un libro o il giornale».

Quanto alle persone che soffrono di maculopatia, denuncia Piovella: «Ben il 70% dei pazienti non accede a terapie adeguate solo per inadempimenti burocratici».

Salvare la vista

La buona notizia è che in molti casi è possibile salvare la vista soprattutto puntando sulla prevenzione. Una volta di più gli esperti consigliano controlli periodici, a partire dai primi anni di vita. Anche le nuove tecnologie in ambito oculistico possono essere di aiuto per diagnosi sempre più precise come per i trattamenti di patologie oculari anche complicate. Secondo la Società Oftalmologica Italiana, però, solo l’1 per cento delle nuove tecnologie in campo oculistico sono disponibili nel pubblico. «Così – commenta il presidente Piovella – spesso il Servizio sanitario nazionale non riesce a garantire le migliori cure oculistiche. Sono necessarie risorse economiche adeguate per g arantire a tutti i pazienti l’accesso alle nuove attrezzature e tecnologie per una precisione diagnostica - che solo qualche anno fa non si poteva ottenere - e alle terapie d’avanguardia».

Ambliopia, cos'è il cosiddetto "occhio pigro". La prima visita oculistica deve essere fatta in età prescolare (3-4 anni) anche in assenza di sintomi. Maria Girardi il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Interessa il 4% della popolazione pediatrica mondiale e, se trattata in maniera corretta, si risolve entro i primi 5-6 anni di vita. Stiamo parlando dell'amblioplia, più comunemente nota come "occhio pigro". Si tratta di una condizione caratterizzata dall'indebolimento della vista di un occhio, più raramente di entrambi. L'ambliopia sopravviene nel momento in cui l'occhio e il cervello elaborano in maniera deficitaria l'input visivo. Il ruolo del cervello è fondamentale. Esso, infatti, trasforma gli stimoli visivi in un'immagine tridimensionale. Generalmente nei bambini il sistema visivo si sviluppa in maniera completa attorno ai 7 anni. Se quindi un'anomalia colpisce un occhio nel periodo della crescita, la qualità degli stimoli risulterà alterata. Il piccolo paziente, allora, utilizzerà solo l'occhio sano rendendo pigro l'altro. Ma quali sono le cause dell'ambliopia? E perché è necessario intervenire per tempo? Scopriamolo insieme.

Le cause dell'ambliopia 

La causa più frequente dell'ambliopia è lo strabismo, un disturbo alquanto comune nel quale gli occhi non sono orientati nella stessa direzione o sono mal allineati. Lo strabismo, che può essere intermittente oppure costante nel tempo, è determinato da un cattivo funzionamento dei meccanismi neuromuscolari che controllano i movimenti oculari. Questa anomalia comporta sintomi quali cefalea, diplopia, vertigini, bruciore e strizzamento degli occhi.

Difetti visivi, quali sono e come si correggono

Nell'insorgenza dell'ambliopia non devono poi essere sottovalutati i cosiddetti errori di rifrazione: miopia, ipermetropia e astigmatismo. Nella miopia i raggi luminosi vengono messi a fuoco davanti alla retina. Tutto ciò che è lontano, dunque, appare distorto e sfocato. Nell'ipermetropia invece, poiché i raggi luminosi vengono messi a fuoco dietro alla retina, sono le immagini vicine ad apparire poco chiare. L'astigmatismo, infine, è caratterizzato da una visione poco nitida sia da lontano che da vicino in quanto i raggi luminosi non convergono in uno stesso punto.

L'occhio pigro, seppur raramente, è la conseguenza di altre patologie oculari più o meno gravi:

Ptosi palpebrale;

Ulcera corneale;

Glaucoma;

Cataratta congenita;

Emangioma della coroide.

I sintomi dell'ambliopia 

Poiché l'ambliopia colpisce bambini anche molto piccoli, è difficile che questi riescano a riferire con chiarezza le problematiche visive che stanno vivendo. Per questo motivo la prima visita oculistica deve essere effettuata anche in assenza di sintomi in età prescolare (3-4 anni). I bimbi più grandi possono lamentare la difficoltà nel vedere bene con un occhio oppure nello scrivere, nel leggere o nel disegnare.

Problemi alla vista?  Dipende dal fegato

I genitori non devono sottovalutare segni come una ptosi palpebrale ossia la palpebra cadente e manifestazioni più o meno marcate come:

Poca sensibilità al movimento e al contrasto;

Movimento dell'occhio in maniera involontaria verso l'interno o verso l'esterno;

Incapacità del paziente di giudicare con precisione la distanza tra sé stesso e gli oggetti.

L'ambliopia non deve mai essere sottovalutata poiché nel tempo può arrecare danni permanenti alla vista o disturbi muscolari che necessitano quasi sempre una correzione di tipo chirurgico.

Il trattamento dell'amblioplia 

La prognosi dell'ambliopia è generalmente positiva se si interviene in maniera tempestiva, ovvero prima del completo sviluppo del bambino. Le strategie terapeutiche sono due. In un primo momento è opportuno correggere il difetto visivo di base mediante occhiali o lenti a contatto. Successivamente l'occhio pigro va stimolato e ciò è possibile coprendo l'occhio sano con una benda oppure somministrando nello stesso gocce di atropina che ne compromettono la vista per breve tempo.

Quando il cristallino si opacizza

La benda deve essere indossata per circa 3-6 ore al giorno per un periodo di tempo variabile da qualche settimana a pochi mesi. Sarà sempre l'oculista a stabilire la tempistica valutando con frequenti visite di controllo l'evolversi della condizione. L'atropina va somministrata sotto forma di una goccia al giorno. Possibili effetti collaterali includono mal di testa e irritazione agli occhi. Quando l'ambliopia dipende da una cataratta congenita è necessario l'intervento chirurgico.

La cornea artificiale che deriva dai maiali ha ridato la vista a 14 pazienti. Elena Dusi su La Repubblica il 12 agosto 2022.

In questo momento 12,7 milioni di persone attendono un trapianto di cornea nel mondo. Solo una su 70 però sarà soddisfatta. Per ovviare alla carenza si tentano varie strade, dalle cornee artificiali al trapianto di cellule staminali. In Svezia un gruppo di ricercatori dell'università di Linköping e dell'azienda LinkoCare Life Sciences ha costruito una cornea partendo dal collagene del maiale. Il collagene è una semplice proteina, può essere purificato, ripulito da tutte le cellule di origine animale e da eventuali virus, rafforzato con il laser per diventare più rigido ed elastico.

Questa cornea è poi stata impiantata a 20 persone, 12 in Iran e 8 in India, paesi in cui la presenza di malattie agli occhi è molto alta, ma i trapianti rari (e le regole sulle sperimentazioni meno rigide). A due anni dall'intervento in 19 hanno migliorato la vista. Tutti e 14 i volontari classificati come legalmente ciechi sono tornati a vedere: tre in particolare hanno recuperato 10/10. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Nature Biotechnology.

La cornea è la superficie più esterna dell'occhio, una lente trasparente a forma di cupola. "La sua curvatura deve essere perfetta per vedere bene, come la sua trasparenza" spiega Matteo Piovella, presidente della Società di oftalmologia italiana. "Un tempo era comune il trapianto di cornea intera, cosiddetta a tutto spessore, che era molto impegnativo. I punti andavano tenuti per due anni per il forte rischio di astigmatismo dopo l'intervento. Di recente abbiamo imparato a sostituire solo un foglietto posteriore sottile, l'endotelio, semplificando molto l'operazione. L'ultima novità consiste nell'uso delle cellule staminali, già diffuso in Canada, ma che in due anni dovrebbe partire anche negli Stati Uniti e poi arrivare in Europa".

Le staminali sono le cosiddette "cellule bambine", capaci di moltiplicarsi in modo molto rapido. Vengono prese da vari tessuti, coltivate in laboratorio e trasformate in endotelio, il tessuto posteriore della cornea. "La tecnica è molto promettente" prosegue Piovella. "Nel giro di qualche anno permetterà di curare il 95% delle malattie che oggi richiedono un trapianto". L'occhio dei ricercatori svedesi, iraniani e indiani è rivolto però a quei paesi in cui una malattia non viene diagnosticata in tempo. 

Da repubblica.it l'11 agosto 2022.

Una cornea artificiale, in collagene ricavato da pelle di maiale, è stata realizzata da ricercatori svedesi della Linköping University e dell'azienda LinkoCare Life Sciences. I primi test sono stati positivi e hanno consentito ai pazienti coinvolti nella sperimentazione, alcuni dei quali ciechi, di recuperare una buona funzione visiva. I risultati della sperimentazione sono stati pubblicati su Nature Biotechnology.

"Sebbene la cecità corneale possa essere curata mediante trapianto, si stima che 12,7 milioni di persone attendono un donatore di cornea, con una cornea disponibile ogni 70 necessarie", scrivono i ricercatori che hanno cercato di sviluppare un sostituto della cornea economico, accessibile e facile da impiantare. 

La cornea artificiale impiantata a 20 malati

Il dispositivo è stato creato utilizzando molecole di collagene derivate dalla pelle di maiale sottoposta a un processo di purificazione già usato per altre applicazioni mediche. La cornea artificiale è stato impiantata in 20 pazienti affetti da una malattia degenerativa della cornea (il cheratocono) in Iran e India. 14 di loro erano legalmente ciechi. Nelle settimane successive all'intervento, l'impianto ha dimostrato di essere in grado di correggere i danni legati alla malattia, ripristinando lo spessore e la struttura della cornea. 

Vista migliorata come dopo un trapianto normale

La vista dei partecipanti è migliorata in maniera analoga a quanto si sarebbe atteso dopo un trapianto di cornea naturale. I 14 pazienti ciechi hanno recuperato la capacità visiva e tre di essi hanno acquisito una visione perfetta di 10/10.

Aggirare la carenza di tessuti

"I risultati mostrano che è possibile sviluppare un biomateriale che soddisfi tutti i criteri per essere utilizzato per impianti umani, che può essere prodotto in serie e conservato fino a due anni e quindi raggiungere un numero ancora maggiore di persone con problemi di vista", ha affermato in una nota il coordinatore dello studio Neil Lagali. "Questo ci fa aggirare il problema della carenza di tessuto corneale donato e dell'accesso ad altri trattamenti per le malattie degli occhi".

Dal "Corriere della Sera" il 4 febbraio 2022.

Concetta Antico, un'artista e insegnante di San Diego in California, ha un'abilità riservata a pochi esseri umani: è tetracromatica, cioè vede colori e tonalità che la maggior parte delle persone non percepisce. Si sa che i «tetracromatici» hanno un recettore in più nella retina e riescono a vedere fino a 100 milioni di colori diversi, cioè quasi 100 volte la normale capacità di un essere umano di distinguere i colori che ha intorno. 

Per questo nei suoi quadri gli alberi di eucalipto sono colorati di viola e malva, il paesaggio di un giardino assume i contorni di una luce psichedelica. «In verità dipingo proprio quello che vedo. Dove le persone pensano che ci sia solo luce bianca, io vedo l'arancione, il giallo, il rosa, il verde e qualche sfumatura di magenta e un po' di blu» Nata in Australia, Antico da bambina era affascinata dalla natura e amava molto dipingere ma non era conscia della sua condizione che ha scoperto soltanto dieci anni fa. 

«Ho sempre sentito di vivere in un mondo magico ma non sapevo che per gli altri era diverso». Dopo aver finito l'università la giovane decise di lasciare l'Australia per San Diego negli Stati Uniti dove si mise ad insegnare arte. Fu proprio un suo studente a inviarle il saggio sulla tetracromatia che l'ha portata alla scoperta della sua speciale condizione.  

Sapere che gli altri vedono il mondo in modo diverso ha aiutato Antico ad essere più paziente con i suoi studenti ed a capire sua figlia che, al contrario è daltonica: «Le ho spiegato che è speciale e fantastica, le insegnerò io comunque a vedere i colori».

Presbiopia: perché con l’età si vede meno da vicino. Teresa Barone il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Quando si manifesta la presbiopia e perché dopo i quarant’anni la capacità di vedere da vicino si riduce: ecco tutto quello che c’è da sapere.

Capita spesso, passati i quarant’anni, di dover allungare le braccia e tenere a distanza il proprio smartphone o un testo scritto per poterlo mettere a fuoco o leggere con facilità. Questo è uno dei campanelli d’allarme della presbiopia, un difetto della vista che arriva proprio con l’avanzare dell’età e che richiede solitamente l’uso degli occhiali

La presbiopia è la diminuzione della capacità di vedere da vicino, in pratica il contrario di quanto avviene con la miopia che limita la visione degli oggetti lontani. È un termine di origine greca e si traduce generalmente con “vista da anziano”, proprio perché rappresenta un fisiologico cambiamento della capacità visiva che fa la sua comparsa a partire dai quarant’anni e che può acuirsi con il passare degli anni. 

Cause e fattori di rischio della presbiopia 

Con la presbiopia l’occhio perde progressivamente la capacità di mettere a fuoco gli oggetti vicini ma non si tratta di un difetto di refrazione della vista, come l’ipermetropia o l’astigmatismo. A causarlo è solitamente la diminuzione dell’elasticità del cristallino, chiamato a permettere una messa a fuoco ottimale e dotato di fibre muscolari molto flessibili. Quando queste ultime perdono la flessibilità, tuttavia, non permettono all’occhio di sfruttare pienamente la sua capacità accomodativa per visualizzare perfettamente sia gli oggetti lontani sia quelli vicini.

È il nucleo del cristallino, in particolare, a indurirsi a causa della perdita di acqua e a rendere la visione vicina sfocata. L’età è proprio il principale fattore di rischio della presbiopia, che tuttavia può manifestarsi anche prima dei quarant’anni in presenza di astigmatismo o ipermetropia, o come manifestazione di altre patologie specifiche che non necessariamente riguardano gli occhi.

Altri fattori che aumentano il rischio di diventare presbiti, inoltre, sono l’utilizzo prolungato di alcune tipologie di farmaci come gli antistaminici e i diuretici, ma anche l’abuso di alcolici.

È possibile prevenire la presbiopia? 

La presbiopia è un disturbo spesso fisiologico, tuttavia per diagnosticarla è fondamentale rivolgersi all’oculista e prestare attenzione alle primissime avvisaglie: solo uno specialista, infatti, è in grado di valutare in modo preciso questo difetto della vista per consigliare una soluzione efficace.

Solitamente, inoltre, nelle persone miopi avviene una sorta di compensazione tra miopia e presbiopia, pertanto questo secondo difetto appare meno evidente soprattutto nelle fasi iniziali. Per favorire il benessere della vista, in ogni caso, è sempre possibile mettere in atto alcune sane abitudini:

proteggere gli occhi dai raggi solari usando occhiali da sole di qualità;

consumare alimenti in grado di integrare sostanze preziose per la vista, come la vitamina A che vanta una notevole azione antiossidante e le vitamine del gruppo B, utili per tenere lontane le malattie degenerative che colpiscono gli occhi;

sottoporsi a visite oculistiche periodiche con cadenza biennale o annuale.

Rimedi e consigli utili

Gli occhiali da vista sono il rimedio più efficace per correggere la presbiopia, dispositivi da usare prevalentemente durante l’attività di lettura. Sarà l’oculista, inoltre, a valutare l’utilità di occhiali con lenti bifocali o multifocali in presenza di altri difetti della vista.

Un consiglio utile: creare una condizione luminosa ottimale migliora la capacità visiva durante la lettura, soprattutto in presenza di una presbiopia lieve.

·        La Lacrimazione.

Lacrimazione eccessiva degli occhi: perché succede e come ridurla. Antonella Sparvoli su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022

Nei bambini è piuttosto frequente che il problema sia causato da un’ostruzione congenita del dotto naso-lacrimale. Negli adulti, invece, è più spesso un problema batterico o virale

Lacrime che scendono lungo la guancia senza apparente motivo: è ciò che accade in chi soffre di iperlacrimazione, o in termini medici «epifora», fastidioso disturbo che può colpire grandi e piccoli. «Talvolta alla sua origine c’è un’irritazione della ghiandola lacrimale che causa un’alterazione della composizione delle lacrime o, più di rado, della loro quantità — premette Paolo Nucci, professore ordinario di oftalmologia all’Università degli Studi di Milano —. Tuttavia nella maggior parte dei casi l’epifora è conseguenza di uno scarso drenaggio delle lacrime, dovuto a un’occlusione parziale o completa delle vie lacrimali a vari livelli».

Com’è fatto l’apparato lacrimale e perché si può alterare?

«L’apparato lacrimale è costituito da unità secernenti e unità drenanti. Le prime sono rappresentate da un gruppo di ghiandole (ghiandola lacrimale principale e alcune ghiandole lacrimali accessorie) che si occupano della secrezione delle tre componenti principali del film lacrimale (lipidica, acquosa e mucosa) sulla superficie del bulbo oculare. La porzione drenante è invece costituita dai punti lacrimali, dai canalicoli lacrimali, dal sacco lacrimale e infine dal dotto naso-lacrimale. In pratica una volta prodotte, le lacrime passano attraverso questo sistema di piccoli canali per essere raccolte prima nel sacco lacrimale e scorrere poi nel dotto nasolacrimale. I disturbi della lacrimazione sono il risultato di alterazioni del fisiologico processo di produzione e deflusso delle lacrime».

Quali sono le principali cause di epifora nel bambino?

«Quando il fenomeno si verifica in età pediatrica è molto facile che derivi da un’ostruzione congenita del dotto naso-lacrimale, condizione che interessa circa il sei per cento dei neonati. Il bambino nasce con un dotto naso-lacrimale che non è immediatamente aperto: è un lume virtuale perché le pareti sono collabite e di norma, con il passare del tempo, la lacrimazione crea un passaggio. Tuttavia in alcuni casi questo non avviene e si instaura una lacrimazione eccessiva che nel neonato si associa molto di frequente a una secrezione mucosa, spesso scambiata per pus. Di solito però si tratta solo di muco, lo stesso che troviamo nel naso quando lo soffiamo. Talvolta l’epifora nel bambino può derivare anche da un’infezione erpetica della palpebra che crea una piccola cicatrizzazione a livello del canalino lacrimale, ostruendolo».

E nell’adulto?

«Nell’adulto l’epifora di solito è un fenomeno contingente a un’infiammazione del sacco lacrimale, la dacriocistite, che ha origine da un’infezione virale o batterica dei dotti lacrimali. In questi casi l’eccessiva lacrimazione dall’occhio è accompagnata dalla presenza di un secreto francamente purulento e da un indolenzimento, come se ci fosse un ascesso. Talvolta la dacriocistite può determinare anche un restringimento o l’occlusione del dotto naso-lacrimale. In altri casi l’eccessiva lacrimazione può essere un sintomo della sindrome dell’occhio secco oppure essere secondaria a un’importante congestione nasale».

Come si può contrastare?

«In gran parte dei casi l’ostruzione congenita del dotto naso-lacrimale del neonato si risolve spontaneamente con massaggi delicati nel lato interno dell’occhio e l’uso di gocce oculari fluidificanti che favoriscono l’apertura del dotto. Se il normale deflusso non viene ristabilito entro l’anno di età, si esegue un sondaggio delle vie lacrimali, un breve intervento eseguito sedando il bambino per pochi minuti. In pratica si penetra all’interno del puntino lacrimale con una piccola sonda per forzare l’ostruzione e creare una via di deflusso delle lacrime. Questa tecnica ha una percentuale di successo elevata, oltre l’80 per cento, ma dopo i due anni di età è pressoché inefficace. In questi casi bisogna passare nel lume un filo di silicone che viene lasciato in sede per creare un canale artificiale per il deflusso delle lacrime. Il trattamento standard della dacriocistite dell’adulto consiste inizialmente in una terapia con antibiotici, che possono essere assunti sia per bocca sia attraverso colliri. Se la dacriocistite non risponde a questa terapia e tende a recidivare a causa dell’ostruzione del dotto naso-lacrimale si può prendere in considerazione l’intervento di dacriocistorinostomia, spesso eseguita da oculista e otorinolaringoiatra insieme. Tale procedura prevede la creazione di un passaggio di scarico tra il sacco lacrimale e la mucosa nasale per impedire l’accumulo di materiale purulento e permettere il deflusso delle lacrime».

·        La Dermatite. 

Dermatite atopica, se la (ri)conosci la curi: esistono diversi rimedi efficaci. Elena Meli su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2022

Nella maggior parte dei casi la malattia compare nella prima infanzia e si risolve poi in adolescenza, ma talvolta si presenta (o ripresenta) anche in età adulta. In ogni caso non deve essere sottovalutata ed è importante che venga posta una diagnosi corretta, così da iniziare i trattamenti più appropriati

Crescendo spesso si risolve

È la malattia cutanea più diffusa fra i bambini: la dermatite atopica o eczema, stando alle stime, colpisce dal 10 al 20 per cento dei bimbi in tutto il mondo, Italia compresa. Guai però a considerarla un disturbo secondario di poca importanza, una semplice pelle arrossata che dà solo un po’ di prurito: una recente indagine DoxaPharma presentata all’ultimo congresso dell’European Academy of Dermatology and Venereology ha rivelato che il 63% dei bimbi la percepisce come un limite alla vita quotidiana, oltre uno su due tenta di nascondere i segni della malattia e il 40% non è a proprio agio guardandosi allo specchio e ha paura del giudizio degli altri. Così, più di due piccoli pazienti su tre soffrono di un forte stress a causa dello stato della loro pelle, e pure il 47% dei loro genitori vive con stress, tristezza e depressione la malattia dei figli. Conforta un po’ sapere che crescendo il disturbo spesso si risolve, come è stato spiegato dagli esperti intervenuti nel corso del recente incontro di Corriere Salute «Dermatite atopica, se la conosci la curi (a tutte le età)», disponibile su Corriere.it a questo link.

Rossore e prurito

«In tanti i sintomi della dermatite si attenuano o scompaiono crescendo e la comparsa precoce non deve spaventare, perché se la patologia viene gestita in modo corretto nella maggior parte dei casi migliora — osserva Gianluigi Marseglia, direttore della Clinica Pediatrica dell’Università di Pavia - Irccs Policlinico San Matteo e presidente della Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica (Siaip) —. La dermatite peraltro cambia anche nell’arco dell’infanzia: innanzitutto si chiama atopica perché le sue manifestazioni principali, ovvero il rossore e il prurito, non hanno una localizzazione precisa proprio nei piccolissimi, dove interessa aree ampie del corpo come il viso, il cuoio capelluto, il dorso, le gambe. Poi, verso i 4-5 anni, le lesioni si localizzano in punti precisi e spesso si tratta delle pieghe di gomiti, ginocchia, orecchie; con l’adolescenza poi la pelle tende a diventare ancora più secca, arrossata, dura e l’eczema assume le localizzazioni tipiche anche dell’adulto, ovvero mani, viso, collo».

Uno sgradito compagno di vita

«Si tratta perciò di manifestazioni impossibili da celare, che provocano disagio ai pazienti: tanti si nascondono dagli altri per l’imbarazzo di mostrare la pelle, tutti soffrono molto per il sintomo che più condiziona la qualità di vita, il prurito» aggiunge Silvia Ferrucci, responsabile del Servizio di Dermatologia Allergologica della Fondazione Irccs Ca’ Granda - Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Il prurito è purtroppo uno sgradito compagno di vita per ogni paziente, notte e giorno, tutti i giorni: se nei più piccini provoca irritabilità, difficoltà a dormire e pianto inconsolabile, negli adolescenti e negli adulti il fastidio costante non è meno problematico. «Il prurito continuo rende difficile riposare, così si è sempre stanchi e poco produttivi — osserva Mario Picozza, rappresentante dell’Associazione dei pazienti ANDeA - Associazione Nazionale Dermatite Atopica e presidente di FederASMA —. Nei bambini e ragazzi questo si traduce in un apprendimento più difficoltoso e lento, negli adulti può essere compromessa la produttività sul lavoro. Chi soffre di dermatite atopica poi deve lottare contro lo stigma sociale: ancora tante persone oggi temono che sia una malattia contagiosa e hanno paura anche solo a stringere la mano a chi ne è affetto, inoltre molti a causa della visibilità delle loro lesioni sono vittima di bullismo a scuola o di mobbing sul lavoro. Senza contare gli strascichi fisici del problema: grattarsi, oltre ad aumentare le lesioni, può infettarle e pure peggiorarle, facendole diventare dolenti oltre che pruriginose. Avere ragadi alle mani per colpa del prurito può rendere dolorosissimo compiere gesti molto semplici».

La diagnosi

Per tutti questi motivi la dermatite atopica non deve essere sottovalutata e il primo passo è sempre arrivare a una diagnosi corretta, così da iniziare un trattamento efficace. «Nei bimbi la dermatite atopica si individua tenendo conto dei sintomi e della storia clinica e familiare, che in genere bastano a differenziarla da altre malattie come la psoriasi — dice Marseglia —. Possono essere utili esami allergologici a supporto, per capire se vi siano allergie. Queste però non sono la causa principale della dermatite, semmai una concausa: si tratta di patologie distinte e anche per questo curare un’allergia alle graminacee non farà scomparire la dermatite. Certamente però la presenza di allergie è un elemento negativo, che aumenta la probabilità che il disturbo cutaneo si mantenga più a lungo negli anni». La maggior parte dei casi di dermatite atopica compare nella prima infanzia e si risolve poi in adolescenza, ma talvolta si possono avere recidive, con la dermatite che ricompare perché fattori legati allo stile di vita, per esempio lo stress, oppure eventi specifici la fanno riemergere. In alcuni pazienti però la dermatite può anche presentarsi per la prima volta quando sono già adulti e allora, come sottolinea Ferrucci, il percorso diagnostico rischia di essere un po’ più accidentato: «Può essere necessaria una diagnosi differenziale con altre malattie che danno eczema, come la dermatite da contatto o le dermatiti acute in cui alla pelle rossa e secca si aggiunge la comparsa di vescicole. Una modalità che può essere presente anche in caso di dermatite atopica, perché nell’adulto la malattia varia pure nel tempo e così a momenti in cui non ci sono sintomi si alternano fasi in cui le lesioni si riacutizzano, assumendo l’aspetto di una dermatite acuta».

Predisposizione

Che la malattia compaia nell’infanzia o più tardi, gli elementi che la caratterizzano sono sempre due: «In tutti i pazienti c’è una predisposizione su base genetica per cui la pelle non riesce a svolgere il suo ruolo di barriera: così non trattiene acqua come dovrebbe, quindi si secca e ciò che arriva sulla cute può attraversarla, andando a «dialogare» con il sistema immunitario — specifica Ferrucci —. Ciò può scatenare il secondo elemento, ovvero un’infiammazione sia a livello locale sia più generale nel resto dell’organismo. I due obiettivi della terapia sono perciò il recupero della funzione di barriera della pelle e tenere sotto controllo l’infiammazione, tenendo conto anche del ruolo che gioca l’ambiente, che può essere amico o nemico dei pazienti: al mare, per esempio, la pelle di chi soffre di dermatite atopica migliora mentre l’inquinamento, l’umidità o il gran caldo, che favorisce la sudorazione, sono irritanti e possono peggiorare i sintomi». Conoscersi e capire che cosa può irritare la pelle, quindi, è altrettanto importante per riuscire a stare meglio e attenuare rossore e prurito.

Tre marcatori

La diagnosi di dermatite atopica è clinica, ovvero si basa sulla storia del paziente e dei suoi sintomi, quando si manifestano. E se si potesse capire quali bambini si ammaleranno ancora prima che compaiano le chiazze rosse e pruriginose? Una ricerca presentata nel corso dell’ultimo congresso dell’European Academy of Dermatology and Venereology suggerisce che sia possibile, grazie a un test su campioni prelevati da neonati nei primi tre giorni di vita e poi a due mesi: il prelievo è del tutto indolore, si tratta di togliere cellule cutanee con una sorta di scotch applicato sul dorso delle mani o sulle spalle. Analizzandole, Anne-Sofie Halling dell’università di Copenhagen ha osservato che livelli anomali di tre biomarcatori, fra cui due interleuchine, sono associati a un rischio doppio di sviluppare eczema moderato-grave nei due anni successivi. «Il test, che è indolore e facile da praticare, potrebbe aiutare a identificare modifiche cutanee che si hanno prima dell’esordio dei sintomi e darci una “finestra di opportunità” per intervenire e magari impedire che la malattia si sviluppi», sottolinea l’esperta.

Terminazioni nervose

La barriera cutanea è alterata, compare l’infiammazione: sono i due «pilastri» alla base della dermatite atopica ma, come ha spiegato di recente Peter A. Lio, dermatologo pediatra della Northwestern University di Chicago, hanno un ruolo anche le terminazioni nervose, che possono potenziare o ridurre la sensazione di prurito in arrivo dalla pelle, e componenti neuro-comportamentali, che modificano la risposta ai sintomi rendendoli più o meno invalidanti. Per esempio c’è chi riesce a controllare meglio l’ansia e a non entrare in un circolo vizioso che impedisce il sonno e chi invece, con sintomi di gravità analoga, soffre molto di più. «Nella gravità e nelle caratteristiche con cui si presenta la dermatite atopica ha poi un ruolo il microbiota, ovvero i batteri che popolano l’intestino e la pelle stessa: sappiamo, per esempio, che lo Staphylococcus aureus produce tossine che possono danneggiare la barriera cutanea e innescare processi infiammatori», spiega Lio. Così lo sviluppo e la gravità della malattia sembrano associati alla diversità dei batteri presenti nell’intestino, che interagiscono con il sistema immunitario modificando la barriera intestinale e influenzando anche quella cutanea: batteri «cattivi» come Clostridium difficile, Escherichia coli o Staphylococcus aureus sono più abbondanti nell’intestino di chi ha la dermatite atopica, che invece scarseggia di batteri «buoni» come i bifidobatteri e i batterioidi.

La cute va pulita bene

Pelle rossa, che «tira» e pizzica: per stare meglio è indispensabile recuperare la funzione di barriera della cute e tenere sotto controllo l’infiammazione, che non è solo locale, come spiega Gianluigi Marseglia: «La pelle secca e fragile dei pazienti con dermatite atopica fa passare agenti esterni che spesso provocano una reazione da parte del sistema immunitario. Questo si traduce non solo nelle lesioni cutanee tipiche della dermatite, ma anche in un’infiammazione “invisibile” che però è presente negli organi interni, come le mucose dei polmoni o dell’intestino». Il primo passo, quindi, è prendersi cura della pelle per aiutarla a tornare uno scudo contro le sostanze esterne. «I detergenti, per esempio, devono essere specifici e delicati: basta usare un sapone aggressivo per distruggere il film idrolipidico cutaneo e far ricomparire i sintomi — interviene Silvia Ferrucci —. Occorre perciò educare i pazienti a una routine giusta per la pulizia e la cura della pelle, prescrivendo il prodotto idratante ed emolliente più adatto al singolo caso: la scelta non può essere lasciata al fai da te, è il medico a dover indicare saponi, creme e lozioni adeguate perché in alcuni, per esempio, potrebbe essere necessario l’impiego di un emolliente arricchito di ceramidi, sostanze fondamentali per la barriera cutanea».

Trattamenti locali

Contrastare la secchezza della pelle è indispensabile sempre, anche quando la dermatite sembra «dormire»; se però si riacutizza occorre controllare l’infiammazione e in genere lo si fa con antinfiammatori da applicare localmente. «Il cortisonico per uso topico è una scelta frequente, ma solo il medico può indicare dosi e tempi di somministrazione, specialmente nel caso dei bambini — specifica Marseglia —. L’uso deve essere ragionato soprattutto nei più piccoli perché troppi steroidi tolgono i sintomi, ma fanno danni a causa dei loro effetti collaterali (in età pediatrica a dosi elevate e per tempi lunghi cortisone e simili possono indebolire il sistema immune aumentando il rischio di infezioni, ma anche portare a iperglicemia e a un ritardo nella crescita, ndr). Inoltre, è importante gestire il prurito: spesso basta prendersi cura della pelle in modo corretto per vederlo attenuare o sparire, ma nei casi più complessi può non essere così e allora diventa opportuno valutare terapie differenti come i farmaci biologici, oggi a disposizione anche per i bambini». Fra gli antinfiammatori con un effetto immunomodulatore ci sono poi gli inibitori della calcineurina, che si trovano sotto forma di unguenti o creme da applicare per via topica e nel lungo periodo stabilizzano la dermatite. Nella maggior parte dei casi i farmaci da applicare localmente bastano a controllare le riacutizzazioni, riducendo infiammazione e prurito. Quando però non c’è una risposta soddisfacente occorre passare a trattamenti per via sistemica e, come spiega Ferrucci, «nei casi più seri dell’adulto, prima dell’arrivo dei farmaci biologici, l’unica terapia a disposizione era l’immunosoppressore ciclosporina. Un’altra terapia sistemica che può essere utile è la fototerapia, cioè l’esposizione alla luce con speciali lampade; del resto anche chi in estate può trascorrere tempo al mare ne trae un giovamento che perdura fino in inverno».

Conta anche la dieta

Infine può essere consigliabile fare un po’ di attenzione alla dieta: lo sottolinea un recente studio della McMaster University canadese per cui sono stati analizzati i dati di circa 600 pazienti, adulti e bambini, verificando che nella metà dei casi i sintomi sono migliorati se accanto alla terapia cutanea si erano eliminate alcune categorie di cibi, tra cui latticini, uova e grano. «L’influenza della dieta è complessa e in passato si è posta molta attenzione alle allergie alimentari come fattore scatenante della dermatite: oggi sappiamo che non è per forza così e anche che diete di eliminazione possono comportare più danni che benefici, per questo un’eventuale modifica dell’alimentazione va sempre discussa con il medico, caso per caso», specificano gli autori. Lo conferma ANDea in un opuscolo dedicato a dermatite e dieta scaricabile sul sito andea.it: le restrizioni dietetiche non risolvono sempre la malattia ma nel 40% dei neonati e bambini con dermatite moderata ci sono allergie alimentari. In questi casi una dieta personalizzata, prescritta da un nutrizionista, può essere d’aiuto ed è utile anche eliminare gli alimenti che sono ricchi di istamina o ne comportano il rilascio (tra cui latticini, pomodori, conserve, uova), perché pure questa sostanza può innescare o peggiorare la dermatite.

Le terapie disponibili

Farmaci che funzionino rapidamente, da prendere per bocca e che si possano interrompere con facilità, anche a costo di perdere un po’ della loro efficacia. È questo che i pazienti vorrebbero dalle cure per la dermatite atopica, stando a uno studio pubblicato di recente su BMJ Open: gli autori hanno sottolineato che finora sono stati poco indagati le preferenze e i bisogni dei pazienti, perciò hanno chiesto a un gruppo di adulti con dermatite atopica da moderata a grave che cosa vorrebbero davvero dalla terapia per la loro malattia. I pazienti, che in due casi su tre erano in cura con steroidi per uso locale e nel 27% dei casi prendevano immunosoppressori, hanno dichiarato di avere bisogno soprattutto di farmaci che riducano in maniera efficace il prurito, il sintomo più penalizzante; altrettanto importante arrivare a una risposta clinica più rapidamente possibile (l’ideale, dicono, sarebbero due giorni al massimo), ma pure seguire un trattamento da prendere per bocca e che non richieda controlli, se non in via occasionale. I desideri dei pazienti sono molto chiari e oggi si può fare parecchio, almeno per venire incontro alle esigenze di efficacia: nei casi da moderati a gravi che non rispondono alle altre terapie ora è possibile utilizzare i farmaci biologici, anticorpi monoclonali studiati per agire sui meccanismi molecolari alla base della dermatite atopica.

Farmaci biologici

Questa malattia infatti è l’espressione visibile di un’infiammazione «interna» più generalizzata che prende le mosse dalla «rottura» della barriera cutanea, il primo passo della cosiddetta marcia atopica che poi favorisce anche la comparsa di allergie e asma; in questa marcia alcune interleuchine pro-infiammatorie hanno un ruolo di rilievo e bloccarle selettivamente, come avviene con i farmaci biologici, può ridurre i sintomi ma anche «cambiare la storia naturale della malattia — specifica Silvia Ferrucci —. I pazienti traggono un grandissimo beneficio da queste cure, che hanno un enorme impatto sulla qualità di vita». Le prime terapie biologiche sono state approvate nel 2018 e oggi sono disponibili per gli adulti e i bambini e i ragazzi di età superiore ai 6 anni, mentre se ne sta discutendo l’impiego anche nei più piccini; a breve è previsto l’arrivo in commercio di altri anticorpi monoclonali e, come osserva Ferrucci, «avere sempre più armi da utilizzare contro la dermatite atopica grave, che non risponde alle terapie locali, è molto importante per rispondere alle esigenze dei pazienti più complessi. Le cure topiche tuttavia non devono essere mai abbandonate, anche in questi casi, e lo stesso vale per le buone abitudini relative allo stile di vita: non si può mai rinunciare all’impiego di detergenti delicati e di emollienti, così come all’attenzione a fattori ambientali che possono peggiorare i sintomi», conclude la dermatologa.

Gestione diversa da Regione a Regione

Non è una malattia di poco conto, eppure i pazienti e le loro famiglie vivono non poche difficoltà quotidiane. Come spiega Mario Picozza, «i genitori dei bimbi con dermatite atopica per esempio devono spesso assentarsi dal lavoro per assistere i figli: servirebbe perciò un maggior riconoscimento dell’impatto socio-sanitario di questa malattia che, per esempio, preveda agevolazioni nella richiesta di permessi lavorativi per i familiari dei piccoli pazienti o anche per i pazienti stessi, quando sono adulti e lavorano». Servirebbero anche percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali più omogenei su tutto il territorio: «Esistono ottime linee guida nazionali realizzate dalle società scientifiche, ma non ci sono percorsi di intervento univoci — dice Picozza —. Così la gestione dei pazienti è diversa da Regione a Regione: la dermatite atopica invece dovrebbe essere inserita nei Livelli essenziali di assistenza e anche inclusa fra le malattie previste dal Piano nazionale della cronicità, in modo da garantire ovunque una migliore presa in carico dei malati. Infine, ai pazienti servirebbe un aiuto economico: i prodotti emollienti e per la cura della pelle che vengono prescritti a chi soffre di dermatite atopica non solo devono essere usati in cronico, ma soprattutto sono molto costosi avendo formulazioni particolari che, per esempio, escludono la presenza di conservanti e quindi ne limitano la durabilità. Questi prodotti sono essenziali e parte integrante della terapia, ma a oggi non sono rimborsabili e il loro costo ricade completamente sui pazienti».

·        L’ Herpes.

Herpes labiale, come prevenirlo e curarlo. Per la sue estrema contagiosità, di herpes labiale soffre circa il 50% della popolazione, anche se nella maggior parte dei casi, si risolve senza gravi problemi. Non è possibile eliminarlo dall'organismo ma si può curare e prevenire. Ecco come. Roberta Damiata il 7 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Herpes, come avviene il contagio

 Cosa lo scatena

 I sintomi

 Le fasi herpetiche

 Herpes, l'evoluzione della malattia

 Herpes, come prevenirlo

 I prodotti consigliati

L’Herpes, è una malattia infettiva causata dal virus herpes simplex (HSV), che dà vita a due tipi di infezioni molto frequenti. L'Herpes Simplex Virus 1 (HSV 1) è il virus del cosiddetto Herpes labiale, chiamato anche "febbre delle labbra", ed è un'infezione che si manifesta con piccole vescicole biancastre o rosse piene di siero, localizzate prevalentemente sulle labbra e occasionalmente nella bocca e nell'occhio. Si tratta di un disturbo completamente diverso dalle afte, che al contrario non sono contagiose. L'Herpes Simplex Virus 2 (HSV 2) è invece un virus a trasmissione sessuale, e l'infezione prende il nome di Herpes Genitale. Il contagio avviene attraverso il contatto dei genitali e si manifesta con vescicole diffuse nell'area.

Oltre a questi due, vanno aggiunti anche il Virus Varicella zoster (HZVV), responsabile della varicella e dell'herpes zoster (il cosidetto sfogo di Sant'Antonio) e l' Epstein-Barr virus (EBV), responsabile della mononucleosi infettiva. Non esiste una cura definitiva per eliminare questo virus dall’organismo, dopo il primo contagio rimane per tutta la vita comparendo più o meno frequentemente. Sono invece disponibili farmaci antivirali in grado di accelerare il processo di guarigione, e prevenirne la comparsa. La manifestazione erpetica può comparire ciclicamente, con periodi di malattia attiva, seguiti da periodi asintomatici, in base a vari fattori di stress sia fisici che psicologici. Il primo episodio di comparsa è spesso il più grave.

Si tratta di un'infezione molto comune, presente in quasi il 50% della popolazione occidentale. Dai dati elaborati dall’OMS, in collaborazione con l’università di Bristol, è emerso che l’herpes labiale interessa circa 3,7 miliardi di persone al mondo, al di sotto dei 50 anni. Il motivo per cui questa infezione virale è così diffusa, è che spesso non ci si accorge di essere infetti e per questo il rischio di trasmettere il virus a soggetti sani è molto elevato.

Herpes, come avviene il contagio

Il virus herpes simplex è quindi molto contagioso e si trasmette per contatto diretto fra persone, tramite le lesioni erpetiche o più raramente attraverso la saliva di portatori sani. La trasmissione avviene principalmente per contatto diretto con la mucosa infetta, e il soggetto risulta più contagioso nel periodo in cui compaiono le vescicole. È anche possibile che la trasmissione avvenga anche nei giorni prima della comparsa.

È importante ricordare che esiste anche la possibilità di andare incontro ad un autocontagio, cioè contagiare altre parti del proprio corpo, come il naso, l’occhio o i genitali. È bene quindi non toccare le vescicole e lavarsi spesso le mani sia prima che dopo aver toccato oggetti condivisi e cibo. È anche possibile, anche se meno comune, la trasmissione con lenzuola, federe, asciugamani, bicchieri o posate.

A favorirne le recidive possono essere anche traumi del nervo del trigemino o interventi odontoiatrici, ad esempio dopo una cura canalare o interventi invasivi, ma anche procedure estetiche come laser o filler.

Cosa lo scatena

Una volta che si è stati contagiati dal virus, questo trova rifugio a livello dei gangli nervosi della pelle, per riattivarsi periodicamente manifestandosi sotto forma di vescicole. Una riacutizzazione può essere scatenata o favorita da:

raffreddore, influenza

stress fisico o psicologico,

stanchezza,

trauma sulla zona interessata dall’infezione,

mestruazioni o altre fluttuazioni ormonali,

esposizione al sole o al vento,

calo delle difese immunitarie.

In tutte quelle condizioni di indebolimento del sistema immunitario (AIDS, chemioterapia)

I sintomi

L’infezione da HSV-1 è spesso asintomatica, la maggior parte degli adulti sono infatti portatori di anticorpi senza aver avuto episodi evidenti della patologia. Nei casi sintomatici, i sintomi dell'infezione si presentano con:

Vescicole rosse, ripiene di liquido limpido.

Dolore e bruciore nelle zone in cui sono presenti le vescicole.

Prurito e momentanea perdita della sensibilià.

Le vescicole possono scoppiare, esponendo la pelle al rischio di ulteriori infezioni. A distanza di alcuni giorni dall'infezione, possono formarsi piccole croste umide che poi si induriscono. Le croste si staccano facendo sanguinare la pelle fino a che non si rinnova il tessuto cutaneo.

Nella fase successiva alla comparsa dell’herpes alcuni soggetti sperimentano sintomi di una sindrome para-influenzale come:

Febbre

Dolori muscolari

Mal di testa

Malessere generale

Linfonodi gonfi

Le fasi herpetiche

Come anticipato sono essenzialmente quattro:

Fase prodromica, precedente alla manifestazione delle vescicole, caratterizzata da una sensazione di tensione, formicolio o prurito in corrispondenza della zona cutanea colpita.

Fase delle vescicole, che possono diventare grandi dai 2 ai 5 mm, e sono piene di liquido.

Fase ulcerosa, in cui le vescicole tendono a scoppiare lasciando fuoriuscire il liquido infetto contenuto al loro interno, e andando a formare un'unica ulcera che può creare difficoltà nel compiere azioni quotidiane, come bere e lavarsi i denti. Il liquido che fuoriesce è ancora molto contagioso.

Fase della crosta dura, a cui si associa prurito e secchezza, che può spesso causare piccole ferite sanguinanti. Al di sotto del nuovo strato superficiale, comincia a rigenerarsi la pelle. In questa fase il soggetto non è più contagioso.

Herpes, l'evoluzione della malattia

In genere l’evoluzione si completa in 7-10 giorni, in assenza di trattamento, senza lasciare cicatrici. Talvolta persiste una macchia rossastra, che si attenua con il passare del tempo. L’infezione da HSV-2 (quella genitale) ha un tempo di guarigione leggermente più lungo e la lesione può essere più accentuata soprattutto per il sesso femminile. L’applicazione topica di creme antivirali ai primissimi sintomi, può accelerare il decorso.

Herpes, come prevenirlo

La prevenzione delle infezioni virali si attua osservando le principali norme igieniche come lavare spesso le mani. Bisogna fare estrema attenzione quando si toccano altre parti del corpo più a rischio di infezione, come i genitali, evitando subito dopo il contatto con occhi e naso. Molto utili possono essere i prodotti che aumentano la difesa immunitaria.

I prodotti consigliati

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·        I Denti.

Da leggo.it il 19 novembre 2022.

L'igiene orale è importante ed è bene lavarsi i denti almeno tre volte al giorno e usare il filo interdentale. Ma se lo fate dopo aver bevuto il caffè state sbagliando. Se ad esempio avete bevuto un caffè, bevete un bicchiere di acqua e aspettate almeno 30 minuti prima di procedere con spazzolino e dentifricio. La stessa cosa vale se avete mangiato o bevuto una spremuta di arancia. 

"Se li si strofina entro trenta-quaranta minuti dalla fine del pasto si accelera l'azione degli acidi corrosivi contenuti nel cibo - ha detto Howard R. Gamble, presidente dell'Academy of General Dentistry - Il movimento delle setole dello spazzolino facilita la penetrazione in profondità di queste sostanze, che bruciano lo smalto e lo strato sottostante chiamato dentina". L'esperto ha corroborato una ricerca apparsa sul New York Times e ha invitato tutti ad aspettare circa un'ora.

Silvia Turin per corriere.it il 24 novembre 2022. 

I termini del problema

L’igiene orale è importante, specialmente mattino e sera, ma le opinioni dei dentisti sul lavarsi i denti prima o dopo il primo pasto della giornata sono discordi.

Ci sono stati pochi studi ad esaminare la questione e i risultati sono stati di poco conto. Ci sono pro e contro per ciascuna delle due scelte. Per decidere che cosa sia meglio fare, ci si può basare su alcune considerazioni in merito al funzionamento del nostro cavo orale, ai batteri della bocca e alle misure di prevenzione.

Ecco che cosa fare, con qualche consiglio finale.

Prima di colazione: sì perché...

La maggior parte delle persone a colazione mangia cibi contenenti carboidrati zuccherati (dolci, brioches, marmellate, biscotti, cereali) di cui i batteri del cavo orale amano nutrirsi. Al risveglio i livelli di batteri presenti in bocca sono al loro apice (ed ecco perché abbiamo l’alito cattivo): di notte c’è poca saliva a proteggere la dentatura. Una bocca piena di batteri con una colazione piena di carboidrati zuccherati crea le condizioni perfette per la moltiplicazione ulteriore di batteri. Vengono rilasciati acidi che possono logorare lo smalto protettivo dei denti, rendendoli più inclini alle carie. Lavarsi i denti prima di colazione elimina i batteri della notte.

Un altro motivo per scegliere la pulizia mattutina è proprio quello di avviare la produzione di saliva, una delle forze maggiormente protettive per i denti, che contiene anche bicarbonato (che aiuta a neutralizzare l’acidità in bocca).

Un terzo vantaggio è che il dentifricio al fluoro renderà i denti più resistenti alla carie rafforzando lo smalto e neutralizzando anche gli acidi della colazione successiva.

Infine, una notazione di «colore» ma da non trascurare: lavarsi i denti prima di colazione previene la possibilità che il tempo per farlo si esaurisca o ci si dimentichi, nella fretta di uscire. E una volta usciti, difficilmente i denti verranno lavati fino a sera.

Dopo colazione: sì perché...

I vantaggi di lavarsi i denti dopo aver mangiato sono innanzitutto la rimozione del cibo che rimarrebbe altrimenti sui denti.

Secondo elemento: il fluoro del dentifricio funzionerà meglio durante il giorno se non viene spostato masticando il cibo subito dopo la spazzolatura.

Attenzione però alle tempistiche: lavarsi i denti troppo presto dopo un pasto – specialmente uno con bevande acide come caffè o succo d’arancia – danneggerà lo smalto. Cibo e bevande acide indeboliscono lo smalto dei denti, pertanto prima di lavarli sarebbe meglio aspettare che si ripristini il Ph naturale della bocca. Ci vorrebbero almeno 30 minuti. Quindi, per tornare alla fretta che spesso si ha di uscire di casa la mattina, le tempistiche di colazione e del successivo lavaggio dei denti andrebbero coordinate in modo opportuno.

Anche risciacquare i denti subito dopo averli spazzolati non sarebbe opportuno, contrariamente alla comune abitudine. Facendolo, non si permette al dentifricio di ricreare un ambiente ottimale all’interno della bocca. Meglio limitarsi a sputare, così il fluoro resterà sui denti almeno i canonici 30 minuti dopo averli lavati. Ovviamente la manovra riesce meglio quando si metta poco dentifricio, come peraltro sarebbe opportuno fare: ne basta la dimensione di una perla. 

Le conclusioni e tre consigli

Ci sono pro e contro per entrambe le scelte possibili, così in definitiva la decisione si riduce a ciò che funziona per ciascuno. La domanda più importante da porsi è: quale abitudine tra le due mi renderà più propenso a lavarmi i denti?

Il consiglio è non saltare l’appuntamento con lo spazzolino, quello del mattino e quello della sera (almeno). Anche spazzolarsi prima di andare a letto è particolarmente importante, infatti, perché le placche si formano più facilmente durante il sonno. I residui di cibo, combinati con il fatto che la bocca rimane più secca di notte, creano un ambiente particolarmente sfavorevole. 

Altri due consigli utili: il floruro (ovvero il fluoro in forma attiva) si trova generalmente nell’acqua del rubinetto e garantisce ai denti una protezione extra. Non bevete acqua filtrata o minerale in bottiglia che non hanno i sali minerali che l’acqua dell’acquedotto contiene.

Infine, non coprite lo spazzolino con il cappuccio: l’aria della stanza da bagno non è la più fresca, coprire lo spazzolino fa sì che le sue setole rimangano bagnate e chiuse, in modo da favorire la crescita di muffe e batteri. Lasciatelo asciugare all’aria, ma non troppo vicino alla toilette.

Nevralgia del trigemino, che cos’è e come si manifesta. Scopriamo insieme che cos’è la nevralgia del trigemino e perché provoca dolore cronico e disagio. Mariangela Cutrone il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

La nevralgia del trigemino è una sindrome cronica che si manifesta attraverso un dolore costante nelle aree del volto che interessano il quinto nervo cranico.

Quest’ultime comprendono gli occhi, la mandibola, il mento e la parte superiore della guancia. Questa particolare sindrome è provocata da una coppia di nervi chiamati trigemino. Sono posizionati in maniera simmetrica nella zona cranica. Una volta che si infiammano provocano delle crisi di dolore improvvise e dalla durata variabile.

Questo tipo di nervo risulta essere il più grande tra i dodici che sono posizionati a livello cranico. La nevralgia di questa zona genera un dolore che può essere percepito anche solo da una parte del viso. Gradualmente può diventare costante. A soffrirne risulta una persona su 25 mila. Ad esserne più colpite sono le donne rispetto agli uomini. La fascia d’età più interessata è quella che va dai cinquanta ai sessant’anni. Le possibilità di soffrire di questa sindrome cronica aumentano se in famiglia sono presenti soggetti che ne soffrono ciclicamente.

Cause e sintomi della nevralgia del trigemino

Le cause di questa sindrome cronica sono molteplici. Tra quelle più frequenti e diffuse vi è lo stress, il colpo di freddo dovuto a sbalzi improvvisi di temperature o l’herpes. L’infiammazione si manifesta attraverso la percezione di un dolore improvviso che sembra una scossa elettrica. Essa è localizzata nella zona tra orecchie e occhi.

A causa di questo dolore risulta difficile svolgere attività quotidiane semplici e consuete come deglutire, fare uno starnuto, lavarsi i denti, radersi. Persino esporsi a zone ventilate risulta doloroso. Le crisi di dolore sono temporanee e cicliche. Tra una crisi e un’altra solitamente vi sono periodi di benessere. La crisi arriva all’improvviso comportando un dolore acuto. È spesso accompagnato dall’insorgenza di congiuntiviti e dall’aumento della secrezione lacrimale e nasale.

Come si cura e previene la nevralgia del trigemino

Solitamente una volta diagnosticata la nevralgia del trigemino si segue una terapia farmacologica a base di antiepilettici. Nei casi gravi e quando il paziente non ottiene alcun beneficio dai farmaci che sono stati prescritti viene consigliato l’intervento chirurgico. Oggi sono messe in pratica diverse tecniche chirurgiche mini invasive come l’intervento MVD che vuol dire Microvascolar Decompression attraverso il quel si esegue una decompressione del nervo trigemino. Questa tipologia di intervento risolve efficacemente l’origine del problema senza creare una lesione sul nervo.

Prevenire la nevralgia del trigemino non è facile. Quando la causa è legata agli sbalzi di temperatura legati alla stagione più fredda sarebbe opportuno proteggere al meglio la zona del viso che è esposta maggiormente a questo tipo di infiammazione dolorosa. Gli esperti consigliano inoltre di evitare di viaggiare in macchina col finestrino aperto quando c’è vento o cercare di non posizionarsi vicino alla finestra o alla fonte di aria condizionata quando si è in ufficio o a casa. Può essere d’aiuto anche evitare di bere bevande troppo calde o fredde.

·        L’Osteoporosi.

Giornata mondiale dell’Osteoporosi: quali attività fisiche sono più consigliate per prevenire i rischi? Capoeira, pole dance, arrampicata: sono solo alcune delle attività utilissime per prevenire il rischio di osteoporosi. Perché? Ce lo spiega l’ortopedico Emanuela Raimondo. FRANCESCA GASTALDI su Io Donna il 21 Ottobre 2022

Il 20 ottobre si celebra la Giornata mondiale dell’osteoporosi, una malattia che interessa in Italia 5 milioni di persone di cui quasi l’80% sono donne in post menopausa. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha più volte richiamato l’attenzione su questa patologia, soprattutto sulle sue conseguenze più note, ovvero le fratture da fragilità, che hanno rilevanti conseguenze sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sanitari e sociali. La diagnosi precoce gioca un ruolo fondamentale come d’altro canto anche la prevenzione. Le regole da seguire per limitare il rischio di osteoporosi? Curare l’alimentazione ma anche fare attività fisica, scegliendo lo sport giusto. In occasione della Giornata mondiale dell’osteoporosi, abbiamo rivolto alcune domande sul tema alla dottoressa Emanuela Raimondo, ortopedico referente dell’Ambulatorio Osteoporosi di Humanitas San Pio X. 

Osteoporosi: di cosa si tratta?

«Cominciamo intanto sfatando un falso mito: l’osteoporosi è innanzitutto una patologia – spiega la dottoressa Raimondo –  In tanti pensano che si tratti di una condizione inevitabile, legata al fisiologico invecchiamento quando non è assolutamente così. È una malattia in cui si verifica una riduzione della quantità e della qualità dell’osso, che quindi diventa più fragile e più povero».

Le donne le più colpite

Stando alle stime, l’osteoporosi interessa circa una donna su tre dopo la menopausa.

«Questo si deve al calo degli estrogeni tipico della menopausa che espone maggiormente al rischio di perdita di densità ossea – spiega l’esperta – Però è bene ricordare che l’osteoporosi è una patologia che, seppur in minor misura, interessa anche l’uomo. Gli uomini, anzi, sono meno consapevoli di questo problema e quindi meno attenti, per esempio, alle attività di screening».

Osteoporosi : quali sintomi?

A complicare il quadro, poi, la mancanza di campanelli d’allarme che possano far sospettare la malattia.

«L’osteoporosi è una malattia subdola – spiega la dottoressa Raimondo –  l’esordio dei sintomi, infatti, coincide spesso con la comparsa di una frattura da fragilità. Mentre il deficit di Vitamina D dà dei sintomi, l’osteoporosi purtroppo no».

I fattori di rischio

Esistono però dei fattori di rischio per la malattia.

«Il primo è l’età – spiega ancora l’ortopedico – in generale sopra i 65 anni sarebbe buona norma fare uno screening.  Anche la familiarità è uno dei fattori di rischio più rilevanti, così come un’alimentazione poco equilibrata, povera di calcio e Vitamina D, e poi sicuramente la scarsa attività fisica».

Osteoporosi: i costi sociali

Un aspetto importante da sottolineare, come dicevamo, è quello che riguarda i costi sociali, spesso sottovalutati, che la malattia comporta.

«Purtroppo non tanto la patologia in sé quanto le sue conseguenze dirette come appunto le fratture da fragilità, comportano un costo sociale elevatissimo – spiega ancora l’esperta -in termini soprattutto di perdita di autonomia del paziente. Basti pensare a quella che è la frattura osteoporotica più grave, ovvero quella del femore: l’80%dei pazienti perde la capacità di compiere almeno una delle attività che prima era in grado di portare a termine autonomamente. Non solo, la frattura del femore ha anche una mortalità elevatissima e, in generale, tutte le fratture da fragilità aumentano la mortalità e la disabilità».

L’importanza della prevenzione

In quest’ottica, la prevenzione gioca quindi un ruolo fondamentale e deve iniziare fin dall’infanzia, il periodo cioè in cui nello scheletro si accumula il calcio che servirà poi da scorta in età avanzata.

Il tessuto osseo infatti si sviluppa durante l’infanzia e l’adolescenza per raggiungere intorno ai 20-25 anni di età il cosiddetto picco di massa ossea, ovvero la densità minerale ossea massimale, il cui valore influenza poi la probabilità di manifestare con il passare degli anni l’osteoporosi.

Osteoporosi: prevenzione e sport

Come si previene dunque la malattia? Con una sana alimentazione ma anche facendo attività fisica. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che chi svolge una costante attività fisica aumenta i valori della densità minerale ossea in modo maggiore rispetto alle persone sedentarie: le contrazioni muscolari e le sollecitazioni dei tendini sulle ossa stimolano infatti il rimodellamento osseo in senso positivo.

«L’attività fisica stimola la formazione di osso e soprattutto migliora la qualità dell’osso – spiega l’esperta – ma attenzione: deve trattarsi di un esercizio fisico in carico. Per cui il nuoto, che fa benissimo a livello generale per tante problematiche, in realtà per l’osteoporosi non serve. Devono infatti essere attività dove il muscolo abbia una contrazione attiva e venga sollecitato meccanicamente».

Nemmeno praticare yoga o stretching, quindi, produce effetti positivi sulla densità minerale ossea.

Le attività più consigliate

«Per le persone anziane, al fine di prevenire il rischio di osteoporosi, sono consigliate  tutte quella attività fisiche che non solo stimolano la formazione di osso con esercizi in carico ma che allenano anche l’equilibrio – spiega ancora la dottoressa Raimondo –  il tai-chi, per esempio, è perfetto. Le più giovani, invece, che hanno magari una familiarità con l’osteoporosi e vogliono quindi limitare i rischi, possono puntare su tantissime attività diverse anche molto divertenti: dall’arrampicata su parete o su roccia alla pole dance fino alla capoeira. Sono tutte attività infatti che prevedono esercizio fisico in carico e che allenano l’equilibrio».

