Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

L’AMMINISTRAZIONE

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Burocrazia.

La malapianta della Spazzacorrotti.

 

INDICE SECONDA PARTE

Il Ponte sull’Italia.

La Sicurezza: Viabilità e Trasporti.

La Strage del Mottarone.

Il Mose.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Disuguaglianza.

I Bonus.

Il Salario Minimo.

Il Reddito di Cittadinanza.

Quelli che…meglio poveri.

Quelli che …dei call-center.

Il Lavoro Occasionale.

Le Pensioni.

L’Assistenza ai non autosufficienti.

Gli affari sulle malattie.

Martiri del Lavoro.

Il Valore di una Vita: il Capitale Umano.

Manovre di primo soccorso: Il vero; il Falso.

L'attività fisica allunga la vita.

La Sindrome di Turner.

Il Sonno.

Attenti a quei farmaci.

Le malattie più temute.

Il Dolore.

I Trapianti.

Il Tumore.

L’Ictus.

Fibromialgia, Endometriosi, Vulvodinia: patologie diffuse ed invisibili.

La Sla, sclerosi laterale amiotrofica.

La Sclerosi Multipla.

Il Cuore.

I Polmoni.

I calcoli renali.

La Prostata.

L'incontinenza urinaria.

La Tiroide.

L’Anemia.

Il Diabete.

Vampate di calore.

Mancanza di Sodio.

L’Asma.

Le Spine.

La Calvizie.

Il Prurito.

Le Occhiaie.

La Vista.

La Lacrimazione.

La Dermatite. 

L’ Herpes.

I Denti.

L’Osteoporosi.

La Lombalgia.

La Sarcopenia.

La fascite plantare.

Il Parkinson.

La Senilità.

Depressione ed Esaurimento (Stress).

La Sordità.

L’Acufene.

La Prosopagnosia.

L’Epilessia.

L’Autismo.

L’Afasia.

La disnomia.

Dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia.

La Balbuzie.

L’Insonnia.

I Mal di Testa.

La Gastrite.

La Flatulenza.

La Pancetta.

La Dieta.

Il Ritocchino.

L’Anoressia.

L’Alcolismo.

L’Ipotermia.

Malattie sessualmente trasmesse.

Il Parto.

La Cucitura.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.

L'Endemia. L’Epidemia. La Pandemia.

Le Epidemie.

Virus, batteri, funghi.

L’Inquinamento atmosferico.

HIV: (il virus che provoca l'Aids).

L’Influenza.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Alle origini del Covid-19.

Le Fake News.

Morti per…Morti con…

Il Contagio.

Long Covid.

Da ricordare… 

Protocolli sbagliati.

Io Denuncio…

I Tamponati…

Le Mascherine.

Gli Esperti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

Succede in Svezia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Germania.

Succede in Cina.

Succede in Corea del Nord.

Succede in Africa.

Il Green Pass e le Quarantene.

Chi sono i No Vax?

Gli irresponsabili.

Covid e Dad.

Il costo.

Le Speculazioni.

Gli arricchiti del Covid.

Covid: Malattia Professionale.

La Missione Russa.

Il Vaiolo delle scimmie.

Il virus del Nilo occidentale (West Nile virus, in inglese). 

Gli altri Virus.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Ponte sull’Italia.

Stretto di Messina? Basta sprechi: ecco perché fare il Ponte ci conviene. Giancarlo Mazzuca su Libero Quotidiano il 16 dicembre 2022

Sembra paradossale, ma continuano a mettere i bastoni tra le ruote (anche una fiction in onda con il crollo dell'infrastruttura) a Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture, che sta cercando di condurre in porto il progetto del Ponte di Messina. Ma, nonostante tutto, il piano sta andando avanti e, se tutto filerà liscio, tra un paio di anni potrà esserci la posa della prima pietra e per le casse dello Stato sarà un grandissimo traguardo ma - incredibilmente considerando i precedenti- anche un notevole risparmio.

È sufficiente, infatti, una mano di conti per renderci conto di quanto sull'argomento siamo stati, in passato, presi in giro o quasi. Adesso il leader leghista ci ha aperto gli occhi: il mancato decollo del collegamento diretto tra Sicilia e Calabria incide oggi per circa 6 miliardi l'anno e, considerando che il primo a lanciare il progetto del Ponte fu l'allora premier Berlusconi nel 2009, le fumate nere ci sono finora costate quasi 80 miliardi, un vero pozzo di San Patrizio. In altre parole, è andata ben diversamente da quanto molti politici ci avevano detto a proposito delle spese considerate insostenibili del progetto.

Personalmente, mi sono anche sentito un po' preso in giro perché, in tutti questi anni, hanno continuato a dirci che i costi dell'opera sarebbero stati faraonici e che, con il debito pubblico che ci ritroviamo, non potevamo permetterceli. Siamo abituati alle piroette del Palazzo, ma c'era chi, ai tempi di quel governo Berlusconi, a proposito del Ponte, parlava, a sinistra, di una «presa in giro». E, considerando anche quanto è già costata la messa in liquidazione della società ad hoc creata per il varo del progetto, viene voglia di denunciare a chiare lettere la cecità di tanti nostri politici. Un caso tra i tanti: le dichiarazioni della senatrice dem Anna Finocchiaro che paragonò la costruzione del Ponte al costo del caviale, cioè ad un lusso esagerato che non potevamo permetterci. E pensare che, a proposito del caviale, i siciliani si sono legati a filo doppio proprio ai russi perché, dopo il terremoto di Messina del 1908, furono i marinai della flotta zarista a prestare i primi soccorsi ai superstiti di quel terribile sisma... 

 Claudio Reale per “la Repubblica” il 20 Novembre 2022. 

Quando fu fondata il Capo dello Stato era Sandro Pertini, il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani, gli azzurri non avevano ancora vinto il Mundial e nella hit italiana del momento, "Maledetta primavera", Loretta Goggi si chiedeva «che fretta c'era». E di fretta, in effetti, non ce n'è stata: la "Stretto di Messina spa", la società che probabilmente domani il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini farà resuscitare per sovrintendere alla realizzazione del Ponte, è stata creata a giugno 1981 e da allora è costata allo Stato oltre 300 milioni senza fare, letteralmente, alcunché. 

Con un paradosso anche nel suo epilogo: nel 2013, dopo l'ultimo stop al progetto, il governo Monti la mise in liquidazione, ma quel percorso, affidato poi all'ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato, non si è ancora completato. E dire che alla liquidazione era stato assegnato un anno di tempo.

L'ultimo bilancio racconta di un risultato di esercizio minimo, 47.095 euro, ma la società non ha ancora smesso di funzionare. Anche perché nel frattempo sono piovuti ricorsi su ricorsi: Fortunato - al quale secondo il sito della società è stato accordato un compenso di 120mila euro all'anno fino al 2020 e di 100mila da allora - si è trovato subito a dover fronteggiare il contenzioso da 700 milioni con Eurolink, il consorzio capeggiato da Salini-Impregilo che nel 2003 si era aggiudicato la gara per realizzare l'opera. 

A quella disputa, poi, se ne sono aggiunte diverse altre, inclusa per paradosso quella intentata proprio da "Stretto di Messina spa": nel 2017, infatti, la società ha chiesto il risarcimento dei soldi spesi in 32 anni di attività, 325 milioni di euro. A chi? Al ministero delle Infrastrutture, cioè allo Stato.

Peccato però che proprio lo Stato sia il proprietario della società. Il capitale dell'azienda ammonta a 383 milioni: l'81,8 per cento è in mano all'Anas, il 13 è controllato da Rete ferroviaria italiana e il rimanente 5,2 è diviso in parti quasi uguali fra le Regioni Calabria e Sicilia. 

Soci che adesso rischiano di dover farsi carico di un lungo elenco di spese: oltre ai 100mila euro annui per Fortunato ci sono infatti i 214mila del personale distaccato (visto che l'azienda, ovviamente, non ha più dipendenti diretti, ma se li fa "prestare"), 55mila per le consulenze legali, 50mila di altri costi, 20mila per il collegio sindacale e 13mila per la revisione dei conti, affidata a Ernst & Young. Così, negli anni, la società ha accumulato un debito che secondo l'ultimo bilancio ammonta a 24,8 milioni.

«La revisione contabile - si legge nella relazione di Ernst & Young - non consente di escludere che il commissario liquidatore possa richiedere agli azionisti di effettuare ulteriori versamenti per il pagamento dei debiti sociali». Per una società che per legge sarebbe dovuta andare in archivio nel 2014. Ma d'altronde «che fretta c'era».

Lucio Caracciolo per “la Stampa” il 7 Dicembre 2022.

Il ponte sullo Stretto di Messina va fatto perché è una priorità strategica per l'Italia. Per questo motivo probabilmente non sarà mai fatto. In questi giorni il dibattito sull'infrastruttura destinata a collegare la penisola alla nostra isola principale è riesploso, suscitato dalle enfatiche dichiarazioni del ministro Matteo Salvini circa la disponibilità comunitaria a finanziare la prima fase dell'opera. Annuncio raffreddato dalla commissaria europea ai Trasporti, la romena Adina Valean. La quale ci ha ricordato che per finanziare il progetto serve un progetto.

Ora il governo Meloni intende riattivare l'ultimo progetto, assai discusso e certamente da rivedere.

Del ponte i governi nostrani discutono almeno da quando nel 1876 il ministro Zanardelli stabilì: «Sopra i flutti o sotto i flutti, la Sicilia sia unita al Continente!». Dotte dissertazioni ne hanno sceverato ogni possibile variante. Senza che prevalesse definitivamente un partito o l'altro, se non quello della disputa continua. I duellanti si misurano sugli aspetti geofisici, strutturali, architettonici, economici, simbolici eccetera. Su tutto salvo che sul valore o disvalore strategico dell'opera.

Insomma: è o non è il ponte di interesse nazionale? Ovvero, ci conviene o meno connettere il territorio italiano per quanto possibile? La domanda dovrebbe contenere la risposta. Non così da noi. La ragione è semplice: non abbiamo una strategia. Ogni paese che si rispetti dovrebbe mirare, per la sicurezza propria, a stabilizzare le aree di frontiera e a collegare le periferie al nucleo centrale. Da almeno trent' anni - ovvero dalla contemporanea fine della guerra fredda e della Prima Repubblica, quando una strategia c'era eccome - ci affanniamo in direzione ostinatamente opposta e contraria. Destabilizziamo le frontiere e disconnettiamo il paese. Le disintegrazioni della Jugoslavia e della Libia, cui abbiamo attivamente partecipato, ne sono monumentali esempi.

L'indifferenza al rapporto fra penisola e isole maggiori, oltre che alle aree più interne e scollegate dello Stivale, ne rappresenta l'altra faccia. Restituire la Sicilia all'Italia e l'Italia alla Sicilia sarebbe segno di consapevolezza geopolitica. Lo Stretto di Sicilia è uno degli spazi più rilevanti al mondo. Non molto meno dello Stretto di Taiwan. 

Nel triangolo della competizione fra Stati Uniti, Cina e Russia il controllo di questo braccio di mare al centro del Mediterraneo è essenziale. Perché negli ultimi decenni il mare nostro è assurto a Medioceano: connettore fra Oceano Atlantico, marchio dell'Occidente euroamericano, e Indo-Pacifico, epicentro dello scontro sino-americano per il controllo delle rotte marittime, l'altro nome del potere globale. Oppure dobbiamo considerare turistica la visita di Xi Jinping in Sicilia, nel 2019? E casuale la scelta americana di incardinare il Muos - uno dei quattro pilastri del massimo sistema di comunicazioni e intelligence Usa nel mondo - a Niscemi, senza dimenticare le strutture di Sigonella e Pantelleria? I turchi e i russi della Wagner si sono acquartierati sul lato africano dello Stretto - Tripolitania e Cirenaica - per spirito di avventura? I cavi sottomarini transcontinentali della Rete, possibile bersaglio di guerra, corrono solo per caso nelle acque sicule? L'ultima volta che l'Italia è stata invasa lo sbarco è avvenuto in Sicilia. Di lì americani e inglesi hanno puntato al cuore d'Europa. Per fortuna i conquistatori sono stati anche liberatori. Con quello sbarco sono state poste le premesse della Repubblica Italiana.

Oggi la principale rotta migratoria passa per quello Stretto e per le isole italiane che ne marcano i passaggi. I progetti cinesi di via della seta marittima, come qualsiasi commercio transoceanico, considerano essenziale il transito tra Sicilia e Nordafrica. Lo stesso vale per il progetto turco di Patria Blu, che mira a evolvere la potenza anatolica in impero medioceanico. Contro il quale uno dei nostri principali alleati, la Francia, è da tempo mobilitato, mentre noi facemmo finta fosse caduta la linea quando da Tripoli un governetto da Roma insediato ci chiese di essere protetto. Sicché disperato si rivolse ai turchi, dalle linee attive. Al netto di ogni altra considerazione, abbandonare la Sicilia e con essa il Sud in paurosa decrescita demografica a sé stessi e all'influenza di potenze non necessariamente benevole significa disfare l'Italia.

Puntare sul ponte, sull'espansione dei porti siciliani (Augusta su tutti) e sull'alta velocità da Bolzano a Trapani, oltre che sulla più incisiva presenza della Marina e delle altre Forze armate nelle acque da cui dipende lo Stivale povero di materie prime e votato ai commerci esteri, è minimo sindacale per non perdere faccia e patria. Qualcuno dirà: ma è terra di mafie. Dunque non dovremmo far nulla perché le mafie sono dappertutto. Le grandi infrastrutture sono il segno che lo Stato c'è e la nazione pure. Rinunciarvi significa che l'uno e l'altra non hanno senso.

Stretto di Messina: il ponte che non si è mai fatto è costato già 1,2 miliardi. Milena Gabanelli e Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.

Quanto è costato fino ad ora il ponte sullo Stretto di Messina? Per capirlo dobbiamo prima ricostruirne la storia in una biografia validata da documenti e numeri. La risposta serve a capire se è vero, come ha detto il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che costerebbe ormai più non costruirlo che costruirlo.

La storia

Il primo a studiare la possibilità di un collegamento fu il ministro dei Lavori pubblici del governo La Marmora, Stefano Jacini, nel 1866. Un secolo dopo, nel 1965, il ponte divenne una copertina della Domenica del Corriere.

Ma il vero conto, e dunque costo del Ponte, inizia nel 1968 quando l’Anas indice un concorso di idee internazionale denominato Progetto 80. Tra i vincitori c’è l’ingegnere Sergio Musmeci che pensa a un ponte a una campata con due piloni alti 600 metri sulla terraferma per evitare di dover lavorare sul disastroso fondo marino dello stretto: instabile e a forma di V. Lo stesso Musmeci però non lo considera fattibile perché non esistono ancora materiali adatti a garantire la sicurezza per sostenere quei 3 km. Troppe vibrazioni legate al vento.

Nonostante questo, la Legge 17 dicembre 1971 n. 1158 promulgata con il governo democristiano Colombo (presidente Saragat) istituisce la nascita di un progetto dell’Iri. Nel testo legislativo si legge che si sarebbe dovuto tenere conto del concorso di idee effettuato dall’Anas con legge 28 marzo 1968 n. 384. È questo l’atto fondativo del ponte, anche se bisognerà aspettare l’11 giugno del 1981 per vedere nascere la società «Stretto di Messina Spa». E nascerà in un vuoto di potere: il governo Forlani era caduto in maggio e il governo Spadolini si instaurerà solo il 28 giugno.

Il bilancio vero dei costi

Inizia a partire da qui il tassametro dei costi per lo Stato. Tra il 1981 e il 1997 vengono spesi 135 miliardi di lire per vari studi più o meno di fattibilità. Ma è il governo Berlusconi che passa ai fatti. Su progetto a campata unica con Pietro Lunardi ministro delle Infrastrutture, nel 2003, viene aperto un primo cantiere a Cannitello per spostare la rete ferroviaria che passa proprio dove viene fatto un buco grande come un campo da calcio e profondo 60 metri per l’ancoraggio dei cavi. Il conto totale in euro, al 2003, è già salito a oltre 130 milioni (fonte Corte dei Conti). Nel frattempo erano già morte sia l’Iri che la Democrazia Cristina che avevano avviato l’idea. La società Stretto di Messina finisce dunque dopo vari cambi per essere controllata nel 2007 all’81,84% da Anas (oggi parte di Ferrovie dello Stato) e partecipata da Rete ferroviaria italiana (Rfi), Regione Calabria e Sicilia. Con il ritorno a Palazzo Chigi di Prodi il progetto frena, per ripartire due anni dopo con il Berlusconi IV. Di pari passo c’è il braccio di ferro fra i sostenitori: porterà sviluppo al Mezzogiorno e sarà una grande attrazione turistica. E i detrattori: bisogna prima modernizzare i trasporti della Sicilia e Calabria. Sopra le parti una nutrita schiera di ingegneri pone l’annosa questione legata alla sicurezza dell’infrastruttura.

La «Stretto di Messina» va in liquidazione

Arriviamo al 2013, quando il premier Mario Monti (siamo in piena austerity e pulizia dei conti) chiude la partita e la Società Stretto di Messina viene messa in liquidazione e affidata a Vincenzo Fortunato, avvocato e già capo di gabinetto del ministro Giulio Tremonti nel secondo governo Berlusconi, ma anche di Lunardi e Di Pietro. Lavora anche per lo stesso governo Monti e conosce molto bene la storia del Ponte, dunque sembra essere la persona giusta per chiudere la faccenda velocemente: per lui è previsto un compenso da 120 mila euro l’anno come parte fissa, più 40 mila di parte variabile. Ma proprio i bilanci della società in liquidazione sono una fonte certa per i veri costi del ponte.

Nel bilancio 2013 già la società sottolineava come avrebbe chiamato a garanzia e a manleva il governo. Cosa significa? Che in caso di danni e sanzioni paga lo Stato

All’atto della messa in liquidazione la società aveva terreni per 3.739 euro, 127 mila euro di macchinari e 312,3 milioni di valore della concessione Ponte sullo Stretto, 78 milioni di depositi bancari e postali e 6.241 euro in cassa. Il costo più alto è quello per il personale: 2 milioni tra salari, stipendi e oneri sociali. Si legge sempre nel bilancio 2013: SdM ha promosso un’azione di risarcimento del danno nei confronti del contraente generale a motivo dell’illegittimo recesso esercitato. Si tratta dell’attivo patrimoniale: 312 milioni più un incremento del 10% per danni subiti. Dunque 342,7 milioni tra buchi fatti nel terreno e continui studi di fattibilità che diventano 325,7 milioni perché 17 milioni erano già stati versati. Possiamo dire che al 2013 il costo effettivo del ponte è di 342 milioni. Soldi che devono essere pagati nonostante la messa in liquidazione e nonostante non valgano più nulla perché il commissario è tenuto a recuperare tutto ciò che può per risarcire i creditori (lo Stato stesso). Il governo Monti aveva previsto 300 milioni di euro per coprire le pretese della società sperando che venisse chiuso tutto in 12 mesi. Nove anni dopo la Stretto di Messina è ancora in piedi. Durante il Governo Conte II la legge di bilancio ne aveva previsto la chiusura forzosa ma l’articolo era stato stralciato.

I risarcimenti da pagare

Nel bilancio sempre del 2013 emerge anche un contributo in conto impianti pari a 1,3 miliardi. In realtà di questa cifra lo Stato paga solo circa 20 milioni perché successivamente il Cipe li sopprime, ma questa voce rimane una indicazione di quanto possa costare sul serio il Ponte: 1,3 miliardi solo di impianti. La società dal 1 gennaio 2014 non ha più dipendenti (ma sono stati spostati in Anas dunque sempre a carico dello Stato) e anche gli uffici sono stati ridimensionati. La stazione meteorologica di Torre Faro a Messina è stata ceduta all’Università di Messina. Quello che sappiamo dunque è che la società Stretto di Messina che si doveva occupare della costruzione del ponte è stata messa in liquidazione nell’aprile del 2013 con un costo fra penali e indennizzi per 342 milioni. A cui vanno aggiunti gli oltre 130 milioni fra studi e gestione degli anni Ottanta e Novanta. Ci sono poi gli indennizzi di parti terze sempre a carico dello Stato poiché non sono stati fatti accantonamenti a garanzia in quanto – si legge - si ritiene che le cause «debbano trovare tutte copertura nelle risorse pubbliche». Infatti il consorzio che aveva vinto l’appalto Eurolink, capitanato da Salini Impregilo e che oggi si chiama WeBuild ed è partecipata anche da Cdp (dunque sempre dallo Stato), ha in sospeso un appello con una richiesta di 657 milioni di euro. Nell’ultima semestrale chiusa di Webuild si ricorda che oltre al processo la società ha sollecitato il pagamento di altri 60 milioni per la copertura di costi già sostenuti. Un’altra causa da 90 milioni era stata intentata da Parsons, colosso dell’ingegneria civile Usa.

Eurolink durante le fasi processuali ha ripetuto che sarebbe disposta a rinunciare alle pretese in caso di riapertura del progetto. Ma resuscitare una gara fatta 15 anni, peraltro con una società (WeBuild) che nel frattempo è diventata partecipata da Cdp, senza indirne una nuova, sarà problematico per almeno due ragioni:

1) sono cambiati tutti i parametri economici, ed è altamente probabile che gli altri concorrenti impugneranno,

2) di mezzo ci sono dei finanziamenti europei.

La «Stretto di Messina» riesumata

Tirando le somme: se tutto andrà male (per i processi bisogna attendere il 2023) il conto del ponte che non si è fatto sarà di circa 1,2 miliardi. Il costo del ponte che oggi si vorrebbe fare, secondo il Ministro Salvini, è di 6-7 miliardi. Da dove arrivi questa stima non si capisce poiché di concreto ancora non si è mosso nulla. C’è invece un rimpallo di 50 milioni. Sono i soldi messi a disposizione dalla ministra De Micheli nel 2020 al gruppo di lavoro per valutare soluzioni alternative al ponte a campata unica. Lo scorso giugno l’allora ministro Enrico Giovannini aveva mandato l’esito del gruppo di lavoro a Rfi, chiedendo di fare un nuovo studio di fattibilità e trasferendo a loro i 50 milioni.

Ora nella nuova legge di legge di bilancio, all’art 82, si legge che il ponte è un’opera prioritaria ed «entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge la Società Stretto di Messina rinuncia a tutte le pretese nei confronti della pubblica amministrazione, e viene revocato lo stato di liquidazione in deroga a quanto previsto dal codice civile, mentre Rfi e Anas (in quanto soci della Stretto di Messina) sono autorizzate a fare un aumento di capitale di 50 milioni per riorganizzare la società». In altre parole: si riparte da dove eravamo rimasti, e i 50 milioni che dovevano servire al nuovo studio di fattibilità vanno a resuscitare la Stretto di Messina che, ricordiamo, sta subendo le cause di Eurolink. Anche i problemi però sono rimasti ancora quelli di Musmeci: 3 km esposti a venti e correnti molto forti, fondale e V e su una faglia ad alto rischio sismico: fino a 7.3 gradi Richter, come nel terremoto del 1908, quello che ha distrutto Messina. La buona notizia è che nel frattempo con il Pnrr sono stati pianificati 500 milioni nella rete di treni e traghetti per collegare più velocemente Calabria e Sicilia.

Ponte sullo Stretto, si ritorna al progetto di Berlusconi di 20 anni fa. Fabio Savelli su Il Corriere della Sera l’8 novembre 2022.

Il governo ora ci riprova. A rispolverare un vecchio sogno nel cassetto. Sicuramente un vecchio pallino di Silvio Berlusconi: unire la Sicilia alla Calabria con un ponte sullo Stretto di Messina. Per anni, come dimenticarlo, l’infrastruttura è stata vittima di un riflesso ideologico che ha colpito la sinistra convintamente anti-berlusconiana sostenitrice del benaltrismo, la corrente di pensiero secondo la quale al Meridione serve prima molto altro e poi forse un Ponte a unire le due coste separate dalla geografia per tre chilometri.

Siccome il Cavaliere ne è stato un fervente sostenitore (indimenticabile quella puntata di Porta a Porta con Lunardi ministro e Bruno Vespa a vagliarne gli aspetti nel 2003) per riflesso conveniva smontarla, derubricarla ad opera non più prioritaria (governo Prodi 2006-2008), infine sancirne l’impossibilità di una convergenza programmatica e trasversale in tutto l’arco parlamentare arrivando a sciogliere la società dello Stretto, licenziando il personale, imbarcandosi in penali salate.

Ora il neo-ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini si è messo in testa che con due regioni in mano al Centrodestra — Sicilia e Calabria — e un governo a Roma dello stesso colore il momento è propizio. Non gli si può dar torto della favorevole convergenza astrale, quel che è certo che la strada verso il Paradiso (o l’Inferno) è lastricata da sempre da buone intenzioni: gli ostacoli sono dietro l’angolo anche stavolta, le approvazioni infinite, gli studi di fattibilità anche per aggiornare vecchi progetti anche. Però la notizia è che il titolare del ministero competente per le grandi opere ha incontrato i due presidenti di regione — Renato Schifani e Roberto Occhiuto — ha avviato un tavolo di confronto con il territorio e con Ferrovie dello Stato per «posare la prima pietra» già nel 2023. Auspicio o meno, qual è l’idea che anima il governo?

L’ipotesi è usare i 50 milioni di euro stanziati dal governo Draghi, destinati all’ennesimo studio di fattibilità per volere dell’ex ministro Enrico Giovannini, per aggiornare il vecchio progetto a campata unica, in modo da accelerare l’iter e poter avviare il prima possibile i cantieri. D’altronde non è un’idea campata per aria, al netto del gioco di parole. Servirebbe soltanto un decreto legge per rianimare la società Stretto di Messina spa fatta morire da un giorno all’altro con i contratti stipulati e le gare bandite. Decisione che tiene in essere contenziosi e penali per oltre 700 milioni. L’udienza per il giudizio di appello nel foro di Roma, inizialmente prevista per l’8 marzo 2022, è stata rinviata al 16 settembre 2023. Società Stretto di Messina era la concessionaria, costituita nel lontano 1981, incorporando in sé i soci più logici: le due maggiori stazioni appaltanti del Paese – Anas e Rfi ora riunite sotto la capogruppo Ferrovie dello Stato – e le regioni Sicilia e Calabria. C’era anche già un general contractor, il consorzio Eurolink che comprendeva quella che allora si chiamava Impregilo ed ora è diventata Webuild con un riassetto che ha previsto l’ingresso di capitali pubblici tramite Cassa Depositi.

Realisticamente per farlo ne servono 7 di anni e nel mentre si può spacchettare l’opera in lotti e finanziarla con i fondi europei. La società concessionaria Stretto di Messina avrebbe già fatto tutto, non servirebbe neanche il dibattito pubblico previsto nel Codice dei contratti e per far partire i primi cantieri servirebbero al massimo 6-7 mesi cominciando con il rapporto con i soggetti aggiudicatari trasformando il contenzioso in accordo transattivo. L’analisi di fattibilità tecnico-economica è stata fatta ma ora va evidentemente aggiornata, la valutazione di impatto ambientale anche, la conferenza dei servizi conclusa, l’ok del Cipe ottenuto nel lontano 2003, realizzati i lavori per lo spostamento della ferrovia (variante Cannitello) così da permettere la realizzazione della pila sul lato calabrese.

«Rappresenta un’opera strategica per l’Italia, che proietta l’ingegneria verso una nuova dimensione, mettendo l’innovazione tecnologica al servizio dei cittadini, che potranno cosi’ usufruire di una mobilita’ piu’ funzionale. Accogliamo, pertanto, con soddisfazione l’accelerazione impressa dal governo a questo progetto, accantonato per troppo tempo», dice Giorgio Lupoi, presidente nazionale Oice (Associazione delle organizzazioni di ingegneria e architettura). «La realizzazione del Ponte dovrà tuttavia essere accompagnata da un piano di infrastrutturazione capillare da attuare con urgenza sul territorio, coinvolgendo tutte le Regioni del Mezzogiorno».

Per accelerare il presidente della regione Sicilia Schifani parla della nomina di «un Commissario modello Genova» per accelerare l’iter. Si partirà?

Ponte sullo Stretto, costerà quasi un miliardo (anche se non si farà): il conto delle penali. Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022.

Il vertice dell’8 novembre

Negli ultimi dieci anni abbiamo visto raddoppiare il canale di Suez e quello di Panama, costruire il terzo ponte sul Bosforo sulla città di Istanbul. Da noi i tre chilometri di mare più discussi, studiati, progettati, contestati, infine annullati nel febbraio 2013 dal governo Monti. La partita delle infrastrutture è appena cominciata complice l’infornata da 50 miliardi di euro (sui 200 totali) che sta arrivando dall’Europa eppure di quel ponte sospeso a campata unica certificato dalle migliori società di progettazione del pianeta — con un investimento complessivo di oltre 350 milioni — finora non c’è stata traccia. Ora il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, dice di volerlo fare. Ha convocato per l’8 novembre un vertice con i presidenti della regione Sicilia, Renato Schifani, e Renato Occhiuto, al timone della regione Calabria. Ma a che punto siamo?

Quanto tempo ci vuole

Realisticamente per farlo ne servono 7 di anni e nel mentre si può spacchettare l’opera in lotti e finanziarla con i fondi europei. La società concessionaria Stretto di Messina avrebbe già fatto tutto, non servirebbe neanche il dibattito pubblico previsto nel Codice dei contratti e per far partire i primi cantieri servirebbero al massimo 6-7 mesi cominciando con il rapporto con i soggetti aggiudicatari trasformando il contenzioso in accordo transattivo. L’analisi di fattibilità tecnico-economica è stata fatta, la valutazione di impatto ambientale anche, la conferenza dei servizi conclusa, l’ok del Cipe ottenuto nel lontano 2003, realizzati i lavori per lo spostamento della ferrovia (variante Cannitello) così da permettere la realizzazione della pila sul lato calabrese.

Serve un decreto legge e l’udienza di settembre 2023

Servirebbe soltanto un decreto legge per rianimare la società Stretto di Messina spa fatta morire da un giorno all’altro con i contratti stipulati e le gare bandite. Decisione improvvida che tiene in essere contenziosi e penali per oltre 700 milioni. L’udienza per il giudizio di appello nel foro di Roma, inizialmente prevista per l’8 marzo 2022, è stata rinviata al 16 settembre 2023. Società Stretto di Messina era la concessionaria, costituita nel lontano 1981, incorporando in sé i soci più logici: cioè le due maggiori stazioni appaltanti del Paese – Anas e Rfi ora riunite sotto la capogruppo Ferrovie dello Stato – e le regioni Sicilia e Calabria. C’era anche già un general contractor, il consorzio Eurolink che comprendeva quella che allora si chiamava Impregilo ed ora è diventata Webuild con un riassetto che ha previsto l’ingresso di capitali pubblici tramite Cassa Depositi.

I due progetti in essere e la Commissione Giovannini

La relazione del gruppo di lavoro partorita dal ministero delle infrastrutture guidato dal predecessore Enrico Giovannini ha sostenuto che «sussistano profonde motivazioni per realizzare un sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche in presenza del previsto potenziamento e riqualificazione dei collegamenti marittimi (collegamento dinamico)». Bene potremmo dire: dopo 50 anni abbiamo di nuovo compreso che il Ponte serve a collegare la Sicilia al resto dell’Italia all’interno del corridoio europeo che va da Berlino a Palermo. Però la relazione ha smontato il progetto del ponte a campata unica che ha ricevuto tutte le approvazioni possibili con un altro a tre campate su un tracciato differente rispetto al progetto attuale. E stato però dato un incarico a Rfi, la società di gestione della rete ferroviaria controllata da Fs, per lo studio di fattibilità affidandole 50 milioni (20 nel 2022, 25 nel 2023 e 5 nel 2024) confrontando le due soluzioni del ponte a campata unica (con aggiornamento del progetto) e a tre campate. In realtà Rfi non svolgerà il lavoro ma sarà una sorta di stazione appaltante, affidando il lavoro attraverso una procedura di gara internazionale, svolta dopo l’individuazione di un advisor. I tempi per la consegna dello studio al Mims sono slittati - anche per i ritardi nella messa a disposizione dei fondi - dall’estate 2023 prima all’ottobre 2023 e ora ad aprile 2024.

Il ponte a tre campate

L’ipotesi a tre campate, alternativa al progetto originario, contempla la realizzazione di due antenne basate sui fondali profondi dello stretto, riprendendo gli studi di una soluzione lungamente dibattuta a livello di fattibilità, e scartata ad inizio degli anni ’90 per inefficienze economiche e problematiche tecniche ed ambientali. Lo stesso gruppo di lavoro ministeriale a pagina 137 della relazione esplica le difficoltà tecniche e temporali per vagliare una soluzione alternativa al progetto ad una campata già in essere: «Per ponti a più campate con pile in alveo, dovranno essere condotte indagini geofisiche, geologiche, geotecniche, fluidodinamiche. Si dovranno analizzare le azioni e gli effetti delle correnti marine, la presenza di faglie, frane sottomarine e di tutti i tipi di accumuli di sedimenti sommersi che possono subire deformazioni, spostamenti, rottura, liquefazione dinamica. Le indagini dovranno permettere di valutare il comportamento meccanico dei volumi di terreno che influenzano e sono influenzati dalle opere a terra e in alveo. Bisognerà inoltre considerare che nelle parti centrali dello Stretto, nella zona assiale del graben, è attesa una subsidenza cosismica superiore al metro in caso di attivazione di faglie ai margini dello Stretto per terremoti di magnitudo superiore ai 6,5 gradi Richter».

Il traino per la Sicilia

Nessuno calcola il conto sul Pil della Sicilia per la sua assenza. Nel 2020 è stato pubblicato uno studio realizzato dalla regione siciliana col supporto dell’istituto di ricerca Prometeia che valuta un effetto negativo sul Pil regionale di oltre 6,5 miliardi all’anno. Nessuno immagina il ritorno sul turismo, sul traffico merci che rivitalizzerebbe Gioia Tauro, Augusta e Palermo. Ci hanno provato anche i cinesi a finanziarlo includendolo nella nuova via della Seta. Ma la geopolitica conta e per l’Italia affidare a Pechino un’opera del genere avrebbe finito per far vacillare l’appartenenza euro-atlantica. Così i cinesi hanno deciso: sono sbarcati ormai da anni nel porto del Pireo e stanno favorendo la realizzazione di un asse multimodale per penetrare l’Europa orientale fino a Budapest. Peccato perché anche l’Europa assiste sgomenta: nel corridoio 1 Berlino-Palermo del 2002 il ponte sullo Stretto ne è un’ovvia conseguenza. Per anni probabilmente è stato vittima di un riflesso ideologico che ha colpito la sinistra convintamente anti-berlusconiana. Siccome il Cavaliere ne è stato un fervente sostenitore (come dimenticare quella puntata di Porta a Porta con Lunardi ministro e Bruno Vespa a vagliarne gli aspetti) per riflesso conveniva smontarla, derubricarla ad opera non più prioritaria (governo Prodi 2006-2008), infine sancirne l’impossibilità di una convergenza programmatica e trasversale in tutto l’arco parlamentare arrivando a sciogliere la società dello Stretto, licenziando il personale, imbarcandosi in penali salate.

Il sistema di monitoraggio andato perso

Il resto lo hanno fatto gli ultimi anni: la sindrome nimby dei Cinque Stelle (con Grillo che si è fatto a nuoto lo Stretto per risaltarne la presunta inutilità), i movimenti no ponte sulle due coste, alcuni sindaci refrattari agli interventi per le opere di allacciamento che inevitabilmente scontenteranno qualcuno ma nonostante l’opportunità occupazionale e di sviluppo in un’area in grande sofferenza economica e colpito da spopolamento. Senza contare la distruzione di un sistema di monitoraggio ambientale d’avanguardia che era già stato costituito per la registrazione di dati sensibili relativi alla geomorfologia, alla qualità dell’aria, delle acque marine superficiali e profonde, del rumore. Tutto è stato definitivamente smantellato perdendo così l’occasione per la conoscenza dell’ecosistema dello Stretto.

LA GRANDE OPERA. Eterno ritorno. Il sogno proibito del Ponte sullo Stretto, l’opera più costosa mai realizzata. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 2 Novembre 2022

Dopo 50 anni di incarichi, studi, progetti, penali e liquidazioni costate alle casse italiane circa un miliardo di euro, nulla sembra ostacolare il cantiere mai avviato che dovrebbe unire la Sicilia alla Calabria

Ritorna il sogno mostruosamente proibito: il Ponte sullo Stretto. Il Ponte per eccellenza, quello da scrivere con la P maiuscola, ideato, pensato, progettato per circa un secolo, e costato già tanto, senza che mai una pietra sia stata spostata, sulla sponda di Messina come di Reggio Calabria. Ma sognare costa, si sa.

Questa volta a riaccendere le passioni è scesa in campo la strana coppia Renato Schifani – Matteo Salvini. Il primo, presidente della Regione Siciliana neoeletto, lo ha detto subito: «Faremo il ponte sullo Stretto, c’è il progetto». Il secondo, Ministro delle Infrastrutture appena nominato da Giorgia Meloni, ha voluto reagire al fatto che gli hanno fregato il mare e i porti, dalle deleghe previste nel Ministero, e le hanno date a un altro siciliano, Nello Musumeci, per il neonato ministero del Mare e del Sud (alla faccia di chi vive al Nord, e in montagna). Che ci frega del mare, noi facciamo il ponte, anzi, il “Ponte”, avrà pensato Salvini. Ed eccolo convocare già una prima riunione tecnica con Schifani e il suo omologo calabrese, Roberto Occhiuto. L’appuntamento, negli uffici del dicastero, a Porta Pia, è per l’8 Novembre.

Per Schifani «questa volta il Ponte si fa davvero». L’ex presidente del Senato individua anche il responsabile che ha ucciso il sogno mostruosamente proibito: Mario Monti. «Il progetto era cantierabile – racconta – ma il governo di Mario Monti rescisse il contratto poco prima che partissero i lavori, nel 2011, con una penale da 700 milioni di euro. Adesso si può riprendere quel progetto».

Il costo si aggira intorno ai 4 miliardi di euro (3,9 per la precisione). E l’opera non è nel Recovery Plan, per il motivo che le opere previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza devono essere rendicontate nel 2026, qua invece si parla di almeno dieci anni di lavori. E allora, chi paga? Anche su questo Schifani ha le idee chiare: «L’operazione è coperta» dice, con tono da 007. E aggiunge: «In grande sintesi, l’esecutore dell’opera finanzia la costruzione con capitali propri e poi recupera con le quote dei pedaggi». «È un progetto di finanza validato dalla Bocconi», conclude, mica dall’Università dello Stretto.

Il nuovo fermento sul Ponte con p maiuscola suscita entusiasmi. «In tutto il mondo si parlerà dei nostri ingegneri, dei nostri tecnici, delle nostre preziosissime maestranze» esulta il colonnello siciliano di Salvini, Vincenzo Figuccia, che aggiunge un’immagine che scalda il cuore: «Verranno a vedere e a percorrere l’opera turisti, curiosi, imprenditori e visitatori che rimarranno incantati dalle bellezze della Sicilia e dalla generosità del Creatore verso l’isola più bella del mondo». E il Creatore è proprio quello, come il Ponte, anche lui merita la maiuscola. «Tutto questo genererà lavoro, porterà investimenti e cambierà e per sempre il volto economico della Sicilia che diverrà finalmente la California d’Europa, terra di ricchezza e prosperità».

Ma, fuori dall’entusiasmo, cosa prevede il progetto? Una lunghezza complessiva di 3.660 metri, una campata unica sospesa di 3.300 metri, una larghezza di 61 metri e due torri alte 399 metri. Con questi numeri il Ponte sullo Stretto di Messina sarà il ponte sospeso più lungo del mondo.

Un po’ di storia. La legge che autorizza la progettazione del «collegamento stabile» tra Sicilia e continente è del 1971. Nel 1981 viene creata la SdM, la società Stretto di Messina. Nel 1986 la società presenta il “Rapporto di fattibilità”. Nel 2001 il governo Berlusconi decide che l’opera si può fare. Nel 2005 il consorzio Eurolink vince l’appalto. Nel 2011 c’è l’approvazione definitiva del progetto. Ma, subito dopo, è il governo Monti a sancire la non priorità dell’intervento e a mandare in liquidazione la SdM.

Adesso, dunque, si farà un nuovo tentativo. Chissà se i soldi si troveranno. Nel frattempo, però, è singolare notare che un record il Ponte l’ha battuto. È l’opera pubblica che, al mondo, è costata di più, per NON essere realizzata. La società pubblica Stretto di Messina, la SdM, è in liquidazione da dieci anni. E costa 1500 euro al giorno. Anche l’Anac, nel 2020, ha aperto un’istruttoria per capire, ad esempio, come nel bilancio figurassero spese per il rispetto della normativa sui luoghi di lavoro quando la società dipendenti non ne ha. E, tra i costi della liquidazione, gli incarichi, gli studi e i progetti e i convegni, la stima dei costi, dal 1979 a oggi, arriva a circa un miliardo di euro, per un cantiere mai avviato. Insomma, che vi pare: sognare costa, e pure tanto.

Ponte sullo Stretto: la zona è altamente sismica. Cosa dice l’ultimo studio di fattibilità. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

Un secolo e mezzo di progetti

«Il Ponte sullo Stretto è tra i miei obiettivi. Se dopo 50 anni faremo partire il cantiere e i lavori, sarà un grande passo avanti per l’ingegneria nel mondo». Matteo Salvini, neoministro delle Infrastrutture del governo Meloni, dopo pochi minuti dall’annuncio della sua nomina al dicastero, ha calato la sua prima carta ad effetto su un’opera divisiva quanto identitaria e dalla lunga storia: se ne discute infatti ormai da anni, anzi da un secolo e mezzo, se nel 1876 Giuseppe Zanardelli diceva: «Sopra i flutti o sotto i flutti, la Sicilia sia unita al Continente». Il collegamento rapido dell’isola con la Penisola, poi, è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Silvio Berlusconi e sul quale è tornato anche a fine agosto scorso: «Io ho sempre ritenuto che il Ponte sullo Stretto fosse una priorità assoluta e che costituisse uno dei progetti più importanti per il nostro Paese - aveva detto in una delle sue pillole quotidiane -. Non ho cambiato idea. Il ponte rimane una priorità assoluta». Insomma, questa volta nel governo ci sono i numeri e potenzialmente le intenzioni per avviare il progetto faraonico. Ma è davvero realizzabile? E la scoperta dell’anno scorso nei fondali marini tra la Sicilia e la Calabria della faglia che più di 100 anni fa provocò la più grave catastrofe sismica d’Europa, il terremoto di Messina del 28 dicembre 1908, non dovrebbe essere un ulteriore disincentivo? E cosa dice l’ultimo studio di fattibilità? Vediamo di rispondere a queste domande.

Zona ad altissimo livello sismico

L’ultimo studio condotto sui fondali marini dello Stretto di Messina e sulla sismo-tettonica dell’area è frutto di una collaborazione internazionale tra il Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Catania, il Center for Ocean and Society-Institute of Geosciences dell’Università di Kiel in Germania e l’Osservatorio etneo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Gli scienziati coinvolti hanno svelato nel 2021, e per la prima volta , l’ubicazione e le caratteristiche della possibile faglia da cui si originò il devastante sisma che nel 1908 provocò morte e distruzione tra Sicilia e Calabria, causando la più grande sciagura sismica del Novecento e 120 mila vittime. La ricerca dal titolo “The Messina Strait: Seismotectonic and the Source of the 1908 Earthquake”, e pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale Earth-Science Reviews, ha stabilito che la struttura che corre lungo l’asse dello Stretto è individuabile a circa 3 chilometri dalle coste della Sicilia. Alla latitudine di Messina, la spaccatura curva verso Est penetrando nell’entroterra calabro per proseguire poi lungo l’asta fluviale del torrente Catona. Secondo le relazioni lunghezza-magnitudo, la faglia è in grado di scatenare terremoti di magnitudo 6.9, una energia dunque molto simile a quella liberata durante il terremoto del 1908.

Da Berlusconi a Draghi: l’ultimo studio di fattibilità

Chiarita la situazione sismo-tettonica dell’area, passiamo ai progetti per il Ponte che negli anni in molti hanno visto la luce per cadere presto nel dimenticatoio.

Nel 2005 il governo Berlusconi era arrivato all’aggiudicazione dell’appalto con un bando internazionale vinto da un’impresa italiana. L’azienda che si era candidata a costruirlo, la Webuild, aveva calcolato che il ponte avrebbe creato lavoro per 118.000 persone, mentre il progetto valeva da solo 2,9 miliardi di euro, che oggi salirebbero a circa 7,1 miliardi considerando il progetto complessivo con tutte le opere connesse nelle aree interessate: dalla metro di Messina alle opere di sistemazione idrogeologica per le montagne circostanti, dalle strade di accesso alle strutture per far passare treno e macchine. Ma alla fine non se n’era fatto nulla.

Poi, nel 2021, era toccato al governo Draghi scommettere sul Ponte sullo Stretto. L’esecutivo infatti aveva rispolverato il progetto del collegamento diretto tra la Sicilia e il Continente e aveva affidato alle Ferrovie dello Stato un nuovo studio di fattibilità. Il nuovo orizzonte temporale era stato fissato alla primavera del 2022. Un solo anno, dunque, per avviare con decisione il progetto. La relazione del gruppo di lavoro presentata il 4 agosto 2021 aveva indicato chiaramente il contenuto dello studio, sia per il Ponte a campata unica - per il quale esistevano già molte analisi effettuate - sia a più campate.

Dal ponte a una campata unica a quello a tre campate

L’ultima relazione del gruppo di lavoro del ministero delle Infrastrutture del governo Draghi ha sostenuto che «sussistono profonde motivazioni per realizzare un sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche in presenza del previsto potenziamento e riqualificazione dei collegamenti marittimi (collegamento dinamico)». Va detto che, nell’ultimo aggiornamento ufficiale sul progetto presentato a inizio di quest’anno, con un’informativa al Consiglio dei ministri, l’ormai ex ministro Enrico Giovannini tra le ipotesi illustrate aveva inserito anche “l’opzione zero”: l’ex titolare delle Infrastrutture non aveva insomma nascosto che realizzare il Ponte potrebbe essere inutile e improduttivo. La stessa relazione ha poi smontato il progetto del ponte a campata unica, che aveva ricevuto tutte le approvazioni possibili. La nuova relazione ha infatti indicato come ipotesi migliore un ponte a tre campate su un tracciato differente rispetto all’ultimo progetto e attualmente valido.

La relazione ha poi contemplato la realizzazione di due antenne basate sui fondali profondi dello stretto, riprendendo gli studi di una soluzione lungamente dibattuta a livello di fattibilità, e scartata a inizio degli anni ’90 per inefficienze economiche e problematiche tecniche ed ambientali.

Ripescando un vecchio progetto che era già stato bocciato, di fatto il gruppo di lavoro del governo Draghi ha messo in stand-by ancora una volta tutto il progetto, rimettendo nelle mani del nuovo governo ogni decisione. Vedremo ora se l’uscita di Matteo Salvini troverà una vera sponda nel nuovo esecutivo e si cercheranno davvero i (tanti) soldi per avviare i lavori.

QUEL PONTE CHE DEVE SORGERE A MEZZOGIORNO. GIRO D’ORIZZONTE TRA I PROGRAMMI ELETTORALI. Somiglia al gioco dell’oca: si fa un passo avanti e poi si torna indietro, alla casella di partenza. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 19 Settembre 2022. 

Mezzogiorno. Basta la parola. Ad evocare la macro area dell’Italia che, con un dolce eufemismo, viene definita a ritardo di sviluppo. L’insufficiente sviluppo è condensato nei dati macroeconomici: tra il 1996 e il 2021 il Pil del Mezzogiorno è cresciuto in termini cumulati solo del 3,5%, quasi cinque volte in meno della media nazionale (15,4%) e otto volte rispetto al Nord-Est (24,8%). Nel 2022 il Pil pro capite al Sud (20.900 euro) è quasi la metà di quello del Nord-Ovest (38.600 euro) e del Nord-Est (37.400 euro). Nel 2022 i consumi pro capite al Sud sono ammontati a 15.100 euro contro gli oltre 21mila euro del Nord e i 19.800 euro del Centro. Ancora: nel 2022 la popolazione si è ridotta di 824mila unità rispetto al 2019, il 60% nel Mezzogiorno. Tra il 1996 e il 2019 quella del Nord è cresciuta del 9,3%, mentre al Sud è calata del 2%.

Al netto dei suoi non pochi primati, il Sud resta purtroppo ancora molto indietro nella crescita. Ecco cosa prevedono nei programmi elettorali i partiti politici impegnati nelle elezioni del 25 settembre. Con l’avvertenza che ci si è soffermati specificatamente sulle misure rivolte propriamente al Sud, in modo mirato e circostanziato, escludendo dunque i provvedimenti a carattere generale che riguardano l’intero Paese.

CENTRODESTRA

Ci sono due capitali nell’ampio e articolato programma elettorale dello schieramento di Centrodestra (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Noi moderati) e riguardano le infrastrutture e il lavoro. Nell’ambito dell’ammodernamento della rete infrastrutturale e nella realizzazione delle grandi opere, si punta a potenziare la rete dell’alta velocità e alta capienza per un efficace collegamento del Sud con il Nord. Inoltre, viene riproposto il progetto dell’attraversamento stabile dello Stretto di Messina.  Nel programma si parla espressamente di Ponte. Ma sarà un ponte a collegare la Sicilia alla Calabria? Non si sa. L’ultimo studio di fattibilità è stato affidato dal Governo Draghi a Rfi (Gruppo FS).  Potrebbe farsi (l’ipotesi è che si faccia un ponte con più campate, non più solo con una, ma potrebbero riesumarsi altri studi del passato che prevedevano in alternativa tunnel subalvei). Ma quella del Ponte somiglia al gioco dell’oca. Si fa un passo avanti e poi si torna alla casella di partenza. E si ricomincia daccapo. Staremo a vedere. 

Nel programma sono previsti incentivi per stimolare la creazione di imprenditoria giovanile e femminile nelle aree svantaggiate, dunque anche nel Sud, e prorogare gli sgravi contributivi in favore delle imprese del Mezzogiorno.

CENTROSINISTRA

Muovendo dalla constatazione che le disuguaglianze sono il freno a ogni prospettiva reale di crescita, il Centrosinistra (Partito Democratico, Alleanza Verdi – Sinistra, Impegno Civico e +Europa) dichiara apertamente di voler colmare le disuguaglianze territoriali investendo nel Mezzogiorno e nelle aree interne, perché è tutto il Paese a rallentare se alcune aree rimangono indietro. C’è una profonda interdipendenza economica che lega le aree del Paese.

Anche per il Mezzogiorno la proposta passa attraverso un cambio di paradigma: “noi crediamo che l’Italia potrà avere una crescita forte, durevole e sostenibile solo se saprà colmare i suoi divari territoriali, che non si esauriscono nella storica frattura tra Nord e Sud, ma si caratterizzano ad ogni latitudine per una crescente divergenza tra centri e periferie, città e campagne deindustrializzate, grandi centri e piccoli comuni, aree urbane e aree interne”. Quindi si propongono di affrontare le fragilità territoriali in particolare attraverso il rilancio della Strategia Nazionale per le Aree Interne, accompagnata da politiche settoriali dedicate. Nel quadro della nuova stagione di investimenti, si punta a rilanciare e potenziare il “Piano Sud 2030 – Sviluppo e coesione per l’Italia”, che configura una politica territoriale di “prossimità” ai luoghi”, alle aree marginalizzate e più vulnerabili, condizione indispensabile per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dell’Agenda ONU 2030.

La quota di investimenti destinata al Mezzogiorno nei diversi ambiti del PNRR (40%) e nel bilancio ordinario dello Stato (34%), deve essere “rispettata” e “i fondi derivanti dalle politiche di coesione nazionali ed europee (Fondo Sviluppo e Coesione e Fondi SIE 2021-2027)” devono essere “aggiuntivi e complementari”. Si pensa inoltre alla proroga, al potenziamento e alla razionalizzazione dei diversi meccanismi di incentivazione per l’occupazione nel Mezzogiorno, puntando su giovani e donne. Il Centrosinistra assume inoltre un impegno: portare avanti il negoziato con la Commissione europea sulla “Fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud”, “affinché accompagni, come previsto al momento dell’introduzione, tutta la stagione di rilancio degli investimenti e ne massimizzi l’impatto occupazionale”.  Ancora: chiede il rafforzamento strutturale degli strumenti di politica industriale regionale, potenziati in particolare nel 2020-21 (Credito di imposta per investimenti, incentivi potenziati per R&S, Fondo “Cresci al Sud” per la crescita dimensionale delle imprese, priorità Sud nel Fondo Nazionale Innovazione e Protocolli con CDP e Invitalia, rilancio delle Zone Economiche Speciali) e prevedere forme di riequilibrio territoriale negli strumenti di politica industriale nazionale.

Nell’ambito degli Ecosistemi dell’innovazione al Sud, il Centrosinistra vuole insediare nel Mezzogiorno “poli di formazione su rinnovabili e transizione verde”.

Capitolo scuola, istruzione e socializzazione. Secondo l’ultimo rapporto Svimez, una bambina del Sud frequenta mediamente la scuola 4 ore in meno a settimana; circa 550mila allieve e allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano scuole dotate di una palestra e 650 mila allieve e allievi delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. C’è un tema di esclusione che passa anche dalla mancata centralità della scuola come strumento di istruzione, di socializzazione e di emancipazione. “Vogliamo rimettere al centro la scuola e restituire al mestiere dell’insegnante la dignità e centralità che merita, garantendo una formazione adeguata e continua e allineando, entro i prossimi cinque anni, gli stipendi alla media europea”. 

Per superare queste discriminazioni, bisogna rendere gratuita e obbligatoria la scuola dell’infanzia nell’ambito del sistema integrato esistente e incrementarne il fondo nazionale, per garantire la progressiva gratuità dei servizi educativi 0-3 anni per i nuclei familiari a basso ISEE, con particolare attenzione all’offerta formativa nel Sud del Paese. Propone infine l’estensione del tempo pieno, con particolare attenzione al Sud, e la progressiva costruzione di una scuola presidio di comunità nelle periferie e nelle aree interne.

MOVIMENTO 5 STELLE

Primo punto. Stabilizzare gli sgravi contributi per le imprese del Sud per proteggere i posti di lavoro e crearne di nuovi. Il programma denominato Decontribuzione Sud venne del resto lanciato dal Governo Conte II e nel 2021 ha consentito di creare 1,1 milioni di posti di lavoro, cui si sono aggiunti altri 500mila contratti nel primo semestre dell’anno.

Secondo punto. Le infrastrutture interconnesse e la mobilità intermodale sicura: manutenzione ordinaria e straordinaria garantita per la riduzione del gap infrastrutturale tra i territori in particolare del Sud

AZIONE ITALIA VIVA

C’è un intero capitolo dedicato al Sud nel programma. Si parte dai fondi garantiti al Mezzogiorno dal PNRR a quelli del Fondo di coesione. Tra le misure la trasformazione dell’Agenzia per la coesione in Agenzia per lo sviluppo, benefici fiscali alle imprese meridionali, garantire livelli essenziali di prestazioni sociali, completare l’Alta Velocità e potenziare i treni regionali, potenziare la portualità, rafforzare le Zone economiche speciali, migliorare i livelli di istruzione, combattere lo spopolamento delle aree interne, aumentare la rete Internet e aumentare la quota di turismo non balneare. 

Lo sviluppo del Sud passa anche dall’accessibilità dei territori. In Italia, l’alta velocità è stata realizzata da Roma in su, in periodi di vacche grasse. Se ai progetti già completati si sommano quelli in via di realizzazione, il costo totale per l’alta velocità italiana è stato finora di circa 42 miliardi di euro per 1.280 chilometri di linea. Angela Stefania Bergantino su la Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2022.

La nuova linea ferroviaria Napoli-Bari è qualcosa di cui si discute da decenni. Negli anni ha cambiato percorso e caratteristiche: non è più la cosiddetta alta velocità ma è diventata alta capacità. La differenza non è irrilevante. L’alta velocità prevede tempi di percorrenza che superano i 250 km/h (arrivano anche a oltre 300 km/h) e reti dedicate con raggi di curvatura molto ampi. L’alta capacità si realizza in buona parte adeguando linee preesistenti, mediante rettifiche di tracciato e con la dotazione di opportune apparecchiature tecnologiche. Di norma la velocità su queste tratte non è superiore a 200 km/h. In termini di minuti di tempo risparmiato, è relativamente poco su un percorso attualmente di 219 km, in termini di costi un abisso.

In Italia, l’alta velocità è stata realizzata da Roma in su, in periodi di vacche grasse. Se ai progetti già completati si sommano quelli in via di realizzazione, il costo totale per l’alta velocità italiana è stato finora di circa 42 miliardi di euro per 1.280 chilometri di linea. Un investimento, dunque, di 0,46 euro per km pro-capite per ogni cittadino italiano: un costo sostenuto anche dai cittadini del Sud, che non possono tuttavia usufruire di questa forma moderna e sostenibile di mobilità nei loro territori.

L’ultimo sforzo è stato fatto per collegare Napoli alla capitale. Una distanza di 211 km che si copre in un’ora e 13 minuti. Praticamente si può vivere a Napoli e metterci meno a raggiungere il cuore di Roma di chi vive nelle periferie romane. I baresi però, ancora per diversi anni si dovranno accontentare di vivere a oltre quattro ore di treno dalla capitale, pur trovandosi a 374 km da essa, meno del doppio della distanza che separa Napoli da Roma. Per non dire degli altri pugliesi e dei lucani. Le compagnie aree ringraziano.

Il vero punto della Bari-Napoli non è tuttavia il mero collegamento, pur importantissimo, tra le due città/metropoli del sud. È piuttosto il rapporto tra Bari, Napoli e Roma e la direttrice ferroviaria che dal Nord arriva fino al capoluogo campano, è il passaggio fondamentale per collegare la Puglia e la Basilicata al resto d’Italia.

Per tanti anni si è detto che per tale salto di qualità non c’era sufficiente domanda interna, che l’investimento era eccessivo per territori con un Pil così basso rispetto al Nord. Qualche economista ha persino ipotizzato che potesse costare di meno trasportare i pugliesi in taxi a Napoli e Roma piuttosto che realizzare questa linea ad alta velocità. Se si ragiona con in mente uno scenario di breve periodo, cinque anni, questo è probabilmente vero, ma le infrastrutture non possono essere considerate con uno sguardo miope.

A viaggiare sono le persone: i lavoratori, i turisti, i migranti di ritorno. Sono gli stessi che viaggiano da Roma verso il Nord e lo fanno su «materiale rotabile» moderno, confortevole, veloce. È vero che «viaggiatori» del Sud hanno un reddito medio più basso, una propensione alla spesa diversa, ma si tratta di una causa o di una conseguenza? Come si può affermare con certezza che non siano stati i divari di accessibilità a creare o mantenere tali limiti? Le evidenze, al momento, vanno tutte nella stessa direzione: bisogna colmare il gap di accessibilità per rendere il Mezzogiorno competitivo e rendere i suoi territori sostenibili e attrattivi. Il Pnrr ha questa missione, bisogna vigilare affinché la riduzione dei divari non rimanga uno slogan ma si declini attraverso la messa a terra di progetti finalizzati all’inclusione delle persone, delle imprese e dei territori. Non c’è più la scusa che mancano i finanziamenti.

Grande risorsa per la crescita di tutta Italia. Rino Piccione il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Si continua a parlare di Ponte sullo Stretto di Messina e il pensiero va alle grandi opere di questi ultimi anni realizzate nel mondo. Nel marzo del 2018 è stato inaugurato il ponte carrabile Hong Kong Zhuhai Macao, il 1° maggio 2019 il Kuwait ha inaugurato il quarto ponte marittimo più lungo del mondo. Una grande opera realizzata anche da due aziende italiane, Trevi e Prysmian. Altri ingegneri italiani come Claudia Giarrusso e Arianna Minoretti coordinano progetti importanti e avveniristici negli Emirati Arabi e in Norvegia.

Il Ponte sullo Stretto di Messina sarebbe la più grande opera di questi ultimi anni nel bacino europeo del Mediterraneo e il principale tassello strategico dell'ambizioso piano di sviluppo del Corridoio Berlino-Palermo ma anche un capolavoro d'ingegneria e un omaggio alla bellezza. E impegnerebbe ingente forza lavoro e numerose importanti grandi e piccole aziende italiane di diversi settori altamente specializzate, fiore all'occhiello del made in Italy. Secondo la deputata di Forza Italia Matilde Siracusano Messina è il primo porto italiano passeggeri ed uno dei principali in Europa; è inclusa nel corridoio europeo Helsinki-La Valletta e gestisce i collegamenti con le Eolie. Sulle merci l'Autorità Portuale di Messina è tra le prime quindici, senza dimenticare che l'attraversamento dello Stretto di Messina costa oltre sei milioni di euro ai cittadini.

L'Europa da tempo ne chiede la realizzazione, Pietro Salini di Webuild (ex Impregilo) ha detto che sarebbe disposto a realizzare il Ponte senza penali e senza aumentare i costi, avendo vinto le gare di appalto dell'intera infrastruttura avveniristica. Forse è arrivato il momento. La ricetta è una sola e si chiama crescita. Il Ponte sullo Stretto sarebbe una grande risorsa per tutto il Paese e darebbe lustro alla Sicilia e alla Calabria. Purtroppo l'ostacolo maggiore proviene dagli imprenditori locali coinvolti a vario titolo negli affari legati al trasporto nello Stretto, che tendono a rallentare il progetto e a lasciarlo in una posizione di stallo. Resta solo una possibilità: che il premier Mario Draghi, da economista esperto qual è, confermi la necessità e la validità di quest'opera e la renda immediatamente operativa.

"Il Ponte sullo Stretto si può realizzare solo col progetto del 2005". Gian Maria De Francesco il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il massimo esperto difende il piano a campata unica e boccia il nuovo studio di fattibilità.

«Il Ponte sullo Stretto a tre campate non si può fare e se si potesse realizzare, comporterebbe oneri pazzeschi». Enzo Siviero, massimo esperto italiano nella progettazione di ponti (ha insegnato Teoria delle Costruzioni alla Iuav di Venezia) e rettore dell'Università eCampus, ritiene che la soluzione a campata unica sia l'unica praticabile.

Professore, si può costruire un ponte a tre campate?

«La relazione della Commissione tecnico-scientifica del ministero delle Infrastrutture, pubblicata lo scorso anno, sostiene che il ponte a tre campate presumibilmente costa meno, una terminologia inadatta all'ambito scientifico dove ci si quantificano sempre i costi. Posare i piloni nello Stretto di Messina significa lavorare con correnti che vanno da 3 a 8 nodi. Servirebbero i rimorchiatori solo per tenere le sonde. Il fondale è profondo oltre 100 metri in alcuni punti: a quella profondità non solo è quasi impossibile spianare la superficie, ma mancano anche i sistemi per il consolidamento del terreno che andrebbero sperimentati. Senza contare che la gestione dei materiali di scavo sarebbe un'impresa improba».

Ci sono altre problematiche, non è vero?

«I piloni sarebbero posati nei pressi di una decina di faglie in un'area a forte rischio sismico. Inoltre i blocchi di ancoraggio del Ponte a tre campate insisterebbero su zone abitate di Messina con un impatto mostruoso. Infine renderebbe molto più difficoltoso il transito delle navi, a differenza di quello a campata unica».

E allora perché un nuovo studio di fattibilità?

«L'ho detto anche al ministro Giovannini: questa operazione è nata perché il governo non vuole fare l'opera. C'è un progetto definitivo che si può tradurre in esecutivo e che ha ottenuto tutti i nulla osta e le certificazioni prescritte salvo quella del ministero dell'Ambiente, preoccupato per il volo degli uccelli e delle rotte dei cetacei. Blocchiamo un'opera da 7 miliardi per i cetacei!».

I risultati dello studio non dovrebbero essere già stati pubblicati?

«È un paravento per portare avanti la questione. Hanno affidato a Rfi 50 milioni per la gara internazionale, serviranno tre mesi per bandirla e mi auguro che la vinca Italferr perché è una società italiana. Se tutto va bene, si finirà nel 2023, altrimenti nel 2025 nonostante un progetto preliminare approvato dal Cipe e circa 400 milioni già spesi per la progettazione senza nessun presupposto che giustifichi il cambio del progetto. Come ho detto: è una questione politica determinata da chi non è favorevole al Ponte, come i grillini».

La soluzione monocampata, con una luce di 3.300 metri, è rischiosa?

«La sezione del Ponte come progettato è stata testata in dieci gallerie del vento, proprio per testare la deformazione indotta dal vento. Basti pensare che il Ponte è diventato il modello per tutti i ponti sospesi come quello realizzato sui Dardanelli. E comunque il contractor è partecipato da società con grande esperienza sui ponti sospesi come la danese Cowi e l'italiana Webuild, con la supervisione dell'americana Parsons, una garanzia».

Pure gli imprenditori del Sud vogliono il Ponte sullo Stretto. Gian Maria De Francesco il 13 Maggio 2022 su Il Giornale.

Sì unanime dalla Confindustria di Sicilia e Calabria: "Il governo decida: non possiamo restare ancora isolati".

Un sì all'unanimità al Ponte. È quello che proviene dagli imprenditori di Sicilia e Calabria dopo che la realizzazione dell'importante infrastruttura è tornata d'attualità. Un'opera attesa da tempo che finora è rimasta nel limbo delle incompiute. L'atarassia del presidente di Sicindustria (la più importante territoriale sicula che rappresenta anche Palermo e Messina, ndr), Gregory Bongiorno si spiega così. «Nel 1981 quando è stata fondata Stretto di Messina spa (la società concessionaria posta in liquidazione nel 2013; ndr) avevo 6 anni e si parlava del Ponte come imminente, oggi ne ho 47 e non s'è fatto. In questi anni s'è fatto di tutto inclusa la gara indetta dal governo Berlusconi. Poi, tutto s'è bloccato e quindi siamo scoraggiati», spiega al Giornale sottolineando che «l'importante è che si vada avanti».

Bongiorno è, tuttavia, preoccupato dal fatto che il nuovo studio di fattibilità annunciato dal ministro delle Infrastrutture Giovannini sia di là dall'essere avviato. «Il ministro aveva assicurato che si sarebbe partiti questa primavera e ora siamo in estate», aggiunge lanciando una provocazione. «Sette Paesi europei tra i quali Finlandia, Svezia e Germania ritengono il Ponte prioritario per il completamento del corridoio Helsinki-La Valletta e se lo dicono i Paesi del Nord Europa che quando si prefiggono un obiettivo lo raggiungono, allora questa potrebbe essere davvero la volta buona...».

Il presidente di Unindustria Calabria (la territoriale che riunisce le Confindustrie delle cinque province calabresi, ndr), Aldo Ferrara, entra nello specifico. «Dal 2020 con Sicindustria abbiamo portato avanti il tema», afferma. «Bisogna dire una volta per tutte se si fa o meno con serenità e senza pregiudizi». Se il sistema confindustriale è convinto della sua necessità, lo stesso non si può dire del Palazzo. Ma ora non si può più tergiversare. «Sono stati spesi 968 milioni tra studi di fattibilità e piani finanziari. È un'opera lunga 3,3 chilometri, ci sono ponti più lunghi in Giappone, Cina e Danimarca, in aree anche a maggiore sismicità», rimarca Ferrara.

Il costo del «non fare», però, è di gran lunga superiore. Il Ponte sullo Stretto, argomenta il presidente di Unindustria, «creerebbe una grande macroregione tra Calabria e Sicilia: 600mila imprese, 60 miliardi di fatturato e 900mila lavoratori e rappresenterebbe un grande upgrade di sviluppo». I benefici sarebbero immediatamente evidenti: la costruzione creerebbe 100mila posti di lavoro diretti e nell'indotto, cioè 100mila lavoratori generando valore aggiunto per 6 miliardi tra servizi e beni intermedi. «In fase di esercizio migliorerebbe la logistica, la produttività e la competitività delle imprese del territorio creando una grande opera sia sotto il profilo simbolico che turistico», evidenzia Ferrara.

Cosa serve ora? «Definire una road map per il Ponte perché non se ne può più di questo gioco dell'oca continuo», osserva Bongiorno. Ferrara, invece, aspetta la decisione della politica. «Alcuni partiti che hanno posizioni ideologiche hanno sempre frenato il Ponte, ora si vedrà se le infrastrutture sono una priorità», conclude.

Il Ponte (progettato e mai fatto) sullo Stretto è la metafora di un Sud tradito. Perché la stessa determinazione che si ha nel portare avanti le opere strategiche (vedi Tav) del Nord non viene applicata quando si tratta di opere del Sud? PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 5 maggio 2022.

Perché la stessa determinazione che si ha nel portare avanti le opere strategiche infrastrutturali del Nord non viene applicata quando si tratta di opere del Sud? È una domanda che viene spontanea quando si guarda con occhio retrospettivo a quello che accade nelle varie parti del Paese, laddove vi siano movimenti di contestazione.

Che vi possano essere resistenze e difficoltà nell’attuare opere fondamentali che cambiano la quotidianità di molte persone e di intere società è un fatto assolutamente normale. Quando si trattò di costruire la torre Eiffel il dibattito in Francia fu di quelli dilanianti, molti si posero di traverso rispetto ad un’opera che si riteneva inutile, costosa e dannosa per lo skyline della città.

Particolarmente aspra fu la critica di Paul Planat, direttore della rivista di architettura La Construction moderne, il quale bollò la Torre con clamorosi giudizi di demerito, definendola «un’impalcatura fatta di sbarre e di ferro angolare, priva di qualsiasi senso artistico», dotata di un aspetto mostruoso, «che dava la brutta sensazione di incompiutezza». Nelle società democratiche qualunque tipo di intervento pubblico ha parti della popolazione in disaccordo.

“È il gioco della democrazia fratello“ direbbe qualcuno. I dibattiti ai quali abbiamo assistito nel momento in cui la crisi del Covid 19 era più allarmante, come quelli a cui assistiamo adesso sull’opportunità di fornire armi all’Ucraina, sono esplicativi di come le posizioni in una società democratica siano sempre differenziate.

Solo nelle realtà totalitarie il consenso è completo, anche perché il dissenso viene immediatamente colpito e messo in disparte, per non dire represso con strumenti e sistemi che tutti conosciamo.

Quindi nulla di strano in posizioni contrarie! Non si capisce però come mai quando le difficoltà riguardano opere importanti che si devono costruire nel nord del Paese tutti i movimenti di protesta vengono superati e le opere continuano il loro iter, mentre quando tali problemi riguardano un’opera da costruirsi al Sud, ogni cambio di Governo piuttosto che elementi nuovi nella situazione internazionale, periodiche crisi economiche, sono tutti elementi che portano al rinvio dell’opera stessa.

Esempi illuminanti, quasi didascalici, sono quelli della TAV e del ponte sullo stretto di Messina. Come è stata avversata la TAV dai movimenti ambientalisti piuttosto che dalle organizzazioni locali forse non è stata avversata nessun’altra opera in Italia. Peraltro 57 km di scavo in un tunnel infinito, un costo certamente notevole da affrontare, alternative di collegamento già esistenti, potevano portare al blocco dell’opera. E invece no! Correttamente l’opera continua ad andare avanti, con qualche ritardo probabilmente, superando difficoltà continue, ma continua ad andare avanti. Le Madamine torinesi sono scese in piazza per affermare l’indispensabilità dell’opera e vari Governi si sono impegnati a fianco a tante forze politiche perché l’opera non subisse un arresto assolutamente esiziale. Bene lo stesso tipo di approccio non l’abbiamo avuto per quanto attiene al ponte sullo stretto.

Eppure un’opera come questa, adesso ancor di più con la rinvenuta centralità dell’Africa e dei collegamenti con essa, sarebbe stata fondamentale come importante sarebbe stato la messa a regime dei porti di Augusta e Gela per esaltare quel ruolo di piattaforma logistica del Mediterraneo, che il nostro Paese ha avuto come dono della natura. Invece è bastato una gomma da cancellare in mano ad un nordista incallito come Mario Monti per eliminare un’opera già appaltata per la quale vi erano già i finanziamenti, un progetto esecutivo, anni di studio e di approfondimenti notevoli, gruppi di architetti di fama internazionali che avevano lavorato al progetto, un bando legittimamente vinto da una società che costruisce ponti in tutto il mondo e che porta il successo dell’imprenditoria italiana ad essere apprezzato per tali opere da tanti Governi stranieri. È bastata una gomma da cancellare e come in un gioco dell’oca ripartire dalla prima casella come se il tempo fosse una variabile indipendente.

Malgrado il favore teorico di molta parte del Paese politico, di maggioranze che si dichiarano a favore, da Fratelli d’Italia a Forza Italia a Lega Nord a Italia viva fino ad arrivare al PD, escludendone la parte di sinistra più radicale, quella di Leo e parte dei Cinque Stelle. Bene malgrado tale apparente consenso il progetto si ferma e si ricomincia con studi di fattibilità, con spostamenti di localizzazione dei pilastri, con ponte a tre campate e quindi con nuovi progetti, buttando alle ortiche quel lavoro incredibile di base necessario perché molte delle risorse vengano investite. Cioè avere dei progetti esecutivi che mettano a terra le risorse che ormai ci sono e che facciano sì che le opere si completino. Cioè si fa finta che il progetto sia inesistente, che non sia realizzabile, quando per esempio sullo stesso progetto un ponte è stato già costruito ed inaugurato in Turchia, anche se con una campata più piccola non con i 3,300 km di cui ha bisogno il ponte sullo stretto, ma più o meno 2000, ma con progetto assolutamente analogo.

La cosa strana è che mentre nei casi che riguardano il nord del Paese il blocco delle opere diventa un elemento fondamentale per uno scontro politico con conseguenze importanti fino alla minaccia di crisi politica, nel caso di opere che riguardano il Sud, tutto si svolge in maniera edulcorata. Vi è qualche protesta, qualche interrogazione, il ricordo che una certa forza politica l’aveva fatto appaltare, che alcuni sono stati sempre favorevoli al ponte, dichiarazioni di principio sul fatto che il collegamento stabile sia fondamentale per il Paese, grida manzoniane diffuse e studi di fattibilità che si succedono, idee nuove che si affacciano, per poi essere smentite per la seconda volta, visto che la prima volta era già accaduto che fossero smentite, come il tunnel di Archimede o subalveo, qualche prima pagina di giornaloni nazionali, che si pongono a favore o contro e poi il silenzio dei fatti.

Non è bastato nemmeno dimostrare che il ponte si pagherebbe con il costo di un anno di maggiori oneri che la Sicilia paga per la mancanza dell’opera per provocare prese di posizioni nette, mentre i meridionali e i siciliani sono lì a guardare come l’asin bigio di Carducci che “rosicchiando un cardo rosso e turchino, non si scomodò: tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo e a brucar serio e lento seguitò”. Tutto casuale?

"Il Ponte sullo Stretto è vitale per il Sud. Ora intervenga Draghi". Gian Maria De Francesco l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il presidente della Calabria: "Opera strategica, solo così si potrà fermare l'opposizione M5s".

Il Ponte sullo Stretto è un'infrastruttura necessaria per collegare i 6,5 milioni di abitanti di Calabria e Sicilia al resto dell'Europa, colmando così il divario di sviluppo del Mezzogiorno. Il governatore calabrese, Roberto Occhiuto, intende portare avanti la battaglia per la realizzazione dell'opera perché la sua azione politica ha già ottenuto successo.

Presidente Occhiuto, la notizia del giorno è che nell'Allegato Infrastrutture del Def 2022 ha ottenuto i fondi per il completamento della Strada Statale 106.

«Sono molto soddisfatto del risultato perché la Statale 106 è stata qualificata come opera strategica. Si prevede un finanziamento ulteriore di 3 miliardi. Ringrazio il ministro Giovannini che ha mantenuto l'impegno con la Calabria. Ho costruito un accordo che va oltre la mia maggioranza con le organizzazioni sindacali e ho incontrato a Roma Landini, Bombardieri e Sbarra. Ma credo non basti ancora. In legge di Bilancio mi aspetto una norma, come quella sull'Alta velocità, che finanzi integralmente la SS 106».

Sul Ponte sullo Stretto, infatti, è tutto bloccato allo studio di fattibilità.

«Il Ponte è un'infrastruttura strategica per l'Italia e per l'Europa. Per realizzarla in tempi brevi sarebbe ragionevole fare riferimento al progetto definitivo del 2005 che aveva ottenuto tutte le autorizzazioni. Il collegamento stabile fra Calabria e Sicilia non solo aiuterebbe a colmare il gap con il resto del Paese ma sarebbe una grandissima occasione di crescita per il Mezzogiorno. La Regione Calabria sta effettuando importanti investimenti nell'area di Gioia Tauro perché sono convinto che, anche a causa della guerra, il Mediterraneo diventerà sempre più centrale. L'Italia, invece, lo ha trascurato negli ultimi anni. Il Ponte sullo Stretto sarebbe una straordinaria infrastruttura per rendere ancor di più Calabria e Sicilia la porta dell'Europa sul Mediterraneo».

Non c'è possibilità di esercitare una moral suasion sul ministro Giovannini?

«Un'opposizione ideologica all'infrastruttura, ancora oggi animata dal Movimento 5 Stelle, merita l'impegno non di un solo ministro ma dell'intero esecutivo. L'intero governo e il presidente del Consiglio dovrebbero definire il Ponte come priorità strategica perché già inserito nella rete di trasporto europea Ten-T. Paradossalmente è ritenuto più strategico per l'Europa che per l'Italia. Vedo anche il risvolto positivo: fino al precedente governo il Ponte era ritenuto tabù perché voluto dal governo Berlusconi. Ora finalmente si è ricominciato a parlarne. Spero che questo governo e il prossimo possano passare dalle parole ai fatti».

Lei e il governatore siciliano Musumeci avevate promosso un'asse che potesse sollecitare Parlamento e governo. I risultati ancora non si vedono.

«Forse ci vorrebbe un impegno ancora più incisivo da parte dei governi regionali. In Sicilia si voterà fra qualche mese. Mi auguro che, smaltite le tossine elettorali, si possa aprire una vertenza nei confronti del governo. L'Italia ha un debito straordinario nei confronti della Calabria e della Sicilia per i costi dell'insularità e della marginalità. Ecco perché il tema andrebbe posto anche in seno alla Conferenza delle Regioni. Se si parla di autonomia differenziata, è necessario anche porre la questione della perequazione infrastrutturale per colmare i ritardi storici che impedirebbero alle Regioni del Sud di avere una capacità fiscale adeguata».

C'è un'opposizione strumentale al Ponte legata ai suoi costi. È fondata oppure pretestuosa?

«È un'obiezione molto debole perché quello che non manca sono le risorse per le infrastrutture. Peraltro, sono convinto che nel corso degli anni tutti i Paesi, e l'Italia ancor di più, saranno costretti a rivedere gli obiettivi del Pnrr e a rimodularlo, anche alla luce di quello che è successo in Ucraina. Se si optasse per il progetto cantierabile, si potrebbe trovare facilmente il finanziamento».

La Calabria è interessata dal potenziamento dell'Alta velocità Salerno-Reggio Calabria. Ma già si sente parlare di tracciati alternativi, c'è qualche rischio di rinvio?

«Più che problemi sul tracciato ci sono preoccupazioni sul finanziamento perché ci sono 1,8 miliardi nel Pnrr e 9 miliardi nel Fondo complementare ma mancano circa altri 12 miliardi. Sono confortato dal fatto che il governo continua a ritenere l'opera come strategica per il Mezzogiorno. Se si realizzasse il Ponte, sarebbe economicamente più sostenibile anche l'investimento sull'Alta velocità perché collegherebbe due regioni con 6,5 milioni di abitanti».

Ponte sullo Stretto fermo: il Sud è sempre più isolato. Gian Maria De Francesco il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il ministro Giovannini vuole ripartire da zero. Ma Sicilia e Calabria non possono più aspettare.

Tutto bloccato. Ancora. La realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina è ancora in uno stato di perpetua sospensione. Il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, la scorsa estate aveva detto che entro la primavera del 2022 sarebbe stato presentato un nuovo studio di fattibilità, necessario per deliberare sulla materia. La primavera volge al termine ma questo studio ancora non si vede. Il ministro Giovannini tre settimane fa ha però dichiarato che «il progetto non è più attuale, il finanziamento va ripensato a carico della finanza pubblica» e che «ci possono essere alternative con un ponte a tre campate più vicino a Reggio Calabria e Messina, bisogna farne uno nuovo, ci penserà Rete Ferroviaria Italiana in modo che la politica possa prendere una decisione».

Insomma, un modo come un altro per dire che bisogna ricominciare daccapo e che il progetto a campata unica con una luce di 3,3 chilometri aggiudicato nel 2005 a un consorzio capeggiato da Impregilo (nel frattempo diventata Webuild) è in pratica carta straccia sebbene il progetto fosse praticamente esecutivo con vari livelli di validazione. Come da cestinare è la struttura economica dell'opera. Diciassette anni fa, infatti, il governo Berlusconi aveva ideato una struttura finanziaria che prevedeva su 6 miliardi di costo il 40% (2,5 miliardi) a carico dello Stato tramite Stretto di Messina spa (ora finita in liquidazione) e il restante 60% tramite project financing, cioè credito bancario a favore dei contractor che l'avrebbero ripagato tramite i pedaggi per l'attraversamento automobilistico e ferroviario. Se Giovannini dice che tutto deve essere a carico del Tesoro, significa che il ministro Franco dovrà lavorare per ideare nuove soluzioni e altro tempo si perderà.

Il Ponte sullo Stretto, infatti, non fa parte né delle opere previste dal Pnrr né dell'Allegato infrastrutture al Def che definisce le opere prioritarie. Insomma, è fuori dai radar. A ricordarci della sua esistenza, seppur in forma solo teorica, sono state le recenti convention di Forza Italia e di Fdi che l'hanno posto al centro del dibattito. Anche perché il Ponte è sempre stato una bandiera del centrodestra.

E non è un caso che le amministrazioni di centrodestra di Sicilia e Calabria, con i governatori Nello Musumeci e Roberto Occhiuto, siano stati gli unici in questi mesi, a spendersi fattivamente perché la grande opera tornasse sotto i riflettori. La loro opera di moral suasion, ancora in una fase preliminare, non ha sortito grandi effetti perché a Roma tutto è ancora bloccato. Musumeci, di tanto in tanto, si lamenta. «Questo ambientalismo ha detto troppi no: sono i professionisti del no che non vogliono il Ponte sullo Stretto, che hanno detto no al rigassificatore che continuano a dire no a ogni iniziativa di crescita», ha dichiarato un paio di settimane fa, evidentemente scoraggiato.

Proprio ieri il ministro Giovannini, intervenendo a un convegno, ha ricordato che sulla «complessivamente per infrastrutture e mobilità abbiamo assicurato oltre 100 miliardi di nuovi investimenti per i prossimi dieci anni, investimenti che riguardano non solo l'Alta Velocità ma anche le reti regionali più rilevanti per la mobilità quotidiana, come portare l'Alta Velocità a Reggio Calabria entro il 2030, sulle trasversali Napoli-Bari, velocizzare la Roma-Pescara, la Orte-Falconara, completare l'Alta Velocità da Torino fino a Venezia». Peccato che pure sulla Tav Salerno-Reggio i «soliti noti» stiano cercando di perder tempo.

La plastica dimostrazione di questo stallo è lo stesso decreto Aiuti approvato lunedì scorso con l'astensione M5s, che non ha voluto dire sì a un provvedimento che apre le porte alla realizzazione di un termovalorizzatore a Roma che la grillina Raggi ha ridotto a livello di Calcutta. Ecco, se un solo impianto crea fratture nel governo, inutile parlare anche di grandi opere.

Ponte, lo stop blocca la Sicilia e costa 60 miliardi all'Italia. Gian Maria De Francesco il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'isola, staccata dal Continente, perde 10 miliardi di Pil. Il Paese soffre 6 volte tanto per l'Alta velocità incompleta.

Essere un'isola, pur distando poco più di 3 chilometri dal Continente, è un costo che la Sicilia non vuole più pagare. L'«insularità», ossia la condizione di permanente separatezza dal resto dell'Italia, pesa per 6,54 miliardi l'anno, pari al 7,4% del Pil regionale. È quanto emerge dal report «Stima dei costi dell'insularità della Sicilia» pubblicato dal governatore Nello Musumeci e dal vicepresidente e assessore all'Economia Gaetano Armao. Il sottinteso è molto semplice: il Ponte sullo Stretto è una necessità più che mai vitale.

I parametri adottati dagli uffici regionali con la collaborazione dell'Istituto Bruno Leoni e di Prometeia si basano su modelli econometrici che misurano i maggiori costi di trasporto di persone e merci. Tale indicatore evidenzia che la Sicilia registra il costo medio più alto sia in Italia (150,8% della media nazionale) che rispetto all'Europa a 28. Questa condizione determina una perdita di Pil regionale di 10,6 miliardi annui (11,9% del totale). La cifra, infatti, comprende anche la minore competitività dell'export siculo causata proprio dai maggiori costi per muovere beni e servizi.

Ne consegue che l'«attraversamento stabile dello Stretto di Messina» (eufemismo per indicare il Ponte) è imprescindibile per garantire «ampia e articolata connessione con il resto d'Italia e dell'Europa» a una regione di 4,9 milioni di abitanti «mortificata dalla scarsa qualità delle infrastrutture di collegamento», conclude il report denunciando l'allargarsi del divario socio-economico. Ovviamente, bisognerà attendere il nuovo studio di fattibilità di Rete Ferroviaria Italiana prima che il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, si pronunci definitivamente. E pensare, come ha ricordato qualche tempo fa l'Ance di Messina (la locale associazione dei costruttori edili) che il lascito della legge Obiettivo con relativa aggiudicazione dell'opera ne renderebbe la realizzazione immediatamente fattibile, senza nemmeno (per assurdo) bisogno di passare dal Pnrr perché il collegamento, il cui costo è stimato in 6 miliardi di euro, rientra nei progetti finanziabili dal Fondi di coesione Ue e dal Fondo per le reti Ten-T.

Commettono un errore coloro che derubricano il Ponte sullo Stretto a una questione meramente locale perché non è solo la Sicilia a rimetterci in questa vicenda, ma tutto il Paese. Una ricerca dell'Università Federico II di Napoli pubblicata nel 2020 ha quantificato il 60 miliardi di euro il beneficio in termini di maggiore crescita annua del Pil derivante dal completamento dell'Alta Velocità. Senza il Ponte, infatti, perdono di efficacia non solo i collegamenti Salerno-Reggio Calabria, Napoli-Bari e Palermo-Catania, previsti dal nostro Recovery Plan, ma anche il «cuore» della rete futura che si sostanzia nella Torino-Venezia (ancora da ultimare) e nella Napoli-Milano. E tutto questo, sulla base dei dati storici. Nel periodo 2008-2018 la Tav ha contribuito per un 3% annuo di Pil (circa 58 miliardi) alla crescita del Paese. Cosa significa? Che senza l'alta velocità il Paese avrebbe subito un declino ben peggiore di quello attraversato durante la grande crisi. Lo stesso declino al quale è condannata la Sicilia senza il Ponte.

Lo Stretto di Sicilia fra realtà e utopie. Fra gabbiani in volo, vento e sferragliare dei treni e dei ferry boat, i mari Tirreno e Jonio si contendono il confine. Silvio Perrella  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022. 

La meridiana, detta anche, impropriamente, orologio solare o quadrante solare, è uno strumento di misurazione del tempo basato sul rilevamento della posizione del Sole. Attraverso le parole di Silvio Perrella facciamo un viaggio nel tempo nei luoghi del cuore che profumano di Meridione e Sud.

È la meridiana più scabra del Mediterraneo. Venti a vortice, lunghe spiagge di pietre fratturate, coste a speroni con malinconici manieri, paesi che sorgono direttamente dal mare, vuoti, trasparenze greche dell’acqua, mari a contrasto perenne.

Siamo nello Stretto tra Sicilia a Calabria, al raddoppio del mondo, capolinea e nuova avventura.

A Villa San Giovanni la penisola sparisce, si ritrae in sé; cammina come un fantasma in attesa del ferry boat. Di là altro mondo appare.

I treni tirano i freni; aspettano di essere accompagnati nei ventri arrugginiti di anime galleggianti. Le rotaie si perdono nel vuoto, temono lo sciabordio, fanno domande al mare.

L’individuo a piedi, solitario, i capelli al vento, poco bagaglio, entra guardingo, cerca postazioni di sguardo, ficca occhi ovunque.

I gabbiani volteggiano; disegnano emblemi nell’aria mai ferma.

Il ferry boat s’avventura.

Inizia un viaggio nel Tempo, dove è necessario moltiplicarsi: stare insieme da un lato e dall’altro del ponte-nave che attraversa il pontos-mare.

Messina ferve di fronte. Ha la zona falcata che si arricciola segreta ma ben visibile; la madonnina fa rima con Ellis Island; saluta intrepida, consapevole di essere stata lasciata sola a rimuginare idee perse, terremoti avvenuti in un passato già entrato nel moderno, progetti e speranze di pochi e quasi sempre avversati.

Il pilone dal lato opposto svetta rosso e senza più funzioni come una torre Eiffel disabitata. Annuncia nella distanza Capo Peloro, il faro bicromo, la torre degli Inglesi, il parco dedicato ad Horcinus Orca, capolavoro ansante di Stefano D’Arrigo.

Annuncia soprattutto la spiaggia tormentosa a meraviglia di sguardo e di passo dove Cariddi fa il suo lavoro indefesso.

Quando, lasciandosi alle spalle i borghi di Pace, Contemplazione e Paradiso, i laghi di Ganzirri, l’intero viavai della città, si poggiano i piedi su questa spiaggia è difficile non avvertire un moto del cuore.

I due mari - lo Jonio e il Tirreno – fanno quello che qui chiamano la scalino. Cioè un contendersi furioso del confine tra l’uno e l’altro. Qui io qui tu. Soprattutto qui noi che guardiamo verso Scilla e il suo castello e immaginiamo dietro una curva della costa il villaggio utopico di Chianalea.

Noi a misurare il tempo a vertigine; a fare i conti con i maelstrom del Sud; tra vortici e spazi attraversati da navi che trasportano sogni e incubi.

Qui ogni cosa s’infila in un imbuto che la traduce in qualcos’altro.

Passeggio sulla spiaggia, cerco un punto dove fermarmi, mi siedo su una piccola altura e anch’io vengo tradotto misurato strattonato messo al cospetto più arcano di me stesso.

Le onde vengono oblique a scompigliare la sabbia; rivoltano i sassolini; fanno splendere illusioni sui fondali; si perdono schiumando biancori da leggere e decifrare.

Arrivare sin qui dà la sensazione di essere giunti in fondo al mondo.

Lo vedi, laggiù, il viadotto autostradale: qualche automobile scintilla nell’aria, immagini i conducenti che risalgono verso nord, divorando chilometri, rifocillandosi agli autogrill, temendo l’impatto con tir maestosi, perdendo all’improvviso il sentiero a batticuore della necessità.

Mentre giri gli occhi nell’intorno senti che la trasparenza infida di questo mare molteplice a due nomi evoca l’utopia del Mediterraneo. Sempre negletto, abbandonato a se stesso, tomba liquida per esseri speranzosi, rovina di se stesso, conchiglia dalla quale nacquero i tre monoteismi, fonte battesimale di un diverso modo d’intendere il Reale come senso della misura.

Quel Mediterraneo che reagì al nazionalismo del sole e che rese fertili menti sensuali come quella di Albert Camus, pronto dar schiaffi al dilagante nichilismo; così capace di suscitare la contraddizione dentro di Franco Cassano.

Me ne sto seduto davanti a questa enorme meridiana a frastaglio di luci e di ombre. Leggo il Tempo come sa rappresentarlo questo luogo; mi disapprovo; faccio dibattito in silenzio con tutti gli errori che mi si sono ficcati nel cuore e nella mente giungendo a far tremare i piedi che adesso toccano la rena chiara di questa spiaggia.

ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 16 gennaio 2022.

Qualcuno si è tolto il capriccio di mettere su una bilancia i documenti custoditi in un baule. Progetti, relazioni sul rischio sismico, valutazioni di impatto ambientale. In fondo alla cassa anche le ricerche sulle planate e sulle picchiate del falco cuculo e della poiana codabianca. I documenti sul progetto del ponte sullo Stretto di Messina pesavano 126 chilogrammi.

Siamo sicuri che prima o poi si farà, intanto però non ci siamo accorti che già c’è. Ed è fatto di carta. Unisce Torre Faro e Punta Pellaro con disegni, grafici, parole, schizzi, voglie e denaro, tanto denaro che va avanti e indietro da una riva all'altra. E pare che non sia finita qui.

È nostri desideri e nei nostri incubi, maestoso monumento che una volta realizzato non ci potrà più regalare il rito dell’arancina sul ferry boat.

Ponte, l'opzione zero denuncia che il Ministero non vuole l'opera. ERCOLE INCALZA su Il Quotidiano del Sud il 18 Gennaio 2022.

RIPORTO di seguito un comunicato stampa diramato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri il giorno 12 gennaio scorso: “Il Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Enrico Giovannini, ha reso oggi al Consiglio dei Ministri un’informativa sulle azioni necessarie per avviare la realizzazione di uno studio di fattibilità tecnico-economica per la realizzazione di un sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, ai sensi dell’articolo 23, comma 5, del Decreto Legislativo n. 50 del 2016. Lo studio dovrà prendere in esame la soluzione progettuale del “ponte aereo a più campate”, in relazione ai molteplici profili evidenziati nella relazione presentata il 30 aprile 2021 dall’apposito Gruppo di Lavoro istituito nel 2020 presso il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, valutandone la intrinseca sostenibilità sotto tutti i profili indicati, mettendola a confronto con quella del ponte “a campata unica” e con la cosiddetta “opzione zero”. Inoltre, lo studio deve fornire gli elementi, di natura tecnica e conoscitiva, occorrenti per valutare la realizzabilità del sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche sotto il profilo economico – finanziario. All’acquisizione del documento di fattibilità tecnico-economica provvederà, tramite procedura di evidenza pubblica, la società RFI Spa, in quanto capace di garantire la più appropriata continuità e interconnessione dell’intervento con quelli ferroviari progettati nei territori calabresi e siciliani. Per questo, in data odierna è stato dato mandato alla Direzione Generale competente di avviare il processo amministrativo, a valere sui fondi stanziati a tale scopo dalla Legge di bilancio per il 2021. Si ricorda che nei mesi scorsi il Governo ha provveduto a potenziare l’attraversamento dinamico dello Stretto di Messina, anche grazie ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e del Piano Complementare, destinando a tale scopo 510 milioni di euro. Gli interventi messi in atto vanno nella direzione di migliorare e velocizzare l’attraversamento dello Stretto, favorendo la transizione ecologica della mobilità marittima e la riduzione dell’inquinamento. Tra le iniziative adottate figurano, tra le altre, la riqualificazione del naviglio per il trasbordo ferroviario con la messa in esercizio di due nuove navi e l’ibridizzazione di tutta la flotta, il rinnovo del materiale rotabile ferroviario per velocizzare le manovre di carico/scarico dei treni, la riqualificazione del naviglio veloce per i passeggeri e delle stazioni ferroviarie di Messina, Reggio Calabria e Villa San Giovanni. Sono previsti anche interventi per migliorare l’accessibilità stradale ai porti”.

Ho riportato integralmente questo lungo comunicato per chiedere, a tutti coloro che avranno modo di leggere le mie considerazioni, di soffermarsi su almeno sei punti:

1. Correva l’anno 2020; in particolare nel mese di giugno, a seguito di un apposito convegno degli Stati Generali voluti dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, venne redatto un apposito documento con 102 proposte. Tra queste emergeva una grande attenzione alla estensione della offerta ferroviaria ad alta velocità nel Mezzogiorno del Paese e il Ministro delegato all’interno del Consiglio dei Ministri a rappresentare il Partito Democratico Dario Franceschini, a valle del lavoro prodotto dagli Stati Generali, dichiarò: «L’alta velocità non si può fermare a Salerno ma deve arrivare in Sicilia, ed è una grande opportunità di crescita di quell’area. Se il treno dell’alta velocità deve arrivare in Sicilia deve attraversare tre chilometri di mare, quindi in qualche modo deve attraversarli. Rovescerei l’approccio, in passato il Ponte sullo Stretto è stato un oggetto ideologico, in cui si era a favore o contro, e nella progettazione precedente era buttato lì senza un progetto strategico. Io lo rovescio, l’alta velocità deve arrivare a Reggio Calabria, poi a Catania, a Palermo e Messina e quindi bisogna attraversare lo Stretto ma è la conseguenza di una scelta strategica. Se ne deve assolutamente parlare».

Non riporto le dichiarazioni di altre personalità del Governo e del mondo dell’economia, aggiungo, solo per un atto di rispetto alle istituzioni, quella dell’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Il Ponte sullo Stretto? Non voglio parlare di opere immaginifiche… C’è tanto da fare, “la Roma-Pescara” e poi le infrastrutture nel Meridione, a cominciare “dalla Sicilia”, l’Alta velocità. “Poi mi siederò al tavolo e senza pregiudizi valuterò anche il Ponte sullo Stretto”. Ripeto ho riportato la dichiarazione dell’allora Presidente solo per rispetto al suo ruolo perché in realtà testimonia la forte e tragica discrasia esistente tra un rappresentante del Movimento 5 Stelle ed un rappresentante del Partito Democratico. Ebbene, dal giugno 2020, cioè dopo 19 mesi, il Ministro Giovannini, prendendo come riferimento il lavoro prodotto da una Commissione nominata non da un Decreto del Ministro, non da un Decreto del Presidente del Consiglio, ma da una Determina interna, quindi da uno strumento privo di una adeguata sacralità istituzionale, propone la redazione di uno studio di fattibilità. Cioè in 19 mesi non si è riusciti a:

• Bocciare definitivamente un progetto pronto per essere realizzato, un progetto già avviato, almeno per le opere a terra, a realizzazione (ricordo che si è spostato il tracciato della rete ferroviaria in Calabria per consentirne la ubicazione di una delle due pile del ponte ad unica campata)

• Redigere una proposta organica alternativa o, almeno, a decidere formalmente, però con il supporto di una Commissione voluta dal Ministro, dal Governo e dal Parlamento, soprattutto avendo deciso di realizzare una offerta ferroviaria ad alta velocità in Calabria ed in Sicilia all’interno del PNRR, di prospettare la possibilità di avviare la realizzazione del ponte sullo Stretto articolandolo in due distinti capitoli per rispettare la scadenza del 2026: uno relativo alle opere a terra per un valore di circa 2,3 miliardi inserito nel PNRR e l’altro, quello relativo al ponte, nel Piano Complementare non vincolato alla scadenza del 2026.

2. Insisto sempre sul fattore “tempo” perché da solo testimonia una chiara volontà a non fare e a continuare ad illudere e, al tempo stesso, ad offendere sia il Mezzogiorno del Paese, sia la Ministra del Sud e della Coesione territoriale Mara Carfagna. Non credo infatti che la Ministra Carfagna possa condividere che prenda corpo uno studio di fattibilità con al suo interno anche la possibilità della “opzione zero”; una opzione del genere testimonierebbe, una volta per tutte, quello che già il Mezzogiorno aveva vissuto quando negli anni cinquanta l’autostrada A1 si fermò a Napoli, quando negli anni novanta l’alta velocità ferroviaria si fermò a Salerno; testimonierebbe una chiara volontà del Governo ed in particolare di due membri (Giovannini e Carfagna) a ritenere la vasta realtà meridionale un tipico ambito terzomondista.

Non credo che una convinta ed autorevole donna del Sud, come Mara Carfagna, possa condividere questo approccio. Ma ora, non con comunicati stampa ma con atti formali come l’abbandono della Conferenza Stato Regioni, sono sicuro che sia i Presidenti delle due Regioni Calabria e Sicilia, sia quelli di tutte le Regioni del Mezzogiorno denunceranno formalmente l’assurda proposta del Ministro Giovannini. Sarebbe bello, come fatto dalle Regioni del Mezzogiorno quando vennero ritardati i lavori del tunnel ferroviario Torino – Lione o del Terzo Valico dei Giovi o del Brennero, che le Regioni del Nord e del Centro si schierassero contro un comportamento indifendibile del Ministro; un comportamento indifendibile per l’assurdo arco temporale con cui si è arrivati non alla redazione dello studio ma alla redazione di una informativa; una informativa da cui emerge chiaramente una chiara volontà a “non fare nulla” proprio lì dove si invoca la opzione zero

3. Nel 2020, come detto prima, c’era il Professor Giuseppe Conte che con la sua dichiarazione aveva chiaramente denunciato la sua provenienza dal Movimento 5 Stelle e quindi la sua convinta distanza da una ipotesi di condivisione del ponte e soprattutto era un Presidente che non annoverava nel suo curriculum una ricchezza di esperienze e di funzioni quali quelle dell’attuale Presidente Draghi, non era stato Direttore Generale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, non era stato Governatore della Banca d’Italia, non era stato Presidente della Banca Centrale Europea. Ora queste cariche e questa grande capacità di Mario Draghi non possono, a mio avviso, essere messe in discussione da una “informativa” di un membro del suo Governo su un’opera che, in più occasioni, la Unione Europea ha formalmente approvato includendola non solo in un apposito Corridoio ma eleggendo, addirittura, nel 2004 il progetto del ponte tra i progetti chiave delle Reti TEN – T

4. Ed è davvero preoccupante il passaggio della informativa in cui si dice: “Mentre si studia la fattibilità del ponte, il governo ha già predisposto 510 milioni di euro per potenziare l’attraversamento dinamico dello Stretto di Messina, favorendo la transizione ecologica della mobilità marittima e la riduzione dell’inquinamento. Tra gli interventi: la riqualificazione dei navigli; la messa in esercizio di due nuove navi; l’ibridizzazione di tutta la flotta; il rinnovo del materiale rotabile ferroviario per velocizzare le manovre di carico/scarico dei treni e la riqualificazione delle stazioni ferroviarie di Messina, Reggio Calabria e Villa San Giovanni. Sono previsti anche migliorie ai tratti stradali che portano ai porti”.

Perché da essa si evince una chiara volontà a rafforzare nel tempo la offerta trasportistica legata ai traghetti; in realtà più che di una volontà siamo in presenza di una inequivocabile certezza e ci dimentichiamo che il transito lungo lo Stretto è sempre più in crescita e quindi incrementare i collegamenti tra Villa San Giovanni e Messina sarà sempre più difficile e non si supererà nel tempo questa naturale complessità aumentando il numero di traghetti o incrementando la loro velocità. Quindi la messa in esercizio di due nuove navi si caratterizza come una forma di vera ridondanza in quanto non si tiene conto che le possibili riduzioni di tempo non tengono conto proprio di questa forte entropia sia nelle relazioni Villa San Giovanni – Messina, sia in quelle di attraversamento Nord – Sud – Nord dello Stretto

5. Intanto nessuno tiene conto, ed in modo particolare lo stesso Ministro Giovannini, di quanto detto dal Ministro Dario Franceschini, della inutilità funzionale di una rete ferroviaria ad alta velocità sia in Calabria che in Sicilia e, forse  per questo motivo, si è ritenuto opportuno praticamente far partire in Calabria solo un lotto, quello tra Salerno e Romagnano per un importo di 1,8 miliardi di euro inserito nel PNRR, ed un ulteriore tratto fino a Tarsia inserito nel Piano Complementare per un valore di 9,4 miliardi di euro con una disponibilità articolata in circa dieci anni. Appare evidente che questo approccio è solo, ribadisco è solo, una banale forma mediatica per illudere il Mezzogiorno del mantenimento teorico di impegni assunti.

Questa tecnica, questa abitudine non corretta però non alberga assolutamente nelle logiche di comportamento che da sempre hanno caratterizzato il Presidente Draghi e sono sicuro che, proprio su questa discutibile proposta, prima ancora che prendano corpo ulteriori preoccupazioni e denunce dopo quella già sollevata dalla Presidente della Commissione Trasporti della Camera Raffaella Paita, scenderanno in campo denunce formali da parte della Regione Calabria e della Regione Sicilia e questa volta, immagino, sarà proprio il Presidente Draghi a richiedere formalmente le motivazioni che hanno portato ad una simile chiara volontà a “non fare”.

Questa chiara volontà a porre la parola fine alla realizzazione del ponte; in questo sicuramente ricorderemo ancora una volta il Presidente Monti come colui che, per motivi contingenti, bloccò la realizzazione del ponte ed il Ministro Giovannini come colui che per chiara scelta politica mise la parola fine alla sua realizzazione. Non credo che la Ministra del Sud e della Coesione territoriale ed il Presidente Draghi siano disposti ad essere accomunati in una simile triste esperienza.

6. Infine un sesto punto è relativo al dubbio sulla possibilità che un Ministro o un Consiglio dei Ministri possa decidere le linee guida di uno studio di fattibilità relativo ad un’opera strategica così determinante per lo sviluppo socio economico del Paese e della Unione Europea senza chiederne l’approvazione formale del Parlamento. Infatti la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina era stata supportata da diversi provvedimenti legislativi, cioè da precise decisioni del Parlamento e solo nel 2011 il Presidente del Consiglio Monti, per motivi essenzialmente legati alla congiuntura economica, ritenne opportuno, con apposita norma, bloccare la proposta progettuale senza però bocciarla.

Inoltre il progetto, sia nella edizione delle Reti Trans European Network (TEN – T) del 2004 che del 2013, lo troviamo sempre inserito come scelta strategica determinante; addirittura nella proposta del 2004, come detto prima, era presente come decisone strategica autonoma. Quindi oltre all’avallo nazionale nella storia del ponte c’è anche quella comunitaria.

Mi chiedo allora se la proposta dello studio di fattibilità al cui interno è indicata anche la possibilità di verificare la “opzione zero” non debba quanto meno avere un apposito passaggio in Parlamento. Avrei preferito che questi sei punti o ancora altri fossero stati il frutto di un intervento del Presidente Nello Musumeci, del Presidente di una Regione insulare che senza il ponte disporrà di una rete ferroviaria ad alta velocità che nel migliore dei casi si caratterizzerà come un banale arricchimento infrastrutturale e, non essendo collegata con il continente, renderà sempre più marginale la funzione logistica dell’intera piastra logistica siciliana all’interno del Mediterraneo, del Presidente di una Regione che senza il ponte perderà annualmente una quota del PIL regionale di oltre 6,5 miliardi di euro.

Per questo chiedo al Presidente Musumeci, anche in questi ultimi mesi di presidenza della Regione, di denunciare questo preoccupante comportamento di un Ministro della Repubblica nei confronti della Sicilia.

Il ministro Giovannini “resuscita” soluzioni più volte bocciate. Il futuro del Ponte di Messina - Tra “opzione zero” e “più campate”: queste proposte offendono l’intelligenza dei meridionali. MICHELE INSERRA su Il Quotidiano del Sud il 13 Gennaio 2022.

Se il tempo è denaro, a Roma sanno come sprecare l’uno che l’altro. Ormai è tradizione, quando si parla della realizzazione del Ponte di Messina. Basterebbe una decisione politica per mettere fine a una telenovela infrastrutturale che dura più della soap televisiva “Beautiful”. Questa volta il protagonista dello “spreco” è il Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Enrico Giovannini, che avvia l’ennesima procedura per la realizzazione di uno studio di fattibilità tecnico-economica per l’attraversamento dello Stretto di Messina.

Dopo due anni di sterili annunci, dopo mesi e mesi trascorsi a valutare le indicazioni emerse da una commissione di esperti composta da vari docenti e tecnici (e neanche l’ombra di un esperto di ponti), Giovannini lancia un progetto per un ponte aereo a più campate, quando i progetti per il ponte a campata unica invece sarebbero già tutti pronti da lungo tempo e non ci sarebbe da fare alcunché.  Il progetto definitivo esiste ed è stato redatto già diversi anni fa dalla società d’ingegneria danese Cowi, progettista dei più grandi ponti del mondo, per conto di Eurolink General contractor; progetto verificato in parallelo dalla Parsons, società d’ingegneria statunitense tra le più grandi del mondo; progetto infine validato dal R.I.N.A.

Il progetto venne approvato (con prescrizioni) e il Comitato scientifico presieduto da Giulio Balliodiede il via alla progettazione esecutiva, che doveva essere completata entro sei mesi. Il governo Monti annullò la gara per non aggravare il deficit del bilancio statale, con ciò provocando il contenzioso (ancora non risolto) col General contractor Eurolink. Se il governo Monti non avesse cancellato per legge il Ponte (con un contenzioso tuttora in essere dell’ordine di circa 800 milioni, con costi già sostenuti per svariate centinaia di milioni e costi correnti per la liquidazione della società Stretto di Messina ancora in essere) l’opera sarebbe già transitabile con enormi vantaggi per il Mezzogiorno.

SCELTA SENZA SENSO

A distanza di 30 anni, tra l’altro, Giovannini ripesca una soluzione che è stata abbondantemente bocciata per inefficienze economiche e problematiche tecniche ed ambientali. Sono state abbondantemente scartate negli anni tutte le soluzioni impossibili (tunnel, ponte a due o a tre campate) e sono stati tenuti in considerazione gli studi quarantennali della società “Stretto di Messina” che hanno consentito di risolvere i notevoli problemi derivanti dal complesso assetto geologico dello stretto, dalla sua orografia, dalla sua sismicità, dalle insidie del vento, dai delicati rapporti urbanistici con l’entroterra calabro e siciliano.

Il progetto a campata unica del Ponte è l’opera più grande e più dibattuta d’Italia. Se realizzato, potrebbe modificare in favore della Sicilia e dell’Italia intera gli attuali equilibri socio economici del mare Mediterraneo. È una proposta senza senso: quella di Giovannini è un’informativa che offende l’intelligenza dei meridionali e compromette l’immagine di un premier che tutto il mondo ci invidia.

Ma non è tutto. Il ministero non avrebbe escluso “l’opzione zero”: insomma sul tavolo del premier Mario Draghi sarebbe approdata anche l’ipotesi che la realizzazione del Ponte possa essere inutile ed improduttiva. Siamo di fronte al nuovo capitolo tragicomico della telenovela infrastrutturale in riva allo Stretto. Una follia che segna un passo indietro, anzi ci riporta all’anno zero, ancora una volta. Chi mette le cose subito in chiaro è Raffaella Paita, presidente della Commissione Trasporti alla Camera, di trovare «incomprensibile che tra le ipotesi a confronto ci sia anche l’opzione zero che significa che per il ministro rimane possibile non fare l’opera. Cioè si fa rientrare dalla finestra ciò che di fatto lo studio tecnico che ha confermato la validità dell’opera aveva escluso. Questo governo è nato per decidere e fare non per rinviare i problemi».

L’ULTIMA TRAGICOMMEDIA

Ieri Giovannini ha reso noto al consiglio dei ministri un’informativa sulle azioni necessarie per avviare la realizzazione di uno studio di fattibilità tecnico-economica per la realizzazione di un sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina.  Il ministero precisa che lo studio dovrà prendere in esame la soluzione progettuale del “ponte aereo a più campate”, in relazione ai molteplici profili evidenziati nella relazione presentata il 30 aprile 2021 dall’apposito gruppo di lavoro. In particolare lo studio dovrà valutare “l’intrinseca sostenibilità sotto tutti i profili indicati, mettendola a confronto con quella del ponte ‘a campata unica’ e con la cosiddetta ‘opzione zero'”. Inoltre, lo studio deve fornire “gli elementi, di natura tecnica e conoscitiva, occorrenti per valutare la realizzabilità del sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche sotto il profilo economico-finanziario”.

 All’acquisizione del documento di fattibilità tecnico-economica provvederà, tramite procedura di evidenza pubblica, “la società Rfi spa, in quanto capace di garantire la più appropriata continuità e interconnessione dell’intervento con quelli ferroviari progettati nei territori calabresi e siciliani. Per questo, in data odierna è stato dato mandato alla direzione generale competente di avviare il processo amministrativo, a valere sui fondi stanziati a tale scopo dalla legge di Bilancio per il 2021”. Viene poi ricordato che “nei mesi scorsi il governo ha provveduto a potenziare l’attraversamento dinamico dello stretto di Messina, anche grazie ai fondi del Pnrr e del Piano complementare, destinando a tale scopo 510 milioni di euro”.  Gli interventi messi in atto – viene spiegato nella nota del Mims – vanno “nella direzione di migliorare e velocizzare l’attraversamento dello Stretto, favorendo la transizione ecologica della mobilità marittima e la riduzione dell’inquinamento”. Tante parole per tanto spreco di tempo inutile.

IL PONTE NON SERVE AL SUD MA ALL'ITALIA. LA PROVA DI FUOCO DEL PNRR. L’opera sullo Stretto dovrebbe essere la priorità delle priorità e invece si continua a perdere tempo. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

Basta la Sicilia da sola per capire la portata economica dell’intervento. Sono cinque milioni di persone, un dato che delinea il nuovo mercato perché rende in termine di Pil, consumi, trasporti, merci che si spostano, di relazione tra Sud e Sud. La riprova è che più governi hanno deciso di farlo, ma poi hanno sempre abbandonato per ragioni politiche, non economiche. Che sono poi le stesse che hanno suggerito al ministro Giovannini la strada dello studio di fattibilità e non quella dell’apertura del cantiere. A realizzare il Ponte sullo Stretto sono pronti capitali privati internazionali sicuri della redditività dell’opera, ma c’è il rischio che le stesse ragioni politiche facciano in modo che si creino problemi sulle tariffe. Bisogna mettere a terra gli investimenti. Non bastano le figurine e le relazioni. Servono cantieri aperti e stati di avanzamento dei lavori riscontrabili

Siamo al cuore del problema italiano, non del Mezzogiorno. Che riguarda le priorità negli investimenti infrastrutturali e la capacità effettiva di realizzarli per riunificare le due Italie. Anche se volessimo continuare a raccontare la storiella (sbagliata) che le infrastrutture di un Paese si fanno solo se rendono, come se fosse possibile fare sviluppo senza crearne prima le condizioni di contesto ambientale, il Ponte sullo Stretto dovrebbe essere la priorità delle priorità. Invece no, anche quando rende di sicuro perché genera prodotto interno lordo e ne moltiplica tanto altro il Ponte sullo Stretto non si fa. Si preferisce studiare tutto ciò che è stato studiato fino alla nausea. Si confondono progetti esecutivi con studi di fattibilità. Si perde tempo.

Parliamoci chiaro. Se c’è un’infrastruttura che rende di sicuro è questa per una cosa banale, ma incontrovertibilmente vera. Unisce un’isola con cinque milioni di abitanti al territorio italiano e al continente europeo. Come peraltro l’Europa vuole e ha più volte vibratamente chiesto l’ex commissario, Karel Van Miert. Basta la Sicilia da sola per capire la portata economica dell’intervento. Sono cinque milioni di persone e non c’è dubbio che questo solo dato delinea il nuovo mercato. Perché rende in misura importante in termini di prodotto interno lordo (Pil), di consumi, di trasporti, di merci che si spostano, di aziende siciliane che possono vendere, di relazione tra Sud e Sud.

La riprova è che più governi hanno deciso di farlo, ma poi hanno sempre abbandonato per ragioni politiche, non economiche. Che sono poi le stesse che hanno suggerito al ministro Giovannini la strada dello studio di fattibilità e non quella dell’apertura del cantiere per realizzare il Ponte a una campata che con un altro governo non aveva già avuto il suo studio di fattibilità, ma addirittura il via libera del pre-Cipe alla sua realizzabilità. Sono pronti a farlo il Ponte sullo Stretto capitali privati internazionali che sono sicuri della redditività dell’opera, ma c’è il rischio che le stesse ragioni politiche facciano in modo che si creino problemi sulle tariffe. Che si torni a parlare di “gabelle e Medio Evo” ed è evidente che questo tema per qualunque governo può essere una cosa sconveniente. Una ragione ancora di più per prendere l’iniziativa a livello di Paese con lo spirito della Ricostruzione e dell’unità nazionale. Si va nella direzione del mercato e della convenienza oltre che di quelle civili e sociali. Si va nella direzione dello sviluppo e della crescita duratura, non dell’assistenza a chi ha meno.

Un soggetto privato come Italo aveva treni e bus sulle tratte Roma-Brescia e Roma-Verona che erano in perdita, ma appena ha aggiunto la partenza da Napoli i conti sono cambiati.

La stessa cosa si è vista in modo sostanzioso quando si è deciso di partire da Reggio Calabria per andare a Torino e a Milano perché l’offerta incontra la domanda della comunità più numerosa che parte dal Sud e per lavoro va al Nord, ma difficilmente prende l’aereo. Siamo ancora a quarant’anni fa, questa è la verità, e pagano più biglietti i cittadini del Sud rispetto a quelli del Nord. Sono i pendolari dei treni e dei bus privati che non hanno niente a che vedere con il turismo o il lavoro di élite che si sposta da Milano a Roma.

È il mercato che ti crea le condizioni quando c’è tanta gente che si deve spostare. È il mercato dei passeggeri e delle merci che rende a importi ora di fare il Ponte sullo Stretto. Non stiamo parlando di un colpo d’immagine o di un segnale al mondo dell’Italia che rinasce (anche, dopo), ma piuttosto di qualcosa che serve all’economia italiana. Tutta intera. Non si tratta di fare un piacere al Sud ma all’Italia. Non c’è neppure una lobby vera che rema seriamente contro, e se c’è per noi questa è la lobby degli scemi, perché contribuisce a fermare con la collaborazione decisiva delle ragioni neglette della politica demagogica ciò che rappresenta ricchezza vera per il territorio e per tutta l’Italia.

Si tratta di combattere e di vincere una battaglia decisiva. Che si scontra con interessi localistici miopi e un dibattito malato della pubblica opinione, ma che è prima ancora una battaglia culturale. Sono le stesse diffidenze e gli stessi interessi che si sono appalesati con il capitolo della rigenerazione urbana nel Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Per la prima volta si è tenuto conto dell’indice del disagio sociale, non della quota di accesso – spesa storica e dintorni che allarga i divari, non li restringe – e, come è giusto, i 3,4 miliardi sono andati quasi tutti ai Comuni del Sud. Ora ovviamente i Comuni del Nord strillano, tutti vanno dietro e si cerca un altro miliardo. Poi magari non lo si trova e scatta la caccia a quelli destinati al Sud che per colpe loro magari i Comuni del Sud fanno fatica a spendere.

Bisogna rendersi conto che l’Italia è una, ma si parte da situazioni differenti, e che l’interesse primario di chi è più avanti è di fare correre chi sta più indietro e che l’interesse generale del Paese è quello che si investa sul capitale umano nella scuola, nella amministrazione e nella impresa del Mezzogiorno perché bisogna sapere fare le cose e innovare tutti insieme. Perché questa è un’urgenza reale.

Questo giornale non si opporrà mai ai valichi del Nord e alle alte velocità ferroviarie del Nord che hanno opere in itinere, perché l’Italia è una, ma è noto a tutti che se non ci fosse stata l’impuntatura del ministro dell’economia, Daniele Franco, non ci sarebbero stati gli altri 9,5 miliardi di extra fondo complementare per fare in modo che l’alta velocità ferroviaria arrivasse in Calabria almeno fino a Tarsia e che si deve fare ancora di più con soldi certi e modalità certe. È sempre meglio dire le cose come stanno e onorare gli impegni quando si può, come abbiamo chiesto e denunciato più volte, cercando pragmaticamente tutte le soluzioni possibili. Proprio come si è fatto per la scuola, gli asili nido, le mense scolastiche, il trasporto locale sempre all’interno del Pnrr con un’azione felice congiunta di vari ministri e di vari ministeri.

Stendiamo dunque un velo pietoso sui fraintendimenti della relazione del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili al Parlamento che sembrava escludere dagli interventi territorializzabili l’alta velocità ferroviaria del Mezzogiorno, ma rendiamoci piuttosto conto che almeno sul Ponte sullo Stretto non è più consentito a nessuno di prendere tempo. La stagione dalla nuova Ricostruzione se vuole preparare davvero il secondo grande miracolo economico italiano ha bisogno di questa opera perché tutti gli interventi collegati, ferroviari e stradali, abbiano fondamento e garantiscano il moltiplicatore del Sud e del Mediterraneo all’economia italiana.

Viviamo i giorni terribili del dominio mediatico dei no vax e di un governo che riapre le scuole con un’economia che perde un po’ ma cammina più delle altre. La politica è tutta presa dalle manovre quirinalizie e potrebbe perdere ancora di più i contatti con la realtà. Attenzione, però, ricordiamoci del Ponte e di mettere a terra gli investimenti del Piano nazionale di ripresa e di resilienza partendo dal Mezzogiorno. Non bastano le figurine e le relazioni. Servono cantieri aperti e stati di avanzamento dei lavori riscontrabili.

·        La Sicurezza: Viabilità e Trasporti.

Gli aerei. Eurofighter caduto a Trapani, l’ipotesi dell’esplosione: «Fabio Antonio Altruda ha cambiato rotta? Non c’era tempo». Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022. 

Fabio Antonio Altruda, 33 anni, campano, in servizio al 37esimo Stormo di Trapani, precipitato martedì con il caccia sul quale volava verso lo scalo militare di Trapani-Birgi mentre rientrava da una missione addestrativa. Il corpo del giovane ufficiale è stato ritrovato, dopo ore di ricerche, tra i resti del velivolo. La salma è stata poi ricomposta ieri. L’Eurofighter, un Typhoon intercettore armato, è precipitato nell’alveo di un fiume a pochi chilometri a nord di Marsala e dall’aeroporto militare.

Dell’aereo, che si è disintegrato nell’impatto, sono rimasti solo rottami. Un incidente drammatico su cui indagano la procura di Trapani, che ha aperto una inchiesta per disastro aviatorio, e l’Aeronautica militare che, dopo i primi interventi dei vigili del fuoco, ha assunto il controllo dell’area per gli accertamenti tecnici. Ieri il generale Luca Goretti, capo di stato maggiore dell’Aeronautica, ha incontrato i magistrati per una riunione di coordinamento investigativo.

Al momento, sul disastro aereo ci sono solo ipotesi. I carabinieri stanno visionando le immagini di diverse telecamere di video-sorveglianza della zona. Alcune di case private, altre dello scalo di Birgi che riprendono chiaramente un bagliore improvviso e poi un puntino luminoso — certamente il caccia — che scende in picchiata. Nel video si vede poi un ulteriore lampo di luce: verosimilmente l’aereo che si schianta al suolo e prende fuoco. Riprese che potrebbero far pensare a una esplosione in volo. Ma gli investigatori sono cauti. «Il flash luminoso — spiegano — potrebbe essere frutto di un effetto ottico causato dal faro segnalatore del velivolo». Se così fosse, l’Eurofighter non sarebbe esploso in cielo. A un tratto, però — e questo è evidente nel video — l’aereo cambia traiettoria e scende in picchiata.

Un dettaglio che potrebbe far pensare a un guasto improvviso e che spiegherebbe perché il pilota non sia riuscito a lanciarsi e non abbia segnalato problemi alla torre di controllo civile in fase di atterraggio. L’aeroporto, infatti, non ha mai fatto scattare le cosiddette procedure di preparazione: segno che a Birgi non è arrivato nessun pre-allarme. L’aereo è caduto a poca distanza da un gruppo di case. Una fatalità o il disegno volontario del capitano che avrebbe effettuato una manovra d’emergenza per scongiurare l’impatto con le abitazioni? Fonti investigative escludono che l’ufficiale abbia avuto il tempo per un cambio di rotta e precisano che il luogo dello schianto, comunque, è coerente con la traiettoria che il caccia avrebbe dovuto tenere in fase di atterraggio.

Altruda era un ufficiale pilota «combat ready» su velivolo Eurofighter con centinaia di ore di volo alle spalle e un curriculum eccellente: che a causare l’incidente siano stati un errore di manovra o un’improvvisa perdita di orientamento pare poco probabile. «Potrebbe essersi sentito male, ma è presto per le conclusioni», dicono gli investigatori. «Un pilota non muore mai, vola solo più in alto. Cieli Blu, Fabio!» ha scritto, ieri, l’Aeronautica militare sui social, ricordando il giovane ufficiale che sarebbe dovuto tornare per le feste di Natale a Cardito, il paese in provincia di Napoli dove vivono i genitori e il fratello minore. Fabio aveva lasciato la famiglia a 15 anni per la scuola della Nunziatella. Poi la carriera di pilota inseguendo la sua grande passione: il volo.

«Non posso credere che sia morto — dice un collega, il tenente Franco Fuccio.— Era un militare serio e preparato, ma aveva conservato umiltà e semplicità. Gli si voleva bene senza sforzo». E profondo cordoglio per la tragica morte del militare è stato espresso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha inviato un messaggio al capo di stato maggiore della Difesa, dal ministro della Difesa Guido Crosetto, dalla premier Giorgia Meloni e da decine di politici di ogni schieramento.

Estratto dell'articolo di Gioacchino Amato per “la Repubblica” il 15 Dicembre 2022.

Appena sette secondi, da quando il caccia Eurofighter pilotato dal capitano Fabio Antonio Altruda esce da una fitta coltre di nuvole e l'attimo in cui colpisce il letto dell'alveo del fiume Birgi, esplodendo. Troppo pochi per lanciare il may day, insufficienti per azionare il comando di espulsione dalla cabina di pilotaggio del monoposto. Oppure gli ultimi momenti febbrili di un tentativo di correggere l'assetto dopo un evento imprevedibile? 

Alcune delle domande alle quali dovranno rispondere due inchieste, l'una della procura di Trapani, l'altra dell'Aeronautica, per capire come e perché è morto l'ufficiale mentre rientrava alla base di Trapani Birgi da un normale addestramento martedì pomeriggio in coppia con un altro caccia.

Era un "Top Gun", Altruda, tornato da poche settimane dalla Polonia dove faceva parte della task force Nato impegnata a proteggere i cieli d'Europaai confini dell'Ucraina in guerra. «Abbiamo perso un fratello - dicono i piloti e il comandante del 37° stormo - una persona pacata e professionale. Stavamo per affibbiargli il classico nickname, lo faremo lo stesso».

Un guasto, un malore, un impatto con uno stormo di uccelli, sono tutte ipotesi che rimangono in piedi. Di certo c'è il video, registrato da una telecamera di sorveglianza, già all'esame della procura di Trapani. Le immagini mostrano l'aereo uscire da una nuvola, virare bruscamente rispetto alla rotta dell'altro caccia e perdere quota in pochi secondi, per poi schiantarsi. Un evento improvviso o già dentro le nuvole era accaduto qualcosa? Ad esempio il bird strike, oppure il caccia è entrato nella scia dell'altro aereo che lo precede nel video di appena cinque secondi, o c'è stato un contatto fra i due. [...]

Resta il fatto che nessun allarme è partito dalla cabina, nessun tentativo di proiettarsi fuori. Questo lascia in piedi anche l'ipotesi che il capitano sia rimasto ai comandi per evitare che l'aereo colpisse zone abitate. 

Fabio Aldruda era un pilota molto esperto e stimato. A 15 anni la scuola militare della Nunziatella, poi nel 2007 l'accademia aeronautica di Pozzuoli, i brevetti conquistati nel 2013. Dalla base di Amendola, in Puglia, arriva in Sicilia un anno fa, sempre lontano dalla villetta bifamiliare di Cardito, in provincia di Napoli, dove abitano i genitori. «Per la mamma era il suo orgoglio. Ogni volta che ne parlava, gli brillavano gli occhi», racconta una vicina di casa. La madre, Marilena Tortora, è casalinga, il papà Ferdinando Altruda, falegname. Poi c'è il fratello, Alessandro, che ha qualche anno in meno di Fabio. [...]

Generale Tricarico, il sospetto sull'Eurofighter: "Molto inusuale". Libero Quotidiano il 16 dicembre 2022

"È inusuale la rapidità con la quale l'Eurofighter è precipitato": il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, lo ha detto all’Ansa parlando del caccia caduto nei giorni scorsi a pochi chilometri dallo scalo militare di Trapani-Birgi. Nell’incidente è morto il pilota, il capitano Fabio Antonio Altruda. "Raramente c'è una sola causa in incidenti di questo tipo - ha continuato l'esperto -. Se ne viene a capo solo dopo che la Commissione tecnica formata da esperti dell’Aeronautica darà le prima risultanze. E non è detto che la scatola nera possa dare tutte le risposte".

Il caccia stava rientrando alla base dopo una missione addestrativa quando è avvenuto l'incidente. "In questi casi vengono investigati tutti gli aspetti - ha spiegato il generale Tricarico - le condizioni psicologiche del pilota, il suo addestramento, le condizioni dell’aereo, il relitto, che è spesso il 'testimone' più attendibile di quello che è accaduto, la testimonianza del pilota dell’altro caccia che è regolarmente atterrato, le eventuali comunicazioni radio". 

"L’Eurofighter è un aeroplano maturo. Se avesse problemi tecnici, nei vent'anni di operatività sarebbero emersi", ha proseguito Tricarico. Che poi ha fatto riferimento al precedente di Terracina, nel 2017: "È emerso un errore umano. Potrebbero esserci anche delle concause: pilota affaticato, condizioni meteo, avaria, ecc. Ma è ancora presto per azzardare ipotesi". Infine ha sottolineato: "Di sicuro il pilota non lascia il suo velivolo a cuor leggero. Se c'è un’emergenza pensa ad evitare danni e a portare in salvo l’aereo se c'è anche una minima possibilità di farlo: l’incolumità personale è l’ultimo pensiero".

Aquile in volo: quei piloti che hanno realizzato il "sogno". Nel mondo militare come in quello civile, in imprese eroiche e in grandi tragedie, il mondo italiano del volo è stato sempre una comunità coesa e ricca di grandi personaggi. Filippo Nassetti ha raccontato le vite di molti di loro in "Molte aquile ho visto in volo". Andrea Muratore il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Italo Balbo, padre dell'aeronautica italiana, era solito dire: "Chi vola vale, chi non vola non vale, chi vale e non vola è vile". Balbo vide la sua celebre carriera da trasvolatore arrivare, ancor oggi, a offuscare la sua nomea di protagonista dell'ascesa del regime fascista. E fu solo il primo di una lunga serie di grandi aviatori segnati col tricolore.

Nel mondo militare come in quello civile, in imprese eroiche e in grandi tragedie, ma sempre con dedizione profonda, il mondo italiano del volo è stato sempre una comunità coesa e ricca di grandi personaggi. Filippo Nassetti ha raccontato le vite di molti di loro in Molte aquile ho visto in volo - Vite straordinarie di piloti, con prefazione di Gabriele Romagnoli.

"Ogni giorno migliaia di aerei volano e migliaia di uomini li manovrano", scrive Nassetti. Migliaia di persone, quotidianamente, in nome del proprio Paese o della propria mansione personale realizzano il sogno di Icaro. Tra loro "ci sono potenziali eroi, pignoli e creativi, innamorati e cinici, capitani prudenti e temerari". Il mondo del volo è comunità umana complessa, dietro l'accesso alla quale vi è spesso una vita di sacrifici, dedizione e lunghe gavette. Una vita professionalmente complessa che per molti coincide col proprio ritorno a casa. Come quello di Pier Francesco Amaldi Racchetti, primo ufficiale Ryanair intervistato da Nassetti, che racconta le vite e le storie di grandi piloti col fiuto del grande cronista, desideroso solamente di tornare ogni giorno a casa alla "sua" Roma, che coincide con l'aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino.

Il pilota d'aereo è, metaforicamente, come l'arbitro della partita di calcio. I migliori spesso sono invisibili. "La cronaca ne parla quando succede qualcosa di eccezionale", ricorda Nasetti, "un atterraggio di fortuna (magari sulle acque di un fiume), un salvataggio spericolato o, al contrario, un errore umano, troppo umano, e uno schianto. Ma le loro storie precedono quell’attimo fatale", che spesso arriva a riassumerle, troppo spesso a concluderle.

Un destino, quello del volo, spesso crudele e beffardo. Nassetti lo sa bene. Parla del fratello, Alberto, abilitatosi come pilota Alitalia a 23 anni e che fu in grado di realizzare il personale "sogno di Icaro" dopo aver sconfitto un tumore al cervello. Salvo poi perdere la vita in una tragedia del cielo avvenuta nel 1994 presso la "capitale del volo" francese, Tolosa, su un velivolo di cui era semplice passeggero. Alberto Nassetti, fuori dal volo, si dilettava anche di poesia e compose versi di struggente profondità che danno il nome al saggio del fratello: "Molte aquile ho visto in volo / Ali maestose sfidare il suolo / Rapaci solitari incontro al sole / Imperiali figure sfrecciare nelle gole /Ancora a lungo li vedrò /poi, con loro, io morirò". Un profetico destino di identificazione con il cielo e il volo, da Icaro dei nostri giorni, che mostra l'amore tra Alberto Nasetti e la professione con cui identificò la sua esistenza.

Nel saggio, il fratello parla anche di grandi storie di riscatto: l'Italia ha avuto il suo Andrew Lourake, capitano dell'aviazione militare statunitense tornato a volare dopo un'amputazione della gamba sinistra per un incidente di motocross, in Francesco Miele, che da giovane perde la gamba destra in un incidente in moto e diventa poi pilota EasyJet.

Ogni volta che un aereo decolla e vola, insomma, chi lo porta in cielo ha dietro di sé una storia spesso profonda e non conosciuta. Nassetti ha il merito di dare voce a un mondo silenzioso protagonista dei nostri tempi, simbolo stesso del "villaggio globale" e delle connessioni umane, commerciali, culturali che plasmano il contesto contemporaneo. E realizzazione del sogno lucido di Leonardo da Vinci, che oltre cinquecento anni fa scriveva che quando "piglierà il primo volo il grande uccello", la prima macchina volante, essa sarebbe decollata "empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture". Come fa chi vola sapendo di valere.

Massimo Basile per “la Repubblica” il 9 dicembre 2022. 

L'ultimo Boeing 747 della storia è uscito martedì notte dallo stabilimento di Everett (Seattle): è un cargo di colore verde, la punta bianca, alto una ventina di metri, lungo settantasei. È il numero 1.574 della serie, assemblato per Atlas Air Worldwide, che gestirà l'aereo per la società di logistica svizzera Kuehne+ Nagel. «È un momento surreale - confessa Kim Smith, vicepresidente della Boeing, guardando l'aereo procedere lentamente fuori dall'hangar - dopo più di mezzo secolo non avremo un 747 in questo impianto».

Fine di un'era, anche se non significa che i 747 spariranno dai cieli: quello appena uscito dalla fabbrica potrebbe volare per decenni. Ma si è chiusa la produzione della "Regina dei cieli" prima che l'inizio del declino si facesse fragoroso. Le compagnie americane United e Delta hanno smesso di ordinarne di nuovi prima della crisi causata dal Covid, mentre Qantas e British Airways li avevano lasciati a terra nel 2020.

«È stato un grande aereo - ha commentato il Ceo di British Airways, Sean Doyle - ci ha servito in modo straordinario, e c'è molta nostalgia e amore per ciò che ha rappresentato». Il 747 è stato l'aereo più riconoscibile al mondo, il Jumbo Jet, il più grande vettore commerciale esordì il 15 gennaio del '70 con il volo commerciale della Pan Am. A bordo c'era la first lady americana Pat Nixon, moglie del presidente Richard Nixon. Invece del tradizionale champagne, per il battesimo venne spruzzata acqua di colore blu, rosa e bianca, a ricordare la bandiera americana.

Spinto da quattro potenti motori, capace di portare fino a cinquecento passeggeri per lunghe rotte, è stato il primo progettato con il ponte superiore a forma di "gobba" per utilizzarlo come salottino per i passeggeri di prima classe. In oltre mezzo secolo il super Boeing ha trasportato più di tre miliardi e mezzo di persone. Nel 1990 c'erano 542 Boeing 747, che coprivano il 28% del movimento passeggeri mondiale. È diventato l'Air Force One dei presidenti degli Stati Uniti, e di Hollywood con il film del '97 "Air Force One".

Anche la "Regina dei cieli" ha vissuto momenti bui: il primo incidente a Tenerife nel '77: un 747 della Klm si scontrò al decollo con un 747 della Pan Am: 583 morti. In tutto sono 50 gli aerei che hanno avuto incidenti, con più di 3700 vittime. L'ultimo 747 non chiuderà la storia dei giganti dei cieli. La Boeing ha progettato un nuovo super jet, il 777X, pronto per il 2025.

Contratto firmato: il FCAS sarà il nuovo caccia di Germania, Francia e Spagna. Sergio Barlocchetti su Panorama il 16 Dicembre 2022.

Dopo cinque anni di litigi, a meno di un mese dall'accordo Parigi-Berlino, finalmente la firma. Sarà il concorrente del Gcas Tempest fatto da Londra, Roma e Tokyo.

Con un comunicato congiunto di Airbus, Dassault Aviation, Indra ed Eumet, e in nome dei governi di Francia, Germania e Spagna, la Direzione generale francese per gli armamenti (Dga) ha annunciato oggi di aver assegnato a queste realtà industriali e ai loro partner il contratto per la costruzione del Dimostratore di Fase 1B del Future Combat Air System (Fcas), ovvero il caccia di sesta generazione che dovrebbe sostituire gli Eurofighter tedeschi, i Rafale francesi ed equipaggiare l'aviazione spagnola. La storia di questo progetto è già molto lunga: lo Fcas fu annunciato da Regno Unito e Francia nel 2014, ma quattro anni dopo Londra si ritirò per annunciare, nel 2019, la costituzione del progetto Tempest con Svezia e Italia, che con il Giappone, ma senza più Stoccolma, ha avuto il via la scorsa settimana. Dal 2018 a oggi Francia e Germania avevano affrontato uno scontro politico-industriale senza trovare accordo, fino a tre settimane fa. Il contratto annunciato oggi, per i motivi spiegati definito storico, ha un valore di 3,2 miliardi di euro e coprirà i lavori necessari per progettare e far volare il dimostratore tecnologico per circa tre anni e mezzo. Il contratto vede la firma dopo cinque anni di gestazione, liti tra Dassault e Airbus, differenti visioni da parte francese e tedesca, oggi non proprio tutte superate, ma certamente di natura meno importante rispetto a decisioni come la proprietà intekllettuale di taluni sistemi e tecnologie. Questo atto segue infatti la firma degli accordi industriali a sostegno del dimostratore Phase 1B da parte di Airbus, Dassault Aviation, Indra ed Eumet come primi fornitori del programma, avvenuta tre settimane fa a Parigi, che avevano dato il via a una serie di attività di ricerca e sviluppo necessarie per identificare le tecnologie chiave e le prestazioni che dovrà avere l'intero sistema d'arma. Da domani e fino al 2028 la fase dimostrativa, appunto definita 1B, consentirà sia la costruzione dei dimostratori volanti sia lo sviluppo e la maturazione delle tecnologie all'avanguardia richieste, nonché il consolidamento delle architetture del progetto, in vista di una fase successiva che dovrà concludersi entro il 2028- 2029. Esattamente come il programma rivale Tempest di Regno Unito, Italia e Giappone, si pensa a un velivolo pilotato da bordo in grado di operare insieme con droni e altri mezzi, collegati tra loro mediante tecnologie cloud. Per riuscirci le industrie coinvolte si sono spartite i cosiddetti pilastri tecnologici, e ognuna ne guida uno differente coordinando, per quello specifico settore, gli altri partner. La governance industriale della Fase 1B è quindi organizzata per dominio: la parte strutturale da Airbus, con Dassault Aviation e Indra Sistemas come partner co-contraenti; per quella dei comandi e sistemi di volo Dassault Aviation è l'appaltatore principale e Airbus il partner Germania e Spagna; per il motore è stata creata una joint venture 50% tra Safran aircraft engines per la Francia e Mtu Aero Engines per la Germania, con Itp Aero per la Spagna come partner. Quindi, per la parte sistemi aerei senza pilota, Airbus per la Germania guiderà il progetto, con Mbda per la Francia e Satnus per la Spagna come partner principali. L'importante sezione riguardante il Combat-Cloud vedrà Airbus per la Germania dirigere i lavori con Thales per la Francia e Indra Sistemas per la Spagna come associati. Divisione paritaria invece per la progettazione dei simulatori, con Airbus, Dassault Aviation e Indra Sistemas come cocontraenti. Alla Spagna (Indra), sono stati assegnati i lavori per la progettazione dei sensori di bordo e il coordinamento dei contributi da parte di Thales per la Francia e di Fcms per la Germania.Airbus sarà anche leader del progetto di Enhanced Low Observability, ovvero delle caratteristiche di bassa osservabilità e antiradar (stealth). Sempre più remota, ma non ancora impossibile, l'ipotesi che i due programmi si possano fondere, anche se alcuni dicasteri della Difesa europea vorrebbero un grande consorzio, mentre l'industria faticherebbe a trovare un nuovo equilibrio per la spartizione delle quote di lavoro.

(ANSA il 9 dicembre 2022) - L'Italia, il Regno Unito e il Giappone hanno stretto un'alleanza "senza precedenti" nel settore della difesa per lo sviluppo e la costruzione del caccia del futuro, un jet supersonico di sesta generazione destinato a sostituire l'attuale Eurofighter Typhoon (frutto della collaborazione tra Italia, Regno Unito, Germania e Spagna): il nuovo aereo da combattimento si chiamerà Tempest e dovrebbe essere operativo nel 2035, con l'avvio della fase di sviluppo nel 2024. Lo ha annunciato il premier britannico Rishi Sunak, confermando le recenti indiscrezioni dei media internazionali.

"Come leader di Italia, Giappone e Regno Unito, siamo impegnati a sostenere l'ordine internazionale basato sulle regole, libero e aperto, che è più importante che mai in un momento in cui questi principi sono contestati e le minacce e le aggressioni sono in aumento. 

Poiché la difesa della nostra democrazia, della nostra economia e della nostra sicurezza e la protezione della stabilità regionale sono sempre più importanti, abbiamo bisogno di forti partenariati di difesa e di sicurezza, sostenuti e rafforzati da una credibile capacità di deterrenza": affermano in un comunicato congiunto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il premier britannico Rishi Sunak e quello giapponese Fumio Kishida.

"Le nostre tre nazioni hanno relazioni strette e di lunga data, basate sui valori condivisi di libertà, democrazia, diritti umani e Stato di diritto. Oggi stiamo compiendo il passo successivo nel rafforzamento della nostra partnership trilaterale. Annunciamo il Global Combat Air Programme (GCAP), un ambizioso progetto per lo sviluppo di un aereo da combattimento di nuova generazione entro il 2035", proseguono i tre leader. 

"Attraverso il GCAP, ci baseremo sulle nostre relazioni di lunga data in materia di difesa. Il GCAP accelererà la nostra capacità militare avanzata e il nostro vantaggio tecnologico. Approfondirà la cooperazione nel campo della difesa, la collaborazione scientifica e tecnologica, le catene di fornitura integrate e rafforzerà ulteriormente la nostra base industriale della difesa - sottolineano -. Questo programma produrrà benefici economici e industriali più ampi, sostenendo l'occupazione e i mezzi di sussistenza in Italia, Giappone e Regno Unito. 

Attirerà investimenti in ricerca e sviluppo nella progettazione digitale e nei processi di produzione avanzati. Fornirà opportunità per la nostra prossima generazione di ingegneri e tecnici altamente qualificati. Lavorando insieme in uno spirito di partnership paritaria, condividiamo i costi e i benefici di questo investimento nelle nostre persone e nelle nostre tecnologie. 

È importante notare che il programma sosterrà la capacità sovrana di tutti e tre i Paesi di progettare, fornire e aggiornare capacità aeree da combattimento all'avanguardia, anche in futuro". "Questo programma è stato progettato tenendo conto dei nostri alleati e partner. La futura interoperabilità con gli Stati Uniti, con la Nato e con i nostri partner in Europa, nell'Indo-Pacifico e a livello globale si riflette nel nome che abbiamo scelto per il nostro programma. 

Questo concetto sarà al centro del suo sviluppo - concludono -. Condividiamo l'ambizione che questo velivolo sia il fulcro di un più ampio sistema aereo da combattimento che funzionerà in più ambiti. La nostra speranza è che il Global Combat Air Programme, e attraverso di esso il nostro partenariato di capacità, sia una pietra miliare della sicurezza globale, della stabilità e della prosperità nei prossimi decenni".

(ANSA il 9 dicembre 2022) - "Annunciamo il Global Combat Air Programme (GCAP), un ambizioso progetto volto allo sviluppo di un aereo da caccia di nuova generazione entro il 2035". E' scritto in una dichiarazione congiunta di Italia, Gran Bretagna e Giappone diffusa a Roma da Palazzo Chigi.

"Come Capi di Governo di Italia, Giappone e Regno Unito, siamo impegnati - si legge nella dichiarazione congiunta diffusa anche a Roma - a sostenere l'ordine internazionale libero e aperto basato sulle regole, più importante che mai in un momento in cui questi principi vengono contestati e in cui crescono minacce ed aggressioni. 

Poiché la difesa della nostra democrazia, della nostra economia, della nostra sicurezza e della stabilità regionale riveste una sempre maggiore importanza, abbiamo bisogno di forti partenariati di difesa e di sicurezza, sostenuti e rafforzati da una capacità di deterrenza credibile. Le nostre tre nazioni hanno relazioni strette e di lunga data, basate sui valori di libertà, democrazia, diritti umani e Stato di diritto. Stiamo oggi compiendo il passo successivo nel rafforzamento del nostro partenariato trilaterale.

Annunciamo il Global Combat Air Programme (GCAP), un ambizioso progetto volto allo sviluppo di un aereo da caccia di nuova generazione entro il 2035. Attraverso il GCAP, - prosegue la dichiarazione congiunta - "svilupperemo ulteriormente i nostri rapporti di lunga data in materia di difesa. Il GCAP accelererà le nostre capacità militari avanzate e il nostro vantaggio tecnologico. 

Approfondirà la nostra cooperazione nel campo della difesa, la collaborazione scientifica e tecnologica, le catene di fornitura integrate e rafforzerà ulteriormente la nostra base industriale della difesa. Questo programma produrrà benefici economici e industriali ad ampio raggio, sostenendo l'occupazione in Italia, in Giappone e nel Regno Unito. Attirerà investimenti in ricerca e sviluppo nella progettazione digitale e nei processi di produzione avanzati. Fornirà opportunità per la prossima generazione di tecnici ed ingegneri altamente qualificati.

Lavorando insieme in uno spirito di equo partenariato, condividiamo costi e benefici di questo investimento nelle nostre risorse umane e nelle nostre tecnologie. Il programma sosterrà la capacità sovrana di tutti e tre i Paesi di progettare, fornire e aggiornare capacità aeronautiche di difesa all'avanguardia, con uno sguardo rivolto al futuro. Questo programma è stato progettato tenendo i nostri Alleati e partner al centro della nostra attenzione.

La futura interoperabilità con gli Stati Uniti, con la NATO e con i nostri partner in Europa, nell'Indo-Pacifico e a livello globale si riflette nel nome che abbiamo scelto per il nostro programma. Questo concetto sarà al centro del suo sviluppo. Condividiamo l'ambizione di rendere questo velivolo il fulcro di un più ampio sistema di combattimento aereo che opererà in molteplici ambiti. La nostra speranza è che il Global Combat Air Programme, e attraverso di esso il nostro partenariato nello sviluppo delle rispettive capacità, costituirà una pietra miliare della sicurezza globale, della stabilità e della prosperità nei decenni a venire",conclude la dichirazione.

 (ANSA il 9 dicembre 2022) - "La sicurezza del Regno Unito, sia oggi sia per le generazioni future, sarà sempre di primaria importanza per questo Governo. È per questo che dobbiamo rimanere all'avanguardia nei progressi della tecnologia della difesa, superando e sconfiggendo coloro che cercano di farci del male": lo ha detto il premier britannico, Rishi Sunak, commentando lo storico accordo di collaborazione tra l'Italia, il Regno Unito e il Giappone per lo sviluppo e la costruzione del Tempest, il caccia supersonico di sesta generazione.

"Il partenariato internazionale che abbiamo annunciato oggi con l'Italia e il Giappone mira proprio a questo, sottolineando che la sicurezza delle regioni euro-atlantica e indo-pacifica è indivisibile - ha aggiunto il premier britannico -. La prossima generazione di velivoli da combattimento che progettiamo proteggerà noi e i nostri alleati in tutto il mondo, sfruttando la forza della nostra industria della difesa, leader a livello mondiale, creando posti di lavoro e salvando vite umane". 

Da parte sua, il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, ha affermato che "questa partnership internazionale con l'Italia e il Giappone per creare e progettare la prossima generazione di velivoli da combattimento, rappresenta la migliore collaborazione di tecnologie di difesa all'avanguardia e di competenze condivise tra le nostre nazioni, fornendo posti di lavoro altamente qualificati in tutto il settore e una sicurezza a lungo termine per la Gran Bretagna e i nostri alleati".

(ANSA il 9 dicembre 2022) - Leonardo è partner strategico del programma Gcap - Global Combat Air Programme - per la realizzazione di un 'sistema di sistemi' di nuova generazione per operazioni multi-dominio, che sarà operativo dal 2035. 

Lo comunica Leonardo in una nota. "Il programma, che vede coinvolti Italia, UK e Giappone, rappresenta una sfida finalizzata a tutelare e rafforzare la sovranità tecnologica e industriale nazionale assicurando prosperità, salvaguardia delle competenze distintive, ritorno occupazionale e competitività del comparto Aerospazio, Difesa e Sicurezza sui mercati internazionali. Il Gcap coinvolgerà tutta la filiera italiana a partire dalle Università e dai centri di ricerca fino alle Pmi e le industrie leader nazionali coinvolte.

In particolare, Italia, UK e Giappone - attraverso le rispettive industrie nazionali, Leonardo, Bae Systems e Mitsubishi Heavy Industries -, collaboreranno allo sviluppo delle tecnologie per la piattaforma aerea di sesta generazione, in ottica sistema di sistemi. La compagine italiana oltre a Leonardo - presente nel programma già dal 2018 con Leonardo UK - vedrà coinvolti Avio Aero, Elettronica e Mbda Italia insieme all'intero ecosistema innovativo e produttivo del Paese.

"La decisione dei governi di rafforzare la collaborazione con un programma così strategico come il Global Combat Air Programme - sottolinea Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo - è la testimonianza di un modello di cooperazione tra i tre Paesi efficace e promettente. Siamo di fronte a uno dei programmi più sfidanti e avveniristici per l'industria dell'aerospazio e difesa che garantirà l'autonomia tecnologica dei Paesi coinvolti e fornirà alle Forze Armate prestazioni e capacità operative senza precedenti". 

Il Global Combat Air Programme - spiega ancora Profumo - agirà anche da volano di sviluppo per l'industria nazionale nei decenni a venire, a beneficio delle future generazioni. Grazie alla nostra forte presenza nel Regno Unito, Leonardo rappresenta nel programma due delle nazioni partner, ovvero l'Italia e il Regno Unito". 

"Le nostre industrie - aggiunge Lucio Valerio Cioffi, direttore generale di Leonardo - grazie alle esperienze che matureranno nel programma - con autonomia tecnologica e libertà di modifica -, potranno consolidare la propria leadership in ottica di collaborazione nel contesto europeo e in quello internazionale. 

Il programma genererà benefici tecnologici, economici e sociali a lungo termine per i tre Paesi e, allo stesso tempo, crescita sostenibile e competitività per le industrie, non solo del comparto ma di tutto l'ecosistema dell'innovazione". "Le grandi collaborazioni europee ed internazionali sono parte del dna di Leonardo che è presente nei principali programmi del settore, tra cui l'Eurofighter Typhoon, l'F-35 o l'Eurodrone solo per citare i più recenti.

L'ambizione nazionale è quella di sviluppare un vero e proprio modello innovativo di collaborazione tra Difesa e industria che possa rappresentare un punto di riferimento per i programmi futuri. In una visione sistemica, le aree tecnologiche spaziano dall'aeronautica all'elettronica, dal cyber spazio alla gestione di potenza, facendo leva sull'intelligenza artificiale, sul big data analytics, sull'informatica quantistica, sul digital twin, sulla cyber sicurezza e sull'integrazione tra piattaforme, con o senza pilota".

I segreti di Tempest, il nuovo caccia invisibile ad altissimo tasso di tecnologia (Bae System). Sergio Barlocchetti su Panorama il 09 Dicembre 2022

La collaborazione tra Giappone, Italia e Gran Bretagna porterà alla nascita di un nuovo sistema d'arma che entrerà in funzione nel 2035

Un miliardo di dollari, tanto vale la fase iniziale del programma GCAS, sigla di Global Combat Air Programme, al quale è stato dato il via ufficiale questa mattina da un comunicato stampa congiunto della Presidenza del Consiglio e dalle cancellerie inglese e giapponese. Con la fusione tra le ricerche fin qui condotte per il nuovo caccia F-X di Tokyo e il Team Tempest definito dal 2018 da Regno Unito, Italia e Svezia (nazione che però non amplia la partecipazione), si passa dalla fase di studio a quella organizzativa delle responsabilità progettuali per creare un sistema d'arma di nuova generazione che dovrà essere pronto entro il 2035. L'aeroplano è soltanto una parte del GCAS, bisogna infatti progettare una serie di capacità tecnologiche, definite multidominio, che spaziano da quelle elettroniche e informatiche fino a quelle cibernetiche e spaziali. Lo scopo è sostituire velivoli e droni attuali che entro il 2050 saranno tecnologicamente superati, come gli F-2 giapponesi (94 unità basate sul progetto Lockheed-Martin F-16), e i 238 Eurofighter in servizio tra Regno Unito (144) e Italia (94). Le tre nazioni non sono le sole ad affrontare questo investimento: gli Stati Uniti hanno approvato il nostro progetto e da qualche anno sviluppano il successore dello F-35, programma oggi chiamato Next generation air dominance, in sigla NGAD, che dovrebbe essere pronto nel 2030. Germania, Francia e Spagna intanto pare abbiano finalmente trovato un accordo per affrontare la seconda fase del programma FCAS, mentre la Cina prosegue l'evoluzione del suo J-X destinato a essere l'avversario diretto degli altri due.

Tanto il lavoro previsto per l'industria, dai colossi alle piccole medie imprese, come sottolinea il comunicato inglese emesso congiuntamente dal governo Sunak e dalla Bae Systems, che cita il coinvolgimento di 120 soggetti tra aziende inglesi, università e centri di ricerca, nonché la conferma del progetto sia per i 2.500 addetti coinvolti dal 2018 (dei quali 750 italiani), con una prospettiva di impiego per altre 20.000 persone in diverse nazioni nei prossimi 25 anni, a cominciare dagli addetti italiani che lavorano in Leonardo, Elettronica Group, Mbda Italia e una trentina di pmi. Di che aeroplano si tratterà esattamente ancora nessuno può dirlo, probabilmente un bimotore dotato di intelligenza artificiale ed enormi capacità di connessione per colpire in coordinamento con droni, satelliti e reti cibernetiche, con prestazioni supersoniche e standard di interoperabilità tali da poter essere impiegato anche in scenari come quello asiaticopacifico e africano. Le dimensioni potrebbero essere simili a quelle dello F-35, mentre il peso massimo al decollo intorno a 25 tonnellate e un'autonomia iniziale estendibile a 2500 km. In quanto ad armi, confermato il requisito di poter trasportare ordigni nucleari, ci saranno anche missili di nuova generazione, bombe guidate e armi a concentrazione di energia (laser e radiofrequenza). I caccia di sesta generazione in sigle: NGAD (Next generation air dominance), il nome dei programmi per i nuovi sistemi americano e cinese; FCAS (Future Combat Air System), il programma franco-tedesco-spagnolo; GCAS (Global Combat Air Programme), la definizione del programma angloitalo-nipponico. Rispettata la tradizione dei nomi inglesi per i caccia Dapprima fu l'Hurricane (Uragano), quindi il Panavia Tornado, al quale è seguito l'attuale Eurofighter che è stato battezzato Typhoon (Tifone). Ecco quindi il nuovo nome Tempest. Una tradizione che si ripete dalla seconda guerra mondiale

"Nessun sopravvissuto". Quella "jeep del cielo" tradita da un cavo. Massimo Balsamo l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La tragedia dell'Air Moorea 1121 in Polinesia francese risale al 9 agosto 2007: 20 morti e nessun sopravvissuto

La Polinesia francese, uno dei paradisi terrestri più amati dai turisti, a metà strada tra Australia e Sud America. Isolette note per la cordialità della gente del posto, per la bellezza del mare, per la natura spettacolare. Purtroppo però anche teatro di tragedie. Una di queste risale al 9 agosto 2007, sull’isola di Moorea: il volo Air Moorea 1121 - un de Havilland Canada Dhc-6 Twin Otter – precipitò in mare poco dopo il decollo dall’aeroporto. Niente da fare per i 20 occupanti dell’aeromobile: tutti morti, nessun sopravvissuto.

Il dramma dell’Air Moorea 1121

L’Air Moorea 1121 era un volo passeggeri di linea da Moorea a Papeete: un solo canale da attraversare, sette minuti dalla partenza all'arrivo, una delle tratte più brevi del mondo. Uno dei quaranta voli giornalieri tra le due isolette, una vera e propria consuetudine. La compagnia appartenente al Groupe Air Tahiti utilizzò un de Havilland Canada Dhc-6 Twin Otter, considerato uno degli aerei più solidi mai costruiti. Noto per la sua robustezza e per le sue capacità Stol (short take-off and landing), il velivolo era definito la “Jeep del cielo”, l’ideale per sorvolare a bassa quota le isole della Polinesia francese. Quel 9 agosto 2007 qualcosa però andò storto: meno di due minuti dopo il decollo, l’aereo perse quota velocemente, precipitando nell’Oceano Pacifico.

Le vittime

I pescatori si affrettarono a prestare i primi soccorsi, ma per gli occupanti dell’aeromobile non c’era niente da fare: tutti morti, nessun superstite. Persero la vita i diciannove passeggeri e il comandante Michel Santeurenne. Il 53enne era stato assunto dalla compagnia tre mesi prima della tragedia. Dopo una carriera passata nell’esercito, una nuova vita in un paradiso terrestre. Un lavoro abbastanza semplice per un pilota con il suo curriculum – 3.500 ore di esperienza di volo – ma dopo la tragedia non mancarono i dubbi sul suo conto. Colpa di un guasto o di un errore umano?

Le indagini

L’incidente aereo sconvolse la comunità polinesiana francese, un dolore difficilmente rimarginabile. Parigi inviò immediatamente un team dell'ufficio di inchiesta e analisi per la sicurezza aerea: obiettivo, fare chiarezza sulle cause del dramma. Guidata da Alain Bouillard, la Bea (Bureau d'Enquêtes et d'Analyses) si mise subito al lavoro per dare una risposta alle famiglie delle vittime.

Gli investigatori incontrarono parecchi ostacoli fin da subito. I rottami dell’aereo finirono sul fondale dell’oceano e fu necessario attendere diverse settimane per usufruire di una nave di ricerca specializzata con sottomarino telecomandato. In attesa di mettere le mani sui frammenti vitali e privo dei dati radar, il team di Bouillard provò a ricostruire la traiettoria dell’aereo attraverso i racconti dei testimoni. Molti confermarono di aver visto l’aereo salire normalmente, fino alla perdita di controllo.

Dopo aver escluso il peso eccessivo come possibile causa, gli esperti decisero di effettuare una serie di prove con un piccolo aereo e un buon pilota. I test confermarono che il problema sorse mentre l’aeromobile stava salendo, ma non la causa. Altra pista esclusa, il possibile malore del comandante: l’esame autoptico dimostrò il buono stato di salute di Santeurenne.

La svolta

Dopo settimane di attesa, arrivò a Moorea la nave di ricerca. Le operazioni di recupero richiesero diversi giorni, ma la fumata bianca comunque arrivò. Gli esperti prelevarono subito il registratore di cabina per inviarlo in laboratorio e scaricare così i dati. Ma non solo: il team recuperò i motori dell’aereo e diversi pezzi del pannello della cabina di pilotaggio.

Il registratore di cabina non segnalò irruzioni o dialoghi particolari, ma solo il rumore dell’aereo nella fase di decollo. Poi, però, un suono inatteso: il comandante Santeurenne che impreca durante la fase di ritiro dei flap. Sui voli per Tahiti i piloti dei Twin Otter ritraevano i flap raggiunti i 120 metri, la stessa altitudine da cui il volo iniziò a precipitare. Le analisi del caso però smentirono qualsivoglia guasto o malfunzionamento al meccanismo di azionamento dei flap.

La Bea pose attenzione sull’ipotesi di un guasto meccanico, in particolare sulle superfici di controllo della coda del Twin Otter, azionate da quattro cavi in acciaio inossidabile, tutti e quattro danneggiati nell’incidente ma non in maniera uguale. Un cavo dell’equilibratore infatti sembrava quasi spezzato. I cavi in acciaio inossidabile si consumano molto prima di quelli d’acciaio in carbonio, richiedendo un controllo periodico del livello di usura.

Gli aerei Air Moorea facevano voli frequenti e brevi, con molti più decolli e atterraggi della maggior parte degli aerei di linea. La compagnia però non considerò nulla di tutto ciò nella preparazione del piano di manutenzione. Ma quello non fu l’unico fattore della tragedia. Per spezzare il cavo, infatti, serviva una forza dieci volte superiore a quella applicata per fare alzare il muso dell’aereo.

Gli investigatori trovarono la risposta in aeroporto: il jet-blast dei grandi aerei (Air Bus e Boeing) che decollavano dall’aeroporto Faa’a, dove il de Havilland Canada Dhc-6 Twin Otter veniva parcheggiato poco distante dall’inizio della pista. Il jet-blast è un fenomeno provocato dagli scarichi dei motori dell’aereo e consiste in un forte spostamento d’aria provocato dai gas espulsi dai motori. In altre parole le correnti possono superare i 160 chilometri all'ora. A contribuire in maniera significativa al fenomeno lo smantellamento delle barriere per facilitare gli spostamenti da un’area di parcheggio all’altra.

Le contromisure post-tragedia

Dopo il dramma dell'Air Moorea, gli investigatori esortarono le compagnie aeree a controllare immediatamente tutti i cavi in acciaio inossidabile. L’evento spinse le autorità ad adottare standard di manutenzione e di ispezione più severi e rigorosi. Senza dimenticare le contromosse per il jet-blast, con il ripristino delle barriere negli aeroporti sprovvisti, in particolare in quelli che accolgono sia grandi jet che piccoli aeromobili regionali.

"Scendete", ma il volo sparì. Poi lo schianto sul ghiaccio. Mariangela Garofano il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A novembre 1979 il volo panoramico Air New Zealand 901 partito per l'Antartide, scompare dai radar, e a causa delle difficili condizioni meteorologiche si schianterà alle pendici del Monte Erebus, uccidendo le 257 persone a bordo

Il 28 novembre 1979 un McDonnell Douglas Dc-10-30 della compagnia Air New Zealand decollò da Auckland per effettuare un volo panoramico in Antartide. Il volo però, organizzato per permettere ai turisti di sorvolare la Barriera di Ross fino al canale McMurdo, non giunse mai a destinazione. Un errore del comandante, che non si accorse che il velivolo stava volando lungo una rotta errata, portò il volo New Zealand 901 a schiantarsi contro il Monte Erebus, provocando il decesso di tutte le 257 persone a bordo. La tragedia, nota come il Disastro del Monte Erebus, è considerata come il più grave incidente accaduto in Antartide e all’aviazione civile neozelandese.

Il volo e l’incidente

L’aereo coinvolto nella sciagura era un McDonnell Douglas Dc-10-30, di proprietà della Air New Zealand Limited, con circa 20.763 ore di volo alle spalle. Il comandante, Jim Collins, e il co-pilota, Greg Cassin, non avevano mai volato lungo quella tratta, ma 19 giorni prima della partenza del volo parteciparono solo a un breve addestramento, che consisteva nella visione di un filmato e di un volo al simulatore di 45 minuti, per prepararsi al volo che li aspettava e alle ostiche condizioni climatiche antartiche. I due piloti, quindi, non avevano alcuna dimestichezza con la tratta prevista per il 28 novembre, non avendo mai volato in Antartide.

Quel giorno di novembre il volo Air New Zealand 901 decollò alle 19.17 ora locale, con 237 passeggeri a bordo, entusiasti di intraprendere il viaggio panoramico nell'affascinante continente antartico. L’equipaggio era composto da un pilota, due primi ufficiali, due ingegneri di volo e uno speaker per descrivere il panorama ai passeggeri.

Le norme della compagnia prevedevano la quota minima di avvicinamento a 16.000 piedi (4.900 metri), mentre per effettuare una discesa a 6.000 piedi (1.800 metri) la visibilità doveva essere superiore a 20 chilometri, senza fenomeni nevosi. Quel giorno però, nonostante dalle fotografie scattate dai passeggeri si evinse che la visibilità e le condizioni meteorologiche in quota erano buone, a terra stava nevicando e la visibilità era ridotta.

Giunti vicino a McMurdo, la torre di controllo della stazione antartica chiese ai piloti del volo 901 di scendere a 1.500 piedi (460 metri), per essere sotto controllo radar. I piloti si abbassarono come richiesto dai controllori di volo, ma il velivolo non comparve mai al radar. Inoltre ci fu una certa difficoltà da parte dell’aeromobile a contattare la torre di controllo della stazione di McMurdo sulle radio ad alta frequenza.

I piloti iniziarono la discesa a vista a nord dell’Isola di Ross, manovra consentita solo con le condizioni meteo ottimali, compiendo una spirale a destra e successivamente una a sinistra. L’aeromobile a quel punto si portò a 5.700 piedi (1.500 metri), ma il il Gpws (Ground Proximity Warning System) avvisò i piloti del tutto increduli, del pericolo di impatto imminente al suolo. Il tentativo del comandante di sollevare il muso del velivolo fu vano, e dopo poco il volo New Zealand 901 si schiantò contro il Monte Erebus a un’altezza di 1.467 piedi (447 m). Purtroppo, a seguito della violenza dell'impatto, non ci furono superstiti.

Le responsabilità dell'incidente e il recupero delle vittime

Le indagini per stabilire cosa provocò la tragedia del Dc-10 della Air New Zealand vennero affidate alla Transport Accident Investigation Commission neozelandese, che anche grazie all'analisi delle scatole nere, attribuì le responsabilità dell'incidente a diversi fattori.

Una delle cause fu imputata alla decisione del comandante di scendere al di sotto dell'altezza di sicurezza in prossimità dell'Isola di Ross, zona considerata a rischio per le avverse condizioni meteorologiche, caratterizzate da forti venti e abbondanti nevicate. Venne stabilito inoltre, che il briefing a cui parteciparono i piloti prima del volo, non fornì loro l'addestramento adeguato per volare lungo la tratta stabilita e che l'avviso del Gpws arrivò troppo tardi, a soli 6 secondi dalla collisione. Pertanto fu impossibile per i piloti riuscire in così poco tempo a risollevare il velivolo ed evitare lo schianto.

Alle 3 del mattino del 28 novembre gli Stati Uniti e l'aeronautica militare neozelandese avviarono le ricerche del velivolo, ormai dichiarato disperso, ma a causa delle condizioni climatiche avverse i soccorritori riuscirono a recuperare i rottami dell'aereo soltanto la mattina successiva. L'operazione per il riconoscimento dei 237 passeggeri e dei 20 membri dell'equipaggio terminò il 10 dicembre dello stesso anno.

"Apri la porta", poi lo schianto. Così il copilota fece precipitare l'Airbus. Il 24 marzo 2015 il volo Germanwings 9525 precipitò mentre sorvolava le Alpi francesi. Nessuno sopravvisse allo schianto. La causa dell'incidente aereo si rivelò qualcosa di inimmaginabile, che lasciò senza parole il mondo intero. Francesca Bernasconi il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Erano 150 le persone a bordo del volo Germanwings 9525, precipitato il 24 marzo 2015 sulle Alpi francesi. Quella mattina sui sedili passeggeri avevano preso posto alcuni studenti di ritorno in Germania dopo uno scambio culturale con la Spagna, due sposi in viaggio di nozze e diversi uomini e donne per che volavano per lavoro. Accanto a loro si erano seduti anche due cantanti d'opera, che avevano appena finito di esibirsi nel Siegfried di Wagner al Gran Teatre del Liceu di Barcellona. Due i bambini imbarcati. Nessuno poteva immaginare che quel volo diretto in Germania sarebbe stato il loro ultimo viaggio.

L'incidente aereo

Il 24 marzo del 2015, 144 persone si erano imbarcate all’aeroporto di Barcellona-El Prat sul volo 9525 della compagnia Germanwings. L’aereo avrebbe dovuto decollare alle ore 9.35, ma un ritardo di 26 minuti fece slittare l’orario di partenza. L’arrivo era previsto all’aeroporto di Düsseldorf per le ore 11.39. Il cielo era sereno e nulla poteva far pensare alla tragedia che sarebbe accaduta poco dopo la partenza. Alle 10.01, il velivolo decollò dalla pista Rwy 07R. Ai comandi, in cabina di pilotaggio, c'erano il capitano Patrick Sondenheimer e il primo ufficiale Andreas Lubitz.

Dopo il decollo da Barcellona, il capitano contattò la torre di Marsiglia per confermare la rotta: l’aereo avrebbe puntato verso Irmar, un punto di riferimento sulle Alpi francesi, superato il quale avrebbe iniziato la discesa verso Düsseldorf. Erano le 10.30, quando il pilota rilesse il nulla osta del controllore del traffico aereo: “Diretti a Irmar”, disse. Fu l'ultima comunicazione tra l'equipaggio di condotta e la torre di controllo di Marsiglia.

Pochi minuti dopo quel contatto, i controllori di volo notarono qualcosa di strano: il volo aveva lasciato la quota di crociera di oltre 30.000 piedi e stava scendendo in modo anomalo e veloce. Dai piloti non era giunta alcuna richiesta di autorizzazione, che potesse spiegare la manovra. Per questo quella perdita improvvisa di quota allarmò i controllori, che cercarono di contattare il l'equipaggio.

Tutti i numerosi tentativi di chiamata, undici secondo il rapporto finale sull’incidente del Bureau of Inquiry and Analysis for Civil Aviation Safety (Bea), rimasero senza risposta. Né il pilota né il copilota fecero sentire la propria voce. Vani anche i tentativi di contatto da parte di un altro aereo che si trovava nelle vicinanze. A quel punto venne chiesto l’intervento della difesa aerea francese, che inviò un Mirage 2000 dalla base militare di Orange, per intercettare il volo. Ma nemmeno il velivolo militare riuscì a trovare l’aereo che, nel frattempo, era scomparso dai radar.

Dopo 10 minuti dall’ultimo contatto radio, il volo Germanwings 9525 si era schiantato al suolo, sulle montagne della località francese Prads-Haute-Bléone, a una quota di 1.500 metri. Alle 10:41, la stazione sismologica dell’Osservatorio di Grenoble aveva registrato un evento sismico, associato allo schianto, determinandone l’ora esatta, prima ancora del ritrovamento delle scatole nere. Dopo un’ora dallo schianto i soccorritori riuscirono a individuare i rottami dell’aereo. Tutti i 144 passeggeri e i 6 membri dell’equipaggio a bordo del volo erano morti nello schianto.

Le indagini

Perché il volo Germanwings 9525 era precipitato? Era questa la domanda che attendeva una risposta, da parte dei familiari delle vittime, ma anche da parte delle autorità dei Paesi coinvolti. Così, per far luce sul disastro aereo, il Bea inviò i suoi investigatori sul luogo dell’incidente, che iniziarono a recuperare ed esaminare i rottami. I motivi del disastro potevano essere i più diversi: dal guasto aereo, a un malore, fino all’attentato terroristico. Ma nessuno si aspettava di scoprire qualcosa di ancora più inquietante.

Inizialmente gli investigatori controllarono le condizioni meteorologiche della mattina dell’incidente, per verificare se un improvviso cambio di clima potesse aver causato lo schianto, ma emerse che le condizioni di volo erano ottime. Una seconda ipotesi che venne vagliata negli attimi dopo la scoperta del disastro aereo fu la pista del terrorismo: una bomba poteva aver fatto precipitare l’aereo. Ma stando alle tracce radar, la discesa del velivolo fu controllata e, inoltre, una bomba avrebbe sparpagliato i detriti in un’area molto più ampia rispetto a quella in cui vennero ritrovati.

Rimase, quindi, solamente la possibilità che la cabina di pilotaggio avesse subito una depressurizzazione, che avrebbe portato i piloti a perdere i sensi in brevissimo tempo. Si cercò quindi di capire se l’aereo potesse aver subito qualche danno o avere qualche componente guasto, ma non emerse nulla di significativo. L’ipotesi della depressurizzazione però non poteva ancora essere esclusa.

In aiuto agli investigatori del Bea arrivarono il registratore vocale della cabina di pilotaggio e quello con i dati di volo, ritrovati tra i rottami. Erano entrambi danneggiati, ma ancora utilizzabili. Il registratore aveva rilevato il respiro regolare della persona presente in cabina, prova che non c’era stata nessuna depressurizzazione fatale. Ma allora, cosa era successo al volo Germanwings 9525? La risposta, più inquietante di qualsiasi altra ipotesi, venne a galla quando il team di investigazione esaminò i dati recuperati dalle scatole nere.

Il suicidio

Poco dopo l’ultima comunicazione con la torre di controllo, il registratore di cabina rilevò, alle 10.30, i rumori dell’apertura e della chiusura della porta della cabina di pilotaggio: il capitano aveva lasciato il suo posto, affidando i comandi al primo ufficiale e chiedendogli di assumere le comunicazioni radio. Tre minuti prima l’aereo si era stabilizzato a un’altitudine di crociera di 38.000 piedi (quasi 12.000 metri). Appena il pilota lasciò la cabina, però, l’altitudine selezionata cambiò da 38.000 a 100 piedi (circa 30 metri), l’impostazione più bassa sull’Airbus: l’aereo iniziò a quel punto “una discesa continua e controllata con il pilota automatico”.

Grazie alle scatole nere, gli investigatori scoprirono che il segnale di chiamata in cabina venne fatto suonare in quattro occasioni, la prima 4 minuti dopo l’uscita del comandante. Ma nessuna di queste richieste di ingresso in cabina ottenne risposta e la porta rimase chiusa. I registratori rilevarono anche una serie di “rumori simili a violenti colpi alla porta della cabina di pilotaggio” e una voce che ne chiedeva l’apertura: “Apri quella dannata porta”, avrebbe urlato il pilota secondo quanto riportò Bild. Alle 10.41 la registrazione si interruppe, al momento della collisione del velivolo con il terreno.

Dai dati delle scatole nere apparve chiaro che la discesa dell’Airbus era avvenuta mentre il copilota era solo nella cabina di pilotaggio. Per questo, il report finale del Bea sull’incidente aereo del 24 marzo 2015 concluse che la collisione fu “dovuta all’azione deliberata e pianificata del copilota che ha deciso di suicidarsi mentre era solo in cabina di pilotaggio”. Si trattò quindi di un’azione volontaria di Andreas Lubitz.

Prima del volo 9525, lo stesso equipaggio aveva effettuato la tratta di andata il giorno precedente, decollando da Düsseldorf alle 6.01 e atterrando a Barcellona alle 7.57. Quando gli investigatori esaminarono i dati di quella rotta scoprirono un dettaglio inquietante. Anche in quell’occasione, le scatole nere rilevarono i rumori dell’apertura e della chiusura della porta della cabina di pilotaggio, alle 7.20, quando il comandante uscì. Pochi secondi dopo, venne modificata la quota di crociera e, per un attimo, venne selezionata un’altitudine pari a 100 piedi: erano le prove generali della tragedia che si sarebbe consumata sul volo di ritorno.

Le cure mediche

Scavando nella vita del copilota, gli investigatori scoprirono che Lubitz soffriva di “una forma di disordine mentale con sintomi psicotici”. Stando al rapporto del Bea, nel dicembre 2014, il copilota consultò diversi specialisti, che gli prescrissero farmaci antidepressivi, le cui tracce vennero riscontrate anche dopo l’incidente da un esame tossicologico sul corpo di Lubitz.

Nel febbraio 2015, inoltre, un medico gli diagnosticò “un disturbo psicosomatico e un disturbo d’ansia” e successivamente “una possibile psicosi”, raccomandando un trattamento ospedaliero e prescrivendo farmaci antidepressivi. In queste condizioni, l’ufficiale non avrebbe potuto volare: “Il giorno dell'incidente - spiega il rapporto - il pilota soffriva ancora di un disturbo psichiatrico, che era forse un episodio psicotico depressivo e stava assumendo farmaci psicotropi. Questo lo rendeva inadatto al volo”.

Ma né lo stesso copilota né gli operatori sanitari che lo ebbero in cura segnalarono la situazione alle autorità aeronautiche. L’iter prevedeva l’autodenuncia in caso di diminuzione dell’idoneità tra due visite mediche periodiche e la politica sulla protezione dei dati personali non permetteva ai medici di rivelare le condizioni di salute del copilota, dato che “secondo il codice tedesco, la violazione del segreto medico ha conseguenze penali”.

Le vittime del disastro aereo del volo Germanwings 9525 furono in totale 150. Tra loro, due bambini e diversi studenti. Questo fu uno dei più gravi incidenti aerei avvenuto in Europa ed ebbe un'ampia risonanza mediatica, soprattutto legata alle cause dello schianto.

"Non c'era più il soffitto...". Il terrore sul volo da sogno alle Hawaii. Sulla breve rotta che collega le isole Hawaii, un Boeing 737 della Aloha Airlines perde un pezzo di carlinga a 7.000 metri. A bordo il panico: "Sembrava di stare in mezzo a una tempesta". Davide Bartoccini il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La depressione esplosiva e l'atterraggio d'emergenza

 Una tragica fatalità

 Le altre vittime di Aloha 243

Aeroporto internazionale di Hilo, isole Hawaii. Dalla cabina di un Boeing 737 operato dall’esotica Aloha Airlines, il comandante Robert Schornstheimer annuncia al microfono che il tempo è sereno e che il volo, diretto all’aeroporto della capitale Honolulu, durerà all’incirca un’ora. Come al solito. Gli 89 passeggeri, molti dei quali turisti che stanno per iniziare o proseguire o viaggio “da sogno” ascoltano rilassati e allacciano diligentemente le cinture. Sono le 13.25 del 28 aprile 1988. Un giovedì.

La tratta da percorrere è breve, appena 300 chilometri. Corsa e ripercorsa un migliaio di volte. A bordo dall'aereo di linea sono imbarcati 6 membri dell’equipaggio reclutati da una compagnia piccola ma longeva: affronta il viaggio Hilo - Honolulu dal lontano luglio 1946, quando i vecchi aerei da trasporto a elica avevano spiccato il volo per la prima volta come concorrenti dei vettori siglati Hawaiian Airlines. Nessuno avrebbe mai sospettato che di lì a pochi minuti dal decollo, a bordo del volo 243 si sarebbe verificato uno dei più singolari incidenti dell'intera storia dell’aviazione civile.

Il velivolo, un Boeing 737-297 registrato con il codice N73711, raggiunge la quota prestabilita di 7.300 metri e viaggia a velocità di crociera, quando alle 13.48 un sibilo intenso irrompe nello scompartimento passeggeri scatenando un'improvvisa preoccupazione a bordo. Basta un istante per suscitare urla e terrore, poi il silenzio portato dal rumore del vento in tempesta.

La prima ufficiale Madeline Tompkins non crede ai suoi occhi quando, vendendo la porta che separa la cabina dallo scompartimento passeggeri completamente divelta, scopre che un’intera sezione del rivestimento superiore della carlinga si è staccato di netto, ed è volato via. Precipitato nell’Oceano Pacifico. "Dove prima c'era il soffitto della prima classe, si vedeva solo il blu del cielo ", racconteranno dalla cabina. "C'era un vapore simile a un fumo in tutti i detriti che volavano intorno", testimonierà in seguito uno degli assistenti di volo. Perché ciò che segue è un piccolo miracolo - anche se non privo di vittime.

La depressione esplosiva e l'atterraggio d'emergenza

Una decompressione “esplosiva” ha provocato lo squarcio nella carlinga e resta poco da fare se non mantenere la calma nella cabina dove il vento fischia fortissimo. I passeggeri devono essere terrorizzati, pensando già al peggio. Il comandante invece cerca di mantenere il sangue freddo nonostante il calo di potenza di uno dei due motori.

L'aeroporto più vicino è quello sull'isola di Maui. La priorità è perdere quota gradualmente e compiere un atterraggio d’emergenza. Manovra condotta in 13 minuti dall’incidente. Sulla pista dell’aeroporto Kahului di Maui le unità di soccorso si trovano incredule di fronte a un caso mai visto prima: un aereo di linea che atterra senza quelli che a occhi possono risultare 6 metri della sezione superiore della di carlinga - approssimativamente 1/3 dello scompartimento passeggeri.

"A circa 5, 4 metri dal rivestimento della cabina e dalla struttura a poppa della porta d'ingresso della cabina e sopra la linea del pavimento del passeggero separati... durante il volo", si poteva leggere sul rapporto a conclusione dell’indagine condotta dal National Transportation Safety Board degli Stati Uniti (NTSB).

Le cause dell’incidente andavano attribuite alla manutenzione inefficiente di un velivolo che al momento dell’incidente aveva accumulato 35.496 ore di volo in 89.680 cicli di decollo/atterraggi.

Tracce di corrosione sulla fusoliera, attribuibili alla salsedine, che di certo non manca di intaccare mezzi e strutture nelle isole Hawaii, e il deterioramento del “collante epossidico che unisce i pannelli” non avevano sostenuto le continue sollecitazioni del ciclo decollo/atterraggio strettamente collegato ai voli brevi della tratte eseguita che comportavano continue compressioni e decompressioni. Tutto ciò aveva indebolito la struttura fino a generare il tragico evento. Il volo 234 dell’Aloha Airlines aveva subito una "decompressione esplosiva e un cedimento strutturale" che, oltre al succitato cedimento, aveva portato al guasto del motore sinistro. Ma non era tutto.

Una tragica fatalità

Come riportato in dettaglio dal Newzeland Herald, una tragica fatalità - non inclusa formalmente nel rapporto - potrebbe essere alla base dell'entità dello squarcio verificatosi sul volo Aloha 243. Abbiamo già annunciato come l'incidente, pur conclusosi in un miracoloso atterraggio d'emergenza, non rimase privo di vittime.

L'unica persona che perse la vita fu infatti l'assistente di volo Clarabelle Lansing, di 58 anni. Il suo corpo, risucchiato fuori dall'aeromobile, non è stato mai ritrovato. Risucchiata dallo squarcio nell'abitacolo - come da testimonianza di alcuni passeggeri - il corpo dell'assistente rimasto incastrato dello squarcio iniziale avrebbe "provocato un picco di pressione con quello che viene in gergo chiamato colpo d'ariete”. La tragica e fatale combinazione di fattori avrebbe dato luogo a uno squarcio di circa 6 metri, assai maggiore dei 25 centimetri che un rivestimento sollecitato dovrebbe teoricamente sostenere per consentire quella che viene definita "decompressione controllata".

Le altre vittime di Aloha 243

Degli 89 passeggeri registrati, 65 riportarono traumi lievi, 8 lesioni gravi. Nel dettaglio vengono riportate ustioni e lacerazioni provocate da detriti e cavi elettrici scoperti che entrarono iin contatto con due passeggeri seduti in prima classe - proprio in prossimità della cabina. Su almeno una dozzina di passeggeri vennero riscontrate lesioni come commozioni cerebrali e lacerazioni alla testa. A questo genere di ferite si andarono ad aggiungere numerosi casi di lesioni causate dall'improvviso cambiamento di pressione. Nessun danno risultò tuttavia permanente.

La Federal Aviation Administration non fu in grado di valutare adeguatamente il livello di negligenza nel programma di manutenzione condotto della compagnia aerea nota come Aloha Airlines. Mentre l'Ntsb in precedenza citato elogiò i piloti per la ferma e risoluta reazione agli eventi. Definendo "esemplare" il loro coraggio e la professionalità degli assistenti di volo. Il terrore nei cieli delle Hawaii era durato meno di 15 minuti, ma nessuno ha mai scordato le immagini di quell'aereo che era sceso sulla pista "senza una parte del tetto".

Terribile incidente aereo all’Air Show di Dallas: ci sarebbero vittime. Giampiero Casoni il 13/11/2022 su Notizie.it.

Terribile incidente aereo all'Air Show di Dallas: ci sarebbero vittime e la notizia è arrivata direttamente dalla Federal Aviation Administration

Terribile incidente aereo all’Air Show di Dallas: ci sarebbero vittime ma al momento il bilancio e le notizie su eventuali superstiti fra le sei persone a bordo dei due velivoli non è ancora stato ufficializzato. Il disastro nei cieli è avvenuto durante la rievocazione storica Wing Over del Veteran’s Day, nello stato del Texas.

Lo schianto tra due aerei all’Air show di Dallas sarebbe avvenuto durante una manovra a bassa quota dei due velivoli della seconda guerra mondiale.

Incidente aereo all’Air Show di Dallas

Gli aerei si sono scontrati, mentre eseguivano un sorvolo in un evento commemorativo in Texas. La Cbs spiega che la notizia è arrivata direttamente dalla Federal Aviation Administration in una nota. Purtroppo lo scontro in aria è stato terribile.

Il video del disastro immortalato sui social

Sui social si vedono centinaia di persone riunite per assistere alla manifestazione ed a un certo punto i due grossi aerei impattato e prendono fuoco precipitando l’uno a circa cento metri di distanza dall’altro. Si trattava, come riferisce la Faa, di un Boeing B-17 Flying Fortress e un Bell P-63 Kingcobra. Tutto sarebbe accaduto poco prima delle 13:30 ora locale del 12 novembre. Secondo quanto riferito dalla Abc a bordo dei due aerei c’erano complessivamente sei persone, cinque sul B-17 e una sul P-63.

DAGONEWS il 15 novembre 2022.

Sei piloti sono morti durante un tragico incidente aereo all’airshow per il Veterans Day poco fuori Dallas.

Cinque erano a bordo di un Boeing B17 Flying Fortress che si è scontrato a mezz'aria con un P-63 Kingcobra. Il P-63 era pilotato da Craig Hutain, morto quando il suo aereo si è schiantato contro il bombardiere. 

Lo scioccante incidente è stato visto da centinaia di persone a terra ed è stato ripreso nei minimi dettagli dagli spettatori dell'airshow e dai fotografi.

Il video mostra un P-63 Kingcobra che si avvicina alla traiettoria di volo del Boeing B17 Flying Fortress: i due aerei si scontrano e il P-63 finisce per tranciare la coda del velicolo.

La parte anteriore del B-17 si è staccata dalla coda e l'aereo è precipitato a spirale schiantandosi al suolo. Circa 40 squadre di vigili del fuoco si sono immediatamente mobilitate verso la scena. In una dichiarazione successiva all'incidente, il sindaco Eric Johnson ha definito l'incidente una "terribile tragedia per la nostra città": «I video sono strazianti. Per favore, dite una preghiera per le anime che oggi sono salite in cielo». 

L'NTSB ha dichiarato di aver indagato su 21 incidenti dal 1982 che hanno coinvolto bombardieri dell'era della Seconda Guerra Mondiale, causando 23 morti. Entrambi gli aerei coinvolti nell'incidente di sabato erano bombardieri storici della Seconda Guerra Mondiale.

"Errori e non solo". Così si schiantarono le stelle della Lokomotiv Jaroslavl’. Massimo Balsamo il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.

La tragedia della nota squadra di hockey risale al 7 settembre 2011: 44 morti e un solo sopravvissuto, un evento che sconvolse il Paese intero

Tabella dei contenuti

 L’incidente aereo della Lokomotiv Jaroslavl'

 Le vittime

 Le indagini

 La svolta

 Un sistema fallimentare

Un errore umano, anzi più di uno. Ma soprattutto un sistema fallimentare, con lacune evidenti, legate indissolubilmente al crollo dell’Unione Sovietica. Diversi i fattori in gioco per il tragico incidente aereo della squadra russa Lokomotiv Jaroslavl’, tra le più importanti del panorama hockeistico, datato 7 settembre 2011: un bilancio drammatico e un Paese sconvolto.

L’incidente aereo della Lokomotiv Jaroslavl'

Attesa per il primo incontro della stagione 2011-2012 della Kontinental Hockey League, la Lokomotiv Jaroslavl’ era diretta a Minsk, in Bielorussia. La società si affidò alla Yak-Service e per il viaggio fu scelto uno Yakovlev Yak-42D, un aereo di costruzione sovietica ritenuto molto affidabile. Complice la lista di passeggeri di grande prestigio, furono selezionati piloti molto esperti: il primo ufficiale Igor Zhivelov (trent’anni di carriera e oltre 13 mila ore di volo, nonché vicepresidente della compagnia), il comandante Andrei Solomentsev e l’ingegnere di volo Vladimir Matyushin. A completare il team, il meccanico di bordo Sergy Zharuvlev.

L’incidente si verificò subito dopo il decollo, attorno alle ore 16.05. L’aereo impattò contro il radiofaro posto alla fine della pista, per poi precipitare 1.200 metri dopo, finendo la sua corsa nel fiume Tunoshenka, a duecento metri dalla sua immissione nel fiume Volga. In seguito all’impatto con il terreno, la sezione di coda del velivolo finì in acqua, mentre la parte rimanente della fusoliera si disintegrò sulla terraferma.

Le vittime

I primi ad arrivare sul posto furono gli agenti della polizia, con i rottami a fuoco e una distesa di corpi inermi. Quasi tutti i passeggeri morti, solo due sopravvissuti: l’hockeista Alexander Galimov (morto cinque giorni dopo a causa delle gravi ferite riportate) e l’ingegnere di volo Aleksandr Sizov (unico sopravvissuto). Una scena drammatica. Bilancio definitivo di 44 decessi: 36 persone tra giocatori e staff della Lokomotiv Jaroslavl’ e 8 membri dell’equipaggio.

Tra le vittime diverse star del mondo dello sport: molti ex giocatori della lega americana Nhl, i campioni del mondo Jan Marek e Josef Vasicek, o ancora il campione olimpico 2006 Stefan Liv. Niente da fare nemmeno per il tecnico canadese Byron Brad McCrimmon, arrivato alla Lokomotiv per la sua prima esperienza da primo allenatore.

Le indagini

Perché l’aereo ha faticato a decollare? Questa la prima domanda che si posero gli investigatori della Mak, l’ente che sovrintende l’aviazione civile in Russia. La scomparsa della Lokomotiv Jaroslavl’ sconvolse il Paese intero e il governo esercitò parecchie pressioni per scoprire la verità nel minor tempo possibile. I funzionari dell’Interstate Aviation Committee selezionati avevano molta esperienza e questo dettagli si rivelò fondamentale per giungere alla verità sulle cause dell’incidente.

Riflettori accesi in prima battuta sulle difficoltà riscontrate dallo Yak-42 nella fase di decollo. L’esame dei rottami confermò che l’aereo era configurato correttamente: stabilizzatori e equilibratori ok, stesso discorso per i motori. Ritrovate il giorno dopo l’incidente, le scatole nere vennero subito inviate a Mosca per essere esaminate. Gli investigatori esclusero inoltre un’altra ipotesi, ovvero il peso eccessivo: l’aereo era al di sotto del peso massimo consentito. Nessuna informazione decisiva nemmeno dalle scatole nere: i motori avevano alimentato il velivolo ben oltre la velocità di decollo, escluso qualsivoglia problema.

Il team della Mak analizzò tutti i dati a disposizione alla disperata ricerca di indizi. A un certo punto qualcosa di insolito: nonostante la massima potenza fornita dai motori, lo Yak non accelerò come dovuto. Un fatto insolito: anziché continuare ad accelerare, il mezzo aveva di fatto iniziato a rallentare. Ed ecco la domanda delle domande: i freni erano azionati?

La svolta

Per confermare la teoria, gli investigatori effettuarono un test su una pista nei pressi di Mosca, ricreando le stesse condizioni dello Yak-42 grazie ai dati del registratore di volo. Il responso fu chiaro: i quattro freni erano stati azionati e stavano rallentando l'aereo mentre correva lungo la pista. Un errore umano, commesso dal comandante durante il decollo.

I due piloti dello Yak-42 volavano abitualmente su due diverse versioni di Yak, lo Yak-40 e lo Yak-42, con molta più esperienza sul primo. Una prassi poco consueta, ritenuta anzi scorretta e inappropriata, considerando che i due mezzi obbligavano i piloti a posizionare i piedi in modo diverso sul pedale del freno. Una differenza minima, ma significativa. Mentre il pedale del freno dello Yak-40 prendeva il primo piede del pilota, quello dello Yak-42 era progettato per fare poggiare il tallone del pilota a terra. Poggiando i piedi sui pedali sullo Yak-42 come sullo Yak-40, era possibile imprimere pressione sulla parte superiore del pedale e dunque azionare i freni.

Un sistema fallimentare

Un tragico errore umano, ma non solo. Le indagini sull’incidente aereo della Lokomotiv Jaroslavl’ posero l’accento su un sistema fallimentare, dominato dalla negligenza. Esaminando lo stato di salute dei membri dell’equipaggio, si scoprì che il primo ufficiale Igor Zhivelov era in cura per una neuropatia e non doveva essere autorizzato a volare (aveva perso sensibilità alle gambe, ndr). Ma non è tutto.

Gli investigatori scoprirono che i due piloti avevano falsificato i documenti in cui dichiaravano di aver avuto la formazione necessaria per pilotare gli Yak-42. Molte misure di sicurezza andarono in fumo dopo il crollo dell’Unione Sovietica ma non solo. Quello che stroncò la Lokomotiv Jaroslavl’ fu l’ottavo incidente aereo del 2011: un numero incredibile a testimonianza della qualità piuttosto risicata dell’aviazione russa, ben al di sotto di quella europea e nordamericana.

Elicottero precipitato nel Foggiano, concluse le autopsie dei piloti. Esclusa la presenza di patologie. Nella cattedrale di Foggia saranno celebrati i funerali dei due piloti, tra le sette vittime dell'incidente. Domenica l'estremo saluto per Luigi Ippolito 60 anni , lunedì per Andrea Nardelli, 39 anni. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Novembre 2022

E’ iniziata questa mattina dopo le 9.30 e si è appena conclusa l’autopsia sui corpi dei due piloti dell’elicottero Alidaunia precipitato sabato scorso sul Gargano.

Nell’incidente sono morte sette persone tra cui i piloti Luigi Ippolito e Andrea Nardelli, di 60 e 39 anni. A quanto si apprende i familiari delle vittime non hanno nominato i consulenti di parte. I funerali di Ippolito saranno celebrati domenica, quelli di Nardelli lunedì, entrambi nella cattedrale di Foggia.

Alla cerimonia funebre sarà presente il gonfalone della città accompagnato da una delegazione del Comune. La bandiera della città di Foggia sarà esposta a mezz'asta nelle sedi comunali. La procura ha aperto una inchiesta per disastro aviatorio colposo e omicidio colposo plurimo e, al momento, non ci sono indagati.

AUTOPSIE CONCLUSE

Eseguiti anche esami istologici e tossicologici. Non sono state riscontrate, al momento, gravi patologie sui cadaveri di Luigi Ippolito e Andrea Nardelli, di 60 e 39 anni, i due piloti dell’Alidaunia morti nel disastro aereo avvenuto sabato scorso nel Gargano in cui hanno perso la vita 7 persone. E’ quanto emerge dai primi esiti degli esami autoptici eseguiti nell’obitorio dell’ospedale Masselli Mascia di San Severo. Ora la Procura di Foggia, che ha in corso un’indagine sul disastro aereo, concederà il nullaosta per il rilascio delle salme ai parenti per i funerali. Un riscontro a questi risultati arriverà dagli esami istologici e tossicologici i cui risultati si conosceranno nei prossimi giorni.

I due piloti - a quanto è dato sapere - presentavano grossi traumi da impatto: avevano il cranio sfondato e verosimilmente, quando il velivolo è precipitato, si trovavano nell’abitacolo. Il professore Biagio Solarino si è riservato di depositare una relazione finale entro 60 giorni ai magistrati inquirenti della Procura di Foggia. 

Elicottero precipitato nel Foggiano: le foto e i video dal luogo della tragedia. Il velivolo, in servizio nella tratta Foggia-Vieste-Isole Tremiti, apparteneva alla società di trasporto aereo Alidaunia. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Novembre 2022

Tragedia nel Foggiano dove è precipitato un elicottero A109 con a bordo cinque passeggeri, tra cui una 13enne, e due piloti. Non ci sono sopravvissuti. L'ultimo contatto radio era stato nella zona tra Apricena e San Severo sul basso Gargano: area sulla quale era in corso un temporale. Il velivolo, in servizio nella tratta Foggia-Vieste-Isole Tremiti, apparteneva alla società di trasporto aereo Alidaunia. Ecco le immagini live dal luogo del ritrovamento dell'elicottero.

A bordo c'erano quattro turisti sloveni, tutti componenti di una stessa famiglia, che stava trascorrendo le vacanze in Puglia: Bostjan Rigler, di 54 anni; Jon Rigler di 44; MatejaCurk Rigler, di 44; Liza Rigler, di 13. Tra le vittime anche Maurizio De Girolamo, di 64 anni, medico del 118 che stava rientrando a casa dopo il turno di lavoro alle Tremiti, e i piloti Luigi Ippolito e Andrea Nardelli. Una della vittime, Bostjan Rigler, era direttore tecnico della principale Tv commerciale slovena, Pro Plus srl, che ha due canali, Pop Tv e Kanal A.

Apricena, ritrovato elicottero scomparso: morti i 5 passeggeri e i 2 membri dell'equipaggio. Tra le vittime una 13enne e un medico del 118 che tornava a casa a fine turno. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Novembre 2022

È stato ritrovato tra San Severo ed Apricena (a Castelpagano di Apricena, in un’area rurale) l’elicottero di Alidaunia disperso da questa mattina. Lo ha reso noto il vicepresidente della Regione Puglia Raffaele Piemontese. Le sette persone a bordo sono tutte decedute. Sul posto carabinieri, vigili del fuoco e polizia di Stato.

Il velivolo ha perso i contatti radio ed è scomparso dai radar dopo essere partito alle 9.20 dalle Isole Tremiti (San Domino). A bordo una famiglia slovena (Bostjan Rigler, di 54 anni; Jon Rigler di 44; MatejaCurk Rigler, di 44; Liza Rigler di 13 anni), e un medico italiano, il dottor Maurizio De Girolamo, 64 anni, medico del 118 di guardia alle Tremiti che rientrava a fine turno. Bostjan Rigler era direttore tecnico della principale Tv commerciale slovena, Pro Plus srl, che ha due canali Pop Tv ed Kanal. La famiglia Rigler stava trascorrendo le vacanze in Puglia: di Lubiana, era arrivata ieri alle Tremiti e sarebbe dovuta rientrare a Foggia già in serata ma a causa delle condizioni cattive del tempo il viaggio era stato rinviato ad oggi.

L'equipaggio era composto dal pilota Luigi Ippolito e dal co-pilota Andrea Nardelli. Il medico è il padre di Carlo Ugo De Girolamo, fino alla scorsa legislatura parlamentare del Movimento 5 Stelle eletto a Forlì. 

La visibilità nella zona era scarsissima e ha reso le ricerche difficoltose. Secondo quanto si apprende dalla compagnia, dall’elicottero non è stato emesso alcun segnale di emergenza. Le battute di ricerca si sono concentrate tra terra e mare nella zona tra San Severo, Apricena e Rignano Garganico, sempre nel Foggiano. L’elicottero era un A109 a 6 posti. Alle ricerche in zona hanno partecipato oltre ai vigili del fuoco anche un elicottero della Polizia di Stato decollato da Bari Palese, e l'Aeronautica Militare, con un HH139 dell'84° CSAR del 15º Stormo alzatosi in volo da Gioia del Colle. Coinvolti anche 40 militari dell’arma, tra cui i reparti speciali dei «Cacciatori di Puglia» che hanno raggiunto le zone più impervie del promontorio del Gargano.

Sul posto della tragedia dove questa mattina è precipitato un elicottero con a bordo 7 persone tutte decedute si è recato anche il procuratore capo di Foggia, Ludovico Vaccaro, in compagnia del sostituto procuratore Matteo Stella. La procura sta valutando di aprire un fascicolo di inchiesta per disastro aviatorio colposo.

Non ancora sono chiare le cause che hanno provocato la tragedia: nelle prossime ore saranno effettuati accertamenti tecnico/scientifici sui resti del velivolo e in particolare sulla scatola nera presente a bordo. 

Intanto l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (Ansv) ha disposto l’apertura di un’inchiesta di sicurezza e l’invio di un team investigativo sul sito dell’incidente che, oggi 5 novembre 2022, nei pressi di San Severo, ha coinvolto l’elicottero A 109 marche di identificazione I-PIKI. L’Ansv conferma che non ci sono superstiti tra i sette occupanti dell’aeromobile che è andato completamente distrutto.

Il sindaco delle Tremiti: «Il medico ha scelto l'elicottero anziché la nave per le condizioni meteo avverse»

Sconvolto il sindaco dell’arcipelago a largo del Gargano, Peppino Calabrese. «Il medico aveva appena terminato il turno di lavoro ed ha deciso di prendere l’elicottero anziché la nave per le condizioni meteo marine avverse. Qui da noi si è abbattuta una fitta nebbia» - ha aggiunto - Il sindaco ha poi precisato che «l'ultimo contatto con il velivolo lo si è avuto nel territorio tra San Nicandro Garganico e San Marco in Lamis. La nostra comunità è sotto choc. Non era mai successo prima una cosa del genere in 30 anni di servizio», ha concluso.

Emiliano lascia corteo per la pace a Roma per rientrare a Foggia

Il presidente della Regione, Michele Emiliano, sta rientrando in Puglia da Roma, dove stava partecipando al corteo per la pace. Dal momento della scomparsa dell’elicottero, Emiliano è rimasto in costante contatto con il Prefetto di Foggia, Maurizio Valiante, e con il vicepresidente della Regione, Raffaele Piemontese, per seguire le operazioni di ricerca. Appena appresa la notizia del ritrovamento Emiliano ha lasciato il corteo per rientrare in Puglia, a Foggia.

«Ho lasciato il corteo della pace a Roma appena ricevuta la notizia del ritrovamento dell’elicottero e sto prendendo il treno per tornare in Puglia, a Foggia, per stare vicino a tutte quelle persone che in questo momento stanno vivendo momenti di angoscia molto profonda e a coloro che hanno effettuato le ricerche e che dovranno gestire questa fase molto dolorosa e complessa dal punto di vista umano. A bordo dell’elicottero c’erano sette persone che hanno tutte perso la vita. È un momento terribile che ci lascia sgomenti». Lo ha scritto Emiliano sulla sua pagina Facebook.

«Siamo profondamente scossi dalla morte delle sette persone che erano a bordo dell’elicottero precipitato tra le Isole Tremiti e Foggia e, in particolare, dalla morte del collega medico del servizio 118, Maurizio De Girolamo, che smontava dal turno di notte e stava facendo ritorno a casa». Lo afferma  l’assessore alla Sanità della Regione Puglia, Rocco Palese. «E' una grave perdita non solo per la sua famiglia, a cui vanno tutto il nostro cordoglio e la nostra vicinanza, ma per l’intero sistema sanitario pugliese che, non va mai dimenticato, è fatto - aggiunge Palese - di medici ed operatori sanitari che lavorano alacremente con spirito di servizio e abnegazione, spesso mettendo anche a rischio la propria vita pur di garantire assistenza ai cittadini».

La solidarietà del mondo della politica 

«Addolorato per la tragedia avvenuta nei cieli del Gargano, dove un elicottero partito dalle Tremiti e diretto a Foggia è precipitato». Lo scrive su Twitter il ministro alle Politiche europee, Raffaele Fitto.

«Prego per le vittime: la famiglia slovena in vacanza in Puglia, per il medico del 118 che stava tornando a casa, per il pilota e il co-pilota», aggiunge.

«Dolore e sgomento per il tragico incidente che, in Puglia, ha spezzato la vita di sette persone. La mia più sincera vicinanza va ai familiari delle vittime e a tutti coloro che sono coinvolti in questo dramma». Così il deputato pugliese di Forza Italia e viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto a proposito dell’elicottero precipitato nel foggiano.

«Esprimo sincero cordoglio da parte di tutto il gruppo di Forza Italia al Senato per la tragedia dell’elicottero precipitato nel foggiano in cui sono scomparse sette persone. Sincere condoglianze alle famiglie delle vittime e vicinanza all’intera comunità pugliese che vissuto con apprensione e sgomento la notizia di questo terribile incidente. Un ringraziamento a tutti i soccorritori e all’Aeronautica Militare per aver lavorato senza sosta in queste ore». Così, in una nota, la presidente del gruppo Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli. 

«Condoglianze alle famiglie dei quattro turisti sloveni, del medico e dei due piloti che hanno tragicamente perso la vita a Foggia, a causa dello schianto dell’elicottero su cui viaggiavano. Riposino in pace», è il twitter del ministro del Turismo Daniela Santanchè alla notizia della morte delle persone a bordo dell’elicottero.