… e quelle da evitare

Al contrario avrebbero meno effetti positivi tutte quelle attività che avvengono in scarico gravitazionale: come il nuoto, appunto, ma anche la bicicletta. Se lo stimolo della forza di gravità manca, infatti, l’osso non ne risente positivamente. Ne sono un curioso esempio gli astronauti che, rimanendo per lunghi periodi in assenza di gravità, soffrono proprio di una diminuzione di densità minerale ossea, con il rischio di sviluppare anche una forma di osteoporosi.

«Perché l’attività fisica svolga un ruolo di prevenzione deve essere però praticata con regolarità – precisa l’esperta – Almeno due volte a settimana, tre sarebbe l’ideale. Se poi, invece di praticare uno sport, si punta alla camminata, possiamo dire che  20 minuti di camminata a passo veloce tutti i giorni, può rappresentare un toccasana per il femore».

Osteoporosi: si può continuare a fare sport?

Ma attenzione: anche in caso di diagnosi di osteoporosi continuare a fare attività fisica può fare la differenza.

«Chi soffre di osteoporosi non solo può ma deve fare attività fisica – sottolinea ancora la dottoressa Raimonodo – Tanti si fermano per paura di incappare in fratture, in realtà non è così. L’esercizio fisico non va mai interrotto perché si andrebbe incontro a una diminuzione di massa ossea e muscolare e di conseguenza a perdita di equilibrio, problematiche che non fanno altro che aumentare il rischio di cadute e di fratture. È bene quindi andare avanti a fare attività fisica, ovviamente controllata: l’ideale è puntare su una ginnastica dolce, come ad esempio il pilates. Gli esercizi in allungamento, in generale,  vanno benissimo per aiutare le ossa a rinforzarsi».

Il ruolo dell’alimentazione

Accanto al ruolo svolto dall’attività fisica, in un’ottica di prevenzione anche lo stile di vita e in modo particolare l’alimentazione, è di fondamentale importanza.

«Una dieta varia ed equilibrata è il presupposto principale – conclude l’esperta –  Per la salute delle ossa poi è importante il giusto introito di calcio, Vitamina D e fosforo. Facendo attenzione alle false credenze: il calcio, per esempio, non è contenuto solo nei latticini, come si pensa. Alcuni tipi di pesce, di verdure e di legumi sono ricchi di calcio ed esistono anche le acque addizionate. Quindi non c’è bisogno di puntare per forza su formaggi e latte per assumerlo nella giusta quantità. Una gustosa insalata di rucola e di polipo, per esempio,  è un piatto dietetico che può fornire la metà del fabbisogno giornaliero di calcio». 

·        La Lombalgia.

Il calciatore del Napoli salterà la sua prima gara in campionato. Infortunio Kvaratskhelia, cos’è la lombalgia acuta e i tempi di recupero. Redazione su Il Riformista il 4 Novembre 2022

Kvicha Kvaratskhelia salterà la sua prima partita in serie A con la maglia del Napoli. Il 21enne georgiano, autentica rivelazione di queste prime 12 giornate di serie A e della fase a gironi della Champions League, non scenderà in campo nella delicata sfida di Bergamo contro l’Atalanta in programma sabato 5 novembre alle 18.

Khvicha Kvaratskhelia non prenderà parte alla trasferta di Bergamo per un episodio di lombalgia acuta” riporta il Napoli nel report sulla rifinitura di oggi a Castel Volturno. Luciano Spalletti perde dunque una pedina importante per lo “scontro di vertice” di questa settimana della Serie A. L’esterno offensivo georgiano in queste prime dodici giornate di campionato, con il Napoli in vetta alla classifica, ha realizzato sei reti e fornito sette assist ai compagni.

Non sono ancora chiari i tempi di recupero di Kvaratskhelia con il Napoli che, prima della sosta forzata per i Mondiali che andranno in scena a novembre e dicembre in Qatar, dovrà affrontare la prossima settimana Empoli (martedì 8) e Udinese (sabato 12) al Maradona.

La lombalgia – si legge sul sito del centro medico privato Lazzaro Spallanzani – è un fenomeno molto frequente soprattutto in età adulta. Si stima che quasi il 40% che è affetto da dolore vertebrale sceglie di assumere farmaci che lo aiutano a continuare a svolgere le attività quotidiane che altrimenti non riuscirebbe a compiere. Il mal di schiena più presentarsi in diverse forme: lombalgia acuta, subacuta e cronica.

Nella lombalgia acuta, quella diagnosticata dallo staff sanitario del Napoli a Kvaratskhelia, conosciuta anche come “colpo della strega”, il dolore compare spontaneamente e in forma molto violenta nella zona lombare. Alcune volte, i sintomi della lombalgia acuta possono interessare anche la zona dei fianchi o dei glutei. Il dolore e l’infiammazione durano circa sei settimane.

La causa della lombalgia acuta più frequente è l’infiammazione dei muscoli o ligamenti da discopatie o ernia del disco, ma può essere anche da trauma o sovraffaticamento e può essere curata con un trattamento farmacologico, fisiatrico od infiltrativo. Più grave invece la lombalgia cronica che ha una durata di tempo maggiore, che varia tra i 3 e i 6 mesi.

·        Sarcopenia.

Sarcopenia: che cos'è, cause e come prevenirla. La sarcopenia è una condizione che tende a interessare soprattutto gli over 60: cos'è, quali sono le cause e cosa fare per prevenirne gli effetti. Claudio Schirru il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La sarcopenia può rivelarsi un problema piuttosto frequente, soprattutto per gli over 60. Rappresenta in estrema sintesi la perdita di massa e forza muscolare, attraverso un processo che tende a essere progressivo con il trascorrere del tempo.

Al manifestarsi della sarcopenia il soggetto presenta più o meno evidenti segni di atrofia muscolare, a cui si accompagna la compromissione dello stesso tessuto dei muscoli. Oltre a quello visivo, l'effetto più evidente sarà la riduzione della propria forza fisica e la conseguente debolezza anche in relazione ai gesti più semplici.

In assenza di qualsiasi intervento potrebbe quindi diventare sempre più difficile persino camminare senza rischiare di perdere l'equilibrio, così come aprire un barattolo o sollevare pesi a cui magari si era abituati.

Cause

Il nemico numero uno in questi casi è lui, l'invecchiamento. Purtroppo la sarcopenia è una condizione naturale che col tempo presenterà il suo conto. I primi segnali potrebbero iniziare a manifestarsi dopo i 40 anni, mentre è a partire dai 50 che i "campanelli d'allarme" si fanno più evidenti.

Esistono tuttavia alcune teorie, non pienamente dimostrate, secondo le quali tale condizione avrebbe delle cause ben precise. Secondo la "Teoria delle proteine ossidate" sarebbe proprio tale processo ossidativo a influire, in virtù del fatto che tali elementi tendono con l'età ad accumularsi all'interno delle fasce muscolari e a formare masse sempre più rilevanti di lipofuscina e proteine reticolari.

I sostenitori della "Teoria delle cellule satellite" ritengono invece che l'invecchiamento inibisca l'attivazione delle cellule satellite, solitamente deputate al mantenimento a livelli ottimali della funzione esercitata dai muscoli. Infine la "Teoria della riduzione dei segnali anabolici", che ritiene la sarcopenia causata dal calo dei livelli ematici di testosterone e ormone della crescita.

Sarcopenia, come prevenirla

Il fatto che la sarcopenia sia una condizione inevitabile, dovuta a fattori naturali, non significa però che andrà subita senza poter fare nulla. Sia per chi più giovane che per gli over 60 c'è molto ancora da poter fare per prevenirla o quanto meno rallentarne il progresso.

Posto che non esistendo cause ben definite, al di là delle singole e non conclusive teorie esposte qui sopra, la strada sembra essere quella dei rimedi naturali. In particolare è consigliabile uno stile di vita attivo e tanto esercizio fisico.

Stop alla vita sedentaria, minore utilizzo dell'auto e lunghe camminate sono certamente un ottimo punto di partenza. A questi dovranno aggiungersi però anche degli allenamenti specifici, mirati all'aumento della forza e della resistenza muscolare.

Cercare di svolgere gli esercizi almeno due volte a settimana, stimolando varie zone nevralgiche come braccia, gambe, schiena, addome e petto. Il consiglio è quello di affidarsi al proprio medico o a un istruttore qualificato che aiuti a correggere eventuali errori di postura o nell'esecuzione degli esercizi.

Un'ultima nota infine per quanto riguarda l'alimentazione. Ricordarsi sempre di consumare un minimo di 5 porzioni al giorno di frutta e verdura, privilegiando inoltre proteine salutari come quelle provenienti da legumi, pesce, carni bianche e noci. Ridurre al minimo il consumo di sale e zuccheri.

·        La fascite plantare.

Che cos’è la fascite plantare, il disturbo di Tiger Woods. Antonella Sparvoli su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022.

Il campione americano del golf ha dovuto saltare l’Hero World Challenge alle Bahamas a causa del dolore al piede destro

Stretching e relax

Una fascite plantare ha fatto slittare il rientro in campo del campione di golf californiano, costretto a saltare l’Hero World Challenge, torneo non ufficiale del PGA Tour, dall’1 al 4 dicembre alle Bahamas. Pochi giorni fa, il 10 dicembre, però, Tiger Woods, in coppia con Rory McIlroy, numero uno al mondo, ha rimesso piede sul green per la settima e ultima edizione del The Match in Florida, dove ha potuto contare sull’aiuto di una golf car, facendo ancora fatica a camminare. Il leggendario americano puntava ad aumentare il suo carico di lavoro dopo aver giocato solo tre volte la scorsa stagione a causa della frattura della gamba subita in un incidente stradale nel febbraio 2021. Poi è sopraggiunta la fascite plantare che come, ha segnalato lo stesso Tiger, ha potuto curare con un metodo di «allungamento e rilassamento». «Non è il caso di intraprendere la strada dell’intervento chirurgico — ha dichiarato Woods a Golf Channel —. Iniezioni, interventi chirurgici o semplicemente stretching e relax, e io ho scelto lo stretching e il relax».

Dolore al calcagno

Inizia con un dolore vivo al calcagno, ma può estendersi fino alla base delle dita. È la fascite plantare, un disturbo abbastanza comune negli sportivi, soprattutto in chi si dedica alla corsa e ai salti, ma non solo, come rivela l’esperienza del campione statunitense del golf. L’importane è non sottovalutarla, perché può facilmente diventare cronica se non si interviene in modo opportuno.

In che cosa consiste

La fascite plantare è l’infiammazione del legamento arcuato, altrimenti noto come fascia plantare, una fascia fibrosa resistente, ma poco elastica, che unisce la zona plantare interna del calcagno con la base delle dita. Il funzionamento di questa fascia può essere condizionato da diversi fattori come il sovrappeso, l’uso di calzature scorrette, distanze di corsa eccessive rispetto al proprio livello di preparazione, nonché alcuni difetti anatomici, quali il piede piatto e il piede troppo cavo. Il risultato è un eccessivo sovraccarico della fascia plantare, che si può infiammare.

I sintomi

Il sintomo principale è il dolore, che si accentua al risveglio e può far zoppicare. Il dolore è localizzato nella parte interna del tallone, ma può estendersi a tutta la fascia plantare fino a raggiungere la base delle dita. Di solito nel corso della giornata il fastidio tende a diminuire piuttosto rapidamente, per poi ricomparire dopo una lunga passeggiata o al termine della giornata. In ambito sportivo sono particolarmente a rischio i corridori, i saltatori e i giocatori di calcio. In alcuni casi la fascite plantare è associata alla spina calcaneare, che spesso si forma nel punto di inserzione della fascia plantare, o del sottostante muscolo flessore breve delle dita, sul calcagno.

Che cosa bisogna fare in caso di dolore

A prescindere che il dolore sia di forte intensità o più lieve, conviene sempre non trascurarlo per evitare che cronicizzi. La prima cosa da fare se si sta correndo o facendo qualche attività fisica, è fermarsi e, possibilmente, mettere del ghiaccio sul tallone. Questo espediente, riducendo la congestione vascolare, allevia il dolore. Se la situazione lo consente, si possono fare sin da subito alcuni esercizi di stretching e di rilassamento della zona plantare, senza però appoggiare il peso sul piede. Dopodiché conviene non impegnarsi in attività fisiche onerose per almeno una settimana, il che non vuol dire non muoversi dal divano, ma evitare di caricare la fascia e interrompere l’attività fisica scatenante finché il dolore non passa.

Come si cura

Per alleviare la fascite possono essere d’aiuto i farmaci antinfiammatori e, nei casi che non rispondono, si può ricorrere alla terapia infiltrativa con cortisonici, ma con cautela, pena il rischio di lesionare la fascia. Studi recenti suggeriscono inoltre la possibilità di utilizzare fattori di crescita prelevati dal sangue del paziente (platelet rich plasma), per indurre uno stimolo rigenerativo. Se ci sono delle cause predisponenti occorre correggerle, anche per evitare che la fascite diventi un fenomeno cronico. Per esempio nei casi in cui l’infiammazione sia favorita da un piede piatto o troppo cavo, può giovare l’uso di plantari personalizzati con scarico elettivo della fascia plantare mentre, se il problema è l’allenamento scorretto, occorre modificarlo così da preparare in modo adeguato la zona plantare.

Può servire la fisioterapia?

Se la fascite persiste o si ripresenta periodicamente, l’approccio va modificato agendo a diversi livelli. In generale più del 90 per cento delle fasciti croniche viene curato con un programma fisiochinesiterapico mirato che comprenda massaggi, esercizi propriocettivi, di allungamento e dinamici, eventualmente associati a un trattamento con il laser di potenza che ha l’obiettivo di stimolare il tessuto danneggiato. Se anche questo approccio non dà i risultati sperati, si possono usare le onde d’urto, onde che, stimolando i fibrociti e aumentando la capillarizzazione locale, favoriscono il processo di riparazione spontanea del tessuto legamentoso. In genere si consiglia un’applicazione settimanale di onde d’urto, ripetuta per tre settimane. Nei casi più ostinati infine si può proporre il ricorso alla chirurgia, con il cosiddetto «release della fascia plantare» che, tramite piccole incisioni, ha l’obiettivo di rilasciare e allungare la fascia plantare. Il ricorso al bisturi non è però garanzia di successo ed è un’opzione poco diffusa.

·        Il Parkinson.

Parkinson, i sintomi da non sottovalutare che compaiono prima dei tipici tremori. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Il 26 novembre si celebra la giornata nazionale del Parkinson, una malattia neurodegenerativa ad evoluzione lenta, ma progressiva, che coinvolge funzioni quali il controllo del movimento e l’equilibrio. L’età media di esordio è intorno ai 60 anni, ma il 5% dei pazienti può presentare un esordio giovanile sotto i 40 anni. La genetica non aiuta: il 30% dei pazienti ha avuto un familiare che ha sofferto di Parkinson o sindromi correlate. Si stima che in Italia ci siano 400 mila persone malate di Parkinson

I sintomi precoci del Parkinson

Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa causata dalla morte progressiva di alcune cellule del cervello che producono dopamina, un neurotrasmettitore che controlla i movimenti automatici del corpo. L’esposizione a idrocarburi, pesticidi, erbicidi, solventi o l’assunzione in modo indiscriminato di farmaci antipsicotici tipici o antinausea favorisce l’insorgenza della malattia.

«I sintomi precoci non motori possono manifestarsi fino a dieci anni prima della diagnosi della malattia. Quando compaiono i sintomi caratteristici del Parkinson come i tremori o la rigidità, la metà dei neuroni che producono dopamina sono già morti» sottolinea Gianni Pezzoli, neurologo, presidente dell’Associazione Italiana Parkinsoniani e della Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson. Per questo è bene non trascurare alcuni sintomi precoci per intervenire in tempo sulla malattia. Attenzione: non è affatto detto che con uno di questi sintomi non correlato ad altre patologie bisogna per forza pensare al Parkinson o una malattia neurologica, ma può valere la pena parlarne con uno specialista.

«Si tende a dividere la malattia di Parkinson - precisa Pezzoli - come malattia alta che ha un’aggressione craniale, magari dal naso dagli occhi, dalla gola o come malattia distale, che ha un’aggressione dall’intestino. La malattia che nasce dal cranio porta a una riduzione dell’olfatto, quella che incomincia dall’intestino porta maggiormente a una stipsi e a una riduzione della pressione del sangue quando il paziente è in piedi e a un aumento della pressione del sangue quando il paziente è sdraiato» spiega Gianni Pezzoli.

Perdita del senso dell’olfatto

Anni prima della manifestazione di sintomi motori può verificarsi una forte riduzione dell’olfatto e può risultare difficile avvertire il profumo di un mazzo di fiori o quello di una pietanza appena cucinata. Circa il 25-30% dei pazienti presenta una perdita dell’olfatto prima dell’esordio della malattia mentre questo deficit interessa il 50% dei pazienti con diagnosi. La disfunzione olfattiva permane nel tempo e non sembra variare con la terapia farmacologica. Non è naturalmente sufficiente manifestare deficit nel gusto e nell’olfatto per trarre conclusioni: questo è uno dei possibili sintomi premonitori, ma oggi è anche una conseguenza della malattia del Covid-19

Disturbi del sonno

Uno dei possibili segnali precoci della malattia è il REM Behavior Disorder (RBD), una parasonnia REM caratterizzata da movimenti bruschi e grida durante il sonno REM. Chi ne soffre, durante il sonno REM , invece di essere atonico, gesticola, si muove, parla, urla, tira calci e pugni e i sogni risultano spesso vividi e angoscianti. «Può essere letto in modo sospetto il fatto che questo disturbo del sonno compaia all’improvviso» avverte Pezzoli. Circa il 40% delle persone con RBD può sviluppare il Parkinson, addirittura ad anni di distanza dal manifestarsi dei primi sintomi. Circa il 70% di chi ha avuto una diagnosi di Parkinson soffre di disturbi del sonno.

Disturbi urinari

Un sintomo preliminare è rappresentato dalla necessità di urinare durante la notte. Naturalmente , per gli uomini, con l’età possono subentrare problematiche legate alla prostata quindi non deve scattare subito l’allerta. «Tuttavia il paziente in fase preliminare del Parkinson che sviluppa un aumento della pressione sanguigna durante la notte si alzerà spesso ad urinare in abbondanza perché il rene lavora moltissimo» spiega Pezzoli.

Problemi intestinali

La stipsi può essere uno dei sintomi precoci della malattia. Anche chi non ha mai sofferto di stitichezza potrebbe cominciare ad avere l’intestino pigro e ad avvertire gonfiore intestinale. La stipsi legata al Parkinson spesso è accompagnata a una sensazione di pienezza anche se si è consumato un pasto leggero. Anche in questo caso niente allarmismi: la costipazione è un disturbo molto comune che può avere svariate cause. «Chi soffre di stipsi dovrebbe bere più acqua, consumare più fibre con frutta e verdura e muoversi in base alle proprie possibilità ed età - suggerisce il neurologo - ma chi si trova in una fase di esordio del Parkinson può improvvisamente accusare questo disturbo e più difficilmente risolverà il problema».

Difficoltà nella scrittura

Il rallentamento e la perdita di movimenti spontanei e di routine (bradicinesia) è uno dei sintomi principali del Parkinson. Può cominciare a essere difficile scrivere e la scrittura si altera fino a diventare sempre più piccola e illeggibile. I caratteri, inizialmente di normali dimensioni, si contraggono e si rimpiccioliscono verso la fine di una parola o di una riga (micrografia). «La malattia viene diagnosticata 18 mesi dopo l’esordio se il paziente sviluppa il Parkinson nella parte sinistra del corpo e sei mesi dopo l’esordio se il paziente sviluppa il Parkinson prima nella parte destra, naturalmente parlando di destrimani. Infatti, se la malattia è a sinistra l’impaccio motorio è scarsamente rilevato perché la mano sinistra viene utilizzata di meno» precisa Pezzoli.

Movimento delle braccia ridotto

Un’accentuata difficoltà nel movimento del braccio quando si cammina può essere un campanello d’allarme. Può succedere che non si riesca più ad estendere il braccio giocando a tennis o a prendere un libro che si trova sullo scaffale alto della libreria. A differenza dell’artrite o altre lesioni, dal momento che non sono coinvolte le articolazioni, non si manifesta alcun dolore. Durante una camminata è tipico notare che un braccio oscilla meno di un altro: il Parkinson infatti esordisce quasi sempre in modo asimmetrico coinvolgendo prima una parte del corpo e poi l’altra

Difficoltà nel pronunciare le parole

Altro campanello d’allarme può essere una voce che diventa flebile , spesso monotona, con difficoltà nel pronunciare le parole e talvolta ad aprire la bocca. Chi ascolta si trova spesso a dover chiedere di alzare il tono perché non sente.

Problemi di deglutizione

La deglutizione è un procedimento complesso che implica l’attivazione di circa 28 muscoli in 10-11 secondi, in una rigida sequenza temporale. Capita che, nelle fasi iniziali di malattia, un pezzo di pane, un sorso di succo di frutta, un po’ di formaggio o una foglia di insalata vadano di traverso (disfagia). Inoltre, proprio a causa di una ridotta deglutizione, la saliva può accumularsi in bocca.

Rigidità nell’espressione facciale

A causa della perdita di dopamina, i muscoli facciali possono diventare rigidi, portando nelle fasi più avanzate alla mancanza di espressione. «La lentezza nel sorridere, gli occhi sbarrati e scarsamente ammiccanti, il tipico “viso di cera” sono segnali importanti nella fase iniziale della malattia che però scompaiono con il trattamento» dice Pezzoli.

Depressione

La depressione potrebbe manifestarsi molto prima della comparsa dei sintomi motori anche in chi non l’aveva mai sperimentata prima. Umore triste, affaticamento, cambiamenti nell’appetito, apatia sonio i segnali più frequenti. Anche l’esecuzione di determinate attività può subire un rallentamento. Uno dei segnali del declino è l’incapacità di svolgere più azioni insieme (multitasking) diversamente da come avveniva prima

·        La Senilità.

Anziani che non mangiano: cause e rimedi. L'inappetenza è molto comune tra le persone in età senile. Le cause possono essere psicologiche o patologiche: dalla depressione alla sindrome del malassorbimento. Come intervenire e quale dieta scegliere. Rosa Scognamiglio il 22 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Durante la terza età può accadere che gli anziani manifestino disinteresse verso il cibo. Talvolta rinunciano ai pasti, altre finiscono per ridurre drasticamente le porzioni. Tale condizione può comportare seri problemi di salute come, ad esempio, cali importanti di peso oppure pericolose carenze nutrizionali.

Alimentazione a 60 anni, gli errori 

Le cause dell’inappetenza degli anziani 

Individuare le cause dell’inappetenza è la prima cosa da fare quando ci si imbatte in un anziano restio a mangiare regolarmente. Fatta eccezione per i casi sporadici - capita a tutti, per svariati motivi, di saltare un pasto una tantum - bisogna andare a fondo del problema rivolgendosi, laddove necessario, a uno specialista.

In alcuni casi, si tratta di un disordine emotivo derivante da una condizione di solitudine che l’anziano percepisce in forma accentuata rispetto a un adulto con uno stile di vita ancora attivo. Al di là dei luoghi comuni, infatti, ci sono alcune forme depressive che possono insorgere o manifestarsi anche in età senile. In tal senso, potrebbe essere utile il confronto con uno psicoterapeuta per decidere come intervenire.

Per molte altre persone, invece, l’inappetenza è il campanello d’allarme di una patologia silente e debilitante. Tra quelle note vi sono:

insufficienza renale cronica;

insufficienza cardiaca;

bronchite;

polmonite;

infezione delle vie urinarie;

gastroenteriti;

sepsi;

assunzione di farmaci;

intolleranze/allergie alimentari;

sindrome da malassorbimento;

insonnia e disturbi del sonno.

Possono concorrere all’inappetenza anche fattori di minor rilievo - ma non per questo trascurabili - come difficoltà digestive o problemi dentali.

Creatinina alta negli anziani: cause e sintomi

I rimedi e la dieta 

Data la molteplicità di cause non esiste un rimedio unico, cioè che vada bene per tutti, ma bisogna valutare il singolo caso. Per escludere patologie o condizioni di salute precarie sarebbe buona norma sottoporre l’anziano ad un check up completo almeno una volta l’anno. Bastano dei semplici esami di routine (analisi del sangue e delle urine, cardiogramma, ..) per fugare ogni dubbio.

Qualora si riscontrassero criticità importanti (malattie già validate e non) è meglio affidarsi a un esperto onde evitare di aggravare la situazione. Le iniziative personali sono sconsigliate, specie se si tratta di una persona già cagionevole o con patologie pregresse.

Un altro aspetto da non trascurare è la dieta. Sebbene il fabbisogno energetico di un anziano sia inferiore a quello di un adulto sano, non bisogna sottovalutare la quantità e la qualità dei pasti.

Le verdure, preferibilmente fresche e di stagione, andrebbero consumate almeno due volte al giorno, magari frullate o ridotte in purea per non forzare la masticazione. Lo stesso si dica per la frutta, fonte preziosissima di vitamine e altri nutrienti a qualunque età.

Quanto ai carboidrati, sono anch’essi fondamentali: dalle fette biscottate a colazione a porzioni generose (senza eccessi) di pasta, riso, pane (preferibilmente integrali), patate, legumi o cereali per pranzo e cena. Il semolino può essere una valida alternativa nei casi in cui si riscontrino problemi di deglutizione o masticazione.

Infine, le proteine. Pensare che un anziano debba rinunciare a un secondo di carne o pesce è sbagliato oltre che pericoloso. I pasti devono essere completi di tutti gli alimenti necessari all’organismo per restare in salute e vivere a lungo. Piuttosto è meglio ridurre le porzioni, variare spesso e preferire cotture poco elaborate. Quanto ai condimenti è meglio limitare l’uso di sale, zucchero, spezie e aromi pronti all’uso.

Perché non abbiamo ancora una cura contro l’Alzheimer (ma dobbiamo aver fiducia). Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.

La sperimentazione clinica ha collezionato un fallimento dopo l’altro, alimentando la frustrazione di pazienti e familiari. Quali sono stati gli ostacoli che hanno rallentato la ricerca e il nuovo panorama all’orizzonte

Negli ultimi trenta anni ricercatori di tutto il mondo hanno lavorato con impegno per trovare una cura contro il morbo di Alzheimer . Altri loro colleghi sono riusciti a sviluppare farmaci che hanno contribuito a ridurre di oltre la metà le morti per malattie cardiovascolari; altri ancora hanno studiato terapie antitumorali in grado di curare tumori in passato definiti incurabili. Ma per l’Alzheimer, malattia neurodegenerativa che uccide progressivamente le cellule cerebrali adibite alla memoria, descritta ufficialmente oltre 115 anni fa (anche se naturalmente esisteva molto prima) non solo non esiste una cura, ma ad oggi non esiste neppure un trattamento efficace e sicuro per rallentare la malattia, con effetti tangibili dai pazienti. Fino ad ora la ricerca per una cura contro l’Alzheimer ha collezionato un fallimento dopo l’altro, alimentando la frustrazione e la rabbia dei pazienti, derubati dei loro ricordi e la disperazione dei loro familiari perché la malattia, nella sua drammaticità, coinvolge l’intero nucleo familiare.

Ricerca sottofinanziata

Ma come mai negli anni sono stati fatti così pochi passi in avanti nella ricerca di una terapia efficace? I motivi in realtà sono molteplici e solo una visione d’insieme può dare una risposta. La ricerca sull’Alzheimer è sotto-finanziata rispetto a quella che coinvolge il cancro, le malattie cardiache, l’Aids e anche il Covid e non raggiungere risultati concreti non è stato d’aiuto, tanto che alcune grandi case farmaceutiche si sono tirate indietro. La multinazionale Pfizer, ad esempio, nel 2018 ha deciso di abbandonare la ricerca sull’Alzheimer e sulle malattie neurodegenerative proprio per i risultati deludenti ottenuti fino a quel momento. Altre Big Pharma negli ultimi anni hanno cambiato il loro approccio riducendo drasticamente gli investimenti dedicati alle malattie neurodegenerative e affidando la ricerca a start up per poi eventualmente acquisire i diritti sulle scoperte più promettenti.

Come riferisce il Guardian , Bart De Strooper, direttore del Dementia Research Institute nel Regno Unito all’University College di Londra a inizio anno ha cercato su PubMed, data base medico statunitense, la parola demenza e ha trovato 250 mila studi. Ha poi digitato tumore e ne ha trovati 4,7 milioni. Poi è stata la volta del Covid, che prima del 2019 non esisteva, e sono stati trovati 300 mila studi. Certamente è una metrica approssimativa, ma almeno rende l’idea su come siano state svolte più ricerche sul Covid negli ultimi tre anni che studi sulle demenze dal secolo scorso.

Le difficoltà nei trial clinici

I trial clinici tra l’altro sono complicati: a differenza dello sviluppo di antibiotici, in cui i ricercatori sanno in pochi giorni se il farmaco funziona, la natura cronica dell’Alzheimer richiede esperimenti lunghi e costosi e ci vogliono anni prima di ottenere una risposta. Per limitare il problema si sta discutendo sullo sviluppo di «studi di futilità», che consentano di valutare velocemente molecole che hanno scarsa probabilità di diventare farmaci riconosciuti ed efficaci, in modo da escluderle in anticipo da trial lunghi e costosi. Anche il reclutamento dei pazienti in fase molto iniziale è un’operazione complessa perché nelle fasi precoci della malattia non si ha ancora certezza che si tratti di Alzheimer o che un leggero declino cognitivo possa sfociare in una malattia conclamata.

La complessità del sistema nervoso centrale

Un importante ostacolo nella ricerca di terapie valide è rappresentato dal fatto che il sistema nervoso centrale, colpito dall’Alzheimer o dalle altre malattie neurodegenerative, è strutturato in modo molto fitto, senza spazi, e ogni sua parte ha specifiche funzioni: «Non lavora come un grande organo, ad esempio il fegato, in cui la struttura cellulare è omogenea. Quando i neuroni di un’area cerebrale sono perduti è difficile che altre aree del cervello vadano ad occuparsi di qualcosa di così specifico come la memoria» sintetizza il professor Alberto Albanese, responsabile dell’Unità di Neurologia all’istituto Humanitas di Milano e professore di Neurologia alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano. «Il sistema nervoso centrale tra l’altro – aggiunge – è organizzato per network, come la rete di un computer: quando il nodo di un network non funziona un po’ tutto il sistema si sbilancia e iniziano così attività di compensazione, ma anche di adattamento. Il sistema comincia a “girare” a un regime inferiore, diventa meno efficace». La complessità del funzionamento del cervello si ripercuote anche sulla ricerca di terapie efficaci. «L’idea di utilizzare anticorpi monoclonali contro le placche di amiloide o altre proteine specifiche responsabili del declino cognitivo – riflette Albanese - può sembrare geniale, ma è anche semplicistica e non è detto che gli anticorpi facciano da “spazzini” e tolgano di mezzo le placche accumulate perché non c’è abbastanza spazio di manovra: i neuroni sono uno attaccato all’altro con microspazi appena percettibili e tutti collegati».

Le scoperte biologiche e i risvolti meno tangibili

Nuove scoperte in ambito biologico in realtà sono state fatte come spiega Albanese: «Sul piano cellulare vantiamo passi in avanti incredibili: siamo riusciti a capire i meccanismi biologici che portano alla sofferenza dei neuroni, ma si fa fatica a declinare queste scoperte in terapie efficaci, che diano risultati tangibili per i pazienti. Sta emergendo in modo sempre più chiaro uno iato tra gli aspetti biologici e clinici delle malattie neurologiche degenerative: negli studi vediamo spesso che i marcatori biologici migliorano, si riducono gli “indicatori di degenerazione”, ma poi i pazienti clinicamente non migliorano, e questo è molto frustrante».

Gli studi concentrati sull’amiloide

Sebbene sia vero che il sistema nervoso centrale sia una macchina molto complessa, diversi ricercatori accusano del ritardo nella ricerca di una cura il fatto che gli sforzi per sviluppare farmaci per l’Alzheimer si siano concentrati in modo schiacciante sulla teoria dell’amiloide, e molto meno sulla ricerca su ipotesi alternative come la proteina tau o la neuroinfiammazion e che, che, secondo la denuncia di alcuni scienziati, sono state persino ostacolate e di conseguenza scarsamente finanziate.

Secondo la teoria principale la causa dell’Alzheimer sarebbe da cercare nella formazione di placche amiloidi che si accumulano nel cervello e che soffocano i neuroni: trovare farmaci che prendano di mira l’amiloide sarebbe dunque la chiave per curare l’Alzheimer. In effetti sui topi ha funzionato. I primi test risalgono agli anni Novanta quando sono stati creati topi geneticamente modificati con un gene umano mutato che produce amiloide. Il cervello degli animali si è riempito di placche amiloidi e i loro ricordi sono andati distrutti: l’e liminazione dell’amiloide dal loro cervello ha invertito almeno in parte la perdita di memoria e altri deficit cognitivi. Quella dunque sembrava essere la strada per curare l’Alzheimer. Così i giganti biofarmaceutici come Pfizer, Eli Lilly, Merck, Biogen ci hanno provato. Centinaia di ricercatori hanno realizzato ciascuno un vaccino, un anticorpo, una molecola per prevenire la formazione di placche amiloidi o per distruggere queste placche. «Nonostante il successo in milioni di topi niente di tutto ciò ha funzionato nei pazient i» ha dichiarato al sito STAT Daniel Alkon, neuroscienziato, per molti anni al National Institutes of Health (NIH).

Aspettative deluse

Le terapie che hanno come bersaglio l’amiloide hanno infatti finora deluso le aspettative. Alcuni farmaci sperimentati miravano a bloccare gli enzimi coinvolti nella produzione di livelli anomali di amiloide; altri sono anticorpi monoclonali progettati per eliminare l’amiloide del cervello. Tra il 2007 e il 2019 più di una dozzina di sperimentazioni in fase 3 (quella registrativa) di farmaci che hanno come bersaglio l’amiloide hanno portato a risultati biologici, ma nessuno ha rallentato il declino cognitivo. Nel giugno 2021 la Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha dato il via libera al primo farmaco contro l’Alzheimer in oltre venti anni di ricerche . Aducanumab di Biogen è diventato la prima terapia approvata per colpire l’amiloide, ma la decisione ha provocato scalpore perché un comitato indipendente della FDA aveva sconsigliato l’approvazione dal momento che i dati della sperimentazione di Biogen non avevano mostrato un chiaro beneficio. Tuttavia l’FDA ha concesso «l’approvazione accelerata» perché il farmaco ha eliminato il 17% delle placche amiloidi nei pazienti, per questo motivo «potrebbe» rallentare la progressione dell’Alzheimer se assunto abbastanza presto e abbastanza a lungo. Diversi scienziati si sono dimessi dal comitato in segno di protesta. L’Ema ha rigettato la richiesta di messa in commercio in Europa del farmaco perché sebbene il preparato riduca i livelli di beta amiloide nel cervello «non è stato stabilito un legame tra i sui effetti e il miglioramento clinico».

L’ultima doccia fredda in ordine di tempo riguarda un altro anticorpo monoclonale (gantenerumab). Appena un mese fa il gruppo svizzero Roche ha reso noto il fallimento della sperimentazione: il farmaco non ha rallentato il declino cognitivo nelle persone soggette a forme di Alzheimer precoce. «Questo farmaco è stato la nostra illusione perché era l’unico che prevede la somministrazione sottocute e non per via endovenosa, quindi avrebbe potuto diventare una terapia domiciliare» commenta Alessandro Padovani, direttore della Clinica Neurologia all’Università di Brescia, intervenuto a inizio dicembre a Milano al 52° congresso nazionale della Società italiana di neurologia che si dice comunque «cautamente ottimista» sul futuro delle terapie. «Cinque anni fa non eravamo di fronte a un panorama del genere- aggiunge Albanese - perché non avevamo praticamente alcun risultato. Oggi ogni passo non va sottovalutato e siamo di fronte a un momento di passaggio nella ricerca sulle malattie neurodegenerative».

Nuove speranze

Due nuove molecole hanno però di recente ridato nuove speranze alla comunità scientifica, scottata per i tanti fallimenti: si tratta di anticorpi monoclonali che vanno ad eliminare l’amiloide che si accumula nel cervello, il lecanemab sviluppato da Eisai e Biogen e il donanemab prodotto da Ely Lilly. Entrambi riducono l’accumulo di amiloide nel cervello di circa il 60% in tempi brevi (18 mesi il primo e 6 mesi il secondo) e inducono un rallentamento della progressione clinica di circa il 30%. «I pazienti trattati con donanemab proseguono la terapia per sei mesi: se la quantità di amiloide scende sotto una soglia stabilita il trattamento viene sospeso e ripreso dopo sei mesi. La terapia prosegue invece per un altro anno nei pazienti che non hanno raggiunto il beneficio sperato in tempi così brevi» spiega Padovani. Su lecanemab «il risultato è certamente statisticamente significativo a favore del farmaco ma di scarsa rilevanza dal punto di vista clinico e un leggero rallentamento del declino cognitivo potrebbe non significare molto per i pazienti» è il commento del professor Albanese. Su entrambi i farmaci, anche se in modo meno marcato con donanemab, sussistono tuttavia ancora dubbi su importanti effetti collaterali come edema cerebrale e microemorragie, più frequenti tra coloro che assumono antiaggreganti e anticoagulanti.

La disputa tra amiloide e proteina tau

Da tempo alcuni scienziati hanno però sollevato dubbi sul modello amiloide, sospettando che la responsabilità del morbo di Alzheimer non sarebbe la formazione di placche amiloidi, ma il cattivo funzionamento della proteina tau. A supportare questo sospetto la scoperta di un patologo nel 1991 che ha trovato placche amiloidi sia nel cervello di anziani malati di Alzheimer sia in persone della stessa età, morte senza mostrare alcun sintomo di demenza. A partire da questi indizi, cui ne sono seguiti altri, si è affacciata quindi un’altra teoria, supportata da nuovi studi, secondo la quale sarebbe per primo il malfunzionamento della proteina tau, che ha il compito di eliminare delle sostanze potenzialmente tossiche all’interno dei neuroni, a innescare il processo di morte neuronale della malattia di Alzheimer e la formazione di placche amiloidi sarebbero una conseguenza di questo deficit. Il malfunzionamento della proteina tau può essere più o meno accentuato, e questo spiegherebbe perché in alcune persone anziane si sviluppano placche amiloidi senza che vi sia alcun decadimento mentale. «Sia le placche amiloidi sia la proteina tau sono certamente coinvolte nella malattia di Alzheimer» sintetizza il professor Albanese. «Quale sia la causa – dice - e quale sia l’effetto è oggetto di discussione: ci sono casi in cui l’amiloide è responsabile della malattia in modo primario, ma non c’è la prova che in tutti i casi sia l’amiloide la prima responsabile». «L’amiloide è elemento fondamentale della malattia: forse non è l’unico che possiamo contrastare, ma è l’unico su cui per ora abbiamo delle evidenze» sottolinea Padovani che aggiunge: «Con le nuove molecole donanemab e lecanemab abbiamo visto che eliminando alte percentuali di amiloide si rallenta la nerodegenerazione. Non funziona su tutti e non tutti gli anticorpi monoclonali agiranno allo stesso modo. Tuttavia siamo di fronte a uno scenario che molti credevano non sarebbe stato possibile. L’Alzheimer è come una nave che viaggia a 40 nodi verso il baratro: possiamo chiedere al timoniere di ridurre la velocitò o addirittura spegnere il motore come fosse un farmaco, la barca proseguirà il suo viaggio, ma andrà molto più lentamente. Recuperare tempo è finalmente un primo risultato che può indirizzarci verso un vero cambiamento».

A caccia di marker

Più di recente si è fatta strada l’idea che possono esserci cause diverse che provocano gli stessi effetti finali di una malattia che chiamiamo genericamente Alzheimer, ma che in realtà è un gruppo di malattie eterogenee. «La vera svolta - sostiene Albanese - sarà riuscire a sottotipitizzare quella che noi continuiamo a vedere come un’unica malattia. Individuare sottotipi in base ai meccanismi che la provocano potrà aiutarci a trovare terapie su misura per ogni tipo di sotto categoria. Per farlo servono biomarcatori ad hoc affidabili, in grado di identificare le proteine associate alla malattia di Alzheimer, ma nel campo della neurologia abbiamo neuroni altamente differenziati e una carenza assoluta di marcatori biologici di sotto tipizzazione. L’assenza di marcatori specifici (l’amiloide è un marcatore generico su pazienti già sintomatici) è una grave carenza. I farmaci fin qui sperimentati potrebbero magari funzionare su una sottotipologia di pazienti che però oggi non siamo ancora stati in grado di differenziare».

Un altro aspetto cruciale ancora carente è individuare con precisione i pazienti candidabili ai singoli trattamenti. Su questo aspetto è in corso il progetto Interceptor, promosso da AIFA e Ministero della salute che mira a identificare i diversi indicatori di malattia in pazienti con disturbo cognitivo lieve: «Una serie di algoritmi ci permetteranno di identificare i soggetti più a rischio che potranno accedere in modo prioritario alle future terapie» ha detto Camillo Marra, presidente SINdem, associazione autonoma aderente alla SIN per le demenze nel corso del congresso milanese.

I nuovi approcci della ricerca

La crescente diversità di approcci nella ricerca (finora concentrata come scritto quasi totalmente sull’amiloide) sta allargando la ricerca anche ad altri bersagli della malattia. Si sta facendo strada la teoria della neuroinfiammazione che suggerisce che la malattia derivi da un rilascio eccessivo di sostanze chimiche infiammatorie tossiche delle cellule immunitarie nel cervello chiamate microglia. I farmaci progettati sulla base di questa teoria sono molto diversi da quelli che puntano sull’amiloide e sono ancora all’inizio del processo di sperimentazione. Un’altra ipotesi sostiene che l’Alzheimer sia una malattia delle sinapsi, le giunzioni tra le cellule cerebrali (allo studio è un composto chiamato briostatina -1 che sembrerebbe capace di ripristinare le sinapsi); un’altra teoria parla di malattie dei mitocondri, strutture centrali per la produzione di energia presenti in ogni cellula cerebrale. Si è tanto discusso anche di potenziare un composto chiamato BDNF, che potrebbe rinvigorire le cellule e aiutarle a costruire nuove connessioni. «La causa della malattia può non essere unica, per questo gli approcci per aiutare i malati di Alzheimer saranno diversi e sarà necessaria una combinazione di farmaci che colpiscano i diversi processi biologici che vanno identificati paziente su paziente. Le terapie non possono essere standardizzate, ma saranno estremamente personalizzate» conclude Alberto Albanese che prevede che saranno le forme di malattia di origine genetica ad ottenere una prima vera cura: «Non conoscendo sempre i fattori primari che portano all’Alzheimer oggi sembra più convincente pensare di agire in modo efficace con terapie geniche sulle forme dovute a determinate mutazioni genetiche, che rappresentano all’incirca il 5% dei pazienti, perché ne conosciamo la causa e sappiamo dove andare a colpire». E anche su questo fronte gli scienziati sono al lavoro.

Come la dieta quotidiana può aiutare a prevenire demenza e Alzheimer. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 9 dicembre 2022.

Cominciamo col dare subito una buona notizia: è stato dimostrato che le probabilità di sviluppare una demenza diminuiscono se a metà della vita si seguono una dieta e uno stile di vita sano. Ovviamente per chi comincia sin da giovane a seguire uno stile di vita salutare, le probabilità di riuscita in quest’intento sono ancora maggiori, appare utile sottolinearlo.

La demenza è una sindrome che colpisce la memoria, la capacità di pensiero, il comportamento e l’abilità di espletare tutte le normali attività quotidiane della vita. È una sindrome di solito cronica o progressiva, causata da una serie di disfunzioni nel cervello. Il morbo di Alzheimer, la demenza vascolare, e la demenza fronto-temporale sono le forme più comuni di demenza. Il morbo di Alzheimer è provocato da cambiamenti strutturali del cervello che fanno morire le cellule, mentre la demenza vascolare dipende da un minore apporto sanguigno. La demenza non è parte di un normale invecchiamento della persona, ma una vera e propria alterazione patologica e degenerativa. Come tale, non si tratta di un destino segnato e inevitabile o di qualcosa di geneticamente prestabilito, ma di una condizione che nella maggior parte dei casi può essere evitata con opportuni comportamenti e accorgimenti. 

Il morbo di Alzheimer e il cervello

Miliardi di neuroni trasmettono informazioni a tutto il cervello, e dal cervello a tutto il corpo, in un circuito bidirezionale che crea una rete di segnali chimici lungo tutto l’organismo. L’Alzheimer interferisce con i processi di comunicazione e riparazione e provoca una perdita di neuroni maggiore del normale. Nel cervello sano le reti di neuroni comunicano attraverso segnali elettrici e chimici (neurotrasmettitori), che passano da giunzioni dette sinapsi, che si riparano continuamente dai danni che subiscono a causa della normale attività delle cellule del cervello (neuroni), e si ripuliscono dai detriti cellulari e dalle tossine prodotte giornalmente sempre a causa dell’attività delle cellule del cervello.

Nel cervello del paziente affetto da Alzheimer invece, man mano che i neuroni si danneggiano e muoiono, si interrompe la comunicazione fra le reti e si riducono le zone cerebrali. La prima funzione ad essere colpita è la memoria, poi il linguaggio, il ragionamento, e infine il comportamento. Nell’Alzheimer, fra i neuroni del cervello si raccoglie una quantità anomala di questi rifiuti normalmente innocui, formando placche di proteina beta-amiloide. Le cellule di supporto del cervello, chiamate microglia e astrociti e deputate nel cervello sano a rimuovere i detriti, nel caso dell’Alzheimer causano infiammazione danneggiando i neuroni. La proteina Tau, che normalmente sostiene la struttura interna dei neuroni, nell’Alzheimer si ammassa e cresce di quantità, impedendo ai neuroni di inviare segnali elettrici e chimici.

Demenza e dieta

Alcune ricerche hanno rilevato un’associazione positiva fra la lucidità mentale e l’alimentazione. Pare infatti abbastanza certo che seguire una dieta molto equilibrata senza eccessi di zuccheri, di sale, di grassi, e ricca di vegetali e frutti, abbia una certa influenza nel prevenire non solo le demenze ma anche altri tipi di patologie molto diffuse e mortali come quelle cardiovascolari (infarto, ictus), il diabete, i tumori. Inoltre c’è un legame molto stretto tra chi soffre di diabete e lo sviluppo dell’Alzheimer o di altre forme di demenza, e questo è già certo e assodato negli studi scientifici. Ne possiamo evincere che, assumere carboidrati raffinati al posto di quelli integrali, e fare uso di zuccheri aggiunti contenuti in parecchi prodotti industriali (tipici quelli della colazione come biscotti, brioche, cereali in tazza ecc.) faccia aumentare sia il rischio di diabete che di demenza. Questo perché sia i carboidrati raffinati che gli zuccheri infatti sono assorbiti a livello intestinale in maniera molto rapida e scatenano una risposta insulinica maggiore dei carboidrati integrali o di quelli più complessi contenuti in alimenti come i legumi. Le persone affette da Diabete di tipo 2 inoltre sono più a rischio di sviluppare una forma di demenza, probabilmente a causa dell’insulina in eccesso che fa accumulare più rapidamente nel cervello una proteina detta beta-amiloide. 

Gli studiosi poi hanno individuato un tipo di dieta o modello alimentare in grado di avere un’efficacia specifica contro le malattie neurodegenerative del cervello, questa dieta è conosciuta come dieta MIND, acronimo che sta per Mediterranean Intervention for Neurodegenerative Delay. Ed è stata ideata combinando elementi di altre due diete per ridurre il rischio di diabete di tipo 2 e cardiopatie. Nello specifico, questa dieta propone il consumo di verdure a foglia verde (come il cavolo nero, la verza e altre) e frutti di bosco per le loro proprietà antiossidanti, che riducono lo stress ossidativo e la degenerazione delle cellule del cervello (neuroni).

Altri studi sull’Alzheimer e le demenze indicano che un maggior consumo di grassi omega-3 contenuti nei pesci grassi riduce la probabilità di sviluppare demenze. 

Infine un altro aspetto che gli studiosi ritengono sia importante da gestire nella prevenzione delle malattie neurodegenerative, e lo stile alimentare che può tenerlo sotto controllo, riguarda la produzione di sostanze che si formano nel sangue chiamate AGE (prodotti finali di glicazione delle proteine, acronimo inglese per Advanced Glycation End products). Un alto livello di questi AGE è associato a stati infiammatori e allo stress ossidativo che precedono molte patologie croniche, fra cui l’Alzheimer, e forse contribuiscono a formare nel cervello gli ammassi di proteina Tau, una proteina che se in eccesso determina la perdita di funzionalità e la morte dei neuroni. Gli AGE si formano nel sangue quando il glucosio si combina con proteine e grassi (il glucosio di norma deve viaggiare libero nel sangue, non legandosi a proteine e grassi circolanti). Questo avviene in special modo se si consumano cibi cotti ad alte temperature oppure cibi pronti che sono stati sottoposti ad alte temperature nei loro processi produttivi, come ad esempio snack, biscotti e prodotti da forno tipo i croissant, gallette e simili. Riguardo i cibi che prepariamo a casa e le cotture che utilizziamo, si tenga conto della seguente tabella e dei valori di AGE corrispondenti. [di Gianpaolo Usai]

Manila Alfano per "il Giornale" il 2 dicembre 2022.

Gli scienziati l'hanno definita «una svolta epocale», una cura per l'Alzheimer, la più comune forma di demenza che, secondo i dati Oms, colpisce 55 milioni di persone nel mondo. Un farmaco sembra offrire un nuovo strumento di lotta contro gli effetti degenerativi della malattia che cancella la memoria di chi ne è colpito.

I primi risultati dei test clinici hanno mostrato una riduzione dei segni clinici della malattia allo stadio precoce. I dati dello studio condotto sul lecanemab, anticorpo monoclonale, sviluppato dalla società giapponese Eisai insieme alla partner statunitense Biogen, pubblicati sul «New England Journal of Medicine», hanno confermato che il farmaco, somministrato per via endovenosa ogni due settimane, ha rallentato il declino della memoria del 27 per cento in 18 mesi. I ricercatori sono «cautamente ottimisti» sul fatto che i risultati saranno confermati nei futuri studi clinici.

La ricerca è stata condotta su 1.795 pazienti di età compresa tra 50 e 90 anni a cui era stata diagnosticata un Alzheimer precoce. Alla metà è stato somministrato il lecanemab e all'altra metà un placebo.

La gravità della loro demenza è stata valutata utilizzando una scala clinica che ha tenuto conto di sintomi tra cui dimenticanza, difficoltà relazionali, capacità di risoluzione dei problemi e di vivere in modo indipendente. La malattia è progredita in entrambi i gruppi durante il periodo di studio di 18 mesi, ma è peggiorata molto meno rapidamente in quelli che assumevano il lecanemab.

Una svolta che lascerebbe intravedere una speranza. Lo studio peer-reviewed è stato condotto dal professor Christopher van Dyck, direttore dell'Unità di ricerca sul morbo di Alzheimer dell'Università di Yale, negli Stati Uniti. Tuttavia lo studio ha scoperto anche che il lecanemab è associato a diversi effetti collaterali tra cui mal di testa e microsanguinamenti nel cervello.

Una strada ancora lunga e complicata. Eppure sembra un risultato confortante, che arriva dopo decenni di fallimenti e che incoraggia la ricerca a spingersi sempre più avanti nell'obiettivo di arrivare quanto prima ad una cura contro l'Alzheimer, al di là delle controindicazioni riscontrate.

Tina Simoniello per repubblica.it il 25 ottobre 2022.

La stimolazione magnetica transcranica rallenta la progressione della malattia di Alzheimer migliorando sia i parametri clinici dei pazienti che la loro vita di tutti i giorni. È la prima volta che l'efficacia di una stimolazione cerebrale non invasiva viene dimostrata in un trial di fase 2, uno studio realizzato su 50 pazienti per 6 mesi. 

E a farlo è stato un gruppo scienziati dell'ospedale di neuroriabilitazione Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma in collaborazione l'Università di Ferrara. I risultati della ricerca che è pubblicata su Brain, aprono nuove prospettive di trattamento della malattia di Alzheimer non basate su una terapia farmacologica ma su un approccio di tipo fisico, o, in futuro, su una combinazione tra i due.

"Il nostro è il primo studio in cui si utilizza la stimolazione cerebrale non invasiva  nell'Alzheimer con lo scopo di rallentare la progressione della malattia", dice Giacomo Koch, professore ordinario di Fisiologia all'università di Ferrara, direttore del laboratorio di Neuropsicofisiologia sperimentale al Santa Lucia di Roma e primo autore della pubblicazione. "Abbiamo dimostrato - aggiunge - che applicando per 6 mesi la stimolazione magnetica transcranica si ottiene un effetto che non solo è sovrapponibile a quello dei farmaci, ma lo supera. Rallentare la malattia nell'arco di 6 mesi, è un risultato davvero importante".

Cinquanta pazienti con Alzheimer di grado lieve-moderato sono stati suddivisi in due gruppi in maniera casuale: a una metà è stata applicata la Tms per sei mesi con frequenza settimanale, all'altra metà una stimolazione placebo (sham, in italiano falsa). Lo studio era di fase 2 e in doppio cieco: né i pazienti né i ricercatori sapevano chi sarebbe stato sottoposto a cosa. 

Al termine del trattamento, i pazienti sottoposti a Tms hanno mostrato punteggi decisamente migliori degli altri in una serie di scale cliniche che misurano le funzioni cognitive, e in particolare nella scala clinica Clinical Dementia Rating-Sum of Boxes (la stessa utilizzata nei trials clinici che studiano i farmaci anti-amiloide contro l'Alzheimer), rispetto al gruppo di controllo, hanno ottenuto una riduzione di circa l'80% nella progressione dei sintomi di malattia.

Un risultato supportato anche dai punteggi ottenuti nelle scale che misurano l'autonomia della vita quotidiana, "che per sei mesi - riprende Koch - sono rimaste sostanzialmente invariate nei pazienti trattati con Tms, mentre sono peggiorate in quelli sottoposti a stimolazione placebo. 

In pratica noi abbiamo visto l'effetto della stimolazione cerebrale non invasiva sulla malattia nella sua interezza: a livello clinico, perché l'attività cognitiva dei pazienti si stabilizzava, ma a anche a livello quotidiano. Era la loro vita di tutti i giorni che migliorava". 

La Tms è una tecnica non invasiva nota e utilizzata da tempo in neurologia, per esempio nel recupero dell'ictus o nel Parkinson, ed è basata sull'applicazione di campi elettromagnetici.

A differenza dei farmaci di sviluppo recente, che agiscono sulle placche di beta-amiloide o sugli ammassi di proteina tau (le sostanze tossiche che tipicamente si accumulano nel cervello di chi soffre di Alzheimer), questa metodica agisce su un meccanismo a valle dell'accumulo, cioè sulla plasticità sinaptica che è il meccanismo responsabile della formazione della memoria e che viene danneggiato progressivamente dalla malattia.

I campi magnetici attraversano il cervello in maniera non invasiva (il paziente non avverte nulla) e per il principio dell'elettromagnetismo, quando questi treni di stimoli arrivano a livello dei neuroni inducono un campo elettrico, questo campo elettrico ri-attiva le cellule danneggiate dagli accumuli tossici. 

Volendo stimolare i circuiti legati alle funzioni cognitive come la memoria e l'attenzione, i ricercatori hanno indirizzato la Tms sul precuneo, una regione del cervello che svolge un ruolo chiave all'interno di una rete che si chiama default mode network o dnm. Il precuneo è collocato in una posizione centrale e posteriore del cervello ed è altamente connesso con altre aree, tra cui il lobo temporale coinvolto nei processi di memoria e consapevolezza.

"Noi abbiamo visto - riprende Koch - che trattando con Tms questa regione che è viene danneggiata dall'accumulo della sostanza amiloide e degli aggregati di proteina tau, grazie alla plasticità cerebrale e alla elevata interconnessione del cervello, gli effetti positivi del trattamento si estendono anche ad altre aree dello stesso network".

Per individuare in maniera precisa e personalizzata i parametri della stimolazione, i ricercatori hanno utilizzato una combinazione di Tms elettroencefalogramma (Tms-eeg) e di un sistema di neuro-navigazione. 

In questo modo hanno potuto definire con precisione per ogni singolo paziente i confini della regione bersaglio e l'intensità giusta di campo elettromagnetico, in pratica la dose di trattamento. "Questo della personalizzazione è  un elemento importante - riprende Koch - perché i farmaci sono una pillola uguale per tutti, la Tms è un esempio di medicina personalizzata, si può modulare".

Utilizzando la Tms-eeg i ricercatori hanno monitorato anche l'attività cerebrale come biomarker di risposta alla terapia, ovvero come indicatore di efficacia della cura. Ebbene, alla fine dei sei mesi i pazienti trattati con Tms mostravano un incremento dell'attività oscillatoria nella banda gamma, che in termini decisamente più semplici significa che si era rafforzato nel loro cervello un circuito importante per le funzioni cognitive come apprendimento e memoria. Non era andata così per i pazienti trattati con placebo, che avevano invece avuto un calo evidente dell'attività cerebrale.

"Questi risultati sono particolarmente rilevanti perché sono stati ottenuti in una popolazione di pazienti di fase lieve-moderata, in cui il declino cognitivo avanza più rapidamente ed è meno responsivo ai farmaci", ha detto Alessandro Martorana, professore associato all'Università di Roma Tor Vergata e coautore dello studio. "Inoltre - ha aggiunto Martorana - la terapia è stata ben tollerata e non si sono osservati seri eventi avversi per i pazienti trattati con Tms per sei mesi.

Un fatto che rende questa terapia particolarmente sicura nei pazienti con Alzheimer, una popolazione fragile ed alto rischio che presenta molteplici comorbidità." E una popolazione parecchio numerosa: secondo i dati dell'Oms , nel mondo, oltre 55 milioni di persone convivono con la demenza, che il 60-70 % delle volte è Alzheimer. Il dato è già di per sé importante, ma lo è ancora di più visto che cresce su base giornaliera, con previsioni che raggiungono i 78 milioni entro il 2030.

L'Oms stima che la malattia di Alzheimer e le altre demenze rappresentano la settima causa di morte nel mondo.  In Italia secondo l'Istituto Superiore di Sanità circa 1.100.000 persone soffrono di demenza, il 60% è malato di Alzheimer. 

Il prossimo obiettivo sarà replicare i risultati già ottenuti nell'ambito di un trial multicentrico di fase 3, cioè uno studio su un campione più grande di pazienti che fornisca una ampia conferma del metodo.

"Crediamo che la stimolazione magnetica transcranica si potrebbe utilizzare in futuro sia da sola in combinazione - riprende e conclude Koch - potenziando gli effetti di altri farmaci che sono in fase di sviluppo e che, anche loro, mirano alla plasticità sinaptica. Oppure si potrebbe applicare in sinergia con molecole che hanno altri target, come gli anticorpi monoclonali, che mirano agli accumuli tossici di beta-amiloide e di tau".