«La tragedia dell’elicottero precipitato in provincia di Foggia mi addolora nel profondo del cuore. In questo momento di angoscia, il mio pensiero insieme ai più sinceri sentimenti di cordoglio e vicinanza va alle famiglie delle vittime, ai loro cari e alla comunità pugliese. Vorrei ringraziare l’opera di tutti i soccorritori e dei nostri militari dell’Aeronautica di Gioia del Colle che hanno partecipato alle ricerche del velivolo». Lo scrive in una nota il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia, Giorgio Mulè.

Il cordoglio dell'ordine dei medici

«Ancora una morte sul lavoro, questa volta di un collega del 118 che tornava a casa a fine turno. Siamo vicini alla famiglia del dottor Maurizio De Girolamo, che, vittima di questa tragedia così assurda, ha pagato con la vita la sua abnegazione». Così il presidente della FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli, dopo aver appreso la notizia del ritrovamento dell’elicottero di Alidaunia disperso da questa mattina. Nessun superstite tra l'equipaggio e i passeggeri. A bordo, anche un medico del 118, Maurizio De Girolamo, 64 anni, che rientrava da un turno di guardia alle Tremiti. «Il nostro collega - continua Anelli - ha sacrificato la sua vita per portare l’assistenza del Servizio sanitario nazionale sin nelle piccole isole, luoghi di frontiera dove è più difficile assicurare prestazioni sanitarie. A lui rendiamo onore, e dedichiamo il nostro impegno perché i medici non debbano mai più pagare con la vita le carenze organizzative, di organico, di sistema».

«Oggi ci scuote il dolore per una tragedia che ha colpito la nostra terra, la nostra Azienda, noi tutti». È così che il commissario straordinario della ASL Foggia Antonio Nigri esprime il cordoglio personale e dell’intera Azienda per il gravissimo incidente avvenuto questa mattina nei cieli di Capitanata.

Alidaunia operativa da 30 anni

Il velivolo precipitato a Foggia in cui hanno perso la vita 7 persone faceva parte della flotta area dell’Alidaunia, società di elitrasporto presente da trent'anni nel territorio foggiano. Dal 1985 in convenzione con la Regione Puglia garantisce il trasporto pubblico locale quotidiano tra Foggia e le Isole Tremiti. Alidaunia è titolare di servizi di protezione civile, elisoccorso 118 ed eliambulanza per conto di Pubbliche Amministrazioni in varie regioni d’Italia. «Siamo profondamente scossi per l’accaduto, non abbiamo ancora una chiara visione di cosa sia potuto accadere», ha commentato Roberto Pucillo amministratore delegato di Alidaunia che gestisce insieme alla figlia Valentina Roberta procuratore legale della stessa società.

Elicottero caduto nel Foggiano: sfuma l’ipotesi nebbia. Gli esperti: forse un evento meteo improvviso o un drone. Sarà cruciale l’esame dell’audio del Cvr (registratore vocale in cabina di pilotaggio) e della telemetria del Frd (registratore dati di volo). Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Novembre 2022.

Cosa è accaduto all’improvviso all’elicottero Alidaunia che nella mattinata di sabato stava percorrendo una rotta conosciuta, con piloti espertissimi e condizioni meteo definite «non proibitive»? È questa la domanda cui dovranno rispondere, in parallelo, l’inchiesta della Procura di Foggia e quella degli esperti dell’Ansv, l’Agenzia nazionale di sicurezza del volo. Ma nell’attesa di mettere insieme i pezzi di un puzzle complesso, una considerazione fa subito capolino: l’A109 si è ritrovato in una situazione imprevista.

La nebbia che fin dalle prime ore del mattino copriva parte del Gargano, spiega chi si sta occupando della questione, non è di per sé un problema. Luigi Ippolito e Andrea Nardelli, i due piloti, avevano probabilmente affrontato situazioni anche peggiori. Se ne avessero percepito la necessità, avrebbero potuto chiedere di andare sotto controllo radar e proseguire il volo in condizioni di volo strumentale, cioè lasciandosi guidare dal Centro di controllo di Brindisi che avrebbe tracciato per loro una rotta comunicando all’elicottero altitudine e direzione da seguire. Invece avevano scelto di volare «a vista». Il fatto che non abbiano chiesto ausilio radar è un particolare importante, perché - nella frammentarietà degli elementi raccolti finora - consente di poter dire che durante il volo è accaduto qualcosa di improvviso.

Ma cosa? Al momento sono possibili solamente ipotesi, che poi in realtà sono soltanto due. La prima: un peggioramento improvviso delle condizioni meteo, ad esempio una forte raffica di vento che ha schiacciato l’elicottero al suolo. La seconda: un fattore esterno. Ieri ad esempio qualcuno azzardava, in assenza di qualunque riscontro, la presenza di un drone...

Elicottero precipitato nel Foggiano, l'Ansv: «Scatola nera non è a bordo». Un testimone: «Ho visto l'aereo volare basso». L'uomo ha poi notato fumo dalla collina. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Novembre 2022.

 È continuata oggi nel Gargano l'attività del team dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (ANSV), sul luogo dove ieri è precipitato un elicottero che ha causato la morte di sette persone. Sono stati esaminati i resti del mezzo per acquisire elementi utili per definire la possibile dinamica dell’impatto dell’aeromobile.

«Ai fini dell’inchiesta non saranno invece disponibili i dati dei registratori di volo (le cosiddette «scatole nere»), perché la normativa aeronautica vigente non ne prevede obbligatoriamente l'installazione a bordo di aeromobili del tipo coinvolto nell’incidente», spiega una nota.

Ci sarebbe anche un testimone oculare che ha visto volare a bassa quota, prima dello schianto, l'elicottero dell’Alidaunia precipitato ieri mattina sul Gargano. Si tratta di un agricoltore che poco dopo avrebbe anche visto il fumo sollevarsi dalla collina. Al momento dell’incidente c'era una fitta nebbia in quella zona del Gargano. Il testimone oculare avrebbe anche fornito indicazioni ai militari per raggiungere la zona del disastro.

Intanto - si apprende - l’allarme alla centrale operativa dei carabinieri è arrivata dopo le 9.40 dalla Torre di controllo di Brindisi: gli operatori affermavano di aver perso il contatto gps con il velivolo.

Disastro nei cieli di Puglia: cinquanta vittime in cinquant’anni. Dopo la tragedia dell'elicottero precipitato nel Foggiano: nel 1972 lo schianto sulla Murgia, nel 2005 precipita l’Atr tunisino partito da Bari. Armando Fizzarotti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Novembre 2022.

L’incidente di volo avvenuto ieri mattina sul Gargano, 7 vittime sull’elicottero Alidaunia partito da Tremiti per Foggia, è il terzo disastro nei cieli di Puglia avvenuto nel giro di mezzo secolo, con un conteggio totale di 50 vittime.

Quel fokker schiantato sulla murgia Il primo avvenne esattamente il 30 ottobre 1972, 50 anni fa. Un Fokker F27-200 della Compagnia aerea Ati (Aero trasporti italiani), un bimotore ad elica targato I-ATIR, decollò alle 20, con 20 minuti di ritardo rispetto all’orario previsto, dall’aeroporto di Napoli-Capodichino per Bari - Palese, dove avrebbe dovuto fare scalo per poi raggiungere lo scalo di Brindisi-Casale.

Ai comandi, il comandante Giuseppe Cardone, 34 anni, il secondo pilota Bruno Cappellini, 32 anni, e l’ufficiale di rotta Antonio Di Bella, 28 anni.

A bordo, oltre ai tre membri dell'equipaggio, si erano imbarcati 22 passeggeri e 2 tecnici di volo dell'ATI fuori servizio. Il volo era proseguito regolarmente fino a circa 50 km dall'aeroporto di Bari quando il Comandante Cardone comunicò via radio di essere in vista della pista di atterraggio, poi lo schianto sulla Murgia, nei pressi della Strada Provinciale 39 fra Poggiorsini a sud e Corato a nord. Nessun sopravvissuto fra i 27 occupanti del velivolo, fra equipaggio e passeggeri, fra i quali due suore di Catania. Le vittime pugliesi furono Marino Brugoli, di Molfetta, Vittorio Capoccello, 34 anni di San Pancrazio Salentino, Roberto Chiurazzi, di Bari, Anna Colazzo, di Lecce, Pasquale De Santis, di Lecce, Romano Faraoni, di Bari, Maria Sofia Merico De Santis, di Lecce, Adolfo Orsini, 40 anni, di Bari, Donato Palermino, di Bari.

Dall’inchiesta emerse che l’incidente fu molto probabilmente dovuto all’errore del pilota che credeva di essere in vista della pista di Bari, mandando invece il Fokker a «spanciare» sul terreno alla velocità di 400 chilometri orari quando era ancora distante 50 chilometri dallo scalo del capoluogo, scendendo ad un’altitudine troppo bassa rispetto al territorio sorvolato.

Fondata nel 1963, l’Ati fu poi nel 1994 integrata in Alitalia, che a sua volta ha chiuso i battenti l’anno scorso per cedere il passo a Ita Airways come Compagnia di bandiera dell’Italia.

Quel maledetto volo per la Tunisia La macchina del tempo ci porta ora a 33 anni dopo lo schianto mortale sulla Murgia. È il 6 agosto del 2005, siamo in piena estate e 35 turisti hanno preso posto su un aereo charter della Compagnia tunisina Tuninter che dall’aeroporto di Bari Palese deve portarli a godersi le vacanze sull’isola di Djerba, famosa località turistica della Tunisia.

Sono le 14,32 quando l’Atr 72-202 con numero di registrazione TS-LBB stacca le ruote dalla pista dell’aeroporto pugliese, pilotato dal capitano Chafik Al Gharbi, ufficiale di 45 anni con un'esperienza di 7.182 ore di volo, e dal copilota 28enne Ali Kebaier Al-Aswad, con all'attivo 2.431 ore di volo. Un’ora dopo il decollo l’Atr vola a 7 chilometri di altitudine, quando uno dopo l’altro i due motori si spengono. Il velivolo si trova in prossimità della Sicilia. Il comandante chiede al controllo traffico di Palermo un atterraggio di emergenza a Punta Raisi, lo scalo del capoluogo siciliano, leggendo sugli indicatori una disponibilità residua di quasi due tonnellate di carburante, e cerca invano di riavviare i motori.

Quindi l’ammaraggio di fortuna alla velocità di 233 chilometri orari, 43 chilometri a nord est di Palermo. L’Atr, ormai morto, si spezza in tre tronconi. Nel disastro morirono 16 persone su 39: un assistente di volo e 15 dei 35 passeggeri.

Le autopsie successivamente indicarono che la maggior parte delle vittime morì al momento dell'impatto, mentre otto passeggeri annegarono.

Fra le cause dell’incidente, il montaggio, la sera precedente, di indicatori di carburante non adatti all’Atr-72, ma calibrati per l’Atr-42. L’aereo aveva quindi nei serbatoi meno carburante di quanto indicato dai sensori. L’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo accertò anche errori da parte dei due piloti nella gestione dell’emergenza.

Il Tribunale di Palermo condannò per disastro colposo, omicidio plurimo colposo e lesioni colpose gravissime il comandante del velivolo a 6 anni e 8 mesi e a pene comprese fra i 5 e i 6 anni il copilota e altri cinque fra dirigenti e tecnici della Compagnia. Tutti sono a piede libero all’estero.

Il disastro viene ricordato a Bari dall’Associazione «Disastro Aereo Capo Gallo 6 agosto 2005».

Sull’elicottero caduto in Puglia non c’era la scatola nera. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno  il 6 Novembre 2022.

Recuperati i corpi delle sette vittime. Ad essere estratti per ultimi dai rottami dell'A109 di Alidaunia sono stati i due piloti. Le salme sono state portate nell'obitorio dell'ospedale di San Severo, dov'è stata prevista un'assistenza psicologica per i parenti

L’elicottero non aveva a bordo scatole nere perché la normativa non prevede che siano obbligatorie su questo tipo di aeromobili.  Tutti i sette corpi delle persone che erano a bordo dell’elicottero caduto ieri mattina nelle campagne di Apricena, in località Castelpagano, in provincia di Foggia, sono stati recuperati.

Le operazioni di recupero sono terminate poco prima delle 14 di oggi e vi hanno partecipato il personale del comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Foggia alla presenza del personale dell’ANSV, delle forze dell’ordine e del sostituto procuratore Matteo Stella, della procura di Foggia. Ad essere estratti per ultimi dai rottami dell’A109 di Alidaunia sono stati i corpi dei due piloti. Le salme sono state portate nell’obitorio dell’ospedale di San Severo, dov’è stata prevista un’assistenza psicologica per i parenti.

Gianni Grassi, presidente del soccorso alpino e speleologico della Puglia, ha descritto gli stati d’animo dei soccorritori nelle ultime 24 ore trascorse prima a cercare l’elicottero aw109 dell’ Alidaunia scomparso dai radar e poi a recuperare i corpi sei sette a bordo.“È stato psicologicamente stressante per tutti i miei uomini. Ci siamo occupati delle ricerche e ora della movimentazione delle salme verso il centro di coordinamento supportando i vigili del fuoco che materialmente hanno estratto sei delle vittime dal cabinato dell’elicottero. Un unico corpo invece era fuori dal mezzo: quello del medico del 118. Sono stati momenti davvero duri”.

Le vittime sono: il medico 64enne di San Severo, Maurizio De Girolamo, i piloti foggiani, il 54enne Luigi Ippolito e il 39enne Andrea Nardelli, oltre alla famiglia slovena composta dal 59enne Bostjan Rigler, direttore tecnico della tv slovena Pro Plus, la moglie 49enne Mateja Curk Rigler e i figli di 13 e 14 anni Liza e Jon. “I parenti dei turisti sloveni non sono arrivati, ma sta arrivando il console e non so se abbiano delegato lui” ha detto il capo della Procura di Foggia, Ludovico Vaccaro, che ha riferito che per quanto riguarda le autopsie “stiamo valutando in che misura procedere”. Sui piloti sarà effettuato l’esame, “verosimilmente non sugli altri passeggeri”.

“Una cosa fatta immediatamente, sin da ieri mattina, è l’aver preso contatti con l’ Agenzia nazionale per la sicurezza del volo: una autorità investigativa amministrativa, istituita nel 1999, che opera in posizione di terzietà sotto la vigilanza della presidenza del consiglio dei ministri. Questo per avere una investigazione più completa possibile ed evitare interferenze o incompatibilità o conflittualità“.

L’ Ansv ha nominato subito due investigatori che sono arrivati sul posto: un ingegnere aeronautico e un pilota. Anche la procura di Foggia ha nominato “subito tre consulenti tecnici – ha spiegato il procuratore Vaccaro – un professore universitario esperto nella materia e che già ha avuto esperienze analoghe in materia di drammatici eventi di questo tipo di disastri aerei, un colonnello dell’aeronautica ingegnere e un colonnello pilota, per avere la parte teorica e pratica, sia da un punto di vista ingegneristico, che di esperienza di pilota“.

Sempre in procura a Foggia è stato aperto un fascicolo per i reati di disastro aviatorio colposo e omicidio colposo plurimo a carico di ignoti. Le indagini sono affidate al Nucleo investigativo del comando provinciale dei Carabinieri di Foggia. In assenza di scatole nere, il procuratore capo Vaccaro si è comunque detto fiducioso. “La scatola nera aiuta, ma anche se non c’è, i tecnici sono davvero esperti, sono intervenuti subito, stanno facendo i rilievi sul posto, quindi siamo fiduciosi che una ricostruzione si farà a prescindere dalla scatola nera” aggiungendo che “Il rotore” dell’elicottero è stato trovato a circa 100-150 metri di distanza, rispetto alla fusoliera. Dunque, “verosimilmente, il velivolo ha impattato con il suolo prima con il rotore, si è impennato e poi ha impattato il resto dell’elicottero“.

È una delle tante ipotesi che dovranno verificare i tecnici. Un’idea sull’accaduto “ce la siamo fatta, ma non l’abbiamo ancora comunicata ai tecnici: sia perché non abbiamo ancora avuto un incontro, sia perché io voglio che si facciano prima loro l’idea per non condizionarli in nessun modo. È ovvio – ha concluso Vaccaro – che abbiamo esaminato già i primi atti d’indagine, abbiamo un’idea, ma come sempre si fa quando si svolgono indagini, bisogna stare attenti anche con il farsi un’idea”.

Sulla rimozione del mezzo, se i tecnici “consentiranno il taglio della carcassa – ha spiegato il procuratore -, allora i tempi saranno più brevi“. Tutti “gli accertamenti sono stati fatti nel massimo rispetto delle salme, ma insieme anche nell’esigenza di preservare le fonti di prova. La prima cosa che abbiamo fatto – racconta Vaccaro – è stata accertare se ci fossero dei sopravvissuti, questo ha comportato un po’ di tempo. Ieri sera abbiamo avuto la certezza che purtroppo c’erano sette morti, cinque passeggeri e due membri dell’equipaggio. A quel punto – ha spiegato – le operazioni non sono potute proseguire, perchè non potevano essere svolte in sicurezza, per la pioggia, perché l’elicottero si trova su un pendio e rischiava di scivolare, si sentiva un odore di cherosene, di carburante, che poteva anche creare rischio di incendio. Per cui si sono dovute sospendere e proseguire questa mattina”.

Ci sarebbe un testimone oculare che ha visto volare a bassa quota, prima dello schianto l’elicottero dell’Alidaunia precipitato sabato mattina sul Gargano. Si tratta di un agricoltore che subito dopo l’impatto rumoroso avrebbe anche visto il fumo sollevarsi dalla collina. Al momento dell’incidente c’era una fitta nebbia in quella zona del Gargano. Il testimone oculare avrebbe anche fornito indicazioni ai militari per raggiungere la zona del disastro. Redazione CdG 1947

Foggia, le due ipotesi sull’elicottero precipitato: guasto meccanico o disorientamento spaziale. Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022.

L’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo apre un’indagine e invia gli investigatori. L’attenzione è concentrata anche sulle condizioni meteo nella zona. Ecco cosa sappiamo. 

Guasto meccanico o disorientamento spaziale causato dalla scarsa visibilità, un po’ com’è successo vicino Los Angeles al pilota dell’elicottero con a bordo il cestista Kobe Bryant. Sono questi i due filoni principali su cui si concentrano le indagini sull’AgustaWestland AW109 precipitato nel Gargano. L’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (Ansv) ha inviato un gruppo di esperti per raccogliere il materiale sul luogo dell’impatto, ma anche per studiare i documenti ufficiali della società, dalla manutenzione al piano di volo fino all’esperienza di chi era ai comandi in quel momento. 

Le indagini

Per ora gli investigatori guardano ovviamente a tutte le ipotesi, compresa quella delle avverse condizioni meteo. In quel momento sull’area c’era maltempo, con raffiche di vento attorno ai 35 chilometri orari e pioggia, ma le condizioni — stando a chi ha avuto modo di leggere i bollettini — non sembravano proibitive per un elicottero di quelle dimensioni. I detriti sono stati trovati in una zona rurale, a Castelpagano di Apricena, dopo che la torre di controllo ha perso il contatto attorno alle 10.40. Nessuno dei siti di tracciamento dei voli è stato in grado di individuare il percorso dell’elicottero.

L’elicottero

L’elicottero — con marche di identificazione I-PIKI — ha ricevuto il certificato di navigabilità di tipo «standard» da parte dell’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac) nel novembre 2020, stando ai documenti ufficiali. L’elicottero risulta assemblato nel 2001 ed è stato utilizzato in passato da altri società ed enti europei, pure per eventi come il Gran Premio di Formula uno. 

La dinamica

I piloti del volo dalle Isole Tremiti a Foggia, stando alle prime informazioni raccolte, non avrebbero lanciato alcun allarme, segno che qualcosa potrebbe essere successo all’improvviso, come ad esempio un guasto meccanico grave che ne ha compromesso il volo. Ma il silenzio, spiegano gli esperti, può essere dovuto anche al fatto che la scarsa — o quasi nulla — visibilità potrebbe non aver fatto capire ai piloti di aver perso i riferimenti spaziali cruciali per procedere.

Il sospetto

Per questo una delle ipotesi è il disorientamento spaziale: è una situazione in cui i piloti sono sottoposti a diverse forze accelerative che, unite a una situazione problematica (come appunto la scarsa visibilità o il maltempo), possono dare origine a sensazioni illusorie che rendono impossibile capire dove ci si trovi. In questi casi le informazioni degli strumenti a bordo aiutano, ma è anche vero che in qualche occasione questi dati causano una maggiore confusione perché in contrasto con le sensazioni dei piloti.

Il precedente

Il disorientamento spaziale è la causa principale dello schianto dell’elicottero del cestista Kobe Bryant nel gennaio 2020. Una volta dentro il fronte nuvoloso e senza alcun punto di riferimento geografico il pilota ha perso l’orientamento indicando, erroneamente, al controllore di volo che stava riprendendo quota per uscire dal fronte nuvoloso, ma nella realtà l’elicottero stava precipitando. Secondo le statistiche internazionali presi i soli incidenti causati dal disorientamento spaziale nell’80% dei casi questi sono dovuti al tipo I (disorientamento non riconosciuto) su un totale di tre categorie.

Elicottero caduto, il padre del pilota: «Sapevano tutti che c’era maltempo, chi ha dato l’ok?». Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2022.

Francesco Nardelli, il padre di Andrea Nardelli, il pilota di 39 anni deceduto nello , accusa: «Sapevamo tutti che c’era una forte perturbazione sul Gargano, tant’è che venerdì l’elicottero non era partito. Sapevamo che le condizioni non erano ideali. Non so da chi sia arrivato l’ok per il decollo, chissà forse dalla torre di controllo».

Domenica mattina il papà del pilota si è recato sul luogo della tragedia. «Perdere un figlio così a 39 anni è un dolore inspiegabile. Mio figlio ha dedicato una vita agli elicotteri. Si è brevettato nel 2007, ed è cresciuto nell’Alidaunia. Era un pilota esperto. Non ha mai avuto alcun problema. L’ultima volta che l’ho sentito è stato venerdì sera, ma abbiamo parlato del più e del meno. Era sereno».

Sul luogo della tragedia anche il magistrato Matteo Stella per fare un nuovo sopralluogo. «Siamo qui per capire quando ci restituiranno il corpo di mio figlio — ha detto ancora Francesco Nardelli —. Spetterà ai periti e ai tecnici dell’Aeronautica accertare cosa sia successo ieri mattina. Con mio figlio c’era un veterano dei piloti dell’Alidaunia. Ma a prescindere dalle cause, questo non ci restituirà nostro Andrea».

La strage dell'elicottero e le accuse per l'ok al volo. "Si sapeva del maltempo". Recuperate le salme delle vittime, indagine per disastro colposo. Manca ancora la scatola nera. Patricia Tagliaferri su Il Giornale il 7 Novembre 2022.

Sono stati recuperati tra le lamiere dell'elicottero precipitato sabato mattina in una zona impervia del Gargano i corpi delle sette vittime della tragedia avvenuta in provincia di Foggia, nella frazione di Castelpagano ad Apricena. L'operazione è stata rinviata di un giorno a causa del maltempo, che rimane anche l'indiziato numero uno dell'incidente costato la vita ad una coppia di turisti sloveni, ai loro due figli adolescenti, ad un medico del 118 e ai due piloti. Tutti passeggeri dell'elicottero A109 della compagnia Alidaunia proveniente dalle isole Tremiti. Passeggeri che si trovavano per caso a bordo, dopo che il meteo aveva cambiato i loro programmi di viaggio.

Le salme sono state trasportate prima in un centro operativo non lontano dal luogo dello schianto e poi all'obitorio dell'ospedale di San Severo per il riconoscimento, dov'è stata prevista l'assistenza psicologica per i parenti. Probabilmente, come ha spiegato il capo della Procura di Foggia, Ludovico Vaccaro, verrà effettuata l'autopsia solo sui corpi dei due piloti, Luigi Ippolito, 54 anni, e Andrea Nardelli, 39 anni. I parenti della famiglia slovena, composta dal 59enne Bostjan Rigler, direttore tecnico della tv slovena Pro Plus, la moglie 49enne Mateja Curk Rigler e i figli di 13 e 14 anni Liza e Jon, ieri non erano ancora arrivati in Puglia. Era però atteso il console, che potrebbe essere stato delegato ad occuparsi delle necessarie formalità.

Francesco Nardelli, il papà del pilota più giovane, ieri era sul luogo della tragedia per ricordare quel figlio con la passione del volo che era in Alidaunia da 15 anni. Inconsolabile e incredulo per l'accaduto si chiedeva perché l'elicottero fosse stato fatto partire con quel tempo: «Sapevamo tutti che c'era una forte perturbazione sul Gargano, tant'è che venerdì il velivolo non era partito. Sapevamo che le condizioni non erano ideali. Non so da chi sia arrivato l'ok per il decollo, chissà forse dalla torre di controllo». Sul luogo del disastro era infatti in corso un temporale, c'era vento e anche la nebbia. Anche se nulla di proibitivo per un elicottero di quelle dimensioni. Non si esclude neanche l'ipotesi del guasto meccanico o del disorientamento spaziale, che potrebbe aver confuso i piloti. Sarà l'inchiesta aperta dalla Procura di Foggia per disastro aviatorio colposo e omicidio colposo plurimo a carico di ignoti a fare luce sull'accaduto. Il procuratore Vaccaro non si è voluto sbilanciare, seppur ammettendo di essersela fatta un'idea ma di non averla ancora comunicata ai tecnici. Sono stati nominati cinque consulenti, due da parte dell'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (un ingegnere aeronautico e un pilota) che indaga in parallelo e tre da parte della Procura (un professore universitario esperto in incidenti aerei e due ufficiali dell'Aeronautica di cui un ingegnere e un pilota). Al momento, però, non avranno il supporto della scatola nera, che non è stata ancora trovata e non è detto che l'elicottero caduto ce l'avesse, perché non tutti i velivoli ne sono provvisti. Il rotore dell'elicottero, invece, è stato trovato a circa 100-150 metri di distanza rispetto alla fusoliera. Il velivolo potrebbe dunque aver impattato con il suolo prima con il rotore, per poi impennarsi e schiantarsi con il resto della fusoliera. I rottami, che si trovano su un pendio e rischiavano di scivolare con il terreno fangoso, sono stati messi in sicurezza per preservare le fonti di prova. L'amministratore unico di Alidaunia, Francesco Nitti, ha espresso la vicinanza di tutta la compagnia ai familiari delle vittime: «Consapevole di quanto possa essere poca cosa in confronto all'abisso di sofferenza e dolore in cui sono sprofondati. Mai ad un genitore dovrebbe essere consentito di sopravvivere ad un figlio».

L'errore "fatale" e la strage: quelle 256 vittime sull'Airbus precipitato. Ad aprile 1994 un Airbus della China Airlines sta per atterrare a Nagoya, Giappone, quando per un errore del primo ufficiale, l'aeromobile precipita al suolo con 271 persone a bordo. Nello schianto moriranno 256 persone. Mariangela Garofano su Il Giornale il 06 novembre 2022

Tabella dei contenuti

 La dinamica dell’incidente

 Le indagini e le responsabilità

È il 26 aprile 1994 quando dall'aeroporto cinese di Taipei-Taoyuan decolla il volo China Airlines 140 diretto a Nagoya, Giappone. Ma l’Airbus 300, che ospita a bordo 256 passeggeri e 15 membri dell’equipaggio, si schianta al suolo in fase di atterraggio, causando il decesso di 264 persone, mentre 7 restano ferite. L’incidente del volo China Airlines 140 è il più grave mai accaduto alla compagnia di bandiera cinese e il secondo più grave avvenuto su suolo giapponese.

La dinamica dell’incidente

Il velivolo, un Airbus A300B4-622R della compagnia China Airlines, decolla alle 8.53 del 26 aprile 1994 dall’aeroporto di Taipei, con destinazione Nagoya, Giappone. Alle 11.53 l’aereo viene autorizzato ad atterrare all’aeroporto giapponese, ma il copilota inserisce per errore la modalità To/Ga (Take-Off/Go-Around). Il To/Ga è una funzione posta nelle automanette degli aeromobili, che presenta due modalità. La modalità ”take-off”, cioè di decollo e “go round”, che indica la cosiddetta “riattaccata”, ovvero l’interruzione della manovra di atterraggio.

L’errore porta i motori del velivolo alla massima potenza e interrompe la fase di atterraggio, facendo alzare improvvisamente il muso dell’aereo. Quando il comandante Wang Lo-Chi si accorge dello sbaglio commesso, ordina al primo ufficiale di disinserire il To/Ga e riportare il muso del velivolo verso il basso.

Ma sebbene il primo ufficiale esegua gli ordini ricevuti per ben due volte, l’aereo non risponde ai comandi. A questo punto il comandante chiede di diminuire la potenza dei motori, affinché il velivolo possa riprendere la discesa. Il velivolo è ormai sceso a un’altitudine di 510 piedi e la pista dista solo 1,8 chilometri, ma i piloti non se ne accorgono e spostano le manette in avanti e poi indietro. Il comandante decide di spingere in contemporanea la barra di comando in avanti, compiendo quello che in gergo viene definito un go-round manuale.

I piloti avvisano la torre di controllo della decisione di eseguire una riattaccata, ma il velivolo sta salendo troppo velocemente. Il Ground Proximity Warning System (Gpws) segnala all’equipaggio che l’aereo si trova in prossimità del suolo e alle 11.15 il volo China Airlines 140 si schianta a soli 110 metri dalla pista d’atterraggio. L’incidente causerà il decesso di 256 delle persone a bordo dell’aereo, 153 dei quali di nazionalità giapponese, 63 taiwanesi, 39 cinesi e 1 passeggero filippino.

Le indagini e le responsabilità

A occuparsi delle indagini per stabilire le cause dell’incidente sarà il Ministero dei Trasporti giapponese. Gli investigatori, dopo aver esaminato le scatole nere, attribuirono le responsabilità a vari fattori. La prima causa che provocò il terribile incidente venne imputata al copilota, che inserì per errore la modalità To/Ga. Venne stabilito inoltre che lo sbaglio del primo ufficiale era dovuto anche al design della manetta del velivolo.

Altri fattori che contribuirono alla sciagura furono l’inserimento del pilota automatico in modalità To/Ga, che si attivò andando a generare un conflitto con le manovre del primo ufficiale, e l’incapacità del comandante di comprendere la situazione che si era venuta a creare. Le indagini infine rivelarono che il comandante era stato addestrato a pilotare un Airbus 300 tramite un simulatore di volo a Bangkok, che aveva un sistema di disattivazione della modalità To/Ga differente. Questo, unito alla sua precedente esperienza come pilota di Boeing 747, fece credere al copilota che bastasse spingere la barra di comando in avanti per evitare il peggio.

Venne alla luce che nove mesi prima dell’incidente del volo China Airlines 140, Airbus aveva diramato un bollettino a tutte le compagnie aeree sue clienti di modificare il sistema di volo di tutti gli A300 e A310, per permettere ai piloti di disattivare il pilota automatico manualmente dalla barra di comando. Ma China Airlines non ritenne che la modifica fosse urgente.

Dato che i due piloti morirono nella tragedia, non poterono essere perseguiti penalmente. Tuttavia fu intentata una causa collettiva contro China Airlines, che fu costretta a pagare circa 5 miliardi di yen a 232 dei passeggeri coinvolti nell’incidente e contro Airbus Industries, che fu però esonerata da ogni responsabilità. Alcune delle vittime sopravvissute al disastro e i parenti dei deceduti stabilirono però che il risarcimento ottenuto dalla compagnia aerea fosse inadeguato e nel 2007 China Airlines pagò loro un indennizzo aggiuntivo.

Corato, l’aereo caduto e i 27 morti del 1972. Il presidente Leone nella nuova sede «Gazzetta». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Ottobre 2022.

È il 31 ottobre 1972. Su La Gazzetta del Mezzogiorno la cronaca di un gravissimo incidente aereo avvenuto nei cieli pugliesi. «Un Fokker 27 dell’ATI in servizio sulla linea Napoli-Bari-Brindisi è precipitato ieri sera, per cause ancora da accertare, nel territorio di Corato: 27 i morti, 22 passeggeri e 5 componenti dell’equipaggio. Cosa sia accaduto non si sa ancora nemmeno approssimativamente. Mentre scriviamo giungono sempre nuovi particolari. Un miracolo ha salvato, a quanto pare, un’intera famiglia di contadini che risiedono in una masseria sulla quale l’aereo s’è schiantato, dopo aver perduto un’ala contro un albero. Sarebbero stati uccisi tutti gli animali della masseria, mentre sono rimasti illesi i componenti della famiglia che, in quel momento, stavano cenando. Sono stati proprio i contadini della masseria a correre a Corato per avvertire, ancora sotto choc, i carabinieri».

Il Ministero dei Trasporti e dell’Aviazione Civile nomina subito una commissione d’inchiesta che ​​si chiuderà attribuendo il disastro ad un errore di valutazione da parte dei piloti.

Cinquant’anni dopo, in realtà, restano ancora molti dubbi in merito alla dinamica dell’incidente: oggi, nel cuore dell’Alta Murgia, tra Corato e Poggiorsini, una lapide ricorda i nomi delle 27 vittime. Sullo stesso numero della Gazzetta compaiono le foto della visita del presidente della Repubblica Giovanni Leone alla nuova sede barese del quotidiano, in via Scipione l’Africano.

Dopo quasi cinquant’anni, infatti, i cronisti hanno lasciato lo storico palazzo di piazza Roma – oggi piazza Moro – costruito dall’architetto Saverio Dioguardi. In quella stessa giornata, il Capo dello Stato ha inaugurato anche i nuovi edifici delle Facoltà di Giurisprudenza e di Ingegneria e ha persino presenziato ad una riunione del Consiglio comunale di Bari. Leone, si legge sulla Gazzetta, ha esaltato la funzione del giornalismo quale insostituibile stimolo al progresso civile e sociale del Paese: è stato Leonardo Azzarita, presidente del Cda ed ex direttore del giornale, a rivolgere al Presidente l’indirizzo di saluto. In quell’occasione Leone ha consegnato le medaglie d’oro di fedeltà al lavoro ai componenti della famiglia della Gazzetta con oltre 25 anni di servizio, a partire dal direttore Oronzo Valentini (giornalista da 31 anni).

Dopo i saluti con i redattori, Leone ha incontrato il consiglio di fabbrica nell’area tipografica e, infine, gli altri dipendenti con le loro famiglie, insieme a molte autorità, nel salone delle rotative.

Sulle pagine del quotidiano sono impressi i ricordi di una giornata storica, per la Gazzetta e per la città intera.

Falsi avvisi, errori, picchiate: quell'aereo "impazzito" nei cieli australiani. A ottobre 2008 dall'aeroporto australiano di Perth decolla il volo Qantas 72, con destinazione Singapore. Ma dopo qualche ora i piloti non riescono più a governare l'aereo, che compie brusche manovre in picchiata, causando diversi feriti ma per fortuna, nessuna vittima. Mariangela Garofano il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

 L’incidente del volo Qantas 71

Il 7 ottobre 2008 il volo Qantas 72 decolla dall'aeroporto di Singapore-Changi, diretto a Perth, in Australia. Il velivolo, un Airbus A330-303 che trasporta 303 passeggeri e 12 membri dell’equipaggio, sarà costretto a effettuare un atterraggio d’emergenza all'aeroporto di Learmonth, in Australia. A causare l’incidente una serie di manovre improvvise durante il volo, che provocheranno diversi feriti tra i passeggeri e i membri dell’equipaggio.

L’incidente

Quel giorno di ottobre del 2008 l’Airbus della Qantas, che vola con il numero 72, è pilotato dall’ex pilota della Marina militare statunitense Kevin Sullivan, con 13.592 ore di volo alle spalle. Peter Lipsett è il primo ufficiale e ha accumulato 11,650 ore di esperienza di volo e Ross Hales secondo ufficiale, 2,070. Alle 09.32 del 7 ottobre l’Airbus decolla dall’aeroporto di Perth, diretto a Singapore con 315 persone a bordo. Le prime ore di crociera trascorrono senza intoppi, ma alle 12.40 una delle tre unità di riferimento inerziali dei dati aerei, chiamato Adiru, inizia a inviare dati errati al computer di volo.

I piloti ricevono una serie di messaggi allarmanti sull’Ecam (Electronic Centralised Aircraft Monitor), ovvero un sistema che informa i piloti circa lo stato dei motori, dei sistemi e degli impianti di volo. I messaggi avvisano l’equipaggio che vi sono delle irregolarità ai sistemi di riferimento inerziali e al pilota automatico. Non solo: vengono segnalati problemi di stallo e di overspeed, cioè di velocità eccessiva. Il comandante allora prende il controllo manuale del velivolo, poco dopo riesce a reinserire l'autopilota, ma dopo 15 secondi si disattiva nuovamente.

Alle 11.42 l’aereo, ormai ingovernabile, compie una manovra in picchiata, scendendo di 650 piedi. Una seconda manovra improvvisa fa scendere il velivolo di altri 400 piedi, causando attimi di terrore tra i passeggeri. Coloro che non indossano la cintura di sicurezza allacciata vengono sbalzati dal loro posto e altri restano schiacciati dai bagagli posti nelle cappelliere sopra le loro teste, che si apriranno a causa della violenza delle manovre. Fortunatamente l’equipaggio riesce a stabilizzare l’Airbus e a compiere un atterraggio di emergenza nel vicino aeroporto di Learmonth, dove i feriti vengono trasportati in ospedale. 11 passeggeri e 1 membro dell’equipaggio riporteranno ferite gravi, mentre gli altri 99 passeggeri e 8 membri dell’equipaggio lievi ferite.

Le indagini

Alle indagini per stabilire cosa ha provocato un incidente che stava per trasformarsi in tragedia, partecipano l'Autorità australiana per la sicurezza dell'aviazione civile (Casa), la Qantas, il Bureau d'Enquêtes et d'Analyses pour la sécurité de l'aviation civile (Bea) e Airbus. Oltre alle scatole nere, contenenti le registrazioni dei dati di volo e della cabina di pilotaggio, vengono analizzati gli Adiru. Gli investigatori inviano gli Adiru alla casa madre di progettazione negli Stati Uniti, la Northrop Grumman Corporation. Qui viene rilevato che gli aeromobili A330 e A340 equipaggiati con quegli Adiru rispondono erroneamente per un difetto al sistema di riferimento inerziale.

Nel rapporto preliminare l'Atsb indicherà l’Adiru numero 1 come “probabile origine dell'evento”. Dopo attente analisi si evinse che fu questo infatti a provocare: falsi avvisi di stallo, velocità eccessiva, informazioni di perdita di altitudine sul Primary Flight Display (Pfd) del comandante e numerosi avvisi sull’Ecam. Il rapporto finale, stilato a dicembre 2011, additava come cause dell'incidente una combinazione di errori che uniti provocarono le manovre improvvise. Le responsabilità vennero imputate al design difettoso del software del computer primario di controllo di volo degli A330 e A340, e a un guasto di uno dei tre Adiru di bordo.

L’incidente del volo Qantas 71

Qualche mese dopo l’incidente del volo Qantas 72, più precisamente il 27 dicembre 2008, un altro A330 decollato da Perth diretto a Singapore, presenta gli stessi problemi. Durante la fase di crociera, a circa 36.000 piedi, il pilota automatico si disattiva improvvisamente e sull’Ecam compaiono messaggi indicanti un guasto all’Adiru numero 1. Fortunatamente i piloti riusciranno a seguire la procedura rilasciata da Airbus dopo l'incidente occorso al volo 72 e atterrano a Perth senza alcuna conseguenza. Ma come mai due velivoli partiti dalla stessa città hanno riportato gli stessi problemi? Il secondo incidente darà il via ad una serie di speculazioni riguardo a possibili interferenze provenienti dalla vicina stazione di comunicazione navale "Harold E. Holt". Ma in poco tempo l'ipotesi viene scartata e il direttore della stazione definirà le presunte interferenze “altamente improbabili”.

Il cuore del comandante, lo sciopero, la confusione: quelle morti choc sul volo. Massimo Balsamo il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

118 morti, nessun sopravvissuto. Questo il tragico bilancio del disastro di Staines, il secondo incidente aereo più grave nel Regno Unito dopo il volo Pan Am 103 del dicembre 1988

Tabella dei contenuti

 Una tragedia nazionale

 Le indagini sul disastro di Staines

Tanti piccolo fattori in gioco, diverse defaillance che - messe insieme - hanno causato una delle tragedie più sanguinose del Novecento. Il disastro di Staines del 18 giugno 1972 ha sconvolto il Regno Unito e l’Europa intera, una vera e propria strage: 118 morti e nessun sopravvissuto, nonostante il repentino intervento delle autorità sanitarie.

Il British European Airways 548 era un volo di linea tra l'aeroporto di Londra-Heathrow e l'aeroporto di Bruxelles-National. Spesso sfruttata da imprenditori e persone d’affari, la tratta registrava quasi sempre il pienone. Figurarsi in un periodo di sciopero: in quei giorni, infatti, la International Federation of Air Line Pilots' Association proclamò una mobilitazione di protesta contro i numerosi dirottamenti aerei verificatisi all'inizio degli anni Settanta. Quel giorno, dunque, i 112 posti del Bea 548 risultarono occupati.

Una tragedia nazionale

L’incidente si verificò poco dopo il decollo, per l’esattezza dopo due minuti e mezzo. L’aereo si schiantò in un campo deserto, a pochissima distanza dalla città di Staines, a una manciata di metri da negozi e case. Sul posto arrivò immediatamente una residente, seguita da ambulanze e vigili del fuoco. Un quadro terribile: decine di morti distesi a terra. Solo un superstite, morto poco dopo l’arrivo dei medici per le gravi ferite riportate. Un bilancio terribile: 118 decessi, di cui 112 passeggeri e 6 membri dell’equipaggio.

Il disastro di Staines sconvolse il Regno Unito. La compagnia non aveva mai registrato incidenti aerei e non vi erano dubbi sull’efficienza dei mezzi. In particolare, all’inizio degli anni Settanta l’Hawker Siddeley Trident rappresentava l’orgoglio dell’aviazione britannica: un aereo di fabbricazione interamente nazionale, definita dagli esperti “un’auto sportiva” per le ottime prestazioni.

Un grande dolore, una nazione sotto choc, ma anche la voglia di scoprire la verità. Le indagini sul disastro di Staines partirono immediatamente. Quel 18 giugno 1972 fu un giorno tempestoso in quel di Londra, di quelli che danno filo da torcere, ma non al punto da fare precipitare un aereo. Le valutazioni delle autorità chiarirono da subito un dettaglio: l’aereo era caduto a picco, di colpo, un chiaro segnale che il velivolo era andato in stallo. Ma un aereo può andare in stallo per diverse ragioni: da un guasto al motore all’errore di un pilota.

Le indagini sul disastro di Staines

L’equipaggio era composto dall’esperto comandante Stanley Key (ex pilota della Raf, tra i più qualificati della compagnia), dal secondo ufficiale Jeremy Keighley in qualità di copilota e dal secondo ufficiale Simon Ticehurst nel ruolo di supervisore. V’era un gap generazionale tra i piloti, con qualche frizione, ma nulla di insanabile.

Gli investigatori analizzarono tutte le possibili strade: dal possibile problema tecnico all’errore umano, ma non senza ostacoli. In quel periodo, infatti, gli aerei britannici non erano obbligati ad avere il registratore di cabina, che avrebbe permesso di ricostruire l’esatta dinamica dei fatti. Ma il registratore di volo riuscì comunque a fornire dati molto utili. A partire da quelli sui motori: nessun guasto, funzionavano perfettamente.

Il crocifisso, i vestiti, la bomba: così la morte giunse dal cielo

Dopo aver esaminato nuovamente lo stato psicologico dei piloti, un importante contributo arrivò dagli esami autoptici. Il comandante Key, infatti, soffriva di coronaropatia e aveva avuto un piccolo infarto nelle ore immediatamente precedenti alla tragedia. In altre parole, capacità di ragionare fortemente compromessa, così come i riflessi.

Ma perché i due copiloti non intervennero? La risposta nei fascicoli: il loro addestramento era stato interrotto a causa della mancanza di personale ed entrambi erano molto inesperti. Anche per questo, dunque, qualcuno disattivò il sistema antistallo, o quantomeno fece confusione tra le leve di comando (molto simili tra loro).

L’Aaib (Air Accidents Investigation Branch) giunse alla conclusione che il disastro fu causato da più fattori: la tensione per lo sciopero incombente, l’insufficienza cardiaca peggiorata del comandante, la confusione tra le leve di comando, l’inesperienza dei copiloti (“giovani e impauriti”). Ogni anello della catena fu considerato ugualmente importante dagli investigatori.

Dopo l’incidente le autorità attuarono una serie di modifiche per impedire che incidenti simili si ripetessero. Tra gli interventi, la riprogettazione delle leve di comando e la dotazione di registratori di cabina su quasi tutti gli aerei di linea. La produzione del velivolo terminò nel 1978. Il disastro di Staines è il secondo incidente aereo più grave nel Regno Unito dopo il volo Pan Am 103.

Marco Giusti per Dagospia il 21 ottobre 2022.

Vi ricordate la storia di Raffaele Minichiello, detto Ralph? Reduce dal Vietnam italo-americano, nato a Melito Irpino nel 1949, trasferitosi a Seattle nel 1963, che vanta il più lungo dirottamento della storia, ben 19 ore, quando con una carabina prese in ostaggio l’equipaggio di un volo Los Angeles – San Francisco e, con quattro scali e un cambio di piloti, lo fece arrivare fino a Roma, 11 mila chilometri. 

In Italia fu preso e processato, ma come accade a molti svalvolati armati, divenne un eroe per gli italiani. Racconta la sua storia con molti particolari e un incredibile arredo di materiali d’epoca Alex Infascelli in “Kill Me If You Can”, visto oggi alla Festa del Cinema di Roma. Dopo averci dato “S Is for Stanley”, il documentario sull’autista di Stanley Kubrick e “Il mio nome è Francesco Totti”, indovinate su cosa, Infascelli si è innamorato di questo ormai dimenticato Rambo italiano, all’apparenza un tranquillo signore di settant’anni, che avrebbe tutte le caratteristiche per diventare protagonista di un grande film d’azione.

Uscito da un’Italia, anzi un’Irpinia povera e terremotata, Raffaele Minchiello viene trasportato in un’America dove non riesce bene a inserirsi non parlando la lingua e parte volontario a soli 17 anni e mezzo per una guerra sanguinosa che non gli appartiene proprio ma che pensa possa dargli un’identità. Torna, come molti reduci, quando in America il Vietnam è visto come una pagina negativa della storia nazionale da dimenticare. 

Tutto quello che riceve dall’esercito è una ricompensa di 600 dollari su un pattuito di 800. Per questi 200 dollari, che l’esercito non vuole assolutamente dargli, Raffaele arma un casino, beve, ruba da un bar e rischia un processo. Che non farà, perché si compra una carabina e decide di mettere in scena un atto clamoroso. Il dirottamente di un aereo verso l’Egitto.

Incredibilmente passa i controlli e riesce a far funzionare il suo piano. Bel ragazzo, ancora giovane, ha solo vent’anni, Raffaele è salutato in Italia come un eroe nazionale e benché venga condannato a 7 anni e mezzo di carcere al processo, se ne farà solo uno e mezzo. Esce, si sposa, fa un figlio, si compra una pompa di benzina e nel corso degli anni progetterà altre azioni eclatanti. 

Quello che stupisce del personaggio nel documentario di Infascelli, è la sua assoluta tranquillità nel raccontare la sua storia, le sue bravate, fa anche dei servizi di nudo su Playmen, e quello che avrebbe potuto fare, da militare professionista abituato a uccidere, con un fucile in mano. Come se fosse tutto possibile. Assolutamente non epico. Inoltre.

Sull’aereo lascia il fucile per terra per andare in bagno, esce e lo ritrova lì, senza che il comandante dell’aereo lo abbia preso e gli abbia sparato salvando la situazione. Commenta solo che al suo posto, lui avrebbe fatto proprio così. Avrebbe sparato e avrebbe ucciso il dirottatore. Bang! Bang!  

DAGONEWS il 5 novembre 2022.

«La prima notte è stata la peggiore» ricorda Roy Harley, uno dei sopravvissuti all’incidente aereo di 50 anni sulle Ande. Lui e i suoi amici riuscirono ad aggrapparsi alla vita su un ghiacciaio andino senza cibo né riparo, e con pochissimi motivi di speranza: dei 45 occupanti dell'aereo, 16 sono tornati a casa dopo un calvario di 72 giorni che è ancora noto come il "miracolo delle Ande". 

L'unico modo per sopravvivere era mangiare la carne dei morti. Ma per Harley, un ingegnere in pensione che ora ha 70 anni, non è stato il momento peggiore dell'incubo.

Dopo lo shock iniziale dello schianto contro le Ande quel fatidico venerdì 13 ottobre 1972, Harley e altri 31 sopravvissuti si trovarono nel buio pesto a meno 30 gradi Celsius a un'altitudine di circa 3.500 metri.

Molti di loro non avevano ancora 20 anni - l'aereo stava portando una squadra di rugby amatoriale uruguaiana e le loro famiglie a una partita in Cile – e nessuno era vestito per il freddo. 

«Quella notte, ho vissuto l'inferno - ha detto Harley - Ai miei piedi c'era un ragazzo a cui mancava una parte del viso e soffocava per il sangue. Non ho avuto il coraggio di raggiungerlo, di tenergli la mano, di confortarlo. Avevo paura. Avevo molta paura».

Il mattino seguente altri quattro ragazzi erano morti. Da quel momento iniziò un calvario alla fine del quale solo in 16 riuscirono a sopravvivere. 

«Non ho parole per descrivere quanto facesse freddo - ha detto l'ex compagno di squadra di rugby di Harley, l’amico Carlos Paez, 68 anni – Faceva così freddo. Molte volte ho pensato di non farcela». Dopo 10 giorni sentirono alla radio che le ricerche del loro aereo erano state interrotte. 

«Una delle cose più dolorose è stata realizzare che il mondo stava andando avanti senza di noi» ha detto Paez. Ma è stata anche la scossa di cui i sopravvissuti avevano bisogno per prendere in mano la situazione e iniziare a cercare di trovare una via d'uscita dal ghiacciaio. 

Un altro momento difficile è stato quando hanno dovuto decidere di mangiare i corpi dei loro amici per sopravvivere. Avevano scavato per giorni sotto la neve trovando da mangiare solo l’erba d’asino. Ma continuavano a dimagrire a vista d’occhio e alla fine votarono per decidere cosa fare. «Abbiamo preso la decisione terribile: per sopravvivere avremmo dovuto superare tutti gli ostacoli, religiosi o biologici. Ci siamo detti: se Gesù, durante l'Ultima Cena, ha condiviso il suo corpo e il suo sangue tra gli apostoli, non dobbiamo capire che dovremmo fare lo stesso?».

«Avevamo provato a mangiare la pelle, abbiamo provato a mangiare le sigarette, abbiamo provato a mangiare il dentifricio - ha ricordato Harley - Stavamo morendo. Avevamo una sola scelta: morire o usare l'unica cosa che avevamo. Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto per vivere». Dopo 16 giorni dall’incidente un nuovo disastro si è abbattuto sui sopravvissuti.

Una valanga seppellì la fusoliera maciullata, l'unico rifugio dei sopravvissuti, mentre dormivano. Otto rimasero uccisi, lasciando solo 19 dei 32 sopravvissuti allo schianto originali. Altri tre sarebbero morti nei giorni successivi. 

«La valanga è stata come se Dio ci avesse pugnalato alle spalle» ha detto Paez.

Mostrando un'incredibile ingegnosità e tenacia, i sopravvissuti impararono, senza strumenti, a usare i detriti degli aerei per fare dei cappelli, guanti, racchette da neve, trapunte e occhiali scuri per evitare di restare accecati dalla neve. Hanno trovato un modo per sciogliere il ghiaccio per bere. 

E alla fine, l'aiuto arrivò. 

In un ultimo, disperato sforzo che è quasi costato loro la vita, i sopravvissuti Roberto Canessa e Fernando Parrado hanno camminato per 10 giorni in una zona sconosciuta, guidati solo dall'istinto. 

Alla fine giunsero a un fiume e videro uomini a cavallo dall'altra parte. Riuscirono a scrivere un biglietto con mano tremante in cui chiedevano aiuto per loro e i compagni. Avvolsero il foglio a una pietra e la lanciarono. 

Il giorno successivo arrivarono i primi elicotteri. Quando era salito a bordo dell’aereo precipitato, Harley pesava 84 chilogrammi. Quando è stato salvato era arrivato a 37 chili.

In media, i sopravvissuti hanno persero 29 chilogrammi.

Ultimo viaggio. "Costretti a mangiare carne umana", il disastro aereo della Ande. Nell'autunno del '72 un aereo militare affittato come charter precipita sulle Ande a causa di errore di calcolo dei piloti. Sarà l'inizio di una delle più sconcertanti storie di sopravvivenza dei nostri tempi, nota come "El milagro de los Andes". Davide Bartoccini il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Un piccolo bimotore a elica dell'impoverita Fuerza Aérea Uruguaya, un Fokker F27 che in assenza di frequenti bellicismi delle Americhe meridionali viene impiegato come charter per passeggeri civili, è impegnato a fare lo slalom tra le altissime cime della Cordigliera andina. È il 13 ottobre del 1972, e il piccolo aereo da trasporto di fabbricazione olandese, che misura appena venticinque metri di lunghezza, ospita a bordo quaranta passeggeri civili - la metà sono giocatori di Rugby della Old Christians Club - oltre a cinque membri d'equipaggio militare: il colonnello Ferradas, il copilota, tenente colonnello Lagurara, un tenente impiegato come ufficiale di rotta, e due sergenti, rispettivamente un assistente di volo e un motorista. Non è progettato per sostenere elevate altitudini in condizione atmosferiche sfavorevoli. Per quanto possa raggiungere una quota di tangenza di oltre ottomila metri, è per questo il Fokker vola basso, seguendo una rotta minuziosa che, per portare l'aereo a destinazione a Santiago del Cile (dopo uno scalo imprevisto per le condizioni meteorologiche a Mendoza, Argentina), cerca e trova i passi e valichi tra le alte montagne innevate.

Volare bassi tra le montagne è la scelta più prudente, ma anche la rotta più complessa da seguire sulle mappe, per un aereo che, oltre ad avere la quasi totalità di comandi interamente manuali, offriva all'equipaggio una strumentazione di bordo "essenziale".

L'equipaggio commette alcuni errori di calcolo nel tracciare, o seguire, la rotta. E quando il comandante è certo di trovarsi a una mezz'ora di volo circa da Santiago, approccia una graduale discesa verso terra, mentre una turbolenza sorprende il piccolo bimotore che cade in un vuoto d'aria e perdendo un centinaio di metri di altitudine in pochi secondi, si ritrova a volare alla cieca, avvolto nella fitta nebbia e nelle nuvole basse, in prossimità delle alture rocciose. Ferradas e Lagurara tentano di recuperare quota spingendo i motori Rolls-Royce Dart alla massima potenza. Ma prima di uscirne, l'ala destra del Fokker tocca una parete rocciosa. Staccandosi completamente e privando l'aereo di uno dei due motori. Il Fokker carambola tra le rocce, perdendo l'ala sinistra e la coda, che si trancia di netto e porta via con sé alcuni passeggeri. L'ufficiale di rotta e il sergente addetto all'accoglienza dei passeggeri vengono risucchiati dall'abitacolo. Volano via.

La carlinga del Fokker precipita come un siluro lanciato da un aereo su una spianata. Scivola veloce sulla neve fresca, per due chilometri, tra le urla dei passeggeri terrorizzati, come fosse un grosso bob. Si ferma solo dopo aver impattato con cumulo di neve solidificata dalle rigide temperature. Il velivolo, registrato come 571, si ferma a una quota di 3.657 metri nei pressi del vulcano Tinguiririca. Ancora in territorio argentino. I superstiti invece, vittime dell'errore di calcolo e della strumentazione sfasata a causa dell'impatto, si convinceranno di essere a un'altitudine di 2.133 metri in territorio cileno. Il tenente colonnello Lagurara infatti, prima di morire sosterrà di aver "superato Curicò".

Solo in seguito verrà supposto un errore umano dovuto e alla negligenza dei piloti, che non calcolarono i tempi di volo, oppure a un possibile malfunzionamento del sistema Vor (impiegato prima dell'avvento del Gps, ndr) originato da interferenze magnetiche provocate dalle perturbazioni. Queste avrebbero fatto scattare "erroneamente" la segnalazione dell'avvenuto passaggio sulla verticale di Curicó - come avrebbe più volte ripetuto il secondo pilota prima di morire poco dopo l'impatto per le lesioni riportate.

Tra l'impatto e la discesa muoiono dodici persone, compreso il comandante. Dei trentotto superstiti, alcuni moriranno a causa delle ferite riportate durante l'impatto. Altri in seguito a una valanga. Altri per denutrizione e fatica - che a oltre tremila metri di altitudine con temperature inferiori a meno 30 gradi centigradi la notte si fa sentire sul corpo umano, anche il più atletico e preparato.

I soccorsi così "vicini" e l'odissea sfociata nel cannibalismo

Non appena la torre di controllo di Santiago perse ogni contatto con il Fokker, venne messo in allerta il Servicio Aereo de Rescate (Sar) dell'aeroporto di Los Cerrillos. Analizzate le registrazioni delle ultime comunicazioni avvenute tra la torre di controllo cilena e il velivolo uruguaiano, i comandanti del Sar ipotizzarono immediatamente un errore di rotta e, ampliando l'area delle ricerche a una vasta zona sulle Ande a nord del passo del Planchón, fecero decollare gli elicotteri nel tentativo di localizzare il relitto e recuperare eventuali superstiti.

Sebbene la zona delle ricerche fosse esatta, la visibilità ridotta e la livrea chiara del velivolo che si mimetizzava perfettamente nella neve, impedirono alle squadre di soccorso aeree e alle guide alpine del corpo dei Carabineros cileni di localizzare il relitto, nel quale vissero tra atroci stenti e sofferenze quei superstiti che dopo aver terminato le povere razioni di cioccolata e marmellata, furono costretti all'atto estremo di nutrirsi della carne umana dei loro compagni morti.

Il 21 ottobre le autorità cilene decisero di interrompere ufficialmente le ricerche. Mentre quelle finanziate privatamente dai familiari proseguirono, e si spinsero a pochi chilometri dalla reale posizione dei superstiti, che sopravvissero ben 72 giorni. Fino al 23 dicembre, quando la spedizione di due passeggeri che decisero di attraversare le Ande per cercare aiuto, allertò una seconda volta il Servicio Aereo de Rescate che inviò due elicotteri Bell Uh-1 Iroquois a San Fernando, dove erano giunti - dopo una marcia di 10 giorni per una distanza di 50 chilometri nella neve - Fernando Parrado e Roberto Canessa.

Grazie alle indicazioni di Parrado, che decise di salire sull'elicottero per guidare i soccorsi, quello stesso giorno i resti del Fokker vennero individuati e i primi soccorsi portati ai 14 sopravvissuti. Non essendo possibile il trasporto di tutti quanti i passeggeri, alpinisti e un infermiere vennero lasciati sul posto per prestare un primo soccorso a chi era costretto a passare l'ultima notte nella "carlinga" che aveva chiamato casa per oltre due mesi. Ricoverati in ospedale con "sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione", alcuni mostrarono una perdita di anche 40 chili.

Un sasso e una palla ovale per la salvezza

Quando Parrado e Canessa incontrarono sul loro cammino il "primo uomo" al quale chiedere aiuto, sfiniti, al limite della loro capacità fisica, fu un sasso a salvarli. Quello lanciato da un mandriano, Sergio Catalán, che non udendo le flebili parole dall'altra riva del fiume che li separava, scrisse su un foglio di carta un messaggio, lo avvolse intorno al sasso, e lo lanciò a quei due uomini evidentemente provati da un viaggio massacrante. Fu allora che Parrado scrisse con un rossetto per signora che aveva curiosamente con sé: "Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell'aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?".

Erano nei pressi di Los Maitenes, in Cile. La corsa del mandriano per raggiungere la prima caserma di Carabineros per avvertirli del suo straordinario incontro e l'intervento di altri mandriani incontrati sulla via, che si affrettarono a raggiungere i due viandanti per rifocillarli e prestar loro il primo soccorso, fu decisivo.

Nel 2012 i superstiti di questa straordinaria avventura si riunirono sul campo di rugby per la famosa partita che avrebbero dovuto giocare contro cileni dell’Old Grangonian Club quaranta anni prima. In quella, e in molte altre occasione, portando omaggio ai compagni che persero la vita su quella montagna, ricordarono quanto fu importante lo spirito di squadra in quei terribili 72 giorni di sopravvivenza.

L. Ber. per corriere.it il 22 settembre 2022.

Il Boeing 747 di Cargolux decollato il 20 settembre dall’aeroporto di Milano Malpensa a diretto a Seul, in Corea del Sud, non solo era pieno di merce. Era anche pilotato da due donne, la comandante Paola Gini e la prima ufficiale Vivien Allais, in quello che è stato il primo volo con l’equipaggio tutto al femminile nella storia dell’aviazione civile italiana. Ed è destinato a non essere l’ultimo in un settore dove la (dis)parità di genere resta ancora un problema.

I volti

A segnalare la curiosità è il gruppo Facebook di appassionati «Boeing 747 The Queen of the Skies». Nelle due foto — autorizzate da Cargolux, una delle società di trasporto merci più rilevanti del mondo che batte bandiera lussemburghese — si vedono Gini, 46enne originaria di Torviscosa (in provincia di Udine) e da 12 anni comandante per la compagnia aerea, di fianco a Allais, italiana anche lei, di Coazze (Torino) e con precedenti in altre aviolinee. 

La rotta

Gini e Allais hanno operato il volo C8 8732 Milano Malpensa-Seul Incheon con il Boeing 747 immatricolato Lx-Ucv (e battezzato «Tre Cime di Lavaredo»). Il velivolo, un quadrimotore, è decollato alle 15.55 dall’aeroporto in provincia di Varese — secondo i tracciati di Flightradar24 — per atterrare nel Paese asiatico dieci ore e mezzo dopo seguendo un percorso a sud dell’Ucraina e della Russia per le vicende belliche e l’interdizione ai velivoli comunitari dei cieli russi.

Le statistiche

Il divario tra piloti di sesso maschile e quelli di sesso femminile resta ampio nel trasporto aereo mondiale anche se non mancano gli sforzi delle compagnie per ridurre il gap. Secondo le ultime statistiche, che risalgono al 2021 e che sono influenzati anche dalla pandemia, l’India si conferma il Paese con il maggior numero di pilota donna: 12,4% sul totale. Seguono l’Irlanda (9,9%) e il Sudafrica (9,8%). Quindi Australia (7,5%) e Canada (7%). Se si va a vedere per segmento, nel cargo i comandanti e primi ufficiali di sesso femminile sono il 5% a fronte di una media mondiale del 5,8 dell’intero settore.

Manca carburante e i motori si spengono. Così "l'aliante" salvò il Boeing. Una spia indica una carenza di carburante, poi i motori si spengono. La storia del Boeing di Air Canada diventato famoso con il nome di "aliante di Gimli", perché portato a terra usando il volo a vela. Francesca Bernasconi il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.

Nella cabina di pilotaggio un allarme annunciò lo spegnimento di un motore e i piloti ripassarono le procedure per l’atterraggio d’emergenza. Ma poco dopo anche il secondo motore si guastò: era finito il carburante. Un errore di calcolo e una falla della comunicazione avrebbero potuto essere la causa di un disastro aereo. Ma le conoscenze dei piloti evitarono il peggio e il volo Air Canada 143 planò con entrambi i motori fuori uso sulla pista di un vecchio aeroporto trasformato in circuito automobilistico. Salvi tutti i 61 passeggeri del velivolo e gli 8 membri dell’equipaggio. È ciò che successe il 23 luglio 1983 all’aereo che passò alla storia come Gimli Glider, l’aliante di Gimli.

Il nuovo Boeing della flotta

Il 143 di Air Canada era un volo passeggeri della linea nazionale canadese. Si trattava di un nuovissimo Boeing 767-233 che, come riportato da Aviation Safety Network, aveva effettuato il suo primo volo solo cinque mesi prima dell’incidente, nel marzo del 1983. L’aereo portava il numero di costruzione 47 e, immatricolato C-Gaun, gli era stato assegnato il numero 604 della flotta di Air Canada. Alle spalle aveva appena 150 ore di volo.

Il giorno prima dell’incidente, il 22 giugno 1983, era stato effettuato un controllo di routine sull’aereo: in quell’occasione, come spiega il Rapporto finale sull'incidente, i tre indicatori della quantità di carburante erano stati trovati vuoti. "Questi indicatori - si legge nel rapporto - sono gestiti da un processore digitale dell'indicatore del carburante che ha due canali. L'uno o l'altro dei canali è normalmente sufficiente per garantire un funzionamento soddisfacente del processore per fornire un'indicazione del carburante sugli indicatori nell'abitacolo". Il tecnico aveva scoperto che il problema era facilmente risolvibile disattivando l’interruttore del canale 2, di modo che il primo canale prendesse il sopravvento, permettendo di ottenere in cabina l’indicazione del carburante. Dopo aver contrassegnato l’interruttore come non funzionante, il tecnico aveva annotato il problema sul diario di bordo.

Così il Boeing 767 affrontò il volo successivo, lasciando Edmonton la mattina del 23 luglio e arrivando a Montreal, passando per Ottawa, quello stesso giorno. All’atterraggio il capitano incontrò Robert ‘Bob’ Pearson, che avrebbe pilotato l'aereo nella tratta del ritorno, e lo mise al corrente di un problema relativo all’impianto di alimentazione. Nulla di cui preoccuparsi: il C-Gaun aveva viaggiato senza nessun tipo di problema.

E quella stessa sera, il nuovissimo aereo della flotta di Air Canada partì da Montreal per effettuare la tratta opposta, il volo Ac 143. Destinazione: Edmonton via Ottawa. Al comando c’era il capitano Pearson, affiancato da primo ufficiale Maurice Quintal. E nella prima parte del volo, nessun imprevisto turbò i piloti o i passeggeri, tanto che l’aereo ripartì in tutta serenità, seguendo la rotta per Edmonton. A bordo 61 passeggeri e 8 membri dell’equipaggio (2 piloti e 6 assistenti di volo).

L'incidente 

Partito da Ottawa, il volo procedette senza particolari problemi per la prima parte della rotta verso Edmonton. I primi segnali di difficoltà comparvero poco dopo le ore 20, quando l’aereo si trovava sopra Red Lake, nell’Ontario, a circa metà strada dalla destinazione. A quell’ora, ripercorre il report, "gli strumenti nell’abitacolo segnalavano la bassa pressione della pompa di carburante sinistra", quella che porta il carburante dai serbatoi al motore sinistro. Era il primo allarme. Date le difficoltà mostrate dall’aereo, il pilota decise di deviare il volo verso Winnipeg, che distava 120 miglia (poco più di 190 chilometri), e iniziò a scendere di quota.

Poco dopo un’altra spia luminosa segnalò una perdita di pressione della pompa del serbatoio destro del carburante. E pochi minuti più tardi una serie di allarmi indicò guasti al motore sinistro e destro. In quel momento l’aereo si trovava a 35.000 piedi e a 65 miglia (104 chilometri) di distanza da Winnipeg, con entrambi i motori fuori uso. Senza l’alimentazione per generare l’elettricità sul volo ci fu un blackout e tutti gli indicatori elettronici nella cabina di pilotaggio si spensero, lasciando la possibilità di utilizzare solamente gli strumenti di riserva, "costituiti da una bussola magnetica, un orizzonte artificiale, un indicatore di velocità e un altimetro". Senza propulsione governare l’aereo sarebbe impensabile, se non ci fosse un dispositivo di emergenza, la Rat, una sorta di turbina, che entra in funzione per permettere ai servizi essenziali di rimanere operativi, ma riuscire a manovrare un aereo del genere senza la propulsione è un’impresa quasi impossibile.

In queste condizioni pilota e primo ufficiale capiscono che non c'è abbastanza tempo per arrivare a Winnipeg. Ma più vicino, a poche miglia di distanza, c’è anche l’aeroporto di Gimli (Manitoba), una base militare in disuso dal 1971. Il caso volle che il primo ufficiale del volo si fosse addestrato proprio lì, dove, però, nel 1983 non c'era più né la torre di controllo, né i dispositivi per le emergenze. Ma i due piloti non ebbero scelta. Così, spiega il Rapporto finale sull’incidente, "alle 20.32 Central Daylight Time, in consultazione con il controllo del traffico aereo, il capitano Pearson ha reindirizzato l'aereo verso Gimli". Nel frattempo, in cabina, gli assistenti di volo avevano avvisato i passeggeri perché si preparassero all’atterraggio di emergenza.

L'aliante di Gimli

Senza alimentazione i piloti non avevano a disposizione gli strumenti necessari per controllare la velocità di crociera e nemmeno quella di discesa. Ma non avrebbero avuto una seconda possibilità: "Quando l’aereo avrebbe raggiunto l’inizio della pista - spiega il Rapporto - avrebbe dovuto volare abbastanza basso e abbastanza lentamente da atterrare entro la lunghezza della pista".

A pochi chilometri da Gimli però gli ufficiali si resero conto che l’aereo procedeva troppo velocemente ed era ancora troppo in alto per poter atterrare. "Che fare a quel punto? - raccontò il primo ufficiale nella trasmissione Indagini ad alta quota - Ne parliamo e ci restano due possibilità. La prima era di effettuare una virata a 360 gradi perdendo la quota in eccesso, ma avremmo impiegato circa tre minuti e stavamo già scendendo al ritmo di 700 metri al minuto". Non c’era abbastanza tempo per una manovra del genere: l’aereo rischiava di schiantarsi al suolo.

Non rimase quindi che un’alternativa: effettuare una scivolata ad ala, cioè uno slittamento laterale. La manovra consiste nel posizionare l’aereo lateralmente rispetto alla corrente d’aria, così da fargli perdere altezza e velocità, per poi raddrizzarlo di fronte alla pista e atterrare. Si tratta di un metodo utilizzato spesso dai piloti di aliante e il capitano Pearson è un esperto del volo a vela.

Ma quando si avvicinarono alla pista gli ufficiali notarono che non solo Gimli era un aeroporto in disuso, ma era stato riconvertito in un autodromo, e proprio quel fine settimana era stato invaso da camper e go-kart per festeggiare il Family Day. "Appena oltre la pista utilizzata per le corse", quella su cui sarebbe dovuto atterrare l’aereo, "i piloti di drag racing e le loro famiglie si erano stanziati in tende e roulotte per il fine settimana". Sentire l’aereo avvicinarsi era impossibile perché, data l’assenza della propulsione, il suo passaggio era diventato silenzioso.

Il Boeing 767 planò sulla pista, urtò il guardrail, che era stato aggiunto al centro nel corso della riconversione ad autodromo, e il pilota iniziò a frenare. Mentre perdevano quota, il primo ufficiale aveva abbassato i carrelli, che scesero sotto la forza del loro peso, ma quello anteriore non si bloccò. Grazie a questo intoppo, quando l’aereo planò, rallentò più velocemente, a causa dell’attrito causato dal contatto tra il muso del velivolo e l’asfalto della pista. "Questo - spiegò poi il Rapporto - ha evitato il disastro per le persone all'estremità della pista. Fortunatamente, l'aereo si è fermato prima di raggiungerli".

A bordo passeggeri ed equipaggio erano salvi e vennero subito fatti evacuare in sicurezza, grazie agli scivoli delle uscite di emergenza. Un principio di incendio venne sedato anche grazie all’intervento delle persone presenti sulla pista, che intervennero con i loro estintori. I piloti del volo 143 di Air Canada avevano portato in salvo tutti i 61 passeggeri a bordo dell’aereo, effettuando una manovra mai vista prima e portata a termine con un successo inaspettato. Quello che sembrava un disastro annunciato si trasformò in una stupefacente operazione di salvataggio.

Un errore di calcolo 

Una storia a lieto fine, che aveva sollevato una serie di dubbi che dovevano essere risolti, per la sicurezza degli altri voli. Cosa era andato storto quel giorno? Perché i motori si erano spenti all’improvviso? Gli investigatori giunti sul posto scoprirono che entrambi i serbatoi erano completamente vuoti: estrassero meno di 65 litri, contro una capacità di quasi 90mila. Dopo aver escluso perdite nei serbatoi, il team giunse a un’inevitabile conclusione, contenuta già nel Resoconto intermedio di gestione, datato 21 giugno 1984: il Boeing 767 era decollato con carburante insufficiente per affrontare il viaggio e con gli indicatori del carburante non operativi.

Le indagini ricostruirono i fatti che portarono il C-Gaun a viaggiare senza carburante. Dato il malfunzionamento degli indicatori, il carico di carburante avrebbe dovuto essere confermato tramite l’uso del dripstick, un metodo di misurazione manuale. Usando questo tipo di misurazione è fondamentale eseguire l’esatta conversione da centimetri a litri e poi da litri a chilogrammi. La prima conversione risultava facilmente calcolabile, perché l’aereo era dotato di strumenti che fornivano di per sé un mezzo per calcolare i litri partendo dai centimetri. Più complesso invece il calcolo dei chilogrammi, perché era necessario applicare un fattore di conversione.

Per calcolare il carburante necessario per il volo AC 143 venne usato il fattore 1,77, che corrisponde, però, alla cifra utilizzata per convertire i litri in libbre, mentre il fattore per il passaggio ai chilogrammi è pari a 0,8. Così venne fatto un rifornimento pari a circa la metà di quanto necessario, ma ritenuto una quantità sufficiente a causa della confusione di conversione tra libbre e chili. Un errore di calcolo che ha determinato l’inesatto carico di carburante a bordo, causando lo spegnimento dei motori.

Ma come si è arrivati a questo errore di calcolo? Innanzi tutto, bisogna tener presente che il Boeing 767 era il primo aereo della flotta di Air Canada dove i calcoli del peso venivano effettuati in chilogrammi anziché in libbre. Un tipo di misurazione del tutto nuova. Inoltre le moderne strumentazioni avevano eliminato la figura dell’ingegnere di bordo, solitamente incaricato di svolgere questo tipo di calcolo, per cui i piloti non erano abituati. "Per determinare la quantità di carburante da caricare sull'aeromobile, era necessario sottrarre l'importo che era già a bordo dal totale richiesto per volare a Edmonton secondo al piano di volo - spiega il Report finale sull’incidente - La cifra risultante avrebbe dovuto essere in chilogrammi […] Era in libbre, ma tutte le persone coinvolte credevano che fosse in chilogrammi".

Secondo il rapporto però quel giorno ci fu anche una carenza di comunicazione chiara tra le varie persone coinvolte. Inoltre il primo pilota a volare con il Boeing 767 ebbe l’impressione che l’aereo fosse arrivato dalla tratta precedente con lo stesso guasto agli indicatori di carburante e non avesse avuto il minimo problema. In realtà la criticità venne scoperta solamente il 22 giugno, il giorno prima dell’incidente. "Questo malinteso è importante alla luce di una conversazione che il capitano Weir ha avuto con il capitano Pearson quando l'aereo è arrivato a Montreal il 23 luglio", che fece pensare al pilota del volo 143 che l’aereo avesse già affrontato un viaggio con un simile problema.

Dopo l’incidente l’aliante di Grimli è stato riparato e ha continuato a volare fino al 2008, quando effettuò il suo ultimo viaggio. Quello del 23 luglio 1983 fu un volo miracoloso, che non finì in tragedia solo grazie alla capacità del capitano Pearson nel volo a vela e alle intuizioni del primo ufficiale. I due professionisti fecero planare il grande aereo verso un atterraggio sicuro, permettendogli di portare in salvo tutte le persone a bordo.

"Non si vede niente, siamo fermi". Poi lo scontro sulla pista di Detroit. Un nebbioso giorno di dicembre del 1990 due aerei della compagnia Northwest Airlines entrano in collisione su una pista dell'aeroporto Wayne County di Detroit, causando 8 vittime. Mariangela Garofano l'11 Settembre 2022 su Il Giornale.  

3 dicembre 1990. A Detroit ha smesso di nevicare da poco, ma una coltre di nebbia è scesa sull'aeroporto metropolitano di Wayne County, dove due aerei appartenenti alla compagnia statunitense Northwest Airlines entrano in collisione sulla pista 03C. Noto come il disastro di Detroit, nell'impatto tra i due velivoli muoiono 8 dei passeggeri a bordo di uno dei due aerei e molti riportano ferite gravi.

La collisione

A essere rimasti coinvolti nell’incidente di Detroit furono un Douglas Dc-9-14 con 40 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio a bordo, e un Boeing 727, con 154 persone. Il Dc-9, che operava il volo Northwest 1482 diretto a Pittsburgh, si trovava in fase di rullaggio, ma a causa della forte nebbia presente quel giorno, svoltò per errore nella via di rullaggio esterna. Il controllo del traffico aereo, allertato, disse all'equipaggio del velivolo di svoltare sulla pista "Xray", ma ancora una volta i piloti, confusi dalla nebbia, entrarono in una pista di decollo attiva, scontrandosi con un Boeing, che era appena stato autorizzato al decollo da quella pista.

Il comandante del volo 1482 era William Lovelace, con alle spalle 23000 ore di volo e 4000 proprio come pilota di Dc-9. Quando Lovelace e il primo ufficiale si resero conto dell’errore, contattarono immediatamente i controllori del traffico aereo, i quali non poterono fare altro che dirgli di lasciare subito la pista 03C. La visibilità diminuiva sempre di più e i due piloti non avevano idea di dove si trovassero. “Hey, volo 1482, giusto per verificare - chiese l'operatore ai piloti - State procedendo a sud sulla Xray?”. 

La risposta del comandante non fu confortante: “Non ne siamo sicuri, qui c’è così tanta nebbia che non si vede niente. Siamo fermi”. Ormai era chiaro che il volo Northwest 1482 stava procedendo alla cieca e dopo le dovute verifiche i controllori realizzarono con orrore che l’aereo si trovava su una pista attiva. "Andate via da quella pista immediatamente!", urlò il controllore ai piloti del Dc-9.

Ma era già troppo tardi. Alle 13.45, cinque secondi dopo l’ultima comunicazione del Dc-9 con la torre di controllo, l’ala del Boeing colpì la parte destra della fusoliera dell’altro velivolo, danneggiando il motore numero 2. L'aereo prese fuoco, ma per fortuna la maggior parte dei passeggeri riuscì a salvarsi fuggendo dai portelloni e da una delle uscite di sicurezza, e il comandante sfuggì alle fiamme scappando dal finestrino della cabina. Ma purtroppo non tutti furono così fortunati: un membro dell'equipaggio e 7 passeggeri persero la vita durante l'incendio del velivolo e 10 persone riportarono ferite gravi e 23 lesioni lievi.

Tuttavia, il National Transportation Safety Board (Ntsb) dichiarò di aver perso le tracce di alcuni dei sopravvissuti, tra cui tre passeggeri ricoverati, dei quali non ricevettero mai la relativa documentazione medica, finendo tra i feriti gravi. Non si ebbero più notizie riguardanti le condizioni mediche nemmeno del copilota e di altri 6 passeggeri, curati negli ospedali della zona. Ai fini del rapporto conclusivo questi ultimi vennero inseriti tra i feriti di lieve entità. A parte il forte spavento, tra i passeggeri del Boeing non ci furono vittime e dopo essere stato riparato, venne rimesso in servizio.

Le indagini e le responsabilità 

Le indagini dell'Ntsb misero in luce una serie di errori e fatalità, che portarono alla collisione dei due aerei, quel gelido e nebbioso giorno di dicembre. Di chi fu la responsabilità di un incidente avvenuto a terra, che avrebbe potuto essere evitato? Come riportato sul blog Admiral Cloudberg, gli inquirenti evidenziarono alcune mancanze del comandante e del primo ufficiale, che contribuirono indirettamente allo scontro.

William Lovelace era appena rientrato dopo sei anni di congedo medico e aveva appena terminato l’addestramento per essere reinserito come pilota. Il Northwest 1482 era infatti il suo primo volo senza supervisione. Le indagini rivelarono inoltre che il primo ufficiale, Jim Schifferns, un ex pilota dell’Air Force, aveva effettuato solo 185 ore di volo su un Dc-9.

Lovelace affermò che prima della partenza Schifferns gli assicurò di conoscere bene l’aeroporto di Detroit, cosa che il comandante apprezzò vista la complessità delle piste e il tempo sfavorevole. Ma questo era falso. Dalle registrazioni all’interno del cockpit emerse che Schifferns raccontò una serie di aneddoti per impressionare il comandante che si rivelarono tutti falsi. Le autorità attribuirono quindi parte della responsabilità dell’accaduto all’errata comunicazione tra i piloti, i quali non ricevettero un addestramento adeguato alla gestione delle risorse della cabina di pilotaggio.

L’Ntsb constatò inoltre carenze nella segnaletica orizzontale e dell'illuminazione dell'aeroporto, che ebbero un ruolo cruciale nello svolgersi degli eventi. Per ultimi, anche ai controllori del traffico aereo venne imputata una parte di colpa, per non aver avvisato tempestivamente il Dc-9 di una probabile incursione di pista. Per concludere, venne raccomandato alla Federal Aviation Administration (Faa) di correggere i problemi relativi alla segnaletica nelle intersezioni potenzialmente pericolose negli aeroporti di tutto il paese.

Da tgcom24.mediaset.it il 26 agosto 2022.

Ha fatto il giro del mondo in solitaria su un piccolo aereo, a soli 17 anni, entrando di diritto nel Guinness dei primati. Lui si chiama Mack Rutherford, giovane britannico-belga che il 24 agosto è atterrato a Sofia, completando così il suo viaggio intorno al globo. Era partito proprio dalla capitale della Bulgaria il 23 marzo, quando aveva ancora 16 anni. MackSolo, come si fa chiamare sul suo sito ufficiale, ha attraversato cinque continenti - per un totale di 52 Paesi - a bordo dell'ultraleggero Shark, in versione personalizzata, toccando la velocità di 300 chilometri orari.

Mack è nato in una famiglia dal rapporto molto stretto con il volo. Suo padre è infatti un pilota, e sua sorella, Zara Rutherford, all'età di 19 anni ha battuto il suo stesso record: è stata la più giovane pilota donna ad aver fatto il giro del mondo in solitaria. Il giovane ha ottenuto la licenza di pilota di ultraleggeri quando aveva 15 anni e tre mesi, conquistando di fatto anche il titolo di più giovane pilota al mondo.

Le sue parole prima del volo - "Ho volato per tutta la vita, ed essendo stato ispirato da mia sorella Zara e della mia famiglia, cercherò di battere il record mondiale della persona più giovane a volare in solitaria intorno al mondo", aveva detto prima di partire.

"Voglio sfruttare l'opportunità per incontrare giovani sul mio percorso che fanno cose incredibili, facendo la differenza per le loro comunità o anche per il mondo. Spesso poche persone li conoscono. Insieme possiamo dimostrare che i giovani fanno la differenza", aveva aggiunto.

Da tg24.sky.it il 20 agosto 2022.

Due piloti della compagnia aerea Ethiopian Airlines si sono addormentati in volo, a 11 mila metri di altezza, nei cieli dell'Etiopia, mancando l'atterraggio programmato presso l'aeroporto di Addis Abeba. Il fuoriprogramma ad alta quota si è verificato il 15 agosto. Lo racconta la “Bbc” citando la testata The Aviation Herald. 

Secondo quanto emerso, la torre di controllo dello scalo etiope ha cercato diverse volte di contattare l'equipaggio, ma i due piloti non hanno dato alcun cenno. Una volta sorvolata la pista, però, l'autopilota del Boeing 737 della compagnia aerea etiope si è disconnesso, consentendo di attivare un allarme che ha svegliato i due piloti, a quel punto abili nel riportare il velivolo verso la capitale etiope.

A testimoniare l’insolito episodio anche il radar del portale flightaware.com che ha evidenziato la rotta a forma di 8 comparsa nei pressi dell'aeroporto di destinazione. Il volo era partito dallo scalo sudanese di Khartum ed è arrivato a destinazione 25 minuti dopo aver sorvolato la pista per la prima volta. 

La stanchezza dei piloti “una minaccia alla sicurezza aerea”

L'episodio, fortunatamente a lieto fine, ha messo però in allarme il comparto dell'aviazione civile che ha deciso di indagare sulle possibili cause. L'accaduto “profondamente preoccupante” ha coinvolto “la più grande compagnia aerea africana”, ha segnalato su Twitter l'esperto di aviazione Alex Macheras. 

“La stanchezza dei piloti non è una novità e continua a rappresentare una delle minacce più significative alla sicurezza aerea a livello internazionale”, ha sottolineato ancora, ricordando una recente protesta portata avanti dai piloti britannici contro la compagnia aerea low cost “Jet2” considerata colpevole, secondo quanto riferito dal sindacato “Balpa”, di “non riconoscere” la problematica legata ai ritmi di lavoro troppo stressanti e faticosi per gli equipaggi stessi.

Estratto dall’articolo di Marco Ventura per “Il Messaggero” il 21 agosto 2022.

Un bel sonnellino ad alta quota per riprendere le forze e schiarirsi il cervello. I piloti lo fanno regolarmente. L'importante è che si diano il cambio, e che lo facciano volontariamente. Mai e poi mai dovrebbe succedere quel che è successo ai due piloti del Boeing 737-800 della Ethiopian Airlines in volo il 16 agosto da Khartoum ad Addis Abeba, scivolati senza accorgersene nel mondo dei sogni dopo aver impostato il computer di bordo sul terzo pilota, cioè quello automatico, lungo la rotta FL370 di avvicinamento alla pista 25L. […] 

Sonno pesante. Il Boeing ha sorvolato la pista a livello di crociera, e soltanto il segnale acustico di disconnessione del pilota automatico ha dato la sveglia ai piloti, che hanno poi portato a terra il velivolo con 25 minuti di ritardo, un tempo normale di holding pattern, i giri sopra la pista per affollamento aereo.

L'incidente riporta alla ribalta l'insidia della fatigue, tanto più che il tempo stimato di volo tra le due capitali, sudanese ed etiope, è solo di 110 minuti e se anche i piloti avessero pilotato andata e ritorno non avrebbero superato le 4 ore di volo effettivo. L'inchiesta dovrà verificare se c'era stato un sovraccarico di lavoro in precedenza. 

Quello che poco si sa, è che addormentarsi alla cloche non è un'eccezione. Bordoni cita un sondaggio dell'Associazione britannica dei piloti di linea, Balpa, su 500 suoi membri che dimostra come il 43 per cento si sia addormentato involontariamente nella cabina e, soprattutto, che il 31 per cento di loro ha scoperto, aperti gli occhi, che anche il compagno stava ronfando. Una situazione che ora rischia di aggravarsi, visto il taglio di personale deciso dalle compagnie aeree e il carico di lavoro sempre maggiore. […]

Il precedente è recente: il pilota e il primo ufficiale di un volo Ita partito da New York e diretto a Roma il 30 aprile si sarebbero addormentati durante la crociera. A rendersi conto che qualcosa non andava sono stati i controllori del traffico aereo francesi che subito si sono messi in controllo con la compagnia di bandiera italiana. 

All'ennesima chiamata i due piloti hanno ripreso immediatamente il controllo dell'Airbus 330 quasi giunto a destinazione. I passeggeri non hanno mai corso alcun rischio, ma la storia si è conclusa con un licenziamento.

Marco Ventura

"È la fine", poi il lampo. Ma Juliane sopravvisse allo schianto. Il giorno della Vigilia di Natale del 1971 un aereo della compagnia Lansa partì da Lima per Iquitos. Mentre stava sorvolando la foresta amazzonica, un fulmine lo colpì, facendolo precipitare: ci fu una superstite. Mariangela Garofano il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.

24 dicembre 1971. Dall'aeroporto internazionale Jorge Chávez di Lima, Perù, decolla il volo Lansa 508, diretto a Iquitos, con 96 persone a bordo. Mentre sta sorvolando l'Amazzonia, a circa 21.000 piedi di altezza, il Lockheed L-188 Electra incappa in una zona con violenti temporali. La turbolenza è forte, ma i piloti, che hanno premura di arrivare a destinazione dato che il Natale si avvicina, proseguono il volo.

La tempesta è così intensa che un fulmine colpirà la carlinga, facendo precipitare l'aereo nella foresta amazzonica. Nell'impatto moriranno tutti i passeggeri tranne una, la diciassettenne Juliane Koepcke. La ragazza, miracolosamente scampata alla tragedia, sarà costretta a sopravvivere per giorni nella giungla, prima che alcuni uomini la portino in salvo.

L'incidente

Il giorno della Vigilia di Natale del 1971 il volo 508 operato dalla compagnia peruviana Lansa (Lineas Aéreas Nacionales Sa) decolla dalla capitale Lima, con destinazione finale Iquitos, nel nord del paese. Il volo prevede una fermata intermedia a Pucallpa, ma dopo soli dieci minuti di viaggio il velivolo finisce nel mezzo di una violenta turbolenza, causata da forti temporali.

I piloti decidono, nonostante le pessime condizioni atmosferiche, di proseguire il volo, ma a 21.000 piedi un lampo accecante colpisce il Lockheed, facendolo schiantare in picchiata al suolo. I passeggeri e l'equipaggio giacciono tutti senza vita dopo il terribile impatto, tranne uno, una ragazza adolescente.

Juliane, la ragazza che sopravvisse allo schianto

Il nome della giovane è Juliane Koepcke, ha diciassette anni e si trovava su quel volo sfortunato con la madre, una biologa di origini tedesche, per raggiungere il padre, anche lui biologo, nella stazione di ricerca di Panguana, nella foresta amazzonica peruviana. La Lansa non godeva di una buona reputazione. Due suoi aeroplani erano già rimasti coinvolti in brutti incidenti, ma Juliane e la madre decidono di salire sul Lockheed ugualmente. "Sapevamo che quella compagnia aerea aveva una pessima reputazione, ma volevamo assolutamente raggiungere mio padre per Natale - racconta la signora Koepcke alla Cnn - A un certo punto entrammo dentro delle nuvole nere, l'aereo iniziò a ballare e mia madre divenne molto nervosa. Fummo accecate da un lampo e il velivolo iniziò a precipitare. Mia madre urlò: Ecco, è la fine!".

Juliane prosegue ricordando l'inquietante silenzio mentre ancora seduta, precipitava nel vuoto, prima di perdere conoscenza e risvegliarsi il giorno dopo. "Quando mi svegliai ero sola sul sedile dell'aereo e vicino a me c'era un'intera fila di posti". La giovane si risveglia ancora seduta con la cintura allacciata, presenta diverse ferite, tra cui un taglio profondo a un braccio, ma nonostante lo choc, è viva. Ma com'è possibile che sia riuscita a salvarsi dopo una caduta di oltre 3.000 metri?

In seguito gli inquirenti affermeranno che Juliane era seduta in una delle file centrali da tre posti, e che l'ampiezza dei sedili, unita alla fitta vegetazione su cui era caduto l'aereo, le avrebbero salvato la vita. Intorno a Juliane si stagliano rottami e i corpi dei passeggeri che volavano con lei, tra cui la madre Maria, che verrà riconosciuta dalle autorità tempo dopo.

Nonostante la disperazione, la ragazza si fa forza e si mette in marcia nel fitto della giungla, dove camminerà per dieci giorni, fortunatamente senza incontrare animali pericolosi e mettendo in pratica gli insegnamenti del padre. "Quando trovi un torrente, seguilo, ti porterà a un fiume", si raccomandava sempre il signor Koepcke e Juliane capisce che l'unico modo per uscire viva da quell'inferno è ascoltarlo. Allo stremo delle forze e con la ferita al braccio infestata dai parassiti, la ragazza scorge come un miraggio una barca lungo il fiume e un capanno, dove si accascia, ormai incosciente. Fortunatamente il giorno seguente viene trovata da alcuni boscaioli del posto che la porteranno in ospedale, salvandole la vita.

Le indagini

Una volta avviate le indagini sull'incidente del volo 508, gli investigatori scoperchiarono un vaso di Pandora di enormi dimensioni, riguardante gli aerei della Lansa. Si legge su History of Yesterday che i meccanici della compagnia aerea non venivano accuratamente addestrati ad occuparsi di aerei, perchè esperti solo di moto e automobili. Ma non è finita qui. Ciò che le autorità scoprirono ha dell'incredibile: il Lockheed che precipitò in Perù era stato interamente costruito assemblando pezzi di altri aereomobili dismessi. Tutti questi fattori portarono la Lansa a sospendere tutti i voli e a chiudere i battenti nel 1972.

"Non si saprà mai": così iniziò il mistero del "triangolo del Diavolo". Davide Bartoccini il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nel 1948 un aereo passeggeri della neonata compagnia britannica Bsaa scomparve senza lasciare traccia mentre era al largo delle isole Bermuda. Il suo sfortunato destino rimarrà un mistero, alimentando la leggenda del "Triangolo maledetto".

La storia di questo ultimo viaggio è rimasta tuttora senza una vera spiegazione e ha inizio nell’aeroporto di Heathrow, in Inghilterra, il 27 gennaio del 1948. Appartiene all’incidente aereo che forse più di tutti ha contribuito - insieme a quello della famigerata Squadriglia 19 - ad alimentare la leggenda del "Triangolo delle Bermuda": quel tratto di mare dove, almeno secondo i fanatici del paranormale, questo nostro mondo si collegherebbe con altre dimensioni a noi ignote.

È una mattinata fredda e umida, quando i primi temerari e facoltosi passeggeri sono in procinto di imbarcarsi sul quadrimotore pilotato da esperti aviatori militari. Uomini che avevano appena vinto la guerra e maturato l'expertise adatto a mettere in piedi un'idea ambiziosa quanto insidiosa: fondare una compagnia aerea che potesse competere con la Boac (al tempo la maggiore compagnia aerea statale britannica, ndr) per conquistare le rotte che dall'Europa portavano nel cuore delle Americhe del Sud.

A bordo di aerei basati su i migliori bombardieri a lungo raggio - come gli Avro York, Avro Lancaster e Avro Tudor - la neonata Bsaa pensava di offrire lussi mai visti prima come la proiezione di film in volo o il servizio ristorante incentrato su pasti surgelati, attraendo il pubblico con lo slogan "Vola con le stelle", e facendo rotta su mete esotiche come i Caraibi.

C'erano tutte le carte in regola per diventare una compagnia aerea di successo, se non fosse stato per un tragico incidente che già nel 1947 aveva scosso la compagni, dando luogo a una delle prime leggende sulla sparizione di un aereo di linea collegabile agli extraterrestri. Stiamo parlando della perdita dell'Avro Lancaster nominativo Star Dust, avvenuta il 2 agosto 1947. Scomparso nel nulla mentre era in volo sulle Ande. Poi ritrovato dopo oltre mezzo secolo in seguito allo scioglimento dei ghiacci. Ma torniamo a noi.

Ogni viaggio ha i suoi problemi

Quel giorno a Heathrow i primi passeggeri dell'Avro Tudor nominativo Star Tiger (G-Ahnp) si stavano imbarcando per il lungo viaggio che li avrebbe condotti all'Avana, facendo scalo a Lisbona, Santa Maria nelle Azzorre, St. David nelle Bermuda e Kingston in Giamaica. E non ci volle molto prima che s'imbattessero nella prima piccola insidia, appena poche ore dopo il decollo. Il sistema di riscaldamento dell'areo era difettoso li avrebbe costretti a viaggiare a delle temperature che sarebbero stato considerate proibitive anche per l'equipaggio di un bombardiere militare in missione - figuriamoci per dei civili in viaggio di piacere.

A bordo c'erano 25 passeggeri più l'equipaggio, composto da quattro veterani dell'aria capitananti B.W. McMillan, un neozelandese che aveva servito nella Reale aeronautica neozelandese ed era ben noto per le sue qualità, e due hostess. Tra i passeggeri invece, sedeva sir Arthur Coningham, maresciallo dell'aria che aveva condotto gli squadroni tattici degli Alleati nei cieli della Normandia.

Un sistema di riscaldamento che fa cilecca non può mettere a rischio un volo di linea. Ma non sarebbe stato l'ultimo problema tecnico a insidiare il viaggio dello Star Tiger. Una bussola difettosa e un motore che faticava a riavviarsi, rallentarono il viaggio che prevedeva la sua seconda tappa a Santa Maria nelle Azzorre per un necessario rifornimento di carburante. Non va dimenticato infatti come la distanza che separa Londra dall'Avana fosse enorme per i tempi, e che pure gli aerei come l'Avro Tudor, benché vantassero un'autonomia di 6.500 chilometri anche a pieno carico, dovevano garantirsi degli scali intermedi per essere certi di arrivare a destinazione interi, e con i galloni di carburante necessari alle manovre d'atterraggio.

Carburante o passeggeri? Una scelta delicata

Il bollettino meteorologico consegnato allo Star Tiger prima della partenza era oltremodo scoraggiante. Forti venti di burrasca e fenomeni temporaleschi avrebbero accompagnato la tratta Azzorre-Bermuda. Deciso a proseguire il suo viaggio sull’Atlantico per arrivare a destinazione, il comandante McMillan si trovò di fronte a una decisione da prendere: evitare di riempire al massimo i serbatoi per raggiungere in sicurezza le Bermuda, considerando che i forti venti lo avrebbero potuto spingere fuori rotta allungando il viaggio, o essere costretto a lasciare a terra alcuni passeggeri con il loro bagaglio per alleggerire il carico e fare spazio ad altri preziosi galloni di carburante?

Optò per la prima - col sennò di poi potremmo dire incautamente - decollando alla volta delle Bermuda con i serbatoi non riempiti al massimo della loro capienza, ma neanche un passeggero infuriato alle sue spalle. Con un bollettino meteo che riportava venti forti e piogge, ma l’idea di volare ad appena 2.000 invece che a 20.000 piedi di altitudine per evitare i venti di tempesta peggiori. Con un po' di fortuna ce l'avrebbero fatta. E alle 4.00 del mattino sarebbero atterrati a destinazione senza ricevere alcuna lamentale da parte dei passeggeri. Così l’Avro Tudor proseguiva nel suo volo notturno, sorvolando un oceano scuro e agitato, e attraversando banchi nuvolosi capaci di privare i piloti della visibilità da un momento all’altro.

Secondo le stime, quando lo Star Tiger era prossimo a oltrepassare il "punto di non ritorno”, si trovava un centinaio di chilometri fuori rotta a causa dei venti. Le rilevazioni astrali, nonostante il maltempo, avevano consentito al navigatore di ricalcolare la rotta senza che a bordo si perdesse la speranza di arrivare - con ritardo - all’aeroporto di Kindley Field sull'isola di St. David alle Bermuda, ex base militare con cui era già entrato in contattato radio. Alle 3.15 e alle 3.17, l’operatore della Guardia aerea a Kindley Field contattò per l'ultima volta lo Star Tiger in rotta di avvicinamento per le Bermuda. Il segnale era chiaro. A bordo erano stanchi e provati, ma lucidi e tranquilli. Poi, d'un tratto, sopraggiunse il silenzio.

Alle 3.50, quando era ormai trascorsa più di mezz’ora dall’ultima comunicazione radio, alla torre di Kindley apparve chiaro che le cose dovevano essere andate per il peggio. Lo Star Tiger non si era più messo in contatto. Non aveva lanciato nessun messaggio Sos. Non aveva raggiunto la sua destinazione come previsto, neanche con ulteriore ritardo. Non aveva lasciato - apparentemente - nessuna traccia di sé a questo mondo. Solo una nave mercantile, la Ss Troubadour, aveva riferito l'avvistamento (alle ore 2.10 del mattino) di un aereo con luci lampeggianti che volava basso sull'oceano, da qualche parte tra le Bermuda e la baia del Delaware. Una segnalazione che, se collegata allo Star Tiger, lo avrebbe trovato completamente fuori rotta.

Le operazioni di ricerca e quegli strani messaggi

All'alba venne immediatamente lanciata un'operazione di soccorso dalla forza aerea statunitense, che convolse ben 26 aerei nelle ricerche di quell'aereo scomparso nel nulla. Altrettante furono le unità navali impegnate nei giorni successivi. Nessuno trovò traccia di detriti, del relitto e dei superstiti. Solo il primo di febbraio un bombardiere B-17 riferì di aver avvistato diverse scatole e un fusto di petrolio a 325 miglia a nord-ovest delle Bermuda. Questo avvistamento non sarà sufficiente a collegare i detriti alla sparizione dello Star Tiger.

Inquietanti furono i messaggi confusi e incompleti che vennero captati dai radioamatori che rimasero in ascolto lungo tutta costa orientale del Nord America, e giurarono di aver ricevuto messaggi inviati da qualcuno che non conosceva bene il codice Morse. Secondo molti di loro, tra punti e linee, qualcuno stava tentando di scrivere la parola "T-i-g-r-e".

Sempre in quei giorni di ricerche, una stazione della Guardia costiera di Terranova riferì che insieme al messaggio in codice Morse, avevano intercettato qualcuno che pronunciava le lettere "G-a-h-n-p": il numero di registrazione di Star Tiger. Il velivolo ufficialmente scomparso il 30 gennaio al largo di quello che veniva già soprannominato il "triangolo maledetto" delle Bermuda. Tratto di mare dove tra la Prima e la Seconda guerra mondiale era si era iniziato a credere si consumassero eventi strettamente collegati al paranormale. Un luogo "infernale", frequentemente scosso da tempeste, nel quale navi e aerei sparivano senza lasciare traccia.

Questi messaggi incompleti vennero captati sporadicamente fino al 3 febbraio, quattro giorni la sparizione dello Star Tiger di cui non si sarebbe più trovata traccia. Gli appassionati del paranormale iniziarono a sostenere la tesi che quei messaggi distorti non erano altro che richieste d'aiuto dei superstiti che erano "finiti in qualche modo in un'altra universo o in un’altra dimensione spazio temporale". Ma esistono senza dubbio spiegazioni più logiche ed estremamente terrestri. Seppure mai confermate.

Una spiegazione logica dietro al mistero

Le teorie che vorrebbero un buco nero all'interno del famigerato triangolo delle Bermuda, luogo prescelto dagli alieni per entrare in contatto con la nostra civiltà, rimangono plausibili e affascinanti per molti, quanto risibili e inconcepibili - a buon titolo - per molti altri. Tuttavia che in questo inospitale triangolo di mare siano scomparsi nel nulla un numero non trascurabile di uomini e mezzi, non ultimo l'Avro Tudor IV Star Tiger, resta fatto inconfutabile.

Dietro la "misteriosa" sparizione dello Star Tiger potrebbero nascondersi soltanto una spiacevole combinazione di fattori che non hanno proprio nulla a che fare con il paranormale. L'aereo in questione potrebbe essere incappato in una tempesta con venti più forti del previsto, che lo avrebbero portato fuori rotta fino all’esaurimento del carburante - come in realtà è in parte stato dimostrato. Sebbene a bordo fosse presente un serbatoio di riserva da attivare manualmente in caso di emergenza, era necessario del tempo prima che il carburante raggiungesse i motori.

Questo potrebbe non essere stato sufficiente a “salvare” l’Avro Tudor che proprio in virtù della succitata tempesta. Soprattutto perché volava alla ridottissima quota di 2000 piedi. L'estrema vicinanza alla superficie del mare, se sommata a qualche problema al motore, potrebbero aver portato l’aereo privo di propulsione a schiantarsi sulle onde per scomparire in pochissimo tempo tra i flutti. Senza lasciare traccia.

La stessa altitudine ridotta inoltre potrebbe aver visto l'aereo sorpreso da una raffica di vento più forte delle altre. Costringendo i piloti a manovrare improvvisamente a bassissima quota. Una brutta imbardata potrebbe aver condotto il velivolo in mare prima che il capitano e il suo secondo fossero riusciti a recuperare l’assetto. Non ci sarebbe stato il tempo per lanciare un messaggio di May Day.

Non va dimenticata inoltre la possibilità del semplice errore umano dettato dalla stanchezza. Per tutto il viaggio lo Star Tiger aveva comunicato di volare a una quota di 20.000 piedi nonostante volasse - almeno secondo le ricostruzioni - a soli 2.000. Questa semplice dimenticanza, ripetuta più volte, potrebbe aver convinto un pilota stanco ad abbassarsi nella completa oscurità mentre era in rotta di avvicinamento. Ma invece di condurlo a 10.000 piedi, lo avrebbe condotto dritto tra le onde di un oceano oscuro e agitato. Facendo scomparire per sempre lo scintillante Avro Tudor, e le 31 anime che erano a bordo.

Ultima ipotesi, largamente sostenuta, è che lo Star Tiger avesse subito dei danni impercettibili ai serbatoi, maturando nel lungo viaggio una perdita di carburante che forse non venne rilevata dalla strumentazione di bordo.

Un mistero destinato a perdurare

L'assenza di ogni traccia dei corpi dei passeggeri come di detriti riconducibili all'Avro Tudor e la mancata localizzazione di un relitto dopo oltre settant'anni hanno sobillato le più disparate teorie degli ufologi e degli amanti del paranormale di tutto il mondo. Uomini e donne che non hanno mai smesso di credere che proprio lì, nel mezzo del triangolo delle Bermuda, esista una sorta di portale capace di far sparire nel nulla, o peggio inviare in altre dimensioni sconosciute, aerei, navi e chi si troverebbe a bordo. Queste sono e resteranno fantasie.

Le inchieste avviate sull'incidente dello Star Tiger operato dalla Bsaa, non che tutti i rapporti accumulati nel tentativo di trovare una spiegazione all'accaduto, si sono limitate a concludere che: "In completa assenza di qualsiasi prova attendibile sulla natura o sulla causa dell'incidente di Star Tiger, la Corte non ha potuto fare altro che suggerire possibilità, nessuna delle quali raggiunge il livello anche della probabilità. [...] Cosa è successo in questo caso non sarà mai saputo e il destino di Star Tiger deve rimanere un mistero irrisolto".

"Il portellone...". E l'aereo si schiantò a tutta velocità. Mariangela Garofano il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il 3 marzo 1974 un volo della compagnia aerea turca Turkish Airlines sta ultimando l'ultima tratta del volo per Londra, quando all'improvviso le spie di depressurizzazione della cabina si accendono. L'aereo perde il portellone del vano bagagli e precipita al suolo

Il 3 marzo 1974 il volo Turkish Airlines 981 partito da Istanbul e diretto a Londra, si schianta nel bosco di Ermenonville. Con 346 vittime, l’incidente è considerato il più grave mai accaduto a un singolo aereo fino all’incidente di Tenerife del 1977, che coinvolse due aeroplani.

Le cause dello schianto

È il 3 marzo e dall'aeroporto di Istanbul-Atatürk, in Turchia, decolla un McDonnell Douglas Dc-10 della compagnia di bandiera turca, Turkish Airlines, con destinazione finale Heathrow, Londra. Il volo prevedeva uno scalo intermedio all’aeroporto di Orly, Parigi e quel giorno, a causa di uno sciopero della British Airways, la tratta Parigi-Londra è molto affollata. Il volo decolla da Orly senza intoppi, ma mentre l'aereo sale di quota, all’altezza della città di Meux, si accendono gli allarmi che indicano la depressurizzazione della cabina. I controllori di volo a terra sentono i piloti parlare concitati in turco, ma sarà l’ultima comunicazione con il volo 981.

Da quel momento infatti il velivolo scompare dai radar e verrà ritrovato in seguito, dalle autorità di soccorso, completamente disintegrato, nella foresta di Ermenonville. Lo schianto fu così violento da non lasciare scampo a nessuna delle persone a bordo, che all’arrivo dei soccorsi erano già tutte decedute. Il velivolo precipitò a 783 chilometri all'ora, distruggendosi in così tanti pezzi, che solo 188 vittime furono riconosciute, mentre nove di queste tutt'oggi non sono state nemmeno ritrovate.

Dapprima la dinamica dell’incidente condusse gli investigatori a considerare la pista dell’attacco terroristico. Nonostante due gruppi di matrice terroristica rivendicarono il presunto attentato, il ritrovamento delle scatole nere e indagini più approfondite rivelarono che a provocare la sciagura fu la rottura dello sportello del vano bagagli, che provocò la depressurizzazione della cabina. A causa della differenza di pressione, il pavimento della parte della cabina in corrispondenza della stiva si squarciò e sei passeggeri furono sbalzati fuori dall'aeromobile insieme al portellone, con una violenza inaudita. 

La stabilità dell'aereo era ormai compromessa. Il secondo motore perse potenza, e l’aereo iniziò a scendere in picchiata, con il muso inclinato di 20 gradi. I piloti a quel punto non poterono fare più nulla per riportare il velivolo in quota, e 72 secondi dopo la decompressione il volo Turkish 981 precipitò a una velocità tale da colpire il suolo, frantumandosi in migliaia di pezzi.

Le indagini

L'inchiesta finì per determinare che un incidente analogo a quello occorso al volo Turkish, successe anche a un altro velivolo due anni prima, per fortuna senza gravi conseguenze per i passeggeri e l'equipaggio. Emerse quindi un difetto di progettazione dello sportello del vano bagagli nei Dc-10, che portò a una grossa causa contro la società McDonnell Douglas, rea di essere a conoscenza dell'errore di progettazione, ma di averlo occultato per evitare ripercussioni negative sull'azienda. Ma non è tutto, l'inchiesta portò alla luce una parte di responsabilità della Turkish Airlines.

Il giorno dell'incidente all'aeroporto di Orly la compagnia turca non aveva ingegneri a terra e a occuparsi della chiusura del portellone del vano incriminato fu l'addetto ai bagagli Mohammed Mahmoudi, il quale seguì la procedura, ma non si accorse che lo sportello era in realtà aperto. A seguito del gravissimo incidente del volo 981 vennero apportate diverse modifiche ai Dc-10 per evitare altre tragedie di tale portata.

Voli cancellati e ritardi, ecco quali sono i diritti dei passeggeri. DANIELE MARTINI Il Domani il 18 luglio 2022

Di fronte al caos di questi giorni con migliaia di voli cancellati, ritardi clamorosi e bagagli ammassati a migliaia in attesa di essere dichiarati persi, ogni compagnia ha la sua politica nei confronti dei clienti. Il caso di Ryanair e quello di Ita Airways

Se la cancellazione del volo non è stata comunicata al cliente con un preavviso di due settimane, lo stesso cliente ha diritto a rimborsi da un minimo di 250 euro a un massimo di 600. In ogni caso deve essere rimborsato il prezzo del biglietto

Questi diritti valgono anche nel caso in cui la cancellazione del volo è stata determinata da uno sciopero. Lo stabilisce una sentenza della Corte di giustizia europea 

Guida ai rimborsi: cosa fare in caso di cancellazione del volo. STEFANO CHIANESE su Il Domani il 14 luglio 2022

Previsti rimborsi o sostituzione del volo in caso fosse cancellato per sciopero o scelta della compagnia. Domenica 17 luglio i lavoratori di Ryanair e altre compagnie low cost saranno in sciopero dalle 14 alle 18

L’estate del 2022 segna un ritorno per milioni di persone ai viaggi in aereo, i disagi per i passeggeri però sono molti. Compagnie ed aeroporti sono in difficoltà dopo il lungo periodo Covid e sono migliaia i voli cancellati. E poi ci sono le proteste dei lavoratori che chiedono un aumento degli stipendi.

Domenica in Italia è previsto uno sciopero delle compagnie low cost Ryanair, Easyjet, Volotea, Malta Air e Crewlink. L’orario previsto per lo sciopero è tra le 14 e le 18, periodo in cui i voli sono cancellati. Voleranno normalmente tra le 7 e le 10 di mattina e dalle 18 alle 21. Ecco una breve guida su cosa fare in caso di volo cancellato e sulle normative che tutelano i passeggeri in Europa. 

VOLI GARANTITI E VOLI CANCELLATI

Sul sito dell’Ente nazionale dell’aviazione civile (Enac), in questa pagina, è possibile consultare un pdf in cui si stila la lista dei voli che sono garantiti anche in caso di sciopero, come nel caso di domenica prossima, 17 luglio. 

Se il volo non rientra tra i voli garantiti dall’Enac, il modo migliore per sapere se il proprio volo è stato cancellato o meno è contattare direttamente la compagnia, telefonicamente o tramite i siti ufficiali. Si può infine andare sul sito dell’aeroporto da cui si parte e vedere la sezione “voli in tempo reale”. 

IL RIMBORSO PER VOLO CANCELLATO 

I consumatori in caso di cancellazione del volo hanno diritti ben riconosciuti dal regolamento europeo CE 261/2004. Va tenuto a mente che il regolamento è valido solo per i voli che partono da un aeroporto europeo o nel caso in cui la compagnia per la quale si è acquistato il biglietto sia europea. 

Il regolamento non vale per voli in partenza da destinazioni extra europee, di compagnie non europee che atterreranno in Europa. È sempre bene tenere con sé il biglietto con il numero di volo, dal momento che è necessario anche per chiedere il rimborso ed un eventuale compensazione pecuniaria. 

Nel caso di cancellazione il passeggero ha diritto al rimborso oppure a partire con un volo alternativo proposto dalla compagnia. Sta poi al passeggero decidere se preferisce l’orario più vicino a quello della partenza già stabilita o in una data successiva comoda al passeggero. Se ci fosse da attendere molto per il nuovo viaggio, il passeggero ha diritto a pasti e bevande e in caso anche ad un soggiorno in albergo per la notte, con incluso il trasporto. 

COMPENSAZIONI DAI 250 AI 600 EURO

Le compensazioni sono previste anche in caso di sciopero e variano in base alle tratte che si sarebbe dovuto percorrere.

Per i voli dentro la comunità europea, con tratte di meno 1500 chilometri sono previsti 250 euro.  

400 euro per le tratte oltre i 1500 chilometri. 

Per le tratte extra Ue entro i 1500 chilometri, 250 euro. 

Per le tratte tra i 1500 chilometri e i 3500, sono previsti 400 euro.

600 euro per le tratte oltre i 3500 chilometri. 

Sono escluse le compensazioni pecuniarie solo in casi eccezionali. Lo sciopero è già stato riconosciuto come caso ordinario. 

Le condizioni eccezionali possono essere cause meteo avverse improvvise o il fatto che passeggero sia stato informato dalla compagnia con più di due settimane di anticipo. In questi casi al passeggero dovrebbe essere proposto un volo alternativo tra le due settimane e una settimana prima del volo, un biglietto alternativo che parta con al massimo due ore di differenza del volo previsto e che non arrivi oltre quattro ore dopo. Se venisse proposto nella settimana precedente al viaggio, un volo che parta più di un’ora prima e con arrivo al massimo due ore dopo.

COME CHIEDERE IL RIMBORSO E LA COMPENSAZIONE

Sui siti delle compagnie aeree è possibile trovare i form da compilare per accedere al rimborso. Qui EasyJet e Ryanair, due delle compagnie in sciopero domenica prossima, 17 luglio. Altrimenti è possibile compilare il modulo europeo di richiamo per i diritti dei passeggeri da consegnare alla compagnia con cui si vola.

Ci sono poi diverse app o siti specializzati in questo tipo di problematiche, come: Rimborsovoli.it, Sosvolo.com, Salvaviaggio.com, Flycare.eu, Airhelp.com. Nel caso in cui ci fossero difficoltà eccessive per ricevere il rimborso e l’eventuale compensazione, conviene consultare un avvocato specializzato o un’associazione di consumatori.

STEFANO CHIANESE

Leonard Berberi per corriere.it il 3 luglio 2022.   

In questo periodo decine di migliaia di persone finiscono vittime dei voli cancellati o in forte ritardo (anche di 6-7 ore) ogni giorno. Ma il contesto territoriale in cui il disagio si verifica e anche la nazionalità della compagnia aerea giocano un ruolo importante sul fronte delle tutele previste per i consumatori. Ecco alcune risposte. 

Cosa posso fare se il mio volo è cancellato?

Se la compagnia aerea è basata nell’Unione europea si applica il Regolamento Ue 261: il passeggero vittima di un viaggio annullato ha diritto ad essere riaccomodato su un altro volo (non necessariamente della stessa compagnia) e può anche chiedere il risarcimento (oltre al rimborso del biglietto) se l’avviso di cancellazione è avvenuto meno di due settimane prima del decollo. 

E se a cancellare il volo è una compagnia extra Ue?

Allora bisogna vedere cosa prevede il contratto di servizio di quel vettore. Le norme, al di fuori dall’Ue, variano da Paese a Paese e spesso anche da vettore a vettore.

Qual è l’ambito di competenza del Regolamento Ue 261?

Il Regolamento si applica ai voli all’interno dell’Unione europea gestiti da un vettore comunitario o extracomunitario, ai voli che arrivano nell’Ue e operati da una compagnia comunitaria, ai voli che partono dall’Ue con destinazione al di fuori dell’Unione a bordo di un’aviolinea comunitaria o meno. 

Quali sono i miei diritti in caso di viaggio annullato?

Ci sono tre livelli di tutela. Il primo: in caso di volo annullato hai il diritto di scegliere fra il rimborso, un volo alternativo o un volo di ritorno. Il secondo livello: hai anche diritto all’assistenza all’aeroporto. Il terzo livello: se sei stato informati della cancellazione meno di 14 giorni prima della data prevista per la partenza hai diritto a un risarcimento. 

A quanto ammonta il risarcimento?

Dipende dalla distanza: 250 euro, a passeggero, per voli fino a 1.500 chilometri, 400 euro per i voli oltre 1.500 chilometri dentro l’Ue e quelli compresi tra 1.501 e 3.500 chilometri, 600 euro per i viaggi oltre i 3.500 chilometri. 

Si ha diritto sempre al risarcimento?

No. Questo non è dovuto se si viene informati più di 14 giorni prima della partenza o se l’informazione avviene tra 2 settimane e 7 giorni prima della partenza prevista ma in presenza dell’offerta di un volo alternativo che consentirebbe di partire non oltre 2 ore prima dell’orario originariamente previsto e di raggiungere la destinazione finale meno di 4 ore dopo l’arrivo originariamente previsto. E ancora: il risarcimento non è dovuto se la compagnia può provare che la cancellazione deriva da circostanze eccezionali. 

E se la cancellazione viene notificata meno di una settimana prima?

A quel punto il risarcimento non è dovuto se la compagnia offre un volo alternativo che consentirebbe di partire non oltre 1 ora prima dell’orario originariamente previsto e di raggiungere la destinazione finale meno di 2 ore dopo l’arrivo originariamente previsto. Se la compagnia propone un volo alternativo che consente di raggiungere la destinazione finale con un ritardo di 2, 3 o 4 ore, il risarcimento può essere ridotto del 50%. 

Se resto bloccato in aeroporto cosa posso fare?

La compagnia deve garantire una serie di servizi. Tra questi: bevande e cibo, sistemazione in albergo (se si deve riprendere il viaggio il giorno successivo), trasporti tra l’aeroporto e l’albergo, due chiamate telefoniche. 

E se la compagnia aerea non fornisce un voucher o una sistemazione in albergo?

Se questo non è avvenuto e il viaggiatore ha dovuto pagare i pasti, le bevande, l’hotel allora la compagnia aerea deve rimborsare questi costi: la richiesta deve essere accompagnata dalle ricevute che dimostrano l’acquisto dei servizi. 

Che succede se il mio volo è in ritardo?

Dipende. Se la partenza del volo è ritardata si ha diritto — sempre per il Regolamento Ue 261 — all’assistenza, al rimborso e a un volo di ritorno, «a seconda della durata del ritardo e della distanza del volo». Se si arriva a destinazione con un ritardo di oltre 3 ore si ha diritto al risarcimento, a meno che il ritardo non sia dovuto a circostanze eccezionali. 

Cosa sono le circostanze eccezionali?

Tutte quelle situazioni che non si potevano evitare o prevedere come il maltempo, lo sciopero selvaggio, un blocco informatico, ecc. 

Chi deve dimostrare le circostanze eccezionali?

La compagnia aerea è tenuta a mostrare gli estratti dei giornali di bordo o delle relazioni su eventuali incidenti che ne hanno ritardato lo spostamento all’organismo nazionale di applicazione competente. 

Ho diritto ai pasti e alle bevande se il mio volo è in ritardo?

Sì, «in quantità ragionevole rispetto ai tempi di attesa». Si ha diritto anche a un paio di telefonate. Il Regolamento Ue 261 ricorda che questo «dipende dalla durata del ritardo e dalla distanza del volo»: un ritardo di 2 ore o più per i voli che non superano i 1.500 chilometri, un ritardo di 3 ore o più per i voli intracomunitari di più di 1.500 chilometri e per tutti gli altri voli tra 1.500 e 3.000 chilometri e un ritardo di 4 ore o più per tutti gli altri voli.

Come posso chiedere il risarcimento?

Per prima cosa deve sempre inviare un reclamo alla compagnia aerea compilando il modulo (che si può scaricare qui). In secondo luogo il viaggiatore può rivolgersi all’autorità nazionale competente. Oppure agli organismi per la risoluzione alternativa delle controversie (c’è anche la piattaforma online a questo sito). Oppure, ultimo livello, rivolgersi alla giustizia del proprio Paese di residenza.

"Siamo noi i responsabili". L'attentato in volo rimasto senza giustizia. Mariangela Garofano il 10 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il 23 giugno 1985 un volo della compagnia aerea Air India esplode nei cieli irlandesi, provocando la morte di più di 300 persone e passando alla storia come il secondo attentato più grave dopo le Torri Gemelle. A causare la strage una bomba collocata da terroristi indiani di religione Sikh 

Il 23 giugno 1985 un Boeing 747 della compagnia Air India decolla da Montreal, Canada, diretto a Delhi, India. Il lungo viaggio prevede una fermata intermedia all'aeroporto di Heathrow, Londra. Ma mentre sta sorvolando i cieli irlandesi, il velivolo esplode a causa di una bomba, provocando il decesso di tutte le 329 persone presenti a bordo. L'esplosione del volo Air India 182 viene ricordata ancora oggi come il più grave attacco terroristico mai avvenuto, prima di quello delle Torri Gemelle nel 2001.

La sparizione del Boeing dai radar

La mattina del 23 giugno 1985 dall’aeroporto internazionale Montreal-Mirabel parte il volo Air India 182 diretto a Delhi. Il volo procede senza intoppi, ma alle 7.14 il controllo del traffico aereo perde improvvisamente il collegamento con il Boeing. Gli operatori tentano allora un contatto visivo grazie ai velivoli che in quel momento stanno volando nei pressi del Boeing, ma senza successo. Dov’è finito il volo 182, dal quale non era partito alcun mayday prima di sparire dai radar? 

Dopo aver dichiarato lo stato d’emergenza, alle 9.30 una nave cargo e una nave Aisling del Servizio navale irlandese ritrovarono i resti dell’aereo nell’Oceano Atlantico. I soccorritori rinvennero anche alcune delle vittime in mare, ma riuscirono a recuperarne solo 131. Il bilancio complessivo della tragedia fu di 329 deceduti, dei quali 280 indiani di nazionalità canadese, tra cui molti bambini.

Le indagini condotte sui resti rivelarono che a provocare la tremenda esplosione del velivolo a 9400 metri d’altezza fu un ordigno, collocato in una radio Sanyo modello Fmt 611 K, posto all’interno di una valigia sul volo Canadian Pacific Airlines 60, in partenza dall'aeroporto di Toronto. Il bagaglio risultava essere di un certo M. Singh, che però non si imbarcò sul volo per Delhi a causa dell’overbooking, mentre la sua valigia venne trasferita da Toronto a Montreal e imbarcata sul volo Air India 182.

Ma l'attentato al volo 182 fu solo uno dei due attacchi su scala internazionale organizzati e messi in atto quel 23 giugno. Cinquantacinque minuti dopo la scomparsa del Boeing partito da Montreal, esplose un'altra bomba, questa volta presso l'aeroporto di Tokyo-Narita, in Giappone. L'ordigno avrebbe dovuto esplodere a bordo del volo Air India 301, ma esplose a terra prima di essere caricato sull'aereo.

In Giappone la bomba uccise due addetti ai bagagli e ne ferì quattro. I due attacchi, sferrati quasi in contemporanea, risultarono essere una risposta degli indiani sikh canadesi, appartenenti al gruppo terroristico dei Babbar Khalsa, all’Operazione Blue Star presso il Tempio d’oro, il luogo di culto più sacro per i Sikh, dove l'anno precedente si consumò una strage. L’operazione fu ordinata dal Primo Ministro Indira Gandhi nel 1984, e aveva lo scopo di eliminare i militanti rivoluzionari Sikh. Gli appartenenti al Babbar Khalsa miravano a creare una patria indipendente per i sikh, che avrebbe dovuto comprendere la regione del Punjab tra India e Pakistan, chiamata "Khalistan".

Le indagini per assicurare i responsabili alla giustizia durarono quasi 20 anni e furono le più costose che il governo canadese abbia mai dovuto sostenere. Diversi terroristi vennero arrestati e processati negli anni, ma l'unico a essere condannato definitivamente nel 2003 fu Inderjit Singh Reyat, un membro della Federazione giovanile Sikh Internazionale, un'altra organizzazione terroristica. Reyat venne incriminato per aver fabbricato entrambe le bombe del volo Air India e dell'aeroporto Narita e dopo aver scontato 30 anni di prigione oggi è un uomo libero.

Ajaib Singh Bagri e Ripudaman Singh Malik sono gli altri due sospettati, in seguito prosciolti per l'attentato. I due Sikh di nazionalità canadese erano stati accusati di cospirazione e omicidio di massa, ma come riportato da Cbc, il giudice Josephson della Corte Suprema del British Columbia, non ritenne le testimonianze contro i due indagati attendibili, in quanto "non veritiere, inconsistenti e arrivate troppo tardi negli anni". In particolar modo, il giudice non credette a una ex fidanzata di Malik, che affermò durante il processo contro i due uomini, che Malik le avrebbe confessato: "Siamo noi i responsabili della strage dell'Air India". Josephson ritenne la testimonianza resa dalla donna non credibile.

Lo scontro in volo, poi lo schianto: una strage per 349 persone. Mariangela Garofano il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il 12 novembre 1996 due aerei volano sulla stessa rotta, ma in direzioni opposte: si scontrano in cielo causando la peggiore strage aerea avvenuta in India.

È il 12 novembre 1996 quando il volo Saudi Arabian Airlines 763 e il volo Kazakistan Airlines 1907 si scontrano nei cieli di Charkhi Dadri, India, causando la morte di tutte le persone a bordo dei due aerei. Con 349 vittime, lo scontro è considerato uno dei più gravi incidenti aerei mai accaduti e il più disastroso avvenuto in India.

La collisione

I due velivoli a scontrarsi in volo, un Boeing 747 della compagnia aerea saudita Saudia, e un Ilyushin Il-76TD della Kazakistan Airlines, ospitavano rispettivamente 312 e 37 persone a bordo. Il jumbo della Saudia stava volando da Delhi a Dharahn, Arabia Saudita, quando impattò contro il volo kazako, che stava volando da Şımkent, Kazakistan, a Delhi. Alle ore 18.32 il volo Saudia decollò, e simultaneamente l’altro velivolo fu autorizzato ad atterrare mentre i due aerei si trovavano sulla stessa aerovia, in direzioni opposte.

Il controllore di volo accordò al volo kazako di scendere a 15000 piedi, mentre diede l’ok a quello saudita di salire a 14000 piedi. Dopo qualche minuto, alle 18.40, il volo Kza1907 comunicò alla torre di controllo di aver raggiunto l’altezza stabilita, ma in realtà si trovava più in basso. A quel punto il controllore di volo avvisò l’equipaggio che un altro velivolo si trovava sulla medesima rotta.“Traffico identificato a ore 12”, venne comunicato ai piloti, “reciproco Saudia Boeing 747, 10 miglia nautiche. Rapporto quando lo avete in vista".

Ma l’Ilyushin non rispose più e, prima che l'operatore riuscisse ad avvertire l’altro velivolo, i due aerei erano già entrati in collisione. Nell'impatto la coda dell'aereo kazako spezzò l'ala sinistra e lo stabilizzatore orizzontale del Saudia. Quest’ultimo prese fuoco e si disintegrò in volo, prima di schiantarsi al suolo, all’incredibile velocità di 1.135 chilometri all'ora. L’Ilyushin rimase invece intatto a livello strutturale, ma precipitò poco dopo in un campo.

I soccorsi che arrivarono nel villaggio di Dhani - luogo in cui si schiantò il volo saudita - trovarono 2 passeggeri ancora vivi, seduti al loro posto con le cinture allacciate, ma purtroppo non ce la fecero e morirono poco dopo per le gravi lesioni interne riportate. Anche 4 passeggeri presenti sul volo kazako furono rinvenuti ancora in vita, ma in seguito subirono la stessa sorte degli altri. Le vittime della tremenda collisione nei cieli indiani fu di 349 persone.

Le indagini e le responsabilità della tragedia

Ad occuparsi delle indagini per stabilire le cause della tragedia fu il giudice dell'Alta Corte di Delhi, Ramesh Chandra Lahot. Come si legge in un articolo di Repubblica datato 1996, gli inquirenti stabilirono che la responsabilità dell'incidente fu del pilota del volo kazako, Alexander Cherepanov, il quale interpretò erroneamente le disposizioni del controllore del traffico aereo. Le indicazioni dell'operatore erano infatti per il Saudia appena decollato, non per l'Ilyushin che stava atterrando.

Secondo quanto emerso dalle scatole nere, Cherepanov avrebbe capito di dover scendere a una quota inferiore a quella corretta di 15000 piedi, portando il velivolo a 14500 piedi e più in basso, a 14000. Quando l'operatore si accorse dell'errore, avvertì il pilota il quale risalì e si ritrovò malauguratamente sulla stessa rotta del Saudia, causando lo scontro.

Durante le indagini i controllori di volo indiani affermarono che spesso i piloti kazaki confondevano i loro calcoli, perché usavano i metri e i chilometri al posto dei più utilizzati piedi e miglia nautiche, per calcolare le distanze. A questo si aggiunse il fatto che molto probabilmente il pilota dell'Iliyushin, come altri piloti kazaki, non conoscesse perfettamente la lingua inglese, cosa che lo mandò in confusione. 

A seguito dell'incidente la Direzione generale dell'aviazione civile ordinò che tutti gli aeromobili in entrata e in uscita dall'India venissero dotati del Traffic collision avoidance system, ovvero uno dispositivo che avverte i piloti della possibile presenza di un altro velivolo nelle vicinanze, evitando una collisione. 

La segnalazione di un escursionista. Elicottero disperso sul monte Cusna, trovati i 7 corpi e i resti del velivolo: spunta video del mezzo nella tempesta. Redazione su Il Riformista l'11 Giugno 2022. 

Sono stati trovati sette cadaveri e i resti dell’elicottero scomparso giovedì sull’Appennino reggiano. Le ricerche del velivolo, su cui viaggiavano il pilota padovano di 33 anni Corrado Levorin e i passeggeri, imprenditori turchi e libanesi: Kenar Serhat, Cez Arif, Ilker Ucak, Erbilaltug Bulent, Chadi Kreidy e Tarek El Tayak, si sono concentrate sul monte Cusna, cima dell’Appennino reggiano.

È questa l’area dove sono stati individuati un cratere, dei detriti  e soprattutto i corpi senza vita e carbonizzati. A segnalare ai soccorritori i resti dell’elicottero, decollato da Lucca e diretto a Treviso, scomparso giovedì scorso, è stato un escursionista che si trovava nell’area.

Inizialmente i soccorsi hanno individuato solamente i resti del velivolo, quindi i primi cinque corpi intorno alle 13: dopo poco più di un’ora il ritrovamento degli ultimi due corpi senza vita.

L’elicottero si sarebbe schiantato sul greto di un torrente, il Lama, al passo degli Scaloni, 1.922 metri d’altitudine, a due chilometro dal rifugio Segheria. Sul posto sono presenti Aeronautica militare, Soccorso alpino, Guardia di finanza e Carabinieri di Castelnuovo Monti.

L’elicottero scomparso era partito il 9 giugno alle 9.30 del mattino dall’aeroporto di Capannori Tassignano, in provincia di Lucca, ed era diretto nel trevigiano: l’ultima traccia da cellulare, era stata rilevata intorno alle 11 e 50 nei pressi di Pievepelago, sull’Appennino tosco-emiliano.

Secondo quanto riporta oggi la Gazzetta di Modena, ci sarebbe un video di pochi secondi inviato via chat da uno dei sei passeggeri a suo figlio, che mostra il volo nel mezzo di un violento temporale, prima del ‘blackout’. Il destinatario dl filmato, il figlio di uno dei due manager libanesi a bordo, non lo ha diffuso, a fronte delle indagini in corso.

Intanto la Procura della Repubblica di Lucca ha avviato una inchiesta sulla scomparsa dell’elicottero: l’ipotesi di reato avanzata dagli inquirenti sarebbe quella di disastro colposo e al momento non vi sarebbero iscritti sul registro degli indagati.

La zona del ritrovamento è stata immediatamente posta sotto sequestro dall’Autorità Giudiziaria di Reggio Emilia che procede.

Pierfrancesco Carcassi e Benedetta Centin per corriere.it l'11 giugno 2022.

Individuati i sette cadaveri delle persone - tra cui il pilota padovano Corrado Levorin - che erano a bordo dell’elicottero scomparso giovedì mattina sull’Appennino tosco-emiliano e i cui resti sono stati avvistati la mattina dell'11 giugno sul monte Cusna, cima reggiana. L’elicottero si sarebbe schiantato sul greto di un torrente, il Lama, al passo degli Scaloni, 1.922 metri d’altitudine, a due chilometri dal rifugio Segheria. Nessun superstite.

La zona è particolarmente impervia. Sul luogo dell’impatto Aeronautica militare, Soccorso alpino, Guardia di finanza, Carabinieri di Castelnuovo Monti. L’area è sotto sequestro. In mattinata sul monte Cusna erano stati individuati un cratere e dei detriti compatibili con i resti del velivolo. Dopo la segnalazione di un escursionista, l’avvistamento da parte di un elicottero della Guardia di Finanza, nei dintorni del rifugio Battisti: nel verde del bosco, alberi bruciati e di alcuni resti metallici. «Abbiamo trovato tutto bruciato, l'elicottero vicino a un ruscello, tutto spaccato», ha detto l'operatore di bordo dell'elicottero che ha ritrovato i rottami per primo. Sul posto sono arrivate tutte le forze a disposizione, sia a piedi che trasportate da elicotteri. 

Le vittime: i sei imprenditori stranieri e il pilota italiano

A bordo sei imprenditori del mondo del cartario (4 di origini turche e 2 di origini libanesi) venuti in città per partecipare alla fiera It’s Tissue. Si tratta di Kenar Serhat, Cez Arif, Iker Ucak, Erbil Altug Bulent, dipendenti di un’importante azienda turca, la Eczacibasi; e di Chadi Kreidy e Tarek El Tayak, rispettivamente della ditta Sanita e Gespa del gruppo libanese Indevco. Al comando del mezzo Corrado Levorin, 33 anni, pilota esperto di Padova. 

«Il rottame era in una gola strettissima»

L'area delle ricerche è stata delimitata in base alle celle telefoniche a cui si sono agganciati i cellulari dei passeggeri: l'ultima nel Modenese, a Pievepelago. Da lì le forze di soccorso coordinate dal colonnello Alfonso Cipriano dell'Aeronautica militare si sono mosse per cercare di individuare il velivolo precipitato. Un grande dispiego di forze - si parla di una ventina di missioni e una cinquantina di ore di volo, oltre alle forze terrestri - che per tre giorni non ha dato frutti. La svolta è arrivata con la segnalazione di un runner che aveva notato dei rottami lungo un canalone a circa 1.700 metri, poi identificati dall'elicottero dei soccorsi come i resti del velivolo scomparso. «La difficoltà delle ricerche è dovuta all'orografia del terreno e al percorso che l'elicottero ha fatto, forse a causa delle condizioni meteo», spiega il colonnello Cipriano. «Ci siamo prima concentrati attorno alle vallate e alle zone più difficili da raggiungere poi ci siamo allargati. 

Le montagne non sono particolarmente alte ma la vegetazione è foltissima. L'elicottero era in una gola strettissima quasi irraggiungibile a piedi: io stesso passando sopra con l'elicottero avrei fatto fatica a individuarlo se non fosse stato per i primi nostri uomini sul posto, calati con il verricello». La seconda squadra è arrivata sull'elicottero del Soccorso alpino: «Siamo atterrati sul crinale poco distante, abbiamo camminato per circa 200 metri e poi siamo scesi con le corde - racconta Nicholas Barattini, capostazione del Soccorso alpino di Modena - per circa 25 metri di calata dal sentiero. Dentro un impluvio c'era la carcassa dell’elicottero. Un luogo senza comunicazione telefonica e senza segnale radio. L'unica possibilità di comunicazione era sul crinale dove ci siamo fermati».

Le indagini sul disastro

Intanto, i carabinieri di Lucca indagano sull’accaduto. In particolare la Procura di Lucca, riferisce il quotidiano il Tirreno, prospetterebbe l’ipotesi di un’apertura prossima di un fascicolo di indagine per disastro colposo. I militari hanno sentito per sommarie informazioni i responsabili dell’aeroporto e quelli dell’aeroclub, così come i responsabili del servizio di aero-taxi che era già operativo da alcuni giorni proprio per consentire ai manager che erano arrivati a Lucca per partecipare a It’s Tissue di spostarsi in altre zone per visitare stabilimenti fuori dalla Toscana.

Tra i punti oscuri, il perché del mancato funzionamento dell’Emergency locator transmitter (Elt), una sorta di scatola nera che in caso di impatto trasmette automaticamente un segnale radio che permette la localizzazione del velivolo. Richiesti anche il piano di volo (che però sembra non esserci e del resto non è obbligatorio) e i tracciati radar. I militari hanno fatto visita anche ai due alberghi di Lucca, in cui alloggiavano i manager turchi e libanesi che viaggiavano sull’elicottero. L’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (Ansv) ha aperto un’inchiesta di sicurezza e disposto l’invio di un proprio investigatore sul luogo dell’incidente. 

Le ricerche

Ci sono voluti tre giorni per trovare l’elicottero di proprietà della vicentina Avio Helicopters srl scomparso giovedì mattina sull’Appennino tosco-emiliano nel mezzo di un violento temporale. A bordo il pilota padovano Corrado Levorin con quattro cittadini turchi e due libanesi partiti dall’aeroporto di Capannori Tassignano (Lucca) e diretto nel Trevigiano, a Resana. L’ultima rilevazione dei sistemi radar collocava il velivolo nel territorio modenese, nel comune di Pievepelago. Ed è lì che si sono concentrate le ricerche, sconfinando anche nel versante toscano del crinale. Sabato mattina sono ripresi i sorvoli e le ricognizioni da terra, sotto il coordinamento dell’Aeronautica militare e della prefettura di Modena. 

Il video

Ci sarebbe anche un video, un breve filmato di pochi secondi inviato via chat da uno dei sei passeggeri a suo figlio, che documenterebbe il volo dell’elicottero. Lo riporta la Gazzetta di Modena, precisando che per il momento il destinatario del filmato - il figlio di uno dei due manager libanesi a bordo - non lo ha diffuso, a fronte delle indagini in corso. A quanto pare nel video, di una ventina di secondi, mandato al figlio in Libano verosimilmente prima del blackout che ha inghiottito l’elicottero, si vedrebbe il volo durante una tempesta. Giovedì, al momento dello schianto dell’elicottero, le condizioni meteo su quell’area di Appennino tra Toscana ed Emilia erano avverse: il crinale era stato investito da una tempesta di pioggia, fulmini e grandine.

Ai comandi un pilota esperto

Ai comandi c’era Corradin, padovano di 33 anni, un esperto pilota della Avio Srl, società di Thiene specializzata nel trasporto passeggeri, con base all’aeroporto Arturo Ferrarin sempre di Thiene (Vicenza). Giovedì stava portando i sei imprenditori stranieri nella Marca trevigiana per un viaggio di lavoro. Erano le 9.30 quando l’elicottero è decollato dalla provincia di Lucca. Quando il meteo è cambiato e il cielo si è fatto più scuro, anche l’equipaggio è stato travolto. L’ultima rilevazione è stata fra la Toscana e il Modenese. Poi, l’elicottero sembra essere stato inghiottito dal nulla. L’allarme è stato lanciato nel pomeriggio. 

Elicottero scomparso, trovati tutti i 7 cadaveri. E ora spunta un video. Valentina Dardari l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Si è schiantato l'elicottero scomparso dai radar. Individuati sul monte Cusna i cadaveri di cinque dei sette passeggeri che erano a bordo.

Fra i resti dell'elicottero che è stato ritrovato stamattina sul monte Cusna, fra le province di Reggio Emilia e Modena, sono stati individuati i sette cadaveri dei passeggeri che si trovavano a bordo del velivolo al momento dello schianto. I corpi sarebbero carbonizzati. A dare la notizia sono stati i soccorritori che per primi sono riusciti ad arrivare sul posto della tragedia. La prefettura di Modena ha confermato quanto reso noto.

La zona dello schianto

L'elicottero era partito giovedì mattina dall'aeroporto di Capannori Tassignano, nel Lucchese. Avrebbe dovuto raggiungere il Trevigiano. Il mezzo è però precipitato vicino al torrente Lama, al passo degli Scaloni, a una altezza di 1.922 metri dal livello del mare e a circa due chilometri dal rifugio Segheria.

Sul luogo del tragico impatto sono intervenuti Aeronautica militare, Soccorso alpino, Guardia di finanza, Carabinieri di Castelnuovo Monti. L’area è stata messa sotto sequestro dall'Autorità Giudiziaria di Reggio Emilia che procede cone le indagini. A bordo dell’elicottero erano presenti sette persone: il pilota, veneto, Corrado Levorin, e altri sei passeggeri, di cui quattro manager turchi e due libanesi, Kenar Serhat, Cez Arif, Ilker Ucak, Erbilaltug Bulent, Chadi Kreidy e Tarek El Tayak. Ci sarebbe anche un video, un breve filmato di pochi secondi che era stato inviato via chat da uno dei sei passeggeri al proprio figlio. Questo documenterebbe parte del volo dell'elicottero che è poi scomparso dai radar durante un violento temporale. La notizia è stata riporta da la Gazzetta di Modena, precisando che per il momento il destinatario del filmato, ovvero il figlio di uno dei due manager libanesi a bordo del velivolo, non ha diffuso le immagini, a fronte delle indagini in corso.

L'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo ha aperto una inchiesta di sicurezza e disposto l'invio di un proprio investigatore sul luogo dell'incidente che ha coinvolto l'elicottero A119 Koala marche di identificazione I-Elop.

Elicottero disperso, a bordo sette persone: ricerche tra Emilia e Toscana

Un video girato durante la tempesta

Secondo quanto appreso dal quotidiano locale, nel video, che avrebbe una durata di circa una ventina di secondi, e che sarebbe stato inviato al figlio in Libano poco prima del blackout che ha inghiottito l'elicottero, si vedrebbe il volo proprio durante una tempesta. Questo dettaglio, come altri, si trova ora al vaglio delle forze impegnate nelle ricerche. Lo scorso giovedì mattina, al momento dello schianto dell'elicottero, le condizioni meteo su quell'area di Appennino tra la Toscana e l’Emilia erano particolarmente avverse, con forte pioggia, fulmini e grandine. I sei stranieri erano attesi alla Roto Cart di Giuliano Gelain, il velivolo faceva infatti la spola due volte al giorno, una al mattino e l'altra al pomeriggio, per portare i compratori in azienda a Castelminio di Resana. Fino all’ultimo Gelain aveva sperato che il velivolo non si fosse schiantato, affermando: "Sono convinto che non si sia schiantato altrimenti, secondo i tecnici, sarebbe partito un segnale di allarme, che noi non abbiamo mai ricevuto". Purtroppo però, le cose sono andate diversamente.

"Nessuno aprì le porte". L'incendio e i 300 morti dopo l'atterraggio. Mariangela Garofano il 12 Giugno 2022 su Il Giornale.

Nell'agosto 1980 un Lockheed L-1011 Tristar della compagnia aerea Saudia chiede di poter effettuare un atterraggio d'emergenza a Riad per la presenza di fumo nella stiva: l'aereo esplode senza lasciare scampo ai passeggeri.

Il 19 agosto 1980 un volo operato dalla compagnia aerea saudita Saudi Arabian Airlines (nota come Saudia) decolla dall'aeroporto Internazionale Jinnah, in Pakistan, con direzione Gedda, Arabia Saudita. L’aereo, su cui volano complessivamente 301 persone, effettua uno stop intermedio nella capitale saudita, Riad, prima di dirigersi verso Gedda. Ma, appena decollato da Riad, il velivolo prenderà fuoco, provocando il decesso di tutte le persone presenti a bordo.

La dinamica dell’incidente

Karachi, Pakistan, 20 agosto 1980. Alle 18.32 dall’aeroporto internazionale Jinnah decolla un Lockheed L-1011 Tristar con direzione finale Gedda, Arabia Saudita. Alle 19.06 il volo Saudia 163 fa uno scalo intermedio di due ore a Riad e riparte. Ma dopo soli 7 minuti di volo i piloti ricevono un avviso di fumo nella stiva e si attivano per verificare cosa sta accadendo. Bradley Curtis, l’ingegnere di volo, torna in cabina di pilotaggio affermando che nella stiva c’è davvero del fumo.

A questo punto il comandante, Mohammed Ali Khowyter, decide di tornare indietro e di atterrare a Riad, ma un nuovo problema si aggiunge ad aggravare la situazione. Una delle manette, quella del motore numero due, si inceppa a causa del fuoco che ha bruciato il cavo operativo. I piloti quindi decidono di spegnere il motore e avvertono l’aeroporto di Riad della necessità di dover effettuare un atterraggio d’emergenza.

Una volta atterrati, i piloti comunicano che stanno per iniziare a spegnere i motori e a procedere con l’evacuazione dei passeggeri. Ma i motori sulle ali resteranno in funzione per altri 3 minuti e 5 secondi, per cui i soccorsi non possono avvicinarsi al velivolo. Cosa sta accadendo sul volo 163 e perché i passeggeri non vengono fatti sbarcare?

Dall’esterno si vedono chiaramente le fiamme ardere all’interno del velivolo, e non ci sarà più nessuna comunicazione con la cabina di pilotaggio. Ventitré minuti dopo lo spegnimento dei motori i servizi d’emergenza aprono la porta sul lato destro dell’aereo e si trovano di fronte uno scenario catastrofico. Tutti i passeggeri sono stipati, privi di vita, nella parte anteriore del velivolo, in un chiaro tentativo di sfuggire alle fiamme propagatesi nella parte posteriore. Tre minuti dopo l'apertura delle porte, il Lockheed esplode, dando appena il tempo ai soccorritori di uscire e mettersi in salvo.

Le indagini e i cambiamenti nelle procedure

L'inchiesta aperta dalle autorità saudite non chiarì come mai i membri dell'equipaggio non aprirono le porte una volta atterrato l'aereo, ma si presume che questi, come i passeggeri, fossero privi di conoscenza a causa del fumo presente nel velivolo, proveniente dalla sezione C3 della stiva, dove si innescò l'incendio. Le indagini stabilirono, grazie alle autopsie effettuate su alcuni dei passeggeri, che le vittime morirono per le inalazioni di fumo e non per le ustioni provocate dalle fiamme.

Vennero inoltre rinvenuti i resti di due stufe a butano sull'aereo, cosa che fece sospettare che un assistente di volo o un passeggero utilizzò il gas di una delle stufe per scaldare l'acqua per il tè, scatenando l'incendio a bordo. Ma l'ipotesi rimase tale e non fu mai confermata.

Dopo la tragedia del volo della compagnia saudita, vennero apportare delle modifiche sui Lockheed. Venne rimosso l'isolamento sopra la parte posteriore della stiva e aggiunta una struttura in vetro laminato come rinforzo. Inoltre il National Transportation Safety Board decise di dotare i velivoli di estintori alometanici invece di quelli tradizionali. Importanti cambiamenti vennero introdotti anche nell'equipaggio.

Venne rilevata infatti una scarsa comunicazione tra i piloti e l'equipaggio, cosa che avrebbe portato a compiere una serie di errori. Furono evidenziate delle "distanze di potere" tra superiori e sottoposti, tali per cui le decisioni prese dall'alto raramente venivano contestate. Questo fenomeno avveniva soprattutto in certi tipi di culture, come nel caso del volo Saudia 163, dove il primo ufficiale potrebbe non aver messo in discussione i provvedimenti adottati dal comandante. "Nelle culture con distanze di potere molto elevate", si legge nel rapporto conclusivo, "i giovani non mettono in discussione i superiori, e i leader possono essere autocratici". A oggi il disastro accaduto al volo Saudia 163 resta uno degli incidenti aerei con la più grave perdita di vite umane nella storia dell'aviazione civile.

Perché gli aerei non hanno paracadute per ogni passeggero? Da Focus.it.

Se c'è un salvagente per ogni sedile, perché nessuno ha pensato a quest'altro dispositivo salvavita?

No, i paracadute personali non lo renderebbero più sicuro.

I più ansiosi in fatto di voli potrebbero averci pensato: non sarebbe rassicurante avere, nella dotazione di sicurezza di ogni passeggero, anche un paracadute di emergenza?

Forse, se li sapessimo usare e se le centinaia di persone a bordo avessero qualche possibilità di dispiegarli ordinatamente, mano a mano che escono dal velivolo. La realtà dei fatti è che il passeggero medio di un volo commerciale ha molte più chances di sopravvivere rimanendo seduto e adottando le disposizioni di sicurezza già in uso. 

IMPREPARATI. Lanciarsi con il paracadute richiede sangue freddo, la preparazione necessaria per mantenere la posizione giusta durante il salto e il volo, oltre a diversi minuti di preparazione per indossare correttamente il dispositivo. Tutte condizioni impraticabili, con le accelerazioni, i sobbalzi e la velocità di un jet in pericolo.

DALLA PADELLA ALLA BRACE. Il rischio di aprirlo nell'abitacolo, con gravi conseguenze sulla stabilità dell'aereo e sull'incolumità dei passeggeri, sarebbe altissimo, senza contare che le normali uscite di sicurezza dei velivoli di linea non sono adatte a questo tipo di lancio: si finirebbe facilmente contro un'ala, o contro la coda (servirebbe una speciale rampa sul retro della cabina). 

FATTORE PESO. I paracadute sono poi pesanti e costosi, richiederebbero una costante manutenzione e aggiungerebbero zavorra ai voli, che diverrebbero ancora pià cari.

IMPOSSIBILE O QUASI. Insomma affinché un paracadute personale possa servire a qualcosa, bisognerebbe trovarsi in una condizione di lenta avaria, in pieno giorno e sopra alla terra, con tutto il tempo necessario a prepararsi e per di più con un aereo dotato di uscite apposite per i lanci: una situazione che difficilmente si potrebbe verificare.

Leonard Berberi per il “Corriere della Sera” il 26 aprile 2022.

Il volo EgyptAir MS804 Parigi-Il Cairo è precipitato nel Mediterraneo il 19 maggio 2016 con 66 persone a bordo a causa di un incendio scoppiato nell'abitacolo dopo la fuoriuscita d'ossigeno dalla maschera del copilota (cambiata da poco e impostata nella modalità sbagliata) nel momento in cui qualcuno con ogni probabilità stava fumando a 11.278 metri di quota. 

Sei anni dopo quel disastro alcuni dei massimi esperti mondiali fanno luce su cosa sia accaduto all'Airbus A320 di cui le autorità egiziane, responsabili dell'indagine, non hanno mai reso noto né un rapporto preliminare né uno definitivo. Un documento di 134 pagine - che il Corriere ha visionato in esclusiva - ricostruisce gli ultimi istanti. Il dossier è stato inviato un mese fa alla Corte di Appello di Parigi che indaga per «omicidio colposo»: tra le vittime ci sono 12 francesi. 

Il volo MS804 decolla dal «Charles de Gaulle» di Parigi alle 23.21 del 18 maggio 2016.

Dalle 00.11 alle 00.26 il jet sorvola l'Italia. Alle 2.27 il controllore greco dice ai piloti di mettersi in contatto con il collega egiziano, «ma non ottiene risposta». Alle 2.34 il velivolo sparisce dai radar senza lanciare alcun allarme. Poco prima l'aereo invia sette «dispacci» automatici che segnalano fumo, problemi ai sensori antighiaccio e ai finestrini. 

Le due «scatole nere» vengono inviate in Francia per essere esaminate dall'ente investigativo Bea. I rapporti tra i Paesi sono tesi. Per gli egiziani si tratta di terrorismo. Parigi non è d'accordo. Per questo, nell'autunno 2018, la polizia francese sequestra dal Bea i dati delle scatole usati per redigere l'attuale rapporto. 

Gli esperti si riuniscono 23 volte tra agosto 2021 e febbraio 2022. Mettono nero su bianco che a bordo i piloti tendevano a fumare spesso (cosa non vietata ai tempi da EgyptAir) e che nei viaggi precedenti l'aereo aveva registrato problemi tecnici, ma «nessuno così grave da richiedere lo stop».

Il 16 maggio 2016 l'addetto alla manutenzione di EgyptAir sostituisce la maschera dell'ossigeno del copilota. Il motivo non è chiaro: «L'Egitto non collabora». Nel riporre la nuova maschera l'addetto lascia il cursore che gestisce il flusso dell'aria nella posizione «emergenza». I piloti non controllano e non si accorgono. È questo, secondo il rapporto, l'inizio della catena di eventi che causa l'inabissamento. Il manuale di Airbus scrive che nella modalità emergenza «potrebbe verificarsi una fuoriuscita di ossigeno». 

Gli audio dei piloti lo confermano: separando le tracce sonore di una delle scatole nere, il Cockpit voice recorder , gli esperti sentono quattro fruscii (tra le 2.25 e le 2.26) che arrivano dal microfono della maschera d'ossigeno del copilota che è nel suo vano. L'ossigeno in sé non è infiammabile, ma favorisce la combustione. Subito dopo c'è un principio d'incendio scatenato «da una scintilla o una fiamma»: il dito è puntato contro una sigaretta accesa.

«Quando entriamo in cabina tra i vari controlli preliminari prima di decollare c'è anche quello del flusso di ossigeno nelle mascherine laterali», spiega al Corriere Daniele Veronelli, comandante di A320 e membro del dipartimento tecnico di Anpac (Associazione nazionale piloti aviazione commerciale). «Si alza uno sportello e si testa il flusso dell'aria premendo un bottone. 

Azionando l'interfono si riesce a sentire l'ossigeno che scorre perché ogni mascherina è dotata di un microfono». A proposito della levetta, «se è in posizione normale il flusso di ossigeno è a richiesta. Se è in "emergency" allora questa rilascia l'aria a una pressione maggiore per buttare fuori i fumi che potrebbero entrare nel caso di incendio o fumo a bordo». 

Il silenzio del volo Ita e l’allarme nei cieli della Francia: licenziato il comandante. Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.

La notte tra il 30 aprile e il 1° maggio un aereo partito da New York non ha risposto al centro radar francese. Il comandante è stato licenziato. La compagnia: «Venuto meno il rapporto di fiducia». 

Cosa sia accaduto in quei dieci minuti di silenzio radar nel cuore della notte tra il 30 aprile e il 1° maggio sopra la Francia lo sa, forse, soltanto il comandante del volo Ita Airways AZ609. Quel che è certo è che l’aereo, un Airbus A330-200 decollato da New York sette ore e mezza prima, non ha risposto ai controllori di terra transalpini, facendo temere il peggio e scattare le procedure d’allarme che prevedono pure la messa in allerta dei caccia militari. I jet, alla fine, non sono stati utilizzati. E il velivolo civile è atterrato regolarmente nella capitale italiana.

Il viaggio

L’aeromobile diretto in Italia, un Airbus immatricolato Ei-Ejp con 256 sedili, è partito l’ultimo giorno di aprile alle 16.36 e 47 secondi locali (le 22.36 in Italia, ndr) dalla pista 13 destra dello scalo «JFK» di New York, come si evince dai registri di bordo. Alle 4.13 (ora italiana), ancora sopra l’Atlantico, l’aereo è entrato nella Regione di informazioni di volo di Brest, in Francia, dove i piloti hanno contattato l’addetto del centro di controllo d’area che segue quel viaggio — e altri nelle vicinanze — e che ha fornito le frequenze radio per comunicare con il controllore dello spicchio d’area successivo, quello di Bordeaux.

Il mancato contatto

Alle 5.21 del mattino del 1° maggio (ora italiana) l’A330 — che in quel momento si muove con il pilota automatico — è entrato nello spazio aereo del centro di controllo di Marsiglia. Ma qui, per ragioni ancora non chiare, dalla cabina non hanno risposto all’addetto di terra per una decina di minuti, come conferma una fonte al Corriere. In un primo momento il controllore pensa si tratti di un problema di segnale, cosa che succede ogni giorno nel mondo tra una struttura a terra e un velivolo in quota. Anche perché l’Airbus sta seguendo la rotta prestabilita a una velocità solita (931 chilometri orari) e all’altitudine prevista (38 mila piedi, 11.582 metri).

L’allarme

A terra dopo diversi tentativi — e come prevedono i protocolli di sicurezza — l’addetto ha fatto scattare un primo livello di allarme interno, ha contattato i colleghi italiani, poi ha avvisato il centro di controllo delle operazioni di Ita — che funziona 24 ore su 24 — su quel silenzio prolungato. A quel punto è toccato al quartier generale della compagnia mettersi in contatto con la cabina attraverso i sistemi di comunicazione satellitare e uno dei monitor tra comandante e primo ufficiale (Acars). Poco dopo — quando intanto sono passati una decina di minuti dal primo contatto senza risposta — dall’aereo hanno comunicato che era tutto ok. Il volo è regolarmente atterrato a Fiumicino alle 6.30.

Il riposo

C’era un altro aspetto e rendere la situazione più delicata: in quella parte della rotta di solito uno dei due piloti, nel caso specifico il primo ufficiale, dorme. È una procedura standard che consente di riposare per non più di 40-45 minuti durante le fasi di volo a bassa intensità lavorativa e con l’obbligo di svegliarsi «almeno» mezz’ora prima della discesa. In alcune compagnie si limita il sonno a una ventina di minuti. Due comandanti spiegano al Corriere che per i voli lunghi la procedura prevede che il capocabina in servizio nella classe Business chiami i piloti ogni 30 minuti. Se questi non rispondono c’è un sistema automatico che sblocca la porta attraverso un codice: se i piloti sono svegli possono rifiutare l’ingresso, altrimenti dopo alcuni secondi di non risposta la porta si sblocca.

L’indagine

Ita «ha avviato e portato a conclusione una procedura di investigazione interna», chiarisce attraverso una nota al Corriere un portavoce della compagnia. «Questa indagine aveva lo scopo di appurare gli accadimenti relativi alla momentanea perdita di comunicazione radio fra la cabina di pilotaggio e gli uffici predisposti al controllo del traffico aereo, in particolare durante il sorvolo dello spazio aereo francese». Il comandante ha sempre detto di aver avuto problemi ai sistemi di comunicazione. Ma una perizia tecnica ha stabilito che il dispositivo funzionava bene.

Le ipotesi

Da quanto si apprende la vicenda non ha mai costituito un pericolo tant’è vero che né l’ente investigativo francese Bea, né quello italiano (Ansv) hanno aperto un’indagine per capire di più sull’accaduto. Ma cos’è successo a bordo? Secondo Repubblica, che per primo ha dato conto di una notizia che girava da qualche giorno negli ambienti sindacali, il comandante si sarebbe addormentato. Fonti al Corriere spiegano che in realtà nessuno — nemmeno il pilota stesso — hanno mai parlato di questa ipotesi. È escluso che il comandante abbia lasciato la cabina di pilotaggio mentre il collega si stava riposando.

La decisione

Tre settimane dopo la vicenda il comandante è stato licenziato perché — spiega ancora Ita — l’«indagine ha portato all’individuazione di un comportamento non conforme alle procedure in vigore sia durante il volo che una volta atterrato». La compagnia parla di «condotta professionale non coerente alle norme comportamentali e lavorative» e sottolinea le «forti incongruenze tra le dichiarazioni rese del comandante e l’esito delle investigazioni interne» che hanno portato al venire meno del «rapporto fiduciario in ambito lavorativo». Ita, poi «conferma in modo chiaro e rigoroso che la sicurezza del volo è sempre stata garantita secondo i più alti standard di sicurezza previsti dalla regolamentazione aeronautica». 

Il pilota dell’aereo fantasma di Ita Airways era troppo inesperto per i voli a lungo raggio. DANIELE MARTINI su Il Domani il 03 giugno 2022

Ita Airways ha condotto un’inchiesta interna poi consegnata all’ente dell’aviazione (Enac) per capire che cosa è successo sul volo del 30 aprile tra New York e Roma quando per un’ora e 12 minuti il comandante non ha risposto alle richieste di collegamento radio delle torri di controllo francesi

Al primo posto tra le cause individuate la compagnia ha messo la «scarsa esperienza/esposizione all’ambiente operativo sui voli di lungo raggio del comandante». E’ un’implicita ammissione di responsabilità da parte dell’azienda che nel frattempo ha però licenziato il pilota

Una fonte interna Enac elenca a Domani le numerose esenzioni concesse dall’ente dell’aviazione a Ita prima e dopo l’avvio delle operazioni il 15 ottobre 2021. Addestramento e verifiche professionali affidate a una lezione di 8 ore via web  

Cosa succede quando un aereo diventa "muto". Francesca Galici il 29 Maggio 2022 su Il Giornale.

Quanto accaduto col volo Ita Aiways ha acceso i riflettori sui protocolli di sicurezza previsti in caso di mancata comunicazione con gli aerei.

Il caso del volo Ita Airways che non ha risposto alle chiamate del centro radar di Marsiglia ha fatto molto clamore nel nostro Paese. Proprio a causa di quelle mancate risposte la Francia ha deciso di lanciare due caccia intercettori per verificare che a bordo dell'aereo, che stava completando la rotta da New York a Marsiglia, non ci fossero problemi. In realtà, come sembra accertare l'indagine interna condotta dalla compagnia, il primo ufficiale e il comandante avrebbero avuto un colpo di sonno. Nonostante la difesa del comandante, che riferisce di un'avaria momentanea ai sistemi radio, Ita Airways avrebbe deciso di licenziare il suo pilota. La mancata risposta da parte dell'equipaggio di un aereo alle chiamate dei centri di controllo radar di terra è solitamente un segnale d'allarme per pericolo di dirottamenti o attentati terroristici e, per questo motivo, si innesca un protocollo di sicurezza che è stato intensificato dopo l'11 settembre e che in questo preciso storico, con le minacce che arrivano all'Europa, è stato ulteriormente perfezionato.

La perdita del contatto radio con un aereo, in realtà, non è un fatto sporadico. Quotidianamente può accadere innumerevoli volte e i motivi sono svariati. Tra questi ci sono le avarie radio, ossia il motivo addotto dal pilota di Ita Airways, ma anche, per esempio, l'inserimento di una frequenza sbagliata da parte dei piloti. E poi può accadere quello che pare sia successo a bordo del volo Ita, dove durante il riposo programmato del primo ufficiale, il comandante si sia reso indisponibile. Tutti questi casi danno inizio a un protocollo di sicurezza che, prima di prevedere il lancio dei caccia per intercettare il volo, consta di diversi passaggi che puntano a verificare cosa realmente accade all'interno dell'aeromobile.

Per facilitare il controllo del traffico aereo, i cieli del pianeta sono stati divisi in macro aree di competenza , ognuno dei quali utilizza una specifica frequenza. Quando un aereo passa da un'area all'altra ha il compito di sintonizzarsi su quella indicata dal controllore di volo dell'area precedente. Come spiegato prima, capita che a volte i piloti capiscano male la comunicazione e, quindi, inseriscano una frequenza diversa rispetto a quella indicata. Questo impedisce al centro radar di aprire la comunicazione con l'aereo. In quei casi, da terra provano a sintonizzarsi sulle frequenze vicine alla ricerca dell'aereo, nel tentativo di individuare quella inserita dai piloti.

Se anche questo tentativo va a vuoto, da terra il controllore prova a ripristinare il contatto audio con la cabina di pilotaggio sintonizzandosi sulla frequenza 121.5 Mhz, che è quella standard di emergenza internazionale alla quale tutti devono essere collegati per cogliere eventuali Mayday. Quando anche questo tentativo va a vuoto, il centro radar mette in atto i primi veri passaggi d'emergenza, ossia la liberazione dello spazio aereo attorno all'aereo che non risponde alle comunicazioni, in modo tale che se si tratta di un volo fuori controllo vengano evitate le collisioni. Mentre si effettua questa operazione, il controllore di volo si mette in contatto con la compagnia aerea di riferimento e chiede di provare a stabilire una connessione con la cabina di pilotaggio del volo silenzioso.

È solo a questo punto, dopo che anche la compagnia aerea segnala l'impossibilità di entrare in comunicazione con il volo, che viene informata l'aeronautica militare del Paese sopra il quale si è perso il contatto con l'aereo. Nel caso del volo Ita Airways era la Francia. Dalla base Combined Air Operation Centre di Torrejon in Spagna viene dato l'ordine di scramble, ossia il decollo immediato dei jet intercettori dalla base più vicina. Durante il volo, i piloti militari cercano il contatto radio d'emergenza con la cabina di pilotaggio del volo silenzioso e se questo non viene stabilito arrivano ad affiancarlo, in modo tale da avere un contatto visivo con i piloti per capire sia tutto regolare a bordo. A quel punto invitano il pilota a seguirli per un atterraggio di emergenza e conseguente controllo a bordo.

Nel caso, molto raro, in cui i piloti si rifiutino di seguire i caccia militari, questi devono ricorrere alla minaccia delle armi, mostrando gli armamenti a disposizione dei loro velivoli. Il passo successivo è l'esplosione di alcuni colpi di avvertimento e, se anche questi vengono ignorati dai piloti (o da chi si trova ai comandi) i piloti militari, dietro l'ok dei massimi vertici dello Stato e davanti a una reale minaccia, devono abbattere il velivolo, possibilmente in un'area non urbanizzata.

Aldo Fontanarosa per repubblica.it il 30 maggio 2022. 

Un pilota (il primo ufficiale) addormentato legittimamente perché il suo momento di riposo era stato programmato. L'altro pilota, il comandante, vittima di un colpo di sonno. E' una delle ipotesi che Ita Airways fa per spiegare il caso del suo volo 609 da New York del 30 aprile: quella notte i due piloti a bordo non hanno risposto per alcuni minuti alle chiamate del centro radar di Marsiglia mentre sorvolavano la Francia del Sud. Il comandante nega ogni addebito e nega anche di essersi appisolato. 

ITA AIRWAYS

In attesa che i fatti siano chiariti in modo definitivo, è utile ricordare che l'addormentamento di entrambi i piloti di un aereo è una situazione che ha avuto luogo altre volte nella storia dell'aviazione civile, complici a volte i turni di lavoro stressanti. Ecco alcuni precedenti. 

HAWAII (2008)

Nel 2008, il sonno colpisce così profondamente i due piloti di una compagnia aerea delle Hawaii, negli Stati Uniti, che l'aereo va oltre. L'apparecchio supera l'aeroporto di Hilo, dove avrebbe dovuto atterrare, e lo fa di ben quindici miglia. Quando i piloti si risvegliano, devono fare marcia indietro per portare l'apparecchio a terra (con i 40 passeggeri). 

I due piloti vengono entrambi licenziati dal vettore, malgrado uno dei due risulterà affetto da una seria patologia - l'apnea del sonno - che ostruisce le vie respiratorie durante l'addormentamento. 

MINNEAPOLIS (2009)

Nel 2009, il caso di un volo di un vettore statunitense è ancora più clamoroso. Intanto l'aeroporto di arrivo (Minneapolis-St Paul) viene mancato di oltre 150 miglia. Soprattutto l'assenza di contatto radio con i due piloti crea una situazione da allarme rosso perché siamo a pochi anni dagli attentati dell'11 settembre.

Per sbrogliare la situazione del 2009, è decisivo l'intervento di due altri aerei che incrociano quello ormai fuori rotta. I piloti di questi due altri aerei riescono a contattare i colleghi addormentati su una particolare frequenza che permette il dialogo diretto tra i veicoli civili nei cieli, se ravvicinati. 

Per giustificare la loro condotta, i due piloti sotto accusa sosterranno di essersi distratti perché impegnati in una discussione molto animata. 

LONDRA (2013)

Nel 2013, entrambi i piloti di una compagnia inglese - di cui non si conosce il nome - si addormentano dopo aver inserito il pilota automatico. Il quotidiano britannico The Sun ottiene la prova dei fatti dall'Autorità britannica dell'aviazione civile, cui rivolge una richiesta di accesso agli atti attraverso il Freedom of information Act, una legge a tutela della trasparenza e della libera informazione. 

The Sun, quotidiano popolare noto per il suo stile irriverente, scrive: "Gentili passeggeri, siamo lieti di informarvi che il vostro comandante sta dormendo". Dopo l'articolo, si accende il dibattito nel Paese proprio sui turni cui sono sottoposti i piloti. 

CRETA (2013)

Sempre nel 2013, un insolito problema - complice la necessità di andare in bagno - si verifica a bordo di una compagnia low cost che sta portando decine di turisti dall'Olanda a Creta, a bordo di un Boeing 737. Uno dei due piloti esce dalla cabina puntando verso la toilette. Ovviamente chiude dietro di se la porta della cabina di pilotaggio, come da protocolli si sicurezza. 

Quando tenta di rientrare, trova l'altro pilota addormentato che dunque non può aprirgli la porta. Il primo pilota riesce a ritornare in cabina - scrive l'Ente olandese per la sicurezza aerea (OVV) - grazie a una manovra di sicurezza straordinaria che sblocca l'accesso.

SANTORINI (2016)

Nel 2016, il volo charter di un vettore statunitense - in viaggio da Francoforte (Germania) al Kuwait - inaspettatamente entra nello spazio aereo della Grecia, dove non era previsto il suo transito. Le autorità elleniche fanno alzare due caccia F-16 che intercettano il charter sull'isola di Santorini. 

I piloti militari osservano la cabina di pilotaggio. Si accertano che nessun dirottatore è all'interno e comunicano che, a loro parere, i piloti del charter stanno semplicemente dormendo. Grazie a una serie di segnali luminosi, i piloti militari attirano l'attenzione delle assistenti e degli assistenti di volo, che svegliano comandante e primo ufficiale del charter. 

La Grecia chiederà alla compagnia del charter di farsi carico delle spese - non banali - della missione dei suoi F-16.

Montagna Longa, la strage senza nome in attesa di giustizia. Furono centoquindici le vittime nel disastro aereo di quel 5 maggio 1972. “Fu una bomba”, giura un esperto. E un libro rilancia la tesi del dossier Peri rimasto nei cassetti per 50 anni. Enrico Bellavia su L'Espresso il 7 febbraio 2022.

Rimane lì, nel fondo buio dei misteri italiani. Nascosta nell’anfratto più oscuro della caverna nella quale volteggiano i fantasmi della Repubblica. La resa della giustizia che nelle tenebre l’ha ricacciata ha un termine inaccettabile per chi la verità l’aspetta da mezzo secolo: «Cestinare». Così, due anni fa la magistratura di Catania, la stessa che all’inizio di questa storia aveva celebrato un inutile processo senza colpevoli, ha dato l’ultimo colpo di spugna su una piaga che rimane aperta per 98 orfani e 50 vedove di quella tragedia.

Montagna Longa, il primo e più grave disastro aereo dell’aviazione civile italiana, prima di Linate. Centoquindici vittime, 108 passeggeri e 7 donne e uomini di equipaggio, sulla cresta di una montagna di 935 metri a cinque miglia dall’aeroporto di Punta Raisi, Cinisi, Palermo.

Tra poco saranno cinquant’anni da quel 5 maggio 1972. Venerdì, ore 22,24,  il Dc 8 Antonio Pigafetta dell’Alitalia, anno di costruzione 1961, sigla I Diwb, volo AZ 112, in avvicinamento dopo un’ora e più di viaggio da Roma, manca l’atterraggio e rovescia un carico di vite innocenti sul crinale delle rocce che guardano l’abitato di Carini. Come nel più abusato dei copioni italiani, convenne a tutti attribuire la responsabilità ai piloti. L’errore umano, nient’affatto certo ma solo «verosimile», recita la sentenza del 1984, era il comodo tappeto sotto al quale nascondere, dubbi, interrogativi, sospetti. E così, anche dopo cinquant’anni, Montagna Longa rimane una strage, innominabile però come tale. Contro ogni evidenza logica e le tante, troppe, incongruenze, confinate da indagini carenti o inesistenti, nell’indistinto delle congetture.

Eppure, non sono ipotesi quelle dell’ingegnere Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’università di Palermo che nel 2017 dimostrò, elementi scientifici alla mano, che l’aereo era caduto per una bomba. «A bordo del velivolo durante il volo AZ 112 si è attuata una detonazione, esplodente prima e deflagrante dopo, che ha causato un’avaria irreversibile all’impiantistica di governo del velivolo causandone il collasso operativo e il conseguente disastro», scrisse. 

Neanche allora, quando la corposa relazione di Marretta, ingaggiato dall’associazione dei familiari delle vittime, arrivò sulla scrivania della procura di Catania insieme con un’istanza che sollecitava nuove indagini, il pm si mise al lavoro. Anzi, giudicando che sarebbe stato difficile capire chi avesse messo la bomba a distanza di così tanti anni, non formulò neppure un’ipotesi di reato e rinunciò ad accertare se davvero di un ordigno si era trattato. Strano modo di procedere. Come dire: se non puoi trovare tutta la verità, evita di cercare ciò che puoi. Di illuminare con un fascio di luce anche solo un angolo di quell’antro.

Se a Pavia avessero fatto così, adesso penseremmo ancora che Enrico Mattei, il patron dell’Eni, non morì in un attentato ma fu vittima di incidente.

Nonostante tutto, sottotraccia, il rovello di quel che è stato cammina nella coscienza, spesso sorda, di un Paese per il resto indifferente. Così, proprio sulla strage dimenticata si è riaccesa l’attenzione. Merito di due pubblicazioni. Una è la relazione di Marretta, ora comparsa sotto forma del dossier scientifico sotto il titolo “Unconventional aeronautical investigatory methods. The Case of Alitalia Flight AZ 112” per Cambridge Scholars Publishing. L’altra è un libro che ripercorre la storia del decennio in grado di ipotecare ancora il futuro italiano. “Settanta” è il romanzo verità, «un lavoro di restauro della memoria», che Fabrizio Berruti, giornalista e autore televisivo, ha appena pubblicato per Round Robin. I Settanta sono gli anni del fango e dell’intreccio. Delle trame mafiose e del terrorismo nero. Dell’impasto che teneva attaccati i due poteri criminali al cemento delle mefitiche misture dell’Ufficio affari riservati del Viminale, quello di Federico Umberto D’Amato, il manovratore della tensione, l’architetto del terrore, utile a stabilizzare il Paese, consolidarne il baricentro centrista e scongiurare pericolose derive a sinistra.

E in quegli intrighi, Berruti si addentra, ricostruendo la vita, il lavoro e il destino di Giuseppe Peri, il vicequestore che consumò carriera e esistenza con un rapporto, anche questo dimenticato come il suo autore, ultimato nel 1977 e ripubblicato in fondo al volume.

La prima edizione la si doveva all’Istituto Gramsci con il volume “Anni difficili”, curato nel 2001 da Leone Zingales e Renato Azzinnari, mentre intorno alla strage, accanto alle ricostruzioni giornalistiche, poche, ci sono anche il romanzo “Sogni d’acqua” di Eduardo Rebulla, (Sellerio, 2009) e “L’ultimo volo per Punta Raisi”, di Francesco Terracina (Stampa Alternativa, 2012).

Come già aveva scritto l’agenzia internazionale di stampa Reuters all’indomani dello schianto, Peri, che aveva cominciato a indagare sul sequestro di Luigi Corleo, suocero dell’esattore siciliano Nino Salvo, accreditò l’ipotesi della bomba a bordo dell’aereo, piazzata dai terroristi neri in combutta con Cia e servizi: Stefano Delle Chiaie, er Caccola, che nel romanzo di Berruti diventa lo Scrondo e Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio, che in “Settanta” è il Comandante. Poi c’è Alberto. Che è Alberto Stefano Volo, controverso neofascista, che rivelò di essere stato preventivamente avvertito dai camerati della bomba e di aver salvato un’hostess con la quale aveva una relazione. Il nome di Volo, il preside nero, era ben noto al giudice Giovanni Falcone che da lui ricevette alcuni degli elementi che lo convinsero ad accreditare la pista nera per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, (6 gennaio 1980), il fratello del capo dello Stato. Il giudice Falcone coltivava Volo come fonte, senza mai assegnargli il bollo di attendibilità, e, prima di essere ucciso nel 1992, lavorava all’articolazione siciliana di Gladio, la struttura paramilitare anticomunista, eterodiretta dagli americani che fa capolino insieme alla mafia dietro la lunga stagione di sangue in Sicilia.

Se questo è il contesto in cui la strage di Montagna Longa si colloca, sul filo degli anni sono mille gli indizi trascurati. La magistratura portò a giudizio soltanto il direttore dell’aeroporto e alcuni tecnici dell’aviazione civile, accusati di non aver sostituito con un faro elettrico a terra il radiofaro di riferimento che giorni prima era stato trasferito. Una premessa funzionale alla teoria dell’errore umano, risolta con l’assoluzione di tutti in Cassazione. E così la sentenza liquidò anche le legittime invettive sulla sicurezza di un aeroporto collocato in un posto sconsigliabile, Cinisi, eppure utilissimo per i traffici delle famiglie criminali con addentellati nei palazzi del potere romano che regnavano incontrastate nel golfo di Castellammare. Punta Raisi era già l’hub della droga a fiumi che dalle raffinerie tra Palermo e Trapani prendeva il volo per gli States facendo ricchi i vaccari alla Tano Badalamenti che da un giorno all’altro si ritrovarono imprenditori.

Che Montagna Longa non fosse stato un incidente lo avevano ben chiaro i testimoni che avevano visto volare quell’aereo avvolto da bagliori che erano fiamme, prima di sparire dietro la montagna. Lo suggerivano i corpi dei passeggeri senza scarpe. Lo palesavano i reperti, come quella borsa che sembrava divelta da una forza che l’aveva squadernata dall’interno. Lo avrebbe potuto dire quel che restava dei corpi, se si avesse avuto voglia di interrogarli per rintracciare tracce di esplosivo. Lo avrebbe raccontato una investigazione attenta sul perché il nastro della scatola nera fosse strappato nel punto in cui avrebbe dovuto raccontare quel che era accaduto. E invece non fu fatto nulla. La commissione ministeriale, voluta dall’allora ministro dei Trasporti Oscar Luigi Scalfaro, fu nominata con decreto il 12 giugno ’72 e il 27 dello stesso mese aveva già concluso i propri lavori. Il generale Francesco Lino che la presiedeva, tuttavia, si lasciò uno spiraglio scrivendo di «una situazione particolare determinatasi all’interno della cabina di pilotaggio per l’intervento di persone estranee oppure di una avaria che possa avere distolto per quasi due primi l’equipaggio». Anche le perplessità dell’Anpac, l’associazione dei piloti civili, furono liquidate. Il curriculum esemplare del comandante Roberto Bartoli e quelli del vice Bruno Dini e del tecnico motorista, anche lui brevettato, Gioacchino Di Fiore, insozzati dall’infittirsi di calunnie sulla loro inadeguatezza.

L’ingegnere Marretta, al contrario, ha una spiegazione per ciascuno di quegli elementi.

L’ultima comunicazione di Bartoli riporta indietro l’orologio di 273 secondi prima delle 22,24, quando l’aereo lascia i 5mila piedi e annuncia la virata, che lo porterà di fronte alla testa della pista 25.

«Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5.000 e riporterà sottovento, virando a destra, per la 25 sinistra». Queste le sue parole alla radio. Poi il buio.

La bomba, a bassa intensità, «grande quanto un pacchetto di sigarette», era collocata verosimilmente vicino al bocchettone di rifornimento dell’ala destra. Lo scoppio destabilizzò l’aereo, costrinse il comandante a una disperata «manovra a semicardiode tridimensionale in discesa», scaricando il carburante che già fuoriusciva per lo scoppio, e tentare comunque l’atterraggio. Da qui le fiamme, i passeggeri scalzi e il perché solo metà del moncone più integro, quello di coda, è bruciato.

La manovra non riuscì. Ma, d’altra parte, sostiene Marretta, se l’aereo si fosse schiantato con tutto il proprio carico di cherosene sul crinale della montagna, avrebbe ridotto in cenere ogni cosa, lasciando tracce persistenti, di «vetrificazione silicea», del nulla che il calore impone alla terra. «Un effetto Napalm».

E la scatola nera? Non racconta nulla perché era stata manomessa ad arte. Sembrava funzionare e invece era inceppata. E le spie non segnalavano anomalie. Perché se si fosse rotta accidentalmente, allora il guasto sarebbe stato rilevato e avrebbe imposto il fermo dell’aereo. 

La bomba, secondo il vicequestore Peri, era un attentato dimostrativo. Doveva scoppiare ad aereo fermo. Il ritardo con cui viaggiava, sosteneva il poliziotto, causò invece l’esplosione in volo.

Ma perché una bomba? Il 5 maggio del 1972 era l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni politiche. Abbastanza perché i mestatori che avrebbero punteggiato ogni snodo democratico con il tritolo, si mettessero all’opera. Siamo a un anno esatto dalla morte del procuratore di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971) e a un anno e mezzo dal golpe Borghese (notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970).

Su quell’aereo tornavano per votare molti siciliani che vivevano fuori per lavoro.

C’era il medico del bandito Giuliano, Letterio Maggiore, il regista Franco Indovina che con Francesco Rosi lavorava sulla fine di Mattei, Lidia Mondì Gagliardi, prima passeggera del volo inaugurale dell’aeroporto di Punta Raisi, nel 1960, il figlio dell’allenatore della Juventus Cestmir Vicpaleck che morirà proprio il 5 maggio di trent’anni dopo. E c’era Ignazio Alcamo, consigliere di corte d’Appello e presidente della sezione misure di prevenzione che pochi giorni prima aveva inflitto il soggiorno obbligato a Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca e moglie di Totò Riina. Proprio per la presenza di Alcamo, le indagini finirono a Catania. C’era anche Angela Fais, la giornalista de L’Ora e Paese Sera che sulle trame nere aveva a lungo lavorato raccogliendo gli sforzi di un collega, Giovanni Spampinato, corrispondente de L’Ora da Ragusa, poi ucciso proprio da un camerata il 27 ottobre dello stesso anno.

Se Montagna Longa agita ancora le coscienze di qualcuno nel sonno dei pm che da Palermo, a Caltanissetta e fino a Catania, hanno alzato bandiera bianca, lo si deve alla tenacia di Maria Eleonora Fais, la sorella di Angela. Fu lei a incaponirsi per rintracciare il rapporto Peri, incredibilmente mai preso in considerazione dai giudici di Montagna Longa. Lo chiese a Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala che rintracciò il numero di protocollo nel 1991. L’originale lo tirò fuori nel 1997 Antonio Silvio Sciuto, che sedeva nella stessa poltrona del magistrato ucciso in via D’Amelio nel 1992. Con il rapporto in mano e il racconto aggiornato di Volo, Maria Eleonora Fais, combattente orgogliosamente comunista, amica del segretario regionale del Pci Pio La Torre, chiese l’apertura di nuove indagini. A distanza di anni, con l’associazione che continua il suo impegno dopo la sua morte avvenuta nel 2016, rintracciò anche un video originale con le immagini della tragedia, un filmato che racconta molto delle conclusioni cui è poi giunto Marretta. E a Catania arrivò anche l’istanza del fratello di una delle vittime, Antonio Borzì, la cui figlia Erminia insieme allo storico Giuseppe Casarrubea e all’avvocato Ernesto Pino, in una foto rintracciò segni che sembravano di proiettile di grosso calibro in un’ala dell’aereo. Ipotizzavano che fossero partiti durante un’esercitazione aerea avvenuta quella notte: uno scenario simile a quello della strage di Ustica.

L’associazione dei familiari di Montagna Longa, con Ilde Scaglione e Ninni Valvo, orfani della strage, ha insistito ancora, forte della consulenza di Marretta e, prima ancora, della perizia medico legale di Livio Milone, dicendosi disposta alla riesumazione dei corpi. Ha tentato anche la carta della richiesta di avocazione dell’inchiesta alla procura generale sostenuta dall’avvocato Giovanni Di Benedetto, ma è stata rimbalzata ancora. Perché Montagna Longa da quella caverna dei misteri non deve uscire.

Il vento, il calo di velocità e lo schianto: quel mistero del volo 191. Mariangela Garofano l'1 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il 2 agosto 1985 un Lockheed della Delta Airlines in prossimità dell'aeroporto di Dallas precipitò su una strada statale, causando il decesso di 152 persone che si trovavano a bordo e una persona che si trovava in automobile.

Il 2 agosto 1985 alle 15.10 decolla il volo Delta Airlines 191, da Fort Lauderdale diretto a Los Angeles. Il volo prevede uno scalo intermedio all’aeroporto di Dallas-Forth Worth e proprio durante la fase di atterraggio nella città texana, il velivolo precipita su una strada statale, uccidendo 126 passeggeri, 8 membri dell’equipaggio e una persona che si trova a terra.

La dinamica dell’incidente

È il 2 agosto 1985 e dall’aeroporto di Fort Lauderdale, Florida, parte un Lockheed L-1011 TriStar della compagnia aerea statunitense Delta Airlines. L’aereo, che a bordo ha 152 passeggeri, è diretto a Dallas, dove effettuerà un primo scalo e successivamente a Los Angeles. La prima parte della fase di crociera trascorre senza problemi, ma giunti nei cieli della Louisiana, i piloti trovano ad accoglierli una turbolenza, che porterà il comandante a decidere di cambiare rotta per evitarla.

Mentre il Lockheed inizia la discesa verso Dallas, i piloti vengono informati dalla torre di controllo di un temporale proprio sulla loro rotta, ma il comandante questa volta decide di continuare sulla rotta intrapresa. Giunti a 457 metri, il primo ufficiale, che ora è al comando, avverte il comandante della presenza di fulmini nelle nuvole che stanno per attraversare. Ma a 244 metri circa l’aereo aumenta di velocità autonomamente e raggiunge i 320 chilometri all'ora, invece di restare stabile alla velocità di atterraggio di 276 chilometri all'ora. Cosa sta accadendo al volo 191 e perché di colpo la sua velocità ha iniziato ad aumentare?

Il comandante riconosce subito il fenomeno del “wind shear”, cioè un’improvvisa variazione del vento in intensità e direzione, pericolosa per i velivoli in fase di atterraggio perché inganna i piloti sul corretto assetto/velocità di discesa dell’aeroplano, e ordina al primo ufficiale di tenere monitorata la velocità. Ma quest’ultima diminuisce bruscamente da 173 a 133 nodi Ias (Indicated Air Speed), e subito dopo a 119.

Ma non è finita: il velivolo entra in una turbolenza che lo porta a scendere verticalmente alla velocità di 32 chilometri all'ora e una raffica di vento laterale lo fa inclinare a destra. I piloti cercano in ogni modo di riportare il muso del Lockheed verso il basso, ma alle 18.05 entra in funzione l’allarme del Ground Proximity Warning System, che avverte i piloti di una possibile collisione con il terreno. Purtroppo non c’è nulla da fare, e i piloti a questo punto possono solo cercare di diminuire la velocità di impatto con il suolo.

Il volo 191 precipita due chilometri a nord della pista d’atterraggio, rimbalza in aria e ricade su una strada statale, colpendo un'automobile e uccidendo il guidatore. Nella sua rovinosa caduta, l'aereo colpisce anche un palo dell'illuminazione e due serbatoi d'acqua di un campo di volo, incendiandosi.

Nella tragedia che ne seguì, la fortuna volle che la sezione di coda del velivolo si staccò prima dell'incendio, salvando la vita a 27 dei 163 passeggeri a bordo. Tutti gli altri, compresi i membri dell'equipaggio, non ebbero scampo.

Le indagini

La indagini per stabilire cosa successe al volo Delta Airlines 191 furono condotte del National Transportation Safety Board, che imputò le cause della tragedia a più fenomeni associati tra di loro. Fu stabilito che l'incidente avvenne per un errore umano da parte del pilota, combinato con il fenomeno metereologico del wind shear.

L'Ntsb stabilì inoltre che per i piloti fu impossibile rilevare in tempo il fenomeno del "microburst", ovvero delle micro raffiche tali da generare il cambio improvviso di direzione dell'aereo. Questo perchè il radar metereologico di bordo non era in grado di rilevare i cambiamenti di vento, ma solo la presenza di eventuali temporali. A seguito del disastro di Dallas, la Nasa progettò un radar capace di rilevare il wind shear, che fu applicato a tutti gli aerei di linea.

"Ehi, è volato via il motore". E l'aereo della morte si è schiantato

Il mistero dei voli numero 191

L'incidente del volo Delta Airlines 191 è tristemente famoso per la grave perdita di vite umane che causò. Ma non solo. Si celerebbe un mistero, o forse solo una coincidenza, dietro il numero 191. Ben cinque voli aerei con questo numero hanno subito incidenti, alcuni dei quali fatali.

Primo fra tutti, uno dei più gravi disastri aerei accaduti negli Stati Uniti, fu il volo American Airlines 191, a bordo del quale morirono 272 persone. Il 25 maggio 1979, subito dopo il decollo dall'aeroporto di Chicago, l'aereo si schiantò al suolo a causa della perdita di uno dei motori.

Era appena decollato anche il volo 191 della compagnia Comair, partito da Lexington, Kentucky, il 27 agosto 2006, quando si schiantò al suolo. Nell'impatto persero la vita le 49 persone a bordo. Il volo della compagnia aerea portoricana Prinair portava come gli altri due aerei il numero 191, quando il 24 giugno 1972 precipitò in fase di atterraggio.

Il più recente numero 191 ad avere avuto un incidente fu un volo della compagnia JetBlue, partito da New York con direzione Las Vegas. Dopo qualche ora il comandante fu chiuso fuori dalla cabina di pilotaggio in evidente stato di alterazione. L'uomo aveva iniziato a parlare di "compiere un atto di fede" e di far schiantare l'aereo, ma per fortuna fu fermato e tutti i passeggeri sopravvissero.

L'autorità dell'aviazione civile egiziana ed EgyptAir non hanno risposto al Corriere.

Icao, l'agenzia Onu per l'aviazione civile, spiega di non aver ricevuto alcun rapporto finale dal Cairo. Bea, l'agenzia investigativa, conferma che l'ipotesi più probabile resta «un incendio nella cabina di pilotaggio che ha portato alla perdita di controllo del jet». «È da maggio 2016 che vogliamo capire perché abbiamo perso i nostri cari e ufficialmente nessuno ci ha detto qualcosa», commenta al telefono Julie Heslouin che nel volo MS804 ha perso il fratello Quentin, 41 anni, e il papà Pierre, 75. Julie anima il comitato dei parenti delle vittime che da tempo vuole la verità. Questo rapporto potrebbe forse fornire alcune risposte.

(ANSA il 22 marzo 2022) - China Eastern Airlines crolla alla Borsa di Shanghai all'indomani dell'incidente aereo che ha visto un suo Boeing 737-800 schiantarsi vicino a Wuzhou, sulle montagne del Guangxi, nella Cina meridionale, con a bordo 132 persone: i titoli dopo un breve tracollo a -9% nelle prime battute, si sono attestati a 5,260 yuan (-7,56%).

(ANSA il 22 marzo 2022) - Nessun sopravvissuto è stato trovato dopo una notte di ricerche nell'area delle montagne del Guangxi, nel sud della Cina, dove ieri pomeriggio si è schiantato il B737-800 della China Eastern con a bordo 132 persone.

"Il relitto è stato trovato, ma finora nessuna della persone a bordo dell'aereo con cui si era perso il contatto è stata ritrovata", ha riferito l'emittente statale Cctv nei telegiornali del mattino. L'aereo è caduto vicino alla città di Wuzhou, mentre volava da Kunming a Guangzhou. Il tracciato della rotta ha mostrato l'improvviso passaggio da 9.000 metri di altitudine a circa 1.000, prima dell'impatto finale. 

China Eastern ha confermato per la prima volta ieri sera gli scenari più negativi sull'incidente, esprimendo in una nota postata sui social media "il profondo cordoglio per i passeggeri e i membri dell'equipaggio vittime dell'incidente aereo", senza però aggiungere dettagli.

Il vettore aveva già aperto le procedure d'emergenza, inviato sue squadre sul luogo dell'incidente e aperto una linea diretta di assistenza per le famiglie delle vittime, trasformando in bianco e nero il proprio sito web ufficiale e il logo in segno di lutto, in linea con quanto le compagnie aeree sono solite fare dopo un incidente come segno di rispetto verso le vittime.

(ANSA il 22 marzo 2022) - L'Autorità di regolamentazione dell'aviazione civile cinese (Caac) ha chiesto di esaminare "i rischi occulti" per aumentare la sicurezza dell'aviazione civile all'indomani dello schianto sulle montagne del Guangxi, nel sud della Cina, del Boeing 737-800 di China Eastern con 132 persone a bordo. 

Il riferimento dell'Authority, si legge in una nota, è relativo all'adozione di "misure concrete per rafforzare le indagini sui pericoli relativi alla manutenzione degli aeromobili, le condizioni meteorologiche del volo, le qualifiche del personale e le capacità operative".

A tal proposito, l'impegno è di lanciare una campagna per migliorare la sicurezza sul lavoro e per rafforzare la gestione della sicurezza dell'aviazione civile, anche attraverso un'opera più efficace dei controllori del traffico aereo sulle "previsioni meteorologiche tempestive, sulla notifica dei cambiamenti meteo e sugli avvisi di condizioni atmosferiche gravi". Le compagnie aeree, in base a questo piano d'azione, dovrebbero migliorare la collocazione dell'equipaggio, segnalare eventuali situazioni anomale in volo e offrire al personale di bordo "il supporto tecnico e decisionale tempestivo necessario" per fronteggiare le emergenze.

Dagotraduzione dal Guardian il 24 marzo 2022.

La scatola nera del volo China Eastern Airlines che si è schiantato lunedì pomeriggio con 132 persone a bordo è in fase di analisi a Pechino. È stata ritrovata ieri insieme ad alcuni resti umani. 

L’aereo è precipitato da oltre 6.000 metri. La causa dell’incidente non è nota e, dare le circostanze, per gli investigatori è difficile determinarla. L’aereo si è schiantato infatti con una tale forza che per la maggior si è disintegrato nell’impatto, e anche la scatola nera recuperata è stata «gravemente danneggiata». La seconda scatola nera, che registra i dati di volo, non è stata ancora trovata.

Zhu Tao, un funzionario della Civil Aviation Administration of China (CAAC), ha detto che le unità di archiviazione del registratore recuperato erano danneggiate ma «relativamente complete» ed erano state inviate a un istituto di Pechino per la decodifica. 

Nell'area remota vicino a Wuzhou nella contea di Teng, nella provincia di Guangxi, dove è preciptato l’aereo lavorano più di 300 soccorritori. Mercoledì i lavori sono stati sospesi brevemente a causa del maltempo, ma un briefing serale ha rivelato che erano stati individuati alcuni resti umani.

Intanto i media iniziano a raccogliere informazioni sui passeggeri del volo. Il China Youth Daily ha intervistato Wang Baiyang: sua sorella, 26 anni, il marito e la loro bimba di 18 mesi erano sull’aereo. Stavano volando a Guangazhou per curare la piccola. Dovevano essere su un altro aereo, ma il loro volo è stato cancellato. 

«Negli ultimi due giorni, mi sono sentito come in un sogno. Quando mi sveglio credo ancora che mia sorella mi stia per chiamare», ha detto. «Non riesco a credere che sia reale, prima è morto mio nonno, poi ho sentito la notizia del volo, e mi sono bloccato lì e ho cercato di contattare mia sorella tramite telefono».

Wang ha detto che prima di salire sul volo sua sorella, Gu Hanyu, ha inviato alla famiglia un video di sua figlia che saltava per il salotto, giocava con la sua maschera e rideva. Gu era nata sorda, e aveva incontrato il marito Guo Zengqiang durante un appuntamento al buio. Si sono sposati nel febbraio 2020 con una semplice cerimonia. 

«Chi avrebbe mai pensato che subito dopo aver trovato un medico in grado di curare la malattia del bambino, non avrebbe avuto più bisogne di cure», ha detto Wang. «I voli salvavita diventano voli mortali. È stato il loro primo e ultimo volo». 

Un pensionato di nome Zhang, di Shenzhen, ha detto a Reuters che suo nipote era a bordo.

«Spero che il paese possa indagare a fondo su questa questione e scoprire se è stata colpa del produttore o è stato un problema di manutenzione», ha detto Zhang, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. 

Intanto continua la ricerca del secondo registratore di volo: gli investigatori sperano che le informazioni possano dare risposte sul motivo per cui l'aereo, che aveva superato i controlli di sicurezza prima del decollo, si è schiantato durante la fase di crociera del volo. 

L'aereo era un Boeing 737-89P di sei anni, secondo i localizzatori di dati di volo. I Boeing 737-800 sono tra gli aerei passeggeri più comuni al mondo e sono diversi dal 737 Max, che è stato bloccato in tutto il mondo dopo due incidenti mortali nel 2018 e nel 2019.

Sun Shiying, presidente della filiale della compagnia aerea nello Yunnan, ha detto ai giornalisti mercoledì che i tre piloti a bordo erano in buona salute e «hanno avuto buone prestazioni e avevano mantenuto relazioni armoniose con le loro famiglie». 

L'indagine sul peggior disastro aereo in Cina da oltre un decennio è guidata dalle autorità locali, anche se gli investigatori americani del National Transportation Safety Board (NTSB) sono stati invitati a partecipare perché l'aereo è stato realizzato negli Stati Uniti. Ma non è stato ancora confermato se quegli investigatori potranno recarsi in Cina a causa dei requisiti di visto e quarantena. 

«Stiamo lavorando con il Dipartimento di Stato per affrontare questi problemi con il governo cinese prima che venga determinato qualsiasi viaggio», ha fatto sapere l'NTSB. 

Lorenzo Lamperti per “la Stampa” il 22 marzo 2022.  

Pochi secondi di terrore, una discesa in picchiata da un'altitudine di 8869 metri verso il suolo. Poi, inevitabile, lo schianto. La Cina è scossa dalla tragedia del Boeing 737-800 della China Eastern Airlines, disintegratosi sulle montagne del Guanxi con a bordo 123 passeggeri e 9 membri dell'equipaggio. Il presidente Xi Jinping, che si è detto «sconvolto» per l'incidente, ha chiesto «tutti gli sforzi possibili per la ricerca e il salvataggio» ma non sembrano esserci superstiti. 

L'aereo era decollato da Kunming, capoluogo della provincia dello Yunnan, alle 13.15 locali e avrebbe dovuto atterrare a Guangzhou, Guangdong, alle 15.05. Ma alle 14.19, quando si trovava nei pressi della città di Wuzhou, ha improvvisamente perso quota e il suo segnale radar è sparito alle 14.21. 

Un video ripreso dalla telecamera di una miniera mostra la caduta in una zona boschiva e l'impatto che ha provocato un vasto incendio che ha richiesto l'intervento di oltre 500 vigili del fuoco. 

Le cause della tragedia sono al momento ignote ma gli interrogativi tanti. L'aereo aveva solo sette anni di vita e il 737-800 è uno dei più utilizzati per i voli di corto e medio raggio, con circa 5200 esemplari operativi nel mondo. Il modello è considerato un predecessore del 737 Max, nel mirino negli anni scorsi per due incidenti avvenuti in Indonesia ed Etiopia tra fine 2019 e inizio 2019.

 Ma il 737-800, secondo FlightRadar, ha sempre dimostrato standard di sicurezza elevati sin dalla sua introduzione sul mercato nel 1997. Sicurezza elevata garantita anche dall'aviazione cinese, che con lo schianto di ieri ha interrotto un periodo di circa 12 anni e oltre cento milioni di ore di voli civili senza incidenti.

L'ultimo caso era il fallito atterraggio a Yichun di un aereo con a bordo 96 persone, delle quali 44 persero la vita. China Eastern ha lasciato a terra per precauzione tutti i suoi Boeing 737-800, cancellando decine di voli. La compagnia statunitense ha subito pagato dazio in borsa, anche perché l'episodio rischia di avere effetti sull'auspicato riavvio dei voli 737 Max in Cina dopo una sospensione di tre anni.

Sui social si è diffusa l'ipotesi che possa trattarsi di un'azione volontaria da parte del pilota, come già avvenuto in drammatici precedenti come quello del volo Germanwings fatto schiantare da Andreas Lubitz il 24 marzo 2015. O quello del jet E-190 della Mozambique Airlines del 2013. Alla base della teoria c'è la caduta verticale dell'aereo, visibile dai video e raccontata dai testimoni citati dai media cinesi, secondo i quali il velivolo non emetteva fumo prima dello schianto.

Leonard Berberi per corriere.it il 23 marzo 2022.

Il centro di controllo d’area di Guangzhou non ha ricevuto alcun «mayday» o segnalazione di anomalie a bordo dai piloti del Boeing 737-800 di China Eastern Airlines che si è schiantato il 21 marzo nei pressi di Wuzhou con 132 persone a bordo. E quando da terra hanno provato a contattare «più volte» comandante e primo ufficiale per capire come mai l’aereo fosse sceso — senza preavviso e autorizzazione — dalla cabina non ha mai risposto nessuno. Pochi secondi dopo il segnale è sparito dai radar mentre l’aereo procedeva a ben 696 chilometri orari.

Le ricerche

È un dettaglio che rende ancora più misterioso quanto successo all’aereo partito da Kunming e diretto Guangzhou per il volo MU5735. Ma che, allo stesso tempo, secondo alcuni esperti di sicurezza aerea restringe le possibili cause scatenanti dell’incidente, in attesa di trovare e studiare le registrazioni delle due scatole nere, gli unici dispositivi a poter fornire le informazioni chiave. Perché a interpretare i pochi dati a disposizione — la velocità, la quota di crociera, la dinamica della discesa, i bollettini meteo — vengono escluse l’esplosione o un problema tecnico «tradizionale».

Le due ipotesi

Ma si rafforzano sempre più il difetto così grave da aver compromesso il funzionamento dei comandi di volo più basilari o il gesto volontario di qualcuno che in quel momento stava manovrando la cloche. Gli esperti, come sempre in questi casi, sono molto cauti. Ma c’è qualcuno che, nelle discussioni private, sottolinea come il Boeing 737-800 sia molto sicuro e tendenzialmente non scende così in picchiata, quasi in perfetta verticale, a meno che non ci sia qualcosa che gli «imponga» di tenere il muso giù come un blocco meccanico o la manovra di un pilota.

Il volo Silk Air 185

Per questo si cita sempre più il caso del volo Silk Air 185, con un Boeing 737-300 e 104 persone a bordo, precipitato nel tragitto da Giacarta, Indonesia, a Singapore il 19 dicembre 1997. L’aereo è passato da 10.668 metri di quota a zero in 32 secondi, secondo il rapporto finale d’indagine che ha stabilito che la causa sia da attribuire al gesto deliberato del comandante Tsu Way Ming. Gli esperti in queste ore incrociano i dati degli ultimi tre minuti di quel volo con gli ultimi 180 secondi di quello di China Eastern, facendo notare la forte somiglianza nella dinamica finale di entrambi i velivoli.

Gli ultimi minuti

Il Boeing 737-800 di China Eastern è decollato alle 13.16 locali (le 6.16 ora italiana) dall’aeroporto di Kunming secondo l’ente cinese per l’aviazione civile. Alle 14.17 è entrato nella «Regione di informazioni di volo» di Guangzhou, peraltro la sua destinazione finale, a 9.144 metri di altitudine. Ma tre minuti dopo il velivolo ha perso quota senza alcun preavviso e senza ottenere un’autorizzazione del centro di controllo d’area. L’addetto designato al volo, notando la riduzione notevole di altitudine, ha chiamato più volte l’equipaggio ma senza alcuna risposta. Quaranta secondi prima dello schianto l’aereo ha però ripreso leggermente quota , elemento che rende la dinamica ancora più curiosa secondo gli esperti. Ma alle 14.23 il radar ha smesso di ricevere segnali dal jet.

Le due scatole nere

Per questo il ritrovamento delle scatole nere (che in realtà sono di colore arancione) diventa fondamentale per capire la dinamica reale. Una delle scatole, in particolare, viene cercata con attenzione: il «Cockpit voice recorder», il registratore audio che archivia le conversazioni della cabina. L’altro dispositivo, «Flight data recorder», memorizza tutti i valori possibili dell’aereo. Ma la ricerca non sarà per nulla facile. Zhu Tao, direttore del dipartimento di sicurezza aerea dell’ente cinese per l’aviazione civile, ha detto durante una conferenza stampa che «l’aereo è distrutto e l’indagine sarà molto complicata». Aggiungendo che «con le informazioni attualmente a disposizione è impossibile capire le cause dell’incidente».

A bordo l’addetto alla sicurezza

L’aereo era in regola con tutti i documenti e i controlli previsti e trasportava in tutto 132 persone: 123 erano passeggeri, nessuno straniero secondo l’ente cinese per l’aviazione civile. I piloti erano tre, gli assistenti di volo 5 ai quali si era aggiunto un non meglio identificato «addetto alla sicurezza». Il Boeing 737-800 di China Eastern aveva iniziato a volare con la livrea asiatica il 22 giugno 2015 e al momento dell’incidente aveva effettuato 8.986 decolli per un totale di 18.239 ore di servizio.

Aereo con 132 persone si schianta in Cina. Fabio Polese il 22 Marzo 2022  su Il Giornale.

Volo in picchiata: grave avaria o gesto intenzionale. Nessun sopravvissuto.

Un Boeing 737-800 della China Eastern Airlines con 132 persone a bordo 123 passeggeri e 9 membri dell'equipaggio si è schiantato ieri nel Sud della Cina, tra le montagne di Wuzhou, nella regione autonoma del Guangxi. Il volo MU5735, partito da Kunming, nello Yunnan, alle 13.11 ora locale, sarebbe dovuto arrivare alle 15.05 a Canton (Guangzhou), nella provincia di Guangdong, sulla costa orientale vicino a Hong Kong. Qualcosa, però, è andato storto. I dati del sito web di monitoraggio FlightRadar24 mostrano l'inizio di una caduta quasi verticale del velivolo alle 14.19. Poi, alle 14.21, un'ora e dieci minuti dopo il decollo, il segnale radar sparisce. Secondo le ultime ricostruzioni l'aereo stava viaggiando ad un'altitudine di 8.869 metri e ad una velocità di 845 km/h, quando all'improvviso ha perso velocemente quota, iniziando un'inattesa picchiata verso terra.

Il governo centrale di Pechino ha nominato funzionari ad hoc per coordinare e affrontare l'emergenza. Il presidente Xi Jinping si è detto «sconvolto» e ha richiesto «tutti gli sforzi possibili per organizzare le ricerche e il salvataggio» di eventuali sopravvissuti, ma gli oltre 600 soccorritori arrivati nella zona dell'impatto non hanno trovato nessun segno di vita tra i detriti. È ancora troppo presto per trarre delle conclusioni sulla causa dell'incidente di ieri e solo le due scatole nere, sperando siano intatte, potranno dare risposte concrete. Gli esperti, intanto, sono convinti che un semplice stallo non avrebbe causato una caduta del genere e sarebbe stato facilmente recuperabile nell'immediato. Proprio per questo avanzano due possibili ipotesi. La prima è che ci siano stati dei seri e irreversibili problemi tecnici ai comandi. La seconda, più macabra, è che la discesa brusca del velivolo sia stata provocata intenzionalmente da uno o tutti e due i piloti a bordo.

Di sicuro il Boeing 737-800 è considerato molto affidabile ed è uno degli aerei più popolari per voli a corto e medio raggio. Attualmente gli oltre 5mila operativi nel mondo vengono utilizzati da molte compagnie. Tra queste troviamo American Airlines, Ryanair, Fly Dubai e Qantas. La China Eastern, con sede a Shanghai, che è stata creata nel 1988 ed è una delle tre più grandi compagnie aeree della Cina, fa parte della SkyTeam Alliance e, con una quota del 2 per cento, della statunitense Delta Air Lines. Gestisce una moderna flotta una delle più giovani al mondo di oltre 720 aerei passeggeri e cargo. Serve oltre 120 milioni di viaggiatori ogni anno e recentemente si è classificata tra i dieci maggiori vettori per numero totale di passeggeri trasportati. Negli ultimi anni la Cina ha fatto molti passi avanti nella sicurezza aerea. L'ultimo incidente mortale risale all'agosto 2010, quando un Embraer E-190 di Henan Airlines con 96 persone a bordo ha mancato la pista al momento dell'atterraggio, spezzandosi in due e prendendo fuoco, causando 42 morti. Secondo l'Aviation Safety Network, il peggior disastro aereo domestico è avvenuto nel giugno 1994. Un Tupolev Tu-154 della China Northwest Airlines in volo da Xi'an a Canton è precipitato a causa di un malfunzionamento del pilota automatico, uccidendo tutti i 160 passeggeri. Un altro incidente si è verificato nel novembre 1992, quando un Boeing 737-300 della China Southern partito da Canton e diretto a Guilin, si è schiantato contro una montagna, sempre nella regione autonoma del Guangxi, uccidendo 141 persone.

Il disastro con 132 dispersi. Incidente aereo in Cina, il giallo del volo in picchiata del Boeing: “Comportamento molto insolito”. Redazione su Il Riformista il 21 Marzo 2022. 

Cos’è successo al Boeing 737-800 della compagnia aerea China Eastern, precipitato poco dopo le 14:20 in una zona montagnosa nel sud del Paese, nella provincia meridionale di Guangxi? Il velivolo precipitato provocando anche un massiccio incendio, visibile dallo spazio come dimostrano alcune foto scattate dalla Nasa, avrebbe provocato la morte di tutte le 132 persone a bordo, 123 passeggeri e 9 membri dell’equipaggio.

Al momento infatti non si hanno notizie di alcun superstite, riferisce l’emittente Radio Television Hong Kong: sarebbe così il peggior disastro aereo avvenuto in Cina da circa 10 anni a questa parte.

Il Boeing, in uso da circa sette anni, era decollato dalla città meridionale di Kunming alle 13.11 (ora locale) e avrebbe dovuto raggiungere Canton alle 15.05. Secondo i dati raccolti dal sito di monitoraggio FlightRadar24.com, il volo 5735 stava viaggiando a un’altezza di circa 30mila piedi quando all’improvviso, poco dopo le 14.20 locali, ha iniziato a precipitare, schiantandosi nell’arco di un minuto e mezzo da quando si è verificato il problema, precipitando praticamente in verticale, come mostrano alcune immagini.

Prova a dare una spiegazione Jean-Paul Troadec, ex direttore dell’Ufficio di Investigazione e Analisi per il Civil Aviation Security (Bea), che all’agenzia Afp pur sottolineando che “è troppo presto” per trarre conclusioni, rimarca come il Boeing precipitato è molto diffuso e considerato affidabile, con un incidente avvenuto in un Paese dove il livello sicurezza aerea è considerato “eccellente”.

“Sul sito Flightradar, vediamo che l’aereo, che era in quota crociera (quasi 9.000 m di altitudine, ndr), si tuffa improvvisamente a circa 600 km/h verso terra prima di schiantarsi. È molto insolito, il semplice stallo non provocherebbe affatto questo tipo di comportamento. Immaginiamo di fermarci ad alta quota: a quel punto il pilota abbassa un po’ di muso per prendere velocità, e molto lentamente l’aereo riprende il suo volo. Sono manovre che si imparano nelle prime ore delle lezioni di volo Uno stallo in alta quota è facilmente recuperabile”, spiega Troadec. 

Quindi, secondo l’ex direttore dell’Ufficio di Investigazione e Analisi per il Civil Aviation Security, potrebbe essere avvenuto qualcos’altro: “Può essere stato il pilota automatico che avrebbe provocato una discesa brusca dall’aereo, manovra che non sarebbe stata corretta dai piloti, il che sembra un po’ sorprendente considerata la durata della caduta, tre minuti. Potrebbe anche essere stata una manovra dei piloti, ma al riguardo non possiamo dire nulla di più“.

Un chiarimento in tal senso arriverà col recupero della scatola nera, “che normalmente resiste all’impatto, e ricostruire con precisione la traiettoria ed i parametri dell’aereo, ma anche le conversazioni tra i piloti e tutti gli ordini impartiti”, sottolinea Troadec.

Incidente che ha provocato immediate ripercussioni nel gigante asiatico. La China Eastern Airlines ha deciso di lasciare a terra tutti i suoi Boeing 737-800, il modello coinvolto nell’incidente di oggi, utilizzato in particolare nelle tratte di medio e corto raggio. “La causa dell’incidente aereo è ancora oggetto di indagine e la società collaborerà attivamente con le indagini pertinenti“, si è limitata a riferire China Eastern Airlines, secondo fonti citate dai media cinesi. 

(ANSA-AFP il 27 marzo 2022) - Il secondo registratore di volo del Boeing 737-800 che si è schiantato in Cina con 132 persone a bordo - senza lasciare sopravvissuti - è stato recuperato, hanno annunciato oggi i media ufficiali. "La seconda scatola nera del volo China Eastern MU5735 è stata trovata il 27 marzo", ha riferito l'agenzia di stampa Xinhua. L'aereo operava tra le città cinesi di Kunming e Guangzhou.

Angela Leucci per ilgiornale.it il 27 marzo 2022.  

L'incidente aereo occorso al Boeing 737 che volava da Kunming a Guangzhou il 21 marzo 2022 ha riacceso i riflettori sulla compagnia China Eastern Airlines. Che, per varie ragioni, si è ritrovata al centro delle cronache internazionali dal 1989 a oggi, a causa di diversi accadimenti che hanno riguardato i loro voli. 

In un caso si è trattato di un dirottamento, in due di incidenti senza morti e al massimo con feriti lievi, in tre casi di un disastro aereo passato agli annali.

Il dirottamento del 24 aprile 1989

Il primo caso di cronaca celebre che interessò la compagnia China Eastern Airlines è relativo a un dirottamento avvenuto il 24 aprile 1989 sul volo interno da Ningbo a Xiamen in Cina operato da un aereo Xian Yunshuji Y-7.

L’avvenimento causò una sola vittima, ovvero il dirottatore. Che si era imbarcato con un pugnale e della dinamite nello zaino, accoltellando un’assistente di volo e cercando di dirottare l’aereo verso Taiwan. Il velivolo fu portato invece a Fuzhou: una volta lì l’uomo fece esplodere la dinamite, provocando la propria morte e il ferimento di due passeggeri. 

L’incidente del 15 agosto 1989

È stato il primo grande incidente che ha coinvolto tragicamente la compagnia cinese. Operato da un Antonov An-24Rv da Shanghai a Nanchang Xiangtang in Cina, ha causato la fine di 40 vite, di cui 6 tra i membri dell’equipaggio nella sua interezza. Solo 6 persone sopravvissero.

L’incidente avvenne in fase di decollo: il motore destro del velivolo perse potenza all’improvviso, per ragioni sconosciute, e l’aereo si schiantò contro un fiume, a soli 240 m dalla pista di decollo. 

L’incidente del 6 aprile 1993

Il 1993 è stato un annus horribilis per la China Eastern Airlines. Il 6 aprile un aereo di linea, un McDonnell-Douglas Md11 da Shanghai a Los Angeles, il volo China Eastern 583, ebbe quest’incidente durante la rotta, causando la morte di due persone tra i passeggeri (che erano in totale 235, più i membri dell’equipaggio che erano 20). Morti e feriti pare non avessero utilizzato il sistema di ritenuta del sedile. I due deceduti erano tra i 60 feriti gravi condotti immediatamente in ospedale dai soccorritori. 

Durante la crociera, il volo 583 riscontrò un dispiegamento involontario delle lamelle alari nel bordo d’attacco: ne sono seguite violente oscillazioni, mentre il velivolo perdeva rapidamente quota. Il capitano è riuscito a riprendere il comando, stabilizzando l’aereo e portandolo nella base di Sheyma in Alaska. Il bilancio, oltre ai due morti, fu di 149 feriti tra i passeggeri e 7 tra i membri dell’equipaggio.

Il problema fu dovuto a un difetto di fabbricazione, cui seguì una mancanza di addestramento specifico per il pilota automatico. 

L’incidente del 26 ottobre 1993

Successivamente nel 1993, ci fu l’incidente del China Eastern Airlines 5398, un McDonnell Douglas Dc-9-82, che stava operando il volo interno da Shenzhen-Huangtian a Fuzhou Yixu. L’incidente è avvenuto in fase di atterraggio, causando la morte di 2 persone tra i passeggeri. 

C’era un problema di allineamento, corretto dal pilota successivamente costretto a un atterraggio forzato, che è avvenuto a 1983 metri dall’inizio della pista. Il velivolo si è rotto in tre parti, e ha fermato la sua “corsa” in uno specchio d’acqua a 385 metri dalla pista di atterraggio. 

L’incidente del 10 settembre 1998

Un volo con un incidente e per fortuna nessun morto quello interno operato dal China Eastern Airlines 586, un McDonnell Douglas Md-11, da Shanghai a Pechino. L’incidente è avvenuto in fase di atterraggio di emergenza, perché il carrello di atterraggio anteriore non si è ritirato in maniera corretta. In buona sostanza il velivolo non è mai arrivato a Pechino, ma è tornato a Shanghai dopo oltre tre ore di volo: l’atterraggio è avvenuto con il carrello retratto. Per fortuna ci sono stati solo feriti lievi: 6 tra i passeggeri e 3 tra gli assistenti di volo. 

L'incidente del 21 novembre 2004

Molto grave invece fu l’incidente del RegionalJet B-3072 operato dalla China Yunnan Airlines, un'assimilata della China Eastern. Operato da un Canadair Cl-600-2B19 che avrebbe dovuto volare da Baotou a Shanghai, il disastro ha provocato la morte dei 6 membri dell’equipaggio, dei 47 passeggeri e anche di due persone a terra. 

L’incidente fu legato al freddo intenso di quei giorni: il velivolo era stato parcheggiato di notte e non era stato “sbrinato”. Così le caratteristiche aerodinamiche delle ali, messe a dura prova dal freddo notturno, si erano gravemente degradate. 

Poco dopo la partenza l’aereo è entrato in stallo: l’impossibilità dei piloti di prendere il controllo ha portato a uno schianto contro il lago ghiacciato nel parco di Nanhai, a due chilometri in linea d’aria dall’aeroporto di partenza. Ma non prima di colpire la biglietteria del parco, uccidendo due dei dipendenti presenti. 

L’incidente del 7 giugno 2013

Un altro disastro aereo fortunatamente senza caduti per la China Eastern. Si tratta del Mu2947, che volava da Huai’an-Lianshui a Shanghai con un Embraer Erj-145Li. L’incidente è avvenuto in fase di atterraggio, mentre il velivolo ha subito dei danni gravi sul lato sinistro e lievi sul carrello anteriore. 

Dopo l’evento infausto, i produttori hanno effettuato dei test sul gruppo del collettore dello sterzo della ruota anteriore e sulla servovalvola elettroidraulica, scoprendo dei detriti di oggetti estranei in un’area che solitamente influisce sul funzionamento di una porta idraulica.

Leonard Berberi per corriere.it il 28 marzo 2022. 

Il Boeing 737-800 di China Eastern Airlines ha quasi raggiunto la velocità del suono ed è andato ben oltre i suoi limiti strutturali mentre precipitava, per questo ha iniziato a perdere pezzi prima di schiantarsi al suolo. 

L’analisi del Corriere della Sera sui dati di tre diverse piattaforme di rilevazione dei voli — elaborati con i parametri forniti dalla Nasa — mostra che l’aereo ha toccato i 1.125 chilometri orari 15 secondi dopo aver iniziato la sua discesa in picchiata: in quell’istante e a quella altitudine (2.393 metri) la velocità del suono è stimata in 1.190 chilometri orari.

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L’indagine

È un altro dettaglio, forse tra i più importanti, che gli investigatori cinesi — aiutati da quelli americani dell’Ntsb, della Faa e dai tecnici di Boeing — dovranno cercare di decifrare per dare una spiegazione all’incidente del volo MU5735 del 21 marzo partito da Kunming e diretto a Guangzhou con 132 persone a bordo: 123 passeggeri, 3 piloti, 5 assistenti di volo e un non meglio identificato «addetto alla sicurezza». 

Ai comandi c’erano persone con esperienza: il comandante, Yang Hongda, aveva 6.709 ore di volo alle spalle. Il primo co-pilota, Zhang Zhengping, aveva accumulato 31.769 ore di servizio.

La rotta

Il velivolo è decollato alle 13.16 locali (le 6.16 ora italiana). Alle 14.17 è entrato nella «Regione di informazioni di volo» di Guangzhou. Tre minuti dopo ha perso quota senza alcun preavviso e senza ottenere un’autorizzazione del centro di controllo d’area. L’addetto designato a gestire quel volo, notando la riduzione significativa di altitudine, ha chiamato più volte l’equipaggio ma senza ottenere risposta. Quaranta secondi prima dello schianto l’aereo ha ripreso leggermente quota, ma poco dopo — alle 14.23 — il radar ha smesso di ricevere segnali dal jet dopo una ulteriore brusca discesa.

Gli ultimi minuti

Il Boeing 737-800, a leggere nel dettaglio le caratteristiche tecniche, è stato realizzato per volare in sicurezza in ogni sua fase (salita, crociera, discesa) non superando i limiti previsti: 0,83 Mach in fase di crociera (885 chilometri orari a 10.668 metri di quota), 0,89 Mach in discesa (1.031 chilometri orari a 4.600 metri). L’aereo di China Eastern Airlines, invece, ha toccato 0,945 Mach — cioè 1.125 chilometri orari — alle 14.21 e 45 secondi (le 7.21 in Italia) a 7.850 piedi di quota (2.392,68 metri), secondo l’elaborazione del Corriere.

In alta quota

Come fa notare l’agenzia Bloomberg — che per prima ha segnalato la particolarità, stimando però una velocità massima toccata di oltre 1.130 chilometri orari — il suono viaggia a 1.225 chilometri orari al livello del mare, ma «rallenta» man mano che si sale di altitudine e si scende di temperatura. Per questo, utilizzando i parametri della Nasa, a 37.500 mila piedi (11.430 metri) — altitudine alla quale i velivoli di solito volano nella fase di «crociera» — la velocità del suono è di 1.062 chilometri orari.

Oltre i limiti

Concentrandosi negli ultimi istanti del volo si nota che 31 secondi dopo aver iniziato la discesa non prevista il Boeing 737-800 aveva già superato i limiti della velocità di crociera, procedendo a 0,85 Mach, cioè 977 chilometri orari a 5.281 metri di quota. Cinque secondi dopo ha toccato 0,91 Mach, oltrepassando anche il valore massimo strutturale consentito. Un minuto prima di schiantarsi il velivolo ha toccato i valori record di 0,945 Mach. Cosa che ha comportato il distacco dell’estremità di un’ala ritrovata ad alcuni chilometri di distanza.

Le scatole nere

Le due scatole nere sono nei laboratori a Pechino. Se il «Flight data recorder», il dispositivo che registra i principali parametri del volo, è stato ritrovato in condizioni soddisfacenti e non dovrebbe creare problemi nell’estrazione dei dati, l’altra scatola nera — il «Cockpit voice recorder» — risulta danneggiata. È anche lo strumento ritenuto chiave perché dovrebbe aver memorizzato le conversazioni in cabina di pilotaggio, così da spiegare anche perché, a un certo punto, comandante e primo ufficiale non hanno né lanciato un allarme, né risposto ai controllori di volo prima dell’impatto. 

Aereo caduto in Cina, il Boeing si è disintegrato in oltre 49 mila pezzi. Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Il Boeing 737-800 di China Eastern Airlines è precipitato il 21 marzo. Le cause sono ancora poco chiare: due le ipotesi in campo. Concluse le attività di recupero di 49.117 detriti. Setacciati 370 mila mq di terreno. Attesa per l’analisi delle scatole nere. 

Il Boeing 737-800 di China Eastern Airlines precipitato quasi alla velocità del suono si è disintegrato in oltre 49 mila pezzi dei quali diversi finiti anche a venti metri di profondità. Ora i detriti dovranno essere raccolti in un grande hangar per poter «ricostruire» il velivolo così da studiare nel dettaglio cosa sia successo al volo MU5735 che ha ucciso all’istante 123 passeggeri e 9 membri dell’equipaggio. Ma la dinamica resta un mistero anche per gli esperti di sicurezza aerea che da decenni lavorano nei team investigativi sparsi nel mondo. Bisognerà così aspettare il primo rapporto preliminare sull’incidente che dovrebbe essere pubblicato a fine aprile.

Il tragitto

Il velivolo è decollato alle 13.16 locali (le 6.16 ora italiana) del 21 marzo. Alle 14.17 è entrato nella «Regione di informazioni di volo» di Guangzhou dove alle 14.20 ha perso quota senza alcun preavviso. L’addetto del Centro di controllo d’area designato a gestire quel volo notando la riduzione netta di altitudine ha chiamato più volte l’equipaggio ma senza ottenere risposta. Né, dalla cabina, hanno inviato un «mayday», come anticipato dal Corriere e confermato dalle autorità locali. Quaranta secondi prima dello schianto il Boeing 737-800 ha ripreso leggermente quota, ma poco dopo — alle 14.23 — il radar ha smesso di ricevere segnali dal jet dopo una ulteriore brusca discesa.

Una delle scatole nere, il «Flight data recorder» 

La velocità

Cos’è successo in quei minuti? Un’analisi del Corriere di alcuni giorni fa calcola che il Boeing ha quasi raggiunto la velocità del suono ed è andato ben oltre i suoi limiti strutturali mentre precipitava, tanto da perdere pezzi (le estremità delle ali) prima di schiantarsi. Il velivolo ha toccato i 1.125 chilometri orari 15 secondi dopo aver iniziato la sua discesa in picchiata, con un angolo di 89 gradi rispetto alla traiettoria prevista: in quell’istante e a quella altitudine (2.393 metri) la velocità del suono è stimata in 1.190 chilometri orari. 

Il recupero

Le attività di recupero non sono state semplici. In dieci giorni sul terreno — accidentato e fangoso — si sono alternate 50 mila persone che hanno setacciato fisicamente 370 mila metri quadrati d’area, poco meno della superficie del Vaticano, e scavato 22 mila metri cubi di terra. Cinque unità di droni hanno scandagliato 10 milioni di metri quadrati. In tutto, calcolano le autorità locali, sono stati recuperati 49.117 pezzi di aereo, comprese le due scatole nere — una che registra gli audio della cabina di pilotaggio, l’altra che memorizza tutti i parametri tecnici del volo — dalle quali si sta cercando di estrarre i dati, anche nei laboratori dell’Ntsb (l’ente investigativo Usa nei trasporti) a Washington, come conferma un portavoce. 

L’indagine

Sono questi numeri, da record, che impressionano gli esperti. Anche perché in questi giorni sono state escluse diverse piste. L’attacco terroristico, per esempio, non solo per l’assenza di esplosivo tra i rottami, ma anche perché il velivolo era di fatto integro prima di disintegrarsi al suolo. I due pezzi recuperato a qualche chilometro di distanza — le estremità delle ali — non colpiscono gli addetti ai lavori perché si tratta di materiale che quando si stacca non destabilizza il velivolo. Anzi, è probabile che il distacco sia dovuto proprio all’alta velocità toccata, vicina a quella del suono.

Le due ipotesi

L’attenzione è tutta concentrata sulla discesa, in picchiata, del Boeing 737-800. Una traiettoria che può essere ottenuta di solito in un paio di modi, spiegano due esperti consultati dal Corriere: un grave malfunzionamento a bordo che ha portato gli stabilizzatori orizzontali (in coda) a tenere sempre giù il muso dell’aereo oppure il gesto intenzionale di chi era ai comandi in quel momento che a massima velocità ha puntato dritto verso il terreno. C’è, in entrambe le spiegazioni, una domanda che per ora non trova una possibile risposta: come mai il jet, quaranta secondi prima di schiantarsi, abbia ripreso brevemente quota per poi precipitare di nuovo in picchiata. 

Aereo caduto in Cina, nel rapporto sull’incidente un nuovo mistero: l’impatto ha danneggiato le scatole nere «indistruttibili». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.

Il rapporto preliminare sull’incidente del Boeing 737 di China Eastern spiega che i dispositivi sono «gravemente danneggiati». Ecco i test di resistenza da superare. 

Il Boeing 737-800 di China Eastern Airlines potrebbe essersi schiantato al suolo a oltre 500 chilometri orari lo scorso 21 marzo in Cina. Una velocità così elevata da aver superato e messo in discussione la resistenza persino delle due «scatole nere», progettate per essere teoricamente indistruttibili. Mentre l’indagine va avanti, il rapporto preliminare delle autorità asiatiche dice poco o nulla sulle cause. Soprattutto perché i due dispositivi che registrano i parametri di volo e gli audio dei piloti — racconta una nota — sono «gravemente danneggiati a causa dell’impatto» e «si continua a lavorare per aggiustarli e analizzarli».

I misteri

Ai misteri sull’incidente che ha ucciso 132 persone e che ha visto il velivolo toccare la velocità del suono poco prima dello schianto ora si aggiunge quello sulle condizioni delle «scatole nere». Com’è possibile che queste risultino in condizioni critiche? Una delle spiegazioni è, appunto, che l’impatto sia stato così violento da aver superato i limiti fisici dei due apparecchi. L’aereo, secondo i filmati degli ultimi secondi di volo, si vede precipitare quasi in perfetta verticale verso le colline. 

I due dispositivi

Le «scatole nere» — che in realtà sono arancioni — si dividono in «Flight data recorder» (Fdr) e «Cockpit voice recorder» (Cvr) a seconda delle loro funzioni. La prima registra decine di parametri di volo (altitudine, velocità, posizione dei flap, comandi, ecc), la seconda archivia le conversazioni dei piloti nella cabina di pilotaggio per un paio d’ore. C’è sostanzialmente un fornitore internazionale delle scatole nere, Honeywell, anche a bordo del Boeing 737-800 di China Eastern Airlines. L’unità principale è il cilindro che è agganciato a una struttura portante.

I test di resistenza

Per essere installate a bordo le «scatole nere» devono garantire alcuni requisiti minimi stabiliti dagli standard di Eurocae, l’organizzazione europea per le apparecchiature dell’aviazione civile. Per esempio: l’unità centrale deve resistere a un impatto 3.400 volte superiore al proprio peso. Per questo nei test si «spara» il dispositivo contro una struttura in alluminio con una velocità d’impatto di 310 miglia orarie, cioè 499 chilometri orari. Non solo. La «scatola nera» deve sopravvivere anche al calore: 1.100 °C per un’ora — spiega Honeywell — o 260 °C per dieci ore. E ancora: gli apparecchi devono trasmettere i segnali di localizzazione anche in acqua, fino a 20 mila piedi di profondità (6.100 metri) per un mese.

I tre strati

L’unità principale è rivestita di tre strati con diversi materiali per proteggerla al momento dell’impatto. Dall’interno verso l’esterno ci sono un rivestimento in alluminio a tutela delle schede che memorizzano le informazioni, quindi 2,54 centimetri di isolante di silice secca contro le alte temperature, quindi nel caso l’aereo dovesse prendere fuoco. Infine il tutto è ricoperto dall’acciaio inossidabile o dal titanio con uno spessore di 0,64 centimetri.

L’indagine

Nel comunicato di mercoledì sul rapporto preliminare — che non è stato pubblicato (non c’è un obbligo) — le autorità dell’aviazione civile cinese spiegano che il volo China Eastern MU5735 decollato da Kunming e diretto a Guangzhou è precipitato senza alcuna avvisaglia. Nella nota gli investigatori non indicano la pista principale delle indagini, ma escludono alcuni elementi di pericolo: il personale — si legge — era qualificato, l’aereo era mantenuto in modo corretto, il tempo era buono e in stiva non vi era alcun materiale pericoloso. Soprattutto: i rottami «sono stati individuati in un’area». Segno che l’aereo non è esploso in volo ma è arrivato quasi integro al suolo. 

Dagotraduzione dall’Afp il 21 aprile 2022.

Un mese dopo l’incidente aereo più mortale negli ultimi decenni in Cina, la causa dell'incidente resta ancora un mistero, e nel rapporto preliminare pubblicato mercoledì le autorità hanno fornito pochi dettagli, mentre applicano una severa censura sull’argomento. 

Subito dopo l'incidente, il Partito Comunista al governo cinese si è mosso rapidamente per controllare le informazioni, accendendo la sua macchina di censura mentre i media e i residenti locali si precipitavano sul luogo dell'incidente. Ha mantenuto una stretta presa sulla narrativa, e l'indagine preliminare ha lasciato senza risposta le domande chiave.

Il volo China Eastern MU5375 stava viaggiando da Kunming a Guangzhou il mese scorso quando è precipitato inspiegabilmente da un'altitudine di 29.000 piedi schiantandosi su una montagna, uccidendo tutte le 132 persone a bordo. 

Pechino doveva presentare un rapporto preliminare all'Organizzazione per l'aviazione civile internazionale entro 30 giorni. Secondo quel rapporto, gli investigatori non hanno trovato prove di «nulla di anormale», ha detto mercoledì la Civil Aviation Administration (CAAC) del paese.

L'autorità di regolamentazione ha indicato, tuttavia, che non renderà disponibile al pubblico la relazione preliminare e che un'indagine completa potrebbe richiedere anni. In una dichiarazione, il CAAC ha affermato che il personale aveva soddisfatto i requisiti di sicurezza prima del decollo, l'aereo non trasportava merci pericolose e non sembrava essere incorso in condizioni meteorologiche avverse. 

Non è stato fornito alcun ragionamento sul motivo per cui l'aereo è caduto improvvisamente dal cielo, né sono stati condivisi dettagli sui due tracker di volo o "scatole nere" che sono stati recuperati. I dispositivi - un registratore vocale in cabina di pilotaggio e un localizzatore di dati di volo - vengono analizzati in un laboratorio americano con l'aiuto degli investigatori del governo degli Stati Uniti.

L'incidente è stato il più mortale in Cina in circa 30 anni e ha intaccato il record di sicurezza del volo altrimenti invidiabile del paese. 

Soffocamento delle informazioni

Dopo la fatale discesa vicino alla città meridionale di Wuzhou, le autorità hanno rapidamente transennato una vasta area, con funzionari - alcuni con indosso tute militari - che inizialmente hanno negato l'accesso ai giornalisti dell'AFP. 

I tentativi di raggiungere i parenti delle vittime sono stati respinti, perché i funzionari hanno ospitato le persone in lutto in hotel pesantemente sorvegliati e hanno bloccato i giornalisti che cercavano di avvicinarsi a loro. I parenti non hanno risposto alle richieste di intervista dell'AFP per questa storia.

I media statali hanno giocato contro lo sforzo di salvataggio e recupero, anche se i pochi organi di stampa che hanno pubblicato i dettagli dei defunti si sono ritrovati invischiati in polemiche online accusate di aver tratto vantaggio dal dolore. 

Nel frattempo, il regolatore Internet cinese ha annunciato di aver cancellato enormi quantità di «informazioni illegali» sull'incidente dal web strettamente controllato della Cina, e un hashtag dei social media con il numero del volo dell'aereo sembra essere stato censurato. 

La censura sulle informazioni è stata molto lontana dai disastri del passato, quando giornalisti cinesi hanno portato alla luce prove schiaccianti delle carenze del governo, in particolare la costruzione scadente di migliaia di scuole tirate su dal governo che sono crollate durante il terremoto del Sichuan del 2008.

La strategia di Pechino nel riferire sulla tragedia dell'MU5375 è stata quella di sottolineare l'azione ufficiale e «smorzare l'enfasi sulle emozioni», ha affermato David Bandurski, direttore del China Media Project dell'Università di Hong Kong. 

«Non vogliono personalità umane», ha detto all'AFP. «Crea simpatia ed emozione che possono essere dirette verso programmi che non sono della leadership». 

Niente sorprese

L’aumentato controllo pubblico sull'incidente aiuta a spiegare i tentativi istintivi di Pechino di dirigere la narrazione, ha affermato Margaret E. Roberts, professoressa associata specializzata in censura cinese presso l'Università della California di San Diego.

Il blocco delle informazioni sulla segnalazione dell'incidente è in contrasto con le campagne guidate dai cittadini che portano alla luce le cause dei precedenti disastri. «I disastri», ha detto all'Afp, «possono facilmente diventare politici». «Molte persone prestano loro attenzione immediatamente. Di conseguenza, un passo falso del governo nella risposta alla crisi può essere molto dannoso». 

Nel mese successivo all'incidente, i media statali si sono orientati verso il messaggio che era giunto il momento per il pubblico di lasciarsi alle spalle l'incidente, consentendo ad altri eventi di attutire la copertura del disastro, ha affermato Bandurski.

Tali tattiche di diversione fanno pensare che «possiamo aspettarci lo stesso tipo di sensibilità» sui rapporti sulle cause dell'incidente. Inoltre secondo Bandurski la maggiore segretezza si spiega anche con il fatto che Xi Jinping proverà ad ottenere un terzo mandato.

Aereo caduto in Cina, «il Boeing è stato fatto schiantare di proposito». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.

Il velivolo è precipitato il 21 marzo. L’incidente è costato la vita a 132 persone. Non è ancora chiaro se a far precipitare il Boeing sia stato uno dei piloti o un’altra persona. 

Il Boeing 737-800 di China Eastern precipitato il 21 marzo scorso quasi alla velocità del suono è stato fatto schiantare intenzionalmente da qualcuno che in quel momento si trovava in cabina di pilotaggio. A dirlo sono fonti americane che hanno avuto modo di leggere e interpretare i dati delle due scatole nere del velivolo che si è disintegrato in oltre 49 mila pezzi. Nell’impatto sono morti 123 passeggeri e 9 membri dell’equipaggio. Ufficialmente l’indagine è gestita dalle autorità cinesi, competenti sull’incidente, ma parte del team investigativo occidentale da giorni non nasconde i malumori per come Pechino sta gestendo il caso. E sottolinea come nel Paese asiatico ci sia uno stigma nei confronti di temi come il suicidio. 

Il volo

Il velivolo era decollato alle 13.16 locali (le 6.16 ora italiana, ndr) del 21 marzo. Alle 14.17 era entrato nella «Regione di informazioni di volo» di Guangzhou dove alle 14.20 aveva perso quota senza lanciare alcun segnale. L’addetto del Centro di controllo d’area designato a gestire quel volo aveva chiamato più volte l’equipaggio ma senza ottenere risposta. Né, dalla cabina, avevano inviato un «mayday». Quaranta secondi prima dello schianto il Boeing 737-800 aveva ripreso leggermente quota, ma poco dopo — alle 14.23 — il radar aveva smesso di ricevere segnali dal jet dopo una ulteriore brusca discesa.

La dinamica

Cos’è successo in quei minuti? Un’analisi del Corriere alcuni giorni dopo l’incidente aveva calcolato come il Boeing avesse quasi raggiunto la velocità del suono andando oltre i suoi limiti strutturali mentre precipitava. Il velivolo, secondo i dati raccolti, ha toccato i 1.125 chilometri orari quindici secondi dopo aver iniziato la sua discesa in picchiata, con un angolo di 89 gradi rispetto alla traiettoria prevista: in quell’istante e a quella altitudine (2.393 metri) la velocità del suono è stimata in 1.190 chilometri orari.

Le indagini

Le due scatole nere sono state recuperate senza particolari difficoltà, ma una delle due era in condizioni «problematiche» per quanto riguarda l’estrazione dei dati e per questo entrambe sono state inviate negli Stati Uniti. Una, il «Flight data recorder», memorizza migliaia di parametri di volo. L’altra, il «Cockpit voice recorder», registra le conversazioni in cabina di pilotaggio. Dal momento che è la Cina a gestire l’indagine ogni informazione può essere pubblicata — ufficialmente — soltanto da Pechino. Nel rapporto preliminare le autorità locali avevano fornito poche informazioni sulla dinamica.

I primi risultati

Proprio quel documento, davvero sintetico secondo gli addetti ai lavori, ha suscitato malcontento tra gli esperti stranieri chiamati a dare una mano, spiega al Corriere una fonte. Anche perché nel team era già emerso che «il Boeing 737 ha fatto quello che gli è stato chiesto di fare». La conferma all’ipotesi iniziale — incidente come conseguenza di atto umano deliberato — è arrivata non soltanto scartando il guasto meccanico, ma anche dai dati preliminari delle scatole nere: in particolare il «Flight data recorder» mostrerebbe come qualcuno abbia «eseguito intenzionalmente le manovre che hanno portato il velivolo a puntare il muso verso terra».

Le ipotesi

Ma chi è stato? Secondo il Wall Street Journal, che per primo ha dato la notizia della prevalente ipotesi investigativa occidentale, l’attenzione si concentra sul comandante. Chi ha diretto accesso ai dati delle scatole nere fa sapere al Corriere che in realtà non si può escludere un gesto volontario del primo ufficiale, che siede alla destra del comandante. Sembra scartata, per ora, l’ipotesi di un attacco terroristico con un terzo soggetto — un passeggero o un assistente di volo — che irrompe in cabina. In quel momento, spiega la fonte, la porta blindata era chiusa e non si sentirebbero urla o minacce da persone esterne alla cabina.

L’esperienza

Non solo: secondo la fonte chi ha manovrato il Boeing «sapeva bene come disattivare il pilota automatico, in quel momento attivato, e far precipitare l’aereo». A confermarlo, prosegue la fonte, è il suono della disattivazione del pilota automatico che si sentirebbe nella scatola nera che registra gli audio. Il Corriere ha chiesto una replica a China Eastern e all’autorità cinese per l’aviazione civile ma non ha ottenuto una risposta al momento della pubblicazione dell’articolo. Boeing, la società costruttrice, non commenta e invita a rivolgersi a Pechino dal momento che sono loro a guidare l’indagine.

Aereo cinese caduto, il verdetto delle scatole nere: "È stato fatto precipitare volontariamente". Non è chiaro se a provocare lo schianto sia stato uno dei piloti. Fin dal principio la dinamica del disastro era apparsa anomala. La Repubblica il 17 Maggio 2022.

Dalle prime analisi della scatola nera sembra che il Boeing 737-800 della compagnia aerea China Eastern, precipitato il 21 marzo con 123 passeggeri e 9 membri dell’equipaggio, sia stato fatto precipitare intenzionalmente. Per la scelta di qualcuno che si trovava nella cabina di pilotaggio, non è chiaro se sia trattato di un pilota o di un intruso. A rivelarlo in esclusiva è il quotidiano statunitense Wall Street Journal che cita fonti americane vicine alle indagini, invitate a partecipare alla ricerca perché è lì che è stato progettato e prodotto il Boeing 737-800.

L’aereo stava viaggiando ad alta quota quando ha cambiato rotta all’improvviso ed è caduto a picco sulle montagne di Wuzhou, nella Cina meridionale, senza alcun allarme o richiesta d’aiuto. Quando da terra hanno provato a contattare il pilota e il primo ufficiale per capire come mai l’aereo stesse scendendo in modo anomalo, nessuno ha risposto.  

I dati di una scatola nera recuperata, la seconda era in condizioni definite come "problematiche", hanno infatti suggerito che gli input ai comandi hanno spinto l'aereo nella picchiata fatale. “L'aereo ha fatto quello che gli era stato detto di fare da qualcuno nella cabina di pilotaggio”, ha dichiarato una persona vicina alle indagini dei funzionari americani al Wsj. 

Le informazioni raccolte finora hanno portato il team americano coinvolto nelle indagini a rivolgere le attenzioni su un pilota. Ma non è esclusa la possibilità che qualcun altro sull’aereo possa aver fatto irruzione nella cabina di pilotaggio, e causato deliberatamente la tragedia che è costata la vita a più di 130 persone. 

Secondo le fonti del Wsj, la tesi sarebbe avvalorata dal fatto che finora le autorità cinesi che stanno conducendo l’indagine non hanno segnalato alcun problema meccanico o di controllo. Inoltre la Boeing Co., l’azienda che ha prodotto il velivolo, non ha prodotto direttive di sicurezza derivanti dall’incidente. 

In una dichiarazione rilasciata al Wall Street Journal, la China Eastern ha affermato che non sono emerse prove che possano determinare se ci fossero o meno problemi con l'aereo coinvolto nell'incidente.  La compagnia aerea ha dichiarato di non essere responsabile delle indagini e ha fatto riferimento agli annunci ufficiali, tra cui il riassunto del rapporto preliminare del governo cinese pubblicato il 20 aprile secondo cui il ripristino dei dati e l'analisi delle scatole nere danneggiate erano ancora in corso.

"Qualsiasi speculazione non ufficiale potrebbe interferire con le indagini sull'incidente e influenzare il reale progresso dell'industria del trasporto aereo globale", ha dichiarato la China Estern. Ma una intrusione nella cabina di pilotaggio, secondo la compagnia aerea, non è plausibile. In una conferenza stampa del 25 marzo le autorità cinesi hanno dichiarato che nessun codice di emergenza era stato inviato dall'aereo prima dell'incidente. 

Il rapporto investigativo preliminare dell’Amministrazione dell’aviazione civile della Cina (Caac), l’autorità di regolamentazione della sicurezza aerea del Paese, conferma che nelle comunicazioni tra equipaggio e terra non c’era nulla di anomalo. Le autorità cinesi non hanno indicato alle loro controparti americane quando potrebbero comunicare pubblicamente le loro conclusioni ufficiali dell'indagine, hanno riferito le fonti del Wsj. Dall’altra parte gli americani non hanno tutte le informazioni disponibili, ha specificato.

Il registratore dei dati di volo del jet, trovato sepolto un metro e mezzo sotto terra dai vigili del fuoco, e i dati del registratore vocale della cabina di pilotaggio svolgeranno un ruolo importante nell’aiutare le autorità a determinare le cause dell’incidente. 

Volo Air France, l’allarme dei piloti: «L’aereo non risponde ai comandi». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.

Il Boeing 777-300ER del volo New York-Parigi ha avuto problemi in fase di atterraggio. I piloti hanno dovuto annullare la manovra e riprovare. Gli esperti stanno analizzando le scatole nere. 

I piloti di un Boeing 777-300ER di Air France hanno perso per alcuni secondi il controllo dell’aereo mentre si preparavano ad atterrare all’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi e per questo hanno dovuto anche annullare la procedura di discesa, fare il giro dello scalo e atterrare in un secondo momento. Il fatto, accaduto la mattina del 5 aprile, viene confermato al Corriere della Sera dalla compagnia aerea e da Bea, l’ufficio francese per le indagini e l’analisi sulla sicurezza dell’aviazione civile. L’audio del comandante e del primo ufficiale mostra le difficoltà affrontate in quei momenti.

Il volo

Il Boeing 777-300ER di Air France, da 17 anni in servizio, stava operando il volo AF11 ed era decollato dall’aeroporto «JFK» di New York la sera prima, il 4 aprile. Non è chiaro quanti fossero i passeggeri a bordo e la compagnia non l’ha chiarito. Avvicinandosi verso Parigi-Charles de Gaulle i piloti hanno iniziato ad avere problemi nella gestione del velivolo. Le conversazioni sono state registrate dagli appassionati nei dintorni dell’aeroporto e sono state confermate al Corriere dagli addetti ai lavori.

L’avvicinamento

«Ciao, qui volo Air France AF11 procediamo verso la pista 26 sinistra», dice uno dei piloti alla torre di controllo del Charles de Gaulle nella registrazione. «Air France AR11 buongiorno, siete autorizzati ad atterrare sulla pista 26 sinistra», replica il controllore assegnato a gestire l’aereo. «Ci confermate che siamo autorizzati ad atterrare sulla pista 26 sinistra?», chiede il pilota. «Confermo, Air France AF11», replicano dalla torre. Fin lì tutto normale, ma pochi istanti dopo si sentono i piloti fare delle smorfie, poi emettere un urlo mentre in sottofondo suona l’allarme: il Boeing non risponde ai comandi. «Stop, stop!», dice il pilota.

L’emergenza

I suoni e la voce concitata allarmano la torre di controllo. «Air France 11?», chiedono da terra. «Ti richiamo», dice il pilota. «Air France interrompete l’avvicinamento a 1.500 piedi (457 metri, ndr) immediatamente», è l’ordine che arriva dalla torre. «Ok ci fermiamo a 1.500», rispondono dalla cabina. Ma l’allarme suona ancora, quindi si aggiungono altri avvisi sonori, mentre il pilota continua a sforzare in una manovra che dall’audio non è chiara nella tipologia. «Qui AF11, facciamo il giro, attesa a 4.000 piedi, vi richiamiamo», dicono dal velivolo.

Il secondo tentativo

Dopo alcuni secondi e mentre il Boeing si prepara a un’altra manovra di atterraggio la torre viene contattata di nuovo dalla cabina. «Abbiamo fatto il giro per problemi ai comandi di volo. L’aereo non rispondeva», spiega il pilota. «Siamo pronti a riprendere la discesa con le indicazioni radar. Dateci il tempo di gestire la situazione poi guidateci fornendoci il vento in coda». «Ok AF11, ho notato l’aereo deviare alla sua sinistra sul radar», spiegano dalla torre. «Volete tornare sulla pista 26 sinistra?». «Preferiremmo la pista 27 destra», risponde il pilota. L’aereo atterra alle 9.31 senza altri problemi.

Le indagini

Cos’è successo? Un portavoce del «Bureau d’Enquêtes et d’Analyses pour la sécurité de l’aviation civile» (Bea) — l’ente investigativo transalpino e tra i più avanzati al mondo — spiega al Corriere che gli esperti stanno analizzando i dati delle due scatole nere del velivolo. Una registra gli audio della cabina (Cockpit voice recorder, Cvr), l’altra memorizza tutti i parametri di volo (Flight data recorder, Fdr). Ma, prosegue il portavoce, è ancora presto per capire se aprire un’indagine sull’accaduto.

La replica

«Air France conferma che il personale del volo AF11 ha dovuto annullare l’atterraggio, fare un go-around per un problema tecnico durante la discesa», spiega un portavoce della compagnia.«L’equipaggio ha gestito la situazione e ha fatto atterrare normalmente l’aereo dopo un secondo tentativo». L’aviolinea transalpina si dice «rammaricata del disagio causato ai viaggiatori» e ricorda che «gli equipaggi sono formati e regolarmente istruiti su queste procedure, che sono utilizzate da tutte le compagnie aeree per garantire la sicurezza dei voli e dei passeggeri.

Jet precipitato a Lecco, il pilota al pm: «L’acrobazia, il guasto. Ho puntato la montagna per evitare una strage». Andrea Galli e Barbara Gerosa su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.

Lo schianto del jet militare M 346 della Leonardo contro il monte Legnone. Il pilota Giampaolo Goattin e la procedura per «portare in salvo l’aereo»: «Ho scelto una zona disabitata, poi ci siamo lanciati». Il jet ha smesso di obbedire ai comandi dopo una manovra circolare di «looping»

In gergo, si dice «portare in salvo l’aereo». Pensare ed eseguire, anche nell’istantaneità di un drammatico incidente e di pochissime scelte disponibili, nonché di un tempo più che esiguo per adottarle, le azioni che possano evitare stragi precipitando su centri abitati. Nel primo pomeriggio di mercoledì, tre ore dopo lo schianto del jet militare modello M 346 della Leonardo contro il monte Legnone, in territorio lecchese, agli uomini del Soccorso alpino che l’avevano recuperato in fondo a una scarpata, il pilota Giampaolo Goattin continuava a domandare come stesse il collega Dave Ashley; giovedì mattina, ascoltato dal pm titolare del fascicolo, Goattin ha ripetuto e spiegato quella frase gergale, come se fosse una normalità — e lo è, per chi guida un aereo, essendo vincolata a un solenne giuramento —: «Ho puntato verso la cima scegliendo una zona disabitata, poi ci siamo lanciati».

La manovra di emergenza

La procedura di espulsione dal velivolo, di recente fabbricazione e con numeri di gamma (velocità massima superiore ai mille chilometri orari) ha innescato l’uscita di Goattin ed Ashley dal jet, e la loro discesa in paracadute. Entrambi i paracadute funzionavano, entrambi si sono subito aperti, come documentato dal video girato da un escursionista col cellulare; ma mentre Ashley, 49 anni, seduto nel posto anteriore ha incontrato sotto di sé una parete rocciosa, il 53enne Goattin, posizionato sul sedile posteriore, ha avuto più «campo» agganciandosi a uno spuntone che, a differenza del collega, inglese, sposato, due figli, lunga esperienza, deceduto sul colpo, gli ha salvato la vita.

Il top gun Goattin

La militanza nei cieli di Goattin è perfino maggiore: nel settore gode di fama da «top gun», asso dell’aviazione. Ha rimediato un trauma cranico e nient’altro, quando all’inizio si ipotizzavano pesanti fratture. Dipendente della Leonardo, colosso nazionale della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, Goattin ha già lasciato l’ospedale Niguarda, per rincasare a Torino. A bordo dell’M 346, che al contrario di quanto veicolato in una fase originaria, non era destinato all’Aeronautica e dunque non era sottoposto a test di prova strutturali in vista di una cessione e una «riconversione» militare, Goattin insegnava ad Ashley i segreti del mezzo poiché l’inglese, a sua volta, avrebbe fatto da maestro per altri piloti. Un naturale e frequente passaggio di testimone.

La doppia inchiesta sull’incidente aereo

Che cosa sia davvero successo al velivolo rimane ignoto. Non c’è stata una fiammata seguita dallo schianto bensì il rogo è stato una conseguenza dell’incidente, il che significa tutto e niente non risolvendo i misteri. La doppia inchiesta della Procura di Lecco e della stessa Leonardo punta a capire la genesi dell’anomalia, pare più dovuta a problemi tecnici che a errori umani. Se la scontata prima tappa del magistrato è stata l’ascolto di Goattin, le successive mosse seguiranno il recupero, per nulla facile, della scatola nera. Il velivolo è andato distrutto, e non esisterebbe materiale aggiuntivo da esaminare se non frazionato in infiniti pezzi. Il magistrato analizzerà le ultime manutenzioni e i resoconti di altri collaudatori di recente saliti sul mezzo della Leonardo.

L’anomalia durante il volo

Per il resto, nelle indagini condotte dai carabinieri, niente di irregolare, a cominciare dalla geografia, nel senso che l’ampia zona che costeggia il lago e si addentra nella Valtellina è uno spazio aereo militare, utilizzato per le esercitazioni. La partenza è avvenuta dall’aeroporto di Venegono, nel Varesotto. Sempre dai primi colloqui di Goattin con il magistrato, il jet ha smesso di obbedire ai comandi: una criticità generata di colpo, senza preavvisi di sorta, al termine di un looping, una manovra acrobatica che prevede l’esecuzione di una parabola circolare. Goattin ha saputo della morte di Ashley (che aveva scritto l’ultimo messaggio prima del decollo al figlio, impegnato in una gara di canottaggio) da una dottoressa del Niguarda: il medico si occupa della gestione dei traumi psicologici dopo incidenti e perdite.

Le biciclette. Se anche il giudice "investe" i ciclisti. Forse sarebbe stato sufficiente condannare l'odiatore dei ciclisti ad una pedalata in bicicletta, oppure ad un'ammenda di pochi euro, invece un giudice della Repubblica ha pensato bene di assolvere l'odiatore dei ciclisti. Pier Augusto Stagi il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Forse sarebbe stato sufficiente condannare l'odiatore dei ciclisti ad una pedalata in bicicletta, oppure ad un'ammenda di pochi euro, invece un giudice della Repubblica ha pensato bene di assolvere l'odiatore dei ciclisti, perché il fatto non costituisce reato. È così: nel nostro Paese puoi scrivere sui social network investire un ciclista per educarne 100, senza incorrere in nessun tipo di reato. Che male c'è? D'altra parte puoi tirare sotto un ex corridore professionista di nome Rebellin Davide e, non curante di tutto e di tutti, rifugiarti in Germania senza che nessuno ti tocchi un capello. Ieri al tribunale di Pistoia si è conclusa la prima fase del processo contro l'odiatore di ciclisti che sul web - quattro anni fa - aveva invitato alla violenza contro chi pedala, in seguito a un incidente in cui era stato coinvolto un atleta professionista in Toscana (Daniel Felipe Martinez, oggi alla Ineos di Filippo Ganna, ndr), e Marco Cavorso, padre di una vittima della strada (ha perso Tommaso, di 13 anni, in sella alla sua bicicletta, ndr), con l'Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani aveva denunciato per istigazione a delinquere aggravata dalla diffusione a mezzo informatico. Ieri il giudice si è espresso per l'assoluzione. Entro 90 giorni verrà depositata la sentenza, entro 135 giorni si potrà fare appello. Nel frattempo, Davide Rebellin è dal 30 novembre scorso in attesa dell'autopsia e, quindi, delle esequie. In compenso c'è un giudice della Repubblica che ha pensato bene di calpestare ancora un po' il nostro cuore, con una sentenza che parla da sola, e ci lascia senza parole. Investire un ciclista per educarne 100 non è un'invettiva scellerata. Le parole non sono più né pietre né tantomeno macigni: sono tutt'al più lapide, ad imperitura memoria della stupidità umana.

Filippo Femia per "La Stampa" il 2 dicembre 2022.

Il tragico conteggio viene aggiornato quattro volte a settimana. Ogni 35 ore, in Italia, un ciclista viene ucciso. Travolto da automobilisti o conducenti di mezzi pesanti, nella stragrande maggioranza dei casi, in grandi città o sulle strade di paese. Una lunga scia di sangue certificata dai dati dell'Osservatorio Asaps (Associazione sostenitori e amici Polstrada), che scatta una fotografa per difetto. Alle vittime che si registrano al momento dell'incidente vanno infatti aggiunti i decessi avvenuti a distanza di tempo, a volte anche settimane, dall'impatto fatale.

«Non possiamo far finta di niente, i numeri sugli incidenti sono impressionanti», ha detto il ministro dello Sport Andrea Abodi dopo la morte di Davide Rebellin. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è detta «turbata e rattristata dalla tragica scomparsa». Ma se l'Italia non è un Paese per biciclette, con infrastrutture inadeguate e pericolose, parte della responsabilità è della politica.

L'ultima manovra messa a punto dall'esecutivo ha di fatto cancellato il Fondo della ciclabilità istituito dal governo Conte II nel 2019. Prevedeva lo stanziamento di 141 milioni per il triennio 2022-2024 (47 all'anno) per la «realizzazione di zone a 30 km/h, corsie ciclabili, case avanzate e aree di sosta per biciclette». Tecnicamente i 94 milioni per gli anni 2023 e 2024 sono stati «definanziati».

Tradotto: sono spariti dalle tabelle del ministero delle Infrastrutture, dirottati altrove per coprire altre voci di spesa. «Mentre tutte le principali città europee investono sulla ciclabilità e percorrono la strada di decarbonizzazione e riduzione dell'impatto climatico, l'Italia va nella direzione opposta: è evidente che questo governo punta sul vecchio modello che mette l'auto al centro del sistema», ragiona Claudio Magliulo, responsabile italiano di Clean Cities, network europeo di associazioni ambientaliste e per la mobilità alternativa.

Il dossier pubblicato insieme a Legambiente, Kyoto Club e Fiab, analizza l'infrastruttura delle ciclabili in Italia. Salvo qualche esempio virtuoso, il panorama è scoraggiante: le 14 città metropolitane hanno in media appena 1,5 chilometri di ciclabili per diecimila abitanti, un quarto delle città capoluogo non raggiungono il chilometro. A Helsinki e Ghent, per fare un paragone, ci sono 20 chilometri, mentre Amsterdam e Anversa arrivano a 15. Il modello del Nord Europa rimane un miraggio.

Secondo i calcoli di Clean Cities servirebbero 500 milioni all'anno fino al 2030 per correre ai ripari e finanziare un piano straordinario di promozione della ciclabilità urbana. «Ma qui siamo a zero. I più colpiti sono i piccoli comuni che non possono trovare i fondi altrove se non ci pensa lo Stato», aggiunge Claudio Magliulo.

Ma non è soltanto un problema di assenza di piste ciclabili.

Quelle esistenti sono spesso pericolose perché progettate e realizzate male: nessuna separazione fisica con le corsie dove marciano le auto o l'obbligo per le bici di percorrere nella zona tra la sede stradale e i veicoli in sosta. Paola Gianotti detiene un record Guinness: è la donna più veloce ad aver realizzato il giro del mondo in bici (30 mila chilometri 144 giorni). Dal 2019 gira l'Italia con l'associazione "Io rispetto il ciclista" per installare cartelli stradali che invitano gli automobilisti a rispettare una distanza minima di un metro e mezzo da chi è in sella. Finora ha raggiunto oltre 400 comuni, per un totale di 4 mila segnali.

Ma è convinta che l'iniziativa non sia sufficiente, anche se venisse inserita nel codice della strada. Va affiancata a pene più severe. «Purtroppo in Italia manca la cultura del rispetto dei soggetti più deboli della strada - si sfoga -: ciclisti, ma anche pedoni. Ci sono persone che hanno ucciso ciclisti e guidano ancora liberamente. Dopo casi di questo tipo la patente andrebbe ritirata a vita». E per insegnare la cultura del rispetto? «Dobbiamo raggiungere i fruitori futuri delle strade, i bambini: andare nelle scuole e sensibilizzarli. Solo così riusciremo a fare la differenza».

L’automobilista che investe il ciclista non ha responsabilità: il caso specifico. Giampiero Casoni il 22/09/2022 su Notizie.it.

L'automobilista che investe il ciclista non ha responsabilità: il giudicato della Suprema Corte di Cassazione è quello relativo ad una sentenza del 2022

C’è giurisprudenza attiva in ordine ad una delle questioni più controverse ed attuali che riguardano le norme del Codice della strada: l’automobilista che investe il ciclista non ha responsabilità quando però si determina un caso specifico. Quale? Qualora ad esempio si verificasse la circostanza acclarata in sede giurisprudenziale per cui il conducente del mezzo a due ruote non rispetta lo stop: ecco, in quel caso l’attribuzione di colpa ricade solo sul ciclista a prescindere dai danni che lo stesso accusa dopo il sinistro. 

Automobilista investe ciclista: le responsabilità

Chi lo dice? Una recente sentenza della Corte di Cassazione che ha esaminato un caso circostanziato storicamente e che la statuito che “non sussiste la responsabilità dell’automobilista che – viaggiando a un a velocità assolutamente moderata – investe il ciclista che non si ferma allo stop”. Il giudicato della Suprema Corte di Cassazione è quello relativo alla sentenza numero 34942/22. E tutto questo è avvenuto, in iter procedurale, con il giudice di appello che aveva ritenuto che la velocità tenuta dal veicolo “era assolutamente adeguata alle condizioni”. 

La condotta negligente del ciclista

Di che velocità si parla? Di una velocità “equivalente”, nel senso che  la velocità tenuta da auto e bici era esattamente la stessa (23 km/h). Solo però che in quello specifico caso ma è stato accertato il comportamento negligente del ciclista che non aveva rispettato lo stop ed aveva innescato il sinistro con un veicolo il cui conducente era stato chiamato a giudizio. Il sunto è che il ciclista, per avere riconosciuta la ragione intera e dunque il risarcimento pieno dei danni al 100% o parziale, dovrà dimostrare di aver rispettato le regole di circolazione del Codice della strada.

Non è un Paese per bici. Pubblicata la classifica mondiale delle 90 città più a misura di due ruote: le prime 9 sono in Europa, l'Italia è assente. Milano solo 65ª, Roma 70ª. Ma c'è un piano per cambiare. Daniela Uva il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.  

In Italia solo il quattro per cento della popolazione usa la bicicletta per spostarsi abitualmente. Un dato, quello messo in luce da Eurobarometer, lontanissimo dal 41% dei Paesi Bassi e dal 21% della Svezia nonostante qualche differenza territoriale visto che al Nord-Est si arriva al 6,1% mentre al Sud e nelle isole la percentuale oscilla fra l'uno e lo 0,9. A usare le due ruote sono soprattutto i residenti delle città sopra i 50mila abitanti: sono il 5,1% del totale, con il 6,1% che opta per questa forma di mobilità alternativa per andare al lavoro. Basterebbero questi numeri poco lusinghieri per fare dell'Italia un Paese poco adatto agli amanti delle biciclette. Eppure l'ennesima conferma arriva dal Global bicycle cities index 2022, che stila la classifica delle città del mondo più inclini a spingere l'uso delle due ruote e a investire nelle infrastrutture.

Su 90 località prese in considerazione solo due si trovano nel Belpaese e sono abbastanza in fondo alla graduatoria. La prima è Milano, al 65esimo posto, la seconda Roma, cinque posizioni più in basso. Peggio fanno in gran parte metropoli considerate in via di sviluppo, da Narobi a Nuova Delhi, dal Cairo a Lagos. Fra gli indici presi in considerazione ci sono le condizioni meteo e quelle relative alla sicurezza, ma anche servizi come il bike sharing e la diffusione di eventi legati al mondo della bicicletta e alle «giornate senza auto». E così al primo posto di piazza l'olandese Utrecht, seguita nei primi dieci posti da Munster (Germania), Antwerp (Belgio), Copenhagen, Amsterdam, Malmo, Hangzhou (Cina), Berna, Brema e Hannover. Insomma, ben nove città fra le prime dieci si trovano nel cuore dell'Europa, ma nessuna nel Belpaese, nonostante il clima favorevole e gli sforzi compiuti negli ultimi anni in alcuni Comuni che tanto hanno investito per la realizzazione di piste ciclabili e servizi connessi.

Il risultato è stato un incremento graduale dell'uso delle due ruote, soprattutto fra gli uomini (3,7% contro il 3,3% delle donne) e i giovani fra 15 e 19 anni (5,4%). Eppure ancora molta strada deve essere fatta sul piano culturale e su quello della sicurezza. Basti pensare che, secondo i numeri resi noti dall'osservatorio Asaps (Associazione sostenitori e amici polizia stradale), nel corso del 2021 il numero di vittime di incidenti in bici ha superato quota 180: in pratica un morto ogni due giorni. Sono state invece 989 le persone ricoverate in codice rosso e in prognosi riservata. E anche il 2022 potrebbe chiudersi con un altro record negativo, spinto dai drammatici casi delle ultime settimane. Dal 15enne investito e ucciso su una pista ciclabile di Porcia (Pordenone) da una ventenne, militare americana, risultata poi positiva all'alcol test, al bambino di 11 anni vittima di un pirata della strada a Milano mentre guidava la sua bicicletta.

Qualcosa però potrebbe cambiare a breve, grazie al «Piano generale della mobilità ciclistica urbana ed extraurbana 2022-2024» recentemente pubblicato dal ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile: 160 pagine di linee guida per portare l'Italia più vicina alla media Ue. L'obiettivo è mettere in atto una «rivoluzione delle bici», che contribuisca a creare una nuova mentalità che incentivi sempre più gli spostamenti green soprattutto all'interno delle città. Il tutto attraverso la realizzazione di 565 chilometri di nuove piste ciclabili nelle maggiori aree urbane e nei capoluoghi di provincia, per salire dagli attuali 23,4 a 32 chilometri di corsie riservate alle due ruote ogni cento chilometri quadrati. Le aree metropolitane di Roma (19,6 milioni) e Milano (13,1) sono destinate a ricevere la quota maggiore di risorse. Che interessano anche venti ciclovie turistiche inserite nella rete Bicitalia, collegata a quella europea Eurovelo, con nuovi 1.235 chilometri in arrivo.

Ciclista muore travolto da una volante della polizia a Torino. Cristina Palazzo su La Repubblica il 22 giugno 2022.

La vittima aveva 33 anni

Un giovane è morto nella serata di mercoledì a Torino, investito mentre era in sella alla sua bicicletta da una volante della polizia. L’incidente è avvenuto all’altezza del rondò Rivella, non lontano dai Giardini Reali. 

Il ciclista, 33 anni, è stato identificato dai documenti che portava nello zainetto ma a tarda sera la polizia municipale, che è intervenuta a eseguire i rilievi sul sinistro, non aveva ancora rintracciato la famiglia per dare loro la tragica notizia della morte del giovane, che era originario della provincia di Bari. 

Sono stati gli agenti a bordo della volante i primi a prestare soccorso al giovane, le cui condizioni sono subito parse disperate. È intervenuta anche un’ambulanza del 118, ma il giovane è morto sul posto. «Anche io ero lì, il ragazzo purtroppo malgrado il massaggio cardiaco durato un’eternità non ha dato segni di vita», racconta un testimone che era sul posto. «L’infermiera dell’autoambulanza e un poliziotto si alternavano nel massaggio. Ce l’hanno messa tutta ma purtroppo non c’è stato nulla da fare», aggiunge il testimone che era sul posto e ha assistito alle fasi dei soccorsi. 

Erano all’incirca le 20.30 quando il giovane è stato investito dall’auto della polizia che stava procedendo lungo corso Regina Margherita in direzione di Porta Palazzo. Non è ancora chiara la dinamica ma secondo le prime informazioni raccolta, il ciclista avrebbe iniziato ad attraversare sulle strisce pedonali  dai Giardini reali verso corso Regio Parco. In quel punto, secondo la prima ricostruzione, i ciclisti dovrebbero portare la bici a mano anziché pedalare attraverso l’incrocio. Ma non è chiaro se una  manovra del genere avrebbe da sola evitato lo scontro tra i due mezzi. 

Dopo l’urto, il traffico è stato deviato per permettere le manovre di soccorso e per permettere ai vigili di ricostruire con esattezza la dinamica dell’incidente, ascoltare le testimonianze degli agenti, cercare passanti e altri automobilisti per fare chiarezza su quanto accaduto.

Torino, travolto in bici dalla polizia: così sono finiti i sogni di Francesco. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.

Indagini sulla dinamica. L’ira delle associazioni delle due ruote: no attenuanti.

Aveva «cinquanta milioni» di sogni e poco tempo libero per realizzarli. Francesco Angelo Convertini, 33 anni, il designer di Locorotondo investito mercoledì sera (22 giugno) mentre tornava a casa in sella alla sua bicicletta era un artista poliedrico, innamorato della vita in tutte le sue sfaccettature. Si era trasferito dalla Puglia a Torino nel 2015, stava finalmente per discutere la sua tesi al Politecnico, pensava di ristrutturare il trullo di famiglia a Locorotondo ed era deciso a trascorrere 6 mesi in Sudamerica per costruire case ecosostenibili. Una casa tutta sua a Torino stava cercando di comprarla, ma abitava ancora in un appartamento in affitto in via Fiocchetto, vicino a Porta Palazzo. A due passi dall’incrocio dove è stato travolto da una volante della polizia.

Alle 19.15 di mercoledì quel filo scanzonato che legava le sue tante esistenze si è spezzato in corso Regina Margherita, all’imbocco del sottopasso di piazza della Repubblica. Una frenata, l’odore della gomma bruciata sull’asfalto e il rumore di lamiere contorte. Poi il tonfo sordo dell’impatto e i tentativi di rianimarlo. Tutto inutile. «Ciulicchio», come lo chiamavano in famiglia, è morto sul colpo. I due poliziotti sulla Seat Leon della questura, in stato di choc, stavano portando in commissariato un sessantenne ubriaco, fermato per un caso di maltrattamenti. Pare che la pattuglia stesse viaggiando sulla corsia degli autobus, a sirene spente, ma con lampeggianti accesi e adesso gli investigatori della polizia locale, coordinati dal pm Marco Sanini, dovranno ricostruire la dinamica di un incidente che ha provocato, oltre al dolore, una lunga coda di polemiche. 

In base alle prime ricostruzioni sembra certo che Convertini stesse percorrendo l’attraversamento ciclopedonale: «Che prevede la precedenza di chi lo percorre in bicicletta», precisa l’associazione Fiab Torino Bike Pride, che «non vuole giustificazioni o attenuanti». Mentre Diego Vezza, presidente della Consulta della mobilità ciclistica aggiunge: «Il 30% delle collisioni stradali sono causate dall’eccesso di velocità. Chiediamo di abbassare a 30 chilometri all’ora la velocità massima dei mezzi a motore su tutte le vie a eccezione dei grandi assi di scorrimento». Oltre ad accertare la velocità dell’auto, le perizie dovranno stabilire se il semaforo che regola l’incrocio era in funzione e chi è passato con il rosso. Nell’attesa, la Procura ha aperto un fascicolo per omicidio stradale.

Convertini collaborava dal 2017 con Paratissima, da febbraio era entrato nello staff e aveva il suo atelier nelle residenze artistiche della Cavallerizza. Nel laboratorio «Quattroccì», al terzo piano, dava forma alle idee degli altri e coltivava i suoi progetti. Aveva curato gli allestimenti della «manica Mosca» e aspettava l’inaugurazione delle mostre di ieri sera: «L’ho visto allontanarsi con la sua bicicletta e non avrei immaginato che sarebbe stata l’ultima volta — si commuove l’ad di Paratissima Lorenzo Germak —. Martedì sera era andato a Milano al concerto dei Rolling Stones e il giorno dopo l’ho svegliato alle 9 dicendogli che mi serviva del cemento. Mi aspettavo che mi urlasse dietro e invece si è messo subito al lavoro. Una persona speciale».

Giocava a calcetto ogni martedì e sognava di riprendere a produrre vino rosso nel trullo di suo nonno: « Era un uragano di energia — ricordano Elena, Cecilia, Roberto, Vittoria ed Enza, gli amici dello staff di Paratissima —. Geniale, vulcanico, divertente. Era impossibile non volergli bene».

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 6 marzo 2022.

Il Covid non c'entra: qui, tra lockdown e chiusure (passate), l'andazzo è lo stesso. Non cambia manco se ci tappiamo tutti in casa. Lo dicono i numeri. Stanno aumentando gli incidenti ai danni dei ciclisti, pedalare per le strade d'Italia non è una passeggiata. Rischi sul serio di finire all'ospedale. Prendi Milano.  

Solo a Milano (che, d'accordo, è una delle più grandi città del Paese, un milione e 300mila abitanti per 182 chilometri quadrati, pochi dei quali a misura di city-bike) nel 2021 ci son stati 1.872 sinistri, praticamente cinque ogni giorno e con un rialzo, rispetto a prima della pandemia, del 31%. Spericolati in sella, pavé sconnessi e piste ciclabili riservate che assomigliano a un colabrodo, di quelli col retino sbordato. 

La maggior parte, mica solo sotto la Madonnina, son nate dal nulla, segnalate con una pittata sull'asfalto che fino alla sera prima neanche c'era e che magari finisce pure Di sgambettare tranquilli non c'è verso. «Stiamo monitorando il fenomeno anche a livello nazionale, i dati che stiamo analizzando non sono per niente rassicuranti» dice Giordano Biserni, che il presidente dell'Asaps, l'Associazione dei sostenitori e degli amici della polizia stradale, e che, per avere il polso della situazione, ha messo su un osservatorio dedicato alle due ruote con il cambio shimano. 

Il report aggiornato Biserni lo pubblicherà sul numero di aprile della sua rivista, Il Centauro, ma quel che ha già sotto gli occhi basta e avanza: «Nel 2021 stimiamo ci siano stati almeno 180 vittime tra i ciclisti italiani. Stimiamo perché le nostre rilevazioni non tengono conto di chi, purtroppo, muore a distanza di molto tempo dall'incidente che lo ha travolto. Diciamo che la cifra è al ribasso di circa il 30%».  

E sarebbe sufficiente questo, però c'è di più. C'è che solo l'anno prima i sinistri fatali sono stati "appena" (si fa per dire) 169 e in entrambi i periodi di analisi, cioè il 2020 e il 2021, abbiamo passato mesi e settimane in salotto senza poter mettere il naso oltre il balcone. Figuriamoci i polpacci. C'è che le ospedalizzazioni, quelle gravi, quelle che arrivano al pronto soccorso con un'ambulanza a sirene spiegate e in codice rosso, anche loro sono lievitate: «Negli ultimi dodici mesi a noi ne risultano quasi mille, perla precisione 989», continua Biserni. 

Novecentottantanove in un anno sono quasi tre malati seri al giorno (e va da sé che anche qui vale il discorso del margine di errore, al ribasso, del 30%). A Torino, se si aggiungono le svirgolate sui monopattini (altro guaio per le vie cittadine), dal 2018 gli incidenti sono raddoppiati: erano 205, hanno centrato la quota, spaventosa, di seicento.  

A Ravenna, nel primo semestre del 2021, si registravano quindici morti e 791 feriti; in Romagna, con l'avvento dell'emergenza sanitaria, la percentuale dei sinistri che coinvolgono i ciclisti è passata dal 10% del pre-pandemia al 14,3% di adesso. Da una parte la svolta green che ha abbracciato anche il mondo della mobilità e, in un certo senso, va bene così. La bici non inquina, neanche quella elettrica, e per l'ambiente è tutto di guadagnato. 

Dall'altro il boom delle vendite: due milioni di mezzi a pedali comprati nel 2021, il 44% in più del 2019, anche grazie a bonus e incentivi. Ma nel mezzo quel miscuglio di fattori (ci sentiamo tutti un po' più liberi quando abbiamo le mani sul manubrio: imbocchiamo una via anche in contromano, pure se non si può, che è consentito solo nelle Ztl e a date condizioni e comunque ci dev' essere un cartello apposito; zizaghiamo nel traffico; scivoliamo su corsie che non ci competono) che va da un qualche grado di incoscienza al fatto che le infrastrutture spesso neppure ci sono e quando ci sono son piene di problemi. 

«Ci si dimentica che il ciclista è l'utente "debole" della strada - chiosa Biserni, - e che quando c'è un sinistro è quello che finisce per avere la peggio». Tanto per dare tutti i numeri: due anni fa, complessivamente, di incidenti ce ne sono stati quasi 15mila. Più o meno due ogni ora. È che tocca ancora pedalare.

Incidente a Riccione, l’ultima telefonata di Giulia e Alessia Pisanu al padre: «Tranquillo, ora torniamo». Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.

Giulia e Alessia portate in stazione da un 24enne: «Erano stanche». Le indagini della Polizia ferroviaria propendono per un tragico incidente mentre attraversavano i binari. La Procura apre un fascicolo senza ipotizzare reati

Alessia alle sei del mattino di domenica ha chiamato il padre. Lui ha visto un numero sconosciuto e si è preoccupato. «Tranquillo papà. Il mio cellulare è scarico, a Giulia lo hanno rubato. Va tutto bene, stiamo andando in stazione e torniamo a casa». Vittorio Pisanu si è rincuorato, ignaro della tragedia che stava per devastare la sua famiglia, le sue due figlie adolescenti, Giulia che avrebbe compiuto 17 anni il 30 settembre, e Alessia che ne avrebbe fatti 15 a Ferragosto, da sempre unite, stavano per essere spazzate via da un treno.

Sono arrivate alla stazione di Riccione poco prima delle 7, accompagnate da un ragazzo toscano di 24 anni e da un suo amico che avevano conosciuto poco prima in discoteca, che gli avevano prestato il cellulare per chiamare casa. Quello che è successo dopo, gli agenti della Polizia ferroviaria lo stanno ancora ricostruendo grazie a una decina di testimonianze, perché le telecamere della stazione, cinque di cui tre puntate sui binari, non le avrebbero mai inquadrate.

I racconti sembrano concordi: una delle due, quasi sicuramente Giulia, la più grande, si toglie gli stivaletti e scende sui binari. Poco prima aveva scambiato una battuta con il titolare del bar che ora ricorda: «Mi ha detto che le avevano rubato il telefonino, che non aveva soldi. L’ho vista raggiungere l’altra ragazza e poi le ho viste giù sui binari».

In quel momento, fermo nella banchina opposta, c’è un regionale diretto verso sud. Il binario 1 è invece vuoto, ma sta per arrivare un Frecciarossa che non prevede fermate ed è lanciato a piena velocità. I due macchinisti hanno testimoniato di aver visto la sagoma di una ragazza ferma davanti a loro e di aver azionato subito la tromba d’allarme. Questione di attimi. Giulia rimane lì in mezzo, qualcuno testimonia di averla vista guardare il treno che le viene addosso, altri che è rivolta dall’altro lato. Intanto anche Alessia è scesa sui binari, forse per avvertire la sorella del pericolo, forse capisce che ormai è troppo tardi e tenta di tornare indietro. Tutto inutile. È stato un lavoro straziante recuperare i resti delle due sorelle sparsi per centinaia di metri, domenica ci sono volute ore per capire chi fossero le vittime.

Perché Giulia e Alessia erano sui binari? Gli uomini della Polfer, coordinati dalla pm Giulia Bradanini della Procura di Rimini, tendono a escludere l’ipotesi di un suicidio, e propendono per una «condotta incauta». Forse non volevano perdere il treno che le avrebbe riportate a casa, ma quello diretto a Bologna era partito già da una decina di minuti. Forse non lo hanno capito, è possibile che si siano confuse, di sicuro erano stanche.

Erano arrivate da Castenaso nel pomeriggio di sabato. Un giro a Riccione, poi tutta la notte in discoteca, al Peter Pan sulle colline. Il ragazzo che le ha accompagnate in stazione ha riferito di averle notate mentre ballavano e poi le ha riviste all’uscita. «Giulia era distesa a terra, esausta». Non c’erano taxi a quell’ora, così si è offerto lui. «Erano distrutte ma mi sembravano lucide, normali» ha detto agli agenti.

La Procura ha aperto un fascicolo, senza ipotizzare reati e senza indagati. Visto lo stato in cui sono ridotti i corpi, trapela che non sarà effettuato alcun esame tossicologico mentre sarà fatto quello del Dna. Non tutto è stato ancora chiarito e probabilmente non lo sarà mai. E forse non conta neanche tanto saperlo.

Incidente a Riccione, i punti oscuri e le parole della mamma di Giulia e Alessia Pisanu: «Non me lo spiego, erano ragazze responsabili». Alessandro Fulloni, inviato a Castenaso, su Il Corriere della Sera il 3 Agosto 2022.

La donna tornata dalla Romania. Il padre: «Non volevo che andassero in discoteca, poi ho ceduto». I funerali aperti a tutti. 

«Io non volevo che andassero in discoteca sabato sera. Ma loro hanno insistito, insistito... Mi hanno preso per sfinimento. E alla fine ho ceduto, ho detto sì...». Sono le parole che Vittorio Pisanu, il papà di Giulia e Alessia, le due sorelle di 16 e 14 anni travolte e uccise domenica mattina da un Frecciarossa sul binario 1 della stazione di Riccione, ha confidato a uno dei suoi più cari amici andato ieri ad abbracciarlo a casa, nella sua villa a Castenaso, a 10 minuti da Bologna. Prima di salire sul’auto e andare via assieme alla moglie, proprio questo amico — sui sessant’anni, gli occhi arrossati per le lacrime  — scambia qualche breve parola con i giornalisti che sostano fuori dal cancello. «Vittorio è un uomo distrutto, non si dà pace — racconta —. Ha detto solo che sabato sera si sentiva molto stanco... Forse anche per questo le ragazze sono riuscite a convincerlo». Il papà però avrebbe posto una condizione tassativa: «Giulia, Alessia, vi vengo io a prendere a Riccione. E su questo non si discute».

È andata purtroppo diversamente, come hanno ricostruito gli agenti della Polfer dell’Emilia-Romagna. È Alessia, verso le sei del mattino, a telefonare al genitore (originario di Senorbì, Sud Sardegna, dove a giugno era stato in vacanza con le figlie). La secondogenita usa il cellulare di un ventiquattrenne conosciuto poco prima fuori dal Peter Pan, una delle discoteche più celebri della Riviera, e che alle due sorelle dà un passaggio sino alla stazione. Vittorio vede il numero che non ha in memoria e si preoccupa. Ma la figlia lo rassicura subito: «Tranquillo papà. Il mio cellulare è scarico, a Giulia lo hanno rubato. Va tutto bene, stiamo andando in stazione e torniamo a casa». Clic. Poi c’è il treno che travolge Giulia e Alessia. I macchinisti vedono le ragazze tra le rotaie. Frenano, lampeggiano, suonano la sirena. La scena dura 12 secondi, devastanti. La sedicenne rimane lì in mezzo, qualcuno testimonia di averla vista guardare il Frecciarossa che le viene addosso, altri che è rivolta dall’altro lato. Intanto anche Alessia è scesa sui binari, forse per avvertire la sorella del pericolo, forse capisce che ormai è troppo tardi e tenta di tornare indietro senza gli stivali che si è tolta poco prima, chissà perché.

«Tante domande che rimarranno senza risposta. Erano due ragazze molto responsabili, non mi spiego» questa tragedia dice piangendo la mamma delle sorelle, Tatiana, rumena, separata da Vittorio da circa un anno, e rientrata ieri mattina, assieme a sua madre, da Bacau, dopo aver preso il primo volo disponibile. La donna, che parla per bocca del sindaco Carlo Gubellini, si è detta devastata da un «dolore immenso». Poi, prima di congedarsi, aggiunge: «Credo che le parole non possano descrivere ciò che provo dentro al cuore». Il primo cittadino intanto, «per volontà della famiglia», ha disposto che la cerimonia dei funerali sia aperta. «Vittorio e Tatiana ci tengono, sanno bene quanto Giulia e Alessia fossero benvolute, sanno bene che l’intera Castenaso è attonita, sgomenta e in lacrime per la loro perdita». La data delle esequie è ancora da stabilire: «Sono in contatto con la Procura: quando riconsegneranno le salme fisseremo il giorno al più presto».

Le Ferrovie. Ecco il treno più lungo del mondo: misura 1,9 chilometri ed è composto da 100 vetture. Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2022

In Svizzera la Ferrovia Retica ha ottenuto il 29 ottobre il certificato dal Guinness World Record. Ma non ha comunicato l'investimento complessivo

Bergün - L’afrore delle salsicce e delle patatine fritte nella festa popolare per la giornata del treno dei primati, un serpentone rosso che si snoda lungo un paesaggio che pare quello di un plastico realizzato da fermodellisti. Bergün, valle di Albula, Canton Grigioni: il popolo si riversa sul verde dei prati di dolci pendii per salutare l’arrivo di un convoglio lungo 1,906 chilometri, formato agganciando 25 convogli della serie Capricorn, elettrotreni costruiti da Stadler Rail e dotati ciascuno di 4 vetture: la Ferrovia Retica grazie ad essi è entrata ufficialmente nel Guinness dei Primati, un riconoscimento che si affianca a quello di Patrimonio dell’Unesco attribuito al tratto Preda-Landwasser-Alvaneu, scelto per il tentativo. «Sono felice per quanto siamo riusciti a fare: è importante per la Svizzera, per l’immagine della nostra azienda ma, senza presunzione, anche un po’ per tutto il mondo: perché questa è un’impresa compiuta da uomini e che agli uomini appartiene», dice Renato Fasciati, direttore generale di una compagnia che ha voluto onorare in questo modo il giubileo dei 175 anni di esistenza. Sull’onda dell’entusiasmo scemano anche le polemiche fiorite nonostante la Svizzera sia un Paese di grande cultura ferroviaria, con servizi di prim’ordine. Ma valeva davvero la pena di spendere così tanti soldi (ndr: la cifra di quanto è costato l’evento, peraltro, non stata comunicata)? «La risposta è sì – replica Fasciati – anche perché per noi è stato un investimento, destinato a consolidare la ripartenza dopo il difficile periodo della pandemia e ad avere influssi positivi su più fronti, a cominciare dal turismo».

Biglietti esauriti in poche ore

Tecnicamente, il record è stato stabilito quando la «bestia» ha valicato lo spettacolare Landwasser Viaduct, affrontato dopo una breve sosta «perché la sicurezza viene prima di tutto ed era necessario verificare che ogni cosa fosse in ordine», così hanno commentato i tecnici. Ma l’impresa era partita da Preda, alle 14 in punto del 29 ottobre, ed è stata una parata immortalata da telecamere piazzate su droni ed elicotteri, oltre che da fotografi sparpagliati lungo i punti più caratteristici del tracciato. I tremila biglietti messi in vendita ad agosto erano stati esauriti in poche ore, ma Bergün si è popolata anche di tanti «forestieri», accampati in un enorme tendone che faceva da riferimento per l’evento. A suo fianco la Märklin, nota casa fermodellistica tedesca, aveva piazzato una riproduzione in scala 1:22 del super-treno: lunghezza 80 metri, prezzo imprecisato e imprecisabile (non essendo in produzione), anche se c’è stato chi si è informato per acquistarlo. Se il convoglio reale ha stabilito un primato, pure il modellino non ha scherzato. 

Velocità massima

Rispetto alla tabella di marcia prevista il treno da Guinness ha viaggiato leggermente più piano di quanto era stato stabilito in origine: poco meno di 30 orari, 5 km all’ora in meno rispetto ai 35 che si pensava di tenere; anziché terminare alle 15.30 si è congedato alle 15.50. Poco male, era necessario fare tutto con la massima accortezza, dato che la sfida tecnologica non era per nulla marginale: a bordo, oltre a un «vippame» rigorosamente selezionato e comunque non numeroso, c’erano infatti 7 guidatori di motrici (ripartiti strategicamente lungo il convoglio) e 21 tecnici; il loro compito è stato di garantire il perfetto coordinamento operativo e il «dialogo» tra le varie unità.

Ha affrontato un percorso affascinante

I 25 Capricorn, il 10% di una flotta che nella Rhätische Bahn conta 250 pezzi, sono stati uniti – come strisce di perle di una collana - nella notte tra venerdì 28 e sabato 29 nel tunnel di Albula. Sono occorsi circa 5 minuti perché uscisse interamente all’aperto e si buttasse in un percorso affascinante, lungo strapiombi, salite, discese, curve, ponti, tratti ad elica: c’è chi per il record voleva sfruttare, della Ferrovia Retica, il percorso da Tirano a St.Moritz, ma la possibilità è stata bocciata perché in alcuni punti non sarebbe stato possibile far circolare un convoglio tanto lungo. Per la cronaca, sono stati superati 48 viadotti e 22 gallerie: il più lungo dei primi era appunto il Landwasser Viaduct, poco dopo Filisur, un’opera da 142 metri di lunghezza e da 65 metri di altezza; quanto ai tunnel, il più impressionante era il Greifstein, prima di Filisur, che ha inghiottito il convoglio per i suoi 698 metri di lunghezza.

Energia recuperata

Il dislivello superato è stato di 789,4 metri, passando dai 1.788,7 metri sul livello del mare di Preda ai 999,3 di Alvaneu, dove c’è il centro di manutenzione dei Capricorn. Un ultimo dato: i 100 pezzi (25 convogli x 4 carrozze) che hanno formato il serpentone rosso pesavano in totale 2.990 tonnellate e hanno generato, nei momenti di frenata, 4.000 KWh, un’energia che è stata totalmente recuperata e che verrà riutilizzata nel servizio quotidiano. Dopo aver stabilito il primato, il treno del record ha infatti subito cominciato la fase di de-assemblamento: da domenica 30 ottobre alcune unità torneranno al loro abituale lavoro. Una normalità che però adesso à griffata da qualcosa di unico.

Cadavere di un quindicenne dimenticato 10 ore sui binari. Il testimone: "Un incubo". Redazione il 12 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il corpo senza vita di un senegalese di 15 anni "dimenticato" per dieci ore accanto ai binari di una ferrovia torinese.

Il corpo senza vita di un senegalese di 15 anni «dimenticato» per dieci ore accanto ai binari di una ferrovia torinese. C'è questo al centro di un'inchiesta aperta dalla magistratura.

Il 26 settembre scorso quel cadavere fu trovato alle 18, ma la prima segnalazione alle forze dell'ordine arrivò alle 8.22. Alla base del decesso un incidente o forse un suicidio. Ma di fatto il ragazzo, secondo l'autopsia eseguita nell'immediato, morì per l'impatto con un treno. A dare l'allarme era stato Michele Miravalle, un ricercatore universitario, coordinatore dell'Osservatorio sul carcere dell'associazione Antigone, che si trovava su un convoglio che era in arrivo alla stazione ferroviaria di Porta Nuova.

«Era il 26 settembre - racconta sconvolto Miravalle su Facebook - su uno qualsiasi dei cento di treni che scandiscono la vita di noi pendolari. È un secondo. Vedo il suo corpo disteso accanto al binario di una delle linee più frequentate d'Italia. È morto? Sta per morire? Faccio la cosa più naturale che si possa fare, chiamo il 112. Seguono alcuni minuti di chiamata surreale, che alla fine devo usare Google maps del mio cellulare per localizzarmi. Sono scosso e sollevato allo stesso tempo, qualcuno lo cercherà. Ne sono certo». «Vado al lavoro, passano le ore, alle 18,30 sono di nuovo su quel treno, direzione ritorno a casa - prosegue il racconto -. Linea bloccata, c'è un corpo sui binari. È quel corpo. Stento a crederci. Sono trascorse 10 ore dalla mia segnalazione. Mi toccherà vedere la foto di quelle braccia disarticolate e di quegli occhi semichiusi».

"Si scontreranno". Quel disastro ferroviario tra coincidenze ed errore umano. Era il 27 gennaio 1992 quando due treni sul binario unico della linea Ciampino-Velletri si scontrarono: 6 i morti quasi 200 i feriti. Immediatamente si puntò il dito verso l’errore umano, ma fu davvero così? Laura Lipari il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.

"Che hai fatto? Non doveva partire! L' altro non è arrivato ancora. Dio mio si scontreranno!". Sono queste le ultime parole esclamate da un capostazione di Casabianca prima della tragedia. Erano circa le 17.45 del 27 gennaio 1992 quando due convogli si precipitarono a folle velocità nello stesso binario scontrandosi. Ma cosa accadde veramente?

Lo schianto e il boato

La piccola stazione di Casabianca è una fermata ferroviaria che si trova sulla linea ferroviaria Roma-Velletri, posta tra la stazione di Ciampino e la fermata di Santa Maria delle Mole. La calma piatta delle campagne che circondano la zona è interrotta di tanto in tanto dal fischio dei treni che si avvicinano per sostare. I residenti non fanno più caso a quel rumore, oramai fa parte della loro quotidianità. Il fracasso e il boato che hanno spezzato violentemente il silenzio quel 27 gennaio lo ricorderanno per sempre.

Mentre il diretto Roma–Velletri partito da Roma Termini alle 17.30 avanza verso l’unica fermata a Ciampino, quello proveniente dal senso opposto ha appena lasciato la stazione di Santa Maria della Mole e sta continuando il suo viaggio. In entrambi i convogli i macchinisti alla guida hanno appena ricevuto il via dal ferroviere per procedere. Questo sistema, chiamato "blocco telefonico", permette ai treni di partire attraverso le telefonate tra capistazione.

In realtà uno dei due convogli avrebbe dovuto dare la precedenza all’altro e invece si trovano sullo stesso binario e, per un istante, chi è alla guida del treno scorge l’altro in un moto di paura e disperazione. Nel frattempo il personale della stazione di Ciampino, percepito l'errore, tenta in tutti i modi di fermare i treni, ma non ci sono ancora le tecnologie adatte. Mancano i collegamenti radio e i telefoni cellulari. Inoltre le stazioni di Santa Maria e Ciampino sono troppo vicine per poter intervenire in tempo.

L'irrimediabile sta accadendo di fronte all'impotenza dell'essere umano. Si sente una frenata strozzata dal rumore di ferro che stride e si schianta. L’impatto è violentissimo. Qualche minuto dopo il boato non si sente nulla. Fa paura quel silenzio. Poi qualcuno grida e iniziano ad arrivare le ambulanze, i vigili del fuoco e la polizia. La corsa contro il tempo diventa fondamentale per i 192 feriti. I morti invece sono sei: Romeo D'Antimi, Gabriele Gianmattei, Tommaso Cocuzzoli, Claudio Milletti, Costantino Radu e Alberto Zaccagnini. 

Nel caos generale per salvare più vite possibili, il ferroviere che ha dato il via ai due treni di poter procedere è sotto choc. Suda freddo, si rende conto che ha appena compiuto lo sbaglio più grosso della sua vita e allora fa quello che un uomo spaventato fa impulsivamente: fugge. Vaga per la campagna, contatta i suoi più cari amici e dopo un’ultima telefonata alla famiglia si pente, quindi si costituisce al capitano dell’Arma di Castel Gandolfo.

Si chiama Sossio Dolce, ferroviere da trent’anni da poco promosso a capostazione e mentre confessa le sue colpe non riesce a perdonarsi un errore del genere. Un attimo prima della tragedia aveva dato il cambio al collega che si era allontanato per una pausa. Qualche minuto dopo lo aveva visto arrivare di corsa dal bar e con gli occhi spalancati si era sentito urlare:"Che hai fatto? Non doveva partire! L' altro non è arrivato ancora. Dio mio si scontreranno!”, a quel punto aveva capito di aver fatto commesso l’errore fatale.

Qualche giorno dopo La Repubblica fa uscire un'intervista ai ferrovieri della stazione. Le loro frasi sono rilevanti per scagionare il collega: "Tutti i treni che arrivano qui - raccontano - sono praticamente uguali uno all' altro. Quelli che giungono da Albano, da Marino, da Frascati sono gialli e arancioni come il Roma-Velletri. E sui convogli i cartelli che indicano la provenienza del treno non sono numerosi. È molto probabile che il capostazione abbia scambiato le vetture, abbia creduto che il Velletri-Roma fosse già arrivato, dando via libera all'altro".

Successivamente a questa dichiarazione si apre un’inchiesta per valutare effettivamente quante probabilità avrebbero potuto causare un incidente del genere. Il personale ferroviario mette sotto accusa una linea vecchia a binario unico, dove tutto è affidato a una telefonata tra i capistazione e dove non si può bloccare un convoglio perché i macchinisti non hanno in dotazione neppure un radiotelefono. Alfredo Valente, il capostazione di Ciampino, che al momento in cui Dolce ha dato il via al treno era momentaneamente assente per un caffè, ha raccontato alla polizia ferroviaria: "Non c' è stato nemmeno il tempo per avvertire Roma, un centro al Prenestino, e far interrompere da lì l'elettricità".

Negli anni si sono susseguite una serie di richieste da parte dei comitati e dei cittadini pendolari per raddoppiare la linea. Nonostante ciò, dopo trent’anni dall’accaduto, il binario unico è rimasto. Quello che è cambiato riguarda il sistema di sicurezza: in seguito al terribile incidente è diventato tutto automatizzato dicendo addio al vecchio "blocco telefonico". Inoltre i treni arancioni di cui parlavano i ferrovieri poi riverniciati di bianco, sono stati sostituiti nel 2016.

Il 27 gennaio del 2022 gli uomini della polizia di Ciampino hanno organizzato e presenziato la commemorazione per ricordare le vittime a trent'anni di distanza dalla tragedia, ponendo una corona di fiori davanti alla targa che ricorda i nomi delle sei vittime e che riporta la frase: "Non accada mai più".

Restaurato il treno Arlecchino: torna a viaggiare il gioiello anni ‘60 con il «salotto belvedere». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

L’elettrotreno di lusso Etr252, inaugurato in occasione delle Olimpiadi di Roma nel 1960, è ora la punta di diamante della flotta storica della Lombardia. In testa e in coda due salottini permettono di godere del paesaggio 

L’Arlecchino, l’elettrotreno di lusso inaugurato in occasione delle Olimpiadi di Roma nel 1960, ora restaurato

Come una vera star. Quando, sabato, poco prima delle 9, la sua livrea tricolore ha cominciato a fare capolino in fondo al binario 7 della Stazione Centrale, ha mandato in visibilio la piccola folla dei suoi aspiranti passeggeri, tra cui uno stuolo di trenta agguerriti fotografi. Del resto, l’occasione era eccezionale: poter salire a bordo dell’Arlecchino, l’elettrotreno di lusso, inaugurato in occasione delle Olimpiadi di Roma nel 1960. Dei quattro elettrotreni dell’epoca, detti «Etr250», in servizio fino agli anni ’70 oggi ne resta solo questo: l’«Etr252».

Nel 2016, Fs lo ha avviato al restauro che lo ha portato ad essere, oggi, una delle punte di diamante della flotta dei treni storici, gestita da Fondazione Fs. Convogli d’epoca, a vapore o elettrotreni, con vetture che risalgono fino agli anni ’30. Girano tutta l’Italia e, in Lombardia, ne sono attive sei linee, che toccano Milano, Lecco, Como, Gallarate, Pavia: per prenotare un viaggio basta collegarsi al sito Fondazionefs.it e scegliere fra gli itinerari a calendario. I prezzi? Modici: partono dai 9 euro, con sconti per i ragazzi e i bambini fino a 4 anni non pagano. Sabato, tra i passeggeri dell’Arlecchino, c’erano Gian Franco e Amelia, 45 anni di matrimonio. «Negli anni ’70 lo vedevamo passare. Non abbiamo mai avuto occasione di prenderlo da giovani e quindi oggi siamo qui» raccontano.

L’elettrotreno, antenato delle odierne Frecce, viaggiava a 180 chilometri l’ora tra Roma e Milano. Solo quattro le carrozze, tutte di prima classe, vestite di velluti rossi, blu e verde scuro. A disposizione dei viaggiatori, un bar e due eccezionali «belvedere». Nella prima vettura, sotto alla cabina di guida, c’era infatti un salottino, abbellito da vezzose tendine, da cui godere del paesaggio una vista pari a quella dei macchinisti. Lo stesso salottino si ritrovava, poi, nella vettura di coda. Il design futuristico e l’alta velocità resero gli «Etr252» e i fratelli maggiori (tra cui il Settebello) uno dei simboli del lusso e del made in Italy. A bordo di un «Arlecchino», nel 1979, salì perfino papa Giovanni Paolo II.

Dagli anni del boom economico a quelli dello swing: in Lombardia circolano treni con locomotive a vapore e carrozze risalenti agli anni ‘30, con i caratteristici sedili in legno. Tra questi il «Lario Express», diretto da Como. Da lì attraversa tutta la Brianza, su una linea secondaria ricca di fascino, per giungere a Lecco, dove si può proseguire con una gita sullo storico battello «Concordia». Affascinante anche il percorso del «Sebino Express», che raggiunge Palazzolo sull’Oglio e, da lì, s’inoltra su binari dismessi, che portano all’imbarcadero di Paratico-Sarnico dove un tempo si svolgeva il trasbordo dei carri ferroviari su chiatte a motore. A questi treni si aggiungono il «Laveno Express», che porta al Lago Maggiore, il «Besanino Express», diretto a Besana, Molteno e Lecco e altri convogli storici.

Nel 2022 hanno debuttato tre nuovi itinerari. «Prima del 2019, le corse dei treni storici venivano effettuate solo in occasione di eventi. Essendo apprezzatissime, insieme al direttore di Fondazione Fs, Luigi Francesco Cantamessa, abbiamo pensato di renderle strutturali» racconta l’assessore regionale ai Trasporti Claudia Maria Terzi. Nel 2019 i viaggiatori sono stati quasi 5mila, con un tasso di occupazione del 90 per cento. Nel 2020 e nel 2021, seppur con i posti contingentati, c’è sempre stato il tutto esaurito. «La locomotiva che sbuffa il vapore, gli arredi d’epoca, la velocità più rilassata che permette di assaporare il paesaggio, rendono il viaggio ricco di fascino. Inoltre, la possibilità di portare con sé la bicicletta, rende la proposta attraente per chi ama un turismo green. Un grande grazie va ai volontari: il servizio a bordo di questi treni viene svolto dai soci di associazioni di appassionati» aggiunge Terzi. A sostenere il costo, invece, oltre agli introiti dei biglietti, è il contributo regionale di 500 mila euro per valorizzare il patrimonio storico della ferrovia.

Dagospia l'11 agosto 2022. Riceviamo e pubblichiamo dal dottor Giovanni Milito: 

Ieri alle 15 prendo il treno Frecciarossa 9587 da Roma Termini, diretto a Napoli centrale. Il treno proveniente da Torino Porta Nuova e diretto a Reggio Calabria, è affollato in ogni posto da viaggiatori, vacanzieri e non, che si recano al sud. 

Dopo neanche 30 minuti di viaggio si ferma per un guasto tecnico. L’aria condizionata non funziona, le porte e i finestrini sono chiusi. Nessuno dà notizia di cosa succede, se non di un guasto tecnico. 

Dopo circa 3 ore di sofferenza e mancanza d’aria sono iniziati dei problemi ad alcuni viaggiatori, per cui da medico ho cercato di assistere, pur non avendo alcun presidio medico con me. 

Dopo circa 3 ore in questo clima ci avvertono che il treno ci avrebbe riportato a Roma, da dove saremmo ripartiti con un altro convoglio. Quello che è grave è la mancanza di assistenza ai passeggeri di ben 11 carrozze e la mancata coordinazione dei servizi a bordo.

Il fischio, le urla, poi la botta: così sono morte due sorelle a Riccione. Valentina Dardari il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

Le due ragazze di 15 e 17 anni sono morte nella stazione ferroviaria di Riccione mentre cercavano di attraversare i binari. Un treno è sopraggiunto e le ha prese in pieno. Inutile la frenata e il fischio emesso dal convoglio in transito.

Due sorelle di 15 e 17 anni, Alessia e Giulia Pisanu, sono state investite e uccise da un treno Alta Velocità in transito alla stazione di Riccione, in provincia di Rimini. Il convoglio era diretto verso Milano. La tragedia è avvenuta intorno alle 7 di questa mattina, domenica 31 luglio. Secondo quanto reso noto fino a questo momento, le due giovani sarebbero state viste arrivare in stazione e cercare di attraversare i binari, barcollando. La polizia Ferroviaria e l’Autorità Giudiziaria hanno avviato gli accertamenti per ricostruire l’esatta dinamica. I corpi sono stati identificati nel pomeriggio: si tratta di due sorelle di 15 e 17 anni, residenti in provincia di Bologna. La polizia è riuscita a rintracciare il padre delle due vittime attraverso il cellulare di una delle ragazze, e l'uomo si è recato all'obitorio dell'ospedale di Riccione per l'identificazione ufficiale delle salme.

Il traffico ferroviario in tilt

Il traffico ferroviario è stato per il momento sospeso tra Rimini e Cattolica, in direzione di Ancona e sono stati predisposti dei servizi autobus in sostituzione ai treni regionali tra Cattolica e Rimini. Trenitalia ha infatti comunicato che, a seguito della disgrazia verificatasi, il traffico ferroviario è sospeso tra Pesaro e Riccione, spiegando che treni Alta Velocità, InterCity e Regionali possono registrare maggiori tempi di percorrenza fino a 90 minuti. Intanto si registrano code alle biglietterie per chiedere informazioni o cambiare i biglietti già acquistati, molte le persone in fila vicino ai binari in attesa dell’arrivo dei treni. Sul tabellone sono indicati ritardi fino a 240 minuti per due treni AV in direzione Milano e altri con ritardi superiori ai 60 minuti. Dal piazzale della stazione partono i trasferimenti sostitutivi in bus verso Cattolica e le Marche. Vengono inoltre segnalate delle navette private per il trasferimento alla stazione di Bologna Il treno che ha investito e ucciso le due ragazze, la Freccia 9802 in transito da Pescara verso Milano, non aveva fermate alla stazione di Riccione. Dalle 12.30 circa la circolazione ferroviaria è ripresa regolarmente. Dalle 10 era ricominciata su un solo binario. In tutto sono stati una quarantina i treni coinvolti dai disagi tra ritardi e cancellazioni, totali o parziali.

Nessuna ipotesi viene esclusa

La Polfer di Bologna sta verificando i filmati ripresi dalle telecamere presenti in stazione per accertare la dinamica dell'incidente: secondo le prime informazioni, le due vittime sarebbero state viste mentre attraversavano i binari, ma la conferma potrà essere data solo dai filmati requisiti dagli investigatori. Verranno anche ascoltate le persone che erano in quel momento presenti in stazione e che possono essere testimoni attendibili. Agli accertamenti stanno collaborando carabinieri, Polfer e agenti della questura di Rimini. Sarebbe stato trovato un telefono cellulare, però danneggiato.

Sul posto anche il sindaco di Riccione, Daniela Angelini, per dare supporto e fruibilità alla zona della stazione ferroviaria. Il primo cittadino ha così commentato la tragedia: “È stato un brutto risveglio, sia come prima cittadina che come mamma. È una tragedia. Sono in corso indagini, l'identità dei due corpi non è ancora stata accertata. Sono nei panni di quei genitori che sono in ansia poiché le figlie non sono ancora rientrate. Siamo sgomenti". Per ora non viene esclusa nessuna ipotesi, da un attraversamento imprudente, a un litigio tra le due ragazze finito sui binari, a un tentato suicidio di una delle due con l'altra che tenta di fermarla ed entrambe che finiscono travolte dal treno in corsa. L'ipotesi che sembra meno accreditata è quella di uno scivolamento accidentale.

Chi sono le vittime

Si chiamavano Giulia e Alessia Pisanu le due sorelle di 17 e 15 anni che questa mattina sono state investite da un treno, nella stazione di Riccione. Le vittime vivevano con la loro famiglia a Madonna di Castenaso, comune in provincia di Bologna, dove il padre ha un'azienda di traslochi. Non è certo stato facile per gli agenti della Polfer riuscire a risalire all'identità delle due ragazze. L'unico indizio che avevano era un cellulare danneggiato intestato a una ditta di traslochi di Castenaso, quella appunto del genitore. Attraverso la ditta è stato infatti rintracciato il padre delle due ragazze che questo pomeriggio ha effettuato il riconoscimento dei pochi resti recuperati delle figlie. L'uomo si è intrattenuto per diverse ore negli uffici della Polfer di Rimini per cercare di ricostruire nel dettaglio gli ultimi istanti di vita delle sue figlie.

Il Comune di Castenaso, guidato dal sindaco Carlo Gubellini, ha scritto: "Ci è arrivata la conferma che non avremmo mai voluto: le due giovani sorelle travolte da un treno a Riccione sono, purtroppo, nostre concittadine. Siamo senza parole davanti a questa tragedia così difficile da capire e da accettare e proviamo un dolore incolmabile". Il primo cittadino ha detto all'Ansa che si tratta di un grande dolore per tutta la comunità. Ha poi aggiunto: "L'intera comunità di Castenaso si stringe attorno ai genitori, ai familiari, agli amici: Giulia e Alessia, che la terra vi sia lieve. Siete volate via troppo presto".

Il testimone: "La bellissima ragazza non era in sé"

"Stavo caricando il distributore delle bibite, erano circa le 6.30/6.40 quando mi si è avvicinata una bellissima ragazza vestita di nero che mi chiede qualcosa ma ho subito capito che non era in sé", ha detto all'AGI Pietro, gestore del bar della stazione di Riccione, in merito all'investimento mortale. L’uomo ha poi continuato: “Mi ha detto che non aveva soldi e che le avevano rubato il telefonino. Successivamente si è allontanata di due metri e si è incontrata con una sua amica vestita di verde e con gli stivali in mano quando all'improvviso si sono dirette al binario 2 dove era fermo il treno per Ancona. Quando ho capito cosa volessero fare ho urlato, tutti dietro di me hanno urlato, poi ho sentito il fischio fortissimo del treno e una botta tremenda. Poi non ho capito più nulla, tutti urlavano".

Secondo la testimonianza delle poche persone presenti a quell'ora della mattina alla stazione, una delle due giovani era ferma sui binari mentre l'altra si era seduta sulla banchina forse per scendere, superare i 50 centimetri di cemento che la separavano dalla sorella e cercare di salvarla, o forse per aiutarla a risalire sulla banchina. Quasi tutti i testimoni che le hanno notate in stazione le hanno definite stanche e spossate, forse in seguito a una serata passata sveglie. Come molti altri ragazzini avevano forse preso il treno per Riccione con l'idea di tornare a casa la mattina seguente, dopo aver ballato magari tutta la notte.

Il questore di Rimini, Rosanna Lavezzaro, ha spiegato che si sta cercando di ricostruire ciò che è accaduto. Stanno vagliando le telecamere esterne alla stazione e quelle interne e verbalizzando le 2-3 persone che erano presenti in quel momento. Ha poi aggiunto che è ancora troppo presto per poter parlare di dinamica.

Riccione, Alessia e Giulia Pisano: "Una voleva salvare l'altra", gli ultimi drammatici istanti. Libero Quotidiano il 31 luglio 2022

Alessia e Giulia Pisanu sono state investite e uccise questa mattina all'alba da un treno dell'Alta Velocità diretto a Milano alla stazione di Riccione. Stando a una prima ricostruzione fornita da Leggo, gli ultimi istanti delle due sorelle, residenti a Castenaso nel Bolognese, sarebbero stati drammatici: ondeggiando, si sarebbero allontanate verso i binari, fino all'estremo tentativo di una che voleva salvare l'altra. Le forze dell'ordine sarebbero riuscite a capire cos'è successo grazie alle telecamere di sicurezza e alle parole dei testimoni, ancora sotto choc. 

Una donna che ha assistito alla scena al Corriere Tv ha detto: "Verso le 7 sono entrate qui, era presto. Hanno chiesto del bagno ma non lo abbiamo il bagno. Poi sono andate via, ho sentito il titolare gridare, ho alzato lo sguardo e ho visto il Frecciarossa arrivare e una delle due ragazze era seduta sui binari mentre l'altra cercava di farla alzare: poi è saltato tutto, tutto". Un altro testimone invece sarebbe stato avvicinato da una delle due ragazze prima della tragedia. "Mi ha detto che le avevano rubato tutto e che non aveva più nulla. Poi si è allontanata verso l'altra ragazza che aveva uno spolverino verde e gli stivali in mano". Le due ragazze sono sembrate non essere in sé: probabilmente Giulia e Alessia erano preoccupate per il furto subito da almeno una delle due. L'altra invece il cellulare ce lo aveva ancora. E' stato proprio quello a rendere possibile l'identificazione delle due vittime. 

Ora Castenaso piange le due ragazzine. Il papà, titolare di un'azienda di trasporti e traslochi, è stato subito avvisato dalla polizia. "A volte credo che mia sorella sia la mia unica ragione di vita", scriveva Giulia su Instagram. Le due erano parecchio legate. Giulia, 17 anni, la più grande, aveva i capelli lisci e neri; Alessia, anche lei capelli lunghi, era la più piccola, aveva 15 anni.

Riccione, il mistero degli ultimi secondi di Alessia e Giulia: qualcosa non torna. Libero Quotidiano l'01 agosto 2022

Troppe le domande dietro la morte di Alessia e Giulia Pisanu, le due sorelle morte travolte da un treno alla stazione di Riccione. Cosa sia accaduto ancora non è chiaro. L'ipotesi al momento al vaglio è quello di un attraversamento incauto. Prima, secondo i testimoni, sarebbe scesa sui binari una di loro, poi la sorella l'ha seguita. Ma perché? Viene da domandarsi. Il treno sul secondo binario era diretto ad Ancona, ma loro dovevano tornare a casa, ossia a Bologna. Non solo, perché Pietro, gestore del bar della stazione, conferma che una delle due barcollava: "Non mi è sembrata molto lucida - ha detto a Repubblica -. Erano le 6.40, indossava un vestito nero, era bellissima. Mi ha detto che era stata derubata, che le avevano portato via il telefonino e i soldi, che non aveva più nulla. Poi si è allontanata, l'ho seguita con lo sguardo, dopo un paio di metri l'ha raggiunta un'altra ragazza, indossava qualcosa di verde e aveva un paio di stivali in mano. Quella in nero è scesa sui binari, l'altra l'ha seguita. Le ho gridato di fermarsi, di non farlo, poi ho sentito il fischio, un colpo terribile e tutti che urlavano". 

A spiegare se le due avessero bevute o fossero solo stanche le indagini, che terranno conto anche dello stato della 15enne e della 16enne. Una delle due, ha ribadito Pietro, "sembrava sconvolta per la perdita del telefonino". Le giovani erano sole, ma gli amici sono sicuri che volessero andare al Peter Pan, una discoteca sulle colline. E allora com'è possibile che siano scese sui binari per poi finire travolte dal Frecciarossa, un treno ad alta velocità diretto a Milano?  

I testimoni si dicono certi che "una voleva salvare l'altra". Lo scontro con il treno però è stato fatale, il conducente ha tentato di frenare ma inutilmente. I loro corpi sono stati trascinati per almeno settecento metri, sotto gli occhi sconvolti dei passeggeri. Ad aiutare gli inquirenti a identificarle, un cellulare quasi a pezzi, grazie al quale la polizia ha rintracciato il padre, Vittorio Pisanu.  

Riccione, Alessia e Giulia Pisano: "Una voleva salvare l'altra", gli ultimi drammatici istanti. Libero Quotidiano il 31 luglio 2022

Alessia e Giulia Pisanu sono state investite e uccise questa mattina all'alba da un treno dell'Alta Velocità diretto a Milano alla stazione di Riccione. Stando a una prima ricostruzione fornita da Leggo, gli ultimi istanti delle due sorelle, residenti a Castenaso nel Bolognese, sarebbero stati drammatici: ondeggiando, si sarebbero allontanate verso i binari, fino all'estremo tentativo di una che voleva salvare l'altra. Le forze dell'ordine sarebbero riuscite a capire cos'è successo grazie alle telecamere di sicurezza e alle parole dei testimoni, ancora sotto choc. 

Una donna che ha assistito alla scena al Corriere Tv ha detto: "Verso le 7 sono entrate qui, era presto. Hanno chiesto del bagno ma non lo abbiamo il bagno. Poi sono andate via, ho sentito il titolare gridare, ho alzato lo sguardo e ho visto il Frecciarossa arrivare e una delle due ragazze era seduta sui binari mentre l'altra cercava di farla alzare: poi è saltato tutto, tutto". Un altro testimone invece sarebbe stato avvicinato da una delle due ragazze prima della tragedia. "Mi ha detto che le avevano rubato tutto e che non aveva più nulla. Poi si è allontanata verso l'altra ragazza che aveva uno spolverino verde e gli stivali in mano". Le due ragazze sono sembrate non essere in sé: probabilmente Giulia e Alessia erano preoccupate per il furto subito da almeno una delle due. L'altra invece il cellulare ce lo aveva ancora. E' stato proprio quello a rendere possibile l'identificazione delle due vittime. 

Ora Castenaso piange le due ragazzine. Il papà, titolare di un'azienda di trasporti e traslochi, è stato subito avvisato dalla polizia. "A volte credo che mia sorella sia la mia unica ragione di vita", scriveva Giulia su Instagram. Le due erano parecchio legate. Giulia, 17 anni, la più grande, aveva i capelli lisci e neri; Alessia, anche lei capelli lunghi, era la più piccola, aveva 15 anni.

FRANCESCO ZUPPIROLI da La Nazione l'1 agosto 2022.  

Ci sono luci e ci sono ombre nella ricostruzione puntuale delle ultime ore, dell'ultimo giorno, vissuto da Giulia e Alessia Pisanu a Riccione, prima di venire investite e uccise dal treno dell'Alta velocità alle 7 di mattina sui binari dello scalo rivierasco.

Quel che è certo è che le due sorelle bolognesi di 17 e 15 anni si trovassero nella Riviera romagnola per trascorrere almeno una sera di divertimento insieme. Una notte di divertimento come si addice a due ragazze piene di vita e di sogni, vogliose di tornare a vivere e gettarsi alle spalle i due anni di pandemia. 

LA SERATA IN DISCO Sembrerebbe infatti che le due sorelle, residenti a Castenaso, nel Bolognese, fossero a Riccione per trascorrere la serata in una delle più note discoteche che animano la Riviera. Stando a quanto si apprende, Giulia e Alessia avevano passato la notte al Peter Pan, sempre a Riccione, e la stazione doveva essere la tappa di un possibile ritorno a casa. Della presenza delle due ragazzine in Riviera inoltre pare ne fosse informato il padre, il quale aveva avuto l'ultimo contatto con le figlie durante la sera di sabato, stando a quanto riferito al personale della Polfer.

LA DISAVVENTURA La serata tra disco e movida però non sarebbe stata del tutto serena per le due, dal momento che stando a quanto riferito da un testimone oculare della successiva tragedia alla stazione di Riccione, a una delle due sorelle - secondo la descrizione fornita la maggiore -sarebbe stata rubata la borsetta, con all'interno il cellulare e portafoglio. Da qui le ulteriori difficoltà nell'identificare le vittime dello schianto, sprovviste di documenti. Non ci sarebbero nemmeno riprese del momento dello schianto, ricostruito solo attraverso le testimonianze di chi ha riferito che le ragazze «barcollavano», forse spossate dalla notte di balli e di gioia. 

AL BAR DELLA STAZIONE La prima testimonianza dell'arrivo delle giovani alla stazione, intorno alle 6.40, è del gestore del bar dello scalo di Riccione, che ripercorrendo i terribili attimi prima dell'urto tra la carrozzeria del treno e le due sorelle spiega: «Stavo caricando il distributore delle bibite, erano circa le 6.40 quando mi si è avvicinata una bellissima ragazza vestita di nero». Vestita di nero, come neri come la notte erano i capelli e gli occhi di Giulia Pisanu, la quale «mi chiede qualcosa ma ho subito capito che non era in sé», secondo quanto riferito dal gestore del bar. 

«Mi ha detto - prosegue - che non aveva soldi e che le avevano rubato il telefonino. Successivamente si è allontanata di due metri e si è incontrata con una sua amica (rivelatasi essere successivamente alle indagini la sorella Alessia, ndr) vestita di verde e con gli stivali in mano, quando all'improvviso si sono dirette al binario 2 dove era fermo il treno per Ancona. Quando ho capito cosa volessero fare ho urlato, tutti dietro di me hanno urlato. Poi ho sentito il fischio fortissimo del treno e una botta tremenda. Poi non ho capito più nulla, tutti urlavano».

ALTRE VERSIONI Urla di terrore e di strazio vengono riferite anche da una dipendente del bar, che ha aggiunto che «le due ragazze stavano cercando un bagno. Ho detto loro che non ci fosse e sono uscite. 

Poi ho sentito il mio capo urlare e subito dopo un colpo terribile». Terribile è stato il suono udito anche dalla donna delle pulizie che si trovava in stazione e ammette: «Inizialmente pensavo si trattasse delle solite urla dei ragazzi che arrivano in stazione di ritorno dalle discoteche. Ma purtroppo questa volta, così non era».

COSA RESTA DA CHIARIRE Resta da chiarire come mai una delle due sorelle si trovasse sui binari, se per tentare effettivamente l'attraversamento o se per una bravata. Le immagini appunto riprenderebbero solo il momento in cui le ragazze sono entrate nello scalo, mentre il lavoro da parte degli inquirenti è in corso per fare quadrare tutte le testimonianze raccolte. Così come la notte trascorsa a ballare, in cui a una delle due è stato rubato telefono e denaro. Per identificare le ragazze è stato fondamentale l'altro cellulare: gli inquirenti sono risalti all'intestatario: un'azienda di traslochi nel Bolognese e quindi all'identità delle due. Alla consapevolezza che a perdere la vita sui binari di Riccione siano state due sorelle. Di 17 e 15 anni appena. 

Lettera di Paolo Conti a Dagospia l'1 agosto 2022.

Pier Paolo Pisanu, il padre di Giulia e Alessia, ha sentito al telefono le sue figlie sabato sera, come racconta Agostino Gramigna nella sua puntualissima e rispettosa cronaca oggi sul Corriere della Sera: “Tutto bene?”  Quante volte noi padri di figlie adolescenti ci siamo auto-rassicurati con una rapida chiamata prima di un sabato sera, di un fine settimana fuori casa, insomma prima del loro approdo  in un mondo notturno di cui non sappiamo assolutamente niente ? Cento, mille volte.

Una formula stupida e superficiale, lo sappiamo tutti nel momento in cui la usiamo. Ma è così. È la loro vita: non possiamo e soprattutto non dobbiamo controllarla né pilotarla, in particolare i padri con le figlie. Del legame materno certo non parlo perché metto doverosamente da parte ogni presunzione di poterlo interpretare. Noi padri abbiamo  l’unico strumento possibile: assicurare ascolto, amore incondizionato, priorità assoluta per le loro esigenze nei nostri impegni e nelle nostre vite, sinceri consigli quando vengono richiesti, sorrisi per sdrammatizzare e rassicurare. Ma non basta, e sappiamo anche questo. Perché non basta mai. Sono le ragioni per cui penso che la disperazione intollerabile di quell’uomo, la fine della sua vita così come l’ha vissuta fino a oggi, mi riguardi profondamente. E che riguardi tanti altri padri.

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 3 agosto 2022.

«E ora come farò?». Sta tutta lì, in una domanda, quattro parole col punto interrogativo a fianco, la disperazione dei Pisanu. E non importa che a porselo, quell'interrogativo devastante, sia Stefania, 22 anni, che di cognome fa qualcosa d'altro perché lei è sì la sorella maggiore di Giulia e Alessia, ma solo per via materna. Non condivide con loro anche il babbo, quel papà Vittorio che è un uomo distrutto, devastato. 

Che non si dà pace. La tragedia di Riccione. Alla stazione, ieri pomeriggio, si cercavano ancora i resti delle due ragazzine (15 anni una, 16 l'altra) che domenica all'alba sono state travolte da un Frecciarossa in transito. In rete gira anche un video: «Attenzione, si tratta di immagini che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni utenti», dice il banner che compare all'inizio.

E che ci voglia dello stomaco, per guardarlo, te ne accorgi subito: la sagoma deformata di un corpo sopra una barella, avvolta in un telo grigio che pende solo da un lato. I cadaveri di Giulia e di Alessia sono stati dilaniati, trascinati per 700 metri da un vagone dell'Alta velocità, sparsi qua e là in un macabro puzzle che solo a raccontarlo ti viene la pelle d'oca.

C'è un cartello attaccato alla banchina: «Do not cross the railway lines» (Non oltrepassare i binari). È striato di sangue. La gente aspetta fuori. La scientifica, gli agenti della polizia. Cercano "i resti", capito l'orrore? Cercano quel che rimane di due sorelle legatissime, che facevano tutto assieme, che erano una la vita dell'altra, che nemmeno la morte è riuscita (beffarda, come sempre) a separare.

Perché il destino (lo abbiamo già scritto, ma è così) può essere crudele e stronzo allo stesso momento. Una concatenazione di sfortune, di piccole "sfighe" (come si dice oggi) che però generano tutta questa assurda vicenda. Giulia, la più, grande che è stanca dopo una giornata di lavoro. Che va lo stesso in discoteca, con Alessia, che vuole divertirsi un po'. La borsetta che a un certo punto della serata sparisce. 

Gliela rubano, come capita decine di volte, a decine di persone, in tutto il mondo. Ma dentro quella borsetta c'è anche il cellulare e la sorella Giulia, il suo, ce l'ha scarico. Per questo non riescono a chiamare subito casa. Si fanno prestare il telefonino da un amico, che verso le sei del mattino le accompagna in stazione dove prenderanno il treno diretto ad Ancona, quello che fermerà anche a Castenaso, il paesotto in provincia di Bologna dove vivono. Papà Vittorio che risponde al primo squillo, non appena vede una chiamata da un numero sconosciuto. Loro che lo rassicurano, stanno per tornare. 

«Avrei dovuto portarle io in auto, in Riviera. Aspettarle fuori dal locale, come ho sempre fatto. Ma non mi sentivo bene quel giorno. Così le ho fatte andare in treno», si sfoga lui. Il padre dilaniato dal dolore, quello che non riesce nemmeno a entrare nell'obitorio di Rimini da solo (ma chi ce la farebbe, dopotutto?) e sceglie di farsi accompagnare dal fratello. Massì-per-una-volta-cosa-potrà-mai-succedere? E invece succede l'irreparabile.

La catastrofe. Mezz' ora dopo quell'ultimo saluto, senza che nessuno dei tre sapesse che era, appunto, l'ultimo saluto. «Lavoravo per loro». Non riesce a trattenere le lacrime, Vittorio, mentre parla al sindaco di Castenaso, Carlo Gubellini. È un sardo (e, come tutti i sardi, presumiamo, dalla scorza dura): ma come fai a riprenderti da un episodio del genere? «Siamo distrutti», aggiunge. 

Quel "siamo", che ingloba anche Stefania, che non è figlia sua ma fa lo stesso, perché di fronte a fatti drammatici fino a questo punto, laceranti fino a questo punto, il sangue conta a metà. Poi conta l'affetto, l'amore. Anche quello delle istituzioni che si stringono attorno ai Pisanu e decidono che a Castenaso, il giorno dei funerali, ci sarà il lutto cittadino. Quello di mamma Tatania, che a 52 anni torna col primo volo a Bologna dalla sua Romania. 

Quello degli amici che depongono mazzi di fiori sul binario di Riccione e davanti alla villetta di famiglia. Quello dei compagni di scuola di Alessia che postano sui social il disegno (lei frequentava il liceo artistico) di una magnolia «che doveva ancora sbocciare, come sei stata tu».

Dodici secondi. Le sorelle Pisanu sono state sulle rotaie del primo binario della stazione di Riccione per dodici, lunghissimi, secondi. «Il nostro dovere è ricostruire con la massima precisione la vicenda», ammette Elisabetta Melotti, procuratore capo di Rimini, «allo stato attuale non risultano profili di reato, gli accertamenti sono in corso». 

«Erano la mia vita», lo ripete ancora e ancor, papà Vittorio, a chiunque vada a trovarlo in quella casetta nella periferia bolognese con il giardino curato davanti e i campi di granturco tutto attorno. Uno di quei paesini di provincia dove non avviene mai niente, sonnacchioso, che le telecamere dei cronisti non le ha mai viste. Vittorio «era molto presente nella vita delle sue ragazze», chiosa chi lo conosce bene, «andava regolarmente a prenderle fuori dalla discoteca a Bologna o in Riviera. Se non ci andava lui, c'era Stefania con lui». Tranne una, maledetta volta.

"Inspiegabile". Alessia e Giulia, il dubbio della madre: cosa proprio non torna. Libero Quotidiano il 05 agosto 2022.

Giulia e Alessia sono morte. Non resta che il dolore indicibile di due genitori che hanno visto sparire nel nulla, sotto un Frecciarossa le due figlie che avevano trascorso una serata in discoteca a Riccione. In questa triste storia che ha sconvolto l'estate italiana ci sono ancora dei dettagli da chiarire. Il padre della ragazze, come ha riportato il Corriere, avrebbe confidato a un amico: "Io non volevo che andassero in discoteca sabato sera. Ma loro hanno insistito, insistito... Mi hanno preso per sfinimento. E alla fine ho ceduto, ho detto sì...".

Poi quella chiamata nel cuore della notte da un cellulare di un ragazzo appena conosciuto in discoteca e quella frase rassicurante: "Papà tutto bene, siamo in stazione, ora prendiamo il treno e torniamo". Poi il treno ha travolto le due ragazze. Ma adesso a far sentire la sua voce è la mamma di Giulia e Alessia: "Tante domande che rimarranno senza risposta. Erano due ragazze molto responsabili, non mi spiego", dice Tatiana, la madre delle due sorelle.

La donna ha parlato per bocca del sindaco Carlo Gubellini: "Il mio è un dolore immenso. Credo che le parole non possano descrivere ciò che provo dentro al cuore". Nei prossimi giorni ci saranno i funerali in una Castenaso che si stringe nel dolore alla famiglia che ha perso due ragazze che avevano ancora tanto da chiedere alla vita. 

La formula della vita. La fortuna esiste ed è la cosa che ci salva in quegli anni in cui siamo scemi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Agosto 2022.

Gli editorialisti dolenti sul caso delle due sorelle travolte da un treno devono fingere che le disgrazie raccontate nelle cronache siano un film con una morale, ma non si può proteggere nessuno da niente e la disciplina c’entra poco. C’entra il caso

Vi ricordate di quando eravate scemi? No, non cinque minuti fa, quando siete andati sui social di qualche professore che ha idee politiche divergenti dalle vostre a dirgli che egli è la vergogna dell’università. Neppure cinque giorni fa, quando avete imparato tutti i nomi delle ultime settantacinque identità di genere pervenute per non farvi dare dei poco inclusivi dal quindicenne di casa.

Vi ricordate di quando era normale foste scemi, giacché il cervello non vi si era ancora finito di formare, giacché nessuno (tranne Enrico Letta) pensa che prima dei trent’anni l’essere umano sia capace d’intendere e volere – vi ricordate dei vostri sedici anni?

Le mie amiche si dividono in quelle che a sedici anni erano sante e sgranano gli occhioni quando racconto che sono viva per miracolo, e quelle che facevano vite da sedicenni, e quando faccio presente che preoccuparsi per i sedicenni è un gioco a perdere iniziano a ricordare le loro peripezie, e rabbrividiscono.

A sedici anni (ma pure a quattordici, ma pure a diciotto) io ero la figlia che nessuna persona sana di mente vorrebbe avere, la figlia che se ce l’avessi avuta avrei mandato in un collegio militare, la figlia che l’inferno ha mandato per punirti di chissacché.

Nei momenti di carità interpretativa, sempre più frequenti, io dico che sì, va bene, i miei genitori erano scemi e criminali, ignoranti e velleitari, senza qualità e senza senso morale, ma gestiscila tu una quindicenne che devi andare a prendere alle due di notte al pronto soccorso di Trento perché s’è bevuta un litro di tequila.

Il grande non detto dei discorsi sull’educazione e la genitorialità e le generazioni e i tempi che signora mia cambiano e le droghe e l’alcol e il sesso e il sarcazzo è: la fortuna è fondamentale. La fortuna è ingiusta e imprevedibile e non c’è metodo educativo che te la procuri; e senza sei, scusate il doppiaggese, fottuto.

Sono mai stata così scema da attraversare i binari? No, per fortuna no. Sarei potuta finire come le due ragazze morte a Riccione? Sì, certo che sì. Però sono stata fortunata.

Sono stata fortunata che non si sia mai sfracellato nessuno di quelli che guidavano i motorini coi quali tornavamo nella notte dalla Baia Imperiale o proprio dal Peter Pan (passano i secoli ma le quindicenni sceme di Bologna vanno sempre nelle stesse discoteche della riviera romagnola, gli unici marchi che non hanno mai bisogno di restyling), dopo avere bevuto tutta notte, ilari e idioti e pure sbronzi.

Sono stata fortunata che non mi abbia mai ammazzato mai nessuno dei tipi loschi con cui m’infrattavo nella fase tipi loschi della mia adolescenza, che non m’abbia mai stuprato nessuno di quelli con cui facevo la cretina per poi sottrarmi a mutande già scaldate, che mi facessero impressione gli aghi facendomi superare gli anni Ottanta senza mai provare l’eroina (ogni volta che ci ripenso mi pare una missione impossibile: chissà quale dio mi si era affezionato, per farmi stare al riparo dalla più adatta a me delle scorciatoie).

Un’amica tempo fa mi ha raccontato che la figlia aveva passato la notte fuori con l’inganno. Le aveva detto che dormiva da un’amica, le aveva dato il numero della madre dell’amica perché potesse controllare, ma il numero ovviamente era quello dell’amica stessa, che aveva mentito alla mia amica mentre la figlia se la spassava chissà dove. Non era successo niente di grave, giacché la fortuna esiste (e anche: la statistica delle bravate che finiscono male è per fortuna infinitesimale, rispetto al numero enorme di stronzate che si fanno all’età delle stronzate).

Però alla mia amica era preso un colpo, e voleva punire severamente la figlia. All’uopo, mentre minacciava collegi militari che già sapeva non avrebbe mantenuto, aveva chiamato la madre dell’amica della figlia, cercando una socia di ritorsioni. Quella le aveva detto: eh, ma c’è stata la pandemia, devono sfogarsi. (Mesi fa un tassista milanese mi disse che c’erano le baby gang che accoltellano la gente perché i ragazzi sono stati in casa e ora devono sfogarsi. Chissà se anche Arancia meccanica era conseguenza d’una pandemia).

La mia amica era furibonda e pronta a dare la colpa dell’inettitudine dei giovani d’oggi alla scarsa disciplina imposta loro dalle famiglie. È vero che la scarsa disciplina è un problema: a me nessuno ha mai proibito niente, e il risultato è una vita faticosissima passata a educarmi da sola; a educare sinapsi che non hanno più l’elasticità dei quindici anni e mica mi ubbidiscono. Ma è anche vero che la fortuna non è meritocratica. Possono vietarti novantanove volte d’andare in discoteca, e alla centesima finalmente ci vai e finisci sotto un treno. Possono non vietartelo mai e in mille sbronze, stanchezze, disattenzioni può non capitarti mai niente di grave.

Sono uscita di nascosto la notte per tutti gli anni del liceo, e sono viva per raccontarlo. Sono viva per raccontare d’essere stata scema e di non averne pagato le conseguenze, ma il problema è che raccontarlo non serve a niente, giacché la vita non è un film col messaggio. Non c’è una lettura educativa di come vanno le cose, una parabola didattica da trarne. Magari non esci mai la sera e fai tutti i compiti e poi il Nobel non lo vinci comunque perché, appena finisce di formartisi il cervello, invece che un treno sui binari t’investe una macchina sulle strisce.

È il problema rappresentato per gli editorialisti dolenti da queste storie qui, che dovrebbero mettere dei punti fermi morali, e invece ci dicono solo quel che non vogliamo sentire: che la vita va come le pare, e che non puoi proteggere nessuno da niente, e che non c’è una formula sicura per vivere non dico fino a cent’anni, ma almeno finché il tuo essere scema diventa scelta e non fisiologia.

Franco Giubilei per “La Stampa” l'1 agosto 2022.

Per dare un'idea della violenza dell'impatto del Frecciarossa contro le due ragazze, il riconoscimento dei cadaveri è stato possibile solo grazie al cellulare di una di loro, ritrovato a centinaia di metri di distanza fra i poveri resti disseminati lungo i binari della stazione di Riccione. 

Amiche per la pelle oltre che sorelle di sangue, lo dice la più grande, Giulia Pisanu, 17 anni, attraverso quei confessori pubblici che sono i social, Instagram in questo caso: «Una sorella come migliore amica», per poi aggiungere «a volte credo che mia sorella sia la mia unica ragione di vita». 

Ora si tratta di capire cosa sia venuto in mente a lei e ad Alessia, quindici anni, di avventurarsi sui binari senza curarsi dei pochi presenti che urlavano loro: «Fermatevi! Non fatelo!».

Quanto fossero consapevoli del pericolo lo diranno gli esami tossicologici, ma un uomo in attesa del treno che le ha incrociate ha raccontato che gli erano sembrate «non in sé». Magari erano stanche, dopo tutto avevano passato la notte per locali, magari hanno semplicemente fatto una cosa stupida, come capita a volte a quell'età e non solo a quell'età, o forse avevano bevuto, ma questo elemento potrà essere appurato solo dagli esami dei medici legali.

Di certo avevano avuto una serata complicata, come risulta dal racconto di un testimone al Corriere di Romagna: «Stavo caricando il distributore delle bibite, erano circa le 6,30 quando mi si è avvicinata una bellissima ragazza vestita di nero che mi ha chiesto qualcosa, ma ho subito capito che non era in sé. 

Mi ha detto che non aveva soldi e che le avevano rubato il telefonino. Successivamente si è allontanata di due metri e si è incontrata con una sua amica (la sorella) vestita con uno spolverino verde e con gli stivali in mano, quando all'improvviso si sono dirette al binario 2 dove era fermo il treno per Ancona. 

Quando ho capito cosa volessero fare ho urlato, tutti dietro di me hanno urlato, ho sentito il fischio fortissimo del treno e una botta tremenda. Poi non ho capito più nulla, tutti urlavano». 

Il resto è l'orrore di un gesto avventato che in pochi secondi si trasforma in morte, secondo il racconto della barista del bar della stazione al CorriereTv: «Verso le 7 sono entrate qui, era presto, hanno chiesto del bagno ma noi non lo abbiamo il bagno. Poi sono andate via, ho sentito il titolare gridare, ho alzato lo sguardo e ho visto il Frecciarossa arrivare e una delle due ragazze era seduta sui binari mentre l'altra cercava di farla alzare: poi è saltato tutto, tutto».

L'urto fortissimo, i corpi che volano via, i primi soccorritori che arrivano sul posto, il traffico ferroviario che si inchioda per ore e lo strazio immenso del padre, Vittorio Pisanu, precipitatosi in stato di choc da Castenaso, nel Bolognese, il paese delle due vittime, accompagnato da due amici. 

Le hanno viste ondeggiare, barcollare, andare insieme incontro alla morte con la stessa confidenza con cui condividevano ogni cosa. Ancora i social a testimoniare il dialogo fitto fitto fra sorelle a suon di rimandi alla musica del cuore, fosse Tedua o Jake La Furia. Vacanze insieme in Sardegna, in Costa Rei, dopo la fine dell'ultimo anno scolastico, tutto accompagnato da immagini, come sempre. La più grande studiava a una scuola per parrucchieri, l'altra ragazza frequentava una scuola superiore.

Al loro paese le conoscevano tutti e non si capacitano: abitavano in una casa di fronte alla chiesa della piccola frazione di Madonna di Castenaso col padre, titolare di un'azienda di trasporti e traslochi. Una vita simile a quella di molte altre coetanee, nessun disagio apparente. Al dolore di familiari e amici si è aggiunto il cordoglio delle istituzioni locali: per la sindaca di Riccione, Daniela Angelini, «è stato un brutto risveglio, è sconcertante quello che è accaduto, lo dico come mamma prima ancora che come prima cittadina.

È una disgrazia che tocca gli animi e i sentimenti di tutti». Ora tocca agli investigatori, che si serviranno anche delle immagini della videosorveglianza per ricostruire le cause dell'incidente: «È troppo presto per poter parlare di dinamica», avverte il questore di Rimini, Rosanna Lavezzaro. Il fatto che siano scivolate è dato per improbabile, sembra plausibile invece che si sia trattato di un attraversamento incauto dei binari. Quel che è certo è che l'incolpevole macchinista si è visto comparire davanti una delle ragazze, poi l'altra, tentando una frenata impossibile.

Stefania Parmeggiani e Ilaria Venturi per repubblica.it il 31 luglio 2022.

Tragedia in Riviera. Due sorelle di 15 e 17 anni sono state investite e uccise da un treno Alta Velocità in transito alla stazione di Riccione, in provincia di Rimini, diretto verso Milano. È successo tutto in pochi minuti, poco prima delle sette del mattino. Inutili le grida del barista della stazione e degli altri viaggiatori in attesa del loro treno quando hanno visto le giovani donne tentare di attraversare i binari. "Fermatevi, non lo fate!". Poi l'impatto violento con il treno, i corpi sbalzati via. Vite interrotte. 

A lungo le ragazze sono rimaste senza identità. Dopo ore, grazie a un telefonino ritrovato lungo il binario e appartenente a una delle due, gli inquirenti sono riusciti a dare un nome alle vittime: due sorelle di 15 e 17 anni residenti in provincia di Bologna. La polizia ha rintracciato il padre che sta arrivando all'obitorio dell'ospedale di Riccione per l'identificazione.

Sul posto oltre alla Polfer anche i carabinieri e i vigili del fuoco, che stanno operando ai rilievi e al recupero dei corpi delle vittime. C'è il pm di turno Brandanini. Anche la sindaca di Riccione Daniela Angelini ha raggiunto il luogo della tragedia per dare supporto. La scena di fronte alla quale si sono trovati i soccorritori è straziante: i corpi delle ragazze sono stati dilaniati dalla macchina, con un urto tremendo, e trascinati per almeno 700 metri. Lungo i bordi dei binari le scarpe e gli effetti personali.

La sindaca: "Una tragedia"

"E' stato un brutto risveglio", le parole di Daniela Angelini. "E' una tragedia. Siamo sgomenti, come città non possiamo che esprimere il cordoglio alla famiglia. E' sconcertante quello che è accaduto, lo dico come mamma prima ancora che come prima cittadina. E' una disgrazia che tocca gli animi e i sentimenti di tutti". 

Il testimone: "Ho urlato per fermarle"

"Stavo caricando il distributore delle bibite, erano circa le 6.30 quando mi si è avvicinata una bellissima ragazza vestita di nero che mi chiede qualcosa ma ho subito capito che non era in sè" racconta Pietro, gestore del bar della stazione di Riccione al Corriere di Romagna. "Mi ha detto che non aveva soldi e che le avevano rubato il telefonino. Successivamente si è allontanata di due metri e si è incontrata con una sua amica (la sorelle, ndr) vestita con uno spolverino verde e con gli stivali in mano quando all'improvviso si sono dirette al binario 2 dove era fermo il treno per Ancona. Quando ho capito cosa volessero fare ho urlato, tutti dietro di me hanno urlato, ho sentito il fischio fortissimo del treno e una botta tremenda. Poi non ho capito più nulla, tutti urlavano" 

Le ipotesi sulla morte delle ragazze

I filmati delle telecamere della stazione saranno utili per ricostruire la dinamica dell'incidente. La priorità è stata data all'identificazione dei corpi. Gli investigatori hanno sentito i testimoni oculari per incrociare queste testimonianze con l'analisi dei video delle telecamere in stazione. "Stiamo ricostruendo ciò che è accaduto. Stiamo vagliando le telecamere esterne alla stazione e quelle interne e verbalizzando le 2-3 persone che erano presenti in quel momento. È troppo presto per poter parlare di dinamica perché prima di dare questi elementi è giusto lavorare per identificare le due ragazze", ha spiegato il questore di Rimini, Rosanna Lavezzaro che è stata sul posto. 

Attualmente l'ipotesi che appare meno accreditata è quella di uno scivolamento accidentale, mentre si continua a lavorare sull'eventualità di un suicidio (con una delle ragazze che forse ha cercato di salvare l'altra) oppure di un incauto attraversamento per raggiungere un treno su un secondo dei due binari della stazione.

Ritardi sui treni, traffico sospeso

Disagi in stazione a Rimini per le ripercussioni del tragico incidente a Riccione. Il traffico ferroviario è stato sospeso tra Rimini e Cattolica, in direzione Ancona e sono stati predisposti servizi sostitutivi ai treni regionali con degli autobus. Sul tabellone stamattina erano indicati ritardi fino a 240 minuti per due treni Alta Velocità in direzione Milano e altri con ritardi superiori ai 60 minuti. Dal piazzale partono i trasferimenti sostitutivi in bus verso Cattolica e le Marche. Sono segnalate anche navette private per il trasferimento alla stazione di Bologna. La circolazione è ripresa regolarmente dalle 12.30 circa. Una quarantina i treni coinvolti dai disagi tra ritardi, cancellazioni totali o parziali.

Riccione, identificate le ragazze falciate da un treno Alta Velocità: "Due sorelle di 15 e 17 anni". Libero Quotidiano il 31 luglio 2022

Si chiamavano Alessia e Giulia Pisano le due sorelle di 15 e 17 anni investite e uccise da un treno dell'Alta velocità in transito questa mattina, intorno alle 7, nella stazione di Riccione, in provincia di Rimini. Ed erano residenti a Castenaso, in provincia di Bologna. I corpi - come spiega Repubblica - sarebbero stati identificati dopo diverso tempo grazie a un telefonino ritrovato lungo il binario e appartenente a una delle due. Solo così gli inquirenti sarebbero riusciti a dare un nome alle vittime: le due sorelle erano residenti in provincia di Bologna. La polizia poi avrebbe rintracciato il padre.

Sul posto, oltre alla Polfer, ci sono anche i carabinieri e i vigili del fuoco, impegnati nei rilievi del caso e nel recupero dei corpi delle vittime, il pm di turno e la sindaca di Riccione Daniela Angelini. Straziante la scena cui hanno assistito i soccorritori: le vittime sarebbero state trascinate dal treno per almeno 700 metri. Lungo i bordi dei binari le scarpe e gli effetti personali.

Non si sa ancora quale sia stata la dinamica del drammatico incidente. L'ipotesi meno accreditata è quella di uno scivolamento accidentale, mentre si starebbe continuando a lavorare sull'eventualità che una delle ragazze sia scesa sul binario e che l'altra le sia andata dietro. Un attraversamento incauto. 

Sono due ragazze di Bologna. Sorelle travolte da Frecciarossa a Riccione, le vittime avevano 15 e 17 anni: “Il fischio del treno e l’urlo nostro”. Redazione su Il Riformista il 31 Luglio 2022. 

Sono due sorelle di 15 e 17 anni di Bologna le ragazze travolte e uccise da un treno Frecciarossa alla stazione di Riccione. Si chiamavano Giulia, la maggiore, e Alessia Pisanu e vivevano con la famiglia a Madonna di Castenaso. L’incidente mortale è avvenuto poco prima delle 7 di domenica 31 luglio quando le due giovani hanno attraversato i binari della stazione mentre transitava il treno alta velocità diretto a Milano. Un impatto violentissimo. La dinamica dell’incidente è al vaglio della polizia ferroviaria: visionate le telecamere di videosorveglianza presenti nella stazione che hanno ripreso l’attraversamento dei binari e l’impatto con il treno e raccolte le testimonianze dei presenti.

Le due giovani sono state identificate anche grazie a uno dei due cellulari ritrovato vicino ai corpi. L’altro, stando alla testimonianza di un barista della stazione che riporta la conversazione avuta con una delle due ragazze, “me lo hanno rubato”. La polizia ha rintracciato il padre delle due ragazze, e l’uomo si sta recando all’obitorio dell’ospedale di Riccione per l’identificazione ufficiale delle salme.

Stando al racconto di Pietro, che gestisce il bar della stazione, “stavo caricando il distributore delle bibite, erano circa le 6.30/6.40 quando mi si è avvicinata una bellissima ragazza vestita di nero che mi chiede qualcosa ma ho subito capito che non era in sé”.

Secondo il titolare dell’esercizio commerciale, sentito dall’agenzia Agi, una delle due ragazze ha attraversato i binari scalza: “Mi ha detto – prosegue – che non aveva soldi e che le avevano rubato il telefonino. Successivamente si è allontanata di due metri e si è incontrata con una sua amica vestita di verde e con gli stivali in mano quando all’improvviso si sono dirette al binario 2 dove era fermo il treno per Ancona. Quando ho capito cosa volessero fare ho urlato, tutti dietro di me hanno urlato, poi ho sentito il fischio fortissimo del treno e una botta tremenda. Poi non ho capito più nulla, tutti urlavano”. 

Altre testimonianze riferirebbero di ragazze viste arrivare in stazione e attraversare i binari barcollando, probabilmente dopo una nottata trascorsa nei locali della movida romagnola.

Una dei testimoni racconta al Corriere Tv: “Una delle ragazze è entrata qui nel bar in cerca di un bagno, poi sono uscite e le ho viste sotto al treno”.

Al momento non si esclude nessuna ipotesi: da un attraversamento imprudente, a un litigio tra le due finito sui binari, a un tentato suicidio di una delle due con l’altra che tenta di fermarla ed entrambe finiscono travolte dal treno in corsa.

Il dolore del papà e la dinamica da chiarire. Giulia e Alessia, le sorelle travolte da un Frecciarossa a 200 all’ora: “Sentite ultima volta sabato sera”. Redazione su Il Riformista il 31 Luglio 2022.  

Travolte e uccise da un Frecciarossa che viaggiava quasi a 200 all’ora mentre transitava, senza fermarsi, nella stazione di Riccione. Travolte mentre attraversavano il binario 2 per cause tutte da chiarire. Sono state trascinate per decine di metri Giulia e Alessia Pisanu, le due sorelle bolognesi di 15 e 17 anni che hanno perso la vita poco prima delle 7 di domenica 31 luglio dopo una nottata trascorsa nei locali della movida romagnola. La dinamica dell’incidente è ancora in via di ricostruzione. Decisive saranno le immagini delle telecamere presenti all’interno della stazione e all’esterno per capire il percorso fatto dalle due giovani.

Al momento sono state le testimonianze delle persone presenti ad aiutare gli investigatori a ricostruire parzialmente quanto accaduto alle due giovani che vivevano con la famiglia a Madonna di Castenaso, piccolo comune in provincia di Bologna. Viaggiatori e lavoratori della stazione hanno riferito di due che “barcollavano“, una delle due ha riferito di aver perso il cellulare perché rubato da ignoti ma “ho subito capito che non era in sé” ha spiegato un uomo addetto alla gestione dei distributori di bibite presenti nella stazione.

Quella “vestita di verde e con gli stivali in mano” era ferma sui binari mentre l’altra, “vestita di nero” era seduta sulla banchina. Poi all’arrivo del treno il dramma: una delle due ha probabilmente cercato di salvare l’altra ma non c’è stato nulla da fare. A nulla sono servite le urla delle persone presenti così come il fischio insistente del Frecciarossa in arrivo da Pescara e diretto a Milano.

“Quando ho capito cosa volessero fare ho urlato, tutti dietro di me hanno urlato, poi ho sentito il fischio fortissimo del treno e una botta tremenda. Poi non ho capito più nulla, tutti urlavano” ha raccontato l’uomo.

L’identificazione con il cellulare e le ipotesi

Le due sorelle sono state identificate grazie a un cellulare danneggiato trovato poco distante dai corpi. L’altro – stando al racconto di un lavoratore della stazione – era stato rubato. Il padre di Giulia e Alessia, titolare di una ditta di traslochi, ha riconosciuto i due corpi all’obitorio. Agli investigatori ha riferito di aver sentito l’ultima volta le due figlie sabato sera. 

Sul posto oltre alla polfer anche carabinieri, vigili del fuoco e polizia scientifica che ha eseguito i rilievi lungo i binari della tragedia. Al momento una delle ipotesi principalmente battuta dagli investigatori è quella che una delle due sorelle abbia tentato di salvare l’altra che non si sarebbe accorta dell’arrivo del treno, forse in preda a uno stato di alterazione psicofisica dovuto alla stanchezza e all’alcol (circostanza quest’ultima che verrà cristallizzata da ulteriori esami). Circostanza quest’ultima che non esclude nemmeno l’ipotesi di un attraversamento imprudente. Meno probabile quella invece di un tentativo di suicidio.

La tragedia ha colpito l’intera comunità di Castenaso quando è arrivata la notizia che le due ragazze erano residenti del Comune. “Ci è arrivata la conferma che non avremmo mai voluto: le due giovani sorelle travolte da un treno a Riccione sono, purtroppo, nostre concittadine. Siamo senza parole davanti a questa tragedia cosi difficile da capire e da accettare e proviamo un dolore incolmabile”, scrive il Comune di Castenaso guidato dal sindaco Carlo Gubellini. “È un grande dolore per tutta la comunità. L’intera comunità di Castenaso si stringe attorno ai genitori, ai familiari, agli amici: Giulia e Alessia, che la terra vi sia lieve. Siete volate via troppo presto”.

A poche ore dal fatto, la sindaca di Riccione Daniela Angelini ha raggiunto la stazione per confrontarsi con le Forze dell’Ordine e, in seguito, sulla sua pagina Facebook, ha definito l’accaduto “un’immane tragedia” e “a nome di tutta la comunità di Riccione” esprime “profondo dolore per quanto accaduto questa mattina”.

Sorelle uccise dal treno a Riccione, il monito ai funerali di Giulia e Alessia Pisano: "Basta vociare, si sentono tutti maestri". Ilaria Venturi su La Repubblica il 5 agosto 2022.  

Lo strazio della famiglia davanti alle due bare bianche. Don Giancarlo: "Abbiamo bisogno di uno sguardo del cuore, di fare tacere tutto il resto". Il messaggio ai ragazzi: "Andate in mare aperto, ci fidiamo di voi". Palloncini bianchi all'uscita dei feretri.

"Da domenica vediamo la cronaca di una tragedia, letture e riletture, ricerca di particolari, giudizi, un vociare che ha creato un’eco di reazioni. Sembrano tutti avere una parola da dire e tanti maestri. Noi da domenica vediamo nella famiglia di Alessia e di Giulia un dolore inimmaginabile". Le parole di don Giancarlo risuonano in una chiesa gremita nel giorno dell'addio a Giulia e Alessia Pisano, le sorelle investite e uccise dal treno Frecciarossa domenica mattina alla stazione di Riccione al ritorno da una serata in discoteca. Il giorno più duro. Ai funerali il parroco mette a tacere ogni commento fuori luogo, letto nei social. "Cosa vediamo oggi con gli occhi del cuore? Due figlie volute, cresciute, amate e curate. Vediamo un papà che ha costruito con talento il suo lavoro ed è vissuto per le sue figlie. Una madre impietrita dal dolore. Stefania, una sorella che ha fatto da madre e da amica, che ha Alessia e Giulia scolpite dentro".

La chiesa della Madonna del Buon consiglio a Castenaso, paese dove vivevano le due sorelle, è gremita. E' un paese intero ad abbracciare la famiglia: papà Vittorio, mamma Tania, la sorella Stefania, lo zio Pier Paolo, la zia e le nonne. Gli amici sono tutti vestiti di nero, le ragazze più grandi proteggono Stefania, la circondano, la accarezzano. Fiori sulle bare bianche, decine di corone e mazzi appoggiati a lato, lungo la navata: rose bianche, girasoli. Stefania entra in chiesa circondata dalle amiche: scoppia in un pianto straziante davanti alle bare delle sorelle. Papà Vittorio e mamma Tania arrivano mano nella mano, si piegano sulle bare, in lacrime, circondati dai parenti.

L'invito di don Giancarlo è ad essere comunità, a sussurrare la parola "bene" di fronte a tanto dolore che sollecita domande "che vanno ascoltate". L'invito è a non cedere: "Ci fa paura scivolare nel vicolo cieco del vuoto, della banalizzazione del male, del cinismo, della disperazione. Papà Vittorio lo chiama il tunnel". E ancora: "Noi oggi quasi sottovoce, perché ci sentiamo piccolissimi, sussurriamo che il bene è più forte del male. Il dolore lo vivremo insieme. Non ci lasceremo sbriciolare".

I ragazzi di Castenaso, amici e compagni di scuola di Alessia e Giulia, se ne stanno in disparte, a gruppetti: sguardi sgomenti, occhi gonfi e lucidi. Senza parole. Si abbracciano, qualcuno entra in chiesa, altri rimangono sulla soglia. Volti da duri, i più piccoli. In lacrime le ragazzine accompagnate dalle mamme. Disegnano cuori nel librone-ricordo aperto all'ingresso. E scrivono: "Ciao ragazze, mi avete fatto passare dei momenti indimenticabili, vi voglio bene", "siete due stelle che illumineranno sempre il mio cielo". Le prof delle medie Gozzadini lasciano il loro ricordo: "Cara Giulia, cara Alessia, quando guarderemo il cielo, la notte, visto che voi abitate tra le stelle e riderete fra di esse, allora sarà per noi come se tutte le stelle ridessero. Voi avrete, voi solo, delle stelle che sanno ridere. Noi terremo sempre lo sguardo su di voi, lassù". Angeli e stelle. Ali e luce che brilla. lassù. O chissà dove. Nei cuori "di chi via ha amato alla follia", "nei nostri cuori". "Buon altrove" scrivono Sofia, Jacopo, Guido e Vittoria. E dunque: "Volate libere angeli bellissimi e dolcissimi, a noi il compito di dare la forza ai vostri genitori e a chi vi vuole bene".

In fascia tricolore ci sono il sindaco di Castenaso Carlo Gubellini, la sindaca di Riccione Daniela Angelini, il primo cittadino di Senorbì Alessandro Pireddu, paese di origine della famiglia Pisanu Presenti l'assessore Daniele Ara per il Comune di Bologna e l'assessora Irene Priolo per la Regione. C'è il questore di Rimini Rosanna Lavezzaro - a lei e ai suoi agenti è toccata l'indagine più straziante - arriva Pier Ferdinando Casini. E ancora rappresentanti della Questura di Bologna, della Polfer, dei Carabinieri, della Prefettura. Prima dei funerali, l'apertura della camera ardente: è stato il momento del silenzio, dello sgomento condiviso per una assurda disgrazia che ha spezzato le vite di due ragazze adolescenti, Giulia, 17 anni da compiere, Alessia 15 anni. Gubellini ha proclamato il lutto cittadino, i negozianti hanno abbassato le serrande alle 10.

Il sindaco legge il messaggio dell'arcivescovo Matteo Zuppi: "Caro sindaco desidero far raggiungere la mia partecipazione, ho visto una istintiva vicinanza e solidarietà che è scattata tra di voi. Sono certo sia stata di grande consolazione per il papà e la mamma. Il mistero di Dio si rivela nella condivisione. Prego tanto che questa comunità si rafforzi, che non lasci solo nessuno, che non giudichi, ma aiuti".

Don Giancarlo, il parroco che ha avuto Giulia e Alessia bambine al catechismo, concelebra con don Francesco. E  inizia la messa esortando al coraggio del silenzio e del rispetto: "Abbiamo bisogno di uno sguardo del cuore, di fare tacere tutto il resto, abbiamo bisogno di uno sguardo di padre e di madre. Guardiamo con amore Alessia e Giulia, il loro sogno di vita: qui vediamo Dio. Il momento è difficilissimo ma vorremmo che per Tania e Vittorio questo momento potesse risultare una piccola carezza".

"Ad Alessia e Giulia, nella loro giovinezza, sono state consegnate fiducia, stima, libertà e autonomia. È stata chiesta una responsabilità. Che bel coraggio che avete vissuto - dice don Giancarlo alla famiglia -. Stavano vivendo la libertà dell'amore, dei desideri dei sogni grandi della vita. Alessia e Giulia oggi gridano che dobbiamo credere in loro, non si deve consegnare semplicemente giudizio, sospetto, ma stima. Dire ai ragazzi: andate, andate in mare aperto, osate, noi ci fidiamo di voi, noi rimarremo qui, al porto, per offrirvi quando vorrete un approdo. Noi adulti a riva, ben protetti e tranquilli, non aspetteremo solo che qualche barca si ribalti ma continueremo a incoraggiarvi, a crederci, ad aspettare, offrendo ospitalità, un abbraccio, una grande tenerezza e soprattutto la grande terapia rigenerante del perdono".

"Non siete un problema nè il problema del nostro tempo, siete il presente, la risorsa di ciò che di veramente bello ogni generazione cerca di costruire. A voi ragazzi la possibilità di capovolgere tutto, anche il dolore e la rabbia che state provando in questo momento", le parole del sindaco Gubellini al termine dei funerali.

"Grazie a tutti, a tutte le istituzioni, alla Chiesa e alla comunità. Grazie a tutti coloro che con tutta la dolcezza ci stanno facendo sentire la vicinanza in questo momento di immenso dolore", è il messaggio della famiglia di Giulia e Alessia, letto da don Francesco al termine dei funerali. Un lungo applauso da parte delle tante persone presenti in una chiesa gremita ha salutato i feretri. All'esterno, sono stati lanciati in aria palloncini bianchi a forma di cuore. Poi il corteo al cimitero a fianco, i cento passi più strazianti per papà Vittorio e mamma Tania.

Sorelle investite dal treno, don Giancarlo ai funerali: "Basta giudizi, noi vediamo un papà che è vissuto per le sue figlie". La Repubblica il 6 agosto 2022.

Le parole del parroco di Castenaso per l'ultimo saluto a Giulia e Alessia

"Il dolore è enorme, il male sembra avere vinto. Noi oggi quasi sottovoce, perché ci sentiamo piccolissimi sussurriamo, ad ogni cuore e ad ogni vita, soprattutto a papà Vittorio e mamma Tania, sussurriamo che il bene è più forte del male. Il dolore lo vivremo insieme non ci lasceremo sbriciolare". Lo ha detto il parroco di Castenaso, don Giancarlo Leonardi, in un passaggio dell'omelia nel funerale di Giulia e Alessia Pisano, morte investite da un treno a Riccione. In apertura di celebrazione, il parroco ha letto anche un messaggio dell'arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

"Da domenica - ha detto il sacerdote - vediamo la cronaca di una tragedia, ne cogliamo letture, riletture, giudizi: un vociare che ha creato eco di reazioni. Sembra che tutti abbiano una parola da dire è che ci siano tanti maestri. Noi nella famiglia di Alessia e Giulia da domenica vediamo un dolore infinito, il rischio è la caduta nel baratro nel cinismo. Papà Vittorio lo chiama il 'tunnel'. Cosa è la verità? Cosa vediamo noi oggi con gli occhi del cuore? Vediamo due figlie Alessia e Giulia volute cresciute amate e curate. Noi vediamo un papà che ha costruito con talento il suo lavoro ed è vissuto per le sue figlie. Vediamo una madre impietrita dal dolore e vediamo una sorella Stefania che ha fatto da madre e ad amica, sono le sue parole, ad Alessia e Giulia. Vediamo una famiglia generosa dove tutti sono uniti".

"Ad Alessia e Giulia nella loro giovinezza sono state consegnate fiducia, stima, libertà e autonomia. È stata chiesta una responsabilità. Stavano vivendo la libertà dell'amore, dei desideri, dei sogni grandi della vita. Quei due cuori, quelle le due anime sono abitate da Dio: io in loro vedo Dio. Alessia e Giulia oggi gridano, noi abbiamo sussurrato, loro gridano al nostro mondo di adulti e a questo nostro mondo di adulti gridano che dobbiamo credere in loro, che non si deve consegnare semplicemente giudizio, sospetto, ma si deve consegnare stima", ha detto ancora.

Zoe Pederzini per il Resto del Carlino l'8 agosto 2022.  

Scuote la testa, tra le lacrime, Tania (Tatiana), la madre delle due sorelle, Alessia e Giulia Pisanu, uccise dal Frecciarossa ai 200 chilometri orari a Riccione.

Tania è arrivata nella silenziosa via Carlina, a Madonna di Castenaso, nella tarda mattinata di ieri. Avvisata, all'indomani dell'incidente, dai parenti dell'ex marito Vittorio, sarebbe dovuta arrivare nella serata di lunedì, ma il volo da Bacau, in Romania, era stato cancellato. Con lei è venuta in Italia anche la madre, nonna delle ragazze. «Io non riesco a trovare le parole per dire quello che provo in questo momento - dice Tania mentre la madre la sorregge -. Ci saranno tanti perché che rimarranno senza alcuna risposta. Continuo a farmi domande su quanto successo. 

Domande a cui non so darmi una risposta. Erano due ragazze giovani, ma responsabili. Lo sono sempre state e non capisco come sia potuto succedere tutto questo». 

La madre, poi, si è richiusa nel suo dolore e si è ritirata all'interno della villetta tra le campagne di Castenaso. Villetta dove vivevano Giulia e Alessia insieme alla sorellastra più grande, al padre Vittorio e allo zio. Da due giorni la casa è circondata da un continuo viavai di parenti, anche venuti dalla Sardegna, di colleghi del padre e dello zio, di amici delle due giovani. Tante anche le persone del paese che, pur senza conoscerle, hanno anche solo voluto portare un fiore per dimostrare il proprio affetto.

Ed è proprio di questa vicinanza della comunità che ha parlato il sindaco di Castenaso Carlo Gubellini: «Sulla data delle esequie, giorno di lutto cittadino, non si sa ancora nulla perché manca il nulla osta dalla procura di Rimini. Sappiamo, però, che la famiglia vuole per Alessia e Giulia un funerale pubblico, aperto a tutti, perché erano tanto amate in paese. Da tutti». 

Il lato oscuro della tragedia esplode, intanto, su TikTok, dove i giovani chiedono assiduamente - come una dose di droga - di poter scaricare il video dell'impatto mortale nella stazione di Riccione. «Ragazzi, dov' è il video dell'incidente?»: è la domanda choc che circola in Rete. Intanto, in Riviera, proseguono anche le indagini. Come spiega il procuratore capo di Rimini, Elisabetta Melotti «al momento non ci sono indagati, ma è nostro dovere fare tutto il possibile per ricostruire l'esatta dinamica». E proprio in quest' ottica gli inquirenti analizzeranno la 'scatola nera' del Frecciarossa che ha investito le due ragazze.

Giro di vite, poi, in vista di Ferragosto, e molti più controlli nelle stazioni della Riviera, Rimini e Riccione, che saranno blindate dalle forze dell'ordine. Così ha deciso la questura di Rimini con Annarita Santantonio, primo dirigente del compartimento di Bologna della polizia ferroviaria: «Un intervento che era già stato pianificato da tempo indipendentemente dalla tragica vicenda di domenica scorsa». Quanto alla stazione di Riccione, fino a questo momento le indagini disposte dalla procura sembrerebbero non aver ravvisato anomalie né irregolarità nei sistemi di sicurezza. Lo scalo riccionese d'altra parte è stato di recente oggetto di un intervento di ristrutturazione strutturale e funzionale. 

Ilaria Venturi per “la Repubblica” l'11 agosto 2022.

«Non porto rancore rispetto all'inconsulto vociare che si è scatenato all'indomani della tragedia che mi ha colpito. Voglio, al contrario, che le mie bimbe non siano morte invano, che questa disgrazia porti a qualcosa di buono, a un bene assoluto. Per tutti».

Nella sua casa tra i campi fuori Castenaso, Vittorio Pisano deve fare i conti col peggiore dei dolori: sopravvivere ai figli. Giulia e Alessia, le "sue bimbe", sono state investite da un treno Frecciarossa alla stazione di Riccione l'ultima domenica di luglio. Tornavano da una serata in discoteca, al Peter Pan. «Papà rientriamo in treno». (…)

Le sue parole sono affidate a una lettera, pensieri che ora sente di voler condividere. «Vivo la sofferenza confortato moralmente e spiritualmente dalle tante persone che quotidianamente hanno inondato me e la mia casa di un'umanità e dolcezza che va oltre misura e immaginazione - scrive Vittorio Pisano - Vivo la sofferenza per l'immane tragedia che ha colpito la mia famiglia, e la consapevolezza del nuovo inizio che mi attende, nel fervido desiderio di provare a trasformare l'ingiusto evento in bene assoluto».

(…) «Non c'è stato un giorno in cui non le abbia accompagnate e riprese da scuola, almeno questo mi rimarrà per sempre, quello che ho vissuto con loro». E vissuto per loro, soprattutto da quando si era separato, «non volevo che soffrissero». 

E allora le giornate erano scandite dal lavoro e poi la spesa, il far da mangiare, i giri per recuperarle dopo una serata con le amiche, «andavo sempre a prenderle, tutte quante, prendevo un albergo se necessario quando andavano a ballare in Riviera». Non quella maledetta domenica per uno sfortunato caso. Eppure non è stato risparmiato dalle sentenze via social sul fatto che le ragazze erano sole. Tutti maestri, aveva già stigmatizzato il parroco don Giancarlo durante i funerali.

Ma Vittorio Pisano, che finora era rimasto in silenzio, vuole che dalla morte di Alessia e Giulia nasca solo del bene. «È per questa ragione che non riesco a nutrire rancore, rammarico o amarezza dall'inconsulto vociare continuo e costante che si è scatenato all'indomani della tragedia. Ringrazio tutte le persone che hanno espresso un pensiero per me e la mia famiglia. Tutti indistintamente». 

Il pensiero va anche a tutti «coloro che hanno espresso giudizi severi verso la mia persona», continua la lettera. «Sono convinto che ognuno di loro possa trarre insegnamento per la vita che verrà. Vorrei che da questa disgrazia, da questa immensa perdita, si possano trarre nuove energie per plasmarla in amore puro. Affinché da questo vuoto, da questa banalizzazione del male, dal cinismo della disperazione, possa nascere e crescere rigoglioso l'amore verso il prossimo; uno spirito nuovo che possa infondere nella comunità speranza e fiducia. Perché le bimbe, le mie bimbe, le nostre bimbe, i nostri angeli, non siano arrivati in cielo invano».

La lettera del papà delle due sorelle travolte dal treno. Giulia e Alessia, il dolore del papà e le sentenze sui social: “Voglio che le mie bimbe non siano morte invano”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'11 Agosto 2022 

“Vivo la sofferenza confortato moralmente e spiritualmente dalle tante persone che quotidianamente hanno inondato me e la mia casa di un’umanità e dolcezza che va oltre misura e immaginazione. Vivo la sofferenza per l’immane tragedia che ha colpito la mia famiglia, e la consapevolezza del nuovo inizio che mi attende, nel fervido desiderio di provare a trasformare l’ingiusto evento in bene assoluto”. Sono queste le parole di Vittorio Pisano, il papà di Giulia e Alessia, le sorella di Castenaso travolte dal treno ad alta velocità nella stazione di Riccione.

Il dolore per la perdita delle figlie è gande e lui le affida a una lettera pubblicata da Repubblica. “Non c’è stato un giorno in cui non le abbia accompagnate e riprese da scuola, almeno questo mi rimarrà per sempre, quello che ho vissuto con loro”. E vissuto per loro, soprattutto da quando si era separato, “non volevo che soffrissero”. Alessia avrebbe compiuto 15 anni a Ferragosto, Giulia 17 il 30 settembre. Per il papà le giornate erano scandite in virtù delle sue “bambine”, anche quando anadavano a ballare in Riviera come tanti altri coetanei. “Andavo sempre a prenderle, tutte quante, prendevo un albergo se necessario quando andavano a ballare in Riviera”, accompagnando a casa anche le amiche.

Quel sabato sera era molto stanco e forse anche per questo le figlie erano riuscite a convincerlo a farle andare a ballare con il treno. Sarebbero tornate da sole all’alba. Il papà non avrebbe voluto, voleva andare lui a prenderle come sempre aveva fatto ma poi non si era sentito bene, aveva raccontato poco dopo il drammatico incidente. Un dolore enorme che toglie il respiro. Nonostante tutto il grande tribunale dei social non lo ha risparmiato e lo ha accusato di aver lasciato sole le ragazze.

Durante i funerali delle due ragazze, il parroco Don Giancarlo aveva invitato al rispetto e al silenzio: “Basta vociare, si sentono tutti maestri”. Ora il papà che fin ora si era chiuso nel suo dolore, con la lettera desidera condividere la sua volontà che dalla morte di Alessia e Giulia nasca solo del bene. “È per questa ragione che non riesco a nutrire rancore, rammarico o amarezza dall’inconsulto vociare continuo e costante che si è scatenato all’indomani della tragedia. Ringrazio tutte le persone che hanno espresso un pensiero per me e la mia famiglia. Tutti indistintamente”.

Il pensiero va anche a tutti «coloro che hanno espresso giudizi severi verso la mia persona», continua la lettera. “Sono convinto che ognuno di loro possa trarre insegnamento per la vita che verrà. Vorrei che da questa disgrazia, da questa immensa perdita, si possano trarre nuove energie per plasmarla in amore puro. Affinché da questo vuoto, da questa banalizzazione del male, dal cinismo della disperazione, possa nascere e crescere rigoglioso l’amore verso il prossimo; uno spirito nuovo che possa infondere nella comunità speranza e fiducia. Perché le bimbe, le mie bimbe, le nostre bimbe, i nostri angeli, non siano arrivati in cielo invano”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Vittorio Feltri, la morte di Giulia e Alessia? Gli adolescenti hanno bisogno dei limiti. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 07 agosto 2022

La vera tragedia è quella a cui sono condannati a vita coloro che restano. I genitori di Giulia e Alessia Pisanu, rispettivamente di 15 e 17 anni, saranno perseguitati fino alla fine dei loro giorni dal dolore più atroce che possa sperimentare un essere vivente, ovvero la perdita di chi ha messo al mondo. Nutro per questo un profondo rispetto nei confronti della loro sofferenza e un senso di pietà persino lacerante che tuttavia non mi impediscono, essendo un giornalista e avendo acquisito da decenni questa sana deformazione professionale, di trarre dal fatto di cronaca alcuni ragionamenti, riflessioni, insegnamenti, che puntualmente però non apprenderemo. Li disattenderemo anche questa volta. Eppure mi tocca esprimere alcuni concetti, a mio avviso, fondamentali, affinché drammi simili a quello che si è verificato a Riccione non accadano mai più, o almeno non avvengano tanto di frequente. Qualcuno ipotizza, e non possiamo di certo escluderlo fino ai risultati degli esami tossicologici, che le ragazzine avessero assunto droghe, magari a loro insaputa, e che questo spiegherebbe quindi il motivo per il quale siano state travolte da un treno.

Mi domando: non sono sufficienti lo stordimento di una notte trascorsa in discoteca, la stanchezza derivante dal non avere affatto dormito, essendo già le 7 del mattino, per motivare lo stato di confusione e di perdita di controllo delle minori? Dobbiamo sempre dare la colpa all'uomo nero, che versa sostanze stupefacenti nei drink? Non è stato nessun uomo nero ad ammazzare le sorelline. Giulia e Alessia, semplicemente, non avrebbero dovuto essere lì, da sole, raminghe, in una stazione ferroviaria, luogo notoriamente insidioso a qualsiasi latitudine e a qualsiasi età, alle 7 del mattino, lontane da casa, senza un adulto di riferimento, in balia di qualunque genere di rischio, semmai avrebbero dovuto essere nelle loro camerette a dormire, o al massimo in cucina, appena sveglie e in procinto di fare la prima colazione.

Tuttavia nessuno osa compiere questa osservazione di buonsenso e necessaria, in quanto oramai si viene catapultati automaticamente nel tritacarne del politicamente corretto, del pietismo esasperato e fine a se stesso, del buonismo tossico e ottuso, in base al quale soffermarsi su questi ragionamenti equivale a gettare discredito sulle vittime e a colpevolizzare i loro familiari. Non sono assolutamente queste le mie intenzioni. Il padre afferma che le figlie hanno tanto insistito per ottenere il permesso di recarsi a Riccione a fare festa che egli, per sfinimento, ha ceduto. Non trovo sia errato consentire agli adolescenti di frequentare le discoteche, per di più in estate. Vietarglielo sarebbe ancora più controproducente, ma i ragazzi hanno bisogno di regole e una regola sacrosanta è quella che impone un orario decente entro il quale rincasare, il famoso "coprifuoco" che evidentemente oggi è desueto. Superato tale limite orario, i genitori devono porsi in uno stato di allarme e intervenire.

L'anomalia dunque è proprio questa, ossia che le due fanciulle siano state tutta la notte fuori casa come se fossero donne mature e non minorenni. Per di più, c'è il fattore distanza. Riccione dista oltre un'ora e venti di automobile dal paese in cui abitavano le sorelle, non erano dirette nel locale dietro l'angolo. La madre, dal canto suo, dichiara: «Erano tanto responsabili che non mi spiego come siano finite sotto il treno». Ma per quanto un giovane possa essere ritenuto responsabile ed esserlo, egli è e resta un essere uomo ancora non compiuto, senza esperienza, inconsapevole delle storture e delle insidie del mondo, quindi è soggetto da tutelare. Nessun adolescente è tanto assennato e giudizioso da conoscere ogni sorta di pericolo e da proteggersi in maniera autonoma dalla moltitudine di trappole della società odierna, che è molto più complessa rispetto a quella in cui sono cresciuti i suoi genitori. Trattiamo quindi i fanciulli per quello che sono, ossia fanciulli e non individui autonomi, "adulti e vaccinati".

Sud-Est, l’incendio del treno causato da un corto circuito. Il treno distrutto dalle fiamme, ora allocato nella stazione di Martina Franca. L’ipotesi: un guasto al condizionatore per via del troppo caldo nell'incidente di Martina Franca. Il rebus della manutenzione degli Atr passata da 58 a 200 euro l’ora. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2022.

L’incendio che nel pomeriggio di venerdì ha distrutto un convoglio delle Ferrovie Sud-Est, sul binario tra Martina Franca e Crispiano, è partito dal tetto del primo elemento del convoglio, quasi certamente a seguito di un corto circuito. Si tratta di uno dei 23 Atr polacchi Pesa, acquistato nel 2009 per 93 milioni di euro, al centro dell’indagine della Procura di Bari sui «treni d’oro», ma anche di una meno nota diatriba sulle manutenzioni e sul loro costo.

Sarà una inchiesta interna di Fse (che non commenta) a stabilire con precisione le cause dell’innesco, che dunque non è collegato in alcun modo all’incendio del bosco degli Orimini in cui il convoglio stava transitando. La Polfer manderà una informativa sui fatti alla Procura di Taranto. L’incidente non ha causato danni alle 14 persone (tra passeggeri e macchinista) presenti a bordo del treno, ma il danno - in termini economici - è ingente. Il convoglio (matricola 006), ripellicolato con i nuovi colori «Dtr», era stato sottoposto a manutenzione approfondita nelle officine Trenitalia di Foggia. Se il corto circuito - questa l’ipotesi che circola tra addetti ai lavori, su cui Fse non vuole pronunciarsi - è partito dall’impianto di condizionamento, la concausa potrebbe essere il caldo: si tratta di un rischio noto, a fronte del quale altri gestori ferroviari in questi mesi hanno fermato alcuni modelli di convogli.

Gli Atr Pesa (macchine diesel che Fse ha destinato al Salento, perché a Bari vengono utilizzati in prevalenza treni elettrici) hanno una storia travagliata e sfortunata. Alcune settimane fa Trenord ha messo in vendita per 403mila euro due convogli identici, usati per pochi anni e fermi dal 2015. Nel 2016 gli Atr furono fermati dall’Ustif in tutta Italia per un problema ai carrelli (poi risolto), quindi autorizzati a circolare in Puglia a 50 all’ora (in alcuni casi scesi a 25). I treni, che avrebbero dovuto essere sottoposti a manutenzione ciclica nel 2017, sono entrati in officina a partire dal 2019. Fino al 2016 Fse ne aveva affidato la manutenzione alla Filben dell’imprenditore bolognese Carlo Beltramelli, allontanata perché - è una delle contestazioni emerse nel procedimento penale - il costo orario del servizio (58 euro) era stato ritenuto eccessivo. Ma poi - emerge sempre dagli atti depositati nel procedimento - il gruppo Fs ha speso per la manutenzione ciclica circa 31 milioni di euro (22 milioni a Trenitalia per 13 convogli, e 9 alla Pesa per altri 10), più le spese di affitto di spazi (per 3,6 milioni) nell’officina del gruppo di Taranto dove si è svolta la manutenzione da parte di Pesa, e di trasporto alle officine di Foggia. E tutto questo senza contare il mancato completamento dell’installazione del sistema di sicurezza Ssc (obbligatorio per arrivare a Bari centrale), presente solo su 10 degli Atr di Fse. 

Nel 2018 la Cassazione annullò con rinvio l’arresto ai domiciliari di Beltramelli per la vicenda della manutenzione dei treni (e per l’acquisto degli Stadler di seconda mano). Sulla manutenzione, la Cassazione riconobbe che il prezzo pagato alla Filben poteva essere considerato congruo perché nei 58 euro c’erano 45 euro di subappalto al fabbricante Pesa e 13 per la realizzazione di un’officina a Putignano. Al momento, in base agli atti depositati nel procedimento penale per la bancarotta Fse dalle difese degli imputati, emergerebbe che il prezzo della manutenzione degli Atr si aggiri sui 200 euro l’ora. Nel frattempo, venerdì è stato nominato il nuovo presidente di Ferrovie Sud-Est. Si tratta di Venerando Monello, avvocato amministrativista romano, in quota Pd, che nel 2017 impugnò in Tribunale (perdendo) il contratto tra l’ex sindaco Virginia Raggi e la Casaleggio. Monello prende il posto di Luigi Lenci, andato in pensione.

Sud-Est, a Martina disastro sfiorato: «C’era puzza di bruciato già alla partenza». Il treno distrutto dall’incendio. Parla un testimone: il video della carcassa dei vagoni. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Luglio 2022.

BARI - L’incendio che venerdì pomeriggio ha avvolto l’Atr220-006 di Ferrovie Sud-Est è partito dall’«imperiale» (la parte superiore della cassa), nella zona in cui si trova l’impianto di condizionamento. Un corto circuito che ha poi provocato la distruzione completa del convoglio, ora parcheggiato su un binario della stazione di Martina Franca e ormai destinato - dopo le perizie sull’incidente - alla rottamazione. La cabina di guida del complesso non esiste più, mangiata dal fuoco: le 14 persone che erano a bordo, tra cui il macchinista, sono scese dal treno sul binario tra Crispiano e Martina Franca, nel bosco degli Orimini, senza conseguenze. Sono stati molto fortunati.

L’incidente sta creando grande apprensione nelle chat interne del personale Sud-Est...

Trani, rimane incastrato tra le porte e viene trascinato dal treno: muore 49enne. Libero Quotidiano il 22 luglio 2022

Non è sopravvissuto al drammatico incidente Gian Battista Zerbino, 49enne trascinato da un treno regionale nella stazione di Trani, Puglia. La vittima è stata travolta verso le 8 di giovedì 21 luglio per circa 3-400 metri all'uscita della stazione del treno. Al momento è ancora in corso l'ascolto dei testimoni. Un compito complicato per gli inquirenti che stanno tentando di raggiungere tutti i passeggeri a bordo del convoglio delle linee pugliesi diretto a Barletta. 

Altrettanto sconosciuta la dinamica dei fatti. Stando alle prime ipotesi, l'uomo potrebbe essere rimasto incastrato nelle porte mentre scendeva dal mezzo, ma saranno le indagini a stabilire quanto realmente accaduto. Sul posto è intervenuta la Polizia ferroviaria. L’uomo, di professione giardiniere, proveniva da Bitetto, città in cui viveva, ed era appena giunto a Trani per una giornata di lavoro.  

Il corpo di Gian Battista Zerbino è stato ritrovato in zona Trani nord, nei pressi della vecchia stazione di via Andria, dove il convoglio si è fermato in seguito all’allarme lanciato da alcuni passeggeri. Il traffico è stato sospeso dalle 8:30 sulla linea Adriatica Bari – Pescara con notevoli ritardi per la circolazione ferroviaria. Chi ha assistito alla scena, definisce quanto visto qualcosa di "drammatico". 

Terzo valico, l’eterna incompiuta che dovrebbe unire ad alta velocità Genova e Milano. La linea ferroviaria resta una chimera e il suo completamento slitta di anno in anno. Tra promesse non mantenute e dubbi crescenti. Massimiliano Salvo e Michele D'Ottavio su L'Espresso il 21 Giugno 2022.

Un treno da Milano a Genova in un’ora, o anche meno: è un annuncio che dura negli anni. «Dal 2017», si azzardò. «Dal 2020», si promise, sognando il Terzo Valico, terza linea tra Liguria e pianura padana. «Dal 2023», si precisò poi. «Dal 2024», ci si corresse. Ma dopo dieci anni di cantieri, i lavori del Terzo Valico-Nodo di Genova sono al 51 per cento: e anche se le Ferrovie annunciano l’inaugurazione nel 2025, è dura capire quando i lavori potranno finire davvero.

Negli ultimi mesi, diversi lotti hanno rallentato per questioni burocratiche, costruttive e legate al codice antimafia. Secondo gli operai sarà impossibile terminare i lavori «prima del 2027». Poi ci vorranno collaudi e autorizzazioni. E anche allora la velocità tra Genova e Milano resterà lontana: perché i binari del Terzo Valico si fermano a Tortona e il prolungamento annunciato a maggio nel “Piano industriale di Fs 2022-2031” esiste solo sulla carta.

«Quando 25 anni fa ho cominciato a fare il pendolare, si annunciava il Genova-Milano in meno di 60 minuti», racconta l’ingegner Enrico Pallavicini, che con il “Comitato Genova-Milano” calcola dal 2003 i ritardi degli intercity, mese per mese. «Oggi tra Genova e Milano Rogoredo ci si mette circa un’ora e mezza più i ritardi, peggio che un tempo. Tra otto anni sarò in pensione e sono certo che da pendolare non riuscirò mai a prendere il treno veloce».

Da Genova all’Europa

È dagli anni ’90 che si sogna il Terzo Valico dei Giovi, linea Av/Ac ad «alta capacità veloce» per merci e passeggeri tra Genova e Tortona, provincia di Alessandria: 53 chilometri di cui 37 in galleria che velocizzeranno i trasporti tra Genova, Milano e Torino. È la città ligure l’anello debole: perché è circondata dai monti, le ferrovie sono tortuose e le autostrade disseminate di curve, gallerie e viadotti. Dopo il crollo di Ponte Morandi è cominciata una stagione di cantieri che strozzano la Liguria in una morsa, che si alleggerirà tra il 2024 e il 2026. Il Terzo Valico è considerato una soluzione all’isolamento. Secondo chi l’ha voluto - tutta la politica ligure, a parte M5S e Rifondazione - aiuterà il porto di Genova ad attrarre merci dall’Asia verso il Mediterraneo, a scapito del Mare del Nord. Le linee esistenti non sono infatti ritenute sufficienti: troppo ripida e accidentata l’ottocentesca “linea dei Giovi”, troppo affollata e comunque pendente la “Succursale dei Giovi”.

Protagonista del Terzo Valico è il Gruppo Fs attraverso Rfi e Italferr, con finanziamenti del ministero dei Trasporti e dello Sviluppo economico; il general contractor che progetta e costruisce l’opera è il Consorzio Cociv guidato da Webuild (precedentemente Salini-Impregilo). Rfi e Cociv firmarono il contratto per i lavori l’11 novembre 2011: il giorno prima delle dimissioni di Silvio Berlusconi da presidente del Consiglio. Il costo iniziale è 6,1 miliardi di euro, il limite di spesa 6,9 miliardi: più del Mose di Venezia.

Problemi, proteste, inchieste

Quando nel 2012 sono partiti i cantieri, il Terzo Valico ha fatto i conti con il movimento No Tav/Terzo Valico contrario a campagne sventrate da gallerie, allargamenti di strade, passaggio di camion. I manifestanti hanno attaccato l’opera dal punto di vista economico (117 milioni di euro a km), ambientale ed etico, criticandone l’utilità e il rischio di scavare in montagne a rischio idrogeologico e zeppe di amianto.

Scomparse le proteste, sono arrivate le grane giudiziarie. L’ultima è stata l’interdittiva antimafia per il consorzio ReseArch, al lavoro tra Pozzolo e Tortona nell’Alessandrino: cantiere chiuso in modo preventivo ad aprile e riaperto a maggio, in seguito alle decisioni del Tar Campania e del Tribunale di Salerno. Più dirompente “Amalgama”, indagine su pubblica amministrazione e alta velocità che tra il 2014 e il 2016 ha coinvolto le procure di Firenze, Roma, Genova. Spezzettata e in parte archiviata l’inchiesta toscana, finita in un limbo di competenza quella romana, l’unica a dibattimento è quella ligure sul Terzo Valico. Dopo gli arresti nel 2016 di dirigenti di Cociv e imprenditori indagati per corruzione, concussione e turbativa d’asta, nel marzo del 2021 il gup di Genova ha rinviato a giudizio una trentina di persone, quasi tutte per turbativa d’asta: tra queste l’ad di Webuild, Pietro Salini (accusato di turbativa d’asta e assolto per altro capo di imputazione) e l’ex presidente di Cociv, Michele Longo. Ma i pm Francesco Cardona Albini e Paola Calleri sanno che, salvo assoluzioni, la maggior parte delle turbative si è prescritta o si prescriverà nel 2022.

Ci sono infine i problemi tecnici nel tunnel di 27 chilometri sotto l’Appennino, tra ammassi di rocce non previste e questioni legali che hanno rallentato i lavori per mesi con ritardi ancora da quantificare.

Annunci a raffica

E pensare che nel 2015 l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni e il suo collega ligure Giovanni Toti assicuravano il Milano-Genova «in un’ora entro 18-20 mesi». Nel 2016 Assoutenti avvisava: «Il Terzo Valico nella più ottimistica delle previsioni non sarà pronto prima del 2025»; il sindaco di Genova Marco Bucci nel 2020 ha annunciato «treni da 57 minuti nel 2023». A fine maggio il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti (Lega) ha parlato di «alta velocità Genova-Milano nel 2026». Oggi, con il 78 per cento delle gallerie completate, per Rfi l’attivazione del Terzo Valico sarà «entro il 2025», ma per la complessità delle autorizzazioni «non è al momento ipotizzabile il mese». Contesta i tempi Federico Pezzoli, segretario generale di Fillea Cgil in Liguria: «È realistica la chiusura del cantiere a inizio del 2027, senza collaudi e autorizzazioni».

La tratta Tortona-Milano

Concluso il Terzo Valico resterà il problema che questo termina a Tortona, a 80 km da Milano, e i treni si immetteranno in una trafficata linea a due binari, uno per direzione. «Senza il quadruplicamento cambierà poco», denuncia l’imprenditore Maurizio Rossi, editore dell’emittente ligure Primocanale, che dal 2013 al 2018 ha seguito le vicende del Terzo Valico da senatore (Scelta civica e Gruppo misto). In una Genova e una Liguria guidate dal centrodestra, Rossi è l’unico sostenitore del Terzo Valico a contestare - non da sinistra - istituzioni e Gruppo Fs. «La promessa di treni che collegano in meno di un’ora Genova e Milano va smascherata. Un conto è l’inaugurazione del tunnel, un’altra la tabella degli orari».

Per Rfi, con i miglioramenti in corso tra Tortona e Milano si risparmieranno 6 minuti e con il Terzo Valico i tempi scenderanno a un’ora. Ma per l’ex senatore Rossi e il Comitato Genova-Milano «i treni devono essere in orario lavorativo, non alle tre di pomeriggio. Senza il quadruplicamento, il treno veloce si ritroverà in coda, come oggi, dietro ai treni locali che fanno tutte le fermate».

Ma i quattro binari sono lontani: mancano finanziamenti e a volte anche i progetti, che comprendono un ponte sul Po e uno sul Ticino. Tra Tortona-Voghera (800 milioni di euro) è coperto solo il costo del progetto; tra Voghera e Pavia si studia la prefattibilità; tra Pavia e Milano (900 milioni di euro) sono finanziati 11 km tra Pieve Emanuele e Milano Rogoredo, da attivare entro il 2026 come chiede il Pnrr. La data per l’inaugurazione integrale, per Rfi, ci sarà «nel momento in cui le singole tratte saranno finanziate». Secondo indiscrezioni, non prima del 2031-2032.

Il Terzo Valico serve?

Sono nel frattempo passate di moda le critiche verso il Terzo Valico, ormai interamente finanziato. Più di dieci anni fa per l’allora ad di Fs Mauro Moretti «era inutile». Il professor Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, nel 2018 ha guidato il team incaricato dal governo gialloverde di analizzare il rapporto costi-benefici sociali sul Terzo Valico. «Pur con ipotesi molto ottimistiche su costi e traffici, i risultati risultarono negativi. Ma i Cinque Stelle intanto avevano cambiato linea sulle grandi opere, e il ministero, alterando i nostri dati, sostenne contro l’evidenza che noi avevamo dato parere favorevole», denuncia Ponti. «I benefici saranno infatti piccoli rispetto al costo». Nelle promesse i passeggeri risparmieranno circa un quarto d’ora, mentre le merci un’ora e potranno viaggiare con una sola locomotiva. «Cosa irrilevante, visto che in Usa i treni merci viaggiano a 35 km/h anche con sei locomotive. Oltretutto, nel porto di Genova le merci perdono molte ore rispetto a Rotterdam per la burocrazia».

Il tempo intanto passa. E mentre i 900 pendolari del Genova-Milano sono ridotti a un centinaio per lo smart working, la certezza di moltiplicare i container resta in voga. Nel 2014 Genova riceveva 2 milioni 172 mila teu (twenty - feet - equivalent unit) e l’allora presidente dell’Autorità portuale di Genova, Luigi Merlo - fan del Terzo Valico - annunciava entro due anni «4 milioni di teu». Nel 2019, il suo successore Paolo Emilio Signorini, altro fan dell’opera, ha predetto «5 o 6 milioni di teu per il 2026». Ma i dati raccontano un’altra storia. Nel 2021 il Sistema portuale del Mar Ligure Occidentale - che somma i porti di Genova, Vado e Savona - ha festeggiato il record di sempre: 2 milioni 781mila teu.

Binario, triste e solitario: mille chilometri di «rami secchi» per dare impulso al turismo. Enzo Riboni su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

La rinascita di linee ferroviarie e stazioni abbandonate: in un dossier l’esito dei tagli decennali al trasporto pubblico. Ora un piano di ripristino a favore di «turismo lento» e pendolari. 

Milleduecento chilometri di ferrovie in decadimento. Binari aggrediti da erbacce e sterpaglie. Stazioncine locali chiuse e mezze diroccate. Un degrado distribuito su 38 linee ferroviarie di 12 regioni diverse, tratti di qualche decina di chilometri ciascuno che attraversano spesso bellissimi luoghi naturalistici. Eppure, da anni, chiuse e dismesse o, quantomeno, sospese all’esercizio, a disperdere un patrimonio economico di potenziale mobilità che andrebbe assolutamente recuperato. È quanto emerge dal dossier «Futuro sospeso» di Amodo (Alleanza mobilità dolce) realizzato con Legambiente, Utp AssoUtenti, Federazione italiana ferrovie turistiche e museali, Kyoto Club e Fondazione Cesare Pozzo.

È la regione Piemonte, con tredici linee ferroviarie «sospese», a detenere il record italiano. Seguita dalla Sicilia con cinque, da Lombardia, Lazio e Puglia con tre ciascuna, Marche, Molise, Campania e Calabria con due a testa e, con una singola linea sospesa, Valle d’Aosta, Toscana e Abruzzo. In alcuni casi il blocco è stato la conseguenza di crolli di viadotti (come la Caltagirone-Gela) o di eventi franosi (come la Priverno-Terracina), ma gli estensori del dossier sospettano che tali eventi vengano presi a pretesto per dilazionare «sine die» la riattivazione, appellandosi a eventi naturali «incontrollabili» che costringerebbero le popolazioni interessate ad accettare il fatto compiuto.

Filosofia vecchia

«Ma non si tratta solo di conseguenze di cause naturali. Le dismissioni - sostiene la portavoce di Amodo, Anna Donati - sono anche il frutto di una filosofia risalente agli Anni Setttanta-Ottanta che sosteneva l’obsolescenza delle ferrovie a favore di auto e aerei. Inoltre nel 1985 il dossier Rami secchi ha tagliato molto nel settore e, a seguito della crisi economica, nel 2010 le sovvenzioni al trasporto pubblico sono crollate da 6 a 4,8 miliardi. E tutto ciò ha portato, nel suo insieme, anche alle 38 linee sospese individuate dalla nostra indagine. Ora però i tempi sono cambiati, il treno non è più considerato un mezzo destinato a un irreversibile declino e le popolazioni sono meno propense ad accettare le chiusure».

Tra le linee analizzate ce ne sono alcune che hanno una vocazione soprattutto turistica, adatte al cosiddetto «viaggio lento», pensabili per treni a calendario, magari nei week end o nei periodi festivi, natalizi piuttosto che estivi. Tra queste, per esempio, potrebbero essere riattivate la Cuneo-Mondovì (33 chilometri), la Fano-Urbino (49 chilometri), la Sicignano-Lagonegro (78 chilometri) o la Alcantara- Randazzo (37 chilometri). Altre invece, in particolare in Piemonte, potrebbero essere riaperte come linee ordinarie per i pendolari, senza grandi aggravi di costi visto che su quelle tratte sono in funzione linee sostitutive di bus che comportano un impegno di soldi pubblici. Tra queste la Pinerolo-Torre Pellice (16 chilometri), la Asti-Alba (33 chilometri) o la Seregno-Carnate (14 chilometri) in Lombardia. C’è infine un terzo gruppo di linee da riaprire che, per massimizzarne l’utilizzo, potrebbero acquisire sia una valenza di trasporto locale, sia ospitare treni turistici. Per esempio la Chivasso-Asti (51 chilometri) o la Alcamo–Milo–Trapani (47 chilometri).

«Spola»

«Per ridurre i costi di ripristino - spiega Donati - sarebbe consigliabile adottare un modello di esercizio snello, con corse a spola, cioè con lo stesso materiale rotabile che fa avanti e indietro, oltre che con l’uso di treni ad agente unico. Non sarebbe solo un contenimento di costi di esercizio, darebbe ricadute positive sull’economia locale e, riducendo il traffico su strada, anche sull’ambiente». Massimo Bottini, delegato di Italia Nostra in Amodo, enfatizza le potenzialità di un nuovo turismo integrato che può essere generato da molte tra le 38 linee sospese. «Mettendo in rete le linee ferroviarie con piste ciclabili e sentieri - commenta – diventano interessanti non solo le città d’arte collegate ma anche tutti i territori attraversati. Le linee sospese rappresentano un capitale economico-sociale che non va disperso, che può fornire benefici agli abitanti di quei luoghi. In Italia abbiamo una rete autostradale, abbiamo l’alta velocità, dobbiamo ora arrivare ad avere anche una rete di mobilità dolce integrata».

Qualche progresso nella direzione del recupero sta comunque avvenendo. La Conferenza Stato-Regioni infatti ha stilato una lista di 26 tratte ferroviarie ad uso turistico, nella quale sono comprese 9 delle 38 contenute nel dossier di Amodo, le quali potranno tornare in servizio o essere maggiormente utilizzate. E buone notizie arrivano anche dal ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili: ha varato un decreto che assegna alle Regioni 1,55 miliardi del Fondo complementare al Pnnr per potenziare il sistema ferroviario di trasporto pubblico locale, migliorare la sicurezza e rafforzare il raccordo delle linee regionali con l’alta velocità.

Quel treno troppo veloce che sfondò la stazione. Angela Leucci il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

L'incidente ferroviario di Montparnasse non si risolse in una strage: ci fu un solo morto, ma l'immagine del treno penzolante dalla stazione fu impressionante.

Nel gennaio 1896, i fratelli Lumiere fecero proiettare per la prima volta il loro film “L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, erroneamente ritenuto il primo della storia del cinema e al centro di una presunta bizzarra bufala: secondo la leggenda, gli spettatori, assistendo all’arrivo di un treno su quello schermo “larger than life”, furono colti da ansia, paura, terrore, legato all'impressione per cui sembrava che, in prospettiva, il treno penetrasse nella sala. Forse questo mito è legato al ricordo recente di un fatto vero: un incidente molto spettacolare occorso a Parigi nell’ottobre 1895, passato alla storia appunto come l’incidente ferroviario di Montparnasse.

L’incidente di Montparnasse

Un vero salto nel tempo, metaforicamente e letteralmente. È il 22 ottobre 1895 e alle 8.45 del mattino il treno espresso 56 parte da Granville, come riporta HistoryDaily: il suo arrivo è previsto alle 15.55 alla stazione parigina di Montparnasse, nel cosiddetto quartiere degli artisti. È un bel viaggio, di 350 chilometri, dato che Granville si trova in Normandia.

Ma durante il percorso, nonostante il macchinista sia il collaudato Guillaume Marie Pellerin, accade che il treno inizia ad accumulare ritardi, l’ultimo dei quali, di 9 minuti, è quello della stazione di Versailles Chantiers, distante circa 23 chilometri dal punto di arrivo. Così il macchinista inizia a “correre”, ad accelerare per quanto la tecnologia del tempo glielo consenta, fino ad arrivare alla velocità di 65 chilometri all’ora.

E nei pressi della stazione di Montparnasse accade qualcosa di inaspettato: tutti i freni non funzionano. Prima il freno Westinhouse, una tecnologia recente al tempo, azionato da Pellerin, poi il freno a mano utilizzato dal capotreno Albert Mariette e infine il freno a controvapore. Così il treno entra in stazione alle 16 alla velocità di 40 chilometri all’ora impattando con gli arredi della stazione - orologi compresi - con la barriera dei respingenti a fine binario e infine con la balaustra della facciata. E ricadendo sulla strada. 

Nonostante il rocambolesco arrivo del treno, i feriti furono solo 7: due passeggeri, due impiegati delle ferrovie, un vigile del fuoco, Pellerin e il suo aiuto Victor Garnier.

Ma ci fu un morto. Si trattò di Marie-Augustine Aiguillard, moglie di un edicolante che in quel momento sostituiva il marito, andato a prendere un nuovo carico di giornali: mentre era in edicola a sferruzzare la donna fu infatti colpita da un pezzo della balaustra della stazione.

I passeggeri, in totale 131, si salvarono tutti perché i vagoni che li trasportavano erano posti dopo la locomotiva, un vagone postale e due vagoni bagagli. E oltre a questo i compartimenti dei passeggeri furono sganciati immediatamente nel momento dell’impatto.

Le cause e le conseguenze

Le cause dell’incidente di Montparnasse furono un misto di malfunzionamento tecnico ed errore umano: il fatto che il freno Westinghouse non abbia funzionato ha infatti innescato una reazione a catena. Pellerin e Garnier cercarono di ridurre la velocità prima attraverso il freno a mano utilizzato da Mariette e poi con il freno a controvapore, il cui effetto non andò a buon fine per una ragione di spazio.

Il malfunzionamento tecnico fu riscontrato anche dalla giustizia, che comminò a Pellerin e Garnier 2 mesi di carcere e una multa di 50 franchi. Anche per Mariette ci fu una multa, di 25 franchi. La Compagnie des chemins de fer de l’Ouest pagò per il funerale di Aiguillard e corrispose ai figli una borsa di studio.

La locomotiva rimase sospesa tra la stazione e la strada per 2 giorni e venne rimossa il 25 ottobre. Ci volle un carro con 14 cavalli e un argano da 250 tonnellate per trasportarla in un’officina e il 28 ottobre la stazione di Montparnasse riprese a funzionare regolarmente. Così come è tornata sui binari la locomotiva, che nell’incidente non aveva riportato grossi danni e quindi fu prontamente riparata.

Incidente in galleria a Roma, coinvolto treno Alta Velocità. Laura Cataldo il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il treno della linea Torino-Napoli stava percorrendo la galleria Serenissima, a Roma quando, per cause ancora da accertare, è avvenuto l'impatto.

Il treno dell'Alta Velocità, della linea Torino-Napoli, è rimasto coinvolto in un incidente nei pressi della galleria Serenissima, a Roma. Dalle prime informazioni sembrerebbe che i passeggeri a bordo sarebbero riusciti ad uscire dai vagoni. Sul posto sono arrivate le squadre dei vigili del fuoco e i tecnici. Ancora da chiare le cause dell'impatto.

Da quanto si apprende sembra che solo l'ultima carrozza del treno, con a bordo 219 persone, sia uscita dai binari sulla linea. Al momento, secondo quanto si apprende da fonti dei soccorritori, non ci sarebbero feriti. Si tratta del Frecciarossa 9311 partito da Torino alle 8.50. Il mezzo era poi ripartito dalla stazione termini alle 13.59 e sarebbe dovuto arrivare a Napoli alle 15.03.

I vigili del fuoco hanno pubblicato un tweet con cui avvisano il blocco della linea.

Sospeso il traffico ferroviario nella stazione Roma Prenestina e deviate le corse della linea Roma-Napoli e Roma-Pescara. In tutto sono otto, al momento, i treni Alta Velocità instradati su linee alternative, come rende noto sul sito la compagnia Trenitalia. Tutto ciò ha causato un disagio a effetto domino. I treni successivi, infatti, hanno subito dei ritardi anche di 90 minuti.

L'incidente nel tratto Napoli-Roma. Deraglia treno Alta velocità, “ondeggiamento anomalo” poi “è andato a sbattere in galleria”: panico tra i passeggeri. Giovanni Pisano su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

Paura, disagi e pesanti ritardi. Venerdì nero per l’alta velocità dopo che un treno Frecciarossa (numero 9311), partito da Napoli e diretto a Torino, è deragliato all’interno di una galleria nei pressi della Galleria Serenissima, a Roma. L’incidente per fortuna non ha provocato feriti. Sul posto sono intervenuti i sanitari del 118 oltre a polizia e vigili del fuoco.

Secondo una prima ricostruzione, l’ultima carrozza del convoglio, con a bordo in totale circa 230 passeggeri, è uscita dai binari mentre il treno era diretto alla stazione di Termini. La maggior parte delle persone è riuscita ad uscire dalle carrozze mentre per altri sono in corso gli aiuti da parte dei vigili del fuoco. Successivamente la polizia ha comunicato che i passeggeri “che si trovavano a bordo del Treno dell’Alta Velocità bloccato all’altezza di Roma Prenestina sono stati messi in sicurezza”. “La linea Alta Velocità – sottolinea il tweet – è interrotta in entrambe i sensi di marcia”.

“Il treno è entrato in galleria senza problemi. Poi, per motivi che andranno accertati, c’è stato probabilmente un ondeggiamento anomalo e il locomotore di coda è andato a sbattere contro l’ingresso della galleria della Serenissima“. E’ questa una prima ricostruzione, riportata dall’Ansa, dell’ispettore antincendio dei vigili del fuoco Pasquale Labate. I passeggeri, conferma Labate, sono stati messi in sicurezza, mentre sulla linea ferroviaria ancora bloccata ci sono diversi detriti provocati dall’urto del treno con la galleria.

Il treno, fanno sapere i vigili del fuoco su Twitter, ha avuto un inconveniente tecnico e sul posto dell’incidente sono presenti anche le squadre Usar (Urban Search And Rescue) “specializzate in operazioni di ricerca e soccorso di persone sepolte da macerie in caso di crolli di edifici e strutture, esplosioni o di eventi sismici”.

LE TESTIMONIANZE DEI PASSEGGERI: “PRIMA IL FUMO POI IL BUIO PER MINUTI”

“Abbiamo avuto paura, tutto è successo dopo essere ripartiti da Termini. Il Treno ha avuto dei colpi di freno e poi fumo in carrozza. E’ saltata la luce e anche l’aria condizionata”. E’ il racconto all’Ansa di Simonetta che era a bordo del Treno ad alta velocità ad andato a sbattere in una galleria a Roma. “Siamo rimasti al buio per minuti – aggiunge un altro passeggero – poi sono arrivati i vigili del fuoco che ci hanno fatto scendere. Abbiamo camminato in galleria per oltre un chilometro”.

Il servizio ferroviario dell’Alta Velocità è stato sospeso a Roma Prenestina dalle 14,04, annuncia Trenitalia sul proprio sito spiegando che la decisione è stata presa a causa di “un inconveniente tecnico sulla linea”. In corso l’intervento dei tecnici e dei vigili del fuoco.

“I viaggiatori sono stati aiutati a scendere e, con l’ausilio dei Vigili del Fuoco e del personale di protezione aziendale delle Ferrovie, hanno potuto raggiungere a piedi la vicina stazione di Roma Palmiro Togliatti da dove hanno proseguito il loro viaggio con i mezzi sostitutivi messi a disposizione da Trenitalia. Nessuna persona a bordo ha riportato conseguenze fisiche da quanto accaduto”, si legge nella nota.

Gravi le ripercussioni sul traffico ferroviario con ritardi, per ora, fino a 90 minuti sulla linea Alta Velocità tra Torino e Roma. Sono otto, al momento, i treni Alta Velocità instradati su linee alternative, come rende noto la stessa Trenitalia sul suo sito.