"Una diagnosi precoce può fare la differenza con il morbo di Alzheimer". Oggi è la Giornata Mondiale dell'Alzheimer. Solo in Italia i casi sono 630mila, il 20% della popolazione ultra 60enne. L'esperta a ilGiornale.it: "Alcuni comportamenti possono aiutare a prevenire la malattia". Rosa Scognamiglio il 21 Settembre 2022 su Il Giornale. 

"La prevenzione è fondamentale per contrastare tempestivamente il rischio di Alzheimer". Non ha dubbi la dottoressa Maria Cristina Gori, neurologa e psicoterapeuta, nonché responsabile scientifico del corso "La malattia di Alzheimer. Novità terapeutiche e ultime scoperte scientifiche - Pollicino" firmato da Consulcesi, leader italiano nell’ambito della formazione ECM per i professionisti del settore sanitario. In occasione della Giornata Mondiale dell'Alzheimer, l'esperta ribadisce l'importanza della diagnosi precoce prima che la malattia degeneri al punto da diventare invalidante per il paziente e i suoi familiari: "Da sempre sappiamo quanto le nostre abitudini e i nostri stili di vita influiscono sul rischio di sviluppare malattie - spiega la specialista -. Salvaguardare la nostra riserva cognitiva è possibile, ma si sa e si fa ancora troppo poco. Non dobbiamo dimenticare famiglie e amici che vedono sconvolgersi la vita da una diagnosi di Alzheimer".

Morbo di Alzheimer, identificati nuovi geni incriminati

Dottoressa Gori, cos'è l'Alzheimer?

"Il morbo di Alzheimer è un disturbo degenerativo che colpisce il sistema nervoso centrale. Nello specifico, si tratta un disturbo neurocognitivo che inibisce, gradualmente, le abilità intellettive di chi ne è affetto fino ad interferire con il normale svolgimento delle attività quotidiane".

Come si manifesta?

"I sintomi associati a questa malattia sono molteplici. In linea generale, l'Alzheimer si manifesta attraverso disturbi della memoria, del linguaggio e dell'orientamento spazio-temporale. Il sintomo più comune è sicuramente la perdita della memoria che può degenerare al punto da portare il paziente a non riconoscere nemmeno più i suoi familiari".

In che modo è possibile distinguere un declino cognitivo, legato quindi all'invecchiamento, dalla malattia di Alzheimer?

"Fare un distinguo è molto importante. Non sempre un disturbo della memoria è necessariamente il campanello d'allarme della malattia di Alzheimer. Le cosiddette 'dimenticanze', i classici 'vuoti di memoria' per intenderci, sono tipici dell'anziano. Chiaramente, vale anche il contrario. Intendo dire che se non si tratta di episodi sporadici, non bisogna sottovalutare alcuni comportamenti".

Alzheimer, un'app lo diagnostica precocemente

A che età possono insorgere i sintomi dell'Alzheimer?

"L'età media è dopo i 60 anni. Anche se, dal momento che l'aspettativa di vita si è prolungata, è molto più probabile che i sintomi dell'Alzheimer insorgano in età molto avanzata. In tal caso, si parla di insorgenza tardiva".

Ad oggi, quante persone ne sono affette?

"Il morbo di Alzheimer è la forma più diffusa di disturbo neurocogntivo. In Europa, con tre milioni di casi, rappresenta il 54% di tutte le demenze, interessando solo in Italia circa il 20% della popolazione ultrasessantenne per un totale di oltre 630mila casi".

Esiste una predisposizione genetica?

"A parte alcune forme (rare) che fanno capo a particolari predisposizioni genetiche, generalmente molto dipende dalla nostra riserva cognitiva".

Ovvero?

"Da quanto abbiamo esercitato la nostra attività cognitiva durante l'età adulta, quindi dopo la conclusione del percorso scolastico. Ed è per questo motivo che è fondamentale leggere o, ad esempio, partecipare a una mostra d'arte. La riserva cognitiva è un elemento protettivo per il nostro cervello e rallenta il decadimento cognitivo".

Alzheimer, il nuovo metodo che lo prevede 

Quali sono i maggiori fattori di rischio?

"Sicuramente avere una vita sana ed equilibrata è fondamentale. Anche se, è bene precisarlo, purtroppo non sono state ancora individuate le cause scantenanti dell'Alzheimer. Non abbiamo ancora risposte certe al riguardo".

Quanto incide l'alimentazione?

"Per certo, gioca un ruolo importante. Ma se nel caso delle vasculopatie cerebrali, come ad esempio l'Aterosclerosi, abbiamo la certezza che il diabete sia un importante fattore di rischio, lo stesso non si può dire per l'Alzheimer. Tuttavia sarebbe meglio limitare gli abusi alimentari, specie quelli legati al consumo di grassi e carboidrati. E, neanche a dirlo, il fumo e l'alcol sono dannosissimi".

Vale lo stesso per l'attività sportiva?

"Sì. Studi recenti hanno dimostrato che l'attività sportiva migliora anche l'ossigenazione del cervello. Quindi è molto importante non avere una vita sedentaria".

Alzheimer, nuovi farmaci possono prevenire la malattia

Esiste una cura per l'Alzheimer?

"La ricerca ha fatto grandissimi passi avanti in tal senso. Esistono dei farmaci in grado di prolungare il livello di acetilcolina all'interno delle sinapsi cerebrali. Lacetilcolina è un neurotrasmettitore, ovvero una sostanza che ha il compito di propagare l'impulso nervoso tra due neuroni collegati tramite una sinapsi".

E invece, un rimedio pratico per preservare la memoria?

"Fare la settimana enigmistica o leggere libri. Ha presente quando si dice che fare le parole crociate aiuta a mantenere 'il cervello allenato'? Nulla di più vero. È molto importante esercitare e stimolare costantemente le nostre funzioni cognitive. Ma la vera cura è la prevenzione".

Quanto è importante fare prevenzione?

"La prevenzione è fondamentale. Una diagnosi precoce può davvero fare la differenza nella progressione del morbo di Alzeheimer".

L'Alzheimer si ripercuote anche sulla vita dei familiari della persona malata. Qual è il suo consiglio?

"Anzitutto è molto importante che i parenti di un paziente affetto da Alzheimer riconoscano di essere in presenza di una persona malata. Un genitore che ha perso la memoria storica, che fa fatica persino a riconoscere i propri figli, è un individuo che ha perso completamente la propria identità. Questo deve essere chiaro. E poi, c'è un altra cosa: il testamento biologico. Una persona a cui sia stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ha tutto il diritto di essere informato e di scegliere per il proprio futuro. Per il resto, suggerisco di vivere alla giornata e di non sprecare un solo momento di vita".

Donatella Zorzetto per repubblica.it il 9 settembre 2022.

Somministrata attraverso il naso, una molecola è in grado di evitare l'accumulo delle placche di beta amiloide nel cervello di modelli animali. La scoperta, che rappresenta una svolta nello studio dell’Alzheimer, è da attribuire a un gruppo di ricercatori italiani, appartenenti alla Fondazione Istituto Neurologico Carlo Besta, in collaborazione con i colleghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Molecular Psychiatry.

In sostanza, la ricerca dimostra che un piccolo peptide somministrato per via intranasale è efficace in un modello di Alzheimer nel topo e inibisce il deposito e gli effetti tossici di una delle due proteine che causano la patologia.

Lo studio rappresenta un passo in avanti per lo sviluppo di un farmaco per la cura della malattia di Alzheimer nell’uomo, la più comune forma di demenza in età avanzata e tuttora incurabile. Gli approcci terapeutici finora esplorati dalla comunità scientifica internazionale non hanno purtroppo ancora portato all’identificazione di un composto in grado di contrastare efficacemente la malattia, se non addirittura prevenirla.

Tuttavia, i risultati di decenni di ricerca scientifica finalizzata alla scoperta di una soluzione per il morbo di Alzheimer hanno dimostrato che, impedire o rallentare la formazione di aggregati delle due proteine, che giocano un ruolo fondamentale in questa forma di demenza (la proteina beta-amiloide e la proteina tau), non è sufficiente a sconfiggere la malattia. È importante, infatti, inibirne contemporaneamente gli effetti neurotossici.

E qui entra in gioco la nuova strategia sviluppata dagli esperti italiani, il cui obiettivo è proprio quello di contrastare l’Alzheimer. Strategia che si basa su una scoperta antecedente degli stessi autori che hanno identificato una variante naturale della proteina beta amiloide, in grado di proteggere i portatori dallo sviluppo dalla malattia: questo ha permesso di sintetizzare la molecola (un piccolo frammento formato da 6 aminoacidi) utilizzata nella ricerca. 

“Gli esperimenti hanno dimostrato che la somministrazione per via intranasale del peptide, in una fase precoce della malattia, è efficace nel proteggere le sinapsi dagli effetti neurotossici della beta-amiloide – commentano Fabrizio Tagliavini e Giuseppe Di Fede, neurologi del Besta che hanno condotto lo studio –, oltre che nell’inibire la formazione di aggregati della stessa proteina, responsabili di gran parte dei danni cerebrali nell’Alzheimer, e nel rallentare il deposito della beta-amiloide sotto forma di placche nel cervello”.

“Inoltre, il trattamento sembrerebbe non indurre eventi collaterali che derivano da un’anomala attivazione del sistema immunitario, riscontrati in altre potenziali terapie per l’Alzheimer – proseguono –. Questi effetti multipli costituiscono pertanto una combinazione apparentemente vincente nell’ostacolare lo sviluppo della malattia nei topi”.

C’è poi un altro aspetto da considerare. A metterlo in luce è Mario Salmona, biochimico dell’istituto Mario Negri. “Gli ulteriori vantaggi di questa strategia – evidenzia – riguardano i bassi costi di produzione del piccolo peptide, in confronto agli elevatissimi costi di altri approcci terapeutici potenziali per l’Alzheimer come gli anticorpi monoclonali, la semplicità e la scarsa invasività del trattamento per via intranasale, peraltro già utilizzato con successo per altre categorie di farmaci”. 

Sono oltre 1 milione e 480 mila le persone che oggi in Italia convivono con la demenza, e si stima che siano destinate a diventare 2 milioni e 300 mila entro il 2050: circa 900 mila persone in più avranno quindi bisogno di assistenza e supporto post-diagnostico.

I dati sono emersi da una ricerca sulla prevalenza delle demenze a livello globale condotta dall'Institute of Health Metrics and Evaluation dell'Università di Washington e pubblicata sulla rivista Lancet.

Secondo gli esperti, non solo sono preoccupanti, ma addirittura sottovalutano la vera portata del problema. E a livello globale, se possibile, la situazione è ancora più critica: in tutto il mondo sono 55 milioni le persone con demenza, destinate a diventare 139 milioni entro il 2050. Ogni 3 secondi, secondo le stime dei ricercatori, nel mondo qualcuno sviluppa la malattia.

La fabbrica dei nostri ricordi (falsi). Così «inventiamo» il passato. Anna Meldolesi su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

È capitato a Bush Jr, convinto di aver visto in diretta l’attacco alle Torri Gemelle. E succede a tutti noi. Con i social che hanno un effetto moltiplicatore della “memoria collettiva”. Dalla strega di Biancaneve a un brano dei Queen, fino ai post sulla guerra. 

Vivido, concreto e circostanziato. Il ricordo di quella bomba incendiaria, caduta tanto vicino alla sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale, si è impresso con forza nella memoria di Oliver Sacks. L’acclamato scrittore-neurologo era così certo di aver vissuto quell’esperienza all’età di otto anni da averla raccontata nel libro Zio Tungsteno. Potete immaginare la sua sorpresa quando molto tempo dopo scoprì di essere stato ingannato dal proprio cervello. Se è successo a un raffinato studioso della mente come lui, a proposito di un avvenimento saliente come un’esplosione, potete stare certi che succede a noi tutti.

«I FALSI RICORDI PICCOLI E GRANDI FANNO PARTE DEL NOSTRO BAGAGLIO DI VITA E PUÒ ACCADERE PERSINO CHE SIANO CONTAGIOSI, CHE DIVENTINO PARTE INTEGRANTE DELLA MEMORIA COLLETTIVA»

I falsi ricordi piccoli e grandi fanno parte del nostro bagaglio di vita e può accadere persino che siano contagiosi, che diventino parte integrante della memoria collettiva. I fatti vengono rielaborati inconsapevolmente aggiungendo particolari plausibili che vanno a riempire dei vuoti, o includendo dettagli che abbia mo sentito da altri ma crediamo nostri. Spesso i ricordi sono così: c’è qualcosa di vero, qualcosa di verosimile, qualcosa di prestato. Le neuroscienze insegnano che la memoria non è un hard disk da cui scaricare i file delle nostre esperienze battendo un tasto. È un atto in divenire, un processo di editing, accurato il tanto che basta per vivere in un mondo mutevole.

La realtà della bomba in casa

Nel caso di Sacks era andata così. L’ordigno era davvero esploso dietro casa sua, a Londra nell’inverno del 1940-41, con una fiammata terribile. Suo padre tentava di spegnerla con una pompa, i suoi fratelli correvano portando secchi d’acqua, schizzi di metallo fuso venivano lanciati in ogni direzione. Ma Oliver in quel momento non era presente. Vivrà quello choc in seguito, indirettamente, leggendo la drammatica descrizione contenuta in una lettera del fratello maggiore. Quelle parole diventeranno immagini mentali e quindi ricordi secondari, altrettanto dettagliati e carichi di emozioni dei suoi veri ricordi. Oggi nella nostra memoria possono inserirsi non solo i racconti degli altri, ma anche le immagini viste in televisione e quelle circolate sui social media. Da meccanismi della mente come questi può dipendere l’efficacia delle campagne di comunicazione, comprese le operazioni di disinformazione comuni in tempo di guerra, e più banalmente il successo di pubblicità ed influencer.

«DIMMI IN CHE BOLLA SEI E TI DIRÒ COSA RICORDERAI: LA CONVERGENZA È MAGGIORE QUANDO SIAMO RACCHIUSI DENTRO A UN GRUPPO LIMITATO DI CONTATTI CHE RINFORZANO LE NOSTRE CONVINZIONI IDENTITARIE, SPIEGA LAURA SPINNEY»

Le conoscenze sulle dinamiche della memoria collettiva al tempo dei social non sono ancora un edificio solido, ma il gruppo di Walter Quattrociocchi sta lavorando per rafforzarne le fondamenta alla Sapienza Università di Roma. Il suo dottorando Gabriele Etta, in particolare, passa al setaccio con gli algoritmi Twitter, Facebook, Instagram, Reddit. L’idea è di verificare quanto dura la memoria social degli avvenimenti più o meno importanti, quanto sono effimere le tracce lasciate nel chiacchiericcio virtuale da un urgano o dall’ultima trovata di Chiara Ferragni. L’ipotesi più interessante in corso di verifica riguarda la regolarità del fenomeno, perché il decadimento della memoria social sembra seguire lo stesso andamento indipendentemente dalla natura drammatica o frivola dei contenuti. La mole di post può essere più o meno imponente, ma la curva sembra calare con la stessa inclinazione. Che si tratti di promozione, intrattenimento o informazione, la macchina va alimentata continuamente. I social dimenticano in fretta, perché contenuti sempre nuovi competono per la nostra attenzione. Se sono sintetici come i meme si adattano meglio alla velocità di questo flusso ininterrotto.

La maggioranza ha un peso

Anche la rielaborazione collettiva del conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina è destinata a diventare oggetto di studio per gli psicologi sociali e gli scienziati delle reti. I social network contribuiscono a erodere la distinzione tra memoria individuale e condivisa, e gli esperimenti mostrano che le persone tendono a uniformarsi a ciò che la maggioranza dice, anche se ha torto. La convergenza è maggiore quando siamo racchiusi dentro a un gruppo limitato di contatti che rinforzano le nostre convinzioni identitarie, ha spiegato Laura Spinney su Scientific American. Come dire: dimmi in che bolla sei e ti dirò cosa ricorderai. In tutti i grandi eventi storici studiati, comunque, gli esempi di memorie falsate abbondano. L’11 settembre, ad esempio, ha generato una grande quantità di falsi ricordi. Persino George W. Bush è finito nelle pubblicazioni sul “misremembering” per aver descritto in modo contraddittorio le circostanze in cui era venuto a conoscenza dell’attacco alle torri gemelle. Due volte su tre ha riferito di aver visto in tv l’impatto del primo aereo, ma la verità è che quelle immagini non erano state trasmesse in diretta. Ha mentito? Probabilmente no, nella sua mente devono essersi riorganizzate logicamente le informazioni ricevute al momento e le riprese viste successivamente.

Versioni differenti a distanza di tempo

Alcuni studiosi hanno ipotizzato un meccanismo che si attiverebbe in occasione degli eventi scioccanti per scattare delle istantanee mentali. In effetti certi ricordi sono come dei flash fotografici ma non fermano l’attimo. Anzi accade di frequente che le persone diano versioni differenti se interpellate a distanza di tempo, senza dubitare mai di sé. Un consorzio di ricercatori ha studiato l’evoluzione dei ricordi personali e fattuali relativi all’11 settembre, interrogando un vasto campione di americani a uno, due e dieci anni dalla tragedia. Durante i primi dodici mesi l’accuratezza è diminuita, poi la memoria si è cristallizzata e gli errori relativi alle circostanze personali sono risultati i più difficili da correggere. Non si tratta soltanto di dimenticanze ma di particolari distorti, dagli abiti indossati alle persone presenti in quel momento fatidico. Una cosa però non è mai mutata: la fiducia nella propria buona memoria.

«Effetto Mandela»: non morì in prigione

Quando più persone si trovano a condividere lo stesso falso ricordo si può parlare di “effetto Mandela”, perché in tanti hanno creduto che il leader anti-apartheid fosse morto in prigione negli Anni 80, mentre lui ha fatto in tempo a uscirne e diventare presidente del Sud Africa. In rete si trovano anche collezioni divertenti di falsi ricordi collettivi. La celebre canzone dei Queen, ad esempio, finisce con le parole «we are the champions», non «we are the champions of the world» come tanti credono di ricordare. La regina di Biancaneve non ha mai detto «specchio, specchio delle mie brame», la frase giusta è «specchio servo delle mie brame». Ma per tornare ai casi storici e agli Anni 40, vale la pena di menzionare il saggio Perché ci ammazzano? di Alessandro Portelli, che documenta le false memorie della liberazione come il mito del pilota nero. Tra i romani si diffuse la convinzione che un uomo dalla pelle scura fosse entrato in azione sui cieli di Roma, anche se ovviamente nessuno poteva scorgere da terra le fattezze di chi era in volo.

ESSERE CAREGIVER NON È SCONTATO. Alzheimer, quando si intrecciano dolore e malattia i giudizi dovreste tenerveli nel cassetto. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 19 marzo 2022.

Mi ero dimenticata di quanto sia giudicante il mondo quando si tratta di commentare le dinamiche familiari altrui, specialmente quando si intrecciano col dolore e la malattia. Mi ero dimenticata di quanto le persone - alcune, non tutte - si sforzino strenuamente di vendere al pubblico la favoletta rassicurante della famiglia perfetta, in cui i vestiti della domenica si indossano anche di lunedì e per cui la malattia, appunto, è un collante doloroso ma gentile. Dopo aver raccontato la triste decisione di portare mia madre malata di Alzheimer in forma ormai molto severa in una Rsa, ho ricevuto un certo numero di messaggi e commenti il cui succo era “hai i soldi, potresti tenerla a casa”, “i genitori non si parcheggiano in un istituto, si accudiscono come loro hanno fatto con noi da bambini”, “è una scelta egoistica” e così via.

Credo ci siano molte cose da spiegare. Io ritengo che l’accudimento sia una vocazione e che, se praticato senza una vocazione, sia una punizione inflitta non solo a se stessi ma anche a chi vorremmo accudire (il sacrificio imposto si avverte anche nella foga con cui si passa una spugnetta bagnata passata sul collo dell’ammalato).

IL CAREGIVER

Anche nel caso in cui si abbiano il tempo e i mezzi per assistere un malato che, come nel caso di mia madre, non è presente a se stesso, non cammina, non è in grado di lavarsi, cambiarsi e nutrirsi da solo, la scelta di diventare un caregiver a tutti gli effetti, è una scelta che toglie autonomia anche a chi la compie.

Esiste “un’invalidità” subdola e sottovalutata non solo in certi malati, ma anche in chi li assiste. Nei figli, genitori, fratelli che decidono di prendersi cura del familiare malato congelando la propria esistenza, rinunciando a vacanze, tempo libero, spazi di leggerezza emotiva.

Il caregiver, spesso, sente di potersi muovere con le gambe, ma di essere immobile quanto chi accudisce. Questo non vuol dire non amare, non aver accolto la dimensione del sacrificio, ma è importante riconoscere l’immensa fatica che c’è dietro a scelte di dedizione assoluta.

SALTA TUTTO 

Chi pensa che decidere di non accudire un genitore ammalato sia un gesto egoistico, non sa. Ignora quanto male possa fare imporsi una scelta del genere e poi far respirare a un ammalato stanchezza e frustrazione per le privazioni inevitabili, per la quotidianità sconvolta.

Vuol dire ignorare quanti equilibri familiari saltino in aria, perché togli spazi al tuo tempo, perché i figli, le mogli e i mariti, a loro volta, non sempre comprendono la scelta di chi si immola o, se la comprendono, ne condividono la fatica e la malinconia. Entrano in crisi matrimoni, spesso non sopravvivono.

Chi pensa che tutti noi dovremmo accudire a casa un ammalato, non conosce l’impatto psicologico che la malattia ha su chi accudisce. E, qui sta la retorica più scivolosa, dà per scontato che il legame con l’ammalato fosse d’amore e d’affetto assoluti. Che il senso di riconoscenza debba abbattere ogni ostacolo.

E invece talvolta non si accudisce per senso di riconoscenza ma per senso del dovere, che è una fatica eroica, perché vuol dire sentire che è giusto così, anche se il malato non ti ha amato, non ti ha accudito, non ti ha protetto, ma si è limitato a metterti al mondo.

LA FRUSTRAZIONE 

Non si parla abbastanza di chi diventa caregiver con la frustrazione spesso celata di chi svolge la sua mansione per una specie di obbligo morale, perché un genitore o una sorella o uno zio non si abbandonano neppure se sono stati egoisti o crudeli e riescono ad essere irriconoscenti perfino mentre gli pulisci il sedere.

E scusate se sono cruda, ma mia madre è stata a sua volta caregiver di sua madre anche lei con l’Alzheimer per un anno, quando ero adolescente, e ho visto cosa vuol dire costringersi a prendersi cura di chi non si è preso cura di te, con quanto livore si imbocchi, si lavi, si pettini chi stai accudendo, certe volte.

Non so se quelle siano scelte migliori di chi decide di accompagnare un genitore in un istituto e di andarlo a trovare con la serenità che certe volte regala la distanza emotiva. E poi certo, c’è chi fa tutto questo con amore, ma la malattia quando ti abita in casa è un inquilino esigente e rumoroso anche quando l’ammalato è muto e immobile. Anzi, soprattutto. Cala una coltre spessa di malinconia, i medicinali occupano ogni comodino, la morte è un’idea che incombe e incupisce.

Se si hanno figli, li si costringe a vivere in una dimensione onesta ma uggiosa, ci si domanda sempre se sia giusto che respirino quell’atmosfera. E, spesso, nell’accudire senza sosta si finisce per cadere in depressioni tenaci. Per ammalarsi di una malattia silenziosa e raramente condivisa, perché la responsabilità impone di soffocare piagnistei.

I LIMITI 

Ci sarebbe da dire anche molto altro, per esempio tutto quello che non riguarda l’abbattimento dello spirito, ma i problemi pratici. Non sempre un caregiver ha le abilità e le conoscenze per soddisfare le esigenze di una ammalato. Per interpretarle.

Talvolta non ha la forza fisica per sollevarlo da terra se l’ammalato scivola mentre sta seduto su un divano e non riesce a rialzarsi. Esiste l’assistenza domiciliare ma non sempre basta, non sempre si può contare su persone che si ammalano, hanno problemi familiari, partono, sono esseri umani pure se ormai li vediamo come il prolungamento sano dell’ammalato.

Esistono i problemi economici, le Rsa convenzionate con le Asl sono spesso lontane, la Asl quasi mai coprono tutte le spese, l’assistenza domiciliare costa anche lei, si entra nel tunnel nero della burocrazia che non si può delegare all’ammalato, si attinge ai propri risparmi, si lascia il lavoro, si litiga tra parenti perché qualcuno fa più di altri, ci si chiede se quella di un istituto, davvero, fosse l’unica strada. O se fosse solo quella di comodo.

Si convive con i sensi di colpa. Si va a trovare la mamma o il papà in una Rsa e in uno sguardo che si abbassa, in due occhi che ti fissano, all’improvviso, leggi qualcosa che somiglia a un rimprovero. O alla nostalgia.

Guardi gli altri parenti in visita agli ammalati, ti sembrano tristi, “portami a casa”, dice qualcuno sulla sedia a rotelle. Qualcuno urla, qualcuno, come mia mamma, fissa un punto lontano e non sai se quel punto è la sua infanzia o la scritta “ascensore”. Qualcuno sembra felice, accanto a nuovi amici, mentre mangia qualcosa al bar.

La malattia non è un fatto solitario. La malattia è la malattia della casa che un paziente abita. Del suo nucleo familiare. La malattia non aggiusta, non appiana, non unisce. Non sempre, almeno. Sconvolge equilibri e presenta conti emotivi per cui talvolta non si erano messi da parte risparmi a sufficienza.

Quando si deve decidere come prendersi cura di qualcuno – a patto che lo si possa decidere, perché succede anche che l’accadimento casalingo e solitario sia una strada senza scampo - non si guarda in faccia solo la malattia. Non si calcola solo il proprio spazio e il proprio tempo.

Si cerca un difficile equilibrio tra l’egoismo e la dedizione, tra il preservare la propria vita e l’altrui dignità. Tra il rancore e il perdono. Tra l’amore per ciò che è un genitore e la conservazione di ciò che si è.

IL TEMPO ASSALE

È, soprattutto, entrare violentemente in contatto con le proprie fragilità, perché un genitore che si ammala senza ritorno, che entra in una Rsa è il tempo che ci assale. Il tempo in tutte le sue diramazioni.

Non è il passato, il presente o il futuro a preoccuparci. Sono tutti gli spazi temporali possibili, il passato che perderà un pezzo con la morte di una madre o di un padre, la fatica dell’oggi con le sue preoccupazioni e l’affacciarsi su ciò che un giorno sarà di noi, un presagio tanto inevitabile quanto sconosciuto finché i genitori non si ammalano.

Perciò ecco, se potete non giudicate il modo in cui noi altri ci prendiamo cura dei nostri genitori (quando almeno ci proviamo) perché credetemi: mentre lo facciamo, tentiamo anche di prenderci cura di noi, e ci vuole poco renderci tutto più difficile. Non dimenticatelo.  

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

L’ALZHEIMER E LA SCELTA OBBLIGATA DELLA RSA. Nessuno sa cosa significhi decidere di portare la propria mamma in un istituto. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 14 marzo 2022

Nessuno sa cosa significhi decidere che è arrivato il momento di portare un genitore in un istituto, in una Rsa.

C’è la fatica- ammirevole- di chi spende la sua vita ad accudire e c’è lo strazio pudico, ammantato di sensi di colpa, di chi non può accudire. Mia mamma aveva esaurito il suo tempo felice e consapevole negli spazi della quotidianità da un paio di anni.  Mio papà non lo accettava. Lei stessa non lo ha accettato, finché ha capito. 

Sapevamo che l’Alzheimer diventa ingestibile, pericoloso. Che ha una parabola precisa, a cui non ci si può opporre.

Le foto degli anziani. Gli anziani che scappano dall’Ucraina, dalla terra in cui hanno vissuto con fierezza e pensavano di morire. Quella donna sola, che scende le scale della stazione col foulard legato in testa, alla contadina. Il nonno che tiene in braccio i due nipotini, in mezzo a una bufera, al confine fluviale con la Romania. La signora sulla sedie a rotelle, sotto un plaid ricoperto di neve e lo sguardo di chi smarrisce il passato.

Pensavo ai ritratti di guerra, quelli che ci restituiscono le immagini degli anziani, le vittime più spacciate di questo conflitto. Le persone che ancora una volta sono i pazienti fragili, destinate a soccombere di fronte a un nuovo nemico invisibile che piomba giù dal tetto, che rimbomba dalle finestre, che se ti costringe ad abbandonare casa forse la casa non la rivedrai più.

Come chi, troppo anziano, va in ospedale col Covid. Come chi, troppo anziano, lascia l’Ucraina. Viaggi dai ritorni improbabili, carichi di paura e malinconia.

Pensavo a questo nei giorni della guerra mentre, in una dimensione più gentile, senza le bombe e il nemico che ti spara contro, si consumava un evento doloroso nella mia famiglia.

UN PARADISO A CARBONE

Mia madre e mio padre, 78 e 87 anni, sono stati costretti a lasciare il luogo dei loro 56 anni di matrimonio, Civitavecchia.

La città della centrale a carbone di cui si discute da decenni e di cui si discute oggi più che mai, perché è forse destinata a lavorare a pieno regime per rimediare alla carenza di gas russo. Sono cresciuta all’ombra di quelle torri, con mio padre che ogni mattina controllava dove tirasse il vento per sapere se il fumo sarebbe arrivato dai noi e con mia mamma che ci mostrava la polvere nera sui panni bianchi.

Quella centrale, strano a dirsi, è stata una presenza inquietante e pure un pezzo di gioventù dei miei genitori, che per protestare contro il carbone scendevano in piazza, litigavano con i politici, confabulavano con cittadini indignati.

Forse, e non lo sapremo mai, per per quella centrale i miei genitori si sono anche ammalati come tanti concittadini cresciuti sotto il fumo della Torrevaldaliga, eppure, sotto quel fumo sono stati anche giovani, combattenti, vivi.

Noi tre figli, lontani centinaia di chilometri, non siamo mai riusciti a spostarli da lì. In vecchiaia hanno persino dimenticato la polvere nera che li angosciava, il fantasma della centrale nucleare di Montalto di Castro pochi chilometri a nord.

Per mio padre, oggi, nella rivisitazione benevola tipica della vecchiaia, quello «è il paradiso». Un paradiso perduto, perché i miei genitori, adesso che la malattia s’è fatta crudele per entrambi, hanno dovuto lasciare tutto e trasferirsi al nord, accanto a due figli amati, sì, ma che come per tanti anziani sono rami, non radici.

I miei genitori sono stati sradicati come ulivi stanchi, e so per certo che se uno dei due - mia mamma - non fosse stata rosicchiata fino all’osso dall’Alzheimer, se mio padre non avesse esaurito ogni possibilità di prendersene cura, sarebbero rimasti lì, nel paradiso storto della loro giovinezza

. E mio padre ci ha provato a resistere, a negare l’evidenza, a lottare con imprudente ostinazione perché nulla cambiasse, mentre già era tutto cambiato.

SCAPPARE E LASCIAR ANDARE

Non sono scappati dalla guerra i miei genitori. Mio padre la guerra l’ha vista, ricorda le bombe, le notti a dormire nei fienili, gli aerei sulla testa. Conosce la differenza tra scappare e lasciare andare, tra l’orrore della guerra e l’accettazione della vecchiaia. E però sa anche che a quell’età ci sono strade che non si percorrono all’indietro.

Ha venduto la sua casa, ha preso pochi oggetti (i vestiti, qualche ricordo, perché dove le metti a 87 anni le cose di una vita?) ed è venuto stare a Milano, una città estranea, in un presente opaco e il passato raso al suolo.

Ho pensato agli anziani, a tutti gli anziani che lasciano per sempre il terreno gentile dei ricordi e al senso dell’addio nei loro sguardi. Noi figli ci proviamo ad alleviare la pena, a parlare di domani, ad accarezzare il presente, ma le radici erano troppo lunghe, sradicare vuol dire spezzare, la pianta soffre di una malattia incurabile: l’assenza di futuro.

Ed è in questo contesto di dolore, dopo due anni in cui tanto mi sono occupata di rsa da cronista per via del Covid, che la parola rsa ha preso la forma umana e penosa dell’addio a un genitore per come lo hai sempre pensato, dove lo hai sempre pensato.

Mia mamma, per esempio, la penso lì, nel giardino disseminato di sassi raccolti al mare, tra i ritagli di giornale e i profumi delle torte verdi, quando dimentico chi è oggi.

Nessuno sa cosa significhi decidere che è arrivato il momento di portare un genitore in un istituto. C’è la fatica- ammirevole- di chi spende la sua vita ad accudire e c’è lo strazio pudico, ammantato di sensi di colpa, di chi non può accudire. Mia mamma aveva esaurito il suo tempo felice e consapevole negli spazi della quotidianità da un paio di anni. Mio papà non lo accettava. Lei stessa non lo ha accettato, finché ha capito.

Sapevamo che l’Alzheimer diventa ingestibile, pericoloso. Che ha una parabola precisa, a cui non ci si può opporre. Eppure mio padre s’è opposto a lungo, fingendo che potesse pensarci lui, che avesse la forza per sollevarla, di cambiarla, fingendo di chiacchierare con una moglie che non gli rispondeva più da tempo, fingendo che il tempo di consegnarla nella mani di chi se ne sarebbe preso cura non sarebbe arrivato mai.

E invece è arrivato il giorno in cui si sono fatte le cose che vanno fatte quando una persona deve entrare in questa specie di città stato, di luogo in cui le persone sono lontane pochi passi da te e distanti anni luce da sé, da quello che è stata la loro vita fin lì.

E allora si preparano i vestiti, i pigiami, le calze da mettere in una borsa che tornerà indietro senza il viaggiatore.

Gli incontri saranno visite, prenderò appuntamento per strappare forse un sorriso a un volto smarrito, che non è più quello di mia madre eppure è ancora quello di mia madre quando ascolta De Gregori e le scappa qualche parola da cantare o quando ancora ride di mio padre che è sordo come una campana.

DECISIONE SENZA SCELTA

C’è un dolore poco raccontato in questa scelta che poi scelta non è, perché sebbene si sia consapevoli dell’impossibilità di rinunciare a lavoro e famiglia per prendersi cura di un anziano, il pensiero non detto che sì, per un genitore dovresti farlo, è sempre lì. Respinto, ingiusto e detestabile, ma c’è. E così, mentre penso a tutto questo, guardo il modulo per la Rsa.

Finite le pagine della burocrazia, c’è un ultimo foglio da compilare per il suo ingresso: «Cose che la possono spaventare o far arrabbiare», «Cose che la fanno sentire meglio quando è ansiosa/arrabbiata», «Aneddoto positivo sulla propria storia di vita che ama raccontare», «Portare un paio di oggetti significativi per la persona come libri o fotografie». Sembrano le domande delle maestre quando si porta il bambino alla scuola materna.

Mi assale una tristezza penosa, irrecuperabile. Mia mamma è una bambina con cui degli estranei volenterosi dovranno imparare a comunicare. Il suo passato non è più un bagaglio, è un appiglio. Non è ciò che resta, è ciò da cui si attinge per darle conforto.

La affidiamo a mani sicure, perché possa vivere quel che le resta da vivere nel modo più dignitoso che esista, che è lontano da noi.

Penso all’aneddoto che la faceva sorridere. Forse quando sua madre le tagliò i capelli mettendole una padella in testa e seguendo il bordo con le forbici. No, forse quello la faceva arrabbiare. Ma i racconti preferiti di mia madre erano quelli che la facevano arrabbiare, come lo spiego a degli estranei che mia madre era divertente ma sempre arrabbiata? La foto del matrimonio andrà bene o potrebbe immalinconirla? E cosa la spaventava? Non mi ricordo una sola paura di mia madre, a parte quella generica di vivere.

Ah sì, mia madre aveva paura della guerra. E allora ripenso agli anziani, a quelle foto spaventose, alle fughe, agli occhi di chi sa che da certi viaggi non si torna.

Penso che mia mamma, del suo viaggio, almeno, non è consapevole. Penso che adesso bisogna pensare a mio padre.

Non ci sono bombe, ma ha 87 anni e non ha più radici. Non è la guerra, ma è l’addio dei vecchi, un addio che è uguale per tutti i vecchi, quando non hanno più il profumo delle loro cose a farli sentire al sicuro. 

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Dagotraduzione da Study Finds il 10 marzo 2022.

Secondo un nuovo studio, guardare il lato positivo della vita può effettivamente aiutare a invecchiare meglio. I ricercatori della Boston University School of Medicine hanno esaminato l'impatto dell'ottimismo sulla salute di una persona e hanno scoperto che rimanere positivi aiuta le persone a interpretare le situazioni stressanti in modo diverso. 

In uno studio su uomini più anziani, il team rivela che essere più o meno ottimisti non ha fatto differenza nel modo in cui i partecipanti hanno reagito ai fattori di stress, ma avere più ottimismo ha portato a un maggiore benessere emotivo. Gli uomini più ottimisti hanno anche sperimentato meno situazioni stressanti e hanno interpretato meno eventi come stressanti per loro personalmente.

«Questo studio verifica una possibile spiegazione, valutando se le persone più ottimiste gestiscono lo stress quotidiano in modo più costruttivo e quindi godono di un migliore benessere emotivo», afferma l'autrice Lewina Lee, PhD, psicologa clinica presso il National Center for Posttraumatic Stress Disorder presso il VA Boston Healthcare System.

Non preoccuparti, sii felice

Il team ha esaminato 233 uomini anziani nel corso di 14 anni. I partecipanti hanno completato un questionario sull'ottimismo prima di raccontare i loro fattori di stress quotidiani nel corso degli anni. Gli uomini hanno anche tenuto traccia dei loro stati d'animo positivi e negativi per otto notti consecutive in tre diverse occasioni in otto anni durante lo studio. I risultati mostrano che gli uomini più ottimisti hanno riportato meno casi di cattivo umore e hanno avuto meno fattori di stress durante l'esperimento.

Ricerche precedenti mostrano che lo stress può avere un grave impatto sulla salute di una persona. Gli studi collegano lo stress a livelli più elevati di infiammazione, che a loro volta possono contribuire a un invecchiamento più rapido e persino all'insorgenza di malattie come la demenza. 

Gli autori dello studio affermano che ci sono prove che l'ottimismo può aiutare a promuovere una buona salute e una durata della vita più lunga. Tuttavia, pochi studi hanno effettivamente esaminato come mantenere una mentalità positiva raggiunga questo obiettivo. 

«Lo stress, d'altra parte, è noto per avere un impatto negativo sulla nostra salute. I nostri risultati si aggiungono alla conoscenza di come l'ottimismo possa promuovere una buona salute quando le persone invecchiano», afferma Lee.

I risultati sono stati pubblicati online nei Journals of Gerontology, Series B: Psychological Sciences and Social Sciences.

·        Depressione ed Esaurimento (Stress).

Danilo Di Diodoro per il "Corriere della Sera – Salute" il 24 novembre 2022. 

«Ho 54 anni, e da almeno un mese mi sento quasi sempre stanca e triste, in testa mi girano pensieri negativi, vedo un futuro nero per me e per la mia famiglia. Sono impiegata in una grande banca nazionale, ma sempre più spesso non riesco a concentrarmi, e ogni compito che dovrei svolgere mi sembra noioso e ripetitivo. 

Eppure prima il mio lavoro mi piaceva. Ma adesso il carico di impegni mi sembra costantemente superiore alle mie forze. Il fatto è che ci sono ogni giorno innovazioni e cambiamenti, che gli impiegati giovani affrontano senza battere ciglio, addirittura con molto entusiasmo. Invece io sento ogni volta montare l'ansia, sono inadeguata, non ho stima delle mie abilità lavorative».

«E per di più il mio mal di testa ultimamente è peggiorato. La sera vado a letto stanchissima, però ho molti risvegli notturni e la mattina alle cinque mi ritrovo con gli occhi sbarrati e non c'è modo di riaddormentarmi. È il momento peggiore, perché continuano a girarmi in testa quei pensieri, mi sento incapace di prendere iniziative, non so come affrontare la giornata, mi giro e rigiro nel letto e, quando mi alzo, andare al lavoro mi sembra un'impresa insormontabile. Sono molto attratta dai dolci, ma poi finisce che digerisco male, anche quando ho fatto una cena frugale.

E mi fa impressione pensare che mi trovo nella stessa situazione in cui si trovava mia madre, che io allora criticavo quando diceva di non avere la forza di scuotersi. Temo di stare scivolando nella depressione, dovrò decidermi a farmi aiutare, a parlarne almeno con il mio medico di famiglia».

 «Sono un medico ospedaliero, sempre stato orgoglioso del mio lavoro, che però da un po' di tempo non mi dà più soddisfazioni. Mi sembra invece di portare un inutile peso eccessivo sulle spalle. Sarà anche per tutta questa burocrazia che è andata a sommarsi al lavoro clinico.

Non sopporto l'affollarsi delle richieste dei pazienti, di persona e per email, le rivendicazioni, le notti di guardia, e tutti quei software che non funzionano mai come dovrebbero. So che non dovrebbe essere così, ma dopo quasi vent' anni di professione attenta ed empatica, mi ritrovo a provare un distacco quasi cinico nei confronti dei pazienti. Cerco di evitare che in reparto me ne siano affidati di nuovi, sono polemico con i colleghi, insofferente per le riunioni.

E purtroppo ho anche la convinzione di non essere più abbastanza aggiornato, visto che mi manca la voglia di studiare e stare al passo. 

«Forse mi sono veramente spremuto troppo negli ultimi tempi, mentre sentivo le mie risorse fisiche e mentali che si esaurivano. E non riesco a dormire, sono esausto, ma la sera il sonno arriva tardissimo, molto dopo la mezzanotte, e spesso solo dopo aver preso un ipnotico. 

La mattina, quando suona la sveglia, non ho recuperato neanche la metà delle forze e delle risorse mentali che mi servirebbero per una giornata di lavoro. Così sempre più spesso chiamo l'ospedale per dire che non sto bene e prendo qualche giorno di malattia. Non l'avrei mai creduto, ma temo di dovermi considerare in burnout».

Un confine poco definito Due storie di vita che si muovono su quel confine poco definito che separa un disturbo depressivo da una condizione di burnout. Molti sono gli aspetti simili tra queste due condizioni, ma molte sono anche le differenze, a guardar bene. Innanzitutto va detto che un disturbo depressivo è un vero e proprio disturbo psichico, catalogato e descritto nel DSM-5 la quinta edizione del Manuale diagnostico statistico dei disturbi psichici redatto dall'American Psychiatric Association. 

Ne esistono diverse forme, e una prima distinzione da fare è tra depressione minore e depressione maggiore. La depressione minore, che comunque nonostante il termine non va sottovalutata, è caratterizzata da umore triste, senso di inadeguatezza e autosvalutazione, difficoltà a concentrarsi, sconforto, affaticabilità, insonnia o ipersonnia, perdita di appetito o fame costante.

La depressione maggiore ha gli stessi sintomi, ma molto più accentuati e inoltre chi ne soffre prova sensi di colpa, perde interesse e capacità di gioire, ha spesso anche sintomi fisici a carico di diversi apparati, può perdere peso o ingrassare sensibilmente, può provare uno stato di agitazione psicomotoria o al contrario di rallentamento, può avere pensieri di morte o suicidio. 

Invece il burnout non è un vero disturbo psichico, ed è definito come una condizione occupazionale. La World Health Organization lo descrive così nell'ICD-11, la versione attuale dell'International Classification of Diseases (ICD).

«Il burnout è una sindrome conseguente a uno stress cronico sul posto di lavoro che non è stato ben gestito. Ha tre dimensioni: la sensazione di perdita di energie ed esaurimento; un aumento della distanza dal proprio lavoro e sensazioni di negativismo o cinismo verso di esso; un senso di incapacità e di mancanza di realizzazione. Il burnout si riferisce specificamente a fenomeni che avvengono nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altre aree della vita».

Il vero burnout è il risultato di uno stress che è conseguenza di particolari e prolungate condizioni di lavoro tali da non poter essere facilmente modificate. In altre parole è la conseguenza di uno squilibrio prolungato tra la domanda di impegno ed energie e risorse che un lavoratore sente di poter mettere in campo. In questo senso si differenzia anche da condizioni di stress acuto da lavoro che è una forma di stress legata a condizioni occasionali e transitorie di particolare richiesta di impegno.

Quindi depressione e burnout sono condizioni diverse, pur con alcune aree di sovrapposizione. Secondo Gordon Parker e Gabriela Tavella della School of Psychiatry dell'University of New South Wales di Sydney in Australia, autori di un articolo in merito pubblicato sul Journal of Affective Disorders, il burnout ha alcuni punti in comune con la depressione minore. Ad esempio il fatto che entrambe le condizioni possono essere in qualche modo collegabili causalmente a difficoltà in ambito lavorativo, possono manifestarsi con perdita di energia e fiducia in se stessi, possono causare insonnia. 

«Ma ci sono anche precisi punti di distinzione», dicono Parker e Tavella. «Il burnout è solitamente considerato "conseguenza precipitante" dovuto a un eccesso di carico lavorativo, mentre la depressione minore è associata a "stressor" interpersonali che compromettono l'autostima. Al contrario, l'autostima non sempre è compromessa nel burnout».

Compresenza di sintomi Può tuttavia accadere, a complicare le cose, che chi è depresso possa più facilmente di altri cadere preda del burnout, ed è vero anche il contrario, ossia chi è in burnout lavorativo si senta così sconfitto da sviluppare vere e proprie condizioni depressive. E infatti gli psichiatri sono sempre più spesso chiamati ad affrontare situazioni di cosiddetta «comorbidità», la compresenza in una stessa persona di sintomi appartenenti a condizioni diverse. «La comorbidità è comune in psichiatria» dicono Parker e Tavella. «Si tratta di situazioni che da un punto di vista terapeutico vengono affrontate in maniera sequenziale, ossia si tratta per prima la condizione che si è presentata per prima; oppure in maniera gerarchica, quando si tratta per prima la condizione che si presenta con maggior gravità».

·        La Sordità.

Abbassamento dell'udito: cause e rimedi. La presbiacusia (abbassamento dell'udito) è un disturbo che insorge dopo i 70 anni. Si manifesta con la difficoltà a sentire o distingue in modo corretto i suoni. Ecco quali sono le cause e i rimedi. Rosa Scognamiglio il 12 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cos’è l’abbassamento dell’udito

 Campanelli d’allarme e cause

 Rimedi e prevenzione

La presbiacusia, altrimenti nota come abbassamento dell’udito, è un fenomeno che si verifica durante l’età senile. Non si tratta di una patologia ma di un disturbo progressivo e lento che può diventare invalidante per chi ne è affetto. Le cause possono essere varie: da fisiologiche a secondarie, cioè, derivanti da una malattia pregressa o trascurata (ad esempio un otite). Quanto alla terapia, non esiste una vera e propria cura ma si può intervenire in modo da evitare o prevenire un eventuale aggravamento.

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Cos’è l’abbassamento dell’udito

Quando si parla di abbassamento dell’udito, ci si riferisce a una condizione che riguarda soprattutto gli anziani: in Italia il fenomeno interessa circa il 40% della popolazione ultrasettantenne, sia maschile che femminile.

Dal punto di vista clinico, la definizione corretta è presbiacusia ed indica un decadimento della funzione uditiva. Si tratta di un processo fisiologico dovuto, ad eccezione di casi specifici, al deterioramento delle cellule neurosensoriali dell’orecchio che diminuiscono con l’incedere dell’età.

Le cellule uditive neurosensoriali sono recettori in grado di trasformare l’impulso esterno in corrente elettrica che, poi, il nervo acustico trasporta alle aree cerebrali deputate alla decodificazione in suono. Quando le cellule percettive si riducono insorge il deficit uditivo, più o meno evidente, dipende dai casi.

Primo orecchio 3D con cellule umane

Campanelli d’allarme e cause

Una soglia uditiva è considerata normale quando è in grado di percepire suoni compresi tra zero e 20 Decibel (Db). Pertanto, al superamento del valore massimo, parliamo di sordità. Può essere di tre tipi:

lieve (capacità di percepire i suoni compresi tra 20 e 40 Db);

media (tra 40 e 60 Db);

grave (oltre i 60 Db).

All’inizio, l’abbassamento dell’udito si manifesta con la difficoltà da parte della persona a captare suoni acuti (quelli che rientrano in uno spettro ad alte frequenze). Quindi, per fare un esempio pratico, se la persona non sente più lo squillo del telefono o ascolta la tv a volume altissimo, probabilmente la sua capacità uditiva è calata. Poi, via via, la situazione può degenerare. Al punto da non comprendere la conversazione in un contesto con rumori competitivi di sottofondo.

Circa le cause della presbiacusia, ad esclusione dei casi di familiarità genetica, possono essere varie. In primis fisiologiche, dovute cioè al decadimento delle cellule neurosensoriali, poi vi sono quelle trasmissive e infine, miste.

La forma trasmissiva fa capo a un problema interno all’orecchio che impedisce la corretta percezione del suono. Nei casi più lievi può trattarsi di un semplice tappo di cerume, oppure, una infiammazione. Altrimenti, in quelli più severi, di un danneggiamento della membrana timpanica (timpano ndr).

Circa, invece, la forma mista di presbiacusia include sia il primo che il secondo caso. Non è raro, infatti, che una malattia pregressa (mal curata) comporti, con l’avanzare dell’età, un abbassamento dell’udito.

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Rimedi e prevenzione

Dal momento che la presbiacusia è un disturbo percettivo, non può essere trattata con un’apposita terapia farmacologica. Esistono, però, degli esercizi in grado di limitare o prevenire una eventuale aggravamento. Ecco quali sono:

fare cruciverba e giochi di parole;

praticare quotidianamente esercizio fisico:

ricorrere a tecniche di rilassamento, meditazione o yoga;

allenare l’orecchio ad isolare singoli suoni.

È stato dimostrato, infatti, che esiste una strettissima correlazione tra salute mentale e decadimento uditivo. Talvolta, gli anziani con deficit percettivi sono affetti anche da disturbi d’ansia e depressione in quanto costretti a una condizione di isolamento forzato per la difficoltà a comprendere i propri interlocutori. In ragione di ciò, gli esperti suggeriscono di "allenare il cervello" con attività di stimolazione cognitiva.

Anche l’alimentazione può fare la differenza: limitare i cibi grassi aiuta a proteggere (anche) il microcircolo interno dell’orecchio. Nei casi più gravi, previo riscontro medico e test dell’udito, può essere utile il ricorso ad un apparecchio acustico che agisce da amplificatore dei suoni.

Sibilla di Palma per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 23 maggio 2022.

Parlare al telefono, conversare con gli amici, ascoltare la propria canzone preferita o le parole d'affetto dei propri cari. Fra tutti e cinque i sensi l'udito è fondamentale per il benessere psicofisico ed è quello che maggiormente ci permette di comunicare con gli altri. Anche se sempre più persone sperimentano nel mondo problemi di ipoacusia, ovvero la difficoltà a sentire i suoni da una o entrambe le orecchie. 

A dare un quadro del fenomeno è il "World report on hearing" realizzato dall'Organizzazione mondiale della sanità secondo cui sono oltre 1,5 miliardi le persone che a livello globale convivono con una perdita uditiva (che varia da moderata a grave per 400 milioni di loro) e le stime per il futuro non sono rassicuranti. Entro il 2050 questo numero dovrebbe crescere fino a 2,5 miliardi (una persona su quattro).

A rischio anche i giovani ma il problema coinvolge soprattutto i senior: l'incidenza dell'ipoacusia di grado moderato o grave è infatti del 12,7% per chi ha 60 anni, mentre sale al 58% a 90 anni. 

Come va in Italia? Secondo i dati del ministero della Salute, sono sette milioni le persone che hanno difficoltà di udito (il 12,1% della popolazione) e di queste una su tre over 65.

Il problema, se non affrontato, può causare conseguenze di vasta portata e andare a colpire la qualità di vita e il benessere psicosociale.

Si passa da problemi prettamente fisici, come stanchezza, dolori alla testa, vertigini, ipertensione, disturbi del sonno, compromissione del senso dell'equilibrio, agli effetti negativi dal punto di vista sociale, con difficoltà di comunicazione e perdita della fiducia in se stessi. Trattare l'ipoacusia permette dunque di continuare a vivere una vita stimolante e piena e in questo l'utilizzo degli apparecchi acustici può essere un aiuto non da poco. 

A questo proposito anche tra le fasce della popolazione più avanti negli anni è cresciuta l'attenzione per il proprio benessere e dunque anche per tutte le soluzioni legate al mondo della salute che aiutano a vivere una quotidianità autonoma e soddisfacente, complice anche il progressivo aumento dell'aspettativa di vita (attualmente si attesta a 80,1 anni per gli uomini e a 84,7 anni per le donne secondo dati Istat). Negli ultimi anni è andata infatti facendosi strada una nuova visione della terza età. 

L'idea di una fase passiva dell'esistenza, segnata da bisogni di assistenza e marginalità sociale, in molti casi ha lasciato il posto a uno stile di vita attivo. E sono sempre più numerosi gli over 65 che continuano a lavorare, a svolgere attività di volontariato, a prendersi cura dei nipoti, così come a coltivare le relazioni sociali. O che, ancora, corrono al parco e guardano film in streaming. 

In prospettiva, evidenzia l'Oms, i problemi di udito potrebbero arrivare a coinvolgere anche 1,1 miliardi di giovani che oggi rappresentano una fascia a rischio, soprattutto a causa di abitudini sbagliate. Come l'ascolto di musica a elevato volume per lunghi periodi di tempo o la frequentazione di luoghi, dalle discoteche ai cocktail bar, ad alto inquinamento acustico. Gli ultimi decenni hanno comunque visto forti progressi nel campo delle tecnologie per la cura dell'udito e sul fronte della diagnostica che permette di individuare eventuali problematiche a qualsiasi età.

Tra le varie soluzioni a disposizione, oltre all'intervento chirurgico per i casi più gravi, ci sono gli impianti cocleari (dispositivi medici elettronici sviluppati per persone con perdita dell'udito da grave a profonda), le terapie riabilitative e le protesi acustiche. Proprio gli operatori attivi nel campo dell'assistenza audiologica hanno scelto di investire con forza nell'innovazione per rendere più performanti i prodotti offerti. 

Le protesi acustiche, in particolare, sono notevolmente cambiate nel corso degli anni. Gli ultimi modelli offrono connessioni wireless, sono ricaricabili e sono talmente piccoli da risultare invisibili una volta indossati. Tra gli altri progressi, grazie alla tecnologia digitale, gli apparecchi acustici riescono poi ad amplificare i suoni più importanti (come ad esempio la voce), riducendo il rumore di sottofondo.

Sempre più di frequente, inoltre, a questi dispositivi vengono associate delle app che permettono di gestirli digitalmente. L'obiettivo è anche di promuovere una migliore customer experience attraverso diverse leve. Dall'uso delle nuove tecnologie, come i big data e l'intelligenza artificiale, per individuare soluzioni audiologiche personalizzate all'adozione di un approccio omnichannel basato sull'integrazione dei canali fisici e digitali. Infine, a favorire l'innovazione del settore sono anche gli stessi utenti.

A cominciare dagli over 60 che si mostrano sempre più propensi a sperimentare. La pandemia ha infatti spinto anche questa fascia di popolazione, tradizionalmente più restia ad aprirsi alle novità, a scoprire i vantaggi e le opportunità del mondo digitale. Non a caso smartphone e tablet sono sempre più diffusi anche tra i non più giovani, dando così l'opportunità agli operatori del settore di offrire servizi sempre più personalizzati e a valore aggiunto tramite, ad esempio, l'uso delle app. Una strada necessaria, quest' ultima, se si considera che con il progressivo invecchiamento della popolazione occorrerà far leva sempre di più sulla tecnologia per agevolare e semplificare la routine della vita quotidiana.

·        L’Acufene.

L’acufene colpisce 740 milioni di persone nel mondo. Gli scienziati: «Problema ampio come il mal di testa». Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022.

Una maxi revisione pubblicata sulla rivista Jama con dati raccolti dal 1972 rivela come i fastidiosi ronzii nelle orecchie siano più comuni di quanto si pensasse. L’appello dei ricercatori a investire nella ricerca di cure appropriate. Ecco i fattori di rischio e come affrontare il disturbo

Quanto è diffuso l’acufene

L’acufene, il fastidioso ronzio nell’orecchio, colpisce più di 740 milioni di adulti in tutto il mondo ed è percepito come un grave problema da oltre 120 milioni di persone. Sono le conclusioni di una maxi revisione pubblicata su Jama che ha preso in considerazione 767 studi sul tema pubblicati tra il 1972 e il 2021 (solo 113 sono stati dichiarati ammissibili). Si stima che l’incidenza annuale di acufene (nuovi casi osservati) sia di circa l’1%. Non ci sono differenze significative tra uomini e donne ma aumenta la prevalenza associata all’età : l’acufene è presente nel 10% dei giovani adulti, nel 14% delle persone di mezza età e nel 24% degli anziani. «Molte persone soffrono di acufene, che è un problema ampio simile all’emicrania e al dolore e la mancanza di effettive opzioni terapeutiche giustificano un importante investimento nella ricerca di cure appropriate». In Italia si stima che ne soffrano 2,5 milioni di italiani

Che cosa è

L’acufene, o tinnito, è un disturbo caratterizzato dalla percezione di suoni, come ronzii, fischi, sibili o fruscii, non legati a stimoli esterni che è comune dopo l’esposizione a un rumore molto forte, come un concerto a tutto volume (recentemente il cantante Caparezza ha confessato di soffrire di acufene) o il passaggio di un aereo nelle immediate vicinanze: per un po’ nelle orecchie sentiamo un sibilo, un fischio, a volte un brusio o perfino uno stridore. Viene definito una «percezione fantasma», perché il suono è inesistente: l’eccesso di rumore modifica l’attività dei neuroni uditivi, che poi si «accendono» a prescindere dall’effettiva presenza di uno stimolo sonoro.

Le cause

Questo «rumore nella testa» non è una malattia, ma un sintomo. E in quanto tale è l’espressione di una disfunzione che va accertata. Il dilemma è che la lista delle possibili situazioni all’origine del disagio è lunga e sfaccettata, visto che il disturbo può derivare da tutti e tre i comparti dell’orecchio, esterno, medio e interno, nonché dalle componenti nervose centripete, ossia dirette al cervello. Ecco alcune delle cause degli acufeni:

- tappi di cerume;

- processi infiammatori acuti cronici a carico dell’orecchio medio;

- paralisi del nervo faciale;

- traumi e fratture della rocca petrosa (la porzione dell’osso temporale in rapporto con l’organo dell’udito);

- malattia di Ménière (dovuta a un’alterazione dei fini meccanismi che governano la produzione e il riassorbimento dell’endolinfa, il liquido contenuto all’interno del labirinto membranoso dell’orecchio interno);

- neurinoma del nervo acustico;

- accumulo di catarro nelle tube di Eustachio (quei piccoli condotti che collegano le orecchie alla zona alta della gola).

- bruxismo

Fattori di rischio

Di solito l’acufene è un fenomeno transitorio, ma in alcuni casi può diventare un sottofondo costante e quindi parecchio fastidioso. Ci sono una serie di fattori di rischio che possono facilitare l’insorgere dell’acufene: l’età avanzata, l’ipertensione, il diabete, le displipidemie (alterazioni di trigliceridi e colesterolo). Inoltre, come dimostrato in un ampio studio durato 20 anni, l’utilizzo frequente e regolare di farmaci antinfiammatori non steroidei da banco, in particolare l’acido acetilsalicilico, aumenta il rischio di andare incontro ai ronzii anche in giovane età: l’impiego frequente di paracetamolo o altri antinfiammatori non steroidei aumenta di circa il 20 per cento la probabilità di acufene. Dati che non sorprendono Roberto Albera, docente di Otorinolaringoiatria del Dipartimento di Scienze chirurgiche dell’Università di Torino, che osserva: «Da tempo si sa che soprattutto l’acido acetilsalicilico ad alto dosaggio può provocare acufene, ma si tratta di un effetto temporaneo: basta sospendere il farmaco e il disturbo passa». Infine sono elemento di rischio soffrire di patologie all’orecchio medio come otiti frequenti oppure le malattie dell’orecchio interno come l’ipoacusia.