Sono una ventina – ma la lista cresce con il passare dei minuiti – i treni dell’Alta Velocità che sono stati instradati su percorsi alternativi in seguito al problema verificatosi al Frecciarossa 9311 nella galleria Serenissima, a Roma. Questa la situazione resa nota da Trenitalia nell’ultimo aggiornamento: Treni Alta Velocita’ instradati sul percorso alternativo via Cassino con un maggior tempo di percorrenza fino a 90 minuti: • FR 9588 Reggio Calabria Centrale (10:11) – Torino Porta Nuova (21:00) • FR 9413 Venezia Santa Lucia (10:26) – Napoli Centrale (15:48) • FR 9535 Torino Porta Nuova (11:00) – Napoli Centrale (17:12) • FR 9544 Salerno (12:50) – Milano Centrale (18:55) • FR 9631 Milano Centrale (13:00) – Napoli Centrale (17:33) • FR 9642 Napoli Centrale (13:30) – Torino Porta Nuova (19:10) • FR 9320 Napoli Centrale (13:55) – Torino Porta Nuova (20:10) • FR 9426 Napoli Centrale (14:10) – Venezia Santa Lucia (19:34) • FR 9552 Salerno (14:45) – Torino Porta Nuova (22:00) • FR 9648 Napoli Centrale (15:00) – Milano Centrale (19:24) • FR 9652 Napoli Centrale (15:55) – Bergamo (21:43) • FA 8862 Reggio Calabria Centrale (9:00) – Roma Termini (14:25) • FA 8314 Lecce (11:15) – Roma Termini (16:55) • FA 8867 Roma Termini (14:05) – Reggio Calabria Centrale (19:28) • FA 8315 Roma Termini (15:05) – Lecce (20:29) • FA 8317 Roma Termini (16:05) – Lecce (21:45) Treni Alta Velocita’ instradati sul percorso alternativo via Formia con un maggior tempo di percorrenza fino a 90 minuti: • FR 9623 Milano Centrale (10:58) – Mapoli Centrale (16:12) • FR 9428 Napoli Centrale (15:10) – Venezia Santa Lucia (20:34) • FR 9430 Napoli Centrale (16:09) – Udine (23:05)

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2022.

«Ho sentito un botto, e dopo altri due. Ho capito subito che era qualcosa di metallico. Qualcosa di molto forte che proveniva da sotto il vagone. Ancora ho i brividi al pensiero di cosa sarebbe successo se il treno fosse andato più veloce. Ma per fortuna in quella galleria andava piano». 

Stefano Tiziano è uno dei 219 passeggeri del Frecciarossa 9311 Torino-Napoli, senza contare il personale di bordo fra macchinisti, capo treni e assistenti, finito fuori dai binari ieri pomeriggio nella galleria della stazione Serenissima, al Prenestino.

«La gente è andata nel panico, anche perché la carrozza si è riempita di fumo, le luci si sono spente e di conseguenza anche l'aria condizionata», continua il giovane, che dopo un paio d'ore sarebbe dovuto arrivare nel capoluogo partenopeo e invece ha dovuto interrompere il suo viaggio per alcune ore prima di riprendere la strada di casa. 

«Sinceramente non credevo al deragliamento, invece poi ci hanno confermato che era successo davvero», conclude Tiziano. Colpi violenti provenienti dai binari, il terrore di essersi ritrovati all'improvviso al buio nel tunnel e anche il fumo che poteva far pensare a un incendio sono una costante nei racconti di chi alle 14.03 si è svegliato dal torpore del viaggio nel peggiore dei modi.

«Un grande spavento - spiega un'altra passeggera, Veronica Modugno - ma anche una grande disponibilità di tutti i soccorritori: i Vigili del Fuoco, i poliziotti, i carabinieri, Trenitalia che ci ha anche fornito un kit di prima necessità. Certo, è stato tutto così improvviso. Ci siamo ritrovati di colpo sui binari». 

Fra i viaggiatori non solo tante persone residenti a Napoli e in Campania, dirette a casa per il fine settimana, ma anche turisti stranieri. «Dovevo andare a Sorrento da alcuni amici per una vacanza, adesso mi ritrovo qui per strada aspettando un pullman per un'altra stazione. Mi sono spaventata e anche tanto», ricorda una ragazza californiana con il trolley al seguito.

Provati dalla brutta avventura anche due turisti inglesi. «Abbiamo sentito un rumore di ferraglia, qualcosa che arrivava dalla parte posteriore del treno. Ci siamo preoccupati perché sentivamo colpi a ripetizione, poi per fortuna ci siamo fermati», dicono. «Eravamo ripartiti da pochi minuti dalla stazione Termini - ricorda ancora Pietro Errichiello -, il treno andava a velocità ridotta, siamo entrati in galleria e abbiamo avvertito tre frenate in rapida successione subito dopo un colpo violento. Come se fosse entrato in azione il freno di emergenza. E poi ci siamo bloccati in mezzo alla galleria».

Nessun ferito, solo un paio di persone con un forte stato d'ansia, ma si sono riprese subito dopo essere uscite dalla galleria. «Avevamo finito di pranzare da poco - racconta Antonio, che abita in un palazzo in viale della Serenissima, davanti alla stazione dei treni Regionali -: a un certo punto con mia moglie abbiamo sentito un botto e poi ha cominciato a tremare tutto. Sembrava il terremoto. Dalla fermata dei treni si è alzata una nuvola di fumo. Abbiamo capito che c'era qualcosa di grave».

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 4 giugno 2022.

La locomotiva di coda che sbanda leggermente, perde aderenza e svia dal binario, mentre il Frecciarossa 9311 è in piena galleria, poco dopo aver lasciato la stazione Termini di Roma. Il treno, partito ieri mattina da Torino e diretto a Napoli, si blocca nel tunnel. A bordo 219 passeggeri, tutti illesi, ma chiusi al buio: porte sigillate, niente elettricità e aria condizionata fuori uso. 

Aspettano per circa un'ora l'arrivo dei soccorsi, vigili del fuoco e poliziotti li fanno uscire dai vagoni e li scortano fuori dalla galleria. «Abbiamo camminato al buio per circa un chilometro, in fila indiana - racconta Simonetta, che era appena salita a Termini - Tutto si è svolto in modo molto ordinato, ma là sotto mancava l'aria». Accompagnati nella vicina stazione "Togliatti", hanno poi potuto proseguire il viaggio con i mezzi sostitutivi messi a disposizione da Trenitalia. 

Studenti, famiglie in viaggio per il weekend, tanti turisti stranieri, quasi tutti si sono resi conto che qualcosa di strano stava succedendo all'interno della galleria: «Abbiamo sentito due frenate, poi uno scossone, una specie di contraccolpo - ricorda Salvatore, diretto a Napoli dalla fidanzata - poi abbiamo visto del fumo ed è saltata la luce». 

All'inizio è stato comunicato un guasto, Trenitalia nelle prime ore ha parlato di un semplice «inconveniente tecnico», poi si è capito «che non era una cosa risolvibile in breve tempo e dovevamo scendere», si lamenta Raffaele, partito all'alba da Torino, «e ancora non so come e quando arriverò a destinazione».

Una prima, parziale, ricostruzione dell'incidente l'ha fatta Pasquale Labate, ispettore antincendio dei vigili del fuoco, intervenuto nella galleria della "Serenissima": «Il treno è entrato nel tunnel senza problemi. Poi c'è stato probabilmente un ondeggiamento anomalo - spiega - e il locomotore di coda è andato a sbattere contro l'ingresso della galleria». A terra, sulla linea ferroviaria, sono visibili sono diversi detriti provocati dall'urto, danni evidenti all'infrastruttura, che potevano essere ben più gravi.

«Per fortuna quando siamo arrivati abbiamo trovato il treno in asse, compreso il locomotore di coda, che si è spostato, ma è rimasto dritto», precisa il comandante dei vigili del fuoco di Roma, Alessandro Paola. Questo perché la velocità in quel tratto era ridotta e «lo svio ha interessato probabilmente solo una ruota, che ha abbandonato la guida del binario - aggiunge il comandante Paola - ma le altre hanno tenuto, facendo recuperare la posizione». Sulle cause dell'incidente è stata aperta un'inchiesta, già ieri c'è stato un primo sopralluogo della procura di Roma, che attende un'informativa della Polfer, a cui sono state delegate le indagini.

Tutta l'area è stata messa sotto sequestro, il treno non può essere rimosso fino al completamento degli accertamenti tecnici, la linea dell'alta velocità tra Roma e Napoli rischia di restare ferma tutto il fine settimana. «Speriamo di riuscire a ripristinare l'infrastruttura e far riprendere la circolazione al più presto - dicono da Trenitalia - anche perché domenica sera (domani, ndr) è previsto un forte traffico per il rientro dal ponte del 2 giugno». 

La prospettiva è quella che abbiamo già visto ieri: punte di ritardi fino a due ore, con il rischio che diventino quattro. I treni con fermata a Napoli Afragola sono stati deviati sulla Roma-Cassino o sulla Roma-Formia, per poi rientrare nell'alta velocità e «possono registrare un maggior tempo di percorrenza fino a 150 o, in alcuni casi, a 250 minuti», si legge sul sito di Trenitalia.

Le deviazioni hanno causato forti disagi, con file interminabili di passeggeri in attesa a Roma Termini, Napoli Centrale, ma anche Firenze Santa Maria Novella. Una giornata che lascia anche strascichi politici, con la Lega che annuncia una interrogazione parlamentare al ministro Enrico Giovannini e la richiesta di un'audizione in commissione Trasporti dell'ad di Rfi, Vera Fiorani.

Da liberoquotidiano.it il 6 giugno 2022.

Il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, si è sfogato senza troppi peli sulla lingua in un post Facebook facendo riferimento al referendum del 12 luglio: "A una settimana esatta dai cinque referendum sulla giustizia l'unica vera manifestazione nazionale la stanno facendo i magistrati". 

Quella del direttore assomiglia di più a una promozione per il voto, facendo riferimento al sequestro del binario dove è avvenuto il deragliamento parziale di un treno Frecciarossa venerdì 3 giugno, sbloccato solamente domenica 5 giugno. 

Ci vorranno comunque altri tre giorni lavorativi per riavviare la circolazione ferroviaria.

Ci va giù pesante Mentana: "Tengono sequestrato da 48 ore il tratto di un chilometro di binari a sud di Roma Termini, teatro del deragliamento di venerdì, ritardandone così la riparazione e provocando ritardi di ore a tutto il traffico ferroviario nazionale. 

Il weekend di qualche pm e perito è salvo, quello di milioni di passeggeri meno. E domattina da tanti treni regionali e no potrebbe salire un proposito di punizione referendaria...". 

Il direttore del Tg La7 ha alluso al fatto che ora i passeggeri del ponte del 2 giugno, rovinato da ritardi, ore di attesa e cancellazioni, possano sfogarsi a fare giustizia nelle urne.

I gas, la guerra, la tragedia: "l'inferno tossico" che uccise 600 persone. Mariangela Garofano il 29 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il 2 marzo 1944 un treno merci con più di 600 persone a bordo si arresta a Balvano, in una galleria sulle montagne lucane. I gas tossici sprigionati causeranno una tragedia di enorme portata.  

È il 2 marzo 1944 e la Seconda Guerra Mondiale infuria in Italia, che è divisa lungo la Linea Gotica. Dalla stazione di Napoli parte un treno merci diretto a Potenza. Nonostante non si tratti di un treno passeggeri, nelle varie stazioni tra Napoli e Potenza salgono circa 600 persone, ansiose di raggiungere le campagne lucane per scambiare oggetti in cambio di cibo. Erano i cosiddetti "borsari neri" che, come raccontarono alcuni reportage dell'Europeo del tempo, partivano dalle grandi città per barattare con i contadini beni personali in cambio di qualche pasto per le proprie famiglie. Ma giunto nell’ormai tristemente famosa Galleria delle Armi, nelle vicinanze della stazione di Balvano-Ricigliano, il treno si arresta.

I gas nocivi sprigionati dal mezzo all’interno del tunnel causeranno il decesso di almeno 500 passeggeri, anche se oggi si pensa che il numero di vittime possa essere maggiore. Solo 90 dei passeggeri a bordo si salvano, ma alcuni di essi riportarono danni cerebrali permanenti. Quello di Balvano è considerato il più grave incidente ferroviario per numero di vittime accaduto nel nostro Paese.

L’incidente

Nel pomeriggio del 2 marzo 1944 il treno merci 8017 diretto a Potenza lascia la stazione di Napoli, trainato da una locomotiva elettrica E.626, che a Salerno viene sostituita da due locomotive a vapore per percorrere il tratto dopo Battipaglia, che non era elettrificato. Stazione dopo stazione, il treno si riempie di persone, soprattutto a Napoli, Salerno, Battipaglia ed Eboli. Il treno è così pieno che i soldati alleati - che occupavano la zona dopo l'8 settembre - arrivano a sparare in aria per far scendere la marea umana dentro il convoglio. A Battipaglia vengono aggiunti altri vagoni, cosicché il mezzo arriva a pesare 520 tonnellate, decisamente troppo per affrontare una tratta così difficoltosa. A quel punto il convoglio 8017 attraversa una zona impervia, costituita da numerose gallerie e salite, pericolose per un treno con un carico di persone del genere.

È notte fonda quando, superata la stazione di Balvano-Ricigliano, il treno continua la sua corsa verso la fermata di Bella-Muro Lucano. Ma raggiunta la galleria "delle Armi", lunga quasi due chilometri e caratterizzata da una notevole pendenza, il convoglio si arresta e comincia a procedere all’indietro. Nella galleria era già presente una gran quantità di monossido di carbonio, causata dal passaggio di un’altra locomotiva poco prima. Le due locomotive del treno 8017, collocate erroneamente entrambe in testa, sprigioneranno a loro volta una quantità di gas tale da intossicare i macchinisti e i passeggeri, i quali non riusciranno a scappare in tempo dalla stretta galleria. La maggior parte delle vittime in quel momento stava dormendo e rimarrà asfissiata nel sonno. L’incidente avviene all’una di notte, ma i soccorsi giungeranno sul posto solo alle 7 del mattino.

La situazione che si trovano davanti agli occhi i soccorritori è drammatica: centinaia e centinaia di persone vengono ritrovate addirittura sotto le ruote del treno, in un ultimo, disperato tentativo di fuggire da quell’inferno. I pochi passeggeri scampati alla morte si salvano coprendosi naso e bocca con degli indumenti, ma per la maggior parte di loro non c’è nulla da fare.

Le cause del disastro e il numero imprecisato di vittime

Ancora oggi non si sa con certezza quante furono le vittime che quel 2 marzo 1944 persero la vita sul tratto ferroviario Balvano-Ricigliano. Alcune fonti di stampa dell’epoca parlarono di 502 vittime, mentre secondo le ricerche effettuate dall’avvocato Gianluca Barneschi e raccolte nel libro Balvano 1944 - Indagine su un disastro rimosso i deceduti sarebbero 626.

Le cause che portarono al più grave disastro ferroviario mai accaduto in Italia furono molteplici. La commissione d'inchiesta che si occupò di svolgere le indagini stabilì che lo spropositato numero di persone a bordo del convoglio provocò un sovraccarico e che le autorità competenti preposte alla vigilanza non fecero nulla. Si stima che quel giorno salirono sul treno circa 700 persone, molte abusivamente. Inoltre, come detto, fu un errore posizionare entrambe le locomotive in testa, invece che una in testa e l'altra in coda, così da procedere in trazione simmetrica. Non solo, il monossido di carbonio rilasciato nella galleria dal convoglio appena passato contribuì a rendere l'aria all'interno del tunnel irrespirabile. Infine anche la mancata comunicazione e le incomprensioni tra il personale, quella notte andarono ad aggiungersi alle cause che portarono alla tragedia.

Successivamente si verrà a scoprire che un mese prima della sciagura di Balvano un treno dell'autorità militare statunitense ebbe un incidente simile nella galleria successiva a quella "delle Armi". In quel caso, il personale del convoglio rimase intossicato dai gas rilasciati e dal carbone di scarsa qualità, mentre il macchinista venne schiacciato tra la locomotiva e la motrice. Ma quella che possiamo definire come la più grossa perdita di vite umane avvenuta in un incidente ferroviario in Italia rimase senza colpevoli. Gli inquirenti infatti non perseguirono i responsabili, nonostante le gravi colpe a loro carico.

I familiari di alcune delle vittime fecero causa alle Ferrovie dello Stato, che declinarono ogni responsabilità nella vicenda, affermando che il treno non era predisposto per ospitare passeggeri. Per evitare ulteriori contenziosi venne erogato un indennizzo ai parenti delle vittime, che fu pagato dopo 15 lunghi anni.

Niente treni al Sud, una scelta ideologica non economica. Sembra la domanda dello scemo che, non sapendo di esserlo, l’ha fatta. La diversamente Italia non poteva essere trattata come il resto d’Italia, nel caso il resto d’Italia se la fosse presa. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Maggio 2022.

Vedete, questa questione dei binari al Sud sarebbe ridicola se non fosse tragica. A cominciare da un vecchio amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, col quale si aveva un dibattito del genere seguente. Perché non mette anche al Sud treni veloci come nel resto del Paese? Perché non ci sono passeggeri. Ma se non mette i treni, come può avere passeggeri? Così il Sud non ha avuto a lungo né treni né passeggeri.

Ma chi mastica un po’ di economia sa che è il servizio a creare il mercato, non viceversa. E che se vuoi far sviluppare un territorio la parola è una sola: treno. Così l’America dei pionieri è diventata America. Così fece da noi lo Stato unitario, dimenticando però il Sud come se già da allora fosse un’altra Italia. Anzi quando si è fatta l’Autostrada del Sole per ricucire il Paese spaccato dalla guerra, la ricucitura è arrivata fino a Napoli, punto. ‘O sole mio, trascurando il resto del sole.

Quindi l’Italia attuale è un’Italia recidiva, così, per coerenza. Di recente confermato, del resto, dalla sottosegretaria Bellanova: investire 45 miliardi per risparmiare 20 minuti fra Lecce e Bologna «rischia di essere uno sperpero di risorse». E magari non lo è per far andare in un’ora da Genova a Milano, come stanno facendo ora. Come se solo per il Sud la possibilità dei cittadini di muoversi potesse essere decisa da un amministratore delegato, non fosse un diritto sancito dalla Costituzione. Un diritto pubblico essenziale come, esempio, la sanità e la scuola. Doveva essere lo Stato a imporsi, non i conti di un’azienda che, fra l’altro, era e resta statale, altro che chiacchiere. Ma allora perché i governi non l’hanno fatto?

Sembra la domanda dello scemo che, non sapendo di esserlo, l’ha fatta. La diversamente Italia non poteva essere trattata come il resto d’Italia, nel caso il resto d’Italia se la fosse presa. Puntare sempre su una, e l’altra avrebbe avuto un po’ di molliche per starsi zitta. Mai sia treni come altrove, si fosse messo in testa il Sud di diventare una forza a sé. Si fosse messo in testa di agevolare i suoi viaggiatori, imprenditori, studenti, turisti. Si fosse messo in testa il Sud di non dipendere più dall’altra Italia. Nord ricco in proporzione diretta al Sud meno ricco. Come se dare a uno significasse sempre sottrarre all’altro, non addizionare per tutti. «No treni» come scelta ideologica spacciata per scelta economica. Per restare in tema, la solita locomotiva del Nord che avrebbe tirato i vagoni del Sud.

Ma ora, udite udite, c’è «Verso Sud». Scrive un collega: ma scusa, le cose che ora hanno detto a Sorrento, non le dici tu (con pochi altri) da sempre? Sud essenziale per far crescere l’intero Paese? Ma ora serve il Sud alla canna del gas, come ha scritto il sulfureo Marcello Veneziani. Serve perché l’energia che mancherà potrà arrivare solo dal Sud, fra pale eoliche sul posto e tubi che lo buchereranno per far arrivare il gas da ogni dove. Quanto ai treni, la «Gazzetta» in questi giorni ha già fatto capire l’aria: Bari-Napoli diretta nel 2027, se va tutto bene; Taranto-Potenza-Battipaglia allo stato di fattibilità; raddoppio Termoli-Lesina appena cominciato dopo anni di stop per l’uccello fratino.

Ma nulla che non sia roba da anni ‘70.

Nulla che riguardi il Pnrr, anche se lo si spaccia. Nulla che faccia dire: si è capita la rendita di posizione del Sud nel Mediterraneo, mettiamola a frutto per il Sud e per l’intero Paese. Nulla che faccia pensare a una visione per il Sud: cosa diventare da grande, non come ci serve ora. Ma non giudichiamo troppo in fretta questo ennesimo «rilancio del Sud», mai nessuno tanto rilanciato da andare solo a sbattere. Non dimenticando mai la «trappola del sottosviluppo».

È il moltiplicatore per cui, se un ragazzo del Sud è costretto ad andare a studiare fuori (perché le università del Sud sono sottofinanziate rispetto alle altre, incredibile), non solo toglie al Sud ma aggiunge al Nord: scappato per un divario che egli contribuisce ad aumentare scappando. E così un malato che va a curarsi fuori (perché anche gli ospedali sono sottofinanziati): più vanno, di meno posti letto avrebbe bisogno il Sud, che così vengono eliminati costringendo altri malati ad andare fuori. Sembra una barzelletta. Un meccanismo automatico che si interrompe cambiando le regole. Cominciando a dare treni, e ospedali, e università che blocchino il meccanismo. Quello che fa mancare al Sud tre milioni di posti di lavoro e il 50 per cento del reddito che ha il Centro Nord.

Questo Sud che vuole essere assistito, ammesso che così fosse. Quando invece, come visto, assiste il Nord. Ma sai, cinicamente: o mi sviluppi, o mi assisti.

"Una fatalità". Il fango, i morti e quei pini che salvarono molte vite. Angela Leucci l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'incidente ferroviario di Laces causò la morte di 9 persone e il ferimento di altre 28: come si comprese subito, si trattò di una tragica fatalità.

Immaginate di essere su un treno. È lo stesso treno che ogni giorno vi porta al lavoro o a scuola. Forse invece siete un cicloturista trepidante dal desiderio di visitare la Val Venosta in tutta la sua bellezza naturale. Qualcosa però una mattina non va come di consueto: una frana investe il treno, che rischia di finire nel fiume, tuttavia alcuni alberi riescono a salvare molte vite.

Ma non tutte: 9 morti e 28 feriti, tra cui 7 molto gravi, è il bilancio dell’incidente che coinvolse il treno regionale 108 della Sad nel territorio del comune di Laces, avvenuto il 12 aprile 2010. Fu una sfortunatissima coincidenza a causarlo, la giustizia non individuò nessuna responsabilità umana.

La dinamica dell’incidente

La linea ferroviaria della Val Venosta, inaugurata nel 2005, è sempre molto trafficata: su questa linea viaggiano molti pendolari nei giorni feriali, mentre nel fine settimana è affollata di turisti. È efficiente e molto moderna. Nulla lasciava presagire quello che è accaduto.

Il regionale 108 viaggiava da Malles a Merano. Una tratta veloce, con partenza alle 8.20 e arrivo alle 9.43. La sua corsa si ferma però alle 9.05 tra Laces e Castelbello, su un binario situato in una stretta gola dove solo due minuti prima era transitato un altro treno, quando una frana di 400 metri cubi investe letteralmente un treno in viaggio, come riporta Ferrovie.

Un gran rumore accompagna l’evento tragico: il convoglio deraglia per i detriti dello smottamento e precipita nella vallata, il primo vagone è completamente sventrato, invaso dal fango, ma il treno riesce a fermare la sua caduta verso l’Adige grazie a dei fitti pini. Quegli alberi salvarono quindi molte vite umane. 

“Una incredibile fatalità - disse dopo l'incidente a Repubblica Helmuth Moroder, direttore della linea ferroviaria - l'impianto è infatti munito di un sistema di sicurezza che provvede a un blocco automatico nel caso della caduta di una frana sulla massicciata. È stata una questione di pochi minuti. Poco prima era passato un altro treno. A far cadere la frana è stata la rottura di un tubo per l'irrigazione dei campi a monte della massicciata”.

Le vittime e i feriti

“Il vagone era pieno di persone - commentò al Corriere della Sera il responsabile dei vigili del fuoco di Bolzano Florian Schrofenneger - come è normale a quell’ora”. Mentre, come detto, i feriti sono stati 28, immediatamente soccorsi e portati in ospedale, i morti furono 9, tutti locali.

Erano Michaela Kuenz Oberhofer di 18 anni, Elisabeth Peer di 22 anni, Julian Hartmann di 25 anni, Francesco Rieger di 67 anni, Judith Tappeiner di 20 anni, Rosina Ofner di 36 anni, Regina Tschoell di 73 anni, Micaela Zosch di 34 anni e Franz Hohenegger di 73 anni. Tra loro, c’era anche il macchinista, Hartmann. 

Grande fu il lavoro dei vigili del fuoco per recuperare i loro corpi nel fango. “È una scena agghiacciante - disse al Corriere un pompiere all’epoca - il treno è pieno di terra e di fango. Dobbiamo lavorare con le mani, è una cosa tremenda”. A perenne memoria dell’incidente, in quel luogo è stata posta una stele commemorativa.

L’indagine e il processo

La causa dell’incidente, o meglio dello smottamento che investì il veicolo ferroviario, fu individuata in una valvola difettosa: questa permise, un paio di giorni prima del disastro, la rottura di un tubo per l’irrigazione e quindi una grossa infiltrazione d’acqua nel terreno posto al di sopra della tratta.

Fu aperta un’indagine dalla procura di Bolzano, che iscrisse nel registro degli indagati 8 persone tra i proprietari del terreno e i gestori dell’impianto di irrigazione. Le ipotesi di reato furono omicidio plurimo colposo, procurata frana e disastro ferroviario. Al vaglio dei carabinieri ci fu anche la scatola nera, fortemente danneggiata nel deragliamento. Furono però tutti assolti nel processo che durò da gennaio 2013 a novembre 2015: nessun essere umano aveva avuto un ruolo in questa tragedia. Come fin dall’inizio si era compreso, si trattò di una drammatica fatalità.

"Sono uscita dal finestrino". L’ultimo viaggio della Freccia della Laguna. Angela Leucci il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'incidente di Rometta Messinese causò la morte di 8 persone, mentre altre 47 furono ferite gravemente: la colpa fu di un giunto.

Otto vittime, quelle di una tratta ferroviaria che univa il Sud al Nord. L’incidente di Rometta Messinese, chiamata anche Rometta Marea, è stato uno dei grandi disastri ferroviari italiani del nuovo millennio.

È avvenuto il 20 luglio 2002 su un treno chiamato Freccia della Laguna, poiché univa Palermo a Venezia. Era un espresso, il 1932, munito di 7 vagoni tra cui cuccette e vagoni letto dati i lunghi viaggi che effettuava. Questo fu il suo ultimo viaggio: i resti del convoglio furono demoliti dopo l’incidente, ma l’avvenimento luttuoso resta a perenne memoria grazie a una stele posta nel 2016 nella villa comunale di Rometta, insieme a un albero d’ulivo.

Sulla stessa tratta, nel giugno 1979, c’era stato uno scontro frontale tra due treni nella galleria Sant’Antonio, poco distante da Rometta Messinese, con un bilancio di 12 morti.

L’incidente

La Freccia della Laguna partì intorno alle 16 da Palermo. L’arrivo previsto a Venezia Santa Lucia era fissato per le 10.10 del giorno successivo. Ma il treno si fermò per sempre in Sicilia. Si sa che aveva lasciato la stazione di Milazzo per dirigersi verso Messina con 190 passeggeri a bordo, più il personale del convoglio.

Alle 18.56, il treno, che procedeva a una velocità di 105 chilometri all’ora (il limite era 120 chilometri all’ora), deragliò, investendo e sventrando la casa cantoniera, come riporta AmNotizie, mentre la motrice, ruotando di 180 gradi, finì prima in un torrente e successivamente restò in bilico su una scarpata, dopo aver sbattuto contro le paratie di un viadotto in cemento. Per un puro caso il casello era vuoto: gli occupanti in quel momento erano tutti al mare. Come riporta Ferrovie, la motrice era una Casaralta-Asgen del 1976 che per 26 anni non aveva mai avuto problemi durante i suoi viaggi. 

“Ricordo confusione, scene terrificanti - ha raccontato una passeggera che era salita a Milazzo, come riporta Repubblica - Abbiamo preso in pieno una casa, il treno ha sbandato, le valigie cadevano da tutte le parti, poi urla, paura, sono uscita dal finestrino, e poi ho aiutato altre persone a uscire dai finestrini, tutto intorno era terrificante, ho fatto quello che potevo, e stato terribile”.

Ma lo scontro non fu la fine: persero la vita in 8 a causa del disastro. Uno di loro era il macchinista Saverio Nania, 43 anni. Nania era tra coloro che avevano segnalato delle anomalie durante un collaudo recente del convoglio e della tratta.

C’erano, tra le vittime, anche un pensionato, Placido Caruso di 76 anni, una giovane italiana residente in Germania, Giuseppina Mammana di 22 anni, un impiegato comunale di Milazzo, Stefano La Malfa di 51 anni, e una famiglia marocchina di quattro persone: Ali Abdelhakim, Hanja Abdelhakim, Miloudi Abdelhakim, Fatima Fauhreddine. Solo i due bimbi che facevano parte della famiglia si salvarono.

Ci furono anche 47 feriti, tra cui 7 gravi. Tra i feriti gravi figurava anche il secondo macchinista Marcello Ranieri. Ci furono anche altri 11 feriti lievi. I maggiori danni furono riscontrati su chi si trovata nei primi tre vagoni.

Le cause 

Non era stato il crollo di un ponte a determinare l’incidente, come già si seppe all’indomani della tragedia. Al fine di individuare le cause dell’incidente furono avviate le indagini della Procura di Messina, delle Ferrovie dello Stato e del Ministero dei Trasporti. La procura, in particolare, accertò che il convoglio era stato revisionato e procedeva alla velocità consentita: tuttavia durante il collaudo erano stati evidenziati degli sbandamenti insoliti. Si pensò, come riporta Messina Today anche a un errore umano, ma il problema fu riscontrato su un binario: erano stati da poco eseguito dei lavori di manutenzione, ma ciononostante un giunto della rotaia aveva inesorabilmente ceduto.

I processi

I tempi della giustizia sono stati lunghissimi, a fronte di un’accusa emessa dalla procura che parlava di omicidio plurimo colposo e disastro ferroviario. Sotto la lente del tribunale finirono la ditta che aveva svolto la manutenzione e i collaudatori delle ferrovie, in tutto quattro persone. Nel 2011 arrivò la sentenza di primo grado: gli indagati furono ritenuti parzialmente responsabili, perché intanto erano cadute in prescrizione le accuse di omicidio colposo (nel caso delle vittime) e lesioni colpose (per quanto riguarda i feriti). In secondo grado due degli indagati furono assolti e agli altri due la pena fu condonata.

Ignazio Riccio per ilgiornale.it il 23 aprile 2022.

I pendolari veneti sono nuovamente in allarme: il controllore più severo d’Italia sta per ritornare sui vagoni di Trenitalia dopo la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione. I giudici hanno dato ragione al dipendente zelante che nel 2017 era stato licenziato dalla sua azienda per giusta causa. 

Il suo comportamento, secondo i vertici di Trenitalia, aveva creato un danno d’immagine e problemi economici alla società partecipata. Il capotreno era diventato il bersaglio dei passeggeri per la sua proverbiale inflessibilità. In due anni aveva comminato migliaia di multe, effettuando verifiche maniacali su ogni utente; era diventato un incubo per i cittadini del Veneto, in particolare di Venezia, dove il controllore prestava servizio.

In ventiquattro mesi, comunque, il dipendente di Trenitalia ha compito anche molti errori; l’azienda ne ha contati 175 e per questo motivo ha deciso di mandare a casa il lavoratore. 

Non solo i passeggeri si lamentavano della troppa solerzia del controllore 60enne, ma i suoi sbagli sono costati un po’ di soldi alla società, quasi 10mila euro di mancati introiti, in seguito ai ricorsi effettuati dagli utenti. In diverse occasioni, il capotreno aveva applicato sanzioni di testa sua, senza tener conto del regolamento ferroviario. Perso il lavoro, il dipendente non si è dato per vinto e si è appellato ai giudici per essere reintegrato.

I suoi avvocati, come riporta il Corriere del Veneto, hanno fatto appello al numero esiguo di errori commessi dal loro cliente, appena il 3,5% delle multe che aveva disposto, ben 5mila in due anni. Il controllore ha vinto in tutti i gradi di giudizio, nonostante Trenitalia abbia fatto di tutto per evitare di reintegrare il proprio dipendente. Neppure il richiamo alla mancanza di fiducia nei confronti del lavoratore ha fatto cambiare idea ai magistrati.

La Suprema Corte ha stabilito che, seppure il capotreno si è dimostrato inflessibile e puntiglioso, lo ha fatto sempre negli interessi dell’azienda e non per un tornaconto personale. Anche gli errori commessi sono una conseguenza dell’eccesso di zelo del controllore, un atteggiamento che non va perseguito. 

Il capotreno licenziato (e poi reintegrato) perché faceva troppe multe: «Non sono spietato. I passeggeri mi adorano». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.

Francesco Bonanno era stato licenziato perché troppo severo, ma ha vinto in tribunale ed è stato reintegrato: «Incubo finito. Non sono un cacciatore di taglie, ma sul lavoro serve rigore. A casa sono molto accomodante». 

Sta lavorando?

«Ovvio, ho iniziato all’alba. Adesso il treno è fermo a Bologna e ho un’ora di pausa prima di ricominciare…».

Dica la verità, quante multe ha fatto oggi?

«Ancora nessuna, lo giuro».

Francesco Bonanno, 61 anni, origini siciliane e veneziano (di Jesolo) d’adozione, è il capotreno che nel gennaio del 2017 fu licenziato «per giusta causa» da Trenitalia che gli contestava di aver compiuto 175 errori nell’emissione dei titoli di viaggio destinati ad altrettanti passeggeri che aveva «pizzicato» a viaggiare a sbafo perché sprovvisti di biglietto oppure con un ticket non timbrato o non corretto per quella tratta. Lui ha fatto causa all’azienda spiegando ai giudici che quelle infrazioni rappresentavano il 3,5% delle migliaia di multe che aveva fatto in quegli ultimi due anni. Un record.

Tutti i tribunali gli hanno dato ragione e nei giorni scorsi la Cassazione ha chiuso il caso annullando il licenziamento. Nelle sentenze i giudici lo descrivono come un controllore di «zelo non comune, inflessibile ed estremamente puntiglioso nell’elevare contravvenzioni», un pubblico ufficiale dotato di una «intransigenza zelante». Le infrazioni? Non certo compiute «con finalità esclusive di lucro né in mala fede contro l’azienda». Anzi, gli «errori nello svolgimento dell’attività di controllo» sono da considerarsi «un effetto indiretto dell’eccesso di zelo». Il suo avvocato, Lucio Spampatti, ancora non ci crede: «Non avevo mai visto licenziare un dipendente perché lavora troppo. Una storia paradossale, considerando che stiamo parlando di un capotreno che, a furia di scoprire viaggiatori irregolari, ha fatto guadagnare a Trenitalia oltre 200 mila euro».

Bonanno da un paio d’anni (dopo che anche la corte d’Appello di Venezia gli aveva dato ragione) è tornato al suo posto. «È la fine di un incubo», racconta. «Fin dall’inizio il giudice del lavoro mi aveva dato ragione e l’azienda mi aveva reintegrato senza riassumermi: sono rimasto a casa per un anno e mezzo percependo lo stipendio senza lavorare. Per me non era una questione di soldi: volevo tornare a indossare la mia divisa. Amo questo mestiere e ho grande rispetto per Trenitalia. Provengo da una famiglia di ferrovieri e fin da bambino sognavo di trascorrere la mia giornata andando su e giù per i vagoni».

C’è riuscito.

«Trentotto anni di carriera. Chiudere con l’onta di un licenziamento sarebbe stato orribile».

Per i giudici lei è «inflessibile e puntiglioso». Ma quante multe ha fatto?

«Nel biennio preso in esame da Trenitalia 0ltre 5 mila».

Allora lo vede che hanno ragione? È spietato...

«Macché, lo chieda ai miei figli: in famiglia sono fin troppo accomodante. Non sono un cacciatore di taglie, ma sul lavoro ci vuole rigore, devo impegnarmi affinché tutti i passeggeri viaggino con regolare biglietto. Non sono mai autoritario né prepotente, è una questione di civiltà».

È lo spauracchio dei passeggeri...

«Al contrario, mi adorano. Perché i “furbetti” sono una minima parte. La quasi totalità degli italiani paga il biglietto e mal sopporta l’idea che ci sia chi gode dello stesso servizio senza sborsare un soldo. I passeggeri capiscono che io e i miei colleghi ci diamo da fare per evitare un’ingiustizia. Le dirò di più: la gran parte dei multati mi dice “so che sta facendo il suo lavoro”. Ecco, è il mio lavoro. Poi, certo, a volte qualcuno dà i numeri».

Cosa le è capitato?

«Qualche anno fa, a Vicenza, ho trovato una signora che viaggiava sprovvista di biglietto e con il cane senza museruola. Quando ha capito che l’avrei fatta scendere alla fermata successiva è andata su tutte le furie e mi ha aggredito. Cose che capitano».

I colleghi cosa pensano del suo record di «produttività»?

«Molti mi hanno espresso solidarietà. Ma c’è anche qualcuno che non sopporta il mio modo di lavorare, mi accusano di essere troppo rigido, sparlano alle mie spalle. Io però vado dritto per la mia strada: sui treni viaggia soltanto chi ha il biglietto».

"Sono uscita dal finestrino". L’ultimo viaggio della Freccia della Laguna. Angela Leucci il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'incidente di Rometta Messinese causò la morte di 8 persone, mentre altre 47 furono ferite gravemente: la colpa fu di un giunto.

Otto vittime, quelle di una tratta ferroviaria che univa il Sud al Nord. L’incidente di Rometta Messinese, chiamata anche Rometta Marea, è stato uno dei grandi disastri ferroviari italiani del nuovo millennio.

È avvenuto il 20 luglio 2002 su un treno chiamato Freccia della Laguna, poiché univa Palermo a Venezia. Era un espresso, il 1932, munito di 7 vagoni tra cui cuccette e vagoni letto dati i lunghi viaggi che effettuava. Questo fu il suo ultimo viaggio: i resti del convoglio furono demoliti dopo l’incidente, ma l’avvenimento luttuoso resta a perenne memoria grazie a una stele posta nel 2016 nella villa comunale di Rometta, insieme a un albero d’ulivo.

Sulla stessa tratta, nel giugno 1979, c’era stato uno scontro frontale tra due treni nella galleria Sant’Antonio, poco distante da Rometta Messinese, con un bilancio di 12 morti.

L’incidente

La Freccia della Laguna partì intorno alle 16 da Palermo. L’arrivo previsto a Venezia Santa Lucia era fissato per le 10.10 del giorno successivo. Ma il treno si fermò per sempre in Sicilia. Si sa che aveva lasciato la stazione di Milazzo per dirigersi verso Messina con 190 passeggeri a bordo, più il personale del convoglio.

Alle 18.56, il treno, che procedeva a una velocità di 105 chilometri all’ora (il limite era 120 chilometri all’ora), deragliò, investendo e sventrando la casa cantoniera, come riporta AmNotizie, mentre la motrice, ruotando di 180 gradi, finì prima in un torrente e successivamente restò in bilico su una scarpata, dopo aver sbattuto contro le paratie di un viadotto in cemento. Per un puro caso il casello era vuoto: gli occupanti in quel momento erano tutti al mare. Come riporta Ferrovie, la motrice era una Casaralta-Asgen del 1976 che per 26 anni non aveva mai avuto problemi durante i suoi viaggi. 

“Ricordo confusione, scene terrificanti - ha raccontato una passeggera che era salita a Milazzo, come riporta Repubblica - Abbiamo preso in pieno una casa, il treno ha sbandato, le valigie cadevano da tutte le parti, poi urla, paura, sono uscita dal finestrino, e poi ho aiutato altre persone a uscire dai finestrini, tutto intorno era terrificante, ho fatto quello che potevo, e stato terribile”.

Ma lo scontro non fu la fine: persero la vita in 8 a causa del disastro. Uno di loro era il macchinista Saverio Nania, 43 anni. Nania era tra coloro che avevano segnalato delle anomalie durante un collaudo recente del convoglio e della tratta.

C’erano, tra le vittime, anche un pensionato, Placido Caruso di 76 anni, una giovane italiana residente in Germania, Giuseppina Mammana di 22 anni, un impiegato comunale di Milazzo, Stefano La Malfa di 51 anni, e una famiglia marocchina di quattro persone: Ali Abdelhakim, Hanja Abdelhakim, Miloudi Abdelhakim, Fatima Fauhreddine. Solo i due bimbi che facevano parte della famiglia si salvarono.

Ci furono anche 47 feriti, tra cui 7 gravi. Tra i feriti gravi figurava anche il secondo macchinista Marcello Ranieri. Ci furono anche altri 11 feriti lievi. I maggiori danni furono riscontrati su chi si trovata nei primi tre vagoni.

Le cause 

Non era stato il crollo di un ponte a determinare l’incidente, come già si seppe all’indomani della tragedia. Al fine di individuare le cause dell’incidente furono avviate le indagini della Procura di Messina, delle Ferrovie dello Stato e del Ministero dei Trasporti. La procura, in particolare, accertò che il convoglio era stato revisionato e procedeva alla velocità consentita: tuttavia durante il collaudo erano stati evidenziati degli sbandamenti insoliti. Si pensò, come riporta Messina Today anche a un errore umano, ma il problema fu riscontrato su un binario: erano stati da poco eseguito dei lavori di manutenzione, ma ciononostante un giunto della rotaia aveva inesorabilmente ceduto.

I processi

I tempi della giustizia sono stati lunghissimi, a fronte di un’accusa emessa dalla procura che parlava di omicidio plurimo colposo e disastro ferroviario. Sotto la lente del tribunale finirono la ditta che aveva svolto la manutenzione e i collaudatori delle ferrovie, in tutto quattro persone. Nel 2011 arrivò la sentenza di primo grado: gli indagati furono ritenuti parzialmente responsabili, perché intanto erano cadute in prescrizione le accuse di omicidio colposo (nel caso delle vittime) e lesioni colpose (per quanto riguarda i feriti). In secondo grado due degli indagati furono assolti e agli altri due la pena fu condonata.

La curva a tutta velocità, poi la strage: quei morti sul "Pendolino". Mariangela Garofano il 10 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il 12 gennaio 1997 il Pendolino "Botticelli" diretto a Roma deraglia nei pressi della stazione di Piacenza, uccidendo 8 persone e ferendone 36.  

Il 12 gennaio 1997 alle ore 12.55, dalla stazione di Milano parte il treno ad alta velocità Eurostar 9415 “Botticelli”, diretto a Roma. È una fredda giornata invernale e una fitta nebbia avvolge la Pianura Padana. In prossimità della stazione di Piacenza, all’imbocco di una curva, la carrozza di testa si stacca dal resto del convoglio, si ribalta, colpisce alcuni pali della linea aerea di contatto e si spezza in due tronconi.

Ma la carrozza di testa non sarà l'unica a deragliare: trascinerà infatti con sé altri sei vagoni. Si salveranno dal deragliamento solo le ultime due carrozze, che rimarranno miracolosamente sui binari. A seguito del grave incedente perderanno la vita i due macchinisti, due agenti della Polizia Ferroviaria, due hostess in servizio, due passeggere e rimarranno ferite 36 persone.

A bordo del Pendolino numero 29 quel giorno viaggiava anche il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, uscito illeso dall’incidente. Il caso volle che il senatore si trovasse nel vagone ristorante, e non al suo posto, che era proprio nella sfortunata carrozza di testa. La presenza a bordo del treno dell'ex presidente sollevò il dubbio che la causa dell'incidente fosse da attribuirsi a un attentato nei suoi confronti, come lui stesso affermò subito dopo il deragliamento. Ma la teoria venne presto accantonata.

Le cause dell’incidente e le indagini 

Sebbene non si trattasse del primo grave incidente ferroviario accaduto in Italia, quello di Piacenza scosse notevolmente l’opinione pubblica. Questo perché, come si legge su DeepBlue, a deragliare fu il Pendolino, uno dei fiori all’occhiello del progresso tecnologico nel campo dei trasporti ferroviari dell’epoca, nonché dell'alta velocità.

Arrivando sul posto, i soccorritori trovarono la prima carrozza completamente distrutta così come il vano macchinisti, che era totalmente accartocciato. Nelle prime ore dopo il disastro, mentre era ancora in corso il recupero delle vittime e dei feriti, ci si interrogò sulle cause che portarono uno dei treni più sicuri del Belpaese a deragliare.

Si pensò a un attentato, per la presenza a bordo del treno di Francesco Cossiga e anche a un "ostacolo" sui binari, tesi entrambe scartate. In seguito si fece strada un'altra improbabile ipotesi, ovvero che l’incidente fosse stato causato dal presunto stato di ubriachezza dei due macchinisti. Ma gli inquirenti smentirono la teoria, per “carenza di elementi probatori", come riporta il sito Ferrovie.

Venne presa in considerazione anche una possibile frattura dell'albero di trasmissione anteriore della motrice di testa, che cadendo sul binario avrebbe sollevato il primo vagone, ma anche questa pista fu accantonata, in quanto considerata improbabile. La Fiat Ferroviaria infatti, aveva da poco effettuato delle modifiche agli alberi di trasmissione delle motrici, proprio per evitare un possibile deragliamento, ingabbiandoli in griglie di acciaio.

Cosa aveva provocato quindi la tragedia? Gli inquirenti infine attribuirono le cause della sciagura all’eccessiva velocità a cui viaggiava il treno sulla curva incriminata. Il limite di velocità era di 105 chilometri all'ora, mentre il Pendolino andava a 160 chilometri all'ora, ben 55 più del consentito.

I sistemi di sicurezza ferroviari 

Fino al 1992 i sistemi di sicurezza e segnalamento ferroviario azionavano automaticamente la frenatura dei convogli che, sulla curva in cui si verificò l’incidente, superavano i 115 chilometri all'ora. Ma dal 1992 in poi il limite di velocità dopo il quale scattava la frenatura automatica era stato portato a 185 chilometri all'ora, superando di gran lunga la velocità a cui viaggiava il Botticelli al momento del deragliamento.

Inoltre all’epoca dell’incidente di Piacenza non era stato ancora introdotto il Sistema di Controllo della Marcia Treno (Scmt), che venne installato sui treni a partire dal 2003. L’Scmt è un sistema che vigila sul comportamento del macchinista, qualora questo portasse il convoglio a una velocità superiore al consentito, frenando automaticamente fino ad arrestare il mezzo.

Le indagini per stabilire le responsabilità del disastro ferroviario di Piacenza si conclusero con il processo di 25 dirigenti delle Ferrovie dello Stato, per i reati di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e disastro ferroviario colposo. Nel 2001 i dirigenti furono assolti per non aver commesso il fatto.

Fabio Polese per “il Giornale” il 22 marzo 2022.

La leggendaria Transiberiana, che con i suoi 9.288 chilometri da percorrere collega la Russia occidentale a quella orientale, da Mosca a Vladivostok, passando per la Siberia, rimarrà la singola ferrovia più lunga al mondo. Ma ora, per gli amanti dell'avventura e dei viaggi estremi in treno, si è aperta una nuova sfida, tutta da scoprire. 

Con un incastro di diverse linee ferroviarie, infatti, sarà possibile partire da Lagos, nella regione di Algarve, la zona più a Sud del Portogallo, e arrivare a Singapore, attraversando il cuore d'Europa, fino all'Estremo Oriente, per un totale di 18.755 chilometri da fare vista finestrino.  

Secondo l'esperto Mark Smith, che gestisce il sito sui viaggi in treno a lunga distanza Seat61.com e che ha incastonato pezzo dopo pezzo questo lungo percorso su rotaie, il costo totale dei biglietti dei treni si aggirerebbe sui 1.200 euro e servirebbero 21 giorni per percorrerlo completamente, includendo le fermate forzate per fare i visti necessari e sbrigare scartoffie e pratiche burocratiche.

L'epico viaggio, che è ad ora il più lungo del mondo da percorrere in treno, passerà per ben tredici Paesi, tra cui la Spagna, la Polonia, la Bielorussia fino alla Mongolia, toccando, almeno per un attimo, la magia di Parigi, Mosca e Pechino e incontrando paesaggi e culture completamente diverse. In alcuni casi, però, sarà necessario fare degli spostamenti interni, da una stazione all'altra di una stessa città, per cambiare linea e poter ripartire verso la nuova destinazione. 

Fino all'inizio di dicembre il punto di arrivo più lontano da poter raggiungere era il Vietnam, per un totale di 16.898 chilometri da percorrere. Ma grazie alla recente inaugurazione la nuova linea ferroviaria inaugurata in Laos all'inizio di dicembre, prenderà vita il viaggio in treno più lungo del mondo.

Partenza dal Portogallo zione di una nuova linea ad alta velocità di circa 420 chilometri, che collega Kunming, città nella provincia dello Yunnan nella Cina Meridionale, fino a Vientiane, la capitale del Laos, ora è diventato possibile arrivare in Thailandia, passare per Bangkok - la Città degli Angeli -, attraversare la Malesia e spingersi ancora più a sud, fino a Singapore, il capolinea del viaggio su rotaie più lungo sulla terra. 

«È un risultato davvero impressionante. In precedenza potevi andare solo a sud fino a Saigon e poi prendere un autobus e attraversare la Cambogia», ha detto Smith al quotidiano britannico Daily Mail. Per percorrere questa avventura al completo, però, bisognerà aspettare che saranno allentate le restrizioni dovute alla pandemia. I confini di Russia e Cina, infatti, sono ancora chiusi e alcune tratte al momento risultano sospese fino a nuove disposizioni. Compresa quella appena aperta in Laos. 

«Ci saranno due servizi giornalieri tra Vientiane e Luang Prabang, con uno esteso a Boten sul confine cinese. A causa di Covid-19, i treni transfrontalieri non sono ancora in funzione», ha spiegato l'esperto dei viaggi su rotaie. Ma se si è alla ricerca di un'esperienza davvero unica, che per molti potrebbe sembrare una vera e propria follia, e in particolare si è amanti dei viaggi in treno, vale davvero la pena aspettare. Questa, infatti, potrebbe essere l'avventura perfetta da fare almeno una volta nella vita.

Da firenze.repubblica.it il 7 marzo 2022.

L'ex ad di Ferrovie Mauro Moretti ha dichiarato di non rinunciare alla prescrizione nel processo di appello bis per la strage di Viareggio, in relazione al reato di omicidio colposo. Lo ha detto lui stesso alla corte di Firenze in apertura di udienza. Nel primo appello invece Moretti rinunciò alla prescrizione e fu condannato a 7 anni in primo e secondo grado. 

La prescrizione garantisce a Moretti di non essere processato per omicidio colposo. E questo ha mandato su tutte le furie alcuni familiari delle vittime della strage di Viareggio al termine dell'udienza davanti alla corte di appello di Firenze: si sono avvicinati al banco dove era seduto Moretti gridandogli ad alta voce: 'Vergogna!'. 

Moretti si è alzato e si è subito allontanato, quindi c'è stato un applauso polemico da parte di tutti i familiari seduti nei posti del pubblico. Una familiare, Daniela Rombi, ha detto ad alta voce in aula: "Io piango mia figlia. Dovete stare tutti zitti, è una vergogna. Lui è il capo, è stato condannato e ora non rinuncia alla prescrizione". 

La Cassazione annullando con rinvio la sentenza aveva stabilito che Moretti dovesse chiarire di nuovo in appello bis l'intenzione di rinunciare o no alla prescrizione dal momento che vi rinunciò prima che cadesse in prescrizione l'accusa di omicidio colposo plurimo venuto meno per la caduta dell'aggravante della violazione di norme sulla sicurezza sul lavoro. Sembrava che l'ex ad volesse di nuovo rinunciare alla prescrizione per dimostrare in processo la propria innocenza, ma poi ha scelto un'altra strada.

"La Cassazione ha chiesto che la Corte d'appello chiedesse all'ingegnere Moretti se intendesse o meno rinunciare alla prescrizione per il solo reato di omicidio colposo. Il signor Moretti oggi ha dichiarato che non intende rinunciare alla prescrizione per il reato di omicidio colposo. Alla scorsa fase, alla fase di appello, l'ingegnere aveva rinunciato alla prescrizione per l'incendio e per le lesioni personali. Quindi oggi la sua posizione è omogenea con tutti quelli i quali non hanno rinunciato alla prescrizione per l'omicidio colposo". Lo ha detto all'Adnkronos l'avvocato Ambra Giovene, difensore di Mauro Moretti, spiegando la posizione del suo assistito nel processo di appello bis per la strage ferroviaria di Viareggio.

Spiegazioni che non hanno placato l'ira dei familiari delle vittime, tra cui quelli dell'associazione 'Il mondo che vorrei', che si sono avvicinati al banco dove sedeva Moretti e hanno avuto un faccia a faccia con alcuni avvocati difensori. "Quello che hanno detto gli avvocati verso Daniela e le altre mamme è inaccettabile - riferisce il presidente dell'associazione Marco Piagentini - E' inaccettabile perché loro sanno benissimo le condizioni morali di coloro che sono lì. Noi abbiamo perso i figli, loro dovevano stare zitti e andare via, invece si sono messi addirittura a registrare, quasi fossimo dei black bloc". 

"Nel primo processo di appello - prosegue Piagentini - Moretti ha rinunciato alla prescrizione e si è dichiarato innocente. Adesso che non rinuncia ci dice lui che è colpevole, e ce lo dice la sentenza della Cassazione".

"Ci hanno levato i figli - aggiunge Daniela Rombi-, le mamme posso sempre parlare. Moretti ha avuto paura, ha detto due parole sottovoce 'non rinuncio', poi non ha avuto il coraggio di guardarci negli occhi, se ne è andato via, nel sottosuolo come i topi. Noi parenti delle vittime siamo all'ergastolo tutta la vita, ma lui ha avuto paura e si è rimangiato tutto". 

In corteo, in silenzio, i familiari delle vittime della strage di Viareggio del 29 giugno 2009 hanno raggiunto il palazzo di giustizia di Firenze dove si è aperta la prima udienza del processo di appello-bis per il disastro ferroviario che causò 32 morti, incendi alle case e ingenti danni materiali. Il corteo è stato aperto da una grande bandiera della pace.

Ma il processo è stato subito rinviato per la mancata traduzione in tedesco della sentenza di Cassazione. Il pg di Firenze Sergio Affronte si è dichiarato favorevole al rinvio. Sono state le difese degli imputati tedeschi in apertura di udienza a presentare istanza di rinvio per questo problema. 

Il nuovo processo di appello è stato disposto dalla Corte di Cassazione che ha annullato con rinvio la sentenza di secondo grado per 16 imputati, tra i quali gli ex vertici delle Ferrovie Mauro Moretti, Michele Mario Elia, Vincenzo Soprano e Mario Castaldo, oltre a dirigenti e tecnici di aziende ferroviarie austriache e tedesche addette al controllo e alla manutenzione dei carri merci. Per questi imputati la Suprema Corte ha escluso l'aggravante sulle norme di sicurezza, non riconoscendo il disastro ferroviario come incidente sul lavoro e così facendo scattare di conseguenza la prescrizione per questo reato. 

Ora la Corte di Appello di Firenze, presieduta dal giudice Angelo Grieco, nel processo bis dovrà rideterminare le pene delle condanne inflitte in precedenza, considerando che l'unico reato che viene contestato agli imputati è quello di disastro ferroviario. Nel corso del primo appello Mauro Moretti aveva rinunciato ad avvalersi della prescrizione. Secondo quanto stabilito dalla Cassazione, tuttavia, in occasione del rinvio Moretti dovrà confermare o meno l'intenzione di rinunciare alla prescrizione. Il processo è stato rinviato al 7 aprile.

Giorgio Meletti per editorialedomani.it il 9 marzo 2022.

Quello che è successo lunedì scorso alla Corte di appello di Firenze illustra compiutamente il degrado del sistema giudiziario italiano. Si è aperto il processo di appello bis per la strage di Viareggio (29 giugno 2009) ed è stato chiesto dai giudici all'imputato Mauro Moretti, ex numero uno delle Fs, se intendeva rinunciare alla prescrizione, nel frattempo maturata. Lui ha risposto con due sole parole: «Non rinuncio».

L’udienza si chiude, la corte esce dall'aula e a questo punto, come se fosse normale, come se si fosse al bar, in un talk show o in un saloon, alcuni familiari delle vittime si avvicinano a Moretti e, secondo i resoconti “ufficiali”, gli gridano «vergogna!». 

Di fatto hanno notificato al noto manager anche di ritenerlo una merda e un verme. Poi hanno affrontato l'avvocata di Moretti, Ambra Giovene. Magistrati, avvocati e forze dell’ordine presenti non hanno fatto una piega.

Secondo le cronache Daniela Rombi, vicepresidente dell'associazione "Il mondo che vorrei", ha detto: «Io piango mia figlia, dovete stare tutti zitti, è una vergogna, lui è il capo, è stato condannato e ora non rinuncia alla prescrizione». Già, il capo. 

Nel rogo provocato dal deragliamento di un carro cisterna carico di gpl morirono 32 persone. Per chi ha perso figli, mariti, mogli è un incubo senza fine, il vero ergastolo, come molti ripetono, e hanno ragione. Chiedono verità e giustizia. Chiedono un colpevole da odiare e mettere alla gogna, anche. Ed è proprio qui che la giustizia fallisce.

Il popolo italiano, in nome del quale la giustizia viene amministrata, si divide in due categorie. La prima, il 99 per cento, cui appartiene anche l'autore di questo articolo, non è in grado di capire che cosa c'è scritto nelle 584 pagine con cui la Cassazione ha annullato parzialmente la sentenza di appello del 20 giugno 2019 rinviando per un nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze.

Anche qualche principe del foro hanno accusato difficoltà: 584 pagine di arabeschi giuridici spesso palesemente illogici (ma si può criticare una sentenza?) che non danno al popolo italiano e alle famiglie italiane l'unica risposta che conta: che cosa ha fatto Mauro Moretti per meritarsi 7 anni di galera? Non c'è scritto e invece i giudici hanno il dovere di scriverlo in modo comprensibile a tutti.

La descrizione più compiuta della sua colpa da 7 anni di galera è in questa frase scritta a pagina 428 della sentenza: «L’osservanza delle norme precauzionali scritte non fa venir meno la responsabilità colposa dell'agente, perche esse non sono esaustive delle regole prudenziali realisticamente esigibili rispetto alla specifica attivita o situazione pericolosa cautelata, potendo residuare una colpa generica in relazione al mancato rispetto della regola cautelare non scritta del “neminem laedere”». 

Vi sembra poco il tema di sapere perché ti mettono in galera? Siamo all’abc della civiltà giuridica. Possibile prendersi 7 anni di galera per una cosa che servono 600 pagine a spiegarla? 

Qui non si tratta di sostenere l'innocenza di Moretti, come farebbero in automatico i garantisti a prescindere, i profeti dell'intoccabilità di padroni e manager. Ma chi non ha alta cultura giuridica, e si è formato un suo dignitoso senso della giustizia sui film western, immagina che i tribunali servano proprio per evitare che le vittime prendano il primo presunto colpevole e lo impicchino all'albero più vicino.

E questo non solo a tutela del presunto innocente, ma anche e soprattutto delle vittime che troppo spesso vediamo nelle aule di tribunale schiumare rabbia per le vigliacche non risposte in latinorum dei giudici.

Il deragliamento di Viareggio è stato provocato dalla rottura di un asse del vagone incriminato, e l’asse si è rotto perché era difettoso, solo che i prescritti controlli sulla saldezza dell'acciaio erano stati fatti male. Era un carro tedesco e per la strage sono stati condannati due signori dal nome tedesco a 9 anni e mezzo ciascuno, un altro a 9 anni, altri tre a 7 anni.

Da anni risuona il ritornello della strage senza colpevoli. Perché interessa solo l’imputato pop, Moretti, imputato secondario con accuse misteriose, ma capo delle Fs, manager famoso e persona tra l’altro non simpaticissima ai più. C’è chi pensa che il responsabile di un incidente ferroviario non può che essere, per definizione, il capo delle Fs. 

I giudici esistono proprio per spiegare alle vittime la verità: «Cari amici, mi dispiace dovervi dire che la responsabilità principale della morte dei vostri cari è del signor Reiner Kogelheide e del signor Peter Linowski. Non sono colpevoli pop, ma la vita è così, fatevene una ragione». Non lo fanno. 

Non hanno il coraggio di dire che Moretti è innocente, perché sarebbe impopolare, ma non sono in grado di scrivere in tre righe che cosa ha fatto. Non hanno il coraggio di dire che i 32 di Viareggio sono morti per colpa di uno straniero sconosciuto e non di un famoso potente. Finiscono per far credere che il sistema giudiziario protegga il famoso potente. Così la giustizia va in pezzi.

Strage di Viareggio, l’ex ad di Fs Moretti condannato a 5 anni. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.

Il verdetto della Corte d’appello di Firenze al termine del processo bis, con 16 imputati. 

Mauro Moretti, ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana e di Ferrovie dello Stato, è stato condannato nel processo di appello bis a 5 anni di carcere per la strage ferroviaria di Viareggio. È stato riconosciuto colpevole di disastro ferroviario colposo, incendio e lesioni colpose. L’accusa aveva chiesto una pena di 6 anni e 9 mesi.

Nel primo appello Moretti, che aveva rinunciato alla prescrizione da una delle accuse (omicidio colposo plurimo), era stato condannato a 7 anni. Nell’appello bis, quello di oggi 29 giugno, deciso dalla Cassazione per rideterminare alcune delle pene comminate, l’ex ad di Ferrovie si è invece avvalso della prescrizione e dunque l’accusa ha valutato il suo comportamento sui reati rimasti in piedi. Rideterminate in parte le pene e le posizioni (con tre assoluzioni) degli altri 15 imputati, tra i quali l’ex amministratore delegato di Rfi Michele Mario Elia (4 anni, due mesi e 20 giorni): il pg aveva chiesto 5 anni e 9 mesi di carcere. Assolti il tedesco Joachim Lehmann, supervisore e responsabile esami Jungenthal, Francesco Favo, addetto alla sicurezza per la sicurezza di Rfi, e Emilio Maestrini, responsabile dell’unità produttiva direzione ingegneria, sicurezza e qualità di sistema di Trenitalia. Per Junghenthal la procura generale aveva chiesto una condanna a 6 anni e 9 mesi, mentre per Favo a 3 anni e 9 mesi e per Maestrini 3 anni e 8 mesi.

Soddisfatto della sentenza Tiziano Nicoletti uno degli avvocati dei familiari delle vittime: «Un verdetto soddisfacente perché ha confermato la condanna dei vertici delle Ferrovie dello Stato tra i quali Moretti ed Elia e le gravi responsabilità sulla omissioni sul controllo dei vagoni che arrivano dall’estero». Gli altri familiari si sono riservati di commentare la sentenza dopo una riunione che si svolgerà questa notte.

«È una sentenza deludente. Una condanna a 5 anni per un processo senza prove è un teorema e questo non può che dispiacerci. Leggeremo le motivazioni fra 90 giorni». il commento di Ambra Giovene, difensore di Mauro Moretti.

Il disastro ferroviario si consumò la notte del 29 giugno del 2009 e provocò la morte di 32 persone tra le quali tre bambini di due, tre e cinque anni, divorati dal fuoco nell’esplosione di un carro cisterna e un centinaio di feriti. Dopo tredici anni e quattro processi, il dibattimento non è ancora concluso perché quasi certamente ci sarà un nuovo ricorso in Cassazione e stavolta sarà realmente l’ultimo atto di questa tragica e dolorosissima vicenda.

È stata una giornata piena di tensione, ma anche di rivelazioni a sorpresa. In apertura di udienza Mauro Moretti ha chiesto di rilasciare una dichiarazione spontanea nel quale ha citato Romano Prodi e la politica dell’allora governo. Moretti ha spiegato alla corte di non aver risposto in questi anni alle accuse e alle ingiurie per rispetto nei confronti della giustizia e dei familiari delle vittime. Parole che hanno provocato una contestazione degli stessi familiari soprattutto quando Moretti si è rivolto a loro. «Mi sono stati attribuii comportamenti e frasi disumane in cui non mi riconosco. So che queste frasi che hanno causato in voi dolore e sentimenti ma io non mi riconoscono e mi sono state attribuite».

Alcuni familiari hanno gridato contro Moretti provocando la reazione del presidente della Corte d’Appello, Angelo Grieco. I familiari per protesta si sono anche voltati di spalle ma poi si sono seduti. Moretti ha anche ricordato che all’epoca dell’incidente ferroviario con gli incarichi che ricopriva non poteva «essere autore della politica di investimenti sul trasporto ferroviario merci né passeggeri. Non me lo consentiva la legge. Ogni politica in merito era compita di Trenitalia e delle altre imprese ferroviarie».

Moretti, respingendo l’accusa di essere il protagonista di una politica aziendale per investire nell’Alta velocità e non nel trasporto passeggeri e merci e nella sicurezza, ha anche svelato un particolare inedito. «Il premier Prodi nel 2006 mi disse che la Tirrenia era fallita, così come l’Alitalia e non potevamo permetterci che fallissero anche le Ferrovie dello Stato». Infine Moretti ha affermato che «gli autori di quella precisa politica invece furono il governo e il Parlamento italiano, che finanzieranno fino all’ultimo centesimo l’opera senza procurare nessun rischio di impresa a chi realizzerà questi progetti». Spiegando poi che «Il governo nel 2002 mi chiese di accelerare i lavori Tav Napoli-Torino che stavano ristagnando, e io agii in tal senso. Costruii un rigido piano operativo, bloccando ogni variante in corso d’opera, attuando un sistema di gestione delle commesse digitalizzato per controllare lo stato avanzamento dei lavori».

Indignata la reazione deli familiari delle vittime della strage. «In attesa della sentenza Moretti trasforma l’aula di un tribunale in un consiglio di amministrazione e si è ricordato di citare i familiari delle vittime dopo 13 anni», hanno commentato su Facebook. Nella requisitoria il pg, Sergio Affronte, aveva chiesto più di 91 anni di carcere per i sedici imputati. Secondo l’accusa c’erano state «omissioni gravissime e reiterate negli anni nella gestione della sicurezza e della manutenzione dei treni merci» cercando di dimostrare che proprio queste omissioni provocarono «un immane disastro» chiedendo la condanna di tutti e sedici gli imputati. Oltre a Moretti, la pubblica accusa aveva chiesto condanne per l’ex amministratore delegato di Rfi Michele Mario Elia, 5 anni e 9 mesi (6 anni nel primo appello) e per Francesco Favo, ex responsabile certificazione sicurezza di Rfi, 3 anni e 9 mesi (4 anni) e anche per i tecnici e gli amministratori tedeschi che avrebbero dovuto garantire la manutenzione dei vagoni. 

 L'appello bis per la strage di Viareggio: cinque anni a Moretti contestato in aula. Stefano Vladovich l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.

Confermate le responsabilità anche per i manager Fs e tedeschi

Disastro ferroviario, incendio e lesioni. Mauro Moretti, ex ad di Ferrovie dello Stato e Rfi condannato a 5 anni di carcere dei sei anni e nove mesi chiesti dalla Procura. Ieri pomeriggio a Firenze la sentenza al processo di appello bis per la strage ferroviaria di Viareggio del 2009, quando un treno merci deraglia danneggiando una cisterna di gpl che esplode a pochi metri dalla palazzine in cui vivono decine di famiglie. Undici persone muoiono all'istante, altre 21 perdono la vita fra le fiamme, decine i feriti. I macchinisti, dopo aver azionato i freni d'emergenza, si salvano riparandosi dietro un muro. La causa secondo l'accusa? Una scarsa manutenzione dei mezzi, 14 vagoni quasi tutti tedeschi con cisterne piene di combustibile di proprietà della multinazionale statunitense Gatx.

Con Moretti altri 15 imputati cui è contestato il solo reato di disastro ferroviario: 6 anni a Rainer Kogelheide ad di Gatx Rail Germania e a Peter Linoswki, responsabile Gatx, 5 anni e 4 mesi a Johannes Mansbart, ad Gatx Rail Austria, 5 anni e 6 mesi a Roman Mayer, responsabile della manutenzione Gatx Austria, 4 anni e 5 mesi a Helmut Brodel e a Uwe Kriebel tecnici Jugenthal, 4 anni e 8 mesi ad Andrea Schroter, della Jugenthal. Assolto il supervisore Jugenthal, Joachim Lehmann. «Sentenza deludente per un processo senza prove» commenta la difesa di Moretti, avvocato Ambra Giovene.

Momenti di tensione in aula quando l'ex ad si rivolge ai familiari delle vittime. «Zitto» urlano alcuni mentre altri si girano rivolgendogli la schiena. «Negli anni mi sono state attribuite frasi e comportamenti - dice Moretti - non rispettosi del dolore, frasi disumane in cui non mi riconosco. Quei comportamenti attribuitemi hanno causato dolore, ma non c'era intenzione». «Moretti ha trasformato l'aula del tribunale in un consiglio di amministrazione. Siamo indignati: non può citare le vittime e le loro famiglie, dopo 13 anni, strumentalizzandoli per proprio tornaconto. È vergognoso. E conferma che è lui il responsabile della sicurezza in ferrovia» dicono. Nel primo appello Moretti è stato condannato a 7 anni di carcere. L'ex ad si è difeso dicendo che «da amministratore delegato di Rfi non potevo essere autore della politica di investimenti sul trasporto ferroviario merci né passeggeri. Non me lo consentiva la legge. Era compito di Trenitalia e delle altre imprese ferroviarie. Quando il governo mi diede l'incarico Prodi mi disse: Caro ingegnere, Tirrenia è fallita, Alitalia è fallita, non possiamo permetterci la stessa fine per le Ferrovie. Faccia anche l'impossibile per evitarlo. Ci siamo riusciti - conclude Moretti - salvaguardando gli investimenti per la sicurezza».

Sono le 23,48 del 29 giugno 2009 quando, in corrispondenza della passerella pedonale che scavalca i binari a Sud della stazione collegando via Burlamacchi con via Ponchielli, cede un asse del primo carrello (dei 14) trainato da un locomotore Trenitalia. Il carro cisterna deraglia trascinando con sé altri quattro carri. Il serbatoio del primo vagone si schianta contro un pilone e si apre uno squarcio da cui esce gpl. Basta una scintilla per innescare una tremenda esplosione. Le fiamme si propagano verso via Ponchielli, la strada con il maggior numero di vittime e feriti. Tonnellate di gas in fiamme investono case e palazzine. Perdono la vita sotto le macerie almeno 10 persone, due muoiono d'infarto. Decine di ustionati gravi muoiono i giorni successivi.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” l'1 luglio 2022.  

Vogliono leggere il dispositivo della sentenza, vogliono parlare con gli avvocati e discutere tra loro. «Lo faremo fino a tarda notte e poi domani mattina (stamani ndr) daremo il nostro giudizio su questa sentenza», dice Marco Piagentini, che non è solo uno dei sopravvissuti della strage (è rimasto gravemente ustionato), ma è anche familiare di tre delle 32 vittime (ovvero la moglie e due dei tre figli).

Ancora oggi, nelle giornate di sole, quando esce di casa deve ripararsi con un ombrello. Il fuoco gli ha devastato la pelle e l'esposizione ai raggi è un pericolo continuo. 

«Non ho più protezione, rischio di essere devastato dal melanoma - spiega -. Anche mio figlio Lorenzo, l'unico sopravvissuto della mia famiglia che oggi ha 21 anni, ha ustioni al volto e in tutto il corpo». Piagentini ieri ha avuto una giornata terribile. 

«Non solo per il caldo torrido di Firenze che mi ha costretto ancora una volta a cospargermi il volto di crema solare protettiva al 100% e nel percorso per arrivare a Palazzo di Giustizia aprire l'ombrello per cercare un po' di ombra - racconta - ma per ciò che è successo in aula. Il discorso di Moretti è stato devastante. Una relazione da consiglio di amministrazione con numeri e statistiche.

Non si era mai rivolto a noi in 13 anni, lo ha fatto in un momento di necessità personale dicendoci che lui non voleva offenderci. Non ci interessa e credo anche che non doveva farlo aspettando 13 lunghissimi anni. Semmai, l'unico elemento positivo del suo discorso, è che ha ammesso che lui di fatto era il responsabile della sicurezza». 

Poi Piagentini ripensa a una frase dell'ex ad delle Ferrovie: «Moretti ha detto di aver avuto la disponibilità economica più grande in Ferrovie e che lui ha fatto molto per la sicurezza ferroviaria.  Allora come è possibile che con tutte le procedure, tutti i soldi che hanno messo in sicurezza, a Viareggio sia transitato un treno come una bomba?».

Della sentenza Marco Piagentini ha avvertito il figlio per telefono: «Gli ho dato solo pochi dettagli, stasera (ieri sera, ndr) parleremo con calma. Aveva 8 anni quel 29 giugno del 2009, aveva una casa, una mamma e due fratelli. 

In un attimo è scomparso tutto. Gli sono rimasto io che vivo come se fossi agli arresti domiciliari soprattutto d'estate. Il sole rischia di uccidermi e la vita da quel tragico giorno per me non è più cominciata. E l'identica cosa è accaduta agli altri familiari delle 32 vittime».

Avvenne alle 23.48 del 29 giugno 2009. Un treno merci con 14 carri cisterna contenenti Gpl deragliò nei pressi della stazione di Viareggio e provocò l'esplosione di un carro: le vittime furono 32, fra cui tre bimbi e si ebbero anche un centinaio di feriti.

Viareggio, pene ridotte e tre assolti: stavolta i “populisti” tacciono. Appello bis sulla strage: a Moretti 5 anni, 13 i condannati Processo troppo “difficile” per essere strumentalizzato. Valentina Stella su Il Dubbio l'1 luglio 2022.

Il processo di appello bis per la strage ferroviaria di Viareggio del 29 giugno 2009, che costò la vita a 32 persone e provocò centinaia di feriti dopo il deragliamento e l’esplosione di un treno che trasportava gpl, si è concluso ieri a Firenze con 13 condanne e 3 assoluzioni. Condanna a cinque anni per l’ex ad di Ferrovie dello Stato e Rfi Mauro Moretti.

L’accusa aveva chiesto 6 anni e 9 mesi. Nei confronti dell’ex manager la Corte ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di omicidio colposo, seguendo le indicazioni della Cassazione. È stato dunque condannato per disastro ferroviario colposo, incendio e lesioni colpose. La Corte ha inoltre escluso la colpa dell’omessa disposizione della riduzione della velocità dei convogli merci, uno dei profili colposi su cui la Cassazione aveva chiesto di valutare nel merito. «La sentenza è molto deludente – ci ha detto il difensore di Mauro Moretti, l’avvocato Ambra Giovene -. Una condanna a cinque anni per un processo senza prove è veramente un teorema e questo non può che dispiacerci. Tradisce un’interpretazione di questa storia che non è quella reale.

Hanno da un lato ritenuto di assolvere il mio assistito per la condotta relativa alla velocità dei convogli merci, dunque una condotta colposa che riguarda sia il disastro, sia l’incendio, sia le lesioni, riconoscendo dunque le nostre argomentazioni. Ma dall’altro lato hanno ritenuto di avere uno sbarramento da parte della Cassazione rispetto al resto delle imputazioni, che ci fosse un passaggio in giudicato della sentenza, parziale ovviamente». In pratica non avrebbero potuto assolvere.

L’avvocato Giovene ha poi aggiunto: «Purtroppo questo processo patisce un forte pregiudizio nei confronti dell’ingegner Moretti. È un processo al sistema ferroviario che Moretti rappresenta».

L’accusa mossa contro Moretti è quella di aver creato una politica aziendale volta al risparmio e a concentrare gli investimenti non sul trasporto merci, ma su quello passeggeri. Le possibilità di tornare in Cassazione ci sono, ma l’avvocato Giovene vuole prima attendere di leggere le motivazioni della sentenza di appello bis. La Procura generale si è detta al contrario «soddisfatta» della decisione.

«L’impianto accusatorio ha sostanzialmente retto e il reato di disastro ferroviario è stato riconosciuto a tutti i vertici delle aziende italiane e straniere», hanno dichiarato all’Adnkronos il procuratore generale Sergio Affronte e il sostituto procuratore di Lucca Salvatore Giannino. Anche per l’avvocato di parte civile Tiziano Nicoletti «la sentenza è soddisfacente».

Condannati anche i manager del gruppo Fs: 4 anni 2 mesi e 20 giorni per Michele Mario Elia, ex ad di Rfi, e Vincenzo Soprano, ex ad Trenitalia; 4 anni a Mario Castaldo, che era direttore divisione cargo di Trenitalia. La Corte invece ha assolto Joachim Lehmann, supervisore e responsabile esami Jungenthal, Francesco Favo, certificatore per la sicurezza di Rfi, e Emilio Maestrini, responsabile dell’unità produttiva direzione ingegneria, sicurezza e qualità di sistema di Trenitalia.

Ieri mattina Moretti aveva voluto rilasciare dichiarazioni spontanee. Ciò aveva suscitato il forte disappunto da parte dei familiari delle vittime, che avevano protestato, rumoreggiando in Aula, soprattutto quando Moretti aveva detto che in tutti questi anni non aveva reagito «alle critiche e spesso alle ingiurie per rispetto alla giustizia e alle famiglie delle vittime».

Moretti aveva anche chiesto scusa ai familiari: «Sono stato additato come persona fredda, insensibile; talvolta perfino disumana. Io non mi riconosco in quella descrizione e in questi anni ho avuto tempo per riflettere. Sento il dovere di dire che se comunque la rappresentazione di quelle frasi e quei comportamenti hanno causato in voi dolore e risentimento, non c’era nessuna intenzione da parte mia di suscitarli. E, per ciò, vi chiedo scusa». A quel punto alcuni di loro avevano gridato «no» e il presidente della Corte d’appello, Angelo Grieco, era stato costretto a richiamare tutti all’ordine. Quando poi i familiari delle vittime, per protesta, si erano seduti volgendo le spalle alla Corte, il presidente aveva chiesto l’intervento delle forze dell’ordine e il rispetto che si deve alla Corte. I familiari sono tornati a sedersi compostamente.

Si tratta di una vicenda giudiziaria complicatissima: imputati di diverse nazionalità, pagine e pagine di perizie tecniche, dodici lunghissimi anni di processi, diversi reati contestati. L’ex guardasigilli Alfonso Bonafede aveva trasformato questo caso nel suo vessillo per riformare la norma sulla prescrizione.

Tutto era partito da lì: quella sulla prescrizione, disse Bonafede, «è una legge di cui vado orgoglioso, che ho portato avanti anche insieme ai familiari delle vittime della strage di Viareggio, e che ho sempre definito legge di civiltà». Eppure è impossibile ridurre tutto a questa questione. Ce ne sono molte altre, a partire dal teorema costruito dall’accusa sulla gestione aziendale da parte di Ferrovie dello Stato o sul fatto che un vertice come Moretti possa essere ritenuto responsabile di errori fatti dagli ultimi anelli della catena. Non dimentichiamo che l’incidente ferroviario fu causato dalla rottura di un assile dovuta alla presenza di crateri di corrosione che avrebbero dovuto essere rilevati in occasione della manutenzione. La questione è talmente complessa da aver spaventato anche i soliti commentatori politici che generalmente, cinque minuti dopo una sentenza, mettono il loro cappello sulla decisione attraverso qualche tweet.

Giudizio di rinvio. Il caso Moretti e il giustizial-garantismo dei populisti. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 4 Luglio 2022.

Nel processo di Firenze i nuovi giudici hanno dovuto rigidamente muoversi all’interno dei principi posti dalla Cassazione. Nessuno tra i commentatori lo ha spiegato ai lettori perché in Italia regna l’indifferenza verso la conoscenza profonda dei problemi. L’importante è gridare allo scandalo o esultare in base ai rispettivi assunti di partenza.

La polemica intorno alla sentenza del processo di appello bis sulla strage di Viareggio è emblematica dell’attuale stato di abissale ignoranza in cui versa l’informazione giudiziaria del paese e di come questa condizione costituisca un serio problema di democrazia al pari del populismo di ogni colore.

Il verdetto di condanna dell’ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana (RFI) Mario Moretti e di altri 12 imputati condannati per disastro e incendio colposo ha suscitato la stessa ondata di polemiche provocate un anno e mezzo fa dalla sentenza della Corte di Cassazione che aveva annullato le prime sentenze di condanna inflitte agli stessi imputati nel primo processo.

L’unica differenza è che allora a lamentarsi fu la solita compagnia di giro assortita del giustizialismo manettaro italico che con in testa Marco Travaglio, Gian Carlo Caselli eccetera era insorta contro quello che veniva definito uno scandaloso insabbiamento, tra le scene di disperazione dei familiari delle vittime mentre oggi si strappa i capelli lo stesso pseudo-garantismo che allora plaudiva alla Cassazione.

In realtà avevano torto entrambi, ma a spiegarlo fu soltanto questo giornale di opinione che va riletto: la Cassazione non aveva assolto nessuno, ma aveva richiesto un nuovo giudizio per una serie di questioni tra cui stabilire se avesse valore o meno la rinuncia alla prescrizione pronunciata dall’imputato nel corso del primo giudizio 

La Corte aveva ritenuto ipotizzabile in via generale la responsabilità diretta dell’amministratore di una holding (Moretti per RFI) per le carenze dei controlli spettanti ai dirigenti delle società partecipate «qualora ricorrano specifici indici di ingerenza nelle attività delle controllate».

Il principio di diritto enunciato è pertanto, che anche l’amministratore delegato della holding è tenuto «a valutare i rischi ad essi connessi e ad assumere le iniziative necessarie per il rispetto della sicurezza dei lavoratori» (P. Brambilla: Disastro ferroviario di Viareggio, Le motivazioni della sentenza della Cassazione su Sistema Penale, 9 Novembre 2021).

Quello che si è svolto a Firenze, tecnicamente era un giudizio di rinvio cioè una valutazione processuale in cui i nuovi giudici dovevano muoversi rigidamente entro i paletti dei principi posti dalla Cassazione: per capire il possibile se non probabile esito odierno, bastava leggere, non dico la sentenza, ma almeno il comunicato che la stessa Corte di Cassazione aveva pubblicato subito dopo il verdetto esponendo sinteticamente le sue ragioni, al fine di spiegare la realtà, vanamente, alla pubblica opinione.

Una decisione assai discutibile e forse non pienamente condivisa da tutta la Corte, come lascia intuire la decisione diplomatica di annullare la vecchia decisione e di rinviare a un nuovo giudizio. 

Alla luce di ciò, si può legittimamente non concordare con un principio che pone seri problemi in tema di responsabilità dei vertici aziendali anche per le conseguenze di condotte dei dipendenti più lontani. Non si discute di questo, ma è da ipocriti che i commentatori, garantisti e giustizialisti, gridino allo scandalo o esultino, oggi, per una decisione che è esattamente la diretta conseguenza di quella che gli uni avevano esaltato e gli altri esecrato, a campi invertiti, un anno e mezzo fa.

Il problema vero, al di là del singolo caso, sono le ragioni di questo capovolgimento dei commenti e delle posizioni della stampa.

Sicuramente il profilo più importante, non ci si può stancare di ripeterlo, è l’ignoranza dei fondamentali tecnici da parte dei commentatori incapaci di distinguere, tranne poche eccezioni, un processo reale da una puntata di un serial modello “Lolita Lobosco”.

Il problema sarebbe dei giornali ma i guasti provocati da un tale atteggiamento sono pubblici. Non si tratta di una casualità, va detto, ma del simmetrico contraltare al medesimo atteggiamento sub-culturale che ha originato il populismo politico: l’indifferenza verso la conoscenza profonda dei problemi.

Si origina così per pigrizia e calcolo una sorta di ondata che potremmo definire giustizial-garantista di stampo populista del tutto indifferente alla realtà dei processi e dei problemi giuridici e che si nutre solo di pregiudizio per cui una condanna o una assoluzione sono comunque errori che dimostrano unicamente i rispettivi assunti di partenza: il mondo è pieno di ladri a piede libero o di vittime di errori giudiziari.

Alla base c’è il rischio della delegittimazione delle istituzioni democratiche: i palazzi di giustizia come quelli del potere politico. Un’equazione pericolosa e, come per il populismo politico, parafrasando Draghi, l’unico rimedio è la spiegazione della realtà e la soluzione reale dei problemi da chi ha la competenza per farlo.

Appello bis per il disastro. Strage di Viareggio, a Moretti 5 anni: quando la pressione popolare vince sulla logica. Angela Stella su Il Riformista il 1 Luglio 2022. 

Il processo di appello bis per la strage ferroviaria di Viareggio del 29 giugno 2009, che costò la vita a 32 persone e provocò centinaia di feriti dopo il deragliamento e l’esplosione di un treno che trasportava gpl, si è concluso ieri a Firenze con 13 condanne e 3 assoluzioni. Condanna a 5 anni per l’ex ad di Ferrovie dello Stato e Rfi Mauro Moretti. L’accusa aveva chiesto 6 anni e 9 mesi. Per Mauro Moretti la Corte ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di omicidio colposo seguendo le indicazioni della Cassazione. Il manager è stato condannato per disastro ferroviario colposo, incendio e lesioni colpose.

La Corte ha inoltre escluso la colpa dell’omessa disposizione della riduzione della velocità dei convogli merci, uno dei profili colposi su cui la Cassazione aveva chiesto di valutare nel merito. «La sentenza è molto deludente – ha dichiarato il difensore di Mauro Moretti, l’avvocato Ambra Giovene -. Una condanna a 5 anni per un processo senza prove è veramente un teorema e questo non può che dispiacerci. Tradisce un’interpretazione di questa storia che non è quella reale. Leggeremo le motivazioni» per un eventuale ricorso in Cassazione. La Procura generale si è detta al contrario «soddisfatta» della sentenza. «L’impianto accusatorio ha sostanzialmente retto e il reato di disastro ferroviario è stato riconosciuto a tutti i vertici delle aziende italiane e straniere», hanno detto all’Adnkronos il procuratore generale Sergio Affronte e il sostituto procuratore di Lucca Salvatore Giannino. Anche per l’avvocato di parte civile Tiziano Nicoletti «la sentenza è soddisfacente».

Condannati anche i manager del gruppo Fs: 4 anni 2 mesi e 20 giorni per Michele Mario Elia, ex ad di Rfi, e Vincenzo Soprano, ex ad Trenitalia; 4 anni a Mario Castaldo, che era direttore divisione cargo di Trenitalia. La Corte invece ha assolto Joachim Lehmann, supervisore e responsabile esami Jungenthal, Francesco Favo, certificatore per la sicurezza di Rfi, e Emilio Maestrini, responsabile dell’unità produttiva direzione ingegneria, sicurezza e qualità di sistema di Trenitalia. Ieri mattina l’ingegnere Moretti nel rilasciare le dichiarazioni spontanee aveva suscitato forte malcontento in Aula.  Quando aveva annunciato di voler parlare, i familiari delle vittime avevano protestato soprattutto quando aveva detto che in tutti questi anni non aveva reagito “alle critiche e spesso alle ingiurie per rispetto alla giustizia e alle famiglie delle vittime”. Moretti aveva anche “chiesto scusa” ai familiari.

A quel punto alcuni di loro hanno gridato “no” e il presidente della Corte d’appello, Angelo Grieco, ha richiamato tutti all’ordine. Quando i familiari delle vittime hanno inscenato la protesta, sedendosi volgendo le spalle alla Corte, il presidente ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine e il rispetto che si deve alla Corte. I familiari pertanto sono tornati a sedersi compostamente. Ricordiamo che su questa vicenda giudiziaria, che forse non si conclude qui, è nata la nuova norma sulla prescrizione firmata dall’ex Ministro Alfonso Bonafede che il presidente dell’Unione Camere Penali commentò dicendo «il populismo penale si è fatto governo». Ma non c’è solo questo. La storia racconta la legittima pretesa di giustizia delle vittime ma anche un processo mediatico parallelo feroce soprattutto nei confronti di Moretti, colpevole forse solo di un delitto d’autore, quello di far parte dei cosiddetti “poteri forti”. Angela Stella

«Le vittime vanno rispettate. Ma nel processo penale la parte debole è l’imputato».  

Intervista a Benianimo Migliucci: «Mani Pulite è l’origine di tutti i mali. La magistratura requirente instaurò un collegamento diretto con l’opinione pubblica offrendo una rappresentazione manichea della società nella quale la politica o le classi dirigenti rappresentano il male assoluto». Valentina Stella su Il Dubbio l'1 luglio 2022.

Non conosciamo le motivazioni che hanno spinto la Corte d’appello di Firenze a condannare l’ex ad di Ferrovie Mauro Moretti a 5 anni di carcere per la strage di Viareggio del 2009. Ma ci chiediamo, insieme al past president dell’Unione Camere penali italiane Beniamino Migliucci, se questa complicata vicenda giudiziaria non possa essere stata segnata anche dal combinato disposto di un populismo penale che si è fatto governo, di una gogna di piazza e dell’idea ormai radicata che si debba cercare un colpevole di un certo spessore.

La nuova norma sulla prescrizione è maturata proprio nella fase di passaggio tra la sua presidenza dell’Unione e quella attuale di Gian Domenico Caiazza. L’ex ministro della Giustizia Bonafede si recò a Viareggio il 29 giugno 2018 e annunciò la riforma dinanzi ai comitati delle vittime.

Quando ero presidente dell’Ucpi era ancora in vigore la riforma Orlando sulla prescrizione, già emanata sotto la spinta di pulsioni emotive. Basti pensare che nel 2014 il numero dei procedimenti andati in prescrizione era dimezzato rispetto al 2005. Bonafede, seguendo la connotazione populista del suo partito, aveva approfittato ancora una volta di una vicenda che aveva provocato grande dolore per annunciare una scriteriata riforma che avrebbe reso il processo penale infinito. L’imputato invece ha diritto a un processo celebrato in tempi ragionevoli e con lui le persone offese e la società.

Proprio Bonafede disse nel 2019: “Basta impunità per i colletti bianchi”. Quel tipo di cultura sembra non ci abbia fatto bastare le condanne comminate per la stessa vicenda agli operai della manutenzione, ai dirigenti delle officine, ai responsabili dell’impresa tedesca proprietaria del carro cisterna.

Quelle dichiarazioni non stupiscono, considerato che l’ex ministro rappresentava quella che il professor Violante definì «la società giudiziaria che non chiede il processo, chiede la punizione di chi considera colpevole perché imputato, non condannato, per qualsiasi tipo di reato oppure perché appartenente a quelle classi dirigenti ritenute responsabili del malaffare o titolari di privilegi ingiustificabili. Ciò che punisce risana, sembra ritenere la società giudiziaria» .

Il professore e avvocato Ennio Amodio, commentando la forte protesta dei parenti delle vittime quando la Cassazione prescrisse un reato, ci disse in un’intervista: “Le vittime devono essere rispettate ma devono anche rispettare il processo”. Ieri proprio il presidente della Corte d’appello è dovuto intervenire perché i familiari delle vittime si erano voltati di spalle in Aula quando Moretti aveva fatto le proprie dichiarazioni spontanee. Che ne pensa?

Ha perfettamente ragione il professore Amodio. Le vittime devono essere rispettate ma tutti dovrebbero ricordare che nel processo penale la parte debole è l’imputato, e che la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, così come la nostra Costituzione, prevedono che il processo debba essere equo, giusto nei suoi confronti.

È d’accordo nel dire che negli anni anche la magistratura, per il tramite della stampa, ha alimentato la rappresentazione di una classe politica e dirigenziale che di per se stessa evoca corruzione?

In questo Mani Pulite è l’origine di tutti i mali: la magistratura requirente instaurò un collegamento diretto con l’opinione pubblica offrendo una rappresentazione manichea della società nella quale la politica o le classi dirigenti rappresentano il male assoluto. Nel tempo questa rappresentazione si è sedimentata nell’immaginario collettivo, e i social, i talk show e un certo tipo di informazione hanno contribuito a mantenere salda questa idea. La magistratura si trova spesso in difficoltà proprio perché può essere fortemente condizionata sia dalle campagne di stampa che dalle mobilitazioni dei processi in piazza. Quanto precede è tanto vero: basti ritenere che spesso i magistrati che assolvono o irrogano pene non ritenute congrue dal Tribunale del Popolo vengono esposti a feroci critiche e persino a minacce. L’idea di valorizzare le indagini con nomi e personaggi altisonanti, tra politici e alti dirigenti, è una abitudine parimenti radicata nel tempo. In proposito ricordo il caso di Enzo Tortora.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 22 settembre 2022.

Le motivazioni della sentenza di appello bis sulla strage ferroviaria di Viareggio del 29 giugno 2009 (32 morti e 100 feriti) fissano alcuni punti fermi in un processo complicato. Il principale imputato Mauro Moretti, ex amministratore delegato di Ferrovie e Rete Ferroviaria condannato a 7 anni, viene ritenuto colpevole («è irrevocabile la responsabilità penale») per la mancata tracciabilità e per i controlli inadeguati sui carri merci noleggiati da società della Germania.

Ma cade la pur importante contestazione di non aver imposto una diminuzione della velocità ai convogli di merci pericolose in transito in stazione. Il treno viaggiava entro i limiti, a 100 km/h. Secondo le perizie, peraltro non concordi, avrebbe dovuto viaggiare a circa 60 km/h. Secondo i giudici di appello, nel solco di quelli della Cassazione che avevano annullato la prima sentenza, manca una prova empirica o scientifica per affermare che il deragliamento del vagone con gas Gpl non si sarebbe verificato se il treno avesse viaggiato a una velocità inferiore.

Il nuovo processo era stato disposto dalla Cassazione con rinvio, demandando alla corte fiorentina il compito di valutare la questione della velocità oltreché la rideterminazione delle condanne a seguito della prescrizione dell’accusa di omicidio colposo. Moretti era pertanto stato condannato a 5 anni (7 nel primo appello, contro i 16 chiesti dalla Procura) «per colpa di omesso controllo della tracciabilità dei carri merci esteri circolanti in Italia, omessa acquisizione della documentazione di sicurezza, omessa procedura di cabotaggio».

Sul ricalcolo della pena gravano l’esclusione della colpa legata alla velocità e la prescrizione per l’omicidio di cui il manager si è avvalso per la prima volta in questo processo, in cui ha viceversa rinunciato per i reati di incendio e lesioni (per il disastro la prescrizione non è maturata). Le attenuanti generiche sono state concesse all’incensurato Moretti in misura molto limitata. Stesso discorso per l’altro manager, Michele Mario Elia, condannato a 4 anni e 2 mesi.

Secondo la Corte fiorentina, dunque, la responsabilità penale colposa di Moretti è già cristallizzata perché nel giudizio di legittimità la Cassazione ha confermato il profilo legato alla mancata tracciabilità dei carri cisterna noleggiati all’estero, della società Gatx, per lo svolgimento del trasporto di merci pericolose in Italia. Per i giudici esisteva una prassi aziendale che consentiva manutenzioni più lasche per i carri noleggiati all’estero. Moretti obietta di aver firmato una direttiva, tre anni prima della strage, con cui al contrario imponeva regole di manutenzioni equivalenti, a prescindere dalla provenienza del carro. Direttiva poi ripresa dall’Autorità nazionale per la sicurezza ferroviaria, un anno prima della strage.

Ambra Giovene, avvocata di Moretti, annuncia ricorso in Cassazione. Valorizza la vittoria sulla questione della velocità e obietta sulla responsabilità residuale, che considera «di mera posizione» e quindi ancora controvertibile. «In tredici anni – dice - testimoni, consulenti della procura, parti civili non sono riusciti a dimostrare l’indimostrabile, un’imputazione destituita di ogni fondamento fin dall’inizio che fornisce la misura delle altre. La responsabilità del solo vertice aziendale era voluta contro ogni evidenza. La Corte di appello non prende una posizione definitiva, ricorrendo a un argomento formale, il cosiddetto giudicato progressivo, in contrapposizione perfino con argomenti della Procura generale che hanno escluso l’esistenza di una imposizione dei vertici intesa a trascurare la sicurezza».

Gli ascensori. Alessia Candito e Marta Occhipinti per palermo.repubblica.it il 30 luglio 2022.

Il rumore di uno schianto, urla e poi le ambulanze che bucano il silenzio del primo pomeriggio a Brancaccio. Per cause ancora tutte da definire, un ascensore è precipitato dal quinto piano di un palazzo in via Vincenzo Balistreri, alla periferia a Palermo. 

Contrariamente a quanto filtrato inizialmente, le vittime sono due donne e un uomo. Si tratta di una coppia che vive al quinto piano - lui operaio della Reset, lei casalinga - e stava tornando a casa dopo il lavoro insieme alla cognata, che da tempo vive con loro. Come ogni giorno hanno preso l'ascensore per tornare a casa.

Ancora tutta da chiarire la dinamica dell'incidente. I rilievi dei vigili del fuoco sono in corso. Stando alle prime indiscrezioni, una delle funi d'acciaio che regge la gabbia si sarebbe spezzata e l'ascensore sarebbe precipitato. Un volo di almeno quindici metri. Lo schianto ha fatto sobbalzare tutti i condomini che immediatamente si sono affacciati sui ballatoi per capire cosa fosse successo e hanno allertato i soccorsi.

"Abbiamo sentito un botto, non riuscivamo a capire cosa fosse successo. Siamo usciti subito di casa e abbiamo sentito le persone urlare. Mio marito ha forzato la porta dell'ascensore e li abbiamo portati fuori. Io sono al sesto mese di gravidanza, ma non ci ho neanche pensato. Sono corsa a soccorrerli ugualmente. Avevano ferite spaventose" dice Jessica Di Fede, che abita nel palazzo. 

In stato di shock, con profonde e gravi ferite alle gambe, i tre feriti sono apparsi subito in gravi condizioni. L'uomo, stando a quanto filtra, avrebbe fratture vertebrali e costali, ma a preoccupare sono soprattutto le condizioni di una delle due donne.

Sul posto sono intervenuti vigili del fuoco e personale del 118, che li ha smistati fra Civico, Buccheri La Ferla e Policlinico, dove sono stati trasportati in codice rosso. La polizia, arrivata subito in via Balisteri, è già al lavoro per tentare di comprendere le cause dell'incidente. 

La notizia si è sparsa in fretta a Brancaccio. Davanti al palazzone, che mostra tutti gli anni passati da quando è stato costruito, subito si sono radunate diverse persone. "Le persone che abitano in quel palazzo sono tutti ottimi parrocchiani, li vedo sempre qui da me a messa", dice don Ugo di Marzo, parroco del quartiere che si è subito precipitato sul posto. Anche perchè c'è rabbia e nervosismo. "I soccorsi ci hanno messo una vita ad arrivare" si mormora in strada.

"Inizialmente è arrivata un'unica ambulanza" dice uno dei residenti. Appena arrivata la segnalazione alla centrale del 118, subito quattro mezzi si sono mossi da diverse postazioni. Ma la città è grande, gli interventi quotidiani innumerevoli, quindi le ambulanze sono arrivate in tempi diversi. Anche un minuto in più però per amici e vicini di chi deve essere soccorso è un'attesa intollerabile.

Il palazzo in cui è avvenuto l'incidente fa parte di un blocco di case popolari, in cui gli ascensori sono stati montati solo da alcuni anni. E da tempo gli inquilini denunciano disservizi. 

"È necessario e urgente che si faccia chiarezza subito su quanto successo e si chiariscano le eventuali responsabilità, ma bisogna anche procedere al più presto ad una verifica delle condizioni degli ascensori nelle altre palazzine e in tempi brevi. In questa casa abitano anziani e ammalati, la soluzione non può essere certo bloccare tutte le cabine per un tempo indefinito". 

Le Escursioni. Alice Manfroi per corriere.it il 19 agosto 2022.

Rifiutare i soccorsi per tre volte di fila e non pagare il conto. Era il 2019 quando due escursionisti spagnoli, un ragazzo e la sua compagna, rimasero bloccati sulla parete delle Tre Cime di Lavaredo, i soccorsi cercano di aiutarli per tre giorni, fino al quarto tentativo andato a buon fine. Il souvenir della vacanza è un conto di 9 mila euro tuttora da saldare. «La multa è arrivata in tre invii distinti per tre mila euro ciascuno: uno a me, uno alla mia compagna e uno a mia madre» raccontano i due spagnoli. «Non le abbiamo pagate. Quest’anno abbiamo scalato le Alpi francesi». Forse lo hanno fatto per evitare altre multe, ma la vicenda degli escursionisti spagnoli rientra a pieno nella casistica che vede quasi uno straniero su due non saldare il conto dell’elisoccorso.

La mobilitazione

Erano i primi di settembre di tre anni fa, quando il Soccorso Alpino di Pusteria e Auronzo accorre in aiuto dei due alpinisti che risultano essere bloccati sulla via Cassis delle Tre Cime. La coppia aveva rifiutato l’aiuto dell’elisoccorso domenica mattina e lo ha rifatto lunedì, trascorrendo 72 ore in parete. Intanto la madre del giovane escursionista, non vedendo rientrare il figlio al rifugio Auronzo, terrorizzata per la sua sorte, ha fatto mobilitare i soccorsi. 

Alle 16 del lunedì per la quarta volta l’Aiut Alpin Dolomites di Bolzano sale in quota e si avvicina a Cima Ovest. Questa volta però, convinti anche dalla pioggia forte, gli alpinisti accettano l’aiuto e vengono fatti salire a 2750 metri in elicottero. «Pensavamo di essere quasi in cima» commentano quando vengono recuperati.

Il presunto equivoco

A loro dire, la richiesta di soccorsi sarebbe stata provocata solo da un errore di comunicazione per la diversità linguistica, oltre che dall’apprensione naturale di una madre. «Ho visto diverse volte l’elicottero, ma non pensavo fosse per noi — spiega l’alpinista spagnolo —. Eravamo tranquilli, capisco che c’è chi fa la parete in 12 ore, ma noi abbiamo i nostri tempi. Nessuno ha avuto crisi di panico, stavamo solo aspettando che il tempo cambiasse» insiste la coppia. Nel frattempo che loro «erano tranquilli» i soccorsi sono stati tre giorni in allerta.

I numeri degli interventi

Secondo i numeri dell’elisoccorso nel 2020 sono stati 366 i pazienti «codici bianchi», ossia senza alcuna emergenza sanitaria, trasportati. Il conto totale richiesto per compartecipare alla spesa dell’elicottero ammonta a 608 mila euro, il 77% delle persone soccorse è di nazionalità italiana. Nel 2021 si è registrato un calo: 324mila euro; ma quest’anno, fino il 3 agosto, ci sono già 173 fatture emesse pari a 208 mila euro ed il 76% di coloro che chiamano l’elisoccorso senza essere feriti, è italiano. 

Il 45% delle richieste è per stanchezza

Quello che pochi sanno, però, è che usare l’elisoccorso ha un prezzo: 90 euro al minuto. Sulle Dolomiti bellunesi il 45% degli interventi è da codice bianco e chi abusa dei soccorsi alpini deve pagare, come previsto da una delibera di giunta della Regione Veneto del 2011. Nel 2021 l’elisoccorso ha volato 900 volte e da gennaio al 31 luglio di quest’anno le missioni sono state già 726. Secondo i dati dell’Ulss 1 Dolomiti, ammonta a 1 milione e 200mila euro il totale di fatture emesse, ma sono in molti a non pagare. In particolare, gli stranieri: quasi il 40% non ha versato quanto dovuto.

Ai tedeschi il primato dei conti non pagati

I conti non saldati ammontano ad una cifra di quasi mezzo milione di euro dal 2020 a oggi. Il primato dei debitori insolventi va ai tedeschi, seguono gli americani e i polacchi. Rispettivamente nel 2020 i tedeschi, con una media di circa 3 mila euro a fattura, raggiungono un conto di 78 mila euro non saldati; i polacchi sfiorano i 54 mila con 9 mila euro di media. Quest’anno i tedeschi arrivano già agli 80 mila euro da pagare. Insomma, sono in tanti a chiedere l’elisoccorso solo per situazioni di affaticamento e non per infortuni, si pretende di utilizzare l’elicottero come un taxi d’alta vetta e magari senza nemmeno pagare la «corsa».

Le Navi. Il sovraccarico, il fuoco, la tragedia: "Cercavo di salvarmi, mia madre annegava". Mariangela Garofano il 18 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Sono le prime luci dell'alba del 28 agosto 1971, quando a bordo della nave greca Heleanna divampa un incendio, a causa del quale moriranno 25 persone e circa 256 feriti verranno trasportati nei vicini ospedali pugliesi di Brindisi e Monopoli

"Non so descrivere il sentimento e le sensazioni vissute in quei momenti, dovevo sopravvivere e cercare di salvare mia madre, in quel mare mosso dove sia io che mia madre bevevamo, mentre dalla nave si staccavano pezzi di vernice infuocati che ci cadevano vicino e addosso, e io giù con la testa per non scottarmi. Ero stanco e a un certo punto ho trascurato di sostenere mia madre, l’ho intravista mentre le onde la trascinavano sul fondo del mare, avevo perso anche lei".

A parlare è Gianni Bagolini, sopravvissuto all'incendio della nave Heleanna. L'uomo ha raccontato al sito BrindisiWeb il momento in cui perse la sua famiglia tra le onde dell'Adriatico. All’alba del 28 agosto 1971 la nave passeggeri greca Heleanna, partita da Patrasso, in Grecia e diretta ad Ancona, prese fuoco, causando il decesso di 25 persone, 271 feriti e un numero imprecisato di dispersi.

La nave e l’incendio a bordo

L’Helanna fu costruita nel 1954 nei cantieri Ab Götaverken di Göteborg, in Svezia, non come nave passeggeri, bensì come petroliera. Fu solo nel 1966 che l’armatore greco Costantino S. Efthymiadis l’acquistò insieme ad altre 3 petroliere, che convertì in navi passeggeri. La Munkedal, ribattezzata in seguito Heleanna, mantenne l’aspetto originario, ma fu dotata di cabine per i passeggeri, aggiunte tra il ponte superiore e la sala macchine. L’Heleanna poteva trasportare fino a 676 passeggeri e praticava principalmente la rotta Pireo-Creta e Patrasso-Ancona.

Quel giorno di fine agosto del 1971 l’Heleanna salpò da Patrasso in sovraccarico, con ben 1174 passeggeri a bordo, ovvero più di 600 persone in più del consentito e 200 automobili. I passeggeri dormivano nelle loro cabine, quando alle 5.30 del mattino nelle cucine della nave, che si trovava a 25 miglia nautiche a nord di Brindisi e a 9 miglia da Torre Canne, scoppiò una bombola di gas. L’incendio causato dalla fuga di gas si propagò per tutta la nave, ma sulle prime il comandante e alcuni membri dell’equipaggio decisero di non chiamare i soccorsi e di cercare di domare l’incendio.

Alcuni superstiti raccontarono che il personale di bordo pensò di poter spegnere il fuoco con delle semplici secchiate d'acqua, totalmente inutili data l'entità dell'incendio e le dimensioni della nave. La stampa di allora definirà l'armatore Efthymiadis e il comandante dell'Heleanna "negrieri del mare", per il modo poco professionale con cui gestirono la sciagura, e per le condizioni della nave.

Dopo due ore le fiamme non si spegnevano, e i passeggeri erano ormai nel panico. Una volta contattati i soccorsi l’equipaggio provvide a far salire i passeggeri sulle scialuppe di salvataggio, 12 in tutto, un numero insufficiente per le 1174 persone a bordo dell’Heleanna. Ma le sciagure non erano finite. Le scialuppe non si potevano calare in acqua a causa di un argano bloccato e una di esse, con un carico di donne, si spezzò a metà, facendo precipitare le malcapitate in mare e provocando la morte di alcuni passeggeri intenti a salvarsi dal fuoco che ormai avvolgeva la nave.

L’incendio causò la morte di 25 innocenti, di nazionalità italiana, greca e francese, 271 feriti e un numero tutt’oggi sconosciuto di dispersi. Questo perché a bordo dell’Heleanna quel giorno salirono molti clandestini, alcuni dei quali fecero perdere le loro tracce.

I soccorsi e la fuga del comandante

I soccorsi per mettere in salvo i passeggeri dell’Heleanna partirono da Brindisi, Bari, Monopoli, Taranto e Grottaglie e vennero impiegati anche pescherecci privati per la ricerca dei numerosi dispersi in mare e spegnere l’incendio, che fu domato parecchie ore dopo la tragedia. I passeggeri feriti e quelli usciti illesi dall’incendio vennero accolti a Brindisi e Monopoli, città in seguito insignite dal presidente della Repubblica Giovanni Leone della Medaglia d'argento al valor civile per l’accoglienza.

Come riporta il sito IlNautilus, il comandante Dimitrios Anthipas, giovane inesperto, abbandonò la nave a bordo di una delle scialuppe, e fu arrestato al porto di Brindisi, appena prima di imbarcarsi con la moglie su una nave diretta in Grecia. L'uomo fu processato sia in Italia che in Grecia per l’incidente.

All’epoca dei fatti le acque territoriali nazionali comprendevano 6 miglia nautiche, quindi la tragedia occorse in acque internazionali, ma visto che alcune vittime vennero ricoverate o morirono all’ospedale di Brindisi, l’Italia rivendicò la sua competenza nel processo ad Anthipas. Ma le colpe non ricaddero solo sul comandante. Gli inquirenti che indagarono sulla sciagura attribuirono infatti gran parte delle responsabilità dell’accaduto all’armatore.

Dal punto di vista della sicurezza marittima la nave non era equipaggiata al meglio, presentava sistemi di soccorso scarsi, non aveva impianti anti incendio adeguati e non poteva ospitare così tante persone. Ma l'armatore era solito riempire fino all'orlo le sue navi, per ottimizzare le spese di viaggio. Gli inquirenti accusarono quindi Efthymiadis di aver sovraccaricato la nave in modo tale che le scialuppe risultarono troppo poche per salvare i passeggeri, rallentando i soccorsi.

Ma nonostante la gravità dell'incidente e le pessime condizioni dell'Heleanna, le vittime di quel terribile incidente non ottennero giustizia. Come si legge su BrindisiOggi, il processo agli ufficiali, al comandante e all'armatore dell'Heleanna, fu una sorta di farsa, con tanto di testimonianze manipolate.

Purtroppo le vittime e i sopravvissuti al disastro non ottennero alcun risarcimento, dato che la nave era sotto assicurata. Infine alcuni superstiti rivelarono lo sgomento e l'amarezza nello scoprire alcuni membri dell'equipaggio rubare dalle cabine, e addirittura depredare le povere vittime di soldi e gioielli, durante quelle ore di terrore in alto mare.

La portaerei Usa incontra l’Amerigo Vespucci nell’Adriatico, lo scambio radio: “Siete la nave più bella del mondo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2022.  

L’incontro è avvenuto il primo settembre mentre la Vespucci navigava tra Manfredonia e Taranto. La H. W. Bush è arrivata nel Mediterraneo da pochi giorni: è l’ammiraglia della flotta Usa impegnata a sostenere gli alleati sul fronte sud della Nato. All'interno un video imperdibile ed emozionante

Un incontro straordinario nelle acque dell’Adriatico. Da una parte un veliero, con la poesia della navigazione. Dall’altra una portaerei nucleare, con la potenza della tecnologia. Ma è stata proprio la portaerei statunitense H. W. Bush a riconoscere il fascino senza tempo dell’Amerigo Vespucci: “Siete la nave più bella del mondo“. 

Il video riproduce la comunicazione radio tra le due unità. A sorpresa, il comandante dell’Us Navy domanda: “Siete lo stesso veliero che nel 1962 incontrò la portaerei Independence?”. E alla risposta affermativa, David-Tavis Pollard chiede: “Dopo sessanta anni siete ancora in servizio?“. Il capitano Massimiliano Siragusa replica con orgoglio: “Siamo la più antica nave in servizio nel mondo“. A quel punto, dalla portaerei è arrivato il tributo: “Dopo 60 anni, siete ancora la nave più bella del mondo”.

L’incontro è avvenuto il primo settembre mentre la Vespucci navigava tra Manfredonia e Taranto. La H. W. Bush è arrivata nel Mediterraneo da pochi giorni: è l’ammiraglia della flotta Usa impegnata a sostenere gli alleati sul fronte sud della Nato.

Le meraviglie narrate da Pigafetta, il vicentino che circumnavigò il mondo. GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022.  

Cinquecento anni fa un italiano tra i pochi membri della spedizione di Magellano che ritornarono in Spagna. Nella sua «Relazione» raccontò di animali fantastici e foglie ambulanti

Anco ne dissero, che sotto Giava Maggiore, verso la tramontana, nel golfo de la Cina, la quale li antichi chiamano Signo Magno, trovarsi un arbore grandissimo nel quale abitano uccelli detti garuda, tanto grandi che portano un bufalo e uno elefante al luogo ove è l’arbore chiamato puzathaer e lo arbore campangaghi...». Certo, lo stesso Antonio Pigafetta, scrivendone nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo, vergata a cavallo del 1524-1525 per colmare il vuoto lasciato dal suo Diario di bordo originale donato a Carlo V e subito sparito perché la Spagna non era poi così entusiasta da elogiare l’impresa guidata da quel portoghese di Fernão de Magalhães (Ferdinando Magellano), sottolineava che non l’aveva visto lui direttamente, quel maestoso re degli uccelli. E anche altri dettagli, come quello delle «foglie che quando cascano sono vive e camminano» e «hanno due piedi» e lui stesso ne aveva tenuta una per «nove giorni in una scatola» e «quando la apriva, questa andava intorno intorno per la scatola» convincendolo che «non viveno de altro se non de aria», non vanno presi troppo sul serio.

Sbandate, del resto, successe un po’ a tutti i grandi navigatori del passato, compreso il mitico Marco Polo, il quale narrava che il Gran Khan, come annotò sfizioso lo storico Giulio Busi, andava a caccia sdraiato sui divani di un elegante capanno portato da quattro elefanti, o che «Angaman è un’isola, e no ànno re. E’ sono idoli, e sono come bestie salvatiche. E tutti quelli di quest’isola ànno lo capo come di cane e denti e naso come di grandi mastini». Che senso c’era? I suoi contemporanei erano convinti che fosse davvero così. E se lui non avesse confermato avrebbero forse dubitato: «Chissà se Marco el xé andà davero cussì lontan...»

Il racconto di Antonio Pigafetta sulla spedizione partita da Sanlúcar de Barrameda (Siviglia) il 20 settembre 1519 e rientrata il 6 settembre 1522, cinquecento anni fa, con diciotto uomini a bordo della Victoria, unica delle cinque navi (con Trinidad, Santiago, San Antonio e Concepción, 235 uomini d’equipaggio) ad aver concluso tutta la circumnavigazione del pianeta, è però, spiega lo storico della Cattolica Andrea Canova, autore di vari libri e saggi sulla vita e le opere dell’esploratore vicentino, «è in assoluto il più completo, il più dettagliato, il più credibile dei resoconti delle grandi imprese storiche. Di più: è un libro vero, in cui il racconto degli eventi e la descrizione dei luoghi e delle persone si combinano in un’opera letteraria a tutti gli effetti».

Esempio? L’estasi con cui raccontò il passaggio navale tra l’Atlantico e il Pacifico che prenderà il nome da Magellano: «Credo non sia al mondo piú bello e miglior stretto, come è questo. In questo mar Oceano se vede una molto dilettevole caccia de pesci. Sono tre sorte de pesci longhi uno braccio e più, che se chiamano doradi, albacore e boniti, li quali seguitano pesci che volano, chiamati colondrini…» E «al tempo de la estate non c’è notte, e, se glie n’è, è poca e così nell’inverno giorno... Quando éramo in questo stretto, le notti erano solamente de tre ore. E era nel mese d’ottobre».

Oppure la descrizione di quelli che «il nostro capitano generale» (così chiamava Magellano) aveva nominato i «popoli Patagoni». «Tutti se vestono de la pelle de quello animale già detto. Non hanno case, se non trabacche de la pelle del medesimo animale e con quelle vanno mo’ di qua, mo’ di là, come fanno li Cingani. Vivono di carne cruda e de una radice dolce che la chiamano chapae. Ogni uno de li due che pigliassemo, mangiava una sporta de biscotto e beveva in una fiata mezzo secchio de acqua. E mangiavano li sorci senza scorticarli». Ma che razza di animali erano questi da cui ricavavano un po’ tutto? Il guanaco, a quanto pare. Un animale che, non conoscendone il nome, descrisse così: «Ha el capo et orecchie grande come una mula, il collo e il corpo come uno camello, le gambe di cervo e la coda de cavallo; e nitrisce come lui».

Nato alla fine del 1492, nei mesi in cui Colombo scoprì l’America, cresciuto nel mito dei grandi viaggi, accorso in Spagna sperando d’essere imbarcato nell’impresa di circumnavigazione del pianeta, accolto grazie a una raccomandazione del potente cardinale Francesco Chiericati, si era guadagnato la fiducia di Magellano fino a diventarne il suo «criado». L’attendente. Sempre accanto, sempre fedele. Anche nei momenti più pericolosi. Fino all’alba del 27 aprile 1521, quando il «Capitano», per una volta più avventuroso che saggio, si andò a ficcare in uno scontro feroce cadendo nella trappola di un paio di re rivali sull’isola oggi di Mactan, nelle Filippine. Pensava gli bastassero sessanta uomini, se ne trovò davanti 1.500. Un disastro. E fu lui, il Pigafetta, l’autore del «reportage di guerra»: vistosi ormai perduto, «lo capitano generale mandò alcuni a brusare le sue case per spaventarli. Quando questi visteno brusare le sue case, diventarono più feroci. Appresso de le case furono ammazzati due de li nostri, e venti, o trenta case li brusassemo; ne venirono tanti addosso, che passarono con una frezza venenata la gamba dritta al capitano: per il che comandò che se retirassimo…». Troppo tardi.

Orfani del loro leggendario condottiero che avrebbe dimostrato definitivamente quanto avesse ragione chi sosteneva che la terra fosse rotonda e quanto torto avessero i terrapiattisti, i sopravvissuti sbandarono. Ma sotto la guida del basco Juan Sebastián Elcano decisero di tirar dritto. E dopo essere partiti dal porto di Siviglia per le Canarie, Rio de Janeiro, la Patagonia, la Polinesia francese, le Spodari equatoriali, le isole delle Marianne, le Filippine, proseguirono per l’Indonesia, Timor, il Capo di Buona Speranza, Capo Verde e finalmente Sanlúcar de Barrameda. Decimati, feriti, spossati. Ma vincitori.

L’8 settembre - La serata commemorativa a Vicenza

Per ricordare il «loro» grande viaggiatore, i vicentini hanno organizzato l’8 settembre, grazie alla generosità dell’associazione «Pigafetta 500» animata da Stefano Soprana, per tre anni promotrice di una serie di eventi sul tema, una serata lirica al Teatro Comunale: «Pigafetta e il primo viaggio intorno al mondo». Musica del maestro Pierangelo Valdinoni, libretto di Paolo Madron, direttore Alex Betto, regista Luca Valentino. Indimenticabile l’incontro fra Magellano, Pigafetta e il gigante Patagon: «Omo alto venti spanne: / gnudo era, rosso in volto. / Pelo scuro tutto folto, / denti lunghi come zanne. // Donne dalle forme strane: / tete longhe mezo brazo, / meze alte, meze nane, / oci neri, grande nazo...»

Archeologia, ritrovati nella Manica relitti della flotta di Luigi XIV. La Repubblica il 29 Agosto 2022.  

Risalgono al 1692 quando le imbarcazioni furono annientate nella battaglia di Hogue

Importante scoperta archeologica nella Manica dove, dopo lunghe ricerche, sono stati autentificati con certezza tre relitti della flotta di Luigi XIV annientata nel 1692 nella battaglia della Hougue, contro l'alleanza anglo-olandese. Lo ha annunciato il ministero della Cultura francese precisando che la missione di archeologia subacquea e sottomarina nei siti di Saint-Vaast-la-Hougue si concluderà domani.In realtà i tre relitti in questione erano stati individuati nel lontano 1990 dal subacqueo Christian Cardin, successivamente erano state avvicinate da altri colleghi che hanno rinvenuto del legno, ma non erano mai state studiate dettagliatamente.

"Oggi abbiamo finalmente la certezza che sono collegate alla battaglia della Hougue" ha confermato Cècile Sauvage, archeologa del dipartimento delle ricerche archeologiche subacquee e sottomarine (Drassm), responsabile della missione in corso a Saint-Vaast dallo scorso 15 agosto. Su un totale di 12 relitti localizzati nel corso degli ultimi 30 anni, finora solo cinque sono stati accuratamente studiati da team di scienziati, che sono giunti alla conclusione che "c'è una grande differenza tra quello che dicono gli archivi, il trattato di costruzione navale di Colbert e la pratica" ha precisato Sauvage.

Quanto all'ultimo studio dei tre relitti in questione, è emerso che le strutture in legno sono molto rovinate e che due delle navi sono sepolte sotto a un metro di melma, pertanto potrebbero essere meglio conservate, ma sarà costoso e complicato avere accesso ai reperti. "Effettivamente sarebbe pertinente proseguire a lungo le ricerche per capire come la costruzione delle navi è stata attuata sotto Luigi XIV" ha aggiunto la scienziata che spera di trovare dei partner per finanziare il proseguimento della missione. A bordo delle navi d'epoca si trovano anche oggetti personali che raccontano della vita a bordo. Il Consiglio Generale della Manche ha aperto un museo marittimo sull'isola di Tatihou nel 1992 per raccontare la storia della battaglia di La Hougue.

Da wired.it il 23 agosto 2022.  

Fonte di leggende e carichi di mistero. Lo sono relitti che riposano in fondo ai mari, agli oceani e ai laghi. Secondo l’Unesco sono esattamente 3 milioni: si tratta del frutto di affondamenti causati dalla natura o dall’uomo e molti dei relitti sono stati oggetto di bombardamento durante le guerre o inabissati a causa di guasti meccanici o per colpa di collisioni sfortunate, come nel celebre caso del Titanic. 

Tra i più famosi relitti al mondo ci sono quelli di grandi navi che sono diventate oggetto di turismo balneare da parte di sub esperti. Wired ha selezionato 10 relitti particolarmente spettacolari anche grazie alle fotografie in cui sono stati ritratti: eccoli in questa gallery.

1-SS President Coolidge

Il relitto della SS President Coolidge giace nei fondali dell’arcipelago di Vanatu, nel sud dell'Oceano Pacifico. Lunga oltre 200 metri, oggi è meta per i sub: si trattava di un transatlantico di lusso americano del 1931 che 10 anni dopo fu riconvertito per il trasporto della marina militare. Colpito da due mine nel 1941, il capitano Henry Nelson, sapendo che avrebbe perso la nave, la fece arenare e ordinò alle truppe di abbandonare la nave: nei 90 minuti successivi, 5340 uomini della nave scesero a terra sani e salvi, e ci furono solo due vittime a causa delle esplosioni. Oggi è uno dei relitti più noti al mondo.

2-Titanic

Il relitto più famoso del mondo raccontato da uno dei blockbuster più noti di sempre: l'affondamento dell'RMS Titanic, accaduto nelle prime ore del mattino del 15 aprile 1912 durante il suo viaggio inaugurale, è accaduto a causa della collisione con un iceberg. Era un transatlantico costruito per essere tra i migliori esistenti, considerato al tempo praticamente inaffondabile. A causa delle conseguenze dell'incidente morirono 1518 persone: solo 705 persone riuscirono a salvarsi. Il relitto si trova a 3810 metri di profondità nelle acque dell'Atlantico Settentrionale, al largo di Terranova. 

3-Bianca C

Conosciuta come il Titanic dei Caraibi, la Bianca C. giace sui fondali di Saint George's a Grenada, a 50 metri di profondità. Affondata definitivamente nel 1961, era già stata parzialmente a rischio di inabissamento in Francia, prima ancora di essere completata: il secondo e fatale incidente avvenne a causa di un’esplosione che provocò un incendio. Con i suoi 180 metri di lunghezza, si tratta della più grande nave di lusso sommersa.

4-Sweepstakes

La Sweepstakes era una goletta canadese costruita nell'Ontario, nel 1867. Danneggiata al largo di Cove Island, fu rimorchiata nella baia georgiana del lago Huron, sempre in Canada, dove è affondata nel 1885. A causa del suo deterioramento non può essere spostata ma la nave è davvero molto visibile perché si trova a soli 7 metri di profondità. 

5-Zeila, Skeleton Coast

La Skeleton coast (Costa degli scheletri), in Namibia, deriva il suo nome dalle ossa di balena e di foca che un tempo ricoprivano la costa a causa dell'industria baleniera: in tempi moderni quest'area ospita i resti dei naufragi di circa mille imbarcazioni di varie dimensioni colpiti dalle rocce al largo e dalla mancanza di visibilità causata dalla nebbia. Molte sono le navi famose adagiate sulla spiaggia, tra queste la Eduard Bohlen, la Benguela Eagle, la Otavi, la Dunedin Star, Tong Taw o la Zeila India (in foto) affondata il 25 agosto 2008. Il peschereccio, venduto come rottame metallico a una società indiana, si è incagliato dopo essersi staccato dal cavo di traino mentre era diretto a Bombay, in India.

6-Defiance, Lago Huron

La Defiance è una nave affondata nel 1854 nel Lago Huron, uno dei più grandi laghi americani, dopo una collisione. A differenza della quasi totalità delle navi che giacciono sul fondo del lago (se ne contano circa un migliaio, molte custodi di segreti e leggende ancora popolari), la Defiance è rimasta praticamente intera. 

7-Umbria, Mar Rosso

La nave Umbria che giace in fondo al Mar Rosso, fu varata nel 1912 e usata dalle truppe italiane durante la Seconda Guerra mondiale per carico materiale e trasporto dei soldati. Il suo affondamento avvenne il 10 giugno 1940 e ha una storia molto particolare. Ad affondarla fu il suo capitano, Lorenzo Muiesan, quando sentì alla radio che si trovava nella sua cabina l'annuncio di Mussolini dell'entrata in guerra dell'Italia. Il capitano sapeva che il carico della nave sarebbe stato sequestrato e usato dal nemico contro il suo Paese, per questo motivo ordinò di affondare la nave. Infatti la marina britannica controllava Port Said in Egitto e aveva trattenuto l'Umbria per tenerla fuori dal porto. L'Umbria trasportava 360.000 bombe, oltre a un gran numero di spolette, munizioni e detonatori e per questo il capitano prese la decisione di affondarla: oggi, con i suoi oltre 150 metri di lunghezza, è una meta turistica gettonatissima per i sub più esperti. 

8-SS Thistlegorm

L'SS Thistlegorm è una nave mercantile britannica, che è affondata un anno dopo dal suo varo: nel 1941. Si tratta di un relitto visitabile solo da sub esperti e anche al suo interno: giace a 30 metri di profondità quasi intatta. Lunga 126 metri e larga 18, si trova nei pressi della barriera corallina di Sha'ab Alì, nel Golfo di Suez. 

9-Vasa

Il Vasa è una nave da guerra svedese costruita tra il 1626 e il 1628. È affondata all'inizio della sua carriera marittima, ovvero dopo aver navigato per circa 1.300 metri nel suo viaggio inaugurale il 10 agosto 1628. Giaceva nel Mar Baltico, ma nel 1950 il governo svedese ha deciso di recuperare il relitto. Non è stato facile: uno dei motivi dei tanti relitti di imbarcazioni sono le difficoltà (e soprattutto i costi) di recupero. Per la Vasa ci sono voluti più di 18 mesi e 1.300 immersioni, ma oggi può essere vista nella sua interezza all'interno del Museo di Stoccolma. 

10-USS Kittiwake

Lunga poco meno di 80 metri, la USS Kittiwake è stata una nave militare statunitense che è stata in servizio dal 1946 al 1994. Demilitarizzata e cancellata dal registro navale, il suo titolo di proprietà è stato trasferito nel novembre 2008 al governo delle Isole Cayman allo scopo di utilizzare la Kittiwake per formare una nuova barriera corallina artificiale. A tal fine è stata affondata al largo di Seven Mile Beach, Grand Cayman, il 5 gennaio 2011. Sei anni dopo il relitto si è spostato verso una vicina barriera corallina naturale e si è adagiato sul lato sinistro dopo l'impatto della tempesta tropicale Nate: oggi rimane coricata sul fondale marino ad appena sei metri di profondità.

Estratto dall'articolo di Giorgio Ursicino per “il Messaggero” il 23 agosto 2022.

Imprese come questa confermano che, forse è vero, siamo un «popolo di santi, poeti e navigatori». In questo caldo agosto, infatti, sono esattamente trent' anni che nessuno riesce a toglierci uno dei record più prestigiosi del pianeta: resta made in Italy la nave più veloce del mondo. 

Il nome è tutto un programma: Destriero, il cavallo dei sogni per guerrieri medioevali. Dei mari, naturalmente, in grado di domare lo onde più perigliose ad un'andatura da Ferrari. Per meritare la definizione di imbarcazione più rapida del globo non basta una performance qualsiasi. Serve conquistare il Nastro Azzurro che spetta a chi cavalca l'Atlantico nel tempo più breve, senza mai fermarsi, come un fulmine. 

Nell'estate del 1992, il gioiello tricolore dello Yacht Club Costa Smeralda accarezzò l'oceano dall'America all'Europa in poco più di due giorni, all'incredibile media di quasi cento chilometri orari. L'avveniristico scafo si buttò nella finestra di bel tempo, salutando la Statua della Libertà e passando sotto il Ponte di Verazzano, con gli emozionati addetti al faro newyorchese di Ambrose Light che annotarono il passaggio.

Dopo 58 ore, 34 minuti e 7 secondi, alle prime luci dell'alba, sgranarono gli occhi gli ancora più esterrefatti guardiani di Bishop Rock, sulle Isole Scilly, nella gloriosa Inghilterra. «Qui nave Destriero, veniamo da Manhattan, ci prendete il tempo al transito per favore». La risposta incredula e immediata: «Già qui? Ma che avete volato...». In totale erano state bruciate 3.106 miglia marine alla media di 53,09 nodi (98,323 km/h). 

Nelle ultime 24 ore di navigazione, con i serbatoi in grado da garantire un'autonomia di 3.500 miglia ormai quasi vuoti, la nave, su ordine del responsabile della spedizione Cesare Fiorio, scatenò tutti gli oltre 50 mila cavalli (38.534 kW) delle tre turbine a gas General Electric, sfrecciando alla media di 58,3 nodi con punte superiori ai 125 km/h.

La nave tutta in alluminio (un'anteprima per dimensioni del genere) è lunga quasi 70 metri (67,7) e, con dislocamento leggero (con poco carburante), è in grado di toccare i 70 nodi anche con mare Forza 4 (onde alte tre metri e mezzo). L'impresa, ideata e voluta solo tre anni prima dal principe ismailita Karim Aga Khan, era stata centrata, il Destriero si poteva infiocchettare col Nastro Azzurro, un Trofeo in seta che le antiche regole nautiche per l'occasione volevano lungo 8,25 metri. [...] 

Ora che il Destriero riposa dimenticato in un porto tedesco, il Nastro è gelosamente conservato nelle stanze più nobili del circolo velico di Porto Cervo e fatto sventolare un solo giorno l'anno, quello della ricorrenza dell'avventura. L'iniziativa dell'Aga Khan, presidente anche dello Yacht Club Costa Smeralda, fu supportata con entusiasmo da personaggi di rilievo in rappresentanza delle aziende più importanti del Paese. 

Da Gianni Agnelli della Fiat, grande appassionato di nautica ed a bordo per le prove iniziali, a Franco Nobili dell'IRI fino a Umberto Nordio di Alitalia. Fra i partner tecnici prestigiosi l'americana General Electric, l'italiana Agip, la tedesca MTU e la svedese KaMeWa.

Il Destriero fu progettato dallo studio specializzato a stelle e strisce di Donald L. Blount e realizzato da Fincantieri nell'impianto di Muggiano, in provincia di La Spezia. Gli studi preliminari dello scafo iniziarono nel 1989 e, già all'inizio del 1990, fu definito il progetto. A maggio, fu siglato il contratto di costruzione. Per l'industria navale italiana, che stava lavorando sui monoscafi ad alte prestazioni, fu un'occasione ghiotta per effettuare sperimentazione estrema sul campo.

Destriero era altamente innovativo. Per prima volta una nave così imponente (stazza 400 tonnellate) veniva realizzata completamente in alluminio. E fece il suo esordio, al posto della propulsione diesel con eliche, la spinta ad idrogetto. Tre GE LM 1600 (in moduli realizzati dalla MTU) capaci di sviluppare 51.675 cavalli continui fornivano energia ad altrettanti idrogetti model 125 della KaMeWa tramite riduttori Renk-Tacke. [...] 

La prima lastra di alluminio venne tagliata nel mese di luglio del 90, durante i Mondiali di Calcio di Maradona. Tutte le altre furono lavorate con macchine a controllo numerico per avere la massima precisione, sfruttando l'esperienza militare accumulata da Fincantieri. La parte delle sovrastrutture aerodinamiche fu affidata alla Pininfarina. La nave fu varata 28 marzo 1991, solo 270 giorni dopo il via dei lavori. Anche questo un record di competenza, impegno e professionalità.

Gli uomini alle dipendenze di Fiorio durante la traversata erano 14, solo tre di loro non hanno potuto partecipare alla festa del trentennale perché non più tra noi. Nelle 58 ore più lunghe, dalla East Coast degli Usa all'Isola più a West della Gran Bretagna, pare che nessuno di loro chiuse mai occhio per controllare che tutto filasse liscio in quell'ingresso nella leggenda. 

Insieme al Principe Karim, ad accogliere i 15 naviganti in Costa Smeralda, c'era anche il geniale avventuriero inglese Richard Branson (il precedente detentore del Nastro, che gli consegnò il Virgin Atlantic Trophy che andò ad aggiungersi ad un altro riconoscimento del New York Yacht Club, il più antico e prestigioso degli States. All'arrivo a Bishop Rock si stavano concludendo le Olimpiadi di Barcellona e i media di mezzo mondo non esitarono a definire l'impresa «la medaglia più preziosa per l'Italia». [...]

 Intanto il purissimo cavallo di razza era finito ormeggiato, nell'oblio più totale, al bacino numero 3 della base navale di Devonport, nei pressi di Plymouth, nel Regno Unito. All'inizio del 2009 Destriero affrontò una passeggiata marina dalla Gran Bretagna ai cantieri tedeschi di Lürssen, sul fiume Weser, vicino alla città di Lemwerder, nei pressi di Brema. 

Il capolavoro che rivoltava gli oceani fu imbarcato su una nave più grande perché nessuno aveva l'ardire di avviare i suoi poderosi motori. Ora ci sono in corso tentativi per convincere il Principe (pare ancora proprietario dell'opera d'arte attraverso una società da lui controllata) per riportare a casa un'icona del made in Italy che non ha uguali.

Da “Corriere della Sera” il 18 agosto 2022.

Non avranno bisogno del Daspo urbano, probabilmente, per decidere di starsene alla larga da Venezia nel prossimo futuro. I due «surfisti motorizzati» che mercoledì 17 agosto sono stati visti sfrecciare per i canali del centro storico lagunare e che di conseguenza sono diventati protagonisti di una caccia all’uomo durata mezza giornata, non solo si sono visti multare dai vigili veneziani, le tavole sequestrate, ma stando a quanto raccontano al loro rientro in albergo avrebbero anche scoperto di essere stati derubati; il furto, oltretutto, sarebbe importante: i due, australiani, lavorano come videomaker e dalla loro camera sarebbero scomparse attrezzature costose, droni e videocamere di vario valore.

Alla fine, insomma, la loro vacanza a Venezia avrebbe registrato un conto folle: le due tavole finite sotto sigilli avrebbero un costo totale di circa 25mila euro, a ciascuno è stata staccata una sanzione da 1.500 euro (la colpa, tecnicamente, è quella di aver corso in laguna a bordo di due mezzi non assicurati), la Procura sta valutando se accusarli di rischio per la navigazione mentre l’avvocatura civica veneziana sta già avviando le pratiche per il danno d’immagine; a questo si somma la perdita di quanto lasciato in albergo.

E pensare che, tre anni fa, un altro surfista a motore (in quel caso in equilibrio su un hydrofoil, una piattaforma che viaggia quasi sospesa sopra l’acqua) aveva fatto scattare un’altra caccia all’uomo, in quel caso conclusa non appena si è scoperto che si trattava solo di una trovata pubblicitaria per la promozione della versione live-action dell’Aladdin disneyano (che, quindi, si spera avesse tutte le autorizzazioni per quella che pareva una goliardata).

La «taglia» di Brugnaro

La coppia di surfisti australiani era stata avvistata in prima mattinata, vicina a San Giuliano, quindi dove la terraferma veneziana affaccia sulla laguna, tanto che si pensava avessero usato quel punto per iniziare il loro raid tra i canali, magari partendo da un albergo di Mestre.

A scatenare le ricerche, però, era stato il sindaco Luigi Brugnaro chea distanza di qualche ora ha pubblicato sui suoi canali social le immagini dei due che zigzagavano in Canal Grande, chiedendo aiuto a tutti i veneziani per identificarli e - addirittura - promettendo in cambio una cena a chi avesse fornito indicazioni utili ad acciuffarli. Brugnaro in realtà ne faceva anche una questione politica: in tempo di elezioni e campagna elettorale breve ne ha approfittato per sottolineare ancora una volta come i Comuni siano costretti a lavorare con le «armi spuntate», lui che da sette anni chiede che ai sindaci siano conferiti i poteri del giudice di pace.

Sempre il primo cittadino ha poi comunicato con un tweet che gli australiani erano stati identificati, ringraziando tutti per la collaborazione. E chissà se qualcuno ha anche ricevuto, via messaggio privato, orario e ristorante dove incassare la sua ricompensa.  

Serenella Bettin per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2022.

Nessuno ha il coraggio di dirlo, ma suvvia, gli amanti delle onde avranno provato tutti un po' di invidia nel vedere i due "imbecilli" cavalcare la laguna di Venezia col surf a motore.

Perché di questo si tratta. Volare sull'acqua senza fare fatica è una vera e propria "figata". Il surf elettrico. Quello che va da solo. La moda del momento. Il video dei due surfisti che cavalcano la laguna è divenuto virale.

Condiviso anche dal sindaco Luigi Brugnaro - e non per gradimento - sta facendo il giro del mondo e funge quasi da trampolino di lancio per sdoganare questo nuovo modo di fare surf che alcuni hanno definito democratico. Costa poco.

Non fai tanta fatica. E se mantieni l'equilibrio la tavola va via da sola. Infatti si può surfare anche in assenza di onde e addirittura nei laghi. Ovviamente rispettando la distanza di sicurezza. Insomma un accessorio da mettere in valigia, oseremo dire, perché tra i surf elettrici presenti sul mercato ci sono anche quelli gonfiabili.

Apparsi per la prima volta in Australia negli anni Trenta, questi si chiamavano "surf scooter" perché in principio erano questi. Le moto d'acqua. Quelle che vedevi sfrecciare sul mare come bolidi che sembravano volare.

Poi a qualche costruttore nautico venne l'idea di realizzare un surf a motore e qualche anno fa vennero messi in commercio i primi modelli. Già l'anno scorso era un po' esplosa la tendenza. Se vai nelle spiagge di Puglia, Marche, Molise, li vedi sfrecciare a tutta battuta. 

PERFORMANTI Tutte queste tavole sono costruite con materiali resistenti e performanti, tra cui la fibra di carbonio e sono quasi tutte dotate di hydrofoil, un’appendice che consente di alzarsi sul livello dell'acqua. Ma come funziona? La tavola è simile a quella usata per fare surf, anche se qui non si cavalcano le onde, ma si resta in qualche modo sospesi. Il propulsore elettrico sottomarino ad elica permette di viaggiare sul pelo dell'acqua semplicemente controllando il motore attraverso un telecomando senza fili. La tavola poi si accende attraverso una chiave calamitata che funge anche da dispositivo di sicurezza. Funziona un po' come il tapis roulant. Se il surfista cade dalla tavola la chiave si stacca e il motore si spegne. Alcuni surf a motore arrivano anche a 50 chilometri orari.

E ce n'è per tutti i gusti. Per tutti i tipi. Per tutti i fisici. Il prezzo?

Online ci sono varie proposte che vanno dai 13 mila agli oltre 15 mila euro. C'è quello che arriva dalla Svezia, che tocca i 30 nodi e raggiunge una velocità massima in soli quattro secondi. La tavola è spinta da un motore elettrico brushless (a corrente continua, senza spazzole) di 11 kilowatt e la velocità la si può controllare con un acceleratore portatile. In Spagna questa tavola dotata di batteria arrivò già nel 2014.

In Germania invece un'azienda, nel 2015, grazie a una campagna di crowdfunding, iniziò a costruire i primi modelli.

La velocità massima è di 26 nodi, la potenza del motore è di 10 kilowatt equivalente a un 14 cavalli. E udite, udite: si gonfia. Ma nel mercato c'è anche il surf per taglie pesanti che regge piloti fino a 100 chili. Poi c'è anche quello per i poveri, sotto i 6 mila euro, che sulla piattaforma Kickstarter - crowdfounding indipendente che mette in risalto idee e progetti di privati o aziende che hanno bisogno di un supporto economico - sta avendo il suo discreto successo. 

MADE IN CINA Anche i cinesi sono arrivati sul mercato. Waydoo Flyer, leader in sistemi elettronici e progettazione alare, ha messo in commercio un eFoil dal prezzo contenuto e buone prestazioni. La tavola ha 30 minuti di autonomia, cinque velocità, un motore da 6000 watt. E si acquista direttamente sul sito a 7100 euro. Ma ci sono anche quelli economici che li puoi trovare ovunque. Spedizioni pure gratis. Basta digitare su Google "surf elettrico" e ti viene fuori di tutto.

C'è sì quello da 7.599 euro, ma c'è anche quello su Amazon a 3.196 euro. Così come c'è anche la tavola da surf "facile da usare", "alimentata da una batteria agli ioni di litio ricaricabile, ecologica e sicura" al modico prezzo di 1689 euro. Questa, c'è scritto su Amazon, è dotata di "sistema di controllo intelligente". Gli imbecilli a Venezia sono avvisati.

Francesca Bernasconi per ilgiornale.it il 3 settembre 2022.

Una baleniera che naviga nel cuore dell'Oceano Pacifico, un capodoglio che travolge la nave e un gruppo di naufraghi che riesce a sopravvivere facendo ricorso al cannibalismo. Sembrano gli ingredienti perfetti per un romanzo o un film di successo. Ma questi fatti non sono frutto di una finzione narrativa, a dimostrazione che, a volte, la realtà supera la fantasia. E, infatti, è stata proprio la storia della baleniera Essex a ispirare libri come quello di Herman Melville, Moby Dick. 

La caccia alle balene

Fin dai tempi antichi l'uomo ha considerato la balena (e, in generale, i cetacei) un animale da cacciare. Oltre che per la carne, capodogli, balenottere e megattere erano preziose anche per l'olio, ottenuto dal grasso e utilizzato per alimentare le lampade, e l'ambra grigia, con cui si possono realizzare profumi. 

Anche i fanoni, lamine presenti nella bocca di alcune specie di balene, potevano essere usati per costruire carretti, aste e per irriggidire alcune parti dei vestiti, come i corsetti femminili o i colletti delle camicie maschili.

La caccia alla balena veniva effettuata con l'utilizzo di grandi vascelli, chiamate baleniere, che si servivano di piccole barche, le lance, in grado di avvicinarsi maggiormente ai cetacei avvistati. Da qui i marinai lanciavano un arpione per colpire e uccidere la balena. Una volta catturato, l'animale veniva portato sulla baleniera, dove veniva lavorato, di modo da separare e conservare il grasso e gli altri prodotti utili all'uomo.

All'inizio dell'800 la caccia alle balene divenne l'attività principale degli abitanti di Nantucket, un'isola degli Stati Uniti, situata a Sud di Cape Cod, nello Stato del Massachusetts. Partì proprio da lì la baleniera Essex, la cui tragica fine ha ispirato il romanzo Moby Dick. 

Costruita ad Amesbury nel 1799, come riporta la National Maritime Digital Library, la Essex prese il mare nell'agosto del 1819, sotto il comando di George Pollard. Dopo aver raggiunto le isole a Ovest dell'Africa e doppiato Capo Horn, la baleniera si spinse al largo dell'Oceano Pacifico. Il carico di bordo, consistente in grasso di balena, era infatti considerato troppo ridotto, soprattutto in relazione all'arrivo dell'inverno. Per questo il capitano e i marinai decisero di continuare a esplorare il mare. 

L'attacco del capodoglio

A metà novembre, stando a quanto raccontò il primo ufficiale Owen Chase, sopravvissuto al disastro, la baleniera avvistò un gruppo di capodogli e il comandante diede ordine di calare le lance, perché inseguissero i cetacei, nella speranza di catturarne alcuni, per poterne ricavare il necessario. 

Chase riuscì ad arpionare una balena che, nel tentativo di liberarsi, colpì la sua scialuppa, provocando una falla. Dato il problema causato dall'apertura, da cui entrava acqua, Chase lasciò andare il cetaceo e torno alla Essex, per cercare di riparare la barca.

Ma qualcosa di più terribile stava per accadere. Era il 20 novembre del 1820. Il grido di un uomo annunciava l'attacco: "Ho visto una balena molto grande avvicinarsi a noi", raccontò poi Thomas Nickerson, un marinaio a bordo della baleniera, sopravvissuto al naufragio, che scrisse un resoconto sulla vicenda. 

"Il suono delle loro voci aveva appena raggiunto le mie orecchie - continua il racconto di Nickerson - quando fu seguito da un terribile 'crash'. La balena aveva colpito la nave con la testa, direttamente sotto la catena di prua di babordo". La nave però non affondò. Ma, invece di allontanarsi, "il mostro fece una svolta a circa trecento metri più avanti, poi, voltandosi di scatto, arrivò con la sua massima velocità".

E ancora una volta attaccò la nave con "un tremendo colpo". Per la Essex, ormai, non c'era più nulla da fare: "Uno degli uomini che era sotto in quel momento arrivò di corsa sul ponte dicendo: 'La nave si sta riempiendo d'acqua'". 

La Essex non colò subito a picco, dando modo all'equipaggio, composto da una ventina di uomini, di recuperare materiale e viveri per 30 giorni di navigazione. Poi, il 22 novembre, tre lance lasciarono il relitto, che si stava inabissando, e iniziarono la loro navigazione nel Pacifico, con l'intenzione di raggiungere le cosre del Sud America. Sarà l'inizio di un lungo ed estenuante naufragio, che lascerà dietro di sé decine di morti e metterà gli uomini a dura prova. 

Il naufragio

Tempeste, vento e mare mosso caratterizzano i primi giorni del naufragio. Poi i giorni diventarono settimane e mesi e il caldo cocente iniziò a inviare le lance degli uomini sopravvissuti all'affondamento e all'attacco del capodoglio. La sete, raccontò Nickerson era così forte "tanto che alcuni furono costretti a cercare sollievo nella propria urina. Le nostre sofferenze durante quei giorni caldi superano qualsiasi immaginazione".

Poi, il 20 dicembre, alle sette del mattino, uno dei marinai vide qualcosa che infuse speranza agli uomini sulle scialuppe: "C'è terra", gridò all'improvviso. I marinai credettero di essere incappati nell'Isola Ducie, un piccolo atollo, ma si trattava in realtà di Henderson, un'isola disabitata nell'Oceano Pacifico, che offriva poche risorse.

Per questo, dopo una settimana sull'isola, il capitano e i suoi compagni presero la decisione di rimettersi in viaggio attraverso l'oceano. La mattina del 27 dicembre le barche vennero portate nuovamente in mare. A bordo c'erano tutti i membri dell'equipaggio della Essex, a eccezione di tre uomini, che rimasero sull'isola, probabilmente perché troppo deboli per poter affrontare di nuovo il mare aperto. I tre vennero soccorsi e tratti in salvo dopo mesi, il 9 aprile 1821. 

Intanto, gli altri marinai erano in navigazione nell'Oceano Pacifico, con pochissime provviste e il mare non forniva il sostentamento necessario. Così, alcuni uomini iniziarono a morire di stenti e i compagni seppellirono i corpi affidandoli al mare. Fino a che la situazione divenne disperata. 

A quel punto, era rimasta un'unica risorsa: mangiare i corpi dei propri compagni morti. I marinai della Essex dovettero ricorrere al cannibalismo. "Oggi un uomo di colore di nome L. Thomas è morto - scrisse Nickerson - e il suo corpo costituì il cibo dei suoi compagni sopravvissuti per diversi giorni".

Lo stesso scenario si ripetè altre volte fino a che "il capitano con i suoi tre compagni sopravvissuti, dopo una dovuta consultazione, acconsentì a tirare a sorte", per decidere quale marinaio avrebbe dovuto morire, così da permettere agli altri di sopravvivere fino a quando, nel febbraio 1821, vennero salvati dalla nave Dauphin di NantucKet. Altri marinai vennero soccorsi dal mercantile Indian e dal Surrey. 

Come precisato dal Nantucket Historical Association, otto marinai della Essex morirono in mare e altri quattro risultarono dispersi. In totale, quindi, dodici uomini non fecero mai ritorno a casa. Tra i superstiti, il capitano Polland tornò al comando di una nave, che naufragò nuovamente, e il primo ufficiale Owen navigò ancora per diverse campagne di caccia alle balene. 

Per molti dei sopravvissuti, il rimorso per il cannibalismo fu tale da lasciarli segnati per tutta la vita e gli altri marinai superstiti non navigarono più. 

Viveri intatti e equipaggio scomparso: il mistero della nave fantasma. La Mary Celeste venne trovata alla deriva il 4 dicembre 1872. A bordo carico e viveri erano intatti. Ma dell'equipaggio nessuna traccia. La storia del mistero dell'archetipo della nave fantasma, che ha ispirato leggende e romanzi. Francesca Bernasconi il 21 Agosto 2022 su Il Giornale.

Una nave vaga nell'oceano, alla deriva. A bordo i viveri ancora in cambusa e gran parte del carico che trasportava intatto. Ma degli uomini dell'equipaggio non c'è traccia. È la storia della prima "nave fantasma", la Mary Celeste, i cui fatti hanno ispirato numerosi racconti di fantasia, che si sono mischiati alla realtà, contribuendo a creare la leggenda del brigantino dei misteri.

Il brigantino maledetto

La costruzione della nave iniziò nel 1860 nel cantiere navale dell'isola di Spencer, in Nuova Scozia (Canada). Lunga oltre 30 metri e larga circa 7, come riporta il database del patrimonio marino di On the Rocks, venne varata l'anno dopo e prese il nome di Amazon. Fin da subito attorno al brigantino iniziò ad agitarsi un vento maledetto.

Durante il viaggio inaugurale alla volta di Londra infatti, il capitano della nave, il primo a governare la Amazon, si ammalò e il brigantino dovette fare ritorno all'isola di Spencer, dove l'uomo morì poco tempo dopo. A quel punto il nuovo capitano assunse il comando e partì, per cercare di compiere il viaggio fino a Londra, ma durante la navigazione si scontrò con una barca da pesca. Disastrosa fu anche la sua prima traversata transatlantica, durante la quale il brigantino urtò un'altra nave. Poi, dopo sei anni tranquilli, nel 1867, la Amazon venne colpita da una tempesta, che la portò ad arenarsi e la danneggiò gravemente, tanto che i proprietari la abbandonarono come fosse un relitto.

Ci pensò un marinaio di New York a donarle una nuova vita, cambiandogli il nome in Mary Celeste. Successivamente, il brigantino venne ristrutturato e reso leggermente più largo e più lungo, con l'aggiunta di un secondo ponte. L'intento dei proprietari era quello di iniziare un commercio oltre oceano. La nuova vita del brigantino venne affidata al capitano Benjamin Spooner Briggs, che nel 1872 accettò di compiere un viaggio verso l'Europa, per trasportare diversi barili di alcol.

La partenza

Il primo viaggio della Mary Celeste era previsto per il novembre del 1872. La nave, partendo da New York, avrebbe dovuto arrivare a Genova, per portare un carico di alcol. L'equipaggio, comandato da Briggs era composto da uomini fidati, scelti con cura dal capitano: il primo ufficiale era Albert G. Richardson, il secondo ufficiale Andrew Gilling. C'erano poi il cuoco Edward William Head e quattro marinai di origine tedesca: Volkert Lorenson, Arian Martens, Boy Lorenson e Gotlieb Gondeschall. Oltre a loro viaggiavano a bordo anche la moglie Sarah e la figlia piccola di Briggs, Sophia.

Il 5 novembre 1872 la Mary Celeste lasciò il molo dove era ormeggiata sull'East River, per dirigersi al porto di New York. Ma, dato il tempo, il comandante decise di rimandare la partenza. Due giorni dopo, il 7 novembre 1872, le condizioni meteorologiche migliorarono e la Mary Celeste salpò da Staten Island, New York, ed entrò nell'Oceano Atlantico. Direzione: Genova. Il brigantino trasportava un carico per conto della Meissner Ackermann & Coin: si trattava di 1701 barili di alcol. Era iniziata la traversata verso l'Europa.

Mentre la Mary Celeste salpava, c'era un altro brigantino canadese in attesa di compiere la traversata verso Genova passando per Gibilterra. Si trattava del Dei Gratia, ormeggiato in New Jersey, che avrebbe dovuto partire di lì a poco, per trasportare un carico di petrolio. La nave, guidata dal capitano David Morehouse lasciò il porto il 15 novembre 1872 e seguì la stessa rotta che avrebbe dovuto compiere la Mary Celeste. Ma quello che Morehouse vide qualche giorno dopo rivelò che sul brigantino salpato una decina di giorni prima da New York qualcosa era andato storto.

La nave fantasma

Era il pomeriggio del 4 dicembre 1872 (giovedì 5 se si prende in considerazione l'ora solare su cui si basavano i marinai), quando, tra le Azzorre e la costa del Portogallo, i marinai del Dei Gratia avvistarono una nave alla deriva in direzione di Gibilterra, con alcune vele spiegate, anche se in cattive condizioni, e altre mancanti, mentre sui lati pendevano delle corde. Sulla poppa era inciso il nome del brigantino: Mary Celeste. Il capitano del Dei Gratia capì subito che la nave era fuori controllo, dato che sbandava di continuo e non aveva risposto ai segnali di saluto. Per questo Morehouse inviò il sottufficiale sul brigantino.

Quello che vide quando salì sulla nave ha dell'incredibile, tanto che per anni sono circolate leggende che hanno reso la Mary Celeste l'archetipo della nave fantasma. A bordo infatti la cambusa conservava ancora la maggior parte dei viveri, il carico sembrava intatto (erano presenti tutti i 1701 barili di alcol) e gli effetti personali del capitano e dei marinai non erano stati portati via, tanto che gli uomini della Dei Gratia trovarono gli stivali e le pipe. A mancare erano invece il cronometro e il sestante, strumenti utili per la navigazione, e una scialuppa di salvataggio della nave. Sul registro di bordo, l'ultimo appunto risaliva alle 8 del mattino del 25 novembre, nove giorni prima del ritrovamento, e registrava la posizione della nave al largo dell'isola St. Mary, nelle Azzorre, a quasi 740 chilometri rispetto al punto del ritrovamento.

Il capitano Morehouse decise allora di portare il brigantino a Gibilterra, dividendo il suo equipaggio tra le due navi. Il 12 e il 13 dicembre il Dei Grazia e la Mary Celeste toccarono terra. Il brigantino venne immediatamente sequestrato e pochi giorni dopo, il 17 dicembre, iniziarono a Gibilterra le udienze del tribunale di salvataggio. Infatti, secondo il diritto marittimo, chiunque aiuti a recuperare una nave o un carico in pericolo, appartenente ad un'atra persona, ha diritto a una ricompensa, che viene calcolata in base al valore della merce salvata. Ad aprire un'inchiesta sulla scomparsa dell'equipaggio della Mary Celeste fu il procuratore generale Frederick Solly Flood, ma le sue indagini non arriveranno mai a una soluzione.

Le teorie

Sono numerose le teorie emerse negli anni, per spiegare che fine avessero fatto i membri dell'equipaggio e i passeggeri a bordo della Mary Celeste. L'inchiesta di Flood si concentrò su un delitto: l'uomo infatti sospettò che l'equipaggio, a causa dell'alcol, avesse ucciso il capitano e i passeggeri, per poi fuggire. A questo proposito, la nave venne esaminata e vennero scoperte alcune macchie rosso scuro su una parte del ponte, che si ritenne fossero di sangue. Successivamente però il rapporto del dottor J. Patron, che analizzò sia le macchie trovate sul ponte che altre trovate sulla spada del capitano, rimasta a bordo, smentì la tesi del procuratore. "Mi sento autorizzato a concludere - scrisse Patron - che secondo le nostre attuali conoscenze scientifiche non c'è sangue né nelle macchie osservate sul ponte della Mary Celeste, né su quelle trovate sulla lama della spada che ho esaminato".

Alcuni giornali pensarono allora a un coinvolgimento di Morehouse per mettere in gioco una frode ai danni dell'assicurazione. Secondo questa teoria, il capitano della Dei Gratia avrebbe raggiunto la Mary Celeste, ucciso l'equipaggio e riportato la nave a Gibilterra, oppure avrebbe fatto ricorso a una messa in scena, in accordo con Briggs, con il quale aveva intenzione di dividere i soldi dell'assicurazione. Queste due ipotesi non tengono però conto di due fatti: la nave di Morehouse, partita più tardi, non avrebbe mai potuto raggiungere la Mary Celeste e una truffa con il coinvolgimento di Briggs sarebbe stata insensata, dato il misero ricavo che ne avrebbe avuto il capitano del brigantino.

Altre teorie hanno come protagonista il carico trasportato dalla Mary Celeste: quelle 1701 botti di alcol. Una volta che la nave arrivò a Genova, infatti, si scoprì che alcuni barili erano vuoti: "Sono stati sbarcati 1701 barili di alcool in accordo con le polizze di carico - 9 erano vuote - (nessun numero insolitamente elevato)", scrisse il console degli Stati Uniti da Genova al suo pari grado a Gibilterra. Proprio la fuga dei fumi dell'alcol avrebbero allarmato il capitano che, per paura di un'esplosione, avrebbe ordinato l'abbandono nave.

Più recentemente il dottor Andrea Sella dell'University College di Londra ha condotto un esperimento, che ha rivelato la possibilità che ad allarmare l'equipaggio fosse stata un'esplosione. Sella costruì una replica della stiva della Mary Celeste e simulò un'esplosione causata dalla fuoriuscita di alcol dai barili della nave: "Non è stata lasciata fuliggine e non c'era bruciatura", ha spiegato il ricercatore, aggiungendo che una situazione del genere "sarebbe stata assolutamente terrificante per tutti a bordo".

Possibile quindi che la fuoriuscita di alcol abbia creato un'esplosione, che non lasciò traccia, ma che fu così potente da spingere l'equipaggio ad abbandonare la nave. Briggs avrebbe ordinato di assicurare la scialuppa al brigantino, ma il maltempo sopraggiunto quel giorno avrebbe spezzato la corda, una di quelle che venne trovata penzolante sul lato della nave. I registri del Servizio meterologico delle Azzorre infatti mostrarono "che nelle Azzorre prevalevano condizioni tempestose il 24 e 25 novembre 1872".

Le inchieste e gli studi non hanno mai portato la soluzione di uno dei più grandi misteri del mare, che ha continuato ad alimentare leggende e dicerie, finendo al centro di romanzi e film scritti in tutto il mondo. La storia della Mary Celeste, la nave fantasma il cui equipaggio scomparve nel nulla, rimane ancora oggi un enigma indecifrabile.

Il Rex scende in mare davanti ai sovrani. A Genova il varo del transatlantico. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022.

È il 2 agosto 1931. Mentre il Duce si reca in visita a Ravenna per celebrare «le grandi e benefiche realizzazione del Fascismo nel potenziamento della nazione» – così come recita il titolo de «La Gazzetta del Mezzogiorno» – i Sovrani presenziano in Liguria ad un’altra solenne cerimonia. Si tratta del varo del transatlantico «Rex», la cui notizia leggiamo sempre in prima pagina sul quotidiano: «Stamane, alla presenza degli Augusti Sovrani e di una grande folla plaudente, dall’aeroscalo a Genova-Sestri è sceso felicemente in mare il transatlantico Rex, costruito nei cantieri dell’Ansaldo per conto della Navigazione generale Italiana».

Davanti ad una folla di 100.000 persone, dunque, è stato presentato al re Vittorio Emanuele III e alla consorte, regina Elena, il colosso del mare che rimarrà iconico e rivoluzionerà il modo di viaggiare. Così leggiamo sulla «Gazzetta»: «La nave misura m. 268,25 di lunghezza e m. 31 di larghezza e una stazza lorda di circa 50.000 tonnellate. Potrà trasportare oltre 2000 passeggeri. Oltre ai saloni da pranzo, da riunione, da musica, alle biblioteche, alle sale per fumatori, ecc., la nave avrà grandi verande chiuse e grandi passeggiate per tutte le classi; disporrà di grandiosi ponti per gli sports, di due piscine in pieno sole, di sale da ginnastica indipendenti per adulti e per ragazzi, sale da giuoco per ragazzi. La sala da pranzo della classe di lusso coprirà una superficie di ben 700 mq. Tutti gli alloggi e gli spazi liberi saranno sistemati secondo le ultime regole della pratica e avranno i più moderni ritrovati per assicurare ai passeggeri ogni comodità. Il Rex avrà inoltre un teatro con apposito palcoscenico e camerini per gli artisti. Avrà anche una spaziosa chiesa accessibile direttamente ai passeggeri di tutte le classi. Saranno inoltre impiantati a bordo uffici di turismo, negozi d’arte, negozi in genere, e infine una banca con cassette di sicurezza per i passeggeri».

Dotata dei più sofisticati sistemi di sicurezza ed espressione della più avanzata ingegneria navale, nonché del più elegante design italiano, questa straordinaria nave diventerà simbolo della potenza del Paese, del suo ingegno migliore, ma anche di lusso ed eleganza. Il mito del Rex permarrà per tutto il Novecento: celebre la scena centrale del film «Amarcord» di Federico Fellini, in cui la nave compare sfolgorante di luci nel buio per poi dissolversi nella notte, come un sogno meraviglioso. Anche Maurogiovanni nel suo «Chidde dì» ha immaginato il passaggio del transatlantico sulle coste pugliesi, nella realtà mai avvenuto. La leggendaria vita del Rex si concluderà nel settembre 1944: bombardata dagli aerei della Raf, sarà affondata al largo di Trieste.

"Se ne va un pezzo d’Italia". E l’Andrea Doria scomparve negli abissi. Nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1956, la prua di un bastimento svedese squarciò il fianco del transatlantico italiano Andrea Doria. Le vittime, in totale, furono 51. Le operazioni di soccorso permisero di salvare tutti i superstiti. Ma per la nave della rinascita non ci fu nulla da fare e giace ancora sul fondo dell’Oceano. Francesca Bernasconi il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

"Un pezzo di Italia". Di quella laboriosa, delle grandi opere e dei grandi uomini. Così venne definito il transatlantico simbolo della rinascita italiana dopo la Seconda Guerra Mondiale. Era il 1951 quando, nel porto di Genova, fu varato l’Andrea Doria. Una città galleggiante, che accoglieva lusso, piscine, ristoranti e opere d’arte, una nave su cui tutti volevano viaggiare, da Anna Magnani ad Alberto Sordi, fino a Cary Grant. L’Andrea Doria rappresentava l'orgoglio italiano. Per questo, quando affondò il 26 luglio 1956, trascinò con sé negli abissi anche una parte del cuore degli italiani e di tutto il mondo.

Il transatlantico della rinascita

Durante la Seconda Guerra Mondiale, circa metà della flotta mercantile italiana era andata perduta, sia a causa della distruzione dovuta ai bombardamenti sul territorio, che alla militarizzazione. Anche le navi nate per il trasporto di merci o persone infatti venivano utilizzate per scopi militari. Per questo nel Dopoguerra si impose la necessità di ricostruire la flotta nazionale, per recuperare l’orgoglio italiano e incentivare la ripresa economica di un Paese in ginocchio. Così negli anni Cinquanta vennero commissionate due navi molto simili, che presero successivamente il nome di Andrea Doria e Cristoforo Colombo.

I lavori della prima iniziarono il 9 febbraio 1950, nei Cantieri Ansaldo di Genova Sestri Ponente. Al tempo era riconosciuta come la costruzione n.918: solo poche settimane prima del varo le venne dato il nome "augurale sul mare" di Andrea Doria, in onore dell’ammiraglio e condottiero della Repubblica di Genova. Il transatlantico faceva parte della Italia-Società di Navigazione, gruppo Iri-Finmare, conosciuta nel resto del mondo come Italian Line. Il 16 gennaio 1951 ci fu il varo della nave, alla presenza di una folla di persone che videro la bottiglia infrangersi contro una delle fiancate: "Sulle tribune erette a ridotto dello scalo era tutta la Genova elegante insieme alle solite personalità giunte da Roma - raccontò La Stampa - torno torno allo scalo era tutto il popolo: gli operai del cantiere – sono più di 20mila – le loro donne, i loro bambini". Era da prima della guerra infatti che non si assisteva a uno spettacolo simile.

Lunga oltre 200 metri, larga quasi 30 e dal peso di oltre 29mila tonnellate (stando alle misure riportate dal Comparision Chart), l’Andrea Doria era un concentrato di lusso e comodità: a bordo erano state installate tre piscine, quattro cinema, telefoni in ogni cabina e tutti i locali erano dotati di aria condizionata. L’arredo fu affidato ai migliori architetti dell’epoca e a scultori e pittori, autori di vere e proprio opere d’arte. Strutturata su 11 ponti, la nave poteva ospitare fino a oltre 1.800 persone, tra equipaggio (563 ufficiali e membri del personale) e passeggeri, divisi nelle tre classi: 218 in prima classe, 320 in cabina e 703 in turistica.

Ma l’Andrea Doria non era solo estetica e bellezza. Il transatlantico poteva raggiungere la velocità di crociera di 23 nodi, arrivando fino a un massimo di 26,44. Anche la sicurezza venne messa al primo posto, tanto che a bordo trovavano posto tecnologie e sistemi di sicurezza di ultima generazione: 12 compartimenti stagni, con relative porte, scafo a doppio guscio nella zona del motore e un radar potente, quello che venne definito dalla testata Mondo Libero, in un documento raccolto dall'Archivio Luce, "l’occhio che vede l’invisibile anche se c’è foschia, anche se la nebbia più spessa ovatta la superficie dell’acqua". Ma questo non basterà a salvare l’Andrea Doria e sarà proprio a causa della fitta nebbia che il transatlantico della rinascita si inabisserà.

L'ultima traversata

La turbonave aveva compiuto il suo viaggio inaugurale il 14 gennaio 1953, partendo da Genova, sotto la guida del comandante Piero Calamai. L’Andrea Doria avrebbe viaggiato lungo la "rotta del sole": da Genova a Cannes, poi Napoli, uno scalo a Gibilterra e infine la traversata dell’Oceano Atlantico, con l’arrivo a New York a una settimana dalla sua partenza.

Il 17 luglio 1956 l’Andrea Doria partì da Genova alla volta di New York. Il giorno successivo, dopo la tappa a Cannes, la nave arrivò a Napoli e il 20 luglio a Gibilterra. Poi lasciò la costa, per dirigersi verso l’Oceano Atlantico, verso New York, dove il suo arrivo era previsto per le ore 9 del 26 luglio. "Il capitano Calamai annotò sul suo diario di bordo: un totale di 1.134 passeggeri (190 di prima classe, 267 di cabina e 677 di classe turistica), 401 tonnellate di merci, 9 automobili, 522 bagagli e 1.754 sacchi di posta". Questo il carico della nave, come riportato dal sito web fondato da uno dei sopravvissuti. In totale a bordo c’erano 1.706 persone: 572 membri dell’equipaggio e 1.134 passeggeri.

Fino a quel momento, il viaggio si era svolto come sempre. Ma l’Andrea Doria non arriverà mai a destinazione. Il suo viaggio si interruppe la sera prima del giorno previsto per l’attracco a New York quando, a causa della fitta nebbia, si scontrò con un piroscafo svedese, lo Stockholm, che gli provocò uno squarcio di decine di metri. La prua dello Stockholm, rinforzata per poter operare anche come rompighiaccio, non lasciò scampo al transatlantico italiano, che si inabissò, 11 ore dopo l’impatto, finendo per sempre sul fondo dell’oceano. Quella fu una notte di terrore e disperazione, ma fu anche una notte di miracoli e speranza.

L'impatto

"Notte tra il 25 e il 26 luglio 1956. Gli orologi segnano le 11 di notte. 4.20 ora italiana. Un tremendo urto. Le luci si spengono e urlano nel buio le sirene". Così venne dato l’annuncio dell’impatto tra il transatlantico italiano e il piroscafo svedese. Quella sera, l’Andrea Doria stava navigando verso New York, dopo aver passato la nave faro al largo dell’isola di Nantucket, a Est della Grande Mela, dove era iniziata a comparire una nebbia che, col passare delle ore, era diventata sempre più densa. Per questo il comandante dell’Andrea Doria e i suoi ufficiali si erano affidati al radar e avevano cominciato a emettere avvisi sonori a cadenza regolare, per segnalare la propria presenza.

Quello stesso giorno, la Stockholm era partita da New York, diretta in Svezia. Al comando c’era Gunnar Nordenson, esperto marinaio, ma al momento dell’impatto, la nave era guidata dal terzo ufficiale di coperta, Johan Esnst-Johannsen Carstens. Entrambe le navi si videro sui rispettivi radar, ma le manovre che entrambi fecero per cercare di evitare l’impatto, compresa un’ultima e disperata virata a sinistra del capitano Calamai, non servirono a nulla. E alle 23.09 del 25 luglio 1956 la Stockholm colpì l’Andrea Doria sul fianco destro, squarciandolo per quasi tutta la sua lunghezza.

La prua della nave svedese portò la morte per 45 persone, che si erano già coricate nelle proprie cabine e vennero sorprese nel sonno da quel terremoto marino. Un’altra bambina morì successivamente, a causa delle ferite riportate dopo essere stata lanciata dal padre su una scialuppa, nel disperato tentativo di salvarla. Cinque invece i morti sulla Stockholm. L’impatto causò lo sfondamento di numerose paratie stagne nel transatlantico italiano, provocando l’imbarco di centinaia di tonnellate di acqua di mare, che fece inclinare la nave sul fianco destro.

A quel punto, il destino dell’Andrea Doria era ormai segnato: "Necessitiamo di assistenza immediata", trasmise il radiotelefono del transatlantico quando, pochi minuti dopo la collisione, lanciò un Sos.

Il naufragio

Diverse ore prima dell’incidente, un transatlantico francese, l’Île de France, aveva superato la nave faro di Nantucket ed era in viaggio verso l’Europa. Quando ricevette la richiesta di Sos però, il comandante Raoul de Beaudéan diede ordine di invertire la rotta. Nel frattempo sull’Andrea Doria si cercava di mettere in mare le scialuppe e portare in salvo i superstiti, ma l’inclinazione della nave, che si faceva sempre più acuta, non permise l’utilizzo delle lance (circa metà) posizionate sul lato sinistro. Anche per questo, le operazioni di salvataggio furono molto difficoltose.

Nonostante altre due navi fossero accorse sul posto, a dare speranza ai naufraghi fu l’arrivo del l’Île de France, molto più grande e con numerose scialuppe a disposizione, che giunse sul posto intorno alle 2 di quella notte. La nave, fatta illuminare a giorno dal comandante, rassicurò passeggeri ed equipaggio del Doria e permise lo svolgimento delle operazioni di salvataggio, affiancata da altre quattro navi americane, oltre che dalla Stockholm. Tutte le persone ancora vive a bordo del transatlantico furono tratte in salvo, in una delle più grandi operazioni di soccorso marino della storia. Tra le vittime scampate all’incidente ci fu anche Linda Morgan, soprannominata poi "la ragazza del miracolo", che dormiva in cabina insieme alla sorella, dispersa. Linda, invece, venne ritrovata viva a bordo della Stockholm: la prua penetrata nel Doria l’aveva “prelevata” e trasportata sul bastimento.

Mentre si svolgevano le operazioni di soccorso, l’inclinazione della nave simbolo della rinascita italiana aumentava, nonostante gli sforzi degli addetti alla sala macchine, che fecero di tutto per mantenere attiva l’elettricità fino alla fine e che permisero di evitare l’affondamento della nave prima del completamento dei soccorsi. Poi, alle 5.10 del 26 luglio 1956, 10.10 ora italiana, l’Andrea Doria si inabissò: le luci di emergenza ancora accese, il suo nome e quello di Genova ancora luccicanti sulle eliche. "Un pezzo d’Italia se n’è andato, con la terrificante rapidità delle catastrofi marine e ora giace nella profonda sepoltura dell’oceano - scrisse Dino Buzzati il giorno dopo la tragedia - Era un pezzo dell’Italia migliore, la più seria, onesta, tenace e operosa". L’ultima scialuppa a lasciare il luogo dell’impatto fu la lancia n.11: a bordo c’erano il comandante Calamai e altri membri dell’equipaggio che vegliarono il transatlantico fino alla fine.

Il processo

Il processo successivo all’incidente, svoltosi a New York, non arrivò a una verità, dato che le parti conciliarono, contribuendo entrambe al risarcimento delle vittime. Nel corso delle udienze emersero due versioni differenti. Secondo gli svedesi, sul luogo al momento dell'impatto non c'era nebbia, mentre a detta degli ufficiali italiani (e di diverse navi che passarono dal lì) era scesa sul mare una fitta nebbia, che rendeva difficile la visibilità. Inoltre gli svedesi accusarono gli italiani di non aver valutato adeguatamente la posizione dello Stockholm e di non aver seguito il codice marittimo internazionale, che impone la virata a dritta (destra). Ma l'Andrea Doria aveva virato a babordo (sinistra) solamente per cercare di evitare la nave svedese che, in quel momento, era condotta da un timoniere inesperto e dal terzo ufficiale, per la prima volta solo al comando di una nave. Le due parti però arrivarono a un accordo e il processo venne interrotto.

Anni dopo, uno studio di un esperto navale americano, John Carters, giunse ad altri risultati: basandosi sui tracciati di rotta delle due navi, lo studioso sostenne che la nave svedese aveva effettuato una brusca virata in direzione del Doria, credendo che il transatlantico italiano fosse più lontano, a causa di una sbagliata interpretazione del radar.

Si scoprì successivamente, come rivela un documentario di History Channel, che già nel 1957 il Ministero della Marina aveva effettuato un’inchiesta sul naufragio, concludendo che gli ufficiali italiani non avevano responsabilità: "La commissione, vagliati tutti i fatti non ravvisa pertanto deficienze perseguibili a carico degli Ufficiali dell'Andrea Doria", si legge nei fogli dell'inchiesta mostrati nel documentario. Non solo. Secondo l'inchiesta, "ci sono stati magnifici episodi di coraggio e di abnegazione, per cui si può affermare che il comportamento del personale è stato nel suo insieme degno delle migliori tradizioni della marineria italiana".

Scene di eroismo che avevano contribuito a salvare i superstiti dell'ultimo viaggio dell'Andrea Doria, la nave italiana che ha rappresentato la rinascita, ma che è stata anche simbolo di un modo di viaggiare nuovo, che resterà per sempre scolpito nel tempo.

Da leggo.it l'1 agosto 2022.

Un morto e sei feriti, due dei quali gravi, in un incidente al largo di Porto Cervo: uno yacht di 70 piedi, circa 21 metri, si è schiantato sugli scogli delle isole Nibani. 

Gli occupanti dello yacht

La vittima è un uomo di 63 anni di nazionalità straniera, probabilmente l'armatore stesso della barca. È stato recuperato vivo ma incosciente dagli uomini della guardia costiera di Olbia e Porto Cervo, ma è morto subito dopo i soccorsi.

A bordo in tutto 7 persone, compresa la vittima. Gli alti 6 feriti sono stati sbarcati a Porto Cervo e assistiti sul posto dai medici del 118 di Arzachena e Porto Cervo. Due sono in gravi condizioni e sono stati trasferiti in ospedale con codice rosso.

La dinamica dell'incidente

Secondo le prime informazioni, l'incidente, che è avvenuto intorno alle 20.40 mentre il gruppo navigava davanti alle isole li Nibani, potrebbe essere stato causato dalla manovra improvvisa del comandante dello yacht per evitare la collisione con un'altra imbarcazione. Il 21 metri è semiaffondato e il relitto è già stato recuperato e trainato dai rimorchiatori fino allo scalo a Porto Cervo.

Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 2 agosto 2022.

Due grossi motoscafi d'altura quasi affiancati, a velocità sostenuta, doppiano gli isolotti dei Nibani, nel golfo del Pevero. All'improvviso uno rallenta, fa una stretta virata e va a schiantarsi sugli scogli. Sullo yacht «Amore» (un Magnum 70, 21 metri) sette persone. L'armatore, sbalzato in acqua, è morto, ma non per l'urto: d'infarto. È Dean Kronsbein, 62 anni, uomo d'affari tedesco, che da anni vive in Gran Bretagna, amico della famiglia reale. Feriti la figlia, la moglie e altri due che erano a bordo sottocoperta. 

L'incidente domenica al calar del sole. Il comandante di «Amore» ha lanciato il mayday alle 20.40 e la guardia costiera ha chiesto alle imbarcazioni che incrociavano a Porto Cervo di prestare soccorsi. Fra le altre era vicinissimo ed è subito accorso «Sweet Dragon», barca storica di Silvio Berlusconi, un Magnum 70 «gemello»: lo acquistò negli anni '90, è stato utilizzato dai figli del presidente di Forza Italia e di Veronica Lario e più di recente anche dalla compagna Francesca Pascale. Berlusconi era in Sardegna nel fine settimana ma non risulta che domenica si sia allontanato da Villa Certosa. 

Kronsbein è amministratore delegato di una società che produce apparecchiature e componenti filtranti, ma è attivo anche nel settore immobiliare. Domenica si è imbarcato sul Magnum - che batte bandiera italiana - e ha chiesto al comandante di fare rotta verso l'arcipelago della Maddalena. Al ritorno, superata l'imboccatura di Porto Cervo, «Amore» procedeva a velocità sostenuta e non ha rallentato, pare, neanche all'approssimarsi dello stretto passaggio fra la costa e l'isolotto delle Rocche, così chiamato perché proprio nel mezzo del tratto di mare (meno di 70 metri) affiorano scogli, ben segnalati da un'asta.

A fianco dello yacht altre barche. Il comandante ha forse tentato una manovra per evitare la collisione, ma è finito sulle rocce. Nell'impatto Kronsbein è stato scaraventato in acqua. Ripescato, non sembrava ferito gravemente ma aveva perduto conoscenza. Sul molo di Porto Cervo un'équipe medica del 118 ha cercato invano di rianimarlo. 

Le altre persone a bordo di «Amore» sono state trasferite sul «Sweet Dragon», sbarcate e ricoverate a Olbia. La più grave a Sassari in codice rosso, ma non in pericolo di vita. Sullo scafo uno squarcio di sei metri, esaminato dalla capitaneria di Porto e all'attenzione della procura di Tempio Pausania, che ha raccolto (e blindato) rilievi e testimonianze. L'indagine vuol chiarire se ci sia stata una «gara», quali barche abbiano eventualmente partecipato e se chi era al timone abbia operato con la prudenza richiesta dal codice della navigazione

Estratto dell'articolo di Umberto Aime per “il Messaggero” il 3 agosto 2022.

In Costa Smeralda si arricchisce di nuovi particolari il mistero del naufragio del supermotoscafo Amore, finito domenica scorsa contro gli scogli dell'isolotto Li Nibani, davanti al golfo del Pevero, con la prua sventrata. 

Nell'incidente è morto l'imprenditore inglese Dean Kronsbein, 61 anni, celebrato di recente dal Financial Time come il re delle protesi sanitarie, e sono rimaste ferite la moglie e la figlia, ricoverate in gravissime condizioni all'ospedale di Olbia. Anche un altro maximotoscafo sarebbe stato coinvolto nell'incidente, ancora non si sa bene come. 

È lo Sweet dragon della famiglia Berlusconi. Fino a poche ore fa lo skipper dello Sweet era stato salutato come il salvatore delle sei persone a bordo, più la vittima, dell'imbarcazione Amore. Ma adesso anche lui è finito sul registro degli indagati della Procura di Tempio per omicidio colposo e lesioni. Sono gli stessi reati già contestati al comandante del motoscafo Amore: Mario Lallone, residente a Roma.

Da una prima ricostruzione, proprio Lallone avrebbe dichiarato al pm di aver dovuto modificare all'improvviso la rotta e accostarsi agli scogli, per non essere speronato da un altro yacht. Da giorni la Capitaneria di Porto è alla ricerca della seconda imbarcazione che avrebbe provocato il pericoloso cambio di rotta e, secondo alcune indiscrezioni, potrebbe averla identificata proprio nello Sweet della famiglia Berlusconi.

Barca a vela tranciata da uno yacht. "I danesi avevano il pilota automatico". Tiziana Paolocci il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

La 60enne ancora dispersa è un'ex ginnasta e giudice federale

Una barca a vela tranciata in due da uno yacht, un uomo morto, una donna dispersa, quattro feriti e tanti interrogativi da sciogliere.

Gli uomini della centrale operativa della direzione marittima di Livorno della Guardia Costiera proseguono a ritmo serrato le indagini per far luce sulla collisione fra le due imbarcazioni, avvenuta sabato pomeriggio a largo di Porto Ercole, all'Argentario. Sulla barca a vela Vahinè viaggiavano sei italiani, mentre l'imbarcazione a motore, un motoscafo d'altura di 20 metri, era occupata da quattro danesi e guidata da uno di loro. Entrambe le barche sotto state poste sotto sequestro dagli inquirenti, che stanno ascoltando le persone coinvolte per ricostruire nei dettagli cosa sia accaduto. In queste ore si sta facendo strada l'ipotesi che il conducente dello yacht abbia inserito il pilota automatico e che una disattenzione possa essere alla base del violentissimo scontro. È stata infatti questa imbarcazione a finire a velocità sostenuta contro l'altra, spaccandola in due. Fra le ipotesi di reato, la Procura della Repubblica di Grosseto sta valutando al momento quelle di naufragio, omicidio colposo e lesioni.

Nell'impatto è morto Andrea Giorgio Coen, 59 anni, direttore di una galleria d'arte specializzata in arazzi e tappeti antichi, nel cuore della capitale. Era originario di Biella ma residente a Roma da tempo e ieri mattina è stato estratto senza vita della chiglia dell'imbarcazione. La salma è stata portata all'ospedale di Orbetello (Grosseto) per l'autopsia. Non si ha nessuna notizia, invece, di Anna Claudia Cartoni, la 60enne che è finita in acqua dopo l'impatto. Risulta dispersa e da ieri pomeriggio per cercarla è stato impiegato un robot subacqueo. Il sistema automatizzato Rov, che è in grado di scendere fino a 150 metri di profondità, è stato chiesto dalla Guardia Costiera ai vigili del fuoco. Le ricerche, infatti, non avevano dato alcun esito, anche perché in quella zona di mare ci sono diverse correnti. Ma l'ipotesi di trovare viva Anna Claudia risulta inverosimile.

Il marito, Fernando Manzo, 61 anni, titolare della società Bio Impresa, che era al timone del Vahinè, è stato trasportato in elisoccorso all'ospedale di Grosseto in condizioni serie, ma non è in pericolo di vita. Sempre nell'incidente sono rimaste ferite altre due donne, ricoverate ma poi dimesse, mentre un uomo resta in osservazione all'ospedale di Orbetello. Anna Claudia Cartoni è una sportiva. «Una delle figlie più amate, ex ginnasta, tecnico e giudice internazionale, è scomparsa nell'incidente nautico del Giglio - sottolinea la Federazione Ginnastica d'Italia - Siamo sconvolti per la perdita di una figura importante, vista la responsabilità di raccordo tra gli uffici del settore tecnico e il campo, e di una donna eccezionale, che, malgrado la sofferenza per la disabilità della figlia, aveva sempre il sorriso sulle labbra e un modo gentile ed ottimista di affrontare un'esistenza difficile». Tanti i post su Fb del mondo dello sport, allievi e conoscenti che la ricordano come una «guerriera» e un «esempio di cosa sia una madre». La figlia è stata colpita da arresto cardiaco quando aveva meno di un anno e per mesi ha lottato tra la vita e la morte, subendo gravissimi danni cerebrali. Anna Claudia ha raccontato la sua esperienza in un libro, «Irene sta carina. Una vita a metà». Ora in tanti pregano per lei.

Scontro tra barche all'Argentario, all'origine della tragedia potrebbe essere stata la guida con il pilota automatico. La Repubblica il 24 Luglio 2022. Omicidio colposo e lesioni, i reati ipotizzati. Nell'impatto tra un motoscafo e una barca a vela è morto un uomo. I soccorritori continuano anche oggi a cercare la donna dispersa. Utilizzato anche un robot.

Naufragio, omicidio colposo e lesioni. Sarebbero questi i reati rispetto ai quali si stanno muovendo le indagini sullo scontro tra imbarcazioni avvenuto ieri pomeriggio all'Argentario, nel canale tra Monte Argentario (Grosseto) e l'Isola del Giglio, costato la vita un uomo, mentre sono ancora in corso le ricerche di una donna dispersa, Anna Claudia Cartoni, 60 anni.

La vittima è invece Andrea Giorgio Coen, 59 anni. L'uomo, originario di Biella ma residente a Roma, si trovava a bordo del mezzo a vela. Tra le persone rimaste coinvolte nell'incidente anche Fernando Manzo, 61 anni, marito della donna dispersa, che secondo una prima ricostruzione si trovava al timone della barca al momento dell'impatto. I due sono residenti a Roma: la donna, Anna Claudia Cartoni, insegnante di ginnastica, è da anni impegnata nell'assistenza ai bambini disabili.

Secondo le ipotesi lo yacht con a bordo 4 cittadini di nazionalità danese, forse navigando con il pilota automatico inserito, sarebbe finito a forte velocità contro la barca a vela sulla quale c'erano sei persone originarie di Roma.

Le ricerche non si sono mai fermate. I soccorritori hanno lavorato tutta la notte e continuano anche oggi, senza sosta. Sulla dinamica, sono in corso le indagini della Guardia costiera.

La vittima, dopo l'impatto, è rimasto incastrato sotto una delle imbarcazioni, metre uno dei quattro feriti (due uomini e due donne), è stato trasportato con l’elicottero in ospedale a Grosseto, dove resta ricoverato in prognosi riservata. Gli altri tre feriti più lievi sarebbero due donne di 59 e 61 anni e un uomo di 60 anni, portati all'ospedale di Orbetello e due sono stati dimessi nelle stessa serata di sabato.

Alle ricerche, gestite dall'Ufficio circondariale marittimo di Porto Santo Stefano sotto il coordinamento della Centrale operativa della Direzione marittima di Livorno, partecipano diversi mezzi navali della Guardia costiera, mezzi aereonavali della guardia di Finanza e mezzi e uomini dei Vigili del fuoco e dei Carabinieri. Nelle operazioni potrebbe essere impegnato anche un robot subacqueo in grado di scendere fino a 150 metri di profondità.

Fabio Pozzo per lastampa.it il 4 agosto 2022.

Sarebbe una zona interdetta alla navigazione quella delle isole Nibani, dove è avvenuto il sinistro marittimo in cui ha perso la vita il manager tedesco con residenza a Londra Dean Kronsbein. Un tratto di mare dove in teoria non sarebbero dovuti navigare il Cherooke 64 della vittima, lo Sweet Dragon della famiglia Berlusconi e una terza barca, battente bandiera maltese, oggetto delle ricerche della Guardia costiera.

Una zona interdetta

Gli isolotti di Nibani sono un gruppo di scogli levigati dalle onde e modellati dal vento situati davanti al golfo del Pevero, a circa 2500 metri di distanza ottica dalla piazzetta di Porto Cervo. Poco più a Sud, a circa mezzo miglio nautico dal Pevero e dagli isolotti di Nibani, c’è l’Isola delle Rocche, che dà il nome anche al passaggio tra quest’ultima e le propaggini di Nibani. Un passaggio insidioso, quasi a “esse” e con fondale ridotto.

Le isole sono comprese nei confini del Parco nazionale della Maddalena e dunque in una zona interdetta alla navigazione. Alla luce di ciò le imbarcazioni dovrebbero passare all’esterno degli isolotti, in mare aperto. Ora, si sta cercando di capire nell’ambito delle indagini sull’incidente se vi siano ordinanze che consentano il passaggio in deroga alle regole del Parco. Ma se anche vi fossero, essendo la zona inclusa entro i 300 metri dalla costa, la navigazione sarebbe consentita solo a una velocità non superiore ai 7 nodi. E lo schianto del motoscafo Amore di Kronsbein contro gli scogli, a fronte della chiglia completamente distrutta e dai segni lasciati dallo scafo sulla pietra, lascerebbe presupporre che la velocità potesse essere ben superiore.

La velocità delle barche coinvolte, per ora Amore e Sweet Dragon, il Magnum 70 dei Berlusconi, ma come detto si cerca anche una terza imbarcazione, sono al centro delle indagini della Guardia costiera. Per tale motivo, il relitto del Cherooke 64 è stato sequestrato presso un cantiere nautico di Porto Cervo, dove è stato ricoverato - impressionanti i danni, lo scafo è completamente sventrato - e sono stati posti i sigilli anche al Magnum 70 di Berlusconi, ormeggiato nel marina di Porto Cervo, al pontile che rimane proprio sotto la barca-monumento Azzurra I, quella della prima campagna dell’America’s Cup. L’ormeggio è quello che - ironia della sorte, o più pragmaticamente per scarsa disponibilità di posti barca - era assegnato al Cherokee 64 di Kronsbein, la vittima. 

La dinamica

Gli investigatori della Guardia costiera stanno cercando di risalire a rotte e velocità, con l’ausilio dei dati Gps delle due barche. E così, ricostruire la dinamica dell’incidente. Che non è ancora chiara.

Torniamo a domenica sera. E’ l’imbrunire, poco prima delle 20.50. Il Cherokee 64 del manager tedesco, ceo della Ultrafilter Medical, un colosso del settore medicale, molto noto a Porto Cervo, dove aveva acquistato da poco una villa, sta tornando da Nikki Beach, il beach-club di Cala Pietra Ruja, verso Porto Cervo, dove ha l’ormeggio. A bordo, oltre all’armatore, la figlia e la moglie, tre ospiti e il comandante Mario Lallone.

La barca sta navigando da Sud verso Nord e imbocca il passaggio delle Rocche per “tagliare” rispetto alla rotta all’esterno degli isolotti di Nibani e guadagnare tempo. Indipendentemente dalle regole, non è una manovra inusuale: sono in molti a farlo. Il comandante del Cherokee 64 è inoltre esperto e conosce molto bene la zona.

Il destino vuole che sopraggiungano con rotta contraria, da Nord verso Sud, due altre imbarcazioni. E che entrambe decidano di passare tra gli isolotti anziché all’esterno. Una è lo Sweet Dragon, sul quale c’è il comandante - Luigi Cortese, anch’esso molto esperto - e un marinaio, che hanno appena lasciato a Porto Cervo Barbara Berlusconi, la figlia del Cavaliere, e altre persone, che erano state al Phi Beach, il beach-club di Baja Sardinia, e sono diretti a Porto Rotondo, dove il Magnum 70 ha ormeggio sotto villa Certosa, la residenza di famiglia. C’è poi un’altra barca, che naviga con rotta parallela a Sweet Dragon, ma leggermente scostata, più a Nord: batte bandiera maltese ed è oggetto ora delle ricerche della Guardia costiera. 

A che velocità viaggiavano queste barche? Ecco il punto. Stiamo parlando di motoscafi che hanno una velocità di crociera elevata, di circa 30 nodi, quasi 60 chilometri l’ora. E le rotte, esattamente? Il passaggio delle Rocche è una sorta di imbuto. Bisogna stare attenti al fondale, al vento e alle correnti. E poi, ci sono gli scogli che ostruiscono la vista.

Il comandante di Amore, ora indagato per omicidio colposo e lesioni, così come il suo collega del Sweet Dragon (atto comunque dovuto, per poter eseguire l’autopsia sul corpo della vittima), avrebbe dichiarato di essere andato a schiantarsi sugli scogli - c’è un segno che indica l’impatto terribile sulla pietra - quale conseguenza di una manovra evasiva, per evitare la collisione con una barca che sopraggiungeva in rotta contraria. In questi casi si può pensare che lo schianto contro gli scogli è il male minore, piuttosto che una collisione prua contro prua con un’altra barca, quando le due velocità si sommano nell’impatto. Già, ma ha tolto gas e invertito i motori prima di schiantarsi? Un comandante esperto potrebbe/dovrebbe reagire così. Sempre che, non si sia visto spuntare all’improvviso l’altro yacht, coperto dagli scogli fino all'ultimo e che magari non abbia potuto fare altro, ci sta anche un momento di panico, che virare verso lo scoglio.

La terza barca

L’incidente è stato terribile. Il manager tedesco e gli altri ospiti del Cherokee 64 sono sbalzati in mare (non il comandante), saranno poi recuperati in parte dall’equipaggio del Magnum 70, da cui è lanciato l’allarme, e dai sopravvenuti soccorsi. L’armatore sarà rianimato, inutilmente. La figlia e la moglie del manager, Sophia e Sabine, appaiono gravi, sono ricoverate all’ospedale di Olbia, la ragazza sottoposta a un intervento chirurgico alla testa. La madre di quest’ultima sarà poi dimessa. 

Amore è trainato a terra, Sweet Dragon lo segue e si ormeggia a Porto Cervo, a disposizione degli inquirenti (l’inchiesta è della procura di Tempio Pausania). E la terza barca? Si sa che ha bandiera maltese, ma non è chiaro se poi abbia preso parte ai soccorsi. Dove è finita? E’ stata identificata? A chi appartiene? Chi c’era sopra?

Gli investigatori stanno cercando di capire se abbia avuto un ruolo nell’incidente. Il comandante di Amore avrebbe detto che la sua manovra evasiva è stata compiuta per evitare la collisione con un’altra barca. Quale? Sweet Dragon? Sembrerebbe intenderlo, tanto che i Magnum è sotto sequestro e il comandante indagato. 

E la terza barca? Ipotesi. Il comandante di Amore potrebbe averla avvistata come pericolo, tanto da aver virato per allontanarsi dalla rotta di quest'ultima, andando così verso quella di Sweet Dragon? Oppure, altra ipotesi, potrebbe la terza barca aver influito sull’evoluzione cinematica degli eventi, ad esempio “stringendo” Sweet Dragon, tanto che il comandante di quest’ultimo yacht per allontanarsi dal pericolo potrebbe essersi portato involontariamente su una rotta di collisione con Amore? L’inchiesta è aperta, entreranno anche in gioco i periti ed esperti delle assicurazioni. 

Da ansa.it il 6 Agosto 2022.    

L'imprenditore anglo tedesco Dean Kronsbein è morto a causa di una grave lesione spinale e un forte trauma toracico come conseguenza di un violento impatto a terra, e non d'infarto come accertato in un primo momento. 

È questo l'esito dell'autopsia - anticipato dai quotidiani sardi e confermato all'ANSA dai legali dei due comandanti indagati - eseguita sul corpo della vittima dell'incidente nautico in Costa Smeralda, dal medico legale incarico dalla Procura di Tempio Pausania, Matteo Nioi, che si è conclusa nella tarda sera di ieri.

Nel frattempo la Procura di Tempio Pausania, che coordina le indagini sull'incidente avvenuto nel golfo del Pevero domenica scorsa, ha disposto ulteriori accertamenti. Mercoledì prossimo dovrebbe essere conferito l'incarico a un consulente tecnico per la ricostruzione della dinamica dell'incidente e per gli accertamenti sulla strumentazione di bordo sequestrata. 

I comandanti delle due imbarcazioni, entrambi indagati per omicidio colposo e lesioni, hanno versioni opposte sulla dinamica dell'incidente.

Luigi Cortese, alla guida del motoscafo Sweet Dragon, di proprietà della famiglia Berlusconi, e difeso dall'avvocato Fabio Varone, sostiene di aver accostato a dritta come prevede il regolamento internazionale e di aver invertito la marcia dei motori per evitare di entrare in collisione con lo yatch "Amore" di Kronsbein. 

Mario Lallone, che era ai comandi di "Amore", difeso da Egidio Caredda, ha detto agli inquirenti di aver dovuto virare improvvisamente per evitare la collisione con lo Sweet Dragon, tesi che sarebbe stata confermata anche dai familiari della vittima.

Argentario, parla il fratello di Fernando Manzo: «Su di loro un mostro ingovernato». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022.

Angelo, cognato di Anna Claudia Cartoni, una delle due vittime: «E’ tutto assurdo, incomprensibile: ma è vero che erano dei ventenni ad aver noleggiato il motoscafo?» 

«Mio fratello Fernando era al timone, seduto, e si è visto piombare addosso un mostro ingovernato», sospira asciugandosi gli occhi Angelo Manzo, fratello di Armando, superstite dell’imbarcazione a vela centrata dal motoscafo fra Porto Santo Stefano e l’Isola del Giglio sabato 23 luglio. «Ingovernato», utilizza proprio questo aggettivo Angelo. Calzoncini militari e maglietta, pupille lucide e pazienza, dice: «Fernando ha una spalla rovinata e una gamba malmessa, ma almeno è vivo. Mia cognata invece…».

La cognata è Anna Claudia Cartoni, la donna dispersa in alto mare che il comandante Luigi Buta della capitaneria di porto di Monte Argentario non ha smesso di cercare. «Ero in Sardegna mi squilla il telefono: “Angelo, devi rientrare è successa una cosa”. Mio fratello ha a casa che lo aspetta una figlia giovanissima con disabilità. Tutto assurdo. Tutto incomprensibile…». La barca, ribattezzata «Vahiné», era un quindici metri. La vela alzata ora ricade floscia sul relitto, che è rimasto a Porto Santo Stefano dove è stata trasportata nella serata di ieri. Domanda ancora Angelo: «È vero che il cabinato era stato noleggiato? So che ci sono verifiche in corso anche su questo aspetto. D’altra parte a bordo, mi dicono, c’erano solo dei ventenni. Possibile che fossero già proprietari di una barca milionaria?». 

Incidente all’Argentario, il giallo del pilota automatico: «Quella barca andava come un missile». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

Argentario, il racconto del fratello del sopravvissuto. Indagato il comandante del motoscafo di ultima generazione. Un morto e una dispersa.

Lo scontro tra una barca a vela da quindici metri e un motoscafo d’ultima generazione all’incrocio ideale tra l’Argentario e l’Isola del Giglio è avvenuto così, con il mare caldo e il cielo benevolo di un sabato estivo. Un morto: l’imprenditore di Biella trapiantato a Roma, Andrea Giorgio Coen , e una dispersa, la sessantenne romana Anna Claudia Cartoni . Il superstite Fernando Manzo, dal suo letto in chirurgia all’Ospedale di Orbetello descrive i fatti come l’esito di un’incursione bellica: «Un “missile” ingovernato è passato sopra la nostra imbarcazione a una velocità impensabile» dice per bocca di Angelo, suo fratello. «Ingovernato» ripete Angelo affezionato all’insolito aggettivo come a un provvidenziale salvagente: «“Credimi Angelo non c’era nessuno su quel motoscafo, nessuna traccia umana a bordo, né qualcuno che all’ultimo abbia fatto il tentativo di evitarci” ha ripetuto mio fratello fra i dolori per una spalla lussata e una gamba dolorante. Martedì sarà operato ma non è questo il nostro pensiero ora...».

Ora l’inquietudine è tutta per la moglie di Fernando, Anna Claudia Cartoni che gli uomini della capitaneria di Porto guidata dal comandante Luigi Buta non smettono di cercare, in profondità. La Procura di Grosseto, nel frattempo, ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo e, dopo aver ascoltato i quattro danesi dell’imbarcazione a motore, ha iscritto il comandante nel registro degli indagati. Si tratta di Per Horup, un cinquantottenne che viaggiava con altre tre persone a bordo (Mikkel Horup, Tine Lehmann e Anna Maria Sorensen Durr). Le imbarcazioni sono sotto sequestro e a quanto trapela da fonti della Procura sarà disposta una consulenza per stabilire velocità e traiettoria del mezzo. E per arrivare a sciogliere un giallo: il pilota automatico era attivo? Oppure no?

Gli investigatori che hanno visto il relitto della Vahinè hanno qualche dubbio: un conducente consapevole del motoscafo difficilmente avrebbe potuto centrare così una barca di quelle dimensioni, con la vela spiegata. Oggi Vahinè galleggia al porto con la fiancata destra squarciata, gli arredi devastati, la postazione al timone sbalzata fuori e, su tutto, la tela che poggia sulla plancia come un lenzuolo. «Fernando sedeva al timone — prosegue Angelo — è stato colpito in pieno. Lui ha avuto fortuna in questo caso. Ma mia cognata? La cercano ma sono trascorse ventiquattro ore. Capite il dolore? Vogliamo capire se quel motoscafo era stato noleggiato oppure no. Se davvero era stato inserito il pilota automatico...». I periti nominati dalla magistratura faranno chiarezza. Ora è il tempo delle domande, dei dubbi, dello stupore.

Il comandante Buta, al quale sono affidati gli approfondimenti, si definisce fiducioso: «Ritroveremo la signora, è stata una ricerca senza sosta partita nell’immediatezza dei fatti perché fortunatamente eravamo già in mare quando è avvenuto l’incidente». Incidente, ripete. Ma qualcuno sul pontile di Santo Stefano giurerebbe che è il dramma della negligenza: «Dai danni riportati dal relitto sembra di assistere alla scena — dice un pescatore sul molo — non c’è traccia di una frenata, il motoscafo ha attraversato l’imbarcazione senza fermarsi». Le stesse fonti della Procura dicono che i danesi si sono giustificati spiegando che la Vahinè era fuori rotta, che non avrebbe dovuto trovarsi in quel punto secondo i loro calcoli. Prudente nel ricordare le presenze che la zona può raggiungere d’estate, il sindaco di Monte Argentario Francesco Borghini che calcola: «Passiamo da 18mila persone a 35mila con la bella stagione».

Incidente all’Argentario, è un imprenditore danese l’uomo indagato per omicidio colposo per lo scontro fra motoscafo e barca. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

Per Horup viaggiava con la compagna, il figlio e la fidanzata del figlio sull’imbarcazione che è stat descritta come «ingovernata. Al via la consulenza della Procura che dovrà stabilire velocità e traiettoria del motoscafo.

Per Horup, 58 anni, l’uomo indagato dalla Procura di Grosseto per omicidio colposo e naufragio, è un piccolo imprenditore del sud della Danimarca (località Aabenra) e viaggiava a bordo del suo motoscafo con la compagna Tine Lehman (titolare di una clinica estetica a Sondeborg), il figlio ventiseienne Mikkel Horup e la sua fidanzata Anna Maria Durr. La gita nelle acque dell’Argentario era parte di una escursione più ampia nelle acque della Toscana, visto che fra le mete toccate c’era anche l’Isola d’Elba, quasi immancabile negli itinerari di viaggio dei nord europei. L’imbarcazione è stata descritta dalle vittime come «non governata».

Gli investigatori della capitaneria di porto, coordinati dal pm di turno Valeria Lazzarini, hanno sottoposto tutti all’alcool test e al drug test i cui esiti si avranno nelle prossime ore. Intanto, dall’indagine blindata, affiora qualche dettaglio: i danesi avrebbero spiegato che viaggiavano con il sole accecante negli occhi e che dunque sarebbero incappati nella barca a vela solo all’ultimo istante. Non è ancora chiaro se fosse stato inserito il pilota automatico. Solo una consulenza sull’imbarcazione killer potrà confermarlo e nei prossimi giorni sarà disposta dai magistrati. Intanto si sono svolti gli interrogatori e Horup è stato iscritto sul registro degli indagati.

(ANSA il 26 luglio 2022) "A seguito del sinistro marittimo verificatosi il pomeriggio di sabato 23 luglio, nelle acque ricomprese fra l'Argentario e Isola del Giglio e che ha visto coinvolte una decina di persone a bordo di due unità da diporto, risultano indagati i rispettivi conducenti delle imbarcazioni per i reati di omicidio colposo aggravato e danneggiamento con pericolo colposo di naufragio". Così una nota della procura di Grosseto. "Quanto alla dinamica". si aggiunge, diverse le ipotesi al vaglio: "non risultano, allo stato, elementi circa la possibilità di utilizzo, da parte di uno dei natanti", del pilota automatico".

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2022.

Per Hobrun, l'imprenditore danese che viaggiava a bordo del motoscafo piombato sulla barca a vela al largo dell'Argentario, è indagato a piede libero per omicidio colposo e lesioni colpose. Ascoltato dagli investigatori della Guardia Costiera ha tentato di spiegare quanto è avvenuto come un incidente dovuto alla fatalità di aver incrociato un'altra imbarcazione lungo la propria traiettoria. 

Al momento ha un avvocato di ufficio. L'iscrizione sul registro degli indagati è un semplice atto dovuto in questa fase: la pm della Procura di Grosseto, Valeria Lazzarini, sta raccogliendo nei suoi confronti prove che in questo momento, ancora, non sono certe. I dubbi relativi all'incidente sono ancora molti. Il motoscafo procedeva con il pilota automatico? Oppure Hobrun era alla guida e, quindi, perché non ha evitato l'imbarcazione? Possibile che delle quattro persone a bordo nessuna si sia resa conto di quel che stava accadendo?

Domande che si pongono anche i familiari di Fernando Manzo. «Mio fratello - spiega Angelo Manzo nel vialetto dell'ospedale di Orbetello - entrerà in sala operatoria domani. Mia cognata (Anna Claudia Cartoni, ndr ) è tuttora dispersa e malgrado ricerche infaticabili non abbiamo novità. A questo sentimento di pura angoscia se ne aggiunge un altro di rabbia. Perché non c'è ancora stato un fermo? Vogliono fare in modo che queste persone sfuggano alla giustizia? Vogliamo lasciarli liberi?». 

Angelo ha raggiunto da Roma il fratello Fernando, all'ospedale di Orbetello. Quindi Porto Santo Stefano, nella speranza di rintracciare informazioni sui soccorsi, di parlare dal vivo con il comandante della capitaneria di porto che segue le ricerche della cognata e, insomma, di sapere.

A casa c'è una ragazza di 18 anni, figlia di Fernando e Anna Claudia, una giovane con disabilità, alla quale va spiegata la verità. Ma qual è la verità? Dall'ambasciata danese non trapela nulla, un velo di riservatezza protegge la reputazione dei quattro protagonisti dell'incidente. Il motoscafo, diretto all'Isola d'Elba, era in viaggio all'Argentario per una gita. Acqua calma, cielo limpido, giornata ideale per un giro in barca. Contrariamente ai dati ufficiali, che danno conto di un Argentario straordinariamente trafficato, il tratto di mare in quel momento era tranquillo.

Allora cosa è accaduto? Il relitto della Vahinè, con la sua fiancata sventrata, sembra denunciare la grande velocità del motoscafo. Una perizia sarà disposta dai magistrati per appurare la velocità alla quale procedeva l'imbarcazione e gli altri dettagli della collisione. Appare importante stabilire se vi siano tracce di una frenata o deviazioni della rotta. Al momento il mezzo è sotto sequestro. Nel frattempo la famiglia Manzo ha nominato un avvocato, il penalista Aldo Pinto, per farsi assistere in quella che si annuncia una dura battaglia legale.

Estratto dell'articolo di Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 25 luglio 2022.

All'inizio hanno provato a dire che non comprendevano le domande e che non parlavano l'inglese né, tanto meno, l'italiano. Poi i quattro cittadini della Danimarca, a bordo del motoscafo Bibi Blue - un Fairline 58 - battente bandiera danese che sabato pomeriggio ha travolto una barca a vela al largo provocando la morte di Andrea Coen, romano di 58 anni, e la scomparsa in mare di un'altra passeggera, Anna Claudia Cartoni, hanno iniziato a parlare.

Con l'aiuto dell'interprete hanno detto tuttavia poco, che quel natante gli aveva tagliato la strada ma non avrebbero spiegato, ad esempio, perché il motoscafo navigasse a più di 30 nodi. Dalle prime informazioni si è tornati al silenzio fino a che una ragazza ventenne che era a bordo avrebbe ammesso: «Eravamo accecati dal sole e c'era il pilota automatico inserito». 

Negli uffici della Capitaneria di Porto Santo Stefano i passeggeri del motoscafo danese sono rimasti per ore: il comandante, un uomo di 58 anni, la sua compagna 53enne, il figlio di lui (26 anni) e la sua fidanzata 24enne.

Sarebbe stata quest' ultima a dire che il motoscafo aveva il pilota automatico inserito e che la luce del sole non permetteva loro una corretta visuale. La procura di Grosseto aprendo un fascicolo per omicidio colposo, lesioni colpose e naufragio, ha iscritto sul registro degli indagati il comandante e proprietario del motoscafo, Per Horup. La dinamica esatta resta, tuttavia, da chiarire. […] Drammatico, invece, il ripescaggio di Andrea Coen che è rimasto incastrato sotto al motoscafo nell'elica. Per quanto riguarda la donna dispersa, le ricerche ormai da più di 24 ore stanno proseguendo senza soluzione di continuità. […]

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado e Nicola Pinna per “il Messaggero” il 25 luglio 2022.  

Andava a forte velocità, nonostante la visibilità scarsa (dovuta ai raggi del sole in fase calante) e con il pilota automatico inserito, che però non è in grado di scansare gli ostacoli presenti in mare. Il 58enne danese, Per Horup, al comando del motoscafo che intorno alle 17,30 di sabato è planato sopra a una barca a vela, è ora indagato dalla Procura di Grosseto per omicidio colposo, lesioni colpose e naufragio.

Probabilmente l'uomo […] era distratto e lontano dal timone. L'imbarcazione era di sua proprietà e la teneva in rimessaggio in un porto toscano. Quando è avvenuto il tragico incidente, sul motoscafo con lui c'era il figlio Mikkel Horup, 26 anni: secondo la loro versione entrambi si trovavano in plancia di comando. Mentre la nuova compagna, Tine Lehmann (53 anni, proprietaria di una clinica estetica a Sønderborg), e la fidanzata del figlio, Anna Maria Dürr (24 anni), erano a poppa a leggere tranquillamente un libro. 

[…] Rabbia sui social per l'ennesima tragedia che vede come protagonisti stranieri in vacanza in Italia. Persino i nordici, famosi per il loro senso civico, quando vengono nel nostro Paese sembrano dimenticare le regole che a casa loro rispettano diligentemente.

«L'Italia non è un parco giochi, spero ci sia una condanna esemplare per i 4 danesi che hanno causato l'incidente terribile dell'Argentario, con la scomparsa della cara amica Claudia. Aspetto un messaggio di solidarietà dell'Ambasciata e del suo Ambasciatore», ha scritto su Twitter Vanda Biffani, amica della vittima.

L'autopilota è diventato un optional molto diffuso anche sulle barche di piccole dimensioni. Acquistare questo dispositivo non significa, però, assumere uno skipper robotico pronto a tutto. Nel momento in cui viene acceso, riesce a mantenere la rotta, ma è necessario raddoppiare l'attenzione, individuando per tempo altre barche o ostacoli che l'autopilota potrebbe non rilevare lungo il tragitto.

Estratto dell'articolo di Emiliano Bernardini per “il Messaggero” il 26 luglio 2022.

«L'errore è stato degli italiani». Una frase choc che rompe il silenzio sulla tragedia dell'Argentario. Una tesi che lascia a bocca aperta i telespettatori danesi che ascoltano la corrispondente di TV2, Eva Ravnbøl che lo racconta in diretta. Parole che rimbombano forte mentre in Italia sono ore di silenzio e speranza, una speranza legata soprattutto al fatto che il corpo di Anna Claudia Cartoni, inghiottito dal mare, venga ritrovato al più presto. 

(...)

Oltre a sottolineare le circostanze dell'incidente in cui sono stati coinvolti suo padre Per (58 anni), il fratello Mikkel (26 anni) e le rispettive compagne, Tine Lehmann (53 anni) e Anna Maria Dürr, il ragazzo nega anche che la tragedia si sia consumata «a causa del consumo di droghe o alcool, velocità eccessiva e mancanza di sorveglianza e/o visibilità al momento dell'impatto». 

(...) 

I quattro danesi, sempre come riferisce il maggiore dei tre figli, avrebbero fatto ritorno in Danimarca. «L'incidente ha messo a dura prova tutte le persone coinvolte ma si può affermare che tutte hanno preso subito parte al soccorso dell'altro equipaggio». E sebbene il padre, il fratello e le altre due donne a bordo non hanno subito danni fisici «l'impatto psicologico in un incidente come questo è molto forte». 

Estratto da lanazione.it il 25 luglio 2022.  

[…] Chi è l'uomo morto

È Andrea Giorgio Coen, 59 anni, l'uomo morto ieri nell'incidente all'argentario. Il 59enne si trovava a bordo della barca a vela insieme alla donna dispersa e ad altri amici quando sono stati travolti dall'imbarcazione a motore sul quale c'erano alcuni cittadini danesi. Un impatto violentissimo che di fatto ha spezzato in due l'imbarcazione. La vittima era direttore di una galleria d'arte, specializzata in arazzi e tappeti antichi, in via Margutta, nel cuore del centro storico di Roma. 

La salma di Andrea Giorgio Coen, originario di Biella, ma residente a Roma, è stata portata all'ospedale di Orbetello (Grosseto). 

Chi è la donna dispersa

La donna ancora dispersa in mare si chiama Anna Claudia Cartoni. Una sportiva, ex ginnasta, amante della montagna, tecnico e giudice internazionale. Nel mondo dello sport c'è dolore e sgomento per la scomparsa della donna. "Una delle sue figlie più amate, Anna Claudia Cartoni, ex ginnasta, tecnico e giudice internazionale, è scomparsa nell'incidente nautico del Giglio - sottolinea la Federazione Ginnastica d'Italia in una nota sul suo sito web - La Federazione è sconvolta per la perdita di una figura importante, vista la responsabilità di raccordo tra gli uffici del settore tecnico e il campo, e di una donna eccezionale, che, malgrado la sofferenza per la disabilità della figlia, aveva sempre il sorriso sulle labbra e un modo gentile ed ottimista di affrontare un'esistenza difficile". 

Sono moltissimi i post che si rincorrono anche su Fb nel mondo dello sport, ma anche da allievi e conoscenti che la ricordano come una "guerriera" o come un "esempio di cosa è una madre".

Anna Claudia infatti alla figlia disabile ha dedicato la sua vita e anche un libro: "Il suo libro, 'Irene sta carina, una vita a metà', edizioni Harpo, è un esempio di umanità sconfinata che ha dato, dà e darà forza a tutti coloro che si trovano in una situazione simile", sottolinea la stessa Federazione.

Chi sono i feriti

Tra le persone rimaste coinvolte nell'incidente anche Fernando Manzo, 61 anni, marito di Anna Claudia Cartoni, la donna dispersa, che secondo una prima ricostruzione si trovava al timone della barca al momento dell'impatto. I due sono residenti a Roma: la donna, insegnate di ginnastica, è da anni impegnata nell'assistenza ai bambini disabili.

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado per il Messaggero il 27 luglio 2022.  

(...)

LA DINAMICA Nella nota diffusa dalla Procura si legge che «sono diverse le ipotesi al vaglio degli inquirenti e non è possibile ipotizzare una prima ricostruzione attendibile dei fatti. Al riguardo, si evidenzia che non risultano, allo stato, elementi circa la possibilità di utilizzo, da parte di uno dei natanti, del cosiddetto pilota automatico». 

L'ipotesi era emersa nei giorni scorsi, con riferimento al motoscafo, proprio perché Manzo aveva riferito subito dopo i soccorsi che l'imbarcazione che li aveva speronati sembrava non fosse governata da nessuno.

L'indomani tale circostanza sarebbe stata confermata nel verbale di sommarie informazioni dalla 24enne Anna Maria Dürr, anche lei a bordo del motoscafo insieme al fidanzato 26enne Mikkel Horup (figlio del comandante Per Horup) e alla compagna di quest' ultimo, Tine Lehamann (53 anni). La ragazza aveva in qualche modo confessato l'uso del pilota automatico - che invece è stato escluso dal perito dell'assicurazione del motoscafo - e la scarsa visibilità dovuta ai raggi del sole. «Parimenti, al momento - conclude la nota della Procura di Grosseto - non risulta che nessuno dei soggetti conducenti fosse in stato di alterazione da sostanze stupefacenti o alcoliche al momento del sinistro». 

LE MANOVRE In attesa che il pm nomini un consulente tecnico navale che faccia chiarezza sulla dinamica dello scontro, le due imbarcazioni restano sotto sequestro e i militari della Guardia Costiera di Porto Santo Stefano continuano a raccogliere elementi utili alle indagini. Quel che sembra assodato finora è che il motoscafo della famigliola danese (lungo 17 metri) procedeva a 36 nodi, a una velocità sei volte superiore della barca a vela della compagnia di amici romani (lunga 14 metri), che navigava a 6 nodi. Già questo elemento fa pendere la bilancia delle responsabilità sull'imprenditore Per Horup. 

La barca a vela proveniva dal Lido di Traiano ed era diretta verso l'Isola del Giglio. Il motoscafo, invece, proveniva da Giannutri ed era diretto all'Isola d'Elba. Le due imbarcazioni sono entrate in rotta di collisione nel tratto di mare a sud-ovest rispetto al promontorio dell'Argentario. 

Il Bio Blue dei danesi, pur arrivando presumibilmente da sinistra rispetto al natante dei romani, è andato a impattare con la prua contro il lato destro della poppa di Vahinè - come testimoniano gli evidenti danni lasciati sullo scafo - perché nel frattempo Fernando Manzo avrebbe effettuato delle virate di emergenza, facendo rigirare la barca, quasi a 180 gradi. Lo strallo di poppa di Vahinè era integro; il motoscafo, quindi, non l'ha spezzato. Il fiocco di prua, invece, era avvolto. La barca a vela aveva una sola vela aperta e stava procedendo anche con il motore acceso.

L'EX COMANDANTE DE FALCO Secondo quanto dichiarato alla tv danese dall'altro figlio di Per Horup, Nik, ci sarebbe una responsabilità nell'incidente in capo alla barca a vela dei romani: colpevole di non aver dato la precedenza che spettava al motoscafo guidato da suo padre. 

Ma su questo punto, l'ex comandante della sala operativa della Capitaneria di porto di Livorno Gregorio De Falco, oggi senatore del gruppo Misto, è categorico: «Anche se procedeva a motore, quando la barca ha una vela spiegata, ha la precedenza». 

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per il Messaggero il 28 luglio 2022.

«Ho visto la scena dello scontro, è stato terribile. Una pioggia di microschegge di vetroresina che, per il forte impatto tra i due scafi, è schizzata addosso ai passeggeri. Per fare un paragone con la strada, è come se un suv andasse a impattare a 200 chilometri orari contro un'utilitaria. Lo schianto si è visto da lontano». 

Il capitano Edoardo Veneziani, ufficiale di coperta di una nota compagnia di navi da crociera e perito navale che collabora con uno studio di Roma, è testimone oculare dell'incidente di sabato scorso avvenuto a circa 7,5 miglia nautiche dalla costa dell'Argentario, nel canale di mare che separa il promontorio dall'isola del Giglio. Veneziani era di ritorno proprio dal Giglio, dove si era recato, non per lavoro, ma per una gita.

Dalla sua barca, quindi, ha assistito - a poca distanza - allo scontro tra il motoscafo Bibi Blue dei turisti danesi e la barca a vela Vahinè della compagnia di amici romani. Una collisione nella quale quest' ultimo gruppo ha avuto decisamente la peggio: Andrea Coen (58 anni) è rimasto ucciso e Anna Claudia Cartoni (che avrebbe compiuto 60 anni domenica prossima) è ancora dispersa in mare. 

«VISIBILITÀ OTTIMA» «Innanzitutto voglio chiarire che, al contrario di quanto ho sentito dalle dichiarazioni della ragazza a bordo del motoscafo, la visibilità in quel momento era ottima. I raggi non abbagliavano in alcun modo la vista. D'altronde il sole, nel momento dello scontro, ossia alle 17:03, era ancora alto nel cielo», precisa il capitano Veneziani. Era stata infatti la fidanzata del figlio di Per Horup, l'imprenditore danese alla guida di Bibi Blue, a dichiarare a sommarie informazioni agli inquirenti che la visuale era scarsa a causa dei raggi del sole. 

(…) 

«NON ERA GOVERNATO» «Ho visto il motoscafo arrivare come un fulmine da dritta (destra, ndr), rispetto alla barca a vela. Non ha fatto alcuna manovra per evitare l'impatto. Era evidente che non avesse la tenuta di guardia - riferisce l'ufficiale - L'impressione, insomma, è che non ci fosse qualcuno al timone vigile e pronto a intervenire in caso di emergenza. Anche se il motoscafo veniva da dritta e la barca a vela procedeva con il motore acceso e solo la randa spiegata, aveva comunque la precedenza la barca a vela».

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 14 luglio 2022.

Più che un vascello fantasma, un vascello-Araba Fenice: « che ci sia, ciascun lo dice », ma nessun sapeva dove fossero i resti della Santo Cristo de Burgos, galeone secentesco spagnolo partito da Manila e svanito nel Pacifico più di tre secoli fa con il suo esotico carico di porcellane da tè e seta cinese, piastrelle azulejos e blocchi di cera d'api. Almeno fino a oggi. Ora un gruppo di archeologi marini e ricercatori sembra nutrire la ragionevole certezza che i sedici grandi resti di legno ritrovati su una spiaggia dell'Oregon, alla foce del fiume Nehalem e a 11 mila chilometri dal porto di Manila dove la nave si era imbarcata, siano ciò che ne resta.

Il ritrovamento emoziona soprattutto i (molti) fan dei Goonies , blockbuster del 1985 da un soggetto di Steven Spielberg in cui un gruppo di ragazzini, proprio in Oregon, dà la caccia al tesoro di un vascello secentesco, affondato non lontano. La nave del film, la «Inferno», fu costruita apposta per le riprese e poi distrutta, anche se funzionante, per mancanza di armatori; la Santo Cristo de Burgos, poi ribattezzata Beeswax Wreck, cioè «relitto della cera d'api», ha avuto una vicenda ammantata di molti più misteri.

L'ambientazione in Oregon del film non era casuale. Sulle spiagge della zona di Nehalem Bay, a 65 chilometri da Astoria dove le avventure dei Goonies si svolgevano, da molto tempo l'oceano porta a riva pezzi di piastrelle bianche e azzurre o morsi di cera d'api. Tanto che è almeno dal 2006 che un'équipe di specialisti ora coordinati da Search Inc., una agenzia culturale locale, lavora per ritrovare ciò che resta del galeone.

Il primo a interessarsene, allora, era stato l'archeologo Scott Williams, del Dipartimento dei trasporti dello Stato di Washington, incuriosito da una conversazione di due amici riguardo a un misterioso vascello. Lo fu a tal punto che, con altri ricercatori, fondò una «Società di archeologia marittima» apposta per studiare i frammenti di porcellana e i blocchi di cera emersi nei decenni. I sigilli sulla cera non lasciavano dubbi: era merce spagnola. 

I galeoni possibili, scomparsi tra Manila e Acapulco nel periodo cui l'analisi del carbonio dei reperti rimandava, cioè tra il 1650 e il 1750, non erano che due: il Santo Cristo de Burgos, svanito nel 1693, o il San Francisco Xavier, scomparso nel 1705. Il secondo è stato poi scartato: i resti provenivano da una zona sedimentata dopo uno tsunami che ebbe luogo nel 1700. Erano dunque affondati prima.

Molto tempo è stato impiegato poi a smentire una nozione errata degli storici: che il Santo Cristo fosse bruciato. Ma gli archivi navali spagnoli parlano di «sparizione». Infine, due anni di pandemia hanno rallentato un processo già lento per lo scetticismo dei ricercatori. Un pescatore, oggi 49enne, di nome Craig Andes e grande fan dei Goonies, è stato a lungo ignorato dalla stessa Società quando ha ipotizzato che le sedici travi di legno che sporgevano dall'acqua, conficcate in una grotta a Nehalem Bay, venissero dal relitto. 

Nessuno credeva che quelle travi, così ben conservate, fossero state a mollo in acqua salata per 300 anni. Ma la zona alla foce del Nehalem è poco salina; e il radiocarbonio non ha lasciato dubbi. Le travi sono state recuperate a giugno, in un'impresa a sua volta rocambolesca (pesano 136 chili). Ora, ha comunicato la Società, saranno messe a disposizione degli studiosi di galeoni di tutto il mondo. E in futuro, chissà, dei fan dei Goonies.

Dopo 130 giorni la Laconia arriva a New York e completa il primo giro del mondo. Riccardo Luna su La Repubblica il 30 Marzo 2022.

Il giro del mondo finì nel porto di New York il 30 marzo 1923, novantanove anni fa. Quel giorno la gigantesca Laconia Rms, un transatlantico britannico che era stato varato l’anno prima ed era stato acquistato dalla compagnia di navigazione Cunard, attraccò dopo un viaggio di 130 giorni conquistando il titolo del primo giro del mondo fatto con una nave passeggeri. La Laconia era partita il 21 novembre 1922; era entrata in servizio appena sei mesi prima per coprire la rotta Southampton-New York.

Era un tipico transatlantico di quelli che solcavano i mari dopo la prima guerra mondiale: 183 metri di lunghezza, venti tonnellate di peso, cabine per ospitare fino a duemila e duecento passeggeri di cui oltre la metà in terza classe. Per il giro del mondo però la terza classe fu abolita. Il viaggio era stato promosso dall’American Express che aveva ridotto i partecipanti a 450 per offrire loro tutte le comodità in cambio di un biglietto salatissimo. Avrebbe dovuto essere insomma una crociera per milionari ma invece al momento della partenza si scoprì che ad essersi prenotati erano stati i tipici esponenti della media borghesia americana (e non occuparono nemmeno tutte le cabine disponibili).

L’incasso dei biglietti superava comunque il milione di dollari e il 21 novembre la nave partì per battere sul tempo le altre tre navi che avevano progettato un giro analogo due mesi più tardi. Il viaggio toccò 22 porti, tutti a nord dell’equatore, attraversando il canale di Panama, il Pacifico e poi tornando in Europa attraverso il canale di Suez. Strada facendo non pochi passeggeri decisero di scendere e fermarsi: dei circa 400 partiti ne arrivarono a New York in 260. Secondo la cronaca del New York Times portavano a casa quattro tonnellate di souvenir, compresi pappagalli, scimmie, uccelli tropicali, tappeti, mobili di legno, reliquie egizie e strani strumenti musicali. La Laconia fu accolta in porto trionfalmente, con una banda che suonava. Ha poi continuato a solcare i mari per diciannove anni: venne affondata durante la seconda guerra mondiale colpita da un sommergibile tedesco nel mare tra il Brasile e l’Africa. Fu una tragedia. Morirono più persone nel naufragio della Laconia che in quello del Titanic. 

Franco Brevini per “Oggi” il 24 marzo 2022.

L’Endurance inclinata tra i ghiacci del Mare di Weddell, un’insenatura del continente antartico. Queste immagini straordinarie furono realizzate da Frank Hurley, un operatore cinematografico freelance arruolato nell’equipaggio per documentare la spedizione. Mentre la nave affondava, 10 mesi dopo essersi incagliata, Hurley arrivò a tuffarsi sott’acqua, nella parte inclinata della nave, dov’era la cabina in cui erano conservate le lastre fotografiche e le pellicole, e riuscì a salvarle. 

A bordo con i 28 uomini c’erano anche 70 cani. Avrebbero dovuto trainare le slitte durante la traversata dell’Antartide. Purtroppo, non sopravvissero. Il ritrovamento nel Mare di Weddell del relitto della Endurance, la nave dell’esploratore polare inglese Ernst Shackleton, è stato annunciato il 9 marzo dal Falkland Maritime Heritage Trust. È uno di quegli eventi che verranno ricordati a lungo nella storia dei viaggi e dell’esplorazione.

Vicende analoghe, quali l’avvistamento dello scafo del Titanic, il ritrovamento del corpo di Mallory sotto la vetta dell’Everest o la presunta identificazione nelle acque di Newport dell’Endeavour, la nave del grande esploratore James Cook, riportano di colpo nella contemporaneità imprese avvolte nella leggenda. Forse ci suggeriscono che l’eroismo e le grandi sfide sono meno lontani da noi di quanto crediamo.

Certo un anonimo finanziatore ha sborsato 10 milioni di dollari per consentire ai due droni sottomarini della squadra di Endurance22, guidata dall’archeologo britannico Mensun Bound, di effettuare il fortunoso ritrovamento. Purtroppo, pur essendo rimasto in ottime condizioni grazie alle acque gelide e poco saline di quel mare glaciale, il relitto giace a 3.008 metri di profondità e si trova in uno dei luoghi più remoti del pianeta.

La nave del testardo inglese, che era alla sua terza esperienza antartica, è stata identificata a circa 6 chilometri di distanza dal punto in cui, stritolata dai ghiacci galleggianti, si era inabissata 122 anni fa. Le telecamere ad alta risoluzione dei droni hanno filmato lo scafo squarciato dalla pressione dei ghiacci, sul quale spiccano ancora le lettere dorate del nome della nave. Aveva tre alberi ed era lunga 44 metri. Mai nome fu in verità più profetico: Endurance significa infatti resistenza e di questa dote gli esploratori di Sua Maestà dovevano averne da vendere. 

 Certo ne aveva il capitano, che sapeva bene che uomini ci volevano per quelle imprese. Per reclutare i marinai che lo accompagnassero in Antartide tra il 1914 e il 1916 Ernst Shackleton aveva pubblicato sulla stampa dell’epoca un’inserzione che non lasciava molto spazio alle illusioni: «Stipendio ridotto; freddo intenso; lunghi mesi di buio completo; pericolo costante; rientro incerto». 

Quando decise di organizzare quella che, con prosopopea tardivamente vittoriana, si chiamava Imperial Trans-Antarctic Expedition, i giochi al Polo Sud si erano già conclusi. L’esploratore norvegese Roald Amundsen lo aveva raggiunto il 14 dicembre 1911, precedendo di due settimane la squadra di Robert Falcon Scott, che testardamente non aveva voluto usare i cani da slitta. Dopo una marcia massacrante di oltre mille chilometri, gli inglesi erano andati a morire in mezzo alla bufera a una ventina di chilometri dal deposito di rifornimenti più vicino. Quello che restava da fare era la traversata completa del continente antartico: la meta di Shackleton.

Insieme a 27 uomini, salpò nell’agosto del 1914, tre giorni prima che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania. Il Mare di Weddell è una desolante distesa di ghiacci racchiusa dal gelido abbraccio della penisola antartica. L’Endurance vi giunse il 10 gennaio 1915 e nove giorni dopo era già bloccata nella morsa della banchisa. Insieme al suo ingrato corredo di lastroni scricchiolanti andò alla deriva per dieci mesi, ma il 21 novembre la pressione aprì paurose falle nella fiancata e l’imbarcazione dovette essere evacuata. Iniziava una delle più avventurose odissee della storia dell’esplorazione.

Dopo avere più volte spostato il campo, i naufraghi capirono che non avrebbero potuto resistere a lungo. Imbarcati a bordo di una scialuppa, iniziarono una difficilissima navigazione, verso l’Isola Elefante. Era uno scoglio coperto di ghiacci, ma, per quanto inospitale, era terraferma. In compenso il luogo non avrebbe potuto trovarsi più fuorimano: lontano dalle rotte delle navi, a soli 240 chilometri dall’Antartide.

Erano trascorsi 500 giorni dall’inizio della spedizione. Shackleton non ci mise molto a rendersi conto che sull’Isola Elefante nessuno li avrebbe soccorsi. Così rimise in mare la scialuppa di soli sette metri e vi salì con un pugno di uomini. Lo attendevano 1.500 chilometri di acque burrascose e infestate dagli iceberg, con il peggior clima della Terra. Ci vollero 15 giorni e furono certamente i peggiori della vita di quei marinai, ma alla fine le coste della Georgia del Sud vennero raggiunte.

Purtroppo non era ancora finita. Gli inglesi erano approdati alla costa meridionale e l’unica stazione baleniera, Stromness, si trovava su quella settentrionale. Così i naufraghi ripartirono e attraversarono 50 chilometri di montagne e di ghiacciai inesplorati. Alla fine arrivarono a Stromness, da cui l’indomabile esploratore organizzò i soccorsi del resto dei suoi uomini rimasti all’Isola Elefante. Li raggiunse con un rimorchiatore cileno al quarto tentativo, il 30 agosto 1916, quattro mesi dopo averli lasciati.

Nonostante le infinite traversie toccate alla spedizione, Shackleton aveva riportato tutti a casa. Non poteva immaginare allora che la sua storia personale si sarebbe conclusa proprio nella Georgia del Sud. Cinque anni dopo con la nave Quest ripartì per l’Antartide. Approdò di nuovo al porto di Grytviken, dove già aveva sostato un mese con l’Endurance. La notte del 5 gennaio ebbe un attacco cardiaco e morì. Aveva solo 48 anni. Un cippo di pietra lo ricorda nelminuscolo cimitero di quell’isola in capo al mondo. Sotto il nome una semplice scritta: «Explorer». 

I Traghetti e barche in generale. Il papà di Umberto, ucciso sul Garda da un motoscafo: «Ho incontrato l’uomo che ha travolto mio figlio e Greta Nedrotti. Non riesco a odiarlo». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.

Salò: «È venuto per me dalla Germania: un bel gesto. Mi ha detto che l’hanno licenziato per la condanna. Non trovo giusto rovinare così un padre di famiglia»

«Non riesco ancora a perdonarlo ma nemmeno lo odio e non voglio il suo male… Mi ha detto che l’hanno licenziato a causa della disgrazia. Mi chiedo che senso abbia rovinare così un uomo che è anche padre di famiglia, dategli una chance... Certo, ha sbagliato e purtroppo il suo errore è costato la vita a mio figlio e a Greta ma…».

Enzo Garzarella ha senz’altro il dono dell’indulgenza. Nessun livore, nessun malanimo. Le sue sono parole di comprensione nei confronti di chi un anno fa ha causato la morte di suo figlio Umberto, il più grande, inconsolabile dolore mai provato. 

Era una serata di luna piena, il lago di Garda sembrava una tavola e Umberto e Greta, 37 e 25 anni, avevano fermato il loro gozzo nel golfo di Salò poco prima che un motoscafo li travolgesse, uccidendoli. A bordo c’erano due amici tedeschi, Christian Teismann e Patrick Kassen (che guidava), processati e condannati dal tribunale di Brescia nel giro di nove mesi. Succede ora che Teismann, manager 50enne residente in Germania con moglie e figli, ha incontrato il padre di Umberto nel luogo più struggente: la tomba del figlio, al cimitero di Salò. L’appuntamento l’ha chiesto lui, il manager, e il padre della vittima ha detto sì: «Per vederlo, ascoltarlo e cercare di capire».

Com’è andata signor Garzarella?

«Teismann è venuto con sua moglie e un’interprete, ha portato un mazzo di rose bianche e dei disegni del lago fatti dai suoi figli piccoli. Mi ha detto che è un uomo distrutto anche perché l’hanno licenziato per la condanna. In Germania lo considerano un assassino, ma che assassino può essere? Non voleva ucciderli».

E lei cosa gli ha detto?

«Che io ho perso un figlio e pure la ditta che avevamo insieme. Umberto era il motore dell’azienda, senza di lui era impossibile andare avanti e abbiamo chiuso. Mio figlio era una forza della natura, sempre disponibile e sorridente. Lo chiamavo per ogni cosa, di lavoro e di casa. Anche per aiutare mia madre che ha 91 anni e qualche difficoltà a muoversi. Lui c’era sempre».

Che idea si è fatto su Teismann?

«Devo stare attento a quel che dico perché sono stato criticato da tutti per questo incontro: il mio avvocato, mia figlia, gli amici. “Non farlo Enzo, non ti conviene, è un boomerang”. Io ho dato retta a quel che sentivo e sono andato. Per me lui non è un essere malvagio come forse passa per essere in Germania. È un uomo che ha commesso un grave errore, questo sì, e quella sera non doveva ubriacarsi. Se fosse stato lucido non sarebbe successo nulla. Però dico anche che la disgrazia può accadere a tutti e non è giusto punirlo in modo eccessivo. Ci pensa già la sua coscienza a farlo. È la coscienza di un padre che è venuto qui con coraggio e umiltà a mettere la faccia sulla tomba di Umberto. Questo glielo riconosco. Gli ho anche detto che se vuole fare qualcosa per mio figlio e per la ragazza, un’associazione o altro, ben venga. Anzi, lo aiuto pure...».

Avete parlato anche della tragedia?

«Sì e devo dire che lì mi ha infastidito. Perché continua a ripetere che quella sera non si era accorto di nulla perché guidava l’altro. Gli ho detto: “Guarda, non venirmi a dire che dormivi perché non ci credo. C’era il lago piatto e l’impatto è stato importante. Il gozzo io l’ho visto bene, me lo sono portato a casa e l’ho esaminato. Non ti puoi non accorgere di un botto così”».

Lei naturalmente non pensa che dietro il bel gesto ci sia un secondo fine.

«Ci potrà anche essere, magari vuole tornare sul Garda che a lui piace e ha bisogno di essere accettato dalla gente. Non saprei. In ogni caso ho trovato bello il gesto. Il suo amico, per esempio, non l’ha fatto».

Il perdono no, perché?

«Ci sto provando ma non me la sento ancora, anche se suor Anna e don Francesco insistono: “devi farlo, ti può aiutare”, continuano a ripetermi. Io dico “ho capito che mi aiuta ma ora lasciatemi in pace”. Per me è stato un dolore immenso, mi sembrava di impazzire, volevo prendere il fucile e spararmi. Poi è intervenuto qualcosa che mi ha salvato ma la strada è lunga... Tra l’altro, mi sento addosso la colpa per la morte di Greta».

In che senso?

«Umberto e la ragazza si erano appena incontrati. Sa, dieci anni di meno. Si erano fatti una serata, ma non potevo fermarlo in questo. Lo fermavo se si drogava o beveva, non se usciva con una ragazza. Però devo dire che i genitori non me l’hanno mai fatto pesare. Sono brave persone».

Gli ha stretto la mano?

«No, la mano l’ho stretta a sua moglie che a me sembra una grande donna. Gli è stata sempre vicino».

Lei come sta?

«Ho dei momenti di grande sconforto, come in questi giorni che sono costretto a casa con il mal di schiena. È tornata quell’angoscia, quel vuoto che pensavo di aver superato. Mi manca mio figlio, molto».

Il giallo del rimorchiatore affondato "in pochi istanti": morti e dispersi, cosa sappiamo. Da Today.it il 19 maggio 2022. Al largo della Puglia/Bari.

L'unico superstite del "Franco P.", il comandante Petralia, non avrebbe avuto neanche il tempo di lanciare il segnale di soccorso. Forse un guasto tecnico, forse un cedimento strutturale. Solo i sopravvissuti del pontone potranno raccontare che cosa sia accaduto

Il dramma si è consumato nel giro di pochi secondi. E' l'unica certezza. Sono arrivate nel tardo pomeriggio al porto di Bari le salme di tre delle vittime dell'incidente del 'Franco P.', il rimorchiatore partito da Ancona e diretto in Albania affondato nella serata di mercoledì a circa 50 miglia della costa barese. Non è stato completato il recupero di tutti i dispersi: proseguono le ricerche di altre due persone che lavoravano a bordo del rimorchiatore, le speranze di ritrovare i corpi sono minime.

Il giallo del rimorchiatore "Franco P", affondato mercoledì a 50 miglia da Bari

L'unico superstite, salvato da un mercantile croato, è il comandante Giuseppe Petralia, 63enne, siciliano, ricoverato nell'ospedale di Bari "in forte stato di choc", dicono i medici. Del rimorchiatore "Franco P", affondato mercoledì a 50 miglia da Bari, resta solo lui in vita. L'equipaggio era composto da sei uomini. Due marchigiani, due pugliesi e un tunisino, tutti tra i 58 e i 65 anni. Erano partiti da Ancona, con destinazione Durazzo, per trainare un motopontone (un tipo di galleggiante usato come piattaforma galleggiante per il trasporto di merci di qualsiasi tipo) con 11 persone a bordo. Poi la tragedia. Il rimorchiatore ha imbarcato acqua ed è sprofondato in pochi minuti, forse addirittura solo pochi istanti.

Andrea Massimo Loi, Luciano Bigoni e Ahmed Jelali. Sono i nomi dei tre membri dell'equipaggio (due anconetani) i cui corpi senza vita sono stati recuperati a largo di Bari. La Capitaneria di porto di Bari ha confermato il loro decesso dopo l'identificazione. Alla ricerche hanno partecipato cinque mercantili, oltre a diverse unità della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, velivoli della Marina Militare, dell’Aeronautica Militare e dell’aviazione della Croazia.

La procura di Bari ha intanto aperto un fascicolo con le ipotesi di reato di naufragio ed omicidio. Tutto è da ricostruire. Nel corso delle operazioni è stata anche avvistata una zattera di salvataggio vuota appartenente al rimorchiatore affondato. Mercoledì sera la Centrale Operativa della Guardia Costiera ha ricevuto un segnale di allarme: il rimorchiatore stava affondando a 53 miglia dalla costa, al limite tra le acque di responsabilità SAR italiane e croate. Il mare era molto mosso.

I soccorsi del pontone e le ipotesi

Il "mayday" è arrivato alla Capitaneria di porto di Bari intorno alle 21 da chi viaggiava sul pontone. Il rimorchiatore sarebbe affondato "in modo repentino" ha spiegato l'ammiraglio Vincenzo Leone, comandante della Guardia Costiera Puglia. Di fatto il comandante Petralia non avrebbe avuto neanche il tempo di lanciare il segnale di soccorso. Una motonave "split" ha portato in salvo le persone sul pontone. Che cosa è andato storto? Certo è che il buio implacabile del mare di notte e le forti raffiche di vento hanno complicato le operazioni di ricerca.

Solo i sopravvissuti del pontone potranno raccontare che cosa sia accaduto e perché il rimorchiatore sia affondato in pochi attimi. Così poco tempo è passato dal verificarsi del problema al naufragio che l'equipaggio, esperto, non avrebbe avuto il tempo di spostarsi sui mezzi di salvataggio. Forse un guasto tecnico, forse un cedimento strutturale, forse uno scontro su qualcosa. Si valuta anche l'entità dello sversamento del carburante in mare.

LA TRAGEDIA IN ADRIATICO. Rimorchiatore affonda a 50 miglia dalla costa di Bari: 5 vittime, comandante salvo in ospedale. Aperto fascicolo per naufragio e omicidio. Le motovedette della Guardia Costiera barese hanno avuto difficoltà a raggiungere il luogo dell’affondamento per il vento molto forte. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2022.

Tragedia al largo della costa di Bari, dove a 50 miglia dalla riva questa notte è affondato un rimorchiatore, il 'Franco P.', che, partito da Ancona, era diretto in Albania, a Durazzo, dove avrebbe dovuto rimorchiare un pontone. Sono cinque i marittimi morti: due pugliesi, due marchigiani e un tunisino, i cui cadaveri sono stati recuperati. Si è salvato invece il comandante, un 63enne siciliano ricoverato ora in ospedale al Di Venere di Bari. Sulla vicenda procede la Procura di Bari che ha aperto un fascicolo con le ipotesi di reato di naufragio e omicidio colposo. L'indagine, delegata alla Capitaneria di Porto, è coordinata dal procuratore Roberto Rossi con la sostituta di turno Luisiana Di Vittorio.

La segnalazione è arrivata in nottata e le operazioni sono state difficili per il forte vento che sta sferzando sull'Adriatico. Il rimorchiatore fa parte della flotta della società Ilma, Impresa lavori marittimi di Ancona.

Sul posto, per i soccorsi e le ricerche dei dispersi, hanno lavorato mezzi militari e civili: motovedette della Guardia Costiera di Bari e croate, cinque velivoli di Aeronautica militare, Marina e Guardia costiera italiana e croata, e 5 navi sono state dirottate sul posto. Al momento dell’affondamento si è sganciato il cavo di rimorchio e il pontone è rimasto alla deriva al largo di Bari con 11 persone a bordo. In suo soccorso un altro rimorchiatore. «Da questa notte - fa sapere la Capitaneria di Porto - i familiari dell’equipaggio del rimorchiatore sono assistiti presso gli Uffici della Direzione Marittima».

La dinamica

Non avrebbero avuto neanche il tempo di dare l’allarme i componenti dell’equipaggio del rimorchiatore affondato nella notte al largo delle coste baresi, in acque internazionali. L’allarme dell’affondamento, infatti, è arrivato intorno alle 21 di ieri dal motopontone che l’imbarcazione affondata doveva rimorchiare. Sulle cause dell’affondamento, repentino, spiega l’ammiraglio Vincenzo Leone, comandante regionale Guardia Costiera Puglia, «speriamo di avere qualche elemento in più nel momento in cui riusciremo ad ascoltare con maggiore serenità il comandante che al momento è l’unico sopravvissuto dell’equipaggio di sei persone». Anche le 11 persone a bordo del motopontone saranno ascoltate quando arriveranno a Bari «verosimilmente nella sera di oggi».

La Capitaneria di Porto di Bari sta verificando anche l’eventuale inquinamento del mare dove è affondato il rimorchiatore. Il tratto di mare dove è affondato ha una profondità di circa mille metri, quindi recuperare il relitto sarà molto difficile.  

Il cordoglio

La sindaca di Ancona Valeria Mancinelli esprime «il proprio cordoglio e la propria vicinanza alle famiglie e ai lavoratori coinvolti nell’incidente che tra ieri sera e questa notte ha colpito in mare un rimorchiatore a 50 miglia dalla costa di Bari, partito da Ancona per trainare un pontone alla volta dell’Albania».

«Il Comune di Ancona tramite l’assessore al Porto Ida Simonella - ha detto la prima cittadina - è in contatto con il Comandante della Capitaneria Di Porto De Carolis, che ci ha informato della tragedia. Non sta a noi ricostruire le dinamiche dell’accaduto, anche perché in questo momento sono ancora in atto le operazioni di soccorso dei superstiti». «Mi unisco con sinceri sentimenti di vicinanza al dolore delle famiglie - prosegue la prima cittadina - per questo incidente avvenuto a persone che stavano svolgendo il loro lavoro, ed esprimo solidarietà all’azienda Ilma di Ancona, proprietaria del rimorchiatore, che sta vivendo questo momento tragico, e a tutta la comunità del Porto».

Il vescovo di Bari

«La nostra terra di Bari sta vivendo in queste ore un doloroso episodio di tragedia nel Mare Adriatico. Questa volta il Mediterraneo, già da troppo tempo cimitero di tanti naufragi, ha accolto questa notte 5 vittime di un fatale incidente. Addolora e sconcerta dover prendere atto di come il lavoro diventi ancora una volta occasione di lutto e di dolore». Lo afferma in una dichiarazione l’arcivescovo di Bari-Bitonto, mons. Giuseppe Satriano, riferendosi all’affondamento di un rimorchiatore al largo di Bari che ha provocato tre morti e due dispersi. «La nostra comunità diocesana, insieme a quella di Molfetta, piange per queste perdite - dice l’arcivescovo - ed è concretamente vicina alle famiglie delle vittime e dei dispersi attraverso la Pastorale del mare che in queste ore segue da vicino l’evolversi della vicenda. Ringraziamo tutti coloro, a partire dalle autorità portuali, che si sono adoperate per prestare un tempestivo soccorso»

LA TRAGEDIA IN MARE. Rimorchiatore affondato a Bari: sequestrato pontone, 2 indagati. Forse problema tecnico: imbarcata acqua in 20 min. Familiari delle vittime: «Vogliamo giustizia». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Maggio 2022.

BARI - È stato sottoposto a sequestro probatorio il pontone AD3 che viaggiava a traino del rimorchiatore Franco P. affondato mercoledì sera al largo delle coste baresi. Il decreto di sequestro firmato dalla Procura di Bari è stato notificato dagli uomini della capitaneria di porto quando il pontone è attraccato nel porto di Bari. Nel provvedimento di sequestro risultano indagati il comandante del rimorchiatore, il 63enne di Catania Giuseppe Petralia, unico sopravvissuto all’affondamento e attualmente ricoverato in ospedale a Bari, e l’armatore Antonio Santini, 78enne romano, legale rappresentante della società Ilma di Ancona proprietaria del rimorchiatore e del pontone. Nel fascicolo d’inchiesta, coordinato dalla pm Luisiana Di Vittorio, si ipotizzano i reati di concorso in naufragio e omicidio colposo plurimo. Il decreto di sequestro riguarda anche il rimorchiatore affondato, il cui relitto però si trova a circa mille metri di profondità a 50 miglia dalla costa pugliese. 

Unico superstite, al momento, è il comandante del rimorchiatore, ricoverato in ospedale

«Per accertare la dinamica dell’affondamento del rimorchiatore e il rispetto della normativa sulla sicurezza dei passeggeri e dell’equipaggio a bordo dell’unità nautica - si legge nel decreto di sequestro - si rende necessario procedere con il sequestro dell’imbarcazione (rimorchiatore e galleggiante) e di tutti gli strumenti e la documentazione presenti a bordo». "Tale sequestro - prosegue il provvedimento della Procura - si rende necessario in quanto si devono ricostruire sia le circostanze del naufragio sia le dinamiche relative alle operazioni di evacuazione e salvataggio delle persone a bordo del convoglio sia le eventuali responsabilità di coloro che erano deputati a coordinare dette attività sia il rispetto della normativa sulla sicurezza dei passeggeri e dell’equipaggio a bordo della unità navale in oggetto. Nello specifico, si devono effettuare i rilievi e gli accertamenti tecnici volti a riscontrare le dichiarazioni che nel corso delle indagini saranno rese dalle persone informate sui fatti sulla gestione delle operazioni di imbarco e sulle modalità con le quali si è verificato il danneggiamento dell’imbarcazione che ha causato il naufragio del rimorchiatore Franco P». 

Naufragio a Bari, Don Franco: «Una città che ancora sa fermarsi davanti al dolore»

E «don Franco» Lanzolla, il «parroco della cattedrale di San Sabino» come lo ha definito lo stesso ammiraglio Vincenzo Leone, ha raggiunto i volontari della Stella Maris, nella Capitaneria del porto, una Caritas dei marittimi all'interno dell'area portuale

LA TESTIMONIANZA DEL CAPITANO SCIASCIA

«Hanno imbarcato acqua in modo tanto rapido che non ce l’ha fatta a mantenere la linea di galleggiamento ed è andato giù a picco». A parlare è Carmelo Sciascia, il comandante del pontone AD3 rimorchiato nel porto di Bari dopo l’affondamento del rimorchiatore Franco P. mercoledì sera. Sciascia è uno dei testimoni oculari del naufragio. Ha risposto a poche domande dei cronisti prima di essere sentito dagli uomini della capitaneria di porto che su delega della procura stanno raccogliendo le testimonianze dei componenti dell’equipaggio. «Ho visto tutto e niente. Ho detto io di buttarsi in acqua, ma non ce l’hanno fatta i ragazzi e sono andati giù» ha detto. Secondo il comandante le condizioni meteo "c'entrano fino a un certo punto, perché c'era mare, 3 metri e mezzo di nord est e vento». Sciascia chiarisce che il comandante del rimorchiatore affondato, unico superstite, «non lo abbiamo visto, lo ha preso una nave che ho chiamato io per avvicinarsi e prenderlo perché vedevamo una lucetta, perché i giubbotti hanno le lucette che si accendono quando si arriva in acqua. Se il personale - spiega - avesse indossato i giubbotti si sarebbero salvati tutti, ma non ci sono riusciti perché è stata troppo rapida la cosa e adesso si deve capire perché è stata così rapida».

SI PENSA A UN PROBLEMA TECNICO 

«Ci si è spaccato il cuore, ma non abbiamo potuto salvarli. E’ successo all’improvviso, in 20-25 minuti. Eravamo in navigazione da quattro giorni e non c'era il minimo problema». Onorio Olivi è il tecnico del pontone AD3 tra i testimoni dell’affondamento del rimorchiatore Franco P. L’uomo è stato sentito oggi nella Capitaneria di porto di Bari nell’ambito dell’indagine sul naufragio nel quale hanno perso la vota tre marittimi e altri due sono ancora dispersi. "Abbiamo visto la barca che imbarcava acqua e non c'è stato niente da fare, neanche il tempo di poterli aiutare - spiega - , perché le condizioni del mare erano quelle che erano». Ma chiarisce che con l’affondamento «le condizioni meteo non c'entrano niente, probabilmente c'è stato un inconveniente tecnico. Noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo messo anche un gommone in acqua rischiando la vita di quelli che andavano sul gommone, perché lì c'erano i nostri fratelli, ma purtroppo non siamo riusciti a fare niente. Il senso di impotenza ci distrugge tutti perché sei lì e non puoi fare niente». Commuovendosi spiega dice che «li sentivo come più che fratelli perché la vita del mare, chi la fa lo sa, 24 ore al giorno si affronta tutto insieme. Il momento è terribile. Abbiamo vissuto insieme, vent'anni abbiamo lavorato insieme, gente che ha lavorato una vita con noi. Adesso - continua - pensiamo al dolore delle famiglie, a chi non c'è più, padri di famiglia, nonni, genitori, uno doveva sposare la figlia, pensiamo a mogli e figli che ora hanno bisogno di conforto e poi alle colpe si penserà».

LE PAROLE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME

I famigliari sono distrutti, chiedono giustizia e sono anche molto scioccati. Devo dire che tutta questa assistenza da parte di chi avrebbe dovuto fornirla, e non parlo solo dello Stato ma anche dei privati, non mi pare ci sia stata». Lo dichiara l’avvocato Antonio Vito Boccia, che assiste con il collega Antonio Cosentino la moglie e le figlie del 65enne di Ancona Luciano Bigoni, una delle tre vittime accertate del naufragio del rimorchiatore Franco P, avvenuto la sera del 18 maggio a circa 50 miglia dalla costa pugliese. I famigliari sono a Bari da ieri dove hanno dovuto fare il riconoscimento del corpo del loro caro.

«Il timore - aggiunge l’avvocato Boccia parlando dell’indagine penale sul naufragio - era che il procedimento potesse essere trasferito fuori dall’Italia perché il naufragio pare che sia avvenuto in acque contigue a quelle marittime della Croazia. Quindi, sapere che la Procura di Bari si è ritenuta competente ci dà almeno la certezza che il procedimento inizierà». Oggi nell’istituto di medicina legale del Policlinico di Bari sono state formalmente riconosciute anche le altre due salme: si tratta del 58enne di Ancona Andrea Massimo Loi e del 63enne di origini tunisine e residente a Pescara Jelali Ahmed. Continuano le ricerche dei due dispersi, i due marittimi pugliesi, entrambi di Molfetta (Bari), Mauro Mongelli di 59 anni e Sergio Bufo di 60 anni.

«L'equipaggio non ha avuto il tempo di lanciare l'allarme»: comandante Guardia Costiera Puglia parla del naufragio alla «Gazzetta». L'ammiraglio Vincenzo Leone spiega ai nostri microfoni la dinamica della vicenda in una intervista di Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2022.

Le ricerche sono andate avanti tutta la notte. Le condizione meteo non erano e non sono favorevoli, con vento da est che ha prodotto mare 5 e onde alte anche 2 metri e mezzo. Una della navi dirottate dalla Capitaneria di Porto di Bari, il mercantile Split, ha individuato dopo circa un’ora e mezzo dalla segnalazione il comandante, ancora vivo, e lo ha salvato. Dall’arrivo a Bari il comandante è stato ricoverato nell’ospedale Di Venere di Bari. I mezzi aerei poi hanno trovato la zattera che si è sganciata al momento dell’affondamento ma sulla quale non c'era nessuno.

«Verosimilmente - spiega l’ammiraglio Leone - la repentinità dell’affondamento non ha consentito all’equipaggio di utilizzare i mezzi di salvataggio». Lo stesso allarme «non è arrivato dal rimorchiatore - aggiunge il comandante - ma dal motopontone che si è accordo della situazione di emergenza e subito dopo aver lanciato l’allarme ci ha comunicato che il rimorchiatore era già affondato».

Rimorchiatore affondato a Bari: «Se avessero avuto i giubbotti certamente si sarebbero salvati». Il rimorchiatore affondato nelle acque di Bari, il racconto degli operai sul pontone: «Forse problema tecnico». Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Maggio 2022

Mancano 10 minuti alle 16 di un caldo pomeriggio praticamente di inizio estate. Onorio Olivi, da oltre 20 anni tecnico sui pontoni, esce dagli uffici della Capitaneria di porto di Bari. Dopo aver trascorso ore alla deriva dopo quel maledetto mercoledì sera, insieme agli altri 10 superstiti, è arrivato nel porto di Bari. A trainare il loro pontone, il rimorchiatore Paul.

Dopo avere risposto alle domande dei militari della Capitaneria di porto che stanno facendo luce su ciò che è accaduto, si guarda intorno ancora spaventato. Gli occhi sono lucidi, pensa e ripensa ai suoi «fratelli» come li chiama più volte. Dal pontone AD3 ha visto morire chi era a bordo del rimorchiatore Franco P. inabissatosi così rapidamente. «Si è spaccato il cuore, ma non abbiamo potuto fare niente», ricorda Onorio. «È successo all’improvviso, in 20-25 minuti». Sino a quel momento è stata una navigazione tranquilla, come ne ha fatte tante nella sua vita da uomo di mare. Tutto cambia in pochi minuti. «Abbiamo visto la barca che imbarcava acqua e non c’è stato niente da fare, non c’è stato il tempo di poterli aiutare», spiega. Questo è il suo grande rammarico. Cosa sia accaduto, resta un mistero. Sì, è vero, le condizioni del mare erano «quelle che erano», ma a suo parere «non c’entrano niente» con l’affondamento.

E allora? «Probabilmente c’è stato un inconveniente tecnico». Una via d’acqua è l’ipotesi più probabile, difficile dire cosa l’abbia causata. «Noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo, abbiamo messo anche un gommone in acqua rischiando la vita, lo abbiamo fatto perché lì c’erano i nostri fratelli, ma non è servito. Il senso di impotenza ci distrugge perché sei lì e non puoi fare niente». Commuovendosi, aggiunge: «Li sentivo come più che fratelli perché la vita del mare, chi la fa lo sa, si affronta insieme. Il momento è terribile. Abbiamo vissuto e lavorato insieme vent’anni. Adesso - continua - pensiamo solo al dolore delle famiglie, a chi non c’è più, padri di famiglia, nonni, genitori, uno avrebbe dovuto partecipare al matrimonio della figlia (Mauro Mongelli, il marinaio molfettese che risulta fra i dispersi, ndr), pensiamo a mogli e figli che ora hanno bisogno di conforto e poi alle colpe si penserà».

A dare un particolare in più è Carmelo Sciascia, il comandante del pontone AD3. «Il rimorchiatore ha imbarcato acqua in modo tanto rapido che non ce l’ha fatta a mantenere la linea di galleggiamento ed è andato giù a picco». Cedimento strutturale, un contatto con il pontone stesso? Difficile dirlo. «Ho visto tutto e niente. Ho detto io di buttarsi in acqua, ma i ragazzi non ce l’hanno fatta e sono andati giù», ha detto. Anche secondo il comandante le condizioni meteo c’entrano fino a un certo punto. Sciascia dice di non avere visto il comandante del rimorchiatore affondato, l’unico superstite che ora è in terapia intensiva nell’ospedale Di Venere di Bari per un problema cardiologico. «È stato recuperato da una nave che ho chiamato io, è stato individuato grazie alla lucetta del giubbotto che si illumina quando entra in contato con l’acqua. Se i marittimi avessero indossato i giubbotti, si sarebbero salvati». Il fatto che non ci siano riusciti, induce Sciascia a supporre che il tutto sia avvenuto molto rapidamente «e adesso bisogna capire il perché». Drammatica la conclusione: «Abbiamo visto che il traghetto andava giù e abbiamo affrontato l’emergenza. In 20-25 minuti l’abbiamo visto affondare».

Intanto, nell’istituto di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Bari si è completato il triste rito del riconoscimento delle tre salme giunte giovedì. Un dramma nel dramma se pensiamo che al molo San Cataldo, la pre-identificazione è stata effettuata dal figlio di uno dei due dispersi pugliesi. Era stato chiamato per riconoscere il genitore e non l’ha trovato. Davvero difficile capire cosa è peggio, se il dolore davanti al cadavere di un genitore oppure la quasi certezza, sapendolo disperso, di non poterlo più abbracciare per un’ultima volta.

PROSEGUONO LE RICERCHE DEI DISPERSI

Terzo giorno di ricerche al largo delle coste pugliesi dei due marinai dispersi nell’affondamento del rimorchiatore Franco P., avvenuto mercoledì sera a circa 50 miglia dalla costa di Bari, in acque internazionali. Nel naufragio, su cui indaga la Procura di Bari con la Capitaneria di Porto, sono morti tre componenti dell’equipaggio, il 65enne Luciano Bigoni e il 58enne Andrea Massimo Loi, entrambi di Ancona, e il 63enne di origini tunisine e residente a Pescara Jelali Ahmed. Sui due ancora dispersi, i due marittimi pugliesi, entrambi di Molfetta (Bari), Mauro Mongelli di 59 anni e Sergio Bufo di 60 anni, la Guardia Costiera di Bari, con il supporto di unità aeree e motovedette di altre forze militari e delle autorità croate, ha esteso l’area di ricerca spingendosi più a sud. Unico superstite tra coloro che erano a bordo della imbarcazione affondata, al momento, è il comandante, il 63enne Giuseppe Petralia, ricoverato in ospedale a Bari.

Proseguono, intanto, le indagini coordinate dalla pm Luisiana Di Vittorio. Ieri è arrivato nel porto di Bari il pontone che era agganciato al rimorchiatore al momento dell’affondamento e dal quale è stato lanciato l’allarme. Le undici persone che erano a bordo, testimoni oculari del naufragio, sono state sentite per tutto il giorno degli uffici della Capitaneria di Porto. Il pontone è stato sottoposto a sequestro probatorio e nel fascicolo d’inchiesta, con le ipotesi di reato di cooperazione colposa in naufragio e omicidio colposo plurimo, sono indagati il comandante Petralia e l’armatore Antonio Santini, legale rappresentante della società Ilma di Ancona proprietaria del rimorchiatore e del pontone. Nei prossimi giorni la Procura valuterà se disporre l’autopsia sui corpi delle tre vittime accertate e disporrà gli accertamenti tecnici sul pontone.

COMANDANTE SUPERSTITE ANCORA IN CARCERE

Il comandante del rimorchiatore affondato il 18 maggio al largo delle coste baresi, il 63enne catanese Giuseppe Petralia, unico sopravvissuto al naufragio, è in condizioni cliniche stazionarie, ricoverato nell’ospedale Di Venere di Bari. A quanto si apprende da fonti sanitarie, è ancora in osservazione in terapia intensiva per l’aumento dei valori di enzimi cardiaci, indici di flogosi e di funzionalità renale. Tali parametri sono comunque in graduale miglioramento. Per il grande stress psico-fisico subito, è in condizioni psicologiche ancora deteriorate. Non è, allo stato attuale, in pericolo di vita. Quando le sue condizioni di salute lo consentiranno, gli uomini della Capitaneria di porto di Bari, su delega della Procura, potrebbero interrogarlo. 

"Capovolti sott'acqua". E in 193 non videro mai le scogliere. Mariangela Garofano il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il 6 marzo 1987 la nave Herald of Free Enterprise salpa dal porto di Zeebrugge con un portellone aperto e si inabissa in acque belghe a pochi minuti dalla partenza, provocando la morte di 193 persone.

Il 6 marzo 1987 dal porto di Zeebrugge, in Belgio, salpa la nave traghetto Herald of Free Enterprise, con destinazione Dover, in Gran Bretagna. Ma, appena partita, la nave, di proprietà della compagnia di navigazione britannica Townsend Thoresen, inizia a imbarcare acqua da uno dei portelloni e in pochi muniti si capovolge sulla murata di sinistra e si inabissa sul fondale del mare. L’incidente, il più grave a coinvolgere un'imbarcazione britannica in tempo di pace, costerà la vita a 193 persone.

La dinamica dell’incidente e "la prigione d'acqua"

La Herald of Free Enterprise era stata costruita dalla Townsend Thoresen con altre due navi gemelle, per collegare nel minor tempo possibile Dover a Calais. La nave non era stata progettata per attraccare nel porto belga di Zeebrugge, le cui invasature non permettevano di scaricare in contemporanea i garage E e G. Inoltre, per permettere agli automezzi del garage superiore di sbarcare, era necessario riempire le casse di zavorra di prua. Ciononostante nel 1987 viene introdotta la rotta Dover-Zeebrugge, e il 6 marzo la Herald of Free Enterprise salpa alle 18.05 con a bordo 80 membri dell’equipaggio, 459 passeggeri, 81 automobili, 3 autobus e 47 camion.

Ma nessuno si accorge che il traghetto è partito con il portellone di prua aperto e a causa del mancato svuotamento delle casse di zavorra e dell’aumento di velocità, la nave inizia a imbarcare acqua nel garage principale. “Successe tutto in un battito di ciglia”, ha raccontato alla Bbc News Henry Graham, membro dell’equipaggio sulla nave, che al momento dell’incidente stava lavorando nella sala ristorante. “Dai tavoli cadeva la roba, dalle finestre entrava acqua. Poi andò via la luce e tutti iniziarono a urlare e a cadere. Sembrava che il mondo fosse finito sottosopra”. Sempre alla Bbc Graham ha raccontato di essersi aggrappato a un rimorchiatore e che per anni non riuscì più a tornare in mare. La tragedia che aveva vissuto lo aveva segnato indelebilmente.

Quel giorno di marzo furono spezzate molte vite: figli che non videro mai più i genitori, mogli salvate dai mariti con un ultimo eroico atto, prima di scomparire negli abissi del Mare del Nord. Il più grande ostacolo per i sopravvissuti era il freddo. Alcuni di loro hanno raccontato di aver resistito per miracolo, ma che intorno a loro videro persone soccombere alle gelide temperature del mare. Subito dopo l'inabissamento, una draga che si trovava nelle vicinanze notò il traghetto adagiarsi sul fondale e l’equipaggio diede immediatamente l’allarme. Ma nonostante la tempestività dei soccorsi e gli sforzi per tirarli fuori il prima possibile da quella prigione d'acqua, molti dei passeggeri rimasero intrappolati all’interno della nave e perirono a causa della temperatura del mare, che sfiorava appena i 3 gradi centigradi.

Le cause del disastro e le indagini

Ma com’è possibile che una nave di quelle dimensioni e con così tanto personale a bordo salpi con un portellone aperto? La chiusura del portellone di prua spettava al tenente nostromo, Mark Stanley, sotto la supervisione del primo ufficiale di coperta, Leslie Sabel, il quale deteneva il compito di verificare che il portellone fosse chiuso, come da procedura. Ma quel giorno Stanley, una volta portati a termine i suoi compiti sulla nave, si ritira in cabina dove si addormenta, senza svegliarsi nemmeno quando viene dato il segnale di partenza. Sabel non attende l’arrivo del collega e non si preoccupa del portellone, impegnato in altre mansioni.

Nemmeno il nostromo, Terence Ayling verificherà che il portellone sia chiuso e si giustificherà affermando che quello non era tra i suoi compiti. Anche il capitano, David Lewry, affermerà a sua discolpa, di aver pensato che i portelloni fossero chiusi e che dalla sua postazione non poteva verificare di persona. Durante il processo per identificare i colpevoli del disastro, Stanley dichiara che quel giorno era stremato a causa dei turni troppo lunghi. L’inchiesta rivelò che nel 1983 la Pride of Free Enterprise, nave gemella della Herald, salpò per Dover con un portellone aperto, anche in questo caso perché il nostromo si era addormentato.

Questo precedente mise in luce le mancanze nell’organizzazione dell’intera compagnia di navigazione Townsend Thoresen, che fu ritenuta responsabile dell’accaduto. La tratta Zeebrugge-Dover veniva percorsa dai traghetti della compagnia di navigazione fino a 5 volte al giorno e i dipendenti arrivavano a effettuare turni molto lunghi e stancanti. In 90 minuti, all'arrivo in porto, bisognava far scendere i passeggeri, gli automezzi e verificare che tutto fosse in regola per la traversata successiva.

Se inizialmente quindi, venne incolpato Stanley del disastro, l’inchiesta ufficiale additò i suoi supervisori e la compagnia come i diretti responsabili delle cause che portarono alla tragedia. Le indagini stabilirono che la compagnia non aveva fornito una corretta formazione ai suoi dipendenti, cosa da cui dipese la mancanza di comunicazione tra i membri dell’equipaggio. In seguito al naufragio della Herald of Free Enterprise vennero apportare migliorie alle navi cosiddette RoRo (roll on-roll off). Questo tipo di unità venivano costruite senza comparti stagni, cosa che causò il rapido allagamento della nave e il successivo capovolgimento sul fondo del mare. Oltre a questo, le casse di prua non furono svuotate completamente, rendendo la prua più bassa sull’acqua. In seguito all’incidente del 1987, la P&O, proprietaria della Townsend Thoresen, ritirò il marchio dal mercato, e cambiò il nome in "P&O European Ferries".

Sono 8 i dispersi sul traghetto andato in fiamme tra la Puglia e la Grecia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2022

Mancano all'appello ancora 13 persone, di cui nessun Italiano, ma cinque sono state localizzate e due di loro sono state tratte in salvo. Il rogo si è sviluppato mentre partiva dal porto di Igoumenitsa alla volta di Brindisi

Drammatico incendio sul traghetto Euroferry Olympia della Grimaldi Lines, costruito nel 1995 e lungo 183 metri, in navigazione tra la Grecia e l’Italia: le fiamme sono divampate nella notte in un garage della nave che in quel momento si trovava vicino a Corfù, a 10 miglia dalle coste greche.  L’Euroferry Olympia, era partito da Igoumenitsa ed era diretto a Brindisi dove sarebbe dovuto arrivare alle 8,30 del mattino. Il traghetto si trova attualmente alla deriva in acque albanesi. Tempestive le operazioni di soccorso che hanno permesso di portare in salvo 277 persone salite su scialuppe di salvataggio stracariche che in alcuni casi imbarcavano acqua. Il comandante ha fatto il giro delle cabine insieme agli ufficiali per assicurarsi che tutti abbandonassero la nave. 

All’appello mancano ancora 13 persone: cinque sono state localizzate sulla nave mentre non si hanno notizie di altri otto dispersi. Due delle cinque persone individuate sono state tratte in salvo da un elicottero della Guardia Costiera Greca. Lo riferiscono fonti della compagnia navale. Tra di loro non ci sarebbero italiani anche perché a bordo, con i 51 membri dell’equipaggio, c’erano per lo più autotrasportatori greci e bulgari, due dei quali sono rimasti bloccati nel garage.  

Tra le prime unità navali a intervenire la motovedetta Monte Sperone della Guardia di Finanza che ha raccolto 244 persone, tra cui bambini di pochi mesi, e le ha portate a Corfù, con l’ausilio di quattro motovedette della Guardia costiera greca. Una decina di loro è stata visitata in ospedale per problemi respiratori e lievi ferite. Ancora ignota la causa del rogo che ha devastato la nave. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha seguito quanto accaduto ha telefonato al comandante generale della Guardia di Finanza generale Giuseppe Zaffarana per ringraziare i suoi uomini per il prezioso e professionale intervento che ha portato in salvo tante persone, chiedendogli di esprimere l’apprezzamento e la riconoscenza all’equipaggio della motovedetta “Monte Sperone” delle Fiamme Gialle che per prima ha raccolto l’ S.O.S. del traghetto andato in fiamme. 

Il Gruppo Grimaldi ha offerto completa assistenza e una sistemazione alberghiera agli sbarcati a Corfù. Domani quelli che lo vorranno saranno portati in Italia con un altro traghetto del gruppo, il Florencia, partito da Ancona. Nel frattempo rimorchiatori specializzata hanno lavorato allo spegnimento delle fiamme e al recupero del traghetto nel Mar Jonio.

La Guardia Costiera italiana è in costante contatto, dalle prime luci dell’alba, con la Guardia costiera greca per le operazioni di soccorso in favore della nave battente bandiera italiana. Tramite il suo Centro Operativo Nazionale a Roma, la Guardia Costiera italiana, sta monitorando in stretto contatto anche con l’unità di crisi della società armatrice e con l’unità di crisi della Farnesina le operazioni di soccorso, offrendo peraltro disponibilità all’impiego di unità navali e aeree in supporto alle operazioni. 

Un aereo ATR42 della Guardia Costiera in assetto ambientale sta sorvolando in queste ore l’area per garantire ogni forma possibile di supporto alle omologhe Autorità straniere. La Guardia Costiera italiana ha richiesto all’Agenzia EMSA (Agenzia europea per la sicurezza marittima) un supporto per l’acquisizione di immagini satellitari per approfondire eventuali aspetti di carattere ambientale. Redazione CdG 1947

Incendio sul traghetto Euroferry nella tratta dalla Grecia all’Italia. Redazione online su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2022.

Era in viaggio da Igoumenitsa a Brindisi. A bordo 237 passeggeri e 51 membri dell’equipaggio. Ritrovati nella stiva due camionisti che risultavano dispersi. Il rogo scoppiato nel garage. Il grazie di Mattarella ai soccorritori. 

Le fiamme e poi l’allarme lanciato nel cuore della notte. Un incendio è scoppiato a bordo di un traghetto «Euroferry Olympia» battente bandiera italiana della Grimaldi Lines che collega la città di Igoumenitsa in Grecia e che arriva a Brindisi con a bordo 237 passeggeri e 51 membri dell’equipaggio. La nave è stata evacuata quasi completamente all’alba e non risultano feriti, al momento. In mattinata sono stati ritrovati nella stiva della nave incendiata due camionisti di nazionalità straniera che risultavano dispersi, secondo quanto confermato anche da Paul Kyprianou, responsabile relazioni esterne Grimaldi Group. Ci sarebbero ancora 11 dispersi. Nello specifico, come sottolinea il Gruppo in una nota, a seguito di un controllo dei passeggeri e membri dell’equipaggio evacuati a Corfù, mancherebbero all’appello 11 persone in tutto e di queste otto sono dispersi in mare e tre passeggeri si trovano ancora a bordo.

«Fiamme altissime e panico»

L’incendio è avvenuto a circa 9 miglia dalla costa, in piena area Sar (ricerca e soccorso) greca. «C’erano fiamme altissime, a bordo c’era il panico», è il racconto di alcuni dei passeggeri. «Il comandante della nave, quando è scoppiato l’incendio, ha fatto il giro delle cabine e radunato i passeggeri su un unico ponte - ha spiegato il comandante del pattugliatore Felice Cicchetti - poi ha dato l’abbandono nave, ma l’evacuazione non è stata una passeggiata». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiamato il Comandante generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana, per fargli i complimenti per il salvataggio.

L’intervento della Guardia costiera italiana

La guardia costiera greca, competente per i soccorsi, si è subito messa in contatto con il Comando generale delle capitanerie di porto a Roma, per coordinare l’intervento: i guardacoste italiani hanno messo a disposizione mezzi navali e aerei, che però non sono stati necessari. Sul posto è intervenuta, oltre alle motovedette greche una unità della Guardia di finanza italiana che si trovava in quel tratto di mare.

L’incendio sarebbe scoppiato in uno dei garage della nave. «È difficile ora capire l’esatta dinamica», ha spiegato Kyprianou. Secondo quanto si apprende da fonti informate, tutti gli italiani nella lista passeggeri sono stati tratti in salvo: tra i dispersi ci sarebbero bulgari e greci.

L’«Euroferry Olympia» era stata sottoposta, lo scorso 16 febbraio «a una visita di controllo conclusasi con esito positivo», aggiunge ancora Grimaldi.

I passeggeri a Corfù

«Le persone sono state evacuate e trasportate a Corfù, da dove verrà organizzato il transfert per il ritorno in Italia», ha aggiunto in mattinata il responsabile relazioni esterne Grimaldi Group, in collegamento con Rainews 24. A quanto «ci risulta dalle liste ufficiali della compagnia Grimaldi, sono 21 i passeggeri italiani e 43 i membri dell’equipaggio di nazionalità italiana», ha spiegato l’ambasciatrice italiana ad Atene, Patrizia Falcinelli, a Rainews24.

«Nessuno sversamento di combustibile»

Al momento non risultano sversamenti di combustibile a mare, né sembrerebbe compromessa la stabilità della nave, secondo quanto riferisce una nota del Gruppo Grimaldi.

Da corriere.it il 20 febbraio 2022.

Ha tutta l’aria di essere un mezzo miracolo. Uno dei passeggeri del traghetto italiano in fiamme al largo dell’isola greca di Corfù è stato trovato vivo ed evacuato dalla barca in fiamme. Lo confermano fonti dell’Afp e dell’Ansa. 

L’uomo — un cittadino lituano, riferisce l’Agi — , è stato avvistato a poppa della nave e ha preso contatto con i soccorritori, hanno detto le autorità greche senza fornire ulteriori dettagli. 

Intanto sbarcheranno questa mattina in Puglia alle 9.30 i 64 italiani, 21 passeggeri e 43 membri dell’equipaggio, che erano sull’Euroferry Olympia. Insieme agli italiani arriveranno anche molte delle persone salvate nel corso dell’evacuazione: sul traghetto c’erano 237 passeggeri e 51 membri dell’equipaggio, più 2 clandestini. Si continuano a cercare i 12 dispersi. Non è chiaro se l’uomo trovato vivo faccia parte della dozzina.

Carlo Vulpio per il "Corriere della Sera" il 21 Febbraio 2022.  

«Vi prego, ditemi che sono ancora vivo». Le parole del ventunenne bielorusso, che era rimasto intrappolato nella poppa della nave Euroferry Olympia e che è stato messo in salvo ieri, hanno subito fatto il giro del mondo. 

Il ragazzo, rintracciato sul ponte inferiore del traghetto, ancora avvolto dalle fiamme, era illeso. Ma il suo aspetto era quello di chi è tornato dall'inferno e avrebbe voluto baciare la terra.

«Sono fortunato perché sono vivo - ha detto alla tv greca Skai -. Voglio ringraziare chi mi ha salvato». Tra le lacrime ha aggiunto ai media greci: «Dormivo quando è scoppiato l'incendio. Quando mi sono svegliato ho cercato di trovare una via di fuga ma non ci sono riuscito. Faceva molto caldo e ho deciso di rimanere nella cabina del camion.

Sono rimasto due giorni nel garage, accendendo ogni tanto le luci per vedere cosa stesse accadendo, temevo che tutto andasse a fuoco. Sono riuscito a uscire il terzo giorno, quando mi sono reso conto che la temperatura si stava abbassando. Per assicurarmi ho afferrato delle lenzuola con le mani. E alla fine ho visto un cartello, "uscita d'emergenza", e sono riuscito ad allontanarmi».

L'autotrasportatore spiega commosso: «Non ho visto nessun altro vivo. Ho solo sentito delle voci». Una indicazione che può essere utile alle ricerche, per i soccorritori l'ulteriore conferma del fatto che diversi camionisti - tra i quali presumibilmente le dieci persone ancora disperse - stavano dormendo nei propri automezzi quando è divampato l'incendio. 

«Credo proprio che i passeggeri mancanti all'appello siano quelli rimasti a dormire nei camion - ha dichiarato Stefano Andresano, uno dei 19 italiani tratti in salvo e sbarcati ieri a Brindisi -. Una cosa sbagliatissima, ma che diversi autotrasportatori, purtroppo, scelgono di fare».

Poche ore dopo l'arrivo dei superstiti, da Corfù è giunta la notizia del ritrovamento di un corpo carbonizzato all'interno della cabina di un tir, nel garage numero 2 dell'Euroferry Olympia: la vittima è un camionista greco di 58 anni, riconosciuto dal figlio grazie a un ciondolo e a un tatuaggio sull'omero. 

È la prima vittima ufficiale del rogo della nave. E a questo punto si teme non sia l'unica, mentre le ricerche continuano: squadre speciali stanno perlustrando ogni angolo dell'imbarcazione.

I dieci dispersi sono sette bulgari, due greci e un turco. Gli italiani giunti ieri mattina a Brindisi da Igoumenitsa, sempre con una nave della Grimaldi Lines, hanno ringraziato l'equipaggio e i soccorritori, ma hanno anche raccontato i momenti di terrore vissuti a bordo, soprattutto perché l'incendio si è propagato molto rapidamente. 

La testimonianza di Vittorio Padrevita, 36 anni di Benevento, papà di due bambini, vale per tutti i superstiti. «Ho inviato un sms di addio a mia moglie - ha raccontato commosso - perché credevo che sarei morto. Quando mi hanno salvato non ci credevo. Ho pianto e ho ringraziato Dio». 

Valentina Errante per “Il Messaggero” il 20 febbraio 2022.

Dodici dispersi: nove cittadini bulgari, tre greci e un turco. Alla fine, è il ministro della Navigazione greco, Yiannis Plakiotakis, a fare chiarezza sul numero delle persone scomparse dopo l'incendio esploso nella note tra giovedì e venerdì della nave al largo di Corfù. Erano sulla lista passeri della Grimaldi Lines e non sono mai arrivati a terra. Venerdì sembrava che a mancare fossero in otto, probabilmente a causa del fatto che sono stati salvati alcuni passeggeri, di nazionalità afghana, che invece non risultavano a bordo.

E mentre le ricerche proseguono, sempre con meno probabilità di ritrovare vivi i naufraghi, la preoccupazione adesso riguarda anche lo sversamento di carburante in mare. Intanto i 64 italiani che erano sulla Euroferry Olympia non sono ancora rientrati. Avrebbero dovuto imbarcarsi ieri mattina per arrivare a Brindisi ma sono stati trattenuti, ospiti in un albergo, per questioni burocratiche. 

La partenza è stata rinviata a oggi. Ma potrebbe ancora slittare, dal momento che la procura di Corfù ha aperto un fascicolo per naufragio e attentato alla sicurezza dei trasporti, e ha delegato l'Autorità portuale centrale a sentire tutti i sopravvissuti e altri testimoni, anche i pescatori che si trovavano in mare quando l'incendio è divampato. 

I DISPERSI Nonostante la macchina dei soccorsi abbia funzionato alla perfezione, grazie all'intervento di un pattugliatore della Guardia di Finanza, in 12 mancano all'appello. Alcuni camionisti salvati venerdì hanno testimoniato che diversi loro colleghi avrebbero preferito dormire a bordo dei loro mezzi parcheggiati nel ponte mezzi, perché le cabine e le sale per i passeggeri erano sovraffollate. Si teme quindi il peggio, potrebbero essere rimasti intrappolati sulla nave.

RISCHIO AMBIENTALE L'incendio a bordo intanto non è stato spento del tutto, sono presenti ancora alcuni focolai e soprattutto le autorità greche stanno tentando in tutti i modi di evitare che la nave affondi. Secondo alcune ipotesi, le temperature all'interno hanno raggiunto i 500-600 gradi Celsius. I tecnici del Reparto ambientale marino della Guardia Costiera hanno individuato un possibile sversamento dalla nave che aveva a bordo 800 metri cubi di carburante e 23 tonnellate di merci pericolose corrosive. Il ministro della Transizione ecologica sta seguendo la vicenda in costante contatto con la Guardia Costiera.

IL TESTIMONE A margine dell'inchiesta sul gravissimo incidente, ora, le testimonianze di chi spesso viaggiava su quella nave, fanno sorgere molti sospetti sull'origine del rogo: «Tutte le volte c'era un popolo nei garage della nave che rimaneva a dormire nelle auto, in questi anni ho visto stranieri - credo fossero bulgari o rumeni - che accendevano i fuochi giù nei garage, facevano feste con l'autoradio dei furgoni, si ubriacavano». Massimo, un italiano che abita sull'isola greca di Othoni non distante dal luogo del naufragio, e centinaia di volte ha viaggiato a bordo del traghetto Euroferry Olimpia, otto solo nell'ultimo mese, è stato intervistato dal Giornale radio Rai. Per fortuna, giovedì non era a bordo.

«Ma non mi sono meravigliato - commenta amaramente - ovviamente non so quali siano state le cause di questo incendio, ma posso dire che ho passato tantissime notti chiuso in macchina nei garage di questa nave, proprio perché è fatiscente e piena di gente che bivacca». Grimaldi Lines minimizza: «La pratica di alloggiare nei garage non è assolutamente lecita, sulla base di una normativa internazionale - replica al giornale Radio Paul Kyprianou delle relazioni esterne di Grimaldi Lines - noi ci atteniamo alla norma e abbiamo delle ronde apposite: membri dell'equipaggio che controllano. Può essere che ci siano dei camionisti che non seguono le indicazioni. Trovo grave che si sia acceso un fuoco a bordo, noi siamo l'unica compagnia su questa tratta che ha viet

"La sua auto è dispersa". Cosa è successo sulla nave in fiamme. Edoardo Sirignano su Il Giornale il 20 febbraio 2022.

Non è ancora chiaro quante macchine trasportate ci fossero sulla nave andata in fiamme al largo delle Azzorre, ma certamente non mancheranno persone che non ritroveranno più la propria Porsche, Volkswagen, Audi, Bentley o Lamborghini. Si trattava, infatti, di un’imbarcazione in grado di trasportare circa 4mila autovetture di lusso. Il motivo del viaggio era trasportare proprio i veicoli dalla Germania, dove sono stati prodotti agli Stati Uniti. 

All’improvviso, secondo quanto riportato dal personale di bordo, sarebbe scoppiato un incendio incontrollabile. L’intero equipaggio, per fortuna, è stato tratto in salvo, portato in elicottero all’isola di Faial. Resta in mare, però, il prezioso carico. L’imbarcazione, infatti, viene abbandonata e non si sa quante macchine sarebbero rimaste intatte e quante invece perse.

Tanti i clienti in ansia che dagli States nelle ultime ore informazione vorrebbero avere informazioni rispetto alla macchina nuova che sarebbe dovuta arrivare loro a giorni. Ecco perché è già partita un’operazione per recuperare i veicoli rimasti sul gigante del mare che al momento galleggia senza guida. Al lavoro un gruppo di 16 persone della compagnia olandese Boskalis, che avrebbe il compito di mettere in sicurezza il contenuto dei container e recuperarlo.

Il danno, coperto dalle assicurazioni, si aggirerebbe intorno al mezzo miliardo di dollari. Come affermato da Allianz Global Corporate & Specialty, si tratta di veicoli con valore unitario medio stimato in 99.650 dollari. Pur essendo state spente le fiamme, il prezioso carico è certamente compromesso, così come la nave che era stata varata nel 2005 e che aveva un valore di 24,5 milioni di dollari.

Per tale ragione, in primis Porsche, si sarebbe già attivata per contattare i propri clienti americani, a cui era destinata la spedizione partita il 10 febbraio dal porto tedesco di Emden, con un messaggio che informa dell’incidente della Felicty Ace e dei ritardi nelle consegne. L'aspetto che avrebbe creato maggiore confusione, però, sarebbe stato quello relativo a delle chiamate ai clienti, in cui sarebbe stato detto semplicemente risposto: "La sua auto è dispersa".

Sia per la compagnia marittima giapponese che per il gruppo Volkswagen di auto sportive non è la prima volta che si verifica un incidente del genere. Nel gennaio del 2019 una nave gemella della Mitsui Osk Linessi si era incendiata al largo di Oahu mentre navigava con un carico di auto giapponesi verso le Hawaii. In quel caso c’erano state 4 vittime e un disperso. Stessa sorte era toccata nel 2019 alla nave porta container Grande America della Grimaldi. In quell’occasione c’erano circa duemila veicoli, tra cui alcuni preziosi esemplari di Porsche 911 Gt2 Rs che adesso giacciono sui fondali dell’oceano.

Negli ultimi dieci anni, gli incendi rappresentano la terza causa principale delle perdite navali, in particolare per quelle che trasportano autovetture. Gli spazi interni di queste non sono divisi in sezioni protette da paratie, come nelle altre imbarcazioni mercantili e ciò le espone non poco agli incendi. Secondo Rahul Khanna, responsabile della sicurezza marittima di Agsc, “basta un piccolo inizio di fuoco su un veicolo o il cortocircuito di una batteria di un’auto elettrica e il problema può andare fuori controllo molto rapidamente”. Le macchine, inoltre, sono vicine e quindi non facilmente accessibili una volta completato il carico. Il grande volume d’aria all’interno dei ponti garage aperti, poi, fornisce una notevole quantità di ossigeno che certamente quando scoppia un incendio lo alimenta.

Non è impresa semplice, quindi, neanche recuperare il carico del gigante che ha preso fuoco alle Azzorre. Ecco perché l’armatore della Felicity Ace già si sarebbe attivato con un rimorchiatore d’altura per recuperare quante più auto possibile. E’ difficile, come dichiarato dal portavoce della marina portoghese José Sousa Luís, che l’imbarcazione venga rimorchiata in un porto delle Azzorre.

Valentina Errante per “Il Messaggero” il 19 febbraio 2022.

L'allarme sulla Euroferry Olympia della Grimaldi lines è scattato alle 4.12. Il suono della sirena rimbomba ancora nella memoria di chi ce l'ha fatta. A circa dieci miglia da Corfù, le fiamme stavano salendo velocemente dal garage e presto avrebbero avvolto l'imbarcazione con 239 passeggeri, di varie nazionalità, (64 italiani) anche donne e bambini, e 51 membri dell'equipaggio (italiani e greci). Il buio, il terrore, la corsa e il panico. In 244 sono stati salvati dalla Guardia di Finanza italiana intervenuta con il pattugliatore Monte Sperone e alcuni gommoni.

Altri dalla Guardia costiera greca. La nave, salpata all'1 e 20 dal porto greco di Igoumenitsa, sarebbe dovuta arrivare a Brindisi alle 9. E invece, in piena notte, in un quarto d'ora, le fiamme hanno raggiunto il ponte. L'inferno: il fumo alto, il fuoco che saliva e il boato delle esplosioni in successione. 

I DISPERSI L'imbarcazione è rimasta in fiamme in mezzo al mare per tutto il giorno. Solo alle 11 di mattina i passeggeri sono arrivati a Corfù. Ma nel pomeriggio, quando sembrava che tutti fossero in salvo, la stessa Grimaldi ha comunicato che, rispetto alla lista delle persone identificate in una tensostruttura, in 11 mancavano all'appello. Cinque verranno rintracciate ancora sull'imbarcazione, due di loro non erano nella lista passeggeri. Il salvataggio continua per tutta la serata. Alla fine sono otto le persone di cui si sono perse le tracce: cittadini bulgari, greci e un turco. Ci sono poi altri dieci feriti, nove uomini e una donna: in sette sono stati ricoverati per problemi respiratori, ma non sembrerebbero versare in gravi condizioni, altri tre sono stati dimessi.

LE CAUSE Le cause dell'incendio non sono ancora chiare, secondo il comandante della nave, che ha contattato il quartier generale del Gruppo, le fiamme avrebbero avuto origine nel garage numero 3. Uno dei tanti che ospitavano i 153 mezzi commerciali (tra camion e semirimorchi) e 32 veicoli al seguito dei passeggeri. Ora saranno le perizie a stabilire cosa sia accaduto.

L'ALLARME Il primo intervento è stato quello dell'equipaggio, che ha tentato di domare le fiamme con i mezzi di bordo mentre attraverso l'emergency response team, venivano allertate le autorità nazionali e greche. Momenti difficili, nei quali c'è stato disorientamento. Il racconto dei passeggeri è drammatico: «Se l'equipaggio - ha spiegato un camionista - non avesse reagito immediatamente non so cosa sarebbe accaduto, forse il fuoco ci avrebbe divorato. Dopo che abbiamo lasciato la nave, abbiamo visto il fuoco invadere altri ponti. È stato anche il momento in cui abbiamo ascoltato le esplosioni, che probabilmente venivano dai veicoli. Ma su questo l'equipaggio era organizzato e preparato». 

Sul posto sono arrivate anche le unità navali della Marina greca, e i vigli del fuoco per spegnere l'incendio, oltre a personale italiano delle Capitanerie di porto che garantisce supporto anche per prevenire la dispersione in mare di carburante con danni ambientali. In serata le operazioni di salvataggio erano ancora in corso. Le liste dei passeggeri sono state controllate e raffrontate più volte con gli elenchi delle persone identificate perché nell'arco della giornata si erano inseguite ipotesi varie sul numero dei dispersi. La Grimaldi Lines, ha disposto subito la partenza da Ancona di nave Florencia, che questa mattina porterà le persone salvate dal naufragio a Brindisi. Prima, però, dovrà arrivare il nulla-osta delle autorità locali che stanno indagando sull'accaduto.

Da ilmessaggero.it il 19 febbraio 2022.

Il fumo non consentiva più di respirare, ma il comandante ha fatto il giro delle cabine prima di abbandonare la nave, con le fiamme «altissime» e il calore che aumentava. In centinaia, intanto, si accalcavano nelle scialuppe. Un uomo si è buttato in mare. Il racconto dei membri dell'equipaggio del Monte Sperone, il pattugliatore della Guardia di Finanza che per caso si trovava in zona ed è stato subito dirottato dalle autorità greche verso il luogo dell'incidente, è drammatico. In 29, uomini e donne, hanno lavorato per tutta la notte per soccorrere i naufraghi, tranquillizzarli, dar loro acqua e coperte termiche e portarli nel porto di Corfù. Un salvataggio improvvisato ma riuscito, per il quale è arrivata anche la chiamata di ringraziamento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

«Illuminavamo la nave con i fari, per far vedere che eravamo lì, a salvarli, per portarli su dalle scialuppe. Con i gommoni, abbiamo circumnavigato l'imbarcazione, per verificare che nessuno si fosse gettato in acqua per il panico. Abbiamo ripescato un uomo». Felice Ludovico Simone Cicchetti, comandante della stazione navale di manovra di Messina, si trovava a bordo del Monte e non si è ancora fermato. «L'emozione più grande - racconta - è stata vedere le donne che finalmente potevano piangere, la tensione che si scioglieva, dopo le urla e il panico, quando sono salite a bordo».

Il comandante, in genere, lavora a terra, due giorni fa era per caso sul pattugliatore. «Gli altri colleghi si muovono meglio in mare, sono abituati anche ai salvataggi durante le operazioni di pattugliamento - spiega - È stata un'emozione troppo forte, ma non potevo permettermi di perdere la lucidità. Adesso posso dirlo: è uno dei momenti più felici della mia carriera». 

LE FIAMME «Le fiamme erano così alte che le abbiamo viste ancora prima di arrivare nei pressi della nave, con la nostra strumentazione di bordo. Ci siamo attivati in fretta», racconta il comandante del pattugliatore, il colonnello Simone Cristalli, il cui pensiero ora va a tutti quelli rimasti intrappolati. «Quando siamo arrivati sottobordo - racconta ancora Cristalli - abbiamo trovato i passeggeri e l'equipaggio che erano già sulle delle scialuppe e dunque ci siamo preoccupati immediatamente di trasferirli sul pattugliatore, per metterli in sicurezza». Non sono stati momenti semplici, nonostante le condizioni del mare fossero buone. L'intervento dei finanzieri non si è limitato al solo trasferimento dei passeggeri sul pattugliatore. «Quando siamo arrivati - è ancora Cicchetti a raccontare - c'erano due membri dell'equipaggio rimasti a bordo. Ci siamo avvicinati con i gommoni e li abbiamo aiutati a scendere con la biscaggina senza problemi».

Ma è stata proprio la casuale presenza della Guardia di Finanza in zona a consentire il salvataggio di quasi 290 persone. Quando il pattugliatore è arrivato i passeggeri erano già sulle scialuppe stracolme, in balia delle onde, al freddo. C'erano scene di panico: «Se siamo vivi lo dobbiamo a loro». La chiamata delle autorità greche è arrivata pochi minuti dopo le 4. «La Guardia costiera di Atene ci ha nominato coordinatori nel soccorso sul posto, perché eravamo l'unità navale più grande in zona - spiega Cristalli - E ci ha messo a disposizione quattro motovedette. Tre le abbiamo utilizzate per verificare che non ci fossero persone in mare attorno alla nave e una quarta, su disposizione del medico di bordo del traghetto, è servita invece per trasferire immediatamente a terra una persona che aveva accusato problemi all'apparato respiratorio».

Una notte da incubo che ricorda quella che si è consumata nella notte tra il 27 e il 28 dicembre 2014 quando, in una bufera di neve e il mare in burrasca, in piena notte, il traghetto «Norman Atlantic» che viaggiava da Igoumenitsa (Grecia) ad Ancona prese fuoco al largo delle coste albanesi. Una dinamica molto simile a quella di ieri, eccetto che per le condizioni del mare e per la sorte delle persone a bordo. Dei 499 che erano sulla Norman ne morirono 31. Quella notte l'allarme fu dato in ritardo, l'impianto antincendio, risultato inidoneo, venne attivato sul ponte sbagliato e non c'era vicino un pattugliatore della Finanza.

Lucia Pezzuto per Il “Messaggero” il 19 febbraio 2022.

«Ho visto la morte in faccia, c'era fumo dappertutto, donne e bambini che piangevano. Ho temuto di non farcela». A raccontare l'incubo dei 237 passeggeri e 51 membri dell'equipaggio del traghetto Euroferry Olympia, è Mino Roma, imprenditore brindisino di 43 anni, che con un amico stava tornando dalla Grecia e ieri mattina sarebbe dovuto sbarcare a Brindisi. Le urla, le fiamme e la corsa verso le scialuppe: è stata una notte di terrore.

Mino Roma si era imbarcato sul traghetto a Igoumenitsa, stava tornando da un viaggio di lavoro: «Eravamo partiti da meno di un'ora. Dopo aver mangiato un panino stavamo andando a dormire, quando qualcuno ha bussato alla nostra cabina. Ho sentito urlare: Fuori, fuori. Ho aperto la porta e ho visto la gente con il giubbino di salvataggio correre verso il ponte. C'era fumo, tanto fumo. Poi ho sentito la voce del comandante che dall'altoparlante diceva: Abbandonate la nave».

IL PANICO L'imprenditore racconta che in un primo momento non riusciva a capire cosa stesse accadendo, poi ha visto la gente correre e il fumo nero che avanzava alle sue spalle. In tanti si stavano ammassando sul ponte, aspettando di poter salire su una scialuppa. Sul traghetto ce n'erano quattro: due sono state raggiunte dalle fiamme. All'improvviso 300 persone si sono ritrovate a salire su imbarcazioni che hanno una capienza di circa 80, 90 unità. «Eravamo circa 150 persone per scialuppa, ammassati come animali racconta ancora l'imprenditore brindisino Ad un certo punto abbiamo persino cominciato ad imbarcare acqua. C'erano persone che vomitavano, donne che urlavano e persino qualche bambino di pochi mesi che piangeva disperato. Se non fosse stato per le motovedette della Guardia di Finanza non so se saremmo sopravvissuti. È stato impressionante, la nave bruciava, le fiamme l'avevano avvolta per quasi la metà».

L'incendio sul traghetto si è sviluppato intorno alle 2 di notte, appena tre quarti d'ora dopo la partenza. I soccorsi sono arrivati in poco tempo: due motovedette della Finanza di Brindisi si sono fatte carico dei passeggeri che si trovavano sulle scialuppe. Nel frattempo, il mare si è agitato e il sovraccarico ha fatto sì che la lancia di salvataggio cominciasse ad imbarcare acqua. «Sembrava un film, ho avuto paura anche sulla scialuppa, perché eravamo troppi. Nella fuga dalla cabina ho preso con me solo il telefonino e il portafoglio dice Roma in pratica abbiamo perso tutto.

Ma c'è chi sta peggio di noi, penso agli autotrasportatori che hanno perso carico e mezzo. Una volta che ci hanno soccorsi siamo stati portati prima in una struttura nel porto di Igoumenitsa, dove ci hanno dato acqua e cibo. Poi ci hanno trasferiti in albergo. Qui stiamo aspettando di essere nuovamente imbarcati. È stata un'esperienza che non dimenticherò facilmente». Tutti i passeggeri del traghetto hanno ricevuto assistenza dalle autorità greche e sono stati accolti in un albergo. Ieri sera, poi, sono stati imbarcati sulla nave Florencia che arriverà questa mattina a Costa Morena, a Brindisi, intorno alle 9.30

Sul traghetto bruciato trovato un autista morto. Salvato un 21enne. Patricia Tagliaferri il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il superstite, bielorusso, è in buona salute: "Sentivo voci a bordo". Ancora 10 i dispersi.

Dalla gioia di aver salvato un superstite a poppa del traghetto andato in fiamme venerdì nelle acque di fronte a Corfù, mentre viaggiava tra Grecia e Italia, alla disperazione di aver trovato un cadavere a bordo dell'Euroferry Olympia della Grimaldi. Si tratta di un camionista greco di 58 anni che si trovava nel ponte garage, l'area dove si presume siano partite le fiamme e dove diversi autisti si trovavano per passare la notte nei loro tir, nonostante la zona fosse interdetta durante la navigazione. Era carbonizzato, all'interno del proprio mezzo. È stato identificato dal figlio grazie ad un ciondolo e ad un tatuaggio.

Nonostante l'entusiasmo dei primi momenti, quando era sembrato che tutti i passeggeri fossero in salvo, ne mancano ancora 10 all'appello. Si tratta di bulgari, greci e un turco che si ipotizza stessero dormendo quando è divampato l'incendio. Il sopravvissuto, un camionista bielorusso di 21 anni, soccorso 52 ore dopo lo scoppio dell'incendio, ha detto di aver sentito voci a bordo, alimentando la speranza che possano esservi altri sopravvissuti, nonostante il fumo e le temperature roventi per le fiamme partite dal garage e mai completamente domate. «Per fortuna sono vivo», ha esclamato il giovane, individuato mentre la nave veniva rimorchiata verso il porto di Kassiopi, a nord di Corfù. È stato ricoverato per precauzione, ma è in buone condizioni, solo disidratato. In un'intervista al Mattino il comandante della nave, Vincenzo Meglio, ha assicurato che prima dell'evacuazione tutti i passeggeri erano sul ponte, ipotizzando che qualcuno possa essere poi sceso in cabina per recuperare qualche effetto personale e non sia più riuscito a salire sulle scialuppe.

Intanto la nave Florencia, sempre della Grimaldi, con 48 dei 280 passeggeri portati in salvo, tra cui una ventina di italiani, è attraccata al porto di Brindisi. Drammatici i resoconti fatti ai cronisti che aspettavano sul molo. «Ho mandato un sms di addio a mia moglie. Ero convintissimo che la morte ci prendeva tutti. Ci hanno chiamato ci hanno diviso in due gruppi e poi c'è stato l'abbandono nave. Ho pensato di morire, la morte l'abbiamo vista», ha raccontato Vittorio Padrevino, autotrasportatore italiano. Il Gruppo Grimaldi continua a difendere il proprio operato. L'Olympia era in buone condizioni e la navigazione non era affatto «precaria», come ipotizzato dal sindacato greco degli autotrasportatori. Anzi, il 16 febbraio a Igoumenitsa, il porto di partenza, il traghetto era stato sottoposto a un'ispezione, che aveva riguardato anche i sistemi di rilevazione fumi e antincendio e che si era conclusa con risultati soddisfacenti. Sarebbero state anche rispettate le normative internazionali che vietano ai passeggeri di accedere ai ponti garage in navigazione. Per garantire che tale regola sia rispettata da tutti, sulle navi Grimaldi l'evacuazione dell'area di carico viene controllata prima della partenza e durante la navigazione membri dell'equipaggio pattugliano regolarmente i ponti garage. Fermo restando che può sempre accadere, come sembra sia avvenuto, che qualche autista decida di nascondersi nel proprio camion in modo fraudolento. La compagnia ha respinto anche l'accusa di overbooking della nave nella notte dell'incendio: «Il sistema di prenotazione elettronica del gruppo non consente alcun overbooking».

Il rimorchiamento del traghetto si sta svolgendo con grande cautela, dato che nei serbatoi della Olympia ci sono almeno 800 metri cubi di carburante, oltre alla presenza a bordo di circa 23 tonnellate di merci pericolose. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha però assicurato ai microfoni di Radio 24 che «al momento lo scafo non dà evidenza di fratture che possano far pensare a uno sversamento». Patricia Tagliaferri

Nave Felicity Ace brucia: nell’incendio perse 1.100 Porsche, 189 Bentley e migliaia di Audi e Vw. Paolo Ottolina su Il Corriere della Sera il 19 febbraio 2022.

Il rogo sul mercantile portacontainer Felicity Ace al largo delle isole Azzorre. Perse auto di lusso per un valore di decine di milioni di euro. Soccorse e portate in salvo le 22 persone dell’equipaggio. 

Automobili di lusso per un valore di centinaia di milioni di euro sono andate perdute nell’incendio che ha colpito una nave portacontainer, il mercantile Felicity Ace. La nave portava un carico del gruppo Volkswagen ed era al largo delle isole Azzorre quando è scoppiato il rogo, mentre era in rotta verso il porto statunitense di Davisville, nel Rhode Island, dopo essere partita da Emden, in Germania. La vicinanze alle isole, territorio del Portogallo, ha permesso di portare in salvo i 22 membri dell’equipaggio, grazie all’intervento della marina e dell’aviazione portoghese, con l’aiuto anche di altri quattro mercantili che navigavano nell’area. Nessun marittimo risulta ferito.

Per fortuna dunque non si è ripetuta la tragedia del traghetto Grimaldi che quasi nello stesso momento prendeva fuoco nel tragitto tra Grecia e Italia, ma il bilancio economico del rogo è disastroso. Sia per il numero dei veicoli coinvolti, sia per il valore degli stessi, tanto più in un periodo in cui le case produttrici sono alle presi con gravi problemi nella catena produttiva. Volkswagen non ha specificato il numero dei sui veicoli sulla nave, di proprietà della compagnia di navigazione giapponese Mitsui OSK Lines, ma secondo il giornale tedesco Handelsblatt un’e-mail interna di Volkswagen Usa ha rivelato che a bordo c’erano 3.965 automobili dei marchi Volkswagen, Porsche, Audi e Lamborghini. La Porsche ha da parte sua comunicato che aveva circa 1.100 auto a bordo. Tra queste anche quella che aspettava lo youtuber Matt «the Smoking Tire» Farah, che ne ha parlato su Twitter. Sul mercantile c’erano anche 189 Bentley, come ha confermato la stessa casa automobilistica.

L’equipaggio ha parlato di un incendio scoppiato a causa delle batterie delle auto elettriche (o ibride) a bordo. Non è chiaro se sia stata questa la reale causa, ma di certo la presenza di migliaia batterie agli ioni di litio ha reso le fiamme difficili da domare, tanto che è dovuta intervenire una nave della Smit, società olandese specializzata in interventi di salvataggio e recupero in mare. Un incendio che coinvolge batterie agli ioni di litio, soprattutto in quantità così grandi, sviluppa temperature paragonabili a quelle della reazione chimica da termìte, capaci di fondere anche l’acciaio. Secondo alcuni esperti, se fosse accertato che il rogo è stato causato dalle batterie (e non solo che queste ne hanno amplificato dimensioni e portata) ci potrebbero essere conseguenze rilevanti per il mercato delle auto elettriche e per i costi, legati a standard di sicurezza e assicurativi, del trasporto via nave o via terra.

Negli ultimi anni, il numero di incendi a bordo delle navi portacontainer è aumentato, come riporta il quotidiano tedesco FAZ, citando un’indagine di Allianz secondo cui il record si è toccato nel 2019, con 40 incendi legati al carico a bordo.

La nave Felicity Ace è affondata con quasi 4.000 auto a bordo tra cui Porsche, Lamborghini e Bentley. Alessio Lana su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2022.

Dopo due settimane è affondata la nave andata a fuoco il 16 febbraio si trova ora a 3.300 metri sott'acqua.  

Alla fine Felicity Ace è affondata. Il cargo con a bordo 1.100 auto Porsche e 189 Bentley più un numero imprecisato di Audi, Volkswagen e Lamborghini (fra cui gli ultimi esemplari della Aventador) è andato a fondo portando con sé il prezioso carico, un vero tesoro che ora riposa a tremila metri sott'acqua.

Il problema ambientale

La nave mercantile era andata a fuoco il 16 febbraio mentre stava navigando a 90 miglia nautiche (circa 170 km) a sud-ovest dell’isola di Faial, nell'arcipelago portoghese delle Azzorre. I soccorsi immediati avevano permesso di salvare i 22 membri dell’equipaggio mentre una squadra di esperti della marina portoghese ha monitorato costantemente la situazione ambientale. Le Azzorre sono un paradiso marino nel mezzo dell'Atlantico, con coste coralline che pullulano di vita oltre che un punto di passaggio e alimentazione per megattere e balenottere azzurre.

Carburante e petrolio

Anche per questo, dopo giorni in cui le fiamme continuavano a non fermarsi, le autorità locali avevano deciso di trinare il cargo a 400 chilometri al largo delle Azzorre, ben oltre la zona economica esclusiva portoghese. Oltre alle auto infatti la nave a bordo aveva 2.200 tonnellate di carburante e 2.200 tonnellate di petrolio. Ma sono le auto a fare più «rumore».

Quasi 4.000 vetture

Il cargo di 198 metri della giapponese Mitsui O.S.K. Lines (Mol) e battente bandiera panamense stava andando dalla Germania al Rhode Island, negli Stati Uniti, con 3.965 veicoli tutti del gruppo Volkswagen. Un danno, secondo l'analisi della britannica Russell Group, stimato in circa 438 milioni di dollari (circa 392,3 milioni di euro) di cui 401 milioni (359,1 milioni) solo di automobili e accessori.

Il problema delle batterie

Secondo gli esperti, la situazione è stata complicata dalla presenza a bordo di vetture dotate di batterie agli ioni di litio. Non solo auto elettriche ma anche ibride. Le squadre potevano affrontare l'incendio solo dall'esterno perché era troppo pericoloso salire a bordo, l'acqua non poteva essere usata per il pericolo di destabilizzare la nave e in più gli estintori tradizionali non fermano la combustione di quel tipo di accumulatori, come ha spiegato a Reuters João Mendes Cabeças, il capitano del porto di Faial. Per questo, oltre che per la posizione disagevole per i soccorsi, l'incendio si è protratto per ben nove giorni. Ma ora è finita.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 21 Febbraio 2022.  

Un esperto aerospaziale è sicuro di aver trovato finalmente il luogo dove è precipitato il volo MH370 della Malaysian Airlines. L’aereo scomparve l’8 marzo 2014 con a bordo 239 persone, tra cui sei australiani, poco dopo aver lasciato Kuala Lumpur in direzione Pechino. 

Nonostante un ampio sforzo di ricerca internazionale, 200 milioni di dollari spesi per setacciare oltre 120.000 mq, il relitto del Boeing 777 non è mai stato trovato. E secondo i familiari delle vittime non si è trattato di un incidente.

L’ingegnere aerospaziale Richard Godfrey crede che l’areo sia precipitato nell’oceano a 1.933 km a ovest di Perth e si trovi a 4.000 m sotto l’acqua, lungo una linea nota come il “settimo arco”. Usando l'analisi del Weak Signal Propagation Reporter, Godfrey ha tracciato i disturbi che l'aereo ha prodotto nelle frequenze radio in tutto il mondo per scoprire il suo percorso finale, creando forse la stima più precisa fino ad oggi di dove si trovi il relitto. 

Godfrey ha trovato schemi insoliti nel viaggio dell'aereo, tra cui virate di 360 gradi sull'oceano, che lo hanno portato a pensare che il pilota Zaharie Ahmad Shah abbia deliberatamente portato l'aereo fuori rotta. «Finora tutti pensavano che ci fosse un percorso rettilineo, forse anche con il pilota automatico», ha detto a 60 Minutes. «Credo che ci fosse un pilota attivo per l'intero volo».  

A tre ore dall'inizio del viaggio, l'aereo è entrato in uno schema di attesa insolito, che è durato circa 20 minuti, secondo i risultati del signor Godfrey. Uno schema di attesa è quando un pilota mantiene l'aereo in uno schema all'interno di uno spazio aereo specificato, di solito in attesa di ulteriore autorizzazione per procedere e in genere prima dell'atterraggio. 

Il signor Godfrey ritiene che lo stallo temporaneo possa indicare che il pilota si era fermato per prendere contatto con le autorità malesi, nonostante il governo abbia mantenuto i contatti con l'aereo fino a 38 minuti dopo il decollo. 

«È strano per me entrare in uno schema di attesa, se stai cercando di perdere un aereo nella parte più remota dell'Oceano Indiano meridionale» ha spiegato Godfrey. 

«Potrebbe aver comunicato con il governo malese, potrebbe aver verificato di essere seguito. Potrebbe aver semplicemente avuto bisogno di tempo per prendere una decisione. Spero le autorità malesi, se c’è stato qualche contatto, siano disposte a divulgare le informazioni dopo otto anni». 

L'esperto ha individuato 160 punti su una mappa dell'Oceano Indiano in cui i segnali erano disturbati, dicendo che solo un altro aereo era nell'area quella notte - ed era almeno a un'ora di distanza - il che significa che i disturbi erano probabilmente causati dall'MH370.

Il marito di Danica Weeks, Paul, era uno dei sei australiani che si ritiene siano morti quando l'aereo è scomparso quasi otto anni fa. Fino alle scoperte del signor Godfrey, la donna aveva a lungo insistito sul fatto che l'aereo avesse subito un guasto meccanico. Ora, crede che l'incidente sia stato un atto di omicidio. 

«Ero così ferma nel dire che non era il pilota», ha detto a Sky News. «Ma ora devo buttare via tutto questo dopo quasi otto anni (dalla scomparsa) e tre anni di ricerca (per l'aereo, da parte delle autorità)».

«Non ho mai creduto che fosse il pilota. Sfortunatamente, Richard Godfrey ha detto che crede a questo punto che il pilota avesse il controllo. E guarda, ha senso che abbiamo cercato un aereo fantasma, non l'abbiamo trovato. Quindi forse dobbiamo fare un passo avanti e... cercare su quella base ora». 

La madre di due figli, che si è risposata due anni fa, dice che la sua vita è in attesa mentre aspetta la chiusura per mantenere la sua promessa di riportare a casa il corpo del suo ex marito. La vedova chiede una nuova ricerca alla luce del rapporto dell'onorevole Godfrey, pubblicato per la prima volta alla fine dell'anno scorso. 

«Uniamo i punti, se questo non vale un'altra ricerca, allora non so cosa sia», ha detto a 60 Minutes.  «Ho fatto le mie ricerche e sembra così promettente. Mi viene la pelle d'oca. Lo guardo e penso che sia così». «È passato così tanto tempo senza risposte. Non c'è giorno in cui non ci penso. Ho promesso a Pauly che l'avrei riportato a casa. Non l'ho ancora soddisfatto».   

La signora Weeks ha detto di aver incontrato il primo ministro malese, che ha promesso di continuare la ricerca, ma le sue promesse non si sono mai avverate.

Altri esperti stanno effettuando ricerche tra pari sui risultati di Godfrey e, se in caso di recensioni positive, faranno pressioni sul governo malese per riaprire la ricerca. Il signor Godfrey ha detto che le autorità malesi lo hanno ringraziato per aver trasmesso il suo lavoro, ma gli hanno detto che erano «molto occupati». 

«Se si scopre che il pilota era comunque responsabile, potrebbero trovarsi di fronte a richieste multimilionarie», ha detto. 

Agente Polfer rubava gli oggetti smarriti alla Stazione Termini. Valentina Dardari il 28 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L’uomo, finito a processo, si sarebbe intascato oggetti smarriti dal valore totale di oltre 9mila euro. Anche una penna Swarowsky.

Un agente della Polfer è finito a processo perché accusato di aver rubato alcuni oggetti smarriti tra il 2018 e il 2019 da turisti italiani e stranieri alla Stazione Termini di Roma. Invece di restituirli e catalogarli, come avrebbe dovuto fare, secondo quanto ricostruito dal pubblico ministero l'indagato li portava a casa sua, si teneva eventuali soldi e a volte anche gli oggetti preziosi. Tra gli oggetti trafugati ci sarebbe anche una penna griffata, per non parlare di portafogli e monili. Secondo l'accusa, come riportato da Il Messaggero, gli oggetti smarriti sarebbero risultati tutti come riconsegnati ai rispettivi proprietari. E ci sono anche i verbali di restituzione timbrati dagli uffici diplomatici riceventi. Grazie a questa truffa un assistente capo della Polizia ferroviaria di 54 anni si sarebbe messo da parte oggetti per un valore di oltre 9mila euro.

L'accusa

L’uomo, Marco Cecchetti, incaricato di gestire i beni che i viaggiatori perdono nella principale stazione di Roma, è finito nei guai. Le accuse nei suoi confronti non sono poche: il pubblico ministero Francesco Basentini gli contesta infatti le accuse di peculato, falsità ideologica e materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Tutti i fatti sarebbero avvenuti tra maggio 2018 e 14 marzo 2019, la data dell'ultimo ritrovamento. Cecchetti avrebbe dovuto gestire tutti i fascicoli riguardanti i vari oggetti smarriti o abbandonati da viaggiatori italiani e stranieri di passaggio per la stazione di Roma Termini, la più importante della Capitale, che con i suoi 225mila metri quadrati di spazio risulta essere anche la più grande d’Italia. Invece, secondo l’accusa gli oggetti smarriti o dimenticati in quel lasso di tempo non sarebbero stati chiusi negli armadietti dell’ufficio oggetti smarriti in attesa che il proprietario si facesse vivo, bensì sarebbero stati trafugati dal 54enne assistente capo della polizia Ferroviaria.

Nel capo d'imputazione si legge che l'imputato “avendo per ragione del suo ufficio la disponibilità dei beni perduti o abbandonati da persone note o ignote in transito presso la stazione Termini in Roma, se ne appropriava per un totale complessivo di 9.762,82 euro”. Sarebbero 52 gli oggetti smarriti, in particolare portafogli con al loro interno soldi appartenenti a turisti soprattutto stranieri, per esempio di nazionalità inglese, americana, spagnola, colombiana, russa e polacca. La somma più bassa intascata dall’agente sarebbe di 5 centesimi, mentre la più alta di ben 900 euro. Oltre a 400 dollari, pari a 364,96 euro, 1.69 sterline, del valore di 1.88 euro, 50mila rubli, ovvero 734 euro. Tra gli oggetti trafugati anche una penna firmata Swarowsky.

Il falso a regola d'arte

Tutti questi oggetti sarebbero invece stati tutti restituiti ai loro legittimi proprietari. Secondo quanto ricostruito dall'accusa, l'uomo “in qualità di pubblico ufficiale attestava falsamente nel registro dei rinvenimenti o nei verbali di restituzione la riconsegna di beni smarriti da persone in transito presso la stazione Termini”. Viene poi annotato dai pm nel capo d'imputazione che“faceva inoltre figurare in detti verbali, oltre alla propria sottoscrizione, il timbro e la firma dell'ufficio diplomatico ricevente o dell'ufficio oggetti reperiti dal Comune di Roma con la fotocopiatura sottostante di atti veri e la successiva compilazione in originale della parte superiore”. O anche, come aggiunto dai magistrati titolari delle indagini, “attraverso l'induzione in errore dei funzionari degli uffici competenti grazie alla sovrapposizione, al momento della presentazione, di atti relativi a differenti restituzioni”.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Le Strade. Bollo auto, cosa cambia dal 2023 con la nuova manovra. Federico Garau il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Tutto quello che c'è da sapere sulla tassa di possesso dell'auto

 Superbollo

Il bollo auto è di certo una delle tasse più osteggiate dagli italiani. Ecco cosa c'è da sapere sulla base delle modifiche più recenti introdotte dalla legge di Bilancio.

Quando verrà tolto il bollo auto

Secondo quanto previsto dall'art.46 della Manovra 2023, le cartelle entro i 1000 euro affidate all'agente di riscossione nel periodo compreso tra 1 gennaio 2000 e 31 dicembre 2015 saranno stralciate. Verranno quindi annullati in modo automatico, come si legge in detto articolo "i debiti di importo residuo, alla data di entrata in vigore della presente legge, fino a 1.000 euro, comprensivo di capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni, risultati dai singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015".

Diverso il discorso per le cartelle con bolli non pagati relative al periodo 1 gennaio 2016/30 giugno 2022. Sarà concessa al moroso la possibilità di onorare il proprio debito usufruendo di una agevolazione che prevede il taglio di interessi e sanzioni: si potrà pagare in un'unica soluzione oppure suddividere il totale dovuto al massimo in 18 in rate da saldare entro 5 anni. Nel primo caso la data di riferimento sarà il il 31 luglio 2023.

Il 31 luglio 2023 è anche la scadenza della prima rata, nel caso in cui si volesse suddividere il debito, mentre la seconda cadrebbe il 30 novembre 2023. Le restante 16 si suddividerebbero nei 4 anni successivi (2024, 2025, 2026 e 2027) con cadenza trimestrale, così suddivise: entro il 28 febbraio la prima, entro il 31 maggio la seconda, entro il 31 luglio la terza e entro il 30 novembre la quarta.

Quando scade bollo auto

Il bollo auto è una tassa annuale. La prima su una vettura nuova si versa entro l'ultimo giorno del mese di immatricolazione: nel caso in cui il mezzo sia stato immatricolato negli ultimi dieci giorni del mese, la scadenza può slittare alla fine di quello successivo, ma comunque il primo mese va pagato integralmente.

Per quanto concerne il rinnovo annuale, il bollo va saldato entro l'ultimo giorno del mese successivo a quello di scadenza (se questo scade il 31 dicembre dell'anno precedente, per esempio, va versato entro il 31 gennaio). Qualora l'ultimo giorno del mese cada di sabato o in un festivo, il termine viene automaticamente prorogato al primo giorno lavorativo utile. Se si acquista un'auto usata, nel caso in cui essa sia già coperta da bollo in corso di validità il primo pagamento del neo proprietario avviene alla scadenza naturale. Se così non fosse varranno le medesime norme già viste per l'immatricolazione di auto nuove.

Come fare per pagare meno il bollo auto

I possessori di mezzi la cui data di prima immatricolazione risale ad oltre 30 anni fa (auto d'epoca) non sono tenuti a pagare il bollo. Si versa in genere una cifra compresa tra 25,82/31,24 euro come tassa di circolazione: l'unica eccezione è al momento rappresentata dalla Lombardia, dove il mezzo può essere iscritto ad un registro di auto storiche e quindi esentato completamente dal pagamento

Sconti previsti anche per le auto ultraventennali. Se il mezzo è stato immatricolato tra i 20 ed i 29 anni fa, il totale del bollo da pagare viene dimezzato. Per beneficiare del taglio bisogna ottenere il Crs (Certificato di rilevanza storica). Vi sono differenze tra regione e regione: Lombardia, Emilia Romagna e provincia autonoma di Trento trattano tali mezzi come auto d'epoca e le esentano dal pagamento del bollo, mentre Umbria, Toscana e Lazio applicano una riduzione del 10% sul totale dovuto. Sicilia e Veneto hanno abolito tale possibilità.

Su 18 regioni (tranne che Sardegna e Friuli Venezia Giulia) le auto elettriche non pagano il bollo per i primi 5 anni, mentre dal sesto in poi la tassa è ridotta del 75% (si paga solo un quarto del totale). Solo per i residenti in Lombardia o Piemonte l'esenzione dal pagamento della tassa è estesa per tutta la vita del mezzo.

In caso di applicazione della Legge 104 l'esenzione è permanente. Un beneficio ristretto ai cittadini con gravi limitazioni alla deambulazione, pluriamputazioni o ridotta capacità motoria, agli ipovedenti con residuo visivo non superiore a 1/10, a non vedenti e affetti da sordità, a coloro che risultano affetti da disabilità psichica e mentale con indennità di accompagnamento. L'esenzione, concessa a un unico veicolo, è tuttavia prevista solo per mezzi non superiori ai 2mila cc di cilindrata (benzina) o 2800 cc (diesel/ibride). Il limite per le auto elettriche è invece di 150 Kw.

Come pagare bollo auto con sconto 15

Scegliendo di pagare la tassa con domiciliazione bancaria, si potrà usufruire della decurtazione del 15% del costo totale. Questa opportunità, tuttavia, è concessa solo dalla Regione Lombardia.

Possono richiedere la domiciliazione del bollo auto, online o tramite posta ordinaria i cittadini residenti in Lombardia o iscritti all'Aire (Anagrafe italiani residenti all'estero) che risultano proprietari di uno o più veicoli o i locatari (solo se il contratto di affitto parta almeno dal 1° gennaio 2017), o coloro che pagano per conto del proprietario/locatario del veicolo, come coniugi, conviventi o congiunti.

Bollo auto 2023 cosa cambia

Anche nel 2023 il bollo auto, si calcolerà in base alla potenza effettiva del mezzo espressa in kilowatt (kW), e alla classe ambientale di riferimento dello stesso, valori entrambi riportati sulla carta di circolazione, rispettivamente alla voce P.2 e alla voce V.9.

Per comprendere a quanto ammonta la tassa di possesso del veicolo bisogna fare riferimento a tali parametri:

1)Per le auto Euro 0 fino a 100 kilowatt di potenza si spendono 3 euro per kW. Per ogni kW oltre i 100 il costo sale a 4,50 cadauno;

2)Per le auto Euro 1 fino a 100 kilowatt di potenza si spendono 2,90 euro per kW. Per ogni kW oltre i 100 il costo sale a 4,35 cadauno;

3)Per le auto Euro 2 fino a 100 kilowatt di potenza si spendono 2,80 euro per kW. Per ogni kW oltre i 100 il costo sale a 4,20 cadauno;

4)Per le auto Euro 3 fino a 100 kilowatt di potenza si spendono 2,70 euro per kW. Per ogni kW oltre i 100 il costo sale a 4,05 cadauno;

5)Per le auto Euro 4/5/6 fino a 100 kW si spendono 2,58 euro a kW, 3,87 euro per ogni kW oltre i 100.

Superbollo

Resta anche il Superbollo, imposta indiretta che si aggiunge per i proprietari di veicoli la cui potenza superi i 185 kW totali. L'importo, da calcolare per ogni kilowatt eccedente, diminuisce negli anni.

1)Per i 5 anni successivi all'anno di costruzione del veicolo si spendono 20 euro per ogni kW che supera la soglia;

2)Nel periodo compreso tra i 5 ed i 9 anni successivi all'anno di costruzione del veicolo si spendono 12 euro per ogni kW che supera la soglia;

3)Nel periodo compreso tra i 10 ed i 14 anni successivi all’anno di costruzione del veicolo si spendono 6 euro per ogni kW che supera la soglia;

4)Nel periodo compreso tra i 15 ed i 19 anni successivi all'anno di costruzione del veicolo si spendono 3 euro per ogni kW che supera la soglia;

5)Dopo i 20 anni dalla costruzione del veicolo si è esentati dal pagamento del superbollo.

Senti chi guida. Report Rai PUNTATA DEL 19/12/2022

di Michele Buono

Collaborazione di Edoardo Garibaldi

Perché possedere un’auto se basta un’app per usarla.

Per avere meno automobili in giro si deve rinunciare a possedere un'auto, ma non alla sua funzione e alla sua comodità. A Parma i ragazzi di Vislab, uno spin off dell'Università, già vent'anni fa avevano ideato un sistema di guida autonoma. Sono stati comprati da una multinazionale americana, la Ambarella, e nella fiera più importante del settore, il Ces di Las Vegas, hanno presentato un nuovo modello. Anche se la ricerca e le sperimentazioni rimangono in Emilia-Romagna, i brevetti non saranno più italiani. Peccato, perché i cervelli italiani daranno un contributo a rivoluzionare le città, rendere le strade più sicure, consumare meno e rispettare l'ambiente. 

SENTI CHI GUIDA di Michele Buono collaborazione di Edoardo Garibaldi Imaggini di Tommaso Javidi Montaggio di Veronica Attanasio

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Parma. I ragazzi di Vislab, spin off dell’università, c’erano riusciti più di venti anni fa a far camminare un’automobile in modalità automatica e senza guidatore. Il passeggero scrive la destinazione sul sistema di navigazione, dà l’ok e la macchina parte. Era una storia completamente italiana. Poi, giusto il tempo di arrivare a essere i numeri 1 al mondo, e Vislab è stato acquisito dalla multinazionale americana Ambarella. Las Vegas, questo è l’ultimo modello di equipaggiamento per auto. A guida automatica. Questa automobile vede più di un essere umano. Sei telecamere stereo davanti, di dietro e di lato, come se fossero dodici occhi, più altre otto telecamere per la visione ravvicinata.

MICHELE BUONO Tutta l’intelligenza dove sta?

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Tutta l’intelligenza è qua è in una scatola che abbiamo messo nel baule

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il software trasforma le informazioni visive in comandi di guida.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB AMBARELLA Quell’intelligenza deve capire dove sarà il veicolo che abbiamo di fronte nei prossimi due secondi, perché deve prevedere le mosse degli altri.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Capire che cosa ha intorno, la forma della strada, il tipo di veicoli e prendere una decisione.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB AMBARELLA E tutto in tempo reale!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ben tornati, allora auto a guida autonoma. 20 anni fa siamo stati i pionieri, poi nel 2010 i ricercatori di Vislab, che è una costola dell’università di Parma, con una ricerca finanziata con denaro pubblico cosa ha fatto. Ha fatto viaggiare quattro minivan da Parma a Shangai senza pilota. Ecco qualcuno guardava quei ricercatori come se fossero fenomeni da baraccone, invece erano fenomeni punto. Perché nessuno ha ipotizzato che quei ricercatori avessero avuto la visione di quello che sarebbe diventato il mondo dei trasporti del domani, del futuro. Che avrebbe portato benefici industriali e anche benefici alla nostra qualità di vita. Ora quei benfici saranno goduti dal sistema americano. Da noi è rimasta la ricerca, perché ogni brevetto, scoperta della Vislab sarà commercializzata e sviluppata da Ambarella. Il nome non deve lasciare ingannare, è una ditta americana e di quali vantaggi parliamo lo vedremo adesso nel servizio del nostro Michele Buono.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Las Vegas centro città.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Adesso facciamo partire la missione. Da questo momento il sistema è automatico e sta guidando da solo. MICHELE BUONO FUORI CAMPO Al posto di guida c’è un autista pronto a intervenire in caso di necessità, condizione necessaria per il permesso di circolazione in modalità automatica nello stato del Nevada.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Abbiamo fatto l’entrata su una strada ad alta velocità, di fronte abbiamo un autobus e quindi ci dovremmo fermare. Abbiamo una stop line, un blocco per evitare che il nostro veicolo vada troppo avanti, infatti si accorge che c’è un veicolo davanti e mette questa linea, per cui dice al nostro veicolo di fermarsi.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il veicolo riparte.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Adesso abbiamo raggiunto il limite massimo di velocità su questo segmento di strada, che sono 30 miglia all’ora.

MICHELE BUONO Perché il sistema che fa, rileva il limite di velocità e lo rispetta?

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA E lo rispetta ovviamente.

MICHELE BUONO Quindi non prende la decisione …, vabbè il limite è quello ma vado più veloce.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA No, il limite è quello e rimane quello.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO A differenza di un guidatore umano rispetta le regole. Il sistema ha calcolato che sta giungendo a destinazione.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Stiamo andando al museo, il sistema ha fatto un lane change, ha cambiato corsia, e stiamo entrando adesso nel parcheggio del museo.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Questo a Las Vegas. Lunghi rettilinei a otto corsie, traffico prevalentemente fluido. Niente biciclette e motorini e pochi pedoni. In Italia come si comporterebbe questa automobile. La sfidiamo a Parma, appuntamento all’Università, stessa vettura e stesso software. Partenza. L’automobile si accorge immediatamente di un dosso e rallenta. Quali sono le variabili tipiche di una città europea e in particolar modo di una città italiana come Parma.

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Ma sono molto più complicate perché Parma è una città molto ciclistica. Ci sono molte biciclette e motorini.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Stiamo arrivando nei pressi di una rotonda

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Il veicolo si ferma

MICHELE BUONO Qual è la difficoltà

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Questa rotonda in particolare è una rotonda a tre corsie, molto larga, dove i veicoli vanno a velocità molto elevate e quindi è molto difficile capire quando c’è la possibilità di immettersi su una strada con una velocità così elevata

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Quindi il calcolo che fa il software

ALBERTO BROGGI - AMMINISTRATORE DELEGATO VISLAB/AMBARELLA Deve prevedere la velocità degli altri e prevedere quando ci sarà la possibilità di infilarsi tra un veicolo e l’altro ad alta velocità

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Calcolo effettuato. Il veicolo si immette nella rotonda. Rallenta immediatamente davanti a un autobus che non rispetta la precedenza e ne facilita il passaggio. L’algoritmo non prevede questioni di principio. Il veicolo automatico adesso prosegue verso la tangenziale. Sale sulla rampa.

ALBERTO BROGGI - AD VISLAB/AMBARELLA È un’immissione abbastanza critica questa perché proveniamo da una velocità ridotta, dobbiamo andare su una strada a velocità più elevata, ecco camion che arrivano e arrivano da una posizione molto nascosta perché dietro abbiamo un tunnel e qui il veicolo ha rallentato, ha lasciato passare il camion e poi si è immesso cercando di stare alla velocità maggiore.

MICHELE BONO FUORI CAMPO L’auto prosegue sulla tangenziale in direzione centro città.

ALBERTO BROGGI - AD VISLAB/AMBARELLA Vedi adesso tiene la distanza di sicurezza col veicolo di fronte, quando loro accelerano acceleriamo anche noi.

MICHELE BUONO Come calcola la distanza di sicurezza rispetto al veicolo che precede?

ALBERTO BROGGI - AD VISLAB/AMBARELLA Abbiamo telecamere e radar che ci permettono prima di tutto di classificare gli oggetti, poi una volta classificati calcoliamo anche la distanza tra il nostro veicolo e l’oggetto e poi anche la velocità

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’automobile percepisce che si sta avvicinando a delle strisce pedonali e rallenta con un buon margine di anticipo. Precedenza assoluta a pedoni e biciclette. E se i pedoni sono distratti? Come reagisce il veicolo automatico di fronte a un loro comportamento brusco e inaspettato? Innanzitutto, il veicolo a guida autonoma rispetta il codice della strada: non oltrepassa i limiti di velocità, non fa sorpassi proibiti e sta concentrato solo sulla guida. Questo è un vantaggio per il veicolo di fronte a un imprevisto. Il software poi è in grado di analizzare i comportamenti umani e prevenirli.

ALBERTO BROGGI - AD VISLAB/AMBARELLA Perché riusciamo a vedere la postura, il modo in cui questo si muove, per capire se sta attraversando o sta tranquillamente camminando sul marciapiede.

MICHELE BUONO Innanzitutto, possiamo dire che questa tecnologia è un’estensione dei nostri sensi poi alla fine?

ALBERTO BROGGI - AD VISLAB/AMBARELLA Vede di più, meglio, basta solamente pensare che noi abbiamo due occhi, guardiamo in una sola direzione e il veicolo ha tante telecamere, tanti radar, una tecnologia migliore e guarda contemporaneamente 360 gradi intorno al veicolo. Per di più il veicolo non è mai distratto, non beve, non guida sotto l’influenza di sostanze. Quindi il veicolo, il guidatore elettronico è sicuramente molto più attento e preciso di un guidatore umano.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’automobile sa che deve accompagnarci all’università. Individua il parcheggio e finita la manovra in automatico si arresta. In un sistema a regime di veicoli autonomi, l’automobile adesso andrebbe a prelevare qualcun altro. Basterebbe un’applicazione per chiamarla. Perché possederle allora? Terminati i compiti, le automobili potrebbero andare parcheggiarsi da sole fuori città, in grandi silos. Auto elettriche che potrebbero trasformare queste torri parcheggio in enormi batterie di stoccaggio collegate alla rete elettrica. Prendono e danno energia, se la rete lo richiede, per mantenerla in equilibrio. Invece di staccare la produzione delle fonti rinnovabili nei momenti di eccesso, quell’energia si potrebbe immagazzinare nelle auto.

SERGIO SAVARESI – ORDINARIO CONTROLLI AUTOMATICI DEI VEICOLI POLITECNICO DI MILANO Certo è questa la rivoluzione: il completo cambio di modello dal possesso di un’automobile a un servizio pubblico.

MICHELE BUONO A regime, di quanto si potrebbe tagliare il parco delle autovetture?

SERGIO SAVARESI – ORDINARIO CONTROLLI AUTOMATICI DEI VEICOLI POLITECNICO DI MILANO Quaranta milioni oggi di automobili, quattro milioni in questo futuro con un modello completamente diverso di mobilità.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E questi sono numeri solo italiani.

DAVIDE CHIARONI – DIPARTIMENTO INGEGNERIA GESTIONALE POLITECNICO MILANO Uno scenario così spinto tradurrebbe il risparmio energetico associato al fabbisogno di combustibili in oltre 6 miliardi e mezzo di euro l’anno.

 MICHELE BUONO Che cosa ci si potrebbe fare con questi 6 miliardi e mezzo di euro?

DAVIDE CHIARONI – DIPARTIMENTO INGEGNERIA GESTIONALE POLITECNICO MILANO Sono risorse che a questo punto potrebbero essere impiegate per spingere ulteriori investimenti verso la decarbonizzazione, sia per mettere in atto strategie di economia circolare sempre legate al mondo dei trasporti ad esempio.

 SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un mondo dei trasporti più sostenibile. E poi le strade non saranno più un garage a cielo aperto come sono adesso, si stimano solo in Italia 40 milioni di autovetture in meno in circolo. Strade meno affollate, arie piàù pulita e anche più sicurezza perché si stima che a regime ci saranno incidenti mortali vicini allo zero. E poi avremo anche sei miliardi di euro in più da investire, bisognerà certo cambiare un po’ la prospettiva, lo sguardo. L’auto non più come possesso, ma continueremo a godere della comodità, basterà un’app tipo quella dei tassì per prenotarla, farci venire a prendere, farci trasportare. Poi andrà a prendere magari qualcun altro. Poi se volete la tecnologia ci aiuterà a non pagare quelle tasse che oggi riteniamo come assodate: assicurazioni, bollo il sovrappiù se facciamo degli incidenti e il carburante. Con un solo grande rammarico che ci troviamo di fronte a una rivoluzione epocale e come sistema Paese non siamo riusciti a valorizzare una nostra ricerca. Ma non è la prima volta.

Roma, incidente alla Garbatella: Dennis Di Tuccio e Riccardo Marchese morti in moto nello schianto contro un Tir. Fulvio Fiano e Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022.

Per i due 18enni fatale l'impatto tra il loro scooter e un camion sulla circonvallazione Ostiense

L’impatto è stato così forte da far volare via le scarpe con i calzini dai piedi di uno dei ragazzi. In scooter all’alba contro un tir all’incrocio che separa i quartieri Ostiense e Garbatella. Avevano entrambi 18 anni, compiuti a fine settembre a distanza di due giorni uno dall’altro. Si chiamavano Dennis Di Tuccio e Riccardo Marchese, sono le ennesime vittime giovanissime nella infinita strage sulle strade della Capitale. Compagni di scuola al liceo Pirandello, tornavano verso il quartiere Nomentano dove abitavano, dopo una notte in discoteca.

Erano le 6,30 e i due amici viaggiavano sull’Honda Sh grigio guidato da Marchese lungo la circonvallazione Ostiense. Il tir, un Iveco con cella frigo interamente bianca, guidato da un autista romeno di 41 anni, arrivava da destra e svoltava a destra. I due ragazzi lo hanno preso quasi al centro del rimorchio. A morire per primo è stato Di Tuccio, subito in seguito all’impatto. Marchese si è arreso durante il trasporto in ospedale. «Ho sentito un tonfo sordo, improvviso, e sono corso fuori», racconta il dipendente del bar che affaccia sull’incrocio. «Ho chiamato io il 118 ma ho capito subito che per uno dei ragazzi era già tardi». Il primo a soccorrerli è stato il camionista, poi sottoposto in stato di choc agli esami di rito per alcol e droga, risultati entrambi negativi. Sul posto si è fermato anche un infermiere di passaggio con la sua auto privata, che ha provato inutilmente a rianimarli. «Ho pensato a un cassonetto dei rifiuti caduto a terra dopo la raccolta del camion, quasi non ci ho fatto caso. La prima ambulanza è arrivata dopo 7-8 minuti», racconta il dipendente di uno degli esercizi commerciali pochi metri più in là, che chiede di restare anonimo. 

Sull’incidente indagano, assieme ai carabinieri, i vigili urbani del gruppo Tintoretto. Al momento non sono state formulate ipotesi di reato dal pubblico ministero Claudio Santangelo, perché la dinamica è ancora tutta da chiarire. Dai primi accertamenti sembra che il camion fosse già al centro dell’incrocio quando è arrivato lo scooter, ma che stesse correggendo la sua curva di immissione da piazza Biffi perché lo spazio di manovra era parzialmente ostruito dalle auto in sosta. Non ci sono segni di frenata sull’asfalto, mentre i frammenti dello scooter, completamente distrutto, sono schizzati a metri di distanza. Il punto di impatto e le dimensioni del camion fanno escludere che quest’ultimo sia spuntato all’improvviso sulla sua traiettoria. Potrebbe però aver imboccato l’incrocio col semaforo verde, occupandolo poi anche quando è scattato il rosso. L’altra ipotesi è che i ragazzi abbiano scansato un camion fermo alla pompa di benzina prima dell’incrocio, come riferito da altri testimoni, e si siano trovati l’ostacolo di fronte quando era ormai impossibile evitarlo. Sono stati già acquisiti i filmati delle videocamere di sorveglianza e disposte le autopsie. Dennis e Riccardo, abitavano vicini ed erano cresciuti assieme.

Come tanti 18enni sui social si davano pose da grandi, tra amici e fidanzate. «Non riusciresti a gestirci manco se ti dessimo le istruzioni», scriveva il primo su Instagram. E il secondo, tra balletti e vacanze, metteva in risalto su TikTok la sua passione per le moto. 

L'incidente nel brindisino. Tragico frontale sulla statale, due morti e quattro feriti: Luigi Raffaele aveva 18 anni, Augustine 32. Vito Califano su Il Riformista il 17 Dicembre 2022

Luigi Raffaele Marangio avrebbe compiuto 19 anni il prossimo febbraio. Augustine Kwadwo Kona ne aveva 32. Non c’è stato niente da fare, sono morti entrambi nello scontro che si è verificato nella serata di ieri nel brindisino, sulla ss 16 San Pietro Vernotico-Brindisi, all’altezza della piccola frazione di Tuturano. Ricoverati in ospedale quattro feriti, tra cui due ventenni in gravissime condizioni.

Schianto tragico e agghiacciante quello che si è verificato nella serata. Sul posto gli agenti della Polizia Locale, al lavoro per acquisire rilievi sullo scontro e ricostruire la dinamica dell’incidente. Le forze dell’ordine hanno dovuto chiudere il tratto della statale per condurre gli accertamenti. Sul posto diverse ambulanze del 118 e i Vigili del Fuoco che hanno estratto le persone dalle lamiere e agevolato i soccorsi per i feriti. Le foto delle auto sono terribili.

Le due vittime erano alla guida, sono morte entrambe sul colpo pochi minuti dopo l’impatto. Inutili i tentativi di rianimazione dei soccorritori intervenuti sul posto. Sull’auto di Marangio viaggiavano cinque persone, tra cui due ventenni in fin di vita ricoverati al “Perrino” di Brindisi. Con il 32enne viaggiavano altre tre persone. Entrambe le auto sono andate distrutte.

Coinvolta nello schianto anche una terza automobile, il conducente non ha riportato gravi traumi. Disposto il sequestro dei tre mezzi. Lo scontro principale tra i veicoli guidati dalle due vittime. Marangio era residente a San Pietro Vernotico, pochi chilometri lontano dal luogo dell’impatto. Kwadwo Kona invece era originario del Ghana, viveva in Italia da qualche anno, era residente a Brindisi.

L‘Ansa ricostruisce che quello di ieri sera è soltanto l’ultimo di “una serie drammatica d’incidenti in meno di una settimana in Puglia. Domenica scorsa a perdere la vita in provincia di Bari tre giovanissimi di 19, 21 e 25 anni che viaggiavano a bordo di una Mini Cooper. L’auto, guidata da un 29enne lievemente ferito, dopo aver impattato contro un pullman turistico ha arrestato la sua corsa contro un muro, dopo aver colpito anche lo spartitraffico. Il 21enne Michele Traetta è morto sul colpo; le due amiche Elisa Buonsante e Sara Grimaldi sono decedute poche ore dopo l’arrivo in ospedale”. La Procura di Bari indaga due persone per omicidio stradale plurimo.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Schianto mortale sulla SS96 nel Barese: auto contro bus, morti un 21enne e altre 2 ragazze. È avvenuto all'altezza di Modugno, in auto con loro c'erano altri 2 giovani, feriti e in gravi condizioni. Identificate le vittime. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Dicembre 2022

Un incidente mortale è avvenuto ieri sera nel Barese, sulla SS96 all'altezza di Modugno, in direzione Altamura. Per cause ancora in via di accertamento c'è stato uno schianto tra una Mini Cooper e un bus turistico, anche se sarebbero diverse le auto coinvolte. Un ragazzo di 21 anni Michele Traetta originario di Bitonto, ha perso la vita Con lui anche due altre ragazze, di 19 e 25 anni, Elisa Buonsante e Sara Grimaldi, rispettivamente di Mola e di Bari, decedute poco dopo in ospedale. Altri due sono feriti e sarebbero in gravi condizioni. Alla guida dell'auto c'era un 29enne, il conducente del bus ha 65 anni ed è rimasto illeso. A quanto si apprende, l’impatto si è verificato in direzione Altamura nei pressi di una stazione di servizio. Le due ragazze sono morte qualche ora dopo il trasferimento in ospedale. E’ morto sul colpo, invece, Michele Traetta, che si trovava nella stessa vettura. Dopo l’impatto con il pullman la Mini Cooper ha urtato contro lo spartitraffico e poi contro il muro sul lato destro della carreggiata. Sono intervenuti carabinieri, i vigili del fuoco e il 118.

Floriana Rullo per corriere.it il 12 dicembre 2022.

Stavano tornando a casa dopo una serata trascorsa in discoteca quando, nel tentativo di lasciare indietro la vettura dei carabinieri che li volevano fermare, si sono schiantati vicino ad un passaggio a livello. A terra, senza vita, sulla strada provinciale 224 che collega Cantalupo a Cabanette, tra le campagne Alessandrine, sono rimasti Lorenzo Pantuosco, 23 anni, Lorenzo Vancheri, 21 anni, e Denise Maspi, appena 15 anni. 

Un tragico bilancio a cui si devono aggiungere anche altri quattro giovani: Vincenzo, ricoverato in terapia intensiva in condizioni disperate, due ragazze di 16 e 17 anni, la prima, Giorgia, gravissima e operata ieri mattina e Maruam, l’autista di 23 anni, alessandrino di origini marocchine, arrestato con l’accusa di omicidio stradale aggravato e piantonato dalle forze dell’ordine in ospedale per evitare ritorsioni nei suoi confronti.

Un centinaio i familiari e gli amici, molti nemmeno maggiorenni, che hanno stazionato per tutto il giorno davanti al nosocomio. Un tam tam di notizie sulle condizioni di salute di chi ancora lottava per la vita. Lacrime, abbracci e parole di conforto che sono continuate per tutto il giorno e che, per alcuni, sono sfociate nel desiderio di vendetta. 

Cosi all’improvviso c’è chi ha tentato di superare le porte del reparto e raggiungere la stanza del 23enne nel tentativo di punirlo per quelle vite spezzate troppo presto. Tensioni che sono state gestite grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Resta ancora da far chiarezza su quanto avvenuto domenica mattina alle 4. 

Il 23enne si era messo alla guida della sua Peugeot 807 sette posti, qualche minuto prima. Insieme con gli altri aveva appena concluso la serata in discoteca dopo aver visto la partita del Marocco ed esultato per la vittoria della sua squadra anche in piazza ad Alessandria. «Come ogni giorno, anche ieri erano qui. Hanno guardato, insieme, le partite dei Mondiali Marocco-Portogallo, poi anche Francia-Inghilterra» ha raccontato Simone Ballacchino, presidente e gestore del circolo sportivo-ricreativo di Alessandria, in via Pietro Nenni, nel quartiere Cristo Re, luogo di residenza della maggioranza dei ragazzi.

Ma una volta usciti dalla discoteca erano stati notati da una pattuglia dei carabinieri mentre zigzagavano per il quartiere Cristo di Alessandria. I militari gli avrebbero chiesto di fermarsi attraverso i lampeggianti ma lui, invece, avrebbe aumentato la velocità. 

I carabinieri li avrebbero così lasciati andare, per poi raggiungerli pochi minuti dopo e trovare alcuni di loro sull’asfalto, senza vita. Vicino al passaggio a livello il giovane — positivo con un tasso di 0,7 all’alcol test — avrebbe perso il controllo della vettura finendo nel giardino di un’abitazione, poco distante da una bombola Gpl. Uno schianto violento, tanto che alcuni pezzi del veicolo finiti sul tetto della villetta. 

«Ho sentito un boato e un colpo vicino alla finestra — ha raccontato Luigi di Bitetto che abita nella casa vicino alla strada —. Quando sono uscito ho visto l’auto ribaltata che stava prendendo fuoco. Era vicino al bombolone del gas e per questo ho subito spento le fiamme con un estintore. Nell’abitacolo c’era solo una ragazza che chiedeva aiuto. Era incastrata sotto la vettura. Un vaso ha evitato che rimanesse schiacciata dalle lamiere. Gli altri ragazzi erano tutti fuori dalla vettura. Quattro di loro erano vicino al bombolone del gas, mentre un altro era fermo sull’asfalto».

Salvini e il caso Alessandria: «Se si va in 7 in auto non bastano educazione o prevenzione». Ma il veicolo era omologato per 7. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2022.

«È giusto sanzionare gli automobilisti irresponsabili, e le cronache di questo fine settimana lo dimostrano. È chiaro che non sali in auto in sette (a quanto risulta le vittime dello schianto di Alessandria viaggiavano a bordo di una Peugeot 807 sette posti, ndr). Su questo puoi fare tutta l’educazione stradale che vuoi, puoi mettere la prevenzione che vuoi, mi sembra oggettivo». L’affondo arriva dal vice premier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, in occasione della presentazione del Rapporto Dekra sulla sicurezza stradale. «Se ci si mette consapevolmente alla guida drogato o ubriaco, provocando incidenti con morti e feriti - ha detto Salvini - la sospensione della patente per uno o due anni non è sufficiente. Ci sono diverse associazioni che riuniscono le vittime dei pirati della strada che chiedono la revoca a vita», continua Salvini. «Io penso che se qualcuno si mette alla guida imbottito di cocaina o ubriaco marcio è una bomba e un potenziale assassino e quindi se non la revoca a vita, almeno la sospensione per 10 anni del diritto di guidare penso che sia sacrosanto». Le misure sul tavolo

«Già la settimana prossima con alcuni colleghi ministri - ha proseguito - riunirò un tavolo per aggiornare il codice della strada che è vecchio di trent’anni. Va aggiornata l’abilità delle nuove tecnologie, all’abuso del telefonino che distrae ed è un enorme problema, alla necessità di identificare anche i monopattini elettrici, perché è vero che sono un dei problemi per chi è alla guida delle quattro ruote». Per chi guida i monopattini, ha detto Salvini, il casco «è assolutamente fondamentale».

Il rapporto Dekra

Video correlato: Salvini: pirati della strada almeno dieci anni senza patente (Dailymotion)

Gli incidenti, in auto o moto, restano la principale causa di morte per i giovani in età compresa tra cinque ed i 29 anni. Il rapporto sulla sicurezza stradale 2022 realizzato da Dekra ricorda come, secondo l’ultima stima preliminare Istat relativa al periodo gennaio-giugno 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, i dati indichino che si sono verificati 81.437 incidenti stradali con lesioni a persone (+24,7%), le vittime sono state 1.450 (+15,3%) e i feriti 108.996 (+25,7%). Nell’Unione Europea gli incidenti stradali nella fascia d’età 18-24 anni causano nel 64% dei casi la morte del guidatore o del passeggero al suo fianco, rispetto al 44% nella popolazione complessiva.

L’incidente di Alessandria

Stavano tornando a casa dopo una serata trascorsa in discoteca quando, nel tentativo di lasciare indietro la vettura dei carabinieri che li volevano fermare, si sono schiantati vicino ad un passaggio a livello, a bordo di una Peugeot 807 sette posti. A terra, senza vita, sulla strada provinciale 224 che collega Cantalupo a Cabanette, tra le campagne Alessandrine, sono rimasti Lorenzo Pantuosco, 23 anni, Lorenzo Vancheri, 21 anni, e Denise Maspi, appena 15 anni. Un tragico bilancio a cui si devono aggiungere anche altri quattro giovani: Vincenzo, ricoverato in terapia intensiva in condizioni disperate, due ragazze di 16 e 17 anni, la prima, Giorgia, gravissima e operata ieri mattina e Maruan Naimi, l’autista di 23 anni, alessandrino di origini marocchine, arrestato con l’accusa di omicidio stradale aggravato e piantonato dalle forze dell’ordine in ospedale per evitare ritorsioni nei suoi confronti.

"Figlio di marocchini...". È bufera sull'incidente di Alessandria. Il ragazzo alla guida dell'auto che ha sbandato ad Alessandria causando 3 morti è di origine marocchina: sui social è scontro sull'informazione. Francesca Galici il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L'incidente di Alessandria in cui hanno perso la vita tre giovanissimi e altri quattro sono feriti in ospedale, continua a far discutere. La dinamica dello schianto sembra essere ormai definita, con il conducente che ha forzato un posto di blocco dei carabinieri di rientro da una serata e poi, per sfuggire alla pattuglia, potrebbe aver perso il controllo del mezzo anche a causa della nebbia e del manto stradale bagnato/ghiacciato. Il conducente non è in pericolo di vita e si trova ora piantonato all'ospedale, dove verrà interrogato non appena le sue condizioni lo permetteranno. Il tasso alcolemico rilevato nel suo sangue era superiore al limite consentito dalla legge ed è forse questo il motivo che l'ha spinto a non fermarsi al posto di blocco, causando poi l'incidente fatale. Ed è su di lui che ci sono la maggior parte delle polemiche.

In fuga dai carabinieri, sbandano: morti 3 ragazzi, pure una 15enne

Alla guida della Peugeot che si è schiantata prima sul guardrail e poi è precipitata nel cortile di una casa lungo la ferrovia c'era un 23enne di origine marocchina, Maruad. La macchina che guidava era quella di sua madre. Forse per questo non si è fermato all'alt, per paura di una reazione di sua madre, ma il suo gesto ha portato alla morte di tre amici.

La polemica è esplosa in queste ore soprattutto per un dettaglio: difficilmente nelle cronache dell'accaduto viene data rilevanza alle origini del ragazzo, nato in Italia da una famiglia marocchina. Nella maggior parte dei casi si è preferito omettere anche il suo nome, a differenza di quanto fatto con le vittime. Impossibile capire il perché di così tanto riserbo, considerando la maggiore età. E questo è stato fatto notare da alcuni utenti sui social: "E scrivetelo che il conducente è marocchino, non vi succede niente e fate un servizio all'informazione".

Non tutti la pensano così e c'è anche chi considera ininfluente l'indicazione dell'origine del giovane alla guida. "Incidente Alessandria: 7 ragazzi con 4 morti e 3 feriti. Alla guida un ragazzo la cui descrizione, testualmente, è 'un 22enne italiano con la famiglia di origine marocchina'. Devo dire che l'origine della famiglia era un'informazione indispensabile da dare", scrive un utente accusando il Tg1 per aver sottolineato la nazionalità del giovane alla guida. Lo scontro non accenna a placarsi e in tutto questo il conducente dovrà comunque dare qualche spiegazione, ora che è accusato di omicidio stradale plurimo e si trova piantonato dalla polizia.

Adelia Pantano per lastampa.it l’11 Dicembre 2022.

Tragedia della strada nella notte ad Alessandria sulla provinciale 244, all’altezza tra le località di Cantalupo e Cabanette. Un’auto con sette persone a bordo è finita fuori strada: 3 di loro sono morte. 

Le vittime hanno 23, 21 e 15 anni. Le altre persone a bordo sono rimaste ferite e trasportate tra gli ospedali di Alessandria e Novi: due ricoverate in gravi condizioni e le altre in codice giallo. Insieme al personale del 118, sono intervenuti i carabinieri e i vigili del fuoco. Secondo una prima ricostruzione l’auto su cui viaggiavano i ragazzi era stata intercettata da una pattuglia dei carabinieri al quartiere Cristo di Alessandria.

I militari avevano notato una guida a zigzag e hanno intimato l’alt. Chi era alla guida non si è fermato e ha proseguito la corsa. I carabinieri li hanno inseguiti fino all’altezza della scuola di Polizia in corso Acqui, quando hanno perso le tracce dell’auto. Pochi minuti dopo sarebbe avvenuta la tragedia: l’auto è finita fuori strada all’altezza del passaggio a livello sulla provinciale tra i due sobborghi alle porte della città. Per tre di loro non c’è stato nulla da fare: sono morti sul colpo.

Il ragazzo che guidava la Peugeot a velocità molto elevata, lungo la statale 244, ha totalmente perso il controllo dell’auto che ha urtato prima contro un gard rail per sbattere, infine, contro un passaggio a livello, dopo un volo di oltre una decina di metri. 

Il conducente è stato arrestato con l’accusa di omicidio stradale aggravato: sono in corso accertamenti sulle sue condizioni psicofisiche per capire se avesse bevuto o assunto sostanze stupefacenti. Al momento si trova ai domiciliari in ospedale. I feriti, di cui due in gravi condizioni, sono stati portati al pronto soccorso di Novi e Alessandria.

Nell’impatto si è danneggiato il passaggio a livello e la circolazione dei treni in quel tratto, tra Alessandria ed Acqui, è stata bloccata: Rfi ha istituito un servizio di bus sostitutivi.

Maruam, arrestato l'autista di Alessandria. La rabbia di familiari e amici delle vittime: «Diteci dov’è». Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.

Tensione davanti all’ospedale dove il ragazzo, alessandrino di origini marocchine, è piantonato dalle forze dell’ordine

Stavano tornando a casa dopo una serata trascorsa in discoteca quando, nel tentativo di lasciare indietro la vettura dei carabinieri che li volevano fermare, si sono schiantati vicino ad un passaggio a livello. A terra, senza vita, sulla strada provinciale 224 che collega Cantalupo a Cabanette, tra le campagne Alessandrine, sono rimasti Lorenzo Pantuosco, 23 anni, Lorenzo Vancheri, 21 anni, e Denise Maspi, appena 15 anni. Un tragico bilancio a cui si devono aggiungere anche altri quattro giovani: Vincenzo, ricoverato in terapia intensiva in condizioni disperate, due ragazze di 16 e 17 anni, la prima, Giorgia, gravissima e operata ieri mattina e Maruam, l’autista di 23 anni, alessandrino di origini marocchine, arrestato con l’accusa di omicidio stradale aggravato e piantonato dalle forze dell’ordine in ospedale per evitare ritorsioni nei suoi confronti. 

Un centinaio i familiari e gli amici, molti nemmeno maggiorenni, che hanno stazionato per tutto il giorno davanti al nosocomio. Un tam tam di notizie sulle condizioni di salute di chi ancora lottava per la vita. Lacrime, abbracci e parole di conforto che sono continuate per tutto il giorno e che, per alcuni, sono sfociate nel desiderio di vendetta. Cosi all’improvviso c’è chi ha tentato di superare le porte del reparto e raggiungere la stanza del 23enne nel tentativo di punirlo per quelle vite spezzate troppo presto. Tensioni che sono state gestite grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Resta ancora da far chiarezza su quanto avvenuto domenica mattina alle 4. 

Il 23enne si era messo alla guida della sua Peugeot 807 sette posti, qualche minuto prima. Insieme con gli altri aveva appena concluso la serata in discoteca dopo aver visto la partita del Marocco ed esultato per la vittoria della sua squadra anche in piazza ad Alessandria. «Come ogni giorno, anche ieri erano qui. Hanno guardato, insieme, le partite dei Mondiali Marocco-Portogallo, poi anche Francia-Inghilterra» ha raccontato Simone Ballacchino, presidente e gestore del circolo sportivo-ricreativo di Alessandria, in via Pietro Nenni, nel quartiere Cristo Re, luogo di residenza della maggioranza dei ragazzi. Ma una volta usciti dalla discoteca erano stati notati da una pattuglia dei carabinieri mentre zigzagavano per il quartiere Cristo di Alessandria. I militari gli avrebbero chiesto di fermarsi attraverso i lampeggianti ma lui, invece, avrebbe aumentato la velocità. 

I carabinieri li avrebbero così lasciati andare, per poi raggiungerli pochi minuti dopo e trovare alcuni di loro sull’asfalto, senza vita. Vicino al passaggio a livello il giovane — positivo con un tasso di 0,7 all’alcol test — avrebbe perso il controllo della vettura finendo nel giardino di un’abitazione, poco distante da una bombola Gpl. Uno schianto violento, tanto che alcuni pezzi del veicolo finiti sul tetto della villetta. «Ho sentito un boato e un colpo vicino alla finestra — ha raccontato Luigi di Bitetto che abita nella casa vicino alla strada —. Quando sono uscito ho visto l’auto ribaltata che stava prendendo fuoco. Era vicino al bombolone del gas e per questo ho subito spento le fiamme con un estintore. Nell’abitacolo c’era solo una ragazza che chiedeva aiuto. Era incastrata sotto la vettura. Un vaso ha evitato che rimanesse schiacciata dalle lamiere. Gli altri ragazzi erano tutti fuori dalla vettura. Quattro di loro erano vicino al bombolone del gas, mentre un altro era fermo sull’asfalto».

Giovani che si conoscevano, che avevano la stessa passione per il calcio. Come Lorenzo Pantuosco, pasticcere di 23 anni. Gestiva con i suoi genitori la rinomata pasticceria «La Dolce Vito» a Spinetta Marengo. Era un ragazzo ancora giovanissimo ma molto conosciuto in città, anche per la sua attività nel calcio cittadino: due anni fa era entrato in Seconda Categoria come presidente della squadra «Pizzerie Riunite — La Dolce Vito». Lorenzo Vancheri di anni ne aveva 21. Era un eccellente attaccante, punta di diamante della Us Nuova Gandini. Denise invece aveva solo 15 anni. Studentessa di Alessandria nel tempo libero amava andare in discoteca. Proprio come sabato sera.

Scappano all'alt dei carabinieri, in 7 in auto fuori strada alle porte di Alessandria: 3 morti, di cui una 15enne, e 4 feriti. Sarah Martinenghi su La Repubblica l’11 Dicembre 2022.

Le vittime hanno 15, due 21 e 23 anni. E' successo alle porte della città alle 4 di notte e secondo una prima ricostruzione il veicolo non si è fermato all'alt degli agenti in città

Lorenzo Pantuosco, 23 anni, Lorenzo Vancheri, 21, e Denise Maspi, 15, sono i nomi dei tre ragazzi morti nel cuore della notte, altri tre in ospedale in gravi condizioni, dopo scappati da un’auto dei carabinieri. In condizioni gravissime il 21enne Vincenzo Parisi che in ospedale lotta tra la vita e la morte.

Foto del Piccolo di Alessandria È il bilancio del drammatico incidente accaduto questa notte a Cantalupo, piccola frazione alle porte di Alessandria. Viaggiavano in sette su una Peugeot omologata, tornavano da un sabato sera trascorso a divertirsi: velocità, nebbia e asfalto viscido sono state le cause dell’impatto avvenuto dopo la fuga dalle forze dell’ordine.

Quando alle quattro del mattino una gazzella dei carabinieri li ha visti procedere a zig zag, nel quartiere Cristo ad Alessandria, ha cercato infatti di fermare quella macchina il cui conducente non sembrava essere molto lucido. Ma a nulla sono serviti i lampeggianti per intimare l’alt: il giovane al volante ha accelerato e in breve tempo è riuscito a seminare i militari, dirigendosi fuori città.

Foto del Piccolo di Alessandria I carabinieri erano ormai lontani quando il ragazzo che guidava la Peugeot a velocità molto elevata, lungo la statale 244, ha totalmente perso il controllo dell’auto che ha sbattuto prima contro un gard rail per carambolare contro un passaggio a livello, dopo un volo di oltre una decina di metri. L’auto ha finito la sua corsa dentro al cortile di una casa, sorvolando anche un bombolone di gpl.

Un impatto devastante, in cui hanno perso la vita sul colpo tre giovani di 15, 21 e 23 anni, tutti italiani e residenti ad Alessandria e un quarto dopo il ricovero d'urgenza.

Quando i carabinieri li hanno raggiunti si sono trovati di fronte una scena drammatica con i corpi delle vittime sbalzate fuori dalla vettura andata totalmente distrutta.

Il conducente, 22 anni, è stato arrestato con l’accusa di omicidio stradale aggravato: sono in corso accertamenti sulle sue condizioni psicofisiche per capire se avesse bevuto o assunto sostanze stupefacenti. Al momento si trova ai domiciliari in ospedale. I feriti, di cui uno in gravi condizioni, sono stati portati al pronto soccorso di Novi e Alessandria.

Sul posto, oltre ai carabinieri, sono intervenuti i vigili del fuoco e il 118. Nell’impatto si è danneggiato il passaggio a livello e la circolazione dei treni in quel tratto, tra Alessandria ed Acqui, è stata bloccata: Rfi ha istituito un servizio di bus sostitutivi.

La festa, la fuga, lo schianto. Ancora una strage di ventenni. Sette nell'auto che scappava a tutta velocità dai carabinieri. Tre morti. Grave il pilota, arrestato per omicidio stradale. Nadia Muratore il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Una folle corsa nella nebbia, a velocità altissima, dopo aver seminato un'auto dei carabinieri che voleva fermarli, è costata la vita a tre ragazzi, mentre altri quattro sono rimasti gravemente feriti.

È questo il bilancio del drammatico incidente accaduto nella notte tra sabato e domenica a Cantalupo, piccola frazione alle porte di Alessandria, in Piemonte. Viaggiavano in sette su una Peugeot omologata e tornavano da un sabato sera trascorso a divertirsi: velocità, nebbia e asfalto viscido sono state le cause dell'impatto avvenuto dopo la fuga dalle forze dell'ordine. Minuti concitati di un inseguimento che è finito dopo alcuni chilometri: secondo una prima ricostruzione dell'incidente, erano circa le 4 del mattino quando una gazzella dei carabinieri li ha visti procedere a zig zag, nel quartiere Cristo ad Alessandria e ha cercato di bloccare quella macchina il cui conducente non sembrava essere molto lucido. A nulla, però, sono serviti i lampeggianti per intimare l'alt: il giovane al volante invece di fermarsi, ha accelerato e in breve tempo è riuscito a seminare i militari, dirigendosi fuori città. I carabinieri erano ormai lontani quando il ragazzo che guidava la Peugeot a velocità molto elevata, lungo la statale tra Cantalupo e Cabanette, ha totalmente perso il controllo dell'auto che ha sbattuto prima contro un guard-rail per poi carambolare contro un passaggio a livello, dopo un volo di oltre una decina di metri. L'auto ha finito la sua corsa dentro al cortile di una casa, sorvolando anche un bombolone di gpl: se fosse stato centrato l'impatto avrebbe provocato uno scoppio devastante. Quando i carabinieri li hanno raggiunti, si sono trovati di fronte una scena drammatica: sei dei sette ragazzi che erano a bordo della Peugeot, sono stati sbalzati fuori dall'abitacolo della vettura, mentre uno è rimasta incastrato tra le lamiere e per estrarlo sono intervenuti i vigili del fuoco. Sono morti sul colpo: Lorenzo Pantuosco 23 anni, Lorenzo Vancheri 21 anni e Denise Maspi di 15 anni, la più giovane del gruppo. Gli altri giovani sono stati trasportati tra gli ospedali di Alessandria e di Novi Ligure: due sono in gravissime condizioni mentre gli altri due sono stati ricoverati in codice giallo. Tra i feriti anche il ragazzo di 22 anni che era alla guida, che è stato arrestato dai carabinieri e indagato per omicidio stradale aggravato. Su di lui verranno eseguiti gli esami per accertare le sue condizioni psicofisiche, per capire se avesse bevuto o assunto sostanze stupefacenti prima di mettersi alla guida. Poche ore dopo lo schianto, si era diffusa la notizia - poi risultata inesatta - che anche un quarto ragazzo fosse deceduto. Un arresto cardiaco temporanea aveva fatto temere che anche Vincenzo Parisi di 21 anni, fosse deceduto, invece il suo cuore ha riacquistato il battito ed ora si trova ricoverato nel reparto di terapia intensiva e le sue condizioni sono molto gravi.

Nell'impatto è stato danneggiato il passaggio a livello e la circolazione dei treni in quel tratto, tra Alessandria ed Acqui, è stata bloccata per diverse ore. La dinamica del tragico incidente è ancora al vaglio degli inquirenti ma pare chiaro che il conducente della vettura abbia perso il controllo per l'alta velocità e anche per le condizioni climatiche avverse, tra la nebbia che ha reso scarsa la visibilità e il gelo di questi giorni che ha reso le strade scivolose. Nei prossimi giorni, quando le loro condizioni fisiche e psichiche lo consentiranno, i carabinieri sentiranno a verbale i ragazzi che erano a bordo della vettura, diventata un proiettile impazzito lungo una strada viscida come il sapone.

La comitiva di amici arrivava da una festa e stavano rientrando a casa. È probabile che il ragazzo alla guida, invece di fermarsi all'alt dei carabinieri abbia accelerato per sfuggire ad un controllo stradale per il timore che l'alcol test potesse rilevale un indice alcolemico fuori dai limiti di legge per poter guidare. Una decisione tragica che è costata la vita a tre giovani e ha distrutto dal dolore le loro famiglie.

Amici da sempre uniti dal calcio. Le vite spezzate e lo choc in città. Il pasticciere, il calciatore e l'amante della danza. In viaggio dopo aver visto Portogallo-Marocco in tv. Nadia Muratore il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Un'alba gelida e tragica ha svegliato la città di Alessandria: tre giovani hanno perso la vita ed altri quattro sono rimasti feriti. Nell'impatto sono morti sul colpo Lorenzo Pantuosco 23 anni, Lorenzo Vancheri 21 anni e Denise Maspi di 15 anni, la più giovane del gruppo. A stridere con le loro vite spezzata, restano le foto sorridenti dei profili su Facebook ed i commenti degli amici che non riescono a rassegnarsi alla tragedia.

Lorenzo Pantuosco, capelli rasati e fisico da sportivo, era molto conosciuto nella cittadina piemontese per l'attività commerciale della sua famiglia: una nota pasticceria «la Dolce Vito», a Spinetta Marengo. Lorenzo aveva scelto di aiutare i genitori in quel lavoro faticoso che a lui piaceva molto. La sua passione, però era il calcio, al quale dedicava la maggior parte del suo tempo libero. Il suo impegno e la sua costanza lo avevano portato ad essere, giovanissimo, presidente di una piccola società, la Pizzerie Riunite-la Dolce Vito, in Terza Categoria. Inoltre la pasticceria di famiglia è sponsor dell'Alessandria Calcio e la squadra ha voluto esprimere la sua vicinanza ai genitori: «L'Alessandria Calcio si stringe a Mary e Vito Pantuosco piangendo la tragica e prematura scomparsa del loro caro Lorenzo, ricordandone la gentilezza e la passione per i colori Grigi ereditate dal padre Vito». Lorenzo era anche animatore estivo e tutti lo ricordano come «la gioia fatta a persona», per il suo carattere allegro e il sorriso contagioso.

Appassionato di calcio, era anche Lorenzo Vancheri, 21 anni, definito «eccellente attaccante, punta di diamante della Us Nuova Gandini». Denise Maspi aveva solo 15 anni ed la vittima più giovane del gruppo. Capelli neri ed occhi da cerbiatto, amava ballare, le piaceva andare in discoteca ed era appassionata di musica rap. Dal suo profilo social esprimeva la sua voglia di crescere e di vivere immortalando le sue serate spensierate con gli amici, tra cocktail, limousine e i locali della zona che frequentava durante le sue serate spensierate.

I sette ragazzi coinvolti nell'incidente erano amici da sempre e frequentavano il circolo sportivo-ricreativo di Alessandria, nel quartiere Cristo Re, dove abitavano quasi tutti. Era quello il loro punto di incontro, prima di decidere come trascorrere la serata. Li accomunava soprattutto la passione per il calcio ed infatti prima del tragico incidente si erano ritrovati al circolo per vedere insieme la partita dei Mondiali Marocco-Portogallo, visto che uno di loro ha origini magrebine. Poi a qualcuno è venuta l'idea di andare alla sala del bowling e magari fare un salto ad una festa, per passare la serata, approfittando del fatto che l'indomani le scuole erano chiuse e anche chi lavorava poteva tirar tardi per il giorno di festa. Un fine settimana come tanti, con la voglia di stare insieme e divertirsi. «Erano ragazzi con la testa sulle spalle - spiega tra le lacrime chi li conosceva - forse si sono spaventai per quell'alt dei carabinieri e sono fuggiti». Gli esami hanno registrato un livello alcolemico nel sangue del guidatore di poco superiore al consentito dalla legge. Il ragazzo è piantonato dai carabinieri in ospedale.

Mentre le indagini sulla dinamica proseguono, i genitori distrutti dal dolore attendono il nulla osta per poter dare l'ultimo saluto alle tre giovani vittime.

Luca Fiorucci per "La Stampa" il 4 dicembre 2022.

Sul banco i compagni di classe hanno messo una rosa bianca e un messaggio di saluto per Luana. Che ieri mattina in classe, la quinta dell'istituto Franchetti-Salviani di Città di Castello, non è entrata. Nella notte è morta insieme ad altri tre amici, Natasha, Gabriele e Nico, nell'auto che, da una festa di compleanno a Città di Castello, li doveva portare a Sansepolcro, in un locale. Dove li aspettavano e da dove le amiche hanno provato ripetutamente a chiamare la ragazza, 17 anni, e a scriverle.

Senza risposta. Le vite dei quattro ragazzi, gli altri avevano 22 anni, si sono interrotte lungo la statale 3 Tiberina, contro il montante di un ponte, alle porte di San Giustino, centro dell'Alto Tevere. A poche centinaia di metri dall'impatto, una lapide con quattro foto di altrettanti giovanissimi ricorda una tragedia drammaticamente simile, avvenuta 23 anni fa. Anche in quell'occasione, dopo una pizza insieme, persero la vita quattro amici, un quinto si salvò miracolosamente perché fu sbalzato dall'auto prima che questa finisse contro un albero.

Secondo quanto accertato dai carabinieri, l'utilitaria sulla quale viaggiavano i quattro in prossimità di una semicurva è uscita di strada, forse a causa dell'asfalto bagnato. È finita prima in una cunetta, quindi contro il manufatto. L'impatto non ha lasciato scampo ai quattro ragazzi. Poco prima, sul profilo social di una delle due ragazze, fidanzate con i ragazzi che erano con loro, un ultimo selfie insieme alla festa di compleanno dalla quale poco dopo sarebbero ripartiti tutti insieme, diretti alla discoteca per proseguire la serata.

Luana Ballini era rappresentante d'istituto, originaria di Monte Santa Maria Tiberina.

Quando ai suoi compagni è stato comunicato che l'amica era morta e che potevano tornare a casa se avessero voluto, nessuno si è mosso se non per deporre quella rosa. Anche Natasha Baldacci, che era alla guida dell'auto, aveva frequentato lo stesso istituto. La preside sotto choc prevede per il futuro prossimo delle iniziative per ricordare le due ragazze. Natasha si era diplomata nel 2019, indirizzo amministrazione, finanza, marketing. Lavorava da poco in un'agenzia di assicurazioni di Città di Castello.

La passione per la pallavolo era condivisa con Gabriele Marghi, che nello stesso anno aveva concluso gli studi all'istituto superiore Patrizi-Baldelli-Cavallotti e lavorava in un'azienda di costruzione di macchine agricole di Trestina, frazione di Città di Castello. Con Natasha aveva un legame particolare, con Nico Dolfi, invece, era cresciuto, aveva condiviso vacanze, escursioni in montagna e sfide sul rettangolo del Città di Castello pallavolo, dopo un passato come calciatore del Riosecco Calcio che alle giovani vittime ha voluto dedicare un messaggio: «Riposate in pace angeli della nostra comunità volati in cielo troppo presto».

Gabriele l'introverso, il sensibile, pieno di interessi, lo ricorda la società di pallavolo. Nico il vulcanico, tenace, «sempre sorridente che coltiva il suo grande amore sostenuto da una famiglia sempre presente con il padre Andrea nostro dirigente, imitato dai fratelli Michele oggi giocatore dell'under 17 e Emanuele, prima come atleta e poi con l'università i primi passi da tecnico sempre con il Città di Castello». «Carissimi Nico e Gabriele vi chiediamo di guardare i vostri amici che sono qui e che vi piangono disperati, e di guidarli nella vita», si legge ancora nel messaggio a loro dedicato. Nico, che aveva frequentato il liceo linguistico «Città di Piero», studiava all'università a Perugia, facoltà di Economia. Era tifoso dell'Inter, a differenza dell'amico Gabriele che invece era appassionato dei colori del Milan.

In segno di lutto i Comuni di Città di Castello e di Monte Santa Maria Tiberina hanno sospeso gli eventi ieri e lo faranno anche oggi, rinviati spettacoli e manifestazioni. «Oggi è il momento del dolore e del silenzio, ci stringiamo con grande affetto e rispetto alle famiglie colpite da questa terribile tragedia, alle quali a nome di tutta la comunità tifernate esprimiamo con un abbraccio la nostra sincera vicinanza e il nostro profondo cordoglio» ha detto il sindaco di Città di Castello, Luca Secondi.

«Si è trattato di una tragedia imprevedibile, ma come sindaco sento il dovere di chiedere a tutte le istituzioni e autorità competenti di fare ancora di più per promuovere la sicurezza stradale tra i giovani, in ogni luogo, sia esso sociale o educativo», ha aggiunto la prima cittadina di Monte Santa Maria Tiberina, Letizia Michelini. Messaggi di cordoglio e vicinanza sono arrivati anche dalla presidente della Regione Umbria, Donatella Tesei, da quella della Provincia di Perugia, Stefania Proietti, e dal vescovo Luciano Paolucci Bedini: «La comunità si stringa intorno a queste famiglie». Comunità incredula come risuona nell'ultimo messaggio sul cellulare di Luana: «Dimmi che non è vero».

Da corriere.it il 20 Novembre 2022.  

Una donna è stata investita e uccisa mentre stava attraversando la strada insieme al suo cane a Marzocca di Senigallia (Ancona), sotto una pioggia battente. Il cane morto è stato trovato sul posto, insieme ad un bastone da passeggio. Il corpo della padrona è stato invece trovato a 8 km di distanza, in via Podesti, nell’abitato di Senigallia. L’ipotesi è che un veicolo abbia centrato cane e donna, trascinandola per chilometri.

La vittima era una 81enne di origine tedesca, residente a Marzocca. Sul luogo sono intervenuti, oltre alla polizia stradale, anche i carabinieri, i vigili del fuco e i mezzi di soccorso del 118. Il corpo è stato trasferito all’obitorio dell’ospedale di Torrette di Ancona. Avvisato il sostituto procuratore di turno Valentina Bavaj.

L’anziana e il cane stavano attraversando la Statale Adriatica quando un furgone li ha urtati, uccidendo subito l’animale. Il conducente si è fermato a prestare il soccorso ma proprio in quel momento la donna è stata investita da un altro mezzo (pare un camion) che l’ha «agganciata» e trascinata per chilometri. Il corpo straziato è stato notato da alcuni passanti. 

cla.lau. per “la Stampa” il 3 novembre 2022.

Un incidente su dieci è causato da un guidatore sotto l'effetto di alcol o di droga. Nel 2021, gli scontri sulle strade sono stati 151 mila 875, il 28 per cento in più rispetto all'anno precedente, quando però c'erano ancora gli strascichi del lockdown. E comunque, un incidente su cinquanta ha stroncato una vita, dal momento che le vittime della strada nel 2021 sono state 3 mila.

Controlli a tappeto o mirati? È questo il dilemma. Ogni Paese ha la propria filosofia. In Europa, agli estremi abbiamo Svezia e Italia: secondo le statistiche, nel Bel Paese un automobilista ha la possibilità di essere controllato ogni 39 anni, nella terra di Alfred Nobel i guidatori soffiano nel «palloncino» ogni due anni. La suggestione del confronto, però, non deve accendere subito il colore della vergogna, perché le differenze sono più d'una.

A incominciare dal numero degli abitanti, quasi 60 milioni in Italia e poco più di 10 in Svezia. Poi, c'è l'approccio culturale: fino a qualche decennio fa, i nordici avevano tassi di alcolismo e suicidi altissimi, contrastati con l'aumento del costo delle bevande ad alta gradazione e i controlli a tappeto per gli automobilisti. Questa politica ha portato il consumo pro capite di alcol a 7,1 litri l'anno per gli svedesi, contro i 7,7 degli italiani. 

Ma torniamo sulle strade. In Italia, le contestazioni per guida in stato di ebbrezza nel 2021 sono state 31 mila e 22 (11.717 per la Polizia stradale, 13.932 per i carabinieri e 5.373 per la polizia locale) e hanno portato a 31 mila denunce. Più o meno il doppio dei responsabili di incidenti. Molto meno diffusi, però, sono i controlli per individuare tracce di droga nel sangue (4289).

Secondo l'Associazione Sostenitori Amici Polizia Stradale (Asaps), nel 2021 i bambini vittime di incidenti stradali in città sono stati 29, uccisi sulle strisce pedonali. Con loro, il numero dei morti travolti a piedi è di 471. In svariati episodi, l'alcol o la droga hanno avuto la loro parte.

Secondo la Polstrada, la maggior parte degli scontri avviene nel fine settimana, quando si scatena la movida. E proprio per questo, le forze dell'ordine intensificano i controlli in quelle serate. Una filosofia diversa dalla «paletta selvaggia», mirata a colpire il fenomeno quando ha più probabilità di essere riscontrato. E di fare vittime.

Il codice della strada prevede che il tasso di alcol nel sangue debba essere inferiore agli 0,5 grammi per litro. Superato il limite, il guidatore perde 10 punti sulla patente e rischia una multa dai 500 ai 6 mila euro, la sospensione della patente da 3 mesi a 2 anni, oltre a una pena fino a due anni di carcere.

Nicola Rotari per corriere.it il 2 novembre 2022.

Tragico incidente alle prime luci dell’alba a Paderno del Grappa, frazione del comune di Pieve del Grappa, municipio nato dalla fusione dei territori di Paderno e Crespano, nel Trevigiano. 

A perdere la vita lungo via Vittorio Veneto Miriam Ciobanu, una studentessa 22enne del vicino comune di Fonte. La giovane, in base a una prima ricostruzione dei carabinieri, è stata travolta e uccisa da una Audi A3: al volante c’era un 23enne della zona, G.A., arrestato in flagranza per il reato di omicidio stradale aggravato. 

All’esito del primo sopralluogo e dei tempestivi accertamenti svolti dai carabinieri della Compagnia di Castelfranco Veneto, sotto la direzione della procura della Repubblica di Treviso, l'automobilista, è risultato positivo all'assunzione di alcol e stupefacenti: condotto in caserma, il 23enne sarà condotto nel carcere di Treviso.

La dinamica

Miriam Ciobanu aveva trascorso la notte a casa del suo ragazzo, poi tra i due era scoppiato un litigio. La giovane aveva cercato di chiamare il padre ma era notte e il telefono del genitore era spento. 

Allora la giovane si è incamminata verso casa, senza dire niente ai familiari, lungo quella strada senza marciapiede. Erano le 4.30 circa. L’auto dell’investitore sembra viaggiasse a velocità sostenuta, da Paderno in direzione del vicino comune di Fonte.

Al confine tra i due territori, la giovane sarebbe sbucata all’improvviso sulla carreggiata e l’automobilista non ha potuto far nulla per evitare l’impatto, violentissimo, che non ha lasciato scampo alla studentessa, morta praticamente sul colpo a causa delle gravi lesioni riportate. Quando medico e infermieri del Suem 1118 sono giunti sul posto hanno potuto soltanto constatarne il decesso. La parte anteriore dell’auto, semidistrutta e il parabrezza sfondato, raccontano chiaramente la gravità dell’incidente. Intervenute in via Vittorio Veneto anche le pattuglie dei carabinieri di Asolo e Pieve del Grappa che hanno eseguito sul posto i rilievi del caso. 

Sessanta vittime da inizio anno nel Trevigiano

La 22enne non aveva documenti con sé ma solo una borsa con all’interno altri effetti personali ed un computer. L’automobilista è stato accompagnato, in stato di choc, all’ospedale a Castelfranco Veneto dove è stato sottoposto agli accertamenti del caso: è stato trovato positivo all’alcol e agli stupefacenti. Si tratta della sessantesima vittima in provincia di Treviso in questo drammatico 2022. 

Andrea Priante e Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 2 novembre 2022.

Miriam Ciobanu aveva 22 anni. Chi l'ha investita e uccisa, Alessandro Giovanardi, ne ha uno in più. Lei, nella notte tra lunedì e martedì, camminava da sola al buio lungo la provinciale che attraversa Paderno, una frazione di Pieve del Grappa, nel Trevigiano.

Aveva litigato con il fidanzato e aveva deciso di tornare a casa a piedi. 

Lui invece rientrava a San Zenone dopo una festa di Halloween. Come hanno appurato i carabinieri della Compagnia di Castelfranco Veneto, era ubriaco (tasso alcolemico a 1,5, tre volte oltre il limite consentito) e aveva assunto stupefacenti. 

L'impatto alle 4.30 è stato violentissimo. Gli abitanti della zona sono stati svegliati dal boato. «È stata come una bomba» hanno testimoniato. L'auto ha il lato frontale sinistro distrutto, il parabrezza in frantumi, come se fosse finita contro un palo e non contro una ragazza.

Sull'asfalto i segni di una frenata molto lunga, che fanno ipotizzare ai militari dell'Arma, coordinati dalla pm Mara Giovanna De Donà della Procura di Treviso, che la vettura in quel momento correva ad alta velocità. 

Giovanardi, un lavoro da operaio, rimasto ferito e che i testimoni hanno sentito piangere, è stato arrestato con l'accusa di omicidio stradale aggravato. «Me la sono trovata davanti all'improvviso» ha ripetuto agli inquirenti. 

Miriam Ciobanu era nata a Tolmezzo da genitori adesso separati di origine romena e si era trasferita a Fonte, in provincia di Treviso. Viveva con il padre, che lunedì notte aveva chiamato intorno alle 3 per farsi venire a prendere.

Ma lui dormiva e non ha sentito il telefono. I social raccontano di una ragazza dai profondi occhi blu e dai mille interessi. Citava scrittori come Luigi Pirandello e Zadie Smith, si appassionava per i viaggi, testimoniava il suo impegno per i diritti delle donne e delle coppie omosessuali, s' indignava per una messa di ringraziamento organizzata dalla parrocchia dopo il blocco del disegno di legge Zan. 

Si era iscritta a Psicologia, ma aveva deciso di cambiare e iscriversi al corso di Criminologia a Padova. Intanto si dava da fare con qualche lavoretto, come barista in un locale dove aveva conosciuto il fidanzato diciannovenne, con cui si era legata da poco più di un mese. Lui adesso si dispera: «Mi sento come svuotato dentro».

Spiega che avevano passato la serata in pizzeria e che lei voleva rimanere in zona, come se avesse un presentimento: «Mi ha detto: ci sono in giro troppi ubriachi, non c'è da fidarsi». Poi però avevano litigato e lei aveva deciso di andare via. «Ho provato in tutti i modi a convincerla a restare, l'ho pure seguita in auto assieme a mio fratello, ho insistito perché tornasse indietro» dice il fidanzato che in questi giorni non può guidare e si muove con le stampelle dopo un incidente.

Poi i due fratelli si sono allontanati per andare «a prendere le sigarette, sperando che nel frattempo si calmasse. Ma quando siamo tornati lei non c'era più. Ho pensato che si fosse fatta venire a prendere da qualcuno». Solo la mattina il fidanzato ha saputo dal padre della ragazza cos' era successo. 

E ora teme la gogna partita sui social: «Ho ricevuto minacce di morte: c'è chi dà la colpa a me per ciò che è accaduto». Adriana, la madre della ragazza, invece sorprende tutti quando dice «perdono chi ha ucciso mia figlia». Ragiona con lucidità: «Vivere nell'odio, covando rancore, non riporterebbe indietro la mia "tata". In fondo quel ragazzo la sua vita se l'è già rovinata con le sue stesse mani».

Pieve del Grappa, le telefonate di Miriam Coibanu al papà prima di essere investita e uccisa da un coetaneo. Il ragazzo arrestato. La Repubblica l'1 Novembre 2022. 

La vittima camminava lungo la strada dopo aver litigato con il fidanzato. L'automobilista è stato portato in ospedale in stato di shock, guidava ubriaco e sotto gli effetti di stupefacenti

Alle 3 di notte Miriam Ciobanu aveva chiamato il padre, probabilmente per chiedergli di andarla a prendere. Adesso questo genitore distrutto dal dolore osserva la chiamata senza risposta dal suo telefonino e non riesce a darsi pace.

“Non ho sentito lo squillo. Avevo sentito Miriam poco prima di mezzanotte, mi aveva detto che stava uscendo dalla pizzeria e che sarebbe andata a casa di amici, dove avrebbe trascorso la notte. Mi aveva detto che sarebbe tornata il giorno dopo, per l’ora di pranzo”, racconta Jon “Giovanni” Ciobanu.

“Mia figlia mi informava di ogni suo spostamento. Purtroppo alle 3 non mi sono accorto che il telefono suonava, vivrò per sempre con questo rimorso”. Dunque l’elemento chiave, quello che innesca la tragedia, è la scelta di Miriam di allontanarsi dalla casa in cui doveva trascorrere la notte. Ed è stata sicuramente una scelta dettata da una ragione forte, visto Paderno del Grappa dove si trovava dista 5 chilometri e mezzo da Onè di Fonte dove abitava: un’ora e un quarto di strada a piedi.  Quella del litigio con il fidanzato è più di un’ipotesi, che però il padre colloca a circa una settimana di distanza. “Con Enrico aveva litigato una settimana fa”, dice in lacrime.

Miriam Ciobanu, 22 anni, è stata falciata dall’Audi A3 bianca che percorreva come un razzo la Strada provinciale 20, tra Paderno del Grappa e Oné di Fonte. Alla guida c’era Alessandro Giovanardi, 23 anni, di San Zenone: aveva un tasso alcolico tre volte oltre il limite consentito e, si è scoperto poi, era anche positivo ai cannabinoidi. Per questo è stato arrestato con l’accusa di omicidio stradale. Ironia della sorte, suo padre e il padre di Miriam lavorano nella stessa azienda.

Il caso riporta l'attenzione sulle vittime della strada, travolte a piedi dalle auto in corsa, come accaduto il mese scorso a Roma a Francesco Valdiserri, figlio di due giornalisti del Corriere della Sera, ucciso di notte mentre si trovava su un marciapiede.

Miriam Ciobanu, morta a 22 anni in un incidente a Pieve del Grappa. Il fidanzato: «Avevamo litigato, ora mi sento svuotato». Riccardo Bruno e Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2022.

Miriam Ciobanu stava tornando a casa da sola a piedi. La madre della ragazza: «Perdono l’investitore. Vivere nell’odio, covando rancore, non me la riporterebbe indietro» 

Miriam Ciobanu aveva 22 anni. Chi l’ha investita e uccisa, Alessandro Giovanardi, ne ha uno in più. Lei, nella notte tra lunedì e martedì, camminava da sola al buio lungo la provinciale che attraversa Paderno, una frazione di Pieve del Grappa, nel Trevigiano. Aveva litigato con il fidanzato e aveva deciso di tornare a casa a piedi. Lui invece rientrava a San Zenone dopo una festa di Halloween. Come hanno appurato i carabinieri della Compagnia di Castelfranco Veneto, era ubriaco (tasso alcolemico a 1,5, tre volte oltre il limite consentito) e aveva assunto stupefacenti.

L’impatto alle 4.30 è stato violentissimo. Gli abitanti della zona sono stati svegliati dal boato. «È stata come una bomba» hanno testimoniato. L’auto ha il lato frontale sinistro distrutto, il parabrezza in frantumi, come se fosse finita contro un palo e non contro una ragazza. Sull’asfalto i segni di una frenata molto lunga, che fanno ipotizzare ai militari dell’Arma, coordinati dalla pm Mara Giovanna De Donà della Procura di Treviso, che la vettura in quel momento corresse ad alta velocità. Giovanardi, un lavoro da operaio, rimasto ferito e che i testimoni hanno sentito piangere, è stato arrestato con l’accusa di omicidio stradale aggravato. «Me la sono trovata davanti all’improvviso», ha ripetuto agli inquirenti.

Mirian Ciobanu era nata a Tolmezzo da genitori adesso separati di origine romena e si era trasferita a Fonte, in provincia di Treviso. Viveva con il padre, che lunedì notte lei aveva chiamato intorno alle 3 per farsi venire a prendere. Ma lui dormiva e non ha sentito il telefono. I social raccontano di una ragazza dai profondi occhi blu e dai mille interessi. Citava scrittori come Luigi Pirandello e Zadie Smith, si appassionava per i viaggi, testimoniava il suo impegno per i diritti delle donne e delle coppie omosessuali, s’indignava per una messa di ringraziamento organizzata dalla parrocchia dopo il blocco del disegno di legge Zan .

Si era iscritta a Psicologia, ma aveva deciso di cambiare e iscriversi al corso di Criminologia a Padova. Intanto si dava da fare con qualche lavoretto, come barista in un locale dove aveva conosciuto il fidanzato diciannovenne, con cui era legata da poco più di un mese. Lui adesso si dispera: «Mi sento come svuotato dentro». Spiega che avevano passato la serata in pizzeria e che lei voleva rimanere in zona, come se avesse un presentimento: «Mi ha detto: ci sono in giro troppi ubriachi, non c’è da fidarsi». Poi però avevano litigato e lei aveva deciso di andare via. «Ho provato in tutti i modi a convincerla a restare, l’ho pure seguita in auto assieme a mio fratello, ho insistito perché tornasse indietro», dice il fidanzato che in questi giorni non può guidare e si muove con le stampelle dopo un incidente. Poi i due fratelli si sono allontanati per andare «a prendere le sigarette, sperando che nel frattempo si calmasse. Ma quando siamo tornati lei non c’era più. Ho pensato che si fosse fatta venire a prendere da qualcuno».

Solo la mattina il fidanzato ha saputo dal padre della ragazza cos’era successo. E ora teme la gogna partita sui social: «Ho ricevuto minacce di morte: c’è chi dà la colpa a me per ciò che è accaduto». Adriana, la madre della ragazza, invece sorprende tutti quando dice «perdono chi ha ucciso mia figlia». Ragiona con lucidità: «Vivere nell’odio, covando rancore, non riporterebbe indietro la mia “tata”. In fondo quel ragazzo la sua vita se l’è già rovinata con le sue stesse mani».

Tiziana Paolocci per “il Giornale” il 2 novembre 2022. 

Una tragica fatalità ha cambiato per sempre il suo destino. Miriam Ciobanu, una studentessa di 22 anni, aveva passato la notte di Halloween tranquilla, a casa con il fidanzato. 

Poi, per motivi che probabilmente resteranno per sempre tra loro, i due hanno litigato e lei ha scelto di uscire di casa alle 4.30 del mattino, ed è morta travolta a Paderno del Grappa, in provincia di Treviso, da un coetaneo ubriaco e positivo ai test sulla droga.

L'incidente, che non le ha lasciato scampo, è avvenuto lungo la provinciale 20.

La studentessa stava camminando sul ciglio della strada, che non ha marciapiede, quando è stata centrata dall'Audi S3 guidata da un suo coetaneo, un giovane di 23 anni. L'automobilista ha raccontato di essersela trovata davanti all'improvviso. Ma l'impatto è stato violentissimo e la studentessa universitaria, originaria della provincia di Udine, che abitava da qualche anno con la famiglia a Fonte, è finita prima sul cofano, poi sul parabrezza, sfondandolo, e venendo catapultata molti metri in avanti. Quando i medici del 118 sono arrivati sul posto, non hanno potuto far altro che costatarne la morte perché era già tardi.

Ferito e in stato di shock, il giovane conducente dell'Audi è stato portato in ospedale per le prime cure e gli accertamenti sul suo stato psico-fisico. È risultato positivo all'alcol, con un tasso molto superiore al consentito e agli stupefacenti. Ieri mattina stava rientrando a casa, a San Zenone (Treviso) dopo aver trascorso la serata a una festa insieme ai suoi amici. 

I carabinieri di Castelfranco Veneto lo hanno arrestato con l'accusa di omicidio stradale aggravato. «Lo abbiamo sentito piangere a dirotto, come fosse un bambino» hanno raccontato alcuni testimoni che abitano vicino al luogo dell'incidente e sono stati svegliati dall'improvviso dallo schianto. Al vaglio degli investigatori c'è anche la velocità con la cui la potente Audi S3 stava procedendo in direzione di Paderno.

Piangono sicuramente di più i genitori della vittima, che lavorava saltuariamente come barista per inseguire il sogno di entrare a criminologia a Padova. «Dopo una litigata il fidanzato l'ha mandata via e le ha preferito, vista l'ora, incamminarsi da sola piuttosto che svegliare il padre o la sorella per farsi venire a prendere», ha raccontato la madre Adriana. 

Il numero degli incidenti mortali nella provincia della Marca trevigiana fa rabbrividire se si pensa che sono stati 56 dall'inizio dell'anno. La fine di Miriam ricorda da vicino quella che ha portato via Francesco Valdiserri, investito da una Suzuki Swift a Roma la notte tra il 19 e 20 ottobre mentre stava rientrando a casa camminando sul marciapiede in via Cristoforo Colombo con un amico, che è rimasto miracolosamente illeso.

Anche Chiara S., la 23enne che lo ha ucciso, è risultata positiva all'alcoltest e si trova ora agli arresti domiciliari per omicidio stradale. Stesso destino per Ludovico De Pandis, il diciannovenne che il 30 ottobre, a Conversano, in Puglia, dopo una serata passata con gli è stato investito in via Putignano, un tratto illuminato ma con un pò di nebbia. All'improvviso una Citroen C3 con una ragazza al volante per un attimo di distrazione o forse perché correva troppo l'ha investito in pieno e buttato contro un muretto. Inutile cercare di rianimarlo.

Stefano Vladovich per "Il Giornale" il 5 novembre 2022.

Libero. Alessandro Giovanardi, il 23enne positivo ad alcol e droga che ha investito e ucciso Miriam Ciobanu, 22 anni, è stato scarcerato. Nonostante l'accusa di omicidio stradale aggravato, è libero di uscire per tutto il giorno. Unica controindicazione: obbligo di dimora a San Zenone degli Ezzelini, dove vive, e divieto di andarsene in giro dalle 20 alle 5,30. «Ma il giudice che l'ha rimesso in libertà ha una figlia»? chiede Giovanni Ciobanu, il papà della studentessa universitaria travolta in strada dall'Audi A3 guidata da Giovanardi nella notte maledetta di Halloween, fra lunedì è martedì scorsi. Sono le 4 del mattino: Miriam, dopo un litigio con il fidanzato e dopo aver cercato, invano, il padre al cellulare, s' incammina verso casa, a Fonte, Treviso.

Nel comune di Paderno di Pieve del Grappa, però, la provinciale SP20, all'altezza di via Vittorio Veneto, è buia e senza marciapiedi. C'è anche un po' di nebbia e l'auto che sopraggiunge corre ad almeno 130 chilometri orari.

Soprattutto l'uomo alla guida è ubriaco e fatto di roba nonostante neghi di aver fumato hashish. Giovanardi, che rientra dopo aver trascorso la serata a una festa, non vede la sagoma scura che cammina al centro della carreggiata. L'impatto è violentissimo. Miriam finisce sul cofano del suv, e dopo aver sfondato il parabrezza viene scaraventata a 50 metri sull'asfalto morendo sul colpo. Il giovane si ferma, è ferito e sotto choc. I primi soccorritori raccontano che era sconvolto, in lacrime. Viene allertato il 118, ma non c'è nulla da fare per la ragazza.

Portato in ospedale per gli accertamenti clinici, il 23enne risulta positivo ad alcol e stupefacenti. Viene fermato dai carabinieri con l'accusa di omicidio stradale aggravato dall'uso di droga, dopo 48 ore il gip di Treviso, accogliendo le richieste della Procura, conferma l'arresto ma dispone il rilascio immediato. Motivo? «Non sussistono pericoli di fuga, reiterazione del reato o alterazione degli elementi di prova». Amen. Il provvedimento fa infuriare il padre della vittima. «Sono all'obitorio per vedere mia figlia - continua Ciobanu -, lui se la spassa. Può fare una vita normale». «Non ce l'ho con nessuno - conclude - mi chiedo solo se quel giudice si trovava al posto mio, con una figlia da piangere». 

Giovanardi, nell'interrogatorio di garanzia, sostiene che, nonostante avesse bevuto, era lucido. «Io la sagoma della ragazza a piedi non l'ho proprio vista» dice.

Genitori separati, Miriam viveva con il papà. «Hanno rimandato a casa - aggiunge Ciobanu - una persona che, ubriaca e drogata, guidava una macchina a forte velocità. È come se avesse avuto in mano un'arma. Sono deluso, mi sento trattato come una bestia. Oltre al fatto della giustizia, mi sento umiliato da questa decisione. Si poteva almeno aspettare che fossero celebrati i funerali».

La mamma di Miriam ha avuto parole di perdono per il 23enne: «Dovrà convivere con questa croce» ha detto. La Procura di Treviso puntualizza che l'alleggerimento della misura cautelare non va inteso come un anticipo della pena anche per fatti gravi.

«Non c'è pericolo di inquinamento delle prove e la possibilità di fuga o reiterazione del reato visto che al giovane è stata ritirata la patente e la sua auto è distrutta». I magistrati trevigiani, insomma, con questo provvedimento escludono, o non considerano affatto, la possibilità di guidare un'altra auto, senza patente e nelle ore in cui è consentito uscire. Lunedì i funerali nella chiesa di Fonte.

Da tgcom24.mediaset.it l’8 novembre 2022.

Oltre 500 persone hanno partecipato ai funerali di Miriam Ciobanu, la 22enne travolta e uccisa la notte di Halloween a Pieve del Grappa (Treviso) dal 23enne Alessandro Giovanardi, al volante con un tasso alcolemico tre volte sopra la soglia consentita e tracce di cannabis nel sangue. Momenti di tensione alle esequie: la madre Adriana si è scagliata contro Tommaso, il ragazzo con cui la 22enne aveva passato la serata prima di allontanarsi a piedi dalla sua casa. "Per rispetto non dovevi neanche presentarti", ha detto la donna. 

Quando la madre di Miriam si è accorta della presenza del giovane, ancora con le stampelle per un precedente incidente dove era stata coinvolta anche la ragazza, lo hanno invitato a lasciare la cerimonia per l'ultimo saluto alla 22enne. 

Le parole del parroco - "Sei bella come i gigli del campo, bella nel tuo nome che intreccia i tratti del tuo destino, bella nei tuoi grandi occhi profondi. Nel giorno del tuo saluto vogliamo parlare di bellezza, quella nascosta in ognuno di noi" ha detto don Gabriele Fregonese, il parroco che ha celebrato i funerali. "Non c'è tempo per farci travolgere dall'odio e dal dolore, ma viviamo al ritmo della bellezza e dell'amore".

Alice D'Este per corriere.it il 10 novembre 2022.

Un dolore che è già perdono, anzi, «per-dono» come preferisce chiamarlo Adriana, la mamma di Miriam Ciobanu, la ragazza di 22 anni morta dopo essere stata travolta da un auto, guidata da Alessandro Giovanardi la notte di Halloween a Paderno di Pieve del Grappa, provincia di Treviso. 

La madre della ragazza investita dopo la lite con il fidanzato

A distanza di una settimana dalla morte della figlia Adriana parla ai microfoni di Antenna 3. «La mia forza? Me l’ha insegnata lei con l’amore che metteva in ogni cosa. Con la pazienza, con la voglia di confronto. Situazioni come queste una volta le avrei giudicate ma lei ha saputo spostarmi l’angolo di visione delle cose, farmi capire che non esiste una sola lettura delle cose. Questo perdono che porto è un dono che Miriam fa a tutti i giovani».

Il perdono per l’automobilista Alessandro Giovanardi

Già qualche giorno fa Adriana si era rivolta all’investitore e ai suoi genitori dicendo che lo aveva perdonato, che l’odio nei suoi confronti non c’era e non ci sarebbe mai stato. «Spero che questo sia di lezione anche se crudele per tutti i ragazzi che si mettono in macchina senza pensare alle conseguenze - dice - spero che vi serva a pensare, a riflettere sul fatto che vale la pena di alzare il telefono, di chiamare i genitori. È stato lui ma sarebbe potuto capitare anche alle mie figlie, non voglio essere ipocrita. Quindi dico a tutti: pensateci, chiamate a casa, fermatevi a dormire dove siete, non rischiate la vostra vita e quella degli altri. Non pensate “sì sono lucido posso farcela”, la mente inganna, l’alcool inganna. Quando decidete di far festa fermatevi, chiamate a casa». 

Il silenzio del padre di Miriam Ciobanu

Accanto ad Adriana c’è Charlie, la sorella minore di Adriana. «Mi guarda in questi giorni, è preoccupata per me - dice - mi sta accanto. La famiglia per me ha avuto un significato molto importante». Il padre, Giovani Ciobanu, che lavora nella stessa azienda in cui lavora anche Mario Giovanardi, il papà di Alessandro, l’automobilista di 23 anni alla guida in stato di ebrezza che l’ha uccisa, si è chiuso in un silenzio assoluto. 

Al funerale le parole contro Tommaso Dal Bello, fidanzato di Miriam

Il perdono che Adriana ha più volte dichiarato per Alessandro non è arrivato per Tommaso Dal Bello, il fidanzato di Miriam. Alle esequie, il 7 novembre nella chiesa parrocchiale di Onè, si era presentato anche lui, accompagnato dal padre. E Adriana ad alta voce gli aveva detto: «Per rispetto non avresti dovuto neanche presentarti». 

Il precedente incidente: «Ma non era stato raccontato nulla»

La sera dell’incidente Miriam si era allontanata da casa di Tommaso dopo una lite, incamminandosi sulla strada buia da sola. «La mancanza di rispetto parte molto prima - ha detto Adriana ai microfoni di Antenna 3 - da un incidente non raccontato (non ci ha mai chiamato per avvisarci) e da tante altre cose. Era un ragazzo non responsabile nei confronti di mia figlia. La responsabilità verso il prossimo è un dovere, non una possibilità. Credo che quella notte le cose siano andate in un modo diverso ma il telefono di Miriam chiarirà le cose. Io dico una cosa: possono aver anche discusso e lei può anche essersene andata arrabbiata ma lui il mio numero lo aveva, se lei se ne stava andando avrebbe dovuto avvisarci dirci di andare a prenderla, se le voleva bene doveva pensarci». 

La mamma di Miriam: «Quel ragazzo non si prendeva cura di nostra figlia»

Nella notte dell’incidente Adriana si è sentita male nel momento in cui stava accadendo. «Mi sono svegliata alle 4 e mi sono sentita svenire - racconta - l’ho chiamata, non mi ha mai risposto».

Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 24 Ottobre 2022. 

L'obiettivo che si è data l'Unione Europea due anni fa è ambizioso, al limite dell'utopia: raggiungere nel 2050 le «zero vittime» per incidenti stradali. Il traguardo è ancora lontanissimo, non solo in Italia. Nel 2021, anno ancora anomalo dopo il 2020 segnato dal lockdown, nel nostro Paese sono morte 2.875 persone, 204.728 i feriti, 151.875 gli incidenti con lesioni. Una strage.

Di fatto si è tornati ai livelli del 2019, l'ultimo pre-pandemia. Un bilancio fatto di luci e di ombre. Negli ultimi vent' anni i numeri indicano una costante diminuzione (nel 2001 le vittime erano state 7.096, dieci anni dopo 3.860), ma il calo è rallentato dopo un primo decennio che aveva fatto ben sperare.

Le nostre strade, sia nei centri urbani che fuori, sono ancora troppo pericolose. «In particolare nelle grandi città la priorità è la protezione degli utenti vulnerabili, motociclisti, ciclisti e pedoni. In oltre il 50% dei casi almeno uno degli utenti coinvolti appartiene a queste categorie, ed è evidente che è quello che ha la peggio» spiega Luca Studer, responsabile del Laboratorio mobilità e trasporti del Politecnico di Milano e titolare del corso di Circolazione e sicurezza stradale.

Secondo l'ultimo rapporto Istat, nel 2021 le vittime tra i motociclisti sono state 695, 471 tra i pedoni, 67 i ciclomotoristi, 229 tra ciclisti e utilizzatori di monopattini elettrici. Il numero maggiore in assoluto (1.192) tra gli occupanti di autovetture, 169 invece i deceduti sui mezzi pesanti (l'unica categoria che segna una crescita rispetto al 2019). 

Le vittime sono più uomini (l'83,3%) che donne (16,7%), soprattutto nelle fasce d'età 45-59 e 20-24. Colpisce il numero dei bambini o adolescenti: l'anno scorso hanno perso la vita 28 minori sotto i 14 anni, 146 ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Anche tra i feriti, un terzo (30,3%) riguarda giovani tra i 15 e 29 anni, con un calo negli anni più contenuto rispetto ad altre classi d'età

La maggior parte degli incidenti avviene sulle strade urbane (73,1%), mentre il maggior numero di morti si registra in quelle extraurbane (47,5%); sulle autostrade il 5% dei sinistri e l'8,6% dei decessi. L'Italia si pone un po' sopra la media europea riguardo al tasso di mortalità (vittime per milione di abitanti): 48,5 rispetto a 44,7 dei 27 paesi Ue. I più virtuosi sono Malta e Svezia, in coda Bulgaria e Romania.