I sintomi

L’orecchio (o entrambe le orecchie) percepisce una varietà di suoni: ronzio, tintinnio, stridore, fischi, fruscio, soffi, sibili e talvolta suoni pulsanti (acufene pulsante). La percezione può essere costante o intermittente, debole o molto forte. Il fastidio causato dall’acufene può a sua volta provocare altri sintomi come mal di testa, ansia, disturbi del sonno e della concentrazione.

La prevenzione

Prevenire l’acufene è difficile: l’unica precauzione possibile è non esporsi a rumori molto forti se ci si rende conto di essere suscettibili agli effetti dannosi, per esempio se si è avuta esperienza di acufene prolungato o molto fastidioso dopo concerti e simili. Se l’acufene non se ne va nel giro di 24 ore è opportuno sottoporsi a una visita specialistica con l’otoscopia (l’esame dell’orecchio per valutare timpano e canale uditivo, ndr) e test audiometrico: nella maggioranza dei casi di acufene persistente, infatti, c’è una perdita dell’udito e solo il 20-25 per cento dei pazienti non ha difetti uditivi

Le cure

Non esiste una cura unica efficace per tutti i tipi di acufene. Nei casi in cui si riesce a risalire a una possibile causa, occorre intervenire su quella. Per esempio, se l’acufene è legato a deficit uditivi si ricorre a protesi acustiche o all’impianto cocleare; se è associato a sindrome di Menière, a emicrania oppure a problemi cervicali o dell’articolazione temporo- mandibolare si interviene con terapie mirate.

Può invece essere molto difficoltoso curare i cosiddetti acufeni idiopatici, dei quali non si conosce la causa. In questi casi, le principali armi a disposizione sono:

- Counseling psicologico per spezzare il circolo vizioso tra ansia, stress, depressione e percezione dell’acufene.

- Rassicurazione del paziente sul fatto che l’acufene non è legato a malattie gravi.

- Terapia del suono, trattamento di desensibilizzazione basato sull’allenamento di apparato uditivo e cervello, per «abituarli» a sentire i rumori prodotti dalla patologia in modo tale che, con il passare del tempo, gli acufeni non vengano più percepiti o lo vengano in modo molto attenuato.

·        La Prosopagnosia.

Prosopagnosia, così l’Università di Bari studia chi non riconosce più le facce. In Italia è l’unico gruppo di ricerca in prosopagnosia: Brad Pitt è affetto dal deficit. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Dicembre 2022.

Incontrare il proprio vicino di casa e ignorare chi sia. Oppure, nelle forme più gravi, guardarsi allo specchio e non riconoscersi. Ha un nome e un cognome ben preciso questo deficit cognitivo-percettivo (prosopagnosia) portato alla ribalta dalle cronache solo qualche mese fa quando Brad Pitt, uno dei più celebri e amati divi di Hollywood, ha ammesso di esserne affetto.

La prosopagnosia, per effetto della quale il soggetto interessato è incapace di riconoscere i tratti del volto delle persone conosciute e, talvolta, perfino della propria faccia, è in realtà un disturbo diffuso ma poco conosciuto perché la comunità medico-scientifica l'ha scoperto pochi decenni fa. Non tutti però sanno che in Puglia, presso il Policlinico di Bari, esiste forse l’unico gruppo di ricerca nazionale specializzato in prosopagnosia. A coordinarlo è Davide Rivolta, brillante professore associato di Psicobiologia e Psicologia fisiologica presso l’Università degli studi «Aldo Moro» di Bari. Il prof. Rivolta, originario di Pavia, dopo aver avviato le sue ricerche a Sidney e dopo essersi trasferito in Germania e a Londra, da qualche anno risiede nel capoluogo pugliese con l’intento di creare in Puglia il primo centro di riferimento nazionale per quanto riguarda la prosopagnosia congenita, un deficit che, si stima, può interessare circa il 2–2.9% della popolazione mondiale. In Italia, quindi, più di un milione e mezzo di persone stimate potrebbero essere affette da questa patologia.

«Qualcuno definisce la prosopagnosia come “cecità delle facce” - spiega il prof. Davide Rivolta - in realtà è una definizione un po’ fuorviante perché fa pensare ad una cecità che in realtà non c’è. I soggetti vedono benissimo. È solo una difficoltà specifica di riconoscere le persone dalla faccia: un grosso problema nella vita di tutti i giorni quando, per esempio, qualcuno ti saluta e tu non sa chi sia quella persona». Il prof. Davide Rivolta è anche autore di articoli scientifici conosciuti in tutto il mondo e di un libro («Prosopagnosia - Un mondo di facce uguali») dove racconta le basi cognitive e neurali del processamento dei volti.

«Il problema è che pochi la conoscono questa patologia - aggiunge l’esperto che coordina il gruppo barese di ricerca -: le persone nascono con prosopagnosia e imparano a vivere con questo problema utilizzando, in qualche modo, alcune strategie (riconoscere le persone dal taglio di capelli, dai vestiti, dalla voce, dal modo di camminare) e non si rendono conto di avere questo problema».

Un individuo dovrebbe rivolgersi al proprio medico, per un consulto, nel momento in cui appura di avere difficoltà continue nel riconoscere i volti delle persone note.

«In Italia lo studio della prosopagnosia congenita è scarso. C’è soltanto un gruppo di ricerca a Milano. Noi, all’Università di Bari - aggiunge il professore associato di Psicobiologia e Psicologia fisiologica - siamo i primi e gli unici ad affrontare questa patologia dal punto di vista diagnostico e di riabilitazione. Stiamo mettendo in atto, infatti, mirati programmi di riabilitazione. In questo momento vogliamo innanzitutto informare sia il pubblico che gli esperti dell’esistenza di questa patologia. Poi, siamo pronti a fare diagnosi a soggetti interessati per capire quali sono le aree di forza e debolezza nel riconoscimento visivo. Infine, per chi fosse interessato, possiamo fare dei programmi di riabilitazione cognitiva e anche neurofisiologica».

La prosopagnosia non è legata a problemi di memoria, perdita o problemi di vista e difficoltà di apprendimento. «La prosopagnosia - spiega Rivolta - è la dislessia per le facce ed è ugualmente frequente ma finché nessuno ne parla, difficilmente potranno essere accertati più casi. In Australia, grazie ad alcune campagne mirate di informazione, siamo stati contattati da un’infinità di persone che sono state poi sottoposte a valutazioni e in molti casi abbiamo riscontrato la patologia. Non solo. Su quelle persone abbiamo effettuato numerosi studi per capire quali sono gli aspetti psicologici, cognitivi e neuronali di questa condizione».

E nella nostra regione?

«In Puglia - risponde il prof - abbiamo fatto uno screening nella nostra Università con gli studenti. Abbiamo selezionato un pool di 529 soggetti universitari che saranno sottoposti ad alcuni test oggettivi di laboratorio. Sicuramente ci sono persone affette da prosopagnosia ma, al momento, stiamo ricercando chi ha la diagnosi».

L’ateneo barese e il centro di ricerca coordinato dal prof. Rivolta (www.linkedin.com/in/rivolta-davide) sono a disposizione di quanti vogliono approfondire questo deficit selettivo nel riconoscimento dei volti che può avere un effetto devastante per la vita sociale di una persona.

«Il nostro gruppo di ricerca, oltre che sottoporre a mirati test di laboratorio chi ce lo richiese - conclude il giovane professore dell’Università di Bari- sta studiando anche i cosiddetti “super riconoscitori”, persone che sono perfette nel riconoscere le facce anche a distanza di anni: sono pochi in realtà. Le nostre ricerche mirano a spiegare perché esistono queste differenze individuali sia livello cognitivo sia a livello neuronale. Con il collega di Biologia, inoltre, stiamo mettendo in atto uno studio che guarda coinvolgerà anche la genetica e che richiederà qualche anno».

Cos’è la prosopagnosia, il disturbo di Enrica Bonaccorti e Brad Pitt. Danilo di Diodoro su Il Corriere della Sera l'11 maggio 2022.

Ne ha parlato Enrica Bonaccorti, che dice di condividere questo problema con Brad Pitt: alcune persone non sanno riconoscere i visi (a volte neppure il proprio). È un problema più diffuso di quanto si pensi, che coinvolge un milione e mezzo di persone solo in Italia. 

Ogni essere umano riconosce al volo centinaia di volti. Un’abilità straordinaria che nessuno ha bisogno di imparare, perché innata. Ed è da sempre fondamentale per la sopravvivenza: consente di distinguere senza esitazioni parenti, amici, nemici. Eppure, in una certa percentuale di individui affetti da prosopagnosia, tale capacità è compromessa fin dalla nascita. 

Ne ha parlato al Corriere Enrica Bonaccorti, che ha detto di condividere questo problema con l’attore Brad Pitt. È un disturbo di cui soffriva anche Luciano De Crescenzo che raccontava di come a prima vista avesse difficoltà a riconoscere anche cari amici come Marisa Laurito.

Come riconoscere da altri particolari

Chi si trova in questa condizione, soffre di prosopagnosia congenita, un disturbo che colpisce circa il 2-3 per cento della popolazione. Il termine deriva dal greco antico prosopon, che vuol dire, appunto, faccia. Per riuscire a orientarsi nella giungla quotidiana dei visi, chi è affetto da questo disturbo deve fare ricorso a veri e propri stratagemmi. È costretto a imparare come riconoscere le persone da altri segnali, come il taglio dei capelli, la modalità di camminare, la gestualità, perfino i vestiti indossati. A volte si affida invece a un particolare del viso stesso, come la forma della bocca o delle sopracciglia, dal momento che la prosopagnosia è principalmente caratterizzata dalla difficoltà a percepire la faccia nel suo insieme, mentre non è toccata l’abilità di individuare i suoi singoli particolari.

Quanti sono: i dati

Oltre alla forma congenita esiste anche una forma acquisita. In tal caso la persona nasce con la normale abilità a riconoscere i visi, ma poi la perde, solitamente in seguito a un evento traumatico, come un ictus o un trauma cranico encefalico. In ogni caso, si tratta di un disturbo che può avere molta influenza sulla vita sociale.

«Persone con prosopagnosia hanno significative difficoltà nella vita di tutti i giorni», dice il professor Davide Rivolta, associato presso la School of Psychology dell’University of East London, autore del libro “Prosopagnosia: Un mondo di facce uguali” (Ferrari Sinibaldi, Milano). «Per esempio non riconoscono i protagonisti dei film, ma neppure le persone famigliari, quali i vicini di casa, se le incontrano fuori dal contesto abituale. In casi gravi, i prosopagnosici non sono in grado di riconoscere addirittura la propria faccia. In Italia si stima che ci siano circa un milione e mezzo di persone con prosopagnosia congenita, anche se spesso sono poco conosciute e rilevate».

Difficoltà nella diagnosi

I motivi di tale disconoscimento possono essere diversi. Dato che si nasce senza questa abilità, si è portati a pensare che le difficoltà rappresentino la norma e che tutti facciano fatica a riconoscere i volti. Inoltre raramente si parla di questo disturbo e i bambini non vengono testati per le abilità di riconoscere i visi. A tutto ciò si aggiunge il fatto che psicologi, psichiatri e neurologi spesso non sono in grado di diagnosticare, se non sommariamente, la prosopagnosia. «Non esiste una diagnosi universale di prosopagnosia», spiega ancora Rivolta. «Tuttavia esistono oggi strumenti affidabili. Uno su tutti è un test di memoria, il Cambridge Face Memory Test, che richiede ai soggetti di imparare, e poi riconoscere, facce non famigliari in mezzo a molti distrattori. Un ulteriore test che abbiamo sviluppato consiste nel distinguere persone famose da persone non famose. Chi soffre di prosopagnosia, in genere, ha difficoltà nello svolgere correttamente questi test. Il neuropsicologo è la figura professionale di riferimento in grado di diagnosticare e intervenire sulla prosopagnosia».

Altri disturbi con gli oggetti o i corpi

Attualmente si sta anche cercando di identificare tecniche in grado di migliorare la percezione di volti in chi soffre di prosopagnosia. Il gruppo del professor Rivolta ha pubblicato sulla rivista Neuropsychologia uno studio in cui si dimostrano i possibili effetti benefici della stimolazione cerebrale tramite una lievissima corrente in aree deputate al riconoscimento di volti. Alla prosopagnosia acquisita possono associarsi disturbi in altre sfere cognitive, come il mancato riconoscimento di oggetti. Infatti, le aree cerebrali deputate al riconoscimento dei volti e degli oggetti sono vicine, quindi una lesione, anche se principalmente coinvolge l’area dei volti, può colpire in modo più o meno marcato anche l’area di riconoscimento oggetti. Inoltre alla prosopagnosia congenita può associarsi una difficoltà di orientamento spaziale o la difficoltà a riconoscere i corpi, sostenuta da alterazioni a livello del lobo temporale. «Abbiamo osservato questo fenomeno durante uno studio su un gruppo di undici persone affette da prosopagnosia, confrontato con un gruppo di controllo», dice ancora Rivolta. Lo studio, pubblicato su The Quarterly Journal of Experimental Psychology, indica che probabilmente queste difficoltà sono sostenute da un’alterazione dei processi neurobiologici condivisi.

Vedere mostri

Le alterazioni nella percezione dei visi possono anche generare mostri. In questi casi non si tratta più di prosopagnosia, ma di prosopometamorfosia, ossia di metamorfosi delle facce. È una rara sindrome, della quale è stato descritto un caso sulla rivista Lancet da un gruppo di neuroscienziati olandesi, ai quali la paziente era stata indirizzata dal famoso neurologo e scrittore Oliver Sacks. Si trattava di una donna di 52 anni che fin dall’adolescenza vedeva l’immagine di musi di drago comparire all’improvviso davanti ai suoi occhi, mentre anche le facce delle persone attorno a lei si trasformavano in musi di drago: improvvisamente a parenti e amici la pelle del viso diventava scura, le fattezze si allungavano, le orecchie crescevano, gli occhi si ingrandivano e assumevano un colore brillante, giallo, verde, blu o rosso.

·        L’Epilessia.

Epilessia, Simona e gli altri: il calvario dei 600mila di cui nessuno parla. Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022.

Stigma duro a morire: «Io, fuori dal concorso per la mia malattia». Seconda emergenza neurologica in Italia, ma pochi i centri di cura. Scuole impreparate, solo 4 Regioni attrezzate, legge ferma dal 2018 

Qualche mese fa Simona, 30 anni, piemontese ha scritto una lettera all’International Bureau Epilepsy (Ibe) per raccontare la sua storia: «Sono epilettica da quando avevo 12 anni, dal 2012 vengo curata, nel 2016 mi sono laureata. Lavoravo in un centro di soccorso notturno, poi ho deciso di partecipare a un concorso di selezione come capostazione. Sono stata dichiarata inadatta dalla commissione medica, successivamente un perito delle Ferrovie dello Stato ha invece messo nero su bianco che ero da ritenere idonea a svolgere quella funzione. Pochi giorni fa ho ricevuto la comunicazione dalle FS. Non assunta per inabilità a ricoprire il posto di capo stazione». Rende pubblica la sua denuncia Francesca Sofia, presidente di Ibe, prima donna e prima italiana a ricoprire questo incarico, relatore del convegno organizzato in Senato per sensibilizzare decisori e addetti ai lavori: «È un esempio di stigma istituzionale legittimato. In molti Paesi la condizione delle persone con epilessia è molto peggio».

Neuroni

Come ha testimoniato Simona (che farà ricorso) in Italia la situazione è irrisolta. Anche qui è una malattia negletta perché avvolta dalla mancanza di conoscenza. Torna a rivendicare il diritto alla visibilità la Lice, Lega italiana contro l’epilessia, non un’associazione ma l’unica società scientifica italiana, cui fanno riferimento 200 specialisti (non solo epilettologi, anche chirurghi, pediatri, neurologi, psichiatri) e almeno la metà dei pazienti avviati alle cure (in tutto sono 600mila). Oriano Mecarelli, past president di Lice, elenca gli errati pregiudizi, partendo dai non: «La malattia non è un disturbo mentale, non è una malattia strana, non si esprime sempre allo stesso modo, non sempre esordisce nell’infanzia, non sempre è incurabile». E allora chiariamo.

È una patologia cronica causata da una popolazione di neuroni che diventano ipereccitabili determinando le crisi. Esordisce in età pediatrica e a volte nella terza e quarta età. Esistono forme benigne che possono sparire e poi tornare, anche se curate bene, e forme gravi la cui presa in carico è più complessa. Non si può parlare di guarigione, al massimo di remissione perché, anche se regrediscono, non è certo che le crisi un giorno non possano ricomparire. Dove curarsi?

Quattro sole Regioni hanno percorsi dedicati, organizzate con centri multidisciplinari. Il risultato è che c’è una intensa migrazione da una parte all’altra della penisola per trovare assistenza e competenze. L’attuale presidente di Lice è Laura Tassi che mette a fuoco altre criticità: «La chirurgia è sottoutilizzata perché i pazienti hanno paura o arrivano tardi quando non si può più operare, oppure perché esistono pochi centri. La diagnosi è per la vita, l’epilessia è una malattia cronica anche quando viene curata bene. In vari casi si risolve lasciando libero il paziente per almeno 10 anni di cui 5 senza il supporto delle cure». A volte la risoluzione è spontanea, tra il 30 e 40 per cento delle persone con epilessia sono resistenti ai farmaci quindi continuano ad avere crisi, unica alternativa le cure palliative che non significano inefficacia ma che intervengono solo sui sintomi. Si tratta di dieta chetogena, stimolazione del nervo vago e altre. Laura Tassi chiede come Lice che queste alternative siano «messe a disposizione di coloro che non possono usufruire della chirurgia tradizionale».

Terapie? Ce ne sono decine, di prima, seconda, terza e quarta generazione, a volte ne vengono prescritte fino a 4-5 assieme. C’è ancora molta paura e impreparazione da parte di chi non conosce. Gli insegnanti dovrebbero essere formati a intercettare le crisi a scuola, agli alunni dovrebbe essere spiegato quello che succede al compagno di classe «strano». Una legge è in discussione in Parlamento dal 2018, ora è ferma al Senato e, col rinnovo del governo e della compagine parlamentare, ci si aspetta un nuovo, lungo silenzio. Tra l’altro viene sciolto il nodo del termine appropriato con cui indicare le forme benigne. Non si può parlare di guarigione, ma di remissione o risoluzione. Ci si sofferma sui dettagli, facendo attendere le famiglie in cerca di attenzione e comprensione.

A ogni età

L’epilessia è la seconda emergenza neurologica dopo l’ictus ischemico. Colpisce una persona su 100, nei Paesi a basso sviluppo i numeri sono più alti, nel mondo sono 50 milioni i pazienti. La patologia può insorgere a ogni età, con due picchi di incidenza. Nei primi anni di vita e in età avanzata, circostanza sempre più frequente. Da noi ogni anno sono 86 i nuovi casi nel primo anno di vita,20-30 in età giovanile/adulta e 180 dopo i 75 anni. Alla base dell’alta incidenza nell’infanzia persistono fattori genetici e patologie malformative o tumorali. Per gli over 75 la causa risiede nel concomitante aumento delle patologie potenzialmente epilettogene legate a questa fase della vita. Ictus cerebrale, malattie neurodegenerative, tumori e traumi cranici. Un terzo dei malati di epilessia non è sensibile ai farmaci e rappresenta la maggiore quota di spesa per il servizio sanitario nazionale e per i caregivers.

·        L’Autismo.

Autismo, deficit di attenzione e iperattività: quali sono i segni rivelatori e perché è fondamentale riconoscerli molto presto. Elena Meli su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

Se il bambino non ha le stesse abilità sociali dei coetanei è bene confrontarsi con il pediatra per individuare la natura delle difficoltà e inquadrarle correttamente. Molte le opzioni di intervento

Quanti tipi di autismo esistono?

C’è chi è «ad alto funzionamento» e non ha problemi nel leggere, scrivere o avere una propria autonomia, c’è chi ha capacità fuori dalla norma in specifici ambiti ma difficoltà relazionali consistenti, c’è chi ha la sindrome di Asperger: di autismo non ne esiste solo uno, si parla infatti di disturbi dello spettro autistico per indicare un’ampia gamma di problemi del neurosviluppo che portano a quadri molto diversi da un bimbo all’altro. I piccoli che ne soffrono non sono pochi, come dimostrano i dati pubblicati a luglio su JAMA Pediatrics secondo cui negli Stati Uniti l’autismo nelle sue varie forme interessa il 3,14 per cento dei bambini e adolescenti; nel nostro Paese si stima sia leggermente meno diffuso, con un caso ogni 77 bimbi fra i 7 e i 9 anni e una maggior probabilità fra i maschi, 4.4 volte più numerosi delle femmine.

Entro quanto tempo dovrebbe essere effettuata la diagnosi?

La sfida è riconoscerli presto e bene, per poter intervenire in modo che il disturbo comprometta il meno possibile la vita del bambino e dell’adulto che diventerà: un’indagine recente della Ben-Gurion University di Beer-Sheva, in Israele, ha dimostrato che quando la diagnosi arriva entro i due anni e mezzo di vita la possibilità di avere miglioramenti nei sintomi connessi alle abilità sociali triplica rispetto a quella dei piccoli in cui la malattia è riconosciuta più tardi. «Pensiamo dipenda dalla maggior plasticità del cervello e dalla più ampia flessibilità comportamentale tipiche della primissima infanzia», ha spiegato l’autore, Ilan Dinstein, sottolineando la necessità di riconoscere prima possibile i sintomi ed eventualmente pensare a screening mirati per arrivare a diagnosi precoci.

Quali sono i segnali da cogliere?

Occorre fare attenzione ad alcuni segnali, come specifica Antonella Costantino, direttore dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza del Policlinico di Milano: «La variabilità nell’acquisizione delle tappe fondamentali dello sviluppo, come la parola o il cammino, è ampia ma entro certi limiti: se il bimbo sembra far fatica a compiere gesti e azioni che per altri coetanei sono acquisiti o la sua curva di sviluppo, valutata alle visite di controllo pediatriche, si discosta molto dalla media, è opportuno porre particolare attenzione e per esempio tornare dal pediatra senza aspettare che siano trascorsi i 3 o 6 mesi previsti prima del successivo controllo.

Qualche esempio? È da seguire un bambino che fra i 9 e i 12 mesi non indichi col dito oggetti e persone oppure un piccolo che sembra non voglia interagire, non abbia voglia di farsi capire o di ascoltare: non conta il numero di parole pronunciate né come, ma la dimostrazione di voler comunicare con gli altri. I genitori, soprattutto se non si tratta del primo figlio, sono perfettamente in grado di capire se qualcosa davvero non va, anche perché in genere non c’è un solo sintomo ma più segni che lo sviluppo neuropsicologico non è come dovrebbe».

A chi bisogna rivolgersi?

Se c’è il sospetto occorre confrontarsi con il pediatra che saprà guidare nel percorso verso la diagnosi, fondamentale perché consente di trovare al più presto le strategie giuste per minimizzare le difficoltà e ottimizzare le risorse di ogni bimbo, tenendo conto che ciascuno è unico e va valutato come tale. L’intervento precoce, poi, riduce il rischio che si aggiungano problemi comportamentali che possono condizionare pesantemente la qualità di vita del bimbo e della sua famiglia, come osserva la neuropsichiatra: «Un bambino che ha difficoltà di comunicazione è come qualcuno a cui venga parlato in una lingua straniera poco conosciuta: oltre alla frustrazione dell’incomprensione non si riesce a rispondere “a tono” e nel modo giusto alle richieste, perché queste non vengono ben capite. Tutto ciò porta a disturbi del comportamento che possono complicare molto l’interazione con gli altri».

Entro quanto tempo è possibile capire il decorso del disturbo?

Oggi l’autismo si conosce meglio rispetto al passato, se ne parla di più e si è anche ridotto lo stigma sociale nei confronti dei piccoli pazienti; se diagnosi e interventi sono precoci e mirati, qual è la probabilità che il disturbo venga gestito senza interferire troppo con la qualità di vita del bimbo? «Non c’è una sola risposta, perché ogni paziente è un caso a sé: un autismo a cui si associa una disabilità intellettiva è ben diverso da un autismo ad alto funzionamento», risponde Costantino. «Le variabili in gioco sono tante tuttavia in genere nel giro di un anno dalla diagnosi e dall’inizio degli interventi è possibile avere un’idea abbastanza ragionevole del possibile decorso del disturbo e del futuro del bambino».

Quali sono le possibilità di intervento?

I bambini con un disturbo dello spettro autistico sembrano spesso chiusi in un mondo tutto loro. Come comunicare? «Gli interventi vanno personalizzati sulle caratteristiche di ciascuno. C’è un equivoco pericoloso, ovvero che con tante ore di intervento “da linee guida” qualsiasi autismo avrà un decorso migliore», premette la neuropsichiatra dell’Infanzia e dell’adolescenza Antonella Costantino. «Dipende anche dall’età della diagnosi, dalle caratteristiche di funzionamento, dalla presenza di altri disturbi; inoltre, piccoli con profili simili possono avere traiettorie differenti nel tempo». Le possibilità di intervento sono tante ma vanno calate nella realtà di ogni bambino: in passato si è spesso puntato su interventi cognitivo-comportamentali molto strutturati in “stanze della terapia”, oggi è chiaro che devono essere svolti nel contesto dove il piccolo vive perché «altrimenti il rischio è che nei contesti consueti non riconosca gli elementi che lo aiutano ad attuare le strategie che rinforzano le sue risorse e depotenziano le difficoltà», specifica Costantino.

«Ci sono prove di efficacia per gli interventi cognitivo-comportamentali e la comunicazione aumentativa (oltre al linguaggio usa strumenti che espandono le possibilità di comunicazione, come sistemi di simboli, ausili tecnologici, ndr), ma serve un approccio mirato a capire come funziona il singolo bimbo e il suo quotidiano, per dare a ciascuno gli strumenti più giusti. Ed è bene diffidare dalle soluzioni semplicistiche così come dall’idea che sia la quantità di intervento a fare la differenza, perché conta soprattutto costruire attorno al bimbo un ambiente che sostenga in modo personalizzato il suo sviluppo».

Adhd: che cosa fare?

Agitati, impossibili da tenere fermi: i bambini con deficit dell’attenzione e iperattività (o Adhd) possono essere un incubo per genitori e insegnanti, ma sarebbe opportuno normalizzare il disturbo e affrontarlo per quello che è, ovvero una differente modalità di funzionamento del cervello nell’infinita varietà delle possibilità cognitive. «I bambini con Adhd non vanno colpevolizzati: non è colpa loro o di una cattiva educazione se non riescono a mantenere l’attenzione a lungo», puntualizza Antonella Costantino, direttore dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza del Policlinico di Milano. «Il primo passo è capire come funziona il singolo bimbo e fare in modo che il contesto attorno lo faciliti: in classe per esempio è meglio che non sieda vicino alla finestra ma accanto alla cattedra, per avere meno motivi di distrazione, e le regole gli devono essere esposte in maniera chiara in anticipo e non sgridando a posteriori, un “così non si fa” dopo il guaio è più difficile da capire».

«I piccoli con Adhd hanno anche problemi a gestire le eccezioni, per cui è bene non disattendere le regole, e devono essere accompagnati per imparare a riflettere prima di agire e non farsi sopraffare dall’impulsività. Tutto questo si può fare con un vero e proprio training di genitori e insegnanti, a cui va insegnato come e in che cosa è differente il bimbo perché possano stargli accanto nel modo più costruttivo», prosegue Costantino. «Ci sono anche interventi pensati per i bambini in cui imparano a essere consapevoli delle proprie caratteristiche personali e a capire come comportarsi per ottenere ciò che vogliono senza essere costretti ad attirare l’attenzione degli adulti combinando guai. Per i casi più gravi esistono farmaci che possono agire in modo mirato, ma gli interventi di training e sul contesto restano essenziali».

Quali sono i bambini che hanno più bisogno di interventi tempestivi?

Uno studio olandese di recente ha identificato le categorie di piccoli pazienti che più di altre devono essere avviate agli interventi con tempestività, perché sono coloro che ne trarranno i maggiori benefici: sono i bimbi che hanno anche disturbi del comportamento, quelli con Adhd grave e chi vive con un solo genitore. Se i casi più seri non passano inosservati quelli lievi potrebbero sfuggire: «Il problema di attenzione e iperattività, per avere rilevanza clinica, deve impattare sulla funzionalità dei bambini e farli discostare dall’atteso per l’età: una vivacità a scuola che può essere normale a 3 anni diventa problematica a 6», dice l’esperta.

«Non basta, poi, che il sintomo si manifesti in un solo contesto: il bambino poco attento e iperattivo a scuola che ha una buona vita sociale e familiare non ha un Adhd. Fino a poco tempo fa le diagnosi erano meno in Italia rispetto ai Paesi anglosassoni perché il sistema scolastico era più tollerante; oggi le modalità didattiche e di valutazione, come i test a risposta multipla, stanno facendo emergere anche da noi casi più lievi che in passato passavano sotto silenzio», conclude Costantino.

Autismo, la diversità si batte con l’amore. Ci scrive la madre di due figli adolescenti e racconta il peso della vita quotidiana piena di coraggio e di affetto. Lisa Ginzburg su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2022.

Gentile Lisa, sono madre di due figli maschi, entrambi adolescenti. Il primogenito è affetto da una forma grave di autismo. Da diciassette anni io e mio marito affrontiamo questo dramma a cui la vita ci ha messo di fronte. Penso di poter dire che sino a adesso siamo stati sempre coraggiosi, e anche forti. Per noi è stato importante che il secondogenito crescesse senza troppo portare il peso della condizione del fratello, che potesse avere la sua vita in allegria, senza troppo peso. Ultimamente però non vuole portare amici a casa, va lui a casa degli altri e ci fa capire di volere stare con noi il meno possibile. Per me, un passaggio molto duro da vivere. Se finora ho sempre tenuto, adesso questa difficoltà del mio secondo figlio mi sembra che farà saltare tutti gli equilibri.

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Grazie molte a lei per la fiducia che dà a questa rubrica raccontando la sua storia. Immagino quale grande, costante impegno sia stato e continui a significare per lei e suo marito essere dei bravi genitori, con tutti e due i vostri i figli. Amarli di uguale amore, ma diverso. Immagino il dolore per questo momento. Un passaggio, lo dice lei stessa: perché di certo tracciare il proprio cammino per il suo secondogenito è una questione lunga e complessa.

Un fratello diverso da sé perché con problematiche che assorbono moltissimo i genitori modifica una crescita, incide su un carattere, segna un cammino di vita. Non c’è dubbio; come tuttavia non ho dubbi che debba valere il contrario, il non gravare troppo su una vita, non responsabilizzarla eccessivamente circa un peso che non è giusto debba troppo portare. Di certo suo figlio maturerà, cambierà modo di vivere e di considerare la vostra condizione famigliare. Sia con il vostro aiuto e supporto, sia in autonomia, troverà il modo di non gestire in modo scisso la sua vita sociale, con gli altri e con i suoi coetanei, e la sua vita famigliare. Imparerà a non pensare la prima (la socialità) come gioiosa e leggera, e l’altra (la famiglia) come triste, pesante e «da non far vedere». Lo aiuterete a superare questo senso di separazione interna, ne sono sicura, e lo farete magari indirettamente, senza parole, magari in silenzio, magari «semplicemente», come sempre è stato finora, con il vostro amore di genitori.

Di sicuro il vostro impegno passato e presente nel non caricarlo di troppo peso avrà i suoi effetti; perché gli sforzi che compiamo guidati dall’amore hanno sempre dei risultati, magari non subito, magari soltanto nella lunga durata, però le nostre intenzioni, quando sono autentiche, «arrivano».

Lasci, lasciate (lei e suo marito) che il vostro secondo figlio viva questo momento di allontanamento; immagino quanto possa essere doloroso per voi, e d’altra parte può darsi che sia una fase utile per lui per costruire la sua identità, distinta dal fratello ma anche al fratello tanto inevitabilmente legata. Può essere più importante e benefico per lui consolidare una propria vita di amicizie fuori da casa, e dopo, tra qualche tempo, avvicinare gli amici più cari e fidati alla sua, alla vostra situazione famigliare.

Come sempre con i figli, la cosa più importante, quella che vale di più, è e sarà sentire da parte vostra il sostegno del vostro amore incondizionato. Un supporto che deve poter comprendere la libertà di lasciarlo allontanare per un po’, se evitare di stare molto in casa e invitarci gli amici (e fargli conoscere suo fratello) ora gli pesa. Più si sente libero, più troverà la sua strada per integrare questa vicenda di famiglia che gli è capitata. Il vostro coraggio, la vostra solidità nell’affrontare ogni giorno la situazione, gli sono certamente di esempio; forse allontanarsi per un periodo è il suo modo di trovare il proprio modo, dare forma e sostanza alla sua identità. E forse, me lo auguro molto, pensare a questo può aiutarvi a sopportare la difficoltà di questa fase. Aiutarvi a guardare oltre.

Sarete più uniti, comprendendolo e lasciandolo libero di comportarsi un po’ come gli pare; e più tardi, insieme, insieme più aperti al mondo, come fa bene a ogni famiglia, e forse a una famiglia come la vostra, che conosce un peso particolare, ancora più aperti e più uniti. L’amore arriva dappertutto; anche quando non si capisce come districarsi, non si sa come muoversi e in quale direzione, lui agisce e conduce. Le auguro che presto suo figlio si rassereni; mi faccia sapere, se ne avrà voglia.

Autistico o plusdotato? Forse entrambe le cose. Come aiutare un figlio “speciale”. «Ho un figlio plusdotato, evviva»? No, non è così facile. I genitori di bambini con alto potenziale cognitivo spesso faticano a vedere la  fatica dei loro figli, concentrandosi sulle loro "prodezze". Ma la componente relazionale per questi ragazzini è uno scoglio. E non è infrequente che il disagio nasconda un Dsa o un disturbo dello spettro autistico. Una piccola guida per provare a capire. ERIKA RIGGI su Iodonna il 21 settembre 2022.  

Il quoziente intellettivo è alto, altissimo. Ma la loro vita è, spesso, un mezzo inferno. Un bambino plusdotato è un bambino con un dono, certo (non a caso il termine inglese che indica i plusdotati è gifted). «Ma alla sua condizione si associa spesso una difficoltà relazionale enorme. Addirittura, un disturbo dello spettro autistico o un disturbo specifico dell’apprendimento: insomma, una doppia eccezionalità», spiega Maria Assunta Zanetti, direttrice scientifica di LabTalento, il primo Laboratorio Universitario italiano, dell’Università di Pavia, che si occupa di certificare e accompagnare bambini e ragazzi con elevato potenziale cognitivo.

«Ci capita quotidianamente di certificare bambini con un QI alto, che cognitivamente hanno due, tre, quattro anni più della loro età, e un QE bassissimo: quello della loro età, se non più basso. Ecco, la disarmonia tra questi due aspetti condiziona la vita e la rende faticosissima», spiega Zanetti.

La plusdotazione tra i banchi di scuola

I bambini plusdotati sono circa il 5 per cento della popolazione, spiega la professoressa. Significa che in ogni classe ce n’è più o meno uno. Bambini che il sistema scolastico, per lo più, trascura. «La distribuzione dell’intelligenza è una curva gaussiana: al centro ci sono i ragazzi con un’intelligenza media, circa il 68% degli studenti. I percorsi formativi scolastici si occupano di loro. Ma ai lati del picco ci sono le intelligenze più deboli, a sinistra, e quelle più forti, a destra: fette di popolazione di cui il sistema scolastico si occupa poco».

Il risultato è che, appena possono, questi bambini, divenuti ragazzi, mollano. «È il cosiddetto capable drop out, l’abbandono scolastico dei capaci: la dispersione è un tema anche nel caso di intelligenze superiori alla media», spiega Zanetti.

Ho un figlio plusdotato: evviva?

«La plusdotazione è molto ingombrante, e certo non è un trofeo: ci sono genitori che iperstimolano i loro figli, considerando la loro differenza solo dal punto di vista prestazionale», ammette Zanetti. Tuttavia, la maggior parte dele persone che contattano LabTalento sono «genitori disperati: perché i loro figli hanno difficoltà a scuola, e non a casa».

È infatti perlopiù nel confronto con i pari che emerge la differenza, e emergono le difficoltà. Invece a casa, dove il bambino ha a che fare con adulti plaudenti (come tutti i genitori!), intelligenza e verve verbale sono solo punti di merito. Per questo LabTalento non valuta bambini al di sotto dei sei anni.

Pietro, plusdotato e isolato

A quattro anni Pietro conosce tutti i pianeti del sistema solare e può raccontare, con la buona approssimazione di un adulto, «che cosa si è verificato al momento del Big Bang», per usare parole sue. I nonni lo portano in trionfo e battono le mani a ogni sua prestazione. Ma i suoi compagni di classe lo evitano, e lui evita loro: quando interagiscono, parla solo lui, e per ore, fissandosi su dettagli e particolari senza mai arrivare al punto.

È un esempio tipico di bambino plusdotato con disturbo dello spettro autistico, come lo racconta Sara Isoli, logopedista (presso lo studio Dirsicose): «Le difficoltà maggiori di bambini con alto potenziale cognitivo e disturbi dello spettro autistico sono nell’area della pragmatica».

L’universo è meglio del parchetto

Sul fronte lessicale e grammaticale Pietro se la cava infatti benissimo. Anzi, utilizza parole forbite e persino stranianti, in bocca a un bambino. E frasi complesse e molto lunghe. «Come conseguenza del suo livello cognitivo, ha interessi peculiari, sia come argomenti, sia come intensità: si appassiona a materie specifiche, e tendenzialmente di ambito logico-scientifico. Studiando queste materie può infatti esaudire il suo desiderio di prevedibilità. Quello stesso desiderio che è invece terribilmente frustrato dall’interazione sociale», continua Isoli.

Per Pietro (e per bimbi come lui) avere a che fare con l’altro non è sempre attraente, né piacevole. Quando entra in relazione, è per essere ascoltato: come tutti, certo. Ma in lui questa motivazione diventa assoluta: continua a parlare senza assicurarsi di avere l’attenzione altrui, fissandosi su dettagli che interessano solo a lui. «Nella scuola primaria, i bambini che hanno queste caratteristiche riescono a compensare, con la loro intelligenza, le difficoltà comunicative», spiega Isoli. «Ma il loro apprendimento spesso non è spontaneo, né implicito o derivato dal contesto. Ha bisogno di essere appreso in modo esplicito, un po’ come una formula imparata».

Bambini plusdotati, come riconoscerli?

Come si riconosce allora un bambino plusdotato? «Spesso i bambini tendono a compensare le loro difficoltà, e persino autismo e Dsa, con l’intelligenza. Lo fanno soprattutto le femmine, al punto che ci è capitare di certificare come plusdotato il fratello, in difficoltà evidente, e poi riscontrare lo stesso “dono” nella sorella. La quale invece aveva camuffato, adattandosi, adeguandosi, sublimando e nascondendo a livello sociale la sua differenza». Quel genere di ragazzina che sembra sempre sulle nuvole? Lei.

Compensano, i bambini, soprattutto nella scuola primaria, quando la loro difficoltà ad apprendere un metodo di studio viene “nascosta” dall’eccellente memoria e dalla buona competenza verbale.

Possono riuscire a compensare Disturbi specifici dell’apprendimento e dello spettro dell’autismo, che, non è infrequente, occorrono insieme alla plusdotazione: «Così ci capita di valutare ragazzini di 11/12 anni per scoprire che hanno anche un disturbo di cui nessuno si era accorto», racconta Zanetti, di LabTalento.

La difficoltà comunicativa non li abbandona, di solito, crescendo: «La pragmatica conversazionale continua ad avere caratteristiche originali: per esempio, sono persone che tendono a stare troppo vicini o troppo distanti dall’interlocutore, a toccarlo troppo o per niente, e a essere iperverbosi, e a non considerare opinione, ma neppure i segnali di distrazione, di chi hanno di fronte», spiega la logopedista.

La certificazione di plusdotazione

La certificazione di plusdotazione presso LabTalento costa 260 euro e comprende vari step: «Ci contattano da tutta Italia, chiediamo innanzitutto ai genitori di compilare una scheda per capire se ci sono i presupposti. Poi procediamo con un colloquio anamnestico alla presenza di entrambi i genitori e a quel punto il bimbo, o ragazzo, viene valutato per circa un giorno e mezzo, sia dal punto di vista intellettivo che emotivo».

La maggior parte dei genitori che chiede una certificazione aveva visto giusto. «In media il 10% dei bambini che valutiamo non è plusdotato». La certificazione può essere richiesta anche con il servizio pubblico.

Consigli ai genitori di bambini plusdotati (e non solo)

I consigli delle esperte ai genitori di figli plusdotati vanno nella stessa direzione: «Spesso faticano a vedere le fatiche dei figli, perché è più gratificante vedere i punti di forza. Ma per uno sviluppo armonico è invece necessario aprire gli occhi sulle fragilità e potenziare l’aspetto relazionale della vita, quello in cui si verificano». A Pietro, fissato con l’universo e i pianeti, è più utile fare merenda con i suoi compagni di classe e guardare con loro le figurine dei pianeti che restare solo a studiarsele, una per una. Anche se, chiaro, è in questo secondo caso che le memorizzerà meglio.

Il nostro compito per il loro futuro

E a un bambino, cognitivamente ad alto potenziale ma con un disturbo dello spettro dell’autismo, che cerca in ogni modo di evadere il momento della relazione? «L’incontro con i coetanei è fondamentale, va incentivato», spiega Isoli: «Se l’interazione sociale non gli darà piacere, crescendo tenderà probabilmente sempre ad evitarla, sarà un adulto solitari. Ma il nostro compito ora, come logopedisti, genitori e insegnanti, è fornirgli gli strumenti per affrontare e vivere nel mondo», per essere integrato e riconosciuti dalla società, nella sua differenza.

L’autismo è questo, e molto altro

Una postilla è d’obbligo. E allo scopo val bene un suggerimento di lettura. Io vivo altrove, L’autismo non si cura, si comprende è una raccolta di storie di autismo, firmata da Beppe Stoppa, con prefazione di Elio (leader di “Elio e le Storie Tese” e papà di un figlio autistico).

Storie difficili e sorprendenti, dolorose, per dire che «non c’è solo l’autismo dei geni, non è quello che ho visto io», dice Stoppa. «I ragazzi e gli adulti che ho conosciuto per scrivere questo libro non assomigliano a quelli dei film. Possono, sì, avere una fissazione, che li fa diventare dei veri fenomeni su uno specifico argomento. O possono sorprendere in modo straordinario. Come, ricordo, una ragazza che non poteva parlare ma sapeva cantare. Ma per la maggior parte del tempo l’esistenza di queste persone è sopravvivere alle piccole cose della vita come a imprese impossibili».

La fatica è quotidiana, l’angoscia a lungo termine

Insomma, non è un caso se si parla di disturbi dello spettro autistico: è un universo, questo, fatto di molti mondi, perlopiù misteriosissimi.

Racconta Stoppa: «Come ci vai dal parrucchiere se “senti male” quando ti tagliano un capello? Anche andare dal parrucchiere diventa un percorso a tappe: prima si va a conoscere l’uomo con le forbici, si fanno due chiacchiere, magari un paio di volte, poi si prova a sedere sulle sedie, ci si fa pettinare…».

Per i genitori la fatica è quotidiana, l’angoscia a lungo termine: «Un padre», racconta Stoppa, «mi ha raccontato che si è ritrovato a dovere insegnare al figlio l’autoerotismo. Ve lo immaginate? Ma per tutti, padri e madri, il pensiero costante è sul dopo di noi: offrire ai figli una casa e gli strumenti per vivere nel mondo, senza di loro». Per questi, e per gli altri, la società, e non solo la famiglia, deve occuparsi di trovare risposte e soluzioni. iO Donna

·        L’Afasia.

Il focus. Cos’è l’afasia, il disturbo di cui soffre Bruce Willis: cause e sintomi della malattia che provoca problemi al linguaggio. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2022. 

Un disturbo non raro, solo in Italia il numero di persone che ne soffrono a seguito di malattie cerebrovascolari si aggira attorno a 150.000-200.000, con un’incidenza annua di 2 nuovi casi per 1.000 abitanti per anno, ma che Bruce Willis ha reso tristemente ‘da prima pagina’.

La comunicazione da parte dei familiari dell’attore di porre fine alla sua carriera a 67 anni a causa dell’afasia ha portato la luce dei riflettori su questo disturbo che ha terminato la lunga carriera della star di Hollywood.

Cos’è l’afasia

L’afasia è un disturbo del linguaggio che comporta delle conseguenze a livello cognitivo. Chi è affetto da afasia infatti gradualmente arriva non a capire ciò che gli viene detto, a produrre frasi di senso compiuto, a leggere o scrivere, ma anche a fare calcoli, perché scrittura e capacità aritmetiche sono connesse con la funzione del linguaggio.

Le cause

Come spiega a Repubblica Tiziana Rossetto, presidente della Federazione Logopedisti Italiani (Fli), le malattie che provano più frequentemente l’afasia sono “quelle vascolari e i traumi cranici, ma anche tumori, malattie infettive o altro possono colpire le aree del linguaggio”. 

Spesso infatti il disturbo del linguaggio insorge dopo un ictus: ne è infatti una delle conseguenze più impattanti a livello di attività quotidiana. 

Come si ‘cura’

Purtroppo non esiste al momento una cura per il disturbo. Spiega infatti Rossetto che “numerosi studi sperimentali hanno dimostrato che l’unico trattamento efficace, anche se molto raramente risolutivo, è il trattamento logopedico, purché sufficientemente protratto e intenso”.

·        La disnomia.

Danilo Di Diodoro per il “Corriere della Sera - Salute” il 20 febbraio 2022.

Poter godere della visione del mondo attorno a sé e riuscire ad ascoltare quanto si dice è una forma di nutrimento essenziale per la mente. Quando vacillano udito e vista, anche le facoltà psichiche ne risentono. Una conferma in tal senso emerge da due recenti revisioni sistematiche. Una, dedicata ai problemi di udito, è stata pubblicata sul Journal of Laryngology and Otology , l'altra, dedicata ai problemi della vista, è stata pubblicata sulla rivista BMJ Open.

Deterioramento

«Il danno all'udito può essere periferico o centrale» spiegano i ricercatori britannici guidati da Kimberley Lau del Department of Otolaryngology dello Sheffield Teaching Hospital, autori della revisione pubblicata sul Journal of Laryngology and Otology. 

«Il sistema periferico comprende le componenti strettamente connesse all'organo dell'udito, come la coclea, mentre quello centrale è basato sui percorsi cerebrali destinati al processamento degli stimoli uditivi provenienti dalla periferia. Il sintomo chiave della perdita di udito di tipo centrale consiste nell'inabilità da parte dell'individuo a comprendere il parlato quando si trova in un ambiente rumoroso, specie se l'udito periferico - abilità di ascolto in ambiente silenzioso - rimane relativamente normale».

La ricerca, realizzata con la metodologia della revisione sistematica di studi osservazionali, è giunta alla conclusione che c'è un legame tra la perdita di udito e il danno cognitivo, in particolare con Mild Cognitive Impairment, che può essere una porta di ingresso nella demenza. 

Isolamento sociale

La perdita di udito potrebbe svolgere la sua azione attraverso l'induzione di un certo isolamento sociale e la riduzione di importanti stimoli cognitivi ambientali.

«Diversi studi hanno dimostrato che, nei casi in cui la percezione uditiva è difficile, c'è bisogno di impegnare molte più risorse cognitive in questi processi, sottraendo così energie ad altri, come la memoria» dicono ancora gli autori della ricerca. 

«In una società che vede continuamente crescere il numero di persone anziane, questo fenomeno ha importanti implicazioni per le politiche di salute e dei servizi sociali, che dovrebbero sviluppare programmi di prevenzione, diagnosi precoce e trattamento».

Influenza

Secondo quanto riportato dall'Organizzazione mondiale della sanità, circa un ultrasessantacinquenne ogni tre soffre di una forma di sordità che influisce negativamente sulle relazioni interpersonali e più in generale sul livello di salute, interferendo con il benessere, la qualità della vita e le funzioni quotidiane, minando il livello di indipendenza e generando isolamento e depressione.

E contribuendo allo sviluppo di Mild cognitive impairment. Analoghi effetti sulle funzioni cognitive sono stati rilevati dalla revisione sistematica pubblicata sulla rivista BMJ Open , dedicata agli effetti cognitivi di malfunzionamenti della visione. Lo studio è stato guidato da Niranjani Nagarajan della Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora. «Il nostro studio ha rilevato l'esistenza di una associazione positiva tra danno visivo e danno cognitivo o anche demenza. Questa associazione è evidente in ricerche che hanno utilizzato diverse modalità di misura della visione e delle abilità cognitive, e che sono state realizzate in paesi diversi con gruppi diversi di persone».

“Ce l’ho sulla punta della lingua” perché a volte dimentichiamo le parole: che cosa è la disnomia. Può succedere durante una conversazione di non riuscire proprio a ricordare una parola. Questo fenomeno si chiama disnomia. Come si affronta e previene lo spiega la neuropsicologa Marcella Mauro. Intervista a Dott.ssa Marcella Mauro

Neuropsicologa dell'Istituto Humanitas Medical Care. A cura di Francesca Parlato su Fanpage l'11 febbraio 2022.

"Ce l'ho sulla punta della lingua…" Quante volte ci capita mentre parliamo con un'altra persona di non ricordare un nome o una parola, ci giriamo intorno, ci sembra di averla lì a portata di mano, ma niente non ci viene. In medicina questo fenomeno ha un nome: disnomia. "Sarà sicuramente successo a tutti durante una conversazione di non riuscire a ricordare un nome specifico di un oggetto, una persona o un luogo – spiega a Fanpage.it la neuropsicologa Marcella Mauro – È lì, ce l’abbiamo in testa, ma in quel momento proprio non riusciamo a dirlo. La disnomia è proprio la difficoltà a richiamare una parola alla memoria in un certo momento, dal nostro magazzino lessicale".  

Cosa succede quando non riusciamo a ricordare una parola

Quando ci manca un nome, quando non riusciamo proprio a farcelo venire in mente, spesso facciamo dei lunghissimi giri di parole per farci capire dal nostro interlocutore. "Questo perché il nostro cervello cerca sempre una via d'uscita, una strada alternativa. A volte va a cercare nella stessa categoria semantica, la parola che ci manca è mela e allora diciamo pera, oppure diciamo borsa al posto di zaino. Oppure utilizziamo delle parole filler, che servono a prendere tempo: come, cioè, aspetta. Oppure frasi e termini generici: passami quella cosa che c'è sul tavolo, o ancora utilizziamo dei gesti per farci capire da chi è vicino a noi. Nei casi più gravi addirittura si inventano nuovi vocaboli".  

Le cause delle disnomia

Le cause di questo fenomeno possono essere diverse a seconda della gravità e della frequenza con cui la disnomia si manifesta. "La disnomia può colpire bambini, adulti e anziani. Nei bambini bisogna fare attenzione perché potrebbe essere un sintomo di un disturbo del linguaggio o di dislessia". Può accadere anche durante un momento di stress di non riuscire a trovare le parole. "In una situazione di sovraccarico cognitivo, di forte ansia o al termine di una giornata di lavoro, è molto comune avere problemi di disnomia. Oggi sappiamo infatti che le emozioni e i sentimenti influenzano le nostre performance e i processi cognitivi. Chi sperimenta tutti i giorni stress e ansia può andare incontro a questo tipo di conseguenze, come avere difficoltà cognitive di memoria. C'è proprio una perdita di vitalità dei neuroni e questo induce per forza un rallentamento delle attività cognitive. Ma a volte basta ristabilire gli equilibri, rilassarci, per vedere le nostre capacità rientrare nella norma". Negli anziani questo tipo di problema è abbastanza fisiologico. "Dopo una certa età si riduce la capacità di elaborare velocemente le informazioni e di elaborarle in memoria". Anche le persone bilingue vanno spesso incontro a problemi di disnomia. "I lapsus linguistici sono molto più frequenti nei bilingue perché conoscono il doppio delle parole, e hanno quindi il doppio delle possibilità di dimenticarle oltre che un magazzino lessicale raddoppiato". Scordare una parola, avere difficoltà a ricordarla in un certo momento, può capitare a tutti e non deve certo destare preoccupazione, ci sono però alcuni casi dove è invece utile rivolgersi a uno specialista. "Se ci accorgiamo che questo fenomeno compare all'improvviso e in modo frequente la causa potrebbe essere qualcosa di diverso dallo stress: potrebbe trattarsi di una degenerazione cognitiva, di un principio di Alzheimer o di demenza, di un ictus transitorio o anche di un trauma cranico o di un effetto collaterale dell'utilizzo di droghe". 

Come allenare il cervello a superare la disnomia

Quando ci si rende conto che la disnomia si manifesta con troppa frequenza può essere utile rivolgersi quindi a una figura professionale. "Un logopedista, uno psicologo o un neuropsicologo, ad esempio – spiega la dottoressa Mauro – E con questi esperti potremmo seguire dei training specifici per favorire la denominazione rapida visiva". Altri esercizi invece possiamo farli anche da soli in casa. "Se ad esempio non riusciamo a ricordare una parola, partiamo dalla lettera iniziale e se non ricordiamo neanche quella scorriamo una a una tutte le lettere dell'alfabeto. Proviamo a utilizzare dei sinonimi oppure a visualizzare la parola scritta o ancora proviamo con le rime o con delle associazioni visive". La disnomia genera quasi sempre un grande senso di frustrazione e di impotenza. "Quando la comunicazione verbale è compromessa o interrotta, si ha l'impressione che il nostro interlocutore possa perdere la pazienza e allora alcuni rinunciano, evitano di parlare, altri invece si arrabbiano e qualcuno invece persevera. Quello che è importante da sapere, e che è utile proprio per gestire la frustrazione, è che non sempre si tratta di un sintomo di una patologia, anzi può essere facilmente risolvibile". Per prevenire problemi di questo genere ci sono altre due cose che possiamo fare, e che suggerisce la neuropsicologa Mauro. "Esercizio fisico, che mantiene in salute il nostro cervello e riposo. Fare movimento e avere un'accurata igiene del sonno ci aiutano ad essere sempre efficienti nelle nostre funzioni cognitive". 

Danilo di Diodoro per il “Corriere della Sera - Salute” il 17 febbraio 2022.

È esperienza comune che man mano che gli anni passano, soprattutto dopo la sessantina, la memoria inizia a perdere colpi. Particolarmente evidente può essere la difficoltà a ricordare nomi di persone o anche di oggetti. 

Un fenomeno che non manca di preoccupare, non solo per gli imbarazzi che può creare, ma anche perché ci si interroga inevitabilmente sul significato di questi fallimenti mnemonici: potrebbero essere un primo annuncio di futuri peggioramenti, di forme cliniche di deterioramento cognitivo o perfino di demenza? Per fortuna non esiste una relazione scontata tra gli impacci della memoria dovuti al progredire dell'età e i disturbi cognitivi veri e propri.

«Solo ad alcune delle persone che presentano tali fenomeni sarà in seguito formulata una diagnosi di decadimento cognitivo lieve, noto anche con il termine inglese Mild cognitive impairment ( MCI)» dice Diego de Leo, professore emerito di psichiatria alla Griffith University australiana e presidente eletto dell'Associazione italiana di psicogeriatria. 

«Questa condizione è in effetti temuta come fase prodromica della demenza. Da un punto di vista di salute pubblica, coglierne le caratteristiche in soggetti anziani può servire a mettere poi in atto eventuali strategie di prevenzione».

La diagnosi

Perché si possa fare una diagnosi di vero Mild Cognitive Impairment è necessario che siano presenti alcuni sintomi precisi, formulati diversi anni fa dal neurologo della Mayo Clinic di Rochester, Ronald Petersen. «La diagnosi si basa sul fatto che la persona lamenti uno scadimento delle sue performance cognitive» dice ancora De Leo. «Un'impressione di scadimento che deve essere confermata anche da un parente o un convivente, ma anche da specifici test neuropsicologici, che evidenzino un oggettivo deterioramento cognitivo in almeno uno dei domini esplorati. 

Perché si tratti di Mild cognitive impairment e non di forme più gravi, è però allo stesso tempo necessario che la persona sia indipendente nelle abilità funzionali, ossia abbia meno di tre impedimenti in aree come fare la spesa, usare il telefono, utilizzare i farmaci, e altre attività quotidiane. Infine, ovviamente, bisogna che non abbia già una diagnosi di demenza». 

Per fortuna molti studi protratti nel tempo hanno consentito di verificare che fino alla metà circa delle persone alle quali viene diagnosticato un Mild cognitive impairment, alla successiva visita questa condizione non viene più rilevata, il che mostra come in molti casi non solo non ci sia progressione verso forme più gravi, ma addirittura una riduzione della sintomatologia.

Forme diverse

«Bisogna anche tener presente che esistono forme diverse di decadimento cognitivo lieve» spiega ancora De Leo. 

«Alcune riguardano la memoria e sono quindi le forme amnestiche, ma ne esistono anche di non-amnestiche, come la capacità di esprimersi adeguatamente in parole, quella di orientarsi visivamente nello spazio, o quella di programmare e compiere adeguatamente gesti e azioni. Molto importante anche la distinzione in base al tipo di dominio interessato dal malfunzionamento, che può essere singolo o multiplo, e in quest' ultimo caso si parla di forme "multidominio". Questa forma è stata frequentemente identificata come predittore di una possibile progressione verso la demenza. 

Quindi, accertare l'eventuale presenza di un vero Mild cognitive impairment è importante per affinare la selezione delle persone a rischio di demenza e che potrebbero giovarsi di programmi di prevenzione». La rivista Neurology ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio sul Mild cognitive impairment condotto da un gruppo di ricercatori coordinati da Jennifer Manly del Taub Institute for Research on Alzheimer' s Disease and the Aging Brain della Columbia University di New York. 

I ricercatori hanno esaminato un campione di quasi tremila persone ultrasessantacinquenni, che a partire dal 1992 sono state sottoposte a oltre undicimila visite all'interno di un programma destinato a valutare il rapporto tra invecchiamento e demenza. 

Variazioni nel tempo

Sono state individuate 752 persone con diagnosi di Mild cognitive impairment. Seguendole nel tempo si è constatato che circa il 60 per cento di loro alle visite successive non corrispondeva più ai criteri per il mantenimento della diagnosi, il 30 per cento circa li conservava, e solo il dieci per cento circa aveva sviluppato una vera e propria demenza.

«Soffrire di un Mild cognitive impairment multidominio è risultato un fattore che consentiva di predire chi alle visite di controllo avrebbe continuato ad avere il disturbo» dice ancora De Leo.

Fattori di rischio

«Altri fattori associati alla persistenza del Mild cognitive impairment sono risultati il soffrire di malattie somatiche, l'avere minor accesso ad attività ricreative, l'uso di antidepressivi e la presenza di sintomi depressivi» ha aggiunto l'esperto. « Gli stessi fattori sono risultati collegati al rischio di progressione verso la demenza.

Va comunque sottolineato che trattandosi di studi di tipo osservazionale, questi fattori sono solo associati allo sviluppo di Mild cognitive impairment o di demenza, e non si può affermare che siano fattori causali. Va aggiunto che il rischio di soffrire di Mild cognitive impairment ha anche una base genetica, e che il rischio risulta inferiore in chi ha potuto seguire più anni di istruzione, ha avuto maggior accesso alle attività ricreative, come visitare un amico o anche fare una passeggiata, e poteva contare su un reddito più elevato».

Secondo Jennifer Manly, «la ricerca futura dovrà studiare il decorso del Mild cognitive impairment per periodi di tempo più lungo, al fine di analizzare ulteriormente e se possibile in modo più "causale" quali fattori possono aiutarci meglio a comprendere lo sviluppo della demenza».

·        Dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia.

Dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia: come accorgersi se un bambino soffre di questi disturbi dell’apprendimento. Elena Meli su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.

Insegnanti e genitori sono le «sentinelle» che di solito avvertono una discrepanza rispetto alle competenze attese per fascia d’età, non spiegabile per altro motivo

La dislessia potrebbe essere un vantaggio?

È uno dei disturbi specifici dell’apprendimento che impensieriscono tanti genitori, riguarda almeno 180 mila bimbi in Italia e può rendere il percorso scolastico accidentato e in salita, ma la dislessia (ovvero la difficoltà nell’apprendere a leggere e comprendere i testi scritti, spesso associata a difficoltà di linguaggio nei primi tre anni; chi è dislessico in genere capisce meglio attraverso esempi concreti o con la lettura ad alta voce di altri) potrebbe essere un vantaggio per la specie umana. Sembra una provocazione ma è l’ipotesi di una ricercatrice inglese, Helen Taylor dell’Università di Cambridge, che di recente su Frontiers in Psychology ha spiegato la sua teoria della cognitività complementare: secondo i suoi studi i nostri antenati si sono evoluti per specializzarsi in modalità di pensiero diverse ma complementari, che avrebbero favorito la capacità di adattarsi alle richieste dell’ambiente attraverso la cooperazione sociale fra individui.

Quali sono le caratteristiche del bambino dislessico?

Queste specializzazioni cognitive sono principalmente di due tipi, l’abilità di sfruttare le conoscenze acquisite e l’esplorazione alla ricerca di nuove informazioni: il successo di un individuo ma anche di una società dipende dall’equilibrio fra questi due diversi approcci al mondo e, secondo Taylor, i dislessici «hanno una maggiore tendenza all’esplorazione e più difficoltà invece nei compiti che richiedono lo sfruttamento di dati noti, come la lettura e la scrittura; non a caso molte persone con dislessia scelgono professioni in cui è necessario avere una propensione alla novità come le arti o l’architettura, oppure manifestano un pensiero creativo e innovativo. Una visione della dislessia che la consideri solo come un deficit non tiene conto delle peculiarità e dei punti di forza di queste persone, che invece esistono eccome».

Il cervello funziona in maniera differente?

Taluni disturbi dell’apprendimento sarebbero insomma l’espressione di un diverso modo di ragionare che, in alcuni contesti, si rivela tutt’altro che limitativo ed è d’accordo Antonella Costantino, direttore dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza del Policlinico di Milano secondo cui «occorre che rispetto al bambino con un disturbo del neurosviluppo i suoi genitori e i suoi insegnanti comprendano che il suo cervello “funziona” in maniera differente: non per una colpa o mancanza di impegno ma semplicemente perché è così, i suoi circuiti sono quelli. È vero per i disturbi dell’apprendimento ma anche per gli altri disturbi del neurosviluppo, come autismo o deficit dell’attenzione e iperattività: capire questo significa ridurre il pregiudizio e lo stigma nei confronti del bimbo e aiutarlo davvero, imparando tutti assieme a gestire al meglio il suo specifico problema nel contesto scolastico, familiare e di relazione».

Quali sono i segnali d’allarme?

Tenere conto delle variabilità del funzionamento di questi disturbi aiuta ad affrontarli ma la preoccupazione dei genitori per le difficoltà che potrebbero incontrare i figli a scuola restano: come accorgersi se il piccolo ha dislessia, disgrafia (disturbo non verbale che coinvolge le abilità grafiche di scrittura di lettere e numeri, ma anche di disegno di figure o grafici; incolonnare i numeri o avere una scrittura ordinata può essere impossibile per un alunno disgrafico), disortografia (è l’incapacità di rappresentare in maniera corretta i suoni e le parole della propria lingua: lettere simili vengono confuse, grafemi come la «h» vengono omessi, le parole vengono separate in maniera sbagliata e così via) o discalculia (chi ne soffre ha difficoltà nella scrittura e lettura dei numeri e nell’apprendere il calcolo, non è un alunno con brutti voti in matematica; spesso il disturbo si presenta assieme alla dislessia)?

«Il punto è sempre la discrepanza rispetto alle competenze attese per la fascia d’età: se l’apprendimento di una capacità è molto faticoso e non si acquisisce entro i tempi previsti, pur tenendo conto della variabilità individuale, si può sospettare un disturbo», risponde Costantino. «La discrepanza non deve essere spiegabile da altri motivi: un bimbo migrante in Italia da due anni o un piccolo che vive in un contesto di deprivazione può avere difficoltà maggiori a raggiungere le competenze in lettura, scrittura e così via; è complicato valutarne l’impatto, ma in alcuni casi anche la didattica a distanza che si è resa necessaria in pandemia potrebbe avere avuto conseguenze, impedendo l’acquisizione di competenze che con una scolarizzazione corretta e piena si sarebbero ottenute».

Esistono test di valutazione?

Il dubbio che qualcosa non va, in genere viene alle insegnanti; esistono poi test che si possono fare per valutare i bimbi, che però non dovrebbero essere eseguiti senza l’ausilio di un professionista per interpretarne bene i risultati. Peraltro, come spiega Costantino, «l’invio ai servizi di Neuropsichiatria infantile non dovrebbe avvenire in prima battuta: quando c’è il sospetto il primo passo è un intervento di potenziamento e solo se il gap di competenze non si colma si dovrebbe inviare il bambino dallo specialista. Giocare con le parole o leggere ad alta voce libri illustrati sono esempi di quello che si può fare per potenziare le capacità del bimbo consentendogli di apprendere la lettura e sono preziosi per i piccoli che arrivano da altri Paesi, spesso poco esposti alla lettura ad alta voce in italiano a casa».

Quando non basta e uno specialista conferma la diagnosi di disturbo dell’apprendimento si possono comunque mettere in atto interventi di riabilitazione e/o compensativi/dispensativi, che vanno però adattati alle esigenze del singolo bambino o ragazzino: non tutti devono usare gli stessi ausili, ad alcuni possono essere utili le mappe concettuali, per altri servirà la dettatura al computer, ad altri ancora sarà d’aiuto la calcolatrice o il controllo ortografico al computer».

Possono essere presenti disturbi del linguaggio?

Nel team che valuta il piccolo e individua i trattamenti più adeguati oltre al neuropsichiatra infantile ci sono poi psicologo e logopedista perché come spiega Tiziana Rossetto, presidente della Federazione dei Logopedisti italiani, «i disturbi del linguaggio spesso precedono o sono concomitanti alla comparsa di un problema dell’apprendimento, si verificano per esempio nel 60-70% dei bambini dislessici e sono fra gli elementi che più ne predicono il rischio. C’è continuità fra lo sviluppo del linguaggio parlato, scritto e letto: i bimbi con disturbi specifici dell’apprendimento sono spesso meno veloci dei coetanei nel denominare rapidamente oggetti comuni, comporre o riconoscere rime, mettere insieme o separare i suoni della lingua italiana, acquisire elementi del linguaggio automatico come i mesi dell’anno o i giorni della settimana».

I bambini con disturbi del neurosviluppo sono meno intelligenti?

I genitori e la scuola sono sentinelle fondamentali in grado di accorgersi di questi segnali; poi un intervento rapido e adeguato, nei casi in cui è necessario, può ridurre le conseguenze sui risultati scolastici e non solo. Anche perché non c’è alcun nesso fra questo tipo di disturbi e l’intelligenza e, come aggiunge Costantino, «basta trovare le strategie giuste per superare e compensare le proprie difficoltà; se il bimbo non ha altri disturbi del neurosviluppo e il problema è lieve, ci sono buone possibilità che possa “funzionare” come gli altri». Del resto le persone di successo alle quali per esempio è stata diagnosticata una dislessia non si contano e vanno da attori come Marlon Brando a imprenditori come Richard Branson, da cantanti come Cher a registi come Steven Spielberg.

L’inquinamento ha qualche responsabilità?

Tutta colpa dell’esposizione a inquinanti dannosi durante la gravidanza? Stando a dati raccolti per il progetto europeo EDC-MixRisk e pubblicati su Science, i disturbi del neurosviluppo potrebbero almeno in parte dipendere da mix di sostanze tossiche a cui la mamma è stata esposta durante la gestazione. I ricercatori hanno raccolto informazioni dalle partecipanti al SELMA Study svedese, per il quale circa 2 mila donne e i loro figli sono stati seguiti dalla gravidanza ai primi anni di scuola: nel sangue e nelle urine delle mamme di piccoli con un ritardo nello sviluppo del linguaggio a 30 mesi sono stati rilevati cocktail di molecole fra cui ftalati, bisfenolo A e composti perfluorurati che si trovano in materiali plastici e non solo.

Questi mix poi sono stati testati su modelli in vitro, scoprendo per esempio che alterano geni associati all’autismo e modificano i livelli di ormoni tiroidei, fondamentali per un corretto sviluppo cerebrale del feto. L’esposizione a ciascuna delle sostanze incriminate non superava le soglie attualmente ritenute sicure, ma il mix ha fatto la differenza: il 54 per cento delle donne del campione è stata esposta a quantità complessive di inquinanti che potrebbero aver compromesso un corretto sviluppo del linguaggio nei figli.

Come si ottiene la certificazione dei disturbi specifici nell’adulto?

Fra il 2010 e il 2019 (dati Miur) gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento sono quintuplicati e pure sindromi dello spettro autistico o deficit di attenzione sembrano in crescita. Ma è davvero così? «Intanto siamo diventati più bravi nella diagnosi e riconosciamo i casi prima e meglio», risponde la neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza Antonella Costantino. «Inoltre ora famiglie e scuola sono più attente e sensibili a identificarne i primi segnali; è peraltro difficile fare confronti con il passato perché gli studi epidemiologici sono recenti. Tuttavia, benché lo stigma sia diminuito e ci sia una maggiore accoglienza dei ragazzi con questi problemi, oggi il contesto scolastico, sociale e lavorativo richiede maggiori competenze di lettura, scrittura, calcolo: anche per questo è possibile che emergano casi che un tempo sarebbero passati sotto silenzio».

Così non stupisce che le ultime Linee guida sui disturbi specifici dell’apprendimento abbiano affrontato anche il tema della certificazione dei disturbi specifici dell’apprendimento negli adulti: capita che la diagnosi arrivi da grandi. «La certificazione — spiega Anna Giulia De Cagno, vicepresidente Federazione Logopedisti italiani, che ha contribuito alle Linee guida — è necessaria per ingresso e integrazione nel mondo del lavoro, percorsi di studio e corsi serali per studenti lavoratori, corsi universitari: uno degli ultimi decreti per partecipare a concorsi pubblici prevede per esempio la possibilità di usare strumenti compensativi, di sostituire la prova scritta con un orale o di dare più tempo per la prova».

·        La Balbuzie.

Balbuzie, motivo di scherno, ma c’è poco da ridere. Soffre un milione di persone. Giovanni Muscarà, Vicepresidente Associazione Vivavoce, su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Il disturbo del linguaggio è un problema fortemente sottovalutato. Spesso diventa un pretesto per divertire, ma dietro ci sono dolore e fatica. C’è ancora molto da fare per aiutare chi ne è affetto 

«C’è la possibilità che io possa condurre una vita normale?». Quando ho sentito Sara fare questa domanda a Le Iene, ho provato una fitta al cuore, perché è la stessa domanda che mi facevo da bambino. «Normale», per me che balbettavo in modo devastante, era una vita in cui poter essere me stesso fino in fondo e poter raggiungere i miei sogni. Sara non è sola: in Italia, secondo le stime, circa 1 milione di persone balbetta. Eppure, della balbuzie ben poco si sa e si dice: è un problema fortemente sottovalutato, soprattutto considerando la portata che ha nel vissuto di chi, magari da anni, ci convive.

Il primo problema che riguarda la balbuzie è che tutti pensano di sapere cosa sia, ma in realtà ciascuno (il genitore, l’insegnante, spesso anche il medico) ha solo una propria visione della difficoltà, che giudica e definisce in base al proprio filtro culturale. La balbuzie compare solitamente da bambini, tra i 2 e i 3 anni, nella maggior parte dei casi scompare naturalmente entro i 6. Negli altri casi, la fatica rimane e si manifesta in modi e tempi diversi da persona a persona. Alla balbuzie si associa comunemente una determinata forma - la ripetizione di sillabe – ma non è solo questo! Io ad esempio non avevo una balbuzie classica ma-ma-ma: la faccia mi si storceva, il collo si irrigidiva, iniziavo a sbattere il piede per terra, mi tiravo il naso. Un vero disastro: e dall’altra parte, morivano dal ridere. Il mio incubo era dovermi presentare a qualcuno, stringere la mano e invece di dire «piacere, Giovanni» rimanere paralizzato.

Per questo, mi addolora quando si usa la balbuzie come pretesto per far ridere. Penso a quanto successo recentemente a Tù sì que vales o qualche anno fa a Italia’s Got Talent. Questo atteggiamento non va incentivato, soprattutto tra i bambini: le conseguenze possono essere terribili. Ricordo che a 6 anni, il primo giorno di scuola elementare, la mia compagna di banco, al primo inceppamento, iniziò a ridere e prendermi in giro. Dal quel giorno parlare è diventato ufficialmente dolore e fatica. La mia prima interrogazione al liceo ha provocato, nell’ordine, 5 secondi di silenzio e poi lo scoppio della più fragorosa risata della storia: 25 compagni che urlavano e non riuscivano a ricomporsi.

Io non mi sono mai arreso, ma conosco ragazzi che, per carattere o sfortuna, hanno abbandonato la scuola perché non sopportavano lo scherno e le discriminazioni. Le persone non devono essere giudicate per il modo in cui parlano, così come per il loro orientamento sessuale o la loro forma fisica: per la balbuzie il percorso da fare è ancora molto lungo. Ho voluto fortemente la creazione di un centro per aiutare chi ha difficoltà ad esprimersi, proprio per risparmiare a tanta gente come Sara la fatica che ho fatto io. La balbuzie è un disturbo devastante, e il 22 ottobre abbiamo celebrato la Giornata della consapevolezza sul tema: perché se la società ne sapesse di più, sono certo ne riderebbe di meno.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2022.

Bruno il Bello faceva uscire pazze le ragazze di un secolo fa. Pazze se era in tight con cilindro e bastone, pazze se era strizzato in un giubbetto da promenade, pazze se aveva la pipa in bocca sotto un flat cap o mostrava la camicia bianca aperta sul petto e la smorfia malandrina... 

Nessuno forse, ai tempi del «muto», ebbe i trionfi di Bruno Kastner. Dandy adorato per l'eleganza, salutato come il Rodolfo Valentino mitteleuropeo, votato nel 1921 miglior attore tedesco, rubacuori al fianco delle attrici più celebri, dalla prima sex symbol Asta Nielsen a Mia May, star di oltre un centinaio di film (tra i quali una serie poliziesca), visse anni d'oro fino a quando, nel 1923, fu coinvolto in una rovinosa caduta in moto.

Miracolosamente sopravvissuto ma allontanato dalle luci della ribalta, riuscì per un po' a reggere il declino e le perfidie sul tipo di lesioni riportate in quell'incidente stradale ma non al debutto nel 1930 in un film sonoro, Das Land des Lächelns, «La terra dei sorrisi»: balbettava. 

Una catastrofe, per un attore. Già prostrato da dolori e barbiturici, via via più isolato nel mondo che l'aveva visto vincente, ridotto a vivacchiare con meste serate teatrali nelle città termali, una notte di giugno del '32 non ce la fece più. 

Tornò in albergo, legò una corda a una trave e s'impiccò. Quanti furono, nella storia, a togliersi la vita sotto il peso schiacciante nella fatica immensa di parlare con gli altri? 

Mah... Certo è che le parole ingiuriose («balbuziente di mer...») scagliate giorni fa da un calciatore contro un avversario sono da sempre sale sulle ferite di moltitudini di uomini affetti da balbuzie.

Quel «disordine nel ritmo della parola nel quale il paziente sa con precisione quello che vorrebbe dire», spiega l'Oms, «ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono». 

Un disordine associato dai tempi più remoti, ricorda l'Accademia della Crusca, ai barbari: «Barbaro. Dal latino barbarus, che è dal greco bárbaros "straniero" nel senso di "balbettante, incapace di farsi capire"».

Una catalogazione a doppio taglio. Lo dice una lettera di Aristotele che consigliava ad Alessandro, scrive Plutarco, di comportarsi coi greci da stratega, con i barbari da padrone «e di curarsi degli uni come amici e famigliari, degli altri come animali e piante». 

Tesi condivisa ma a parti rovesciate (come scrive l'etnologo russo Mikhail V. Kriukov in Razze e società) dallo storico cinese Ban Gu che nel I secolo d. C. scriveva che, a differenza dei cinesi, «i barbari... tengono i capelli sciolti e chiudono i loro abiti sul lato sinistro. Hanno volti umani e il cuore di bestie selvagge.

Portano abiti diversi da quelli usati nell'impero di Mezzo, hanno altri usi e costumi, altro cibo e altre bevande, parlano una lingua incomprensibile... Di conseguenza, un governo saggio deve trattarli come bestie selvagge». 

Va da sé che Ovidio, esiliato da Augusto a Tomis, oggi Costanza, sul Mar Nero, nell'opera Tristia si sfoga: «Barbarus hic ego sum quia non intelligor illis», qui il barbaro sono io, perché nessuno mi capisce.

Certo è che tra gli affetti da balbuzie, elencati oggi a pioggia (da Anthony Quinn a Tiger Woods, da Alberto di Monaco a Marilyn Monroe, da Joe Biden a Paolo Bonolis!) sui siti web che reclamizzano libri, video, ambulatori, metodi strabilianti, alcuni hanno avuto un peso davvero enorme sulla storia. Su tutti, a leggere il libro dell'Esodo della Bibbia, Mosè.

Il quale, ricevuta da Dio l'investitura, tentò di sottrarsi: «"Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore (...) sono impacciato di bocca e di lingua". Al che il Signore replicò: "Chi ha dato una bocca all'uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va'! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire". 

Mosé disse: "Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!" Allora la collera del Signore si accese contro Mosé e gli disse: "Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo.

Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le veci di Dio"». 

Aveva una ferita alla bocca subita da bimbo a causa della prova cui l'aveva sottoposto il faraone facendogli scegliere tra un gioiello d'oro e una brace che il piccolo portò alla bocca perché luccicava ancora di più?

Oppure adottato dagli egizi era cresciuto parlando quella lingua madre? Che le cause della balbuzie lascino ancora margini di dubbio, del resto, è confermato da mille testimonianze. 

Una per tutte, quella di Mario Vargas Llosa, sepolto anni fa dalle proteste («c'è chi arriva a proporre di bruciare tutte le mie opere») di lettori feriti da un paragone «maldestro» su «balbuzienti ed afasici afflitti da enormi problemi di comunicazione per via del linguaggio rozzo e rudimentale». Un brutto scivolone, ammise su «El País»: «Porgo pubblicamente le mie scuse a tutti i balbuzienti del mondo».

Narrò i «nove mesi di inferno» dai salesiani a Lima, tormentato perché parlava «con l'accento dei bambini nati sulle Ande, trascinando la erre e pronunciando la esse come "sc"», e giurando di avere tra gli amici parecchi balbuzienti di talento: «Uno è un filosofo poliglotta che tartaglia soltanto in spagnolo e quando fa lezione in inglese parla in maniera fluida e senza esitazioni». 

Una cosa è certa, scrive il romanziere peruviano: «Le balbuzie sono semplicemente un problema espressivo, non legato né all'intelligenza, né all'immaginazione né al talento, come dimostra il fatto che molti grandi della scienza e delle arti fossero balbuzienti».

E furono davvero tanti. Il primo a venire in mente, ovvio, è Demostene. Scrive Plutarco, citando Demetrio Falereo che diceva di averlo saputo dallo stesso Demostene: «Per porre rimedio a una pronuncia poco chiara e alla balbuzie e riuscire ad articolare bene le parole, si infilava in bocca dei sassolini e contemporaneamente declamava qualche passo; volendo, inoltre, rinforzare anche la voce, faceva conversazione mentre correva o si inerpicava per qualche salita e intanto, tutto d'un fiato, proferiva discorsi o versi». 

Nicolò Cavallaro (o Fontana), nato poverissimo, orfano a 6 anni e ferito alla bocca a 12 da un soldato francese nel «sacco di Brescia» (1512) riuscì a diventare (da autodidatta!) un genio della matematica fino a duellare coi massimi rivali e firmare i propri lavori, come sfida, col nomignolo di Tartaglia. 

Né era più sciolto San Carlo Borromeo, di cui il biografo Giovanni Pietro Giussano scrisse nel 1610: «Non era molto fecondo di parole, anzi più tosto si mostrava impedito nella favella; ben che alcuni attribuissero ciò ad arte, volendo dire ch'egli premeditasse le parole prima di dirle per guardarsi da tutte i difetti della lingua».

E che dire di Alessandro Manzoni, al quale secondo Antonio Stoppani «forse nocquero nelle scuole la timidezza, il temperamento nervoso, e la balbuzie, difetto che, ordinariamente più esagerato nei bambini che negli adulti, si esagera ancor più negli uni e negli altri per effetto della soggezione»? 

Lo riconosceva lui stesso: «Io la parola la vedo; essa è lì: ma non vuole uscirmi dalla bocca». Al punto che, scrive il biografo, arrivò a scherzarci su declinando all'inizio l'offerta d'un seggio al Parlamento Subalpino: «"Supponete" diceva celiando cogli amici "che un bel momento mi volga al Presidente, e domandi la parola. Il Presidente mi dovrebbe rispondere: Scusi! onorevole Manzoni; ma a lei la parola non la posso dare"».

Colpa di traumi adolescenziali aggravati dall'innocente crudeltà dei bambini? Certo non fu mai innocente la ferocia degli adulti. Basti leggere Svetonio sull'imperatore Claudio, afflitto dall'infanzia da un disordine neurologico: «Se parlava, sia scherzando, sia seriamente, aveva molti tratti ridicoli: una risata sgradevole, una collera ancora più odiosa che faceva sbavare la bocca ben aperta e inumidiva le narici, inoltre una balbuzie e un ondeggiamento della testa che, se era sempre continuo, si intensificava a ogni atto, per quanto piccolo fosse». 

Col risultato che fu vittima fin da ragazzo di ironie, sberleffi, piccole prepotenze quotidiane: «Se arrivava un po' in ritardo a cena, otteneva un posto a tavola a fatica e solo dopo aver fatto il giro della sala da pranzo; ogni volta che sonnecchiava dopo il pasto, cosa che gli accadeva quasi sempre, veniva bersagliato con i noccioli delle olive o dei datteri...».

Per non citare l'affilata ferocia di Seneca che nell'Apokolokyntosis, satira sulla morte di Claudio, manda l'imperatore appena morto (avvelenato) sull'Olimpo per farlo buttar giù come «mostro» dagli altri Dei. Pare avere colpito tutti, nei millenni, la balbuzie. 

Dal re Battos (in greco antico: balbuziente) fondatore della colonia greca della Cirenaica a Luigi II detto il Balbo re della Provenza e dell'Aquitania, dal conte Oliba «Cabreta» signore della Cerdanya (citato nelle cronache medievali perché faticava tanto a estrarre le parole che batteva la terra tre volte come una capretta) all'imperatore d'Oriente Michele II il Balbo, fino a Giorgio VI d'Inghilterra, il padre della regina Elisabetta II, la cui storia è stata raccontata ne Il discorso del re, vincitore di quattro Oscar.

Film magnifico che trascurava un dettaglio: anche Winston Churchill, che un giorno esultò «s-s-simply s-s-splendid!» («s-s-semplicemente s-s-splendido») inciampava spesso nella balbuzie. Due su due dei vincitori contro Hitler. 

L'aneddoto più delizioso, però, è quello su Luigi XIII, il figlio di Caterina de Medici, narrato da Amerigo Scarlatti sulla rivista «Minerva»: un giorno, mentre era a caccia, Luigi XIII, avendo perduto di vista il falco da lui lanciato un momento innanzi, si volse a un cavaliere seguito che gli si trovò vicino in quell'istante e si mise a gridargli: «L'oi... l'oi... l'oi... l'oi... l'oiseau», per domandargli se vedeva dov'era volato l'uccello.

Il cortigiano a cui si era rivolto era il conte di Thoiras, che per la prima volta era stato ammesso a una caccia reale e che, avendo ben capito ciò che sovrano gli domandava, prese subito a rispondergli sullo stesso tono: «Le voi... le voi... le voi... le voilà...». Immaginatevi il re di Francia! Paonazzo. 

«Per fortuna era sopraggiunto in quell'istante un altro cortigiano il quale fu pronto a dire al re: «Vostra maestà ignora certamente che il conte di Thoiras ha l'onore di essere balbuziente!». Sapete come finì? Fece perfino carriera...

·        L’Insonnia.

Dagotraduzione da oregonlive.com il 29 aprile 2022.

Da che lato dormi nel letto? Questa semplice scelta potrebbe infatti avere effetti sulla salute. Una ricerca ha dimostrato infatti che le persone hanno meno probabilità di avere bruciore di stomaco quando dormono sul lato sinistro rispetto a quando si trovano sul lato destro o sulla schiena. 

Un piccolo studio su 10 persone ha scoperto che il sonno sul lato destro «aumenta il bruciore di stomaco e il reflusso acido», secondo il sito web di informazioni sulla salute Healthline. Quello studio, "Effetto di diverse posizioni sdraiate sul reflusso gastroesofageo postprandiale in soggetti normali", è stato pubblicato nel 2000, ma ancora oggi viene citato in articoli e riviste.

Si ritiene che il sonno sul lato sinistro sia migliore anche per le donne in gravidanza, perché «migliora il flusso sanguigno tra cuore, feto, utero e reni, mantenendo la pressione lontana dal fegato», afferma The Sleep Foundation. 

Quindi essere in grado di sdraiarsi a sinistra e addormentarsi provoca meno stress per alcuni organi chiave e può aiutare la digestione e il flusso sanguigno, favorendo i movimenti intestinali, sottolinea la pubblicazione britannica Metro. 

Ma il lato sinistro non è per tutti. La Sleep Foundation afferma che le persone con problemi cardiaci «potrebbero provare disagio sul lato sinistro e preferiscono invece dormire sul lato destro». E dormire di lato non è sempre un toccasana, nemmeno a sinistra. Può peggiorare il dolore alle spalle e forse approfondire leggermente le rughe del viso. 

Il risultato: sdraiati a sinistra, ma solo se lo trovi comodo. Per la maggior parte delle persone, il miglior risultato è dormire bene la notte, qualunque sia la posizione in cui si trovano.

Dagotraduzione da The Atlantic il 27 gennaio 2022.

Alle 3 del mattino mi sveglio di soprassalto. La stanza è buia e immobile. Prendo il telefono e leggo i risultati sportivi e Twitter. Ancora sveglio. Un medico senza volto mi sussurra nella mente: per superare l'insonnia notturna, gli esperti dicono che dovresti alzarti dal letto... io mi alzo dal letto. Verso un bicchiere d'acqua e lo bevo. Torno a letto. Ancora sveglio. Forse conosci la sensazione. Come milioni di americani e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, soffro dei cosiddetti risvegli a metà del sonno che possono tenermi sveglio per ore.

Un giorno, stavo facendo ricerche sui miei problemi notturni quando ho scoperto un'industria artigianale di scrittori e hacker del sonno che affermano che il sonno è un incubo a causa della rivoluzione industriale, di tutte le cose che comportato. Saggi su The Guardian, CNN, The New York Times e The New York Times Magazine raccomandavano una soluzione preindustriale per l'irrequietezza chiamata "sonno segmentato". Nell'Europa premoderna, e forse secoli prima, le persone andavano regolarmente a dormire al calar della notte e si svegliavano intorno a mezzanotte, solo per tornare a dormire poche ore dopo, fino al mattino. Dormivano un po' come me, ma erano Zen a riguardo. Poi, hanno detto, è arrivata la modernità e ha rovinato tutto facendo pressioni su tutti perché dormissero insieme.

La romanticizzazione del sonno preindustriale mi affascinava. Si è anche inserito in un modello popolare dell'analisi di Internet contemporanea: se vivi un momento spiacevole, prima incolpa il capitalismo moderno. Così ho contattato Roger Ekirch, lo storico il cui lavoro ha aperto il campo del sonno segmentato più di 20 anni fa. 

Negli anni '80, Ekirch stava ricercando un libro sulla notte prima della rivoluzione industriale. Un giorno a Londra, frugando nei registri pubblici, si imbatté in riferimenti al "primo sonno" e al "secondo sonno" in un rapporto sul crimine del 1600. Non aveva mai visto le frasi prima. Quando ha ampliato la sua ricerca, ha trovato menzioni di primo sonno in italiano, francese (premier sommeil) e persino latino (primo somno); ha trovato documentazione in Africa, Medio Oriente, Asia meridionale e America Latina.

Quando il sonno è stato diviso in un'opera teatrale in due atti, le persone erano creative su come trascorrere l'intervallo. Non hanno avuto conversazioni ansiose con dottori immaginari; in realtà hanno fatto qualcosa. Durante questo dorveille, o "sonno sveglio", la gente si alzava per fare pipì, stendersi accanto al fuoco, fare sesso o pregare. Riflettevano sui loro sogni e si mescolavano al regno spirituale, sia divino che diabolico. Negli anni Cinquanta del Cinquecento, Martin Lutero scrisse delle sue strategie per allontanare il diavolo: «Quasi ogni notte quando mi sveglio... lo scaccio all'istante con una scoreggia». 

Gli scrittori del sonno di oggi spesso utilizzano la ricerca di Ekirch per suggerire che il sonno segmentato (o, come lo chiama Ekirch, il sonno bifasico -a due fasi- ) è vecchio, e il sonno unico è nuovo, e quindi i dormienti di oggi stanno sbagliando. Ma non è tutta la storia, mi ha detto.

Il sonno preindustriale non era niente da romanticizzare. La morte ha perseguitato il nostro sonno per secoli. Il crimine a tarda notte era dilagante e la casa stessa era una trappola mortale, poiché la costruzione scadente lasciava le case vulnerabili al fuoco, ai tetti che perdevano, al caldo o al freddo terribili e ciò che Ekirch chiama "la tripletta della prima entomologia moderna: pulci, pidocchi e cimici". Quanto a quel romantico dorveille francese, era funzionalmente una seconda giornata lavorativa per molte donne, che si alzavano a mezzanotte per finire le faccende domestiche. E gli antichi soporiferi, come foglie velenose e vari intrugli di oppiacei, avevano all'incirca le stesse probabilità di ucciderti quanto di indurre la REM.

A partire dal 1700, la rivoluzione industriale - la sua luce, la sua caffeina, i suoi orologi e, soprattutto, i suoi orari di lavoro - ha preso il sonno bifasico dell'Europa tra le sue braccia pelose e ha schiacciato le due fasi insieme. Un'economia in crescita ha fatto della produttività una virtù e ha instillato "un crescente senso di coscienza del tempo" in Occidente, mi ha detto Ekirch. Verso la metà del 1800, i movimenti "Early Rising" erano decollati in Inghilterra e in America. Le nuove luci artificiali ritardavano l'ora di andare a dormire, mentre i nuovi orari di fabbrica richiedevano il risveglio precoce. Il mondo illuminato ha alterato anche i nostri orologi interni. «Ogni volta che accendiamo una luce, inavvertitamente stiamo assumendo un farmaco che influisce sul modo in cui dormiremo», ha detto Charles Czeisler, uno scienziato del sonno di Harvard. Quando uno studio degli anni '90 presso il National Institute of Mental Health ha privato della luce di notte una coorte di soggetti maschi, il loro sonno è diventato segmentato dopo poche settimane.

Tutto questo fa sembrare che il sonno segmentato sia un'abitudine naturale dell'umanità e che la rivoluzione industriale e il capitalismo moderno abbiano spogliato il nostro riposo perfetto. 

Ma gli esseri umani non hanno mai avuto un metodo universale di sonno. Uno studio del 2015 sulle società di cacciatori-raccoglitori in Tanzania, Namibia e Bolivia ha rilevato che la maggior parte dei raccoglitori si è goduta un lungo sonno. Due anni dopo, un altro studio ha scoperto che una società rurale del Madagascar praticava il sonno segmentato. Due anni dopo, uno studio ha scoperto che i residenti indigeni di Tanna, nel Pacifico meridionale, avevano in gran parte un sonno ininterrotto.

Anche nell'Europa preindustriale, il sonno conteneva moltitudini. Esaminando i diari di scrittori europei come Samuel Pepys e James Boswell, Ekirch ha trovato diverse allusioni al sonno unificato. Riassumendo questa complicata letteratura, mi ha detto che "i modelli di sonno nelle culture non occidentali sembrano essere stati molto più diversi" di quelli in Europa, ma che erano davvero diversi ovunque. 

Non ci sono prove che il sonno sia stato segmentato universalmente e ci sono anche poche prove che il sonno segmentato sia migliore. Una meta-analisi del 2021 di studi sui programmi del sonno bifasico ha rilevato che i soggetti con sonno segmentato in realtà riportavano "una qualità del sonno inferiore ... e trascorrevano più tempo in fasi del sonno più leggere". Un ragionevole presupposto è che il sonno bifasico è come il foraggiamento anarchico: entrambi avrebbero potuto servire bene alcune popolazioni antiche a volte, ma nessuno dei due offre una chiara soluzione ai problemi moderni.

Ho posto a Ekirch questa domanda: in quanto storico più associato al sonno bifasico, la sua ricerca lo aveva incoraggiato, un coniuge o un amico, a diventare un dormiente bifasico? «Niente affatto», disse. «In nessun momento nella storia le condizioni per il sonno umano sono state migliori di oggi». Rispetto al 99 percento dei nostri antichi antenati, abbiamo letti migliori, coperte migliori, case migliori e meno parassiti notturni. Se lo scopo del sonno è il benessere mentale e fisico, «ci sono ottime ragioni per credere che il sonno ininterrotto durante la notte raggiunga meglio questo risultato», mi ha detto Ekirch.

Il risultato della storia preindustriale e postindustriale del sonno è un messaggio semplice, breve e coerente: il sonno è adattabile, ma migliora con la routine. Trucchi diversi funzionano per tribù diverse, ma alla fine siamo una specie diversa unita da un ritmo circadiano comune che brama la coerenza. «Il sonno è molto flessibile, quando guardi in modo interculturale», afferma Dorothy Bruck, della Sleep Health Foundation australiana. «Al tuo corpo piace davvero la routine. Trova ciò che funziona per te e mantieni quella routine in corso». 

Ho trascorso innumerevoli ore ossessionata dal mio sonno, monitorando la qualità del mio sonno su dispositivi sofisticati e leggendo (e leggendo e leggendo) cose che non riesco a fare bene. L'ottimizzazione del sonno può ritorcersi contro creando una pressione momentanea per risolvere il problema della veglia come se si stesse cercando di risolvere un cubo di Rubik contro il tempo. Come ogni insonne sa, "cercare" di addormentarsi è un paradosso controproducente. L'insonnia è una bestia che si nutre della propria ansia autogenerata.

Quando ho contattato Ekirch, dopo una brutta notte di riposo, ho sperato che lo storico potesse avere un consiglio pratico. Non ce l’aveva. La storia non è un libro di auto-aiuto. Ma ha le sue strane comodità e la nostra corrispondenza è stata di grande aiuto in un altro modo. 

Ekirch mi ha detto di aver sentito da molte persone che semplicemente conoscere la storia del sonno segmentato è un sollievo. «Fortunatamente, ci sono crescenti testimonianze dal Nord America, dall'Europa occidentale e dall'Australia che la conoscenza di questo modello ha effettivamente contribuito ad alleviare l'ansia, consentendo ad alcune persone di riaddormentarsi più facilmente», ha detto. Piuttosto che vedere l'eredità del riposo premoderno come un manuale operativo, lo vedo come un balsamo. I miei risvegli alle 3 del mattino non sono un disturbo innaturale, ma un'eco ancestrale. Forse è qualcosa da dire a me stesso nel cuore della notte, invece di combattere il dottore del sonno nella mia testa: andrà tutto bene. Siamo stati qui prima. 

·        I Mal di Testa.

Mal di testa frequente: come prendere i farmaci, quali esami fare e i centri di cura. Se il mal di testa si presenta spesso, è necessario rivolgersi a un medico specialista, un neurologo. I centri a cui rivolgersi, i farmaci più adatti, gli esami da fare e i sintomi da non sottovalutare. LAURA SALONIA su IOdonna.it 6 Ottobre 2022. 

Con il termine di mal di testa o cefalea si indica in modo generico un dolore al capo di qualsiasi tipo e natura. Può dipendere da cause diverse, si può manifestare occasionalmente, oppure è molto frequente e invalidante tanto da compromettere le capacità lavorative, la vita familiare e sociale. «Se la cefalea è il sintomo di altre malattie sottostanti, come l’ipertensione arteriosa, la sinusite, diverse patologie endocraniche come le neoplasie, le malformazioni vascolari, la meningite è detta cefalea secondaria. Quando invece non ha altre cause evidenziabili con la TAC o la RMN, ma si manifesta esclusivamente con il dolore, viene chiamata cefalea primaria», spiega il Dottor Vincenzo Tullo, Neurologo  e Responsabile dell’Ambulatorio sulle Cefalee di Humanitas 

Mal di testa: la cefalea tensiva

Le cefalee primarie sono molto più frequenti rispetto alle cefalee secondarie e sono prevalentemente e in ordine di frequenza la cefalea tensiva, l’emicrania e la cefalea a grappolo. «La cefalea di tipo tensivo è la forma più comune (circa 1 persona su 3 ne soffre almeno una volta al mese), è più frequente dell’emicrania ma è meno invalidante. Il dolore è diffuso a tutto il capo, si irradia spesso in regione occipito nucale ed è di tipo gravativo-costrittivo (non pulsante). I fattori scatenanti sono la tensione nervosa, lo stress protratto, le posture scorrette, la carenza di sonno e le variazioni climatiche. L’intensità è lieve o media e l’attacco può durare da 30 minuti a 7 giorni», precisa l’esperto.

L’emicrania, la più invalidante

«L’emicrania è la cefalea primaria più nota e più invalidante: ne soffre più di una persona su 10, in 1/3 dei casi fin dall’infanzia. Il dolore di intensità severa si associa ad altri disturbi quali la nausea, il vomito, l’intolleranza a luce, suoni e odori. Le crisi, spesso unilaterali, hanno una durata se non trattate tra le 4 e le 72 ore e peggiorano con l’attività fisica di routine come salire le scale o tossire», spiega il Dottor Vincenzo Tullo.

La cefalea a grappolo, meno frequente

«La cefalea a grappolo è una cefalea poco frequente che si caratterizza per il raggrupparsi delle crisi in determinati periodi dell’anno ed è più frequente nei maschi. Il dolore è molto intenso, pulsante-urente, della durata di 15-180 minuti, ricorrente a crisi ravvicinate (grappolo di attacchi) da 1 ogni 2 giorni a 8 al giorno, in sede orbitaria unilaterale. Si associa a congestione oculare, ostruzione nasale o rinorrea, abbassamento della palpebra, guancia e fronte rosse e sudate».

Mal di testa, le cure che funzionano: cosa prendere e come

Spesso quando viene un attacco di mal di testa si prende un analgesico qualunque, quello che si ha in casa. Ma se gli attacchi sono frequenti e dolorosi, è bene parlarne con il medico e chiedere la prescrizione di farmaci specifici che agiscano in fretta e a lungo. «La terapia sintomatica dell’emicrania prevede come farmaci di prima scelta i triptani che agiscono sui recettori della serotonina e inducono una vasocostrizione delle arterie intracraniche. I triptani sono generalmente efficaci sia sul dolore che sui sintomi associati e quindi non richiedono l’associazione con i farmaci anti-vomito. Se una dose di triptano non è sufficiente si può assume una seconda dose dopo qualche ora oppure si può aggiungere un analgesico FANS (antinfiammatori non steroidei) tipo ibuprofene, naprossene, acido acetil salicilico, nimesulide. I FANS sono indicati nelle crisi di intensità lieve-moderata o quando i triptani risultano inefficaci», consiglia il Dottor Tullo.

Se compare anche nausea o vomito

«Se la nausea e il vomito persistono si può assumere un antiemetico come la metoclopramide o il domperidone che, oltre a prevenire il vomito, può accelerare lo svuotamento gastrico. favorendo l’assorbimento dell’analgesico», precisa l’esperto.

L’analgesico agisce meglio se si prende subito

L’analgesico è tanto più efficace, sul dolore e sui sintomi associati, quanto più precocemente viene assunto. È importante non superare il numero massimo di 10-12 analgesici in un mese per evitare l’instaurarsi di un effetto rebound con peggioramento e cronicizzazione della cefalea, oltre che per ridurre il rischio di effetti collaterali.

Mal di testa: quando rivolgersi al medico o al Pronto Soccorso

Il mal di testa non va sottovalutato. È necessario recarsi dal proprio medico o al pronto soccorso più vicino quando:

1) si manifesta in maniera improvvisa e violenta, molto più intenso di qualsiasi altro mal di testa avuto in precedenza

2) non scompare, anzi si aggrava con il passare del tempo, nonostante l’assunzione di antidolorifici

3) si presenta in seguito a un trauma cranico

4) se si manifestano sintomi neurologici: disturbi visivi (vista offuscata), difficoltà nell’eloquio, debolezza agli arti di metà del corpo

5) se la frequenza e la durata degli attacchi è improvvisamente e significativamente aumentata negli ultimi tempi

6) se il dolore, anche se di lieve entità, si associa alla presenza di febbre molto alta

7) se la cefalea è persistente in gravidanza

Mal di testa: l’importanza della visita neurologica

Una normale visita medica è, nella maggioranza dei casi, il momento in cui si può diagnosticare e trattare il mal di testa. È attraverso l’anamnesi che si può riconoscere il tipo di cefalea, e scoprire se si tratta di una cefalea primaria, e quindi patologia a sé, o secondaria. Compito del neurologo è di individuare i fattori che scatenano gli attacchi, consigliare precauzioni e identificare la terapia più adeguata. E richiedere altri esami, come la Risonanza Magnetica encefalica, la TAC al cranio, l’elettrocardiogramma, l’elettroencefalogramma, la radiografia al cranio, gli esami di laboratorio, la polisonnografia o altro.

Gli esami utili per chi soffre di mal di testa

Quando ci si rivolge a un centro di cura per le cefalee, lo specialista può prescrivere alcuni esami clinici. Ecco quali sono i più comuni.

Radiografia al cranio

La radiografia permette di visualizzare le componenti dure della scatola cranica. Il paziente viene fatto appoggiare a una parete dietro la quale è posizionata una lastra, sulla quale si impressionano i raggi X. La procedura prevede che il paziente sia in piedi.

L’esame può essere utile per determinare un danno sospetto all’osso, la presenza di alcuni tumori, o una più semplice sinusite: il mal di testa potrebbe derivare da una di queste patologie.

Elettroencefalogramma

Tra gli esami diagnostici, l’elettroencefalogramma (EEG) misura l’attività elettrica cerebrale attraverso l’utilizzo di alcuni elettrodi posizionati sul cuoio capelluto, e la riproduce su uno schermo sotto forma di una serie di onde.

L’esame non è invasivo o doloroso: il paziente viene fatto accomodare su una poltrona o lettino, e si applicano circa venti elettrodi, ognuno dei quali adibito alla registrazione di informazioni di una certa area del cervello.

L’EEG fornisce informazioni non solo su attività elettriche anomale, ma anche sulla loro localizzazione. È indicato nelle brevi crisi di cefalea, in caso di alterazioni della coscienza, di crisi epilettiche, di deficit neurologici focali e di emicrania basilare.

Risonanza magnetica

La risonanza magnetica nucleare (RMN) si basa sull’applicazione di un campo magnetico di intensità elevata e onde di radiofrequenza alla parte del corpo da esaminare (in caso di mal di testa, la scatola cranica).

Il paziente viene fatto sdraiare su un lettino, che entrerà nel tubo del macchinario; può richiedere la somministrazione in vena di un mezzo di contrasto e necessita dell’immobilità del paziente per tutta la durata dell’esame.

La RMN all’encefalo può servire in caso di cefalee con elementi atipici, deficit neurologici a insorgenza improvvisa, demenze, tumori primitivi o metastasi, patologie demielinizzanti come la sclerosi multipla o patologie infettive tipo encefalite o meningite.

La RMN non è per tutti: a causa del campo magnetico, i portatori di pacemaker o di altri dispositivi ad attivazione magnetica non possono sottoporsi all’esame; in caso di dubbi sulla presenza nel corpo di parti metalliche (come punti di sutura, clip, protesi) è fondamentale che il paziente informi il personale medico.

La TAC

La TAC, sigla che sta per Tomografia Assiale Computerizzata, è un esame radiologico che utilizza i raggi X per osservare l’interno dell’organismo.

Il paziente viene fatto sdraiare su un lettino all’interno di un tubo aperto; è necessario che resti immobile per i minuti che richiede l’esame (circa 5).

La TAC produce delle scansioni del cervello, creando una mappa geografica che evidenzia le strutture presenti, ed è indicata nei casi di urgenza, come in seguito a emorragia cerebrale e trauma cranico. In genere, si ricorre alla TAC in caso di controindicazioni alla risonanza, come clips ferromagnetiche sui vasi, pace-maker cardiaco, claustrofobia.

Polisonnografia

La Polisonnografia è un esame diagnostico strumentale utilizzato per pazienti con disturbi del sonno, e spesso con cefalea notturna o del risveglio.

Questo esame rileva preziosi parametri nel sonno del paziente come il russare, l’ossigenazione del sangue, la frequenza cardiaca, i movimenti del corpo, i microrisvegli, la qualità del sonno.

Eco Color Doppler dei tronchi sovraortici

L’ECD – Eco Color Doppler è un esame non invasivo che permette il monitoraggio della circolazione arteriosa diretta verso il cervello attraverso le carotidi e le arterie vertebrali. È utile in caso di diagnosi delle malattie cerebrovascolari – tra le quali alcune cefalee.

Sostanzialmente si tratta di un’ecografia arricchita da valori visivi (Color) e acustici (Doppler), fondamentali per valutare i vasi e il flusso del sangue al loro interno. L’esecuzione dell’ecocolordoppler dei tronchi-sovraortici non presenta particolari controindicazioni.

Meningoencefalite, quali sono i campanelli d’allarme. L’infiammazione di meningi ed encefalo può essere dovuta a diversi agenti: l’individuazione di questi ultimi è importante ai fini della terapia. Confusione, cefalea, vomito e rigidità muscolare sono alcuni dei sintomi della patologia. Mariagiulia Porrello il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

La meningoencefalite è un processo infiammatorio del sistema nervoso che colpisce le meningi e l’encefalo. Le prime sono le tre membrane (dura madre, aracnoide e pia madre), di natura connettivale, che circondano e proteggono l’encefalo e il midollo spinale. L’encefalo è l’organo spugnoso che comprende cervello, cervelletto e tronco encefalico.

Della patologia ha parlato, alcuni mesi fa, l'ex ballerino di Amici Kledi Kadiu: l'artista ha vissuto in prima persona il dramma della malattia che aveva colpito il filgio appena nato.

Le cause della meningoencefalite

Diversi sono gli agenti eziologici della patologia. Quest’ultima può essere infatti causata sia da virus, come ad esempio l’herpes, uno dei più diffusi, e l’AIDS, sia da betteri, tra cui il meningococco e la brucella. Non solo. A dare il via alla malattia possono essere anche i criptococchi, cioè lieviti patogeni, le amebe, organismi unicellulari, il toxoplasma, un protozoo parassita, e gli elminti, vale a dire i vermi.

I sintomi della malattia

Dal momento che l’infiammazione interessa l’encefalo, la meningoencefalite provoca anomalie comportamentali, confusione mentale, sintomi neurologici come atassia, emiparesi, afasia, movimenti involontari e deficit dei nervi cranici. Un altro campanello d’allarme è l’alterazione dello stato di coscienza, che può essere lieve ma può degenerare in stati molto gravi fino ad arrivare al coma.

A questi si aggiungono i tipici sintomi meningei: cefalea, vomito e rigidità muscolare.

Diagnosi e cura

Il trattamento della malattia è strettamente connesso alla sua eziologia. La diagnosi inizia con la ricerca dell’agente infettante da effettuarsi tramite esami. A seconda del tipo di germe responsabile, la terapia cambia e viene declinata per contrastare ciascuno di essi.

Purtroppo esistono forme di meningoencefaliti per le quali nella maggior parte dei casi non si riesce nemmeno ad iniziare una terapia a causa del decorso brevissimo della malattia. È il caso della Meningoencefalite amebica primaria: un’infezione rara, acuta e fulminante dovuta alla Naegleria fowleri. Il protozoo ama le acque dolci e calde e può penetrare nel cervello attraverso il naso. I sintomi iniziano entro 1-2 settimane dall'esposizione, a volte con alterazione dell'olfatto e del gusto. Segue poi una meningoencefalite fulminante, caratterizzata da cefalea, meningismo e alterazione dello stato mentale, che progredisce fino al decesso entro 10 giorni, di solito per erniazione cerebrale. Solo pochi sopravvivono.

Meno grave è invece la “meningoencefalite da zecche” (Tbe: Tick Borne Encephalitis), o meningoencefalite primaverile-estiva. La malattia è causata da un arborvirus, ma nella gran parte dei casi, dopo il morso dell'animale infetto, si manifesta un’infezione asintomatica o paucisintomatica, che può passare inosservata. A volte si ha invece una prima fase con sintomi simil influenzali come febbre alta, mal di testa, mal di gola, stanchezza, dolori muscolari e articolari per 2-4 giorni. Ma in genere poi non ci sono ulteriori conseguenze. In pochi casi viceversa, dopo un intervallo senza disturbi di 8-20 giorni, inizia una seconda fase caratterizzata da disturbi del sistema nervoso centrale.

Nei bambini e nei soggetti più giovani la Tbe mostra generalmente un decorso più mite.

Esiste, per prevenire la malattia, il vaccino contro la Tbe.

I tanti «mal di testa» e gli infiniti rimedi. Il professor Covelli: «Servono diagnosi motivate e corrette». Nicola Simonetti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Settembre 2022.

Uno, nessuno, centomila mal di testa, curati con altrettanti “rimedi”, spesso controproducenti o di temporaneo sollievo e, per questo, non risolventi poiché – dice il prof. Vito Covelli, professore di ruolo di Neurologia e Visiting Research Professor, Psichopharmacology,Georgetown Institute for the Neuroscience, Washington, D.C. USA - il presunto toccasana finisce per oscurare il complesso meccanismo che sta all’origine del disturbo.

Cefalee, emicrania, cefalea di tipo tensivo, a grappolo e tante altre cui solo la fantasia è limite. Un rompicapo estenuante, un disturbo complesso che interessa oltre 54 miliardi di persone nel mondo.

Il termine cefalea si riferisce ad un qualsiasi dolore alla testa e/o al collo. L’emicrania, invece, è una patologia del sistema nervoso centrale che colpisce i neurotrasmettitori e i circuiti del dolore.

I disturbi sono così comuni che è stata creata una giornata mondiale dedicata alla cefalea, il 19 Maggio.

Mal di testa di genere:

L'emicrania da sola è la seconda tra le cause di disabilità e la prima tra le donne di età inferiore ai 50 anni. Solo in Europa, oltre una persona su dieci convive con questa condizione. Globalmente, l’emicrania è tre/quattro volte più frequente nelle donne rispetto agli uomini (su 15 milioni di persone che hanno manifestato almeno un episodio di emicrania nella loro vita, oltre 11 milioni sono donne). E, per questo, ben vengano ulteriori studi da inquadrare nella medicina di genere.

Il mal di testa può essere coniugato, diagnosticato, curato al femminile ed al maschile. Non esiste l’unisex.

L'epidemiologia di cefalea ed emicrania è una disciplina relativamente giovane e immatura ma oltre la metà della popolazione mondiale ne soffre una o più volte l'anno e, in gran parte dei casi, provoca disabilità in gran parte di chi ne soffre.

Per questo occorre incrementare gli sforzi preventivi e terapeutici tenendo presenti le connessioni che ogni mal di testa ha con le strutture cerebrali, loro prodotti (endorfine, interleukina, ecc) e sistema immunitario ed endocrino. Uno scoscendere di fattori che, l’uno dopo l’altro o in contemporanea generano alterazione.

Fattore clima e sonno:

Circa il 50% dei pazienti emicranici può riferire un nesso tra cambiamento della pressione atmosferica e insorgenza di cefalea. Ogni stagione è buona per giustificarne la comparsa ed il suo reiterarsi. La primavera e l’estate possono essere periodi stagionali dell’anno in cui l’emicrania potrebbe subire un peggioramento.

Ma l’autunno non è esente da colpa. Le incostanze climatiche, l’alternarsi caldo/freddo, le piogge, i temporali, gli stessi tuono/lampo, l’umidità possono scatenare la crisi.

Non per niente, la medicina cinese accusa l’umidità ambientale che provoca un rallentamento dei fluidi, un immobilismo che crea squilibrio tra le quote di yin e yang del corpo con conseguente cefalea a tipica localizzazione diffusa e di lunga durata. Si può anche ipotizzare l’importanza dello sfasamento dell’asse milza-pancreas e del fegato, con conseguente cefalea associata a nausea.

Anche le alterazioni del sonno stress-correlate – ha accertato Covelli (International Journal of Medicine, 1992) – possono influenzare uno scombussolamento funzionale a carico di ipotalamo-ipofisi-surrene ed essere responsabile di una cefalea.

L'epidemiologia di cefalea ed emicrania è una disciplina relativamente giovane e immatura ma oltre la metà della popolazione mondiale ne soffre una o più volte l'anno e, in gran parte dei casi, provoca disabilità in gran parte di chi ne soffre.

Se quanti soffrono di cefalea, emicrania, cefalea di tipo tensivo, persistente si prendessero per mano, coprirebbero la linea dell’ equatore (40.076 km). Se vi si aggiungessimo quanti soffrono nel silenzio, convinti, spesso, che non c’è terapia, o che sono colpevolmente ignorati, essi coprirebbero altri 20.038 km.

Esiste un bisogno terapeutico non ancora soddisfatto tra i pazienti che vivono il dolore e la disabilità causati dalle emicranie

Un mal di testa è un campanello d'allarme e segnala qualcosa che ci sta dando fastidio, che si è sregolato, che ha richiamato in causa fattori familiari, psichici, ormonali, endocrini, psichici, psichiatrici, di vita. Necessario, prima che ci si aggravi e insorgano complicanze, andare al nocciolo del disturbo,

Quei mali complessi:

La descrizione non potrà mai dire, con esattezza, quello che significa, per un soggetto, l’attesa del dolore che si ripresenta in giorni e momenti abituali o capotici, la cosiddetta “aura” , il “mo viene” di un’emicrania (lampi di luce o luci zigzaganti, suoni, formicolii, ecc), l’appuntamento con il dolore “a grappolo”, la lama di coltello fissa sotto un occhio e in altra parte del cranio, quel malore che rende nemici la luce, il rumore (persino la melodia più lieve), qualsiasi altro stimolo, il malefico sentir battere dentro o il pesante dolore muto, la voglia di sbattere la testa contro qualcosa.

Qualsiasi sintomo, una “figura”, ogni malessere, un “destino” amaro che, però, può appellarsi alla scienza ed attenuarsi, scomparire. Basterà centrare gli addendi e la loro somma, valutarli, personalizzarli e diagnosticare, curare.

Ogni ritardo può essere controproducente, ogni terapia sintomatica può silenziare i segnali preziosi per la corretta diagnosi.

Bisogna diagnosticare la “logica” di ogni mal di testa e curarne lo specifico sistema alterato. Un antidolorifico è una “pezza” impropria e malcucita che primo o poi, strapperà il tessuto base e genererà – questa volta sì – la supposta incurabilità.

Tra i miei pazienti non solo italiani (ce ne sono tedeschi, svizzeri, belgi, ecc.) – dice il prof. Covelli – sono molti che mi confidano tale errata convinzione e mi consultano solo per ricevere un farmaco che consenta un armistizio con il dolore. Se ne ricrederanno dopo che, sulla base dello studio dell’eziologia del disturbo e consequenziale cura (psico-farmacoterapia, ausilio psicologico, modelli di vita, alimentazione, ecc.), constateranno, la massima parte delle volte, scomparsa o netta attenuazione.

Il volume curato da Covelli “Cervello e immunità” (Mediserve, 1998) ha fatto un valido “assemblaggio” delle numerose ricerche ed è stato precorritore di questa “svolta” scientifica che ha consentito gli ulteriori studi l’interpretazione scientifico-pratica di questi disturbi e la loro prevenzione/profilassi, la terapia in fase acuta (ma sempre e meglio – raccomanda Covelli – in fase iniziale), intervenendo sugli stessi meccanismi generatori del succedersi di fattori che, sommati, creano il dolore e non solo questo poiché mal di testa significa anche angoscia, ansia, mal di vivere fino al suicidio (tale è definita la “cefalea a grappolo”). Oggi abbiamo rimedi specifici che puntano sul riequilibrio di alterazioni anatomiche, funzionali, ambientali, familiari, ecc.

Esiste un bisogno terapeutico non ancora soddisfatto tra i pazienti che vivono il dolore e la disabilità causati da cefalee-emicranie.

Il medico di famiglia è preziosa sentinella per l’inquadramento della patologia; lo specialista che conosce, nello specifico, il problema può essere di prezioso aiuto per inquadrare esattamente la natura e l’essenza della patologia in atto.

Cefalee ed emicrania sono malattie sociali che generano disabilità, invalidità e spesa economica: la sola emicrania costa, all’Europa circa 27 miliardi di euro/anno e, all’ Italia, 7,6 miliardi di euro.

Purtroppo – rileva il prof. Covelli – pubblicità spesso fuorvianti e mass media imprecisi creano confusione, raccomandano terapie che non possono, in maniera alcuna, essere generalizzate e, soprattutto, utilizzate senza una pregressa diagnosi il più possibile motivata e corretta.

Nelle cerimonie di fidanzamento della Bari antica, la futura suocera regalava alla nubenda, un “fazzoletto alla turca” di lino bianco che, nella malaugurata ipotesi di un mal di tesa, avrebbe dovuto essere, ripiegato in forma triangolare, legato intorno al capo (all’altezza delle tempie sulle quali bisognava porre 1-2 fette di limone… a volte passava. Si potrebbe parlare ipotizza Covelli - di male e rimedio psicogeni.