Se si prendono in considerazione le cause, quasi 4 incidenti su 10 sono provocati da distrazione, mancato rispetto della precedenza o velocità troppo elevata. E ancora: una manovra irregolare, il mancato rispetto della distanza di sicurezza, la mancata precedenza al pedone, oppure il suo comportamento scorretto (2,7% dei casi). Una quota rilevante, in base ai rapporti di carabinieri e polizia, è rappresentata da casi in cui almeno uno dei conducenti dei veicoli coinvolti aveva bevuto (9,7%) o addirittura assunto stupefacenti (3,2%) .

Analizzando i dati per regione, nel 2021 sono 12 quelle che si collocano sopra la media nazionale per tasso di mortalità (4,9 morti ogni 100 mila abitanti): i valori peggiori in Friuli-Venezia Giulia (6,8) e Basilicata (6,6), le più virtuose Lombardia (3,6) e Valle d'Aosta (0,8). 

Non è solo una tragica contabilità di vite spezzate, ma anche di persone sopravvissute con conseguenze che le accompagneranno per tutta l'esistenza. È anche un costo sociale, stimato secondo i parametri Istat e Aci, in 16,4 miliardi di euro, lo 0,9% del Pil nazionale.

La Commissione europea, in avvicinamento allo «zero vittime» del 2050, ha fissato il prossimo obiettivo decennale nel dimezzamento dei morti entro il 2030, recepito dal Piano nazionale per la sicurezza nazionale. «Purtroppo siamo ben lontani. Ma è una scommessa, uno stimolo per prendere decisioni più efficaci a livello politico - osserva il professor Studer del Politecnico di Milano -. Gli incidenti stradali sono tra le prime cause di mortalità tra i ragazzi, è evidente che basta solo questo per dire che non si fa ancora abbastanza. Negli ultimi anni sicuramente sono stati compiuti progressi, ora manca il passo finale».

Quella strage di vite umane sulle strade, anche per colpa delle «recidive». La morte del 18 enne ucciso a Roma dall'auto fuori controllo nelle mani di una giovane in stato di ebbrezza a cui già era stata ritirata la patente per abuso di alcol riporta alla luce un problema tragico ma spesso dimenticato. Linda Di Benedetto su Panorama il 21 Ottobre 2022

Dopo la morte di Francesco Valdiserri, il 18enne investito a Roma da una ragazza in stato di ebbrezza e sotto effetto di sostanze stupefacenti, torna alta l’attenzione sulle vittime della strada. Un dato che ha subito un brusco arresto durante la pandemia ma che ha ripreso ad aumentare in questi due anni. Nel 2021 infatti secondo l’osservatorio dell'Asaps, Associazione Sostenitori Polizia Stradale, sull'incidentalità con il coinvolgimento dei pedoni (realizzato sulla base dei dati AciIstat del 2021- 2022) sono avvenuti 17.164 investimenti di pedoni, 47 al giorno, due all'ora, in cui sono morte 471 persone, 330 uomini e 141 donne. Mentre nel primo semestre 2022 sono stati 451 gli episodi di pirateria stradale gravi, erano stati 486 nello stesso primo semestre del 2021 -35 (-7,2%). I morti nel primo semestre 2022 sono stati 39 e 546 le persone ferite. Nello stesso semestre 2021 i morti erano stati 52 e i feriti 547.

«Con il nostro osservatorio monitoriamo gli incidenti e le posso dire che la situazione è drammatica. Parliamo secondo i dati Istat di circa 8 persone al giorno vittime di incidenti stradali, 12 quest’estate»-commenta Giordano Biserni Presidente ASAPS Come mai c’è stato questo aumento? «In parte è dovuto al silenzio e alla disattenzione totale delle istituzioni e della politica ma anche ad una trascuratezza delle segnalazioni orizzontali, verticali e luminose. Solo a San Donà ad inizio ottobre sono morti 7 giovani sulla A 4 e ieri a Roma un ragazzo di 18 anni è stato investito da una 24enne positiva al test di alcool e droga a cui era stata già ritirata la patente. Rischiamo la vita anche quando camminiamo sui marciapiedi». Qual è la soluzione? «Non esiste soluzione ma certamente sarebbe opportuno puntare su una campagna di sensibilizzazione e di informazione efficace sulla sicurezza stradale. In più ci vorrebbe più attenzione da parte degli amministratori verso pedoni e ciclisti con un aumento degli autovelox e maggiori controlli nelle zone a rischio per valutare che il conducente abbia i requisiti e le condizioni psicofisiche necessarie per guidare e non sia un pericolo per se stesso e per gli altri». Ma il problema degli incidenti stradali prevede anche una recidività che non è da sottovalutare e di cui si occupa l’Associazione dei familiari e vittime della strada. «Noi come Associazione familiari e vittime delle strade ci occupiamo di 2mila casi l’anno di persone a cui è stata ritirata la patente in seguito ad un incidente stradale o ad un fermo dovuto all’uso di droga o alcol. Più del 3% di queste persone sono recidive come nel caso della ragazza positiva ad alcol e droga che ha investito un 18enne a Roma. Anche lei era una recidiva perché le era stata ritirata la patente e anche se avrà fatto il suo percorso riabilitativo non ha imparato nulla» - ci spiega Silvia Frisina delegato presidenza dell’Associazione familiari e vittime della strada Cosa sarebbe opportuno fare? «Secondo noi nell’immediato ci sarebbe da fare due azioni: aumentare i controlli di polizia stradale e lanciare delle campagne efficaci di sicurezza sulla strada. Ma purtroppo la polizia è penalizzata da una mancanza di organico e di conseguenza i controlli non sono sufficienti con il risultato che gli incidenti di persone sotto effetto di alcol e stupefacenti da agosto ad oggi è aumentato incredibilmente. Basti pensare senza andare troppo a ritroso all’incidente avvenuto 3 giorni fa ad Ostia dove una ragazza di 23 anni americana è rimasta vittima di un incidente causato da uomo sotto effetto di droghe. Un altro dato allarmante è che le sostanze stupefacenti circolano con maggiore facilità. Ma oltre all’uso di droghe un fattore che viene spesso sottovalutato è l’abuso di alcool, che non può essere monitorato perché sempre più spesso le pattuglie delle forze dell’ordine non hanno l’etilometro quindi non tutti i fermati sono sottoposti all’alcoltest. Purtroppo c’è un sommerso che non conosciamo che è spaventoso». Tra le vostre attività ci sono dei percorsi riabilitativi? «Noi abbiamo una convenzione con il Ministero della Giustizia che prevede dei lavori socialmente utili dove accogliamo gli autori di reato in guida di stato ebbrezza, si tratta in pratica di impiegare queste persone nello stesso ambito in cui hanno commesso il reato». Sulla strada? «Si, esattamente anche perché Il carcere va ad aumentare la recidività mentre le misure alternative come manutenzione su strada o assistente stradale, sono percorsi riparativi che funzionano meglio».

MOBILITÀ INSICURA. Francesco Valdiserri è l’ultima vittima dell’insicurezza stradale a Roma. GIULIA MORETTI su Il Domani il 20 ottobre 2022

La morte del ragazzo è solo l’ultima tragedia di un’epopea urbana che si consuma sulle strade della capitale. Una spia di un problema ben più grave di cui l’amministrazione capitolina dovrà farsi carico

A Roma in queste sere d’ottobre c’è ancora un’aria mite che fa venir voglia di passeggiare. Francesco Vladiserri camminava sul marciapiede di via Cristoforo Colombo quando è stato investito da un’auto uscita di strada ed è morto. Diciotto anni, il diploma di maturità ancora fresco, due genitori noti e una vita davanti. Tutto finito. La fine della giovane vita di Francesco, per quanto drammatica, è solo l’ultimo atto di un’epopea urbana che si consuma sulle strade della capitale. Una spia di un problema ben più grave di cui l’amministrazione capitolina dovrà farsi carico.

I DATI

Ma partiamo dai dati. Il 6 ottobre scorso l’istituto nazionale di statistica, l’Istat, ha pubblicato un report sugli incidenti stradali avvenuti in Italia nel 2021. Dall’analisi dei dati emerge che in provincia di Roma il numero di incidenti mortali (121) supera quello registrato nelle province delle altre grandi città italiane: Milano, Torino, Genova e Napoli. Roma si conferma, da questo punto di vista, la città più pericolosa d’Italia. 

È in calo rispetto ai due anni precedenti il numero di pedoni morti: 32 nel 2021 contro i 40 del 2020 e i 42 del 2019. Tuttavia, e questo dato è allarmante, nella sola città di Roma si registra il 44 per cento del totale di morti in Italia a causa di incidenti avvenuti alla guida di un monopattino elettrico.

A causare gli incidenti sono per più della metà dei casi (il 52,6 per cento) la distrazione alla guida e il mancato rispetto della segnaletica, mentre si riduce la percentuale di incidenti causati dal mancato rispetto dei limiti di velocità (27,9%).

LE CAUSE

Un tasso di insicurezza tale sulle strade è riferibile oltre a ragioni legate alla responsabilità personale a un problema di tipo strutturale. Uno studio del 2018 sulla Green Economy dimostrava che Roma era la città italiana con il più alto tasso di utilizzo di mezzi privati negli spostamenti: il 65 per cento. A Bolzano, Bologna, Ferrara, Firenze, Milano, Pisa, Torino e Venezia a preferire scooter e auto ai mezzi pubblici sono meno del 50 per cento delle persone. Il confronto con le città europee, tuttavia, appare impietoso anche in questo caso. A Londra il 37 per cento degli spostamenti viene coperto con un mezzo privato, contro il 30 per cento di Berlino, il 26 per cento di Madrid e il 15,80 per cento di Parigi.  

A scoraggiare l’utilizzo dei mezzi pubblici concorrono diversi fattori, tra questi la scarsa sicurezza percepita. L’associazione Road 50%, in collaborazione con l’assessorato per le Pari opportunità, ha somministrato a 1.800 partecipanti un questionario in cui chiedeva quanto si sentissero sicuri a spostarsi con i mezzi pubblici. Ne è emerso che le fonti di insicurezza sono la scarsa illuminazione di alcune fermate, i frequenti episodi di molestie subite dalle donne, e la percezione di scarsa sicurezza in alcune fermate della metro, prime tra tutte Termini.

LA MANIFESTAZIONE DI VIVINSTRADA

A maggio del 2022 l’associazione Vivinstrada ha organizzato una manifestazione nella capitale a piazza Santi Apostoli per «per richiamare l’attenzione di cittadini, istituzioni e media sulla strage stradale». In quell’occasione i manifestanti hanno duramente attaccato “Vision zero”, un progetto nato in Svezia alla fine degli anni Novanta che punta ad azzerare il numero di vittime sulla strada, ma che le altre città europee hanno adottato ponendosi come orizzonte temporale il 2050.

Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, poco dopo il suo insediamento, ha presentato un piano di interventi per la messa in sicurezza di oltre 70 incroci pericolosi a Roma, parlando di "vision zero" e ponendosi come obiettivo quello di ridurre del 5 per cento i feriti e i decessi entro 10 anni. Un tempo troppo lungo per gli attivisti di Vivinstrada. 

L’ULTIMA SETTIMANA 

Nell’ultima settimana, o meglio negli ultimi cinque giorni, i morti sulle strade romane sono stati sei. Da inizio anno già oltre cento, rendendo probabile il superamento del numero di vittime del 2021. L’ultima delle quali è stata Francesco Valdiserri. «Il mio 18enne meraviglioso non c’è più. Il mio bambino che aveva a cominciato a correre nella vita. Un’auto nella notte lo ha investito e non tornerà. Nulla più tornerà. Nulla ha più senso. Nulla», ha scritto sua madre, la giornalista Paola Di Caro, su Twitter. Al suo straziante post hanno risposto in segno di vicinanza molti utenti, tra cui Enrico Letta e Giorgia Meloni.  

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Perché ci uccidono così quando siamo solo pedoni. Vincenzo R. Spagnolo su Avvenire il 20 ottobre 2022.  

Francesco Valdiserri aveva 18 anni, una zazzera di capelli biondi e un sorriso contagioso. Aveva una mamma e un papà che lo amavano e una sorella che lo adorava. Coltivava sogni, aspirazioni e mille curiosità di ragazzo che non potrà più soddisfare. No, non potrà perché l’altra notte, a Roma, su quella sorta di autopista urbana che continua disgraziatamente ad essere la via Cristoforo Colombo, una vettura l’ha investito in pieno mentre stava sul marciapiede, uccidendolo. A guidare era una 23enne, Chiara Silvestri, che i primi esami hanno trovato positiva al test alcolemico e “non negativa ai cannabinoidi”. Due anni fa la patente le era stata già sospesa per-ché in stato di ebbrezza.

Ora è agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio stradale e sarà la giustizia ad accertare le sue responsabilità. Secondo il codice stradale, lì fermo sul marciapiede, Francesco era un pedone, il 225esimo investito e ucciso quest’anno, in base ai dati raccolti con meticolosità dall’Associazione Asaps. E le statistiche dell’anno passato non sono differenti: nel 2021 si sono contatti infatti 17.164 investimenti di pedoni, in media 47 al giorno, 2 l’ora, con 471 vittime: 330 uomini e 141 donne. Ognuno di loro – proprio come Francesco – aveva una famiglia che l’amava e che ora convive con un lutto.

Venti di loro – proprio come Francesco – sono stati falciati da un automezzo mentre stavano sul marciapiede, in attesa di un amico, di un autobus, di un appuntamento... Altri 180, in media uno ogni due giorni, sono stati uccisi mentre attraversavano sulle strisce. Già, le strisce pedonali, con quell’aggettivo a indicare una fettuccia di strada sicura dove può muoversi chi non sgasa, non accelera, non sorpassa. Fuori dal nostro Paese, in Europa e nel resto del mondo civile, gli attraversamenti pedonali sono qualcosa di “sacro” e non solo nei pressi delle scuole. Sono segnalati con colori vivaci e luci lampeggianti, non pallide zebre visibili a malapena sull’asfalto nero.

E i guidatori le rispettano, rallentano prima di raggiungerle, si fermano, fanno passare i pedoni. E solo dopo, ripartono lentamente. Da noi, nulla di tutto questo. Lo scorso anno gli investimenti di pedoni sulle strisce sono stati 6.762, in media 18 al giorno. Migliaia di tragedie, di rado riportate dalle cronache, con un minimo comune denominatore: la velocità eccessiva, anche in città, la fretta, la distrazione e perfino l’abuso di alcol o di sostanze micidiali da parte di chi pensa di poter far tutto, magari mentre legge un sms o registra un messaggio vocale. E chi se ne importa dei pedoni. Termine singolare, quello di “pedone”: nel vocabolario, indica chi cammina a piedi, in contrapposizione a chi usa veicoli.

Negli scacchi, invece, designa ognuno degli otto piccoli pezzi, bianchi o neri, più deboli rispetto a pezzi importanti come Re e Regina. E così ci sentiamo tutti noi mentre attraversiamo la strada: pedoni piccoli e indifesi, alla mercé di veicoli sregolati. Sulla scacchiera, talvolta, il sacrificio di un pedone viene ritenuto necessario per salvaguardare la posizione del Re. Nella vita reale, invece, le migliaia di sacrifici di pedoni sull’altare della mancanza di regole e di segnali, non salvaguardano nessuno, se non la sfrontatezza di chi vuole sentirsi legibus soluto e fare ciò che vuole, senza freni né limiti. Ed è amaro constatare come, nonostante la strage quotidiana, nei recenti programmi elettorali dei diversi partiti la sicurezza stradale fosse quasi assente.

Eppure Parlamento e governo, anche usando i fondi del Pnrr, di cose ne potrebbero fare. Potrebbero abbassare i limiti di velocità, posizionare dossi e stanziare più pattuglie e autovelox su strade “a rischio”, migliorare la segnaletica visiva e sonora degli attraversamenti. Potrebbero sanzionare duramente chi non si ferma alle strisce (la norma c’è, meno 8 punti patente, ma scarsamente applicata). Potrebbero, ancora, chiedere alle case automobilistiche di dotare ogni nuovo veicolo del sistema Aebs, la frenata automatica d’emergenza in presenza di passanti, in modo che questo assurdo sacrificio quotidiano di pedoni finisca. Non dimentichiamolo, quando la commozione per la morte di Francesco sarà scemata. Non dimentichiamolo, perché Francesco siamo noi, grandi e piccoli, ogni volta che camminiamo per strada.

Vittime di incidente stradale. Trovati morti i due giovani scomparsi, lui era di Taranto. La Redazione de La Voce di Manduria giovedì 20 ottobre 2022.

Tragica fine della coppia

Tragico epilogo per coppia di 20enni, lui Francesco D'Aversa originario di Taranto, lei Sofia Mancini, scomparsa da due giorni in provincia di Verona. Questa mattina i loro corpi privi di vita sono stati trovati all'interno dell'auto completamente distrutta finita in un fossato sulla superstrada. 

I due si erano allontanati dalla discoteca "Amen" di Verona, alle Torricelle. Da quel momento non si era più saputo nulla di loro. Date le condizioni dell'auto, la prima ipotesi dopo il loro ritrovamento è che siano morti in un incidente stradale.

Francesco D'Aversa aveva 20 anni e viveva a Verona dove lavorava come pizzaiolo al don Peppe delle Corti Venete ed era in ferie da domenica, sarebbe dovuto rientrare al lavoro lunedì 24 ottobre. Originario di Taranto, il ragazzo frequentava Sofia da qualche giorno, non si erano quindi conosciuti all'interno della discoteca nè la stessa sera. Sofia Mancini aveva 19 anni e viveva a Costermano con la sua famiglia, genitori commercianti e un fratello. Era andata in discoteca vestita con una maglietta bianca e un paio di jeans.

Sofia Mancini e Francesco D’Aversa i ragazzi scomparsi a Verona trovati morti nell’auto distrutta. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Ottobre 2022 

Sofia e Francesco erano scomparsi: i corpi della 19enne di Costermano e del 24enne di Taranto ritrovati in una scarpata a lato della superstrada che va da Affi a Castelnuovo

I corpi di Sofia Mancini, 19 anni, Francesco D’aversa, 24, sono stati trovati morti entrambi, dentro la carcassa dell’auto su cui viaggiavano lunedì, quando le tracce dei cellulari avevano indicato a chi li stava cercando l’ultima traccia dei due giovani veronesi. L’auto è stata ritrovata stamattina completamente distrutta tra la vegetazione a lato della carreggiata della superstrada che va da Affi a Castelnuovo. L’ipotesi è che i due giovani siano morti in un incidente stradale dall’esisto terrificante.

I due giovani avevano trascorso la serata di lunedì alla discoteca «Amen», sulle Torricelle, sopra Verona. Poi si erano spostati a Desenzano, sulla sponda bresciana del lago di Garda, per ritornare nel Veronese, dove i cellulari sono stati agganciati per l’ultima volta nel territorio di Calmasino. Da quel momento il buio. Stamattina la terribile scoperta. 

Le ricerche, effettuate anche con droni ed elicotteri, si erano concentrate ieri sulla sponda del Lago di Garda tra Calmasino e Lazise, dove le celle telefoniche avevano agganciato lunedì notte per pochi istanti il cellulare di Sofia. Il dirupo dov’è finita la vettura non era visibile dalla strada che collega Lazise ad Affi. E’ stata una squadra di operai di Veneto Strade ad accorgersi stamane di alcuni pezzi di carrozzeria semi-coperti dai cespugli.

Sofia Mancini di Costermano, era scomparsa da casa lunedì notte assieme al 24enne Francesco D’Aversa, originario di Taranto ma residente a Verona, dove lavorava come pizzaiolo. Sul posto anche i genitori della giovane ragazza, che non avevano pensato neanche per un attimo ad un allontanamento volontario della figlia. 

“Sofia non l’avrebbe mai fatto lei mi raccontava tutto e poi non aveva nessun motivo per sparire senza essere contattabile. Se voleva andarsene qualche giorno con questo ragazzo era liberissima di farlo” ha commentato ieri la mamma. L’allarme era tostato lanciato dal sindaco di Costermano, Stefano Passarini, con un post sui social che aveva subito fatto il giro del web con centinaia di condivisioni. “La ragazza è una nostra concittadina – scriveva il primo cittadino in accordo con la famiglia – Si è allontanata con Francesco a bordo di una Fiat 500 color bianco perla, targata Repubblica Ceca 1AY 4101″.

L’auto risultava presa a noleggio, ma da lunedì notte non si trovava più mentre i cellulari dei due giovani erano rimasti accesi per breve tempo e subito spenti: martedì pomeriggio quello di Sofia, ieri mattina quello di Francesco D’ Aversa, appena in tempo per essere agganciati nella cella tra Calmasino e Lazise. “Si erano conosciuti da pochi giorni – raccontava, sempre ieri, il padre della ragazza – erano usciti assieme in queste ultime due, tre sere ma a quanto sappiamo noi in forma amichevole. Sofia si era diplomata ed era andata a lavorare tre mesi in un resort in Sicilia. Era tornata da poco“. Redazione CdG 1947

Il papà di Sofia Mancini: «La sua auto era rotta e l’abbiamo accompagnata. Ora non c’è più». Tiziano Mancini, padre della ventenne trovata morta dopo tre giorni di ricerche ricorda la figlia: «C’era una festa in discoteca con il gruppo di amici conosciuto da poco. Faceva foto splendide e voleva studiare biologia... Non capisco più nulla». Annamaria Schiano su Il Corriere della Sera il 20 Ottobre 2022 

«Sono sconvolto. Non sto capendo niente in questo momento...». Al telefono, Tiziano Mancini ha un filo di voce. Da poco ha avuto la notizia che tanto ha temuto e che mai avrebbe voluto ricevere: Sofia, vent’anni, la più piccola dei tre figli, non c’è più.

Dalla speranza al buio

Mancava da casa da lunedì e, fino a stamattina, Tiziano, con lui la famiglia e l’intero paese, Costermano sul Garda, sperava in un epilogo diverso. Per oltre due giorni, una task force formata proprio per le ricerche, ha battuto il Veronese per trovare Sofia e Francesco D’Aversa, il 24enne di Verona con cui la ragazza era uscita lunedì, per una serata da trascorrere in discoteca. Alle otto di stamattina, la piccola 500 su cui viaggiavano i due giovani è stata trovata in una scarpata a lato della superstrada che va da Affi a Castelnuovo: nell’abitacolo distrutto i corpi di Sofia e Francesco. Secondo Girolamo Lacquaniti, comandante della Polstrada veronese, alla guida c’era il giovane pizzaiolo originario di Taranto. Verso le 3.30 di lunedì - ritiene la Stradale - D’Aversa ha perso il controllo dell’auto. Uscita di strada, l’utilitaria è volata in una sorta di scarpata che affianca la superstrada in un tratto semi-rettilineo, finendo la corsa contro un albero. L’auto, sommersa dalla vegetazione, è stata trovata solo dopo tre giorni, sfuggendo anche all’occhio dei droni e alla vista degli elicotteristi che, pure, avevano sorvolato a zona.

La voce del padre

Ora c’è lo strazio di due famiglie e la voce di Tiziano Mancini, che, da qualche parte, trova la forza di raccontare la «sua» Sofia. «Si era diplomata all’Istituto agrario di San Floriano - ricorda il papà - e stava pensando di iscriversi a biologia all’università. Era tornata a casa da quindici giorni, dopo esser stata a lavorare per tre mesi come fotografa in un resort in Sicilia. É stato in queste due settimane che ha conosciuto questo gruppo di nuovi amici». Lunedì scorso, Sofia non ha preso la sua auto per andare in città: «Perché non era a punto», precisa il padre. Ad accompagnare la ragazza all’Amen, la discoteca sulle colline delle Torricelle dove avrebbe trascorso la serata, ha pensato il fratello Lorenzo (Lorenzo ha 24 anni e un fratello maggiore, Fabiano, più grande di cinque anni. La madre, Claudia Busolo, è originaria di Garda) , che l’ha lasciata là con Francesco D’Aversa e altri amici. «C’era una festa all’Amen – sospira Tiziano Mancini –. Sofia era una brava fotografa ma non trovo le foto che faceva perché c’è il pc rotto e il cellulare di mia figlia è dai carabinieri». Un ultimo pensiero: «Mia figlia era una brava ragazza, piena di vita, era anche ancora un po’ bambina e ingenua. Aveva tutta la vita davanti e ora non c’è più...».

Erano scese dall'auto per aiutare tre persone coinvolte in un incidente. Turiste belghe uccise, pirata della strada positivo a droga e alcol: “Wibe aspettava un figlio”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 12 Ottobre 2022 

È stato identificato, fermato e interrogato l’uomo alla guida dell’auto che ha travolto due turiste belghe Jessy Dewildeman e Wibe Bijl, di 24 e 26 anni sull’autostrada A24, all’altezza di Tor Cervara, periferia est di Roma, che si erano fermate a loro volta per soccorrere delle persone coinvolte in un incidente avvenuto poco prima. Dagli accertamenti investigativi è emerso che l’uomo, Francesco Moretti, 38 anni, con precedenti per furto e altri reati, guidava con la patente sospesa da maggio e sotto effetto di alcolici e stupefacenti: i relativi test avrebbero dato risultati positivi.

Secondo quanto ricostruito, le due ragazze appena scese da una Panda noleggiata per prestare soccorso, sono riuscite ad arrivare al centro della carreggiata sull’autostrada Roma-L’Aquila, nel buio della sera. Hanno urlato ai feriti di un tamponamento incastrati in auto: “Can I help you?” (Avete bisogno di aiuto? ndr.). Poi la tragedia. Moretti le avrebbe travolte con la Smart su cui stava viaggiando per poi abbandonarla sul ciglio della strada e allontanarsi nel buio tra le campagne. Poche ore dopo è stato però individuato dalle forze dell’ordine e fermato. Gli inquirenti potrebbero contestargli anche il reato di omissione di soccorso.

Le indagini stanno proseguendo per accertare che non ci siano complici che lo abbiano riportato a casa dopo l’incidente andandolo a prendere vicino nel luogo della tragedia. Nell’incidente sono rimasti feriti anche due uomini, trasportati in codice rosso al Policlinico Umberto I e a Tor Vergata, e una donna trasferita in codice giallo al San Giovanni.

Nel pomeriggio di martedì i familiari delle due ragazze sono arrivati a Roma per le procedure del riconoscimento delle salme e per riprendere gli effetti personali lasciati dalle due giovani in un hotel al Tiburtino. Presenti le due sorelle e il fratello di Wibe, insieme con i genitori e il fratello di Jessy e anche altri familiari che sono stati accompagnati in pulmino e con la scorta all’obitorio del Verano.

Le vittime sono decedute sul colpo: una è stata trovata accanto alla Panda, l’altra è stata catapultata sulla corsia opposta. Inutili i tentativi del personale del 118 di rianimarle. Jessy e Wibe erano due amiche originarie delle Fiandre occidentali, vicino al confine con la Francia, e si trovavano in Italia in vacanza. Jessy era cameriera, Wibe chef in un ristorante a Menen, era incinta, come racconta il fratello, disperato: “Aspettava un bambino, era alla sedicesima settimana”.

Le due erano amiche del cuore e sono morte per avere cercato di aiutare tre automobilisti sconosciuti in una Paese straniero. Quel viaggio in Italia era stato regalato a Jessy da un cliente dell’azienda per cui lavorava. Dai social emerge che erano già state a Ferentino, nel Frusinate, e ai Musei vaticani. A Casa Mundo, ristorante in cui lavorava come cuoca, Wibe viene ricordata come “sorridente, l’amica di tutti”.  Si stava diplomando come macellaio professionista. Aveva perso tragicamente i genitori: la mamma sette anni fa per un tumore e il padre lo scorso anno in seguito a un incidente in motorino.

“Quando pensi che il peggio sia giù arrivato, ti succede questo”, ha commentato amaramente Jene, una delle tre sorelle. Jessy Dewildeman lavorava come collaboratrice domestica e amava viaggiare, in Europa e in Africa. Era stata anche a Venezia. Sui social il fratello minore Jason ha postato una foto che li ritrae insieme da bambini.

“Ancora una volta un caso di pirateria stradale”, ha commentato l’avvocato Domenico Musicco, presidente di Avisl Onlus, associazione che si occupa delle vittime di incidenti stradali, “il fenomeno non sembra diminuire nonostante la legge sull’omicidio stradale, perché purtroppo è anche legato alla mancanza di un’educazione stradale che cerchiamo da anni di portare nelle scuole”. “Provo un grande dolore per la morte di Jessy Dewildeman e Wibe Bijls. Roma si stringe al dolore della famiglia per questa atroce tragedia”, aveva scritto su Facebook il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Riccardo Annibali

Quel primo giorno in autostrada del Sole. L’inaugurazione con Moro nell’ottobre ‘64. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Ottobre 2022.

«Una tappa storica nel progresso del nostro Paese» così il 5 ottobre 1964 La Gazzetta del Mezzogiorno racconta l’inaugurazione dell’Autostrada del Sole. Il presidente del Consiglio Aldo Moro ha tenuto il discorso ufficiale al casello di Firenze nord in diretta televisiva.

«L’on. Moro è giunto in treno da Roma alla stazione di Arezzo alle 10,20 e accompagnato da altre autorità si è diretto in automobile alla volta del ponte di Levante sull’Arno: qui ha scoperto una targa che dedica il ponte allo scomparso ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Romita, il quale fu principale animatore del programma autostradale del dopoguerra. Il Presidente del Consiglio ha poi raggiunto il piazzale imbandierato della direzione di esercizio della Società autostrade a Firenze Nord, dove è stato accolto con gli onori militari».

Sono trascorsi otto anni dalla posa della prima pietra della grande infrastruttura, avvenuta nel 1956 a San Donato Milanese, alla presenza del capo di Stato Gronchi: finalmente l’intero percorso Milano-Napoli – un’opera avveniristica dotata di 38 gallerie, 113 viadotti e del primo autogrill a ponte d’Europa – è adesso completato.

«Nel corso della cerimonia autorità e invitati hanno potuto seguire, grazie ai numerosi televisori installati proprio di fronte alle tribune, quanto avveniva sui piazzali di ingresso all’autostrada di Orvieto e Chiusi, dove quasi contemporaneamente venivano aperte le transenne mobili dei due caselli», si legge sulla Gazzetta. «Un’opera ardita e geniale» ha detto Moro, le cui prime parole sono state accolte da un nutrito applauso della folla, «una impresa di cui siamo orgogliosi».

Le macchine dei giornalisti e degli ospiti hanno poi dato l’assalto all’autostrada con le proprie automobili. Racconta Plinio Salerno sul quotidiano: «è stato una specie di gigantesco corteo che si è snodato per tre ore da Firenze a Roma: lungo quasi tutti i cavalcavia sotto cui passano velocemente le auto, folle di donne e bambini agitavano le mani salutando, mentre i sorpassi tra le macchine, smettendo per un momento la grinta tradizionale del duello, si svolgevano all’insegna di un’amichevole competizione. All’ultima stazione, la Roma Nord, poco prima del raccordo anulare, tutti hanno dovuto premere sui freni e accodarsi a una fila di macchine lunga mezzo chilometro. Il fiume si arrestava, il corteo aveva termine e le ombre della sera riportavano negli animi il greve presagio dell’imbuto di Roma, del traffico convulso e anonimo della capitale, dove, dopo una domenica di unità, gli italiani si ritrovavano a casa, quando con 60 minuti ormai si percorre mezza Italia».

Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 4 ottobre 2022.

Le cancellerie del tribunale civile ne sono piene. Basta aprire uno dei cassetti di viale Giulio Cesare ed ecco spuntare decine, centinaia, migliaia di cause presentate da chi ha avuto la sventura di avere contatti troppo ravvicinati con l'asfalto capitolino. Piedi fratturati, caviglie storte, bacini in frantumi. La casistica al capitolo marciapiedi è ampia. Piuttosto dolorosa a leggere le lamentele dei tumefatti.

Ma la risposta dei giudici è quasi sempre la stessa e si riassume così: «Sei caduto in una buca? Dovevi saperlo». Specie se il cratere è sotto casa. Oppure attorno al posto di lavoro. In burocratese si chiama «presunzione di conoscenza» - formula che qui, a Roma, ha le curiose sembianze di un accordo informale tra magistratura e la pubblica amministrazione a difesa delle casse del Campidoglio - ed è la croce degli avvocati romani.

Per aggirarla servono pazienza, testimonianze di ferro e materiale fotografico di ottima qualità. Uno scatto per dimostrare che lì dove l'assistito di turno si è infortunato c'era una buca. Un altro per immortalare il rattoppo (tardivo) piazzato dopo la caduta dal Comune o dal Municipio.

Solo così si può abbattere il muro eretto dal tribunale civile. Lo sa bene anche l'attrice Raffaella Lebboroni, a fine luglio caduta in una voragine trasteverina in via Bertani (strada di competenza municipale) che le è costata un'estate con un piede ingessato. Suo marito, il regista Francesco Bruni, giusto l'altro giorno si è sfogato contro la «presunzione di conoscenza» sui social. 

Il sunto del film-maker che ha portato sul grande schermo Scialla! e ora attende l'esordio della serie Tutto chiede salvezza su Netflix, è particolarmente efficace: «In pratica, se tu sei delle Prenestina e cadi in una buca a Trastevere, ok. Ma se sei di Trastevere, ciccio, lo dovresti sapere che lì c'è una buca. Come se poi le buche fossero elemento immutabile del paesaggio urbano».

Tornando alla caduta della compagna, parola alla protagonista: «Era fine luglio. Sono passata in lavanderia e mi sono allungata per via Bertani, una strada che non faccio mai per arrivare in piazza San Cosimato. Altro che presunzione di conoscenza. Quando il mio avvocato mi ha spiegato il significato di quella formula giurisprudenziale (valida in tutta Italia, ma a Roma particolarmente efficace se si conta il numero di buche disseminate in giro per la città, ndr) sono rimasta stupita. Ma comunque non mi rassegno. Faremo causa, anche perché la buca in cui sono caduta poi è stata coperta».

In quel cratere, anzi due, in quei giorni è caduta «anche un'altra signora», riprende Raffaella Lebboroni. Che poi ricorda: «Quando sono arrivata al pronto soccorso, c'era anche un turista francese che era appena caduto in una buca. Tornando a me, la situazione sia assurda. Non conosco a memoria le buche sotto casa? Forse il piede avrei dovuto rompermelo a Centocelle».

Anche qui, però, la giurisprudenza è vasta. E non propriamente amichevole. L'ultima sentenza alla voce buche è del 27 settembre ed estende il principio della «presunzione di conoscenza» al posto di lavoro. La storia è quella di una dipendente di un ufficio in via dei Gracchi, in Prati, scivolata sulla rampa per disabili che porta dalla carreggiata al marciapiede di via degli Scipioni, a due passi dalla fermata Ottaviano della metro A. 

I giudici sono impietosi: «Il sinistro si è verificato in ore diurne e in condizioni di visibilità. Né va sottaciuto che l'attrice (la persona che ha fatto causa, ndr) lavorava in zona e conosceva i luoghi teatro del sinistro e, più che verosimilmente, le condizioni del marciapiede» . Proprio così. Ecco «la presunzione di conoscenza» applicata.

Torino, parcheggio scaduto da un minuto: non evita la multa. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022.

L’automobilista presenta ricorso: «Comportamento illegittimo». Non concesso il tempo per pagare di nuovo. 

Sessanta secondi, un minuto. È il tempo trascorso dal momento in cui è scaduto il pagamento della sosta a quello in cui un controllore Gtt ha elevato la contravvenzione al presunto automobilista indisciplinato. Un minuto di tolleranza, nulla di più. Un po’ troppo poco, verrebbe da dire. Ed è quello che pensa anche il proprietario della vettura, che sessanta giorni dopo ha saputo suo malgrado di essere stato multato. Scoprendo, poi, che oltre al danno c’era anche la beffa: andando a riguardare i documenti di quel giorno, è emerso con assoluta chiarezza che non si era dimenticato di pagare il parcheggio. Piuttosto, di averlo rinnovato nel momento in cui era scaduto. Impiegando ben tre minuti. E in quel lasso di tempo il controllore lo ha sanzionato. Da qui il deposito di un ricorso che punta a evidenziare un comportamento forse non proprio tollerante da parte del controllore.

L’automobilista è un professionista torinese che nell’atto inviato al giudice di pace racconta che il 20 luglio 2022 ha parcheggiato la propria auto sotto l’ufficio per pochi minuti. E di aver regolarmente pagato la sosta — attraverso l’applicazione Easypark — dalle 12.36 alle 12.45. Quando il parcheggio è scaduto ha provveduto al rinnovo: dalle 12.48 alle 12.57. Sessanta giorni più tardi, quando ha ricevuto il verbale, ha scoperto di essere stato multato tra le 12.45 e le 12.48. Per la precisione, la contravvenzione era stata elevata alle 12.46. Insomma, non avrebbe neanche avuto il tempo di aprire l’applicazione e avviare la procedura per il pagamento.

«Emerge in maniera piuttosto chiara — spiega l’automobilista — che l’ausiliario Gtt si sia appostato dinnanzi al veicolo attendendo che la sosta pagata scadesse, affrettandosi poi a compilare il verbale». Una rigidità che secondo il professionista stride con le stesse disposizioni di Gtt, che prima della multa invita a concedere «all’utente un ragionevole tempo per l’attivazione del pagamento». «Per l’ausiliario Gtt il tempo ragionevole è stato di un minuto — si legge nel ricorso —. Appare del tutto evidente quanto tutto ciò sia scorretto». Peraltro, il verbale non sarebbe stato lasciato sul parabrezza o comunque l’automobilista non lo ha trovato. E questo ha comportato un aggravio di 16 euro per le spese di spedizione. Da qui la decisione di rivolgersi al giudice di pace, spiegando che l’obiettivo non è tanto risparmiare i 42 euro della contravvenzione (il contributo unificato per il ricorso costa 43), ma «acclarare l’illegittimità di quanto accaduto».

Decisione del giudice di pace di Lecce. Targa prova senza revisione, annullato verbale ad un manduriano. La Redazione de La Voce di Manduria domenica 2 ottobre 2022.

Con una recente sentenza il Giudice di Pace di Lecce ha accolto il ricorso di un automobilista manduriano che si era visto contestare dalla Polizia stradale di Otranto la circolazione del proprio veicolo, già immatricolato, con targa prova senza prescritta la revisione. Il proprietario del veicolo, in possesso di regolare autorizzazione alla circolazione con targa prova per esigenze connesse alla vendita e trasferimenti, si vedeva notificare anche la sospensione dalla circolazione e pertanto promuoveva opposizione con l'avvocato Antonio Eugenio Casto, ottenendo l'annullamento del provvedimento sanzionatorio.

"Si tratta di un importante precedente giurisprudenziale", afferma il legale manduriano Casto, "in una materia -quella della circolazione con targa prova dei veicoli immatricolati- lacunosa e che attende da tempo una riforma organica da parte del Legislatore. Nella fattispecie, Il Giudice ha ritenuto provata l'autorizzazione a circolare con targa prova e ciò, in assenza di prova contraria da parte dell'organo accertatore, ha consentito l'accoglimento dell'opposizione".

Viene quindi affermato un principio che, in attesa della auspicata novella legislativa, fa tirare un sospiro a coloro che utilizzano, per lavoro, lo strumento della targa prova con gli autoveicoli immatricolati.

Franco Bechis per "Verità e Affari" l'11 settembre 2022.

Valgono poco meno di 600 milioni di euro l’anno le multe per divieto di sosta, infrazioni al codice nella circolazione cittadina ed eccesso di velocità incassate dai comuni capoluogo di provincia. Sono in genere i più popolosi, ma sono pur sempre 109 sui 7.904 comuni complessivamente censiti in Italia.  

Probabile quindi che quella delle multe sia una vera e propria tassa sui cittadini italiani che vale sull’intero territorio nazionale ben più di un miliardo di euro l’anno. Anche se non tutti i sindaci utilizzano i vigili urbani e gli autovelox per mettere a posto le casse locali sempre più traballanti. C’è una grandissima differenza infatti fra caso e caso.

Il Palio delle multe

È Siena infatti il comune capoluogo che incassa di più dalle multe in rapporto alla popolazione residente: nel 2021 ha raggiunto la cifra record di 134,06 euro a cittadino residente. Nelle casse del sindaco della città del Palio sono finiti 5,2 milioni di euro di contravvenzioni tradizionali e 1,9 milioni di euro grazie agli autovelox e ai tutor piazzati in uscita dalla città. Al secondo posto della classifica italiana c’è Rieti, nel Lazio, che nel 2021 ha incassato dalle multe 97,01 euro ogni cittadino residente. 

In gran parte grazie agli autovelox, da cui sono arrivati 3,7 milioni di euro contro i 675 mila euro incassati con le contravvenzioni tradizionali. Terzo posto in classifica per Bologna, con 96,10 euro di multe incassate ogni residente. In questo caso sono i divieti di sosta e le infrazioni alla circolazione cittadina a spingere gli incassi: 32,8 milioni di euro contro i 4,8 arrivati dagli autovelox.

Sud cuore buono

Il fondo della classifica è quasi tutto nel sud Italia, a cui appartengono 9 comuni capoluogo fra i 10 che meno hanno incassato sulle multe. Il record negativo è di Agrigento, con 1,56 euro a cittadino e un incasso legato esclusivamente alle multe da divieto di sosta: 86.988,65 euro in un anno. Penultimo posto per Crotone, che ha incassato 1,88 euro a cittadino e nel podio negativo anche il comune di Enna che ha fatto entrare in cassa dalle multe poco di più: 2,57 euro a cittadino. Quartultimo posto per il solo comune fra gli ultimi dieci che non appartiene al Sud: quello di Latina, con 2,94 euro a cittadino nel 2021. 

Milano record, Roma insegue

Fra le città più grandi capoluogo di Regione appena sotto Bologna al quinto posto della classifica generale c’è Milano che complessivamente incassa dalle multe 74,87 euro ad abitante. All’ottavo posto della classifica generale c’è Genova con 61,70 euro di multe ad abitante. E subito dietro al nono posto arriva Firenze, con 57,92 euro ad abitante. 

Al tredicesimo posto Torino con 48,95 euro ad abitante, al 17° posto Bolzano con 44,72 euro ad abitante. Bassina in classifica la città più popolosa di Italia, Roma che è al 27° posto generale con 34,10 euro a residente. Davanti a Venezia (31°posto), Bari (36°), Cagliari (41°), Perugia (43°), Aosta (53°) e Palermo al 63° posto con 15,31 euro di incasso a cittadino. 

Sala re degli autovelox

Il record in cifra assoluta di incassi da autovelox è della Milano di Beppe Sala, a cui arrivano per gli eccessi di velocità 12,9 milioni di euro all’anno. Ma sono 22 i comuni capoluogo che comunque incassano da quello strumento non amatissimo dai cittadini (spesso messo a tradimento e origine di tanti ricorsi) più di un milione di euro l’anno.

Dietro Milano c’è Padova che mette in cassa 8,7 milioni di euro in un anno, e al terzo posto Genova con 6,2 milioni di euro da autovelox. Quarto posto per Torino con 5 milioni di euro e quinto per Bologna che abbiamo già visto sul podio della classifica nazionale complessiva sulle multe. Al sesto posto Roma con 4,6 milioni di euro incassati dagli autovelox nel 2021.  

Sembra che quando Roberto Gualtieri, sindaco della capitale da circa un anno, ha visto quel dato e capito che vale più o meno un terzo di quello di Milano, ha chiesto alla polizia di Roma capitale di usare di più gli autovelox anche improvvisati. La classifica prosegue poi dal settimo posto con Grosseto, Firenze, Rieti, Palermo, Modena, Venezia, Verona, Treviso, Siena, Ravenna, Rimini, Brescia, Livorno, Ancona, Pistoia e Terni tutte sopra il milione di euro.

Libertà di velocità

Sono 26 i comuni capoluogo che invece indicano zero incassi dagli autovelox. C’è da immaginare quindi che non ne abbiano nemmeno uno piazzato sul territorio o comunque nemmeno uno funzionante, perché è impossibile che tutti i cittadini siano così ligi da non superare mai in un anno i limiti. 

Ecco tutti i comuni “no-limit” dove non accade nulla anche a pigiare sull’acceleratore: Mantova, Pisa, Lecce, Matera, Bari, Trani, Perugia, Fermo, Ascoli Piceno, Salerno, Savona, Andria, Cosenza, Viterbo, Campobasso, Catanzaro, Isernia, Vibo Valentia, Lodi, Brindisi, Benevento, Biella, Nuoro, Enna, Crotone e Agrigento. Ma certo non sembrano terribili gli autovelox di Urbino (192,5 euro in un anno), di Vercelli (173 euro), di Macerata (621,5 euro) e di Ragusa (595,90 euro). Bassini rispetto alla popolazione residente anche gli incassi autovelox di Napoli (27.275 euro), Latina (2.745,4 euro), Cesena (3.839,95 euro) e Piacenza (8.295,04 euro).

Gli assenti

Sono otto i comuni capoluogo di provincia che non hanno trasmesso nel 2021 gli incassi delle multe al ministero dell’Interno: Imperia, Avellino, Caserta, La Spezia, Pesaro, Forlì, Reggio Calabria e L’Aquila. Erano obbligati alla trasparenza grazie a una norma che è stata una battaglia personale di un deputato di Forza Italia, Simone Baldelli, che voleva fare emergere con chiarezza come i sindaci spesso usano le multe come una tassa impropria per mettere a posto i propri guai di bilancio. 

Secondo quella legge gli otto disubbidienti dovrebbero essere sanzionati e soprattutto non potrebbero usare liberamente i loro incassi, trasferendo tutto al ministero. Tutti gli altri comuni nella documentazione in cui hanno trasmesso gli incassi hanno anche unito una tabella del loro riutilizzo. Non c’è grande differenza da comune a comune, perché quasi tutti hanno usato i fondi delle multe in gran parte per potenziare l’illuminazione pubblica e in qualche caso per aumentare i fondi con cui pagare premi e contratti integrativi agli agenti della polizia municipale che quelle sanzioni comminano.  

Una leva di cassa che verrà usata ancora di più nei prossimi mesi. Per due motivi essenziali: il primo che in uno degli ultimi decreti approvati dal governo di Mario Draghi si concede ai comuni la facoltà di aumentare del 10% le sanzioni per divieto di sosta e quelle per le violazioni del codice della strada. Il secondo motivo è la crisi energetica in corso, con le superbollette ormai arrivate alle amministrazioni municipali. I soldi in cassa non ci sono, i trasferimenti extra del governo non sono al momento previsti. Possiamo scommettere che gli autovelox in tutta Italia miracolosamente torneranno a funzionare anche dove non ne hanno mai visto uno. 

Cosa fare quando si prende una multa. Ci sono delle verifiche che ognuno può fare per comprendere come comportarsi nel caso in cui si è stati multati per violazione del codice della strada. Le cose da sapere. Giuditta Mosca il 9 Settembre 2022 su Il Giornale.

Cominciamo con le brutte notizie. Diverse risorse online promettono di riuscire a spiegare come verificare se si è stati oggetto di un’ammenda. Leggendo gli articoli, una volta giunti all’ultimo paragrafo, si scopre che non ci sarebbe modo. Ci sono però dei comportamenti appropriati da assumere dopo avere ricevuto la notifica della sanzione.

Un mezzo per sapere in anticipo se si è stati multati sarebbe quello di contattare direttamente le autorità ma può essere una missione impervia, soprattutto se non si ha certezza di quale sia il referente che ha riscontrato l’eventuale infrazione. Al di là di questo metodo, nei casi in cui la multa non sia stata consegnata dall’autorità brevi manu oppure posizionando la notifica sul parabrezza del veicolo, occorre attendere che venga recapitata per essere certi di avere preso una multa. E questo è il primo ostacolo, perché i tempi possono essere lunghi.

Infrazione e notifica

Dal momento in cui l’infrazione è stata commessa al momento in cui la notifica viene recapitata all’indirizzo di residenza dell’automobilista possono passare al massimo 90 giorni, così come disposto dall’articolo 201 del Codice della strada.

La legge prevede che le forze dell’ordine, per principio, debbano fermare il conducente e contestargli l’infrazione appena questa viene commessa. Ciò però non è sempre possibile, basti pensare agli autovelox non presidiati oppure ai frangenti nei quali viene riscontrata un’infrazione e il conducente non è presente.

La notifica tardiva, ovvero quella che viene recapitata oltre i 90 giorni dal momento in cui è stata commessa l’infrazione, estingue l’ammenda. Ciò significa che il pagamento della multa non può essere richiesto e il cittadino ha il pieno diritto di non pagarla.

C’è un approfondimento da fare riguardo al periodo di 90 giorni e al concetto di “accertamento dell’infrazione”. Il periodo di 90 giorni durante i quali la notifica deve essere consegnata decorre dal momento in cui l’infrazione è stata commessa e non da quando è stata accertata. Può sembrare una sottigliezza linguistica ma non lo è, considerando che la questione è stata affrontata dalla Corte di cassazione la quale, con la sentenza 7066/2018, ha definitivamente chiarito che i 90 giorni decorrono dal momento in cui l’infrazione è stata rivelata e non accertata. L’esempio più fulgido è quello degli autovelox che registrano l’infrazione nel momento stesso in cui è commessa ma può essere accertata anche giorni dopo, quando il personale addetto consulta i dati registrati del misuratore di velocità. I 90 giorni vanno quindi considerati partendo dal momento in cui l’autovelox ha registrato l’infrazione al giorno in cui la multa è stata spedita. Non fa stato il giorno in cui è stata ricevuta dal cittadino.

Occorre quindi che ognuno si sinceri che la notifica da cui è stato eventualmente raggiunto tenga conto di questo principio. Se la notifica è tardiva è possibile opporsi alla contravvenzione.

Cosa fare in caso di notifica tardiva

Il cittadino può impugnare la multa entro 30 giorni dal ricevimento, davanti al giudice di pace oppure entro 60 giorni davanti al prefetto.

L’impugnazione non sospende l’effetto dell’ammenda, tant’è che l’amministrazione che l’ha emessa può chiederne la riscossione forzata facendo intervenire l’Agenzia delle entrate-riscossioni. La multa perde la sua efficacia soltanto dopo l’annullamento deciso dal giudice o l’archiviazione disposta dal prefetto.

Occorre quindi sapere che, nel presentare il ricorso, è doveroso chiedere la sospensione provvisoria degli effetti dell’ammenda in modo che, in attesa della conclusione del procedimento, l’amministrazione non può pretendere il pagamento.

Se, prima di ricevere una notifica, non c’è modo di sapere se si è stati multati, c’è sempre il modo di avere pieno controllo dei rapporti di debito nei confronti dell’Agenzia delle entrate e, quindi, di sapere se è stata recapitata una notifica alla quale non si è prestata la dovuta attenzione. Occorre collegarsi all’apposita sezione del sito dell’Agenzia delle entrate e, dopo essersi autenticati mediante Spid o Cie, verificare se ci sono ammende il cui incasso è stato demandato all’ente di riscossione.

La tassa di passaggio.

Il problema della Sicilia? “Il traffico!” “Palermo ha un grande problema! Un problema intollerabile!”. “Quale?”. “Il traffico!”

Ricordate l’avvocato mafioso di “Jonny Stecchino” di e con Roberto Benigni?

Il film è del ’91, ma la battuta è sempre attuale

“Nel mondo siamo conosciuti anche per qualcosa di negativo, quelle che voi chiamate piaghe. Una terribile, e lei sa a cosa mi riferisco: l’Etna, il vulcano, ma è una bellezza naturale. Ma c’è un’altra cosa che nessuno riesce a risolvere, lei mi ha già capito. La Siccità. La terra brucia e sicca, una brutta cosa. Ma è la natura e non ci possiamo fare niente. Ma dove possiamo fare e non facciamo, perché in buona sostanza, purtroppo posiamo fare e non facciamo… Dov’è? È nella terza e più grave di queste piaghe che diffama la Sicilia e in particolare Palermo agli occhi del mondo. Eh… Lei ha già capito. È inutile che glielo dica. Mi vergogno a dirlo. È il traffico! Troppe macchine! È un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici famiglia contro famiglia, troppe macchine!”.

 E' esemplare la celebre scena del film “Non ci resta che piangere” con Roberto Benigni e Massimo Troisi. I due viaggiatori si trovavano ad attraversare il confine della Signoria fiorentina, e un integerrimo casellante continuava a domandare: “Chi siete? Da dove venite? Cosa portate? Dove andate?  Un Fiorino!” ad ogni minimo movimento andirivieni alla dogana. Così ad ogni movimento dei poveri viaggiatori (una volta gli cadeva un sacco di farina, un’altra volta perdevano qualcos’altro), venivano richiamati e bloccati. Fino a che Troisi, spazientito dalla bizzarra e petulante circostanza con un vivace “Vaffa” risolve la situazione proseguendo il cammino.

La tassa di Passaggio. Da tripadvisor.it il 2020.

saveriodb Lecce, Italia

Gentile Forum di Roseto Capo Spulico,

ho ricevuto una multa per eccesso di velocità sulla SS106 Jonica a Roseto.

Vivendo a Lecce, chiederei a qualcuno del luogo, se possibile, un'informazione:

- La multa è per aver superato la velocità media in un tratto di 1,77 Km, in direzione Ovest (da Metaponto verso Villapiana per intenderci). Per quel che ricordavo, su quel percorso l'unico controllo della velocità media era a Montegiordano, ma non a Roseto. A Roseto mi sembrava fosse segnalato dai cartelli solo un controllo 'istantaneo', non medio. Sbaglio io?

Vi ringrazio per l'informazione! Saverio Di Benedetto

hildita nikita Catanzaro, Italia

Ciao, purtroppo in quel tratto ci sono sistemati ben 4 autovelox ognuno di un comune diverso, oltre quello di Roseto c'è del comune di Amendolara, Spezzano Albanese e non ricordo se c'è anche Trebisacce o Rocca Imperiale ... in due km ho preso 4 multe nello stesso giorno e non credo lo dimenticherò più quel tratto

 

ECC.MO PREFETTO DI COSENZA

RICORSO IN OPPOSIZIONE A SANZIONE AMMINISTRATIVA

Ai sensi dell’art. 203 Codice della Strada

(D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285)

 

PER RICORRENTE GIANGRANDE ANTONIO nato ad Avetrana (Ta) il 02/06/1963 e residente ad Avetrana in Via A. Manzoni, 51, in proprio. C.F: GNGNTN63H02A514Q Tel. 3289163996 giangrande.antonio@alice.it

CONTRO RESISTENTE COMUNE DI ROSETO CAPO SPULICO, in persona del Sindaco pro tempore, per quest’atto domiciliato presso la sede del Comando di Polizia Locale sito in Roseto Capo Spulico, via G.B. Trebisacce snc..

* * *

Oggetto: Ricorso in opposizione al verbale di violazione del Codice della Strada n. 002703022

Protocollo 00002704/A/22

Cronologico 0027030221502703

del 13/06/2022 ore 07:44, emesso da FARINA BEATRICE appartenente al Comando di Polizia Locale del Comune di ROSETO CAPO SPULICO,

consegnato per la spedizione con raccomandata n. 787200279345 il 22/09/2022

notificato in data 27/09/2022

per la violazione dell’art.142 comma7 C.d.S., con cui si ingiunge il pagamento della somma totale di Euro 59,00, di cui euro 42,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento e in misura ridotta di Euro 46,40,00, di cui euro 29,4,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento.

Contestazione: in presenza di limite di velocità di 90 km ora, si procedeva a 96 km ora, effettiva 91 km ora (96 meno la riduzione del 5%, minimo 5 km, vedi l’art 1, dm 29 ottobre 1997 ai sensi dell’art. 345 comma 2, DPR 16/12/1992 n. 495, mod. dall’art. 197 DPR 16/06/1996 n. 610)

 

PREMESSO CHE LA SANZIONE IN FATTO

E’ INOPPORTUNA, IRRAGGIONEVOLE E FISCALE. La velocità contestata è di 1 km in più di quello consentito. Si procedeva a 96 km ora, meno il 5%, minimo 5 km di riduzione, 91 km ora. Consentito 90 chilometri. L’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 3698/2019 che non ammette giustificazioni è derogabile per inopportunità in presenza di uno stato di necessità.

E’ ANNULLABILE PER STATO DI NECESSITA’ E FORZA MAGGIORE ai sensi della sentenza n. 7198/2016 della Corte di Cassazione. Si procedeva a quella velocità per stato di necessità e forza maggiore, perché costretti ad inseguire l’auto dei carabinieri di Avetrana incaricati dell’accompagnamento coattivo del ricorrente per una testimonianza presso il Tribunale di Palmi, a pena di sanzioni penali.

PREMESSO CHE LA SANZIONE IN DIRITTO

E’ ANNULLABILE PERCHE’ NULLA ED ILLEGITTIMA PER TARDIVITA’.

L’infrazione è avvenuta il 13/06/2022.

Come in calce da verbale di contestazione e nota delle poste italiane:

La consegna per la spedizione del verbale di violazione alle Poste Italiane è avvenuta il 22/09/2022.

La consegna in mano dell’obbligato al pagamento della sanzione è avvenuta il 27/09/2022.

Il ritardo e di ben 9 giorni oltre i 90 giorni di notifica, senza tener conto che luglio ed agosto hanno 31 giorni: infrazione il 13 giugno; spedizione del verbale il 22 settembre.

La notifica quindi è nulla, perché tardiva, e nulla si deve all’organo contestatore a mo’ di sanzione.  Dal momento in cui l’infrazione è stata commessa al momento in cui la notifica viene recapitata all’indirizzo di residenza dell’automobilista possono passare al massimo 90 giorni, così come disposto dall’articolo 201 del Codice della strada. Il periodo di 90 giorni durante i quali la notifica deve essere consegnata decorre dal momento in cui l’infrazione è stata commessa e non da quando è stata accertata. Può sembrare una sottigliezza linguistica ma non lo è, considerando che la questione è stata affrontata dalla Corte di cassazione la quale, con la sentenza 7066/2018, Corte di Cassazione Civile sez. VI, ord. 21 marzo 2018, n. 7066, che ha definitivamente chiarito che i 90 giorni decorrono dal momento in cui l’infrazione è stata rivelata e non accertata.

Tutto ciò premesso e considerato, il sottoscritto ricorrente

CHIEDE

Voglia l’Ecc.mo Prefetto adito, contrariis reiectis:

Dichiarare l’annullamento del verbale di violazione del Codice della Strada n. 002703022

Protocollo 00002704/A/22

Cronologico 0027030221502703

del 13/06/2022 ore 07:44, emesso da FARINA BEATRICE appartenente al Comando di Polizia Locale del Comune di ROSETO CAPO SPULICO, consegnato per la spedizione il 22/09/2022 e notificato in data 27/09/2022 per la violazione dell’art.142 comma7 C.d.S., con cui si ingiunge il pagamento della somma totale di Euro 59,00, di cui euro 42,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento.

In subordine in caso di rigetto del ricorso, disporre il mantenimento della sanzione al minimo edittale, in misura ridotta di Euro 46,40,00, di cui euro 29,4,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento.

In ogni caso, ordinare la sospensione provvisoria degli effetti della sanzione amministrativa in modo che, in attesa della conclusione del procedimento, l’amministrazione che l’ha emessa non possa pretendere il pagamento né possa chiederne la riscossione forzata facendo intervenire l’Agenzia delle entrate-riscossioni. E data la oggettiva nullità del verbale, per omissione o abuso, l’amministrazione intimante possa incorrere in una violazione penale.

Si producono i seguenti documenti in copia:

Copia del ricorso firmato 3 pagg.

Verbale di violazione del C.d.S: 2 pagg.

Intimazione di testimonianza coattiva.

Nota delle Poste Italiane.

Documento di identità

Con osservanza. Avetrana, lì

Firma del ricorrente _________________

Si prega di inviare qualsiasi comunicazione relativa al presente procedimento ai seguenti recapiti:

Via A. Manzoni 51 Avetrana Ta.

 

Il caso. Agenzia delle Entrate Riscossione, arriva da Napoli la sentenza storica. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2022 

Arriva da Napoli un’importante sentenza, che ha pochissimi precedenti: Agenzia delle Entrate Riscossione è stata condannata al pagamento delle spese legali nonché al risarcimento delle spese sostenute da un cittadino vessato. Gaetano Sorrentino, cittadino napoletano, si è rivolto ad Aidacon consumatori e ha ottenuto giustizia: nel lontano 2015 aveva ricevuto un verbale per violazione del codice della strada, ma in prima istanza la multa gli era stata annullata.

Nonostante ciò, nel 2020 riceveva la notifica, da parte di Agenzia delle Entrate Riscossione, di una cartella esattoriale, avente ad oggetto proprio il predetto verbale annullato con sentenza, a mezzo del quale gli veniva richiesto l’immediato pagamento della multa, naturalmente raddoppiata, grazie agli interessi ed alle maggiorazioni. Qualche settimana fa il Giudice di Pace di Napoli, Sez, IV giudice Settimio Cocozza, con sentenza n. 29178/2022, ha dichiarato illegittima la richiesta di pagamento notificata da Agenzia delle Entrate Riscossione, condannando quest’ultima, al pagamento delle spese legali, nonché al risarcimento dei danni subiti dall’automobilista.

“Siamo di fronte a una sentenza di estrema importanza – ha detto Carlo Claps, presidente Aidacon – perché rappresenta un precedente per migliaia di contribuenti vessati dalla notifica di cartelle esattoriali illegittime. Il Giudice ha condannato Agenzia delle Entrate Riscossione per responsabilità aggravata: la società di riscossione non solo aveva richiesto il pagamento di una sanzione annullata, ma aveva insistito nel resistere in giudizio, nonostante una precedente sentenza sfavorevole”.

L’Italia degli autovelox. ‘Fare cassa’ e ‘Tassa di passaggio’. Da aduc.it il 13 giugno 2022.

A novembre il decreto Infrastrutture (Dl 121/2021) ha imposto la pubblicazione sul web dei rendiconti comunali da proventi di multe. Il quotidiano ILSOLE24ORE ha spulciato i dati, ed ha rilevato cose interessanti. Soprattutto lo “zero” che si legge negli incassi 2021 da multe diverse da quelle per eccesso di velocità in luoghi come Roseto Capo Spulico (Cosenza) e Melpignano (Lecce). Quest’ultimo Comune ha rivitalizzato le entrate incassando 4,98 milioni e Roseto 728mila euro (che si aggiungono agli incassi delle vicine Montegiordano, Rocca Imperiale e Trebisacce). Dai dati del ministero si evince che qui i vigili non hanno visto nemmeno una cintura slacciata, un guidatore parlare al cellulare, parcheggiare in modo vietato, prendersi una precedenza non dovuta o qualsiasi altra infrazione stradale.

A Colle Santa Lucia (BL) succede lo stesso. Idem per la Provincia di Brescia, che pare non avere altre forme di vigilanza su strada e così risulta non incassare un euro nemmeno da chi è uscito fuori corsia rovinando un guard-rail.

Il quotidiano economico si chiede se, per esempio, i mutui che a Milano vengono ripagati anche con una parte dei cospicui incassi delle multe siano davvero attinenti alla sicurezza stradale. 

“Tassa di passaggio” per locali o turisti che in alcune strade sono poco ligi al rispetto di limiti di velocità che, chiunque si sposta, sa che spesso sono un po’ troppo risicati rispetto a tipo di strade e di veicoli. Le norme risalgono a quando certi asfalti e certe caratteristiche infrastrutturali erano molto più precarie di oggi, mentre le auto più diffuse erano tipo la 500 Fiat con le portiere incernierate posteriormente che, per passare da una marcia all’altra, occorreva fare la doppietta, oltre che quando si andava a 90Kmh tremava tutta la carrozzeria.

Il mondo è cambiato, ma non le norme per far rispettare i limiti di velocità. E siccome alcuni autovelox erano proprio “indecenti” per dove erano piazzati, a luglio del 2020 fa è stata modificata la legge per consentire l’uso di macchinette automatiche ovunque, trasformando in regolarità le precedenti irregolarità. 

Nel nostro Paese, quando ci sono i problemi, invece di affrontarli, spesso si fa come la polvere che finisce sotto il tappeto. A questo aggiungiamo che oltre “per fare cassa”, gli autovelox sono anche “tassa di passaggio”. 

Nel frattempo, sicurezza a go-go e crescita della sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, con conseguente invenzione e applicazione di marchingegni per “fottere” o “non farsi fottere”.

Autovelox, strade come bancomat: così il comune incassa la «tassa» di passaggio. La multa per eccesso di velocità è un must: in alcuni piccoli centri non compaiono introiti da infrazioni diverse. Maurizio Caprino su Il Sole 24 Ore il 14 giugno 2022

Belle le vacanze al Sud. Ma non di rado hanno un costo supplementare: le multe per eccesso di velocità. Magari giuridicamente sacrosante, ma comminate su percorsi “non a rischio” da Comuni per i quali la sicurezza stradale si riduce nel piazzare autovelox sulla superstrada dalla quale hanno la fortuna di essere lambiti.

Strade come bancomat

In pratica, strade come bancomat per le casse comunali. Vi pare la stessa storia che sentite da anni? Sì, però adesso ci sono prove ben circostanziate: sul sito web del ministero dell’Interno sono comparsi i rendiconti dei proventi delle multe, che i Comuni erano già obbligati a trasmettere. 

Non tutti lo facevano e, in ogni caso, erano carte che restavano nei cassetti ministeriali. A novembre il decreto Infrastrutture (Dl 121/2021) ne ha imposto la pubblicazione sul web. Il termine è scaduto il 31 maggio e stavolta quasi nessuno ha sgarrato: sono stati pochi i Comuni che non hanno inviato i dati.

Tra essi, due perle delle vacanze “caraibiche” al Sud: le limitrofe Leporano e Pulsano (Taranto), dove da cinque anni sono spuntati rilevatori fissi in quelli che, stando alla segnaletica (o a quella che come tale vorrebbe presentarsi all’occhio dei profani), sarebbero centri abitati, quindi su strade dove all’epoca era vietatissimo usare apparecchi completamente automatici.

Quella più «estiva» è lo «zero» che si legge negli incassi 2021 da multe diverse da quelle per eccesso di velocità in luoghi come Roseto Capo Spulico (Cosenza) e Melpignano (Lecce). Guardacaso, il loro territorio è attraversato rispettivamente dalle statali 106 Jonica e 16 Adriatica, con tratti moderni a doppia carreggiata e poco trafficati, dove tenere i 90 all’ora non è facile e negli ultimi anni sono spuntati rilevatori di velocità (anche media, a Roseto) poco visibili.

Incassi milionari e sospetti

Così Melpignano ha rivitalizzato le entrate incassando 4,98 milioni (li avranno usati anche per l’organizzazione della famosa Notte della Taranta?) e Roseto 728mila euro (che si aggiungono agli incassi delle vicine Montegiordano, Rocca Imperiale - già note alle cronache - e Trebisacce).

Stando a quanto dichiarato al ministero, qui i vigili non hanno visto nemmeno una cintura slacciata o un guidatore che parlava al cellulare, parcheggiava in modo vietato, si prendeva una precedenza non dovuta o commetteva qualsiasi altra infrazione stradale. Certo, in casi come Melpignano il traffico urbano è scarso e le strade sono incredibilmente larghe rispetto alla media dei piccoli centri italiani. Ma pare incredibile che i vigili non rilevino infrazioni nemmeno quando sono chiamati a rilevare un incidente. Eppure sono le Polizie locali ad accorrere su oltre il 60% dei sinistri in cui interviene un corpo di polizia.

Così ai più maliziosi viene da pensare che non si voglia multare il parente o l’amico: guardacaso, sulle strade comunali circolano in prevalenza cittadini del luogo, mica turisti o forestieri che viaggiano per lavoro.

Ma i numeri possono nascondere anche altre spiegazioni. Ad esempio, può accadere che, per somma sfortuna, ci siano giudici di pace che annullano in modo seriale tutte le multe in cui non c’è di mezzo un autovelox. Oppure ancora, che la Ragioneria comunale si sia sbagliata nell’inviare i dati al Viminale.

Storie di ordinaria indolenza meridionale? Neanche tanto: a Colle Santa Lucia (nel Bellunese, luogo di passaggio verso il mitico passo del Pordoi) succede lo stesso: sulla strada che porta al passo Giau, c’è un rilevatore che per qualche guidatore è anch’esso mitico.

E che dire della Provincia di Brescia? Ha una rete di misuratori di velocità anche media ma pare non avere altre forme di vigilanza su strada. Così risulta non incassare un euro nemmeno da chi è uscito fuori strada rovinando un guard-rail (caso in cui scatta in automatico una multa di 42 euro per «danneggiamento di opere o piantagioni», articolo 15 del Codice della strada) in un incidente rilevato dalla Polizia provinciale.

I tanti trucchetti possibili

Potremmo andare avanti, magari allargando lo sguardo ad altre prassi disinvolte, come quelle di Cerignola (Foggia) che abbiamo già descritto in passato.

O chiedendoci se i mutui che a Milano vengono ripagati anche con una parte dei cospicui incassi delle multe siano davvero attinenti alla sicurezza stradale.

O ricordando a noi stessi quanto è difficile trovare nelle carte degli enti locali traccia di quanto degli incassi va ai noleggiatori di rilevatori di infrazioni: per legge, i compensi devono essere certi, fissi e trasparenti, ma ci sono modi opachi per renderli di fatto commisurati al numero di multe comminate.

O andando a incrociare i dati degli incassi con quelli Istat sul numero di morti per incidenti stradali in ciascun Comune.

Carenze all’italiana

Ma non sarebbe giusto andare avanti a sparare sui Comuni senza tenere conto che l’Italia è molto lunga e varia. Ben diversa da come la descrivono certi politici e addetti ai lavori che sul “populismo anti-multe” hanno costruito una carriera. Citando un mare di dati contro i sindaci di turno ma senza mai spiegare bene come risolverebbero i problemi della sicurezza stradale e del traffico se ad amministrare e dirigere fossero loro.

Così va detto che, a forza di tagli ai trasferimenti di soldi dallo Stato, non pochi Comuni non hanno risorse per tenersi a galla. Anche se spesso anche sprechi di spesa e inefficienze della riscossione fanno la loro parte.

Va pure riconosciuto che a livello di sicurezza qualcosa è migliorato negli ultimi due decenni, come dimostrano le statistiche su incidenti e mortalità (anche se resta tantissimo da fare e molti progressi sono merito dell’evoluzione dei veicoli). L’ultima novità è che a breve anche i corpi di polizia locale riusciranno a trasmettere in tempo reale i dati sui tanti incidenti che rilevano. Così, se non altro, l’Italia avrà statistiche più tempestive e complete.

Inoltre non si può dimenticare che, qua e là, c’è chi fa il proprio dovere e cerca davvero di migliorare la sicurezza. Magari con risorse scarse. O senza avere adeguate conoscenze, come si vede soprattutto negli errori nella segnaletica, che è tanto poco credibile da non essere rispettata né ritenuta utile da troppi per far pensare che certe infrazioni siano solo colpa di chi guida.

Tutto questo ammettendo che negli organici degli enti locali ci sia davvero qualcuno: alcuni corpi di polizia locale non hanno nemmeno un vigile e si affidano a collaborazioni con i Comuni vicini. Ciò può contribuire a spiegare anche il motivo per cui le infrazioni diverse da quelle rilevate con apparecchi automatici non sono punite.

Carenze per le quali non si vede all’orizzonte un serio piano di riqualificazione e rimpolpamento degli organi di vigilanza: si punta tutto sulla tecnologia, in attesa che la guida semiautonoma e autonoma si diffondano, prima limitando e poi facendo quasi sparire le infrazioni.

Se gli autovelox salvano i bilanci dei Comuni calabresi. MASSIMO CLAUSI su Il Quotidiano del Sud il 13 giugno 2022.

COSENZA – Non è vero che i comuni calabresi sono sempre ultimi per tutti. C’è un primato che forse ci viene invidiato dai sindaci di tutta Italia ovvero gli incassi da autovelox. Su questo fronte in Calabria siamo nella top ten nazionale. Nella classifica stilata da OpenPolis, infatti, nelle prime dieci posizioni dei comuni che incassano di più da multe e sanzioni, tre sono calabresi. Il primato assoluto spetta al piccolo comune di Roseto Capo Spulico, secondo in Italia in questa specialissima graduatoria. Poi troviamo Montegiordano al sesto posto ed infine Rocca Imperiale al nono.

Insomma si tratta di comuni costieri che sono attraversati dalla famigerata Ss 106, ormai divenuta celeberrima come strada della morte e nessun autovelox è riuscito a limitare la perdita di vite umane. Il vero problema è che intorno a questa strada si è allegramente costruito, piccoli paesi si sono espansi e questo comporta costanti e repentini cambi ai limiti di velocità che in alcuni tratti diventano davvero ridicoli per una Strada statale. Così attraversare il tratto dell’alto jonio per arrivare in Puglia diventa una vera e propria corsa ad ostacoli. Un bell’incentivo per i turisti non c’è che dire. Da qui un ulteriore necessità di completare finalmente i lavori di questa arteria e mettere in sicurezza tutto il tratto calabrese.

Rispetto all’indagine dobbiamo fare due precisazioni metodologiche. La prima è che i dati sono riferiti al 2019, ma non dovrebbero discostarsi di troppo negli ultimi due anni. Il secondo appunto è che OpenPolis registra solo le somme inserite dai sindaci in bilancio che non è detto corrispondano poi alle somme ufficialmente incassate. Bisogna infatti considerare la morosità e il pagamento così come la tendenza di alcuni sindaci di coprire eventuali buchi di bilancio con questo tipo di entrate. In effetti il vero nodo è capire come vengono spesi questi introiti, se ad esempio vanno a coprire le spese per interventi di manutenzione o migliorativi della vabilità. Su questo non c’è grande trasparenza da parte delle amministrazioni comunali.

abbiamo pubblicato la classifica dei 60 comuni calabresi che incassano di più da multe e sanzioni stradali. Al primo posto ovviamente campeggia Roseto Capo Spulico, piccolo centro della provincia di Cosenza di circa 1900 abitanti che ha messo a bilancio quasi 2 milioni e mezzo di euro (2.332.897,35) con un coefficiente di 1.247 euro pro capite di entrate da multe stradali. Al secondo posto troviamo un altro piccolo centro della provincia di Cosenza, Montegiordano: 1.270.000,00 di entrate in un anno di multe, sanzioni e ammende e 760 euro di reddito pro capite per cittadino. Ci spostiamo nel Catanzarese per parlare della terza in classifica, Simeri Cricri che, nel 2020, ha rimpinguato le casse comunali con oltre 2 milioni di euro grazie alle infrazioni al codice della strada.

Per trovare il primo capoluogo bisogna scivolare fino al 15esimo posto, occupato da Catanzaro con 1.192.717,37, poi al 30esimo Crotone con un “misero” bottino di 157.284,14. I dati degli altri tre capoluoghi di provincia – Cosenza, Reggio Calabria e Vibo Valentia – non sono disponibili.

Roseto Capo Spulico regina delle multe: è il comune calabrese che incassa di più. Il piccolo centro dell'Alto Ionio cosentino è al primo posto in regione e al quarto in Italia nella classifica di Openpolis: nel 2020 ha messo a bilancio quasi 2 milioni e mezzo di euro. Redazione su cosenzachannel.it il 12 Giugno 2022  

La classifica di Openpolis si riferisce al 2020, ma non per questo fa meno impressione leggere quanto incassino i (piccoli) comuni in Calabria grazie a multe e ammende ogni anno. E non parliamo di capoluoghi di province o città dalle dimensioni medio-grandi. Ai primi posti della classifica, infatti, si posizionano comuni di piccole dimensioni, ma con un coefficiente tra multe ed entrata pro capite per abitante molto alto.

Al primo posto in Calabria (quarta in assoluto in Italia), infatti, troviamo Roseto Capo Spulico, piccolo centro della provincia di Cosenza di circa 1900 abitanti che nel 2020 ha messo a bilancio quasi 2 milioni e mezzo di euro (2.332.897,35) con un coefficiente di 1.247 euro pro capite.

Nel 2019, Roseto Capo Spulico si piazzava addirittura al secondo posto in Italia, dietro solo a Colle Santa Lucia in Veneto: tre anni fa il piccolo comune calabrese aveva fatto multe ed emesso ammende per quasi 3 milioni di euro (2.876.371,27) euro per un’entrata pro capite di 1.501,24 euro per cittadino.

Lo sbocco sulla famigerata 106 di certo avrà aiutato a rimpolpare le casse comunali con multe salatissime comminate agli incauti automobilisti.

Al secondo posto troviamo un altro piccolo centro della provincia di Cosenza, Montegiordano: 1.270.000,00 di entrate in un anno di multe, sanzioni e ammende e 760 euro di reddito pro capite per cittadino.

Ci spostiamo nel Catanzarese per parlare della terza in classifica, Simeri Cricri che, nel 2020, ha rimpinguato le casse comunali con oltre 2 milioni di euro grazie alle infrazioni al codice della strada.

Per trovare il primo capoluogo bisogna scivolare fino al 15esimo posto, occupato da Catanzaro con 1.192.717,37, poi al 30esimo Crotone con un “misero” bottino di 157.284,14. I dati degli altri tre capoluoghi di provincia – Cosenza, Reggio Calabria e Vibo Valentia – non sono disponibili.

Statale 106, la gallina dalle uova d’oro: nell’alto Jonio ci sono tre comuni (su tutti) che “fanno fortuna” con gli autovelox.  I dati di Openpolis relativi alle multe per numero di abitanti mette in fila Roseto Capo Spulico, Montegiordano e Rocca Imperiale tra i 10 comuni che incassano di più in tutta Italia. Ma è davvero una panacea per gli Enti locali? Da ecodellojonio.it il 13 giugno 2022.

CORIGLIANO-ROSSANO – Chi trova un metro di strada a lunga ad alta intensità di traffico per piazzare un autovelox, trova un tesoro. Se poi quella strada è a doppia carreggiata e 4 corsie, con un traffico intenso che attraversa per due o tre kilometri un territorio comunale, allora il tesoro diventa inestimabile. Almeno questo sembra quello che accade in Calabria e principalmente nell’area dell’alto Jonio cosentino. Dove enti locali di piccole dimensioni potrebbero chiudere i loro bilanci solo con i proventi delle multe e senza nemmeno la necessità di chiedere sacrifici ai cittadini. 

La classifica stilata da Openpolis (la puoi consultare qui) relativa alle entrate di cassa per multe, sanzioni e ammende in termini assoluti e pro capite, in tutti i comuni italiani (annualità 2019) non lascia spazio a fraintendimenti. Dicevamo, in Calabria ci sono tre comuni che spiccano nella stretta classifica dei 10 enti locali con maggiori introiti per multe sanzioni e ammende. Sono tutti nell’area dell’alto Jonio lì dove passa la nuova Statale 106 che per queste realtà sembra (il dubbio è d’obbligo e vi diremo il perché) una vera gallina dalle uova d’oro! Ovviamente non sono solo le multe stradali ad influire su questa statistica. Ma sicuramente hanno il loro peso.

Al primo posto di questa speciale classifica troviamo Colle Santa Lucia, un piccolissimo comune di 335 abitanti in provincia di Belluno, che – pensate un po’ – nel 2019 è riuscito ad emettere ruoli di riscossione per multe, sanzioni e ammende pari a quasi 530mila euro: per una entrata pro capite di quasi 1.500 euro a cittadino.

Al secondo posto della classifica italiana, invece, troviamo il primo dei tre comuni calabresi. Si tratta di Roseto Capo Spulico. La cittadina che custodisce il meraviglioso castello federiciano in riva alla scogliera e rinomata località balneare Bandiera Blu, nel 2019 ha fatto multe ed emesso ammende addirittura per 2.876.371,27 euro per un’entrata pro capite di 1.501,24 euro per cittadino. Questo è il totale delle sanzioni emesse dagli uffici diretti dall’Amministrazione comunale guidata dalla sindaca Rosanna Mazzia. Immaginiamo che non tutte siano per infrazioni stradali ma quei 4 km di Statale 106 a 4 corsie che attraversano il territorio rosetano hanno il loro “bel” tutor, con limite a 90km/h (su una strada che potrebbe supportare tranquillamente i 110km/h).

Scivolando nella classifica dei primi dieci comuni “multosi” stilata da Openpolis, al quinto e all’ottavo posto, troviamo rispettivamente Montegiordano e Rocca Imperiale.

Montegiordano ha emesso ruoli per 1.365.407,55 euro con un’entrata pro capite di 880,36 euro a cittadino mentre Rocca Imperiale ha emesso ruoli per 2.441.461,15 euro con un’entrata pro capite di 737,16 euro a cittadino. Tutti e due con un bell’affaccio tutor e autovelox con vista statale 106.

Scorrendo la graduatoria ci sono, poi, gli altri comuni calabresi e quelli più alti in classifica sono tutti quelli che hanno uno sbocco sulla fatidica Statale 106. Ci sono, in ordine, Villapiana (ruoli emessi per 2.432.218,82 euro / 442,22 euro pro capite), Melissa (559.032,43 euro / 164,52 euro pro capite), Trebisacce (1.381.974,09 euro / 155,14 euro pro capite), Pietrapaola (79.604 euro / 74,68 euro pro capite), Squillace (199.855,74 euro / 55,07 euro pro capite), Crosia (432.628,13 euro / 43,42 euro pro capite), Calopezzati (55.000 euro / 41,11 euro pro capite) e più giù tutti gli altri comuni della fascia ionica con “presunti introiti” inferiori a 40 euro pro capite.

Col tempo, però, enti locali che avevano fatto le fortune con autovelox e tutor sono andati lentamente a degradare in classifica. È il caso di Crosia che fino a qualche anno fa era in testa alla graduatoria e oggi, invece, si trova al 493 posto, o della stessa Cariati “nobile regina degli autovelox” decaduta al 3.350° posto in classifica.

Tutto, però, appare relativo. Al netto delle classifiche che restituiscono sempre numeri roboanti e inaspettati, abbiamo evitato di parlarvi di incassi. Già, perché se è vero che Roseto Capo Spulico oggi risulta essere addirittura il secondo comune italiano per multe, verbali ed emissioni di contravvenzioni con i suoi quasi 3 milioni di “tesoretto” per un comune che conta appena 1900 abitanti, è altrettanto vero che questa è la cifra dei ruoli emessi. Quindi parliamo delle multe accertate, che per via delle regole delle finanze a cui sono sottoposti gli enti pubblici, vanno inserite in bilancio.

Ma i comuni alla fine riescono a riscuotere tutti i ruoli emessi? La media è del 10%: su 100 multe staccate se ne riescono a riscuotere appena 10. E questo sta mandando in crisi le casse degli enti locali. Che proprio a causa di questa profonda discrasia che c’è tra ruoli emessi e ruoli riscossi non riescono più a chiudere i bilanci e, spesso, a dichiarare dissesto. Anche perché 3 milioni di euro di sole contravvenzioni da incassare e inserire in bilancio, potrebbero trasformare un borgo come Roseto Capo Spulico nel Principato di Monaco. Ma sappiamo tutti che così non è.

Autore: Marco Lefosse

Classe 1982, è schietto, Idealista e padre innamorato. Giornalista pubblicista dal 2011. Appena diciottenne scrive alcuni contributi sulla giovane destra calabrese per Linea e per i settimanali il Borghese e lo Stato. A gennaio del 2004 inizia a muovere i passi nei quotidiani regionali. Collabora con il Quotidiano della Calabria. Nel 2006 accoglie con entusiasmo l’invito dell’allora direttore de La Provincia, Genevieve Makaping, ad entrare nella squadra della redazione ionica. Nel 2008 scrive per Calabria Ora. Nell’aprile 2018 entra a far parte della redazione di LaC come corrispondente per i territori dell’alto Jonio calabrese. Dall’1 giugno del 2020, accoglie con piacere ed entusiasmo l’invito dell’editore di guidare l’Eco Dello Jonio, prestigioso canale di informazione della Sibaritide, con una sfida: rigenerare con nuova linfa ed entusiasmo un prodotto editoriale già di per sé alto e importante, continuando a raccontare il territorio senza filtri e sempre dalla parte della gente.

Roseto Capo Spulico, autovelox scambia autobus per camion: “comune incassa migliaia di multe illecite”. Da quicosenza.it il 10 Febbraio 2020

Riceviamo e pubblichiamo

FAISA CISAL Autolinee Private Siciliane: “I conducenti sono costretti a giustificarsi con l’azienda per un’infrazione di fatto non commessa e se non si accorgono dell’anomalia sono costretti a pagare un verbale illecito, con conseguente riduzione dei punti sulla patente” 

ROSETO CAPO SPULICO (CS) – “Migliaia di euro illecitamente incassati dal comune di Roseto Capo Spulico, autovelox scambia autobus per camion considerando superamento di velocità 76 KM mente la velocità massima non sanzionabile è di 86 km; nonostante tale anomalia (evidente dal rilievo fotografico), viene redatto e notificato il verbale. Ci risulta che molti sono stati pagati e decurtati i punti, solo adesso che abbiamo notato tale anomalia abbiamo provveduto ad informare i competenti uffici, chiedendo l’annullamento in autotela di tutti i verbali illeciti, ciò anche per mettere al riparo il comune da una pioggia di ricorsi e/o querele per truffa”. Questa la denuncia da parte di Ugo Sergio Crisafulli, coordinatore regionale FAISA CISAL Autolinee Private Siciliane. Il sindacato sottolinea, inoltre, che “decine di autobus siciliani transitano giorno e notte sulla 106 per l’espletamento delle linee da e per la Puglia, oltre a tanti bus di noleggio.” Fatto che accresce notevolmente il numero di veicoli sanzionabili dall’autovelox in modo illecito. 

Nella lettera di denuncia si legge:

“E stato riferito alla scrivente organizzazione sindacale, che l’apparecchio di rilevazione di velocità T – EXPEED V 2.0 installato dal Comune di Roseto, lungo l’arteria in oggetto indicata, presenta delle evidenti anomalie, che procurano un indebito guadagno alle casse comunali, onerando i conducenti di autobus a presentare ricorsi per l’annullamento degli anomali verbali per superamento dei limiti di velocità loro notificati. Nello specifico, risulta che il rilevatore non riconosce la sagoma dei pullman la cui velocità massima e pari a 80/kh, considerandoli autoveicolo trasporto cose con massa complessiva a pieno carico superiore a 3,5 t, la cui velocità massima è pari a 70 Km/h. Nonostante tale anomalia sia in evidente contrasto tra la foto ove si evince chiaramente la sagoma di un autobus è la velocità anomala rilevata non in linea con la velocità massima imposta dall’ente proprietario, si procede alla notifica del verbale, che le aziende, ignare di tale anomalia, pagano entro 5 giorni, salvo poi contestare l’irregolarità al conducente, procedendo all’addebito di quanto versato al Comune di Roseto Capo Spulico. 

I conducenti sono costretti a giustificarsi con l’azienda per un’infrazione di fatto non commessa e se non si accorgono dell’anomalia (come spesso accaduto) sono costretti a pagare un verbale illecito e ottemperare alla richiesta dei dati per la regolarizzazione della sanzione accessoria con conseguente riduzione dei punti sulla patente. Per quanto sopra si chiede di conoscere i motivi per cui l’apparecchiatura omologata non riconosce la sagoma dell’autobus e il perché, gli addetti alla redazione dei verbali, non procedono all’annullamento d’ufficio delle multe stante l’evidente contrasto tra la foto del mezzo è la velocità contestata, si chiede di procedere all’annullamento in autotutela dell’ente di tutte le multe nonché alla restituzione delle somme indebitamente incassate. Con riserva di attivare tutte le iniziative a tutela dei conducenti Nostri associati, si rimane in attesa di un sollecito riscontro della presente.”

Autovelox Roseto Capo Spulico, il Comune risponde: “apparecchi validi e a norma”. Da quicosenza.it il 14 Febbraio 2020

Riceviamo e pubblichiamo 

“Si tratta di 5 verbali risalenti alla fine dell’anno 2019 aventi ad oggetto l’errore in questione, frutto di un mero errore umano. Tutto ciò, dunque, fornisce un’immagine completamente distorta della realtà” 

ROSETO CAPO SPULICO (CS) – Il comune di Roseto Capo Spulico risponde con le dovute precisazioni alla denuncia effettuata, nei giorni scorsi, dal coordinatore regionale FAISA CISAL Autolinee private Siciliane, riguardo la validità del sistema di rilevamento della velocità installato lungo l’arteria stradale SS 106 di questo comune.

“L’apparecchio di rilevazione – si legge nella nota del sindaco Rosanna Mazzia e del comandante della polizia municipale Antonio Spina – di velocità T – EXPEED V 2.0 viene regolarmente sottoposto alle verifiche prescritte dalla normativa vigente. Gli accertamenti delle infrazioni al codice della strada vengono effettuati in maniera attenta e scrupolosa dal’ufficio di polizia locale al fine di garantire agli utenti della strada una sempre maggiore sicurezza e di prevenire comportamenti pericolosi e irrispettosi della legge. Ci preme sottolineare come la fattispecie segnalata sia frutto di un mero errore umano, che rientra comunque in una casistica assai contenuta, per come confermato dalle verifiche ed accertamenti richiesti ed effettuati da parte del comando di polizia municipale.

Si tratta, infatti, di 5 verbali risalenti alla fine dell’anno 2019 aventi ad oggetto l’errore in questione, nell’ambito di una casistica analoga che, comunque, non supera lo 0,16% circa rispetto al totale delle sanzioni  elevate dal dispositivo di controllo della velocità. Per questi casi si sta provvedendo perciò all’annullamento in autotutela delle suddette sanzioni, nonchè alla restituzione delle somme eventualmente pagate.

Preme sottolineare come la segnalazione di un mero inconveniente sia pervenuta all’attenzione di questo Ente attraverso una nota diffusa dagli organi di stampa, nella quale in modo roboante si grida allo scandalo, alla truffa e all’imbroglio (ovviamente sulla scia del più becero sentimento di odio che gli automobilisti hanno per le regole del codice della strada, che giova ricordarlo è una legge dello Stato). L’informativa ufficiale dell’episodio, infatti, è arrivata solo successivamente, a mezzo mail ordinaria, nella giornata del 10 febbraio 2020 a firma del coordinatore regionale FAISA CISAL Autolinee private Siciliane. 

Tutto ciò, dunque, fornisce un’immagine completamente distorta della realtà, lasciando intendere un intento speculativo di questo Ente nell’attività di controllo delle violazioni al codice della strada. Dati falsi e informazioni tendenziose lasciano intendere ai lettori che questa sia una prassi consolidata finalizzata ad un illecito arricchimento. Il rigore e la trasparenza, invece, sono punti cardine della nostra attività amministrativa e valori che difendiamo strenuamente e quotidianamente.”

Treviso, 19enne senza patente ruba tre auto e durante la fuga uccide un ciclista. Enrico Ferro su La Repubblica l'1 Ottobre 2022. 

Il giovane è stato arrestato, l'incidente mortale a San Zenone

"Non avrete più notizie di Steve Quintino, un ragazzo di 19 anni e capirete che è la fine del mondo. Voglio salvare il mondo", grida a squarciagola questo giovane smilzo con il sangue che cola dalla testa, mentre i carabinieri lo trattengono ma, soprattutto, lo proteggono dalla folla che vuole linciarlo. Tutto intorno rottami e dolore, come quello di una moglie che ha visto il marito morire davanti ai suoi occhi dopo che l'auto fuori controllo ha travolto entrambi.

Tre rapine, un incidente mortale e auto danneggiate in 4 paesi

Sono stati due carabinieri feriti a mettere fine alla scia di follia e morte che Steve Quintino ha seminato, ieri mattina, in provincia di Treviso. Dopo essere stati speronati, dopo che la loro gazzella si è capovolta, sono riusciti a uscire e, finalmente, a immobilizzare il giovane assassino. "Era rientrato a casa dopo il turno di lavoro ma era fuori di sé. E io adesso sono morta dentro", si dispera la madre del diciannovenne. Tre rapine, un incidente mortale, auto danneggiate in quattro paesi.

L'operaio rapinatore

Il delirio di Steve Quintino, operaio al Pastificio Zara, inizia poco dopo le 9 del mattino. Alle 6, terminato il turno di notte, torna a casa a Vallà di Riese Pio X ma invece di andarsene a dormire esce di nuovo. Si allontana a piedi e, poco distante, aggredisce un'ottantenne. "Mi ha minacciato e tirato fuori dall'auto di forza, poi è scappato alla guida", racconterà sotto choc la donna, agli investigatori decisi a ricostruire il suo percorso.

Alla guida senza patente

Steve Quintino non aveva la patente, non sapeva guidare. E così la gente inizia a segnalare al 112 una Honda Civic bianca fuori controllo, che procede a zig-zag, che travolge cartelli stradali e sale sulle aiuole spartitraffico. Di lì a poco il diciannovenne finisce fuori strada, esce dall'abitacolo e compie la seconda rapina. Aggredisce una donna di 47 anni, la costringe a consegnargli le chiavi e, stavolta, sale su un'Audi A4 station wagon. Percorre circa 8 chilometri, fino a che il suo destino non incrocia quello di Mario Piva, 67 anni e della moglie, entrambi in bici, uno accanto all'altra. Travolge e uccide sul colpo lui, sfiora lei, prova a investire una terza persona che gli faceva segno di fermarsi. Niente. Riesce ancora a tamponare un tir e poi tre vetture ferme davanti a un semaforo.

La terza rapina

Inarrestabile, rapina una terza vettura, una Ford Ka. "Mi ha fatto il segno di avere una pistola e mi ha buttato fuori dall'auto", racconterà poi la sessantaduenne derubata. Una pattuglia dei carabinieri lo intercetta a Onè di Fonte. I militari mettono di traverso la gazzella per bloccare la sua corsa e lui, invece di frenare, li travolge in pieno. L'auto di servizio compie tre giri prima di fermarsi. L'appuntato e il suo collega escono malconci ma con un colpo di reni finalmente lo placcano.

Dalla sedazione al carcere

Il giovane viene sedato e trasferito all'ospedale di Castelfranco, sarà dimesso con una prognosi di dieci giorni e successivamente condotto in carcere a Treviso. Steve Quintino ha due fratelli maggiori, una mamma, un patrigno e un padre naturale che non ha mai fatto parte della sua vita. Alle spalle ha qualche piccolo precedente penale per furti e danneggiamenti. Proprio il padre Gianni ieri mattina si trovava in piazza a Oné. "Spero gli diano l'ergastolo", ha detto disgustato.

Roberta Polese per il "Corriere della Sera" il 2 ottobre 2022.

Rapina una donna, le ruba l'auto, esce di strada, ne ruba un'altra, investe un ciclista che morirà, sgomma, fugge, carambola fra un camion e altre vetture, sale su una terza auto, sperona la gazzella dei carabinieri che si ribalta, tenta infine di scappare a piedi.

Veloce e insanguinato. E quando lo prendono si mette a piangere: «Chiedo scusa».

Ieri mattina la pedemontana veneta si è svegliata in un film d'azione americano, tragico, pauroso e grottesco al tempo stesso, con un finale degno dei fratelli Coen. Protagonista Steve Quintino, diciannovenne con precedenti per furti e danneggiamenti e pure senza patente. Lui è di Riese Pio X e da lì, da questo paesone ai piedi del monte Grappa, è partito per la sua mattinata di straordinaria follia.

Teatro delle vicende il reticolo di strade e stradine che si snoda fra le province di Treviso e Vicenza, nel profondo Veneto del traffico infinito, dove Quintino ha fatto le sue gimkane fra un incidente e l'altro inseguito da polizia e carabinieri. A Vallà ha rapinato la prima donna, ad Altivole si è schiantato, a San Zenone ha travolto e ucciso Mario Piva, a Onè di Fonte ha fatto cappottare la macchina dei carabinieri e chiudendo la sua fuga.

Un'ora e mezza di panico. Dopo le scuse Quintino ha preso a delirare: «Non avrete più notizie di me. Quando non avrete più notizie di me capirete che il mondo sta finendo». E mentre farneticava montava la rabbia della gente.

A un passante che l'ha insultato ha risposto con una risatina: «Ammazzatelo questo».

Aggiungendo follia a follia: «Volevo salvare il mondo, mi stanno facendo una puntura per ammazzarmi».

È stato sedato, portato all'ospedale e piantonato in stato di arresto per omicidio stradale, tentato omicidio e rapina. Domanda: era ubriaco? Drogato? In cura? Nulla di tutto ciò, dice chi lo conosce: «Ma era introverso, aveva manie di persecuzione e vedeva complotti ovunque, soprattutto nell'ultimo periodo».

Operaio turnista, due fratelli, il padre, che se n'è andato tempo fa, ieri era in piazza a Onè: «Non c'entra niente con me». Steve è una testa calda.

«Delinquente, assassino, giornata nera per il nostro paese», non ha usato mezzi termini il sindaco di San Zenone, Fabio Marin. La sua follia è costata la vita a Mario Piva, sessantasettenne di Loria che precedeva la moglie in sella alla sua bicicletta. L'impatto violentissimo con l'Audi rubata non gli ha lasciato scampo. La moglie è riuscita a evitare l'automobile ma le è toccato in sorte di veder morire il marito sotto i suoi occhi: «Ha investito in pieno Mario ed è scappato, l'ha fatto apposta».

Quintino nega. «Non possiamo liquidare il tutto come un semplice atto di follia, sarebbe riduttivo», ha commentato il governatore del Veneto Luca Zaia. In tanta angoscia, il gesto coraggioso dei due carabinieri che, usciti dalla gazzella rovesciata, hanno inseguito il giovane. L'hanno raggiunto, immobilizzato e protetto dalla rabbia della gente.

Ruba tre auto, nella fuga travolge e uccide un ciclista. Al volante un 19enne, ribaltata anche una vettura dei carabinieri. Zaia: "Servono pene esemplari". Antonio Borrelli il 2 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Un ciclista ucciso, tre auto rubate e svariati incidenti. È il drammatico bilancio di un'ora e mezza di terrore nella mattinata di ieri a Riese Pio X, piccolo comune del Trevigiano. Tutto comincia intorno alle 9, quando un 19enne con piccoli precedenti per furti e danneggiamenti ruba un'auto e inizia a sfrecciare tra le cittadine della pedemontana al confine con la provincia di Vicenza. Dieci chilometri dopo, si registra il primo incidente: il ragazzo a folle velocità travolge Mario Piva, un pensionato di 67 anni, che stava viaggiando in bicicletta a bordo strada precedendo la moglie. Mentre la donna riesce ad evitare lo scontro, il coniuge muore davanti ai suoi occhi.

Tutt'intorno si crea un capannello di persone, le chiamate di allarme si susseguono e i centralini dei Pronto intervento e delle forze dell'ordine impazziscono, ma il tour dell'orrore prosegue: il 19enne cambia auto, ruba un'Audi e riprende la folle corsa senza meta. Altri 4 chilometri e un nuovo schianto coinvolge un camion e diverse vetture, quando il fuggitivo fa una carambola tra i mezzi in transito. Solo per una fortunata casualità non si registrano feriti, ma sono diversi i mezzi distrutti. Altro scontro, altro furto: il 19enne sale a bordo di una terza auto, l'ultima che l'accompagnerà nel suo folle viaggio. Pochi minuti dopo essere entrato nell'abitacolo incappa in una pattuglia dei carabinieri, la urta violentemente e la fa addirittura ribaltare al centro della carreggiata. Finisce qui la grande fuga. I due carabinieri escono dalla gazzella rovesciata e immobilizzano il giovane, che intanto era finito fuori strada dopo l'impatto, e riescono anche a proteggerlo dalla rabbia dei passanti. Tra i paesi della zona si è infatti sparsa la voce e qualcuno, al momento dell'arresto, vuole linciarlo.

Dietro di lui, d'altronde, era rimasta una vera e propria scia del terrore che sembrava uscita dalla scena di un film. «È la fine del mondo», ripeteva con frasi sconnesse il 19enne, apparso in uno stato di forte allucinazione al momento del fermo. Per questo motivo è stato necessario sedarlo. Sono stati poi gli stessi militari ad accompagnarlo all'ospedale di Castelfranco Veneto, dove si trova piantonato. Intanto da ore in tutte le comunità del Trevigiano - rimaste profondamente scosse dalla singolare fuga che ha causato anche la morte di un uomo - non si parla d'altro. Anche il sindaco di San Zenone degli Ezzelini, il piccolo paese nel quale è stato ucciso il ciclista 67enne, è voluto intervenire sul caso, definendolo «una grande tragedia con una dinamica assurda. La vicinanza mia e di tutta la nostra comunità alla famiglia della persona deceduta». Ben più duro è stato invece il presidente del Veneto Luca Zaia, che ha riferito: «Non possiamo liquidare il tutto come un semplice atto di follia, perché sarebbe ingiustificabile e riduttivo. Servono pene esemplari perché quello di oggi è un fatto incomprensibile, inammissibile e intollerabile». È la medesima richiesta che lo stesso governatore auspicava lo scorso marzo, quando sempre nel Trevigiano un 83enne venne legato e massacrato di botte per una busta di surgelati, qualche merendina e pochi spiccioli. Dopo 12 ore di agonia, lo storico elettrauto conosciuto da tutti a Pieve di Soligo morì in ospedale e il 36enne di origini marocchine che gli aveva fracassato la testa a colpi di pugni e bottigliate venne arrestato con l'accusa di omicidio. Storie e dinamiche diverse, unite però dalla stessa violenza in una provincia solitamente tranquilla.

Follia a Treviso, ruba tre auto in sequenza e durante la fuga travolge e uccide ciclista. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2022 

Ruba tre auto in sequenza e durante la fuga travolge e uccide un ciclista di 67 anni e impatta contro una gazzella dei carabinieri che si capovolge. Dramma poco dopo le 9 di sabato 1 ottobre a Vallà, frazione del comune di Riese Pio Xin, in provincia di Treviso, dove un giovane di 19 anni è letteralmente impazzito rubando ben tre auto e causando diversi incidenti durante la sua fuga.

Tutto è iniziato poco dopo le 9.15 quando il giovane ha rapinato una donna, portandole via le chiavi di una Honda Civic e fuggendo poi a bordo dell’auto. La prima fuga si è interrotta ad Altivole dove è uscito fuori strada e, abbandonata l’auto, ha messo in atto una nuova rapina portando via a un’altra donna un’Audi. Auto con cui ha investito e ucciso un ciclista a San Zenone degli Ezzelini. La vittima si chiamava Mario Piva, un pensionato di 67 anni residente a Loria.

Il giovane, dopo l’incidente mortale, ha poi proseguito la folle corsa impattando prima contro un camion e successivamente contro alcune auto. Dopo l’ennesimo incidente ha nuovamente rapinato un’auto (sempre a una donna), questa volta una Ford Ka, ma la sua corsa è stata fermata nel comune di Fonte da una pattuglia di carabinieri che, nonostante siano stati a loro volta coinvolti in un incidente causato dal giovane, e che ha provocato il ribaltamento della gazzella dei militari, sono riusciti a bloccarlo.

A fermare il diciannovenne, residente a Riese Pio X e con piccoli precedenti per furto e danneggiamento, sono stati un appuntato scelto di 40 anni e un carabiniere di 22 anni della stazione di Asolo. Sul posto, oltre ai militari della compagnia di Castelfranco e di Treviso, è arrivato anche il comandante provinciale, il colonnello Massimo Ribaudo. Il giovane si trova ora piantonato in ospedale a Castelfranco.

Bimba investita all'asilo, l'imputata: "Gattonava, non l'ho vista. Con lei non c'era nessuno". È accusata di lesioni gravissime. Alessio Campana su La Repubblica il 13 settembre 2022 

La testimonianza di Chiara Colonnelli durante il processo. Lavinia Montebove il 7 agosto del 2018, quando aveva un anno e 4 mesi, fu investita nel parcheggio di un asilo del centro dei Castelli Romani. A causa delle gravi ferite riportate si trova in stato di coma vegetativo

"Non ho visto nessuno mentre mi avvicinavo al parcheggio dell'asilo. Sono entrata con l'auto toccando la siepe. Ho fatto il giro intorno all'albero per mettermi in posizione di uscita. Una volta fermata la macchina ho visto che nei pressi del cancello c'era un fagotto rosa in terra. Mi sono avvicinata e ho riconosciuto la piccola. In macchina, verso l'ospedale, speravo soltanto che sopravvivesse".

Sheena Lussetto investita da un’auto della polizia: “Sarebbe viva, se agente fosse stato prudente”. Il poliziotto stava lavorando e facendo il suo dovere cercando di inseguire i malviventi in fuga. Avrebbe dovuto, però, guidare con più prudenza, hanno concluso gli inquirenti. Per questo i pm della procura di Roma hanno chiesto al gip il rinvio a giudizio. A cura di Enrico Tata su Fanpage.it il 5 settembre 2022.

Sheena Lossetto è morta a 14 anni, investita e uccisa da un'automobile della polizia che stava conducendo un inseguimento a tutta velocità. L'agente alla guida della volante, è la conclusione dei pm, avrebbe dovuto guidare con più prudenza. Se l'avesse fatto e se soprattutto avesse pensato alle conseguenze delle sue azioni, probabilmente la 14enne sarebbe ancora viva. Per provare ad acciuffare i rapinatori in fuga, infatti, il poliziotto ha guidato per diversi metri contromano su via di Salone, periferia Est di Roma. Una manovra che si è rivelata fatale, perché la macchina si è scontrata frontalmente con una Fiat Punto che procedeva nella corretta direzione di marcia e rispettando i limiti di velocità (andava a circa 40 chilometri all'ora). A bordo c'era la famiglia Lossetto: padre, madre, due figli e un terzo ragazzo. La figlia più piccola, Sheena, è morta praticamente sul colpo. Il papà e l'altro figlio hanno riportato la rottura del bacino.

L'agente alla guida della volante è stato accusato di omicidio stradale. Il caso è complesso, perché il poliziotto stava lavorando e facendo il suo dovere cercando di inseguire i malviventi in fuga. Avrebbe dovuto, però, guidare con più prudenza, hanno concluso gli inquirenti. Per questo i pm della procura di Roma hanno chiesto al gip il rinvio a giudizio per il rappresentante delle forze dell'ordine, che potrebbe quindi finire alla sbarra con la pesante accusa di omicidio stradale. Un incidente drammatico, causato da un agente in servizio e lanciato all'inseguimento dei rapinatori. Doveva provare a raggiungerli, hanno ammesso gli stessi pm, ma avrebbe dovuto valutare le conseguenze della guida contromano su una strada trafficata. L'incidente, per gli inquirenti, si sarebbe potuto evitare. 

“Devi valutare il rischio ed essere sicuro di non arrecare danni alle altre persone. È emerso che la macchina della Polizia ha invaso completamente la carreggiata opposta in piena curva, ad una velocità molto elevata, sicuramente il doppio di quella consentita. Il papà di Sheena stava procedendo in maniera regolare", la versione degli avvocati della famiglia Lossetto. 

La mamma di Sheena morta nell’incidente con la polizia: “Era meglio morisse tutta la famiglia”. La mamma di Sheena Lossetto, la quattordicenne morta in via di Salone il primo marzo del 2021, ha ripercorso i drammatici momenti dell’incidente, chiedendo che venga fatta giustizia. A cura di Redazione Roma su Fanpage.it il 31 marzo 2022.

"Era meglio che con Sheena morisse tutta la nostra famiglia invece di soffrire così". Sono le parole di Lucia Zito, la mamma di Sheena Lossetto, la quattordicenne morta in via di Salone il primo marzo del 2021 in un incidente con una volante della Polizia di Stato, che era impegnata in un inseguimento. Fanpage.it ha intervistato la madre, che ha ripercorso i frammatici momenti del sinistro in cui ha scoperto che la sua giovane figlia non c'era più. Al momento in cui sono accaduti i drammatici fatti che hanno portato alla sua scomparsa Sheena era in macchina insieme alla sua famiglia e stavano tornando tutti insieme dal centro commerciale. Dopo l'impatto con l'auto della Polizia la ragazza è deceduta sul colpo, mentre i suoi famigliari hanno riportato numerose ferite. Il poliziotto alla guida rischia di finire a processo per omicidio stradalee lesioni colpose gravi e gravissime 

"Ho iniziato ad urlare per vedere se si svegliavano"

"Sono svenuta, mi sono risvegliata dopo un po' e ho visto la tragedia davanti ai miei occhi – racconta la mamma di Sheena – Ho iniziato ad urlare per vedere se si risvegliavano tutti e tre (i famigliari ndr). Mio marito e mio figlio che erano seduti davanti mi hanno riposto, mentre la bambina (Sheena ndr) no". La famiglia Lossetto, difesa dagli avvocati Roberto Pacini e Filippo Rovesti, concorda con la ricostruzione della procura. Il pubblico ministero infatti contesta all’agente l’inosservanza delle cosiddette “regole di comune diligenza e prudenza” previste dal codice stradale, che si applicano anche a veicoli in servizio di polizia e mezzi di soccorso proprio per evitare situazioni di rischio per gli altri utenti della strada. “Devi valutare il rischio ed essere sicuro di non arrecare danni alle altre persone” spiegano i legali. 

"È emerso che la macchina della Polizia ha invaso completamente la carreggiata opposta in piena curva, ad una velocità molto elevata, sicuramente il doppio di quella consentita – ha spiegato Pacini – Il padre di Sheena, Daniele Lossetto, che era al volante, stava procedendo in maniera regolare".

L'avvocato del poliziotto indagato: "Stava facendo il suo lavoro"

Eugenio Pini avvocato del poliziotto indagato in merito alla vicenda ha detto: "Da una parte c'è la perdita di una giovane vita, dall'altra c'è una persona appartenente alla Polizia di Stato che stava svolgendo il proprio lavoro, era nel pieno del proprio servizio. È un fatto di natura chiaramente colposa e dovuto all'adempimento di un lavoro importante come quello delle forze dell'ordine".

FUGA DALLA POLIZIA E SUCCESSIVO INCIDENTE STRADALE CON ESITO LETALE: LA CASSAZIONE RITORNA SULLA DISTINZIONE TRA DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE.

Alberto Aimi il 25 maggio 2011. Nota a Cass. Pen., Sez. I, 01.2.11 (dep. 15.3.11), n. 10411, Pres. Di Tomassi, Rel. Cassano

1. Il problema della distinzione tra dolo eventuale e colpa cd. cosciente o con previsione è certamente uno dei problemi più spinosi di tutto il diritto penale. 

Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità è solita utilizzare l’elastica formula della “accettazione del rischio” (di cagionare l’evento o di realizzare la fattispecie) per riempire di contenuto la nozione di “dolo eventuale”. Tale formula rispecchierebbe i due momenti (rappresentativo e volitivo) del dolo eventuale, che consisterebbero rispettivamente: a) nella rappresentazione della concreta possibilità o probabilità del verificarsi dell’evento (o realizzarsi del fatto) parte del soggetto agente; nonché b) nella vera e propria “accettazione del rischio” del verificarsi dell’evento. La colpa cosciente, invece, si differenzierebbe dal dolo eventuale in quanto: da un lato, a) la rappresentazione della possibilità del verificarsi dell’evento (o del realizzarsi del fatto) avverrebbe in termini “astratti” e non “concreti”; dall’altro, b) la rappresentazione sarebbe comunque accompagnata dalla non-volizione (o anche: non-accettazione del rischio, respingimento del rischio) dell’evento da parte del soggetto agente (in termini sostanzialmente analoghi, da ultimo: Cass. 24.6.2009, CED 244693; Cass. 10.2.2009, CED 242979; Cass. 17.9.2008, CED 242610; Cass. 24.7.2008, CED 241984; Cass. 14.6.2001, CED 219952; Cass. 08.11.1995, CED 203484; Cass. 01.9.1994, CED 199760; Cass. 24.2.1994, CED 198272; Cass. 28.1.1991, CED 187950). 

Con la sentenza in nota, la Corte di Cassazione ha innanzitutto affermato che, dal punto di vista rappresentativo, il dolo eventuale non può distinguersi dalla colpa cd. cosciente, in quanto la rappresentazione di un evento come possibile o probabile è comune ad entrambi gli stati soggettivi e pertanto, l’unica discriminante tra dolo eventuale e colpa cosciente consiste nel diverso atteggiarsi dell’agente, dal punto di vista volitivo, rispetto all’evento previsto. 

Non solo. La Corte ha altresì statuito che non solo la previsione dell’evento, ma anche “l’accettazione del rischio” del verificarsi dello stesso è elemento in qualche misura comune sia al dolo eventuale che alla colpa cosciente, e che pertanto tale “accettazione” dà luogo a dolo esclusivamente quando consiste in una deliberazione consapevole (una vera e propria opzione), con la quale l’agente coscientemente pone in relazione il sacrificio (eventuale) di un bene giuridico con la condotta dal medesimo posta in essere; una determinazione a tal punto “intensa”, che il soggetto attivo avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza del verificarsi dell’evento, che si atteggia così a "prezzo (eventuale) da pagare" per il conseguimento del risultato avuto di mira dal soggetto. 

2. S’impone, per chiarire il senso delle determinazioni della Suprema Corte, una sintetica ricostruzione dei fatti di causa. 

In data 6 febbraio 2009, la Corte d’Assise di Roma dichiarava I.V. colpevole dei delitti di omicidio volontario, lesioni volontarie e ricettazione, per avere il medesimo, alla guida di un furgone di provenienza illecita, cagionato un disastroso incidente stradale dal quale conseguivano la morte di T.R. e il ferimento di T.N., T.V. e G.G. 

In sintesi, l’imputato, per sfuggire ad un controllo di polizia, aveva intrapreso una folle corsa nel pieno centro di Roma, nel corso della quale aveva superato diversi incroci col rosso ad una velocità superiore ai cento chilometri l’ora, finendo per schiantarsi contro le macchine a bordo delle quali viaggiavano T.R., T.V., T.N. e G.G. 

A fronte di questa ricostruzione, la Corte territoriale affermava la responsabilità dell’imputato a titolo di dolo eventuale. Innanzitutto, secondo la Corte d’Assise di Roma, risiedendo il criterio distintivo tra dolo eventuale e omicidio colposo nella “accettazione del rischio”, «chi lo accetta, agendo anche a costo di determinare l’evento mortale che si rappresenta, risponde di omicidio volontario con dolo eventuale», mentre «chi, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verificherà, risponde di delitto colposo». 

Pertanto, la Corte d’Assise di Roma emetteva una sentenza di condanna ai sensi degli artt. 575 e 582 c.p., ritenendo che una pluralità elementi del caso concreto – la velocità del mezzo, il numero di incroci impegnati, le particolari circostanza di tempo e luogo, il peso del furgone – dimostrassero oltre ogni ragionevole dubbio che a) l’imputato si fosse rappresentato di poter cagionare un incidente con esiti anche mortali, e che b) avesse accettato il rischio della sua verificazione pur di sottrarsi al controllo della pattuglia di Polizia che lo inseguiva. 

3. In data 18 marzo 2010 la Corte d’Assise d’Appello riformava la sentenza dei giudici di primo grado, riqualificando i fatti contestati come omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento e lesioni colpose aggravate. 

I giudici d’appello, dopo avere premesso che la dinamica dell’accaduto non era oggetto di contestazione, osservavano innanzitutto come la linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente andava individuata nel fatto che, nel primo caso, l’agente «accetta il rischio che si verifichi un evento diverso non direttamente voluto, mentre nella seconda ipotesi, nonostante l’identità di prospettazione, respinge il rischio confidando nella propria capacità di controllare l’azione». 

Ciò detto, in primo luogo, i giudici di secondo grado ritenevano che non si fosse raggiunta la prova del fatto che l’imputato si fosse effettivamente rappresentato gli eventi lesivi come concretamente realizzabili, in quanto l’essere riuscito a superare diversi incroci senza cagionare incidenti poteva aver ingenerato in lui la convinzione di poter dominare perfettamente la corsa del furgone. In ogni caso, poi, secondo la Corte d’Assise d’Appello, essendo l’eventualità dell’incidente la meno favorevole per l’imputato – nella misura in cui avrebbe arrestato la sua fuga – sarebbe stato inverosimile affermare che questo fosse animato dall’intenzione di procedere “a ogni costo”, accettando il rischio del verificarsi di un evento addirittura contrario ai propri interessi. 

Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma proponeva ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Assise l’Appello, in particolare denunciando erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto come omicidio e lesioni colpose. 

4. In accoglimento del gravame proposto dalla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma, la Corte annulla con rinvio la sentenza impugnata per non aver correttamente applicato «i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sui criteri distintivi tra dolo eventuale e colpa cosciente» nonché per numerosi altri profili attinenti alla contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valutazione degli elementi probatori emersi nel corso del giudizio di primo grado. 

Il Supremo Collegio, innanzitutto, ricostruisce brevemente il contenuto generale dei momenti volitivo e rappresentativo del dolo, ricordando in particolare che «poiché il comportamento doloso orienta finalisticamente i fattori della realtà nella prospettiva del mezzo verso un scopo, esso attrae nell’ambito della volontà l’intero processo che determina il risultato perseguito». 

La Corte di Cassazione rammenta poi la definizione di dolo eventuale corrente nella giurisprudenza di legittimità, che consiste «nella rappresentazione e nell’accettazione, da parte dell’agente, della concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, di realizzazione dell’evento accessorio allo scopo perseguito in via primaria. Il soggetto pone in essere un’azione accettando il rischio del verificarsi dell’evento». 

Quanto, invece, alla colpa con previsione, il giudice di legittimità precisa che questa sussiste «qualora l’agente, nel porre in essere la condotta nonostante la previsione dell’evento, ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale o per intervento di altri fattori». 

Eppure, «dall’interpretazione letterale dell’art. 61 co. 1 n. 3 c.p., che fa esplicito riferimento alla realizzazione di un’azione pur in presenza di un fattore ostativo della stessa, si evince che la previsione deve sussistere al momento della condotta e non deve essere sostituita da una non previsione o contro previsione, come quella implicita nella rimozione del dubbio. Quest’ultimo non esclude il dolo, ma non è sufficiente ad integrarlo». 

Pertanto, secondo il Supremo Collegio, «una qualche accettazione del rischio sussiste tutte le volte in cui si deliberi di agire, pur senza avere conseguito la sicurezza soggettiva che l’evento previsto non si verificherà». 

“Dolo eventuale” e “colpa cosciente”, quindi, mentre hanno in comune sia l’elemento della rappresentazione dell’evento non direttamente perseguito, che – per lo meno in qualche misura – l’elemento consistente nell’accettazione del rischio, si differenziano soltanto in quanto «nel dolo eventuale il rischio dev’essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l’agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro». 

In altri termini, dunque, l’autore del reato agisce con dolo eventuale quando «si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra soddisfacimento dell’interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco – il suo e quelli altrui – e attribuisce prevalenza ad uno di essi». 

Precisamente, «occorre che la realizzazione del fatto sia stata accettata […], nel senso che egli avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza del verificarsi del fatto»; nella colpa con previsione, invece, la rappresentazione come certa dell’evento avrebbe trattenuto l’agente dal porre in essere la condotta. 

La Corte di Cassazione rileva infine come i giudici di secondo grado – oltre a non aver fatto corretta applicazione dei principi di diritto in tema di distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente – abbiano valutato in maniera parziale ed erronea le evidenze probatorie, e pertanto annulla la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma e rinvia il giudizio ad una nuova sezione della stessa Corte. 

5. In sintesi, la sentenza in nota risulta innovativa rispetto alla giurisprudenza maggioritaria almeno sotto tre aspetti. 

In primo luogo, la Cassazione, affermando che «la previsione deve sussistere al momento della condotta e non deve essere sostituita da una non previsione o contro previsione» e che «la rappresentazione dell’intero fatto tipico come probabile o possibile è presente sia nel dolo eventuale che nella colpa cosciente», rigetta la tesi – molto comune nella giurisprudenza di legittimità – secondo la quale colpa cosciente e dolo eventuale si differenzierebbero già a livello rappresentativo, dal momento che in caso di colpa cosciente l’evento sarebbe dall’agente immaginato come “astrattamente realizzabile” mentre nel dolo eventuale l’evento sarebbe previsto come “concretamente realizzabile” (nello stesso anche Cass. 10.10.1996, CED 207333). 

In secondo luogo, appare assolutamente degno di nota l’assunto della Corte di Cassazione (preso quasi testualmente da PROSDOCIMI, Dolus Eventualis, Milano, 1993, p. 31 ss.) secondo il quale, essendo l’elemento dell’accettazione del rischio comune sia al dolo eventuale che alla colpa cosciente, l’accettazione del rischio dà luogo a dolo eventuale soltanto quando consegue ad una consapevole subordinazione del bene eventualmente sacrificato dall’agente allo scopo perseguito, nonché alla comprensione della correlazione sussistente tra tale scopo e il sacrificio richiesto. Tale assunto – a rigore – implica infatti l’insufficienza della dimostrazione che il soggetto attivo ha “accettato il rischio” di cagionare un determinato evento per l’attribuzione dello stesso a titolo di dolo eventuale, occorrendo invece la puntuale dimostrazione – con il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio – che tale accettazione sia il frutto di un consapevole bilanciamento tra l’interesse perseguito e il bene giuridico eventualmente leso, conclusosi con la scelta di sacrificare quest’ultimo sull’altare degli interessi dell’agente.  

Infine, altrettanto significativo il richiamo della Supremo Collegio alla c.d. prima formula di Frank (peraltro già cursoriamente evocata dalle Sezioni Unite nella recente sentenza 26.11.2009, CED 246323, Nocera), secondo la quale per appurare se si sia in presenza di dolo eventuale o di colpa con previsione, si dovrebbe accertare se l’agente, prevedendo come sicuro il verificarsi dell’evento stesso, avrebbe agito ugualmente o si sarebbe astenuto dall’azione; versando nel primo caso l’agente in dolo eventuale, e nel secondo in colpa cosciente. 

6. A parere di chi scrive, proprio l’adesione della Corte alla teoria di Frank costituisce la principale “nota dolente” della sentenza in esame, sotto almeno due profili. 

Innanzitutto, ci pare che nel caso di specie l’applicazione della prima formula di Frank avrebbe dovuto portare de plano all’esclusione del dolo eventuale. Se, infatti, lo scopo dell’imputato era quello di sottrarsi ad un controllo di Polizia, un eventuale incidente non poteva che rappresentare un ostacolo al perseguimento dei suoi interessi; e se il verificarsi dell’incidente era contrario agli interessi dell’imputato, ne consegue che il medesimo, se avesse previsto come sicuro il realizzarsi dell’evento incidentale, si sarebbe trattenuto dall’agire – o quantomeno dall’agire con le modalità che hanno causato l’incidente – proprio per evitare un pregiudizio per i propri interessi. 

Peraltro, la sentenza di appello traeva esplicitamente argomento per escludere la sussistenza del dolo eventuale – tra l’altro – dal fatto che il verificarsi di un incidente avrebbe rappresentato un evento sfavorevole per l’imputato, ritenendo perciò che lo stesso «non fosse animato dalla determinazione di procedere ad ogni costo, anche contro i propri interessi». La Suprema Corte invece afferma che «il generico riferimento alle conseguenze pregiudizievoli per l’imputato in caso di sinistro è stato effettuato, omettendo di considerare il dato – valorizzato invece dalla sentenza di primo grado – costituito dai diversi esiti, in caso di incidente, per colui che viaggiava a bordo di un furgone del peso pari a due tonnellate e per chi, invece, si trovasse a bordo di un auto». Tuttavia, tali “diversi esiti” erano stati esaminati dal giudice di primo grado soltanto in relazione al «rischio personale di chi […] guidava» il furgone; mentre, a ben vedere, l’esito pregiudizievole (o sfavorevole) per il piano di fuga dell’agente non era costituito tanto dal verificarsi di un incidente avente esito lesivo o mortale per l’agente stesso, quanto dal verificarsi di un incidente di qualunque genere, che avrebbe – come in effetti ha – definitivamente pregiudicato il suo obiettivo di sottrarsi ad un controllo di Polizia. 

Su un piano più generale, poi, si può fondatamente dubitare dell’effettivo valore euristico della prima formula di Frank, il cui utilizzo per l’accertamento  del dolo eventuale presta il fianco ad almeno due obiezioni, che, per la frequenza con la quale sono richiamate in dottrina, possono considerarsi ormai “classiche”: a) la formula di Frank radica l’indagine su uno stato soggettivo ipotetico – quale sarebbe stata la deliberazione dell’agente – e non su quello reale – qual è stata effettivamente la deliberazione dell’agente; b) la formula di Frank porta necessariamente ad escludere l’attribuibilità a titolo di dolo eventuale di tutte quelle conseguenze dell’azione che – come nel caso di specie – hanno comportato il sostanziale fallimento del piano dell’agente (e.g. morte della persona dalla quale, tramite tortura, si volevano ottenere informazioni); risultato, quest’ultimo, forse non preso sufficientemente in considerazione dai giudici della Suprema Corte.  

Monica Serra per “La Stampa” il 31 agosto 2022.

Stella, Giovanni, Flavia e Simone sono solo le ultime quattro giovanissime vittime. Vite spezzate, tra i 15 e i 22 anni, in incidenti stradali causati da ubriachi al volante. Una lunga scia di sangue che anni di politiche e progetti italiani e dell'Unione europea non riescono a fermare. Secondo l'Osservatorio nazionale alcol dell'Iss, infatti, «a livello europeo, un incidente su quattro, il 25%, è attribuibile all'alcol» e sono «almeno 10 mila ogni anno» le vittime. 

I dati raccolti in Italia, a partire dal 2009, sono solo parziali. Secondo il ministero della Salute, nel 2019, 42 mila 485 persone sono state multate in tutta Italia per guida in stato di ebbrezza. Un numero che si è ridotto nel corso del 2020, arrivando a 25 mila 902 sanzioni effettuate tra polizia stradale, carabinieri e polizia locale.

Cui si aggiungono 3 mila 831 persone multate perché alla guida dopo aver fatto uso di droghe. La relazione presentata nel 2021 dal ministro della Salute Roberto Speranza al Parlamento, in materia di alcol e problemi correlati, analizza i dati dell'attività condotta da polizia e carabinieri, intervenuti complessivamente in un terzo degli incidenti stradali con feriti in Italia: gli altri sono di competenza della polizia locale.

Nel 2020, su 40 mila 310 incidenti con lesioni, sono stati 3 mila 692 quelli in cui almeno uno dei conducenti aveva bevuto più del consentito, mentre in 1391 si erano messi alla guida dopo aver consumato droghe. 

Una quota pari al 9,2 per cento nel caso dell'alcol e al 3,5 per cento nel caso degli stupefacenti, che fa registrare «un aumento rispetto al 2019, seppure il periodo sia stato caratterizzato da una forte diminuzione degli incidenti e delle vittime». Percentuali che salgono di notte, quando gli incidenti causati dagli ubriachi al volante arrivano al 23,4 per cento.

Numeri alti, lontani dalla media europea secondo il Ministero della Salute solo perché incompleti, che si traducono nei terribili episodi di cronaca raccontati in questi giorni di agosto. 

L'ultima vittima si chiamava Stella Mutti, aveva 19 anni e viveva a Nuvoletto, nel Bresciano. Nella notte tra giovedì e venerdì scorsi, dopo il concerto del rapper Ernia - che le ha anche dedicato la sua hit «Bella» su Instagram - Stella tornava a casa in moto col fidanzato. È morta sul colpo dopo un violento impatto con una Jeep: la guidava un 27enne con un tasso alcolemico risultato tre volte superiore al limite e ora indagato dalla procura per omicidio stradale.

Poche ore prima era successo a Roma: un poliziotto di 46 anni, già sospeso dal servizio, ubriaco e drogato al volante, aveva investito il diciannovenne Simone Sperduti sulla Prenestina. «Ho il cuore in pezzi, dovevo morire io», ha scritto l'agente in una lettera al giudice che ha convalidato il suo arresto in carcere. 

Lunedì 22 agosto la stessa tragica sorte è toccata alla studentessa 22enne dell'Accademia di Belle Arti Flavia Di Bonaventura, travolta e uccisa in bicicletta a Scerne di Pineto, in provincia di Teramo, sulla statale 16 Adriatica, da un 34enne ubriaco e senza la copertura assicurativa dell'auto, ora ai domiciliari.

La vittima più giovane si chiamava Giovanni Zanier e aveva soltanto 15 anni: è stato ucciso sulla pista ciclabile di Porcia, vicino Pordenone, dall'auto di una soldatessa americana ventenne con un tasso alcolemico di 2,09 grammi per litro, quattro volte superiore al consentito.

Lorenzi Nicolini per romatoday.it il 25 agosto 2022.

È risultato positivo ai test di droga e alcol, il poliziotto di 46 anni coinvolto nell'incidente stradale nel quale è morto Simone Sperduti, il ragazzo di appena 19 anni deceduto intorno alle 4 del mattino di mercoledì 24 agosto, a Roma. 

L'agente, già sospeso in passato dal servizio, è stato arrestato e portato nel carcere di Regina Coeli. È la conseguenza dei risultati dei test tossicologici, che hanno confermato come il conducente dell'Opel Meriva che ha investito Simone Sperduti, fosse in stato alterato perché sotto l'effetto di alcol e sostanze stupefacenti al momento dell'impatto. L'uomo è accusato del reato di omicidio stradale.

A confermare lo stato del 46enne sono fonti della polizia locale di Roma capitale. Secondo una prima ricostruzione degli agenti del V gruppo Prenestino che indagano, la Opel stava svoltando su via Prenestina verso lo svincolo del raccordo anulare in direzione Roma Sud. A questo punto sarebbe avvenuto lo scontro fatale con lo scooter Honda Sh 300, diretto verso il centro città, guidato da Simone.

Simone Sperduti a Centocelle, dove viveva, era conosciuto da molti. Avrebbe compiuto 20 anni a dicembre. Faceva il magazziniere e proprio mentre stava andando al lavoro, ieri mattina, ha avuto l'incidente stradale che gli ha stroncato la vita. Sognava di fare il vigile del fuoco, come il padre.

La vittima aveva 19 anni, l’uomo al volante positivo a droga e alcol. “Dovevo morire io, vi chiedo perdono”, lettera del poliziotto che ha travolto e ucciso Simone. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Agosto 2022 

Il dramma si è consumato alle 4 del mattino del 24 agosto. Simone Sperduti, 19 anni, è stato investito e ucciso mentre era in sella al suo scooter in via Prenestina, a Roma, all’altezza dello svincolo del Grande Raccordo Anulare. Per la morte di Simone è stato arrestato e condotto nel carcere di Regina Coeli un agente della polizia ferroviaria, la Polfer, di 46 anni. L’uomo, al volante di una Opel Meriva che ha travolto il 19enne, è risultato positivo ai test per alcol e droga e per questo è stata disposta nei suoi confronti la misura cautelare. L’arresto è poi stato confermato.

Secondo quanto riportato da Repubblica, l’uomo al volante quella sera era drogato e ubriaco, proprio come aveva fatto nel 2009 e nel 2014. Si è messo al volante con la patente scaduta da quattro anni e ha ucciso un lavoratore diciannovenne che sognava di seguire le orme del padre nei vigili del fuoco. Davanti al gip ha pianto e ha letto la lettera che ha scritto ai genitori di Simone. “Mi inginocchierei ai piedi per chiedervi perdono. Ho paura, so che voi ne avete più di me. Ho sbagliato, cavolo ho sbagliato. Avrei voluto morire io. Dovevo morire io. Vi chiedo perdono”, si legge, come riportato da Repubblica.

“Niente vi ridarà più vostro figlio, ma io farò qualsiasi cosa possa aiutarvi. Vi chiedo perdono, e a Dio. Avrei dovuto morire io. Ho il cuore in pezzi, ma so che è nulla rispetto a quello che state provando voi. Odiarmi è il minimo”, continua la lettera inviata alla famiglia Sperduti.

“Ha ben capito le sue responsabilità”, spiega il suo avvocato, Pamela Strippoli, sottolineando che l’indagato non si è sottratto alle domande del gip. Ha ammesso ogni cosa, ha detto di aver guidato ubriaco e drogato, di aver sbagliato, di aver fatto errori simili in passato, di aver continuato a guidare nonostante la patente scaduta e di stare attraversando un momento difficile che lo ha portato ad allontanarsi dal lavoro per motivi di salute. Sarebbe dovuto tornare in servizio il prossimo 24 ottobre. Ma le cose andranno diversamente.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da repubblica.it il 22 agosto 2022.

Poco dopo la mezzanotte tra sabato e domenica scorsi, alla centrale operativa della polizia stradale è giunto l'allarme di una persona che percorreva velocemente la corsia di marcia calzando ai piedi dei pattini lungo la A/10, autostrada che collega Ventimiglia a Genova. Era molto buio e bisognava far presto, per impedire che quella condotta pericolosa si trasformasse in una tragedia. La persona fermata, alla richiesta di spiegazioni da parte dei poliziotti, ha candidamente ammesso che stava "solo" seguendo le indicazioni del suo navigatore satellitare, che gli aveva indicato quel percorso autostradale come la strada più breve da seguire per raggiungere presto il luogo ove era diretta. Per quella persona, che era lucida e orientata, è scattata una multa e una segnalazione alla motorizzazione civile qualora intenda prendere la patente.

Ubriaca la militare Usa che ha ucciso Giovanni. Giallo sulla giurisdizione. La ventenne era alla guida con un tasso alcolemico 4 volte superiore alla norma. Antonio Borrelli il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.

Non una distrazione, non una fatalità. La soldatessa americana in servizio alla Base Usaf di Aviano che nella notte tra sabato e domenica ha investito e ucciso il 15enne Giovanni Zanier era ubriaca. Ora c'è la conferma: il tasso alcolemico nel suo sangue era di 2,09 grammi, quattro volte superiore al limite consentito. Dopo l'arresto facoltativo compiuto dai carabinieri, come previsto dal Codice penale, da ieri Julia Bravo si trova invece agli arresti domiciliari all'interno della base friulana. L'accusa resta quella di omicidio stradale e il risultato degli esami tossicologici modifica solo in parte il quadro giudiziario ipotizzato nei confronti della 20enne, ma ora si aggrava la sua posizione. Secondo la ricostruzione degli inquirenti Giovanni stava camminando sulla pista ciclabile insieme a due amici, tenendo con le mani la propria bicicletta. Come nelle notti precedenti, anche sabato la strada era stata lasciata al buio di notte per le politiche di risparmio energetico decise dal comune di Porcia, in provincia di Pordenone. Ed è intorno alle 2.30 che l'utilitaria guidata dalla soldatessa sbanda e lo travolge in pieno. Il 15enne di Pordenone muore pochi minuti dopo l'impatto. La giornata di ieri è stata invece tutt'altro che transitoria: mentre il comandante della base americana a capo del 31st Fighter Wing, Generale Tad D. Clarck, ha espresso «il suo sentito cordoglio e vicinanza ai familiari della giovane vittima e alla comunità italiana», il luogo dell'impatto si è trasformato in una meta di pellegrinaggio silenziosa e distopica, dove in centinaia sono arrivati per un momento di silenzio o per posare un mazzo di fiori. Ma col trascorrere delle ore la vicenda si sta già spostando sui binari giudiziari, a causa delle particolari circostanze che torneranno a mettere le autorità italiane e statunitensi le une di fronte alle altre. Gli Stati Uniti potrebbero infatti appellarsi agli accordi internazionali che prevedono, attraverso una serie di step, che i militari statunitensi responsabili di reati all'estero possano essere giudicati nel loro Paese, evitando il processo in Italia. Lo prevede la Convenzione di Londra del 1951 sulla giurisdizione dei militari Nato in Europa e così è già accaduto diverse volte: ad esempio dopo il disastro della funivia del Cermis nel 1998, quando un aereo militare della United States Marine Corps, volando a una quota inferiore a quanto concesso e in violazione dei regolamenti, fece precipitare la cabina e provocò la morte dei 20 turisti. In quel caso il processo ai soldati autori della strage, partiti dalla base aerea di Aviano, venne celebrato negli Stati Uniti e ci furono anche tensioni per il risarcimento ai familiari delle vittime inizialmente stanziato dal Senato americano. Solo nel 1999 il Parlamento italiano approvò la legge che prevedeva un indennizzo per i familiari dei deceduti pari a 4 miliardi di lire per ogni vittima. Ma c'è anche il caso di violenza sessuale di un aviere (ancora una volta della base di Aviano) su una 14enne, nel 2002. Dopo l'esplosione della vicenda, l'allora ministro della Giustizia inizialmente firmò la rinuncia al processo in Italia, ma di fronte alle vive proteste del legale della ragazza fece marcia indietro. Per il caso drammatico della morte di Giovanni Zanier e per il processo a carico di Julia Bravo, invece, le bocche sono ancora cucite. Intanto, però, nelle scorse ore sui social della base Usaf di Aviano si è riversata la rabbia di diversi utenti. A poco è servito il messaggio di cordoglio del comandante; «assassini», recitano invece alcuni commenti. Antonio Borrelli

Pordenone, la madre di Giovanni Zanier: «Hanno visto la militare andare a zig zag. Ma lei verrà protetta dagli Usa e noi non avremo giustizia». Domenico Pecile su Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022.

Barbara Scandella: «Era completamente ubriaca. Ecco perché correva in quel modo. La verità è che in queste zone gli americani fanno quello che vogliono e restano impuniti» 

«Era completamente ubriaca. Ecco perché correva in quel modo, al punto di scavalcare la rotatoria prima di uccidere Giovanni. La verità è che in queste zone gli americani fanno quello che vogliono e restano impuniti. Temo sarà così anche questa volta. È una vergogna, un’ingiustizia...». Non si dà pace Barbara Scandella, 48 anni, mamma di Giovanni Zanier, il ragazzino di 15 anni travolto e ucciso dall’auto di una militare americana della base di Aviano, nella notte tra sabato e domenica. La notizia che la ventenne aveva un tasso alcolico quattro volte superiore al consentito, aggiunge dolore a dolore.

Quindi non ha fiducia nella giustizia?

«Io sono indignata. E non ho alcuna fiducia in un processo vero perché la donna che ha ucciso mio figlio è una militare della base Usaf e quindi l’America farà di tutto per proteggerla, nonostante l’evidenza del reato commesso».

Ma non crede che di fronte a un caso così drammatico, con il tasso alcolico oltre i limiti e l’elevata velocità, difendere la colpevole sia quasi impossibile?

«Glielo ripeto: io non ho alcuna fiducia e sono sempre più arrabbiata. Poco prima dell’incidente un automobilista ha incrociato la militare che correva come una pazza zigzagando. Ha lampeggiato più volte inutilmente. Poi nello specchietto retrovisore ha visto l’auto che alla rotatoria è andata dritta prima di carambolare su mio figlio e ucciderlo».

Come ha saputo della tragedia?

«Sono stata svegliata alle 4.14 dalla telefonata di una donna il cui nipote si trovava nella stessa discoteca dove avevo portato mio figlio. Mi ha detto che Giovanni aveva avuto un incidente e che era stato trasportato all’ospedale. Ha aggiunto che da lì a poco sarebbero venuti i carabinieri a casa mia. Non li ho aspettati e sono partita subito».

E durante quel breve tragitto cos’ha pensato?

«Avevo brutti presentimenti, ero terrorizzata. Poi, una volta in ospedale...»

Cos’è successo?

«Mi hanno accompagnato in uno studio, dove c’erano quattro sanitari che mi hanno informato della morte di Giovanni. Poco dopo è arrivato mio marito. Abbiamo voluto vederlo. A quel punto i ricordi si fanno confusi, mi hanno dato delle gocce e mi sono ritrovata a casa perché non ero in condizione di guidare».

A che ora aveva accompagnato in discoteca suo figlio?

«Verso le 11.30, in auto, chiedendogli di rincasare a piedi, perché preferivo così».

Ma al momento dell’indicente non stava rientrando in bici?

«Sì, probabilmente gliel’aveva prestata un amico».

Era molto tardi quando Giovanni è stato investito.

«Sì eravamo abituati che stesse fuori a quell’ora. Ma noi eravamo tranquilli. Sapevamo che andava in discoteca con gli amici e il tragitto era breve. Era un ragazzino serio, non ci aveva dato mai alcun problema e noi avevamo la massima fiducia».

La tragedia di Porcia e l'ipotesi processo negli Usa. Soldatessa ubriaca, Giovanni ucciso a 15 anni al buio per risparmio energetico. La madre: “Torna a casa a piedi”. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2022. 

Alcol nel sangue quattro volte il limite consentito. Era ubriaca la soldatessa americana di 20 anni che nella notte tra sabato e domenica  a Porcia, in provincia di Pordenone, ha travolto e ucciso con la sua auto un ragazzino di 15 anni, Giovanni Zanier, che tornava a piedi da una discoteca in compagnia di altri due amici rimasti miracolosamente illesi.

L’alcoltest a cui è stata sottoposta la giovane donna ha cristallizzato il tasso alcolemico presente nel sangue della soldatessa Usa in servizio presso la base Usaf di Aviano, pari a 2,09 grammi per litro, ovvero quattro volte il limite consentito. La procura di Pordenone ha chiesto al Gip la convalida dell’arresto con l’accusa di omicidio stradale aggravato. La donna si trova al momento in stato di fermo agli arresti domiciliari e nelle prossime ore è fissata l’udienza di convalida.

La stessa procura friulana sottolinea inoltre che “al momento dell’esercizio dell’azione penale, il Ministro della Giustizia italiano può, a discrezione o su richiesta della base americana, attivare il difetto di giurisdizione e consentire così all’indagato statunitense di essere processato nel proprio Paese“. Ma, ha piegato il Procuratore Raffaele Tito, “questa opzione, in capo al Ministro  è operativa in base ai trattati internazionali sulla giurisdizione dei militari Nato in Europa”. La soldatessa quindi può essere processata negli Stati Uniti così come prevede la convenzione di Londra.

Una tragedia quella del giovane Giovanni, che aveva compiuto 15 anni lo scorso 28 maggio, che ha sconvolto l’intera comunità friulana. La madre, che lo aveva accompagnato in auto al locale, si era raccomandata con lui di tornare a casa a piedi, di non accettare passaggi dopo la serata in discoteca trascorsa con gli amici. E la giovane vittima ha eseguito le direttive della donna, tornando a piedi a casa, distante alcuni chilometri. E’ stato travolto poco dopo le due di notte sulla pista ciclabile di via Lazio, a Porcia, mentre portava a mano la bicicletta di un amico.

Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, l’auto della militare Usa, una Volkswagen Polo, è  sopraggiunta dalla direzione opposta quando, a causa della velocità sostenuta, ha perso aderenza in una rotatoria, sfondando un cartello stradale e centrando in pieno il 15enne, scaraventato a una decina di metri dal luogo dell’impatto.

Immediata la richiesta di soccorsi partita dagli amici e dalla stessa 20enne. Ma nonostante l’intervento dell’ambulanza e del rianimatore a bordo dell’elicottero sanitario abilitato al volo notturno, il cuore di Giovanni ha smesso di battere poco dopo l’arrivo al pronto soccorso dell’ospedale di Pordenone.

Anche la 20enne è stata portata in ospedale perché in forte stato di choc e lievemente ferita. Qui è stata sottoposta ai testi tossicologici e alcolemici. Un altro aspetto da tenere in considerazione è relativo alla mancanza di illuminazione in quel tratto di strada dopo le due di notte disposta dal comune di Porcia per risparmio energetico.

Confermati gli arresti domiciliari per la 20enne alla guida ubriaca. Giovanni ucciso a 15 anni, le parole della soldatessa Usa che era al volante: “Mi scuso per il dolore che ho causato”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Agosto 2022. 

“Sono distrutta dal dispiacere, mi scuso con tutti per il dolore che ho causato”. Sono queste la parole nel corso dell’udienza di convalida dell’arresto di Julia Bravo, la soldatessa statunitense di 20 anni, che ha travolto e ucciso Giovanni Zanier, il quindicenne di Pordenone. La soldatessa era alla guida ubriaca. Come riportato dall’Agi, la giovane aviere Usa, che per il resto si è avvalsa della facoltà di non rispondere, ha chiesto di poter rilasciare dichiarazioni spontanee soltanto per porgere le scuse ai genitori e al fratello della vittima.

Julia Bravo è difesa dall’avvocato Aldo Masserut del foro di Pordenone che si è rimesso alla decisione del Gip Andrea Del Missier. La donna è agli arresti domiciliari all’interno della Base Usaf di Aviano. Il Gip del Tribunale di Pordenone ha convalidato l’arresto, ai domiciliari, per il reato di omicidio stradale. La militare americana è stata trovata positiva all’alcol test e la sua posizione si è aggravata. Gli esami tossicologici hanno confermato che si era messa al volante ubriaca: 2,09 grammi di alcol per litro di sangue, ossia quattro volte più del consentito.

“Quella donna si è messa al volante completamente ubriaca”, ha detto una testimone oculare, che ha rilasciato alla Procura di Pordenone un’inquietante ricostruzione di quanto accaduto sabato notte, poco prima dell’investimento mortale del quindicenne friulano. Come riportato dall’Ansa, si tratta di una testimonianza raccolta dal Gazzettino: “Siamo uscite assieme dalla medesima discoteca – ha riferito la donna agli investigatori -. Nel parcheggio non riusciva nemmeno ad accendere l’auto. Le è morta due-tre volte prima di riuscire a immettersi in strada”.

“Abbiamo seguito lo stesso tracciato verso Porcia e Pordenone – ha proseguito la testimone – e io, da subito, ho deciso di tenere la massima distanza. Zigzagava, non riusciva a tenere la strada. Giunta in prossimità della rotatoria, invece che rallentare ha accelerato, prendendo in pieno da dietro quel povero ragazzino”. Non si sa dove si stesse recando la soldatessa americana, ma la Base Usaf dove presta servizio, e nella quale si trova rinchiusa agli arresti domiciliari, si trova nella direzione diametralmente opposta a quella intrapresa.

Per Barbara Scandella, la mamma di Giovanni, al dolore si unisce la rabbia: “Non si perdona una cosa così. Tanto meno per come è accaduta. Una testimone che guidava dietro la donna ha detto di averla vista zigzagare e ora sappiamo che si era messa al volante in quello stato. Mio figlio era pieno di amici e adesso lo stanno piangendo tutti”, ha detto la mamma in un’intervista a Repubblica.

La soldatessa potrebbe essere processata negli Stati Uniti come prevede la convenzione di Londra. Ma la mamma non ci sta e chiede giustizia in Italia. “Voglio giustizia e la voglio qui, in Italia. Poi, se riterranno, la processino anche nel suo Paese. So che niente mi restituirà mio figlio. Ma chi lo ha ucciso deve essere condannato dal nostro tribunale e scontare per intero la pena. Anche se devo ammettere che, con quello che si sente, non ho grande fiducia”, ha detto.

Intanto la Procura della Repubblica di Pordenone ha concesso il nullaosta alla sepoltura di Giovanni. Il magistrato che si occupa dell’inchiesta non ha ravvisato la necessità di eseguire ulteriori indagini sul corpo della vittima, che stava camminando su una pista ciclo-pedonale. Le esequie saranno celebrate giovedì 25 agosto, alle 16, nella chiesa del Beato Odorico a Pordenone, la parrocchia frequentata dal giovane e dalla sua famiglia. Hanno annunciato la loro partecipazione numerose autorità locali.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da open.online.it il 18 agosto 2022.

Guidava senza patente, con la gamba sinistra ingessata e sotto l’effetto della Thc. La polizia locale di Milano ha arrestato Nour Amdouni, il ventenne che lo scorso 9 agosto ha investito e ucciso l’11enne Mahanad Moubarak, un bambino che stava passando in bici in via Bartolini, in zona Certosa. Amdouni, secondo quanto ricostruito dai pm, non aveva mai preso la licenza di guida. 

Ora è accusato di omicidio stradale con l’aggravante della fuga: inizialmente, Amdouni si era allontanato a bordo della Smart con targa svizzera, intestata a un’azienda elvetica, senza nemmeno frenare. Si era poi costituito alcune ore dopo. Era risultato negativo all’alcol test, ed era stato poi stato sottoposto a un esame tossicologico, che ha dato esito positivo.

Per quanto riguarda la velocità, Amdouni, spiegano dalla Procura, andava a «non meno di 90 chilometri all’ora» in una zona dove il limite è di 50. Secondo la procura, il ragazzo ha dimostrato una «allarmante freddezza» e «lucidità» nel fuggire, «senza neppure curarsi minimamente – soltanto per umana pietà – delle sorti del ragazzino» e questo denota una «elevata pericolosità sociale» e «incapacità di autocontrollo».

Secondo i pm si è costituito per calcolo, evitando l’arresto in flagranza e quindi un provvedimento di fermo. Da qui la richiesta della custodia cautelare in carcere proporzionata «all’estrema gravità dei fatti». 

Nour Amdouni, arrestato il 20enne pirata della strada che ha investito e ucciso il piccolo Mohanad Moubarak: droga, 90 all’ora e gamba ingessata. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.

Il giovane italo marocchino era alla guida senza aver mai conseguito la patente, inoltre aveva assunto cannabinoidi e aveva una gamba ingessata. La sua Smart viaggiava a oltre 90 chilometri all’ora a fronte di un limite di 50

È stato arrestato Nour Amdouni, il 20enne italo marocchino, che nella notte tra lunedì 8 e martedì 9 agosto aveva investito e ucciso il piccolo Mohanad Moubarak,11 anni, tra via Bartolini e viale Monte Ceneri. La notizia arriva nello stesso giorno dei funerali del piccolo, celebrati giovedì pomeriggio al campo islamico del cimitero di Bruzzano. Il 20enne era alla guida senza aver mai conseguito la patente, ma aveva anche assunto cannabinoidi come hanno messo in luce gli esami sul suo sangue.

La sua Smart, inoltre, viaggiava a una velocità superiore ai 90 chilometri orari a fronte di un limite di 50. Da ultimo, Amdouni era alla guida con una gamba ingessata. Il 20enne era fuggito dopo aver investito l’11enne senza prestare soccorso e si era presentato alla polizia stradale 4 ore più tardi.

Secondo la procura, il fatto che Amdouni avesse la gamba sinistra ingessata costituiva «un oggettivo impedimento fisico alla guida». Il 20enne avrebbe investito la bicicletta di Mohanad «senza rallentare». È accusato di omicidio stradale aggravato dalla guida senza patente e dalla positività ai cannabinoidi (Thc) oltre che del reato di fuga del conducente a seguito di sinistro stradale.

Le indagini, subito dopo l’incidente, avevano permesso di individuare la Smart intestata a una ditta svizzera. Mentre i vigili del Radiomobile erano sulle tracce del guidatore, Ambouni s’è presentato alla Stradale di via Jacopino da Tradate — vicino a piazza Prealpi, dove risiede — «assumendosi la responsabilità del sinistro e giustificando la sua fuga come conseguenza della crisi di panico che l’aveva colto in relazione all’evento». Per il pm Rosario Ferracane che ha richiesto la misura cautelare, elementi a sostegno delle accuse sono «la gravissima condotta di guida assunta in occasione del sinistro stradale, l’essersi messo alla guida dell’autovettura senza aver mai conseguito la patente di guida, in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, l’aver condotto il mezzo a velocità elevata e pur in presenza di un ulteriore impedimento fisico legato al fatto di avere una gamba ingessata, nonché l’allarmante freddezza e la lucidità dimostrata in occasione del violentissimo impatto e dell’immediata fuga (senza prestare soccorso ed assistenza e senza neppure curarsi minimamente - soltanto per umana pietà - delle sorti del ragazzino poco prima investito».

A giudizio della procura l’indagato ha «un’elevata pericolosità social e inequivoca incapacità di autocontrollo». Per il gip Fiammetta Modica, Nour Amdouni si è dimostrato «totalmente privo di umanità e pietà in occasione del sinistro» e «a fronte dell’inaudita gravità della condotta in esame, a nulla rileva la “scelta” dell’odierno indagato di contattare la polizia Stradale di Milano dopo oltre 3 ore e mezza dal sinistro; quest’ultima non può essere letta infatti quale concreto segnale di resipiscenza, ma è con tutta evidenza il frutto di un calcolo opportunistico e strategico ben preciso, finalizzato esclusivamente - venuta meno la flagranza del reato (essendo decorse molte ore dal fatto di reato) e la possibilità di essere tratto in arresto - ad evitare con la spontanea presentazione presso gli uffici della polizia di essere sottoposto ad un provvedimento di fermo (in ragione del venir meno del presupposto anche del pericolo di fuga)». Per questo «la misura della custodia cautelare in carcere — secondo il giudice — viene ritenuta proporzionata all’estrema gravità dei fatti oltre che l’unica concretamente idonea ed adeguata a soddisfare le relative esigenze cautelari; ogni altra misura cautelare, compresa quella degli arresti domiciliari, risulterebbe infatti inidonea a perseguire tali preminenti ed inderogabili finalità di tutela della collettività e di salvaguardia delle esigenze probatorie».

L’assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, Marco Granelli, in occasione dei funerali di Mohanad ha inviato un messaggio di vicinanza alla famiglia e alla comunità: «Sia questa tragedia di monito a chi si mette alla guida di un veicolo, qualsiasi esso sia. La strada può essere pericolosa. Dobbiamo lavorare sempre di più per la sicurezza stradale, per controllare chi guida in strada e per prevenire. Intanto dobbiamo far sapere che chi si comporta così viene individuato e abbiamo un sistema che riesce a individuare e provare. Ma dobbiamo ancora fare molto in controlli e prevenzione. Questo il mio impegno, il nostro impegno». 

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2022.

La notizia dell'arresto arriva mentre il papà Abdalla Moubarak, i fratelli e le sorelle piangono nel campo musulmano del cimitero di Bruzzano, davanti alla bara bianca coperta da un telo verde del piccolo Mohanad. L'arresto del pirata nel giorno del funerale non cancella il dolore per la morte di un figlio di 11 anni. 

Ma restituisce un po' di quel senso di «giustizia» invocato dai familiari che per nove giorni hanno saputo che l'automobilista, drogato e senza patente, che ha ucciso il loro piccolo trascinandolo per trenta metri insieme alla sua bicicletta, era libero solo perché, dopo una fuga durata 3 ore e mezza, aveva avuto l'accortezza di presentarsi spontaneamente alla polizia dicendo di essere «scappato per paura».

Una circostanza che gli aveva evitato il fermo, nella notte tra l'8 e il 9 agosto dopo aver travolto il piccolo Mohanad Moubarak, origini egiziane, tra viale Monte Ceneri e via Bartolini. Ma le indagini del pm Rosario Ferracane e della polizia locale hanno messo in luce che il 20enne italo tunisino Nour Amdouni, piccoli precedenti, dopo l'incidente era fuggito verso casa (nella vicina piazza Prealpi), per poi tornare in via Bartolini «in taxi per comprendere quanto fosse accaduto, cercando di reperire notizie dal web con il suo cellulare, contattando un avvocato per un consulto».

Solo a quel punto, forse dopo aver concordato la versione con la compagna che era in auto al suo fianco, ha deciso di presentarsi alla stradale raccontando «di una manovra del ciclista, a fronte della quale non si poteva evitare l'impatto». Dicendo quindi che il piccolo Mohanad, mentre girava in bici intorno al ristorante del padre in attesa della chiusura, aveva scartato improvvisamente «al centro della carreggiata» gettandosi verso la Smart.

Un tentativo di «addossare ogni responsabilità alla vittima» smentito dalle telecamere, secondo il gip Fiammetta Modica, che ieri ha firmato l'ordine di custodia in carcere. I filmati con gli ultimi istanti di vita di Mohanad, per il giudice sono quelli di «un ragazzino spensierato che gironzolava in un luogo conosciuto, in una notte d'estate facendo dei cerchi sulla strada». Dall'altro lato c'è la Smart guidata da Amdouni «nell'atto di proseguire la sua marcia ad elevata velocità, senza la minima frenata». Circostanza «significativa delle condizioni del conducente e dell'assenza di autocontrollo»: «Amdouni è totalmente privo di umanità e pietà».

Secondo la ricostruzione della procura, guidava con la gamba sinistra ingessata («oggettivo impedimento fisico») e con droghe nel sangue: 4 ng/ml di Thc (cannabinoidi). Ha ammesso di aver fumato hashish «ma 48 ore prima» dell'incidente, come spiega il difensore: «Nour è in cura da 5 anni per disturbi della personalità e ha una situazione familiare difficile. È provato e distrutto per la morte del piccolo, dice di sentire "il bambino dentro"».

Per il pm Rosario Ferracane la Smart con targa svizzera (intestata a una società) guidata dal 20enne, che non ha mai preso la patente, viaggiava a oltre 90 chilometri orari su un limite di 50: «La mancanza di lucidità e di prontezza di riflessi derivanti dall'assunzione di droga, unitamente a una condotta di guida imprudente hanno sicuramente influito sulla capacità di avvistamento dell'ostacolo prima ancora che sulla capacità di porre in essere una possibile manovra di emergenza».

Il 20enne è in carcere per omicidio stradale, aggravato dalla guida senza patente, dall'effetto di droghe, e per la fuga. Amdouni a parere del giudice è fuggito «con un contegno riprovevole e sprezzante verso la vita umana». Per la difesa, il 20enne «ha contattato le forze dell'ordine al telefono prima di consegnarsi», è salito sul taxi perché l'auto, lasciata poco lontano, «non era più marciante», e non aveva un gesso «ma una fasciatura in seguito ad alcuni punti al ginocchio». Amdouni a parere del giudice ha invece agito con «allarmante freddezza e la lucidità» e ha «una elevata pericolosità» sociale e «incapacità di autocontrollo».

Claudio Laugeri per “La Stampa” il 14 agosto 2022.

Tredicesima e quattordicesima bruciate. Al semaforo. O saettando davanti a un autovelox. C’è chi si diverte così a Melpignano, terra della Grecia Salentina dove ogni anno ad agosto risuonano le note del concerto finale della «Notte della Taranta». 

Almeno, così pare leggendo i dati sui soldi incassati dai vari Comuni d’Italia per le infrazioni al codice della strada, pubblicati dal ministero dell’Interno. È il risultato della battaglia combattuta da Simone Baldelli, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla tutela dei consumatori e degli utenti, che puntava anche a rendere trasparente l’utilizzo di quei denari pubblici.

Battaglia vinta: entro il 31 maggio di ogni anno, le amministrazioni locali dovranno consegnare i rendiconti al governo. Trasparenza è fatta. Per il 2021, il «tesoretto» è di 400 milioni di euro. Trentacinque euro per ogni cittadino italiano. 

E così, dagli elenchi spunta la curiosità di questo paesino in provincia di Lecce: 2 mila e 135 abitanti, 5 milioni di euro incassati in un anno soltanto con autovelox e affini. Calcolatrice alla mano, fanno 2 mila e 300 euro a testa, compresi i bambini e i residenti che hanno mai armeggiato con volante e leva del cambio.

Dati alla mano, verrebbe da pensare che l’unica patente ancora valida sia quella da indisciplinati. Errato. Profondamente. Melpignano è una cittadina turistica, inserita tra i «Borghi autentici d’Italia»: gli insofferenti al codice della strada possono arrivare da qualsiasi parte del Mondo. 

E poi, la cittadina salentina fa parte dell’Associazione Comuni Virtuosi impegnati «a favore di una armoniosa e sostenibile gestione dei propri territori» anche attraverso «risparmio energetico, nuovi stili di vita e partecipazione attiva dei cittadini». Ma non così attiva da farsi trafiggere dal telelaser (e pagare le multe) per sopperire alle croniche carenze di fondi pubblici.

Ma la «lista Baldelli» svela altre curiosità. Come il record di Colle Santa Lucia, paesino di 360 abitanti nel Bellunese, ai piedi delle Dolomiti: in un anno, il Comune ha incassato oltre 552 mila euro per infrazioni rilevate dagli autovelox. E anche qui, sono stati i turisti a lasciarci lo zampino.

Difficile provare stupore per i 102 milioni e 600 mila euro finiti nelle casse del Comune di Milano (13 milioni per i controlli elettronici), o per 94 milioni e 100 mila euro (4,6 per autovelox) «devoluti» da automobilisti e motociclisti all’amministrazione della Capitale, o ancora per i 41 milioni e mezzo (5 per autovelox) incamerati dal Comune di Torino. Quisquilie, direbbe Totò, se paragonate ai quasi 3 milioni di euro incassati in meno di due mesi dal Comune di Genova con le multe nel solo corso Europa, dove l’occhio elettronico ha consentito di falciare 10 mila e 600 punti dalle patenti.

Ma il sopracciglio si alza in segno di sorpresa e ammirazione per i tanto vituperati automobilisti di Napoli, che hanno pagato pegno per soli 27 mila euro (tutte multe elettroniche). E comunque, bando alla facile ironia sulle furberie partenopee. È roba vecchia, chiacchiere d’altri tempi superate dalla realtà.

E la dimostrazione è nella stessa «lista Baldelli»: difficile sapere se sia per scaltrezza o per virtù, ma nessun guidatore passato da Bari, Perugia, Catanzaro e Campobasso ha pagato pegno ai vigili elettronici. Con tutti questi specialisti di slalom fra le colonnine dell’autovelox, ci sarebbe quasi da proporre una candidatura per le «Olimpiadi della patente». Vince chi torna a casa con tutti i punti.

“L’autista aveva il capo reclinato". Poi il salto nel vuoto del bus. Un bilancio di 40 morti e 8 feriti, un dramma che non si cancella: l'incidente del viadotto Acqualonga cerca ancora i responsabili. Angela Leucci il 2 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Una comitiva allegra rientra da una gita fuori porta. È domenica, giorno che riporta di solito al pensiero delle responsabilità settimanali, ma ancora nell’aria c’è la tipica spensieratezza del fine settimana. Il lunedì però, per molti di loro, non sarebbe arrivato mai più. L’incidente stradale del viadotto Acqualonga accaduto il 28 luglio 2013 fu una grande tragedia in cui perirono 40 persone. Il bilancio dei feriti fu di altre 8 persone, tra cui tutti i bambini presenti, che sopravvissero ai loro cari.

Prima la gioia, poi un salto nel vuoto

Non c’è bisogno di immaginare granché di ciò che accadde prima dell’incidente. Nel 2013 in tanti usavano uno smartphone e anche i telefoni cellulari dell’epoca riuscirono a catturare quegli attimi di gioia. I gitanti in fondo avevano trascorso delle giornate splendide a Telese Terme e Pietrelcina, borgo natale di Padre Pio, e si apprestavano a far ritorno alle loro case, a Napoli e in gran parte a Pozzuoli, comune costiero dell’area metropolitana.

Sono le 20.30 di una domenica come tante, è il 28 luglio 2013. Un pullman Volvo impiegato in un viaggio organizzato percorre la A16 lungo il tratto irpino. Si tratta di una zona molto suggestiva della Campania, che ancora conserva le cicatrici del terremoto del 1980 ma che ha saputo risollevarsi nonostante tutto. 

L’autista Ciro Lametta è un professionista che sa il fatto suo. Ha 44 anni e ogni giorno guida lo scuolabus per l’agenzia viaggi di famiglia, come racconta il Corriere della Sera. Però fa l’autista in queste gite organizzate solo di tanto in tanto, è una sorta di supplente. È lui che cerca di frenare in tutti i modi quando i freni del mezzo non funzionano più.

I passeggeri lo avvertono poco dopo i caselli di Avellino: si sentono degli strani rumori dall’interno dell’autobus. Lui li rassicura, in fondo mezz’ora e si rientrerà a casa. Così l’autobus si impegna in una salita e poi in una discesa, attraversa la galleria Quattro Cupe di Monteforte Irpino, ma è qui che inizia la tragedia. Perché il giunto cardanico dell’albero di trasmissione si rompe, compromettendo irrimediabilmente l’impianto frenante.

Lametta cerca di mettere in campo le sue conoscenze per frenare ugualmente o restare in carreggiata, ma non ci riesce e, dopo aver colpito alcune auto, il pullman impatta contro il new jersey del viadotto, volando in una scarpata. Il salto prima dello schianto è di circa 30 metri e alcuni passeggeri, in quei minuti che durano anni, riferiscono che forse Lametta era svenuto.

“Noi gli abbiamo chiesto buttati sulle macchine - ha riferito al processo Annalisa Caiazza, una delle sopravvissute, come riporta il Corriere Irpinia - anche egoisticamente, perché dall’altra parte c’era il vuoto, ma lui non dava alcun cenno di risposta, aveva il capo reclinato”.

Il dramma del lutto 

Quel salto nel vuoto costa la vita nell’immediato a 38 persone, nonostante i soccorsi, che giungono dall’intera Campania ma anche dal Lazio e dalla Puglia come riporta Sky Tg24, siano tempestivi. Altre 2 persone muoiono successivamente nonostante una strenua lotta per la vita: sono Simona Del Giudice di 16 anni, la vittima più giovane e Salvatore Di Bonito di 54 anni, il cui cuore cede dopo oltre una mese in ospedale.

Intanto al Santobono sono ricoverati i bambini, tutti feriti lievemente perché si trovavano sul fondo del pullman. Le esequie di stato delle vittime - tranne Lametta per cui viene predisposta l’autopsia - si svolgono il 31 luglio nel Palazzetto dello Sport di Pozzuoli con i bimbi da poco dimessi, in attesa di un futuro in cui hanno perso parti importanti della loro famiglia.

Le responsabilità giudiziarie

L’inchiesta sulle responsabilità dell’incidente del viadotto Acqualonga assume diverse direzioni. Si cerca di fare chiarezza sull’operato di Lametta, ma sembra che i famigliari delle vittime non lo ritengano colpevole: è difficile avercela con una persona che ha perso anche lei la vita. Ma c’è dell’altro. 

Gli inquirenti esaminano i video dell’incidente a loro disposizione, cercano e trovano i testimoni. Tutti, tranne quelli che erano su due auto legate da un traino, che sembrano essere scomparse nel nulla. In tutto questo ci si domanda perché e come il new jersey abbia ceduto.

La sentenza di primo grado, che vede a giudizio 15 soggetti, arriva l’11 gennaio 2019. Come spiega Fanpage, i condannati sono Gennaro Lametta, fratello di Ciro e titolare dell’agenzia di viaggi che aveva organizzato la gita, la dipendente della Motorizzazione di Napoli Antonietta Ceriola, i dirigenti di Autostrade Paolo Berti, Gianluca De Franceschi, Nicola Spadavecchia, Michele Renzi e Bruno Gerardi.

È il fratello dell’autista però a ricevere la pena più severa: 12 anni. Tra gli assolti l’amministratore delegato di Aspi Giovanni Castellucci: per lui erano stati chiesti 10 anni. Castellucci è attualmente imputato nel processo d’appello e a giugno 2022 ha chiarito come fossero stati stanziati i fondi correttamente e come il cda avesse firmato documenti in buona fede, come spiega Avellino Today, in base al giudizio dei progettisti, che avevano facoltà di scegliere su quali new jersey intervenire con nuovi lavori. In sede civile Autostrade per l’Italia e il proprietario del pullman sono stati ritenuti entrambi colpevoli e tenuti al risarcimento di 900mila euro ai famigliari delle vittime.

Le “auto fantasma” sono tornate a interessare nel corso del processo d’appello all’inizio del 2022. “Risulta alquanto inspiegabile - ha spiegato al Mattino l’avvocato Sergio Pisani, che ha chiesto tra l’altro la testimonianza del meccanico che aveva supervisionato il Volvo prima della partenza - che due auto trainate da una corda di acciaio, e quindi una delle due non marciante, siano letteralmente scomparse dal teatro degli eventi. Sicuramente a rottura del cavo traino può essere annoverata tra le cause scatenanti il sinistro. Fatto sta che di quest'auto vi è traccia solo nel video”. La prossima udienza del processo d’appello sarà il 17 novembre 2022.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 20 settembre 2022.  

Le dichiarazioni del settantanovenne Gianni Mion, per 30 anni alla guida della holding della famiglia Benetton (tanto da essere ribattezzato dalla Procura di Genova «l'inventore del loro impero»), chiamano in causa il vecchio vertice di Autostrade per l'Italia non solo per il crollo del ponte Morandi, ma anche per un'altra drammatica vicenda.

A febbraio è attesa la sentenza di appello per il disastro del viadotto Acqualonga sulla Napoli-Canosa vicino ad Avellino, dove, il 28 luglio 2013, un pullman con 48 pellegrini a bordo precipitò nel vuoto, a causa di un guasto meccanico, dopo aver sfondato le barriere di protezione che, si scoprì poi, non erano a norma. 

La perizia commissionata dal giudice denunciò un «difetto di risposta strutturale della barriera New Jersey» e, a proposito dello stato di manutenzione, «un quadro impietoso». Per la morte di 40 innocenti sono state processate in primo grado 15 persone, accusate, a vario titolo, anche di omicidio colposo plurimo e disastro colposo.

Tra gli imputati anche l'ex ad di Autostrade per l'Italia Giovanni Castellucci, oggi alla sbarra anche per il crollo del Morandi. Il giudice monocratico Luigi Buono lo assolse, scatenando la protesta dei parenti. Vennero, invece, condannati per le barriere fuorilegge sei dipendenti di Aspi. Il più alto in grado, l'allora numero tre dell'azienda Paolo Berti, ha preso 5 anni e 6 mesi di reclusione poiché nel 2013 era direttore del tronco sotto inchiesta.

A Napoli è in corso il processo d'appello e Castellucci è ancora imputato.

I pm hanno evidenziato che nel 2008 l'ex ad, quando la Direzione servizi tecnici propose la sostituzione delle barriere di «seconda generazione», come quelle dell'Acqualonga, fece mettere a verbale la frase che «attualmente non esiste obbligo di sostituzione di tali barriere». Per l'accusa si tratterebbe di «una chiara ed inequivoca scelta operativa con una contestuale assunzione di responsabilità». 

Castellucci a giugno ha ribadito la sua estraneità alle accuse e ha spiegato che i fondi stanziati per la riqualificazione delle barriere avrebbero potuto essere utilizzati anche per sostituire quelle del viadotto Acqualonga e che i tecnici avevano piena libertà decisionale.

La Procura generale potrebbe chiedere di utilizzare anche le conversazioni captate dalla Guardia di finanza di Genova in un'inchiesta collegata al crollo del Morandi dopo la sentenza di primo grado di Avellino. 

Ma sembra che nel procedimento non entreranno, invece, le dichiarazioni di Mion. «Non è mai stato sentito a Napoli e non ho notizia del suo verbale» ci conferma l'avvocato di Castellucci, Alfonso Furgiuele. Il motivo è per noi un mistero. Anche perché come ammette il legale, «Castellucci è il principale imputato» e «questo è diventato un processo alla gestione di Autostrade di cui lui è stato amministratore delegato per 19 anni».

Mion, in veste di testimone, il 13 luglio 2021 davanti al pm Massimo Terrile su quella strage lanciò pesantissime accuse. L'invito a rendere sommarie informazioni fu deciso a fine indagine e di quelle dichiarazioni non c'è traccia su Internet, né sui giornali o nelle agenzie. Ne diede conto a dicembre del 2021 solo Il Fatto quotidiano, ma l'articolo passò totalmente inosservato. Per questo vale la pena di riprenderlo in vista della sentenza di appello del processo di Napoli. 

Il 13 luglio Terrile chiede conto a Mion di una frase ascoltata in un'intercettazione e riferita proprio al disastro di Acqualonga: «Hanno fatto i furbi per far assolvere Castellucci». L'ex ad della holding Edizione spiega che aveva «letto che Castellucci, in quel processo, era stato assolto, sostanzialmente, perché ritenuto non coinvolto direttamente nelle scelte relative alle barriere di sicurezza per la sua posizione apicale di amministratore delegato» e che «evidentemente questo era stato detto dai testimoni in quel processo».

Ma secondo il manager quella ricostruzione, accolta dal tribunale di Avellino, non è convincente: «In questa telefonata, io manifesto la mia convinzione che "avessero fatto i furbi", in quanto la mia diretta e personale conoscenza della personalità e del modo di lavorare di Castellucci era in radicale e totale contrasto con la conclusione che era stata posta a fondamento della sua assoluzione».

Infatti per Mion l'ex ad di Aspi «era uno che si occupava di tutto, dai problemi più grandi a quelli di minimo dettaglio, che lavorava incessantemente sulle tematiche più diverse, che voleva essere sempre informato su tutto e prendere sempre su di sé qualsiasi decisione. Era un accentratore forsennato anche se indubbiamente molto capace». Il manager non parla di Castellucci in questi termini soltanto davanti al pm. 

Per esempio, in una telefonata con Carlo Bertazzo, ex ad di Atlantia, afferma: «I ministri precedenti non è che abbiano brillato [] nelle verifiche e nei controlli hanno dato a questo ragazzo un senso d'impunità totale [] questo faceva il bello e il cattivo tempo eh... e questo è evidente». Dove il «ragazzo» è proprio Castellucci. Un clima che aveva portato Mion a sostenere che quello di Aspi fosse diventato «un ambiente degradato al 100%...ma proprio una vergogna colossale...pure i Rolex [] una roba proprio... un cesso pazzesco».

Dopo l'assoluzione di Castellucci del gennaio 2019, uno dei dirigenti condannati, Berti, perse le staffe mentre era sotto intercettazione. Michele Donferri Mitelli, altro super manager di Aspi imputato a Genova, gli telefona e lo invita ad andare a trovare Castellucci: «Ha chiesto una mediazione con te ti vuole rasserenare e vuole dire che ti aiuterà per tutta la vita».

Berti, che soprannomina Castellucci «bestia», spiega al telefono che «quel problema lì», quello delle barriere, «c'era dal 2006» e, con la moglie, si rammarica per l'assoluzione del «Capo»: «Le memorie difensive... diciamo abbiamo dovuto difendere la linea [] e siam rimasti in mezzo noi capito?». 

Donferri prova a placare il collega, facendogli capire che se anche avesse coinvolto l'ad, la sua posizione non sarebbe migliorata: «Non pensare che, se coinvolgevi pure lui, a te non te li davano...». Gli fa capire che grazie all'assoluzione Castellucci potrà rimanere in sella altri tre anni e garantire a Berti la «business continuity». Il dirigente condannato non sembra convinto e in un'altra conversazione esplode: «Guarda e uno che meritava una botta di matto, ma una botta di matto dove io mi alzavo la mattina andavo ad Avellino e dicevo la verità cosi l'ammazzavo, credimi era l'unica soddisfazione che avevo...». E all'obiezione di Donferri («Ma non ti cambiava niente Paolo...»), replica: «Lo so, non mi cambiava niente, pero vaffanculo...». 

Il collega gli consiglia di «stringere un accordo col capo» e soggiunge: «T'ha pagato».

In effetti i giudici del Riesame di Genova annotano che «il reddito da lavoro dipendente dichiarato da Berti ha subito un netto incremento nel 2017, quasi triplicando, e Castellucci, alla vigilia della lettura della sentenza, aveva tutelato Berti trasferendolo da Aspi alla società Aeroporti di Roma [] a inizio 2019». 

Alla fine Berti arriva a guadagnare 700.000 euro l'anno, mentre Castellucci, ricordano le toghe, a partire dal 2010, intasca 2 milioni tra Atlantia e Aspi, senza considerare gli incentivi triennali. Poi 83 morti e due processi hanno fatto perdere il posto di lavoro a entrambi.

Per i giudici da «tali elementi si ricava chiaramente che Berti e Castellucci, coimputati con altri, erano stati difesi nel processo di Avellino, nel quale Aspi era responsabile civile, seguendo una linea difensiva evidentemente comune, che mirava a non far emergere che i vertici di Aspi fossero informati circa le concrete e singole vicende di cattiva manutenzione di ciascun tronco, difendendo in tal modo anche la società e le sue casse. 

E chiaro che dalle intercettazioni riportate Castellucci si e avvantaggiato di tale linea difensiva, che del tutto verosimilmente ha contribuito a determinarne l'assoluzione in primo grado». Ma queste intercettazioni verranno utilizzate nel processo di appello di Napoli? «Sono arrivate e sono state depositate nel fascicolo, ma non se ne è mai parlato in aula. Comunque» conclude l'avvocato Furgiuele, «essendo state disposte in diverso procedimento, potrebbero essere ritenute inutilizzabili». Nonostante il peso che quelle conversazioni e quel verbale meriterebbero di avere nella drammatica storia del viadotto Acqualonga.

Tommaso Fregatti per “La Stampa” il 20 settembre 2022.

Autostrade per l'Italia e la sua società gemella deputata ai controlli delle infrastrutture, Spea Engineering, sono fuori dal processo per il crollo del ponte Morandi e non risponderanno civilmente per la morte di 43 persone e per tutti i danni legali. 

Il colpo di scena è arrivato ieri mattina alla ripresa delle udienze. Il collegio di giudici presieduto da Paolo Lepri ha accolto le richieste dei legali delle due società e della stessa procura. I primi avevano fatto leva su un cavillo giudiziario che ha impedito ad Autostrade e Spea di prendere parte come responsabili civili (le due società erano presenti alle perizie invece come indagati per la responsabilità amministrativa) ai due incidenti probatori in cui era stato evidenziato come degrado e mancanza di manutenzione fossero cause del crollo.

Alla fine, il collegio dei giudici ha deciso - in controtendenza con i colleghi dell'udienza preliminare che avevano tenuto le due società all'interno del processo - di mettere fuori Autostrade e Spea proprio per questo cavillo giuridico. Una scelta che ha scatenato l'ira dei parenti delle vittime. A parlare per tutti Egle Possetti, portavoce del comitato Ponte Morandi che si è detta «amareggiata e delusa per questa decisione. Abbiamo sperato fino all'ultimo che Autostrade e Spea potessero rimanere dentro il processo anche e soprattutto per una questione di immagine, peccato davvero». La portavoce aggiunge: «Autostrade e Spea sono fuori ed è come se fossero liberi dalla responsabilità di quanto accaduto quel giorno».

Ma ora cosa cambia con l'uscita di scena di Autostrade per l'Italia e Spea? Sicuramente la decisione dei giudici peserà come un macigno sulle circa 700 parti civili che sono già nel processo o che hanno chiesto di essere ammesse e sono in attesa del pronunciamento. Perché anche se ammessi - nelle prossime ore i giudici potrebbero tagliare almeno 200 di queste posizioni - non avranno più un euro da Autostrade e Spea. Ma li dovranno chiedere agli imputati se ovviamente condannati. 

Non ci saranno soldi da dare invece ai parenti delle vittime. Sono stati tutti risarciti e sono tutti usciti dal processo. A parte la famiglia Possetti, che non ha mai accettato alcun risarcimento. Anche Roberto Battiloro, che nel crollo del Morandi ha perso il figlio Claudio, nei giorni scorsi ha accettato il risarcimento proposto. La famiglia Possetti, invece, se da qui alla fine del processo non si accorderà con Aspi (la società ha versato presso un notaio un assegno circolare che può essere ritirato in qualsiasi momento) potrà chiedere i danni alla società concessionaria solo con una causa civile. 

C'è da dire che Autostrade non pagherà più nulla (se non sarà chiamata in causa davanti al giudice civile). E però dal crollo del ponte Morandi a oggi ha pagato e tanto. Secondo quanto ricostruito si parla di almeno 200 milioni di euro che sono stati versati tra parenti, feriti e sfollati.

Da ansa.it il 14 agosto 2022.

Con la messa officiata dall'arcivescovo di Genova Marco Tasca in ricordo delle vittime e per i loro familiari sono cominciate le cerimonie per la commemorazione del crollo del ponte Moranti. Il viadotto sul torrente Polcevera crollò alle 11:36 del 14 agosto 2018 causando 43 vittime, 11 feriti e 566 sfollati. 

Alla messa partecipano, tra gli altri, il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini, Il sindaco Marco Bucci e il segretario della Lega Matteo Salvini. Per la Regione c'è l'assessore alla Cultura Ilaria Cavo.

Dopo la messa ci sarà il ricordo della tragedia alla Radura della Memoria, sotto il nuovo Ponte San Giorgio dove oltre al ministro parleranno la presidente del Comitato per il ricordo delle vittime del Morandi Egle Possetti, il sindaco Bucci, l'imam, il governatore Toti. Prima 43 bambini consegneranno ai parenti delle vittime 43 messaggi. Ieri sera alla Radura della Memoria si è tenuto un concerto di musiche sacre.

"La ferita è sempre aperta ma quattro anni dopo quello che ci fa più male è la cessione della concessione". Così Egle Possetti, presidente del comitato Ricordo vittime ponte Morandi prima dell'inizio della commemorazione. "È inaccettabile quello che è successo, inaccettabile che questa concessione, già scritta come nessuno di noi l'avrebbe scritta neanche per comprare una bicicletta, non sia stata stracciata ma addirittura remunerata agli azionisti, una cosa che umanamente non potremo mai accettare, tutti dovrebbero sapere cosa è successo e a raccontarlo rimangono sbalorditi"

La vigilia. Alla vigilia dell'anniversario del crollo del viadotto sul Polcevera, Egle Possetti, presidente del comitato Ricordo vittime ponte Morandi, è tornata ieri a chiedere che si velocizzi l'iter per la realizzazione del memoriale che dovrebbe sorgere al posto del capannone dove la Procura ha conservato i reperti. "Quanto ancora dovremo aspettare per il memoriale? Senza memoria non c'è progresso e le vittime del crollo di ponte Morandi non devono essere per alcuna ragione dimenticate".

A luglio, in concomitanza con l'avvio del processo, è arrivato il via libera allo spostamento di parte delle macerie ma ancora nulla si è mosso. "Pensavamo che con il progetto definito e con il nulla osta allo spostamento dei reperti si potesse procedere più velocemente, invece". La prima pietra, del tutto simbolica, del cantiere era stata posta dalle istituzioni nel corso della cerimonia di commemorazione del 14 agosto 2021. Dal Comune hanno spiegato che per la progettazione definitiva bisognerà attendere ancora perché ci sono da risolvere anche alcune interferenze con la linea ferroviaria ma l'amministrazione conta di mettere a gara l'opera al più tardi in ottobre.

Ermes Antonucci per ilfoglio.it il 21 settembre 2022.  

A dispetto dei toni scandalistici usati da alcuni quotidiani, non c’è nulla di cui indignarsi per la decisione con cui il tribunale di Genova ha escluso Autostrade per l’Italia (Aspi) e Spea (la controllata incaricata della manutenzione della rete stradale) come responsabili civili nel processo in corso sul crollo del ponte Morandi, che il 14 agosto 2018 causò la morte di 43 persone.

Il collegio giudicante ha accolto, con il parere favorevole della procura, le istanze presentate dagli avvocati di Aspi e Spea, i quali avevano sottolineato un fatto inoppugnabile: le due società hanno partecipato alla fase dell’incidente probatorio, in cui sono state svolte le perizie sullo stato di degrado del ponte e che saranno usate come prove nel processo, come soggetti indagati (per responsabilità amministrativa) e non come responsabili civili. Di conseguenza, non potevano essere citate come tali nel processo.

Con l’esclusione dalla responsabilità civile, Aspi e Spea saranno quindi escluse da eventuali risarcimenti che potrebbero essere disposti a procedimento concluso. In caso di condanna, quindi, a pagare i risarcimenti saranno i singoli imputati (59 tra ex manager e dipendenti delle due società, oltre che dirigenti del ministero delle Infrastrutture), anche se le parti civili potranno comunque intentare una causa contro Aspi e Spea in sede civile.

Alcuni commentatori hanno parlato di “decisione cavillosa” e addirittura di codice di procedura penale “senza cuore”, sostenendo che la decisione di escludere la responsabilità civile delle due società si baserebbe su un aspetto meramente formale: se i legali di Aspi e Spea hanno partecipato all’incidente probatorio, anche polemizzando più volte con i periti, allora come si può affermare che non abbiano avuto la possibilità di esercitare il diritto di difesa?

La risposta l’ha fornita il collegio giudicante, evidenziando che ciò che conta è la veste con cui le parti hanno partecipato all’assunzione della prova. E’ dalla veste che ci si vede attribuita che dipende “il contenuto del mandato ricevuto dai difensori e la strategia difensiva da adottare”, soprattutto considerando le “differenze strutturali tra la responsabilità amministrativa da reato dell’ente, che è responsabilità diretta per fatto proprio, e la responsabilità civile, che è invece responsabilità indiretta per il fatto dell’imputato persona fisica”. 

Peraltro, ricordano i giudici, l’esclusione del soggetto dal processo “non pregiudica in alcun modo che lo stesso possa essere chiamato a rispondere per i medesimi fatti in sede civile”.

Ma c’è di più. Si dà il caso, infatti, che sul piano penale sia Aspi che Spea, nella qualità di enti responsabili amministrativamente, abbiano già patteggiato una sanzione pecuniaria da 30 milioni di euro. Un principio cardine del nostro ordinamento, più volte stabilito dalla Corte costituzionale e ora evocato anche dai giudici genovesi, prevede che “una persona non possa essere contestualmente chiamata a rispondere per lo stesso fatto sia come autore sia come responsabile civile per la condotta del coimputato”.

Ne deriva che la citazione dell’imputato come responsabile civile possa avvenire “solo nel caso in cui l’imputato venga prosciolto oppure ottenga una sentenza di non luogo a procedere”. Avendo già patteggiato, Aspi e Spea non possono essere chiamate a rispondere civilmente delle condotte degli altri imputati. 

Nessuno scandalo, dunque, ma semplice applicazione di alcuni principi basilari del nostro ordinamento giuridico. Nessuna “ultima beffa alle vittime”, come ha scritto il Fatto quotidiano, se si considera che le famiglie di 42 delle 43 vittime del crollo del ponte Morandi sono già state risarcite da Aspi (per una spesa di circa 67 milioni di euro). In tutto, Autostrade avrebbe versato circa 200 milioni tra parenti, feriti e sfollati.

Come sempre, la giustizia fa il suo corso, con le sue regole e i suoi principi, a dispetto del populismo giustizialista che fin dall’inizio ha circondato la vicenda. La politica potrà pure agitare la forca di fronte a eventi tragici di questo genere, come fece l’allora governo gialloverde (il presidente del Consiglio Giuseppe Conte disse che non si potevano "attendere i tempi della giustizia penale”, il vicepremier Matteo Salvini dichiarò che la strage aveva “nomi e cognomi ben precisi, qualcuno deve finire in galera”, senza menzionare le intemerate del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli contro Aspi e i Benetton), ma la decisione dei giudici genovesi ci ricorda che alla fine il nostro resta sempre, per fortuna, uno stato di diritto.

Ponte Morandi, nel crollo c’era anche un camion imbottito di droga. «Così la ‘ndrangheta tentò il recupero». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.

Novecento chili di hashish stipati in un camion coinvolto nel disastro. Erano destinati in Campania ma poi fu la ‘ndrangheta a tentare il recupero. La vicenda emerge da un’intercettazione nell’ambito de un’indagine antimafia di Reggio Calabria

Nel l disastro del ponte Morandi spunta un camion pieno di droga. Era rimasto coinvolto nel crollo e nessuno naturalmente poteva immaginare che all’interno ci fossero 900 chili di hashish. La sorprendente vicenda emerge da un’intercettazione ambientale del marzo 2020 dei carabinieri del Nucleo investigativo di Gioia Tauro impegnati in un’indagine antimafia che martedì scorso ha portato all’arresto di 63 persone. A rivelarla è uno dei boss del clan Bellocco di Rosarno, Francesco Benito Palaia, genero del grande capo e pregiudicato della ‘ndrangheta con precedenti soprattutto per droga. Ne parla a quattr’occhi con un affiliato della stessa cosca, Rosario Caminiti, uomo di fiducia della famiglia Bellocco, ignorando di essere al centro della pesante inchiesta della Procura distrettuale di Reggio Calabria.

Il gip: imbottito di hashish

«Nel discutere dei futuri traffici di stupefacente, Palaia faceva riferimento a un cargo frigo imbottito di hashish e rimasto coinvolto nel triste evento del crollo del ponte Morandi. Una partita destinata a dei malavitosi campani», scrive il gip Vincenza Bellini nella sua ponderosa ordinanza. Secondo il magistrato i baroni della droga campani, dell’area di Secondigliano e Scampia, avevano ingaggiato Palaia per tentare di recuperare il cargo dove era stivata la partita di droga. E ciò nonostante in quel periodo lui fosse agli arresti domiciliari. «Ma poteva essere utile grazie alle sue aderenze nel settore del recupero dei rottami... Avrebbe potuto individuare e trasportare la carcassa del mezzo in Calabria. L’accordo prevedeva una spartizione della sostanza stupefacente al 50%». Stiamo parlando di milioni di euro. A Secondigliano, nel giro dello spaccio, qualcuno ha quindi tentato di metterci le mani, pensando forse che i destinatari del prezioso carico l’avessero dato per perso.

«Glieli voglio fottere»

«Allora, quando è crollato il ponte Morandi, se tu vai al primo video, è caduto un furgone — dice Palaia —. È un cargo giallo, con una cella frigorifera, il piccolino! È caduto paru (orizzontale, ndr)». Caminiti ne era a conoscenza: «È caduto un furgone, lo so, lo so. Raccontava che voleva andarselo a prendere». Palaia: «Insomma, dice che i neri sanno che si è perso... noi stiamo ancora comprando da loro. Io questi 900 chili glieli voglio fottere e tu hai la possibilità di prendertelo tutto, dice... Posso fare una cosa, dico, facciamo 50 e 50, io lo vendo e il 50% te lo prendi tu, tanto non l’hai pagato». Problema: dove e come recuperare un camion scassato? «L’avevano confiscato... ma ora lo hanno spostato da Latina a Frosinone e c’è la possibilità di andarlo a prendere. Con un carrellone lo porto direttamente in Calabria...».

Il trasporto

Palaia, dai domiciliari, si organizza: «C’è un amico mio ai Castelli Romani che ne ha uno con la buca». Dovevano cercare di preservare la cella frigorifera, uscita malconcia dal disastro, e il carrellone «con la buca» poteva fare al caso loro. «Sai qual è la paura? Siccome la cella è deformata». «Che si apra durante il trasporto». «Hai capito! Se si aprono le pareti...». «Ti sei giocato tutto e ti arrestano». «Mi ha detto che va fasciato e la cella deve stare chiusa... Ogni 200 chilometri, 250... si ferma uno e fa i cricchetti... Poi mi ha detto: quanto ti devo dare per questo trasporto? Non meno di quattromila euro più Iva». Per gli inquirenti i quattromila euro vanno intesi per chilo di droga. «Ora sto aspettando solo la telefonata, mi deve dire quando si deve ritirare». Palaia, dai domiciliari, si organizza.

Ora, l’unico cargo che risulta fra i «precipitati» del ponte di Genova era guidato da un autista romeno morto qualche giorno dopo la tragedia. Il legale che assiste la famiglia, Verdesca Zain di Latina, dice non sapere nulla delle sorti del mezzo. Insomma, storia strana e grottesca. Un camion di hashish che cade con il ponte e la carcassa che viaggia per l’Italia, Genova, Latina, Frosinone. Per tutti è un rottame, per i signori della droga, che lo attendono al varco, un grande affare. Com’è finita? «Essendo marginale rispetto all’inchiesta, la vicenda non è stata approfondita», tagliano corto a Reggio Calabria.

Andrea Pasqualetto per corriere.it il 14 dicembre 2022.

Nel disastro del ponte Morandi spunta un camion pieno di droga. Era rimasto coinvolto nel crollo ma nessuno, naturalmente, poteva immaginare che all’interno ci fossero 900 chili di hashish. La sorprendente vicenda emerge da un’intercettazione ambientale del marzo 2020 dei carabinieri del Ros di Reggio Calabria nell’ambito di un’indagine antimafia che ha portato ieri all’arresto di 48 persone. 

A rivelarlo è uno dei boss del clan Bellocco di Rosarno, Francesco Benito Palaia, 49 anni, pregiudicato di ‘ndrangheta con precedenti soprattutto per stupefacenti, da ieri in carcere. Lo fa parlandone con un affiliato della stessa cosca, Rosario Caminiti, uomo di fiducia della famiglia Bellocco (Palaia è il genero del grande capo). 

Il gip: un camion di droga

«Nel discutere dei futuri traffici di stupefacente Palaia faceva riferimento a un cargo frigo imbottito di hashish e rimasto coinvolto nel triste evento del crollo del ponte Morandi. Una partita destinata a dei malavitosi campani», scrive il gip Vincenza Bellini nella ponderosa ordinanza che ha portato alle misure cautelari. Secondo il magistrato i baroni della droga campani, dell’area di Secondigliano e Scampia, avevano ingaggiato Palaia per tentare di recuperare il cargo dove era stivata la partita di droga.

E ciò nonostante in quel periodo lui fosse agli arresti domiciliari. «Ma poteva essere utile grazie alle sue aderenze nel settore del recupero dei rottami... Avrebbe potuto individuare e trasportare la carcassa del mezzo in Calabria. L’accordo prevedeva una spartizione della sostanza stupefacente al 50%». Milioni di euro. A Secondigliano, nel giro dello spaccio, qualcuno ha tentato di metterci le mani, pensando che i destinatari della partita l’avessero data per persa. 

«Glieli voglio fottere»

«Allora, quando è crollato il ponte Morandi, se tu vai al primo video, è caduto un furgone — dice Palaia —. È un euro cargo giallo, lo vedi benissimo perché è giallo, con una cella frigorifera, piccolino! Il piccolino! È caduto paru (orizzontale, ndr)... Come è caduto il ponte si è seduto, automaticamente gli è caduta una macchina di sopra...».

Caminiti: «È caduto un furgone, lo so, lo so. Raccontava che voleva andarselo a prendere». Palaia: «Insomma, dice che i neri lo sanno che si è perso... noi stiamo ancora comprando da loro. Io questi 900 chili glieli voglio fottere, dice, e tu hai la possibilità di prendertelo tutto... Gli ho chiesto in che senso. Io posso fare una cosa, gli ho detto, facciamo 50 e 50, io lo vendo e il 50% de lo prendi tu, tanto tu non l’hai pagato». 

C’era un problema: dove e come andare a prendere un camion scassato? «Gli hanno detto che l’avevano confiscato ... ma ora lo hanno spostato da Latina a Frosinone e c’è la possibilità di andarlo a prendere. Ci vuole un carrellone e lo porto direttamente in Calabria...». 

Il trasporto

Palaia, dai domiciliari, si organizza. «C’è un amico mio là, ai Castelli Romani, ha un carrellone con la buca». Dovevano cercare di preservare la cella frigorifera, uscita malconcia dal disastro, e il carrellone con la buca poteva essere una soluzione. «La paura qual è? Siccome è deformata la cella, va bene?». «Che non si apra durante il trasporto». «Hai capito! Se si aprono le pareti...». «Ti sei giocato tutto e ti hanno arrestato». 

«Ora gli mandiamo le fotografie, mi ha detto che va fasciato e la cella deve stare chiusa... Ogni 200 chilometri, 250... si ferma uno e fa i cricchetti un’altra volta... Poi mi ha detto: senti, parliamoci chiaro quanto ti devo dare per questo trasporto? Non meno di quattromila euro più iva». 

Per gli inquirenti i 4 mila euro vanno intesi a chilo di droga.

«Ora sto aspettando solo la telefonata per dirmi quando si deve ritirare». C’è anche questa brutta e grottesca storia di droga nella grande tragedia del Morandi. Un camion di hashish che cade con il ponte e poi viaggia per l’Italia, Genova, Latina, Frosinone. Per tutti è un rottame, per i signori della droga, che lo tengono d’occhio e lo attendono al varco, un ricco bottino».

Com’è finita la storia? «Non abbiamo approfondito», assicurano gli investigatori.

Carlo Macrì per corriere.it il 15 Dicembre 2022.

L’uomo che i camorristi avevano ingaggiato per recuperare il camion volato giù dal ponte Morandi con un carico di droga è il referente indiscusso della cosca Bellocco di Rosarno, una delle famiglie più agguerrite della ‘ndrangheta reggina. 

Francesco Palaia, alias «Italiani», è infatti cognato di Umberto Bellocco, classe ’83, quest’ultimo nipote di Umberto Bellocco classe 1931, il patriarca cui si deve la nascita, nel carcere di Bari, della Sacra Corona Unita. 

Palaia, arrestato mercoledì dai carabinieri nell’ambito dell’operazione «Blu notte» della direzione antimafia di Reggio Calabria, nonostante fosse ai domiciliari, per una precedente inchiesta sulle estorsioni commesse nei lavori al porto di Gioia Tauro, riceveva in casa ‘ndranghetisti di altre fazioni con i quali studiava le modalità illecite per «strozzare» commercianti e imprenditori della zona.

Il braccio operativo

Essendo il braccio operativo del cognato, recluso a Lanciano, l’ultima decisione sul «da farsi» spettava comunque a Umberto Bellocco. Per poterlo coinvolgere nei summit, Palaia aveva escogitato il sistema della presenza da remoto. 

Con la complicità ancora da chiarire di chi, Palaia era riuscito a far arrivare nel supercarcere abruzzese un telefonino cellulare così Umberto Bellocco poteva partecipare alle riunioni, dare ordini e indicare le strategie criminali cui la cosca doveva attenersi. Era sempre Palaia ad amministrare, sempre dai domiciliari, la gestione del telefono, comunicando al cognato, di volta in volta il numero di serie della ricaricabile e i codici. 

Le attività

«Italiani» aveva però anche la libertà di prendere qualche decisione. Allontanandosi dai domiciliari, si recava spesso nei cantieri, o a casa di imprenditori e con la «sola presenza o anche il cambiamento del tono della voce», riusciva a intimidirli. 

Si presentava come una sorta di «amministratore delegato» di una società per azioni che garantiva la sicurezza e le attività delle imprese, con offerte vantaggiose, che altro non erano la richiesta del «pizzo».

La meraviglia di chi ha captato le intercettazioni e le «ambientali» è stata l’accettazione da parte dei soggetti minacciati che sembrava fossero stati alleggeriti, con la presenza del Palaia di una incombenza alla quale non solo non volevano sottrarsi, ma in loro c’era quasi la soddisfazione di essere stati «omaggiati» dalla sua presenza in casa loro. E spesso, erano le stesse persone intimidite a far visita, ai domiciliari, al Palaia. 

Le continue bonifiche

Oltre all’attività estorsiva, Francesco Palaia aveva le mani in pasta anche nella gestione dei boschi, delle truffe, del traffico della droga. Temeva che i suoi movimenti o il linguaggio ‘ndranghetistico che utilizzava con la moglie Emanuela Bellocco e la figlia Martina, entrambe finite in carcere, fossero seguiti e captate dagli inquirenti. Ecco perché spesso era solito chiamare l’amico elettricista per bonificare la sua abitazione. Al tecnico chiedeva di smontare tutte le prese elettriche e mettere il naso su ogni attrezzo elettronico che potesse nascondere la microspia. Si era anche convinto di cambiare il router della comunicazione internet, sempre per precauzione. Tentativi falliti visto che dal 2019 e per due anni, l’abitazione di Francesco Palaia era osservata e ogni voce captata. 

Le minacce

E dall’ascolto si è potuto anche accertare le minacce che Francesco Palaia aveva riservato all’amministrazione comunale di Rosarno. Palaia si lamentava del fatto di aver ricevuto il pagamento di alcune cartelle esattoriali relative al pagamento dell’acqua e spazzatura, nonostante in quei periodi fosse in galera. 

L’interlocuzione avuta con il responsabile dell’Ufficio comunale è stata chiaramente minacciosa. All’impiegato che cercava di spiegargli che il pagamento era comunque dovuto, Palaia rispondeva: «Io vorrei pagarli se tu mi dai una risposta plausibile, prima che vengo con un’accetta al Comune». Lo stesso linguaggio Francesco Palaia l’ha utilizzato nei confronti di un dentista di Cosenza, per ottenere certificati falsi che gli consentivano di spostarsi da casa legalmente, per poi incontrare alcuni affiliati del clan Muto di Cetraro.

I falsi certificati

«Italiani» grazie all’autorizzazione da parte del Tribunale di sorveglianza si allontanava dai domiciliari esibendo certificati medici redatti non a seguito di visite specialistiche o, in base ad effettive esigenze terapeutiche ma, su richiesta telefonica dello stesso Palaia che «ordinava» la compilazione al proprio medico curante, non lesinando esplicite minacce. E qualora il professionista si rifiutava, Palaia rispondeva: «Eh, ti devo mandare qualche altro messaggio di minaccia o ti devo mandare qualcuno allo studio?».

Estratto dell’articolo di Giuseppe Filetto per “la Repubblica” il 15 Dicembre 2022.

«Se vai al primo video, è caduto un furgone... È un eurocargo giallo, lo vedi benissimo perché è giallo, con una cella frigorifera, piccolino! È caduto paru (orizzontale, ndr )... Come è caduto il ponte si è seduto... gli è caduta una macchina di sopra». È il 9 marzo del 2020, 19 mesi dopo la strage del 14 agosto 2018. Il boss di Rosarno, Francesco Benito Palaia, del clan dei Bellocco, ne parla con un affiliato, Rosario Caminiti. 

I due sono intercettati dai carabinieri di Reggio Calabria. Si capisce che tra i 25 veicoli risucchiati dal crollo del ponte Morandi ci sarebbe anche un camion frigo imbottito di droga: 900 chili di hashish, nascosti nelle intercapedini, «gestiti» dalla 'ndrangheta e destinati alla malavita del Napoletano. 

La vicenda (da chiarire) salta fuori nell'ambito dell'inchiesta sulle cosche che l'altro ieri ha visto l'arresto di 76 persone tra Brescia e Reggio Calabria, di cui 48 in carcere. E per capire se la droga sia stata recuperata, nei prossimi giorni (forse oggi) nell'interrogatorio di convalida al boss Palaia il gip chiederà conto dell'eurocargo giallo, rimasto più di un mese nel deposito di Genova-Bolzaneto (sotto sequestro giudiziario come tutti i veicoli coinvolti nel disastro) poi trasportato a Latina forse con un carroattrezzi. Questo afferma il boss di Rosarno al suo sodale. 

Di quel cargo, però, non si ha riscontro. Nonostante i carabinieri di Reggio Calabria, appena intercettato il colloquio, avessero interessato i colleghi di Latina e del capoluogo ligure. Però non è stata informata la Gdf che per 4 anni ha indagato sul crollo e su Autostrade. «Non sappiamo nulla», assicura Nicola Piacente, procuratore capo di Genova. […] 

Nessun investigatore di Genova in quei giorni dopo il disastro immaginava che all'interno del mezzo vi fosse il quantitativo di stupefacente. Peraltro, nell'elenco dei veicoli coinvolti nel crollo figura un eurocargo frigo, con targa francese. Ma di colore bianco. Guidato da un cittadino rumeno: Marian Rosca, estratto vivo dalle lamiere, ma deceduto due giorni dopo in ospedale. La sua famiglia dalla Romania, per farsi assistere, ha incaricato un avvocato e ottenuto 750 mila euro di risarcimento da Autostrade.

Il legale è di Latina. Stessa città in cui sarebbe finito il camion. Da dove Palaia voleva recuperarlo, poi trasportarlo in Calabria e impossessarsi della droga. Tant' è che dice a Caminiti: «I neri (i nordafricani che gestiscono lo spaccio, ndr) lo sanno che si è perso. Io questi 900 chili glieli voglio fottere... Io posso fare una cosa, facciamo 50 e 50, io lo vendo e il 50% lo prendi tu, tanto tu non l'hai pagato». 

Palaia conosce «uno per prendere questo furgone... che lo hanno dissequestrato... lo hanno spostato da Latina e lo hanno portato a Frosinone... ora, l'altro ieri mattina ho chiamato se c'è la possibilità di andare a caricare e per arrivare direttamente in Calabria... Ora io che sto facendo, siccome c'è un amico mio là dei Castelli Romani, che ha i pullman, e ha un carrellone con la buca». […]

Ponte Morandi, Mattarella: «Una ferita che non si può rimarginare». Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

Oggi ricorre l’anniversario del crollo che ha causato 43 morti. Per il Presidente della Repubblica è necessario sostenere i parenti. Il dolore di Egle Possetti, portavoce del comitato Ricordo Vittime: «Dopo quattro anni ancora nessuna scusa» 

Erano le 11,36 di quattro anni fa (14 agosto 2018) quando una parte del ponte Morandi a Genova crollò, sotto un forte temporale. Nella tragedia morirono 43 persone e 11 feriti. In ricordo delle vittime e dei loro familiari, una Messa officiata dall’arcivescovo di Genova Marco Tasca ha dato avvio questa mattina alla cerimonia di commemorazione (alla messa hanno partecipato, tra gli altri, il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini, Il sindaco Marco Bucci e il segretario della Lega Matteo Salvini).

La parole del Capo dello Stato

Il quarto anniversario del crollo del Ponte Morandi è stato ricordato con un messaggio dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «Si rinnova il dolore della tragedia che ha colpito quarantatré vittime. Una ferita che non si può rimarginare, una sofferenza che non conosce oblio, una solidarietà che non viene meno. Un dramma che segna la vita della Repubblica e per il quale la magistratura sta doverosamente accertando le responsabilità. Rinnovo anzitutto ai familiari, costretti a patire il dolore più grande, la più intensa solidarietà della nostra comunità nazionale». Che ha poi aggiunto: «Si manifesta l’esigenza di interventi adeguati a sostegno dei familiari delle vittime di tragedie come queste: occorre che la normativa sappia dare risposte a queste esigenze. L’azione svolta dal comitato dei familiari delle vittime è risultata preziosa, vero e proprio memoriale vivente della tragedia, in attesa della realizzazione del memoriale proposto a monito permanente».