CEFALEA E SESSO

Il mal di testa è la “scusa” più invocata per giustificare il no al sesso coniugale (specie da parte femminile; l’uomo si sottrae soprattutto perché prende a pretesto “stanchezza per il lavoro”) e, d’altra parte, il disturbo cefalea/emicrania mal si sposerebbe con un sesso partecipato e, nella realtà, solo nel 25% dei casi di rifiuto, la motivazione cefalgica è effettiva.

In alcuni casi – fatto assolutamente individuale e di circostanza - il sesso può bloccare un’emicrania in atto perché le endorfine rilasciate durante l’amplesso e l’orgasmo sono antidolorifici naturali. Ma non se ne adotti la pratica: può tradire.

Ma il sesso, altre volte, può, di per se stesso, generare, in alcuni soggetti, mal di testa detto “primario, associato all’attività sessuale” (dolore sordo bilaterale, si esacerba con l’orgasmo e può permanere anche per qualche ora).

Alcuni farmaci possono bloccare/ridurre l’interesse sessuale e, nell’uomo, l’erezione e la riduzione della motilità degli spermatozoi con conseguente sterilità temporanea o definitiva.

BENVENUTA CEFALEA:

Una ricerca del prof. Covelli, pubblicata sulla rivista scientifica “Intrernational Journal of Neuroscience” (1992) e ripresa da Aa. di tutto il mondo che continuano gli studi sulla scia, ha rilevato che i pazienti con emicrania, mostrano una prevalenza significativamente minore di neoplasie maligne rispetto a coetanei ed a quelli del gruppo di controllo. Diversi fattori biochimici e/o psicologici potrebbero rappresentare la presenza, nel loro organismo, di un fattore che li protegge dallo sviluppo di una neoplasia.

·        La Gastrite.

Gastrite: cosa mangiare per tenere a bada mal di stomaco, bruciori da stress e crampi. CHIARA AMATI su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

L’apparato digerente è il nostro secondo cervello. In caso di forte stress, manda segnali precisi: bruciori, crampi, dolori in generale. Francesca Beretta, biologa nutrizionista, spiega cosa e come mangiare per non favorire l’insorgenza della gastrite o, casomai già presente, lenirla e non acutizzarla

L’apparato digerente, il punto debole di molte persone

I cambi di stagione sono una transizione faticosa per il nostro organismo che si trova a doversi riprogrammare per raggiungere «l’omeostasi», e cioè un nuovo equilibrio. Il clima non più così netto e assai mutevole — con una fine di ottobre calda quanto i primi giorni di settembre — e il cambio dell’ora non agevolano la situazione. Per aiutare il nostro apparato digerente — il punto debole di molte persone, quello che più di altri accusa i cambiamenti — e non sovraccaricarlo è utile tenere a mente la madre di tutte le riflessioni: «Meno momenti digestivi richiede un pasto e più sarà semplice digerirlo», spiega Francesca Beretta, biologa nutrizionista scientifica.

In concreto: in periodi di forte stress, dato da fattori diversi — il cambio delle abitudini, uno stato d’ansia da preoccupazioni di qualsivoglia natura (familiari, professionali, economiche, di salute…), derive psicofisiche da post pandemia e via discorrendo — è strategico trovare un alleato nell’alimentazione.

«Prima ancora di pensare a cosa mettere nel piatto, sarebbe però opportuno capire quanti alimenti combinare», prosegue l’esperta. Che precisa: «Non più di due. Proprio così. L’autunno è la stagione dell’anno in cui si riacutizzano disagi latenti: tra i più frequenti la gastrite. Per circoscrivere il fastidio partendo dalla tavola, è bene dunque cucinare due alimenti alla volta. Potrebbe essere del merluzzo fresco con un’insalata: la valeriana si presta a meraviglia. Poi suggerisco di fare il pieno di vitamine, sali minerali e fibre. I cibi più elaborati li lasceremo, casomai, a momenti di maggiore rilassatezza, quando l’apparato digerente, meno sollecitato, è in grado di assimilare meglio».

Gastrite: che cos’è e come si manifesta

Quando lo stress è superiore a quello che il nostro corpo può sopportare, somatizziamo riversando stanchezza, turbamenti e preoccupazioni su alcuni organi. I disturbi maggiori, quelli accusati più frequentemente da un gran numero di italiani, sono a carico della cervicale e dell’apparato digerente.

«In particolare la gastrite, di cui soffrono in moltissimi, è un’infiammazione della mucosa dello stomaco. Può essere generata dallo stress, come sin qui detto. E acutizzata da un’eccessiva assunzione di caffeina e altre sostanze irritanti. Il caffè al distributore automatico a più riprese nella giornata, ad esempio, non agevola», argomenta la dottoressa Beretta.

La mucosa dello stomaco è fatta di uno strato protettivo che impedisce ai succhi gastrici — costituiti prevalentemente da un potente acido, il cloridrico — di attaccare l’organo stesso. In condizioni di corretto funzionamento i succhi gastrici sono funzionali alla digestione dal momento che degradano il cibo.

«In presenza di forte gastrite — spiega la nutrizionista — gli acidi corrodono lo stomaco. In fase acuta i sintomi possono essere anche molto violenti e dolorosi. Tra i miei pazienti sono tante le persone che, in seguito a questo episodio, si sono recate al pronto soccorso temendo un infarto. In questi casi gravi si avvertono un’oppressione e una costrizione alla base dello sterno, un forte malessere, fitte e dolori intercostali che possono irradiarsi. La suggestione data dal dolore e dal momento concitato fa il resto. Dinanzi a tutto ciò, anche il medico ha bisogno di analisi del sangue ed elettrocardiogramma per scongiurare qualche cosa di più serio. Cito il fatto perché questi episodi capitano, in genere, nel cuore della notte: la posizione coricata favorisce la risalita dei succhi gastrici. Accade allora di avvertire in bocca del cattivo gusto acido e dell’amaro».

Un altro sintomo meno violento, ma che indirizza verso la diagnosi di gastrite è la tosse secca, soprattutto al mattino. I succhi gastrici che risalgono lungo la gola la infiammano causando la tosse. «In questi casi quasi sempre se ne accorge l’otorino o il dentista che, con grande sorpresa del paziente, nota infiammazione alla gola e alle corde vocali. I sintomi più comuni sono ovviamente bruciore di stomaco, cattiva digestione, nausea e crampi, questi ultimi non sempre rilevati. Il che rende più difficile l’identificazione della patologia».

Una corretta diagnosi può farla il medico di base che, una volta individuato il problema, in fase acuta prescriverà gastroprotettori. La guarigione, così come la prevenzione, avviene invece tutti i giorni a tavola. In questo caso il migliore alleato è il biologo nutrizionista: sarà lui a indirizzarvi al meglio in base al vostro stile di vita. Una raccomandazione importante: quando si è stressati, si tende a mangiar male e a prediligere i comfort food che gratificano.

«In presenza anche solo di uno dei sintomi descritti sopra, il cibo di buona qualità è più che mai preferibile, oltre a essere meglio di qualunque farmaco. La dieta qui di seguito, tratta dal mio libro Giù la pancia…su il morale! - In tre mesi una vita da sogno. La dieta mediterranea di coppia (giulapancia.it), consente di fronteggiare questi forti malesseri».

Gastrite: le regole da osservare a tavola

Nei forti periodi di stress, il nostro stomaco diventa quindi più sensibile. L’insorgenza di gastrite è soltanto una delle possibili conseguenze. Se già è presente, d’altra parte, può acutizzarsi. In un caso e nell’altro, spiega la dottoressa Beretta, è opportuno seguire alcune semplici indicazioni.

Regola numero uno: niente pranzi o cene pantagruelici. Molto meglio optare per piccoli pasti consumati di frequente. Regola numero due: niente condimenti elaborati, soprattutto prima di andare a dormire. Appesantiscono in situazioni «normali», figuriamoci in caso di disturbi all’apparato digerente. Regola numero tre: la sera si mangia presto o comunque dalle due alle tre ore prima di andare a dormire così da dare all’organismo il tempo di metabolizzare la cena.

E ancora, buona norma, ma questo sempre, sarebbe quella di limitare il consumo di grassi: rallentano la digestione e riducono il tono dello sfintere esofageo inferiore, favorendo il reflusso. Le proteine magre, da pesce e carne di pollo ad esempio, sono da prediligere così come la cottura al vapore e al cartoccio. Ogni pietanza, da masticare a lungo e lentamente, dovrebbe poi essere condita con un mix di erbe e aromi o, se si preferisce, delle spezie prestando attenzione a evitare quelle maggiormente irritanti: pepe, peperoncino, curry e noce moscate. Sì alle tisane, no invece agli alcolici. Tè e caffè andrebbero ridotti. Se proprio non se riesce a evitare il caffè, lo si limiti: una tazzina al giorno senza zucchero è più che sufficiente.

«Quando si dovesse eccedere con il cibo, bisognerebbe fare una camminata di 30-40 minuti a passo tranquillo: in questo modo si contrasta l’acidità e il bruciore di stomaco. L’attività fisica, da svolgere in maniera regolare evitando gli sforzi fisici con carichi eccessivamente pesanti, non dovrebbe essere intensa né praticata a breve distanza da un pasto importante. Ogni cosa a suo tempo. Infine il fumo è da bandire, così come cinture e abiti troppo stretti in vita.

Come regola generale, da ultimo, è utile prestare sempre attenzione a cibi contenenti lattosio, alcol, caffeina, spezie irritanti, evitare tutti i dolcificanti e non abusare dei legumi: contengono oligosaccaridi non digeribili».

Gastrite: cosa mangiare dalla colazione alla cena (spuntini inclusi)

Gastrite: in tanti ne soffrono. Non tutti sanno, però, che un regime alimentare studiato ad hoc, sempre dietro consulto di uno specialista, consente di prevenire e curare. Secondo la nutrizionista, un piano-tipo potrebbe consistere in una colazione da fare alle 7,30 del mattino. Una tazza di tè deteinato senza zucchero: potrebbe essere verde, nero oppure rosso. In alternativa una tisana, anch’essa senza zucchero, con due fette biscottate integrali o, se si preferisce, 40 g di pane integrale tostato o di segale, con un velo di miele o crema spalmabile di frutta secca al cento per cento: aiuta a sfiammare grazie ai grassi buoni in essa contenuti.

A metà mattina, tra le 10 e le 11, quindici mandorle, nocciole, noci, pinoli. Una mela cotta o una pera, sempre cotta: la cottura è una predigestione. 

Il pranzo per la settimana

Il pranzo, da lunedì a domenica, richiede una accortezza: quella di assumere almeno 100 g di verdura da scegliere tra quella proposta con, a rotazione, un cucchiaino di semi di lino/semi di Chia/semi di canapa/semi di sesamo. Contengono ottime proteine, fibre e vitamine. In caso di disturbi all’apparato digerente la verdura cotta è preferibile a quella cruda. Alla fine del pasto, ottimo sarebbe assumere un caffè di cicoria: favorisce la digestione, placa crampi e spasmi. Inoltre è ricco di polifenoli, inulina, flavonoidi e altri antiossidanti. Ha proprietà diuretiche e riduce il meteorismo. Infine, è ideale, anche come ritualità, nella sostituzione del caffè.

Lunedì: riso venere alla zucchine + cubetti di zucca al forno

Martedì: pollo ai ferri + asparagi con 1 uovo

Mercoledì: crema di cavolfiore alla curcuma + carote cotte

Giovedì: insalata di patate con tonno fresco + spinaci

Venerdì: biete + pasta di farina di ceci alle verdure alla crema di radicchio

Sabato: piselli + minestrone con legumi misti

Domenica: a piacere

Un consiglio in più: «In caso di gastrite, preparare i pasti a casa e portarli al lavoro in pratici tupperware è un’ottima soluzione. 

Nel pomeriggio lo spuntino, dalle 16 alle 17, prevede uno yogurt greco magro bianco o uno yogurt di soia + tisana/2 bicchieri di acqua. 

La cena per la settimana

Lunedì: fagiolini + filetti di gallinella/branzino/orata al cartoccio

Martedì: passato di verdure + lenticchie al profumo di rosmarino

Mercoledì: crema di broccoli +pollo marinato alla paprika dolce

Giovedì: melanzane + 2 uova strapazzate con spinaci e ceci

Venerdì: fagiolini + cotoletta di soia/roastbeef

Sabato: verza cotta + salmone selvaggio

Domenica: minestrone/vellutata di zucca + tacchino arrosto (senza pelle)

Se non piace una verdura, la si può sostituire con della valeriana o del minestrone senza pasta e con poche patate. La cottura dovrebbe essere al forno, alla griglia (senza bruciare), lessa, al vapore o al cartoccio. Niente microonde: genera radicali liberi.

Per condire in maniera salutare usate solo sale iodato, 1 cucchiaino di olio extravergine d’oliva al massimo e niente burro. Insaporite con un mix di prezzemolo, erba cipollina, olio di lino, olio di soia, olio di noci, curcuma: aumentano il gusto e sono ottimi antiossidanti. Se avete ancora fame, dopo cena potete concedervi un frutto o uno yogurt bianco di soia.

Gli alimenti da evitare

In caso di disturbi all’apparato digerente, gli alimenti da evitare sono: pomodori, peperoni e agrumi, dolci, biscotti, cioccolato, caramelle, merendine, burro, strutto e margarina, fritti, insaccati, affettati (come a esempio la mortadella), formaggi, alcolici e bibite.

·        La Flatulenza.

Da sanitainformazione.it l’1 Dicembre 2022.

Un vecchio studio dell’Università di Exeter, pubblicato sulla rivista Medicinal Chemistry Communicationsm, ha concluso che l’odore dei peti può avere inaspettati effetti benefici per la salute e potrebbe aiutare addirittura a prevenire il cancro, l’ictus, l’infarto e la demenza. Il solfuro di idrogeno è uno dei numerosi gas potenti e maleodoranti prodotti dai batteri mentre si scompone il cibo nell’intestino. È tossico in grandi dosi, ma in piccole quantità aiuta a proteggere le cellule e a combattere le malattie, secondo gli scienziati.

Un nuovo composto aiuta a produrre la giusta quantità di solfuro di idrogeno

Quando le cellule sono stressate dalla malattia, cercano di attirare gli enzimi per generare le proprie minuscole quantità di solfuro di idrogeno. Questo gas aiuta a preservare i mitocondri, le centraline energetiche delle cellule, che sono anche importanti regolatori dell’infiammazione. Alla luce di questi risultati i ricercatori hanno escogitato un nuovo composto chiamato AP39 per aiutare il corpo a produrre la giusta quantità di solfuro di idrogeno. Credono che questa sostanza possa aiutare a prevenire o invertire il danno mitocondriale, che è una strategia chiave nel trattamento di condizioni come ictus, insufficienza cardiaca, diabete, artrite, demenza e invecchiamento.

Il solfuro di idrogeno, lo stesso prodotto da un peto, controlla l’infiammazione

«Quando le cellule sono stressate dalla malattia, assorbono enzimi per generare quantità minime di idrogeno solforato», spiega Matt Whiteman della facoltà di medicina dell’Università di Exeter. «Questo mantiene i mitocondri in funzione e consente alle cellule di vivere. Se questo non accade – aggiunge – le cellule muoiono e perdono la capacità di regolare la sopravvivenza e controllare l’infiammazione. Abbiamo sfruttato questo processo naturale creando un composto, chiamato AP39, che rilascia lentamente quantità molto piccole di questo gas specificamente ai mitocondri», conclude. I primi risultati dei test condotti in laboratorio mostrano che può aiutare fino all’80% in più di mitocondri a sopravvivere a condizioni altamente distruttive come le malattie cardiovascolari.

Da proiezionidiborsa.it il 9 aprile 2022.

Nella vita di tutti i giorni esistono situazioni che rischiano di metterci in forte imbarazzo. Una su tutte è il meteorismo, ovvero l’accumulo di gas nel tubo digerente che ci porta a controllare difficilmente le scoregge. E se già questo può crearci disagio, la situazione potrebbe peggiorare quando si aggiunge la flatulenza. Ovvero il pessimo odore che segue il rumore. Ma niente paura. Se facciamo scoregge puzzolenti e maleodoranti, la soluzione al problema potrebbe arrivare dalla dieta. Oggi grazie agli esperti di ProiezionidiBorsa proveremo a capire gli alimenti che potrebbero ridurre la portata del problema. Ma soprattutto i cibi che dovremmo assolutamente evitare se non vogliamo peggiorare la situazione. 

I cibi che potrebbero ridurre la flatulenza

Molto spesso il cattivo odore delle scoregge deriva da una patologia fastidiosa e dolorosa: la sindrome del colon irritabile. Un problema che ha sintomi come dolori addominali, meteorismo e, appunto, flatulenza.

Per nostra fortuna esistono alcuni cibi particolarmente indicati che potrebbero ridurre i cattivi odori. Ovvero tutti quegli alimenti che diminuiscono la fermentazione. Tra la frutta abbiamo a disposizione prodotti come le banane, i mirtilli e moltissimi agrumi. Per quanto riguarda le verdure e gli ortaggi, meglio puntare su alimenti come i peperoni, la lattuga e le melanzane. 

Da non sottovalutare anche le proprietà della menta. Basti pensare che viene spesso consigliata proprio per la sindrome del colon irritabile e per problemi simili. 

Se facciamo scoregge puzzolenti e maleodoranti dovremmo inserire questi alimenti nella dieta e bandire i 5 cibi che le fanno puzzare ancora di più. 

Dopo aver scoperto cosa mangiare per ridurre i cattivi odori, è il momento di capire cosa dovremmo escludere in caso di flatulenza e colon irritabile. 

Il primo alimento da consumare con moderazione sono cavoli, cavolfiore e affini. La presenza di fibre rischia, infatti, di acuire il problema. Stop anche ad altri ortaggi tipici di questo periodo come fave e carciofi. 

Il terzo alimento da trattare con cautela sono frutti come le mele e le pere. Rientrano tra i cibi che favoriscono la fermentazione e pertanto dovremmo ridurne il consumo in caso di flatulenza.

Attenzione anche a latte e formaggi freschi. Se siamo intolleranti al lattosio o ai latticini potrebbero causare dolore, meteorismo e flatulenza. 

Meglio evitare anche fritture e simili. Non solo sono grassi e difficili da digerire, ma la presenza di anidride carbonica nei liquidi con cui prepariamo la pastella potrebbe anche peggiorare i sintomi. 

Le buone abitudini per ridurre la quantità di scoregge puzzolenti

La flatulenza si combatte non soltanto con la dieta ma anche adottando buone abitudini di comportamento. A tavola evitiamo di mangiare velocemente e mastichiamo bene i cibi. Aiuteremo l’organismo ad assorbirli meglio e probabilmente ridurremo il rischio di meteorismo e flatulenza. 

A questo aggiungiamo anche la giusta quantità di attività fisica. Una buona pratica che ci permetterà di tenere sotto controllo il peso e migliorare la salute generale del colon

·        La Pancetta.

Come buttare giù la pancia dopo i 50 anni. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

Questo inestetismo è comune, soprattutto nelle donne, anche in quelle che sono sempre state magre in gioventù. Il grasso addominale aumenta il rischio di infarti e tumori. I cibi da escludere e gli esercizi da fare

Perché è (quasi) inevitabile

Con il passare degli anni molte donne si ritrovano ad avere un girovita più abbondante. La classica «pancetta», può riguardare tutti ovviamente, sia maschi sia femmine, giovani e meno giovani. Tuttavia, dopo la mezza età e in concomitanza con la menopausa, l’accumulo di grasso addominale (nella zona sotto e intorno all’ombelico) è una caratteristica femminile che spesso coinvolge anche donne che in passato erano sempre state magra o ingrassavano soltanto su cosce e fianchi.

Perché il grasso addominale è «pericoloso»

Se avere la pancia è (quasi) il destino di tutte, il «fastidio» non deve essere trattato solo come un inestetismo, perché costituisce un importante fattore di rischio per gravi patologie, come la sindrome metabolica, una condizione complessa che a sua volta favorisce diverse malattie. Il grasso addominale che si sviluppa con la menopausa, inoltre, produce sostanze pro-infiammatorie, pro-tumorali e favorisce la comparsa dell’aterosclerosi (un inspessimento delle arterie tra le principali cause delle malattie cardiovascolari). «Un processo che, tra l’altro, tende a peggiorare, se non si corre subito ai ripari — spiega Elena Dogliotti, biologa nutrizionista, e supervisore scientifico per Fondazione Umberto Veronesi —. Ecco perché, caduta la protezione degli ormoni, la donna risulta più esposta al rischio di alcune malattie, in particolare quelle osteoarticolari (come l’osteoporosi) e quelle cardiovascolari (come l’ipertensione, l’ictus e l’infarto miocardico), arrivando quindi, dopo i 60 anni, a raggiungere un rischio pari a quello dei maschi».

Cosa non mangiare

Dopo la mezza età ingrassare è più facile, è vero, ma non è un imperativo. Occorre trovare un nuovo equilibrio non solo tra cibo ingerito e calorie consumate, ma badando maggiormente alla qualità degli alimenti e incrementando l’esercizio fisico. L’accumulo di grasso viscerale si contrasta con un’alimentazione mirata. Dato che il problema è aggravato dall’eccesso di alimenti ricchi di grassi, ma anche di zuccheri, bisognerà agire su questo fronte. E non si parla solo di dolci, ma anche dei carboidrati che compongono i primi piatti. Quindi come strumenti abbiamo la dieta ipocalorica classica (sullo schema della dieta mediterranea), con una riduzione importante di calorie introdotte, o la dieta chetogenica, basata sulla totale assenza di zuccheri-carboidrati. L’indicazione per un regime o per l’altro deve essere data dall’endocrinologo o dal nutrizionista, specie nel secondo caso per non incorrere in pericolosi errori (QUI i pro e contro della Keto Diet).

Consigli alimentari

«La quantità di carboidrati ha un ruolo fondamentale nella la dieta e deve rappresentare il 60% dell’energia totale introdotta», spiega Michela Barichella, docente di Scienza dell’alimentazione all’Università di Milano e direttore Uos Dietetica e nutrizione clinica Cto Gaetano Pini di Milano. «Per questo problema, però, è necessario ridurre le porzioni e privilegiare pane, pasta e riso integrali, che riducono l’assorbimento dei grassi. Nonostante sia sbagliato parlare di cibi “vietati”, contro la “pancetta” è bene tagliare drasticamente gli zuccheri che derivano dai dolci o dagli alcolici. È bene privilegiare il secondo piatto, sia a pranzo che a cena. Si alternino le proteine tra carne (preferibilmente bianca) e pesce ricco di grassi (gli omega 3)», consiglia l’esperta. «Vanno bene anche i latticini (preferibilmente freschi) o le uova. Altro secondo piatto consigliato sono i legumi, una fonte proteica da privilegiare perché vegetale. Da limitare la carne rossa, perché ricca di colesterolo, e i salumi che contengono molto sale».«Non ci sono limiti per le verdure, attenzione solo ai condimenti e ai metodi di cottura. Infine, il nostro corpo è più pronto ad assimilare le calorie la mattina presto, rispetto alla sera.

L’antico proverbio che vuole una “colazione da re, un pranzo da principe e una cena da povero” riflette i ritmi dell’orologio biologico ed è un trucco utile a contrastare l’accumulo di grasso addominale».

Non serve fare soltanto addominali

Oltre a essere una medicina naturale, lo sport è indicato anche per ridurre l’inestetismo della pancetta. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è detto che siano gli addominali gli esercizi più indicati. «Tanti studi hanno documentato che far affluire sangue in quella zona pensando che possa favorire una maggiore eliminazione del grasso in realtà non serve», osserva Gianfranco Beltrami, vicepresidente nazionale della Federazione medico sportiva italiana. «Gli addominali (come gli altri esercizi localizzati) fanno dimagrire dappertutto, non in misura maggiore sulla pancia e non più di altri tipi di allenamento. Sicuramente è utile inserirli in un programma generale di esercizio fisico».

Qual è l’attività fisica adatta a persone di mezza età, che contrasti il grasso addominale e favorisca il metabolismo? «Quella che comprende esercizi che migliorino tutte le qualità fisico- atletiche, con una parte di attività di tipo aerobico (corsa, camminata veloce, nuoto, bicicletta), una per il mantenimento della forza (e quindi del tono muscolare) e l’aggiunta fondamentale di esercizi di allungamento e di equilibrio», spiega l’esperto.

La chirurgia estetica?

Ricorrere alla chirurgia estetica per ridurre l’inestetismo della «ciambella» addominale si può, ma attenzione: «Sono necessarie valutazioni mediche specifiche», spiega Annamaria Colao, presidente eletto della Società italiana di endocrinologia e neuroendocrinologa dell’Università Federico II di Napoli. «Se si tratta di grasso superficiale sottocutaneo che si è accumulato, l’intervento può andare bene, se il grasso è viscerale (e viene da uno squilibrio metabolico) si riformerà e l’intervento plastico non funzionerà perché il risultato sarà stato solo momentaneo».

Succede anche agli uomini

Anche nell’uomo, dopo la mezza età la tendenza ad accumulare grasso addominale si fa più marcata. Con il passare degli anni la possibilità di avere la pancia diventa quasi una certezza e coinvolge, con pochissime eccezioni, anche persone che non sono in sovrappeso. «La carenza di testosterone può raggiungere il 30% negli uomini di età compresa tra i 40 e i 79 anni», chiarisce Elena Dogliotti. «Gli effetti dannosi sono i medesimi: un aumento di peso nella fascia addominale che si traduce in un aumento del rischio di sindrome metabolica e patologie cardiovascolari». Anche gli uomini devono impegnarsi in una dieta sana e con meno calorie e fare sport con costanza, spesso invece sono più propensi (delle donne) al fai-da-te: «vengono adottati comportamenti alimentari scorretti, ad esempio il consumo di pasti iper-proteici o l’utilizzo di integratori e supplementi spesso inutili».

·        La Dieta.

Dieta e alimentazione. Come riconoscere l'ortoressia, l'ossessione per il cibo sano. L’ortoressia è una forma di comportamento ossessivo nei confronti del cibo sano. Ne parliamo nel dettaglio con la Dott.ssa Chiara Ramponi. Mariangela Cutrone il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Seguire un’alimentazione sana può sfociare in una vera e propria ossessione denominata ortoressia. Il termine ortoressia deriva dal greco “orthos” che sta per “giusto” e “orexis” che fa riferimento all’“appetito”.

Di questa forma di comportamento ossessivo si è parlato per la prima volta nel 1997 quando è stato diagnosticato dall’inglese Steven Bratman. Oggi con l’avvento dei social media e del mondo del web in generale che spesso e volentieri diffonde abitudini alimentari errate o che sfociano nel vero e proprio fanatismo, l’ortoressia si è ampiamente diffusa.

Che cos’è e come riconoscere l’ortoressia

Chi soffre di questa patologia rischia di non apportare all’organismo le sostanze nutritive necessarie per il proprio sostentamento soprattutto in fase di crescita. Rischia di seguire abitudini alimentari rigide e drastiche. Di questo comportamento alimentare non sano ne parliamo con la Dott.ssa Chiara Ramponi, dietista specializzata in problemi alimentari di bambini e adolescenti in questa approfondita intervista.

Quando il “mangiare sano” diventa un’ossessione?

Seguire un’alimentazione sana e bilanciata è (Indubbiamente) uno dei pilastri del benessere e della salute. Numerosi sono infatti gli studi che hanno dimostrato come la Dieta Mediterranea protegga da molte patologie come, ad esempio, diabete, ipertensione, sovrappeso, obesità, alcune forme tumorali e molte altre. In alcuni casi, però, il ‘mangiare sano’ può diventare un’ossessione. Questo avviene quando l’alimentazione diventa molto rigida e quando le linee guida alimentari, che hanno come principale caratteristica la flessibilità, non prevedono ‘variazioni sul tema’ trasformandosi così in rigide regole che non possono essere eluse.

Quali sono le abitudini e i comportamenti alimentari che identificano l’ortoressia?

Ad oggi, l’ortoressia non è classificata tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione indicati dal DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). Probabilmente, questo è dovuto a due differenti motivi: non esistono dei criteri per la sua diagnosi e molte sue caratteristiche sono in comune con gli altri disturbi dell’alimentazione, tra cui l’Anoressia Nervosa. I comportamenti alimentari che identificano l’ortoressia o, più in generale, un disturbo dell’alimentazione sono però peculiari.

Eccone alcuni:

Presenza di una dieta rigida: come già detto in precedenza, chi soffre di problematiche alimentari tende a seguire diete rigide ed estreme con l’obiettivo di controllare l’alimentazione, il peso o le forme corporee. Tale controllo viene attuato attraverso l’adozione di comportamenti disfunzionali quali, tra tutti, la restrizione a livello di qualità e/o quantità degli alimenti.

Presenza di alimenti evitati: fin dall’esordio l’alimentazione subisce alcune modifiche; alimenti che un tempo piacevano e che venivano consumati senza preoccupazioni vengono successivamente rifiutati o esclusi. Dunque, la scelta ricade unicamente sugli alimenti percepiti come “sani” e “salutari”.

Presenza di regole dietetiche: numerose sono le regole riguardanti il come, il cosa, il quando e il quanto mangiare. Tra queste, possiamo ritrovare: mangiare solo alimenti che contengono solo determinati nutrienti o meno di un certo numero di calorie, non mangiare dopo un determinato orario, evitare le situazioni sociali e molte altre.

Presenza di perdite di controllo/alimentazione sregolata: ovvero l’assunzione di una quantità di cibo (più o meno abbondante) associata alla sensazione di perdita di controllo con conseguenti preoccupazioni. Non sempre sono presenti ma sono frequenti nei soggetti che restringono di molto la propria alimentazione o che limitano la qualità degli alimenti consumati in quanto spesso derivano dalla rottura di regole dietetiche o dal consumo di alimenti evitati.

Esercizio fisico intenso: non un comportamento alimentare ma molto spesso presente in chi soffre di disturbi dell’alimentazione. L’esercizio è spesso definito ‘eccessivo’ in quanto la durata, la frequenza e l’intensità sono superiori rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida. Inoltre, tale esercizio viene vissuto come obbligatorio e praticato anche in condizioni “avverse” (es. pioggia, slogature…); pertanto viene accompagnato anche dall’aggettivo ‘compulsivo’.

Chi sono i soggetti più a rischio?

Sebbene le cause dei disturbi dell’alimentazione non siano ancora completamente note, la ricerca ha dimostrato che vi è una combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio legati all’ambiente in cui si vive. Uno tra i vari fattori di rischio è il sesso femminile; le donne sono infatti maggiormente colpite rispetto agli uomini in quanto più socialmente spinte ad avere un corpo magro. Se prendiamo invece in considerazione l’età, le fasce più delicate sono l’adolescenza e la prima età adulta. Durante questi periodi, infatti, frequentemente vengono iniziate diete (spesso “da autodidatta”) con lo scopo di perdere peso a seguito dei fisiologici cambiamenti legati alla pubertà. Infine, altri esempi di fattori di rischio: casi di disturbi dell’alimentazione tra i familiari, basso peso alla nascita, vivere in un paese occidentale, frequentare ambienti che pongono molta attenzione al corpo (moda, danza, ginnastica), l’intraprendere delle diete.

Il ruolo dell’educazione alimentare

Quanto e in che misura il mondo del web con la diffusione di false diete miracolose ha contribuito a incrementare questo problema?

Come accennato in precedenza, le diete sono uno dei fattori di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che le adolescenti donne di 15 anni che seguono diete corrono un rischio di 8 volte superiore rispetto alle coetanee non a dieta. Le diete sono dunque sempre un rischio, sia quelle lievemente ipocaloriche guidate da un dietista sia quelle ‘false e miracolose’ che circolano nel web. In quest’ultimo caso, vi è un rischio aggiuntivo: l’essere condotte in autonomia senza il supporto di un professionista qualificato a riconoscere in anticipo e per tempo gli eventuali campanelli di allarme.

In Italia manca una corretta educazione alimentare. Secondo lei da quando dovrebbe cominciare e come dovrebbe essere attivata?

La ricerca ha dimostrato che la promozione di un corretto e flessibile stile alimentare, fin dalla più tenera età, sia un fattore protettivo allo sviluppo di un successivo disturbo alimentare. Nonostante ciò, in Italia mancano dei veri e propri programmi di educazione alimentare. Basti pensare che, secondo l’ultimo monitoraggio Istat, solo il 12% dei bambini e degli adolescenti in Italia consuma ogni giorno le porzioni di frutta e verdura raccomandate dalle Linee Guida. Dal mio punto di vista credo che la partenza sia insegnare ai bambini la sana alimentazione e il corretto stile alimentare tramite il ‘buon esempio’; i bimbi imparano infatti imitando il comportamento degli altri. Attraverso la condivisione e la convivialità si possono dunque promuovere corrette abitudini alimentari quali, ad esempio, la giusta composizione dei pasti o la frequenza di consumo dei vari alimenti. È però importante che tutte le figure di riferimento collaborino tra loro trasmettendo le medesime Linee Guida; non solo genitori dunque ma anche nonni, tate, insegnanti, allenatori. Inoltre, penso sia importante inserire l’educazione alimentare all’interno di ogni programma scolastico a partire dalla scuola dell’infanzia coinvolgendo, per i motivi elencati in precedenza, i bimbi e tutte le persone per loro significative.

Qual è il ruolo del dietista quando ci si trova davanti ad un caso di ortoressia?

Innanzitutto, come primo step è essenziale conoscere e riconoscere i campanelli di allarme per indagare e valutare la presenza (talvolta nascosta e non detta) di ortoressia o di un disturbo dell’alimentazione. In presenza di pazienti con problematiche alimentari è successivamente essenziale l’invio ad uno psicoterapeuta specializzato in disturbi alimentari e in grado di lavorare sugli aspetti emotivi e cognitivi. Per una completa remissione del disturbo, infatti, gli studi dimostrano la forza dell’équipe multidisciplinare formata da dietista, psicoterapeuta e medico psichiatra. Così facendo si lavora sulla psicopatologia e sui fattori di mantenimento, sulla normalizzazione eventuale del peso, sugli alimenti evitati e sulle regole dietetiche e si forniscono strategia sia a breve termine sia per la prevenzione di eventuali ricadute. In questo modo il paziente è posto al centro del trattamento e tutti i professionisti (co)operano con e per lui come una grande squadra.

Il grasso addominale è comune dopo i 50 anni, ecco perché viene ed è pericoloso per cuore e tumori. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022.

Le donne tendono a ingrassare soprattutto nella pancia per effetto della menopausa , un fenomeno da contrastare perché può esporre al rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, sindrome metabolica e alcuni tipi di cancro 

Con il passare degli anni molte donne si ritrovano ad avere un girovita più abbondante. La classica «pancetta», può riguardare tutti ovviamente, sia maschi sia femmine, giovani e meno giovani.

Le dinamiche ormonali

Tuttavia , dopo la mezza età, l’accumulo di grasso addominale (nella zona sotto e intorno all’ombelico) è una caratteristica femminile che spesso coinvolge anche donne che in passato erano sempre state magre o ingrassavano soltanto su cosce e fianchi. Questo fenomeno, che riguarda la maggioranza delle donne a partire dagli anni subito precedenti la menopausa, non può essere derubricato a semplice ingrossamento dell’addome, sebbene sia comunque legato all’aumento di peso, perché presenta peculiarità fisiologiche determinate dai cambiamenti ormonali legati alla fine dell’età fertile. «L’attività delle ovaie normalmente è dedicata a due funzioni principali: produrre ovociti e ormoni, in particolare estrogeni e progesterone» spiega Annamaria Colao, presidente eletto della Società italiana di endocrinologia e neuroendocrinologa dell’Università Federico II di Napoli. «Gli estrogeni hanno anche un’azione sul metabolismo dei grassi, servono cioè a ridurne l’accumulo, perché possano essere utilizzati come energia. L’arrivo della menopausa fa cessare l’attività delle ovaie e provoca quindi un calo drastico degli ormoni femminili nel corpo».

Effetto scorta

Per effetto di tale calo si verifica una maggiore tendenza a immagazzinare i grassi assunti con l’alimentazione. Ma perché vengono accumulati proprio sulla pancia? «Ci sono cellule adipose che sono metabolicamente attive, in grado cioè di produrre (in parte) gli estrogeni che vengono a mancare» chiarisce Elena Dogliotti, biologa nutrizionista, e supervisore scientifico per Fondazione Umberto Veronesi. «Queste cellule adipose sono proprio quelle che si formano nella cavità addominale e che si localizzano dentro e attorno a organi (fegato, cuore, pancreas), vasi sanguigni e muscoli. Ecco allora che, per compensare la perdita di estrogeni, quando si ingrassa, l’organismo di una donna in menopausa privilegerà la produzione di cellule adipose localizzate nel girovita, peccato però che queste cellule abbiano anche altre caratteristiche, decisamente dannose. Il loro accumulo infatti induce nel metabolismo (l’insieme di reazioni chimiche vitali per l’organismo, tra cui la trasformazione dei nutrienti in energia) un cambiamento che porterà a una ridotta capacità di sfruttare i grassi: il primo gradino verso una minore possibilità di bruciare anche gli zuccheri. Un circolo vizioso che porta molte donne a ingrassare più facilmente, e a farlo in modo localizzato sul girovita, anche quando in gioventù vantavano la classica pancia piatta».

I rischi per la salute

Se i cambiamenti ormonali descritti non risparmiano nessuno, le conseguenze non sono del tutto simili per ciascuna donna. «L’incremento del peso sarà molto minore in chi è meno predisposto geneticamente a mettere su chili e maggiore in chi ha la tendenza a ingrassare in generale» specifica Dogliotti. «Per molte, comunque, si tratterà di un aumento localizzato all’addome». Ecco spiegato perché intorno ai 45 anni si entra in una fase in cui, quello che si mangiava fino a poco tempo prima senza conseguenze sulla linea comincia ad appesantirla. Una tendenza che non è destinata a invertirsi nel tempo. Se avere la pancia è (quasi) il destino di tutte, il «fastidio» non deve essere trattato solo come un inestetismo, perché costituisce un importante fattore di rischio per gravi patologie, come la sindrome metabolica, una condizione complessa che a sua volta favorisce diverse malattie. Il grasso addominale che si sviluppa con la menopausa, inoltre, produce sostanze pro-infiammatorie, pro-tumorali e favorisce la comparsa dell’aterosclerosi (un inspessimento delle arterie tra le principali cause delle malattie cardiovascolari). «La massa che si accumula a livello viscerale continua a interagire in modo sfavorevole con l’organismo e a produrre molecole pro-infiammatorie. Un processo che, tra l’altro, tende a peggiorare, se non si corre subito ai ripari», conferma Dogliotti. «Ecco perché, caduta la protezione degli ormoni, la donna risulta più esposta al rischio di alcune malattie, in particolare quelle osteoarticolari (come l’osteoporosi) e quelle cardiovascolari (come l’ipertensione, l’ictus e l’infarto miocardico), arrivando quindi, dopo i 60 anni, a raggiungere un rischio pari a quello dei maschi».

Non è un destino

Il circolo vizioso può però essere interrotto, e la tendenza a mettere su pancia contrastata. Dopo la mezza età ingrassare è più facile, è vero, ma non è un imperativo. Occorre trovare un nuovo equilibrio non solo tra cibo ingerito e calorie consumate, ma badando maggiormente alla qualità degli alimenti e incrementando l’esercizio fisico. La dieta (intesa come controllo del regime alimentare) è fondamentale, perché, dato che il corpo ha difficoltà a consumare le calorie e gli zuccheri semplici in eccesso, lo sforzo va fatto sulle quantità e sui cibi salutari. La buona notizia è che anche solo una modesta perdita di grasso può fare la differenza: «Potrebbe sembrare poco — dice Dogliotti — ma è stato dimostrato che già un dimagrimento del 7% può bloccare i meccanismi dannosi che si scatenano quando si è in sovrappeso e con un girovita “degno di attenzione”. L’ideale è cominciare a pensare di perdere dal 5 al 10% del proprio peso corporeo».

Esercizi (non solo addominali)

La dieta da sola non basta, però, e dopo la menopausa fare attività fisica diventa fondamentale: non solo come aiuto nel dimagrimento, ma perché una caratteristica dei muscoli (che aumentano solo con l’esercizio costante) è quella di saper consumare calorie anche a riposo. «La ginnastica non serve solo a spendere energia, ma anche a indurre un metabolismo più favorevole al consumo di grassi e zuccheri, fattore che aiuta a mantenere il peso basso», precisa Colao. Tutti a fare addominali allora? No: è difficile ottenere un dimagrimento localizzato facendo solo esercizi su un determinato distretto muscolare, per contrastare la pancetta si deve agire su tutto il fisico con gli allenamenti giusti, calibrati anche in base all’età e alle caratteristiche delle singole persone. Anche gli interventi sulle abitudini alimentari vanno programmati e illustrati da specialisti, come il monitoraggio della menopausa, perché ogni donna ha una sua storia di patologie pregresse e le terapie (o i suggerimenti) devono essere individuali. Il primo medico da consultare per affrontare al meglio il periodo dei cambiamenti che in sorgono con la mezza età è il ginecologo, cui possono seguire le analisi di un endocrinologo esperto in metabolismo e i consigli di un esperto nutrizionista.

Irma D’Aria per lastampa.it il 16 settembre 2022.

Orologio alla mano, per perdere peso potrebbe bastare concentrare l'assunzione di cibo nella prima parte della giornata, dalle 7 del mattino alle 15. Mangiare soltanto nell'ambito di questa finestra temporale consentirebbe non soltanto di perdere oltre due chili in 14 giorni, ma anche di abbassare la pressione arteriosa. La notizia arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Jama Internal Medicine e condotto presso l'Università di Alabama a Birmingham. La 'dieta a orario' è diventata molto popolare negli anni anche perché vari personaggi famosi, tra cui in Italia Fiorello, l'hanno seguita con successo.

Gli effetti dell'alimentazione oraria

I vari studi condotti fino ad ora non hanno ancora del tutto chiarito quanto sia efficace il digiuno intermittente per perdere peso e grasso corporeo e gli effetti possono dipendere dai tempi della finestra alimentare. Questo studio randomizzato ha confrontato gli effetti dell'assunzione di cibo in un arco temporale ristretto con quelli di un'alimentazione distribuita nell'arco della giornata in un periodo di 12 o più ore. L'obiettivo dei ricercatori era quello di stabilire se la dieta a orario con l'assunzione di cibo nella prima parte della giornata sia più efficace per la perdita di peso, la diminuzione del grasso e la salute cardiometabolica rispetto all'assunzione di cibo per un periodo di 12 o più ore. 

La ricerca

Lo studio clinico randomizzato è stato condotto per 14 settimane su 90 adulti obesi tra i 25 e 75 anni che avevano ricevuto un trattamento dimagrante presso la Clinica medica per la perdita di peso dell'ospedale di Birmingham presso l'Università dell'Alabama. I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi ed hanno ricevuto una consulenza per la perdita di peso e una dieta con restrizione calorica.

Due chili di differenza con la dieta a orario

Chi ha perso più peso? Dal confronto dei dati, si è visto che chi ha seguito la dieta ma mangiando soltanto tra le 7 e le 15 è riuscito a perdere nei 14 giorni 6,3 chili contro i 4 di chi invece ha seguito soltanto la dieta dimagrante. Dunque, ben 2,3 chili in più persi semplicemente restringendo l'arco orario in cui si mangia. Gli effetti della dieta a orario sono stati equivalenti alla riduzione dell'apporto calorico di 214 kcal/giorno. Inoltre, questo tipo di regime ha anche migliorato la pressione sanguigna diastolica (-4 mmHg) e i disturbi dell'umore, tra cui affaticamento, inerzia, e depressione. Meno chiari sono gli effetti che questo modello alimentare può avere sulla perdita di grasso corporeo e i ricercatori indicano la necessità di ulteriori studi per comprendere meglio questi aspetti.

Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” il 16 settembre 2022.

La sua fama di assottigliatore, perdonate il neologismo, lo precede dal 1986, quando mise a stecchetto Luigi Veronelli, decano degli enogastronomi: meno 10 chili. «Lui mi chiamava figlio e io papà». Da allora Mauro Defendente Febbrari («l’ultimo del casato con il secondo nome di questo martire della Legione tebea, ho interrotto una tradizione secolare») ha accorciato la panza dei più grandi chef stellati d’Italia. 

In ordine strettamente ponderale: Fulvio Pierangelini, già al Gambero rosso di San Vincenzo, oggi al Jardin de Russie di Roma, e la moglie Emanuela: 30 chili in due; i fratelli Chicco, Bobo e Rossella Cerea del Da Vittorio di Brusaporto: 22 in tre («di cui 14 la ragazza»); Raffaele Alajmo delle Calandre di Rubano: 17; Philippe Léveillé e Mauro Piscini del Miramonti l’Altro di Concesio: 7 a testa; Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze, ora ritiratasi a Cannes: 5 chili.

Lo stesso peso che fece smaltire al compianto Gualtiero Marchesi dell’Albereta di Erbusco. Pur non bisognoso di dimagrire, si è rivolto a Febbrari anche Giancarlo Perbellini, 6 stelle Michelin conquistate con 10 locali sparsi fra Veneto, Lombardia e Sicilia: «Mi ha chiesto qualche consiglio nutrizionale per elaborare le sue ricette». 

Dopo aver ridato la salute a tanti vip, per un crudele contrappasso sta male lui. Colpito da sclerosi multipla nel 2000, da 15 anni non cammina più, è in sedia a rotelle. Ma continua a visitare i suoi pazienti, anche se ha dovuto chiudere lo studio che aveva a Milano, in piazza Diaz. Il paradosso è che Febbrari, medico da 44 anni, non è mai stato un dietologo. Le sue specialità sono l’endocrinologia e la diabetologia. Avrebbe voluto frequentare Scienze politiche e diventare interprete parlamentare, «ma rischiavo di finire professore di filosofia: la carriera diplomatica si presentava impervia». 

Che cosa la spinse alla medicina?

«Dottori con le ali, titolo originale The flying doctors , serie tv australiana degli anni Ottanta. Pensai: giro il mondo con il van Volkswagen degli hippy e curo la gente in cambio di uova e pollame». 

Il cibo già c’entrava.

«Un giovane che aveva un debito con mio padre, ed era assistente di endocrinologia alla Seconda Università di Napoli, mise una buona parola per farmi entrare. Il mio idolo era Che Guevara, divenuto medico dando 13-14 esami in un anno. Riuscii a batterlo: ne superai 17». 

Incredibile.

«Per un tacito accordo, ogni tre esami mia madre mi dava i soldi per raggiungere Bruxelles, dove avevo conosciuto Floriana, figlia di un pilota di caccia, Mattucci, amico dei miei, che lavorava nella base Nato. È diventata mia moglie».

Quanti tipi di diete conosce?

«Solo quella del buonsenso. Rinunciare e crocifiggersi è inutile. Il mangiare è un piacere e tale deve restare. Il mondo è ancora pieno di dietologi che vorrebbero farti digiunare per tutta la vita. Nessuno può riuscirci. L’intestino ha bisogno di varietà. Mangiare sempre le stesse cose è la morte della sana alimentazione». 

Francesco Perugini Billi, medico che lavorava come lei nel Policlinico di Ponte San Pietro, mi ha spiegato che per stare in salute bisogna mangiare grassi.

«Sono perfettamente d’accordo. Basti dire che il Seven countries study condotto dal professor Ancel Keys, fondamentale ricerca epidemiologica sui rischi cardiovascolari, non prende in considerazione il fumo di sigaretta. I francesi consumano burro, foie gras, patè eppure hanno meno accidenti cardiaci dei giapponesi che si nutrono solo di pesce».

Che fa? Mi condanna l’olio di oliva?

«No, dico solo che Philippe Léveillé, figlio d’arte di un ostricaio bretone, inventore di piatti storici come il caldo-freddo di cavolfiore e il crescendo di agnello, autore del libro La mia vita al burro, è arrivato a due stelle Michelin dimostrando che questo alimento è salutistico». 

Giuseppe Giudice, che era il dietologo di Marta Marzotto, mi ha detto: «Mai considerate le calorie in vita mia».

«Io lo stesso. Il segreto è la masticazione lenta. Se non ingurgitassimo, mangeremmo un terzo in meno. Lo dissi al critico Paolo Marchi di Identità golose: non puoi scrivere di cibo buttandolo giù, a quella velocità non capisci neppure che cosa stai deglutendo. Si offese a morte».

Ma poi siete diventati amici.

«Gli ho fatto smaltire 15 chili». 

Dalle foto mi sa che ora li ha ripresi.

«Lo credo, è un’idrovora. La moglie invece si controlla: con me ne ha persi 12». 

Mi ha raccontato che lei cura i pazienti solo dopo averli condotti al ristorante.

«Verissimo. Lo portai da Vittorio, allora a Bergamo, per vedere in che modo mangiasse. L’ispirazione me la offrì l’architetto Roberto Panza, progettista di questa villa. “Stasera vengo a cena da lei”, mi disse. Chiesi: l’ha invitata mia moglie? “No, mi sono invitato da solo per capire da voi due e dai vostri figli che tipo di casa vi aspettate da me”». 

Non si limita a far dimagrire gli chef.

«Esatto. Anche i loro fustigatori. Il povero Gianni Mura e la moglie Paola, critici del Venerdì di Repubblica, smaltirono 16 chili in due. Enzo Vizzari, direttore delle Guide de L’Espresso, 10 da solo. Metto in riga pure i vignaioli: Piermario Meletti Cavallari, quello del Grattamacco, Edoardo Valentini, Diego Molinari, la famiglia Taurino del Patriglione salentino. E Angelo Stoppani, l’allora patron di Peck che arruolò lo chef Carlo Cracco: gli tolsi 10 chili dal girovita». 

Nessun esame di laboratorio?

«Il più importante è il disbiosi test. Accerta la presenza nelle urine di scatolo e indolo, che denotano un’alterazione della flora batterica intestinale. Il microbiota è il nostro secondo cervello, ma più intelligente del primo: regola difese immunitarie, tono dell’umore, metabolismo. Se non funziona, non puoi dimagrire. I probiotici possono ripararlo». 

Come mai chi fa le diete poi torna a ingrassare e supera il peso precedente?

«Perché ignora il principio base della gastrosofia, filosofia applicata all’apparato digerente: se l’uomo mangiasse poco ma di tutto, sarebbe immortale». 

Mi scusi, ma non è proprio lei che propugna la cucina monotematica?

«Preferisco chiamarla monoteista. Un solo alimento per volta. È la mia prima regola. Puoi papparti una fiorentina da un chilo, o tre sogliole, o due polli arrosto. Ma non metterci nulla sopra, sotto o di fianco, manco una scaglia di grana». 

E la seconda regola?

«Svuotamento dei carboidrati per cinque giorni la settimana. Sono tassativamente vietate le “5 p”: pasta, pane, patate, pizza, polenta. In compenso, ammessi due bicchieri di vino rosso a pasto. Il sabato e la domenica, libera uscita». 

Non c’è due senza tre. Terza regola?

«Ricerca della qualità esasperata. Con mio padre facevo 200 chilometri nella nebbia per andare a mangiare il risotto giusto nella trattoria Dante ad Asiago, che oggi non esiste più. Se ho una pausa pranzo di mezz’ora, non trangugio panini d’incerta natura. Meglio una spremuta di pompelmo, un caffè e mezzo toscano, fumato non mangiato, si capisce: con il suo Ph acido toglie l’appetito. Se faccio il bagno nelle piscine comunali, dopo cinque minuti comincio a grattarmi. Ma se mi tuffo in mare alle Tremiti, sto bene». 

Quanto pesa?

«Ero 90 chili, oggi 74. Sono alto 1,81». 

Che cos’ha mangiato ieri a pranzo?

«Scampi alla brace e orata di 3 chili, divisa in famiglia, con piccola maionese. La sera, friggitelli e due uova al tegame». 

Vedo che ha l’intera collezione di piatti dei ristoranti del Buon Ricordo.

«Li ho raccolti quando il ricordo che ti lasciavano era ancora buono». 

E in cantina che cosa troverei?

«Circa 3.000 bottiglie. Intere annate di Mouton Rothschild, Sassicaia e Solaia, gli introvabili Vega Sicilia spagnoli, il mitico Sine Qua Non prodotto da Manfred Krankl in California. Una settimana fa ho bevuto un Petrus del 1998, dono di un amico. Lo avrà pagato 3.000 euro». 

La definirei un intenditore gaudente.

«Qualcuno mi chiama gourmet trainer. Nel 1978 andai a cena da Gualtiero Marchesi in via Bonvesin de la Riva a Milano. Mi presentò spaghetti freddi con sopra caviale ed erba cipollina. Spesi 180.000 lire. Il mio stipendio mensile era di 600.000. Litigai. Mi mise alla porta: “Lei non è pronto per la mia cucina, torni quando lo sarà”. Andai da lui all’Albereta 25 anni dopo. Stesso piatto: divino. Ero cambiato io. Diventai il suo medico». 

Perché i ristoratori ingrassano?

«Assaggi, stress, cattive abitudini. Raffaele Alajmo mi ha confessato che, dopo aver chiuso il locale all’una di notte, spazzolava l’intero carrello dei formaggi avanzati. Oggi è tornato sui 110 chili». 

Il fratello Massimiliano è filiforme.

«Max è un prussiano. Insieme, in sette anni abbiamo laureato nel Master della cucina italiana più di 100 chef, molti dei quali oggi stellati. Dopo la mezzanotte, quattro volte a settimana mi telefona per raccontarmi com’è andata la serata nel suo tempio. Non tutti sono come lui o il defunto Sirio Maccioni di Le Cirque di New York, che a una cena in suo onore si limitò a due cucchiaini di caviale. Me l’ha raccontato Fulvio Pierangelini».

L’eterno rivale di Gianfranco Vissani.

«Mai pranzato da Vissani. L’ho incrociato solo a Identità golose. Mi ha disgustato. È un saccente criticone. Decaduto D’Alema, mi pare finito anche lui». 

Ridolfo nella «Bottega del caffè» di Goldoni: «La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce sempre quanto più l’uomo invecchia».

«L’uomo saggio sa che invecchiando va verso la sua fine. Ma, proprio perché è saggio, non ha di questi parossismi. Mio figlio Riccardo mi ha portato dalla Martinica nove diversi rhum agricole. In due sere, li ho degustati tutti, un dito ciascuno. Un dito in orizzontale, eh!».

DAGONEWS il 15 settembre 2021.

Il tempo che dedichi ai pasti ogni giorno ha un ruolo nella tua salute mentale? Cenare potrebbe contribuire all'aumento dei tassi di depressione? La risposta è sì e lo confermano i ricercatori del Brigham and Women's Hospital: mangiare durante il giorno invece che di notte può ridurre il rischio di sintomi di ansia e depressione.

Per i ricercatori mangiare poco prima di coricarsi fa male al cervello: i dati mostrano che i sintomi di depressione e ansia aumentano rispettivamente del 26 e del 16 per cento dopo i pasti serali. Lo studio potrebbe aiutare a spiegare perché i turnisti e chi affronta viaggi a lunga distanza sono soggetti a malattie neurologiche, inclusa la demenza. Uno di motivi è che lo stile di vita interrompe il ritmo circadiano, noto anche come orologio biologico.

Una persona su cinque lavora in orari irregolari in questa società fatta di orari e turni 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Il lavoro notturno può sbilanciare la materia grigia e influire su comportamenti quotidiani come dormire, svegliarsi, digiunare e mangiare.

Camilla Sernagiotto per corriere.it il 14 settembre 2022.  

Vengono definiti cibi a calorie negative: sono gli alimenti caratterizzati da un numero così esiguo di calorie che introdurli e attivare la digestione farebbe bruciare più dell'apporto calorico del cibo ingerito. Quindi, di fatto, parliamo di alimenti che farebbero dimagrire mangiando. Una chimera? Secondo gli esperti non si tratterebbe affatto di utopia. Esiste infatti la cosiddetta termogenesi indotta dalla dieta. 

«In parole semplici significa che il corpo “brucia” una certa quantità di energia (ossia calorie) per la trasformazione del cibo, dalla masticazione alla vera e propria digestione nello stomaco fino all’assorbimento dei nutrienti a livello intestinale» spiega la dietista e nutrizionista Jessica Benacchio sul proprio sito web, sottolineando come «l'atto stesso di mangiare faccia bruciare calorie».

«Esistono alcuni alimenti che ci permettono di consumare più calorie di quelle fornite quando li mangiamo, stimolando opportunamente il nostro metabolismo». Questi cibi sono alimenti a bassa densità calorica, contenenti pochi grassi, pochi carboidrati e poche proteine, ma allo stesso tempo molto ricchi di acqua. 

«Il bilancio tra quanto speso e quanto immesso può diventare negativo» argomenta la dietista. Tra gli alimenti a calorie negative ci sono innanzitutto i vegetali: frutta e verdura, ma anche le spezie. Di solito sono quelli più ricchi di fibre e vitamine (la C soprattutto) a garantire la termogenesi indotta dalla dieta. Come raccomandano gli esperti, è necessario masticare bene e a lungo per aiutare la digestione, per stimolare la produzione di succhi gastrici e per attivare il processo attraverso cui si percepisce il senso di sazietà.

Nel dettaglio quali sono questi vegetali lo spieghiamo qui. Il primo è il sedano: con un apporto di sole 20 calorie ogni 100 grammi è tra i più ipocalorici che esistano. Il processo digestivo per metabolizzare il sedano comporta un dispendio di energia maggiore rispetto alle calorie introdotte a ogni gambo. Parliamo inoltre dell’alimento spezza-fame per eccellenza, ottimo come snack salutare e altamente dietetico.

Anche il cavolfiore è un alimento ipocalorico, con un apporto di 25 calorie ogni 100 grammi. Questo è lo stesso apporto calorico del cavolo. I plus di entrambi? Sono molto ricchi d'acqua, dunque capaci di reidratare l'organismo e combattere così la ritenzione idrica (che è causa della cellulite). Il modo migliore per consumare cavolfiore e cavolo, rimanendo a tema calorie negative? Optare per quelli lessati e cotti a vapore.

Sono soltanto 12 le calorie per ogni 100 g di cetriolo. In più parliamo di un alimento composto per il 95 per cento di acqua, dunque ottimo per combattere la ritenzione idrica, reidratare in profondità l’organismo ed eliminare le tossine. Le sue proprietà detox lo rendono un alleato della salute, mentre il contenuto notevole di sali minerali quali potassio e fosforo — oltre che di vitamine (C e K in primis) — lo incorona re della buona tavola, dove buona non sta solo per il gusto. Il cetriolo si può consumare crudo, tagliato a rondelle sottili e aggiunto a insalate così come sopra ai medaglioni di carne degli hamburger.

Rucola, crescione, lattuga iceberg e lattuga romana sono i vegetali meno calorici tra quelli usati per le insalate. La rucola apporta 28 calorie; il crescione 32; la lattuga iceberg 14 calorie e quella romana 15 calorie (per 100 grammi). Sono tutte verdure ricche di acqua, fibre, vitamine (tra cui A e K), folati e sali minerali quali calcio e potassio.

Fanno parte degli alimenti a calorie negative anche broccoli, spinaci, zucchine e barbabietole. I broccoli apportano 34 calorie per ogni 100 grammi e sono molto ricchi di vitamina C. Gli spinaci si aggirano sulle 23 calorie per etto, offrendo invece parecchia vitamina K e vitamina A, molto acido folico e anche un maggior numero di proteine rispetto ad altre verdure a foglia.  

Le zucchine hanno un apporto medio di 17 calorie e ultimamente sono usate a mo’ di zoodles, ossia noodles composti da zucchine tagliate a spirale (gustosi e ben più povere di carboidrati rispetto ai noodles tradizionali). Infine si aggiungono alla lista di alimenti a calorie negative anche le barbabietole, con 43 calorie per etto e un buon apporto di potassio.

Il brodo è un amico della linea. Ne esistono molte varietà (tra cui di pollo, manzo, pesce o verdure). Viene consumato da solo oppure è impiegato come base per zuppe più elaborate e stufati. Il brodo di carne sgrassato apporta 7 calorie per 100 grammi, quello di pesce 10 calorie e quello vegetale 11. Un altro cibo a calorie negative è l’aglio, che apporta 41 calorie ogni 100 grammi (ma sfidiamo chiunque a ingerire 100 grammi di aglio). Contiene acqua, proteine, lipidi, fibre, vitamina A e C, niacina, potassio, fosforo, calcio, sodio e ferro. 

Benché sia una fonte di antiossidanti e di precursori di una molecola (l’allicina) dotata di attività antibatterica, antivirale e antimicotica, bisogna fare attenzione perché «l’aglio può interferire con l’assunzione degli anticoagulanti» come si legge sul sito web dell’Humanitas. In caso di dubbi è bene chiedere consiglio al proprio medico.  

Dulcis in fundo, nel piatto di chi vuole provare i cibi a calorie negative possono finire, se piacciono, i funghi bianchi (26 calorie per ogni 100 grammi). Sono ottimi da consumare come sostituti della carne, grazie alla loro consistenza spugnosa che li rende un’ottima alternativa vegana e vegetariana. 

Daniela Natali per corriere.it l'11 settembre 2022.

Siete a dieta ma non riuscite a resistere a torte e burro? Forse la spiegazione non sta, come direbbero in molti, nella vostra mancanza di forza di volontà, ma in una connessione tra l’intestino e il cervello che guida il desiderio di cibi «grassi». 

Allo Zuckerman Institute della Columbia University, in uno studio condotto sui topi, si è scoperto che il «grasso» che entra nell’intestino innesca una forma di assuefazione capace di stimolare il desiderio di altri cibi grassi. 

Pubblicato il 7 settembre 2022 su Nature, lo studio prospetta la possibilità di riuscire a interferire con questa connessione intestino-cervello per aiutare a prevenire scelte malsane e affrontare la crescente crisi sanitaria globale causata dall’eccesso di cibo.

«Viviamo in tempi senza precedenti, in cui il consumo eccessivo di grassi e zuccheri sta causando un’epidemia di obesità e disturbi metabolici — ha commentato il primo autore della ricerca, Mengtong Li, dello Zuckerman Institute —. Se vogliamo controllare il nostro insaziabile desiderio di cibi grassi e malsani, la scienza ci sta dimostrando che la chiave su cui agire è la connessione tra l’intestino e il cervello». 

Questa nuova visione delle scelte alimentari è iniziata con un lavoro precedente del professo Charles Zuker, sempre allo Zukerman Institute, sullo zucchero, studio in cui si è scoperto che il glucosio attiva un circuito specifico tra intestino-cervello che comunica a quest’ultimo la presenza di zucchero nell’intestino.

I dolcificanti artificiali, senza calorie, al contrario, non innescano questo meccanismo il che, probabilmente contribuisce a spiegare perché le bibite dietetiche ci facciano sentire insoddisfatti. «Queste ricerche stanno dimostrando che la “lingua” “dice” al nostro cervello ciò che ci piace: cibi salati o dolci o ricchi di grassi, e ciò di cui abbiamo bisogno», ha dichiarato Zuker.

«Per meglio chiarire le ipotesi allo studio — ha aggiunto Li — sono state proposte ai topi bottiglie d’acqua con grassi disciolti, tra cui olio di soia, e bottiglie d’acqua contenenti sostanze dolci. I roditori entro un paio di giorni hanno sviluppato una forte preferenza per l’acqua contenente grassi. E la preferenza si è confermata anche quando i ricercatori hanno modificato geneticamente i topi rimuovendone la capacità, attraverso la lingua, di percepire il gusto del grasso».

Anche se gli animali non potevano più cogliere il gusto del grasso, erano comunque spinti a consumarlo. È quindi lecito pensare che il cibo ricco di grassi attivi i circuiti cerebrali che guidano la risposta comportamentale degli animali. Per cercare quel circuito, Li ha misurato l’attività cerebrale nei topi mentre dava agli animali dei grassi e ha visto che i neuroni di una particolare regione del tronco cerebrale si sono risvegliati. 

Un dato interessante perché questa zona cerebrale era anche implicata nella precedente scoperta relativa alla base iniziale della preferenza dello zucchero.

Dopo aver identificato il meccanismo biologico alla base della preferenza per il grasso, Li ha poi esaminato da vicino l’intestino stesso, in particolare le cellule endoteliali che lo rivestono. Ha così trovato due gruppi di cellule che inviano segnali ai neuroni in risposta al grasso. Un gruppo di cellule funziona come sensore generale e risponde ai grassi, ma anche agli zuccheri e agli amminoacidi; un altro gruppo risponde invece solo ai grassi aiutando il cervello a distinguerli da altre sostanze nell’intestino».

Li ha poi fatto un importante passo in avanti bloccando l’attività di queste cellule utilizzando un particolare farmaco. La segnalazione di spegnimento di entrambi i gruppi cellulari ha impedito ai neuroni di rispondere al grasso nell’intestino. Ha quindi usato tecniche genetiche per disattivare tutti i neuroni implicati nel meccanismo e in entrambi i casi un topo ha perso “l’appetito” per il grasso». 

«Questi esperimenti – ha concluso Li – suggeriscono la possibilità di nuove strategie per cambiare la risposta del cervello al cibo. La posta in gioco è alta. I tassi di obesità sono quasi raddoppiati in tutto il mondo dal 1980.

Oggi, quasi mezzo miliardo di persone soffre di diabete. Il consumo eccessivo di alimenti economici e altamente trasformati ricchi di zuccheri e grassi sta avendo un impatto devastante sulla salute umana, specialmente tra le persone a basso reddito. Più comprendiamo come questi alimenti dirottino il meccanismo biologico alla base del gusto e il funzionamento dell’asse intestino-cervello, maggiori saranno le opportunità di intervenire».

 Estratto dell'articolo di Elena Dusi per “la Repubblica” domenica 24 Luglio 2022.

Diete commerciali, farmaci anti-grasso, bilancine da cucina e app che registrano ciò che ingurgitiamo. Se il 59% degli europei è obeso o sovrappeso - lo ha detto ieri l'Organizzazione mondiale della sanità - è naturale che si cerchi di porre un freno all'ago della bilancia. 

A fronte di tante diete, però, il bilancio è deludente: i tre quarti delle persone che decidono di perdere peso non riescono a raggiungere l'obiettivo minimo: un calo del 5%. Un terzo, poi, guadagna chili nonostante gli sforzi.

La ricerca dell'Università di Cardiff presentata ieri al Congresso europeo sull'obesità a Maastricht è sconfortante, ma non stupisce. Anche quando si riesce inizialmente a perdere il 5-10% dei chili - aveva osservato una ricerca dell'Università della California diversi anni fa - la maggior parte delle persone li riguadagna, e anche con gli interessi. 

«Meglio non mettersi a dieta per niente, almeno si evita al corpo il doppio stress di dimagrire e poi reingrassare» aveva concluso amaramente l'autrice, Traci Mann.

Il rapporto di ieri della sezione Europa dell'Oms però è allarmante. Ormai solo l'America ci batte, con il 74% di persone sopra ai 20 anni obeso o sovrappeso. «Il problema ha raggiunto proporzioni epidemiche», dice l'Oms. 

In effetti, ha spiegato Marc Evans, il ricercatore dell'Università di Cardiff che ha coordinato la ricerca sulle diete: «Quasi tutte le persone obese si danno da fare per ridurre il loro peso, usando anche parecchie strategie. La maggior parte di loro, però, fallisce».

«Il problema non è solo degli obesi, ma anche delle diete», sostiene Laura Di Renzo, direttrice della scuola di specializzazione in Scienze dell'alimentazione all'Università di Roma Tor Vergata e autrice di vari libri (anche di ricette) sulla dieta mediterranea. 

«In questo campo - spiega - la scienza sta facendo passi avanti. Ma non sempre le nuove ricerche arrivano ai pazienti in tempi rapidi. Il risultato è che la dieta viene vista come una penitenza».

Cos’è la dieta liquida che può aver causato la morte di Shane Warne, leggenda del cricket. CHIARA AMATI su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2022. Un regime alimentare estremo basato sull’assunzione prolungata di cibi per lo più liquefatti (o di vere e proprie bevande). Sarebbe questo uno dei motivi della morte di Shane Warne, tra i cinque lanciatori al mondo più forti di sempre. Ne abbiamo parlato con Edoardo Mocini, specialista in Scienze dell’alimentazione. Ecco che cosa è emerso

Dieta liquidi, il caso

Un infarto letale dopo aver seguito una dieta estrema. Ha suscitato scalpore la morte, a soli 52 anni, di Shane Warne, ex campione di cricket australiano deceduto il 4 marzo scorso nella sua villa in Thailandia. James Erksine, manager e amico di quello che, secondo alcuni esperti, è stato tra i cinque lanciatori al mondo più forti di sempre, ha svelato che a compromettere, fino al decesso, la salute dell’ex crickettista sarebbe stata una dieta estrema a base di soli liquidi che Warne stava seguendo già da 14 giorni, nel tentativo di tornare al suo peso forma. Pare, sempre secondo Erksine, che Warne non fosse nuovo a soluzioni «radicali» per rimettersi in forma.

Ricordando che le diete devono essere sempre intraprese solo dopo avere consultato un medico specializzato — che ritaglierà un regime alimentare su misura tenendo conto del paziente che ha davanti, dell’età, del sesso, di eventuali patologie e del suo stile di vita in generale — abbiamo chiesto a Edoardo Mocini, medico chirurgo, specialista in Scienza dell’alimentazione, ma anche ricercatore oltre che vincitore dell’ultima edizione dei Cook Awards nella categoria «Food reporting», che cosa si intenda per dieta liquida. Ecco, nelle prossime schede, tutte le risposte, i rischi e le conseguenze. 

Dieta liquida, che cos’è.

Dottore, che cosa si intende per dieta liquida?

«In genere, in ambito medico, si intende banalmente l’assunzione di soli alimenti liquidi. Negli ultimi anni ha assunto il significato anche di protocollo dietetico, per lo più mirato al dimagramento, che utilizza integratori o pasti sostitutivi come ad esempio le polveri da miscelare o direttamente le bevande».

La maggior parte delle diete liquide, di cui esistono diversi tipi, tende a coprire tutti, o quasi, i pasti della giornata con succhi di frutta, frullati, estratti e centrifugati vegetali.

Le diete liquide possono essere di due tipi:

— totalmente liquide: non contemplano cioè alimenti diversi dalle formule previste;

— parzialmente liquide: con un pasto al giorno, in genere la cena, o gli spuntini solidi.

Di Shane Warne si dice che abbia optato per una dieta liquida estrema. Quali sono i rischi nel caso specifico?

«I rischi, così come la sicurezza di un qualsivoglia regime alimentare, riguardano soprattutto la durata del regime stesso e il contenuto nutrizionale degli alimenti che vengono utilizzati. Nel caso di una dieta liquida, se i nutrienti sono bilanciati potrebbe anche essere valida dal punto di vista organico. Tuttavia, specie se estrema, difficilmente risulta sostenibile nel medio e lungo termine. Inoltre se i prodotti sostitutivi utilizzano un bilancio di nutrienti che punta alla chetosi — stadio metabolico a cui si arriva introducendo un ridotto contenuto di carboidrati — andrebbe sostenuta solo previo stretto parere medico, tenendo ben monitorate le condizioni cliniche. E portata avanti esclusivamente sotto il controllo di professionisti qualificati. Non esistono alternative. Diversamente i rischi potrebbero essere altissimi».

Quindi niente fai-da-te, ma sempre una valutazione clinica a monte...

«Esatto. L’eventuale prescrizione di dietoterapie drastiche, come queste, necessita assolutamente, e sottolineo assolutamente, di una valutazione clinica per verificare eventuali comorbidità (pregresse patologie cardiache, funzionalità epatica e renale, eventuali disturbi del comportamento alimentare) e altri dati anamnestici (abitudine al fumo, consumo di alcol e attività fisica o meno). Questo quadro, all’interno della valutazione della prescrivibilità, ci permette di stabilire che determinati pazienti non possono, né devono essere sottoposti a simili regimi alimentari. In caso contrario, potrebbero andare incontro a gravi problemi di salute e persino alla morte».

Dieta liquida: quando si può fare?

Dottor Mocini, esistono situazioni in cui è possibile intraprendere una alimentazione esclusivamente liquida?

«Sì. In ambito clinico, una dieta liquida si può portare avanti quando si voglia raggiungere un obiettivo clinico a breve termine, ad esempio dopo un intervento che si ripercuote sulle nostre capacità di masticazione (banalmente, un’estrazione dentale) oppure dopo interventi all’apparato digerente, allo stomaco e all’intestino. Situazioni in cui non possiamo stressare le pareti gastro-intestinali con il “passaggio fisico” di cibi solidi. A scopo dimagrante esistono protocolli dietetici utili soprattutto a pazienti che hanno necessità di perdere grandi quantità di peso in pochissimo tempo (ad esempio prima di un intervento chirurgico, allo scopo di abbassare il rischio anestesiologico). Va, però, segnalato che risultati analoghi si possono ottenere anche con diete che non utilizzano prodotti simili».

Nei casi sopraccitati, per quanto tempo una dieta liquida potrebbe essere seguita?

«Per il tempo minimo necessario al recupero delle funzioni digestive o al raggiungimento di specifici obiettivi clinici, sempre in un contesto protetto e rigorosamente supervisionato da un controllo clinico».

Dieta liquida: pro o contro?

In definitiva quali sono i vantaggi e gli svantaggi di una dieta liquida?

«Se da una parte mette a riposo il nostro sistema gastrointestinale soprattutto nel caso di specifiche esigenze cliniche — penso ad esempio alle situazioni postchirurgiche —, dall’altra una dieta liquida presenta diversi svantaggi che riguardano in primis la palatabilità e la sostenibilità. Nel caso di protocolli commerciali a scopo dimagrante, lo svantaggio risiede principalmente nella mancanza di educazione alimentare che, molto difficilmente, permette una perdita di adipe senza il recupero del peso. Si va così incontro al più classico degli effetti yo-yo, specie se il percorso non prevede una fase dietoterapica di reintroduzione degli alimenti volta all’acquisizione di abilità e capacità di gestione della propria quotidianità . Fase, questa, in cui sarebbe opportuno che il cibo venisse masticato. Se poi ci accorgiamo che un determinato regime dietetico ci porta alla perdita di molti chilogrammi —non necessariamente di adipe, potendo un protocollo aggressivo e non ben studiato intaccare anche la massa magra — e a una rapida ripresa di quegli stessi chilogrammi, è opportuno interrompere l’effetto yo-yo con l’aiuto di professionisti qualificati. Ricordo che, per quanto affascinanti e invitanti, certi protocolli che promettono dimagramenti rapidi e senza fatica possono essere dannosi sia nel breve termine, per la possibile malnutrizione, sia nel medio-lungo periodo, per gli effetti negativi della perdita-recupero repentina del peso. Il benessere non passa necessariamente dal dimagrimento, quanto piuttosto dal miglioramento dello stile di vita complessivo e, di conseguenza, dello stato di nutrizione».

 

Lorenzo Nicolao per corriere.it l'8 marzo 2022. 

Dall’Australia emergono ulteriori dettagli sulla morte di Shane Warne, l’ex campione di cricket di Melbourne morto per un infarto il 4 marzo nella sua villa in Thailandia. Il manager di quello che viene considerato uno dei più forti lanciatori di questo sport (uno dei primi cinque del secolo secondo alcuni esperti) ha rivelato che a compromettere la salute dell’ex crickettista sarebbe stata una dieta a estrema che Warne stesse seguendo per poter tornare in breve tempo al suo peso forma.

James Erksine, suo manager e da sempre molto vicino all’ex leggenda, ha raccontato alle autorità australiane che negli ultimi giorni il campione stava consumando solo liquidi, senza mangiare nulla di solido, regime alimentare che stava seguendo già da 14 giorni. Il portavoce della polizia thailandese Kissana Phathanacharoen ha parlato alla stampa di cause naturali, dopo aver ricevuto i risultati dell’autopsia, negando di fatto l’ipotesi del suicidio.

La morte per attacco cardiaco sembra trovare riscontro dalle parole di chi lo conosceva e gli è stato vicino negli ultimi giorni. Warne aveva accusato dolori al petto appena prima di prendere un volo dall’Australia a Koh Samui (Thailandia), secondo quanto raccontato dalla sua stessa segretaria. Il manager ha poi aggiunto che per l’ex lanciatore questa non fosse la prima soluzione estrema per perdere peso, dopo aver seguito un regime alimentare simile già tre o quattro volte in passato.

«Aveva anche una forte dipendenza dal fumo, sicuramente avrà influito sull’infarto e sul suo stato di salute», ha infine commentato Erksine. Il corpo di Warne sarà ora trasferito in traghetto in Australia dove saranno organizzati funerali di Stato. 

La famiglia nel frattempo chiede riserbo ai media e ai tanti curiosi che in Thailandia hanno provato a raggiungere e intercettare l’ambulanza che trasporta l’ex campione. Una donna tedesca, racconta il broadcast australiano Abc, sembra anche essere riuscita a entrare nel mezzo, allontanata dai sanitari solo dopo qualche minuto. 

Ossessione per il fisico

Recentemente, come testimonia anche l’ultima foto postata sul suo account Instagram, Warne aveva condiviso sui social alcuni dettagli sul suo stato di forma e gli obiettivi personali prefissati. Nonostante avesse 52 anni, e una vita divisa tra il golf, il poker e qualche apparizione in tv come opinionista, la leggenda voleva a tutti i costi tornare al top della sua condizione atletica. Aveva già perso 14kg nel 2020, seguendo una dieta simile, con l’obiettivo, a detta sua, di voler scendere da 98 a 80kg, per lui il peso forma di un atleta alto un metro e 83 centimetri. 

«The Spin King», così veniva chiamato dagli appassionati di cricket, aveva negato di aver ricevuto anche un trattamento di chirurgia estetica o di voler perdere peso attraverso l’uso di medicinali o rimedi estremi. Aveva seguito dei metodi derivanti dalla medicina tradizionale cinese, affermando di aver appreso ricette e realizzato dei frullati in grado di sostituire gli alimenti solidi e raggiungere così il suo obiettivo attraverso una dieta restrittiva.

Un suo ex compagno di squadra, Ian Healy, commentando la notizia della sua morte, poco dopo quella di un altro ex giocatore, Rod Marsh (morto a 74 anni, sempre di infarto), ha detto «di non essere sorpreso che il suo stile di vita potesse avere questo tipo di conseguenze, fino a problemi di salute gravi che potessero mettere a rischio la sua stessa vita».

La morte improvvisa di Warne ha invece lasciato sotto choc i familiari, dai genitori Keith e Brigitte, al fratello Jason, ai figli Jackson, Summer e Brooke, oltre all’ex moglie Simone e alla ex fidanzata, l’attrice Elizabeth Hurley legata allo sportivo per tre anni e che a Instagram ha affidato un messaggio di dolore: «Mi sento come se il sole fosse andato dietro una nuvola per sempre. Riposa in pace mio amato Lionheart». 

La carriera e le reazioni

Warne si era ritirato dal cricket giocato nel 2007, dopo che l’Australia aveva sconfitto 5-0 l’Inghilterra in una partita in casa. Considerato uno dei lanciatori più forti della storia, aveva militato in Australia, Gran Bretagna e India in squadre come Victoria, Hampshire, Rajasthan Royals e Melbourne Stars, sempre con il numero 23, e trascinato la sua Nazionale verso la finale della Coppa del Mondo nel 1996.

Esperienza che lo portò a essere vice-capitano, fino al trionfo ai Mondiali del 1999, quando venne eletto «man of the match» al termine della finale vinta contro il Pakistan. Quattro anni dopo il bis non arrivò per aver fallito un controllo anti-doping, motivo per il quale fu escluso dalla competizione. 

Dal mondo del cricket è arrivato un cordoglio generale. Persino il suo storico rivale indiano, Sachin Tendulkar, ha detto di sentirsi «stordito, infelice e sconvolto per la sua morte improvvisa». L’ex capitano della Nazionale australiana David Warner ha parlato di «un’enorme perdita per il cricket», per poi aggiungere: «I miei pensieri e le mie preghiere vanno ora alla sua famiglia, non riesco ancora a crederci».

·        Il Ritocchino.

La strana storia dei "Guinea Pig" e del pioniere della chirurgia plastica. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, un dottore venuto da lontano rese salva la vita e integro il morale dei suoi piloti spezzati. Uomini senza volto destinati a una vita solitaria per aver difeso il loro Paese. Tra loro scherzavano definendosi delle "cavie". Davide Bartoccini il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

C'è un buffo inno che uomini messi a dura prova dalla guerra e da una lunga degenza avevano composto per tirarsi su il morale, in attesa di potersi riguardare allo specchio senza tremare di terrore. Tra loro si chiamavano i "Guinea Pigs" - porcellini d'India, le cavie per eccellenza - ed erano i membri di un esclusivo tanto sfortunato club, in quanto tutti sottoposti alle pionieristiche cure di un dottore che avrebbe fatto la storia della chirurgia plastica: l'encomiabile Archibald Hector McIndoe. Un uomo che era arrivato dalla Nuova Zelanda e che sarebbe diventato "Sir" per i servigi resi alla corona ma soprattutto ai suoi "porcellini d'India" gravemente feriti in combattimento.

Quando il 3 settembre del 1940 il pilota e futuro scrittore Richard Hillary fu abbattuto dal suo "Ultimo avversario", mentre volava sul suo Spitfire per difendere i cieli d’Inghilterra in quella che Churchill avrebbe definito l'ora più buia, si ritrovò bruciato e sfinito a dondolare appeso al paracadute che aveva aperto per miracolo. La pelle gli pendeva a brandelli sul volto ustionato, e le dita erano diventate un tutt’uno con la pelle dei guanti da aviatore. Ammollo nel mare salato dove si era inabissato il suo aereo in fiamme, svenne pensando al suo destino e alla sua sfortuna nel non essere morto sul colpo. Perché era l’atroce destino dei giovani piloti da caccia quando non vincevano un duello: potevano morire o rimanere gravemente ustionati, perché le pallottole avversarie spesso colpivano il serbatoio dei loro aeroplani lasciando che le fiamme avvampassero in meno di un istante. Conoscere il loro destino, sapere che potevano ritrovarsi a essere uno delle centinaia di sfortunati che diventavano noti come gli "uomini senza volto" - ossia coloro che in seguito a quelle terrificanti ustioni rimanevano sfigurati al punto di non avere più alcun lineamento - li terrorizzava più di ogni altra cosa. Avrebbero trascorso un futuro privato dell'espressività. Di sorridere, o piangere. Sarebbero stati condannati forse a una vita solitaria, per il solo timore d'essere guardati, rifiutati, o addirittura di spaventare chi poteva imbattersi nella loro immagine.

Recuperato a un passo dall'oblio, Hillary, come altri prima e dopo di lui, si ritrovò ricoverato nel terzo reparto del Queen Victoria Hospital di East Grinstead, nel Sussex. Era là che venivano convogliati tutti i piloti della Royal Air Force che in quei giorni di battaglie aeree così forsennate, avevano subito le ferite e le ustioni più gravi. Era là che li attendeva il dottor McIndoe, nominato consulente di chirurgia plastica dal Ministero della Guerra nel 1938.

Nato nei sobborghi di Dunedin, nella lontana Nuova Zelanda, Archibald McIndoe, specialista in chirurgia, effettuava fino a quattro interventi chirurgici al giorno ed era contornato di uomini senza naso o senza mascella, con vistosi bendaggi, che spesso li facevano sembrare delle curiose "mummie" in pigiama da notte. Molti avevano moncherini, altri, più fortunati almeno a un primo sguardo, erano solo privi dei capelli - nonostante avessero appena festeggiato i loro vent’anni - e con una benda su un occhio. Tutti facevano parte di quello che sarebbe divenuto noto come il Guinea Pigs Club: perché erano le cavie della chirurgia (a volte solo pionieristica, a volte quasi sperimentale) di quel dottore che li osservava senza lasciar trasparire il minimo sgomento o imbarazzo dal suo sguardo gentile e rassicurante.

Le garze, l'acqua di mare e l'affetto per i "suoi ragazzi"

Dei 4500 piloti abbattuti durante la guerra, almeno 3.600 subirono ustioni del corpo: 700 di queste erano estremamente gravi e almeno 200 di loro rischiavano di rimanere completamente sfigurati. Per ogni paziente arrivato al suo reparto, McIndoe programmava un piano di ricostruzione ad hoc, senza seguire protocolli standard nel caso di ustioni e ricostruzioni. Così facendo, riuscì presto ad avere brillanti intuizioni e aggiornare tecniche e trattamenti. Ad esempio (e questo era il caso di pazienti come il succitato Hillary), McIndoe si rese conto dell’efficacia dei bagni salini nel processo di guarigione notando la differenza tra le ustioni presentante dai pazienti che erano stati recuperati dal mare e quelli che erano stati soccorsi a terra. Ritenendo obsoleta la cura delle ustioni impiegata durante la guerra, preferì mantenere tratti di pelle feriti e ustionati asciutti ma coperti da garza imbevuta di vaselina, in modo che non si attaccasse alle ferite, e abbandonò così la "terapia della coagulazione", che prevedeva l’uso dell’acido tannico, reputandola oltre che vecchia anche dolorosa. Essa impediva inoltre l’innesto cutaneo, oltre a causare, in alcuni casi, la cancrena e causando spesso la cecità a coloro che erano rimasti ustionati nella zona degli occhi. Eventualità molto comune nei piloti.

In media ogni paziente di McIndoe sarebbe stato sottoposto a un minimo di 10 fino a un massimo di 50 operazioni nel corso di tre lunghi anni. Al termine delle prime cure, tutte le tecniche della moderna chirurgia plastica venivano impiegate o sperimentate per ricostruire palpebre, labbra, guance, nasi, sopracciglia e orecchie. Lo stesso valeva per le ferite agli arti. È noto che il famoso asso da caccia Geoffrey Page - che rinforzava segretamente le dita ferite schiacciando una pallina di gomma che teneva nascosta sotto le coperte - subì ben 15 operazioni. Ottenuta la riabilitazione al volo in combattimento, giurò di abbattere un aereo nemico per ogni operazione subita riuscendo ad onorare il suo impegno.

Un lato importante della missione di McIndoe era il modo di prendersi cura di quelli che chiamava "i suoi ragazzi". Il dottore dava un grande peso alla riabilitazione e ricordava a tutto il personale medico quanto fosse importante supportare quei giovani piloti nel superamento del trauma psicologico che stavano vivendo. "Creare ordine dal caos e fare una faccia che non susciti pietà o orrore. In questo modo possiamo riportare un'anima perduta alla vita normale". Questo era l’impegno di McIndoe, che parlando dei suoi giovanotti in uniforme da pilota - gliela lasciava indossare a piacere, per non farli perdere d’animo - spesso ripeteva: "I loro corpi possano essere spezzati... ma il loro spirito no".

Porcellini d’India con le ali da pilota appuntate sul petto

Il Guinea Pigs Club venne fondato nel luglio 1941 dopo una serata di bagordi, dato che i piloti che erano finiti al terzo reparto avevano in dotazione radio, alcolici e una serie di svaghi per passare il tempo tra di loro alleviando la lunga degenza. Venne fissata una quota partecipativa da versare annualmente e le somme di denaro sarebbero servite anche ad aiutare economicamente i piloti che una volta congedati potevano trovarsi in difficoltà. Come tesoriere venne scelto pilota che aveva entrambe le gambe gravemente ustionate e ingessate. Il motivo? "Era senz’altro incapace di scappare con i fondi del club", dicevano i commilitoni.

Una delle principali sfide di McIndoe - tolto l’impegno ospedaliero puro e semplice - fu quella di cambiare le regole dalla Raf. Fra tutte, quella che era considerata la "regola dei 90 giorni": termine di tempo che stabiliva se un militare ferito fosse in grado o meno di tornare in servizio attivo. In caso contrario sarebbe stato dichiarato invalido e, dopo il congedo, avrebbe ricevuto una pensione piuttosto modesta, "basata su la gravità delle sue ferite". McIndoe spronò il Ministero della Guerra a riconsiderare questi limiti di tempo, dilatandoli in virtù delle operazioni e del tempo che necessitavano, e ottenendo che, in caso di impossibilità di ritornare al servizio attivo, il pilota avrebbe ricevuto come pensione il 100 per cento della sua paga precedente. Un caso raro, dato che l'80% dei pazienti venne riabilitato e tornò al servizio attivo. Molti addirittura in combattimento.

I pazienti rimasero molto tempo accanto al loro benvoluto medico, sviluppando un’amicizia profonda che in tutti i casi sopravvisse alla guerra e al ritorno alle proprie case. Il Guinea Pigs Club, infatti, era un piccolo club internazionale dove non erano escluse tensioni e piccole baruffe per la sola provenienza. Quando entravano in discussione tra loro, i giovani avieri erano soliti scambiarsi frasi come "Ti darei un cazzotto sul naso, se ancora ne avesti uno" e "e io te lo restituirei se solo avessi una mano per dartelo". Secondo i resoconti, potevano andare avanti così per tutta la giornata. Ma questo non faceva altro che rafforzare le tesi sostenute da McIndoe, e il suo impegno nella riabilitazione psicologica oltre che fisica di quei giovani inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi, americani che erano partiti volontari ancora prima di Pearl Harbor, francesi, cecoslovacchi e polacchi. Tutti ragazzi che avevano più o meno venti anni e avevano combattuto uno a fianco dell’altro, in aria come nella corsia d'ospedale.

Durante e dopo la guerra Archibald McIndoe, baronetto dal 1947, ottenne il plauso della comunità medica internazionale. Invitato spesso a conferenze in giro per il mondo, aprì uno studio privato di grande successo. Morì nel sonno all’età di 59 anni. Una morte dolce per un uomo gentile. Seppure troppo precoce per qualcuno che aveva saputo dare così tanto a quei pochi che passarono alla storia come i few. Membri di quell’esclusivo club di coraggiosi che brindarono fino alla fine dei loro giorni, riunendosi e cantando quel buffo inno in ricordo del loro medico curante. "Noi siamo l’esercito di McIndoe" gridavano, boccale di birra o bicchiere di sherry alla mano, "siamo i Guinea Pigs, con dermatosi e peduncoli, occhi di vetro, denti fini e parrucche, e quando avremo il nostro congedo grideremo con tutte le nostre forze: 'Per ardua ad astra'".

Martina Manfredi per repubblica.it il 14 novembre 2022.

Non è un caso se tra i diversi ideali estetici, a fare da scuola e avere più successo in tutto il mondo è stata la bellezza alla francese (e in particolare alla parigina). Dai primi decenni del Novecento in poi, la Francia si è conquistata il ruolo di patria dell’industria cosmetica e Parigi quello di capitale mondiale della bellezza: è qui che, complici le riviste femminili francesi, si è affermato il canone estetico - tuttora dominante - che vuole le donne slanciate e longilinee.

Per questo non deve sorprendere troppo che quello che oggi viene considerato come il più odiato degli inestetismi, ovvero la cellulite, sia proprio un’invenzione francese. L’ultimo a ricostruirne la storia è stato un video di Le Monde ripreso da Internazionale, che racconta come e perché una comunissima manifestazione cutanea - riguarda circa il 90% delle donne - è stata trasformata in un inestetismo. Di seguito la storia della cellulite in sei tappe. 

1. I secoli pre-grassofobia

Lo standard di bellezza femminile prima del Novecento era ben diverso da quello odierno: ce lo ricordano molte tele del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento - da Diana e Callisto di Pieter Paul Rubens alle donne nude dipinte da Francois Boucher e Gustave Courbet.

Nei loro quadri la cellulite viene celebrata come forma di bellezza, evidenziandola e ritraendola in primo piano. Oggi guardando questi dipinti siamo in grado di riconoscerla, ma all’epoca la cellulite non "esisteva": non era proprio un argomento, tanto che la parola è nata solo nella seconda metà dell’Ottocento. 

2. La prima definizione di cellulite

La parola "cellulite" compare per la prima volta in Francia precisamente nel 1873, nella dodicesima edizione del Dizionario di Medicina scritto dai medici Émile Littré e Charles-Philippe Robin. In particolare, i due dottori usano la parola cellulite per indicare "un’infiammazione del tessuto cellulare o laminare", senza mai fare riferimento all’adipe o al grasso o all’aspetto "buccia d’arancia". 

3. La nascita del problema della cellulite

Il periodo tra le due guerre mondiali, dagli anni Venti agli anni Quaranta del Novecento, è la culla del concetto di cellulite per come lo intendiamo oggi. È in questo periodo, infatti, che alcuni medici francesi cominciano a parlare di cellulite, in modo sempre più allarmista, associandola a delle formazioni di grasso sotto pelle, ed è in questo stesso periodo che la cellulite fa il salto dai libri di testo medici al lessico comune.

Il percorso non è lineare ed è frutto di una concatenazione di eventi: come spiega la tesi della professoressa Rossella Ghigi sulla storia della cellulite (la fonte più approfondita sull’argomento, usata anche dal video di Le Monde), bisogna considerare che in quest’epoca la scienza medica avanza tanto velocemente quanto l’espansione dell’industria della bellezza, a sua volta definita da rivoluzioni del costume e della società. 

4. Il ruolo delle riviste femminili

Nel periodo tra le due guerre, infatti, la donna diventa sempre più autonoma e centrale nella società e, mentre le mode del tempo invitano ad accorciare le gonne e andare in spiaggia con il costume da bagno, il corpo femminile viene sempre più analizzato (e criticato).

In questo, come ricorda Ghigi, le riviste femminili dell’epoca hanno un ruolo determinante: la lotta alla cellulite si trasforma da questione medica a estetica quando, nel 1933, il concetto di cellulite appare per la prima volta in un numero del magazine Votre Beauté. 

Visto che all’epoca cosce e glutei si mostravano pochissimo, la cellulite viene descritta come un problema che riguarda soprattutto la parte inferiore della gamba e la nuca, le parti più scoperte (complice anche la moda dei tagli di capelli à la garçonne, lanciata da Coco Chanel). Da questo momento in poi l’ossessione dilaga: sempre più lettrici chiedono consigli a riguardo e, nel disperato inseguimento del nuovo modello estetico longilineo, la lotta alla cellulite diventa universale. 

5. L'ossessione verso il grasso degli Anni Sessanta

Negli anni Sessanta la questione della cellulite ha ormai valicato la Francia e preso piede anche nel resto del mondo, America in primis. Vogue è il primo numero in lingua inglese a parlare di cellulite nel 1968 con l’articolo Cellulite: il grasso che non sei mai riuscita a perdere, dove una giovane donna racconta come è riuscita a sbarazzarsi della cellulite grazie a un mix di esercizio fisico, dieta, postura corretta e massaggio della pelle con uno speciale mattarello.

Di pari passo con l’ossessione verso la cellulite, infatti, si moltiplicano anche i rimedi per contrastarla: produttori cosmetici e saloni di bellezza intravedono fin da subito l’interesse commerciale e il mercato assiste a un boom di prodotti anticellulite (guaine, massaggiatori, impacchi, creme, trattamenti, fino agli attuali laser, ultrasuoni, onde d’urto, radiofrequenza, eccetera). 

6. La cellulite oggi: malattia o inestetismo?

Oggi la cellulite viene trattata dalla cosmetica e della medicina estetica come una malattia, ma sulle sue cure non c’è unanimità. Il video di Le Monde fa riferimento a uno studio francese del 2015 che sottolinea la dubbia efficacia di tutti gli attuali rimedi per la cellulite ("non esistono prove chiara dell’efficacia", si legge nelle conclusioni dello studio), salvando in parte il trattamento con le onde d’urto, capace di dare "alcuni benefici". Lo studio ricorda che la cellulite non è una malattia propriamente detta, ma su questo molti dermatologi non sono d'accordo.

"La cellulite è una vera e propria patologia, identificata in medicina con il nome scientifico di panniculopatia edemato fibro sclerotica (PEFS)", ci dice la dottoressa Valentina Amadu, medico chirurgo specialista in dermatologia e venereologia. Che cos'è esattamente la cellulite? 

"La cellulite è un’infiammazione del tessuto sottocutaneo che di riflesso coinvolge anche l'epidermide e il derma. L'aspetto cosiddetto 'buccia d’arancia' non è una patologia, ma è una manifestazione della riserva di grasso, senza pericoli per la salute", continua la dermatologa. 

Questo è il punto che fa riflettere di più: per quanto considerata da molti dermatologi una patologia, la cellulite in sé non è pericolosa per la salute, quindi si cura principalmente per motivi estetici. "Bisogna valutare se la cellulite è sintomo di qualche altra problematica, come un'insufficienza venosa, linfatica o ormonale: in questo caso va curato il problema all'origine, altrimenti la cellulite si cura principalmente per motivi estetici", chiarisce la dottoressa Amadu.

 Quello che sorprende è che la cellulite riguarda circa il 90% delle donne e si forma indipendentemente dalla forma fisica: proprio perché è così ampiamente diffusa, le sue cause sono ancora poco chiare. "Le cause della cellulite sono molto varie, dalla predisposizione genetica al fumo, dalla sedentarietà ai fattori ormonali, fino alla dieta sregolata", spiega la dermatologa. 

"L'eziopatogenesi della cellulite rimane ancora un enigma, ma il derma e il tessuto sottocutaneo sono coinvolti da soli o in combinazione e diversi sono i fattori che sembrano interessati nella comparsa di questo inestetismo", aggiunge Elisabetta Fulgione, dermatologa dell’Università degli Studi della Campania Vanvitelli e Tesoriere Nazionale SIME (Società Italiana di Medicina Estetica).

Tuttora misteriosi sono anche i meccanismi che portano alla formazione della cellulite: "Non sono stati chiariti tutti i meccanismi alla base della PEFS, ma grande importanza riveste il cattivo funzionamento della microcircolazione venosa e linfatica, che provoca rallentamento del flusso sanguigno a livello dei capillari, ristagno linfatico e riduzione dell’irrorazione", continua la dottoressa Fulgione. 

"A oggi sappiamo, dunque, che il meccanismo alla base della cellulite è piuttosto complesso e le alterazioni che portano all’ inestetismo cutaneo si verificano per lo più a livello dell’ipoderma, lo strato più profondo della pelle".

Parlare di "cure" per qualcosa di così diffuso e innocuo per la salute, forse, è fuori luogo: meglio parlare di rimedi, tenendo a mente che, come ricorda la dottoressa Fulgione, "non esiste una terapia risolutiva per la cellulite, ma si può intervenire per prevenire evoluzione, ridurre i segni e i sintomi più importanti". 

In questo senso, "l'ultima frontiera sono le micro onde - il macchinario si chiama Onda Coolwaves® - che scendono in profondità nell’ipoderma e sciolgono il grasso stimolando le fibre di collagene e il tessuto connettivo intorno ai globuli adiposi, levigando così l'aspetto buccia d’arancia", ci dice la dottoressa Amadu. I risultati? "Ci sono studi che ne dimostrano l'efficacia, ma i risultati variano molto da persona a persona". Come molti rimedi che, appunto, non sono cure. Perché se non c'è qualcosa di pericoloso per la salute, non c'è nulla da curare.

Donne straordinarie. Suzanne Noël, la femminista pioniera del "ritocchino". Il concetto di libertà della donna è più forte solo quando si conserva la bellezza naturale o anche con quel ritocco in più? Era sicuramente del secondo pensiero Suzanne Noël, colei che utilizzava i bisturi per modificare i connotati dei volti. Laura Lipari il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il concetto di bellezza e i primi studi

 La separazione e gli anni di ricerche

 La Grande Guerra e il deturpamento

 Gli anni post bellici e le battaglie per il suo credo

 “Soroptimist”

Suzanne Blanche Marguerite Gros nasce il 19 gennaio del 1879 a Laon, un paesino francese di origine medievale e cresce con la madre vedova che le impartisce una severa educazione insegnandole a diventare la classica brava moglie per un buon partito. A quell'epoca era questo il massimo a cui puntare per una donna. Sin da piccola, quindi, impara l’arte del cucito ma anche la composizione di miniature, passione che sarà la sua fortuna nel tempo.

A 19 anni sposa un dottore dermatologo, Henry Perat, e nel 1897 la coppia si trasferisce a Parigi in un quartiere famoso per essere frequentato da artisti come Alexander Dumas e attori emergenti di quell’epoca. Suzanne e il marito vivono negli agi, ma non è pienamente soddisfatta. Si sente incompleta e ha un irrefrenabile impulso di curiosità nei confronti del mondo che non può appagare stando ferma nella sua condizione. Inizia a recarsi spesso nello studio di dermatologia a osservare, affascinata, il lavoro del marito, cui fa continue domande memorizzando ogni cosa.

Il concetto di bellezza e i primi studi

Proprio in quegli anni spopola la “beauty culture”: il canone femminile per eccellenza, un prototipo ideale di come dovrebbe essere il corpo delle donne. A dare le misure sono i film le riviste e le pubblicità che sponsorizzano un corpo magro e longilineo. Si comincia quindi a inseguire affannosamente quell’ideale di perfezione con diete e strumenti di tortura. Per chi invece può permetterselo, la strada più breve è quella della chirurgia plastica che nei primi del ‘900 è solo agli inizi. Suzanne, che è un’osservatrice attenta anche a questi cambiamenti, si affeziona talmente tanto all’idea di poter modificare qualcosa di già compiuto da chiedere l’autorizzazione al marito di poter studiare medicina. Durante quegli anni, infatti, vige ancora il codice napoleonico che tiene ben saldo l’ideale dell’uomo padrone di ogni decisione. Henry non ha nulla da obiettare e, anzi, la incoraggia a iscriversi all’università per poter lavorare insieme nel suo studio.

Iniziano le lezioni e Suzanne è una delle pochissime donne a studiare tra una moltitudine di uomini. La disparità è notevole sia nella scuola per raggiungere il diploma, si tra i banchi in facoltà di medicina. Ma Suzanne è determinata, non si fa intimorire e ottiene voti brillanti, soprattutto nelle materie dove viene messa in pratica la destrezza di mano. Il suo passatempo preferito impiegato a costruire miniature le aveva dato un’ottima preparazione che viene notata, in modo differente, da colleghi e professori.

Il fatto di essere donna costituisce ancora un grosso problema e lo diventa ancora di più quando inizia il tirocinio all’interno di un ospedale. Alcuni medici, infatti, denunciano la sua presenza al tribunale di Parigi, chiedendo l’esclusione e l’interdizione sua e di tutte le donne della facoltà di medicina. Richiesta, però, respinta.

Tra i banchi dell’università Suzanne stringe una forte amicizia con André Noël, un giovane studente come lei appassionato di medicina. Nel frattempo apprende da un brillante medico la tecnica per “riparare” i danni sui volti: rimane stupita di come una mano ferma e abile possa ridare un aspetto migliore a chi viene sfregiato. In particolare, l’intervento su una bambina con la guancia deturpata da un’ustione mette in moto in Suzanne l’assoluta convinzione che il suo futuro sia tutto racchiuso nella chirurgia estetica.

La separazione e gli anni di ricerche

Dopo undici anni di matrimonio, nel 1908, dà alla luce la sua prima figlia, Jacqueline. Sin dall’inizio la paternità della bambina è dubbia e cominciano a vociferare pettegolezzi su una storia extraconiugale proprio con André. Anche se le chiacchiere da strada si dimostreranno vere, lei negherà per anni custodendone il segreto. Né la gravidanza, né la nascita della figlia frenano la sua passione verso gli studi e la voglia di apprendere. È proprio questa sua assenza in famiglia a spingere lei e Henry a litigare sempre più spesso, fino a che il rapporto si incrina e i due si separano mantenendo un buon rapporto.

Nel 1911 Suzanne si trasferisce insieme a Jacqueline in un appartamento che, però, non riesce a gestire da sola perché giuridicamente risulta ancora legata al marito e dunque dipendente da ogni sua decisione. Henry è perfettamente consapevole della situazione e spinto dal bene e dalla grande considerazione verso l’ex moglie, decide che può continuare a collaborare con lui così da poter sostenere le spese.

Nel contesto universitario è contesa tra i suoi due grandi mentori. Con uno continua il lavoro nel reparto di ginecologia e ostetricia, con l’altro si esercita nella chirurgia plastica ed estetica. Un giorno il marito la informa di un evento unico: Sarah Bernhardt, un’attrice di 66 anni, si era appena prestata a un intervento di lifting frontale eseguito dal professor Charles Miller per eliminare le rughe.

Suzanne è curiosa di vedere il risultato e quando ci riesce decide di contattare la star del cinema per convincerla che il lavoro fatto sul suo viso, nonostante sia buono, è a metà perché ha lasciato diversi solchi della vecchiaia all’altezza degli occhi e nella parte inferiore nel volto. Bernhardt la ascolta con interesse e accetta il consiglio di sottoporsi a un ulteriore intervento. Il risultato è sorprendente e sembra che l’operazione le abbia tolto almeno 10 anni di vita. A quel punto Suzanne è completamente entusiasta e affascinata dalla magia della chirurgia.

La Grande Guerra e il deturpamento

Nel 1914 inizia la Prima Guerra Mondiale. I deturpamenti bellici non incidono solo sul territorio ma anche sui volti e i corpi delle persone e così, dal 1916, Suzanne che è ancora solo una tirocinante, mette a disposizione le sue conoscenze occupandosi dei feriti. Successivamente, durante l’occupazione nazista, si prenderà cura di partigiani ed ebrei torturati dalla Gestapo, dedicandosi alla rinoplastica facciale per modificare totalmente i tratti del volto e permettere loro la libertà.

Nel frattempo Henry, che si era arruolato come volontario, crede molto alla causa e combatte in maniera eroica. Un giorno, durante l’addestramento, perde la sua maschera antigas e inala una sostanza chimica che gli compromette totalmente i polmoni e dopo una lenta agonia, nel 1918, muore. È un duro colpo per Suzanne, ma reagisce al dolore come ha sempre fatto: impegnandosi a proseguire la sua ricerca. La sua occupazione diventa quella di sostenere le vittime di guerra, anche le donne vedove che capisce e comprende e rassicura con parole motivanti e prodotti per la cura del viso e del corpo.

Gli anni post bellici e le battaglie per il suo credo

Con la morte del marito muoiono anche quei pochi diritti che Suzanne aveva conquistato tramite la firma alle autorizzazioni. È consapevole del fatto che adesso non ha più un lavoro con cui sfamare la figlia e la madre che nel frattempo si era trasferita da lei. La soluzione è davanti ai suoi occhi: André. Il giovane, però, essendo più piccolo di sette anni, non ha concluso gli studi, è ancora un tirocinante e quindi neanche lui ha un lavoro stabile. Sarà proprio lei ad aiutarlo a laurearsi e a fornirgli tutte le ricerche.

Nel 1919 i due si sposano ufficialmente e lei diventa Suzanne Noël. Insieme alla figlia si trasferiscono in un appartamento all’interno del quale una stanza era utilizzata come sala operatoria per i suoi interventi chirurgici con cui modifica e perfeziona i connotati del corpo e del viso delle sue clienti. Negli anni successivi, con una mano sempre più esperta, eseguirà i suoi interventi più complessi e invasivi in una delle cliniche più prestigiose della Francia, così da poter utilizzare anche l’anestesia totale per operazioni che riguardano altre parti del corpo come il seno.

Gli ostacoli, però, sono ancora tanti e la medicina si spacca in due tra chi è pro e chi contro a questo tipo di interventi ritenuti non necessari perché esclusivamente estetici. Ne seguiranno anche battaglie legali durante le quali chi è contro presenterà esempi in cui la chirurgia ha rovinato visi e corpi in maniera irrecuperabile. Questo dibattito, anche se in termini più placati, dura ancora fino a oggi. Ciononostante i lavori di Suzanne continuano ad avere successo e la sua passione è sempre più legata all’attivismo a cui crede, operando gratuitamente donne che lavorano in fabbrica e licenziate perché considerate "troppo anziane”. La sua è una battaglia femminista perché trasforma la chirurgia in sicurezza e la sicurezza nell'obiettivo di far prevalere i propri diritti in qualsiasi ambito della società.

Quando la figlia muore a 13 anni per aver contratto la spagnola, André reagisce chiudendosi in se stesso e sperperando tutti i loro guadagni. Segue un periodo di profonda crisi per la coppia dove l’unica soluzione rimane quella di portare l’uomo in un istituto psichiatrico, ma prima di farsi fare internare, mentre stanno passeggiando, André si getta con uno scatto improvviso nella Senna e muore.

“Soroptimist”

È il 1924 e Suzanne si trova nuovamente in uno stato disastroso da cui ne uscirà ancora buttandosi a capofitto sul lavoro. Per ironia della sorte si trova a 47 anni con una fama che la precede in campo chirurgico, ma nessuna carta in mano che lo dimostri perché non ha discusso la tesi di laurea e dunque non ha mai ottenuto alcuna licenza per esercitare. Così l’anno dopo decide che a tutti i costi deve finire i suoi studi e ci riesce. Adesso può dedicarsi alla sua passione alla luce del sole. La battaglia femminista rimane al centro delle sue attività. La sua volontà è quella di far sì che le donne acquisiscano sempre più indipendenza dalla figura dell’uomo e possano riuscire a cavarsela da sole proprio come ha fatto lei durante la sua vita.

L'ennesimo cambiamento della sua vita avviene con l’associazione “Soroptimist” del medico Stuart Morrow che la contatta per poterne far parte. Soroptimist International è un’organizzazione statunitense no profit che raccoglie donne da ogni parte del mondo con un’elevata professionalità per metterla a disposizione della condizione e dei diritti femminili. Sarà proprio Suzanne a fondare in Francia il primo Club Soroptimist dell’Europa continentale e poi ad allargarsi fino in Cina e Giappone.

In seguito a un problema alla vista si ritira dalle sale operatorie e dai salotti a cui partecipava grazie alla sua fama e trascorre la sua vecchiaia occupandosi, solo con le sue idee pragmatiche e non più con le mani, all’attivismo di cui va orgogliosa. Muore l’11 novembre del 1954 all’età di 76 anni.

Del suo nome intriso di lavoro e battaglie resta una borsa di studio, la “Dr. Suzanne Noël Scholarship”, destinata a donne medico che intendano specializzarsi nel campo della chirurgia plastica e ricostruttiva, una targa commemorativa e una via parigina che riporta il suo nome.

·        L’Anoressia.

Anoressia, bulimia e non solo: una «nuova epidemia» esplosa durante il lockdown. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 10 novembre 2022.

Il disturbo alimentare non è un capriccio, ma una malattia seria e complessa che comporta un senso d’inadeguatezza. In Italia ne soffrono circa tre milioni di persone. Cosa devono dire o fare i genitori davanti a quella che è una vera emergenza? Come riconoscere i segnali di allarme e capire che cosa fare? Al Tempo della Salute 2022 se ne è parlato con Renato Borgatti, direttore della neuropsichiatria infantile della Fondazione Mondino, Laura Dalla Ragione, direttore della rete per i disturbi alimentari dell’Usl Umbria 1, Stefano Erzegovesi, psichiatra, nutrizionista e divulgatore scientifico e Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del Corriere della Sera, nell’incontro moderato da Chiara Daina.

La non consapevolezza

La vicedirettrice del Corriere ha ricordato come, durante la pandemia, è esploso un fenomeno già preoccupante con un rilevante aumento del numero dei casi di disturbi alimentari e come ha deciso, in quel momento, di raccontare la sua esperienza nel libro «Affamati d’amore» (per ed. Solferino) e in un podcast, con lo scopo di non lasciare sole le famiglie che affrontano la malattia. Sarzanini ha ricordato come l’elemento di fondo sia spesso la non consapevolezza di avere un problema. Raccontare una storia serve anche a tratteggiare il percorso necessario a «uscire allo scoperto». A volte le persone che soffrono di questi disturbi non si sentono deboli, anzi: gestire il cibo è una prova di forza, ma anche un modo per attirare l’attenzione e chiedere aiuto attraverso il corpo.

Cos’è successo nel lockdown

Il periodo del Covid è stato un periodo traumatico per gli adolescenti e preadolescenti, lo conferma Laura Dalla Ragione, direttore della rete per i disturbi alimentari dell’Usl Umbria 1: il 30% in più di pazienti malati soprattutto in bambini tra i 10 e gli 11 anni. La bulimia nervosa e l’alimentazione incontrollata sono le diagnosi principali. Non è più una malattia di genere: il 20% dei pazienti sono maschi tra i 14 e i 17 anni. Il lockdown non è stata tecnicamente la causa dei disturbi alimentari, ma ha fatto venire fuori il disagio diffuso.

I centri ospedalieri

Renato Borgatti, direttore della neuropsichiatria infantile della Fondazione Mondino, ha parlato del suo centro multidisciplinare, che prende in carico i pazienti (e le famiglie). Questa realtà, ospedaliera, si rivolge ai giovani più gravi (la diagnosi di anoressia è quella che comporta anche il dato numerico peggiore sulle vittime). Il centro è multidisciplinare perché spesso sotto a un disturbo alimentare c’è un disturbo psichiatrico. L’anoressia, in particolare, è una malattia di fatto psichiatrica. Il professore ha parlato di un’età di esordio che si è abbassata: spesso si inizia nella preadolescenza (anche dagli 8-9 anni).

I segnali da non trascurare

I segnali da non sottovalutare sono difficili da interpretare: il ragazzo non chiede aiuto perché percepisce il suo comportamento come una soluzione ai suoi problemi. Una volta che si sia capito che c’è un disagio alimentare, bisogna trattare il disturbo «come fosse un tumore in un adulto — specifica Stefano Erzegovesi, psichiatra, nutrizionista e divulgatore scientifico —. È pari a un grave problema di salute. Pretende cure di lunga durata e attenzione costante. Quali sono i segnali? Cambia il modo di stare a tavola: si perde la convivialità, si sta al tavolo in modo silenzioso e concentrato. Cambia l’immagine corporea, ci sono ragazzi che chiedono continuamente rassicurazioni sul proprio corpo. Il cervello di un giovane a digiuno, poi, è in carenza: ci sono pensieri ossessivi, scatti di rabbia, voglia di isolarsi». La bulimia è un fenomeno più nascosto: perché la persona normalmente è normopeso. Anche in questo caso però si registrano: «Un modo diverso di stare a tavola, di correre via dopo il pasto e di avere attenzione per il proprio corpo».

Che cosa fare e dove

«L’ossessione è il nucleo: i malati pensano tutto il giorno a questo, al cibo, al peso, al corpo», dice Laura Dalla Ragione. L’ossessione è collegata alla dis-percezione, il vedersi in modo alterato. È davvero il cervello che vede in modo malato: è anche uno degli ultimi sintomi a scomparire, ci mette almeno due anni, ecco perché servono cure da centri che abbiano all’interno diversi specialisti che collaborano. Anche le cause dei disturbi alimentari sono multifattoriali. La prima figura da contattare sarebbero il medico curante o il pediatra. È necessario chiedere aiuto anche se nel dubbio. È necessario rivolgersi ai centri specializzati: 1 ragazza su 10 ha un disturbo alimentare in questo momento.Una volta si sia avuta una diagnosi ci saranno gli psichiatri e i nutrizionisti, sempre insieme con la famiglia, «perché si ammala anche tutta la famiglia, che va aiutata», dice la specialista. Nel 60% dei casi un buon ambulatorio integrato riesce a rispondere alle esigenze più importanti. Poi ci sono centri più specifici, che arrivano fino al ricovero salvavita in ospedale. L’offerta italiana è ancora disomogenea tra le Regioni. L’Istituto Superiore di Sanità ha un sito che offre l’elenco dei centri presenti sul territorio. C’è anche un numero verde: 800 180 969, che offre un servizio di orientamento alla famiglia.

L’aiuto per le famiglie

Parlando di famiglia, è stato ricordata la necessità del servizio psicopedagogico: i genitori fanno tante domande cui è necessario rispondere. In seconda battuta, spiega Renato Borgatti, serve uno spazio di ascolto proprio perché l’individuo si occupi della sua sofferenza. «I ragazzi malati sono l’anello debole di una catena famigliare», dice lo specialista, «Noi tentiamo di spostare l’attenzione dal comportamento alimentare all’analisi delle emozioni e dei problemi». Il problema generale è la negazione della patologia da parte di chi è coinvolto: l’adolescente deve aver fiducia degli adulti e fidarsi di poter essere aiutato. La prevenzione avrebbe un ruolo centrale: costruire centri di ascolto dove i ragazzi possono manifestare il loro disagio. «L’adolescenza è mitizzata: è un periodo faticoso», osserva Borgatti. Se l’adolescente riesce a esprimere il disagio, non deve manifestarlo con il proprio corpo.

La rieducazione e l’appello finale

Dal punto di vista nutrizionale, il punto da cui partire è la ricostruzione di una familiarità con il cibo, ricorda Stefano Erzegovesi. Lo si fa poco a poco, ci sono dei training specifici su questo. Il secondo passaggio è eliminare l’idea che esistano «alimenti vietati, usare magari il ricordo dell’infanzia per far tornare la curiosità su quel sapore. Con equilibrio, però — conclude l’esperto —, perché in quest’epoca si parla troppo di cibo». L’incontro si è chiuso con un appello alle Istituzioni: da Fiorenza Sarzanini è stato ricordato che i disturbi alimentari non sono ancora malattie riconosciute. È urgente intervenire, aumentare i centri dove si possono affrontare i casi più difficili, non sottovalutare la gravità e la diffusione di queste patologie.

Da ilrestodelcarlino.it il 22 giugno 2022.

Rischia la vita, a soli 11 anni, per anoressia. La bambina pesa poco più di 30 chili, per un metro e cinquanta ed è da dieci giorni alimentata con un sondino naso-gastrico, e idratata per via endovenosa.  

E ora il sindaco di Ferrara, Alan Fabbri, da giorni in contatto col padre della ragazza anoressica che rischia la vita, alla luce delle difficoltà riscontrate a trovare posti disponibili in centri specializzati, anche al di fuori della provincia di Ferrara e dell'Emilia-Romagna, rilancia "a tutto il Paese" l'appello del padre. 

"Sono vicino a questi genitori, da giorni, col padre, stiamo interessando altri territori, ma purtroppo i posti, anche al Sant'Orsola di Bologna, non sono disponibili e sembra di capire che i casi siano superiori alla capacità di risposta che il sistema sanitario, nel suo complesso, esprime. Chiediamo con urgenza, appellandoci ai centri di tutto il Paese, di sostenere questa famiglia e di aiutare questa bambina, con la consapevolezza che il fattore tempo è e sarà fondamentale", dice il primo cittadino. 

Ci sono molte altre storie simili

Il padre, in una nota diffusa dall'amministrazione ferrarese, spiega di essere stato contattato anche da altre famiglie con problemi analoghi: "Dopo la segnalazione della nostra situazione, altri genitori ci hanno contattato, raccontandoci storie analoghe. Sembra una pandemia". Medici e infermieri hanno "dimostrato sensibilità e grande attenzione al nostro caso, siamo in costante contatto e loro stessi si dicono preoccupati per la situazione di nostra figlia, ma non si trovano posti a livello regionale ed extraregionale".  