Le parole dei familiari delle vittime

La mattina del 14 agosto 2018 alle 11.36 ci fu un forte temporale. All’origine del disastro, il cedimento di uno strallo. Un forte boato seguito dal crollo. Auto e camion finirono nel vuoto, con un salto di 45 metri d’altezza. Tra i morti, anche due lavoratori di un’isola ecologica che finirono travolti dalle macerie. Un dolore, quello dei parenti delle vittime, che non si è mai placato. A farsi carico di decine di famiglie che hanno vissuto quel dramma è Egle Possetti, portavoce del comitato Ricordo Vittime Ponte Morandi. Nel disastro perse sorella, cognato e nipoti. Ogni anno, il 14 agosto, sale sul piccolo podio ai piedi prima del cantiere per reiterare la richiesta di giustizia. «Nessuno ancora ha mai chiesto scusa per quanto è successo», ha riferito all’Agi. Ma questo, specifica, è un punto, per così dire, morale. Lei ha una preoccupazione più grossa. Teme che il disastro di quattro anni fa stia cadendo nell’oblio: «Ho questa paura, sì. Sicuramente è importante che anche quest’anno, il 14 agosto, ci sia la presenza di un ministro (Giovannini, ndr), ma è chiaro che l’attenzione mediatica, e non solo, è calata: questa è una vicenda scomoda. Tra gli imputati ci sono persone che lavoravano per lo Stato, che rappresentavano coloro che avrebbero dovuto controllare».

Genova, quattro anni dopo il crollo del Morandi, Mattarella: "Una ferita che non si può rimarginare". Draghi: "Non deve avvenire più". La Repubblica il 14 Agosto 2022.

La giornata è iniziata con la messa in memoria delle 43 vittime, il ministro Giovannini: "Il processo individui le responsabilità".  La presidente del comitato ricordo Egle Possetti. "Fa male la cessione della concessione. Era da stracciare".

Quattro anni dopo il crollo di ponte Morandi, la giornata del ricordo a Genova è iniziata con la celebrazione nella chiesa di San Bartolomeo della Certosa della messa per ricordare i 43 morti nel disastro, dalla più piccola vittima Samuele Robbiano, di appena 8 anni, a quella più grande, Juan Carlos Pastenes, che di anni ne aveva 64. A celebrare la funzione, l'arcivescovo di Genova Marco Tasca. "E' una giornata difficile, con ancora tante domande" ha detto aprendo la celebrazione. In chiesa, su una panca in prima fila, il sindaco di Genova, Marco Bucci, l'assessore alla Cultura Ilaria Cavo, in rappresentanza della Regione, il questore Orazio D'Anna e il presidente del Municipio, Federico Romeo. Nei banchi a fianco i familiari di Luigi Matti Altadonna, morto nel disastro a 35 anni. Alla celebrazione, oltre ad altri parenti e amici di chi perse la vita nella tragedia, ha partecipato anche Matteo Salvini, seduto qualche banco più indietro, accanto ad Edoardo Rixi, numero uno della Lega in Liguria. Terminata la messa, la cerimonia ufficiale, con la partecipazione del ministro Enrico Giovannini che ha depositato la corona di fiori della presidenza del Consiglio dei ministri, in rappresentanza dello Stato. "Il processo per il crollo del ponte Morandi va concluso in tempi rapidi _ ha detto _  per fare piena luce su quanto successo e individuare chiaramente le responsabilità di tutti a ogni livello. Auspico che il processo proceda senza interruzioni e ritardi. Per questo ringrazio i magistrati, le forze di polizia e gli uffici del tribunale per l'impegno profuso finora e per quanto verrà fatto per rendere questo auspicio realtà, pur nel rispetto dei diritti di tutte le parti". "La scelta del governo e del ministero di costituirsi parte civile contro gli amministratori privati e pubblici compresi quelli che allora lavoravano al ministero - conclude Giovannini - rende evidente la volontà delle istituzioni di fare piena luce sui fatti e perseguire i responsabili, nessuno escluso, confermando al tempo stesso la vicinanza dello Stato alle vittime".

Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha inviato un messaggio al sindaco Bucci. "Il dolore per questa terribile ricorrenza _ dice _ si associa a una convinzione: lo Stato deve fare tutto il possibile perché tragedie simili non avvengano mai più.  Dobbiamo garantire la sicurezza delle nostre infrastrutture, tutelare la vita dei cittadini. Ne va della credibilità dell'Italia e delle istituzioni". "Nel quarto anniversario del crollo del Ponte Morandi. voglio rinnovare la più sentita vicinanza del Governo e mia personale ai parenti delle vittime, ai feriti, a tutti i genovesi", scrive Draghi nel suo messaggio. "Durante la mia visita a Genova ho visto una città forte e unita, che non dimentica il passato e guarda con coraggio al futuro. La rapida realizzazione del nuovo ponte San Giorgio è un esempio straordinario di collaborazione e concretezza, un modello per tutta l'Italia. Voglio ringraziare ancora una volta il sindaco Marco Bucci e tutta la struttura commissariale, le autorità locali, in particolare il presidente della Regione Giovanni Toti, il senatore Renzo Piano e tutti color che sono stati coinvolti in questo progetto". 

La cerimonia è iniziata con la proiezione video dei nomi delle 43 vittime della tragedia del 14 agosto 2018. "Genova non vuole dimenticare  _ ha detto il sindaco Bucci _ noi vogliamo che questa tragedia sia un monito per tutti affinché queste cose non si ripetano più, affinché ci possa essere una società che protegge i suoi cittadini. Il 14 agosto la città di Genova avrà questa data scolpita nella pietra". Alle 11.36, ora del crollo, un minuto di silenzio e, in contemporanea, il suono delle sirene delle navi in porto e delle campane di tutta la diocesi.

Il messaggio di Mattarella

 "Nel quarto anniversario del crollo del ponte Morandi, si rinnova il dolore della tragedia che ha colpito quarantatré vittime. Una ferita che non si può rimarginare, una sofferenza che non conosce oblio, una solidarietà che non viene meno. Un dramma che segna la vita della repubblica e per il quale la magistratura sta doverosamente accertando le responsabilità. Rinnovo anzitutto ai familiari, costretti a patire il dolore più grande, la più intensa solidarietà della nostra comunità nazionale". Lo dichiara il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

"Si manifesta l'esigenza di interventi adeguati a sostegno dei familiari delle vittime di tragedie come queste: occorre che la normativa sappia dare risposte a queste esigenze- prosegue Mattarella- l'azione svolta dal comitato dei familiari delle vittime è risultata preziosa, vero e proprio memoriale vivente della tragedia, in attesa della realizzazione del memoriale proposto a monito permanente".

La concessione

Per i familiari delle vittime il tema della concessione resta una spina nel fianco. Egle Possetti, presidente del comitato ricordo vittime, prima dell'inizio della funzione ha ribadito che  "La ferita è sempre aperta ma quattro anni dopo quello che ci fa più male è la cessione della concessione".   "È inaccettabile quello che è successo, inaccettabile che questa concessione, già scritta come nessuno di noi l'avrebbe scritta neanche per comprare una bicicletta, non sia stata stracciata ma addirittura remunerata agli azionisti, una cosa che umanamente non potremo mai accettare, tutti dovrebbero sapere cosa è successo e a raccontarlo rimangono sbalorditi". E ha anche annunciato che il comitato proverà ancora a costituirsi parte civile come comitato, "in ogni caso _ ha spiegato _ la mia famiglia è parte civile e quindi in qualche modo ci siamo, in rappresentanza anche delle altre famiglie". 

Estratto dell’articolo di ML. per “la Repubblica” il 12 agosto 2022.

«Il 14 agosto di quattro anni fa anche io ero lì, rientrato di corsa dalle ferie. Gli uomini del mio "Primo Gruppo" stavano scavando fra le macerie insieme agli altri soccorritori, hanno tirato fuori cadaveri. […] Due giorni dopo la Procura ci ha dato la delega a indagare.

Adesso, a inchiesta chiusa e processo iniziato, tutto ha un filo logico. Ma allora ci siamo trovati davanti a una montagna». 

Il colonnello Ivan Bixio oggi è comandante provinciale della Guardia di Finanza di Reggio Emilia. Ma è l'uomo che […] ha studiato, interrogato, sequestrato, scavato. Messo a nudo il sistema distorto dietro a una delle più grandi tragedie della storia italiana: 43 vittime per il crollo di un ponte, il Morandi […] A giudizio ci sono 59 persone, a partire dai vecchi top manager della Aspi targata Benetton, in primis l'ex ad Giovanni Castellucci.

Colonnello Bixio, ha mai tremato?

«Abbiamo fatto delle corse contro il tempo, soprattutto all'inizio. Da una parte c'era il rischio che qualcuno tentasse di eliminare eventuali prove, come peraltro in qualche caso è successo (un esempio è una chat fra gli allora numeri due e tre di Aspi Paolo Berti e Michele Donferri, in cui si parlava della corrosione dei tiranti del viadotto, ndr ). Dall'altra dovevamo cercare filmati, era la settimana di Ferragosto e le aziende della zona chiuse, quelle telecamere dopo 48-72 ore sovra-registrano. Trovammo diversi video, il più noto, quello della società "Ferrometal", è l'unico che restituisce il disastro integralmente. […]».

Il momento più difficile in tre anni di indagini?

«Lavorando sul crollo del Morandi abbiamo trovato elementi nuovi sul conto di Autostrade e della società gemella Spea, allora addetta ai controlli. I report sulle condizioni di salute degli altri viadotti a parer nostro ammorbiditi, le barriere anti-rumore pericolose e fuori norma, fino ai problemi delle gallerie dopo il crollo della "Berté" sulla A26. […]». 

[…] La holding Atlantia e la famiglia Benetton sono rimaste fuori dall'inchiesta, pur entrando in diverse intercettazioni...

«Posto che queste valutazioni sono compito della Procura, in Aspi come in tutte le società c'era una catena di comando che prendeva le decisioni. E noi lì abbiamo lavorato, dai più alti ai più bassi livelli». […]

Marco Lignana per “la Repubblica” il 13 agosto 2022.

Sarà la sua prima volta. Anche se gli incubi non lo lasciano e forse non lo lasceranno mai in pace, Gianluca Ardini domani tornerà lì dove si era trovato quattro anni fa, il 14 agosto 2018. 

Intrappolato fra le lamiere del furgone e le macerie di ponte Morandi, gravemente ferito, sospeso a venti metri di altezza accanto al corpo senza vita del suo collega di consegne Luigi Matti Altadonna. Sopravvissuto, grazie all'intervento dei Vigili del fuoco, dopo quattro ore: «Sì, stavolta verrò alle celebrazioni in ricordo della tragedia. Sono sempre scappato fuori Genova, adesso non lo farò».

Gianluca Ardini, perché fuggire?

«Per il senso di colpa. Io vivo, il mio collega e le altre 42 vittime no. Mi sentivo in difetto con i familiari di chi non c'è più, so che è sbagliato ma non ci potevo fare niente. Ho dovuto fare un lungo percorso psicologico, che continua ancora adesso, per evitare di colpevolizzarmi. 

Poi qualche mese fa ho incontrato quei parenti, ho sentito un affetto enorme, mi hanno detto "ma sei impazzito?" Mi sono tolto un macigno di dosso, anche se per me non è certo tutto rose e fiori».

Come è la sua vita oggi?

«Purtroppo rivivo quegli attimi quasi ogni giorno: stavamo viaggiando per fare le nostre solite consegne, vediamo e sentiamo tremare l'asfalto, il tempo di urlare "cosa succede" e poi il silenzio. 

Luigi vicino a me, un tempo che non passava mai. Prima ho urlato più forte che potevo, poi continuavo a ripetere che non ce la facevo più, avevo il bacino rotto, l'adrenalina ormai scesa. Quando sono arrivati da me, i soccorritori mi chiedevano come stavo, cercavano di tenermi occupato, ma ho comunque un buco fra i ricordi».

Non esiste tregua?

«Certo ci sono momenti in cui sei preso da altro, la famiglia gli amici e il lavoro, ma a fine giornata quando tutti si rilassano ci penso e riaffiora tutto. Se prima erano le crisi di panico e il terrore di prendere l'autostrada, adesso è l'insicurezza, l'ansia, o l'essere sempre apprensivo. Per questo trauma non esistono cure o medicine». 

Dal punto di vista fisico è guarito?

«Sono invalido al 60 per cento. I movimenti del braccio sono limitati, ho problemi di sensibilità, sento spesso formicolii, mi sono ritrovato le vertebre schiacciate e questo mi porta ad avere spesso mal di schiena, colpa dell'ernia cervicale. E altro ancora».

Nel frattempo la sua famiglia è cresciuta.

«Un mese dopo il crollo è nato Pietro, ho sempre detto che il suo pensiero mi ha dato la forza per resistere quando ero incastrato fra le lamiere. Poi è arrivata Anna che a settembre compirà un anno. La mia compagna Giulia con il pancione andava e veniva ogni santo giorno dall'ospedale dove ero ricoverato, pure mia sorella era incinta e faceva lo stesso. La famiglia si è compattata intorno a me, sono stati qualcosa che non si può descrivere».

È venuto alla prima udienza del processo sul crollo, lo scorso 7 luglio. Che impressione le ha fatto?

«Mi è piaciuto tanto il giudice, da questo punto di vista sono molto fiducioso per il futuro. In più non mi sono sentito a disagio fra i parenti delle vittime, anzi ho provato sulla pelle quanto mi vogliono bene. E poi io sono uno dei pochi testimoni diretti di quel che è accaduto, mi rendo conto di quanto sarà importante il mio racconto nel dibattimento». 

Prova ancora rabbia?

«Certamente, l'ho provata fin dal primo giorno. Poi, quando tutti noi abbiamo capito che il disastro si poteva evitare ed è figlio dell'avidità e della fame di soldi di certa gente, 'sta rabbia è cresciuta ancora. 

E so bene che poteva essere una tragedia ancora più apocalittica. Bastavano due o tre pullman che si incolonnavano sempre sul Morandi, perché lì coda era perenne, per arrivare a duecento, trecento morti». 

 Fa sempre consegne in giro per la città?

«Impossibile, nelle condizioni fisiche e psicologiche in cui mi trovo. Lavoro come impiegato, davanti al computer, mi trovo benissimo con i colleghi e va bene così». 

E nel tempo libero?

«Ho provato a fare palestra, ma non è il caso. Cerco di camminare tanto, ad esempio siamo appena stati in montagna e abbiamo fatto lunghe passeggiate. Anche se Anna nello zainetto sulle spalle sono riuscito a portarla pochi metri. Il dolore alla schiena è diventato subito insopportabile». 

Inchiesta bis Ponte Morandi, così Castellucci e manager Aspi "provarono a truffare lo Stato". Il Tempo il 30 agosto 2022

Nuove contestazioni per l’ex amministratore delegato di Aspi Giovanni Castellucci e per alcuni tra i suoi più stretti collaboratori nell'ambito dell’inchiesta bis nata dal crollo del Ponte Morandi, a Genova. L'ultima accusa della procura agli ex manager riguarda le barriere fonoassorbenti: "non solo furono montate pur sapendole difettose", ha scritto recentemente il Fatto quotidiano, "ma Aspi tentò di far passare quegli interventi per migliorie della rete e di farseli rimborsare dallo Stato".

Il fascicolo riguarda falsificazioni dei report sulla sicurezza di viadotti e gallerie, e vede in tutto 56 indagate l'udienza stralcio, in cui verranno selezionate le intercettazioni fondamentali, è stata fissata al 20 ottobre l’udienza stralcio. Per l'accusa, dunque Castellucci e i suoi collaboratori "tentarono di truffare lo Stato". 

A un anno di distanza dal disastro del Ponte Morandi, che ha provocato 43 morti,  era crollata una parte della volta della galleria Bertè, sulla A26. Prima del crollo, la Commissione permanente delle Gallerie aveva imposto ad Autostrade per l’Italia la chiusura dei tunnel a rischio, disposizione disattesa fino al 2020.

GLI SFOLLATI DEL PONTE MORANDI. Testo di Giulia Narisano su Inside Over il 13 agosto 2022.

Il seguente reportage è tra i vincitori del corso di reportage della Newsroom Academy tenuto da Daniele Bellocchio 

A quattro anni di distanza dal crollo del Ponte Morandi, gli sfollati di Via Porro, costretti a lasciare le loro abitazioni per sempre, hanno rimesso in piedi le loro vite. Hanno comprato delle nuove case e hanno per lo piú trovato una nuova normalità. Ma continuano a portare dentro una ferita, quella di coloro ai quali è stato strappato via ben piú d’una casa: ad alcuni le proprie origini, ad altri le prospettive per il futuro. A molti, entrambi. 

Quella mattina del 14 agosto 2018 Graziella e Gabriele erano appena andati a pagare l’ultima rata del tetto del loro palazzo, recentemente ristrutturato. Lo stesso tetto da cui Graziella e i suoi amici, da ragazzi, facevano partire i fuochi d’artificio per la festa di San Giovanni, Patrono di Genova, ogni 24 giugno. Lei, in quella casa, al numero 11 di Via Porro, ci era nata, il 24 luglio 1956. Letteralmente, sul tavolo della cucina. Perché “in ospedale ti scambiavano i bambini”, racconta sorridendo.

Graziella, insieme ad un nutrito gruppo di vicini e amici, è testimone della genesi di quello che a tutti gli effetti è stato un piccolo universo, quello di Via Porro e di chi la frequentava. Nato come il quartiere dei ferrovieri, dove i dipendenti delle Ferrovie dello Stato potevano trovare un alloggio economico, è divenuto poi con gli anni una comunitá vera e propria, dove i vicini erano colleghi e amici, dove si è instaurato un sistema di relazioni e di solidarietá, e dove si sono sviluppati rapporti che durano tuttora. E proprio questi rapporti sono stati una delle ancore di salvezza per tutti quelli che quella mattina, nel giro di un minuto, hanno perso ogni riferimento e si sono trovati catapultati a forza in un capitolo tutto nuovo delle loro vite, un capitolo non scelto ma subito. 

Via Porro era diventata con il tempo il centro focale di questo ecosistema di rapporti, e rimaneva un porto sicuro, sia per chi lì ha vissuto per tutta la vita, sia per chi, come Graziella, se ne era andato per poi tornare. Graziella e Gabriele, infatti, erano tornati al civico 11 di Via Porro da circa un anno. La avevano ristrutturata, curandola nei minimi dettagli: sarebbe stata la loro casa definitiva. Gabriele prima abitava in via Cornigliano, fino a pochi anni fa una delle vie più rumorose di Genova. A lui non sembrava vero di poter dormire la notte con la finestra aperta, di sentire pace, la sera, in Via Porro, nonostante il Ponte.

Il ponte. Quando vengono a sapere del crollo per la prima volta si trovano in ospedale a trovare un amico, e alla TV passa la notizia, mentre in ospedale parte l’altoparlante che avvisa tutto il personale dell’emergenza. Come tanti genovesi, per un attimo, Gabriella ha un dubbio, non è sicura. Non lo ha mai chiamato Ponte Morandi, nessuno lo chiamava Ponte Morandi, e, per gli storici di Via Porro, è sempre stato “il ponte di Brooklyn”. Ma le immagini parlano chiaro, si vede la “A”, la grande arcata centrale, quella che, per tutti i genovesi, ma soprattutto per gli abitanti della zona, se scorta da lontano, faceva giá respirare l’aria di casa. Quello lì è inconfondibilmente il loro ponte, quello tra i cui piloni Graziella si riparava quando da bambina era fuori a giocare e all’improvviso pioveva e che ora, proprio sotto la pioggia, era collassato. 

Quel giorno anche Franca è sotto la pioggia, ma in Sicilia. È dal parrucchiere e si sta preparando per una grigliata di ferragosto, quando all’improvviso le telefona una sua amica da Genova. “Franca è crollato il ponte” “Quale ponte?” “Il nostro ponte”. Anche adesso, ad anni di distanza, a Franca vengono i brividi nel raccontarlo. Anche lei era nata in Via Porro, nel 1953, e lì ha passato tutta la sua vita, all’ultimo piano del civico 9, uno di quelli che sono stati poi abbattuti. Quella casa era piena della storia della famiglia di Franca, dei suoi genitori, di lei, di sua sorella, che da quella casa era uscita con l’abito da sposa ma che ancora pochi giorni prima del crollo del ponte era tornata a stare lì per passare qualche giorno a Genova. Per Franca, peró, il crollo del ponte ha significato anche scoprire una pagina di storia della sua famiglia che era andata perduta: il giorno stesso, Franca viene a sapere dal nipote che su Facebook sta girando una foto del nonno, del papá di Franca. Lei non ne sa nulla, non capisce di cosa si stia parlando. Torna cosí alla luce una storia sepolta.

Michele Guyot Bourg, fotografo amatoriale, aveva, negli anni ‘80, realizzato una serie di scatti in tutti i punti di Genova in cui l’autostrada passa tra le case. Tra il poetico e la denuncia sociale. Il ponte Morandi, incastonato come era tra i palazzi di Via Porro e Via Fillak, rappresentava una sosta obbligata in questo collage. Non è stato facile, per Michele, convincere qualche condomino di Via Porro ad aprirgli le porte di casa per permettergli di immortalare il Ponte Morandi. Dopo alcuni tentativi vani, una famiglia acconsente, e Michele realizza alcuni scatti, che il 14 agosto del 2018 riceveranno un’improvvisa nuova fama e risulteranno tristemente profetici. La famiglia che ha accolto Michele abitava all’ultimo piano del civico 9, le persone ritratte negli scatti sono proprio i genitori di Franca. Suo padre, intento a leggere il giornale in cucina, e sua madre, mentre stende i panni sul terrazzo. 

Franca non ne sapeva nulla, forse i genitori glielo avevano raccontato ma lei proprio non si ricorda di questo episodio.  Michele ha 88 anni quando il ponte che aveva immortalato 30 anni prima crolla, ed è lui a postare quelle foto su Facebook, sbigottito per l’accaduto ma constatando amaramente quanto nulla fosse cambiato da allora. Franca non se l’è sentita di contattarlo subito, ma, passato un po’ di tempo, i due sono entrati in contatto. Ora lei ha le due foto incorniciate in casa, e una copia con dedica del libro di Michele, che raccoglie tutti gli scatti di quel periodo.  

Il colpo non è stato comunque meno duro per chi in Via Porro non ci era nato, ma l’aveva scelta come casa: tra questi, Pierangelo ed Elisa. Loro abitavano lì da 30 anni, e ad averli convinti, tanti anni prima, era stato proprio l’impatto con quella via, con i bambini che giocavano per strada e le persone sedute fuori a chiacchierare, un’atmosfera che riportava indietro nel tempo, e che ti faceva sentire subito a casa. E poco importava come fosse la vista dalla finestra o cosa c’era intorno al palazzo, perché “ l’interno della tua casa te lo fai come vuoi tu, e se con le persone ci stai bene non ti importa se c’è un muro davanti”. 

Erano in Sardegna ad agosto, quando è successo. A dare loro la notizia è stata un’amica, vicina di casa in vacanza e proveniente anche lei dal quartiere di Sampierdarena. Subito Pierangelo non riesce a crederci, ma poi accende la Tv e i TG trasmettono 24 ore su 24 solo quello. Elisa è stata talmente male che le è pure venuta la febbre. Ancora adesso quando “vuole farsi del male” Elisa va a fare due passi e la guarda, quella casa in cui non potrá mai piú entrare, ma che è ancora lì, e che ancora custodisce tanti ricordi della loro famiglia. Gli inquilini di Via Porro sono potuti rientrare 3 volte in totale, per un massimo di 2 ore ad ogni visita, nelle loro case, per recuperare quanto piú possibile dei loro averi, prima che i palazzi venissero abbattuti o, come nel caso di Pierangelo e Elisa, che non fossero piú accessibili: traslochi di vite intere fatti in 6 ore.  

Ci sono stati anche dei piccoli miracoli in queste giornate di “rapina in casa propria”. Franca, ad esempio, aveva lasciato in casa ad agosto la sua pianta preferita, che è nella sua famiglia da 40 anni. Era di sua madre. Franca pensava di poter tornare il giorno dopo a riprenderla, e invece è potuta andare a novembre. Eppure la pianta era lì, viva, con qualche foglia morta ma pronta a trasferirsi con Franca nella sua nuova casa. Anche Pierangelo ed Elisa hanno recuperato molti oggetti a cui tenevano, ma sono tante le cose che non hanno potuto prendere e che ancora adesso mancano: il banco da falegname costruito dal nonno, i libri custoditi nel soppalco, alcuni disegni dei bambini, il comodino della figlia, ricordo d’infanzia. 

Ma se pensano a quello che manca di piú la mente corre ad altro. “Ti manca la Mafalda, che passa sbraitando già alle 8 del mattino e si ferma sotto la finestra a parlare (Pierangelo ed Elisa abitavano al primo piano), o che ti porta le lasagne pronte; oppure l’altro vicino che ogni tanto portava dei mazzi di fiori enormi. Persone presenti, affettuose. Ci manca questo”. Incontrarsi nel pianerottolo e decidere chi avrebbe dato l’acqua ai fiori nel cortile quella sera. Cose piccole ma grandi, come quando a Pierangelo, vedendo gli anziani che per mettersi a parlare nel cortile si portavano ogni volta le seggiole da casa, viene in mente di comprare due panchine e posizionarle nel cortile; loro erano talmente contenti che “sembrava avessi costruito un grattacielo”. Tutto questo è insostituibile. La casa in cui vivono ora è bella, si trovano bene, ma non è la loro, non è via Porro. 

È impossibile immedesimarsi in tutti loro, e immaginare cosa si possa provare nel venire a sapere che il ponte sopra la propria casa è crollato. Ma il cuore si ferma per un attimo nell’immaginare cosa possa aver provato chi lo ha visto accadere in tempo reale. Giancarla aveva 59 anni quando, dopo aver visto il ponte Morandi collassare davanti ai suoi occhi dal suo balcone, è corsa via in ciabatte, con il marito e la figlia, dalla casa in cui era entrata per la prima volta a 6 mesi, senza sapere che non sarebbe mai piú  tornata a viverci. Giancarla viveva la sua via e la sua casa (“la mia seconda pelle”) in modo viscerale, con passione ed entusiasmo, con la cura che si riserva alle cose che si amano davvero.

Per lei entrare in Via Porro, e soprattutto girare le chiavi del portone di casa, era già entrare in casa. Al suo civico, il 10, uno di quelli che sono stati poi abbattuti, vivevano ancora 12 delle famiglie di ferrovieri che originariamente erano andate a vivere lì. Per Giancarla l’idea di andare a stare da un’altra parte non era mai esistita. In quella casa era cresciuta, aveva vissuto l’infanzia e l’adolescenza, ci si era sposata e ci aveva cresciuto sua figlia. Ci sono delle sere in cui Giancarla socchiude gli occhi e si sente ancora là, al numero 5 del civico 10, e rivede i suoi muri, con tutti i loro difetti e con tutta la loro storia, quei muri che ora non esistono più e che sono stati testimoni di tutti i momenti piú importanti della sua vita.  Le manca talmente tanto la fisicità di quel luogo che un pezzettino di casa se l’è portato via: accanto alla porta di ingresso della sua nuova abitazione, svetta una cornice dal contenuto particolare. Dentro c’è il suo campanello, il campanello di quella che sarà per sempre la sua casa, anche se ora non c’è piú.  

La vicenda del ponte, per Giancarla, porta con sé un peso ancora piú grande. La malattia neurologica del marito era, fino all’agosto del 2018, ben monitorata e tenuta sotto controllo, a patto che lui non dovesse subire cambiamenti improvvisi e che potesse continuare a vivere nell’ambiente a cui era abituato. Dal crollo del ponte in poi, peró, prende rapidamente una piega negativa, con un decorso che normalmente si verifica nel giro di anni, che si condensa in pochi mesi, fino al 31 dicembre del 2018, giorno in cui è venuto a mancare. La 44esima vittima del ponte. 

Per Giancarla, Franca, Pierangelo ed Elisa, Graziella e Gabriele, cosí come per le altre circa 600 persone che, a causa del crollo del ponte Morandi, hanno perso la casa, il 14 agosto segna davvero l’inizio di un nuovo capitolo, che, pur nell’individualitá del percorso e delle scelte, li terrá uniti ancora a lungo. Dopo pochi giorni vengono tutti alloggiati in hotel, dove rimarranno per diversi mesi, finché il comune di Genova non metterá a disposizione alcune case o la possibilitá di coprire le spese di affitto. Infine, quasi tutti hanno poi cercato una nuova casa, da cui ripartire e dove rimettere su radici.

I mesi in hotel sono stati un periodo difficile per tutti. È un periodo che ricordano con gratitudine, verso il personale dell’hotel, che li ha trattati con cura ed affetto, ma che per tutti è stato surreale. Un periodo di poco spazio, e troppo tempo. Lo spazio ridotto dei metri quadrati di una stanza d’albergo, e il troppo tempo di tanti pomeriggi da riempire. Ma è anche un periodo di grande solidarietá: Pierangelo racconta di una farmacista che, pur non conoscendolo, non appena saputo che lui aveva perso la casa per via del ponte, gli chiede di abbracciarlo, perché non sa come esprimere diversamente la commozione, la vicinanza e l’affetto. E, pur essendo stati in tanti a stringersi attorno alla comunità di Via Porro, inevitabilmente, davanti all’enormità delle 43 vite interrotte, le storie degli sfollati sono spesso passate in secondo piano.

Eppure, queste vite cosí intrecciate e poi bruscamente separate ci ricordano quanto si può perdere, insieme ad una casa, e quanto rimane da ricordare, sulle macerie di un ponte che un tempo proteggeva dalla pioggia.

Testo di Giulia Narisano

Intervista a Egle Possetti, Comitato dei parenti delle vittime del Ponte Morandi. Alessandro Di Battista su L'Indipendente  il 10 novembre 2022.

Il 14 agosto del 2018 ha perso una sorella, il cognato e due nipoti. Lei è Egle Possetti, presidente del Comitato dei Parenti delle Vittime del ponte Morandi. Il Comitato è stato accettato come parte civile nel processo che dovrebbe accertare tutte le responsabilità per quella strage. Una strage sì, non una disgrazia. Ad oggi non c’è stato un arresto, non c’è stata una condanna, non c’è stata una reale assunzione di responsabilità. Più passa il tempo e più la strage di Genova assomiglia a tutti gli orrori senza i colpevoli reali che hanno caratterizzato la storia repubblicana. Dagli omicidi fatti dalla mafia su richieste altrui, al terrore degli anni ’70 ed ’80. Dall’omicidio Moro alla strage di Ustica. I parenti delle vittime continuano a lottare e lo fanno ahimè, sempre più in solitudine.

Buongiorno Egle, come va?

Bene, anche se sentiamo la stanchezza di anni di lotta.

Qual è l’importanza del Comitato dei parenti delle vittime del Morandi?

Potevamo chiuderci nel nostro guscio e soffrire in silenzio. Abbiamo deciso di lottare affinché a nessun altro capiti quel che è successo a noi. È stato disumano perdere i propri cari per il crollo di un ponte. Abbiamo deciso di restare uniti e di seguire tutta la vicenda. In primis quella processuale dato che siamo anche parte civile, inoltre cerchiamo di fare corretta informazione.

Sono passati quattro anni due mesi e 27 giorni dalla strage di Genova. Qual è la situazione oggi dal punto di vista processuale?

Si è appena conclusa la fase preliminare del processo. L’altro ieri è iniziata la presentazione delle prove. Esaurita questa si entrerà nel vivo del processo ma c’è un problema.

Quale?

Gli avvocati della difesa hanno chiesto diverse integrazioni di perizia. Per noi questo altro non è che un tentativo per allungare ancor di più il processo.

Avete paura della prescrizione?

In Italia ahimè questa paura noi vittime l’abbiamo sempre. Oltretutto alcuni imputati per reati minori saranno prescritti il prossimo anno e per noi è una vergogna.

È una battaglia durissima?

Sì, abbiamo visto un sistema inimmaginabile. Il fatto che dopo una tragedia di questo genere una società concessionaria che gestiva al momento del crollo l’infrastruttura crollata sia uscita cedendo a CDP (Cassa Depositi e Prestiti) e ad altri privati le proprie quote ricavando quasi 9 miliardi di euro beh, per noi è inaccettabile.

Soldi pubblici?

Soldi che pagheremo tutti noi cittadini. Prima i pedaggi, poi le tasse. In mezzo 43 morti. Noi abbiamo dato un’infrastruttura pubblica costruita con i soldi dei cittadini in gestione ad un privato per una scelta politica. Lo Stato in questi 20 anni di concessione non ha fatto controlli adeguati sebbene su questa infrastruttura circolassero milioni di cittadini ogni anno. Ora, dopo il crollo, lo Stato riprende l’infrastruttura pagando fior di miliardi ai concessionari. Quando racconto questa storia in tanti non ci credono.

Le autostrade sono tornate in mano pubblica, non è quello che chiedevate?

No, noi chiedevamo l’annullamento della concessione. Non c’era nulla da vendere. Qualcuno riteneva che nei contratti in essere vi fossero delle clausole che mettevano in pericolo lo Stato in un eventuale contenzioso. Noi abbiamo sempre ritenuto che annullare la concessione sarebbe stato invece possibile e le gravi inadempienze da parte del concessionario non avrebbero rappresentato rischi patrimoniali per lo Stato. E c’è un altro problema.

Quale?

Oggi oltre a CDP, che è pubblica, Aspi appartiene anche a due soggetti privati, Blackstone, una società di investimenti USA e Macquarie, una banca di investimenti australiana. Ebbene i privati sebbene detengano ognuno il 24,5% delle quote di Aspi hanno un potere enorme compreso un diritto di veto su strategia e operazioni. Insomma Aspi è pubblica solo in teoria.

La famiglia Benetton avrà festeggiato per l’operazione?

Purtroppo temo di sì.

Ma sono così potenti i Benetton?

Secondo me sono ancora potentissimi perché in questi anni hanno tessuto relazioni importanti a più livelli.

La strage di Genova poteva essere evitata?

Sì. In un documento ufficiale dell’assemblea degli azionisti, nell’elenco dei rischi per la società stessa c’era scritto: ponte Morandi, rischio crollo. Era il 2013. Erano a conoscenza della criticità dell’infrastruttura e non hanno fatto nulla.

Incredibile…

Il panorama degli elementi raccolti dalla Procura è demoralizzante. Non si accetta tutto questo. Non l’accetteremo mai. Pensare che i nostri parenti si sarebbero potuti salvare è come una coltellata in pieno petto. E voglio dire di più.

Prego.

Vennero sottoscritte dalla società ulteriori polizze assicurative riguardanti il ponte.

Perché si parla così poco del processo?

Perché è scomodo farlo. Fino a che si parlava solo della ricostruzione del ponte l’Italia faceva bella figura. Ma parlare delle responsabilità dello Stato e di una società così grande come Aspi è molto scomodo, ancor di più perché sono stati più di uno i governi responsabili della stesura e dell’approvazione della concessione originaria. Anche le istituzioni hanno le loro grandi colpe, infatti, tra gli imputati ci sono persone che hanno a più riprese lavorato nelle istituzioni

In questi anni di lotta c’è stato un momento in cui ha percepito una grande una speranza di cambiamento?

Nelle prime fasi, sentivamo vicino a noi un calore istituzionale molto forte.

E adesso?

Questa speranza via via è andata persa. Abbiamo percepito l’allontanamento. Non solo da noi familiari ma soprattutto dalle problematiche. Questo ci ha fatto male. Costruito il ponte sembrava tutto finito. Chiuso così. Ma per noi non sarà mai chiuso.

Vi arrabbiate quando si parla di disgrazia?

Sì, i nostri parenti sono stati uccisi, altro che disgrazia.

I media vi hanno deluso?

Ci sono stati media che non ci hanno mai abbandonato. Più passa il tempo e più percepiamo l’allontanamento da parte di molti. Solitamente per il 14 agosto (l’anniversario del crollo del Morandi) riceviamo più richieste di interviste dalla stampa estera che da quella italiana e questo ci sembra un po’ paradossale.

Cosa significa per voi oggi ottenere giustizia?

Una parte di giustizia non potremo più averla. Mi riferisco al mandare a casa gli azionisti senza nulla in tasca. Vorremmo una sentenza che dimostri tutte le responsabilità. Ci piacerebbe soprattutto che le indagini che sta facendo oggi la Procura di Roma possano far emergere il quadro finanziario potenzialmente delinquenziale degli ultimi 20 anni in Aspi. Profitti fatti sulla pelle di centinaia di migliaia di cittadini che hanno rischiato la vita e sulla pelle di coloro che la vita l’hanno persa. [di Alessandro Di Battista]

Ponte Morandi, hanno perso solo i morti e le loro famiglie. Per i Benetton incassi d’oro dalla cessione di Autostrade. Per i manager sotto processo nuove carriere. E lo Stato ha reagito con annunci e con un’authority che ancora deve reclutare il personale. Così quattro anni dopo la tragedia di Genova, la sicurezza è un obiettivo lontano. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 12 Agosto 2022.

Quattro anni dopo i quarantatré morti per il crollo del viadotto sul torrente Polcevera a Genova il 14 agosto 2018 chi vive si dà pace. La famiglia Benetton ha ceduto Autostrade per l’Italia (Aspi) per 8,17 miliardi di denaro in gran parte pubblico ed è uscita dal business delle concessioni autostradali. Nel processo iniziato il 7 luglio, e subito rimandato al 12 settembre 2022 per vagliare circa trecento costituzioni di parte civile oltre alle trecentotrenta già ammesse, non ci saranno né Aspi né la controllata Spea, la società di progettazione del gruppo, che hanno patteggiato un risarcimento da 30 milioni di euro, un’elemosina pari allo 0,37 per cento dell’assegno di buonuscita.

Paolo Del Debbio per “La Verità” il 9 luglio 2022.

Ci sono delle coincidenze che, purtroppo per chi le subisce, fanno vedere la disparità di trattamento che chi ci governa, a seconda delle convenienze, adopera nei confronti dei diversi soggetti. Due giorni fa, mentre iniziava il maxi processo ai Benetton per quel troiaio che avevano combinato e che aveva portato alla tragedia del Ponte Morandi, e mentre il governo arranca per trovare una giustificazione al maxi ristoro, al di fuori di ogni regola, che è stato concesso ai Benetton stessi - come se i 43 morti del Ponte Morandi non fossero esistiti - ebbene, il governo revoca la concessione detenuta dal gruppo Toto, cioè l'Autostrada dei parchi, la A24 e la A25, che collega Roma a Teramo passando per l'Aquila, e come giustificazione la presidenza del Consiglio scrive qualcosa che noi ci saremmo vergognati di scrivere anche nella sceneggiatura di un film sul malaffare: «La revoca fa seguito alla mancata definizione del piano economico finanziario e alla contestazione di gravi inadempimenti mossa al concessionario da parte del governo».

La gestione passa all'Anas, così possiamo dormire sonni tranquilli, e il blocco della concessione, detto chiaro, riguarda le difficoltà da parte del gruppo di far fronte alle esigenze di manutenzione del tratto in questione. Cioè, a uso di noi poveri cittadini mortali e nel caso di chi scrive dotati di una intelligenza media, nel giorno in cui comincia il processo a un gruppo che è responsabile di gravissime inadempienze manutentive del Ponte Morandi e del quale gruppo il governo Conte, unitamente all'indimenticabile ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, che abbandonò i toninelli, per usare insieme a Giuseppi, i toninoni e annunciando che dei Benetton in Italia non si sarebbe neanche più vista l'ombra, né quella di giorno causata dal sole, né quella di notte nelle nottate di luna piena nelle quali alcuni lupi concessionari di concessioni si aggirano sulle autostrade in cerca delle loro prede preferite ai caselli autostradali: i poveri utenti viaggiatori ai quali come vampiri succhiano il sangue dei pedaggi aumentandone la dose di anno in anno.

E meno male che gli doveva essere revocata la concessone alla famiglia Benetton invece, mentre in un batter d'occhio il Consiglio dei ministri ha passato la concessione dai Toto all'Anas, ai Benetton non solo non è stata tolta la concessione come annunciato coi predetti toninoni, ma gli abbiamo anche dato una decina di miliardi un po' per riacquistare le quote, un po' lasciandogli riscuotere tranquillamente i pedaggi e poi dandogli anche un miliardino di euro - mica male - per risarcirli al di là di ogni regola. 

Il problema è stato sollevato in Parlamento ma, prima ancora, ad aprile scorso da La Verità per tre giorni di seguito. Ricordiamo ai lettori che la soglia minima prevista dal decreto Ristori era di una perdita del fatturato del 33%, ebbene, i Benetton hanno perso nel 2020 il 26,2% e nel 2021 il 7,4%. Nonostante questo, il mirabile governo ha deciso di ristorare i Benetton integralmente.

Dunque la sequenza horror - Alfred Hitchcock al confronto di questi è uno scrittore di sceneggiature rosa - è la seguente: mancata volontaria manutenzione di un ponte del quale si conoscevano le fragilità e i rischi cui erano sottoposte le sue strutture - basta riascoltare o rileggersi le intercettazioni tra i dirigenti del gruppo che sostanzialmente erano coscienti della situazione, ma l'azienda preferì ridurre gi investimenti a favore di maggiori utili - crollo del Ponte Morandi con 43 vittime e problemi enormi alla viabilità e alla vita della città di Genova e della Liguria in generale, nessuna revoca della concessione ai Benetton, elargizione di denaro pubblico alla famiglia stessa con grande benevolenza e magnanimità. Vedete nella parola magnanimità le prime due sillabe formano la terza persona indicativa del verbo magnare: magna, da cui il modo di dire «è tutto un magna magna».

Dunque, quando ci fu da revocare la concessione ai Benetton si disse che si sarebbe fatto, ma poi nulla si fece portando ogni volta una motivazione diversa: difficoltà procedurali, impedimenti legali, questioni giuridiche complesse, e via cantando. Ora ci facciamo una domanda: come si saranno sentiti quelli che sono tutt' ora al governo e che hanno approvato la revoca delle concessioni a Toto non avendo fatto nulla nel caso dei Benetton? Alcuni ministri hanno esultato ribadendo che così si riequilibra il rapporto tra Stato e privati, tra Stato e mercato.

Ma perché solo per i Toto? Forse i Benetton sono più belli? Più gentili? Forse qualcuno pensa, nell'ignoranza generale, che dato il loro cognome siano un gruppo multinazionale estero in quanto non hanno la vocale finale e quindi siano degni di maggiore rispetto? Forse che i Benetton dalle parti di Roma hanno più amici della famiglia Toto? Secondo voi se il processo Benetton decretasse responsabilità penali che riguardano la dirigenza e la proprietà del gruppo tutti questi miliardi, o anche solo quelli dei ristori, tornerebbero indietro o torneranno indietro?

Contiamo di campare a sufficienza per occuparci della materia ma, senza essere il mago Otelma, abbiamo già una risposta piuttosto precisa e secca in testa e la secchezza non dipende dalla tragedia della siccità ma da un po' di conoscenza di come vanno le cose in Italia dove le serie A, B, C e Z non ci sono solo nel calcio ma anche in chi ha rapporti col governo. Chi scrive non sa nulla della famiglia Toto, né conosce alcuno dei loro appartenenti o manager, ma la disparità di trattamento se uno in questo caso non la vede ha bisogno di una visita oculistica molto urgente.

Ponte Morandi, chiesto processo per Castellucci e società Autostrade. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

I pm:: rinvio a giudizio per 59 imputati. Per l’indagine tragedia determinata dalla cattiva manutenzione della struttura e per garantire maggiori guadagni agli azionisti.

«Anche un pensionato si sarebbe accorto, semplicemente osservandolo, che il ponte Morandi aveva problemi. E che il processo di corrosione, evidente, non sarebbe potuto arrestarsi da solo». Era iniziata così, con un duro e sarcastico prologo, la ricostruzione dei pm di Genova che li ha portati ieri a ribadire, dopo 60 ore di discussione, la loro richiesta: processo per i 59 imputati e per le due società del gruppo Benetton coinvolte, Autostrade per l’Italia e Spea, cioè il concessionario che aveva in gestione il viadotto e la controllata che doveva monitorarlo. Davanti al giudice per l’udienza preliminare la procura ha integralmente confermato le accuse nei confronti dei manager e dei tecnici di Aspi e Spea e dei funzionari e dirigenti del Ministero delle Infrastrutture che avrebbero dovuto vigilare sull’opera crollata il 14 agosto 2018 provocando 43 vittime. 

«Il Morandi era una bomba a orologeria. Si sentiva il tic tac ma non si sapeva quando sarebbe esplosa», ha detto il pm che l’ha sintetizzata così: il ponte è collassato perché era malandato ed era malandato perché le manutenzioni sono state inadeguate. Il primo elemento a cedere è stato uno strallo, quello della pila 9, che ha innescato la caduta dell’intera struttura nel giro di 14 secondi. Secondo i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno sarebbero stati ignorati i segnali di malessere. «C’era un diffuso stato di corrosione delle armature, questa è la prima causa del disastro, altro che imprevedibile difetto progettuale». Una malattia mai curata. La ragione per cui non si sarebbero fatte i necessari interventi è stata individuata nella politica aziendale, orientata secondo l’accusa alla massimizzazione dei profitti e al risparmio sui costi di manutenzione.

«Dice che i Benetton volevano solo dividendi, dividendi, dividendi. Dice che si è trovato così a gestire questa situazione...», spiega al telefono un top manager intercettato parlando di Giovanni Castellucci, l’ex amministratore delegato di Aspi, oggi primo imputato. «Un padre padrone dentro Autostrade— l’hanno definito i pm — Si occupava nel dettaglio di tutto, anche della sicurezza del viadotto Polcevera». Gli avvocati di Castellucci, Guido Alleva e Giovanni Paolo Accinni, non ci stanno: «La scelta dei pm appare scontata dopo la ricostruzione andata in scena che è basata su mere suggestioni non suffragate da fatti. Avremo modo di dimostrarlo intervenendo, per fortuna ormai a breve, in aula». La parola ora passa ai legali delle parti civili. Da lunedì sarà la volta delle difese. Tra fine marzo e inizio aprile il gup dovrebbe decidere chi mandare a processo. La procura ha chiesto anche il dissequestro dei reperti in modo da consentire al Comune di proseguire i lavori per il parco della Memoria, luogo simbolo in ricordo delle vittime.

Ponte Morandi, il pugno duro dei pm: "Processo per Castellucci e altri 58". Redazione il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Chiesto il rinvio a giudizio per gli ex vertici di Aspi, Spea e per i dirigenti delle Infrastrutture e del Provveditorato.

Dopo undici udienze, in cui sono state dettagliate tutte le accuse, i pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno hanno chiesto il rinvio a giudizio per l'ex amministratore delegato di Aspi e Atlantia Giovanni Castellucci e altri 58 imputati, oltre alle due società Aspi e Spea, nell'ambito dell'udienza preliminare per il crollo del ponte Morandi.

Il viadotto aveva il 14 agosto del 2018 all'ora di pranzo, uccidendo 43 persone, quasi tutti automobilisti e due dipendenti di Amiu che stavano lavorando sotto. I pm hanno anche chiesto il dissequestro dei reperti in modo da consentire al Comune di proseguire con i lavori per il parco della Memoria, il luogo progettato dall'architetto Stefano Boeri, per ricordare le vittime.

Due giorni fa in aula il sostituto procuratore Walter Cotugno, mostrando il video del crollo, aveva parlato del Morandi come di una bomba ad orologeria. Per gli investigatori il viadotto cedette per le mancate manutenzioni, rinviate nel corso degli anni. Secondo il pm, infatti, tutti sapevano che il ponte era malato ma nessuno fece nulla per ridurre i costi, in modo da garantire maggiori dividendi ai soci. Le accuse, a vario titolo, sono di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, disastro colposo, attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo doloso, rimozione dolosa di dispositivi di sicurezza, falso, omissione d'atti d'ufficio.

Gli imputati sono gli ex vertici di Aspi e Spea (la società che si occupava delle manutenzioni), i dirigenti del ministero delle Infrastrutture e del Provveditorato che non controllarono la società e lo stato delle opere. Oggi inizieranno a parlare i legali delle parti civili e dei responsabili civili. Lunedì, poi, comincerà la discussione dei difensori degli imputati che dovrebbero andare avanti per una decina di udienze.

Se non ci saranno cambiamenti il gup Paola Faggioni potrebbe decidere il rinvio a giudizio già a fine marzo e il processo potrebbe iniziare prima dell'estate. Rimane il nodo dei reperti del ponte. Qualora fosse accolta in toto la richiesta della Procura, verrebbero ridati al commissario Bucci e smaltiti, quindi scomparirebbero per sempre. Un'ipotesi contro la quale si erano opposti gli avvocati degli indagati. Chiedono che vengano conservati, magari trasferendoli altrove e procedendo semmai a una selezione attraverso un nuovo incidente probatorio. «In questi giorni, tre anni fa, assistevamo all'inizio della demolizione di Ponte Morandi - sottolinea il sindaco di Genova, Marco Bussi, commissario per la ricostruzione fino a ottobre 2022 -. Una prima parte di impalcato veniva tagliata con la corda diamantata per essere trasportata a terra con l'utilizzo degli strand jack. Un'operazione delicata, che avrebbe dato il via a tutta una serie di lavori, eseguiti in parallelo, che ci hanno portato all'inaugurazione di Ponte San Giorgio, il 3 agosto 2021. È una storia che non dobbiamo dimenticare, che ci insegna anche che, quando ci si rimbocca le maniche tutti insieme per arrivare allo stesso obiettivo, i risultati arrivano».

Alessandro Benetton, il mea culpa: «La vicenda del Ponte Morandi peserà sempre». Sui social: «Avremmo dovuto chiedere scusa subito. Gli errori sono stati fatti prima della tragedia quando si è scelto di dare troppe deleghe alle persone sbagliate». Gianni Favero su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2022.

«Sono stati fatti degli errori, alcuni molto gravi e non sto parlando del ponte Morandi. Quella è una tragica conseguenza che peserà per sempre. Gli errori sono stati fatti prima, quando si è scelto di dare troppe deleghe alle persone sbagliate». È Alessandro Benetton che parla in un video affidato ai social, a ventiquattr’ore dalla sua designazione alla presidenza di Edizione Spa. La guglia più alta della cattedrale che contiene il patrimonio, la storia, l’intera nervatura della dinastia di Ponzano Veneto e nella quale ora i quattro rami di discendenza paiono più che mai compatti.

L’ora della discontinuità

Salotto di casa, ingresso da fuori campo, jeans e camicia casual. Sguardo diretto alternato a profilo sinistro. Sequenze montate e limate non perfettamente, forse ad arte, per allinearsi agli youtuber semiprofessionali che mirano più alla sostanza che alla tecnica. È l’ora della discontinuità. «Anche questo video, ragazzi (dice proprio così, all’universo mondo che lo ascolta, a quelli in giacca grigia e cravatta come a chiunque sia iscritto ai suoi canali) è segno di un primo cambiamento. Per tanti in Italia è assurdo che il presidente di un gruppo di queste proporzioni faccia video per YouTube o Instagram, ed è ancora più inusuale che li usi per annunci istituzionali. Però è sempre stato il mio modo di comunicare. Fino ad ora non ho voluto rilasciare interviste, perché volevo che voi foste i primi a sentirmi parlare di questa cosa, come sempre, diretto e semplice».

«Dov’ero prima di oggi»

E dirette e semplici sono quelle che, riferite a personaggi del passato, oggi si direbbero picconate. «Dov’ero prima di oggi? Lo sapete, il mio lavoro è un altro: mi occupo da 30 anni di 21 Invest. Quelli tra voi che mi seguono da più tempo, tra l’altro, sanno quanto io fossi contrario ad alcune cose rispetto al business di famiglia, tanto – ci tiene a ricordare - da dare anche le dimissioni da presidente della Benetton, dopo un breve periodo di carica». Fra i dissensi con padre e zii, si può ipotizzare, c’era l’ordine di importanza delle cose. Nel descrivere brevemente in apertura cosa sia Edizione, infatti, l’elenco degli asset già lascia filtrare molto. La holding, dice, è attiva «nell’abbigliamento, nelle infrastrutture digitali e nei trasporti, nel settore immobiliare ed agricolo e nella ristorazione». Moda, dunque, ma con le reti immateriali prima di quelle stradali, dei palazzi e delle tenute, a Maccarese o in Patagonia. Area del mondo che richiama i conflitti con i Mapuche, uno dei motivi per i quali «il cognome Benetton in questo periodo a tanti non piace. Ma oggi, nominato presidente, ho visto un’occasione di discontinuità per reinterpretare l’approccio industriale che ci ha caratterizzato come famiglia nel tempo».

«Non voglio stare in panchina»

Non voglio stare in panchina, va avanti Alessandro, 57 anni ben portati, e «ovviamente non sarò solo. Lo farò con i miei cugini e con manager qualificati, uniti punteremo sui giovani, sul lavoro di squadra, sull’innovazione e sulla sostenibilità». «Un primo passo per riscoprire e ritrovare quel carattere innovativo e all’avanguardia che sempre aveva caratterizzato Edizione». Cioè i Benetton delle origini, prima delle incrostazioni in troppi affari, con mille soci in cento campi disomogenei. Il clima pare quello di elegante provocazione, di buone maniere ma sulla soglia dell’irriverenza, con cui il padre, Luciano, nel 1993, si fece fotografare in vesti adamitiche da Oliviero Toscani. Il vento di Ponzano della fine del secolo scorso, quello delle cose scomode da dire e da mostrare, il bacio fra prete e suora, i disabili ritratti senza veli, le campagne pubblicitarie trasversali a generi e razze.

Il ponte di Genova

La consapevolezza di saper rispondere, senza intermediari e con linguaggio originale, a domande difficili, come quella, inevitabile, arrivata poco dopo su Instagram in cui il presidente di Edizione e perciò primo azionista di Atlantia è sollecitato a chiedere scusa per la tragedia di Genova. «È una tragedia che peserà per sempre sulla mia famiglia – è la replica immediata – e le scuse avremmo dovuto chiederle subito, a prescindere dal fatto che Edizione deteneva solo poco più del 30% di Atlantia, nel cui consiglio sedeva un solo Benetton. Io e i miei cugini, oggi, vogliamo rappresentare quella discontinuità che permetta al gruppo di tornare a ragionare e operare come faceva un tempo, ma con una nuova stella polare: quella della sostenibilità, intesa nel concetto ampio del termine, sociale e globale». La conclusione, meditata «da settimane», ammette Alessandro, è firmata da Spider-man. Non un filosofo ma un fumetto. «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Sorriso e via.

Marco Lignana per repubblica.it il 13 settembre 2022.

Sostengono che la loro citazione a responsabile civile sia nulla. Tradotto: in caso di condanna dei nostri ex dirigenti o dipendenti imputati, non dobbiamo essere noi a risarcire le parti civili ammesse nel maxi processo sul crollo di Ponte Morandi. 

Al momento le parti civili sono formate da due nuclei famigliari di altrettante vittime (la quasi totalità dei parenti delle 43 vittime ha accettato il risarcimento di Autostrade e non è quindi parte civile) e poi alcune aziende, sfollati, persone che hanno subito ferite e lesioni, associazioni. La costituzione di alcuni di loro è per altro ancora sub judice. 

Dopo aver già patteggiato in relazione alla propria posizione amministrativa, Autostrade per l’Italia e l’ex società gemella che si occupava di controlli e manutenzione, Spea, tramite i propri legali questa mattina in udienza hanno depositato memorie a supporto della loro tesi. 

Che, se venisse accolta, significherebbe che sarebbero solo ed esclusivamente gli eventuali condannati a risarcire le parti civili . Sebbene coinvolti ci siamo gli ex top manager della concessionaria targata Benetton, a partire dall'ad Giovanni Castellucci, ci sarebbe il rischio che qualcuno possa rimanere a mani vuote.

La richiesta di Aspi e Spea è basata soprattutto sul fatto che durante gli incidenti probatori le società non erano formalmente indicate come eventuali responsabili civili (pur avendo comunque partecipato in quanto “società indagate”), ed è stata già presentata e bocciata durante le indagini preliminari. In più, tanto il legale di Aspi Andrea Corradino, quanto il suo collega di Spea, hanno presentato altre eccezioni, incentrate sempre su questioni procedurali.

Ma è una richiesta a cui si è associato anche il pubblico ministero Massimo Terrile: “Quello che interessa all’accusa e chiudere questo processo”, ha detto in aula il pm. Spiegando dunque che l’esclusione delle due società, oltre che a suo parere corretta dal punto di vista procedurale, contribuirebbe a snellire il processo. La grande paura della Procura è infatti un numero abnorme di parti, che porterebbe ad allungare i tempi e alle prescrizioni per un gran numero di reati. 

Dopo la Procura è stata la volta dei legali di parti civile, che invece insistono per la citazione di Aspi e Spea a responsabile civile. Quella di oggi è la prima “vera” udienza nel dibattimento sul crollo che vede 59 imputati, dopo la prima dello scorso luglio e quella saltata ieri per lo sciopero degli avvocati genovesi.

Genova, così Aspi può uscire definitivamente dal processo. Stefano Zurlo il 13 Settembre 2022 su Il Giornale. La società, che ha già patteggiato, è ancora nel dibattimento per responsabilità civile. Ma adesso cerca il salvacondotto.

Un salvacondotto per uscire del tutto dal processo. Una mossa che rischia di provocare sconcerto e sbigottimento in una città ferita come Genova. Il processo per il crollo del Ponte Morandi entra oggi nel vivo e in aula gli agguerriti avvocati di Aspi, Autostrade per l'Italia, e Spea, la società che si occupava della manutenzione dell'infrastruttura, giocheranno le carte di sottili questioni giuridiche per chiudere fuori dalla loro porta le parti civili e bloccare sul nascere le richieste di risarcimenti milionari.

Gli imputati sono 59, a cominciare dall'ex dominus di Aspi e Atlantia Giovanni Castellucci, ma c'è, anzi c'era un imputato virtuale, appunto Aspi, chiamata in causa in base alla legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti.

Nei mesi scorsi la società - e con lei pure Spea - ha patteggiato, versando una cifra vicina ai 30 milioni di euro, più di quanto sarebbe costato rimettere in sesto le famigerate pile 9 e 10 del ponte venuto giù il 14 agosto di quattro anni fa.

Qui la questione si fa scivolosa e complessa perché le vittime, le famiglie dei 43 morti e centinaia di soggetti in qualche modo danneggiati da questa tragedia, sono sul piede di guerra. Autostrade per l'Italia è il simbolo di una gestione sventurata e sciagurata e nessuno a Genova può accettare l'idea che la società tolga il disturbo, sia pure dopo aver concordato con il pm un obolo così corposo.

Chi darà giustizia a coloro che hanno perduto madri, padri, fratelli e hanno visto Genova e la Liguria tagliate in due? Ci sono molte imprese e attività economiche che da questo scempio hanno ricevuto un colpo durissimo ed è chiaro che per Genova il bye bye di Aspi, per quanto perfettamente legale, sarebbe uno shock.

Sarebbe, perché quello che abbiamo spiegato è solo metà del problema o se si vuole l'antefatto: Aspi ha patteggiato le proprie responsabilità parapenali, ma resta con un piede nel dibattimento, come responsabile civile, in qualche modo colpevole per le malefatte compiute dai suoi dirigenti e tecnici. Oggi proverà quindi a sfilarsi anche sotto quell'aspetto. Gli avvocati sosterranno le loro ragioni con una trattazione tutta tecnica: Aspi e Spea non hanno partecipato come responsabili civili ad alcuni atti processuali, in particolare gli incidenti probatori, quindi si chiamano fuori.

Ecco il salvacondotto: la richiesta di una via d'uscita o comunque almeno l'esclusione di tutte le parti civili anche sotto questo profilo. Oggi si prevede un'aula affollatissima: sono moltissime le parti civili ammesse, molte altre sono in coda per ottenere un riconoscimento.

L'imputato virtuale numero uno potrebbe però sfuggire ai radar di chi chiede un ristoro. Appunto un piccolo esercito di genitori, parenti, commercianti, imprenditori, associazioni, enti e via elencando una pluralità di situazioni e sigle, alcune segnate in profondità dalla sciagura, altre spinte da motivazioni francamente deboli se non fumose.

Si vedrà quel che deciderà la corte in un dibattimento monstre, in bilico fra sofisticate disquisizioni giurisprudenziali ed emozioni incontrollabili. Certo se Aspi, che intanto non è più nell'orbita dei Benetton, dovesse vincere questa mano, le parti civili potranno sempre rivalersi sui 59 imputati. Ma sarà tutto più difficile. Altro dolore per una città che ha già sofferto troppo.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 18 settembre 2022.

Non è mai stato iscritto sul registro degli indagati nell'inchiesta sul crollo del ponte Morandi che, il 14 agosto 2018, ha inghiottito 43 vite. Eppure in questa vicenda è un testimone di primissimo piano. Come dimostra il verbale che pubblichiamo in esclusiva in queste pagine. Gianni Mion, 79 anni, originario di Vo' (Padova), è stato amministratore delegato della holding della famiglia Benetton, la Edizione, dal 1986 al 2016, consigliere di amministrazione sia di Autostrade per l'Italia sia della sua vecchia controllante, Atlantia. 

Il peso specifico di Mion lo lasciamo precisare al pm genovese Massimo Terrile: «È l'inventore dell'impero Benetton, è quello che [...] ha indotto la famiglia Benetton, a buttarsi nel business delle autostrade e ha costruito, come dire, l'architettura del sistema Benetton, in cui i vari fratelli uno si occupava di autostrade e l'altro si occupava dei golfini colorati e di quant' altro [...] Mion e come dire il Richelieu mettiamolo cosi, è il Richelieu del Re Sole famiglia Benetton».

Il 13 luglio 2021, dopo la chiusura delle indagini preliminari, il «consigliere» è stato sentito in gran segreto da Terrile, il quale, poi, ha utilizzato quel verbale come indizio decisivo durante l'udienza preliminare. Infatti il documento descrive un evento considerato chiave per tutta questa storia. Mion introduce così l'argomento: «Periodicamente si organizzavano degli incontri, che noi chiamavamo di induction, nel corso dei quali venivano presentati e illustrati temi vari, alla presenza di tutti i consiglieri di amministrazione di Atlantia, dei membri dei collegi sindacali, degli amministratori delegati delle società del gruppo, dei direttori generali, del management tecnico di vertice». Riunioni «informali che non venivano [] verbalizzate, ma che duravano molto ed erano molto approfondite». 

Per il manager, in una di queste, «dedicata al tema dei viadotti e delle gallerie», si sarebbe parlato «lungamente delle problematiche che affliggevano il viadotto Polcevera». L'incontro su cui si è concentrata l'attenzione dei pm è quello del 16 settembre 2010. Quell'appuntamento è entrato nel processo quasi come una pistola fumante, usata contro diversi imputati, ma non contro i Benetton o Mion, che ne ha parlato in Procura.

Alla fine questi signori sono rimasti fuori dall'inchiesta e nessuno è andato ad acquisire documentazione negli uffici del Richelieu di Treviso e neppure nella sede della holding Edizione e della subholding Sintonia. Forse i magistrati hanno preferito non disperdere le forze e si sono concentrati sulle responsabilità dirette degli imputati per il disastro. Ma Terrile, nella requisitoria pronunciata durante l'udienza preliminare che ha portato al rinvio a giudizio degli indagati, ha più volte citato il verbale di Mion. Una bomba di cui gli avvocati hanno ben compreso l'importanza.

Per questo vale la pena di analizzare al microscopio quelle dichiarazioni. In particolare laddove Mion fa riferimento alla riunione: «Per me quell'incontro è stato memorabile. Parlavano i tecnici e illustravano varie tematiche legate alla gestione delle gallerie e dei viadotti della rete. Ad un certo punto, si arrivò a parlare del viadotto Polcevera, che tutti noi sapevamo essere l'opera d'arte più importante, più prestigiosa e anche più complessa dell'intera rete nazionale. I tecnici spiegarono che il viadotto Polcevera aveva un difetto originario di progettazione», ha detto Mion. Terrile in aula gli ha fatto l'eco: «I tecnici spiegarono che il viadotto Polcevera aveva un difetto originario di progettazione... non so se e chiaro il concetto perché io l'ho letto tre o quattro volte per essere sicuro.

Siamo nel 2010 e i vertici di Aspi, riuniti in questa induction, discettano tra loro di un difetto di costruzione che affligge il viadotto Polcevera».

Insomma, per l'accusa, a far crollare il ponte potrebbe essere stato «un difetto di cui si parlava già nel 2010». 

il difetto originario Il magistrato vuole sapere di quale problema si trattasse. Mion non sa rispondere («Io non sono in grado di descriverlo, essendo passato tanto tempo e non avendo alcuna competenza tecnica»), ma ricorda un'informazione sconvolgente che acquisì in quella riunione: «I tecnici spiegarono che quel difetto di progettazione creava delle perplessità sul fatto che quel ponte potesse stare su». 

Terrile ripropone con enfasi davanti al Gup tale virgolettato: «Quel difetto di progettazione creava delle perplessità tra i tecnici di Autostrade, riuniti alla presenza di Castellucci nella riunione di induction del 16 settembre 2010 sul fatto che il ponte potesse restare su». Il pubblico ministero si indigna: «A me fa impressione 'sta roba qui». Poi ricorda che a quella riunione parteciparono, oltre a Mion, Castellucci e l'allora direttore generale Riccardo Mollo «che in quel momento sono i due massimi rappresentanti dell'azienda». Per la pubblica accusa le parole di Mion sono terribili, ancor più perché pronunciate da uno che non solo «è la voce dei Benetton dentro Autostrade, attraverso la società Edizione», ma e anche «uno che non deve scansare alcun rischio di responsabilità perché lui proprio con questa roba qui non c'entra».

Quella di Terrile sembra una certezza granitica. E così il racconto del manager può fluire in tutta la sua enormità, ma come se fosse il resoconto di un osservatore sceso da Marte: «Ricordo perfettamente che io, ad un certo punto, intervenni, da completo incompetente qual ero, e chiesi se avevamo qualche ente esterno che aveva attestato la sicurezza strutturale di questo ponte cosi importante e così complicato. 

Siccome gestivamo la rete in regime di concessione, io pensavo ad una attestazione di sicurezza da parte della concedente o di un ente di fiducia della concedente. A quel punto, Mollo mi rispose - lo ricordo come fosse adesso - che la sicurezza del ponte ce la autocertificavamo».

Terrile parafrasa per gli astanti: «Noi la sicurezza del ponte ce la autocertifichiamo, non rompete le scatole, non disturbate il manovratore, non parlate al conducente». Il pm rimarca più volte l'espressione «ce la autocertifichiamo» perché Spea era «roba loro». 

La voce di Mion entra in udienza come quella di Girolamo Savonarola, ricordando ai presenti i loro peccati: «La cosa mi lasciò allibito e sconvolto, anzi, più esattamente, terrorizzato. Mi sembrava assurdo che, essendo tutti consapevoli dell'esistenza di un difetto di progettazione in un'opera così importante, non chiedessimo una verifica esterna e terza della sua sicurezza, da condividere con il concedente.

Tanto più che si trattava di un'opera con circa 50 anni di vita, i cui materiali erano necessariamente usurati e che aveva certamente dovuto sopportare, nel corso di quegli anni, un enorme incremento del traffico veicolare, anche pesante». 

Lo j' accuse prosegue implacabile: «Ma questa cosa sembrava assurda soltanto a me, perché constatavo che, invece, a tutti gli altri partecipanti a quell'incontro (tra i quali c'era ovviamente anche Castellucci) sembrava tutto normale, che nessuno si preoccupava e che nessuno aveva dubbi di nessun genere.

Mollo garantiva che le verifiche eseguite all'interno del nostro gruppo, tramite Spea, escludevano qualsiasi problema di sicurezza del viadotto e tutti, a parte io, erano soddisfatti di questa garanzia».

Mion è di diverso avviso: «Io, invece, mi sentivo tutt' altro che tranquillo, non mi fidavo, non condividevo il metodo perché, in una situazione del genere, mi pareva assolutamente indispensabile coinvolgere il ministero, e cominciai così, proprio da quel momento, a pensare di allontanarmi dalle mie posizioni di responsabilità e di lasciare quindi l'incarico di consigliere di amministrazione di Atlantia, cosa che feci poi attorno al 2013».

Dunque la voce, gli occhi, le orecchie dei Benetton, come le tre scimmiette, batte in ritirata anziché provvedere a far invertire la rotta. 

Terrile rimarca che Mion «è uno che per decenni ha deciso vita, morte e miracoli di tutto quello che succedeva in tutto il gruppo Benetton», ma non gli contesta alcuna responsabilità. Per la toga è una specie di Grillo parlante e non un complice. Un uomo per bene che si scandalizza di fronte a quello scempio. Peccato che potesse, forse, provare a porvi rimedio.

Infatti il manager non è un passante, ma il più influente rappresentante della proprietà. È il braccio operativo degli imprenditori trevigiani, ma quando ascolta le enormità che gli tocca sentire sul Morandi, per l'accusa, conta come il 2 a briscola. Non può denunciare la cosa all'autorità giudiziaria, non può avvertire il ministero, non può chiedere ai Benetton di correre ai ripari. No, lui nella riunione di induction fa praticamente la bella statuina. Anzi, inorridisce. 

«Io non c'entro» Anche se davanti ai magistrati prova a evitare coinvolgimenti giudiziari con questa precisazione: «Non ho mai avuto ruoli all'interno di Autostrade per l'Italia (anche se ha fatto parte del Cda, ndr). Ci tengo a sottolineare che Edizione è sempre stato, e ha sempre voluto essere, un investitore finanziario e non un socio gestore, perché questa era la volontà della famiglia Benetton, cui Edizione faceva capo, e queste erano, del resto, le mie competenze professionali, che sono sempre state competenze in materia di investimenti finanziari, e mai di gestione».

La Procura deve aver accolto l'obiezione. Nel faccia a faccia tra Mion e Terrile si è discusso anche del ruolo dei «fratelli Benetton». «Chi si occupava del settore delle autostrade, chi era il suo riferimento e il suo interlocutore abituale in quel campo?» domanda il pm. E Mion replica che «era Gilberto». Il quale, puntualizza, però, subito il manager, «è deceduto nel 2018». In sostanza se mai in Procura a qualcuno fosse venuto in mente di dare la caccia alla «sacra famiglia» sarebbe stato necessario far rotta sul camposanto. Richelieu è chiaro: «Gilberto era l'unico che si interessava di autostrade ed è sempre stato il mio unico interlocutore al riguardo. 

Gli altri fratelli non soltanto non si sono mai occupati di questo settore, ma anzi, sotto molti aspetti, lo soffrivano, perché ritenevano che le vicende che lo interessavano producessero effetti negativi sull'immagine e sulla comunicazione Benetton così come si era consolidata nel tempo e affermata in tutto il mondo».

Mion confida che, inizialmente, dopo la privatizzazione, le sue interlocuzioni con gli amministratori delegati, Vito Gamberale e Castellucci («entrambi scelti e assunti da me») «erano pressoché quotidiane» e lui rappresentava «il tramite costante e pressoché esclusivo tra la famiglia Benetton e i massimi responsabili della gestione». Poi quando Mion aveva iniziato a proporre l'ingresso di soci industriali, che gli amministratori temevano avrebbero causato «una limitazione dei loro poteri gestionali», «entrambi avevano avvertito e maturato sempre più la necessità o l'opportunità o la convenienza di entrare in rapporto diretto con la proprietà».

Quindi, dice Mion, l'imputato principale, l'ingegner Castellucci, aveva interlocuzioni non mediate con i Benetton. Ma forse tra loro parlavano di maglioncini. Terrile domanda al testimone se sapesse che negli anni 90 fossero stati fatti dei lavori sugli stralli (per il deterioramento dei cavi) di una delle pile del Morandi, e che ce ne fossero due identiche su cui quegli interventi non erano stati realizzati. 

È a questo punto che il manager estrae dal cilindro la storia delle riunioni di induction. Il magistrato squaderna davanti al testimone diverse intercettazioni che lo riguardano e gli ricorda che in un paio di esse aveva affermato che Autostrade era piena di «personaggi finti», che «era Castellucci a gestire tutto» e che «loro avevano messo [] tutti pupazzi [] che potevano manovrare». Dove «loro» ovviamente non sono i Benetton. Il manager, dopo avere confermato quelle parole, le chiosa in questo modo: «Devo dire che io avverto una mia personale responsabilità morale per la tragedia, perché sono stato io a scegliere Castellucci e perché non ho fatto abbastanza per limitarne il potere». 

Un'egemonia che era praticamente illimitata: «Castellucci, nel suo ruolo di amministratore delegato sia di Atlantia sia di Aspi, godeva, di fatto, di un potere assoluto, anche perché era privo, come ho spiegato, di forti interlocutori imprenditoriali che potessero limitarne l'onnipotenza». La valutazione di Mion è che l'ad «si circondasse di figure di modesta caratura, tali da non potergli dare ombra». Il disastro del Morandi sarebbe la conseguenza di questo accentramento decisionale privo di controlli esterni, a partire da quelli governativi.

Il ruolo di Spea «Questo è stato l'errore fondamentale commesso, a mio parere, nella fase della privatizzazione. Spea non avrebbe mai dovuto essere privatizzata e, tanto meno, inglobata nel gruppo Autostrade», è la conclusione di Mion.

«Spea, per esercitare con efficacia, autonomia e professionalità i suoi fondamentali compiti di sorveglianza e monitoraggio tecnico delle opere della rete, avrebbe dovuto rimanere una società pubblica, facente capo al ministero o all'Anas. In alternativa, sarebbe stato indispensabile che, prima Anas e poi iI Mit, si dotassero e disponessero delle ingenti risorse economiche indispensabili per operare un reale ed efficace controllo sulla sicurezza di ponti e gallerie della rete, il che certamente allora non era e neppure oggi è.

Questo è stato un gravissimo errore di principio». Per cui, sembra, non pagherà nessuno. A quello sbaglio imperdonabile «ha fatto seguito - dopo la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche di questo processo - la consapevolezza», come si evince dalle intercettazioni dello stesso Mion, «che Spea fosse piena di incapaci e di lazzaroni e che, come prima ed essenziale mossa, Aspi avrebbe dovuto prenderne le distanze, scaricandola e abbandonandola al suo destino». 

Ma questo non sarebbe accaduto neppure dopo la morte di 43 innocenti. A testimoniarlo è Mion: «L'atteggiamento assunto dalla famiglia e dalla società, per bocca di Castellucci, subito dopo il crollo è stato, a mio avviso, completamente sbagliato e rovinoso. Ricordo che telefonai a Castellucci, tre giorni dopo il crollo, chiedendogli esplicitamente di chiedere scusa, di stanziare una grossa cifra per i primi risarcimenti e di dare le dimissioni. Castellucci non fece niente del genere e, su questo, trovò l'appoggio iniziale della proprietà, che secondo me - come dico in altre conversazioni di cui mi viene esibita la trascrizione parziale - non si era ancora resa conto dell'entità della tragedia e degli effetti devastanti che essa produceva sulla immagine loro e delle loro imprese. La reputazione Benetton - come mi confermò la sondaggista Ghisleri (Alessandra, ndr) - era morta e sepolta».

E in un'intercettazione Mion aveva specificato che ad «ammazzarla» erano state «le due feste di Cortina», organizzate con le macerie ancora fumanti. Dunque una delle più note schiatte imprenditoriali italiane per mesi non si sarebbe resa conto della gravità dell'accaduto. E per svegliarla dal torpore ci sarebbe stato bisogno degli articoli dei giornali che svelavano i primi atti di indagine. O per lo meno, questo sostiene Mion: «Da questo punto di vista, devo dire che la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche costituì una fortuna e un vero toccasana per far acquisire, anche alla famiglia, la necessaria consapevolezza della gravità della situazione. Ciò comportò, seppure con colpevole ritardo a mio avviso, l'estromissione di Castellucci, oltre che di Spea».

Con questo clima, nel giugno 2019, il manager è rientrato in Edizione con il ruolo di presidente «per cercare di creare le condizioni per salvare la concessione e ricostruire la credibilità perduta». Dal verbale si evince anche il tentativo un po' velleitario di Terrile di far confessare qualche colpa a Mion o di fargli incolpare i suoi generosi datori di lavoro: «Lei ha mai dato, o le risulta che qualcuno abbia dato, agli amministratori di Aspi, per conto della proprietà, indicazioni o direttive su materie quali le spese di manutenzione, in particolare indicazioni o direttive finalizzate a contenerle nella massima possibile misura?», domanda il magistrato. La risposta è facilmente prevedibile: «Assolutamente no. Non solo io non mi sono mai sognato di dare indicazioni di quel genere, ma a nessuno della famiglia Benetton sarebbe mai venuto in mente di prendere simili iniziative».

L'inquirente chiede a Mion se non si fosse accorto che nei bilanci i costi per le manutenzioni «andavano sistematicamente a diminuire» con un decremento in otto anni di quasi il 60 per cento. Quindi domanda all'interlocutore se fosse al corrente che l'ultimo costoso intervento manutentivo sul ponte risalisse al 1992 quando Aspi era pubblica e che da allora fossero stati spesi meno di 400.000 euro. Mion prova a svicolare: «Non sempre la diminuzione dei numeri corrisponde a una diminuzione di efficienza». 

Ma un'intercettazione lo riporta alla realtà: la registrazione dove dice: «Il vero grande problema è che le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo meno facevamo. Così distribuiamo più utili. Gilberto e tutta la famiglia erano contenti []». Il manager mette in campo un bel catenaccio: «Certamente a nessuno della famiglia e a nessuno dei soci poteva dispiacere che venissero distribuiti dividendi così elevati.

Certamente il legame che si era creato tra Gilberto e Castellucci dipendeva anche dal fatto che la gestione di Castellucci garantiva quegli utili e quei dividendi. Ma posso escludere con assoluta certezza che qualcuno della proprietà abbia mai preso iniziative o dato direttive allo scopo di ridurre quanto più possibile le spese per la manutenzione delle opere della rete e di aumentare, conseguentemente, gli utili e i dividendi da distribuire». Anche se per Mion, a partire dal 2010, era chiaro, e sono parole sue, che la situazione fosse sconvolgente.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 19 settembre 2022.

C'è un'inchiesta a Roma che non occupa le prime pagine dei giornali, ma che potrebbe bucare il cuscinetto che da anni separa il fascicolo sul crollo del ponte Morandi e i suoi 43 morti dalle possibili cause «remote» della tragedia, ovvero la ricerca forsennata di dividendi da parte della vecchia proprietà, Atlantia, che ha come socio di riferimento la famiglia Benetton. 

L'indagine è partita da Genova su input di quattro avvocati firmatari di un esposto per conto di una serie di comitati di cittadini e associazioni di categoria. I legali (Raffaele Caruso, Andrea Ganzer, Andrea Mortara e Ruggiero Cafari Panico, docente esperto di diritto comunitario) hanno anche chiesto il sequestro della società Autostrade.

La Procura cittadina ha inviato l'esposto a Roma per competenza, Roma l'ha rispedita nel capoluogo ligure e a quel punto la Cassazione ha stabilito che dovesse restare nella Capitale. Qui il fascicolo è passato dalla pm Elena Neri al collega Fabrizio Tucci ed è entrato nell'orbita del pool dei reati della pubblica amministrazione, coordinata dal procuratore Franco Lo Voi e dall'aggiunto Paolo Ielo. Le indagini sono state delegate al Nucleo provinciale di polizia economico-finanziaria. 

Il fascicolo è stato iscritto a modello 44 ovvero senza indagati, ma con precise ipotesi di reato che, secondo gli esponenti, potrebbero andare dalla truffa ai danni dello Stato al peculato (lo sperpero di denaro pubblico). Ipotesi adesso al vaglio degli inquirenti. 

Il peccato originale è citato nei bilanci di Autostrade per l'Italia laddove si parla della cosiddetta IV convenzione aggiuntiva Anas-Autostrade del 23 dicembre 2002 il cui iter amministrativo si è concluso con un decreto legge del 2003 convertito in legge nel 2004. Ebbene quella norma prevedeva incrementi nei pedaggi che andavano ad aggiungersi alla tariffa forfettaria a chilometro introdotta nella convenzione del 1997 e propedeutica alla privatizzazione.

Si trattava di una seconda quota di pedaggio destinata a finanziare nuove infrastrutture: nove svincoli, la terza corsia del Grande raccordo anulare, la quarta della Milano-Bergamo, la Lainate-Como-Grandate, la terza corsia della Rimini nord-Pedaso. Ma soprattutto la Gronda di Ponente, nuovo tratto autostradale genovese. Un passante del costo di 1,8 miliardi di euro, che 20 anni dopo non è (ancora) stato realizzato. Complessivamente si trattava di opere del valore di 4,7 miliardi. 

E quei «pagherò» o, meglio, quei «costruirò» hanno rappresentato «la base di calcolo per l'individuazione della tariffa autostradale che lo Stato permette al concessionario di applicare». Gli investimenti previsti nell'accordo sono stati sin dall'inizio inseriti nel capitale netto investito visto che al termine della concessione tra governo e società e, al netto degli ammortamenti, era previsto ritornassero sotto il controllo dello Stato.

Ma parte di quelle infrastrutture, come detto, non sarebbe mai stata realizzata e i fondi destinati a esse sarebbero comunque stati incassati e serviti a finanziare il debito da 8 miliardi che Atlantia aveva contratto con gli azionisti di Aspi quando aveva realizzato l'Opa per acquistare il 53,8 per cento di azioni a un prezzo considerato all'epoca elevato. Quella scalata venne effettuata con la nuova convenzione in tasca e l'assicurazione di poter contare su una ulteriore fetta di pedaggi. Infatti la nuova componente tariffaria non ha sostituito quella base, che, a quel punto, rimaneva un serbatoio continuamente alimentato dai pedaggi, ma scollegato dai lavori eseguiti e dai costi di servizio.

In questo modo veniva garantita una remunerazione superiore a quella autorizzata dalle norme europee per le concessioni pubbliche, che non potrebbe superare il 7 per cento (un tetto calcolato sul tasso medio dei rendimenti degli investimenti). Uno sganciamento che si sarebbe protratto nel tempo. 

Nell'esposto si legge che il margine di utile, grazie al salvadanaio segreto, potrebbe aver raggiunto il 25 per cento annuo rispetto ai costi degli investimenti effettivamente sostenuti. Gli utili sarebbero stati utilizzati per saldare i mutui accesi con le banche per acquistare le azioni.

In poche parole i Benetton starebbero saldando i loro debiti con i pedaggi «gonfiati» da opere mai realizzate anziché con i loro utili che, grazie al giochino del «finto capitale investito», sarebbero potuti crescere oltre tre volte il limite consentito dalle norme europee. Ma lo storno delle risorse provenienti dai pedaggi degli automobilisti (si tratta per questo di denaro pubblico) verso obiettivi diversi da quelli originari avrebbe avuto come drammatica conseguenza la riduzione degli investimenti per le manutenzioni, che si sono rivelate insufficienti. 

Dunque quello di Aspi sarebbe un tipico caso di leveraged buyout, di acquisto a debito, mascherato grazie all'avallo dello Stato (per questo sperpero di denaro pubblico si ipotizza anche il peculato).

Ci spiega uno dei tecnici che hanno collaborato all'esposto: «Nella vicenda ci sono un soggetto industriale (Aspi) e un soggetto finanziario (Atlantia) e il soggetto finanziario si è mangiato il soggetto industriale. I problemi nascono quando Atlantia diventa il vampiro di Aspi e questa perde il residuo contenuto industriale diventando solo un bancomat».

Prosegue il consulente: «Con la revisione della concessione Autostrade è stata incaricata di realizzare ulteriori iniziative (tra cui la cosiddetta Gronda); questi nuovi ipotetici investimenti hanno concorso alla determinazione della tariffa, apparentemente senza controlli sull'effettiva realizzazione di quanto previsto dalla convenzione. Inoltre le nuove condizioni devono avere convinto i Benetton a scalare Aspi per poi trasformare il debito in un asset aziendale, alla stregua di un ponte». 

Ma lo scherzetto è stato giocato anche all'Unione europea. «Le regole comunitarie stabiliscono che è legittimo dare un bene pubblico in concessione ai privati e consentire un guadagno, ma impongono che gli utili abbiano dei limiti affinché il privato non speculi e per questo viene fissato un tetto».

Che con i Benetton sarebbe clamorosamente saltato. Del trucco si sarebbero accorti anche i funzionari del ministero dei Trasporti che hanno ripreso in mano il dossier prima di concordare con la Commissione europea la proroga della concessione. «Il crollo del Morandi è la punta dell'iceberg. Ma alla base c'è la questione della gestione delle infrastrutture. Un settore in cui c'è stata una compressione dei costi di manutenzione a favore della massimizzazione dei dividendi, a discapito della sicurezza. È questo il nocciolo di tutto», chiosa un investigatore. 

Gli uomini della Guardia di finanza hanno dato il via alle prime attività a fine 2021 e acquisito da Genova il materiale ritenuto d'interesse, a partire da quello riferito alla formazione delle tariffe. A marzo hanno sentito formalmente uno dei consulenti degli autori dell'esposto, il ragionier Giovanni Battista Raggi, dal mese scorso nuovo presidente dell'azienda dei rifiuti di Genova, l'Amiu.

Le investigazioni stanno continuando e i riscontri a quanto denunciato iniziano a emergere. L'unico problema sarà evitare il rischio prescrizione. Ma il prosciugamento di risorse destinate a investimenti in nuove opere pubbliche e manutenzioni sarebbe andato avanti sino ai giorni nostri. Insomma il pericolo sarebbe scongiurato dalla continuazione degli effetti. E così la vera inchiesta sulla presunta ingordigia dei Benetton e dei loro collaboratori potrebbe presto andare in scena nella Capitale.

Giorgio Meletti per editorialedomani.it il 14 settembre 2022.  

La notizia secca è che Autostrade per l’Italia (Aspi) e la sua società controllata per l’ingegneria Spea hanno chiesto al tribunale di Genova di essere escluse come responsabili civili del processo per il crollo del ponte Morandi che sta muovendo i primi passi. Cioè di non essere chiamate a pagare i danni in solido con gli imputati eventualmente condannati. 

Gli avvocati di Aspi (che faceva capo alla famiglia Benetton il 14 agosto del 2018, quando nel crollo morirono 43 persone, e adesso è invece una società a controllo statale) si appellano a un cavillo riguardante il cosiddetto incidente probatorio effettuato durante l’istruttoria.

Ma questa è materia super tecnica per avvocati. Conta invece che il pubblico ministero Massimo Terrile si è detto favorevole alla richiesta di Aspi e Spea perché l’unica cosa che conta per la procura è semplificare un processo di proporzioni talmente mostruose da andare dritto verso la prescrizione per tutti gli imputati. La gravità della vicenda risiede dunque in due questioni fondamentali. 

La prima è che la giustizia di fronte a eventi di queste dimensioni semplicemente non funziona. La seconda è che a rendere assurdo il tutto è intervenuta la geniale idea del governo Conte, portata a compimento dal governo Draghi, di nazionalizzare la società responsabile del crollo, cosicché adesso è lo stato a doversi assumere le responsabilità che erano della holding Atlantia e in ultima istanza di casa Benetton. E se qualcuno volesse sostenere che in punta di diritto non è proprio così (in punta di diritto niente è mai niente) vada a spiegarlo alle famiglie delle 43 vittime suonando ai rispettivi 43 campanelli.

Sul primo punto val la pena ricordare il precedente del Vajont. Il 9 ottobre 1963 l’esondazione del lago artificiale formato dalla diga costruita dalla Montedison e subito prima del disastro passata all’Enel con la nazionalizzazione elettrica, travolse il paese di Longarone, in provincia di Belluno, provocando oltre 2mila morti. Alla fine i danni li hanno pagati in parti uguali la Montedison, l’Enel e lo stato. 

Però, trattandosi di materia giuridicamente complessa, hanno pagato dopo quasi 40 anni. Né durante quei decenni né nei vent’anni successivi i promotori perenni di riforme della giustizia, molto attenti a preservare il garantismo per i colletti bianchi, hanno affrontato il tema dei maxi processi che non portano giustizia e danno benefici sostanziali solo alle carriere dei magistrati e ai conti correnti degli avvocati. Infatti a Genova ci risiamo.

Il pm Terrile ha detto in udienza parole agghiaccianti: «Un processo con 1.228 testimoni che porterebbe a un potenziale di 155mila tra esami e controesami è un processo che non si può fare e non avrà mai fine. La lista testi della procura conta 177 persone, quelle dei 59 imputati oltre 300 e quelle delle parti civili oltre 600. Con questi numeri il processo non avrà fine diversa da quella dell’estinzione dei reati». 

Per ascoltare oltre 1.200 persone, con deposizioni a ritmo di rap, e udienze ravvicinate, ci vorrebbero almeno due anni, salvo poi capire i giudici come farebbero a districarsi tra 1.200 indicazioni di dettaglio spesso contrastanti. Terrile chiede alla corte di escludere buona parte delle 600 persone che si sono costituite parte civile, fermo restando che potranno sempre chiedere i danni in sede civile. Tra l’altro 41 delle 43 famiglie delle vittime sono state già risarcite proprio da Aspi e sono uscite dal processo. A chiedere giustizia e danni ci sono quelli dei danni collaterali, chi ha perso la casa in Valpolcevera, chi ha visto fallire la sua attività commerciale eccetera.

Un disastro del genere non si può risolvere nelle aule di giustizia. Il ponte è crollato per responsabilità evidente e diretta della società Aspi, a meno che non si riesca a dimostrare che qualcuno dei 59 imputati abbia messo una carica di tritolo sotto il pilone che ha ceduto. 

Aspi è talmente piena di soldi che ha appena pagato ai nuovi azionisti (la statale Cassa depositi e prestiti e i fondi Blackstone e Macquarie) un dividendo di 682 milioni. Poteva prenderne la metà e distribuirli ai danneggiati senza sottilizzare troppo, senza dire a quel signore della Valpolcevera che la crepa nel suo appartamento non è poi così grossa.

Solo che adesso Aspi è dello stato, e chi la controlla ha paura di pagare generosamente con i soldi di tutti i danni fatti dai Benetton. Già, potevano pensarci prima. E invece adesso devono battagliare all’ultimo euro, e per anni, con quelli che gli è caduto il ponte addosso per non fare la figura di quelli che generosamente pagano con i soldi di tutti il conto lasciato dai Benetton. 

Giorgio Meletti per editorialedomani.it l'11 settembre 2022.

La procura della Repubblica di Roma sta indagando sulla vendita di Autostrade per l’Italia (Aspi) alla holding Hra (Holding reti autostradali), il veicolo societario con cui il 5 maggio scorso la Cassa depositi e prestiti (che ne detiene il 51 per cento attraverso Cdp Holding) e i fondi Blackstone e Macquarie (24,5 per cento ciascuno) hanno rilevato da Atlantia l’88,06 per cento delle azioni della concessionaria autostradale. I cascami giudiziari dell’operazione, che ha visto la holding controllata dalla famiglia Benetton incassare 8,2 miliardi come “punizione” per il crollo del ponte Morandi (14 agosto 2018) e la conseguente morte di 43 persone, stanno creando vivo imbarazzo a palazzo Chigi e in tutto il mondo politico.

Questo spiega il silenzio assoluto che circonda la vicenda da più di un anno e la prudenza dei magistrati chiamati a ipotizzare i reati commessi e le persone responsabili. Politicamente sono sotto accusa il governo Conte II (giallorosso) e il governo Draghi, ma gli atti formali dell’operazione sono tutti ascrivibili all’esecutivo tuttora in carica.

Due giorni dopo il crollo del Morandi il ministero delle Infrastrutture guidato da Danilo Toninelli (M5s) aprì la procedura di revoca della concessione per “grave inadempimento”, un procedimento amministrativo formalizzato e rigido che poteva avere solo due esiti: il riconoscimento che il grave inadempimento della concessionaria (mancate manutenzioni) non c’era stato; oppure, accertato il grave inadempimento, l'applicazione dell'unica sanzione prevista dalla convenzione che regola la concessione: la revoca. 

Caduto il governo gialloverde con la crisi del Papeete, il governo giallorosso ha avuto come atto fondativo l'eliminazione di Toninelli e la sua sostituzione con Paola De Micheli (Pd). 

La evidente volontà di De Micheli, del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (Pd) e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio (all'epoca M5S, oggi candidato con il Pd) di guardare con benevolenza agli interessi dei Benetton ha condotto a una soluzione (prima subita da Conte e poi ereditata e attuata da Mario Draghi) giuridicamente bizzarra: una transazione in cui non le parti interessate (il ministero concedente e la concessionaria) ma il governo e l’azionista di Aspi, Atlantia, inventano una pena non prevista dall'ordinamento e non inflitta alla concessionaria ma al suo azionista.

Nasce così l'obbligo per Atlantia di vendere Aspi non con una gara pubblica ma obbligatoriamente a Cdp e ai due soci che l'istituto statale ha scelto liberamente, i fondi Blackstone e Macquarie.

A mettere in moto la procura di Roma è stato il presidente della commissione Finanze del Senato Luciano D'Alfonso (Pd), ex presidente della regione Abruzzo, che il 23 luglio 2021 ha scritto al procuratore aggiunto Paolo Ielo, che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione. Ielo ha affidato la pratica al più quotato dei suoi sostituti, Gennaro Varone, che a dicembre scorso ha anche sentito informalmente D'Alfonso.

Dal poco che trapela, il senatore del Pd ipotizza a carico degli alti burocrati che hanno perfezionato il complesso meccanismo una serie di gravi reati, dalla truffa aggravata all'abuso d'ufficio, fino al più insidioso, la turbativa d'asta. 

Infatti, al di là del regalo ai Benetton, l'accusa più velenosa dal punto di vista di Draghi, molto affezionato alla sua reputazione di custode della legalità comunitaria, è di aver passato la concessione a Cdp e ai suoi soci Blackstone e Macquarie senza passare attraverso una gara europea. 

Il 15 luglio 2020, quando per la prima volta si formalizzò l'accordo che ipotizzava la vendita di Aspi, era già uscito al mattino un articolo del Sole 24 Ore che annunciava la partecipazione di Blackstone al ricco affare.

Nel 2008 Varone, all'epoca magistrato a Pescara, ha fatto arrestare l'allora sindaco D'Alfonso con l'accusa di corruzione. Il processo, che vedeva coinvolto anche il costruttore Carlo Toto, notoriamente amico intimo di D'Alfonso, si è chiuso dopo sei anni con l'assoluzione di tutti.

Per una curiosa coincidenza temporale, pochi giorni dopo l'incontro tra Varone e D'Alfonso, il governo Draghi ha dato il via alla discussa e spietata procedura di revoca della concessione di Strada dei Parchi, la società di Toto che aveva in gestione la Roma-Pescara-L'Aquila (A24-A25). Il 20 settembre prossimo il Tar del Lazio si esprimerà sul ricorso di Toto.

L'unica esponente politica che ha tuonato apertamente contro la vendita di Aspi a Blackstone e Macquarie, arrivando a minacciare di «bloccare il parlamento», è stata la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. Ma oggi l'accusatore numero uno, D'Alfonso, è il capolista del Pd nella lista per il proporzionale in Abruzzo. 

Giorgio Meletti per “Domani” il 12 settembre 2022. 

Il caso di Autostrade per l’Italia (Aspi), destinato a esplodere come grande scandalo nazionale non appena si sarà abbassata la polvere della campagna elettorale, è talmente complicato che per capirlo occorre sezionarlo su tre livelli. 

Ci sono il livello politico (che è quello più assurdo), il livello giudiziario (che è quello meno interessante) e il livello dei fatti concreti (che è quello più preoccupante). Prima di vedere in dettaglio come si intrecciano le tre dimensioni, fissiamo i fatti inopinabili. 

Il 14 agosto 2018 crolla a Genova il ponte autostradale sul fiume Polcevera, detto ponte Morandi dal nome dell’ingegnere che l’aveva progettato. Muoiono 43 persone.

Due giorni dopo il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli apre la procedura per la revoca della concessione autostradale di Aspi, che vale oltre la metà della rete italiana, per grave inadempimento. 

Nell’agosto 2019 cade il governo Conte gialloverde (cosiddetta crisi del Papeete) e nasce il Conte giallorosso. Alle Infrastrutture viene fatto fuori Toninelli e arriva la Pd Paola De Micheli. 

All’Economia fuori l’economista Giovanni Tria e dentro il Pd Roberto Gualtieri. Dopo mesi di aspre discussioni, all’alba del 15 luglio 2020 a palazzo Chigi viene firmato una specie di armistizio tra il governo e Atlantia, la holding proprietaria di Aspi a sua volta controllata dalla famiglia Benetton. 

Il governo rinuncia alla revoca se Aspi si impegna a sborsare 3,4 miliardi per manutenzioni straordinarie non finanziate dai pedaggi, e se Atlantia si impegna a cedere allo stato il controllo di Aspi.

Il governo presenta l’accordo come l’umiliazione finale dei Benetton, costretti a subire la nazionalizzazione di Aspi, descritta come una sorta di confisca. In realtà nell’accordo c’è scritto che la vendita di Aspi sarà fatta a un prezzo concordato tra le parti. 

E nel giro di pochi giorni si capisce che De Micheli e Gualtieri, insieme all’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti (Cdp) Fabrizio Palermo, hanno deciso che sarà Cdp a comprare Aspi in società con i due fondi internazionali Blackstone e Macquarie. 

L’effettivo ruolo di Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella decisione, leader all’epoca in condominio del Movimento 5 stelle, rimane avvolto nella nebbia di parole vaghe, come è abituale per i due.

A febbraio 2021 cade il governo Conte e nasce il governo Draghi che eredita il dossier e realizza effettivamente l’operazione. Dal punto di vista degli storici quello che oggi si palesa come un immondo pasticcio è stato concepito da Conte, De Micheli, Gualtieri e Di Maio. 

Dal punto di vista amministrativo l’immondo pasticcio è stato perfezionato e compiuto dai loro successori, nell’ordine Mario Draghi, Enrico Giovannini e Daniele Franco, che non hanno cambiato di una virgola il canovaccio ricevuto in eredità dal governo precedente. Il 12 giugno 2021 viene firmato il contratto preliminare per la vendita di Aspi da Atlantia a Cdp e soci. 

Il 14 ottobre seguente viene firmato l’accordo transattivo tra il concedente ministero delle Infrastrutture e la concessionaria Aspi che chiude la procedura di revoca. Il 21 dicembre 2021 si riunisce il Cipess, l’ex Cipe, comitato interministeriale per la programmazione economica, che adesso ha le “s” perché si occupa anche di sviluppo sostenibile (ma non di resilienza).

La riunione del Cipess, vista la delicatezza della materia, viene presieduta da Mario Draghi in persona, anziché dal fidato sottosegretario Bruno Tabacci come di regola, e approva il nuovo piano economico finanziario (Pef) di Aspi che determina investimenti e tariffe fino al 2038. 

In pratica determina la redditività di Aspi, e quindi il suo valore. Notate bene: avendo fissato il prezzo di vendita il 12 giugno, il 21 dicembre il governo è costretto ad approvare un Pef scritto apposta per rendere congruo il prezzo piuttosto alto concordato: infatti la validità del contratto di vendita era subordinata all’approvazione del Pef. 

A seguito della delibera Cipess del 21 dicembre 2021 si dipanano tutti i conseguenti passaggi burocratici, tra cui l’immancabile visto della Corte dei conti, fino a che il 5 maggio 2022 il successore di Palermo, Dario Scannapieco, benedice il cosiddetto closing: si firmano i contratti definitivi e parte un bonifico da 8,2 miliardi destinato ad Atlantia per l’88,06 per cento delle azioni Aspi.

Il livello politico della storia è assurdo perché l’iniziativa di portare la vicenda all’attenzione della magistratura penale è targata Pd. Infatti è un autorevole esponente del partito pilastro sia del Conte giallorosso sia del Draghi dell’Agenda a rivolgersi alla procura della Repubblica di Roma per chiederle di indagare su una sfilza di gravi reati a suo dire commessi non dai ministri ma dagli alti burocrati. Si tratta di Luciano D’Alfonso, ex sindaco di Pescara ed ex presidente della regione Abruzzo. 

I suoi esposti alla procura di Roma li ha firmati come presidente della commissione Finanze del Senato nell’esercizio della sua funzione istituzionale. Insomma non è un passante, e il segretario del Pd Enrico Letta, nonostante i missili lanciati contro Draghi e Conte, l’ha candidato come capolista per la Camera in Abruzzo. Il Pd non ha preso le distanze dalle accuse di D’Alfonso, che pure risalgono a oltre un anno fa.

Per motivi opposti colpisce il silenzio di Giorgia Meloni che, fino a quando la crisi del governo Draghi non le ha spalancato le porte di un trionfo elettorale, dall’opposizione non perdeva occasione di tuonare contro l’operazione Aspi con argomenti analoghi a quelli di D’Alfonso. A maggio 2021, alla immediata vigilia della firma del contratto di compravendita di Aspi, chiedeva perentoriamente di bloccare l’operazione fino a che la gestione Benetton non avesse rimesso in sesto la rete autostradale: denunciava «il rischio che Cdp si sta accollando, esponendo lo stato e i risparmi postali degli italiani alle conseguenze di potenziali cedimenti di opere infrastrutturali, con le prevedibili conseguenze di perdite di vite e di conseguenti cause di rivalsa delle parti offese. 

Non si può rilevare una infrastruttura stradale con questi punti di debolezza che richiedono costosi interventi di estrema urgenza. Vi sono tutti gli estremi per reclamare il ripristino di adeguate condizioni di sicurezza della rete autostradale prima del passaggio di proprietà a favore del consorzio guidato da Cdp». Adesso Meloni ha designato Draghi come lord protettore del suo prossimo governo e parla di Peppa Pig anziché di autostrade.

Il maggiore imbarazzo politico lo creano però le voci di corridoio riguardanti i rapporti di storica amicizia tra D’Alfonso e il suo concittadino Carlo Toto, il costruttore a cui Draghi ha revocato due mesi fa la concessione della Roma-Pescara-L’Aquila (A24-A25). Gli spin doctor di Palazzo Chigi accreditano l’ipotesi che le denunce di D’Alfonso siano una ritorsione per la sanzione della revoca che ha colpito l’amico Toto e risparmiato Aspi. 

È vero però che gli esposti di D’Alfonso precedono di un anno la revoca a Toto, per cui il rapporto causale tra i due eventi potrebbe logicamente ribaltarsi. Ma questa controversia va registrata solo per dovere di cronaca, visto che interessa solo i nervi scossi di alcuni soggetti interessati e di svagati dietrologi convinti che il problema stia lì.

D’Alfonso segnala al sostituto procuratore Gennaro Varone (lo stesso che nel 2008 ne chiese e ottenne l’arresto per fatti corruttivi che coinvolgevano anche Toto e per i quali i due furono infine assolti) una serie di possibili reati.

L’aspetto penale è interessante per i giuristi ma non saranno i magistrati a rivelarci chissà che cosa. I reati ipotizzati sono riferiti a fatti noti, documentati, alla luce del sole. I magistrati non hanno molto da scoprire, a loro spetta solo la cosiddetta “qualificazione giuridica del fatto”, cioè decidere se quei comportamenti noti si configurano o no come reato. 

D’Alfonso ipotizza la truffa ai danni dello stato (articolo 640 bis del codice civile) perché indeterminati dirigenti dello stato avrebbero raggirato la Corte dei conti fornendole informazioni false per farle approvare la complessa operazione; l’abuso d’ufficio (articolo 323 codice penale), considerando contro l’interesse dello stato la decisione di non revocare la concessione ad Aspi; poi scatterebbe un terzo reato, la turbativa d’asta (353 e 353 bis c.p.), per aver indotto Atlantia a vendere Aspi direttamente a Cdp, che a sua volta ha preso in cordata con sé Blackstone e Macquarie in modo discrezionale, senza alcuna forma di selezione pubblica.

Qui c’è il punto decisivo, giuridicamente molto complesso. I governi Conte e Draghi si sono mossi come se il cambio di proprietà della concessionaria fosse irrilevante rispetto alla continuità del rapporto concessorio. La concessionaria è Aspi e rimane Aspi, se Atlantia ne cede la proprietà ad altri non cambia niente. 

Per D’Alfonso la cosa non è così piana. Per esempio la cessione del controllo di Aspi è dovuta passare per il via libera della Bei (Banca europea degli investimenti), creditrice per 1,2 miliardi di euro di Aspi, per la quale il cambio di controllo della società debitrice comporta una tale trasformazione del rapporto da avere il diritto di autorizzare l’operazione.

Secondo D’Alfonso, considerando anche le modifiche della convenzione intervenute, compreso il nuovo Pef che modifica sostanzialmente i meccanismi della concessione in termini di tariffe e di investimenti dovuti, si tratta di una nuova concessione con nuovi concessionari. Questo avrebbe imposto al governo di riassegnarla con una gara: non averla fatta integra il reato di turbativa d’asta. 

Può darsi che queste ipotesi siano il frutto della fantasia giuridica di D’Alfonso, anche se il sostituto procuratore Varone sta vagliando seriamente le ipotesi di reato. Ma anche se la magistratura concludesse che non sono stati commessi reati, rimarrebbero i duri fatti. 

Il fatto concreto e documentato è che il governo ha aperto la procedura di revoca della concessione per grave inadempimento e, dopo due anni di studi e pareri giuridici, è arrivato alla conclusione che la revoca comportava dei rischi, soprattutto di contenzioso con Aspi e di indennizzi miliardari da pagare.

Sulla base del parere di un “Gruppo di lavoro interistituzionale” e di quello dell’Avvocatura dello stato, peraltro chiari sul fatto che c’erano tutte le condizioni per la revoca per grave inadempimento (il crollo del ponte senza che fosse centrato da un meteorite ne era la prova ovvia), la ministra delle Infrastrutture De Micheli, spalleggiata da Gualtieri e Di Maio, ha spinto per la transazione esaltando presso il premier Conte gli aspetti critici della revoca. Il 15 luglio 2020 si è fatto l’accordo con Atlantia secondo cui, anziché la revoca, ci sarebbe stata la perdita di controllo di Aspi accompagnata da altri sacrifici, come l’impegno a spendere 3,4 miliardi in manutenzioni straordinarie. 

Da quel momento si è aperta una trattativa opaca, gestita dai ministeri competenti e da Cdp come se fosse un affare privato. L’unica cosa oggi chiara è che già quella mattina del 15 luglio, quando ancora non era chiuso l’accordo tra governo e Atlantia, il Sole 24 Ore annunciava che i fondi Blackstone e Macquarie erano in campo per aggiudicarsi il lucroso affare. Strano, ancora il governo non aveva scelto tra le varie modalità ipotizzate per il passaggio di controllo di Aspi. Ma evidentemente, colà dove si puote ciò che si vuole, era tutto già deciso.

All’esito della trattativa ci sono due documenti, entrambi firmati dal governo Draghi: la compravendita di Aspi e l’accordo transattivo. I termini della prima rimangono segreti, è un affare privato (anche se i soldi sono pubblici) tra Atlantia da una parte e Cdp e i fondi Blackstone e Macquarie dall’altra. Come pure rimangono segreti i patti parasociali che definiscono i poteri dei due fondi su Aspi a dispetto che il pacchetto di controllo appartenga alla statale Cdp. 

L’accordo transattivo è invece consultabile ed è molto interessante. A pagina 8, al punto 41 delle premesse, sono elencati i “profili di criticità” della revoca (“risoluzione del rapporto concessorio”) che inducono il governo alla transazione. Però non si dichiarano i profili di criticità della transazione stessa, che non sapremo mai, perché il governo Conte e il governo Draghi non hanno mai messo a confronto in un documento ufficiale i pro e i contro delle due soluzioni.

Per esempio, D’Alfonso sostiene che la transazione (con l’acquisto di Aspi e l’accollo del debito e dell’impegno a spendere 3,4 miliardi per manutenzioni straordinarie) è costata allo stato 8 miliardi in più del costo massimo ipotizzabile con la revoca. 

Ma la cosa davvero singolare è che nella transazione, con cui rinuncia alla revoca per grave inadempimento (43 morti), lo stato elenca solennemente tutti i casini in cui si infilerebbe con la revoca stessa. Quindi il governo firma una transazione in cui premette che non ha altra scelta. 

E fin qui potrebbe anche andare, una transazione è una transazione. Purtroppo non è così. Perché a pagina 20 dell’accordo transattivo, all’articolo 10, c’è scritto che l’accordo stesso sarà valido solo dopo l’approvazione del nuovo piano finanziario (Pef), frutto di accordo tra governo e concessionaria, e dopo la vendita di Aspi a Cdp, Blackstone e Macquarie. 

A sua volta però la vendita è subordinata alla firma dell’accordo transattivo. Se vi gira la testa non vi preoccupate: neppure la Corte dei conti ha capito il concetto di due contratti separati che sono, reciprocamente, uno condizione di validità dell’altro. I magistrati contabili hanno chiesto spiegazioni e le hanno avute in una forma che D’Alfonso giudica un raggiro ai sensi dell’articolo 640 del codice penale.

È difficile capire il senso giuridico del pasticcio che è stato concepito. Il governo apre una procedura amministrativa per grave inadempimento che prevede come sanzione la revoca della concessione e poi innesta dentro la procedura amministrativa (che poteva chiudersi solo con la revoca, oppure con la presa d’atto che il grave inadempimento non c’era stato) una transazione privatistica, come se si trattasse di una causa civile, oltretutto con un soggetto estraneo alla procedura, la finanziaria Atlantia. 

C’è da stropicciarsi gli occhi: una procedura amministrativa per grave inadempimento (43 morti) che prevede come sanzione la revoca della concessione si è risolta con la decisione della holding proprietaria della concessionaria “sotto processo” (Aspi) di accettare, come sanzione, il prezzo che lo stato le offriva per la concessionaria stessa. Mentre noi ci stropicciamo gli occhi qualcuno ha stropicciato leggi e codici.

Serve guardare i dettagli. Lo stato firma un accordo transattivo in cui dice in sostanza: fermo restando che se non va in porto questa transazione mi tocca fare la revoca che qui dichiaro solennemente che per me sarebbe un disastro, preciso che questa transazione medesima è valida solo se va in porto la vendita di Aspi a Cdp e soci, quindi Atlantia sappia che, se si impunta sul prezzo e non mi firma la vendita, io dovrò procedere con la revoca e sarò rovinato. Con queste premesse, indovinate chi ha deciso il prezzo di Aspi? Avete indovinato, il venditore, cioè Atlantia dei Benetton.

Già, ma perché Blackstone e Macquarie devono accettare di pagare un prezzo (9,3 miliardi per l’intera società) che un anno prima avevano dichiarato esoso offrendo solo 7 miliardi? La spiegazione è semplice: nel frattempo è stato approvato il nuovo Pef che ha garantito ad Aspi fino al 2038 tariffe stellari e una dinamica degli investimenti e delle manutenzioni analoga a quella della gestione Benetton. Insomma, Cdp (lo stato) e i suoi soci scelti a gusto del management hanno accettato di strapagare Aspi grazie alla garanzia che resterà un bancomat, una vacca da mungere, dove gli automobilisti faranno la parte della vacca e i fondi Blackstone e Macquarie faranno i mungitori con la nobile Cassa depositi e prestiti (fondata nel 1850 dal presidente del Consiglio del Regno di Sardegna Massimo D’Azeglio) che chissà perché ha deciso di fare il palo.

I risultati si vedono. Il 5 maggio scorso Cdp, Blackstone e Macquarie hanno versato 8,2 miliardi per l’88 per cento delle azioni Aspi, e dopo soli due mesi si sono fatti versare il dividendo riferito agli interi utili del 2021, 682 milioni di euro, pari al 7,5 per cento dell’investimento appena fatto. 

Nonostante il Covid e il crollo del Morandi, Aspi è ancora così ricca da poter inondare di dividendi i suoi azionisti (anche se ad aprile la gestione degli avidi Benetton aveva deciso per prudenza e decenza di tenere gli utili in cassa). Trovate un altro investimento che paga una cedola del 7,5 per cento dopo soli due mesi. Se non lo trovate, pensate che questo bengodi finanziario lo regala ai nuovi azionisti la concessionaria autostradale che solo quattro anni fa ha provocato la morte di 43 persone con il crollo del ponte Morandi e che i governi Conte e Draghi ci hanno raccontato che andava nazionalizzata in nome dell’interesse pubblico e della sicurezza.

C’era addirittura la leggenda che il governo avrebbe imposto una drastica riduzione delle tariffe. Invece le hanno alzate, per fare contenti in un colpo solo i fondi stranieri e i Benetton. Conte e Draghi hanno già cominciato a rimpallarsi le colpe, secondo la nobile tradizione nazionale, mentre i magistrati cercano di capirci qualcosa. Una cosa è certa: reati o non reati, le autostrade erano una vergogna sotto i Benetton e restano una vergogna, forse peggiore, sotto lo stato. 

Fabio Pavesi per “Verità & Affari” l'11 agosto 2022.

La notizia è passata sottotraccia, quasi fosse una questione di ordinaria amministrazione. Ma qui di ordinario c’è ben poco. Con i conti dei primi 6 mesi del 2022, Atlantia, la holding posseduta dai Benetton con il 30% del capitale, ha messo la parola fine alla tribolata vicenda di Autostrade per l’Italia. 

E che fine gloriosa, tutta a favore degli azionisti di Atlantia e con lo Stato italiano che ha battuto mestamente in ritirata dopo i proclami guerreschi sulla lezione punitiva per i Benetton dopo il disastro del Ponte Morandi.

Qui di vincitore ce n’è solo uno ed è proprio la potente famiglia veneta che è riuscita nel capolavoro di liberarsi del pacco, divenuto scomodo dopo la tragedia genovese, con una lauta plusvalenza. 

Già perché dalla semestrale di Atlantia, pubblicata pochi giorni fa, ecco che è messo nero su bianco il guadagno della cessione di Aspi. La holding delle infrastrutture ha messo a segno dalla vendita al consorzio capitanato da Cdp una plusvalenza di ben 5,31 miliardi di euro.

Cui si aggiungono altri 526 milioni frutto dei mesi di gestione operativa di Aspi pre-cessione. Fanno 5,84 miliardi di euro a favore di Atlantia di cui i Benetton tramite Edizione posseggono il 30%. Vuol dire per la famiglia di Ponzano un guadagno pro-quota che sfiora 1,8 miliardi. 

Non solo ma Atlantia ha pure distribuito come si legge nella relazione del primo semestre di quest’anno 606 milioni di dividendi. Altri 180 milioni pro-quota che saliranno ai piani alti di Edizione. Ma il capolavoro della cessione allo Stato via Cdp non finisce qui.

L’operazione da 8,2 miliardi del prezzo di vendita, con un guadagno secco di 5,3 miliardi per il venditore, si accompagna a un deconsolidamento del debito in capo ad Aspi per 8,67 miliardi. E così tra incasso dalla cessione e debiti lasciati all’acquirente, la manovra totale per Atlantia vale oltre 16 miliardi. Un colpo da maestro dato che l’uscita onerosa per lo Stato da Autostrade ha migliorato e molto i conti della stessa Atlantia. Soprattutto sul fronte patrimoniale.

D’incanto Atlantia si ritrova ora, dopo la cessione, con un debito finanziario netto sceso da 35 miliardi di euro di fine del 2021 a soli 19 miliardi a giugno del 2022 e con un patrimonio netto del gruppo salito da 8,1 miliardi a 13,7 miliardi. Una sforbiciata secca al debito e i proventi dalla cessione che fanno salire il patrimonio riportando Atlantia a una situazione finanziaria più che ottimale. Il tutto grazie alla vendita di Autostrade. Due piccioni con una fava. 

I Benetton si sono liberati, con lauta plusvalenza del peccato mortale del crollo del Ponte e con il debito ceduto hanno messo a posto la situazione finanziaria di Atlantia. Se non è genio questo, cos’è. A fronte di questi numeri pare indubbio che lo Stato esca più che perdente dalla partita con i Benetton. 

Che di fatto con l’incasso della plusvalenza è come se anche senza Autostrade hanno garantito alla “loro” Atlantia un monte utili in un colpo solo pari ad almeno 7-8 annualità di profitti di Autostrade. Aspi ha infatti chiuso il 2021 con utili netti per poco più di 700 milioni.

Ma i conti finali dell’avventura poco più che ventennale dei Benetton alla guida delle Autostrade non sono finiti qui. La gestione di Aspi ha portato dal 2000 al 2020 nelle casse di Atlantia dividendi complessivi per 9 miliardi (di fatto oltre il 90% dei profitti sono finiti in cedole agli azionisti). 

La famiglia Benetton ne ha beneficiato per 2,7 miliardi. Cui ora si aggiunge pro- quota la ricca plusvalenza che comporta per Edizione un guadagno secco di oltre 1,5 miliardi. E dulcis in fondo c’è anche la plusvalenza da 723 milioni realizzata nel 2017 dalla vendita del 12% di Aspi ai fondi di Allianz e Silk road fund. Altri 200 milioni pro-quota Benetton.

E così mal contati i guadagni netti della dinastia Benetton come azionisti forti di Autostrade ammontano in 20 anni a circa 4,4 miliardi di euro. Sono oltre 200 milioni l’anno ogni anno che è trascorso dal 2000 e puliti, puliti e senza troppo fatica dato che la rendita era assicurata dal monopolio autostradale.

Si dirà che hanno pagato un prezzo per acquisire l’infrastruttura. In realtà esborso di capitale è stato pari a zero. L’acquisto è avvenuto a debito, poi scaricato proprio su Autostrade. E quanto al capitale i Benetton hanno messo 1,3 miliardi di tasca loro e poi ripagati da subito con un maxi-dividendo da 1,4 miliardi. La beffa finale è dello Stato.

Incassò dalla privatizzazione di Autostrade 6,5 miliardi di euro dell’epoca che oggi a valori correnti varrebbero 9,3 miliardi. Guarda caso cifra analoga a quanto è stata valutata Aspi nella cessione. Pari e patta. Dopo ben 20 anni lo Stato ha restituito ai Benetton tutto quello che aveva incassato 20 anni prima dalla vendita. Un gioco a somma zero, mentre i Benetton hanno lucrato dall’intera vicenda quasi 5 miliardi. Se non è un regalo questo.

Gaia Terzulli per open.online il 9 agosto 2022.

Gli ex manager di Autostrade per l’Italia provarono a truffare lo Stato, dopo averlo frodato, cercando di farsi rimborsare dal ministero delle Infrastrutture costi per migliorie in realtà mai realizzate. È uno dei dettagli emersi nell’avviso di fissazione dell’udienza stralcio per decidere quali intercettazioni usare nell’inchiesta per le barriere fonoassorbenti pericolose, i falsi report sui viadotti autostradali e le gallerie non a norma.

Sono 56 le persone indagate, a vario titolo, di falso, frode, tentata truffa, attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo colposo. I pm Walter Cotugno e Stefano Puppo contestano la tentata truffa all’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, agli ex numeri due e tre Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli e a Stefano Marigliani, ex direttore di tronco. Secondo i magistrati, i quattro comunicavano di avere realizzato interventi migliorativi delle barriere apposte sulla rete autostradale, senza averli realmente mai realizzati. In questa maniera avrebbero indotto in errore il personale del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sul rimborso dei costi sostenuti per tali interventi, procurandosi un ingiusto profitto. 

Le accuse sui falsi report e sui lavori mai eseguiti

Dopo il crollo del ponte Morandi il 14 agosto 2018, a seguito del quale persero la vita 43 persone, era stata avviata un’indagine sulle cause del disastro e quindi sui falsi report di collaudo e manutenzione di quasi tutta la rete autostradale. Secondo gli investigatori della guardia di finanza, i tecnici di Spea, la società di Atlantia che opera nel settore dell’ingegneria e delle infrastrutture, ammorbidivano i rapporti sullo stato dei ponti per evitare di eseguire i lavori. 

Era stato scoperto, inoltre, che le barriere fonoassorbenti montate su alcuni tratti autostradali erano difettose e si erano staccate causando problemi agli automobilisti. Uno degli indagati aveva anche detto al telefono che erano «attaccate con il Vinavil». A un anno di distanza, il 30 dicembre 2019, era crollata una parte della volta della galleria Bertè, sulla A26. Si erano staccate quasi due tonnellate di cemento che per fortuna non avevano colpito nessuna auto.

Prima del crollo, la Commissione permanente delle Galleria aveva imposto ad Autostrade per l’Italia la chiusura dei tunnel a rischio. Disposizione disattesa fino al 2020. Non solo. La procura scoprì che le opere di mantenimento delle funzionalità delle gallerie non erano state fatte, così come le dovute ispezioni. 

Le accuse all’ex direttore di tronco Mirko Nanni

Motivi per i quali l’ex direttore del primo tronco autostradale, Mirko Nanni, risulta indagato per omissione d’atti d’ufficio, attentato alla sicurezza dei trasporti, inadempimento di contratto di pubbliche forniture. Le accuse sono contenute nell’avviso di fissazione di udienza stralcio per la selezione delle intercettazioni nell’ambito dell’inchiesta sulle barriere anti-rumore pericolose, sui falsi report sui viadotti e sulle mancate ispezioni alle gallerie. L’udienza è fissata per il 20 ottobre.

Giorgio Meletti per “Domani” il 9 agosto 2022.

A quattro anni dal crollo del ponte Morandi di Genova (14 agosto 2018, 43 morti), mentre muove i primi passi il maxi processo con 59 imputati che impiegherà anni ad attribuire le responsabilità penali, c’è una sola certezza: la famiglia Benetton, azionista di controllo della holding Atlantia e quindi di Autostrade per l’Italia (Aspi), non ha subìto alcun danno patrimoniale da quella tragedia. Anzi, ci ha guadagnato. 

Il giorno del crollo, il titolo Atlantia valeva in Borsa 25 euro. Oggi ne vale 23. Certo, 23 è meno di 25. Però considerate che nel frattempo c’è stata la pandemia, che ha pesato sulle concessioni autostradali con il crollo del traffico, soprattutto nel 2020. E adesso c’è la guerra in Ucraina che sta terremotando le borse di tutto il mondo. E sono proprio i numeri della Borsa a dirci quanto è andata bene ai Benetton.

Il 9 marzo 2020, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciò il lockdown. È stato il punto più basso della Borsa italiana. Ed è stato particolarmente basso per Atlantia visto che, al facilmente prevedibile crollo del traffico autostradale per il lockdown, si sommava il timore dei mercati per i bellicosi propositi di Conte: l’avvocato del popolo continuava a minacciare la revoca della concessione autostradale di Aspi come naturale sanzione per non aver prevenuto il crollo del Morandi. 

Ebbene, da quel 9 marzo 2020 a oggi l’indice Ftse Mib, che misura l’andamento generale della Borsa di Milano, è cresciuto di circa il tre per cento. Il titolo Atlantia invece è salito di circa il 40 per cento. 

Una performance che nessuna grande società italiana ha realizzato nello stesso periodo, neppure, tanto per dire, la Essilor Luxottica di Leonardo Del Vecchio, impresa di successo per antonomasia. Insomma, non sono bastate la pandemia e la guerra a frenare l’entusiasmo dei mercati finanziari per i regali che il governo italiano ha fatto ad Atlantia per punirla.

È questo il miracolo, il fenomeno soprannaturale che ha trasformato la realistica prospettiva di un disastro finanziario nel consolidamento della ricchezza dei Benetton: la tragedia del Morandi è stata gestita dalla classe dirigente italiana (politici e alti burocrati) con un impasto di insipienza e malafede. 

Spetterà a storici e filosofi risolvere un enigma che non è alla portata degli economisti: è la diffusa insipienza di una classe dirigente in declino ad aprire prima varchi e poi intere praterie alla malafede, o è la malafede il motore immobile che sprigiona un’insipienza solo simulata?

Una cosa è certa. La responsabilità di quello che si configura come uno dei più gravi scandali della storia repubblicana va divisa equamente tra i tre governi che si sono succeduti in questi quattro anni: Conte I, Conte II e Draghi. 

Con quella sostanziale continuità d’azione ben descritta da Luciano Canfora (La democrazia dei signori, Laterza) con il concetto di “superpartito”, «risultante dalla riduzione delle formazioni politiche, malconce e impegnate in esercitazioni verbali, al ruolo – al di là dei necessari battibecchi – di comparse». 

Il risultato è il seguente: con una serie di mosse abbastanza stralunate i governi Conte e Draghi hanno tolto le conseguenze del crollo dal groppone dei Benetton e dei loro soci per traslarlo sulle spalle degli utenti delle autostrade, che lo pagheranno a suon di pedaggi per i prossimi decenni. 

Prima però un chiarimento è dovuto ai lettori poco avvezzi ai meccanismi del potere finanziario. Perché il valore delle azioni Atlantia è l’unità di misura della sorte toccata ai Benetton dopo il crollo del Morandi?

La dinastia industriale dei Benetton è formata da quattro rami: i due fratelli Giuliana e Luciano, lo storico leader oggi 87enne, e i figli dei due fratelli scomparsi, Carlo e Gilberto. Posseggono in quattro parti uguali le azioni della cosiddetta “cassaforte”, una società chiamata Edizione Holding. Oggi il capo è Alessandro, figlio di Luciano. 

Edizione possiede il 33 per cento delle azioni di Atlantia, cioè la quota che consente loro di controllare la holding che il 14 agosto 2018 possedeva a sua volta l’88 per cento delle azioni di Aspi. 

Quindi i Benetton erano solo indirettamente padroni di Aspi. La gestivano, nominavano i manager e davano loro istruzioni su come massimizzare i profitti sacrificando le manutenzioni o ottenendo dal ministero vigilante, quello delle Infrastrutture, regolari e ingenti aumenti tariffari.

Ma il patrimonio direttamente posseduto erano solo le azioni di Atlantia: la sorte di Aspi li ha sempre e solo riguardati per gli effetti che l’andamento della concessionaria produceva sui conti di Atlantia. Aspi produceva profitti pari al 25 per cento dei ricavi, una redditività che nemmeno Amazon e Google hanno mai raggiunto, e dava sontuosi dividendi alla controllante Atlantia, che a sua volta li girava per il 33 per cento a Edizione e per il resto agli altri azionisti. Il valore in Borsa delle azioni Atlantia rifletteva fino al 2018 la sua capacità di dare certi dividendi grazie, anche se non soprattutto, al possesso di Aspi. 

Quindi i Benetton avevano azioni Atlantia che valevano 25 euro l’una (cioè 6,5 miliardi) quattro anni fa. Oggi hanno azioni Atlantia che valgono 23 euro (sei miliardi), nonostante pandemia, guerra e drammatica crisi economica globale. Ecco perché è questo il dato che risponde alla domanda: quale prezzo hanno pagato i Benetton per il crollo del Morandi? La risposta è: nessun prezzo, anzi ci hanno guadagnato.

Vediamo adesso come tutto ciò sia potuto accadere. All'indomani della tragedia il presidente del Consiglio Conte annunciò in modo deciso l’apertura della procedura di revoca della concessione per grave inadempimento. La mossa appariva quasi ovvia all’opinione pubblica, scossa dalle incredibili immagini di un gioiello dell’ingegneria civile che si accartocciava come un castello di carte. 

Se la concessionaria autostradale non è in grado di garantire la stabilità dei viadotti e lascia che uno dei più importanti, trafficatissimo e monitoratissimo, venga giù trascinandosi dietro 43 vite, forse è meglio toglierla di mezzo. 

È il Movimento 5 stelle la formazione politica più schierata sulla revoca. Dice il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio: «Noi andiamo avanti, i Benetton non ci fanno paura, la revoca della concessione è un dovere non solo politico ma morale». Tutti gli altri partiti sono più prudenti. Ma soprattutto è Atlantia a rispondere a muso duro al governo, decisa a difendere fino in fondo, in punta di diritto, i suoi diritti patrimoniali.

Solo il processo penale dirà di chi è la responsabilità del crollo, argomentano i legali dei Benetton, e la revoca prima del pronunciamento della Cassazione metterebbe a repentaglio non solo la sopravvivenza di Atlantia ma anche la stabilità degli stessi mercati finanziari italiani. 

C’è del vero in questo ragionamento. Una stima di Mediobanca dice che la revoca darebbe luogo a un contenzioso legale che potrebbe costare allo Stato 10-11 miliardi di risarcimento. Ma soprattutto Atlantia è una holding con molti debiti per i quali i flussi di cassa provenienti da Aspi sono un pilastro fondamentale, senza il quale c’è un rischio di default che potrebbe avere le stesse dimensioni di quello della Parmalat di Calisto Tanzi (2004).

Non solo un simile terremoto esporrebbe il mercato finanziario italiano al rischio di attacchi speculativi e alla fuga dei capitali stranieri, ma in prima battuta ci sarebbe da fronteggiare la rabbia degli altri azionisti di Atlantia, in gran parte importanti fondi d’investimento internazionali che hanno messo i loro soldi in una gallina dalle uova d’oro e non vogliono perdere l’investimento per una decisione politica che raffigurano come un esproprio.

Su questo nodo, oggettivamente complicato, la politica italiana dà il peggio di sé. Dopo un anno di schermaglie e chiacchiere, la partita entra nel vivo a settembre 2019, quando, dopo il suicidio politico di Matteo Salvini al Papeete, si insedia il Conte II e alle Infrastrutture la pd Paola De Micheli prende il posto del M5s Danilo Toninelli. La musica cambia.

Alla inconcludenza di Toninelli si sostituisce il pragmatismo di De Micheli che abilmente comincia a rinculare facendo finta di avanzare. La ministra piddina si conquista sul campo i galloni di capo del partito pro Benetton, silenziosamente spalleggiata dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Conte subisce. 

Inizia una estenuante trattativa. Il governo chiede in sostanza ai Benetton di evitare lo scontro sulla revoca della concessione punendosi da soli, cioè offrendo allo stato una soluzione transattiva in cui Atlantia assume impegni onerosi per ottenere il perdono. Si parla di un risarcimento miliardario, per esempio, o dell’impegno di investire parecchi soldi in manutenzioni straordinarie sacrificando i profitti. Ma i Benetton capiscono che la linea dura di Conte non è supportata dai ministri del settore e, girando intorno al problema, prendono tempo. Conte annaspa.

A febbraio 2020 sbotta: «I Benetton ci stanno prendendo in giro da un anno», e minaccia di dare il via alla revoca se non arriva in tempi rapidi una proposta seria da parte di Atlantia. Nessuno si spaventa e subito dopo arriva la pandemia e il lockdown del 9 marzo. Preso da urgenze superiori Conte sostanzialmente molla la presa e De Micheli e Gualtieri apparecchiano lo storico accordo del 15 luglio 2020, che in futuro, per la sua evidente assurdità, meriterà di essere studiato sia nei corsi di diritto amministrativo che in quelli di filosofia teoretica.

Il comunicato di palazzo Chigi spiega alle otto di quella mattina, dopo una nottata di riunioni e trattative, che di fatto è stata accettata la proposta di Atlantia come base per la definizione transattiva della procedura «per grave inadempimento». Ed elenca i sacrifici offerti: «Misure compensative a esclusivo carico di Aspi per il complessivo importo di 3,4 miliardi di euro; rafforzamento del sistema dei controlli a carico del concessionario; aumento delle sanzioni anche in caso di lievi violazioni da parte del concessionario; rinuncia a tutti i giudizi promossi in relazione alle attività di ricostruzione del ponte Morandi, al sistema tariffario, compresi i giudizi promossi avverso le delibere dell’Autorità di regolazione dei trasporti (Art); accettazione della disciplina tariffaria introdotta dall’Art con una significativa moderazione della dinamica tariffaria». Atlantia dunque assume in nome e per conto della sua controllata Aspi una serie di gravosi impegni.

Ma in coda al comunicato c’è la sorpresa. Qualche genio pentastellato ha pensato bene che se non si riesce a fare la revoca si possono ben punire i Benetton togliendogli comunque Aspi nella maniera più semplice, comprandogliela: «In vista della realizzazione di un rilevantissimo piano di manutenzione e investimenti, contenuto nella stessa proposta transattiva, Atlantia e Aspi si sono impegnate a garantire: l’immediato passaggio del controllo di Aspi a un soggetto a partecipazione statale (Cassa depositi e prestiti). Atlantia ha offerto la disponibilità a cedere direttamente l’intera partecipazione in Aspi, pari all’88 per cento, a Cdp e a investitori istituzionali di suo gradimento». 

Atlantia venderà Aspi a Cdp a un prezzo da concordare e Conte affida la trattativa a De Micheli e Gualtieri. L’accordo viene salutato con manifestazioni di giubilo. «Abbiamo cacciato i Benetton!» è il grido di battaglia. De Micheli dichiara solenne: «La famiglia Benetton non sarà più socia di Aspi». Di Maio gongola: «Era il nostro principale obiettivo. E ce l’abbiamo fatta».

Si unisce al coro unanime anche il numero uno della Cgil Maurizio Landini: «Abbiamo sempre immaginato che era meglio trovare un’intesa che avesse un elemento di qualità dal punto di vista delle politiche industriali e che salvaguardasse i livelli occupazionali». I trionfanti non si accorgono, o fingono di non accorgersi (insipienza o malafede?) che la Borsa saluta la punizione dei Benetton con un rialzo del titolo Atlantia del venti per cento.

C’è una cosa che non torna, talmente evidente che anche un bambino di sei anni la capirebbe al volo. Se il proprietario di Aspi si impegna a caricarla di impegni e oneri (3,5 miliardi di spesa, più questo, più quello e più quell’altro) e subito dopo la vende allo stato che si compra anche oneri e impegni, chi fa il sacrificio? La Borsa risponde in modo netto: i Benetton l’hanno fatta franca. Le azioni Atlantia volano. 

Ma non è finita qui. Un’ipotesi ragionevole era che Cdp sottoscrivesse un aumento di capitale di Aspi fino a raggiungere una quota di controllo. Funziona così: se Aspi vale, ipotizziamo, 8 miliardi, Cdp poteva conferire otto miliardi più un euro di nuovo capitale. Il valore di Aspi diventava 16 miliardi e un euro, e lo stato attraverso Cdp ne diventava primo azionista con il 50 virgola qualcosa per cento. Gli otto miliardi anziché finire in tasca a Benetton e soci sarebbero entrati nelle casse di Aspi e avrebbero finanziato investimenti sulle autostrade. 

Ma qui scatta il problema: raddoppiando il capitale da remunerare da otto a 16 miliardi si sarebbe automaticamente dimezzata la redditività, dovendo spartire tra due azioni i profitti che prima andavano a una sola azione.

In pratica il valore delle azioni Aspi in mano ad Atlantia, che si misura sulla capacità di produrre dividendi, si sarebbe dimezzato, da otto a quattro miliardi. Per questo Atlantia non transige, vuole vendere e vendere a prezzo pieno, perché poi sennò chi glielo dice ai fondi internazionali? 

Ma che cosa significa a prezzo pieno? Il valore di una concessionaria autostradale dipende dalle regole fissate dal ministero delle Infrastrutture sulla evoluzione delle tariffe e sugli investimenti da fare. Se il governo concede una dinamica tariffaria più spinta Aspi farà più profitti, quindi varrà di più. 

Se lo stato impone ad Aspi di fare investimenti massicci per rimettere in sesto le autostrade trascurate per anni (per loro stessa ammissione), la società farà meno profitti e varrà di meno.

Gli alacri dirigenti del ministero di De Micheli si mettono dunque al lavoro e confezionano un nuovo Pef (piano economico finanziario) che concede ad Aspi un aumento di tariffe dell’1,7 per cento all’anno che nel 2038, a fine concessione, sommerà un aumento del 20 per cento. Quindi gli investimenti, anche i famosi 3,5 miliardi promessi dai Benetton per farsi perdonare, li pagheranno automobilisti e autotrasportatori. 

Il Pef viene esaminato dall’Autorità dei trasporti che, un po’ scandalizzata, rileva come un aumento annuo dello 0,8 per cento, meno della metà di quello concesso, basterebbe e avanzerebbe. Ma il parere è solo consultivo e rimane inascoltato.

Si procede a tappe forzate verso l’acquisto di Aspi che viene concluso dal governo Draghi. Il quale, eseguendo senza fiatare il canovaccio ereditato da Conte, De Micheli e Gualtieri, a ottobre 2021 definisce la transazione che chiude la procedura per la revoca con una motivazione lunare: «L'accordo recepisce integralmente le condizioni definite in occasione del Consiglio dei ministri del 14 luglio del 2020, che prevedeva alcuni impegni, tra cui l’esecuzione da parte della società di misure per la collettività per 3,4 miliardi di euro e investimenti per 13,6 miliardi sulla rete». 

Solo che qualche mese prima Aspi era stata venduta a Cdp per 8,2 miliardi di euro per cui alla fine, beffardamente, scopriamo che Atlantia ha preso degli impegni che toccherà a Cdp onorare, essendo subentrata nella proprietà di Aspi. 

Facciamo un esempio per essere più chiari. Il signor Bianchi vende la sua auto usata al signor Rossi per diecimila euro. L’auto ha il motore fuso e rifarlo costerà tremila euro, ma il signor Bianchi convince il signor Rossi che l’auto stessa contiene l’impegno a rifarsi il motore nuovo grazie al quale varrà davvero diecimila euro. Il signor Rossi, essendo tonto, paga l’auto diecimila euro senza rendersi conto che adesso l’impegno a spendere tremila euro per rifare il motore grava su di lui. È andata davvero così. E va sottolineato che è avvenuto tutto in modo trasparente, alla luce del sole, come dimostra il finale rutilante.

Atlantia, incassati gli 8,2 miliardi di euro, diventa appetibilissima, e i Benetton temono che arrivi un’offerta pubblica di acquisto dall’estero che gli scippi il malloppo. Così lanciano a loro volta un’Opa su tutte le azioni Atlantia, che alla fine dell’operazione uscirà dalla Borsa. Notate bene, il governo aveva messo negli accordi che i soldi versati ad Atlantia per comprarle Aspi non dovevano finire in dividendi. 

Accadrà di peggio: verranno investiti sulle autostrade francesi e spagnole. Il particolare incredibile è che l’Opa i Benetton la lanciano insieme al fondo Blackstone, lo stesso che ha affiancato Cdp nell’acquisto di Aspi pagandola a prezzo pieno. 

Quindi Blackstone, offrendo con i Benetton 23 euro per le azioni Atlantia, certifica che Atlantia ha fatto un affare d’oro vendendogli Aspi a quel prezzo. Ma anche Cdp e Blackstone hanno fatto un buon affare, perché, grazie al Pef che gli ha apparecchiato De Micheli, hanno comprato da Atlantia al giusto prezzo il diritto legale di spolpare gli automobilisti per i prossimi decenni.

Pagheranno tutto loro, anche i ristori per i mancati incassi dovuti al Covid: al ministero delle Infrastrutture sono riusciti a fare una regola secondo la quale i minori ricavi del 2020 rispetto al 2019 (centinaia di milioni di euro) verranno recuperati con aumenti tariffari nei prossimi anni. Quindi nei prossimi anni gli automobilisti dovranno pagare ad Aspi i pedaggi che non hanno pagato durante il lockdown, quando dovevano stare chiusi in casa. 

E non potranno neppure maledire i Benetton, perché d’ora in poi a rapinarli sarà la Cassa depositi e prestiti, cioè lo stato. E dovrà rapinarli per recuperare gli otto miliardi regalati ai Benetton per punirli di aver fatto crollare il Morandi. Soldi con i quali di fatto lo stato italiano finanzierà investimenti sulle autostrade francesi e spagnole: quelli sulle autostrade italiane li pagheranno gli automobilisti. Questo è il capolavoro che politici e burocrati italiani sono riusciti a realizzare sulla pelle dei 43 morti di Genova. 

Da video.repubblica.it l'1 agosto 2022.

Stanno diventando virali i video con i filmati del ponte sospeso di Chongqing, nel Sud Ovest della Cina. Si tratta in realtà di un collegamento temporaneo, di servizio, fatto per raggiungere il cantiere di un viadotto autostradale di cui, nel video, si intravedono i piloni sullo sfondo. Si tratta di un’opera spettacolare e di alta ingegneria, con finalità anche ecologiche. 

È fatto con un sistema a catena di ferro e viene utilizzato per il trasporto di materiali da costruzione e per il passaggio del personale. La sua costruzione ha risparmiato le bellissime montagne dei dintorni, perché si è così evitato di dover costruire strade sul terreno sottostante.

 La campata è di 245,52 metri e la larghezza totale è di 4,3 metri. I due lati sono supportati da quattro serie di cavi d'acciaio spessi e una serie di cavi d'acciaio sottili supportano la parte inferiore. Una volta completato il progetto, il ponte sarà mantenuto per alimentare il turismo locale.

Chiara Viglietti per “la Stampa” il 15 luglio 2022.

È stata una roulette russa. Poteva toccare a lui, Daniele Robaldo. Ma un'auto lo ha superato: quando un battito d'ali decide del tuo destino. A bordo una famiglia. Un attimo dopo lo schianto. «Ho visto l'auto volare, lei sbalzata fuori». Lei è una madre, Marisa Verdirose, 55 anni. Fa la commessa in un supermercato vicino. Tutta la sua vita è lì, in quel perimetro: anche casa, a un minuto dalla morte. La sua famiglia è su quell'auto: guida il marito, Davide Pipi, dietro ci sono due dei suoi tre figli, Simone e Daniel. Vedranno la madre morire.

La loro auto, una Citroen, si trova nel momento sbagliato di fronte ad un animale che lì non doveva stare: un cinghiale in mezzo a una strada. Non in un bosco: ma nell'area industriale di un paese, Villanova Mondovì. Di sera. Così si muore: per assurdo, per azzardo. Sulla strada verso casa, dopo una cena con amici. 

«L'ho vista, Marisa, mentre l'urto la sbalzava fuori. Mi sono fermato: era una scena irreale», racconta l'uomo scampato alla morte, Daniele Robaldo, commercialista. È solo davanti a quella famiglia disfatta: Marisa è a terra, sta morendo. Dei ragazzi ricorda dettagli, non nomi: «Un figlio era vestito di bianco, non era ferito, ma non parlava. L'altro, con un abito blu, era messo peggio. Le diceva: mamma, ti prego, non morire». 

Dentro, tra le lamiere, c'è ancora qualcuno: il padre, alla guida, l'uomo che si è trovato di fronte il cinghiale e ha avuto la reazione d'istinto, schivare, per finire in una cunetta che ha fatto da rimbalzo. Mortale. «Voleva scendere dall'auto, si dimenava, ma il volante gli aveva schiacciato lo sterno, rantolava. Io gli tenevo la testa e gli dicevo di resistere. Poi sono arrivati i soccorsi».

Il marito finisce a Cuneo: ha fratture multiple, è in terapia intensiva. I ragazzi vengono portati all'ospedale di Mondovì. «E non dimenticherò mai quella scena: loro che chiamavano la madre, uno l'ha presa tra le braccia, le parlava: non te ne andare. 

Nessuno però osava dirgli, in quei minuti interminabili, che lei non c'era già più. Poi sono arrivati i medici, i carabinieri: e non li ho più visti». Fanno parte di una comunità molto unita: sono testimoni di Geova. Alcuni di loro, subito dopo l'incidente, sono arrivati sul posto. «Ho cercato di portare conforto, di aiutarli - racconta Emanuele Bianchi- .

Ci vogliamo bene, non li lasceremo soli».

Ma intanto ieri il vuoto è stato riempito dalla politica che da anni si rimbalza il problema. Una Cassandra, si direbbe. Perché proprio al mattino, a Roma, era in programma una conferenza stampa, con il Piemonte in testa, per chiedere soluzioni drastiche a un tema ingessato al punto da suonare come un ritornello stanco: se non si interviene sugli animali selvatici prima o poi succederà il peggio. Ecco, è successo. 

Preceduto da altri incidenti: uno ogni 41 ore. E due volte su tre a causarlo sono cinghiali. Primi imputati tra gli animali selvatici che invadono le strade. Parola di Coldiretti, che ha sfogliato i dati dell'Osservatorio Asap: «In dieci anni il numero di incidenti gravi con morti e feriti causati da animali è praticamente raddoppiato: +81%. Nell'ultimo si contano 13 vittime e 261 feriti gravi».

Ma la situazione è ingovernabile anche fuori dalle strade. Pure in spiaggia, tre giorni fa, una donna è stata aggredita da un cinghiale alla Sturla, a Genova. Prima per un branco dietro il Vaticano è dovuta intervenire la polizia. E a Firenze un animale è stato visto girare indisturbato in viale Europa, una delle grandi arterie di traffico. A Palermo hanno ripreso un branco mentre rovistava tra la spazzatura alla periferia Sud: il caso è finito pure tra i banchi del consiglio comunale. 

Roma, incidente sull’Olimpica: inchiesta su asfalto e guardrail. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.

La Procura vuole accertare le condizioni del manto stradale e stabilire perché in quel tratto solo un marciapiede basso separa le carreggiate

L’asfalto degradato e l’assenza del guardrail sull’Olimpica, vicino a viale della Moschea, sono indiziati del terribile incidente in cui hanno perso la vita le due amiche Beatrice Funariu, 20 anni, e Giorgia Anzuini, 22 anni. In condizioni gravi è invece Carmine Elia, 54 anni, il regista travolto dall’auto delle due ragazze, una Citroen piombata all’improvviso sulla sua Alfa Stelvio. Elia - che tra l‘altro ha girato alcuni episodi di «Don Matteo» - è indagato con l’accusa di omicidio stradale. Tuttavia l’iscrizione operata dal pm Fabrizio Tucci è un atto dovuto, essendo l’unico sopravvissuto della tremenda carambola avvenuta lunedì alle 3.30.

Nell’inchiesta sono previsti gli esami di rito per appurare se la guidatrice della Citroen, probabilmente Giorgia essendo la proprietaria, avesse fatto uso di droga o alcol. Ma senza dubbio il primo passo della Procura sarà verificare la velocità tenuta dalle due auto. Gli inquirenti ritengono che l’asfalto malridotto potrebbe aver giocato il ruolo di concausa nell’incidente, facilitando in modo decisivo l’invasione della careggiata opposta da parte della vettura con a bordo le due amiche. Piccole crepe e l’ammaloramento dovuto al caldo potrebbero aver reso la strada insidiosa. Soprattutto in un tratto dove si procede a velocità sostenuta.

Tuttavia il cuore degli accertamenti è capire perché mai in questo punto dell’Olimpica non è stata eretta una barriera che divida le due careggiate. La sua presenza avrebbe quanto meno impedito il coinvolgimento di Elia. La Citroen, infatti, sarebbe rimasta nella sua carreggiata. Sono anni che viene segnalato il problema. Fino a oggi non è mai stata adottata alcuna misura. Intenzione della Procura è cercare ogni documento che abbia approfondito la questione. Le due carreggiate sono separate da un marciapiede basso e purtroppo l’incidente dell’11 luglio attesta che si tratta di una barriera insufficiente in alcune situazioni estreme per tutelare gli utenti.

«Edo, Alessia, Kevin nei nostri cuori»: messaggi sul luogo della tragedia. Polemiche sui new jersey. Massimo Massenzio e Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.

Aperto un fascicolo per omicidio stradale (al momento contro ignoti) e disposte le autopsie sui corpi dei tre ragazzi che viaggiavano sull’auto guidata da Edoardo. 

«Edo, Alessia, Kevin. Sempre nei nostri cuori». Uno dei contestatissimi new jersey di cemento lungo corso Casale si è trasformato in un piccolo «altare» per ricordare i ragazzi che all’alba di lunedì, hanno perso la vita nello schianto di una Lancia Y contro un pullman.

Un bilancio tragico che si è aggravato la scorsa notte quando, dopo Edoardo Lapertosa e Alessia Panetta, morti praticamente sul colpo, anche il cuore di Kevin Esposito ha smesso di battere nel reparto di rianimazione del San Giovanni Bosco. Sin dal momento del suo ricovero i medici avevano lasciato pochissime speranze a genitori e parenti. La rottura dell’aorta gli aveva fatto perdere molto sangue e le gravissime fratture non potevano essere operate a causa delle sue condizioni.

Nonostante un quadro clinico disperato, però, Kevin era riuscito a sopportare due interventi chirurgici per ridurre le emorragie, ma in serata è arrivata la notizia che nessuno dei suoi amici avrebbe voluto sentire: «È troppo instabile, si sta spegnendo lentamente. Gli restano poche ore».

In piazza Donatori di Sangue decine di ragazzi hanno cominciato a piangere e poi si sono stretti attorno ai genitori. «È un dramma terribile, un ragazzo d’oro che aveva tutta la vita davanti — racconta un’amica —. Pieno di sogni, aspirazioni e con un sorriso contagioso su quel broncio da ragazzino». Qualcuno è andato via in lacrime, molti sono rimasti fino alle 2 di ieri, quando è arrivata l’ufficialità della morte di Kevin, che avrebbe compiuto 18 anni fra un mese. Dei funerali non si sa ancora nulla. La pm Chiara Canepa ha aperto un fascicolo per omicidio stradale (al momento contro ignoti) e disposto le autopsie sui corpi dei tre ragazzi che viaggiavano sull’auto guidata da Edoardo Lapertosa.

E da ieri è cominciato un pellegrinaggio verso quell’altare del ricordo al confine con San Mauro. Due mazzi di rose rosse, uno di margherite e una calla attorno a tre lumini rossi. Commovente uno dei biglietti rivolti a Kevin: «Ciao Chicco, purtroppo anche te sei andato via troppo presto. Te che stavi vivendo la tua vita a pieno. Divertiti e splendi da lassù. Fatti due penne con il tuo TMax e proteggici dall’alto».

Il potente scooter era una delle grandi passioni di Kevin, che faceva il cameriere nella pizzeria di famiglia e sognava di partecipare a qualche talent show. «Riposa in pace piccolo — scrive Alessia —, hai sempre portato felicità nelle persone. Ricorderò sempre i momenti belli che abbiamo passato assieme». Molto toccante anche il saluto ad Alessia Panetta, morta a soli 16 anni: «Brilla da lassù per i tuoi cari e aiuta Andrea in questa battaglia». Andrea è il suo fidanzato l’unico sopravvissuto dei 4 ragazzi che si trovavano sulla Ypsilon grigia al momento dell’impatto. I medici del Cto giudicano le sue condizioni stabili, ma resta intubato e in prognosi riservata nel reparto di rianimazione.

Edoardo, con i suoi 28 anni era il più grande del gruppo. «Sii limpido come l’acqua e libero come l’aria», hanno scritto i familiari per ricordarlo. «Caro Edo, spero che la tua Y sia con te per accompagnarti in questo viaggio — hanno aggiunto gli amici —. Non troppo forte». Saranno le perizie a stabilire a quale velocità viaggiasse l’auto di Lapertosa. In molti, però, puntano il dito proprio contro la presenza di quei new jersey che, per proteggere un tratto della pista ciclabile, restringono la carreggiata: «Bravi politici — è l’accusa vergata sul retro della barriera —, avete fatto morti e feriti per non aver riparato il ponte».

Le due cugine travolte e uccise. Il pirata sul Suv fugge ubriaco. Manila Alfano l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'auto delle ragazze è stata speronata, l'uomo con un tasso alcolico tre volte oltre il limite. Ferite le due figlie, una grave.  

Era ubriaco, eppure, quando ha realizzato che l'incidente da lui provocato era gravissimo ha avuto anche l'indecenza di fuggire. L'urto è stato tremendo. Le forze dell'ordine lo hanno scovato nei campi poco distante, tra Villotta di Chions e Azzano Decimo in direzione di Conegliano. Più in là, il disastro da lui causato: sull'autostrada le lamiere di una piccola utilitaria, una Panda, travolta e stropicciata come una cartaccia dal suo Suv.

Quando sono arrivati i soccorritori, si sono trovati davanti all'orrore, a bordo i corpi senza vita di due giovani donne, Jessica Fragasso, 20 anni, residente a Mareno di Piave, e Sara Rizzotto, 26 anni, di Conegliano. Dietro, nei sedili posteriori le figliolette di Sara ferite; due bambine piccole, una di due anni e l'altra appena nata. È lei quella ferita in modo più grave, con una emorragia bilaterale e si trova nel reparto di Terapia Intensiva neonatale. Entrambe sono state trasportate in ospedale a Udine dalle ambulanze del Suem 118 e attualmente si trovano ricoverate nei reparti di neurochirurgia e neonatalogia. La prognosi è riservata.

Due sorelline che hanno perso la mamma alla fine di una bella domenica di sole, quando le due cugine molto legate tra loro, avevano deciso di approfittare del bel tempo per fare una passeggiata a Caorle, un po' di sole per le bambine, una giornata semplice, come tante. Stavano rientrando a casa dopo aver trascorso la domenica insieme, poi, la gita si è trasformata in tragedia quando alle 19.40 del 30 gennaio in A28 quando sulla loro strada hanno incrociato quel maledetto Suv lanciato a tutta velocità.

Alla guida un uomo di origine bulgare ubriaco. Per le due donne, sedute sui sedili anteriori dell'utilitaria, non c'è stato nulla da fare: sono morte sul colpo per le ferite riportate a causa del violento impatto. Sara lavorava come infermiera all'Ulss 2, era stata assunta nel febbraio 2019 e assegnata al Sisp (Servizio di Igiene e Sanità Pubblica) di Conegliano. Il direttore generale Francesco Benazzi ha espresso a nome di a tutta la comunità dell'Ulss 2 vicinanza «alla sua famiglia in questo drammatico momento».

L'uomo fermato dalla Polizia Stradale è risultato fortemente positivo all'alcoltest, effettuato poche ore dopo il momento dell'incidente: aveva un tasso alcolico oltre tre volte il consentito. L'uomo, di 61 anni, di origini bulgare, residente nel Pordenonese, è accusato di omicidio stradale colposo plurimo aggravato, omissione di soccorso, fuga. Secondo quanto ricostruito dalla polizia stradale di Pordenone, che ha svolto i rilievi dell'incidente, il Suv dell'automobilista bulgaro ha prima speronato una Fiat 500 su cui viaggiavano i genitori di Jessica e poi la Fiat Panda. Sotto choc gli occupanti della Fiat 500, che hanno visto tutta la scena. Per calmarli è stato necessario l'intervento degli agenti della Polizia stradale e del personale del 118. Entrambi sono stati poi trasferiti all'ospedale per accertamenti.

Lui invece ci ha messo un attimo a decidere cosa fare: ha superato le recinzioni dell'autostrada per dileguarsi a piedi. Dimitri T., imprenditore bulgaro del ramo trasporti con la ditta a Chions, residente a PordenoneÈ stato catturato poco dopo, verso le 22 circa: si trova in stato di fermo: è accusato di omicidio stradale colposo plurimo aggravato, omissione di soccorso, fuga. Manila Alfano

L'uomo è stato individuato e arrestato dalla Polizia. Uccide due donne e ferisce due bambine travolgendo la loro auto, poi scappa a piedi. Roberta Davi su Il Riformista il 31 Gennaio 2022.

Le due vittime: Jessica Fragasso e, a destra, Sara Rizzotto 

Alla guida del suo suv ha prima travolto una Panda, su cui viaggiavano due donne, morte nell’incidente, e due bambine, rimaste ferite. Ed è poi fuggito a piedi nei campi, senza prestare soccorso.

È successo ieri domenica 30 gennaio poco prima delle 20 sull’A28,  tra Villotta di Chions e Azzano Decimo, in provincia di Pordenone. Individuato poco dopo, l’uomo è stato arrestato dalla polizia. Sottoposto all’alcoltest al momento dell’arresto, è risultato avere un tasso alcolico tre volte superiore al limite consentito.

Il tremendo incidente

Le vittime dello scontro sono due giovani cugine di 20 e 25 anni: Jessica Fragasso, di Mareno di Piave e Sara Rizzotto, di Conegliano (Treviso). Secondo una prima ricostruzione, il veicolo sul quale viaggiavano è stato urtato violentemente dal fuoristrada, che procedeva ad alta velocità, praticamente distruggendolo.

Il suv invece si è ribaltato ma il guidatore, rimasto solo lievemente ferito, è riuscito a uscire dal mezzo e a fuggire in stato confusionale, scavalcando la recinzione dell’autostrada. Nell’incidente, oltre alle due donne morte, sono rimaste ferite due bambine, che si trovavano sul sedile posteriore della Panda, figlie di Sara Rizzotto: una bimba di pochi mesi e la sorellina appena più grande, di due anni e mezzo.  

Entrambe sono state ricoverate nell’ospedale di Udine. La più piccola è ora in prognosi riservata e si trova nel reparto di terapia intensiva neonatale. L’altra invece non è in pericolo di vita.

Nell’impatto è stata coinvolta anche una terza auto, speronata dalla Land Rover Defenser prima che colpisse l’utilitaria, in cui viaggiavano i genitori di Jessica. Sul posto Polizia, Vigili del Fuoco ed elisoccorso: l’autostrada, in direzione di Conegliano, è rimasta quindi chiusa per alcune ore.

Arrestato il conducente del suv

Il conducente del suv che ha travolto la Panda è stato individuato intorno alle 22 e arrestato dalla forze dell’ordine.

Si tratta di un cittadino bulgaro residente a Pordenone, che è ora accusato di omicidio stradale colposo plurimo aggravato, omissione di soccorso e fuga.

I messaggi di cordoglio

Sara Rizzotto lavorava presso l’Ulss 2 come infermiera: assunta nel 2019, era stata assegnata al Sisp- Servizio di Igiene e Sanità Pubblica- di Conegliano. Il direttore generale Francesco Benazzi ha espresso la propria vicinanza ai familiari: “Abbiamo appreso con immenso dolore e incredulità la notizia dell’improvvisa tragica morte di Sara Rizzotto, giovane assistente sanitaria e mamma di due bimbe piccole, la cui vita è stata distrutta ieri sera da un pirata della strada” ha dichiarato in una nota. “Tutta la comunità dell’Ulss 2 è vicina alla sua famiglia in questo drammatico momento.”

Anche Gianpietro Cattai, sindaco di Mareno di Piave, ha dedicato un pensiero alle due giovanissime vittime. “La notizia è straziante e ha sconvolto l’intero territorio. È inaccettabile perdere la vita in questo modo” ha detto. “Desidero esprimere un messaggio di sentita vicinanza, mia e dell’intera comunità marenese, alle famiglie colpite da questa immane tragedia.“ Roberta Davi

Schianto di Brescia, sull'auto prestata nessuno dei 5 amici aveva la patente. Antonio Borrelli il 25 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il coetaneo proprietario del veicolo seguiva su un'altra macchina.

Dopo la tragedia, il giallo e gli spettri. Non solo gli interrogativi sul nome del conducente della vettura distrutta nello schianto, ma anche la certezza che nessuno dei cinque ragazzi morti aveva la patente.

Già a partire dalle ore successive all'incidente - costato la vita a Dennis Guerra, 19 anni, ai ventenni Imad El Harram e Imad Natiq, a Salah Natiq, 22 anni, e a Irene Sala, di soli 17 anni - gli investigatori hanno iniziato a raccogliere indizi che potessero spiegare cosa sia accaduto nella notte tra sabato e domenica sulla Statale 45bis, nel Bresciano. E incrociando i nomi dei quattro maggiorenni con il database è arrivata la scoperta scioccante, che ha trovato conferma anche nelle testimonianze dei parenti: nessuno aveva la patente di guida. Resta tuttavia da capire chi fosse al volante. Secondo quanto scrive il Giornale di Brescia, le verifiche su chi fosse il conducente sono ancora in corso. «Non ci hanno detto ancora chi guidasse, ma mio figlio non aveva la patente, neanche suo cugino né l'amico», ha confermato il padre di Salah Natiq, il più grande dei ragazzi deceduti. Una rivelazione che comunque non svuota di tragicità la strage.

L'auto invece era stata prestata loro da un amico, che li seguiva su un'altra vettura, ed è stato tra i primi ad arrivare sul posto. Non ci sarebbero invece più dubbi sulla dinamica dell'incidente: i ragazzi tutti residenti in Valsabbia - avevano trascorso la giornata insieme ed erano saliti in auto dopo una grigliata tra amici: direzione Brescia. Lì si sarebbero incontrati con altri nei pressi della stazione ferroviaria. Dopo le 22.30, a meno di 15 chilometri dall'arrivo, il frontale con un autobus che viaggiava verso il lago di Garda. Quel che è certo è che chi guidava la Volkswagen Polo ha fatto tutto da solo. Forse la velocità, un malore o una distrazione, sarà difficile capire com'è andata. Ma lo scenario nel punto dell'incidente offriva alcuni indizi: la vettura descriveva una traiettoria folle e sullo sfondo di un ammasso di lamiere le salme dei cinque bresciani giacevano al suolo. I corpi erano stati sbalzati fuori dall'abitacolo, così come il motore, che si era letteralmente sganciato dall'auto. L'intera valle bresciana è ancora attonita: le quattro comunità di Villanuova, Preseglie, Sabbio Chiese e Vestone sentono sulla pelle un dolore che neanche le recenti rivelazioni sulle patenti mancanti riescono ad attenuare. Qui, col trascorrere delle ore lo strazio si è spostato dal lembo d'asfalto alle case dei piccoli paesi bresciani. Le lacrime di genitori, fratelli e parenti sono diventate anche quelle di amici e concittadini. Intanto la Procura di Brescia ha già disposto il nullaosta per la sepoltura e le salme sono state restituite alle famiglie. Così l'intera Valsabbia sotto choc attende solo di dare l'ultimo saluto a Dennis, Salah, Irene e ai due Imad. Sconvolto e ancora in ospedale, anche l'autista 58enne dell'autobus coinvolto nel frontale, che viaggiava senza passeggeri e che non ha potuto fare nulla per evitare lo scontro. È stato lui il primo a dare l'allarme.

Antonio Borrelli. Giornalista professionista dal 2017, lavoro per l’emittente tv Teletutto e collaboro con il Giornale, il Mattino e Giornale di Brescia. Nel 2017 mi laureo in Scienze linguistiche, letterarie e della traduzione all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sul Linguaggio della comunicazione pubblica nell’Early Modern England. Sempre con sguardo attento ai fenomeni sociali e mediatici e agli scenari internazionali, dal 2013 curo i seminari didattici del laboratorio di giornalismo internazionale della prof.ssa Marina Brancato all’Università di Napoli l’Orientale. Tra le principali inchieste curate ricordo la scoperta del pomodoro San Marzano venduto come Dop ma importato dalla Cina e lo scandalo degli inquilini abusivi alla Reggia di Caserta. Ho realizzato reportage negli Usa, in Turchia, in Marocco e in Europa. Per InsideOver sono invece stato inviato a Sarajevo e come giornalista embedded in Kosovo. Tra gli studi sui media ho scritto La rappresentazione mediatica della strage di Castel Volturno, mentre per la collana Fuori dal Coro del Giornale ho pubblicato Il fantasma di Putin e Benvenuti in Neoborbonia. 

«Ho mal di testa, guida tu la mia auto». L’amico «ero certo avesse la patente». Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.

Ha prestato la sua Polo a Salah Natiq sabato sera. Sentito a lungo dagli investigatori: «Lo vedevo al volante».

Procedeva nell’auto dietro di loro, con altri tre amici. La musica, le chiacchiere, il programma per la serata in città. «Ma eravamo distanti, non ho visto, non direttamente». Davanti, alla guida della sua Polo Volkswagen, c’era Salah Natiq, 22 anni, che la patente però non l’ha mai conseguita. Come del resto gli altri quattro giovanissimi a bordo, tutti di casa in Valsabbia: il cugino 20enne Imad, Dennis Guerra, 19, e il ventenne Imad El Harram e l’unica minorenne, Irene Sala, 17 anni appena. Sono morti tutti sul colpo sulla statale 45 bis, all’altezza di Rezzato, quando verso le 22.30 scendendo verso la città all’altezza di una semicurva la Polo, fuori controllo e a velocità sostenuta, stando ai rilievi ha invaso la corsia opposta di marcia andandosi a scontrare frontalmente contro un pullman. Vuoto, eccezion fatta per il conducente: illeso ma sotto choc. Perché «me li sono trovati davanti all’improvviso, non ho avuto nemmeno il tempo di sterzare». Anche secondo gli inquirenti, nulla avrebbe potuto fare per evitare la strage (qui il ritratto delle cinque vittime).

A consegnare le chiavi della Po lo — intestata a suo padre — a Salah è stato un amico che vive a Barghe, F.P. «Avevo un forte mal di testa, non mi sentivo di mettermi alla guida, quindi gli ho chiesto di prendere la mia macchina e io sono salito dietro con gli altri», ha riferito in prima battuta. Nel pomeriggio è stato risentito a lungo dagli investigatori, per capire se fosse o meno consapevole che Salah non avesse la patente. «Ero certo l’avesse finalmente presa, così mi aveva detto» ha riferito, ancora sotto choc. E ribadendo che «mai avrei potuto immaginare il contrario, altrimenti non l’avrei fatto». Più volte, peraltro. «Era già capitato che io e altri amici gli prestassimo la macchina, quando ne aveva bisogno». Non solo le parole, ma i fatti. Perché stando alla deposizione «da oltre un anno lo vedevo guidare in paese, quindi non mi sono nemmeno posto il dubbio».

Quando una manciata di minuti dopo il botto ha raggiunto quel che restava della Polo di papà — con il motore scardinato dalla sede e volato a una ventina di metri sull’asfalto — nemmeno lui poteva crederci. Dopo una grigliata e un pomeriggio in compagnia, i ragazzi erano d’accordo si sarebbero trovati al bar Narghilè di San Polino, sabato sera. Nessuno ci è mai arrivato. Il sostituto procuratore Antonio Bassolino un fascicolo lin verità ’ha già aperto per iscrivere la notizia di reato, ipotizzando, allo stato, le lesioni gravi e l’omicidio stradale. A carico di ignoti.

Sentito anche l’automobilista bresciano — procedeva davanti alla Volkswagen — che per primo ha chiamato i soccorsi e che ha confermato la ricostruzione: «Stavo andando a 70 chilometri orari, la Polo dietro di me, che viaggiava a forte velocità, mi ha fatto i fari e ha tentato il sorpasso. Ho visto il pullman spostarsi sulla destra nel limite del possibile per evitare lo scontro, ma non è bastato». Mentre pietrificato l’autista del bus — di ritorno da Milano stava rientrando al deposito della Caldana International Tours a Toscolano Maderno — non riusciva a distogliere lo sguardo da quei cinque corpi inermi sbalzati fuori dall’abitacolo, un telefonino continuava a squillare. Era quello di Irene e a chiamarla era Martina, la sorella. Un agente della Polizia stradale di Salò, sul posto (insieme alla locale di Rezzato e ai vigili del fuoco) ha preso coraggio e ha risposto. «C’è stato un brutto incidente a Rezzato». Irene non aveva ancora compiuto 18 anni. Solare, esuberante, appassionata di danza e disegno: ogni mattina da Villanuova sul Clisi dove abitava con la famiglia prendeva l’autobus per arrivare in città, dove frequentava il quarto anno al liceo artistico Oliveri. Dennis Guerra, invece, abitava a Sabbio Chiese con i genitori e la sorella, ed era poco più grande: 19 anni. C’era lui, sul sedile passeggeri accanto a Salah. Dramma nel dramma, aveva perso un cugino appena maggiorenne, nel 2007, morto a sua volta in un incidente stradale ad Agnosine. Da pochi giorni aveva trovato lavoro, come cuoco, in un ristorante sul Garda.

Anche i cugini Salah e Imad avevano scelto di lavorare. Cresciuti insieme sostanzialmente come fratelli, condividevano tutto o quasi. Le famiglie, a Nozza di Vestone, vivono a poche decine di metri. Il più giovane dei due era nato qui, l’altro in Italia era arrivato dal Marocco da piccolissimo: «Erano italiani, si sentivano tali». Qualche piccolo precedente alle spalle, famiglie numerose e un impiego nelle fabbriche metalmeccaniche della valle proprio come i padri avevano fatto prima di loro. Così, del resto, anche il giovane Imad El Harram, di casa a Preseglie. A caccia di un futuro che si è sgretolato nelle lamiere accartocciate di un’auto distrutta.

Martedì 25 gennaio saranno celebrati i funerali di Irene e Dennis. L’ultimo saluto alla giovanissima studentessa alle 15, nella parrocchia di Villanuova. Alla stessa ora, il cordoglio per l’amico Dennis, nella parrocchiale di Sabbio Chiese (il sindaco ha indetto il lutto cittadino). Le salme di Salah Nadiq, Imad El Harram e Imad Nadiq, invece, saranno sepolte in Marocco.

E se il trasporto pubblico fosse gratis come scuola e sanità? Chi ci sta provando e con quali risultati.  Jaime D'Alessandro su La Repubblica il 20 Gennaio 2022.

I primi dati della sperimentazione avviata a Genova da un mese. Gli esempi di Lussemburgo, Estonia e Belgio. Strategie che sembravano impossibili da applicare fino a poco fa. La grande convinzione collettiva legata all'era dell'automobile è che non ci siano alternative. Ma non è così.

Immaginate di vivere in una città e di poter uscire di casa per recarvi a fare acquisti, al ristorante, al cinema o al lavoro, potendo usare qualsiasi mezzo pubblico senza dover comprare un biglietto. Immaginate di avere a disposizione una rete di autobus, tram e metropolitane, così capillare ed efficiente da arrivare ovunque e sempre gratuita. Immaginate in poche parole di poter fare a meno della vostra auto con tutto quel che ne consegue, iniziando dal risparmiare migliaia di euro l'anno fra manutenzione e carburante. 

Sembra una follia sulla carta, ma lo sembrano tutte le innovazioni finché qualcuno non le mette in pratica. Trattare il trasporto come un servizio pari alla sanità o all'istruzione potrebbe avere benefici immediati, tangibili: riduzione dell'inquinamento e del traffico; meno malattie delle vie respiratorie; meno incidenti, più equità sociale. 

Lo pensano a Tallinn in Estonia, in Lussemburgo e di recente anche a Genova, la prima grande città italiana dove hanno avuto l'idea di rendere il trasporto pubblico gratuito, almeno in parte, per spingere quanti più cittadini possibile a rinunciare alla vettura privata. Perché se è vero che il trasporto è la fonte di inquinamento principale in Italia - secondo l'ultimo rapporto dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) precede la produzione di energia, i consumi residenziali e l'industria - per migliorare la situazione bisognerebbe in primo luogo garantire di poter andare dove si vuole e quando si vuole senza necessariamente usare una vettura privata.  

"Il trasporto pubblico viene da una lunga stagione di declino, lo si sceglie se si è costretti più che per scelta", racconta Enrico Musso, professore di economia dei trasporti all'Università di Genova e consulente della giunta comunale. "Ora le cose stanno cambiando anche in virtù di una sensibilità ambientale molto più forte rispetto al passato. Inoltre è evidente che l'elettrificazione dei veicoli, una strada ancora piena di ostacoli, da sola non basta. Se si resta all'uso attuale dell'auto privata, poco importa se elettrica, non risolviamo il problema del traffico. Bisogna quindi cambiare attitudine, modo di pensare". 

Nel dramma, la pandemia ha insegnato che molti degli spostamenti che segnavano le nostre giornate sono inutili. Una quota consistente di lavoratori italiani, otto milioni di persone, può svolgere i propri compiti anche da casa. Questo è un calcolo che facemmo alcuni mesi fa: se solo i tre milioni di dipendenti pubblici si recassero in ufficio a giorni alterni, in un anno si risparmierebbero due miliardi e 400 milioni di chilometri oltre a parecchi soldi che rimarrebbero nelle tasche degli impiegati. Fra pedaggi, manutenzione del veicolo, la spesa a testa è di 330 euro per un totale complessivo di un miliardo e 100 milioni di euro. Senza dimenticare le 330mila tonnellate di CO2 emesse. Un trasporto pubblico capillare e accessibile, assieme alla micro-mobilità fatta di biciclette, monopattini e auto in sharing, aiuterebbe a cogliere questa occasione ridimensionando il ruolo così ingombrante che l'automobile privata ha avuto dal dopoguerra ad oggi. 

I benefici di un trasporto pubblico gratuito, tutti ancora da quantificare caso per caso, secondo alcuni studi compiuti fra gli altri anche dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sarebbero di uno a tre. In pratica per ogni euro speso se ne guadagnerebbero tre grazie al risparmio dei privati, che non dovrebbero più usare così tanto il proprio mezzo, alla minore congestione delle strade e ai tempi di percorrenza ridotti. Ci sarebbero inoltre un impatto ambientale e sulla salute più basso, meno incidenti sulle strade, valorizzazione della città e conseguente crescita del prezzo degli immobili. Sono questi alcuni dei motivi che hanno spinto a febbraio il piccolo stato di Lussemburgo a passare al sistema "tariffa zero". Il primo Stato in assoluto ad adottare una simile politica. Da ottobre 2022 anche Malta farà la stessa cosa.

I primi risultati dell'esperimento di Genova

"Meglio chiarire subito una cosa: il prezzo del biglietto copre un terzo del costo del trasporto pubblico in Italia, il resto è già pagato dallo Stato e quindi dai contribuenti", ci spiega al telefono Marco Beltrami, presidente dell'Azienda Mobilità e Trasporti (Amt), compagnia pubblica fondata nel capoluogo ligure nel 1895. "Ora però a Genova è nata la volontà da parte dell'amministrazione di rendere la città più attrattiva e a misura d'uomo, offrendo un servizio diverso capace di aiutare non solo a ridurre il traffico ma anche a stimolare gli spostamenti in fasce orarie diverse rispetto a quelle di punta". 

La sperimentazione è partita il primo dicembre e si concluderà il 31 marzo. Riguarda gli impianti verticali e la metropolitana, ma quest'ultima solo in certe fasce orarie. Dunque ascensori, funicolari e cremagliera sono gratuiti tutti i giorni della settimana senza limiti di orario, mentre la metropolitana lo è dalle 10 alle 16 e dalle 20 alle 22. 

"L'obiettivo è capire se così facendo attireremo nuovi passeggeri persuadendo le persone a lasciare a casa l'auto o la moto e a muoversi evitando i picchi del mattino o del tardo pomeriggio - prosegue Beltrami - abbassando da un lato le emissioni di CO2, per ridurre dall'altro gli ingorghi, i tempi di percorrenza e cambiare gli orari della città stessa. Fermo restando il piano d Amt di passare completamente ai mezzi elettrici su tutta la rete entro il 2026, questa sperimentazione quindi è una scelta strategica da parte del comune, che ha una logica ben precisa". 

Nel primo mese di sperimentazione nella metropolitana genovese, specie nelle fasce orarie gratuite, i passeggeri sono aumentati di oltre il 15%. Lo stesso è accaduto anche su ascensori e funicolari. Bisognerà però aspettare gennaio e febbraio, senza l'effetto del Natale, per capire come stanno andando davvero le cose. Dai biglietti la Amt ottiene 66 milioni di euro e ne spende il 10% per la struttura di vendita e per i controlli a bordo. La sperimentazione di questi quattro mesi, che non comprende tutte le linee, costerà alla fine 600 mila euro circa di mancati incassi. Se divenisse un sistema valido su tutta la rete per tutto l'anno, bisognerebbe coprire quei 66 milioni in altro modo e la prima cosa che viene in mente è una tassa regionale, sperando che l'indotto e i benefici siano molto maggiori e soprattutto ben evidenti alla cittadinanza. 

La città che potremmo avere con metà delle auto in circolazione

"La grande convinzione collettiva legata all'era dell'automobile è che non ci siano alternative e che l'occupazione delle strade da parte delle auto in sosta sia il paesaggio normale della nostra quotidianità", commenta Elena Granata, professoressa di urbanistica al Politecnico di Milano che ha recentemente pubblicato il saggio dal titolo Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo. "Da quasi un secolo ci siamo abituati ad una spazialità che non è per noi ma è dedicata alle auto. Questa centralità dello spazio occupato dalle automobili è identica sia con i modelli a benzina sia con quelli elettrici. Cambia la tecnologia e certamente cambia l'impatto sull'ambiente, ma non si modifica l'immaginario urbano. Cominciamo invece ad immaginare cosa accadrebbe se riducessimo della metà le automobili. Potremmo ad esempio recuperare spazi di qualità tra le case, liberati per la vita delle persone".

La mossa del Lussemburgo

In Lussemburgo il trasporto pubblico gratuito era nel programma di tutti i maggiori partiti alle elezioni del 2018 e dal primo marzo 2020 è diventato una realtà: consentito l'uso di tutti i mezzi nell'intero Paese senza alcuna restrizione o distinzione. Resta a pagamento solo l'accesso alla prima classe dei treni. 

Il progetto è presentato come una misura sociale: più soldi nei portafogli dei cittadini che hanno reddito basso, relativamente parlando trattandosi dello Stato che in fatto di prodotto interno lordo (pil) pro-capite non è secondo a nessuno, e conseguente redistribuzione delle risorse dato che il sistema è finanziato in proporzione dai contribuenti con maggiore capacità di spesa. 

Il tutto fa parte di una strategia più ampia, chiamata Modu 2.0 e messa a punto nel 2017, che per il 2025 vuole arrivare a ridurre la congestione nelle ore di punta, aumentare la sicurezza stradale, l'inclusione, la qualità dell'aria, la decarbonizzazione, migliorare la pianificazione territoriale. Il fatturato annuo delle vendite di biglietti in Lussemburgo era di 41 milioni euro l'anno, meno di Genova quindi. Si trattava di circa l'8% dei costi annuali del trasporti pari a 500 milioni di euro.

Quando Tallin decise di cambiare strada

Se il Lussemburgo è il primo Stato, e Malta sarà il secondo, fra le grandi città Tallinn in Estonia è dal 2013 che offre ai 420mila residenti la possibilità di spostarsi come vogliono e quando vogliono acquistando la "carta verde" da 2 euro. La tessera dà accesso a 70 linee di autobus, quattro di tram e cinque di filobus. Con un risultato apprezzabile che però non può certo passare per una rivoluzione: la riduzione del traffico è stata di 14 punti percentuali. 

Bisogna però guardare allo stato delle cose prima del 2013. Secondo un'analisi realizzata del Royal Institute of Technology di Stoccolma alla vigilia dell'introduzione della "tariffa zero" a Tallin, la quota dei tragitti con i mezzi pubblici nella capitale estone era diminuita drasticamente nel corso dei vent'anni precedenti. Nel 2012 erano il 40%, seguiti dallo spostarsi a piedi (30%) e dall'auto privata (26%). In quello stesso lasso di tempo il tasso di motorizzazione era più che raddoppiato arrivando a 425 auto per mille residenti. La tendenza era chiara e l'amministrazione comunale decise di cambiare rotta prima che fosse troppo tardi. La scelta è stata sottoposta alla cittadinanza attraverso un referendum popolare passando con oltre il 75% di voti favorevoli a fronte però di una partecipazione di appena il 20% degli elettori. 

Non è solo un problema di gratuità del biglietto

In precedenza, c'erano stati altri due casi rilevanti, il primo dei quali è il progetto pilota del 1978 nella contea di Mercer, New Jersey, negli Stati Uniti. Escludendo le ore di punta, vennero aboliti i biglietti per 13 linee. Ciò comportò un aumento medio del 20% del numero di passeggeri che nelle fasce non di punta superò il più 50%. Curioso che i due terzi di questa crescita arrivarono dopo che il progetto pilota si era concluso. Furono soprattutto le generazioni più giovani a scoprire di poter fare a meno dell'automobile e a mantenere questa abitudine anche a fine sperimentazione. 

Ma il caso più noto, anche perché su scala ampia, è quello del 1996 di Hasselt, cittadina belga da 70mila abitanti. Il sistema di trasporto pubblico, relativamente piccolo, non solo divenne gratuito per tutti, anche ai non residenti, ma fu in primo luogo potenziato: le dimensioni della flotta aumentò di cinque volte. L'utenza crebbe così di ben dieci volte con il 37% dei viaggi compiuti da utenti che prima usavano i propri mezzi.

A guardare il caso belga vien da dire che pagare o meno il biglietto è solo un pezzo del puzzle. Il vero punto è la capillarità del trasporto pubblico e la sua efficienza. Si lascia a casa la propria vettura quando è più facile e veloce usare tram, bus o metro. Questo è vero per città come Tokyo, Londra o Parigi, che hanno tutte una rete della metropolitana particolarmente estesa, ma lo è anche per Gerusalemme, dove i tram hanno vissuto una nuova primavera quando sono state adottate alcune misure capaci di ridurre i tempi di percorrenza.

I tram di Gerusalemme tornati di moda grazie all'intelligenza artificiale 

I convogli della linea rossa, poco meno di 14 chilometri e 23 stazioni, da capolinea a capolinea a partire da aprile del 2021 impiegano il 47% di tempo in meno rispetto al passato. Mezz'ora invece di un'ora. Assieme alla linea gialla e a quella verde, la Jerusalem Light Rail ha visto così crescere i passeggeri di quattro volte e ha potuto allo stesso tempo ridurre il numero di tram perché ne servono meno procedendo molto più spediti. Il miracolo è stato rivendicato dalla compagnia Axilion, che ha messo in collegamento il sistema di semafori con la visione e l'intelligenza artificiale (Ai) delle videocamere Azure Kinect di Microsoft montate su tram e semafori. E il risultato è notevole, considerando che non è stato necessario alcun intervento pesante sulle infrastrutture. 

"Le videocamere sono fornite di gps, connesse alla rete dati e installate su tutti i mezzi della linea", spiegò a suo tempo Oran Dror, 50 anni, cofondatore di Axilion. "Le camere analizzano il flusso di macchine e di pedoni sincronizzando tutto il sistema di semafori così che i mezzi pubblici abbiano sempre il verde ma senza intasare le aree circostanti". 

Per ogni linea servono circa cento apparecchi che costano 350 dollari l'uno, oltre a quelli montati sui 273 semafori della città per dare la priorità al traffico ferroviario leggero, più la spesa per la gestione e per il servizio cloud di Microsoft. L'esborso complessivo per una sola linea è di quattro milioni di dollari, con un risparmio di 600 milioni nei primi tre anni. Questo perché ci sarebbe una decrescita del 28% dell'energia necessaria per far funzionare i tram, essendoci meno frenate e ripartenze, 100mila tonnellate di CO2 non emesse in un anno e passeggeri quadruplicati. 

Proiezioni tutte da confermare e non è affatto detto che accadrà. La Axilion, sbarcata in borsa a fine 2020, dopo una fiammata iniziale del 2.000% ha cominciato a perdere terreno arrivando ad un vero e proprio crollo quando si è saputo che i progetti di espansione ad Aspen negli Stati Uniti e a Rheims in Francia erano stati bloccati. Resta però un dato, al di là delle sorti della startup israeliana: il quadruplicare dei passeggeri quando il trasporto pubblico diventa efficiente e più veloce. Quando in pratica si arriva prima e si arriva ovunque, come insegna anche il boom di passeggeri ad Hasselt in Belgio una volta che la rete è stata potenziata oltre che resa gratuita. 

"Non c'è un rapporto diretto fra il pagare il biglietto e l'efficienza di un servizio", aggiunge Marco Beltrami, presidente dell'Amt di Genova. "Se quel costo arriva in altro modo un trasporto pubblico affidabile è comunque possibile. E quando non lo è, il problema non sempre è riconducibile al prezzo più o meno basso del biglietto".

Lo spettro dell'inefficienza

In Italia le città nelle quali si usa di più in trasporto pubblico sono Milano, Genova, Torino, Napoli, Venezia e Roma. Prima della pandemia i cittadini che lo usavano arrivavano al massimo al 38%, è il caso di Milano, per scendere sotto il 5% a Catania, almeno secondo il rapporto MobilitAria 2018 redatto dal Kyoto Club e dal Cnr-Iia (Istituto sull'inquinamento atmosferico). Nell'edizione del 2020, fotografando la situazione dell'anno precedente, la mobilità in Italia era per il 62,6% su mezzi privati, per il 12,2% su mezzi pubblici e per il 25,1 attraverso modi e sistemi non motorizzati, dalla bicicletta all'andare a piedi. 

Lo spazio per crescere il trasporto pubblico lo avrebbe, se non fosse che la pandemia ne ha ridotto molto l'utilizzo per paura dei contagi facendo tornare ingorghi e traffico per l'uso massiccio delle vetture e il richiamo in ufficio, del tutto insensato, dei dipendenti pubblici e di una parte di quelli del privato. Proprio quando avremmo invece potuto sfruttare il cambiamento delle abitudini imposte dalla pandemia per puntare ad un modo completamente diverso e molto più sostenibile di guardare alle città e al trasporto. 

"La realtà è che non esiste un'unica soluzione", sottolinea Musso. "Bisogna per forza introdurne diverse e su tre fronti: 

permettere alle persone di non muoversi quando non è necessario e quindi impostare la città in questo modo;

quando ci si muove fare in modo che i veicoli siano mezzi efficienti e sostenibili; optare per mezzi che inquinino il meno possibile". 

In tutto ciò, il trasporto pubblico può giocare un ruolo importante, anche in sinergia con la micro-mobilità, ma perché si riesca a cambiare le abitudini delle persone, agli incentivi come l'eliminazione del biglietto bisogna anche aggiungere tragitti più veloci, una rete ramificata e mezzi confortevoli.

L'impossibile possibile

"In fondo negli ultime due anni le nostre città sono già cambiate molto, in maniera che nessuno credeva possibile prima", conclude Elena Granata. "Con la pandemia bar e ristoranti hanno occupato marciapiedi e strade per ospitare tavolini e spazi di ristoro. Qualcuno si è lamentato che si è ridotto lo spazio per le auto? No. L'emergenza ha fatto prevalere un altro uso della strada e ha fatto riscoprire a tanti il piacere di mangiare all'aperto. In Inghilterra il programma Playing Out coinvolge più di 500 vie: consente alle famiglie di giocare in strada, prenotando la chiusura temporanea al traffico di piccole arterie. A Pontevedra in Spagna l'amministrazione ha chiuso il centro urbano alle auto investendo in spazi pubblici, verdi e sicuri per il gioco dei bambini. Da noi lo spazio dedicato alle auto in sosta potrebbe consentire programmi di piantumazione mirati alla mitigazione del surriscaldamento urbano. Non è un tema solo di moda. L'aumento delle temperature sta spingendo molte amministrazioni a depavimentare (togliendo asfalto che crea calore) e riforestando ampie zone urbane. Così a Parigi, così a Bogotà. Perché non possiamo farlo anche noi?". 

Insomma, c'è ancora molto da fare e il trasporto pubblico gratuito è solo una delle mosse possibili. Ma c'è una buona notizia: ci si può mettere all'opera su soluzioni del genere già da domani, senza aspettare di avere colonnine per la ricarica sotto tutte le case. 

(ANSA il 12 luglio 2022) - "Chiediamo che il Ministro del Mims Giovannini venga in Aula per una informativa urgente sulla revoca della concessione a Strada dei Parchi". Lo dichiara Camillo D'Alessandro, deputato di Italia Viva, a proposito della decisione del Tar del Lazio di accogliere la sospensiva di Strada dei Parchi. "Come avevamo previsto, inizia la lunga battaglia legale. Questo è solo il primo round, che vede il Tar già sospendere la decisione di revoca della concessione.

Una decisione, quella del CdM, giuridicamente molto debole, lacunosa. Prima o poi emergerà che alla società ritenuta responsabile del crollo del ponte di Genova non solo non è stata revocata la concessione, ma sono stati liquidati per circa 9 miliardi. Su questo aspetto mi auguro che la procura competente faccia chiarezza, anche alla luce delle diverse decisioni assunte nei confronti di Strada dei Parchi",

Da repubblica.it il 12 luglio 2022.

Resta per il momento sospesa la revoca della concessione per le autostrade A24 e A25 a Strada dei Parchi, società della famiglia Toto.

Il Tar del Lazio ha accolto la sospensiva della società: la concessionaria delle autostrade di Lazio e Abruzzo A24 e A25 aveva presentato telematicamente, ieri sera, un ricorso davanti al Tar in risposta alla revoca anticipata in danno, cioè per inadempienze contrattuali, della concessione in scadenza nel 2030, decisa dal Consiglio dei ministri nella riunione di giovedì scorso.

La Spa del gruppo industriale abruzzese Toto, con un documento di 94 pagine ha impugnato il decreto legge, il cui iter di conversione in legge inizierà la prossima settimana al Senato. 

I legali hanno chiesto la sospensiva adducendo diversi profili di incostituzionalità facendo una proiezione anche economica di questa decisione che potrebbe avere conseguenze per l'intero Gruppo, partendo dal dato che la holding che fa capo all'imprenditore abruzzese Carlo Toto costituisce l'8% del Pil dell'Abruzzo, in particolare alla luce dei circa 1700 dipendenti, di cui circa 800 impegnati in Sdp, concessionaria di due arterie che dalla mezzanotte di giovedì sono passate non senza problemi nelle mani di Anas. 

L'azienda di stato aveva operato fino al 2000, quando, complici anche difficoltà di bilancio, l'infrastruttura pubblica è stata messa sul mercato con un bando comunitario aggiudicato a Strada dei Parchi. Intanto, nell'ambito del complesso passaggio di consegne e del futuro delle due arterie, oggi la commissione Ambiente del Senato audirà prima gli stessi vertici di Sdp, poi una delegazione di sindaci laziali e abruzzesi, da anni in prima linea contro il caro tariffe, e poi il Governo. Domani saranno auditi i sindacati preoccupati del futuro occupazionale

Le autostrade. A24, guerra legale per la Roma-L'Aquila tra Toto e il governo: vogliamo un risarcimento. Antonio Sbraga su Il Tempo il 09 luglio 2022

Anas & Digos ieri mattina nella sede dell'autostrada A24 e A25 per lo «sfratto» dell'ormai ex società concessionaria. C'erano i poliziotti, infatti, a presidiare il cambio della guardia della gestione poche ore dopo il decreto con cui il Governo ha affidato la gestione all'Anas, revocandola concessione alla società del Gruppo Toto. Che la giudica «una decisione inaudita e senza precedenti, una scelta ritorsiva del tutto ingiustificata, sia per ragioni di procedura che di merito: un sopruso», tuona Strada dei Parchi, annunciando di voler «difendere in tutte le sedi il proprio buon nome». Però il Ministero nel decreto legge rivendica il proprio «diritto al risarcimento del danno», anche «in considerazione delle molteplici criticità riscontrate nella gestione dell'autostrada, compreso l'inadeguato stato di manutenzione». E intanto «provvede a trattenere sull'importo una somma corrispondente all'entità delle rate della convenzione unica del 18 novembre 2009, dovute e non ancora versate da Strada dei Parchi Spa».

La quale, dal canto suo, ribatte di non essere «inadempiente - anzi ha provveduto a pagare in proprio interventi urgenti che non le competevano e ha sopportato il blocco delle tariffe dal 2015 - e nessuna sentenza, neppure di primo grado, ha mai condannato la Società o i suoi amministratori. Inoltre, le prove di carico ordinate da alcuni Tribunali abruzzesi a periti professionisti hanno accertato senza ombra di dubbio che non sussiste alcun rischio per le infrastrutture autostradali e dunque non è a rischio la sicurezza degli utenti, mentre una sentenza della Corte di Giustizia ha stabilito che tutti i lavori di manutenzione fin qui affidati in house erano e sono perfettamente legittimi».

Nell'attesa di quella che si preannuncia come una lunga querelle legale, intanto 111 sindaci di Lazio e Abruzzo chiedono «al Governo di farsi garante della salvaguardia di tutti i posti di lavoro, della sicurezza e della riduzione dei pedaggi». Attualmente, infatti, si pagano «tariffe di montagna» integrali, applicate finanche nei pianeggianti 11 chilometri del tratto urbano romano, con una media di oltre 10 centesimi al chilometro (equivalente al 43,3% in più rispetto alla tariffa che si paga sull'A1).

Marco Morino per “Il Sole 24 Ore” l'8 luglio 2022.

Scossone nel settore delle autostrade italiane. Il gruppo Toto non è più il concessionario di Strada dei Parchi (SdP), la società che gestisce le autostrade A24 (Roma-L’Aquila-Teramo) e A25 (Torano-Pescara). La concessione torna in capo allo Stato. La revoca è stata decisa ieri dal Consiglio dei ministri. Una decisione che rischia di innescare un contenzioso durissimo tra le parti. 

La nota del ministero

In serata una nota del ministero delle Infrastrutture (Mims) chiarisce: «Il Cdm ha approvato il decreto legge che dà efficacia immediata alla risoluzione della convenzione del 18 novembre 2009, sottoscritta tra Anas e Strada dei Parchi. Tale provvedimento tiene conto degli esiti della procedura per grave inadempimento, attivata a dicembre 2021 dalla direzione generale del Mims, in considerazione delle molteplici criticità riscontrate nella gestione dell’autostrada, compreso l’inadeguato stato di manutenzione. 

Il decreto legge - prosegue la nota - dispone l’immediato subentro di Anas nella gestione dell’autostrada che, per assicurare la continuità dell’esercizio autostradale, potrà avvalersi di tutte le risorse umane e strumentali attualmente impiegate, tra cui il personale di esazione, quello impiegato direttamente nelle attività operative e le attrezzature, automezzi e macchinari necessari ad assicurare il servizio. 

È inoltre previsto che l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali (Ansfisa) avvii un piano di ispezioni per verificare le condizioni di sicurezza dell’intera infrastruttura autostradale. Per gli utenti è esclusa ogni ulteriore variazione delle tariffe, che rimangono invariate per il futuro rispetto a quelle del 2017».

Il decreto legge contempla, inoltre, misure per la regolazione dei rapporti con il concessionario decaduto in relazione all’indennizzo spettante in base alla normativa vigente, fatto salvo il diritto al risarcimento dei danni a favore del Mims. Dice Stefano Patuanelli, ministro Cinquestelle delle Politiche agricole: «È una decisione storica. Finalmente si riequilibra il potere tra i concessionari e lo Stato».

Un esito annunciato

Un esito in qualche modo annunciato, dopo la lettera inviata, lo scorso mese di maggio, dal gruppo Toto ai ministeri delle Infrastrutture e dell’Economia, nella quale Strada dei Parchi aveva chiesto al concedente di avviare le procedure per il recesso e la cessazione anticipata della concessione ai sensi dell’articolo 11.11 della convenzione stessa. 

Nella lettera SdP aveva quantificato in 2,4 miliardi l’indennizzo richiesto allo Stato per la risoluzione anticipata del contratto, come previsto dalla concessione la cui scadenza naturale era fissata al 2030. Una mossa clamorosa, maturata dopo la bocciatura (da parte del Cipess) dell’ennesimo Piano economico e finanziario (Pef), cioè lo strumento per mettere in sicurezza i 280 chilometri di autostrada dal rischio terremoti e adeguare l’infrastruttura, che collega il Tirreno all’Adriatico, alle nuove normative europee e nazionali. 

Uno stallo che paradossalmente è iniziato con la ratifica di un’urgenza da parte del Parlamento: dall’approvazione della legge 228/2012 che stabiliva che A24 e A25 fossero considerate strategiche ai fini di protezione civile e quindi andavano urgentemente messe in sicurezza. 

Per questo era indispensabile l’approvazione di un nuovo Pef che consentisse il necessario adeguamento sismico, la messa in sicurezza dei viadotti e il rinnovo degli impianti di sicurezza in galleria, nonché tariffe sostenibili per l’utenza. Da allora non sono servite 18 proposte avanzate dal concessionario e una sentenza del Consiglio di Stato (n. 5022/19), che imponeva l’adozione di tale Pef entro il termine inderogabile del 30 ottobre 2019. 

La reazione di SdP

Per arrivare a questa svolta clamorosa il governo ha però scelto non di dar seguito alla procedura avviata dalla società dei Toto ma di attuare quell’articolo 35 che fu evocato per Aspi dopo il crollo del Ponte Morandi. Ed è questo che fa dire a Strada dei Parchi che si tratta di «un sopruso contro il quale reagiremo in tutte le sedi». 

Spiega la società del gruppo Toto: «Peccato che nel caso di Genova, a torto o a ragione, l’art. 35 non sia stato usato, nonostante le reiterate minacce di farlo a fronte dell’indignazione dell’opinione pubblica scossa dalle conseguenze tragiche dell'accaduto. Mentre lo si pretende di applicare a SdP, soltanto in base all’asserito presupposto, immaginato dal ministero senza alcun elemento probante, che prima o poi possa accadere un qualche incidente». 

Antonio Calitri per “il Messaggero” il 30 aprile 2022.

Rimborso del pedaggio autostradale per ritardi superiori a 10 minuti, direttamente riconosciuto in base alla targa della propria auto e senza dover fare alcuna domanda, dichiarazione o sollecito. Dopo una sperimentazione iniziata il 15 settembre scorso, da ieri è scattato il cashback con targa su tutta la rete gestita da Autostrade per l'Italia che permetterà agli automobilisti che subiscono ritardi a causa dei cantieri di lavori, di poter avere indietro parte del pedaggio. 

Un'operazione per combattere i malumori per i ritardi causati agli automobilisti dai cantieri aperti lungo la rete. 

Dopo la tragedia del ponte Morandi di Genova e i numerosi allarmi per i rischi dovuti alle scarse manutenzioni fatte in passato, e per l'adeguamento alla direttiva europea sulla sicurezza antincendio delle gallerie lunghe più di 500 metri, con le procure pronte ad aprire fascicoli, dall'autunno del 2019 sono partiti tanti cantieri non più rinviabili. 

Un piano, spiega l'amministratore delegato di Aspi Roberto Tomasi, «da oltre 21 miliardi di euro per l'ammodernamento della rete di Autostrade per l'Italia che è una sfida senza precedenti: persone, competenze e soluzioni tecnologiche all'avanguardia, sono in campo ogni giorno sulle nostre strade per garantire una mobilità sempre più sostenibile». Questa grande mole di lavori ha subito incominciato a creare problemi e disagio agli automobilisti e a tutti gli utenti della rete.

Così davanti a tante proteste, con un accordo tra ministero delle infrastrutture e Aspi, lo scorso 15 settembre è partita la prima operazione di rimborso, dal 25 al 100% del pedaggio pagato, per chi ha registrato un ritardo sulla percorrenza media della tratta di almeno 15 minuti. L'operazione era però un po' complessa perché bisognava presentare la richiesta alla fine del trimestre e molti hanno continuato a lamentarsi o a rinunciare. Adesso invece cambia tutto perché, come ammette Tomasi, «questi sforzi comportano dei disagi di cui ci rendiamo conto. Per questo cerchiamo di offrire un ristoro e di venire incontro alle esigenze dei nostri utenti».

Parte dunque il nuovo cashback con targa che semplificherà la vita agli utenti della rete di Autostrade per l'Italia: il rimborso diventa automatico e scatta già dopo 10 minuti di ritardo. «Il servizio rende più semplice e automatico il rimborso anche per gli utenti che pagano il pedaggio con carte o contanti, come già avviene per i clienti dotati di sistemi di telepedaggio» spiega una nota dell'Aspi e «sarà sufficiente registrarsi sulla app Free To X (freeto-x.it) inserendo i propri dati personali e la targa del veicolo - che verrà verificata attraverso la banca dati della Motorizzazione Civile - per ricevere in automatico i rimborsi maturati a causa di ritardi dovuti a cantieri di manutenzione e ammodernamento sulla rete autostradale». 

Sulla app si dovrà indicare il proprio codice Iban per ricevere il versamento sul conto corrente dopo qualche giorno. Niente più scontrini da conservare e richieste da fare a posteriori: una volta registrati, la app notificherà direttamente i rimborsi a cui si ha diritto. E grazie al riconoscimento della targa, non sarà più necessario conservare la ricevuta per i viaggi sulla rete di Aspi, anche se lo stesso gestore spiega che «è consigliabile comunque il suo ritiro al casello: conservarla come back-up potrà infatti essere utile nel caso di eventuale anomalia nella lettura della targa o, soprattutto, nel caso in cui il viaggio si svolga solo parzialmente sulla rete di Aspi, coinvolgendo cioè altre società concessionarie autostradali diverse da Autostrade perl'Italia, sulle cui reti il cashback non è attivo».

Per calcolare il rimborso che va dal 25 al 100% del pedaggio, l'app terrà conto della lunghezza della tratta percorsa e della percentuale di ritardo sul tempo medio di percorrenza. Più alta sarà quest' ultima, più alto sarà il rimborso. Per un viaggio di 90 km ad esempio, se è stato accumulato un ritardo da 10 a 14 minuti per un cantiere di lavoro, verrà rimborsato il 25% del pedaggio, fino a 29 minuti il 50%, fino a 44 minuti il 75% superati i quali, si avrà diritto al 100%.

Il Morandi. Crollo Morandi, 750mila euro per accedere agli atti. A tanto ammontano i diritti di segreteria. Gli avvocati: «Negato il diritto di difesa». Il Dubbio il 25 giugno 2022.

750mila euro di diritti di segreteria. È quanto tocca versare agli avvocati coinvolti nel mega-processo per il crollo del Ponte Morandi, che ora parlano di «diritto alla difesa negato». E così hanno sollevato la questione in fase di udienza preliminare: i legali, infatti, devono versare quasi un milione di euro al ministero della Giustizia per accedere a tutti gli atti depositati in tribunale, come riporta Repubblica. Si tratta di un fascicolo da 64 terabyte, vale a dire 34 miliardi di file indicizzati. Mancano pochi giorni all’inizio del processo, che si aprirà il 7 luglio prossimo, e fino ad ora nessuno dei difensori ha acquisito gli atti necessari per affrontare il delicato caso in Tribunale.

«Il costo forse è molto di più dei 750 mila euro – dice a Repubblica Enrico Scopesi, presidente della Camera Penale di Genova e difensore di uno degli imputati (dirigente di Autostrade) -: è uno dei tanti problemi di questo processo, c’è una infinità di dati di difficile accesso, la cui estrazione è costosissima e tanti nostri clienti non possono farlo». Per leggere la montagna di atti, inoltre, sarebbe necessario essere in possesso di particolari programmi di lettura. Perfino i pubblici ministeri del caso, Massimo Terrile e Walter Cotugno, hanno ammesso, in sede di udienza preliminare, di non avere contezza di tutti i dati contenuti nel database, un cervellone elettronico costato un milione e 800mila euro.

Tutto il materiale è depositato in un’intera stanza della caserma Testerò utilizzata come sala informatica: si tratta di materiale cartaceo scannerizzato, email, progetti, programmi di elaborazione, ovvero tutto quanto è stato posto sotto sequestro dalla Guardia di Finanza in quattro anni di indagini, dopo il crollo del 14 agosto 2018, in cui persero la vita 43 persone.

Tutto è ora a disposizione delle parti, ma per accedere al materiale è necessario sborsare una cifra monstre. A processo, con l’accusa di omicidio colposo plurimo, falso, disastro, attentato alla sicurezza dei trasporti, ci sono 59 persone. Ma il problema riguarda ovviamente anche le parti civili e le parti offese. Fuori dal processo rimangono Autostrade e Spea, le due società già imputate per la responsabilità amministrativa, che hanno patteggiato sborsando 30 milioni di euro. Coloro che, secondo gli avvocati, sarebbero state «le uniche che avrebbero potuto versare 750mila euro per accedere agli atti»

Sono 59 gli imputati portati alla sbarra. Processo per il crollo del Ponte Morandi, è scontro tra Tribunale e giornalisti: “No alle riprese in Aula”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Luglio 2022

Inizierà domani a Genova il processo per il crollo del ponte Morandi avvenuto il 14 agosto del 2018 e dove hanno perso la vita 43 persone. Gli imputati sono 59, ad iniziare dall’ex amministratore delegato di Aspi, l’ingegnere Giovanni Castellucci, i suoi due vice, Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti, i vertici di Spea, la società di ingegneria che aveva effettuato i controlli del ponte. Con loro anche funzionari del Ministero dei lavori pubblici e dell’Anas.

L’udienza di questa settimana servirà comunque solo ad incardinare il processo e fissare un calendario: il dibattimento, infatti, entrerà nel vivo solo dopo l’estate. Le udienze si terranno nella tensostruttura installata nell’atrio del tribunale, dove già si sono svolti i vari incidenti probatori e le udienze preliminari.

I vertici del tribunale del capoluogo ligure hanno previsto un collegamento audio-video fra la tensostruttura e altre tre aule palazzo di giustizia dove potrà essere presente il pubblico ed i giornalisti. Il collegamento sarà gestito direttamente dal Ministero della giustizia con un sofisticato sistema di sicurezza. Archiviata la polemica sul costo delle copie per avere gli atti, la partecipazione del pubblico al dibattimento si accinge a diventare il nuovo terreno di scontro. Essendo, come prevedibile, molto elevato il numero di giornalisti che ha chiesto di poter assistere al processo, il presidente del collegio, Paolo Lepri, ha emanato una ordinanza che ha avuto l’effetto di scontentare tutti.