Le condizioni della ragazzina

La piccola è stata ricoverata nei giorni scorsi, "non beveva da cinque giorni, era disidratata", racconta il padre. "Abbiamo visto medici con le lacrime agli occhi".

Ora la bimba si trova da dieci giorni, circa, in pediatria all'ospedale di Cona. "Siamo qui, giorno e notte, a fianco della nostra bambina, sperando che possa essere inserita in un percorso specifico, in centri specializzati, ma ancora la notizia non è arrivata, nonostante la ricerca costante". 

La coppia ha altre due figlie, di sei mesi e dieci anni. "Siamo in difficoltà, mio padre, anziano è tornato a lavorare per badare all'azienda. Mia madre ci aiuta con le bambine, chiediamo solo che ci sia data una luce di speranza", dice il genitore. 

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 23 giugno 2022.

C'è una casting director che fa un video su Instagram in cui dice: «Per una nota trasmissione televisiva stiamo cercando ragazze da i 20 e i 25 anni che soffrono di disturbi alimentari, se avete queste caratteristiche, scrivetemi subito», poi dà la sua mail. C'è una ragazza anoressica che lo vede, ha l'età giusta, è tentata e si candida, poi dubita e chiede consiglio su un gruppo Whatsapp dove chi ha problemi simili al suo viene aiutato a trovare assistenza.

L'attivista che gestisce il gruppo la mette in guardia, pensa che proporsi a un programma tv sulla base di una malattia psichiatrica sia pericoloso. Nel frattempo, la ragazza riceve questa risposta: «Si tratta di Forum, per interpretare causa contendente potrebbe interessare un provino?», a quel punto l'attivista si arrabbia, perché anche lei ha sofferto di anoressia e perché di anoressia si può anche morire, allora riposta il video di reclutamento fatto dalla casting director e scrive: «Ma non pensate che così non fate che promuovere i disturbi alimentari?», il video della casting director viene cancellato e la sua società si scusa con chi si sia sentito offeso.

Il primo personaggio di rilievo in questa vicenda è Giada Massara. Il suo volto è noto agli spettatori di Forum, la trasmissione di finzione giudiziaria di Rete 4, perché per anni è andata in onda insieme a Barbara Palombelli, partecipando ai dibattiti e lavorando ai contenuti. Con un profilo Instagram da oltre 57 mila follower, la Massara oggi si presenta come: «Casting Director #mediaset @forummediaset» e poi mette il sito della casa di produzioni televisive romana a cui ha chiesto di scrivere le candidature alle ventenni affette da DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare): Corima Produzioni.

Il secondo personaggio, la candidata, resta anonima, perché soffre di una malattia grave e la sua identità va protetta. Il terzo è Maruska Albertazzi: sceneggiatrice, autrice, giornalista, è attivista del Gruppo Lilla, da giovane ha avuto problemi con l'anoressia e oggi aiuta gratuitamente chi soffre degli stessi disturbi. Il quarto personaggio, quello che dice che il casting è per interpretare un contendente a Forum, scrive da una mail intestata ad Antonello Lauretti.

Nella sua biografia Instagram, Antonello Lauretti indica: «Casting Tv #mediaset @corimaproduzioni @forummediaset». Nel suo sito personale, si legge che la passione per la Tv lo ha portato a «collaborare con la società Corima, come Addetto Casting, alla ricerca di nuovi volti per varie trasmissioni televisive Mediaset» e il 16 maggio ha pubblicato una foto localizzata nello Studio Elios di Mediaset. È insieme a Giada Massara. È stata questa un'iniziativa di Mediaset o solo di Corima? Poi, il casting offriva un posto per recitare una parte o per rilasciare un'intervista in un contesto protetto? Corima dice che il programma in questione si sarebbe svolto in «presenza di esperti su di una patologia che colpisce molte adolescenti nel nostro Paese».

In Italia ne soffrono 4 milioni di persone e 4000 mila muoiono ogni anno. L'azienda dice anche che il casting non era per «partecipare al programma Forum quali contendenti». Ad Albertazzi, d'altra parte, sembra «strano fare un casting per un'intervista, però tutto è possibile. Se ti chiedono di fare una parte, allora è una cosa pericolosissima. Una persona che ha un disturbo alimentare, non può pensare di fare una messa in scena, la si starebbe portando a credere che può trarre vantaggio dalla sua malattia e causare un regresso».

Carlotta Lombardo per corriere.it il 22 giugno 2022.

«Per una nota trasmissione televisiva stiamo cercando ragazze dai 20 ai 25 anni che soffrono di disturbi alimentari. Se avete queste caratteristiche scrivetemi subito». Il messaggio, pubblicato sui social da Giada Massara sul suo profilo Instagram dove segnala di essere casting director di «Forum», è sparito in un paio d’ore ma non è sfuggito all’attenzione di Maruska Albertazzi, giornalista, attrice e regista bolognese attiva nella lotta ai disturbi alimentari e autrice del documentario «Hangry Butterflies. La rinascita delle farfalle» in cui racconta la lotta contro l’anoressia di giovani ragazze tra i 14 e i 22 anni.

Visto l’annuncio, la regista ha subito fatto partire l’allarme salvando e rilanciando sulla sua pagina Instagram l’inquietante messaggio. «Ma secondo voi, no, ma può mai essere normale che si facciano i casting per chi soffre di DCA (Disturbo comportamento alimentare, ndr)?!? — scrive l’attivista del movimento del Fiocchetto Lilla, l’associazione simbolo della lotta contro i Disturbi del Comportamento Alimentare —. Ma non ci pensate che così non fate che promuovere i disturbi alimentari?!». 

«Un’istigazione ai disturbi alimentari» e la posizione di Mediaset

La mail fornita nell’annuncio della Massara richiama a Corìma, società di produzione della trasmissione fondata nel 2007 da Marina Donato, vedova di Corrado Mantoni, e Massimiliano Lancellotti.

Nel catalogo della società sono presenti alcuni tra i più popolari programmi televisivi italiani, i game show «Il Pranzo è Servito» e «Tira&Molla», e il varietà «La Corrida». Dal 2008 Corìma produce insieme a Mediaset «Forum», il tribunale televisivo in onda su Canale 5 e Rete 4 ora condotto da Barbara Palombelli. 

Sull’iniziativa, la rete televisiva per la quale Giada Massara è casting director di «Forum», trasmissione per la quale è stata anche valletta nel 2013, ha replicato di non sapere niente perché gestita da una società esterna che non doveva usare il nome della rete. 

«La trasmissione è “Forum” dove, notoriamente, chi partecipa in video come contendente è spesso un attore ma più spesso una persona con un vissuto simile a quello della storia in causa — denuncia ancora Maruska Albertazzi, questa volta su Facebook — . Bene, qui si cercano ragazze malate di DCA che interpretino ragazze malate di DCA.

Senza pensare che fare un casting per malate di disturbi alimentari è un trigger terribile per la malattia. Senza pensare che interpretare un ruolo per una non-attrice significa non avere gli strumenti di difesa che si imparano nelle accademie e nelle scuole di recitazione. 

Senza pensare che poter andare in tv grazie alla propria malattia fornisce un rafforzo non indifferente alla malattia stessa. Senza un supporto clinico. Questa per me è istigazione ai disturbi alimentari bella e buona».

Una malattia grave, in aumento dopo la pandemia

Rifiutare il cibo, nasconderlo, sputarlo. Abbuffarsi e vomitare. Per controllare il peso. Compensando un senso di fragilità interiore e di impotenza nelle relazioni con gli altri e verso la realtà esterna che non si è in grado di controllare. Con la pandemia i disturbi del comportamento alimentare sono esplosi, colpendo ragazzi di età sempre minore, sotto i 14 anni, nel 90% dei casi di sesso femminile. 

Ancora oggi questo problema sopporta il peso di pregiudizi che mortificano chi ne soffre e rendono difficile l’organizzazione delle cure. Vanno considerati per quello che sono: una malattia grave e cronica, con sintomi complessi e molte cause.

«No, non sono una cosa passeggera che si risolve da sola. No, non sono un capriccio o una richiesta di attenzioni. No, non sono un modo di mettere sotto scacco mamma e papà, o di punirli. No, non sono questione di vanità. Le malattie del comportamento alimentare sono vere e proprie patologie psichiatriche e non hanno nulla di “glamour” — si legge sulla pagina Facebook di Maruska Albertazzi —. Le malattie del comportamento alimentare sono brutte e cattive. E sono malattie. Lo ripeterò fino allo sfinimento. Malattie». 

L’Istituto superiore di sanità (Iss) ha mappato 91 centri pubblici su tutto il territorio nazionale: 48 al Nord, 14 al Centro e 29 tra Sud e Isole. La mappa è disponibile online (piattaformadisturbialimentari.iss.it) e riporta anche i contatti per poter chiamare e la tipologia di interventi proposti in ogni struttura.

·        L’Alcolismo.

V. G. per “la Repubblica” il 25 settembre 2022.

«Bevevo da 12 anni e bevevo male. Sulle Pagine gialle, quand'erano ancora cartacee e ti arrivavano a casa, ho trovato un trafiletto che parlava degli Alcolisti anonimi. C'era un indirizzo, l'ho ritagliato e messo via in un cassetto del comodino. L'ho guardato per anni, poi un giorno sono andata. C'erano una quarantina di persone assiepate in una stanzina piena di fumo, ho attraversato la nebbia, mi sono seduta e ho detto: "Ciao, sono Chiara, e ho un problema'».

Erano gli anni Ottanta, Alcolisti anonimi era sbarcata da poco in Italia. L'associazione era nata negli Stati Uniti nel 1935 dall'incontro tra un agente di borsa di Wall Street e un medico chirurgo di Akron, Ohio, entrambi alcolisti. Parecchio tempo dopo a Roma, in via Napoli, si era incontrato il primo gruppo di bevitori di lingua inglese - americani, britannici - a cui poi s' erano aggiunti gli italiani. Era il 1972. 

«L'alcolismo era visto come un vizio, non come una malattia. Quelle riunioni avevano un sapore carbonaro, quasi clandestino, un odore di cantina e di chiuso che è stato difficile levarsi di dosso», racconta Eugenio, alcolista anonimo della prima ora. Erano le prime spore che poi tra il 1974 e il '76 hanno germogliato anche a Firenze, Milano, Genova.

Adesso, che la rete di gruppi di auto-mutuo-aiuto compie cinquant' anni e si è ritrovata per un bilancio di questo primo mezzo secolo a Rimini, oggi è l'ultimo giorno di incontri, sono 430 i gruppi sparsi in tutta Italia e più di seimila le presenze fisse. Ci s'incontra nei locali messi a disposizione dalle parrocchie o dai Comuni, si paga l'affitto con i contributi volontari dei partecipanti. Tutti alcolisti, non «ex alcolisti», né «persone con l’alcolismo», perché la sobrietà è una scelta che si rinnova ogni giorno.

«L'unico requisito per entrare in un gruppo di Alcolisti anonimi è il desiderio di smettere di bere, ma il difficile non è quello, è continuare a non bere», sottolinea Eugenio, l'ultimo bicchiere venticinque anni fa. Ai partecipanti non si chiedono nomi, cognomi, documenti. Chi racconta di far parte di un gruppo lo fa per libera scelta, come Tiziano Ferro che tra i «per fortuna» della sua vita ha messo l'incontro con gli Alcolisti anonimi. O Asia Argento che a giugno ha festeggiato un anno di sobrietà. Degli altri si sa la biografia che durante gli incontri decidono di narrare. E non c'è nemmeno un registro per sapere poi come a ognuno sia andata.

I coordinatori gestiscono gli interventi, ma non si è obbligati a raccontarsi, qui si viene e si resta perché si vuol restare. Non ci sono professionisti, non è un approccio sanitario bensì spirituale che passa anche attraverso la meditazione e la preghiera a un dio qualunque. E si basa su 12 passi, una sorta di progressione attraverso la quale si giunge alla sobrietà. Si parte dall'accettazione di essere alcolisti, impotenti davanti alla bottiglia. Un giorno alla volta, un passo per volta, tenendosi lontano dal primo bicchiere per 24 ore. E poi per altre 24. E ancora e ancora. Fino a rompere l'isolamento, a ricostruire le relazioni sociali, a tornare attivi perché, spiegano, «sarebbe assurdo togliere l'alcol e non mettere altro dentro alla propria vita».

In questo cerchio di sconosciuti ci si riconosce, si parla la stessa lingua, fatta di solitudini e di fragilità. «Prima di arrivare qui chiunque di noi ha parlato con un'amica, un familiare, un prete: bevi un po' meno, ti dicono. Ma uno non vuole smettere per tenere a bada le transaminasi, ma perché ha toccato il fondo», dice ancora Chiara.

Ci si apre «perché scatta un'identificazione che altrove non c'è, perché nessuno giudica, perché qualcuno sta meglio e se ce l'ha fatta lui, che è come me, allora magari ce la faccio anche io». 

In origine di donne ce n'erano pochissime, «arrivavano quando erano alla frutta, portate di peso dai loro compagni. Poi anche loro sono uscite di casa, hanno capito che potevano chiedere aiuto e abbiamo scoperto la reale dimensione dell'alcolismo femminile», spiega Chiara. C'erano pure pochi giovani. «Io mi definisco un'alcolista col pedigree - continua lei - È l'alcol il mio grande amore. I ragazzi invece sono pluridipendenti. Entrano nei gruppi, fanno una pulizia veloce, escono. Ma poi ritornano». 

La pandemia non ha aiutato. «Ci siamo ritrovati su Zoom, sono nati gruppi solo virtuali, i più anziani ancora continuano a vedersi dallo schermo, altri hanno smesso e si riuniscono in presenza», dice Eugenio mostrando il logo, un triangolo con tre parole: unità, servizio, recupero. «È come uno sgabello a tre gambe, non sta in piedi con due: con il recupero e l'unità raggiungiamo insieme la sobrietà, con il servizio cerchiamo di aiutare gli altri, di trasmettere il nostro messaggio a chi soffre ancora». 

·        L’Ipotermia.

Cosa succede al corpo quando si sta in una casa senza riscaldamento. Elena Tebano su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.

Il giornalista scientifico della Bbc James Gallagher è stato messo in una microcamera dove la temperatura è stata abbassata fino a 10 gradi, «la temperatura media in cui vivranno d’inverno le persone che non possono riscaldare le loro case»: ecco cosa succede al corpo umano

Fino a quest’anno in Italia la temperatura massima (media) da tenere nelle case d’inverno era stabilita per legge: 20 gradi, con un’oscillazione massima consentita di due gradi.

Con la crisi energetica innescata dall’invasione russa dell’Ucraina il governo Draghi la ha abbassata a 19 gradi, che è poi la temperatura usualmente consigliata per tenere insieme benessere fisico e rispetto dell’ambiente.

Senza riscaldamento le temperature scenderebbero molto di più, fino a diventare dannose per gli esseri umani e a giustificare l’aumento di mortalità calcolato dall’Economist (di cui scrive Luca Angelini in questa newsletter). Il giornalista scientifico della Bbc James Gallagher, che ha partecipato a un esperimento dell’Università del Galles meridionale per studiare gli effetti del freddo sul corpo, racconta cosa succede all’organismo quando si raffredda troppo.

I ricercatori lo hanno messo in una microcamera e hanno abbassato la temperatura fino a dieci gradi, monitorando i suoi principali parametri vitali.

«Dieci gradi è la temperatura media in cui vivranno d’inverno le persone che non possono permettersi di riscaldare le loro case» dice il professor Damian Bailey (tra dicembre a gennaio la temperatura media di Londra oscilla tra i 9 gradi di massima e i 4 di minima, a Milano nello stesso periodo fa leggermente più freddo: tra i 7 di massima e i 2 di minima in media, a Roma un po’ più caldo, tra i 12 e i 4 gradi).

«Sembra mite, ma è una vera sfida fisiologica», aggiunge. La temperatura a cui funziona il corpo umano, infatti, è molto più alta, 37 gradi, e mantenerla quando c’è una simile differenza termica è gravoso per l’organismo.

Gallagher ha iniziato l’esperimento a una temperatura di 21 gradi. Quando l’ambiente è stato raffreddato fino a 18 gradi gli si sono letteralmente drizzati i peli del corpo. «La scienza ci dice che 18 gradi sono il punto di svolta in cui il corpo inizia a lavorare per difendere la temperatura interna» spiega il professor Bailey.

Uno dei primi stratagemmi che ha il corpo è la vasocostrizione: i vasi sanguigni si chiudono per mantenere il sangue caldo per gli organi essenziali alla sopravvivenza. È il motivo per cui le estremità degli arti diventano bianche e fredde. La temperatura delle mani e dei piedi di Gallagher è diminuita in media di due gradi.

Al contempo la pressione sanguigna sale e il sangue diventa più denso, aumentando il rischio di ictus e infarto, che infatti sono più frequenti d’inverno. Aumentano anche la frequenza della respirazione e il battito cardiaco mentre il corpo brucia più calorie. È il lavoro in più che l’organismo deve svolgere per mantenere la sua temperatura basale. E di cui paga le conseguenze.

Durante l’esperimento Gallagher è stato sottoposto a un test cognitivo e ha avuto più difficoltà a risolverlo di un analogo test eseguito a 21 gradi di temperatura ambientale. «Il sangue arriva meno al cervello, quindi c’è meno ossigeno e meno glucosio e questo ha un impatto negativo» dice ancora Bailey. «I test suggeriscono chiaramente che il freddo è più letale del caldo, c’è un numero maggiore di decessi causati da ondate di freddo rispetto a quelli causati da ondate di caldo» aggiunge.

Non sono gli unici fattori di rischio: il freddo facilita la sopravvivenza e la diffusione dei virus e indebolisce la nostra risposta immunitaria (e il motivo per cui ci si ammala di più d’inverno). Il giornalista della Bbc è rimasto a dieci gradi solo per mezz’ora, ma non aveva indumenti caldi a coprirlo.

Ovvio che vestendosi o stando sotto le coperte si riesce in parte a proteggersi dal freddo. Ma una temperatura più bassa di 18 gradi è comunque pesante per il corpo. E spiega l’aumento relativo di mortalità.

·        Malattie sessualmente trasmesse.

Malattie sessualmente trasmesse: ecco le più comuni, come prevenirle e come curarle. Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.

Dalla clamidia all’Hiv, fino alle sempre più diffuse sifilide e gonorrea. Ma anche condilomi ed herpes genitale: le fonti di contagio, quali sono i sintomi, come evitare di infettarsi. Le schede sono state redatte in collaborazione con i medici dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive del Policlinico Tor Vergata (Roma)

Candidosi

È un’infezione causata da funghi, appartenenti al genere Candida, che può essere trasmessa per via sessuale. Il fungo Candida albicans solitamente vive nell’organismo senza dare segno di sé, come “commensale” della cute e delle mucose. Tra i fattori favorenti la candidosi si annoverano la gravidanza, lo stress, determinate abitudini alimentari (molti zuccheri o molti alcolici), l’abuso di lavande vaginali. Inoltre il rischio di sviluppare candidosi aumenta in corso di terapie con antibiotici o cortisonici o in presenza di diabete.

Sintomi: nell’uomo arrossamento del pene, prurito, bruciore, presenza di patina biancastra sul glande (balanopostite); nella donna perdite biancastre “caseose” non maleodoranti, bruciore quando si urina, prurito nell’area genitale (vulvovaginite).

Cura: solitamente si adopera terapia locale (ovuli o crema) e, nei casi più gravi, una terapia orale a base di antimicotici.

Prevenzione: controllare l’alimentazione (riducendo apporto di zuccheri e alcolici), evitare di indossare abiti stretti e biancheria intima di tessuto sintetico.

Clamidia

La clamidia è un’infezione sessualmente trasmissibile tra le più diffuse, causata dal batterio Chlamydia trachomatis. Tra i fattori di rischio ci sono la promiscuità sessuale e la coesistenza di altre malattie sessualmente trasmesse. I sintomi sono lievi, tanto da non essere riconosciuti, ma le conseguenze per l’apparato riproduttivo, specie femminile, possono essere molto gravi. Nella maggior parte dei casi l’infezione interessa le donne, soprattutto adolescenti e giovani. Fino al 40% delle donne con infezione non trattata sviluppa la malattia infiammatoria pelvica, che può condurre alla sterilità. Inoltre, le donne affette da clamidia hanno una probabilità di rischio di contrarre il virus dell’Hiv cinque volte più alta. Esiste uno screening specifico per la ricerca della Chlamydia mediante tampone cervicale per le donne e tampone uretrale per gli uomini.

Trasmissione: la clamidia si trasmette generalmente attraverso i rapporti sessuali vaginali, anali e orali. Una donna gravida infetta può, durante il parto, contagiare il neonato, che manifesta infiammazione agli occhi e all’apparato respiratorio (la clamidia è, infatti, una delle prime cause di congiuntivite e di polmonite nei neonati).

Sintomi: la clamidia è asintomatica nella grande maggioranza dei soggetti (70% delle donne e 50% degli uomini). Nelle donne i sintomi possono essere perdite vaginali (leucorrea) o irritazione. Negli uomini l’infezione può interessare l’epididimo (dotto collegato al testicolo), causando dolore e febbre cui si possono accompagnare secrezioni o sensazione di irritazione e prurito.

Cura: data la natura batterica dell’infezione, la clamidia è trattabile con antibiotici.

Prevenzione: l’uso di preservativi riduce notevolmente il rischio di infezione.

Condiloma (o verruca genitale)

Si tratta di una lesione benigna causata frequentemente dai genotipi 6 e 11 di Hpv (Papillomavirus) in donne e uomini sessualmente attivi. In particolare, i condilomi anali e perianali sono presenti nei soggetti che praticano sesso anale.

Trasmissione: l’infezione può essere trasmessa attraverso rapporti vaginali, anali o orali venendo favorita dalla presenza di microlesioni della cute o delle mucose.

Sintomi: sui genitali e/o intorno all’ano compaiono lesioni di colore rosa o bruno, singole o multiple, talvolta riunite a grappolo (definite “a cavolfiore” o “a cresta di gallo”), a superficie irregolare, e di dimensioni variabili. Le lesioni sono solitamente asintomatiche oppure associate a prurito o dolore, a seconda della loro sede e della loro dimensione. Le persone con condilomi rischiano 6 volte di più il contagio da Hiv durante un rapporto non protetto con una persona sieropositiva.

Cura: i condilomi possono essere trattati con l’applicazione di creme specifiche per un minimo di sei mesi. Nei casi gravi o non rispondenti a terapia farmacologica, il ricorso alla chirurgia è inevitabile.

Prevenzione: pur non essendo assoluta l’efficacia del preservativo, le regole per il sesso sicuro sono sempre raccomandabili nel diminuire il rischio di contrarre l’infezione.

Epatite A, B, C

Le epatiti virali sono infezioni del fegato, più frequentemente causate dai virus Hav, Hbv e Hcv e la cui diagnosi si effettua mediante la ricerca degli anticorpi.

Il virus Hav causa l’epatite A, che si trasmette per via oro-fecale, quindi generalmente attraverso il consumo di alimenti e bevande contaminati da feci oppure tramite il contatto diretto con persone infette (inclusi i rapporti sessuali di natura oro-anale). La malattia può essere asintomatica o manifestarsi con malessere generale, sintomi gastrointestinali, ittero, urine scure. Il decorso è generalmente benigno in assenza di cronicizzazione, ma in alcuni casi può essere grave e prolungato o perfino fulminante e mortale. La cura è solo sintomatica. Per la prevenzione è disponibile un vaccino efficace.

L’epatite B è causata dal virus Hbv. Fonte d’infezione dell’epatite B sono i soggetti con malattia acuta o i portatori cronici (circa 600mila in Italia), in cui il virus persiste nel sangue e in altri liquidi biologici, quali saliva, bile, secreto nasale, latte materno, sperma, muco vaginale. La trasmissione attraverso rapporti sessuali è frequente. Dal momento che il virus è resistente sulle superfici e nell’ambiente, il contagio può avvenire anche per via indiretta e inapparente (spazzolini, forbici, pettini, rasoi). È asintomatica nella maggior parte dei casi. La malattia acuta può, in alcuni casi, manifestarsi con i sintomi classici (malessere generale, sintomi gastrointestinali, ittero). L’epatite B può avere differenti evoluzioni: risoluzione spontanea, con produzione degli anticorpi protettivi; latenza nell’organismo con possibilità di riattivazione (in chi soffre di malattie debilitanti o riceve terapia immunosoppressiva); cronicizzazione nel 5-10% dei casi degli adulti (mentre 9 volte su 10 avviene nei neonati contagiati dalla madre al parto o poco dopo la nascita). La cronicizzazione favorisce la cirrosi epatica e lo sviluppo del tumore del fegato (epatocarcinoma). L’epatite cronica B può richiedere un trattamento farmacologico quotidiano a vita, in quanto il virus è generalmente non eradicabile. Contro l’epatite B esiste un vaccino sicuro ed efficace, obbligatorio alla nascita, in grado di prevenire il contagio e le complicanze.

Il virus Hcv è causa dell’epatite C, che si trasmette attraverso il sangue, a volte anche in maniera inapparente e, meno frequentemente, per via sessuale. Analogamente ad Hbv, per Hcv le trasfusioni rappresentano un rischio di trasmissione possibile, ma altamente improbabile in quanto esistono stringenti controlli sui donatori e sul sangue. L’infezione è nella maggior parte dei casi asintomatica. In coloro che manifestano la malattia acuta, i sintomi sono inappetenza, nausea, vomito, febbre, dolori addominali e ittero. Un’elevata percentuale dei casi (fino all’85%) va incontro a cronicizzazione (più di 1 milione di persone in Italia). L’infezione cronica rimane asintomatica anche per 10-20 anni fino allo sviluppo di cirrosi epatica che avviene nel 20-30% dei pazienti. In circa l’1-4% si sviluppa l’epatocarcinoma. Oggi è disponibile una cura in grado di eliminare l’infezione e ridurre il rischio di complicanze, ma non esiste un vaccino per l’Hcv.

Gonorrea

È una delle patologie veneree oggi più diffuse. È chiamata comunemente “scolo”, per la tipica sintomatologia con cui si manifesta nell’uomo, ed è dovuta a infezione da parte del batterio Neisseria gonorrhoeae.

Trasmissione: i rapporti sessuali di tipo orale, vaginale e/o anale trasmettono in ugual misura l’infezione, se non protetti dal profilattico; anche il contatto oro-anale (chiamato “rimming”) è a rischio. Il batterio può anche essere trasmesso da madre a figlio.

Sintomi: l’infezione può interessare la cavità orale e faringea, con forte dolore alla gola e aumento di volume delle tonsille. A livello genitale, nell’uomo, si ha la tipica uretrite gonococcica, che compare abitualmente 4-7 giorni dopo il contagio, caratterizzata da prurito e dolore durante la minzione, arrossamento del meato uretrale e copiosa fuoriuscita di pus dal pene. Se non trattata, l’infezione può raggiungere l’epididimo e il testicolo, la prostata e le vescichette seminali. Nella donna, almeno nelle fasi iniziali, si può avere un quadro del tutto asintomatico (è quasi sempre la diagnosi nel partner maschile a spingere la donna a sottoporsi ai dovuti controlli), oppure può comparire dolore durante la minzione o perdita di secrezioni bianco-verdastre a livello genitale. Se non trattata prontamente, l’infezione può diffondersi dalla cervice uterina alle tube, coinvolgendo gli organi della pelvi e causando la malattia infiammatoria pelvica. Questa riguarda il 45% delle pazienti con cervicite gonococcica non trattata e può avere come conseguenza l’infertilità o le gravidanze ectopiche. L’infezione in gravidanza, invece, aumenta il rischio di complicanze ostetriche (per esempio rottura prematura delle membrane e il parto pre-termine). Esiste anche un interessamento anorettale, per il quale il soggetto percepisce forte dolore rettale e sensazione di mancato svuotamento fino alla comparsa di vero e proprio sanguinamento anale. Se non eliminato a tempo debito, il batterio diffonde a tutto l’organismo attraverso il sangue, coinvolgendo articolazioni e cuore.

Cura: è a base di antibiotici, somministrati per via orale e parenterale. Purtroppo l’uso improprio di antibiotici ha comportato, negli ultimi anni, la diffusione di ceppi multi-resistenti di Neisseria gonorrhoeae.

Prevenzione: se usato a partire dall’inizio dell’atto sessuale (anche durante il sesso orale), il profilattico riduce drasticamente il rischio di trasmissione.

Herpes genitale

È un’infezione diffusa in tutto il mondo, causata il più delle volte dal virus Hsv-2 e, in minor misura, anche dal virus che provoca l’infezione delle labbra (Hsv-1). Dopo essere entrato nel corpo, il virus può causare un primo episodio di malattia oppure essere asintomatico nel 25% dei soggetti; il virus resta nello stato dormiente ma, nel 50-60% dei casi, può risvegliarsi e periodicamente provocare sintomi simili a quelli dell’infezione primaria, anche se a decorso più lieve, oppure non provocarne nessuno. Quest’ultima condizione è quella più temibile perché il soggetto è contagioso e non è consapevole di esserlo.

Trasmissione: avviene tramite rapporti sessuali (vaginali, anali e orali). Il virus può essere passato al neonato durante il parto con conseguenze gravi (infezione disseminata, encefaliti, infezioni di bocca, occhi e cute). Le donne hanno un rischio di infettarsi triplo rispetto agli uomini.

Sintomi: prurito e bruciore talvolta precedono la comparsa di vescicole, che poi si rompono lasciando il posto a piccole ulcere dolorose, localizzate sul prepuzio (negli uomini) o sulla vulva e vagina (nella donna). A volte le lesioni si disseminano in regione perianale, glutei e cosce. La prima infezione può essere accompagnata da febbre, mal di testa, dolori muscolari e aumento di volume dei linfonodi inguinali. Chi contrae l’infezione da herpes genitale rischia 7 volte di più l’infezione da virus Hiv, se ha rapporti non protetti con una persona sieropositiva, perché le lesioni erpetiche contengono un elevato numero di linfociti T CD4, che sono le cellule bersaglio del virus Hiv. Le lesioni erpetiche durano 2-3 settimane e guariscono, nella maggior parte dei casi, spontaneamente.

Cura: sono disponibili farmaci antivirali a cui associare eventualmente farmaci antidolorifici.

Prevenzione: l’uso del preservativo riduce di oltre il 50% il rischio di contagio per via sessuale, mentre il taglio cesareo contribuisce a prevenire l’infezione perinatale.

Hiv-Aids

L’Aids (sindrome da immunodeficienza acquisita) è lo stato di malattia che si sviluppa in seguito all’infezione da virus Hiv (Human immunodeficiency virus). Il virus colpisce le cellule specializzate del nostro sistema immunitario chiamate linfociti T-Helper (o CD4) e, dopo essersi moltiplicato al loro interno, le distrugge progressivamente. Nel corso degli anni, a causa della diminuzione del numero di queste cellule, diminuisce la capacità dell’organismo di difendersi contro altre infezioni. L’Aids rappresenta la fase più avanzata del danno da Hiv.

Trasmissione: avviene tramite il passaggio diretto del virus da una persona infetta a una persona sana. Questo può accadere durante i rapporti sessuali (vaginali, anali e oro-genitali) non protetti da profilattico, attraverso il contatto con sangue infetto o durante la gravidanza, il parto o l’allattamento da parte di una madre infetta al proprio bambino.

Sintomi: dopo il contagio trascorrono alcune settimane prima che una persona diventi sieropositiva al test, anche se il virus ha già iniziato a colpire il sistema immunitario. Prima della fase di Aids possono presentarsi sintomi più lievi e aspecifici come febbre, malessere, dermatite, ingrandimento dei linfonodi, diarrea e dimagrimento. In seguito, le persone sieropositive possono essere prive di sintomi per molti anni, ma sono portatrici del virus dell’Hiv e possono trasmetterlo.

Cura: non esistono vaccini o cure risolutive dell’infezione e per tale motivo si rimane sieropositivi per tutta la vita. Tuttavia, esistono farmaci che permettono di tenere sotto controllo la replicazione del virus impedendogli di distruggere le difese immunitarie e di arrivare allo stato di Aids.

Prevenzione: il preservativo utilizzato nei rapporti vaginali, anali e orali costituisce il mezzo di protezione più efficace contro Hiv.

Papilloma virus

L’infezione da Hpv (Human papilloma virus) è molto frequente nella popolazione e notevolmente contagiosa. I fattori favorenti l’infezione sono rappresentati dall’elevato numero e dalla precocità dei rapporti sessuali, dalla concomitanza di altre malattie sessualmente trasmesse. Si conoscono genotipi di Hpv a basso rischio oncogeno (fra i quali 6 e 11) e ad alto rischio oncogeno (fra i quali 16 e 18). I primi sono responsabili della maggior parte delle verruche cutanee e dei condilomi ano-genitali; i secondi sono responsabili del 70% circa dei carcinomi cervicali, anali e dell’orofaringe (inclusi i tumori delle tonsille e della base della lingua) e del 50% circa dei carcinomi del pene e vulvo-vaginali.

Trasmissione: il virus Hpv si trasmette prevalentemente per via sessuale, favorito anche da microlesioni presenti su cute e mucose. L’uso del preservativo, sebbene ne riduca il rischio, non lo elimina totalmente, dal momento che il virus può infettare anche la cute non protetta dal profilattico a livello scrotale o vulvare.

Sintomi: la stragrande maggioranza delle infezioni è transitoria (nel corso di un anno circa il 70% delle lesioni regredisce spontaneamente) e asintomatica. Tuttavia, l’infezione può persistere anni (soprattutto in soggetti con deficit immunitari o alterazioni genetiche) e si può riattivare periodicamente, esitando in lesioni benigne o maligne.

Cura: non esistono terapie farmacologiche per eradicare il virus dall’organismo. Verruche e condilomi possono essere trattati con creme; in alternativa è possibile procedere con trattamenti chirurgici locali anche per le lesioni precancerose localizzate nel collo uterino.

Prevenzione: a differenza del Pap test, che consente l’individuazione precoce di cellule anomale infettate da Hpv (prevenzione secondaria), la vaccinazione protegge dall’azione oncogena del virus (prevenzione primaria). Nel Piano nazionale di prevenzione vaccinale 2017-19 il vaccino anti-Hpv è calendarizzato per le ragazze e i ragazzi al dodicesimo anno di età. Inoltre, la vaccinazione è considerata opportuna per le donne di 25 anni di età ed è consigliabile per i soggetti le cui situazioni di vita o comportamenti li pongono a rischio aumentato di esposizione all’infezione (per esempio, gli uomini che fanno sesso con uomini). Attualmente sono disponibili in commercio tre vaccini: bivalente, tetravalente e nonavalente.

Pediculosi del pube (o piattole)

L’infestazione è causata da un parassita (Phthirus pubis) che si annida tra i peli pubici, ma anche tra i peli del petto e sotto le ascelle. Colpisce milioni di persone al mondo ed è molto comune.

Trasmissione: avviene durante il rapporto sessuale, ma anche attraverso il contatto con lenzuola, asciugamani o abiti usati da una persona infestata dai parassiti.

Sintomi: possono essere visibili animaletti simili ai pidocchi che causano pruriti soprattutto nell’area genitale; tra i peli del pube o nella biancheria possono comparire piccolissimi residui scuri simili (feci dei parassiti).

Cura: per eliminare parassiti e uova servono specifiche lozioni prescritte dal medico; è consigliabile radere la zona infestata. La malattia si può prendere più volte nella vita se non ci si protegge. È necessario che venga trattato anche il partner sessuale per evitare la reinfezione.

Prevenzione: le normali norme igieniche e l’uso del preservativo sono utili per evitare l’infestazione. I vestiti e le lenzuola vanno lavati in acqua molto calda o a secco, stirati con ferro caldo e non usati per 72 ore.

Scabbia

La scabbia è un’infestazione dovuta a un parassita, l’acaro Sarcoptes scabiei (variante “hominis”). Il sintomo più comune è il prurito intenso e i fattori che ne favoriscono la diffusione sono la scarsa igiene e la vita in comunità.

Trasmissione: la fonte più comune di trasmissione della scabbia è il contatto diretto e prolungato con un individuo infestato. È semplice trasmettere la scabbia al partner sessuale, ma, a differenza di altre malattie sessuali (come la gonorrea o la sifilide), che si trasmettono dopo un breve contatto sessuale, la scabbia ha bisogno di un contatto prolungato (per esempio l’aver trascorso la notte nello stesso letto).

Sintomi: prurito intenso, che in genere si manifesta soprattutto la notte e può essere così forte da impedire di dormire.

Cura: il trattamento della scabbia si basa sull’applicazione di prodotti che uccidono l’acaro responsabile (acaricidi). Anche il partner sessuale e i contatti della persona affetta da scabbia vanno controllati e, se necessario, trattati.

Prevenzione: si attua rispettando le comuni norme igieniche, evitando per quanto possibile il sovraffollamento e l’utilizzo di asciugamani o biancheria in comune, specie nelle scuole, nei collegi e nelle comunità. Inoltre, per evitare la diffusione ai contatti stretti, i vestiti e le lenzuola vanno lavati in acqua molto calda o a secco, stirati con ferro caldo e non usati per 72 ore.

Sifilide

È un’infezione trasmessa dal batterio Treponema pallidum e ha un’incidenza annuale di 12 milioni di nuovi malati nel mondo.

Trasmissione: la sifilide è trasmessa per via sessuale, da madre a feto e mediante le emotrasfusioni e il trapianto di organi. Per quanto riguarda la trasmissione sessuale, l’infezione avviene attraverso i fluidi biologici (anche la saliva) e il contatto diretto tra mucose. Il sesso orale, oltre a quello penetrativo, costituirebbe la modalità di trasmissione più frequente, poiché praticato nella quasi totalità dei casi senza l’uso del profilattico; anche il contatto oro-anale (definito “rimming”) è a rischio. Il batterio, infatti, riesce a penetrare attraverso piccole lesioni delle mucose e della cute (anche quelle non visibili a occhio nudo) e da qui si diffonde rapidamente, attraverso i vasi sanguigni e linfatici, a tutto l’organismo. Le ulcere e le escoriazioni causate dalla sifilide aumentano da 2 a 5 volte il rischio di contrarre Hiv.

Sintomi: nel 50% dei casi, la sifilide è completamente asintomatica, e questo costituisce uno dei fattori che permettono all’infezione di diffondere rapidamente nella popolazione (nella metà dei casi, i soggetti colpiti non sanno di essere contagiosi). Nel restante 50%, la patologia si manifesta con una precisa quanto variegata gamma di sintomi. La prima fase (sifilide primaria) è caratterizzata dalla comparsa di un’ulcera venerea nel sito di ingresso del batterio; tale ferita, è tipicamente indolore e, sebbene compaia di solito a livello genitale (pene e scroto nell’uomo; vulva e vagina nella donna), può interessare qualsiasi distretto corporeo (ano, retto, cute, bocca). Tale lesione si risolve spontaneamente nel giro di 4-6 settimane. Se l’infezione non è curata in questo stadio, diventa sistemica coinvolgendo tutto l’organismo (sifilide secondaria). In questo caso si osserva generalmente un’eruzione cutanea, accompagnata anche febbre, dolori ossei, diarrea e, nei casi più gravi, da problemi a carico di fegato, reni e sistema nervoso centrale. Esaurita questa fase il soggetto torna asintomatico e, in assenza di terapia, dopo una lunga (5-10 anni) il batterio torna a farsi sentire colpendo cuore, ossa, muscoli e sistema nervoso centrale con paralisi progressiva (sifilide terziaria).

Cura: il trattamento è semplice e efficace nella quasi totalità dei casi, ed è a base di antibiotici.

Prevenzione: l’uso del preservativo riduce drasticamente il rischio di trasmissione se usato a partire dall’inizio dell’atto sessuale (anche durante il sesso orale). Una persona sessualmente attiva, dovrebbe sottoporsi a screening per sifilide almeno una volta all’anno, facendo attenzione al “periodo finestra”. Infatti, deve trascorrere un periodo di 2 mesi dal contagio, prima che l’infezione possa essere rilevata dai test sierologici su sangue.

Tricomoniasi

Il trichomonas vaginalis è un protozoo responsabile di un’infezione che nelle donne può interessare uretra, vagina, cervice e, raramente, le vie urinarie; nell’uomo l’infezione è prevalentemente causa di uretriti.

Trasmissione: l’infezione si trasmette attraverso i rapporti sessuali.

Sintomi: nell’uomo è nella maggior parte dei casi asintomatica, nella donna può manifestarsi con perdite vaginali e irritazione della vulva. Diventa più pericolosa se contratta in gravidanza.

Cura: l’infezione si cura con terapia antibiotica.

Prevenzione: è efficace l’uso del profilattico durante i rapporti sessuali.

·        Il Parto.

Parto naturale, taglio cesareo: la scelta spetta alle donne o ai dottori? Anna Meldolesi e Chiara Lalli su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.

Molti medici ritengono che la via chirurgica vada scoraggiata e molte madri si sentono in colpa quando la nascita non avviene alla vecchia maniera. Ma i dati scientifici su vantaggi e svantaggi sono sfumati e ogni libera scelta va considerata legittima. Senza dimenticare che il bisturi ha dissolto il dilemma tra salvare la donna o il nascituro, come ci ricorda la storia di Giulia Cavallini

Questo doppio articolo, pubblicato su «7» in edicola il 9 dicembre, fa parte della rubrica del magazine del Corriere «Due punti». Intesi come due punti di vista che qui troverete pubblicati online in sequenza: prima l’articolo di Anna Meldolesi, poi quello di Chiara Lalli. Buona lettura

di ANNA MELDOLESI

Molti medici ritengono che la via chirurgica vada scoraggiata e molte madri si sentono in colpa quando la nascita non avviene alla vecchia maniera. Ma i dati scientifici su vantaggi e svantaggi sono piuttosto sfumati e ogni libera scelta va considerata legittima. Senza dimenticare che il bisturi ha dissolto il dilemma tra salvare la donna o il nascituro, come ci ricorda la storia di Giulia Cavallini. Non so cosa sia un travaglio. Mia figlia è nata 18 anni fa con un cesareo, programmato dopo che un algoritmo ne aveva sovrastimato le dimensioni. Mi è stato proposto, l’ho accettato senza alcun dispiacere, anzi con un po’ di sollievo.

LA MEDIA GLOBALE È DI 21 NATI DI CESAREO SU CENTO. IN ITALIA SUPERA IL 30%, CON PREVALENZA NEL MERIDIONE E NEGLI OSPEDALI PRIVATI

L’ho vissuto da sveglia grazie all’epidurale, con curiosità. «Già fatto?», ho detto al dottore intento a richiudere. Poche ore dopo mi ero già alzata dal letto, non provavo dolore, non mi resta alcun trauma. Solo una piccola cicatrice invisibile. Sono stata fortunata, certo. So che per altre donne il taglio cesareo è un intervento di emergenza, desta preoccupazione o rappresenta una rinuncia alla via naturale e può lasciare un rimpianto. So che esiste il dolore post-operatorio. Ma tra le narrazioni problematiche deve potersi fare strada anche il racconto dei cesarei vissuti serenamente.

BIO-ETICA DOMANDE & RISPOSTE - OGNI DUE SETTIMANE CHIARA LALLI E ANNA MELDOLESI SCRIVONO DI UN ARGOMENTO TRA FILOSOFIA MORALE E SCIENZA, TRA DIRITTI E RICERCA. DUE PUNTI DI VISTA DIVERSI PER DISCIPLINA MA AFFINI PER METODO

Lo scorso anno il New York Times ha pubblicato un longform sulle dinamiche culturali che hanno portato alla diffusione del cesareo, anche in assenza di ragioni mediche, e poi alla sua demonizzazione a partire dagli anni ‘80. La scrittrice americana Leslie Jamison ha deciso di occuparsene quando si è resa conto che si sentiva in obbligo di giustificarsi ogni volta che diceva come era nata sua figlia. La geografia diseguale di questi interventi solleva questioni di accesso ma anche di eccessi. La media globale è di 21 nati da cesareo su cento. In Italia si supera il 30%, con prevalenza nel Meridione e negli ospedali privati. Probabilmente è vero che certi medici preferiscono programmare e liberarsi dalle incognite della natura. Ma sono tanti anche quelli per cui «il cesareo va scoraggiato», come sostiene anche l’Oms.

SI STIMA CHE IN ITALIA I CESAREI SU RICHIESTA MATERNA SIANO IL 9% DEI PARTI CHIRURGICI. LE DONNE CHE SCELGONO QUESTA OPZIONE TENDONO A ESSERE MENO GIOVANI, PIÙ ISTRUITE, PIÙ INSERITE NEL MONDO DEL LAVORO. L’IMPORTANZA DEL CONSENSO INFORMATO

Perché ci scandalizziamo di più se la libertà delle donne viene compressa in una direzione anziché nell’altra? Abbiamo sentito ripetere così tante volte che il cesareo è rischioso che diamo per scontato che i dati siano lampanti. Ma la letteratura scientifica è piuttosto sfumata (si veda per esempio Caesareans or vaginal births: should mothers or medics have the final say?, Observer , 13 febbraio 2022). Alle donne che vogliono avere più figli è giusto consigliare (non imporre) il parto naturale. Ma per chi ne vuole solo uno, vantaggi e svantaggi si compensano (la donna baratta il rischio di incontinenza con quello di infezioni, il neonato i traumi da parto con i problemi respiratori). Si stima che in Italia i cesarei su richiesta materna siano il 9% dei parti cesarei. Le donne che scelgono questa opzione tendono a essere meno giovani, più istruite, più inserite nel mondo del lavoro. Ma al di là delle statistiche vale il caso per caso. Ognuna ha le sue motivazioni, più o meno razionali, comunque valide se crediamo nella libera scelta e nel consenso informato.

«MOLTI SONO CRITICI. BEATIFICANO IL PARTO NATURALE, DIMENTICANDO CHE DI PARTO NATURALE SONO MORTE TANTISSIME DONNE NEL PASSATO. E CONTINUANO A MORIRE IN LUOGHI SENZA IGIENE ADEGUATA»

di CHIARA LALLI

Giulia Cavallini nasce nel 1851 e soffre di un difetto di calcificazione delle ossa che causa la deformazione della schiena e del bacino. Grazie alle cure, Giulia migliora ma è minuta – è alta appena un metro e quarantotto – e il suo corpo è segnato irrimediabilmente. Immaginate lo sgomento quando rimane incinta, quando al suo scheletro deformato si aggiungono la paura del futuro e la vergogna di non essere sposata. Verso la fine della gravidanza Giulia sta male, non respira, ha dolori lombari. Poi si sposa, ormai prossima al parto, e per evitare commenti acidi sul matrimonio tardivo, lascia la sua città e va a Pavia, all’ospedale San Matteo. Questa decisione le salverà la vita.

NELLA PRIMAVERA DEL 1876, I MEDICI DI PAVIA VISITANO GIULIA. SONO MOLTO PREOCCUPATI: IL FETO È COMPRESSO IN UNO SPAZIO ANGUSTO...

Quando, nella primavera del 1876, i medici la visitano sono molto preoccupati: il feto è compresso in uno spazio angusto e la deformazione pelvica rende il parto mortale. Viene trasferita nella clinica ostetrica, il cui primario è Edoardo Porro, 33 anni e una specie di ossessione. Non è solo lo scheletro della giovane donna a rendere pericoloso il parto, perché c’è un’ombra minacciosa che riguarda tutte le donne: la febbre puerperale e la sepsi. Per colpa di una situazione igienica mediocre, dei vestiti non puliti e delle mani non lavate — tutto quello che abbiamo imparato leggendo Semmelweis, che alcuni anni prima a Buda intuisce che siano le mani dei medici a portare l’infezione, medici che arrivavano a far partorire le donne dopo aver dissezionato cadaveri e senza lavarsi le mani (solo a leggerlo fa paura).

PRIMA DEL PARTO CESAREO ESEGUITO DAL CHIRURGO PORRO, IN UN SECOLO NESSUNA PARTORIENTE ERA MAI SOPRAVVISSUTA AL CESAREO. QUELL’INTERVENTO CAMBIÒ IL DESTINO DI TUTTE LE DONNE

La setticemia è insomma una frequente causa di morte delle donne — se non morivano di emorragia prima. A causa della conformazione del bacino di Giulia, per salvare il nascituro serve il taglio cesareo. Facendo il taglio cesareo Giulia sarebbe morta quasi sicuramente. A Pavia in un secolo di tagli cesarei nessuna donna era sopravvissuta. E allora Porro tenta un intervento mai provato prima: il taglio e l’asportazione dell’utero per evitare il dissanguamento. In 43 minuti fa nascere una bambina, Maria Alessandrina Cesarina. Tre giorni dopo Giulia abbraccia la figlia. Quell’intervento cambierà il destino di tutte le donne.

Non ci pensiamo più, ormai il taglio cesareo è una operazione sicura, quasi banale, ed è perfino difficile capire l’impresa di Porro (la sua storia incredibile è raccontata da Paolo Mazzarello, E si salvò anche la madre. L’evento che rivoluzionò il parto cesareo, Bollati Boringhieri). Anzi forse per quello strano paradosso del benessere molti sono critici, beatificando il parto naturale e dimenticando che di parto naturale sono morte tantissime donne nel passato e che continuano a morire oggi nei luoghi meno igienicamente sicuri o meno avanzati chirurgicamente.

Mom&Dad. Partorirai con dolore e citronella. Assia Neumann Dayan su L'Inkiesta il 10 Giugno 2022.

 La competenza delle donne e il pretesto assurdo per limitare l’uso dell’epidurale

Nel sito di EpiCentro, portale dell'epidemiologia per la sanità pubblica, si suggerisce di ridurre l’impiego di tecniche meno dolorose (anche il cesareo). Lo si fa per il bene della madre e del figlio, dicono, ma soprattutto per risparmiare un po’.

Sono nel mio periodo Simone Weil, tra il misticismo e la guerriglia e la sventura e un’eredità morale da lasciare a nessuno, ma soprattutto chissà se Simone Weil soffriva del burnout da attivista. L’altro giorno stavo cercando un modo per litigare sui social in pausa pranzo, ma sapete com’è, ci si conosce tutti, una pacca sulla spalla e via, prego si accomodi ha ragione lei, ma no si figuri ha più ragione lei, poi mi scopro a odiare tutti quelli che non la pensano come me, non ci posso fare niente se non ho grande considerazione di idee che non sono le mie.

Si tende sempre a lasciar correre perché siamo tutti impegnati a ripagare un debito, un favore all’assessore che ci ha presentato il libro o all’influencer che ci ha taggato in una storia, siamo mediocri, siamo sciatti, prendiamoci un caffè, scriviamo un tweet divertente, però mettiamo una faccetta che ride se no pensano male. Viviamo in un posto dove tutti ripetono in continuazione: «Questa cosa non mi fa sentire a mio agio, ritratta» e non puoi nemmeno rispondere «fatti curare» che se no è attentato alla salute mentale. Ma ora basta parlare di voi, parliamo di soldi, parliamo di traumi, parliamo di noi, così magari riesco a litigare con qualcuno.

Non c’è madre che io conosca che non veda l’ora parlare del proprio parto; a differenza degli innumerevoli traumi immaginari di quest’epoca, quello del parto è un trauma reale. Funziona così: pensi di morire, però poi non muori. Dà tanta felicità vedere nascere un figlio, quasi quanto sopravvivere a un incidente aereo. Nel magico mondo delle madri, i più grandi accidenti vengono tirati tra quelle del cesareo e quelle del naturale, ma ancor più tra quelle dell’epidurale e quelle senza. Vi avverto: questa è una brutta pagina di sanità, pensiero magico, giudizi universali e aromaterapia.

Sul sito di EpiCentro (portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica, a cura dell’Istituto superiore di sanità) vado a leggere questo manifesto programmatico dal titolo: “Ma il vero investimento è la competenza delle donne”. Riporto un estratto significativo: «Ogni forma di medicalizzazione (e l’epidurale è tale, quando proposta come soluzione per il parto indolore) è una minaccia per la competenza della donna e della persona che nasce. Lo stesso vale per il taglio cesareo non necessario, vera e propria mutilazione genitale femminile, sia fisica che simbolica: compito di un sistema sanitario pubblico e ragione della sua esistenza è invece il sostegno e la valorizzazione delle competenze delle persone».

Cosa sono queste “competenze della persona che nasce”? Parliamo di neonati gifted? Queste competenze che si sentono minacciate non possono chiamare il 112? Il cesareo come “mutilazione genitale femminile”: c’è qualcosa che dovremmo sapere sul womb raiding? Siamo in pericolo? I libri di scienze delle scuole elementari ci hanno mentito? Sarà che non sono medico, ma mi ricordavo una diversa disposizione degli organi genitali.

Ma il punto poi arriva e, chissà perché, si parla di soldi: «È curioso che i “soloni” dell’economia raccomandino la riduzione della spesa sanitaria senza però considerare gli sprechi della medicalizzazione dovuti agli interventi preventivi, diagnostici e terapeutici inutili, che secondo le stime ammontano a circa il 30%». Follow the money, pure in sala parto. E allora eccoci alle soluzioni alternative proposte in un altro documento: «Analgesia del travaglio: prove, pratiche e controversie». Quali sono queste alternative? Per citarne alcune: supporto continuo in travaglio di partner e ostetrica (se qualcuno avesse provato anche solo a respirarmi vicino durante il parto ora sarei in galera), applicazione di pezze fredde o calde, aromaterapia con ginger e citronella, strategie cognitive («ripetizione di affermazioni positive quali “il mio corpo è forte e ce la farà”»), immersione in acqua, ipnosi, agopuntura.

La conclusione: «L’attrazione avvenuta negli ultimi decenni verso l’epidurale in travaglio non è spiegabile con le prove di efficacia derivanti dalla ricerca clinica. I ricercatori, gli operatori e le persone in gravidanza dovrebbero indirizzare maggiormente l’attenzione verso le misure di comfort e verso i metodi non farmacologici di controllo del dolore. Questi non hanno gli effetti indesiderati dell’epidurale e non incrementano la spesa sanitaria».

Ma allora facciamo tutte come la spostata che ha partorito in riva all’oceano, nascondiamoci nelle caverne a fare aromaterapia e chiediamo a Prissy di mettere l’acqua a bollire, anche se l’epidurale dovrebbe essere un diritto garantito e gratuito. Quando ho partorito ho ovviamente chiesto l’epidurale. «Aspetti che vado a chiamare l’anestesista» mi disse l’ostetrica, per poi tornare dopo cinque minuti dicendomi che l’anestesista aveva avuto un’emergenza, al che mi sono messa a urlare che l’emergenza ero io e che avrei chiamato i carabinieri. A saperlo, avrei portato un po’ di citronella da casa.

·        La Cucitura.

(ANSA il 12 dicembre 2022) - È pronta la 'colla cellulare', molecole modificate in laboratorio che permettono di legare tra loro solo determinati tipi di cellule, in modo molto selettivo, e che in teoria consentono quindi di riparare ferite, rigenerare tessuti danneggiati e anche far ricrescere i nervi. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature, è stato ottenuto da ricercatori guidati dall'Università della California a San Francisco (Ucsf) e porta ad un grande passo avanti nel campo della medicina rigenerativa, avvicinando l'obiettivo a lungo perseguito della possibilità di rigenerare interi organi.

"Le proprietà di un tessuto, come ad esempio la pelle, sono determinate in gran parte dal modo in cui le diverse cellule sono organizzate al suo interno", spiega Adam Stevens, che ha guidato lo studio. "Il nostro obiettivo era escogitare un modo per controllare questa organizzazione delle cellule - continua Stevens - che è fondamentale per poter sintetizzare tessuti con le proprietà desiderate". Gran parte di ciò che rende diversi tra loro i vari tessuti che compongono il corpo umano dipende da quanto strettamente le loro cellule sono legate insieme.

Per riuscire a controllare questa proprietà, i ricercatori hanno progettato la loro 'colla' in due parti: una parte funge da recettore all'esterno della cellula e determina con quali altre si legherà, mentre una seconda parte all'interno della cellula stabilisce la forza del legame che si forma. Le due parti possono poi essere mescolate tra loro in modo da ottenere uno strumento personalizzato, che funziona con tutte le tipologie di cellule. 

Secondo gli autori dello studio, il risultato potrà avere anche altre applicazioni: ad esempio, la colla cellulare potrebbe aiutare anche a progettare tessuti sui quali studiare disturbi e patologie o per capire meglio l'evoluzione degli organismi complessi.

Creata una «colla cellulare» per riparare ferite e rigenerare tessuti. Storia di Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2022.

Si potranno riparare ferite con la «colla»? O rigenerare nervi e addirittura organi? Forse sì. La ricerca è ancora agli esordi ma gli scienziati hanno creato una «colla cellulare» composta da molecole modificate in laboratorio che permettono di legare tra loro solo determinati tipi di cellule, in modo molto selettivo, e che in teoria consentono quindi di r re ferite, rigenerare tessuti danneggiati e anche far ricrescere i nervi. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature, è stato ottenuto da ricercatori guidati dall’Università della California a San Francisco (Ucsf) e porta ad un grande passo avanti nel campo della medicina rigenerativa, avvicinando l’obiettivo a lungo perseguito della possibilità di rigenerare interi organi.

L’obiettivo è controllare l’organizzazione delle cellule

Le molecole adesive si trovano naturalmente in tutto il corpo e tengono insieme le sue decine di trilioni di cellule in schemi altamente organizzati. Formano strutture, creano circuiti neuronali e guidano le cellule immunitarie verso i loro bersagli. «Le proprietà di un tessuto, come ad esempio la pelle, sono determinate in gran parte dal modo in cui le diverse cellule sono organizzate al suo interno», spiega Adam Stevens, che ha guidato lo studio. «Il nostro obiettivo era escogitare un modo per controllare questa organizzazione delle cellule - continua Stevens - che è fondamentale per poter sintetizzare tessuti con le proprietà desiderate».

I tessuti e gli organi corporei iniziano a formarsi nell’utero e continuano a svilupparsi durante l’infanzia. Con l’età adulta, molte delle istruzioni molecolari che guidano questi processi generativi scompaiono e alcuni tessuti, come i nervi, non possono guarire da lesioni o malattie. Lim spera di superare questo problema progettando cellule adulte per creare nuove connessioni. Per farlo è necessario progettare con precisione il modo in cui le cellule interagiscono tra loro. Per farlo i ricercatori hanno progettato la loro «colla» in due parti: una parte funge da recettore all’esterno della cellula e determina con quali altre si legherà, mentre una seconda parte all’interno della cellula stabilisce la forza del legame che si forma. Le due parti possono poi essere mescolate tra loro in modo da ottenere uno strumento personalizzato, che funziona con tutte le tipologie di cellule.

Il futuro

Secondo gli autori dello studio, il risultato potrà avere anche altre applicazioni: ad esempio, la colla cellulare potrebbe aiutare anche a progettare tessuti sui quali studiare disturbi e patologie o per capire meglio l’evoluzione degli organismi. Questi risultati, commentano gli autori, potrebbero amplificare le possibilità di ricostruzione di tessuti e organi, portando numerosi contributi alla medicina rigenerativa. «La possibilità di ingegnerizzare le cellule - afferma Lim - è stata fondamentale per controllare le interazioni tra le diverse sostanze. Il nostro lavoro apre la strada alla costruzione di nuove strutture come tessuti e organi artificiali ma notevolmente simili alle controparti naturali. Le proprietà di un tessuto sono infatti determinate in gran parte dall’organizzazione interna delle cellule».