Nel provvedimento del giudice si legge che è consentita la possibilità di registrare le immagini nelle aule solo prima dell’inizio del processo e per dieci minuti. Poi via i giornalisti con macchine fotografiche e telecamere, con conseguente oscuramento delle udienze successive. Il provvedimento vieta perfino l’utilizzo delle immagini che saranno trasferite in sala stampa dal circuito chiuso. Quindi il giornalista che volesse riprendere con il telefonino quanto appare sullo schermo sarà passibile di denuncia, con conseguente sequestro dell’apparato. «A fronte del comprensibile interesse mediatico per i fatti oggetto del presente procedimento l’introduzione nell’aula di udienza di telecamere e altri strumenti per la ripresa audiovisiva del processo potrebbero determinare una spettacolarizzazione dell’evento prevedibilmente deteriore per il sereno e regolare svolgimento delle udienze», scrive Lepri.

Una decisione che non ha soddisfatto l’Associazione ligure dei giornalisti, l’Ordine dei giornalisti della Liguria e il Gruppo cronisti liguri che nel giorno della prima udienza del processo hanno indetto una manifestazione contro la decisione di Lepri e la conseguente impossibilità di raccontare con immagini e video il dibattimento. Alla manifestazione di protesta sono attesi domani anche il presidente nazionale dell’OdG Carlo Bartoli e il segretario nazionale Fnsi Raffaele Lorusso.

La scelta di Lepri non può essere considerata neppure un ritorno al passato, visto che trent’anni fa, per il celebre processo Cusani al tribunale di Milano, vennero autorizzate le riprese in aula, permettendo a tutti di vedere le varie fasi del dibattimento, le arringhe degli avvocati e gli show di Tonino Di Pietro. A Genova, invece, si è deciso diversamente. Paolo Comi

Niccolò Zancan per “La Stampa” l'8 luglio 2022.

Al minuto 51 della prima udienza di uno dei più importanti processi della storia italiana, ecco quello che si può ascoltare: «Avvocato Trabalza. Avvocato Vecchi. Avvocato Vernazza. Avvocato Vignolo. Avvocato Zobolo. È presente l'avvocato Zobolo? Ok. Bene. Abbiamo esaurito l'elenco», dice il presidente della corte Paolo Lepri. Cinquantuno minuti abbondanti solo per fare l'appello rende l'idea di cosa sarà il processo per il crollo del Ponte Morandi: 59 imputati, 600 parti civili. Una battaglia legale senza precedenti. 

Erano le 11.36 del 14 agosto 2018. Quasi quattro anni dopo, ieri mattina alle 9, è iniziata la lunga strada per cercare di restituire verità e giustizia ai parenti delle 43 vittime del crollo e non soltanto a loro.

«Noi speriamo che tutto il lavoro della magistratura e degli inquirenti non sia vano. Hanno messo in luce una verità molto dura per l'Italia. Speriamo che questo processo possa portare un po' di riscatto», dice la signora Paola Vicini, che ha perso il figlio Mirko giù dal ponte, prima di entrare in Tribunale. 

Giornalisti da tutto il mondo. C'è una gigantesca tensostruttura al centro del Tribunale. Hanno montato un maxi schermo perché si possa vedere anche dalle ultime file e in alto, dietro alla corte, hanno attaccato il cartello: «La legge è uguale per tutti». 

Molto di cosa sarà questo processo si capisce anche dalle «disposizioni organizzative». Le persone offese sono in un'altra aula, l'Aula Magna del secondo piano. Le vittime stanno, cioè, separate dagli imputati. E in un altro luogo ancora, l'Aula Borrè, stanno i giornalisti interessati a seguire il processo.

Ma a una condizione precisa: «Sono vietate le riprese audio e video». Ecco come il presidente del collegio giudicante Lepri ha motivato questa decisione: «A fronte del comprensibile interesse mediatico per i fatti oggetto del presente procedimento, l'introduzione nell'aula di udienza di telecamere e altri strumenti per la ripresa potrebbero determinare una spettacolarizzazione dell'evento prevedibilmente deteriore per il sereno e regolare svolgimento delle udienze». 

È una decisione fortemente criticata dall'Ordine dei giornalisti e dal Gruppo Cronisti Liguri: «Potrebbe costituire un precedente per negare anche in futuro l'agibilità delle aule giudiziarie a telegiornali e fotoreporter pregiudicando, con il diritto di cronaca, anche quello dei cittadini a essere informati».

Ieri è stato fissato il calendario delle udienze: la prossima sarà il 12 settembre. L'obiettivo massimo è fare in modo che neppure i reati minori siano prescritti. «Il problema di fondo di questo processo sarà la possibilità di rispettare i parametri costituzionali della ragionevole durata. Io auspico che tutte le parti si possano comportare tenendo conto di questo parametro», ha detto il procuratore Francesco Pinto. Le parti sono agli antipodi, e non solo fisicamente. 

La difesa contesta integralmente l'impianto accusatorio, che ha stabilito che la causa del crollo è stata la mancata manutenzione. L'incuria. La sottovalutazione consapevole del rischio. Il risparmio sulla sicurezza a vantaggio dei profitti. Il procuratore capo lo definisce: «Un dibattimento epocale».

Ed ecco i legali di Giovanni Castellucci, l'ex amministratore delegato di Aspi, che sarà in aula durante il dibattimento. «Il Ponte è crollato per un difetto di costruzione totalmente nascosto, un difetto di costruzione che risaliva agli Anni '60 che avrebbe provocato una corruzione invisibile e che non poteva essere affrontata in quanto non conosciuta. Questo è l'elemento centrale, nessuno poteva rendersi conto di quel difetto», dice l'avvocato Carlo Alleva davanti al Tribunale.

E il collega Giovanni Accinni aggiunge: «Noi siamo arrivati fino al dibattimento attraverso la celebrazione del non compleanno del Bianconiglio di Alice nel Paese delle meraviglie. Ma fuori dalle favole e quindi nel rispetto dei fatti emergerà che il ponte è crollato per un vizio occulto, che 43 persone a causa di ciò sono morte in un modo assurdo e che parecchie persone oggi si trovano da innocenti sotto processo». 

Sarà una battaglia legale senza esclusioni di colpi. Egle Possetti, portavoce del comitato delle vittime del crollo, lo sa: «Si attaccheranno ai vetri. Ma carta canta. Nel 2013 avevano scritto nei documenti societari che il Ponte Morandi era a rischio crollo. Per cinque anni non hanno fatto niente. Cosa possono venire a raccontare?». Mostra il tatuaggio sul braccio: Claudia, Camilla, Manuele, Andrea. La sua famiglia. Quattro delle 43 vittime.

Ponte: procuratore, senza ragionevole durata non c'è giustizia. ANSA il 6 luglio 2022.

"Il problema di fondo di questo processo sarà la possibilità di rispettare i parametri costituzionali della ragionevole durata. Io auspico che tutte le parti si possano comportare tenendo conto di questo parametro. Un parametro di garanzia sia per le vittime che per gli imputati. Senza un tempo ragionevole non ci sarà giustizia degna di questo nome". Lo dice il procuratore Francesco Pinto alla vigilia dell'inizio del processo per il crollo del ponte Morandi, il viadotto collassato il 14 agosto 2018 causando 43 vittime. Sono 59 le persone imputate, tra ex vertici e tecnici di Autostrade e Spea (la società che si occupava di manutenzioni e ispezioni), attuali ed ex dirigenti del ministero delle Infrastrutture e funzionari del Provveditorato. 

"Qualsiasi istanza dell'accusa - prosegue Pinto - delle difese e delle parti civili dovrà essere parametrata anche rispetto al criterio della ragionevole durata del processo nell'interesse delle stesse parti civili e degli imputati. Perché ci sarà troppa gente che altrimenti rimarrà sulla graticola e che potrebbe un domani essere anche assolta così come ci saranno tanti che hanno diritto a un risarcimento ma che lo potranno vedere dopo anni".

Per quanto riguarda la protesta dei giornalisti di domani contro la decisione del presidente del collegio giudicante di concedere le riprese solo per dieci minuti alla prima udienza Pinto ha sottolineato come "non c'è alcuna lesione del diritto di cronaca. Vi è differenza tra diritto di cronaca, garantito, e spettacolarizzazione. Il processo potrà essere seguito, non possiamo pensare a una giustizia chiusa dentro il palazzo. Però è anche vero che un processo di questo genere, con mille occhi puntati, rischia di essere completamente deformato dalla presenza costante di telecamere". (ANSA).

L'avvocato dell'ex ad di Aspi: "Il ponte è crollato per un vizio costruttivo, ecco perché sono morte 43 persone". Il processo è stato rinviato al 12 settembre. Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 7 luglio 2022.

Si è svolta questa mattina la prima udienza del processo per il crollo del ponte Morandi (Genova) che, il 14 agosto 2018, provocò 43 morti, feriti, sfollati e danni stimati per milioni di euro. Sul banco degli imputati 59 persone tra le quali ex vertici e tecnici di Autostrade e Spea, che si occupava di manutenzioni e ispezioni, attuali ed ex dirigenti del ministero delle Infrastrutture. "Il ponte è crollato per un vizio costruttivo", ha dichiarato ai cronisti accalcati all'esterno del palazzo di Giustizia l'avvocato Guido Carlo Alleva che, assieme al collega Giovanni Accini, difende l'ex ad di Aspi Giovanni Castellucci.

Il crollo del ponte: "Vizio costruttivo"

Sebbene siano passati 4 anni dal crollo del ponte, la dinamica dell'evento e le eventuali responsabilità delle persone coinvolte restano ancora da accertare. "Oggi si inizia a parlare di fatti, finalmente fuori da un processo mediatico, falsato e distorto, che fin dall'inizio ha ignorato la ragione del crollo del ponte, individuata dai periti del giudice dell'udienza preliminare nel grave vizio di costruzione risalente agli anni sessanta, occulto e occultato, mai diagnosticato da nessun tecnico prima della tragedia" ha spiegato il legale dell'ingegner Giovanni Castellucci, Guido Carlo Alleva. "Questo basta, di per sé, a sollevare Castellucci, - ha continuato l'avvocato - che aveva un ruolo apicale in un gruppo globale, da ogni responsabilità. Perciò è importante che l'attenzione resti alta e lo svolgimento del processo accessibile". Aspi e Spea sono uscite dal processo patteggiando circa 30 milioni. "Speriamo di chiarire in contraddittorio - ha aggiunto Alleva prima di entrare a Palazzo di Giustizia - e speriamo questa volta in modo oggettivo. Se saranno, come noi siamo certi, rispettate le regole per le quali la colpevolezza deve essere accertata legalmente e fuori dalla favola, e quindi nel rispetto dei fatti, emergerà che il ponte è crollato per un vizio costruttivo. Questa è la ragione per la quale 43 persone sono morte in un modo spaventoso e assurdo. L' ingegnere Castellucci non ha nessuna responsabilità penale rispetto a quanto gli è stato contestato. Il rispetto per chi è morto in un modo tanto assurdo è di una compartecipazione totale. Faccio presente che anche l'innocente se venisse condannato diventerebbe a sua volta una vittima".

Crollo del ponte Morandi. Autostrade patteggia

Il processo

Il processo ripartirà il 12 settembre. Le accuse, a vario titolo, sono omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, crollo doloso, omissione d'atti d'ufficio, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sui luoghi di lavoro. Per l'accusa, buona parte degli imputati immaginava che il ponte sarebbe potuto crollare ma non attuò nessuna misura preventiva. Per la difesa, invece, le criticità sarebbero state di altro tipo (strutturali).Non abbiamo nessun interesse a negare giustizia - ha spiegato al termine dell'udienza odierna il procuratore Francesco Pinto - sarà il tribunale a valutare e non ci metteremo a questionare, ma è evidente che non sarà possibile arrivare a quantificare il danno per ciascun impresa, singola o associazione, ma al riconoscimento della sua esistenza rinviando le liquidazioni in sede civile. Per questo, ispirandoci a una logica di ragionevole durata del processo, auspichiamo e chiederemo che i testimoni di queste parti siano ridotti all'osso se non addirittura azzerati e sostituiti da una prova documentale".

Ponte Genova: 1200 testi, se parlano tutti rischio prescrizione. ANSA il 23 aprile 2022.

Una carica di circa 1.200 testimoni per il processo per il crollo del ponte Morandi, collassato il 14 agosto 2018 causando la morte di 43 persone, che porterà ad allungare i tempi rendendo sempre più concreto il rischio prescrizione per alcuni reati. Si va dall'antropologo (che dovrà parlare "del sistema sociale" di via Porro, la strada dove sorgevano i palazzi sotto il viadotto i cui abitanti sono stati sfollati) all'ex premier Giuseppe Conte, passando per gli ex ministri dal 1998 al 2018, ai tecnici, fino a tutti i presidenti delle Commissioni Trasporti di Camera e Senato. Il numero monstre emerge dalle liste testi presentate dalla procura, dai difensori degli imputati e delle parti civili. I giudici, che dopo la prima udienza del processo lo scorso 7 luglio hanno rinviato al 12 settembre, dovranno però decidere se accogliere tutte le richieste o se sfrondare l'elenco. Un elenco che preoccupa la procura perché si rischierebbe una dilatazione dei tempi. I primi reati, quelli meno gravi, inizieranno a prescriversi a fine 2013. Era stato lo stesso procuratore Francesco Pinto a chiedere "di rispettare i parametri costituzionali della ragionevole durata".

Sono 59 le persone imputate, tra ex vertici e tecnici di Autostrade e Spea (la società che si occupava della manutenzione e delle ispezioni), attuali ed ex dirigenti del ministero delle Infrastrutture e funzionari del Provveditorato. Le accuse, a vario titolo, sono omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, crollo doloso, omissione d'atti d'ufficio, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sui luoghi di lavoro. Per i pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno, buona parte degli imputati immaginava che il ponte sarebbe potuto crollare ma non fecero nulla. Aspi e Spea sono uscite dal processo patteggiando circa 30 milioni. (ANSA).

Ponte di Genova, a processo in 59. Sì al patteggiamento per Aspi e Spea, soddisfazione dal Comitato vittime. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.

Crollo del Morandi, il gup ha accolto le richieste della Procura. Rinviato a giudizio anche l’ex ad di Autostrade Castellucci. Le due società pagheranno circa 30 milioni per uscire dal processo. 

Il giudice per l’udienza preliminare di Genova Paola Faggioni ha rinviato a giudizio tutti e 59 gli indagati per i quali la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio. Devono rispondere del disastro del ponte Morandi: 14 agosto 2018, 43 morti. A processo finiranno i vecchi vertici di Aspi, compreso l’ex ad Giovanni Castellucci, e di Spea, la società che si occupava delle manutenzioni, e vari ex tecnici , dirigenti e funzionari delle due società e del Ministero delle Infrastrutture che aveva funzioni di controllo sulla concessionaria. Sono accusati a vario titolo di omicidio stradale plurimo, falso, disastro e attentato alla sicurezza dei trasporti. Il processo partirà il prossimo 7 luglio.

Il patteggiamento

Non ci saranno le due società, che figuravano anch’esse come indagate per la legge sulla responsabilità amministrativa. La gup ha infatti accolto la richiesta di patteggiamento presentata dai legali delle stesse, sulla quale la Procura aveva espresso parere favorevole. Aspi e Spea pagheranno circa 30 milioni. Il patteggiamento sembra soddisfare sia la difesa che l’accusa: Aspi esce dal processo evitando misure interdittive più pesanti come il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; i pm incassano invece la pena pecuniaria massima e un’implicita conferma dell’impianto accusatorio.

La difesa: le accuse cadranno

«Non avevamo dubbi su questo esito che purtroppo ci appariva scontato. Riteniamo che, nonostante il lungo sforzo motivazionale del giudice, in realtà le questioni che erano alla base delle nostre ragioni siano rimaste inalterate, quindi i problemi procedurali che si sono manifestati restano e saranno oggetto di altre discussioni». Così gli avvocati dell’ex ad Giovanni Castellucci, Giovanni Paolo Accinni e Guido Carli Alleva dopo il rinvio a giudizio per il crollo del ponte Morandi. «Ora ci sarà il dibattimento - continuano - e confidiamo che tutto si possa svolgere secondo il principio del giusto processo, in contraddittorio tra accusa e difesa. Siamo fiduciosi del fatto che molte cose emergeranno e riequilibreranno finalmente la visione degli fatti che ci pare a senso unico». «Le vittime vanno tutelate e gli innocenti vanno protetti. Finora questo processo si è rifiutato di proteggere gli innocenti, se il dibattimento sarà come noi confidiamo l’inizio di un processo giusto, il teorema accusatorio nei confronti di Castellucci si conformerà essere una foglia di autunno tremula che cadrà» hanno concluso.

I familiari: soddisfatti

Soddisfazione dai familiari delle vittime: «Oggi è arrivata la conferma di quello che noi sosteniamo da tutto questo tempo. Per questo ovviamente siamo molto soddisfatti». Sono parole di Egle Possetti, presidente del Comitato ricordo vittime del ponte Morandi . Voglio ringraziare i pubblici ministeri per il lavoro fatto». Si dice felice anche per la decisione del gup di tenere sotto sequestro i reperti consentendone lo spostamento: «Così potremo realizzate il Parco della memoria e questo è molto importante».

Tre anni d’indagine

L’udienza preliminare è durata poco più di 5 mesi. Undici udienze sono servite ai Pm Massimo Terrile e Walter Cotugno per motivare le accuse, dietro alle quali ci sono tre anni di indagini, condotte sul capo dalla Guardia di finanza di Genova, e due incidenti probatori. Una mole di lavoro immensa, dal quale sono scaturiti altri tre filoni d’inchiesta: falsi report sui viadotti, barriere fonoassorbenti pericolose e falsi report sulle gallerie. In questi procedimenti risultano indagate circa 40 persone, di cui molte già coinvolte anche nel fascicolo sul crollo del Morandi. I tre filoni sono stati riunificati in un solo fascicolo ed entro l’estate verranno chiuse le indagini.

Il no alla ricusazione

Nel corso dell’udienza preliminare i legali di alcuni imputati avevano ricusato il gup perché a vrebbe «violato il principio d’imparzialità» esprimendo un giudizio sugli imputati quando firmò una delle ordinanze cautelari riguardanti l’indagine sulle barriere fonoassorbenti. Sia i giudici di appello che quelli di Cassazione avevano però respinto la richiesta.

Tommaso Fregatti e Matteo Indice per “La Stampa” l'8 aprile 2022.

Un'ora di camera di consiglio, due ore e mezza solo per leggere l'ordinanza. Alla fine, il giudice dell'udienza preliminare Paola Faggioni sposa in pieno la linea della Procura e manda a giudizio tutti i 59 imputati per il crollo del Ponte Morandi, 43 vittime il 14 agosto 2018. 

Il gup dà inoltre via libera al patteggiamento di Autostrade per l'Italia e Spea Engineering, le due società di Atlantia nel mirino per la legge sulla responsabilità amministrativa, che versano 29 milioni ed escono di scena: «Tutta l'infrastruttura viene riconosciuta come un cantiere - è uno dei motivi fondamentali agli occhi delle toghe - su cui vengono finalmente adottate cautele permanenti».

Bocciate tutte le eccezioni presentate dai legali degli inquisiti. Il processo scatterà il 7 luglio alle 9, ma c'è un nodo da sciogliere. Il sorteggio del sistema informatico "Giada" lo ha affidato al collegio formato da Roberto Cascini, presidente, e dai giudici a latere Riccardo Crucioli e Valentina Vinelli. 

E però gli ultimi due potrebbero astenersi. Riccardo Crucioli è infatti fratello di Mattia, senatore e avvocato (oltre che candidato a sindaco di Genova in una lista civica) impegnato da tempo in una battaglia contro Aspi e autore di diverse interrogazioni parlamentari. Soprattutto, in qualità di legale ha presentato esposti su Autostrade alla Corte dei conti ligure e ha promosso a Roma una class action sulle conseguenze del caso Morandi. È abbastanza, per materializzare l'incompatibilità del familiare?

Il magistrato si è preso qualche giorno per valutare e deciderà insieme al presidente del tribunale, Enrico Ravera. «Se ci saranno astensioni - precisa quest' ultimo - il sistema provvederà alla sostituzione dei giudici.

Allo stato il collegio è quello indicato in prima battuta». Potrebbe astenersi inoltre Valentina Vinelli: come toga del Riesame si è già pronunciata su un ricorso presentato da Aspi nell'indagine sull'installazione delle barriere fonoassorbenti pericolose, costola degli accertamenti sulla strage.

Il dibattimento inizierà comunque fra tre mesi e i primi passaggi saranno riservati alla costituzione delle parti e a questioni preliminari. A settembre si entrerà nel vivo con almeno due-tre udienze a settimana e si potrebbe arrivare al verdetto di primo grado in un anno. A snellire i tempi contribuirà il fatto che le principali perizie - sulle cause del crollo e sullo stato dell'opera al momento del collasso - sono state eseguite nella forma dell'incidente probatorio.

Soddisfazione per il rinvio a giudizio viene espressa dal procuratore Francesco Pinto: «È la prima risposta giudiziaria in un processo fuori dal comune, per la situazione drammatica che hanno determinato quei fatti. Dopo tre anni e mezzo possiamo dire che le radici sono solide, vediamo cosa si svilupperà». 

E ancora: «Nulla restituirà le vittime ai familiari, ma è importante che il sacrificio non sia stato vano. Il rinvio a giudizio è stato disposto accogliendo tutte le ipotesi di reato formulate dai pubblici ministeri». In particolare, il giudice ha negato che siano stati negati diritti alla difesa, specie nella messa a disposizione dell'intero materiale probatorio: è vero che la Procura disponeva d'un super-software capace di collegare in modo molto sofisticato i file, ma l'accesso a ogni documento «è stato sempre e da subito garantito alle parti», le parole di Pinto.

A giudizio andranno quindi dirigenti e tecnici, o ex, del concessionario privato Aspi, di Spea (società anch' essa del Gruppo Atlantia ai tempi delegata ai monitoraggi) e del ministero dei Trasporti, che non avrebbe vigilato a dovere sui report sicurezza forniti proprio da Autostrade.

Gli addebiti sono a vario titolo di omicidio stradale plurimo, falso, disastro, attentato alla sicurezza dei trasporti e tra i principali inquisiti ci sono: l'ex amministratore delegato di Aspi Giovanni Castellucci; i suoi più fidati dirigenti Michele Donferri Mitelli, ex supercapo nazionale delle manutenzioni, e Paolo Berti ex direttore centrale operazioni; Roberto Ferrazza, tuttora provveditore alle opere pubbliche di Liguria e Piemonte. 

I loro avvocati hanno già annunciato battaglia. «Il teorema accusatorio - dice Paolo Accinni, difensore di Castellucci - si confermerà una foglia d'autunno: gialla, tremula, che sta per cadere e cadrà». Va infine ricordato che il giudice ha confermato il sequestro dei reperti al momento conservati nel capannone a ridosso del nuovo viadotto, in Valpolcevera; ma potranno essere spostati, per consentire di realizzare il futuro Parco del Ponte.

Class action contro Aspi da 4,5 miliardi. Patricia Tagliaferri il 26 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il consigliere regionale Sansa: "Risarcimento di 3mila euro per ogni ligure". 

Non soltanto una tragedia umana che ha stravolto la vita di tante famiglie. Il crollo del Ponte di Genova nell'agosto del 2018 ha comportato un danno d'immagine, economico e sociale anche per chi non ha dovuto piangere una delle 43 vittime. Un danno stimato in 3mila euro per ogni ligure costretto a sopportare le conseguenze del crollo e dei cantieri autostradali infiniti. «È la più grande class action nella storia d'Italia: 4,5 miliardi di euro di danni potenziali chiesti ad Aspi per un formidabile atto di giustizia nei confronti di una società che ha messo in ginocchio la Liguria», spiega Ferruccio Sansa, capogruppo della Lista Sansa in Consiglio regionale, che ha promosso l'azione contro Autostrade per l'Italia. Ieri l'istanza è stata depositata presso il Tribunale di Roma, che entro due mesi dovrà esprimersi sull'ammissibilità o meno della class action. «Se verrà dichiarata ammissibile tutti i liguri potranno aderire gratuitamente online per ottenere un risarcimento di almeno 3mila euro a testa», spiega Sansa. Alla quantificazione del danno si è arrivati in modo scientifico, grazie allo studio di un esperto di logistica, trasporti ed economia e producendo migliaia di pagine di prove e documenti. «Era essenziale dimostrare - sottolinea il capogruppo della Lista Sansa - quantificare il danno, patrimoniale e non patrimoniale. Quello patrimoniale riguarda soprattutto tre voci: l'aumento dei prezzi che i liguri hanno dovuto pagare per i beni di consumo (a causa dei trasporti più difficili), il calo del Pil regionale maggiore delle altre regioni (con un conseguente impoverimento) e il calo del valore delle nostre case, anche questo a causa dei collegamenti resi quasi impossibili per anni».

Incrociando tutti questi dati è risultato che ogni ligure ha subìto 977 euro di danni dal 2018 al 2020, più altri 977 euro dal 2020 al 2023, quando dovrebbero chiudere i cantieri. Poi ci sono i danni non patrimoniali, legati per esempio alla crescita esponenziale delle ore di coda e del traffico che hanno causato un aumento rilevante dell'inquinamento, con relativi danni alla salute e all'ambiente. Il crollo del ponte ha comportato inoltre difficoltà nel godere di diritti tutelati dalla Costituzione, come la libertà di circolazione, di iniziativa economica, di lavorare. Il diritto al risarcimento, se l'azione collettiva verrà dichiarata ammissibile, sarà riconosciuto solo ai liguri che hanno firmato il ricorso. Finora hanno dato la loro pre-adesione circa 6mila cittadini. «La class action è una nuova forma di battaglia politica perché consente ai cittadini dal basso tutti uguali di far valere i loro diritti», ritiene Sansa.

Per il crollo del ponte sono state indagate 59 persone. Aspi e Spea, le società all'epoca incaricate delle manutenzioni, hanno chiesto di patteggiare, pagando 29 milioni per uscire dal processo. Il giudice non si è ancora pronunciato.

DAGONOTA il 16 marzo 2022.

C’è una piccola grande anomalia nella richiesta di patteggiamento di Autostrade per l’Italia per la tragedia del ponte Morandi. 

Se infatti è comprensibile la volontà dell’azienda di uscire al più presto dal processo pagando due spicci, è invece insolito che la procura (che fra l’altro si era già dichiarata contraria alla citazione di Aspi come responsabile civile), abbia dato parere favorevole a un patteggiamento nel quale l’oggetto del profitto è solamente il ritardato intervento manutentivo sul ponte, ovvero il cosiddetto retrofitting.

Per questo il profitto sequestrato è di appena 26 milioni, e non le centinaia di milioni che la procura dichiara siano stati risparmiati in manutenzioni per dare extraprofitti agli azionisti, tramite dividendi. 

Il parere favorevole contraddice tutta l’impostazione indiziaria, cioè il movente contestato alla maggior parte dei 59 imputati: che abbiano tagliato sulle manutenzioni per fare dividendi.

Poi c’è la questione delle responsabilità, che riguardano il modello organizzativo e di controllo, che erano in capo al cda di Aspi e Atlantia. Per Aspi il consigliere responsabile del sistema dei rischi non era l’amministratore delegato ma un alto consigliere indicato da Edizione Holding, ossia dai Benetton. 

Con il patteggiamento Aspi non dovrà più difendersi sul sistema di controllo e sul sistema organizzativo e resterà responsabile civile, ovvero responsabile dei danni nei confronti delle parti civili.

C’è anche un altro fatto curioso, “un’intercettazione rivelatrice”, come si leggeva ieri sul sito di Repubblica. 

Scrive Marco Lignana: “Va ricordato come compresa agli atti dell’indagine, ma non ammessa dal gip Angela Nutini nel fascicolo sul quale verranno decisi i rinvii a giudizio e si terrà il futuro dibattimento, c’è l’intercettazione di una telefonata fra l’avvocato Sergio Erede - dello studio Bonelli Erede che segue tutti gli aspetti civili e amministrativi per Autostrade - e il direttore dell’ufficio legale di Aspi Amedeo Gagliardi.

Risale al 18 febbraio 2020: nella conversazione fra i due interlocutori, che non sono mai stati indagati dalla Procura di Genova, Gagliardi ipotizzava che la strada migliore sarebbe stata proprio quella di un accordo con l’accusa, in modo da salvare la convenzione:

“Non so se a quel punto è meglio... immaginare che provi un patteggiamento... Aspi ne esca... e poi... gli imputati si faranno il loro processo... si scanneranno uno con l’altro... a quel punto... la convenzione è in salvo... Autostrade magari esce pagando la sua sanzione 231... senza interdittiva e sparisce dalla faccia della terra diciamo così. Ma questa, come dire... è veramente un’illazione mia”.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2022.

Un patteggiamento da circa 30 milioni di euro. Così Autostrade per l'Italia (Aspi) si avvia a chiudere la partita penale del ponte Morandi che la vede imputata come società per il disastro del 14 agosto 2018 nel quale persero la vita 43 persone.

La richiesta del concessionario, che deve rispondere della specifica legge sulla responsabilità amministrativa, ha ottenuto il consenso della Procura di Genova e ora attende quello decisivo del giudice dell'udienza preliminare, orientato a dire sì. 

Una soluzione soddisfacente per tutti: per Aspi, che esce così dal processo ed evita misure interdittive più pesanti come il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; e per i pm che incassano la pena pecuniaria massima e un'implicita conferma dell'impianto accusatorio.

Stessa richiesta e stesso parere favorevole degli inquirenti per Spea, la divisione del gruppo Atlantia un tempo delegata ai monitoraggi delle infrastrutture, anch' essa imputata. 

«Da parte delle società registriamo questa accettazione della nostra impostazione - ha commentato il procuratore di Genova facente funzioni Francesco Pinto, riprendendo le motivazioni firmate dai pm Massimo Terrile e Walter Cotugno -.

Abbiamo dato il consenso per varie ragioni: Autostrade ha adottato un nuovo modello di organizzazione, di gestione e di controllo che può prevenire reati analoghi, ha modificato il documento per la valutazione dei rischi, ha risarcito in modo pressoché integrale le vittime e ha messo a disposizione dello Stato questa somma (26,8 milioni) che è l'equivalente di quanto avrebbero speso se avessero fatto i lavori progettati per evitare il disastro, quelli alle pile 9 e 10 del ponte». 

Come dire, Aspi non è più quella del 2018 e ora sembra garantire sicurezza. Un cambio di passo che è stato accompagnato dai risarcimenti alle famiglie delle vittime, 63 milioni di euro, e dai costi sostenuti per la demolizione e ricostruzione del viadotto: 583 milioni, precisano in Autostrade. 

Cosa ne pensano i parenti delle vittime? «Il patteggiamento non lava le coscienze ed è oltretutto un'ammissione di colpa», ha sospirato Egle Possetti, portavoce del Comitato ricordo vittime di ponte Morandi.

Secondo Possetti lo sviluppo «avrà un impatto importante sull'iter processuale degli altri imputati: significa che il castello accusatorio è valido». Autostrade ha evitato repliche dirette: «Resta in noi la piena consapevolezza che non si potrà mai dimenticare la tragedia con il suo carico non commensurabile di dolore e sofferenze che ha profondamente segnato anche la società e tutti i suoi dipendenti». 

Ci sono poi gli altri 59 imputati, rispetto ai quali il gup deciderà a breve chi mandare a processo. Si tratta soprattutto di manager e tecnici delle due società e di dirigenti e funzionari del ministero dei Trasporti. 

Primo fra tutti, l'ex amministratore delegato di Aspi Giovanni Castellucci. «Ho trovato singolare che la Procura abbia offerto una rappresentazione del mio assistito distorta, non realistica, non legata ai fatti», ha acceso i fuochi l'avvocato Guido Carlo Alleva, difensore di Castellucci.

«Questo processo si candida a un vigoroso vaglio della Corte europea, sono stati mortificati alcuni principi fondamentali del diritto di difesa», ha rilanciato il suo collega Dinacci, che assiste l'ex numero due di Aspi Paolo Berti. La battaglia giudiziaria è ancora lunga.

Ponte Morandi, rinviati a giudizio i 59 imputati. Il processo inizia a luglio. Il Domani il 07 aprile 2022.

Il processo inizierà il 7 luglio. Per il Comitato parenti delle vittime «è la giornata più importante di questi quattro anni». Accolto il patteggiamento richiesto a marzo da Aspi e Spea

Sono state rinviate a giudizio le 59 persone coinvolte nel procedimento sul crollo del ponte Morandi di Genova che il 14 agosto 2018 provocò la morte di 43 persone. Lo ha deciso il gup di Genova, Paola Faggioni, a conclusione dell'udienza preliminare. Il processo inizierà il prossimo 7 di luglio.

«Siamo contenti, un grande lavoro della procura», ha detto la portavoce del Comitato parenti delle vittime, Egle Possetti, all’uscita dal tribunale. «Adesso un primo giudice ha confermato la validità dell’accusa. È la giornata più importante di questi quattro anni».

Nel corso dell’udienza, il giudice ha fatto sapere che sono state accolte le richieste di patteggiamento avanzate da Aspi, Autostrade per l’Italia, e Spea, controllata da Atlantia e Aspi responsabile della manutenzione. Le due società, coinvolte nel procedimento, avano chiesto il patteggiamento a metà marzo. Pagheranno quasi trenta milioni di euro, uscendo dal processo. 

Gli imputati sono accusati a vario titolo, di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, omissione d'atti d'ufficio, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sui luoghi di lavoro.

La Concordia. Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 19 aprile 2022.  

La tragica fine del Titanic ha portato con sé 1500 vittime, misteri, eroi e codardi. O meglio uno, che più di tutti si è conquistato la famigerata nomea di pusillanime: Bruce Ismay, l'amministratore delegato della White Star Line, è stato addirittura definito uno dei più grandi codardi della storia perché si mise in salvo in una delle poche scialuppe che il transatlantico aveva a disposizione. 

In seguito all'inabissamento del Titanic nel suo viaggio inaugurale da Southampton a New York, che come sappiamo finì la notte tra il 14 e il 15 aprile contro un iceberg che spezzò in due la nave, Ismay ricevette attacchi durissimi dalla stampa americana e britannica, nonostante le inchieste giudiziarie successive non gli attribuirono alcuna responsabilità.

Oggi uno suo discendente ha riscritto questa pagina di storia in suo favore. Nel suo libro Clifford Ismay ha raccolto le testimonianze delle ultime ore del Titanic. Il suo antenato, scrive l'uomo, svegliato nel cuore della notte dal boato dell'incidente, sì è dato fare senza sosta per organizzare lo sbarco dalla nave e soprattutto aiutare le donne a salire sulle scialuppe, indipendentemente dalla classe del loro biglietto.

«Non importa se sei dell'equipaggio avrebbe detto a una dipendente che non voleva salire stando al racconto del marito, che l'ha ringraziato per averla salvata sei una donna, sali sulla scialuppa». Ismay lavorò instancabilmente, ancora in pigiama, per cercare di salvare più persone possibile e poi, quando l'ultima lancia stava per essere calata in mare con alcuni posti liberi, fece un balzo dentro di essa, e si salvò. Quando la Carpathia giunse sul posto e prestò soccorso ai 700 superstiti, era in stato di shock.

 «Sul Titanic i suoi capelli erano neri con qualche riflesso grigio. Ora erano bianchi come la neve. Non ho mai visto un uomo così distrutto. Ho tentato di distrarlo ma aveva lo sguardo fisso nel vuoto e non parlava», aveva precisato Jack Thayer, passeggero 17enne di prima classe.

«Era ossessionato dall'idea che sarebbe dovuto affondare con la nave perché questa era stata la fine di molte donne», aveva dichiarato l'ufficiale Charles Lightoller. «Continuava a ripeterlo». E mentre chi lo soccorse cercava di convincerlo di aver fatto la cosa giusta, la stampa lo accusò di codardia. Soprattutto, si legge nel libro, quella di William Randolph Hearst, che contro di lui aveva il dente avvelenato da tempo per questioni personali. Venticinque anni prima frequentavano entrambi l'alta società di New York ma quando Hearst chiese a Ismay di diventare suo socio, questo rifiutò perché mal giudicava il suo tipo di giornalismo. Un rifiuto dal quale Hearst si sarebbe vendicato.

Da lanazione.it il 6 aprile 2022.  

La Guardia di Finanza in Comune all'Isola del Giglio. Ci sarebbero indagini della Corte dei Conti sui bilanci dell'Ente, indagini che riguardano anche il periodo della Costa Concordia. In particolare, un accordo-indennizzo che portò nelle casse del Comune 3,5 milioni di euro da parte di Costa Crociere per tutti i soldi che il Comune stesso anticipò durante la piena emergenza, tra vitto per i soccorritori e altri tipi di sostegno a chi lavorò introno al relitto.

Le Fiamme Gialle si sono presentate in Comune nella mattina di martedì 5 aprile. Sono stati acquisiti i bilanci di dieci anni. 

La Guardia di Finanza vuole fare luce, secondo quanto emerge, su un accordo transattivo da 3,5 milioni tra il Comune dell'Isola del Giglio e gli assicuratori di Costa Crociere. Soldi di cui non ci sarebbe traccia nei bilanci, secondo un esposto presentato della minoranza in consiglio comunale, che al Giglio è di centrosinistra, col Pd capofila.

«La visita della guardia di finanza - dice il sindaco di Isola del Giglio Sergio Ortelli, al terzo andato da primo cittadino - ha avuto lo scopo di reperire documenti di bilancio e scaturisce da un esposto presentato alla Corte dei Conti. La notizia, che spesso è riconducibile alla normalità dei controlli doverosi che vengono effettuati ogni anno, è stata fatta uscire ad arte da chi, probabilmente, ha promosso la denuncia».

«Ogni anno leggo di polemiche e contestazioni delle azioni messe in campo, cui sono sempre pronto a rispondere in maniera trasparente e costruttiva - aggiunge -. Evidentemente a qualcuno questo non va bene e preferisce ragionare in maniera diversa. La cosa non mi preoccupa, anzi credo che sia un momento per dimostrare, una volta per tutte, che all'Isola del Giglio tutto è sempre stato fatto in maniera regolare, nonostante che in questi dieci anni abbiamo dovuto affrontare situazioni straordinarie, come la vicenda Concordia o l'emergenza pandemica». 

(ANSA il 26 marzo 2022) - Non ci sarà revisione del processo per Francesco Schettino, il comandante della Costa Concordia, la nave da crociera finita contro gli scogli dell'Isola del Giglio (Grosseto) il 13 gennaio 2012. 

La richiesta dei suoi difensori si infrange sulla corte di appello di Genova che ha detto 'no'. Perciò la sentenza rimane quella partita dal tribunale di Grosseto e che poi è via via arrivata a essere definitiva in Cassazione: 16 anni di condanna di cui, peraltro, Schettino ha già scontato i primi cinque nel carcere di Rebibbia a Roma.

Gli avvocati Saverio Senese e Paola Astarita avevano presentato un'istanza di revisione relativa a una delle accuse della condanna, quella per l'omicidio colposo delle 32 vittime della nave, ma non per le altre accuse con cui è stato condannato in via definitiva cioè lesioni, naufragio, abbandono della nave, mancate comunicazioni alle autorità. I difensori di Schettino hanno sempre ritenuta errata l'accusa di omicidio colposo e faranno ricorso alla Corte di Cassazione contro la decisione della corte di Genova.

"Siamo sempre convinti che l'accusa di omicidio colposo a Schettino sia stata errata sulla base di valutazioni di elementi di natura scientifica, tecnica, ingegneristica - ha spiegato l'avvocato Saverio Senese - per questo abbiamo presentato l'istanza di revisione anche se siamo nella condizione di Davide contro Golia. 

Schettino non poteva disporre dell'apparato peritale di equivalente livello di chi lo accusava e anche noi facciamo tentativi che trovano difficoltà. Tuttavia rimaniamo convinti che l'accusa di omicidio colposo per i 32 deceduti sia infondata e proponiamo ricorso in Cassazione".

Tra le ricostruzioni tecniche del naufragio, molto fu studiato sulla rotta ma anche molto sugli aspetti tecnici della nave, sul funzionamento degli impianti e delle macchine, sulle condizioni di sicurezza a bordo e sulle modalità di soccorso in caso di emergenze. Aspetti che secondo l'avvocato Senese tolgono molto alla sussistenza dell'accusa di omicidio colposo per Francesco Schettino.

Invece, ha sottolineato il legale, la corte di appello di Genova ha deciso sulla base delle "perizie e consulenze agli atti del processo di Grosseto" mentre "avrebbe dovuto disporre proprie perizie, necessarie a un nuovo approfondimento scientifico che serve fare", tra l'altro "la loro decisione è basata su poche scritte".

Dunque, "presentiamo ricorso in Cassazione perché la corte di Genova - ha spiegato sempre il difensore di Schettino - non ha affrontato, come secondo noi sarebbe stato più idoneo, le questioni e le problematiche che avevamo sollevato nella nostra richiesta di revisione".

Secondo l'avvocato Senese, inoltre, per Francesco Schettino c'è stato un "difetto di difesa" nella sua vicenda processuale e anche la richiesta di revisione del processo con un nuovo dibattimento sull'accusa più pesante potrebbe essere un modo per compensare tale sbilanciamento. D'altronde su questa linea lo stesso avvocato difensore presentò ricorso alla Corte europea dei diritti dell'Uomo di Strasburgo già quattro anni fa. La domanda superò nel 2018 un primo vaglio di ammissibilità ma ancora oggi Schettino e i suoi legali sono in attesa della fissazione della data per discutere la causa.

La notte della Costa Concordia, la tragedia in due documentari. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2022.   

«Costa Concordia - Cronaca di una catastrofe» e «Costa Concordia – Trappola in mare» hanno riproposto le drammatiche fasi di uno dei più grandi disastri marittimi dai tempi del Titanic. 

La sera del 13 gennaio 2012 alle 21.45 la nave Costa Concordia, in navigazione da Civitavecchia a Savona per una crociera nel Mediterraneo, urta il più piccolo degli scogli de Le Scole, situato a circa 500 metri dal porto dell’Isola del Giglio: l’incidente provoca uno squarcio di 70 metri nello scafo. A dieci anni dal naufragio, ho visto due documentari che hanno riproposto le fasi più drammatiche di uno dei più grandi disastri marittimi dai tempi del Titanic: su Rai2 «Costa Concordia - Cronaca di una catastrofe» (una coproduzione Zeitsprung Produktion con Rai Documentari e Sky Studios) e su Nove «Costa Concordia – Trappola in mare» (prodotto da ITN Productions). Il ricordo della tragedia vissuta quasi in diretta è ancora vivo: quella notte morirono 32 persone. Cosa è successo esattamente su quella nave? Perché quell’albergone galleggiante con a bordo 4.229 persone si è afflosciato come fosse di cartapesta? Come si sono comportati i membri dell’equipaggio, i passeggeri e i soccorritori?

Ecco, i documentari tentano di ricostruire quella notte con testimonianze dei sopravvissuti e dei soccorritori (toccante quella di Mario Pellegrini, vicesindaco del Giglio, che salì a bordo sulla nave capovolta lasciandola solo all’alba), con filmati inediti, con analisi di esperti. Tentano cioè di dare un senso a quel dramma che senso non ha: sulla Concordia, «nave senza nocchiere», era saltata tutta la catena di comando, da Genova all’isola del Giglio. Schettino è diventato il capro espiatorio, ma tutti sapevano, a terra e in mare. Il concetto di responsabilità è uno dei principi più preziosi che abbiamo perduto, tanto c’è sempre qualcuno che discolpa o giustifica. Alla lunga, non c’è da stupirsi se un comandante viene meno al suo principale compito, perché il suo ruolo ormai è completamente svuotato. Il senso del dovere resta una sorta di rassegnazione endemica.

Simone Innocenti per corrierefiorentino.corriere.it il 13 gennaio 2022.

La mia Concordia iniziò così. Con un messaggio che il direttore di allora del Corriere Fiorentino mi aveva mandato sul cellulare: «Ma dove diavolo sei?» e tre chiamate senza risposte, che erano le sue. Erano le 5 del mattino o una notte buia. Comunque una notte che non mi sarei mai scordato. Quella tra il 13 e il 14 gennaio di dieci anni fa.

La prima cosa che feci fu richiamare al volo il direttore. Non mi disse neppure pronto, ma solo «Vai all’isola del Giglio, muoviti: c’è stato un naufragio». Chiesi cosa si sapeva, rispose che l’Ansa aveva battuto di un disastro, non risultavano morti, le informazioni erano ancora frammentarie e «quindi parti al volo: sei ancora lì?».

Buttai in una sacca diversi vestiti, alla rinfusa. Scesi a casa dei miei genitori, mamma era sveglia, le dissi quello che sapevo, lei mi preparò un caffè. «Stai attento, guida piano», disse. «Guido che sono in ritardo», risposi. 

Al Giglio non c’ero mai stato e non sapevo neppure come arrivarci: poco importava. Schizzai come un razzo, la macchina mangiava asfalto mentre il giornale era in assetto da guerra: la redazione puntava su questa storia, aveva mandato tutti i cronisti. Nessuno di noi sapeva cosa si sarebbe trovato davanti.

Qualcosa lo capii a Porto Santo Stefano, verso le 9 del mattino. Un’infilata di bus che mi impressionò. Cartelli che indicavano la nazionalità dei crocieristi. Facce di persone scampate a una tragedia. La certezza arrivò verso le 11 del mattino direttamente dall’isola dove solo alcuni colleghi erano riusciti ad arrivare: il sindaco Sergio Ortelli aveva detto in video al sito de La Stampa che c’erano almeno sette morti.

La mattina iniziava malissimo e anche se non c’erano le fiamme che avevano distrutto la stazione di Viareggio – come successe il giorno della strage – questa storia si annunciava piuttosto complicata. 

«Tu fai l’inchiesta»: solito messaggio del direttore. Imprecai ad alta voce che tanto nessuno mi sentiva: seguire l’inchiesta è difficile, soprattutto quando vai in un posto per la prima volta e non conosci nessuno.

Che ne sapevo io delle navi? Di come funziona un’imbarcazione da crociera? Mi attaccai al telefono: qualcuno le indagini doveva farle, bastava capire chi. Il baricentro operativo si spostò alla Compagnia carabinieri di Orbetello, dove c’erano già altri colleghi: ero arrivato esimo. Di più: la notizia del fermo del capitano Francesco Schettino fu data dal Tgr di Radio Raiuno e io non ne sapevo nulla. Non ero arrivato esimo, in questo caso ero arrivato ultimo.

Quella sera raccattai quello che si poteva raccattare, rabberciai qualcosa e spedii un pezzo al giornale mentre le agenzie iniziavano a battere i primi morti e i miei colleghi del giornale ogni tanto mi davano notizie dall’isola. La sera del 15 gennaio mi sistemarono in un hotel a Porto Ercole: è un particolare importante, questo. 

Assieme a quello più importante, ammesso si possa chiamare particolare e non assoluto, come si dovrebbe invece chiamare: dalla conta dei dispersi mancava Dayana Arlotti, una bambina di 5 anni di Rimini.

Fu nel momento stesso che lo seppi a cambiare tutto: fu una frana improvvisa, il tu per tu col dolore che ogni nerista affronta nelle storie di morte. Perché era chiaro che quella bambina era morta ed era chiaro che era una morte atroce, insensata. Come tutte le morti dei bambini, che quando se ne vanno non chiedono neppure scusa, non dicono nulla: muoiono da soli. 

Ricordo che piansi. Non lo so perché, non la conoscevo. Ma piansi come piansi per i piccoli Piagentini, anche loro morti in un’altra tragedia, quella di Viareggio. Piansi non perché li conoscevo, ma perché mai – questi bambini – avrei potuto conoscerli: mi sembrava tremendo.

E mi dissi – dentro di me lo gridai come giuramento – che quella morte non sarebbe rimasta impunita. Che avrei fatto di tutto per raccontare chi quella morte aveva provocato. Da quel momento in poi non fu più muoversi sul terreno dell’inchiesta ma sulle frontiere del dolore. Le stesse – temo – che affrontarono fino a varcarle i vigili del fuoco che, il 23 febbraio 2012, trovarono quel corpicino nella plancia della nave. 

A quell’hotel dove ero in quei giorni avevo assistito a una scena: i legali di Schettino – gli stessi che erano in caserma dove il capitano fu fermato – erano al tavolo assieme ad altre persone. Su quel tavolo c’era un biglietto: Carnival, che era il colosso americano proprietario della Concordia.

I commensali aspettavano un signore perché c’era un posto vuoto e solo quando questo signore arrivò stapparono le bottiglie per bere, ma lo fecero dopo di lui. In segno di rispetto. Di fronte a un uomo che esercitava il potere con pochi gesti calibrati. 

Capii così che seguire quell’inchiesta poteva farmi impattare con quel mondo e che dovevo prendere qualcosa più di qualche accortezza. Scacchi: fu questa la parola che mi venne a mente quella sera. La mattina successiva il mio giornale sarebbe uscito con la seguente notizia: agli inquirenti risulta una telefonata tra la Concordia e la Capitaneria di Porto.

Qualcuno di quel tavolo mi guardò distrattamente: nessuno sapeva che ero un giornalista e nessuno di quel mondo avrebbe mai dovuto saperlo. Gli sorrisi: avevo fatto la mia prima mossa. 

Il 17 gennaio ci fu l’udienza di convalida del fermo al Tribunale di Grosseto: era fissata verso le 11. Io ero in piedi alle 6 del mattino, uscii verso le 7 e faceva freddo. Del tempo – poi – non ho mai parlato quando in altri sedi mi hanno chiesto che cosa avessi fatto quella mattina.

Tuttavia ho sempre ripetuto esattamente quello che adesso scrivo: poiché a mia mamma dà fastidio l’odore del fumo e siccome io fumo – lo so, è un vizio bruttissimo ma fumo – lascio quando posso il finestrino leggermente abbassato come ho fatto questi giorni visto che il parcheggio dell’albergo è sorvegliato. 

Di modo che – ho sempre ripetuto – quando mi sono seduto alla guida e ho visto una chiavetta Usb, ho subito pensato che l’avessero buttata nella mia auto dalla fessura del finestrino che lascio aperto perché fumo. E a questo punto non ho fatto altro che prenderla e rigirarmela tra le mani. Poi ho fatto la cosa più ovvia, quella che tutti avrebbero fatto: l’ho inserita nel computer.

Quello che non ho mai detto è che quando ascoltai per la prima volta quelle telefonate ero incredulo. Cioè mi dissi: non è possibile. Ma non che le stia ascoltando ma che qualcuno – vale a dire Schettino – risponda a quel modo a un signore che, seppi in quel momento, si chiamava Gregorio De Falco. 

Riascoltai le telefonate altre due volte: avevo tempo, l’interrogatorio iniziava alle 11 ed erano appena le 7,40. Così vagolai con la macchina fino a quando non trovai – e questo invece non l’ho mai detto, neppure in altre sedi – una persona dentro un negozio con un computer aperto. Entrai, chiesi la cortesia di poter inviare dei file a un indirizzo.

La persona mi guardò stralunata, spiegai che era un’emergenza: voleva per caso sentirli? Fece un cenno affermativo, alzò il volume. A neppure trenta secondi dall’ascolto, si stufò: «Li mandi pure, sono cose innocue». Al giornale i file arrivarono dunque da un altro indirizzo. E non dal mio computer. 

Mi assicurai che i file fossero integri, la collega dell’online disse: «Tutto a posto». E a quel punto feci quello che si doveva fare: presi la famosa chiavetta, la frantumai con un sasso, raccolsi i pezzi, li sparsi ovunque. Venissero pure a perquisirmi, tracce non c’erano.

Facessero pure i tabulati telefonici, avrebbero trovato chiamate col giornale, con mia madre e una miriade di contatti. Tutti fiorentini. Non un numero di Grosseto, figurarsi di inquirenti grossetani o gigliesi. 

Poi scoppiò il finimondo. Quelle telefonate fecero il giro del mondo. Non so se siamo finiti anche su Tele Lapponia ma sulla Cnn sì e col logo del Corriere Fiorentino. Non pensai mai per un attimo a nulla che non fosse l’inchiesta perché dieci anni fa tra il Giglio e Grosseto non c’erano giornalisti ma batterie intere di inviati dei più importanti giornali e telegiornali di tutto il mondo. Dovevo filare l’inchiesta e tenere a bada una redazione che ogni tre per due chiamava e diceva: ma un altro file? 

Mi svegliavo presto e andavo a letto tardi: 12-14 ore di lavoro vero e quotidiano solo e sempre su un’inchiesta. I file furono l’acme di quel lavoro giornalistico ma per me valgono quanto tutte le altre notizie che trovai per primo: i presunti corto-circuiti tra Capitaneria di Porto e Costa, il mistero del pc di Schettino che era scomparso e poi era riapparso, la causa di lavoro tra Schettino e la Costa (quella al Tribunale di Genova dove l’ex capitano sostenne che un funzionario gli aveva negato i rimorchiatori a soccorrere la Concordia perché costavano troppo: frase che poi finì nel processo di Grosseto), la foto della biscaggina sulla quale era scappato Schettino, la testimonianza di Palumbo, tutti i racconti di chi era in plancia di comando. 

Fu questa la Concordia, per il mio giornale. Per me invece fu un bravo che mi disse mia madre. «Bravo – mi disse – perché in questa tragedia è morta una bambina di 5 anni e hai fatto bene a dire a tutti come mai è morta». E a quel punto pianse, forse pensando a mia sorella Carla che era morta a 6 anni per via di un’operazione sbagliata. E senza che nessun giornalista abbia mai raccontato a qualcuno come mai morì.

Costa Concordia, il naufragio 10 anni fa: una storia tragica di sciatteria (e di rimozione collettiva). Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022.

A 10 anni dal naufragio, bisogna ricordare quanto accadde. La sera del 13 gennaio 2012, davanti all’Isola del Giglio, la grande nave da crociera affonda dopo un urto contro gli scogli. I morti furono 32, il capitano Schettino verrà condannato a 16 anni.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di «7» in edicola venerdì 7 gennaio, a pochi giorni dal decennale della tragedia della Costa Concordia

La prima immagine è quella della Costa Concordia riversa su sé stessa, come fosse un gigantesco animale morente. Così apparve all’alba del 14 gennaio 2012 ai primi giornalisti e ai soccorritori che dalla terraferma stavano raggiungendo l’Isola del Giglio sul consueto traghetto di linea della Toremar. All’improvviso, il filo dell’orizzonte si fece più spesso, per via di una massa bianca, che più ci si avvicinava e più diventava fuori scala, non stava dentro l’occhio delle persone e neppure nelle fotocamere dei telefonini di allora. Quando il traghetto imboccò il porto, lasciandosi a destra la spiaggia della Gabbianara, dove giaceva quel cetaceo preistorico fatto d’acciaio, calò un silenzio generale. La sola lettera iniziale del suo nome, scritta in rilievo sullo scafo riverso, era alta 21 metri. Il bilancio era ancora incerto. Ma quella visione quasi inaccettabile per i nostri sensi era la prova del fatto che era successo qualcosa di enorme, qualcosa che mai sarebbe dovuto accadere.

«Quelle c… di rocce non dovevano essere qui»

Alle 9.30 di quella mattina, un uomo consulta un personal computer appoggiato al banco della reception dell’hotel Bahamas, l’unico aperto in quel periodo di bassa stagione. Nonostante l’ora, ha l’aria stravolta, sembra un pulcino bagnato. Sta sudando. Ha gli occhi gonfi che passano di continuo dallo schermo del laptop a una carta nautica turistica, di quelle fatte per gli ospiti che vogliono scegliere in quale spiaggia passare la giornata. È impegnato in un soliloquio, parla e impreca, rivolgendosi solo a sé stesso. «Quelle c… di rocce non dovevano essere qui» sussurra battendo il pugno sul bancone. «Sembrava la secca del Zanneo », mormora a voce leggermente più alta. Antonio Fanciulli, il proprietario dell’albergo gli dice a voce più alta che si sbaglia, la secca del Zanneo si trova a 1.5 miglia nautiche più a sud degli scogli delle Scole, un complesso di tre rocce sulla più esterna delle quali la Costa Concordia ha sbattuto di poppa, un urto prolungato che ha sventrato lo scafo nella parte sommersa, producendo un taglio lungo settantacinque metri e largo due, uno squarcio che ha aperto la nave all’altezza delle cabine dell’equipaggio. È un dialogo a suo modo illuminante. Quell’uomo che sembra un pulcino bagnato, anche se ha chiesto un cambio d’abiti a Fanciulli, che gli ha dato pantaloni e maglione del figlio adolescente, non ha la più pallida idea del punto preciso dell’incidente che ha causato l’affondamento della sua nave e la morte di 32 persone, e che ha segnato la sua rovina personale.

«Una normale manovra turistica»

Il comandante Francesco Schettino sembra invece una persona che si muove tra la rassegnazione di chi ha capito che l’irreparabile ormai è avvenuto e puro esercizio dell’istinto di sopravvivenza, attraverso una autodifesa obbligata che fin dall’inizio apparirà sempre forzata, quasi innaturale. «Io ho eseguito una normale manovra turistica» dirà durante una improvvisata conferenza stampa, che si tiene con lui che parla dalla cima delle scale che portano alle stanze del Bahamas. «Quello scoglio non era segnato sulle carte» aggiunge, con un imbarazzo visibile, mentre gli tremano le mani e viene tenuto a braccetto da due dirigenti della Costa crociere che gli parlano nell’orecchio suggerendogli di dire il meno possibile. Accetta di rispondere a una sola domanda, contravvenendo ai consigli dei suoi sorveglianti. Perché è il punto che più gli sta a cuore. «Non è vero che ho abbandonato la nave, me ne sono andato per ultimo». Tre frasi, tre bugie. I carabinieri lo vengono ad arrestare nel tardo pomeriggio.

UNA DONNA LO VEDE A TERRA E GLI CHIEDE: «LEI CHE CI FA QUI? NON DOVREBBE ESSERE SULLA NAVE?». SCHETTINO RISPONDE DICENDO DI ESSERE SCIVOLATO, CADENDO IN UNA SCIALUPPA DI SALVATAGGIO. POI CHIEDE SE C’È UN POSTO DOVE DORMIRE

La sua permanenza sull’isola non è durata neppure ventiquattro ore. Lui racconterà che quel lasso di tempo gli è stato sufficiente per capire di non essere il benvenuto. «Lei cosa ci fa qui?» gli ha chiesto subito dopo il naufragio la signora Franca, che abita in un appartamento affacciato sul porto. Era pronta per andare a dormire, quando un’ultima occhiata a Facebook le ha rivelato che una nave stava affondando davanti a casa sua. Si mette indosso il giaccone del marito ed esce di corsa, insieme agli altri gigliesi forma una catena umana che sta aiutando i passeggeri terrorizzati a raggiungere la terraferma. È lei a notare il comandante a terra. «Scusi, ma lei non dovrebbe stare lassù?». E indica la Concordia, dalla quale arrivano ancora delle urla. I gigliesi conoscono la legge del mare. Prima le donne e i bambini, ultimo il comandante. Quella domanda pesa più di qualunque altra accusa verrà poi formulata dalla magistratura. E contiene un giudizio morale, forse una condanna già definitiva. Schettino risponde dicendo di essere scivolato cadendo in una scialuppa di salvataggio. Poi chiede se c’è un posto dove andare a dormire.

A casa del capo maître della Concordia

Nelle storie di cronaca esistono momenti in cui all’improvviso tutto appare chiaro, e si capisce un evento per quello che davvero è stato. Prima che diventi altro, che venga filtrato dalle ricostruzioni giudiziarie, dalle perizie di parte, dalle mille sovrastrutture anche mediatiche che si addensano intorno a un fatto di rilevanza internazionale. Quell’attimo arriva la mattina del 15 gennaio, due giorni dopo il disastro, con il sole che splende in cielo. La casa della famiglia Tievoli è in cima al promontorio che si apre sul porto del Giglio. Su ognuno dei quattro citofoni della villetta in mattoni rossi c’è scritto lo stesso cognome. Mamigliana e Giovanni, i genitori del capo maître della Costa Concordia Antonello Tievoli, sono persone gentili e accoglienti. Offrono un caffè. «Eccolo il nostro figliolo» dicono indicando un uomo brizzolato in divisa che sorride da una foto in cornice appoggiata sulla mensola sopra il televisore. Non sanno quel che si dice in paese. «Tutto questo disastro per un favore», racconta la gente che ha soccorso passeggeri e membri dell’equipaggio. 

Non sanno neppure che alle 21.08 di quel 13 gennaio, quando mancano meno di trenta minuti all’impatto, Antonella, la loro figlia minore, maestra elementare al Giglio, ha postato su Facebook questo messaggio: «Tra poco passerà vicina la Concordia di Costa Crociere, un salutone a mio fratello che a Savona finalmente sbarcherà per godersi un po’ di vacanza». E una settimana prima, il 6 gennaio, giorno del penultimo ultimo passaggio della Concordia, Antonella scrive sulla sua bacheca: «Sto facendo i segnali luminosi, chissà se mi vede».

IL 1° OTTOBRE 1993 ERA STATA LA DATA DI NASCITA DELL’ “INCHINO”, LA DEVIAZIONE DELLA NAVE PER RENDERE OMAGGIO A UNA PERSONA O AI SUOI FAMILIARI CHE ASSISTONO AL PASSAGGIO DALLA TERRAFERMA. «FU LA PRIMA VOLTA DI UNA NAVE COSÌ GRANDE, CHE EMOZIONE»

In un magazzino del porto di Genova, il telaio metallico di uno dei sei motori Wärtsilä da 12.600 kW che hanno alimentato la Costa Concordia. All’epoca della sua costruzione, nel 2006, era la più grande nave passeggeri italiana e anche la più grande nave passeggeri europea 

Quando i coniugi Tievoli aprono la porta ad alcuni giornalisti, sono ignari del fatto che il loro Antonello è l’anello di congiunzione di questa storia. A quel tempo ha 52 anni, ha una moglie e una figlia con le quali vive ormai lontano dall’isola. È il veterano della Costa Concordia, dove ricopre un ruolo di responsabilità, perché coordina un piccolo esercito di quasi cinquecento camerieri. È l’unico gigliese a bordo. È l’unico ad avere una famiglia da salutare quando passa vicino all’isola. Tievoli è anche parente stretto del comandante Mario Terenzio Palombo, figlio di gigliesi ma nato a Savona, come nei giorni successivi terrà a precisare in ogni intervista. Quasi a prendere una distanza anche anagrafica da quel luogo meraviglioso dove lui è persona di riguardo, luogo che però è diventato scena del delitto, teatro di una tragedia che ha fatto accorrere i media di tutto il mondo. Ormai in pensione dopo 43 anni di navigazione, 25 dei quali al timone delle navi di Costa Crociere, per molti abitanti dell’isola Palombo è stato il lasciapassare per un impiego nella compagnia.

Tanta gente gli è debitrice, a cominciare da Tievoli, che non ha mai fatto mistero della sua gratitudine. Un venerato maestro, che tra i suoi allievi ha avuto anche Francesco Schettino, suo vicecomandante per almeno due anni. Nell’ottobre del 2008 il comandante Palombo ha pubblicato un libro di memorie, tiratura duecento copie, un’opera da regalare agli amici, intitolata La mia vita da uomo di mare: da Camogli all’Isola del Giglio, dalle navi da carico ai prestigiosi comandi di navi passeggeri. È una specie di bilancio esistenziale redatto sotto forma di diario di bordo, con il racconto di ogni traversata, di ogni viaggio. «Verso le 22.00 ebbi anche l’opportunità di passare davanti al porto del Giglio, rallentare sensibilmente la velocità, transitare molto rasente alla costa e salutare la mia isola. Era la prima volta che una nave così grande, l’ammiraglia della “Costa” e della flotta italiana, passava così vicino e salutava la popolazione accorsa sul molo. Una grande emozione». Primo ottobre 1993. La data di nascita dell’inchino, la deviazione della nave per rendere omaggio a una persona o ai suoi familiari che assistono al passaggio dalla terraferma. Dopo la tragedia della Costa Concordia, ogni frase di quel memoriale assume una luce nuova, anche sgradevole per il suo autore. Venticinque luglio 1996: «Ci avvicinammo lentamente al Giglio e quando fummo vicinissimi vidi mio padre sulla punta del molo, con il binocolo a tracolla». Ventuno novembre 1998, dove si parla dello scoglio diventato celebre in tutto il mondo: «Puntai sulle Scole rallentando gradualmente la velocità… la gente che era alle finestre segnalò la sua presenza accendendo e spegnendo le luci. Fu una bella emozione».

L’inventore della «manovra»

Palombo trascorrerà gli anni seguenti a difendere, con buone ragioni, il proprio passato. L’inchino era una pratica comune, dipende da come lo si faceva, talvolta capitava anche che fosse una richiesta della compagnia armatrice. È quel che accade la sera del 13 gennaio 2012. Quando sul ponte di comando il cortocircuito tra passato e presente diventa completo. Schettino invita Tievoli a salire per godersi il momento. Insieme chiamano Palombo, avvisandolo che si accingono a rendere omaggio anche a lui. Sul contenuto di quella telefonata le versioni divergono. Sembra che l’anziano maestro abbia avvisato l’allievo che si trovava nella sua casa di Grosseto, ben lontano dal mare, e non al Giglio. Sebbene inventore di quella manovra, non era dunque lui il destinatario principale dell’inchino. Tutto appare chiaro nella sua semplicità quella mattina a casa Tievoli. Dopo il caffè, la mamma del maître concede a un cronista anche il permesso di uscire sul balcone a fumare una sigaretta. La finestra della sala da pranzo è affacciata sul mare. Quando c’è sole, la casa è inondata di luce. In tutto quell’azzurro bisogna sporgersi e scrutare sotto per vedere le uniche tre macchie scure. Sono gli scogli delle Scole.

COME ERAVAMO DEPRESSI IN QUELL’INIZIO DI 2012. ERAVAMO LA PECORA NERA D’EUROPA, A RISCHIO DEFAULT, LO SPREAD IMPAZZAVA

Il 27 luglio 2014 due rimorchiatori hanno portato la Costa Concordia a Genova per lo smantellamento da parte del Consorzio Ship Recycling. Oltre 350 lavoratori hanno lavorato 1 milione di ore per recuperare più di 65.000 tonnellate di materiale. Costo totale: 104 milioni 

Come stavamo depressi, in quell’inizio di 2012. Eravamo la pecora nera d’Europa, a rischio default, con lo spread che impazzava e aveva reso quasi obbligatorio un cambio di governo, con Silvio Berlusconi e gli eccessi non solo verbali della sua ultima stagione al potere che avevano ceduto il posto all’austerità di Mario Monti. Era da poco stato pubblicato l’annuale stato della nazione dell’Istat, dove si dimostrava come mai prima d’allora ci eravamo sentiti così poco orgogliosi di essere italiani. Le agenzie di rating menavano forte, Moody’s e Standard & Poor’s ci declassavano, la Borsa di Milano era in zona retrocessione, l’Economist esclamava “Povera Italia”, mentre il tedesco Spiegel poneva un simpatico quesito ai suoi lettori: «Qualcuno si stupisce che il capitano della nave fosse un italiano?».

Cartolina da esportazione e morti dimenticati

Quella prima immagine, infine l’unica destinata a rimanere impressa nella memoria collettiva, divenne una parte per il tutto. Come se anche l’Italia si fosse arenata sul fondale dell’Isola del Giglio, o fosse sul punto di affondare. Quel paesaggio rimasto immutato per tre anni divenne una cartolina da esportazione, tanti saluti dal Bel Paese, una citazione quasi obbligata in ogni articolo o servizio che ci riguardasse, la spiegazione semplice di un Paese complicato come è il nostro. La Costa Concordia e Schettino hanno continuato ad affondarci per molto tempo. Nel luglio del 2013 Erin Burnett, autorevole giornalista della CNN, ridacchiò in diretta alla notizia che uno sciopero degli avvocati aveva impedito la ripresa del processo per il naufragio. E con il dito alzato indicò senza aggiungere altro l’immagine della nave adagiata su un fianco. Ne La grande bellezza, un esausto Toni Servillo in versione Jep Gambardella la guarda dall’alto, come se fosse il simbolo della nostra resa, di una società allo sfascio. Davanti a quella balena d’acciaio costretta a una perpetua agonia, resistere non serve a niente. Sembrava che la Concordia fosse destinata a rimanere lì per sempre, dove l’avevano condotta la sciatteria e l’imperizia umana. A ricordarci chi siamo. La metafora indotta dalla Costa Concordia fu così forte che dei suoi morti si parlò poco o nulla. Mai visto un processo di rimozione così veloce. Un mese dopo la tragedia, e nessuno si ricordava un nome.

Schettino ossessione nazionale

Italiani, francesi, spagnoli, americani, peruviani, indiani. A rileggere oggi le loro storie così dolorose, si ha la sensazione che siano stati due volte vittime, oscurate dal peso simbolico di quella vicenda. Anche Schettino divenne ben presto una ossessione nazionale. Grande attenzione venne data ai suoi presunti flirt a bordo, al suo ritorno nella natia Meta di Sorrento che lo difendeva contro il resto d’Italia. E lui, mal consigliato da avvocati più attenti all’aspetto mediatico che a quello giudiziario, non si fece mancare nulla, restando una presenza costante, spesso per via indiretta, per bocca d’altri. L’importante era che ci fosse. Anche solo per ricevere insulti, contumelie e bastonate pubbliche che in Italia mai vengono negate a chi si trova in evidente difficoltà. Eppure, ancora oggi non si può capire la puerilità di quel «sono caduto in una scialuppa» o di quel «vabbuò» con conseguente alzata di spalle come replica all’osservazione sul fatto che i passeggeri stavano cercando scampo da soli. Sul viale principale di Orbetello e Porto Santo Stefano campeggiò a lungo l’immagine di Dayana Arlotti, con sotto la promessa di denaro a chi aveva notizie sul suo conto. Aveva sei anni e si era appena iscritta al miniclub per giocare con gli altri bambini. Adorava suo papà Wiliam, un uomo sfortunato, vittima di una forma rara di diabete che lo aveva costretto a un trapianto rendendolo disabile. L’ultima volta che vennero visti, lei stava piangendo spaventata, mentre sul ponte tutti correvano all’impazzata. Suo papà doveva tornare in cabina per prendere le medicine che gli consentivano di vivere.

L’eroe che rinunciò al posto in scialuppa

Scesero nel buio tenendosi per mano. Ci sono volute poche testimonianze per capire che Giuseppe Girolamo da Alberobello, che a bordo della Concordia suonava la batteria nella Dee Dee Smith Band che allietava le serate dei croceristi, è morto da eroe. Era già in salvo, imbarcato su una scialuppa. Ne è sceso per lasciare un posto a un bimbo, tornare sul ponte e cercare di aiutare le persone anziane che rischiavano di essere travolte dalla calca. E poi tante altre storie, piene di dignità, anche di coraggio davanti a una situazione diventata estrema in un attimo. Persone che avevano affidato la loro vita a gente che non conoscevano, ma che reputavano essere professionisti ed esseri umani seri. «Quando sali sulle nostre navi stringi un patto con noi» diceva un volantino dell’epoca della Costa Crociere. Qualcuno invece ha tradito i passeggeri della Concordia, nel modo più stupido. 

Perché c’è sempre stata una sproporzione evidente tra la dimensione di un disastro epocale e le sue cause. Anche oggi, dieci anni dopo quella notte, il dramma della Costa Concordia si riduce a un impasto di sciatteria, disorganizzazione e incompetenza, nient’altro che questo. All’inizio si speculò molto, e altrettanto fece lei, sulla presenza in tolda di Domnica Cemortan, ballerina moldava che visse una breve stagione da femme fatale capace di distrarre Schettino dai suoi doveri. Ma era poco più di un dettaglio da gossip, una ulteriore nota a margine su un canovaccio ormai definito. Questa è sempre stata una storia senza mistero, una strage come conseguenza di un gioco scemo, fatto su un ponte di comando più affollato di un tram all’ora di punta, dove non esisteva catena gerarchica e tutto veniva gestito con superficialità. Schettino voleva consolare Tievoli, che doveva “scendere” la settimana precedente dopo mesi di navigazione, ma non era arrivato il rimpiazzo ed era dovuto restare a bordo. Così lo chiama sul ponte di comando, là dove non dovrebbe stare. «Antonello vieni a vedere, che stiamo sopra al tuo Giglio», gli dicono. «Attenti, che siamo vicinissimi alla riva», risponde lui. Troppo tardi.

SI CAPÌ PRESTO CHE ERA UNA STORIA SENZA MISTERO, UNA STRAGE CONSEGUENZA DI UN GIOCO SCEMO. UN’OMBRA CHE SFIGURÒ UN PAESE

I consulenti nominati dalla procura di Grosseto scriveranno che Schettino ha guidato la nave «come se fosse un’auto». E non salveranno nulla della sua condotta. La Costa Concordia navigava accanto alla secca di mezzo canale, distante circa 170 metri dal promontorio, in acque sicure perché nel punto più basso il fondale raggiunge i 24 metri, 16 in più del pescaggio della nave. Quando si avvicina al Giglio non lo fa accostandosi, ma con una vera e propria virata verso l’interno, una manovra quasi perpendicolare rispetto alla logica via da seguire in una normale navigazione sotto costa, «ritardando oltre ogni possibile temerarietà il rientro in rotta che le avrebbe consentito di passare in parallelo al fronte del porto». Quasi come se la nave avesse puntato a sfiorare un bersaglio, scrivono gli esperti. A bordo c’erano 420 persone, ignare di quel gioco. 

Quella visita, due anni dopo

Francesco Schettino tornò sull’Isola del Giglio due anni dopo, il 26 febbraio del 2014. Il sopralluogo dei suoi consulenti a bordo del relitto era solo un pretesto. Si fece fotografare in piedi sul ponte del traghetto che lo sbarcò, in raccoglimento davanti alla sagoma di quella che fu la sua nave. Sembrava una messa in scena. C’era qualcosa di rituale e posticcio in quella visita improvvisa, fortemente voluta dal diretto interessato. Ormai il comandante era un altro uomo, completamente trasfigurato dal contatto con una celebrità macabra. Aveva imboccato la via mediatica al suo processo scegliendo di trasformarlo in una specie di format, a ogni occasione un evento, annunciato dai suoi avvocati. Si confinò in una villa sulla collina che domina il porto, con i suoi legali che gli filtravano le telefonate e rilasciavano dichiarazioni ad effetto, sempre le stesse, facendolo parlare come un libro stampato, pieno di riferimenti a sé stesso e privo di una qualunque forma di empatia verso le vittime.

SCHETTINO DIVENNE UN MODO DI DIRE, L’UOMO CHE ABBANDONA LA NAVE, PERSEGUITATO DAL CELEBRE «SALGA A BORDO, CAZZO»

Sembrava quasi che si ostinasse a non capire la propria situazione, a non comprendere le ragioni di opportunità che sconsigliavano quella visita, così come altre dichiarazioni su non meglio precisate cospirazioni ai suoi danni. O, forse, era solo una forma di disperazione che poi si tradusse in un cupio dissolvi pubblico, incoraggiato da una forma morbosa di attenzione da parte dei media, che spesso si dimenticarono del fatto che si raccontava la vita quotidiana di una persona divenuta famosa per aver causato la morte di 32 persone.

Divisa bianca e Champagne a una serata mondana

Ma lui ci mise del suo, questo è sicuro. Venne fotografato a una serata mondana in bianco, con flûte di champagne in mano mentre era in attesa di giudizio. Accettò di partecipare a una lezione alla Sapienza di Roma, poi cancellata per la reazione dell’opinione pubblica. I suoi avvocati trattarono interviste con Barbara D’Urso, persino una partecipazione all’Isola dei Famosi, e vai a sapere se alla fine lui ci sarebbe andato davvero. A una immagine ingiustamente simbolica fu contrapposto un simbolo umano non solo di imperizia, ma anche di apparente strafottenza. Schettino divenne un modo di dire, l’uomo che abbandona la nave, perseguitato dal celebre «Salga a bordo cazzo» pronunciato durante i soccorsi dal comandante della Capitaneria di porto di Livorno Gregorio De Falco, che invece trovò fama e carriera politica proprio perché il confronto tra due italiani così diversi tra loro azzerava, o almeno si sperava fosse così, ogni stereotipo negativo, ogni danno collaterale all’immagine del nostro Paese prodotto dal comandante della Concordia. Nel febbraio del 2015, rilasciò una intervista dal contenuto bizzarro al Corriere della Sera in cui sembrava più preoccupato della reputazione danneggiata a causa della sua strategia mediatica che della condanna in primo grado a sedici anni di reclusione ricevuta pochi giorni prima.

Il tritacarne: «Sono stato tradito da tutti»

Mostrò almeno una qualche forma di consapevolezza, riconoscendo di essere finito un tritacarne dal quale non riusciva più a uscire. «Sono stato tradito da tutti, a cominciare da chi avrebbe dovuto difendermi» disse. E almeno questo è vero. Molti videro in Schettino una opportunità, un filone da sfruttare. E non il semplice responsabile di una tragedia destinata a fare storia.

Adesso sappiamo che non eravamo quell’immagine. All’epoca fu tanto facile quanto ingiusto fare del disastro la cartolina dell’Italia, assecondando una depressione che aleggiava nello spirito del tempo. Ma ci volle uno sforzo davvero collettivo, “di sistema”, per cancellare dalla vista quello scempio. Il raddrizzamento e il risollevamento della nave servirono a voltare una pagina imbarazzante, a separarsi in modo definitivo da quella visione così carica di significati sbagliati. Schettino tacque dopo quell’ultima intervista. La sua condanna divenne definitiva la sera del 12 maggio 2017. Lui attese la sentenza della Cassazione all’esterno del carcere romano di Rebibbia, il suo ultimo colpo di teatro. I suoi nuovi avvocati hanno chiesto la revisione del processo.

Con un peso totale di 114.000 tonnellate, la Concordia era un vero gigante dei mari. La nave è stata fusa a 1.600 gradi a Lonato, in provincia di Brescia, in questo forno elettrico ad arco, che può contenere 100 tonnellate di acciaio liquido alla volta 

L’avventura parlamentare di De Falco

Il capitano Gregorio De Falco lasciò ogni ruolo operativo in Marina e venne promosso a capo dell’Ufficio Studi, un modo per allontanare dai ruoli operativi un personaggio diventato troppo ingombrante per i suoi superiori. Nel 2018 si candidò al Senato nelle liste del Movimento 5 Stelle e fu eletto. L’anno dopo passò al gruppo misto. Da allora ha cambiato altre due formazioni parlamentari. Domnica Cemortan è tornata in Moldavia e ha completato i suoi studi universitari. Oggi è una attivista dei diritti civili nel suo Paese. Il relitto della Costa Concordia arrivò a Genova il 27 luglio 2014, e dal giorno seguente iniziò la sua demolizione. Ci vollero tre anni per recuperare e smaltire 53.000 tonnellate di acciaio e altri materiali. Dal 7 luglio del 2017 non ne resta più nulla, se non qualche oggetto venduto sottobanco ai collezionisti di reliquie.

È solo un nome. I morti, invece, sono ancora morti.

Costa Concordia, bomba del fratello della vittima: "Schettino ha provato a salvare la nave", chi sono i veri responsabili. Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 18 gennaio 2022.

«Per noi la cosa importante era quella di recuperare il corpo di mio fratello Russel e per questo non potrò mai ringraziare abbastanza le autorità italiane che immediatamente si sono prodigate in una ricerca che non era per nulla semplice». Chi parla è Kevin Rebello fratello di Russel, l'ultima vittima ritrovata, la trentaduesima, della tragedia della Costa Concordia di cui, il 13 gennaio scorso, si sono commemorati i dieci anni del naufragio all'isola del Giglio. Riavvolgiamo il nastro dei ricordi di quella drammatica notte dove apparentemente tutto sembra chiaro ma che, probabilmente, ancora non completamente si conosce. Erano le 21.45.07 del 13 gennaio 2012: la Costa Concordia partita da Civitavecchia alle 18 e 57 impattò contro gli scogli delle "Scole" davanti all'Isola del Giglio.

Nel naufragio persero la vita 32 persone e altre 157 rimasero ferite. A bordo c'erano 4229 persone tra passeggeri ed equipaggio. La vittima più giovane, Dayana, aveva 5 anni. Alle 21.04 la Concordia lascia la rotta usuale per effettuare una manovra di passaggio ravvicinato detta "inchino" sotto l'Isola del Giglio, una prassi consolidata e prevista prima della partenza, per omaggiare il maitre Tievoli. In plancia oltre al maitre, il commissario di bordo Manrico Giampedroni e distante appena fuori dalla plancia di comando la hostess moldava Dominika Cemortan, che tanto suscitò clamore. Accortosi di essere fuori rotta, ma non avvisato dai componenti del suo team di plancia, il Comandante Schettino ordina una serie di manovre nei secondi precedente all'urto, nulla da fare. La nave lunga 290 metri urta gli scogli riportando una falla di 70 metri sul lato sinistro. L'acqua arriva al ponte zero , generatore diesel e quadro elettrico vanno in tilt causando un black out. Alle 22 e 31 Schettino ordina l'evacuazione del personale e due minuti viene lanciato il segnale dei 7 fischi brevi seguito da uno lungo che indica l'emergenza generale.

La ricostruzione degli ultimi attimi di molte delle 32 vittime è prima il tentativo di salire sulle scialuppe sul lato sinistro, poi la fuga verso il lato destro rivelatosi fatale, non avendo trovato posti disponibili sulle lance. Alle 00.42 la Concordia è abbattuta sul lato dritto. Alle 1 e 46 la telefonata tra De Falco e Schettino che ha fatto il giro del mondo con il «Vada a bordo cazzo». Come spesso accade rimane impressa nella memoria collettiva un'immagine nitida, in questo caso quello della telefonata, come prova decisiva di una unica responsabilità. In realtà quella telefonata di De Falco era solo una delle sei intercorse tra le autorità marittime, Schettino e il capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Ritorniamo a Kevin, il fratello del giovane cameriere Russel, il trentaduesimo ed ultimo corpo ritrovato a bordo della Costa Concordia. Kevin dalle sue parole non traspare né rabbia né desiderio di vendetta, sentimenti spesso naturali. Come mai? «La nostra è una famiglia profondamente cattolica e credente. Veniamo dall'India, da Mombay, e per noi l'odio porta solo dolore mentre il perdono e la rassegnazione diventano un sentimento che permettono di superare il lutto». 

Questo è davvero molto bello Kevin. Ma prima di arrivare a questo c'è stato almeno un momento di rabbia?

«Certo! Sono, anzi siamo, come famiglia esseri umani ed è naturale che siamo stati attraversati da sentimenti contrastanti. Il primo di sgomento, poi la rabbia, in quanto il tutto si poteva evitare, ed infine il perdono e la rassegnazione che ci hanno messo in pace prima di tutto con noi stessi».

Mi racconta qualcosa di suo fratello Russel. Come mai era a bordo della Costa Concordia?

«Mio fratello si era diplomato alla scuola alberghiera e nella vita avrebbe voluto fare il cuoco. Aveva un'abilità straordinaria con le mani e preparava dei piatti di verdura che erano dei disegni meravigliosi. Però era complicato trovare lavoro in cucina come cuoco ed era molto più semplice servire in sala come cameriere. Inoltre avevamo tanti amici che, tornati dai viaggi sulle navi da crociera, raccontavano la propria esperienza con entusiasmo. Così Russel si è appassionato ed ha deciso di cercare lavoro nelle grandi compagnie».

Ed ha trovato subito posto alla Costa Concordia?

«No prima aveva lavorato per altri armatori importanti di altre nazionalità finché non trovò posto a bordo della Costa Concordia».

Come è venuto a conoscenza di quello che era accaduto?

«Non guardo la televisione a casa ed in più la tragedia è capitata alla sera tardi. Così alla mattina apro il computer e sul motore di ricerca di Yahoo vedo l'immagine della Concordia sdraiata all'isola del Giglio. Mi è venuto un colpo. Ho provato a chiamare Russel ma non c'era nessuna risposta ed il telefono risultava muto. Entro sulla sua pagina Facebook e vedo messaggi a cui lui non risponde ma capisco che era su quella nave che stava lavorando».

Quindi cosa decide di fare?

«Di partire per l'isola del Giglio. Io abito e lavoro a Milano ma non conoscevo l'isola del Giglio e così, dopo aver chiamato il call-center della Costa Concordia ed aver visto che non rispondevano più, decido di andare sul posto. Mi faccio prestare duecento euro da un amico perché non potevo nemmeno permettermi il viaggio».

E quando arrivò al Giglio cosa vide?

«Vidi i primi corpi che venivano recuperati e mio fratello era dato disperso ma ci fu una cosa incredibile ...».

Mi dica ...

«Ad un certo momento la prima persona a cui chiedo di mio fratello e mostro la sua foto è un ragazzo, il cui nome è Riccardo, che fu l'ultimo a vedere Russel perché insieme stavano aiutando i passeggeri a prendere le scialuppe. Ma ad un certo punto quando la nave si sdraiò completamente perse la sua vista. La cosa incredibile è che la prima persona che ho visto a Grosseto ed a cui ho chiesto notizie è stata l'ultima ad aver visto in vita Russel».

Suo fratello fu l'ultimo ad essere recuperato come salma, vero?

«Si, io stetti mesi al Giglio e vi ritornai quando la nave venne raddrizzata per essere trasportata a Genova. Poi, improvvisamente a Genova, due anni e dieci mesi dopo il naufragio al ponte otto venne ritrovato il corpo di mio fratello e dopo 1090 giorni ci venne riconsegnato per poter celebrare le sue esequie».

Lei crede che il comandante Schettino sia l'unico responsabile di questa tragedia?

«Come le ho già detto questa tragedia poteva essere evitata innanzitutto con l'abitudine, pericolosissima e pubblicizzata dalla compagnia di crociere, dell'inchino. Il resto credo sia una serie di casualità davvero terrificanti e, mi creda, anche fortunate».

Fortunate?

«Se il comandante Schettino repentinamente non avesse fatto quelle manovre al timone e la nave si fosse chinata anche solo dieci metri più al largo le vittime sarebbero state migliaia e questo naufragio sarebbe stato davvero terrificante».

Perché dice questo?

«Perché dove si è appoggiata la Costa Concordia la profondità è di venti, trenta metri ma poco più in là ci sono centoventi metri di abisso. Lei provi a pensare quattromila persone che cercano di salvarsi nel mare gelato di gennaio con una profondità del genere».

Lei ha più sentito il comandante Schettino?

«Si, qualche volta e non ho per lui alcun rancore. Però adesso sono arrivato al Giglio per le commemorazioni ed ho bisogno un attimo di raccogliermi intimamente in preghiera per ricordare Russel ed il suo animo gentile».

*** Certo è che la dignità di Kevin mi ha colpito lasciato davvero. Mai ho sentito una parola fuori posto se non di perdono. Per tutti Francesco Schettino è il responsabile unico di un disastro mentre, probabilmente, così non è neppure per un familiare di una vittima. Forse una maggiore chiarezza, soprattutto da parte della informazione, andrebbe fatta per un desiderio di verità che è sempre utile ricercare. 

I nove eroi della Concordia: in tv la loro impresa inedita. Emilia Costantini Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2022.

A dieci anni dalla tragedia, nasce una serie-tv, «Apnea», prodotta da Lux Vide, liberamente ispirata al libro omonimo (Mondadori), scritto Virginia Piccolillo e Luca Cari.  

«Siamo finalmente saliti in cima alla nave, ma non è facile starci. La nave dà grossi scossoni e restare in piedi sulla murata liscia come una lastra di ghiaccio è complicato. Il rumore del ferro che striscia contro la roccia è un gemito che dice tutto. La nave sta andando a fondo. Non so che fine faremo». È la notte del 13 gennaio 2012 quando, per una manovra azzardata, la Costa Concordia urta uno scoglio nelle acque dell’arcipelago toscano nei pressi dell’Isola del Giglio: nel bestione di 114.000 tonnellate si apre una falla di 70 metri sul lato sinistro della carena. Otto vigili del fuoco, col loro comandante, portano in salvo 39 naufraghi. E su 4229 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio, si conteranno 32 morti.

A dieci anni dalla tragedia, nasce una serie-tv, «Apnea», prodotta da Lux Vide, liberamente ispirata al libro omonimo (Mondadori), scritto dalla giornalista del «Corriere della Sera» Virginia Piccolillo e da Luca Cari, responsabile della comunicazione in emergenza del corpo nazionale dei vigili del fuoco, in uscita il 13 gennaio con il podcast di Matteo Liuzzi, Niccolò Martìn, Francesca Gagliardi, con la voce narrante di Carlo Lucarelli e la regia di Laszlo Barbo. «Raccontiamo la storia dei nove vigili che hanno rischiato la loro vita per salvarne altre ed è rimasta nascosta per tutti questi anni — spiega il produttore Luca Bernabei da cui è partita l’idea del progetto —. Nove eroi, finora sconosciuti al pubblico, del più grande disastro navale italiano».

Ritorna così in tv un’avventura inedita.

«Io l’ho saputa per caso, perché frequento da un paio d’anni uno di loro, Sandro Scoccia. Un giorno, mentre eravamo all’Argentario, mi stava dando consigli su come governare una barca. En passant, mi racconta la sua nottata di dieci anni fa tra i passeggeri feriti, intrappolati, smarriti dentro quel colosso che affondava. Resto sorpreso e gli chiedo come mai non si sapeva nulla della loro opera di salvataggio. Mi risponde: perché è il nostro dovere».

Albi, Andre, Bartolo, Beppe, Bronco, Lallo, Massi, Trap: questi i loro soprannomi, cui si aggiunge il comandante Ennio Aquilino.

«Nessuno dei vigili del fuoco vuole sentirsi chiamare eroe. Sono allenati nel corpo e nella mente per affrontare situazioni drammatiche, che vivono come la normalità, ma dove possono restare vittime essi stessi. E infatti poi ne portano le cicatrici: alcuni di loro sono andati in psicoanalisi perché, accanto ai naufraghi che salvavano, c’era purtroppo chi galleggiava senza vita».

Perché il titolo «Apnea»?

«È quella che hanno vissuto nelle dieci ore di soccorso: sapevano di entrare in quell’inferno, non sapevano se ne sarebbero usciti».

Tra le tante vicende umane intercettate in quell’inferno?

«Una giovane coppia di coreani: erano in viaggio di nozze e quella sera quando rientrano in cabina inizia il disastro. E allora si stendono sul loro letto e, mano nella mano, aspettano di morire... invece sono stati salvati. Di un’altra vicenda drammatica è protagonista una hostess dell’equipaggio, con una gamba fratturata. Era pietrificata dal dolore, non poteva muoversi, sarebbe morta annegata, invece sono riusciti a portarla fuori. Però la nostra fiction, che sarà trasmessa da un network internazionale, non è un disaster movie, bensì il racconto di una vittoria del bene sull’orrore di una tragedia».

Che effetto le ha fatto essere tra i 500 più importanti top manager al mondo?

«Ne sono onorato sia perché lo condivido con altri manager italiani e perché il riconoscimento non riguarda solo me, ma l’intero team che lavora per Lux Vide».

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 9 gennaio 2022.

C'era da fare il passaggio all'isola del Giglio. Era una cosa decisa da giorni. «Ricordamelo al ristorante» aveva detto il comandante Francesco Schettino al capo maître Antonello Tievoli. Volevano cambiare rotta per andare sotto costa. Fare un gioco di luci. Il famigerato inchino. «Tra poco passerà vicina vicina la Concordia di Costa Crociere, c'è mio fratello a bordo», scrisse Patrizia Tievoli su Facebook alle 21.08 del 13 gennaio 2012. Alle 21.45 di quella sera ci fu l'impatto contro gli scogli: 32 morti, 4.229 vite stravolte, una delle più grandi vergogne della storia marittima italiana. E non solo marittima.

Metafora del Paese, si diceva allora. Quella nave da crociera rovesciata su un fianco. Per fare un gioco. Sciatteria e imperizia. Il comandante è l'unico in carcere. Schettino che giustificò l'abbandono della nave durante i soccorsi con questa frase: «Sono caduto in una scialuppa». Schettino deve scontare 15 anni e 6 mesi di condanna. A maggio, dopo cinque anni di detenzione, potrà chiedere misure alternative al carcere.

Sta studiando giornalismo e giurisprudenza a Rebibbia, si è sempre considerato «il capro espiatorio» della sciagura, e ancora è convinto di esserlo. Aspetta che la Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo valuti la sua richiesta di revisione del processo. In plancia di comando c'era anche Domnica Cemortan, che aveva 24 anni e faceva la ballerina a bordo della Concordia. Finì al centro dei sospetti e dei pettegolezzi. Anche perché era salita a bordo senza essere registrata. Chiamata al processo in qualità di testimone e dunque con l'obbligo di dire la verità, due anni dopo il naufragio ammise di aver avuto una storia con il comandante: «Quando sei l'amante di qualcuno non ti chiedono il biglietto».

E sulla notte del 13 gennaio, spiegò: «Cenai al ristorante con lui. Mangiavo un dessert col capitano, e a un certo punto Schettino per scherzo fece finta di chiamare gli ufficiali per chiedergli di rallentare la nave perché io dovevo finire il dolce. Sull'avvicinamento al Giglio non mi disse nulla, non ho mai saputo del tragitto che doveva seguire la nave. Solo alla fine della cena mi ha invitata sul ponte di comando». Domnica non vuole più parlare di questa storia, è tornata a vivere in Moldavia. Ha cercato senza successo di fare politica nel partito popolare «Democrazia in Casa».

Ha fondato una Ong a suo nome a Chiinu. Zainetti da scuola per bambini poveri, sostegno a una madre in carcere con cinque figli piccoli, libri per la biblioteca di un penitenziario, tazze per gli orfanatrofi. Registrata come fondazione nel 2015, la Ong di Domnica Cemortan non ha mai presentato un rendiconto economico. L'ex ballerina della Concordia è stata avvistata a Ginevra al summit per la democrazia, in una foto impugna un cartello per i diritti delle donne.

E subito qualcuno le ha ricordato con un commento acido quello che lei sta cercando di dimenticare: «Ehi, non distrarre il capitano!». Non si è salvato nessuno, a ben vedere. Anche l'eroe del naufragio, quello che sempre viene cercato nella semplificazione di ogni storia. Il capitano Gregorio De Falco della capitaneria di Livorno, l'autore della famosa frase rivolta al comandante Schettino: «Salga a bordo cazzo». 

È stato subito tolto dai ruoli operativi e messo a capo dell'ufficio studi: promosso per rimuoverlo. Si è candidato in parlamento con il Movimento 5 Stelle, è stato eletto ma è passato al Gruppo Misto e poi ha cambiato ancora due formazioni parlamentari. Ora tutti gli chiedono di rievocare quella notte tragica: «Avremmo potuto salvarli tutti, perché la nave ha resistito per parecchie ore, benché rovesciata su un fianco. Quella mia frase fu una sorta di preghiera laica. Se Schettino mi avesse ascoltato, se fosse risalito sulla Concordia così come gli avevo detto di fare, lui oggi sarebbe un eroe. O comunque sarebbe ricordato come uno che ha fatto di tutto per salvare vite umane». 

È una storia troppo dolorosa da ricordare. Ma è passato del tempo e lo sgomento sta lasciando il posto a sentimenti più maneggevoli: «Per due o tre anni ho provato grande rabbia verso Schettino. Ma ora provo un po' di dispiacere anche per il comandante. L'intera colpa non può ricadere su di lui». Umberto Trotti, ristoratore di Ferentillo, uno dei sopravvissuti: «Il vero dolore è quello delle famiglie delle vittime».

Estratto dell’articolo di Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 9 gennaio 2022.

[…] L'isola del Giglio, dieci anni dopo la tragedia della Costa Concordia, ha riconquistato i suoi spazi. Nelle acque specchiate davanti al porto sono state ripiantate le posidonie, quattro biologi continuano a lavorarci per ripristinare l'ecosistema, ma ormai il più è fatto. I danni ambientali prodotti dal naufragio del colosso del mare sono un ricordo. […] oggi, l'isola vuole soprattutto voltare pagina. Vuole provare a dimenticare.

Giovedì prossimo la Costa Concordia, i familiari delle vittime, la rimozione di quel gigante dell'acqua, verranno ricordati per il decennale. Una cerimonia importante: torneranno in tanti sullo scoglio. Ma sarà l'ultima volta che i ricordi saranno pubblici. «Questo è l'ultimo anniversario con i riflettori accesi - conferma Sergio Ortelli, sindaco del Giglio da tre mandati -. Dal prossimo anno, silenzio. La tragedia diventerà un fatto intimo. Abbiamo istituito a livello comunale, per il 13 gennaio, una giornata del ricordo per le vittime della Concordia, ma sarà una celebrazione locale».

[…] «[…] dice Matteo Cotta, ormeggiatore del porto, 33 anni, e una testa piena piena di ricordi -. Quello che è successo al Giglio è stata una cosa di livello mondiale. All'inizio quella presenza non ci dava fastidio, eravamo increduli, alla fine, però, ha cominciato a diventare ingombrante. Ogni giorno ci giravo intorno con la barca per vedere quanto stesse sprofondando.

A pochissimi metri c'era l'abisso, il mare lì è profondo fino a 100 metri. Se il vento di Grecale non l'avesse posizionata su quegli scogli, oggi di morti ne avremmo più di 4 mila. Sa cosa si dice qui? […] Che è stato il braccio di San Mamiliano a salvarli. Sta a Giglio Castello, proprio sopra il punto di impatto. È vero, che qui non si vuole più parlare della Concordia, ma io continuo a farlo perché la storia non si dimentica mai. E, se ci arriverò, continuerò a raccontare quello che è successo anche da vecchio». […]

Michela Allegri per “il Messaggero” il 9 gennaio 2022.  

A bordo, tra passeggeri ed equipaggio, c'erano 4.229 persone. Mentre il comandante Francesco Schettino abbandonava la nave, la maggior parte dei naufraghi della Costa Concordia riusciva a salvarsi grazie alle scialuppe, alle motovedette e agli elicotteri di soccorso. Ma 32 persone sono morte. Schettino è stato condannato in via definitiva a 16 anni per omicidio colposo plurimo, lesioni colpose, naufragio e abbandono di nave.

E, una volta concluso il processo, la Costa Crociere ha risarcito circa l'85 per cento dei passeggeri. Su 3.206 persone, 2.623 hanno accettato la transazione per un importo totale di 66,5 milioni di euro. Ai quali vanno aggiunti 17,421 milioni, relativi ai risarcimenti all'equipaggio. Un totale di quasi 85 milioni di euro. La cifra comprende anche il risarcimento per i familiari delle persone morte: 24,5 milioni di euro in totale. I parenti di chi non ce l'ha fatta hanno ricevuto circa un milione per ciascuna vittima.

Nei 66,5 milioni sono compresi anche i risarcimenti per passeggeri che hanno ottenuto dalla compagnia di navigazione circa 16mila euro a testa. Ai 964 membri dell'equipaggio, invece, sono andati complessivamente 17,5 milioni di euro. Di questi, quasi 7 milioni, sono stati versati alle famiglie dei cinque lavoratori della Costa Concordia che hanno perso la vita nel naufragio. Una parte dei passeggeri, però, ha rifiutato il denaro: la somma non è stata considerata adeguata.

Alcuni hanno avviato una causa di risarcimento nei confronti della Carnival, società statunitense che controlla Costa, altri hanno intrapreso singole cause e per la compagnia di navigazione potrebbe aprirsi un nuovo capitolo. 

Lo scorso dicembre, infatti, la prima sezione civile del Tribunale di Genova ha emesso una sentenza storica, che potrebbe diventare un importante precedente giuridico: la Costa Crociere dovrà risarcire con 92.700 euro a Ernesto Carusotti, un passeggero che la notte del 13 gennaio 2012 era a bordo della nave naufragata. I giudici hanno riconosciuto sia il danno patrimoniale sia quello non patrimoniale subiti. Al passeggero è stato diagnosticato un danno da stress post traumatico subito a causa dell'incidente, cioè pesanti conseguenze psicologiche legate all'evento catastrofico.

Ora anche altri passeggeri, che avevano rifiutato il risarcimento e che hanno portato avanti le cause sperano in sentenze simili. A Carusotti è stato riconosciuto il disturbo da stress post traumatico dovuto non solo al naufragio, ma anche alla conduzione delle operazioni di salvataggio, che non sarebbero state gestite nel modo adeguato. Il generatore diesel di emergenza non si sarebbe attivato, il personale non avrebbe evitato il panico.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 9 gennaio 2022.  

Nei giorni del trasferimento della nave, Nick Sloane, l'uomo che ha guidato il team che ha rimosso il gigante del mare davanti all'isola del Giglio, dormiva un paio di ore a notte. Spostare la Concordia dal luogo dell'impatto era per tutti un'operazione folle. Lui ci è riuscito, e «quell'impresa - dice - gli ha cambiato la vita». 

Sono passati dieci anni dal naufragio della Costa Concordia, qual è il ricordo più vivo che ha? 

«Le dimensioni incredibili della nave e la prima volta che sono salito a bordo».

Ha una grande esperienza nel settore del parbuckling, perché questa nave ha inciso così tanto nella sua vita? 

«Sicuramente è stato il culmine di 28 anni di attività nell'industria del salvataggio, ho conosciuto veramente le mie capacità. Ma è stata soprattutto la portata dell'operazione. Il fatto che oltre 4.000 persone siano sbarcate su questa piccola isola in un venerdì sera di metà inverno, è di per sé una storia incredibile. Avevamo 26 nazionalità nel nostro team di oltre 500 persone, la pressione dell'isola del Giglio, la pressione delle autorità italiane, la pressione dell'armatore, la pressione delle assicurazioni e alla fine, anche la pressione delle condizioni climatiche. Una situazione inimmaginabile». 

Nei giorni della tragedia hai mai pensato di perdere la sfida? 

«Sì, due volte. Le prime grandi tempeste di Scirocco del novembre 2012 hanno fatto crollare la nave di 2 metri in profondità. Sono rimasto sveglio per notti intere a guardare fuori dalla finestra il relitto in preda alla tempesta. Ascoltavo tutti gli allarmi che suonavano e indicavano che si stava muovendo, che stava crollando. Non pensavo che ce l'avremmo fatta».  

E la seconda volta? 

«La notte prima dell'operazione di parbuckling, il 15 settembre 2013. Nessuno credeva che avrebbe funzionato: ingegneri, altre società di salvataggio e la società di ingegneria di consulenza per i proprietari. Ho pensato che forse avevano ragione loro e che noi eravamo i pazzi. Poi, mi sono alzato, ho ripassato tutti i nostri calcoli, ho aggiunto gli elementi a nostro favore, e ho deciso che non avevamo scelta. Bisognava comunque provare».  

Quanto è durata l'operazione? 

«Diciannove lunghissime ore, ma alle 04 del mattino del 17 settembre, avevamo raggiunto i nostri risultati. È stato sicuramente un momento surreale».  

Il comandante della nave Francesco Schettino è stato condannato e sta scontando la pena come detenuto modello, secondo lei quali errori ha commesso? 

«Non sono mai stato coinvolto in quello che è successo, mi sono concentrato solo su ciò che dovevamo fare. Ancora oggi non ho letto il rapporto ufficiale su ciò che è realmente accaduto». 

È più tornato sull'isola del Giglio? 

«Amo l'isola. Sono tornato due volte, e ci tornerò ancora sicuramente: la storia affascinante, le acque bellissime per tuffarsi, pescare o semplicemente nuotare, le persone che sono meravigliose. Persone così sincere che hanno preso a cuore la tragedia della Concordia. E poi, anche il cibo è ottimo, e il vino locale: uva ansonica, Senti, oh, tutto molto speciale».  

Quanto è cambiata la sua vita da quel giorno? 

«Molto. Sono stato in molte operazioni di salvataggio di 3, 4 o anche 7 mesi che sono state impegnative, ma i 30 mesi della Costa Concordia sono stati un periodo pazzesco, con stress continuo e sfide difficili da affrontare e superare. Sono stato poco con mia moglie e i miei tre figli, ho dovuto recuperare due anni e mezzo di vita una volta tornato a casa nell'agosto del 2014». 

Dover intervenire in un luogo dove c'erano ancora cadaveri da recuperare quanto ha pesato su lei stesso e sulla sua squadra? 

«Quando sono salito per la prima volta sulla nave nel maggio 2012, è stato molto inquietante, perché si sapeva che lì erano morte 32 persone e che due erano scomparse da qualche parte a bordo. Dicevo continuamente ai membri del team che si stava lavorando non su un relitto ma su un cimitero, e che era molto importante riportare la nave in piedi tutta intera, in modo che le famiglie avrebbero potuto riavere i corpi dei loro cari». 

A distanza di dieci anni pensa mai a quei giorni? 

«Sì, regolarmente, e quando sento o incontro alcuni degli amici e dei colleghi che hanno partecipato al progetto con noi, mi torna in mente la straordinaria bellezza di quell'isola: le persone, i luoghi. Wonderful».  

Cristiana Mangani per "il Messaggero" il 10 gennaio 2022. 

I veri benefici di legge per capitan Schettino potrebbero arrivare a maggio del 2022, quando il comandante della Costa Concordia, condannato a 16 anni di carcere, sarà ammesso a misure alternative rispetto alla detenzione.

Era il 13 maggio del 2017 quando ha varcato la soglia del carcere di Rebibbia. Ha aspettato la sentenza seduto sulla panchina nei giardinetti che si trovano davanti al penitenziario, sapeva già che la condanna sarebbe stata certa. Ma dal momento in cui è entrato al Reparto 8, detto il penalino, è cambiata la sua vita, e non soltanto quella.

Chi lo ha visto in questi anni, racconta di un percorso psicologico difficile, di una presa di coscienza che fino al carcere, questo marinaio di grande esperienza, non ha saputo mostrare davanti ai giudici che lo hanno condannato. Nessuna empatia durante il processo, nessuna consapevolezza.

«Non mi ha mai fatto pena», dice ora Giovanni Puliatti, il giudice che guidava il collegio giudicante. Mentre qualche sopravvissuto riconosce che è stato «un capro espiatorio, ha pagato solo lui in questa vicenda enorme, dove le responsabilità sono state tante». Ma le cose cambiano, e Schettino, da comandante pieno di certezze e di arroganza, diventa un detenuto modello. Vive la detenzione in silenzio, nel pieno rispetto delle regole del carcere.

Il giorno del suo ingresso a Rebibbia l'accoglienza non è stata delle migliori. Però con il passare del tempo è riuscito a conquistare un rispetto necessario per la sopravvivenza tra criminali comuni, ergastolani e truffatori, tanto lontani dal mondo patinato che è stata la sua vita. 

Quei 32 morti provocati dal disastro si riaffacciano sempre nei pensieri, sebbene il capitano continui a negare di aver voluto abbandonare la nave e di essere stato superficiale nel comando. Nei quattro anni e mezzo che ha passato a Rebibbia si è dedicato allo sport: tennis, ping pong, e anche calcio balilla. Ha comunicato tanto, inviando email agli altri detenuti e scrivendo sul giornale Dietro le sbarre.

Ha letto libri in inglese, approfondito tematiche legate alla meditazione e al trascendentale, due vecchie passioni. «Senza la meditazione non avrei resistito chiuso qui dentro», ha detto più volte. Sta studiando Giurisprudenza e giornalismo, mentre aspetta che la famiglia lo vada a trovare, a cominciare dalla figlia Rossella che ora chiede «un rispettoso silenzioso», anche a chi si sta affrettando in questi giorni di ricordi e celebrazioni, a dire la sua sulla tragedia e sulla condotta del padre.

Anche il Covid ha lasciato le sue tracce: Schettino è stato 500 giorni senza poter vedere i parenti, poi le visite sono ricominciate. Ma di recente il giudice di sorveglianza gli ha consentito di andare dalla famiglia, di passare con loro le vacanze di Natale, in attesa che arrivino i benefici di legge per i quali si sta tanto impegnando. 

Nel frattempo, i suoi avvocati hanno presentato la richiesta di revisione del processo alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Anche se dopo 4 anni ancora la decisione non c'è stata. «Non posso nascondere la mia perplessità per un tempo di attesa così lungo», ha dichiarato il comandante ai suoi legali.

È anche vero che quale potrebbe essere l'elemento nuovo da far decidere ai giudici europei di riaprire il processo? Sulla pagina Facebook che ha seguito da sempre le vicende del capitano, vengono pubblicati video e ricostruzioni dalle quali si vedrebbe che le cose non sono andate così come il processo e la sentenza le hanno descritte.

Però, quello che ha veramente pesato sulla condotta di Schettino non è stato tanto aver portato la nave contro gli scogli, bensì averla abbandonata. Schettino è e, probabilmente, resterà il simbolo negativo di una Italia superficiale e guascona, quella che sbaglia e non lo ammette. 

È facile immaginare quindi quale potrebbe essere la vita del capitano quando uscirà del carcere. Cosa gli aspetta? Cosa immagina per se stesso e per la sua famiglia? Qualcuno ipotizza che non resterà in Italia, nemmeno in quella Meta di Sorrento dove tutti gli vogliono bene e lo difendono.

Che sconterà la pena e poi andrà a vivere all'estero. La sentenza ha previsto per lui anche 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, e sono quasi passati. A quel punto potrà rifare l'esame per la patente nautica, sempre che decida di continuare a solcare i mari. Oppure, si vedrà. In questi anni ha ricevuto lettere, email, anche da persone estranee. E c'è chi ha preso a cuore la sua causa.

Se c'è una cosa che gli è mancata tanto è stata proprio il mare. Gli spazi aperti sono stati a lungo un ricordo lontano. Tanto che, nell'ora d'aria, in diverse occasioni, si è seduto su un prato sintetico dell'istituto di pena, ha portato con sé una bottiglietta d'acqua nella quale ha messo del sale. Se l'è versata in testa, si è bagnato i capelli, cercando così di ricordarne il sapore.

Il naufragio della Costa Concordia e il ricordo di Franco Gabrielli: «Vidi un grottesco gioco delle parti». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera l'8 gennaio 2022.

Dieci anni fa il disastro al Giglio affrontato da capo della Protezione civile. La sfida al relitto, il riscatto, la lotta alla burocrazia. A volte, il destino. «Scendo dalla nave, il mio posto sarà da oggi occupato dal nuovo Capo del dipartimento... Gli lascio un organismo che è conosciuto solo in piccola parte come una nave da crociera di cui la pubblicità fa vedere solo i ponti soleggiati, le cabine, la piscina e gli impianti sportivi, ma che naviga sicura e funziona in ogni dettaglio».

Era il 12 novembre 2010. Guido Bertolaso lasciava la guida della Protezione civile con una lettera che a rileggerla oggi sembra un presagio. Poco più di un anno dopo, nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, Franco Gabrielli, il suo successore, si sarebbe trovato di fronte alla Costa Concordia riversa su un fianco, a una emergenza senza eguali nella nostra storia recente, che pure di emergenze purtroppo abbonda. Ci mise quasi una settimana, per arrivare sull’Isola del Giglio. E non per colpa sua. Dovette aspettare la nomina a commissario delegato del governo per la gestione di quest’ultimo disastro. A quel tempo, la Protezione civile viveva un momento particolare, e stiamo usando un gentile eufemismo. Dopo gli anni in cui aveva allargato a dismisura le sue competenze arrivando a organizzare manifestazioni sportive, concerti ed eventi di ogni genere, era venuta la stagione in cui la politica si riprendeva il potere perduto, e al tempo stesso si tutelava creando una barriera tra la gestione delle emergenze e la sua responsabilità.

Gabrielli divenne così il primo capo della Protezione civile ad avere responsabilità personale di ogni singola ordinanza, portatore unico di ogni possibile ricaduta. «Un vero e proprio capolavoro di tartufesco “scarico di responsabilità”, che purtroppo ancora oggi resiste» sostiene nel suo «Naufragi e nuovi approdi» (Baldini+Castoldi, in libreria da giovedì 13). Non solo un amarcord di quella incredibile vicenda, ma una riflessione sull’Italia. E nonostante oggi ricopra ancora cariche importanti, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, in omaggio al suo temperamento toscano, l’autore non le manda a dire, chiamando cose e persone con il loro nome, dettaglio che rende la lettura ancora più interessante. Date le premesse, l’accoglienza non poteva essere delle migliori. Trovò ad attenderlo uno striscione appeso all’esterno dell’hotel Bahamas. «Gabrielli, togli la nave cazzo». Con quella citazione della frase divenuta subito celebre in tutto il mondo, pronunciata dall’allora ufficiale della Capitaneria di porto di Livorno Gregorio De Falco per far risalire a bordo il comandante Francesco Schettino, i gigliesi gli fecero subito capire quel era la loro priorità.

Burocrazia

Non erano gli unici, ad avere bisogno di cancellare dalla vista quella immagine così umiliante per un intero Paese. E in questi giorni di anniversario tondo, non era facile ripercorrere una storia nota e ancora ben impressa nella memoria da un angolo inesplorato. Gabrielli invece ci riesce, facendo ricorso al proprio vissuto. Nel suo racconto, i soccorsi senza speranza e poi il riscatto del raddrizzamento della nave e della sua partenza dal Giglio, diventano una perpetua lotta contro il male endemico del nostro Paese, la burocrazia che blocca tutto, usata spesso come arma da una classe politica che talvolta bada più alla propria convenienza immediata che all’interesse generale. «Come si può pensare di dover quantificare e autorizzare preventivamente, prima degli interventi, la spesa per gli uomini e i mezzi di soccorso? Come si può immaginare che un’emergenza duri soltanto 60 giorni? Come si può pretendere che la deliberazione dello stato di emergenza preveda già quale sia l’amministrazione che subentrerà nell’ordinario? Come siamo potuti, come Paese, arrivare a un tale punto di miopia?».

Gioco delle parti

Non è uno sfogo fatto con il senno di poi, dieci anni dopo. Gabrielli fu il principale rappresentante di uno Stato che all’interno di una impresa mastodontica dove pubblico e privato agivano insieme, gli aveva affidato un budget di cinque milioni di euro, a fronte di un costo totale di un miliardo, ma insisteva comunque nell’imporre le proprie pretese.

Come avvenne con il surreale tentativo di far giungere il relitto nel porto di Piombino, inadatto e bisognoso di lavori che sarebbero durati anni. «Fino all’ultimo assistetti a un fuoco di fila fatto di pressioni palesi, avvertimenti poco edificanti, conditi da dossier in cui si alludeva a mie “cointeressenze” con Fincantieri, sceneggiate più o meno folkloristiche... con amministratori e ministri che, invece di affrontare con determinazione e coraggio i nodi che la soluzione prospettata imponeva, in un grottesco gioco delle parti avevano menato il can per l’aia, da una parte, e dall’altra ci si era fatti “menare”, nonostante le mie sollecitazioni ad aprire gli occhi».

Procedure barocche

Mercoledì 24 luglio 2014, la Costa Concordia lasciò per sempre l’Isola del Giglio trainata da due rimorchiatori oceanici e giunse a Genova, dove sarebbe stata poi demolita. «E allora qual è stato l’esito delle vicende che ho provato a raccontare nelle pagine che precedono? Quali insegnamenti abbiamo imparato dalla dimostrazione dei limiti nella gestione delle emergenze che si sono succedute? Quali “buone pratiche” abbiamo appreso? Credo molto poco». Rimaniamo il Paese del giorno dopo, bravi a mobilitarsi sull’onda dell’emotività, ma incapaci di operare in tempo di pace. «Anche a causa di una legislazione farraginosa e di procedure barocche» conclude Gabrielli. E se lo ribadisce uno dei nostri più importanti servitori dello Stato, forse sarebbe il caso di dargli ascolto.

Anticipazione da “Oggi” il 13 gennaio 2022. 

A 10 anni dalla tragedia della Costa Concordia, OGGI, pubblica alcune testimonianze molto toccanti su quello che successe a bordo e sui drammi successivi.

Come quella di Omar Brolli, a bordo con genitori e parenti per festeggiare i 50 anni di matrimonio dei nonni: «Ci siamo salvati tutti ma mio padre, che fu uno degli ultimi a essere tratti in salvo, non è più riuscito a sorridere. L’idea di non essere stato capace di proteggerci lo ha tormentato fino a precipitarlo nella depressione…

Io ho dovuto scavarmi dentro, scoprendo che quella notte del 13 gennaio mi aveva lasciato dentro tante cose che non mi piacevano. Per esempio il disgusto per quello che ho visto sulla nave, le persone che pur di salvarsi camminavano sopra gli altri. 

E anche la paura, che è annidata dentro di me… quel fardello che ho fatto di tutto per nascondere si è ripresentato nel più vistoso dei modi: nei due anni successivi al naufragio sono ingrassato di 40 chili». 

OGGI ha sentito anche Gregorio de Falco, all’epoca alla Capitaneria di Porto di Livorno e oggi senatore: «Penso che gli ufficiali a bordo avrebbero dovuto prendersi le responsabilità di sostituire il comandante, che era in preda a un blackout cognitivo. A un certo punto Schettino chiede alla motovedetta che era accorsa sul posto di lanciargli una cima e tentare un traino. Capisce l’assurdità della richiesta? La Concordia aveva una stazza di 110 mila tonnellate e 290 metri di lunghezza. Non era lucido, ed era evidente il suo impedimento». 

Da “Oggi” il 6 gennaio 2022. «Ricordo quei momenti drammatici che, alla notizia delle tante vite umane perse, si fecero terrificanti», dice al settimanale OGGI in edicola, Pier Luigi Foschi, che all’epoca del naufragio della Costa Concordia, che il 13 gennaio 2012 costò la vita a 32 persone, era presidente e amministratore delegato di Costa Crociere. Foschi difende l’operato dell’equipaggio («Non è vero che non rispose secondo le attese») e del comandante Francesco Schettino dice: «Di lui conoscevo la reputazione di comandante competente, preparato, capace. Forse è stata proprio l’eccessiva confidenza nelle proprie capacità a tradirlo». Dopo il naufragio del Giglio, spiega Foschi, Costa Concordia prese delle iniziative per impedire che tragedie simili potessero ripetersi: «Era nostro dovere trarre il massimo della lezione da quanto accaduto. Ora abbiamo un sistema di controllo che permette di essere informati in tempo reale di eventuali deviazioni delle navi dalle rotte stabilite. Un modo per evitare che le decisioni di singoli comandanti possano essere prese senza che Costa lo sappia: ogni deviazione dalle rotte invia segnali automatici, il che permette di valutarne ragioni e rischi».

Grazia Longo per "la Stampa" il 3 gennaio 2021. «La gente forse non ci crederà, ma anche io ho i miei incubi. Non ho dimenticato le trentadue vittime della Concordia, ma neppure ho dimenticato di essere stato trattato come un capro espiatorio». Ecco l’amarezza più profonda di Francesco Schettino, 61 anni, ex comandante della Costa Concordia naufragata di fronte all’isola del Giglio dieci anni fa, il 13 gennaio 2012.

Da oltre 4 anni e mezzo è detenuto nel nuovo complesso del carcere di Rebibbia per scontare la condanna a 16 anni per omicidio colposo plurimo, naufragio colposo, lesioni colpose plurime, abbandono nave, false comunicazioni. In realtà, in virtù del periodo pregresso di custodia cautelare, la condanna ammonta a 15 anni, sei mesi e sette giorni. Quindi dopo il prossimo 17 maggio, allo scadere dei 5 anni, ovvero di un terzo della pena, Schettino potrà chiedere di essere ammesso a misure alternative rispetto alla detenzione in prigione. 

«Intanto aspetto la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la revisione del processo che dopo 4 anni ancora non si è espressa in merito. E non posso nascondere la mia perplessità per un tempo di attesa così lungo». Le riflessioni dell’ex ufficiale ci vengono riportate dal suo avvocato Donato Laino, che insieme al collega Saverio Senese fa parte del pool difensivo che si sta occupando anche della richiesta di revisione del processo.

«Il comandante Schettino ha fatto e sta continuando a fare un percorso psicologico non facile - sottolinea l’avvocato Laino -. Anche lui in fondo è un naufrago, pensa e ripensa a quella maledetta notte e a quei trentadue morti. Lui è l’unico a pagare con il carcere, ma la verità è che all’origine del naufragio c’è stato un errore organizzativo. Si è voluto cercare un colpevole, non la verità».

Un colpevole. Un capro espiatorio, appunto, come sostiene Francesco Schettino, soprannominato anche capitan Inchino per quella spericolata manovra del l’inchino davanti al Giglio che portò la nave a schiantarsi irrimediabilmente sugli scogli delle Scole. «Sono stato vittima di un processo mediatico prima ancora che giudiziario» è il suo pensiero. E non a caso, infatti, nel nuovo complesso di Rebibbia Schettino frequenta due corsi universitari: uno in giurisprudenza e l’altro in giornalismo. 

Due ambiti che vuole approfondire il più possibile perché è proprio dal mondo giudiziario e da quello giornalistico che si è sentito preso ingiustamente di mira. Nel frattempo però manca ancora una risposta esaustiva alla domanda più importante: perché l’allora comandante Schettino abbandonò la nave invece di organizzare i soccorsi? Nella memoria collettiva risuona ancora quel monito perentorio dell’ufficiale operativo della Guardia Costiera, Gregorio De Falco: «Salga a bordo, c…».

Sono trascorsi 10 anni. Schettino, intanto, si comporta in cella come un detenuto modello. Il cappellano del carcere, don Lucio Boldrin, ha parole di elogio nei suoi confronti: «È molto gentile e rispettoso nei confronti degli altri detenuti ai quali non ha mai fatto pesare il ruolo che ricopriva prima dell’arresto. È molto impegnato nel seguire i due corsi universitari e trovo che questo suo atteggiamento sia edificante. Mi ha infatti detto che non vuole buttare via il tempo che ha in carcere e che quindi lo usa per finalità rieducative». 

Il tempo in carcere non passa mai. Ma Schettino oltre allo studio si dedica molto anche allo sport, grazie alla presenza di una palestra attrezzata, alle letture in inglese e alla collaborazione con il giornale cartaceo interno “Dietro le sbarre”.

«Si pone sempre con un atteggiamento impegnato e proficuo - prosegue il cappellano - ed è ben voluto dagli altri detenuti. Per fortuna negli ultimi mesi sono ripresi i colloqui con i parenti, perché per colpa del Covid ci sono stati 500 giorni di isolamento. Schettino aspetta sempre con trepidazione gli incontri con la figlia Rossella». Quest’ultima, peraltro, ha aperto un canale Youtube per pubblicare dei video girati insieme al padre per dimostrare che esistono altri responsabili del naufragio. 

«Mio padre - spiega su Facebook - in tutta questa vicenda è rimasto solo fin dal primo momento in plancia dove l’intero bridge team è mancato nel suo ruolo e nelle fasi più importanti della manovra e della gestione dell’emergenza». Di qui gli incubi in carcere. Ma come dimenticare l’incubo di quelle trentadue vittime, tra cui una bimba di 5 anni, spazzate via in una notte di 10 anni fa?

Costa Concordia, ricordate la presunta amante di Schettino? Ecco cosa fa oggi, 10 anni dopo. Libero Quotidiano il 12 gennaio 2022.

A ridosso dell'anniversario della tragedia della Costa Concordia, torna il nome di Domnica Cemortan. La giovane, che nel 2012 venne considerata da tutti l'amante del capitano Francesco Schettino, ha cambiato definitivamente vita. All'epoca 25enne, dopo il dramma che portò alla morte 32 persone, Domnica è tornata a Chisinau e avrebbe completato gli studi universitari. A riferirlo mowmag.com, che ha verificato il profilo Facebook della ragazza.

"In seguito - si legge - pare abbia deciso di buttarsi in politica e il suo attivismo pare l’abbia portata a costituire una Fondazione che porta il suo nome e opera nel sociale e in difesa delle donne". Non solo, perché il sito parla anche di alcuni articoli di attualità da lei scritti, al punto da farla diventare un'opinionista quotata tra le tv locali e nazionali. Nel lontano 2012, interrogata sulla presunta storia tra lei e Schettino, Domnica ammise: "Quando a bordo è presente un certo numero di passeggeri, tutti della stessa nazionalità, il comandante li riunisce in una sala della nave e li accoglie con un messaggio di benvenuto. I russi erano parecchi. Ce n’erano almeno un centinaio ogni crociera. Schettino non parlava il russo ed ero io a preparargli il testo da leggere in pubblico".

E ancora: "Il testo va trascritto dall’alfabeto cirillico a quello latino tenendo conto della fonetica… A guidarlo nella lettura ci deve essere una persona di madre lingua. Che per il russo ero io… Eravamo nello studio, annesso alla cabina del comandante. Il mio lavoro cominciava il mattino all’alba e finiva a notte fonda. Non sono in tanti a circolare per la nave in quegli orari. Quasi tutti dormono. E si può osare qualcosa di più. Ho nascosto la relazione con Schettino per proteggere me, la mia vita privata e anche quella del comandante". Schettino infatti era sposato. 

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 12 gennaio 2022.

In dieci anni ne passa di acqua sotto i ponti, un po’ per tutti. Certo è che per alcuni – soprattutto se protagonisti di vicende che hanno segnato la storia recente – è molto più difficile scrollarsi di dosso una etichetta che, volenti o nolenti, gli è stata affibbiata dai media. 

È il caso di Domnica Cemortan, la giovane che nel 2012 dopo il disastro della Costa Concordia venne incasellata nella memoria collettiva come l’amante del capitano Francesco Schettino. Passato il clamore, però, che fine ha fatto “la moldava”, come veniva definita frettolosamente – e un po’ grossolanamente – dai giornali di tutta Italia?

Facciamo prima un passo indietro, per chi all’epoca era troppo giovane o ha perso la memoria. Domnica spunta tra le macerie della nave da crociera Costa Concordia, all’Isola del Giglio nel 2012, con il profilo della classica “dama nera”. 

Una bella ragazza dell’est, che per gli stereotipi popolari in alcuni casi è ancora considerata “una ruba mariti”, originaria di Chisinau (capitale della Moldavia), 25enne ballerina in forze all'equipaggio con varie mansioni, che la notte della tragedia si trovava – ma lei smentirà sempre - con l’allora comandante in plancia. 

Lui verrà condannato a 16 anni di reclusione per la collisione con uno scoglio in cui morirono 32 persone. Lei, invece, risultata estranea da responsabilità, rimarrà per tutti la donna che fece perdere la testa a Schettino e, come nelle più abusate trame della letteratura in giallo, anche la rotta della nave da crociera in quel folle “inchino” che portò al disastro. 

Che una storia fra i due esistesse, comunque, lo ha ammesso lei stessa. Anche se non avrebbe avuto la profondità che gli era stata attribuita. Lo ha rivelato la stessa ballerina all’epoca al settimanale Oggi: “La storia, se così la vogliamo chiamare, è durata un paio di settimane” esordì Domnica. “Amante mi sembra una parola grossa. Mi sono imbarcata su Concordia il 9 dicembre 2012 e sono scesa il 28. La hostess dei passeggeri russi, che io avrei sostituito, durante un galà mi ha presentato a tutto il personale di bordo. Compreso Schettino… La storia quando è cominciata? Non ho segnato la data, ma era la mia seconda settimana a bordo”.

E aveva spiegato quale fosse la sua mansione sulla nave e in quale momento scattò la scintilla tra i due: “Quando a bordo è presente un certo numero di passeggeri, tutti della stessa nazionalità, il comandante li riunisce in una sala della nave e li accoglie con un messaggio di benvenuto. I russi erano parecchi. Ce n’erano almeno un centinaio ogni crociera. Schettino non parlava il russo ed ero io a preparargli il testo da leggere in pubblico”.

Da quella intimità, quindi, nacque la breve love story: “Il testo va trascritto dall’alfabeto cirillico a quello latino tenendo conto della fonetica… A guidarlo nella lettura ci deve essere una persona di madre lingua. Che per il russo ero io… Eravamo nello studio, annesso alla cabina del comandante. Il mio lavoro cominciava il mattino all’alba e finiva a notte fonda. Non sono in tanti a circolare per la nave in quegli orari. Quasi tutti dormono. E si può osare qualcosa di più. Ho nascosto la relazione con Schettino per proteggere me, la mia vita privata e anche quella del comandante”.

E probabilmente perché Schettino era sposato e la moglie, Fabiola Russo, non l’avrebbe certo presa bene. Ma a testimonianza che quella fosse solo una infatuazione passeggerà, il fatto che in seguito il comandante non si fece mai più sentire: “Schettino da quella notte non l’ho più visto né sentito. Credo avesse altro a cui pensare. E mai, dico mai, si è fatto vivo per chiedere una cosa del genere” ha concluso rispondendo alla domanda se le avesse chiesto di aiutarlo alleggerendo la sua posizione nel processo. 

Passati dieci anni, mentre si ricordano giustamente le 32 vittime del naufragio, tra le quali una bambina di soli 5 anni, rimane però ancora impressa nell’immaginario la silhouette di quella biondina che alla tragedia – suo malgrado – aggiunse una nota di erotismo in grado di rendere l’intera vicenda una perfetta trama di un colossal ad effetto.

Ma oggi, Domnica dov’è finita? Prima di tutto è tornata nel suo Paese e a Chisinau avrebbe completato gli studi universitari. In seguito, pare abbia deciso di buttarsi in politica, come si può verificare sul suo profilo Facebook e che il suo attivismo l’abbia portata a costituire una Fondazione che porta il suo nome e opera nel sociale e in difesa delle donne.

“Da quando mi conosco, sono sempre stata una persona ribelle. Attivista fin da piccola” ha scritto come descrizione del suo blog domnicacemortan.com. E se nell’immaginario collettivo rimarrà per sempre “l’amante di Schettino”, da qualche anno online scrive articoli di analisi dell’attualità legati alla Moldavia e si è trasformata in una opinionista quotata tra le tv locali e nazionali.

Ma anche in questa nuova veste, benché si sia dimostrata molto combattiva – dai giorni della tragedia per scacciare le ombre sulle sue responsabilità nella tragedia, fino a oggi per ricostruirsi una vita – il suo charme le ha ancora una volta dato una mano: la rivista moldava Vip l’ha infatti inserita tra le 100 donne più sexy del suo Paese, complice uno scatto che ha conquistato migliaia di fan.

De Falco: "Quei 45 minuti per evitare la strage". Edoardo Sirignano il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il senatore entra in merito alla vicenda e replica alle accuse della figlia di Schettino.  

Il senatore Gregorio de Falco, noto al pubblico per aver coordinato le operazioni di soccorso in occasione del naufragio della Concordia, racconta la tragica notte e risponde alle accuse lanciategli dalla figlia di Schettino.

Cosa è accaduto davvero in quelle ore? Si poteva dare prima l’ordine di abbandonare la nave?

“L’urto avviene alle 21,45. Dopo pochi minuti il personale della plancia, fra cui il primo ufficiale Iaccarino, verificano i danni e da allora, intorno alle 21,50, si ha consapevolezza che la nave è persa e va abbandonata, essendo oltre tre compartimenti contigui allagati, il che significa che la nave non è più luogo sicuro. Si sarebbe dovuta cominciare, quindi, la procedura per mettere in sicurezza passeggeri ed equipaggio. Al contrario, Costa non avverte nessuno di quanto successo. La sala operativa di Livorno aveva solo avuto notizie di un qualcosa di strano su una non meglio identificata nave passeggeri tra Savona e Barcellona”.

Come avete fatto a sapere, allora, che era la nave di Costa?

“Perché una passeggera aveva chiamato la figlia e le aveva detto guarda che qui c’è qualcosa di strano perché siamo al buio, la nave è spenta e cade la roba dal tavolo. La ragazza, infatti, chiamò i Carabinieri di Prato e uno di loro, non sapendo nulla di navigazione, avvertì la Capitaneria a lui più vicina. Quando finalmente trovammo la nave, però, ci fu dichiarato di un banale blackout, che ai nostri occhi non giustificava il fatto che la roba cadesse dal tavolo. Chiamammo, quindi, la Concordia, trovandola, con non poche difficoltà, nei pressi dell’Isola del Giglio con la prua rivolta verso sud, altro elemento che non faceva pensare a una banalità”.

Anticipando le operazioni si sarebbero salvate delle vite?

“Anziché aspettare che la nave fosse inclinata e si fosse data l’emergenza generale appena avuta la consapevolezza che la Concordia andava abbandonata, le persone dovevano essere subito convogliate a punti di riunione e scialuppe. Anche nel dubbio bisognava dare l’emergenza. Male che andava si poteva dire ci dispiace. Si sono fatte partire le operazioni, però, ben 45 minuti dopo, pur dovendo una nave, per regola, fare l’abbandono in 30 minuti. In realtà furono messe a mare le scialuppe e solo sul lato dritto, errore, alle 22,56 e forse anche lì per effetto delle persone che stavano già salendo a bordo o comunque era stato consentito loro di farlo. Solo a quel punto, il comandante disse “e vabbuò portiamole a terra”. Poi ci ripensò e passarono altri 15-20 minuti. Più passava il tempo, però, e più la nave si inclinava. A un certo punto lo era talmente tanto che non si riuscivano ad ammainare le scialuppe di sinistra”.

Cosa accadde quindi?

“Tre si fermarono sulla fiancata, non scivolarono in mare. Circa 450 persone dovettero uscire dalle scialuppe e furono convogliate dai soccorritori della guardia costiera verso poppa via dove c’era una scala di corda posta sul fianco sinistro. Non era quella che avevo indicato al comandante che era posta a prua via destra. Il tutto venne ripreso da un elicottero. In sintesi, la procedura andava cominciata subito e invece si attesero 45 minuti e la mia richiesta. I nostri soccorsi per fortuna non attesero”.

La figlia di Schettino la accusa di non aver capito nel particolare momento la situazione, come risponde?

“C’è stato già un processo. Bisogna conoscere ciò di cui si parla. Una cosa è un ruolo operativo, un altro è il tattico. Essendo a 75 miglia di distanza non vedevo la situazione, ma la conoscevo. Dovevo, infatti, coordinare gli sforzi di 48 unità navali e 8 elicotteri. Non capisco, pertanto, a cosa fa riferimento la signorina e soprattutto cosa mi sarebbe sfuggito”.

E’ stato dichiarato di alcune telefonate non riportate prima della tanto discussa conversazione con Schettino. Cosa vi siete detti?

“L’ho detto anche in giudizio. Ci sono state addirittura trasmissioni televisive sulle varie comunicazioni, non sulle telefonate, perché le prime tre sono via radio, che avvengono in plancia quando c’è ancora qualcuno. Quando vanno via tutti proviamo e proviamo a chiamarli via telefono e solo dopo diversi tentativi ci viene detto che il comandante coordinava i soccorsi dalle scialuppe. Abbiamo saputo dopo che non era lì, ma a terra. Ci sono state, poi, altre comunicazioni. C’è stata, per esempio, quella radio delle 22,34 in cui gli faccio dire che sono in pericolo, di dichiarare l’emergenza. In seguito un’altra, alle 22,48, in cui chiedo loro se non sia il caso di dichiarare l’abbandono nave che avviene alle 22,56. Gli atti sono pubblici, li si può trovare sul web”.

Dopo dieci anni, è del tutto chiara la vicenda?

“Negli sviluppi essenziali è chiarissima: la dinamica dell’urto, l’abbandono nave. E’ possibile, però, che ci siano aspetti legati a vicende che non determinarono gli eventi, ma ne fanno parte, su cui ancora non è stata fatta piena luce, come nel caso di Giuseppe Girolamo, ventiseienne batterista che cedette il proprio posto a una signora con due bambini. Se ci fosse stata l’autorità a bordo probabilmente anche lui sarebbe stato salvo”.

Tutti coloro che hanno sbagliato hanno pagato?

“Credo di sì. Non è vero che ha pagato solo Schettino. Il processo è stato fatto e ha rilevato la responsabilità di altri che sono stati ritenuti tali perché non hanno sollevato il comandante dall’incarico sebbene tenesse un comportamento non razionale dalla fase dell’urto a fine operazioni. Si sarebbe dovuto rilevare che non cambiare rotta e tenere la prua della nave a sedici nodi e poche centinaia di metri dall’isola era una navigazione pericolosa e quindi doveva intervenire in primis l’ufficiale di guardia e in via subordinata, come dice il codice, il terzo. Il secondo è di affiancamento, quindi, non aveva tale ruolo”.

Come risponde a chi le chiede un religioso silenzio?

“Non si deve mantenere il silenzio sulla verità”.

A suo parere è utile ricordare la data del 13 gennaio?

“Parteciperò alle ricorrenze perché non è importante ricordare il comportamento, la responsabilità, ma le vittime innocenti, come Dayana Arlotti di soli 5 anni”. 

Edoardo Sirignano. Sono nato a Mirabella Eclano il 4 gennaio 1990, in tempo per le “notti magiche”, che pur non ricordandole, ho sempre portato dentro di me. Sono diventato giornalista professionista a 22 anni, ma ho iniziato a scrivere molto tempo prima di politica locale. La mia palestra è stata il Mattino e in Irpinia mi sono allenato per dieci anni mangiando pane e politica, infatti, non è conferenza quella dove dopo non c’è cena. Da pochi mesi, su intuizione della Macchioni, sono sbarcato a Roma in quel di Spraynews. Adesso mi ritrovo nel Giornale.it e spero di rimanerci ancora per un po'…

Gra. Lon. per "la Stampa" il 3 gennaio 2021. Oggi Gregorio de Falco, 56 anni, è un senatore, ma 10 anni fa era un ufficiale operativo della Guardia Costiera. La sua telefonata, dalla Capitaneria di Livorno, all'allora comandante della Concordia fece il giro del mondo.

Cosa pensa del fatto che Schettino si senta un capro espiatorio?

«Non concordo. Anche gli altri sono stati condannati, solo che Schettino, in qualità di comandante, aveva maggiori responsabilità e mentre gli altri grazie alla condizionale o a pene inferiori hanno evitato il carcere lui è finito dietro le sbarre. Ma, ribadisco, gli altri membri del team di bordo, da D'Ambrosio che era il primo ufficiale alla Coronica, terzo ufficiale, sono stati puniti. Non solo, la legge ha condannato anche Ferrarini manager di terra della Costa. Il vero problema è l'abbandono della nave da parte di Schettino».

Perché lo ha fatto?

«Credo si sia trattato di un atto irrazionale. Lui aveva il dovere di rimanere a bordo e comunque all'inizio la previsione, nelle sue parole, non era così catastrofica. Non credo, quindi, che abbia avuto paura. È più probabile che ci sia stato un corto circuito nella sua mente. Mi sono sempre chiesto perché non sia risalito a bordo, nonostante i miei ripetuti inviti: avrebbe potuto salvare molte vite e anche se stesso. Perché noi siamo un popolo romantico che dimentica in fretta una malefatta se c'è un gesto di buona volontà. Gesto che è mancato da parte del comandante». 

Come valuta la richiesta di revisione del processo e il ricorso a Strasburgo?

«Nel nostro Paese per ottenere un nuovo processo è necessario l'insorgere di un elemento nuovo a favore dell'imputato e non mi pare che questo si sia verificato nel caso di Schettino. Per quanto riguarda il ricorso non mi risulta che i diritti dell'ex comandante siano stati lesi: ha avuto la possibilità di difendersi in tre gradi di giudizio e non è stato vittima di accanimento».

Francesco Merlo per “il Venerdì di Repubblica” il 10 gennaio 2022. 

Sche-tti-no. Non è facile trovare altri nomi che abbiano la stessa forza evocativa. Sono davvero pochi quelli che non hanno diritto all'oblìo, nomi diabolici come Giuda, che sarà per sempre "il traditore", o come Caino che è sinonimo di "fratricida". Schettino sarà per sempre "il vigliacco", più di Tersite, che Omero descrive guercio, zoppo, gobbo, con la testa a punta, maldicente, ingiuriatore e vile.

All'Italia stremata del 2012 non bastò infatti consegnarlo alla pietà della storia e alla severità della giustizia. Bisognava farne il modello del "perfetto codardo", non la miseria dell'italiano tipo, spavaldo ma pavido, arrogante e vanitoso quand'è al sicuro, e invece annichilito, imbambolato e intontito dal pericolo e dalla propria inadeguatezza dinanzi all'emergenza. No, Schettino divenne il mostro, il reietto, il diavolo. 

E dunque il suo povero nome, per sempre negato all'acqua del fiume Lete «che toglie altrui memoria del peccato», fu maltrattato e inveito da un'Italia che aveva bisogno di cacciare il demone che aveva dentro, di sfogarsi su di lui per non vedere se stessa affogare in un mare chiuso come una tinozza.

Naufragata in una secca, che non aveva nulla dell'oceano del Titanic, davvero la Costa Concordia somigliava all'Italia che due mesi prima, nel novembre del 2011, nel 150° anniversario dell'Unità, minacciata dallo spread e dalla bancarotta, si era affidata alla severità del governo Monti, al decreto Salva-Italia, alle lacrime che la ministra Fornero non riuscì a trattenere pronunciando la parola "sacrifici", alle tasse contro il debito (cattivo) e all'elezione di un italiano, Mario Draghi, alla presidenza della severissima Banca centrale europea (Bce).

Piegata su un lato, carica d'acqua, la nave del superlusso, 114.500 tonnellate di junkspace che non riusciva neppure a inabissarsi, era un relitto incastrato nel mare tra i tanti relitti incastrati sulla Terra, l'Ilva, Termini Imerese, il Sulcis, Bagnoli, Piombino... Ed era anche la fine di un sortilegio sociale e di un azzardo politico, il naufragio colposo della borghesia del cucù, delle barzellette e del bunga bunga, la fine della lunghissima "anomalia" berlusconiana esordita nel 1994 con il sogno liberale di Lucio Colletti, Piero Melograni, Saverio Vertone e Marcello Pera, e ora squarciata e arenata su uno scalino di roccia con le sue settanta suite e il personale in tight e guanti bianchi.

Con la sua scienza del divertimento sull'acqua e il suo esotismo omologato, la Costa Concordia sembrava un altro dei non-luoghi del potere italiano, Arcore e Porto Rotondo, Villa Certosa e Palazzo Grazioli, Villa San Martino e la casa di Lampedusa acquistata via Internet, un Satyricon di cene eleganti, inchini e sirene "tutto compreso", teatro e sale per il cinema, due casinò, la Spa, 4 piscine, 5 Jacuzzi, 5 ristoranti e tanti ascensori per portare Astolfo sulla Luna.

E allora diciamo la verità: dieci anni dopo non c'è altro che «torni a bordo, cazzo!» nella memoria degli italiani, neppure il numero dei morti: 32, quasi tutti per annegamento. Da una parte del telefono, Francesco Schettino, "il vigliacco", e dall'altra Gregorio De Falco, "l'impavido", che, con la parola "cazzo" riscattava la reputazione dei poveri italiani smarriti. 

L'audio di quella telefonata, diffuso già all'indomani del naufragio, fece il giro del mondo mentre l'Italia offesa si accaniva sul fellone per consacrarlo al vituperio dell'intero Pianeta. E «torni a bordo, cazzo!» divenne un tormentone più identitario di Va, pensiero e di Volare. Il tono di De Falco, che stava registrando e alzava spesso la voce, era imperativo e pieno di disprezzo. «E che? Vuole tornare a casa, Schettino?».

«È buio e vuole tornare a casa?». «Le faccio passare io l'anima dei guai». Ripetutamente De Falco intimava a Schettino di tornare a bordo, ma pronunciava una sola volta l'espressione completa che lo ha reso famoso, «torni a bordo, cazzo!». E più De Falco gridava, tuonava e imprecava, più Schettino si impappinava e si imbrogliava nelle bugie. Schettino non ce l'ha fatta e giustamente è stato condannato dai giudici. 

Ma forse c'era qualcosa che il suo superiore di scrivania avrebbe potuto tentare: forse dosare le parole, forse evitare la scorciatoia del "cazzo"? È facile con il senno di poi, ma il comando è un'arte di sapienza veloce, e il comandante, già secondo Socrate, «deve essere attento, infaticabile e perspicace, gentile ma crudele, schietto ma astuto, una guardia e un ladro, prodigo, taccagno, generoso, gretto, impetuoso e prudente».

E, aggiunge Machiavelli: «Chi desidera essere obbedito deve sapere come si comanda». E poi, come se li stesse aspettando entrambi, c'era appunto l'Italia del gennaio del 2012 che sapeva che quella era una tragedia della mediocrità, e leggeva in quel naufragio la metafora della propria leadership. Perciò aveva bisogno del veleno e dell'antidoto al veleno, dell'italiano nobile da contrapporre all'italiano ignobile, al peggiore e al dannato, bastonato, sì, ma dall'eroe.

E così le rivelazioni dei cronisti sulla notte del naufragio divennero sempre più sensazionali: Schettino con la moldava, Schettino e la cocaina sui capelli, Schettino e l'inchino, Schettino e la spavalderia, Schettino e la vigliaccheria. Al contrario, De Falco divenne famoso come eroe positivo solo grazie al tono dell'imperium, anche se nessuno l'aveva mai visto in pericolo su una nave che affonda; nessuno sapeva come si sarebbe comportato al posto di Schettino, che invece, gradasso come ogni vigliacco, se fosse stato al posto di De Falco, avrebbe gridato "cazzo" pure lui.

C'è infatti nel «torni a bordo, cazzo!» l'Italia che ha avuto Mussolini ma non Churchill; non De Gaulle e Mitterrand ma Togliatti e De Gasperi, che traevano la loro forza dalle potenze straniere. Ci sono, nell'idea che il comando sia gridare e che dire "cazzo" sia una risorsa della virilità, tutti i nostri capi e capetti autoritari e non autorevoli, tutti i gerarchi e tutti i bulli nazionali: mai un nocchiero in gran tempesta ma solo e sempre la coppia Schettino-De Falco, nostri simili, nostri fratelli.

Costa Concordia, la storia degli uomini che scoprono chi sono solo davanti alla paura. Selvaggia Lucarelli su Editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. Non vorresti mai smettere di ascoltarlo: è l’effetto che fa Il dito di Dio, il podcast di Pablo Trincia e Debora Campanella la ricostruzione avvincente e penosa della notte del 13 gennaio 2012, quando un’incredibile sequela di errori e di presunzione che appanna la ragione, decideranno la sorte della nave Costa Concordia.

Finché a un certo punto il destino è ormai chiaro a tutti - la nave affonderà - e allora si prega, si calpestano gli altri per salire sulle scialuppe, ci si lancia in acqua, si sgrana il rosario.

Tra registrazioni, testimonianze e ricordi dei sommozzatori, Il dito di Dio non è solo la storia di una nave che affonda. È la storia degli uomini - tutti gli uomini - che scoprono di essere qualcosa che non sanno, di fronte alla paura.

«Possiamo continuare a fare dei giri in tangenziale per non smettere di ascoltarlo?». Stiamo per imboccare la nostra uscita in autostrada dopo un viaggio di quasi tre ore e il mio fidanzato - fatto piuttosto inedito - non ha fiatato lungo tutto il tragitto. Alla partenza l’avevo convinto ad ascoltare una puntata de “Il dito di Dio”, il podcast di Pablo Trincia e Debora Campanella prodotto da Spotify e Choramedia sul naufragio della Costa Concordia (io ero già arrivata alla quarta puntata) e aveva accettato con una certa svogliatezza. Alla fine non era più riuscito a smettere.

Avrebbe continuato a viaggiare non per il viaggio, che era finito, ma per l’ascolto. È l’effetto che fa Il dito di Dio, la ricostruzione avvincente e penosa della notte del 13 gennaio 2012, quando un’incredibile sequela di errori- alcuni incomprensibili, altri imperdonabili- e di presunzione che appanna la ragione, decideranno la sorte di un gigante d’acciaio, di chi si è salvato, di chi è stato inghiottito nel suo ventre.  

Pablo Trincia è uno che ama i dettagli e le partenze da lontano. Ti accompagna nella storia tra rumori di stoviglie, coltelli che battono sul tagliere, il garrito dei gabbiani. E poi il brusio meravigliato di chi sale a bordo, persone che non hanno viaggiato, altre che hanno viaggiato solo sulle navi da crociera, che possiedono con fierezza la tessera punti come al supermercato.

E poi coppie che festeggiano l’anniversario di nozze, la luna di miele, signore che si sono regalate la crociera per il compleanno, nonni che con i soldi della pensione hanno regalato il viaggio a figli e nipoti, anziani disabili che possono percorrere migliaia di km solcando i mari.

Migliaia di uomini, donne, bambini che vivono per la prima volta l’emozione del lusso, dell’opulenza, del cibo che riempie le tavole, della riverenza dei camerieri. Persone semplici che si sentono improvvisamente agiate, ossequiate. E i camerieri, appunto, assieme al resto della manovalanza delle navi da crociera (più di mille dipendenti ) che ne Il dito di Dio sono pezzi di un ingranaggio famelico e spietato prima e angeli risolutori dopo, quando le stesse mani che tagliavano tonnellate di pollo e macedonia saranno quelle che caleranno le corde delle scialuppe di salvataggio. O che prendono per mano passeggeri disorientati, ragazze con i tacchi alti e uomini con i piedi tagliati dalle stoviglie rotte.

Si sorride, all’inizio, quando alcuni dei superstiti più giovani raccontano l’esperienza ingenua di chi non scendeva neppure nei porti per vedere la città, perché in fondo la vera attrazione era quel parco giochi galleggiante con le piscine, i teatri, gli animatori che facevano innamorare le ragazze. Ci si commuove quando si ascolta chi racconta di viaggi che hanno il sapore della malinconia, coppie ormai anziane, lui che ha lavorato tutta la vita nelle miniere del Sulcis e regala un’ultima crociera alla moglie, che si sta ammalando di Alzheimer.

“Il dito di Dio” non è solo la storia di una nave che affonda. È la storia degli uomini - tutti gli uomini - che scoprono di essere qualcosa che non sanno, di fronte alla paura. L’impatto sullo scoglio, le luci che si spengono, la nave che si inclina e l’incognita del coraggio e della vigliaccheria. C’è un comandante che governava i flutti e si ritrova incapace di accettare l’errore, piegato su uno scoglio, con la camicia asciutta e la coscienza fradicia, paralizzato dalla codardia che non è quella di chi non vuole morire.

È quella di chi non vuole fare i conti con la sua fallibilità. Di chi si aggrappa all’impossibile (il momento in cui chiede che un’imbarcazione di 27 metri traini la nave da crociera in porto è l’emblema della paralisi della razionalità). E poi c’è chi si scopre insolitamente calmo, perché nella negazione della realtà trova un giaciglio caldo (Maria Grazia che invita sua figlia Stefania a finire la seppia con i piselli, mentre la nave ha già iniziato a imbarcare acqua).

C’è la drammatica ed esilarante registrazione della papà sardo che mentre i figli urlano terrorizzati “la nave è rotta” dice che vuole finire il vino, che glielo rimborseranno. E la moglie che lo minaccia, quando lui fa cenno di volerli lasciare soli per andare a recuperare la bottiglia.

Finché a un certo punto il destino è ormai chiaro a tutti- la nave affonderà- e allora si prega, si calpestano gli altri per salire sulle scialuppe, ci si lancia in acqua, si sgrana il rosario. Le famiglia si dividono, ci si perde sperando di ritrovarsi a terra, si telefona e il telefono muto è una sentenza di morte, si chiamano i carabinieri e “aiuto, aiutatemi, ho due bambini!”. Si piange, ascoltando lo strazio di quelle telefonate da una nave che affonda a una caserma sulla terra ferma, con i carabinieri sprovvisti di parole, increduli, incapaci di confortare, forse di capire. 

Infine, i ricordi dei sommozzatori, le loro pinne nere, le ricerche nella pancia della nave tra lenzuola e tende che fluttuano nel buio come fantasmi, cercando corpi negli anfratti angoscianti di una città sommersa, popolata da morti che galleggiano addossati ai soffitti, con i loro giubbetti di salvataggio ancora allacciati. E poi i morti che non si trovano, scivolati nel labirinto dei corridoi freddi di una nave morta anch’essa, tra i suoni sinistri dell’acciaio che si piega.

Il dito di Dio racconta quello che della Costa Concordia non si è mai raccontato. O che è stato dimenticato. Troppo presi, tutti, dal narrare le colpe dell’anti-eroe Schettino, ci siamo dimenticati negli anni dei piccoli eroi indiani, filippini, sudamericani che quella notte furono il motore della salvezza, quando i motori d’acciaio erano spenti. Quando la nave “era persa”.

Ci siamo dimenticati del personale che piangeva nel retro dei bar, delle storie familiari, dello strazio di quelle morti sciatte ed evitabili, dei corpi che hanno continuato a fluttuare per mesi e anni, di Macedonia Man, di una papà con la sua  bambina, di Maria Grazia che aveva combattuto contro la malattia e della sua amica del cuore Luisa. Ed è strano pensare a quanto poco si sia documentato a bordo della nave in quei momenti. Erano solo dieci anni fa, ma i telefonini avevano funzioni più elementari, i social erano pochi, sembra passata un’era geologica.

L’ascolto de Il dito di Dio, a tratti, diventa difficile. Capita di piangere, di singhiozzare. Di chiedersi cosa, chi saremmo stati, noi quella notte. La parrucchiera che rinuncia al suo posto sulla scialuppa per far salire i bambini o il passeggero nel panico che passa sopra alla donna sulla sedia a rotelle? Di chiedersi quanto sappiamo dell’invisibile, di ciò che accade sotto la linea di galleggiamento, di ciò che muove ciò che sta sopra. Su una nave da 110 000 tonnellate. Nelle nostre vite, finché non è la paura a rivelarcelo.

Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 10 gennaio 2022.

Giovedì saranno 10 anni dal naufragio della Concordia, e per Ernesto Carusotti, oggi ottantenne, raccontare quella notte «è sempre una cosa tremenda». Tante volte l'ha ripercorsa nelle aule dei tribunali, dal 2017, inizio della sua battaglia legale, assistito dall'avvocato del Codacons Giuliano Leuzzi, che gli è accanto anche durante il nostro dialogo.

Ha deciso di combattere per avere di più rispetto a un risarcimento che riteneva inaccettabile - 10.000 euro circa sono stati proposti a tutti i naufraghi - perché sentiva di aver subìto un'ingiustizia: «Per me la Concordia è stata ed è ancora oggi un incubo ricorrente. Io e mia moglie siamo stati molto male».

Il tribunale di Genova ha condannato Costa Crociere a risarcirlo con 97.692 euro, «riconoscendogli un disturbo da stress post traumatico, biologico, e anche il danno esistenziale morale connesso con l'esperienza devastante», spiega Leuzzi: «È stato insomma riconosciuto che c'è stata una radicale modifica delle abitudini di vita in conseguenza di questo fatto».

Ernesto, lei è un insegnante in pensione, giusto?

«Ho insegnato educazione tecnica fino a 68 anni, sì. Lavoravo nelle scuole medie. Ero appassionato al mio mestiere, riuscivo a trasmettere ai ragazzi passione, inventandomi sempre cose nuove. Alcuni di loro se le ricordano ancora a distanza di anni, sa?».

Abita a Roma, ha tre figli.

«Dopo il matrimonio, a 29 anni, arrivarono due gemelli. E poi il terzo figlio. Oggi sono anche nonno di sette nipoti».

Una vita tranquilla, la sua, prima di quel giorno?

«Non la definirei certo avventurosa. Anche le nostre vacanze erano sempre organizzate con percorsi precisi, andavamo in posti conosciuti. Nessun viaggio fantastico, esotico».

Dieci anni fa decideste con sua moglie, Paola, di salire su una nave da crociera.

«Non era la prima volta, avevamo già fatto tre o quattro vacanze così. Sulla Concordia addirittura ci eravamo stati anche due anni prima, con tutta la famiglia, figli e nipoti compresi. Non avrei mai potuto immaginare quel che sarebbe capitato».

Il 13 gennaio, l'inchino davanti all'isola del Giglio. L'impatto, il naufragio. Se le nomino Francesco Schettino, che sentimento prova?

«Guardi, le sembrerà forse strano, ma Schettino per me è un personaggio secondario di questa vicenda. Ha ammesso il suo errore, certo, era comandante di una nave con così tanti passeggeri e ha sbagliato. È stato condannato. Ma quella nave doveva reggere l'urto, galleggiare normalmente finché tutti i passeggeri fossero scesi. Non doveva piegarsi. Mancavano invece manutenzioni e revisioni».

Morirono 32 persone.

«Fosse successo più al largo, e se il vento non avesse tirato nella giusta direzione, i morti sarebbero stati di certo di più. E noi, Paola e io, probabilmente, saremmo rimasti dentro quella nave, in mezzo al Tirreno. I giudici, poi, hanno ampiamente accertato un'impreparazione dell'equipaggio sulle operazioni di salvataggio.

Il punto di partenza per me, quello che mi ha portato a non accettare il primo risarcimento, è abbastanza semplice: se si trasportano più di 4.000 persone, e oggi alcune navi sono in grado di ospitarne quasi il doppio, la sicurezza dev'essere certa, garantita da personale capace anche nei momenti d'emergenza. 

Questo mi aspetto quando compro un biglietto per una crociera: tutto compreso, sicurezza inclusa. Ma quel giorno non ho visto nulla di simile. Più ci penso, più ritorna la rabbia».

Qual è il suo ricordo più ricorrente di quella notte?

«L'attraversamento della nave, nel buio più completo. Il salone era già in pendenza, e con mia moglie speravamo di trovare dall'altra parte una scialuppa per salvarci, ma sapevamo anche che non saremmo potuti tornare indietro, perché forse la nave si sarebbe ribaltata del tutto. 

Brancolavamo come fantasmi, temendo di annegare da un momento all'altro. Mia moglie a un certo punto sparì, e poi la ritrovai. Temetti di non rivederla più. La situazione era completamente fuori controllo».

Ha fatto pace con questo ricordo?

«Il problema ritorna, di punto in bianco, a periodi. Me ne sono quasi fatto una ragione, ma nessuno mi può dire che è normale: ancora oggi ci sono momenti in cui mi sveglio di soprassalto, nel cuore della notte. Sento ancora il rumore dei piatti che cadevano e si fracassavano sul pavimento. Lo sfrigolio di rumori stridenti è rimasto nella mia mente. E la confusione generale, una tremenda baraonda».

Nella corsa alle scialuppe?

«Nessuno di fatto ci ha aiutati, ci siamo aiutati da soli. Per questo sono stato così combattivo nella battaglia in tribunale, e ho deciso di non arrendermi. Quando l'allarme fu finalmente chiaro, perché la nave si stava già inabissando, finii con mia moglie su un lato della nave, con un centinaio di viaggiatori: l'obiettivo era farci salire su una scialuppa, calarla e metterci in salvo. 

Ma lo scafo della scialuppa, mentre veniva abbassato, urtò la Concordia stessa, ormai già inclinata, e a quel punto fu il panico. Provano a ritirarlo su, ma non ci riuscirono. Allora ci fecero scendere, ci ordinarono di prendere dei remi per provare a disincagliare, noi, la scialuppa».

Voi passeggeri con i remi in mano?

«Esatto. Ma i remi si spezzarono. E tornammo a bordo, dove nel frattempo un blackout aveva sprofondato nel buio corridoi, sale, ogni ambiente. Un addetto con ricetrasmittente ci consigliò allora di attraversare la nave, assicurandoci che avremmo trovato una scialuppa funzionante. È stata un'avventura che mai avrei pensato di vivere. In vacanza, per giunta». 

Ricorda anche il momento dell'impatto?

«Eravamo al teatro, dopo aver mangiato al primo turno. Clima da crociera, di fiducia, non saprei spiegarle meglio. Improvvisamente quella sferragliata, un rumore molto forte. Come se si fosse rotta qualche macchina». 

Era lo scoglio.

«Nessuno lo poteva immaginare. Stavamo assistendo a uno spettacolo di magia, e il mago scappò via come un fulmine. Fu un presagio». 

Scappaste subito anche voi?

«No, perché ci dissero di tornare in cabina, e di stare tranquilli. Con Paola andammo a prendere i telefoni che avevamo lasciato in carica, e ricordo il primo blackout con lo stesso terrore di allora. Pochi secondi di un buio nero, totale. Salimmo allora sul terrazzo del dodicesimo ponte, volevo vedere cosa stesse succedendo. Vidi la fumaiola, mi sembrò che la nave stesse procedendo. E invece si stava già piegando. Ricordo che vedevo persone scendere le scale già in agitazione».

Dopo l'attraversamento della nave al buio, finalmente, la seconda scialuppa che vi ha portato in salvo sulla terraferma.

«Sì. Ne trovammo una al quarto piano. Una bolgia, senza ordine, i passeggeri davano l'assalto. Con mia moglie saltammo sul tetto, perché era già stata calata un metro sotto la ringhiera. 

Ricordo che l'addetto a guidare quella scialuppa era vestito da cameriere, mi pare mi avesse servito l'aperitivo la sera prima. Si vedeva chiaramente che non era pratico, non riusciva a staccarsi dalla nave. Ricordo di avergli urlato: presto, ci viene addosso». 

La terra era vicina.

«A un certo punto pensai anche di tuffarmi e farla a nuoto. Ma capisce, avevo 70 anni allora. Mia moglie uno meno di me. Quando ero bambino, e da ragazzo, trascorrevo tutte le estati a San Felice Circeo, al mare. Dopo quel che è successo, per anni non sono più riuscito a metterci neppure i piedi, avevo ripugnanza dell'acqua, la sensazione costante che sarei potuto affogare».

Si è poi fatto aiutare da qualche psicologo?

«Mi restano impressi i colloqui, i test. Hanno certificato scompensi nel medio-lungo periodo. Sono tanti i flash che ancora oggi mi affiorano in testa. Nel dormiveglia, spesso, sto guardando la Concordia da cui ci stiamo allontanando e ne percepisco i movimenti, il progressivo inclinamento e mi sembra che ci stia venendo addosso e ci travolga.

E poi il ricordo di quando guardai indietro prima di salire sulla scialuppa: notai che il nostro gruppo si era sfilacciato, c'era chi aveva perso terreno e capii che chi non fosse stato salvato sarebbe morto. E mi sconvolge, mi sconcerta ancora oggi tutto questo».

Ha già deciso cosa fare con quel risarcimento?

«Vediamo quando arriverà, intanto. Ma no, non so ancora cosa farci. Non era la cifra, a importarmi, ma la soddisfazione di questa prima vittoria: non ci si poteva mettere una pietra sopra accettando un rimborso simbolico. Di certo, però, Paola e io non faremo mai più una crociera».

·        La Strage del Mottarone.

Il patteggiamento del nonno di Eitan: multa di 53mila euro per il rapimento. Vicenda chiusa. Ma per la zia del bimbo è una "pena bassa". Redazione il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«Per il bene di Eitan». È il «messaggio» della sentenza che chiude il fronte penale delle liti familiari sul destino del piccolo sopravvissuto all'incidente del Mottarone.

Il nonno materno Shmuel Peleg patteggia la pena (sospesa) di un anno e otto mesi più un risarcimento di 53mila euro destinati a cure e istruzione del bimbo per le accuse di sequestro di persona, sottrazione internazionale del minore e appropriazione indebita del passaporto, per due mesi in meno l'autista e presunto complice Gabriel Alon Abutbul. I fatti sono quelli dell'11 settembre 2021 quando Eitan venne sottratto dai due imputati alla zia materna e allora tutrice Aya dall'abitazione nel Pavese per essere imbarcato su un aereo verso Israele. Nelle motivazioni lette dopo il dispositivo della decisione con cui ha ratificato il patteggiamento, il gup di Pavia Pietro Balduzzi ha scritto, così hanno riferito i legali presenti nell'aula a porte chiuse, che Eitan era «felice» di andare nel suo Paese d'origine e non ha subito «violenze o coercizione» dal nonno.

Non proprio tutte le crepe però si sono ricomposte. «Se questa soluzione può aiutare il futuro del bambino naturalmente siamo tutti contenti. Però noi siamo anche sgomenti per la pena patteggiata, molto bassa rispetto alla vicenda - è il commento degli avvocati di Aya, Emanuele e Giuseppe Zanalda -. Con la decisione presa oggi non sapremo mai la verità sul denaro utilizzato per organizzare il rapimento e su come sia stato possibile passare la frontiera e raggiungere l'aeroporto di Lugano, da dove è partito l'aereo per Israele».

E sull'ipotesi che il bambino potesse essere felice di stare col nonno, Giuseppe Zanalda commenta che «non può essere considerata attendibile, a livello legale, la testimonianza di un minore che abbia meno di 14 anni».

Parlano invece di «bene del minore e della famiglia» Sara Carsaniga e Mauro Pontini, legali del nonno, che invece non vogliono commentare le considerazioni sulla pena che sarebbe bassa. «I legali di Aya sono responsabili di quanto sostengono. Ribadiamo che il nonno, quando è andato a prendere il bambino, pensava di fare un'azione legittima». Si era già sfilato dalla scorsa udienza Fabrizio Ventimiglia che aveva ritirato la costituzione di parte civile per conto di Eitan «contro» il nonno sempre in nome della pace familiare. Oggi in udienza ho revocato la costituzione di parte civile anche nei confronti del signor Alon a seguito dell'intesa raggiunta.

«Dopo molti mesi dal disastro che ci ha colpito abbiamo deciso di mettere fine all'estenuante processo legale con un accordo fatto per scelta», ha aggiunto Shmuel Peleg confermando il patteggiamento nel suo processo.

Ma non è finita qui. I due rami della famiglia sono «rivali» anche nella procedura per l'adozione del bambino e sul piano della giustizia civile potrebbero registrarsi altre iniziative.

E le dichiarazioni del nonno rilasciate ieri in serata lo confermano. «La mia famiglia ed io continueremo a concentrarci sugli sforzi per adottare Eitan e portarlo in Israele dove è casa sua», ha ribadito deciso ad andare avanti e a portare il bambino via dall'Italia.

Mottarone, il perito in aula "Danni visibili da un anno". La rivelazione choc del consulente del gestore. L'ipotesi: 25 milioni per i parenti delle vittime. Tiziana Paolocci il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«Il degrado della fune era visibile almeno un anno prima del cedimento e ci si poteva già accorgere che stava succedendo qualcosa».

Una notizia agghiacciante, quella comunicata da Andrea Gruttadauria, docente al Politecnico di Milano e consulente tecnico della difesa di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia del Mottarone, il primo ad aver ammesso l'uso dei «forchettoni», per bloccare i freni d'emergenza dell'impianto. L'esperto ieri ha parlato a Verbania, dove si sta svolgendo l'incidente probatorio sulla tragedia della funivia del Mottarone. «Si poteva vedere che stava succedendo qualcosa - ha sottolineato - perché secondo la mia valutazione, che deriva da esperienza e studi specifici, erano già presenti le prime avvisaglie. Lo abbiamo potuto capire nelle analisi di laboratorio, vedendo come si è propagata la fessurazione della fune». «Difficile invece - ha agiunto il consulente del legale di Tadini, l'avvocato Marcello Perillo - stabilire con certezza le cause della rottura, che come dice la perizia è stata determinata da una somma di fatica e corrosione, la cui origine però è molto difficile da determinare».

Quella di oggi dovrebbe essere l'ultima udienza in calendario se, come si prevede, sarà sufficiente per esaurire sia le ultime domande poste dalle parti ai periti, sia le eventuali eccezioni di nullità che le difese potranno presentare per escludere parti della perizia tecnica dal fascicolo, che costituirà elemento essenziale del processo. Se così sarà, l'incidente probatorio terminerà e la Procura potrà chiudere le indagini preliminari e formulare le richieste di rinvio a giudizio o di archiviazione. A meno che non ci siano novità in arrivo, come il coinvolgimento di altri soggetti nello schianto della cabina 3 del Mottarone, che il 23 maggio 2021 costò la vita a 14 persone.

La giornata di ieri era iniziata con le domande dell'avvocato dei vertici di Leitner, Paolo Corti, al collegio dei periti scelto dal giudice per esprimersi «sulle cause». Poi c'è stato l'esame dei consulenti tecnici di parte, a cominciare dagli informatici, convocati dagli avvocati di Enrico Perocchio, il direttore di esercizio della funivia. Sempre ieri sono circolate le prime ipotesi sul risarcimento ai familiari delle vittime. Basandosi esclusivamente sui massimali previsti dalle tabelle di Milano, la cifra potrebbe lievitare fino a circa 34 milioni di euro, ma gli avvocati reputano quella di 25 milioni la cifra più verosimile. Sul tavolo, da alcuni mesi, ci sono già dieci milioni di euro messi a disposizione da Reale Mutua, la compagnia che assicurava Funivie del Mottarone, la società gestita da Luigi Nerini. I difensori evidenziano come i risarcimenti potrebbero assumere un peso rilevante nel processo, consentendo l'uscita di scena delle parti civili dall'eventuale dibattimento. Oggi tocca al controesame degli ultimi periti di parte. Parleranno le difese della società Leitner, della società Sateco, subappaltatori della Leitner, e di Luigi Nerini. Così l'incidente probatorio arriva all'epilogo.

Mottarone, ora è Nerini a fare causa al comune di Stresa: cosa sta succedendo. Ferrovie del Mottarone chiede al Comune di Stresa il riconoscimento di oltre un milione di euro relativo a dei pagamenti arretrati. Federico Garau il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Si aggiunge un nuovo capitolo alla tragica vicenda del Mottarone. Luigi Nerini, in qualità di amministratore delle Funivie, ha infatti chiesto al comune di Stresa oltre un milione di euro per il mancato versamento di una rata relativa all’ammodernamento dell’impianto.

Si preannuncia, dunque, una nuova battaglia legale, col giudice di Verbania Vittoria Mingione che non si è ancora espresso circa la possibilità di apreire o meno un'istruttoria sul caso.

Mottarone, "l'azienda sapeva dei problemi"

La richiesta di Ferrovie del Mottarone

Mentre va avanti l'inchiesta sulla tragedia del Mottarone, incidente che ha provocato la morte di ben quattordici persone, è arrivata la richiesta da parte delle Ferrovie. A inzio novembre, infatti, Luigi Nerini ha parlato in qualità di amministratore, chiedendo al Comune di Stresa il versamento di oltre un milione di euro per il mancato pagamento della rata del 2021. Rata relativa a un contributo che il Comune avrebbe dovuto versare per l’ammodernamento dell’impianto avvenuto negli anni 2015-2016.

Nello specifico, Ferrovie del Mottarone esige il pagamento dei canoni da 143 mila euro l’anno fino al 2028: ciò si traduce nella cifra totale di un milione e 100mila euro.

"Nella sua richiesta Ferrovie del Mottarone richiama l’articolo 1186 del codice civile, quello che stabilisce che il creditore può esigere immediatamente il pagamento del dovuto se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito le garanzie date. Mi pare che non possa essere applicato a questo caso, ma naturalmente deciderà il giudice. Da un punto di vista morale, forse, non era il momento giusto per fare questa richiesta", aveva commentato ad Ansa Sandro Bussi, il legale che rappresenta il comune di Stresa.

La decisione del giudice

Quest'oggi, martedì 29 novembre, l'udienza civile presso il tribunale di Verbania. Il dibattimento, fanno sapere da Il Giorno, è stato relativamente breve. Circa un quarto d'ora. Ferrovie del Mottarone, rappresentate dagli avvocati Valter Pompeo Azzolini e Giuseppe Faedda, ha presentato la propria istanza, mentre il Comune di Stresa una memoria difensiva.

Il giudice Vittoria Mingione ha per il momento acquisito tutto il materiale, prendendosi qualche giorno per decidere come procedere. C'è la possibilità dell'apertura di un'istruttoria, come quella di una sentenza immediata.

Una causa al Comune, spiega Marzia Laura Martinoli, legale di Ferrovie del Mottarone, potrebbe dare a Nerini la possibilità di versare il risarcimento a tutti coloro che ne hanno diritto.

Funivie. Tragedia Mottarone, il Csm chiude il caso sullo scontro tra magistrati. Il Plenum ha archiviato la pratica sulle presunte incompatibilità ambientali emerse nel tribunale di Verbania. Il Dubbio il 20 Novembre 2022.

Via i protagonisti dello scontro tra magistrati sull’inchiesta della tragedia del Mottarone, con il crollo della funivia che causò decine di vittime. Secondo il Plenum del Csm, nella prima fase delle indagini ci sono state «significative alterazioni dei rapporti all’interno del Tribunale di Verbania» ma in tempi più recenti c’è stata «un’evoluzione positiva della situazione dell’ufficio» e soprattutto sono andati via i protagonisti di quelle tensioni, l’allora capo di quell’ufficio giudiziario Luigi Montefusco e la presidente della Sezione gip dell’epoca Donatella Banci Buonamici. Dunque ora non ci sono «circostanze che possano costituire fonte di oggettivo pregiudizio all’immagine di piena indipendenza ed imparzialità nell’esercizio dell’attività giurisdizionale presso il Tribunale di Verbania».

I contrasti al tribunale di Verbania erano nati sull’assegnazione del fascicolo sulla tragedia della funivia, che Banci Buonamici si era attribuita, e che poi Montefusco le aveva tolto, affidandolo a un’altra magistrata. C’erano state anche tensioni con la procura, con qualche «asperità eccessiva», scrive il Csm, espressa da Buonamici nel corso di un’udienza a porte chiuse nei confronti dell’ufficio diretto da Olimpia Bassi. Parole che erano trapelate all’esterno e che vennero riportate dai mezzi di comunicazione.

Caso chiuso da parte del Csm al termine di un’ampia istruttoria nel corso della quale sono stati ascoltati la procuratrice, Buonamici, alcuni giudici del tribunale di Verbania, e il presidente dell’Ordine locale degli avvocati Marco Marchioni, non invece Montefusco perché intanto è andato in pensione.

Marchioni ha testimoniato che le «fortissime tensioni» che inizialmente c’erano state «anche con l’avvocatura», si sono «recentemente stemperate con un ritorno ad un clima più tranquillo, collaborativo, proficuo». Ma «di rilievo decisivo» per mettere la parola fine alla vicenda, sottolinea la delibera, sono « l’avvenuto pensionamento» di Montefusco, che ha lasciato la magistratura alla fine del 2021 ,e «il trasferimento, a sua domanda» di Banci Buonamici alla Corte d’Appello di Milano, deliberato dal Csm il 10 ottobre scorso.

(ANSA il 20 ottobre 2022) - Prende il via questa mattina davanti al gip del tribunale di Verbania l'udienza in cui verranno sentiti gli esperti che hanno effettuato le perizie sull'incidente alla funivia del Mottarone in cui, il 23 maggio 2021, sono morte quattordici persone. 

Nell'aula della Provincia stanno arrivando i tecnici dei due collegi peritali e le difese delle parti e i legali delle parti civili. Atteso anche il procuratore Olimpia Bossi, che coordina le indagini con il pm Laura Correra, e gli indagati. Depositate circa un mese fa, le perizie - un migliaio di pagine in cui tecnici e ingegneri mettono nero su bianco l'esito di sopralluoghi, test ed esami di laboratorio - hanno stabilito che la fune era corrosa ben prima dell'incidente e una corretta manutenzione avrebbe potuto rilevarlo.

Oltre al fatto che i forchettoni, le ganasce per disattivare il freno d'emergenza, erano state inserite quasi abitualmente nelle settimane precedenti la disgrazia per evitare blocchi della cabinovia dovuti alle anomalie che si registravano. 

In aula, ad assistere all'esame dei periti, ci sono due degli indagati: Gabriele Tadini, caposervizio dell'impianto, e Enrico Perocchio, direttore di esercizio.

(ANSA il 20 ottobre 2022) – Un audio di pochi secondi in cui è stato registrato il momento della rottura del cavo. È uno degli elementi della perizia informatica illustrata in aula a Verbania, durante l'incidente probatorio disposto per far luce sulle cause della tragedia del Mottarone. Stamane hanno cominciato a esporre il loro lavoro i periti del collegio informatico. L'incidente probatorio continuerà domani e lunedì. Se non si dovesse concludere, il gip ha fissato altre udienze. 

L'audio, secondo quanto riferito, dura una decina di secondi ed è stato fatto ascoltare più volte, anche sovrapposto al video dell'incidente. In sostanza si sentono due colpi secchi e un terzo prolungato, che dovrebbe essere quello del cavo che scarrucola. Prima della pausa pranzo dovrebbero chiudere con la loro esposizione i periti informatici

(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Quando sono stato fermato ho raccontato subito la verità, ancora prima che mi facessero le domande. Oggi sono un po' scosso e, a distanza di tempo, non ho ancora superato la cosa". Sono le parole di Gabriele Tadini, il caposervizio della funivia del Mottarone indagato per l'incidente in cui il 23 maggio 2021 sono morte 14 persone. Presente alla prima udienza dell'incidente probatorio, Tadini ha detto che vedere il video e sentire l'audio dell'incidente "è stata una cosa non bella". "Ci penso sempre, tutti i giorni - ha aggiunto - Penso alle famiglie, è difficile da superare. L'unica cosa che faccio è pregare, una cosa importante che mi risolleva".

(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Ci penso sempre, tutti i giorni. È difficile superare la cosa, mi sento comunque responsabile". Lo ha detto Gabriele Tadini, il caposervizio della funivia del Mottarone indagato per l'incidente in cui il 23 maggio 2021 sono morte 14 persone, lasciando la sala della Provincia di Verbania in cui si è svolta la prima udienza dell'incidente probatorio. "Sono due giorni che non dormo - ha aggiunto a proposito della sua partecipazione all'udienza - Prego prima per le vittime e poi per me. È stata pesante, non pensavo di dover provare una cosa del genere".

Il difensore di Tadini, l'avvocato Marcello Perillo, ha definito "inquietante" l'audio in cui si sente il rumore di "due rotture molto ravvicinate, a distanza di due secondi, e poi un rumore più forte di trascinamento metallico, che dovrebbe essere quello della fune che scarroccia". Il legale ha sostenuto che per la perizia da tempo non veniva controllata la parte di fune a pochi centimetri dalla testa fusa. 

E ha aggiunto che il suo interesse è "che venga precisato quali erano i ruoli relativi ai controlli" e quali erano le verifiche che spettavano a Ustif, Leitner, e Sateco, anticipando alcuni temi delle domande che farà ai tecnici nominati dal gip nelle prossime udienze.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 17 ottobre 2022.

Chi controllava i controllori? La catena di omissioni denunciate dai periti che hanno lavorato sulle cause della tragedia del Mottarone fa decidere ai pm di Verbania di indagare sul perché l'Ustif di Torino (Ministero infrastrutture) non sia intervenuta prima con i suoi sparuti tre addetti per i 200 impianti di Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria nonostante le gravi violazioni delle norme di manutenzione e sicurezza nella funivia. 

I tecnici nominati dal Gip Annalisa Palomba (Mario Bonfioli, Antonello De Luca e Tomaso Trombetti) per l'incidente probatorio di giovedì prossimo hanno rimarcato con cruda evidenza come la tragedia che il 23 maggio 2021 costò la vita a 14 persone si sarebbe potuta evitare se non ci fosse stata una colpevole superficialità.

Probabilmente la ruggine non si sarebbe mangiata come un cancro il 68% della fune traente che si è spezzata facendo precipitare la cabina con i passeggeri, che si sarebbero comunque salvati se i freni non fossero stati esclusi con i forchettoni (causa principale dell'incidente) perché l'impianto dava noie. 

La vita di una funivia con tutto ciò che accade - guasti, controlli, interventi obbligatori - va riportata quotidianamente sul «Registro-giornale» firmato dal caposervizio e dal direttore di esercizio, rispettivamente Gabriele Tadini e Enrico Perocchio, indagati con il titolare Luigi Nerini e altre 9 persone nell'inchiesta del procuratore Olimpia Bossi e del pm Laura Carrera per omicidio e lesioni colposi e rimozione di sistemi di sicurezza.

Perocchio è dipendente della Leitner incaricata della manutenzione dalle Ferrovie del Mottarone (le due società sono indagate). Libro-giornale e «Registro di controllo e manutenzione» annuale sono determinanti per «l'attività di sorveglianza» dell'Ufficio speciale trasporti a impianti fissi (ora Agenzia nazionale sicurezza ferrovie e infrastrutture stradali e autostradali). 

L'Ustif, che poteva ispezionare in qualsiasi momento l'impianto, ogni anno deve ricevere il Registro dal direttore di esercizio il quale svolge un ruolo di «garanzia della collettività» per «tutelare la sicurezza dei viaggiatori e l'integrità dell'impianto». Consultando migliaia di documenti sequestrati, i periti non hanno trovato alcuna traccia dell'invio del documento. Ciò avrebbe dovuto far scattare l'allarme imponendo all'Ustif un intervento immediato al Mottarone «a carattere correttivo».

Agli atti anche questo non c'è. Si sarebbe così controllato il libro-giornale accorgendosi, ad esempio, che non erano stati annotati tanti controlli di sicurezza giornalieri e interventi di manutenzione obbligatori. Per i periti, semplicemente perché non avvenivano, come quello mensile alla testa fusa che avrebbe potuto evitare la tragedia e non sarebbe stato fatto per 5 anni. I tecnici Ustif risultano assenti, pur avendo l'obbligo di presenza, anche all'ispezione annuale alla funivia del dicembre 2020.

Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 25 giugno 2022.

Sarebbe bastato cambiare un pezzo della funivia, per scongiurare la tragedia. Soltanto quello. E le 14 persone che nel maggio del 2021 hanno perso la vita nell'incidente del Mottarone, non sarebbero mai precipitate. È questo il quadro emerso dal collegio dei periti che da quasi un anno è al lavoro sui resti di quella maledetta cabina numero 3.  

Nei giorni scorsi, gli esperti hanno chiesto al gip di Verbania più tempo per portare a termine le analisi, facendo così slittare il deposito delle perizie a settembre. L'approfondimento, però, intanto ha confermato che il disastro poteva essere evitato.

Secondo quanto ricostruito, infatti, «la testa fusa» della funivia il cuneo di piombo che aggancia il cavo alla cabina andava sostituita. La data di scadenza del pezzo non era stata raggiunta, ma dei 114 fili che componevano la fune, tre sono risultati essere danneggiati. Nello specifico, le lesioni sarebbero state «a 8 centimetri dal colletto della testa fusa». L'aspetto più inquietante di questa analisi è che tutto sarebbe dovuto emergere dalle ispezioni mensili previste dalla norma. 

Come sottolinea il collegio dei periti guidato da Antonio De Luca, ordinario di Tecnica delle costruzioni all'università Federico II di Napoli, «qualora tali lesioni si fossero riscontrate» durante i controlli periodici «si sarebbe dovuta dismettere la testa fusa». Il motivo per cui questo non è stato fatto è da chiarire. C'è la possibilità che le ispezioni non venissero eseguite, così come non è da escludere che il danneggiamento sia stato ignorato. Come era stato messo a verbale da uno degli indagati, titolare di una ditta esterna di manutenzione, la testa fusa sarebbe scaduta nel novembre del 2021. 

Il direttore di esercizio dell'impianto Enrico Perocchio, inizialmente avrebbe deciso di sostituirla, per poi cambiare idea scegliendo di aspettare l'autunno, così da non dover fermare la funivia all'inizio della stagione estiva. La richiesta di proroga avanzata dagli esperti è stata accolta dal gip Annalisa Palomba: revocate le udienze fissate per luglio, al collegio è stato concesso tempo fino al 16 settembre. Nelle prossime settimane, i periti estenderanno a tutti i fili del cavo le cosiddette analisi frattografiche, per accertare come sia avvenuta la rottura del cavo trainante. 

«Eravamo fiduciosi che le indagini su un individuato gruppo di fili della fune collassata ci potessero fornire una luce sulle ragioni del collasso» ha spiegato De Luca in una mail allegata alla richiesta di proroga. «Poiché invece abbiamo trovato ossidazioni molto consistenti su questi fili, riteniamo di operare in maniera estesa le indagini».

Un'altra questione da approfondire è quella «di assoluta rilevanza» relativa alle cause del danneggiamento dei fili, ciascuno dei quali verrà analizzato al microscopio elettronico. Un'operazione «con ricadute anche in generale sugli impianti funiviari esistenti». Gli esiti degli accertamenti tecnici verranno discussi in aula il 20, 21 e 24 ottobre. Nell'incidente del 23 maggio 2021 erano morte 14 persone, tutte quelle trasportate dalla funivia ad eccezione del piccolo Eitan, di soli cinque anni. 

Al momento gli indagati sono altrettanti, tra cui il caposervizio Gabriele Tadini, il gestore dell'impianto Luigi Nerini e Perocchio, arrestati quando poco dopo la tragedia era emerso che il freno di emergenza era stato disattivato. L'applicazione dei cosiddetti forchettoni aveva impedito che scattasse e la cabina era precipitata. 

Mottarone, un anno dopo la tragedia le testimonianze di chi arrivò per primo: «Ho cominciato a urlare e chiamare». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.

Le testimonianze di chi arrivò per primo sul luogo dell’incidente della funivia precipitata il 23 maggio. Domani la commemorazione sul luogo del disastro riservata ai soli parenti. 

Lo schiocco di una frusta gigantesca e terrificante scuote alle 12 del 23 maggio di un anno fa l’aria tersa di una splendida giornata di sole lungo le pendici del Mottarone. Un sibilo, poi un rumore di ferraglia, un tonfo sordo e il silenzio di morte. Alcuni escursionisti terrorizzati vedono la cabina della funivia precipitare dopo una corsa impazzita all’indietro. Urlano, raggiungono di corsa i rottami dove trovano ad attenderli l’orrore di 14 corpi sparsi sul terreno o incastrati nei rottami. Tentano di soccorrere i feriti, di dare loro un ultimo conforto. Invano. Solo un bambino di 6 anni si salverà nella più grave sciagura degli impianti a fune avvenuta in Italia, che non ci sarebbe mai stata se i freni di emergenza della cabina non fossero stati colpevolmente disinseriti con i famigerati «forchettoni» e se fosse stata fatta la manutenzione prevista dalla legge.

L’inchiesta: 12 persone e due società accusate

Sconforto, compassione e pietà umana e rabbia si fondono nei verbali redatti dai carabinieri nei primissimi momenti seguiti alla sciagura e depositati nell’inchiesta del procuratore di Verbania Olimpia Bossi e del sostituto Laura Carrera, che accusano 12 persone e due società (il gestore Funivie del Mottarone e la Leitner, colosso mondiale del settore cui era affidata la manutenzione) di disastro, omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime colpose e rimozione di sistemi di sicurezza. Andrea, milanese di 39 anni, e la compagna Elisabetta, di poco più giovane, stanno trascorrendo la domenica lontani dal Covid sul sentiero che da Stresa porta in vetta. Si trovano proprio dove passa la funivia, a poca distanza dal punto di caduta della cabina. Andrea è tra i primi ad accorrere: «Ho sentito un forte rumore, difficile da descrivere, che proveniva dall’alto. Sembrava una specie di ferraglia, un rumore metallico», dichiara.

È orribile la scena che si trova dinanzi agli occhi quando raggiunge i rottami. Prega che qualcuno sia sopravvissuto: «Ho cominciato a urlare e chiamare, nella speranza che qualcuno rispondesse». Sì, lo fa un uomo col po’ di voce che ancora gli resta nel corpo martoriato: «L’ho incitato a resistere». Arriva Pietro, 38 anni, uno dei tre addetti della funivia che, capito immediatamente ciò che è successo, con una corsa disperata scendono i 400/500 metri di pendio che separano la stazione a monte dal disastro. Anche lui tenta di dare conforto al ferito: «Mentre gli altri si occupavano dei bambini, io mi sono avvicinato» per parlargli «finché non è morto fra le mie mani». Andrea si accorge che c’è anche un bambino (ne sono morti due) che è ancora vivo. «Mi sono reso conto che era al lato. Ho provato ad aiutarlo, lo sentivo respirare ma non ha mai parlato», dice. E sembra quasi che dalle righe del verbale dei carabinieri venga fuori tutto il suo dolore. L’attrito ha arroventato la fune traente che ha mollato in un attimo la cabina facendola precipitare dopo essersi spezzata all’altezza della testa fusa, che è l’ancora al carrello della stessa cabina. La corrosione, infatti, s’era mangiata la fune dall’interno in quasi cinque anni in cui nessuno ha mai fatto la manutenzione che, su quel punto delicatissimo, andava eseguita ogni tre mesi. La compagna di Andrea, Elisabetta, 38 anni, prima di correre a dare una mano nei soccorsi, nota, infatti, che dove il capo incandescente è caduto l’erba ha preso fuoco.

Il racconto di Massimo, operatore di primo soccorso

Massimo, un cinquantenne dipendente delle Funivie del Mottarone, si trova sul pizzale della stazione di arrivo quando vede un filo di fumo salire nei pressi del pilone numero tre, quello che ha fatto da trampolino facendo saltare e precipitare la cabina che correva all’impazzata. Arriva con i colleghi e gli si presenta lo stesso scenario drammatico. «Ho visto la vettura — dichiara — disintegrata contro gli alberi. Mentre mi avvicinavo lentamente, ho trovato il primo cadavere». Lui, che è operatore di primo soccorso, prova a fare qualcosa: «Ho cercato di portare, per quello che potevo, soccorso ai feriti. Sono entrato nella cabina dove ho trovato un superstite con cui ho parlato per qualche attimo prima che morisse davanti a me». «A terra vi erano alcuni corpi in condizioni molto gravi» e «in posizioni innaturali», conferma Claudio, 60 anni. Anche lui si trova vicino al pilone della morte, vede tutto. «Ho capito che stava succedendo qualcosa di tragico». Risale il crinale per una ventina di metri per avvicinarsi alla carcassa contorta. Ha lo stesso istinto degli altri, cioè chiamare ad alta voce: «Ho urlato per vedere se qualcuno potesse rispondere, solo dall’interno della cabina ho ricevuto una risposta». È durata un attimo.

Domani la commemorazione nel luogo del disastro

Domani, i bambini, le donne e gli uomini periti saranno commemorati nel luogo del disastro con una cerimonia, riservata ai soli parenti, e la posa di una lapide in pietra locale sulla quale sono incisi i loro nomi, mentre alle 11 in vetta ci sarà una messa di suffragio nel primo anniversario di una tragedia alla quale sarà impossibile trovare una spiegazione che non sia quella che darà la giustizia. In appena un anno, i magistrati hanno già praticamente chiaro l’intero quadro, hanno sostanzialmente finito le indagini e sono in attesa solo delle conclusioni ufficiali della perizia sulle cause dell’incidente disposta dal giudice con un incidente probatorio che riprenderà il 14 luglio. Il processo non dovrebbe tardare.

Mottarone, un anno fa la tragedia della funivia: «La fune corrosa dall’interno». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2022.

Il 23 maggio 2021 la tragedia in cui persero la vita 14 passeggeri. Le perizie verso le conclusioni: il nodo della manutenzione periodica, che doveva essere fatta ogni tre mesi e invece non fu mai eseguita fin dal 2016

Come un cancro lento ed inesorabile, per quasi cinque lunghissimi anni la corrosione ha intaccato e indebolito il tratto più delicato della fune traente della funivia del Mottarone finché essa ha ceduto alla «fatica» e si è spezzata la mattina del 23 maggio 2021 staccandosi dalla cabina numero tre che, a causa dei freni d’emergenza disinseriti con i «forchettoni», è precipitata dopo una corsa impazzita uccidendo 14 passeggeri che volevano trascorrere la domenica al sole. Solo la manutenzione periodica avrebbe potuto prevenire la rottura, ma nessuno si è mai preso la briga di fare un lavoro che non dura più di un paio di ore.

A una settimana dal primo anniversario della tragedia, le prime notizie che trapelano sui risultati degli esami fatti dai periti che stanno accertando le cause e i sospetti degli investigatori che indagano sul disastro puntano sempre di più sulla manutenzione che le Funivie del Mottarone avevano affidato con un contratto da 150 mila euro l’anno alla Leitner di Vipiteno, il gigante mondiale nel settore degli impianti a fune che è indagato nell’inchiesta per omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime colpose e rimozione di sistemi di sicurezza con le stesse Funivie e 12 persone fisiche.

Gli esiti ufficiali della perizia disposta dal gip sui rottami della cabina arriveranno nelle prossime settimane, quando i tecnici avranno esaminato anche al microscopio elettronico i trefoli, i mazzi dei singoli fili d’acciaio che, intrecciati tra loro, costituivano la fune che trainava il carrello della cabina, al quale era agganciata attraverso la testa fusa, che è come un enorme pallino del filo del freno di una bicicletta. Alcune fonti sono già in grado di affermare che la fune si è rotta a meno di mezzo metro dalla testa fusa (che è integra) a causa della corrosione progressiva interna che la manutenzione avrebbe potuto individuare e fermare con un’operazione da fare ogni tre mesi smontando il manicotto che protegge la testa fusa, sostituendo il grasso in cui è immersa per proteggerla dalle infiltrazioni d’acqua piovana e verificando al tatto le condizioni della fune. Intervento che non è stato mai fatto dal 2016, quando fu realizzata la testa fusa, e che sarebbe avvenuto solo a novembre 2021 quando, passati 5 anni, doveva essere ricostruita.

Gli esami al microscopio elettronico diranno cosa ha corroso i fili, ma i tecnici hanno già un’idea su ciò che è successo. Lo conferma uno dei periti, il professor Antonello De Luca, il quale giovedì scorso, dopo l’ultimo sopralluogo sul Mottarone, ha affermato: «Oggi abbiamo un quadro più chiaro». Federico Samonini, legale rappresentante della Scf Monterosa srl incaricata da Leitner di diversi interventi di manutenzione, tra cui il rifacimento delle teste fuse (non quella della cabina caduta), interrogato come indagato dal procuratore di Verbania Olimpia Bossi e dal pm Laura Carrera, il 18 febbraio afferma di aver osservato il moncone della fune rimasto attaccato alla testa fusa nei laboratori di Trento dove è in corso la perizia. Da tecnico, dice che deve essere avvenuto «qualcosa dall’interno», «per me il manto esterno è sempre stato omogeneo e dall’interno ha cominciato a deteriorarsi, fino a quando non ha avuto più l’efficienza per sostenere» il peso della cabina.

Bossi gli chiede cosa potrebbe essere successo, lui risponde che la corrosione potrebbe essere stata dovuta all’acqua che è penetrata nella fune e l’ha arrugginita oppure ai residui della realizzazione della testa fusa in cui si usa cloruro di zinco, un agente «altamente corrosivo» che va eliminato con un accurato lavaggio. Ma se i freni avessero potuto fare il loro lavoro, alla rottura della fune i passeggeri avrebbero avvertito un forte scossone ed avrebbero avuto solo paura mentre la cabina scivolava qualche metro indietro prima di fermarsi.

Strage della funivia, la Cassazione annulla i domiciliari per i due indagati. Annullata la sentenza del Tribunale del Riesame di Torino che aveva accolto il ricorso della procura di Verbania. "Siamo soddisfatti, regge l’impianto indiziario". Il Dubbio il 20 aprile 2022.

Non andranno ai domiciliari i due indagati nell’ambito della vicenda del Mottarone, Luigi Nerini ed Enrico Perrocchio, rispettivamente titolare e direttore d’esercizio della funivia che precipitò il 23 maggio dello scorso anno causando 14 vittime. La Corte di Cassazione, infatti, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Torino a fine ottobre aveva accolto il ricorso della procura di Verbania e disposto la misura cautelare. Nel caso di Perocchio, in particolare, la Corte ha annullato l’ordinanza limitatamente alla scelta della misura da applicare, ritenendone evidentemente legittima una meno afflittiva.

Inizialmente a rimettere in libertà i due indagati – sottoposti a fermo insieme al caposervizio Gabriele Tadini nei giorni successivi al disastro – fu la gip Donatella Banci Buonamici, alla quale fu in seguito “scippato” il fascicolo. La sua decisione infatti fece gridare allo scandalo e una settimana dopo ne seguì la sostituzione da parte dell’allora presidente del presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco, che riassegnò il fascicolo alla giudice Elena Ceriotti. Gli arresti domiciliari, invece, erano stati inflitti a Tadini, che aveva confessato di aver disattivato i freni di emergenza della funivia, inserendo i “forchettoni”. La Procura di Verbania aveva quindi impugnato la decisione della gip Banci Buonamici di fronte al Riesame di Torino, che aveva disposto le misure sulla base di due esigenze cautelari: pericolo di reiterazione del reato e inquinamento delle prove. Ma di fatto né Nerini, né Perocchio sono mai andati ai domiciliari: il ricorso in Cassazione delle difese aveva sospeso l’esecutività dell’ordinanza del Riesame. Adesso la Cassazione ha annullato quella decisione e rinviato gli atti a Torino per una nuova decisione, attesa in autunno.

A definire «soddisfacente» la decisione della Cassazione, è Olimpia Bossi, la procuratrice di Verbania che da quasi un anno coordina l’inchiesta. «Il quadro accusatorio ha retto», commenta Bossi. Ma in attesa delle motivazioni che saranno depositate entro 30 giorni, bisogna distinguere tra le due posizioni: «Per quanto riguarda Enrico Perocchio – sottolinea la procuratrice – la Cassazione, rinviando per la sola rivalutazione del tipo di misura cautelare da applicare, ha di fatto confermato il quadro indiziario, e ha dato esito positivo alla nostra impostazione. Per quanto riguarda Nerini siamo di fronte ad un annullamento con rinvio, anche in questo caso il quadro indiziario regge altrimenti ci sarebbe stato un annullamento senza rinvio». Ma a quasi un anno dalla tragedia che ha scosso l’Italia, più che le esigenze cautelari nei confronti degli indagati, l’attenzione si concentra sull’esito delle perizie, il cui deposito è atteso il 30 giugno prossimo. «Tra poco – conclude la procuratrice – ci spetta un brutto anniversario. Speriamo che la tempistica delle perizie sia rispettata».

Tragedia del Mottarone, chiesto il proscioglimento del gip Banci Buonamici. La procura generale della Cassazione ha invocato il "non luogo a procedere" nei confronti del giudice cautelare che scarcerò i quattro indagati. Il Dubbio il 3 ottobre 2022.

La Procura Generale della Cassazione ha chiesto al Csm il «non luogo a procedere» nei confronti di Donatella Banci Buonamici accusata di violazioni disciplinari per essersi “autoassegnata” nel maggio del 2021 il procedimento sull’incidente del Mottarone. L’allora giudice per le indagini preliminari scarcerò due dei tre indagati e dispose i domiciliari per un terzo.

Una scelta che provocò molte polemiche e alla quale nei giorni successivi seguì la sostituzione della gip da parte del Presidente del Tribunale. Nel provvedimento, letto dall’AGI, si sottolinea che «non c’è stata alcuna concreta lesione del principio del giudice naturale né un grave danno all’immagine del corretto funzionamento dell’Ufficio».

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.

Avrebbero dovuto farlo ogni sei mesi, invece per cinque anni nessuno ha controllato i primi 50 centimetri della fune traente della funivia del Mottarone. 

Il tratto più delicato, quello che il 23 maggio 2021 si è spezzato causando, con i forchettoni che disinserivano i freni della cabina, 14 morti. «Non ho mai visto smontare il carter delle teste fuse per controllare dentro», dichiara Gabriele Tadini, uno dei principali indagati. 

In attesa della perizia affidata dal gip, gli investigatori guidati dal procuratore di Verbania Olimpia Bossi e dal pm Laura Carrera puntano alla manutenzione fatta e soprattutto quella non fatta.

Attività che le «Funivie del Mottarone» hanno affidato alla Leitner, azienda (indagata) leader mondiale negli impianti a fune, con un contratto onnicomprensivo da 150 mila euro l'anno e indicazioni date dal direttore di esercizio Enrico Perocchio, l'ingegnere dipendente della stessa Leitner arrestato nei primi passi dell'indagine con il capo servizio Tadini e il titolare Luigi Nerini.

La cabina numero 3 della funivia era trainata dalla stazione di valle di Arpino verso quella di monte del Mottarone dalla fune «traente» assicurata con una testa fusa, che è come un enorme pallino del filo del freno di una bicicletta, che con i primi 50 centimetri di fune è protetta da un manicotto di plastica riempito di grasso.

La traente viene sostituita ogni 25 anni (quella che si è rotta risaliva al 1997). La sua integrità va verificata con un apparecchio «magneto induttivo» - l'ultima volta è avvenuto il 5 novembre 2020, sei mesi prima del disastro - che, però, non riesce a «vedere» ciò che c'è nel manicotto.

Per farlo, bisogna aprirlo, togliere il grasso e verificare manualmente la situazione. Il Regolamento di esercizio della Funivia del Mottarone, stilato da Perocchio e controfirmato da Tadini, prevede che questo controllo avvenga «ogni sei mesi». Non è stato mai fatto, sospetta l'accusa.

«Non abbiamo mai avuto un ordine specifico per fare questo. È un controllo a scadenza ma non so chi lo facesse. Nelle manutenzioni generali semestrali non era previsto», dichiara a verbale Federico Samonini, anche lui indagato.

Rappresentate della Scf Monterosa, l'azienda che si occupava delle teste fuse. Difeso dall'avvocato Giovanni Bonalumi, aggiunge che «nella funivia di Como questi controlli li fa mio padre come capo servizio circa una volta al mese», «le operazioni vanno segnalate sul registro giornale». In quello del Mottarone non le hanno trovate. 

Il 7 febbraio scorso, Tadini ai magistrati, assistito dall'avvocato Marcello Perillo, dichiara che dal 2016 non ha «mai visto fare da nessuno» lo smontaggio del contenitore protettivo. Talvolta veniva solo aggiunto del grasso, «si controllava l'uscita delle funi dal manicotto delle teste fuse per circa due o tre meri a vista o passando la mani sulla fune stessa». 

Chi avrebbe dovuto farlo? «Le ditte esterne» e «doveva essere il direttore di esercizio a programmarlo». Era Tadini che ai «vetturini» preoccupati di viaggiare con forchettoni diceva: «Prima che si rompa una traente o una testa fusa ce ne vuole».

Cristina Pastore per lastampa.it il 17 settembre 2022.

Carenze nella manutenzione, con più della metà dei 114 fili del cavo traente del secondo troncone che si erano spezzati per fatica ben prima del giorno fatale. Queste in sintesi le conclusioni della perizia sulle cause del disastro della funivia del Mottarone, depositata ieri alla cancelleria del Gip di Verbania. Sono più di 1.000 pagine, esclusi gli allegati e file per 500 giga di foto, disegni e video. E’ il risultato del lavoro, durato più di un anno, degli esperti incaricati dal tribunale di analizzare struttura, funzionamento e gestione dell’impianto sotto sequestro dal 23 maggio 2021.

Relazione in tre parti

In quella domenica, pochi istanti dopo mezzogiorno, la cabina 3 che stava arrivando alla stazione in vetta è precipitata, provocando la morte di 14 passeggeri. La relazione dei periti presieduti dal professor Antonello De Luca, docente all’università Federico II di Napoli, è suddivisa in tre parti. La prima illustra la metodologia adottata in un lavoro che si è sviluppato attraverso 72 ispezioni, incontri per test, prove e riscontri in un costante confronto coi consulenti della Procura, dei 14 indagati e dei familiari delle vittime. La seconda parte inquadra il campo d’indagine e la terza si focalizza, in quasi 700 pagine, sull’impianto Stresa-Mottarone.

In un capitolo conclusivo vengono date risposte ai quesiti posti dal Gip, escludendo che la sciagura si sia determinata per cause accidentali, ma sia da imputare a una gestione che non rispettava le regole del settore. L’incidente è avvenuto per la rottura della fune traente, in un punto all’interno del manicotto dove i controlli potevano essere fatti solo a vista, ma che non veniva smontato da tempo. La tragedia si sarebbe evitato se non vi fosse stata anche la manomissione di dispositivi di sicurezza: i freni di emergenza sulla cabina 3 erano stati bloccati, per evitare che una ricorrente perdita di pressione alla centralina la facesse fermare lungo la linea. Gabriele Tadini, il caposervizio, a 48 ore dalla tragedia aveva ammesso di averli disinseriti coi «forchettoni». 

L’utilizzo dei «forchettoni»

Dal materiale allegato a una perizia integrativa - 500 pagine depositate ieri e a firma del professor Paolo Reale, esperto in informatica forense, - si ha riscontro che in alcune giornate aveva viaggiato senza freni anche la cabina 4. E’ la gemella della 3, che in simultanea alla sua caduta, si è fermata a pochi metri dalla stazione dell’Alpino con 5 occupanti, agganciandosi alla fune portante, perché con l’accorgimento di sicurezza funzionante. Anche la perizia informatica consta di tre parti: una dedicata all’acquisizione delle immagini della videosorveglianza interna con una loro puntuale datazione; una alla cosiddetta «catena di custodia» per attestare non vi siano state alterazioni del materiale acquisito e una relativa alla lettura della «scatola nera». 

E’ il dispositivo elettronico che registrava l’attività dell’impianto, oggetto di un lavoro condiviso tra i due collegi di periti: i dati sono stati estrapolati dagli informatici, ma ai numeri è stata data un’interpretazione «fisica» dagli ingegneri meccanici. Da quanto emerso la scatola nera non consentiva di rilevare l’attivazione o meno dei forchettoni. 

Tre udienze a ottobre

Il 20, 21 e 24 ottobre sono state fissate dal Gip Annalisa Palomba le udienze per l’incidente probatorio, in cui ciò che emerso con le perizie verrà discusso, a porte chiuse, in contraddittorio coi consulenti della procuratrice Olimpia Bossi, delle parti offese e dei 14 indagati. Sono 12 persone e due società: Funivie del Mottarone che aveva la concessione dell’impianto e Leitner, prima partner tecnico e poi con un contratto di 130 mila euro all’anno fornitore dei servizi di manutenzione.

Le persone iscritte nel registro degli indagati sono titolari e tecnici di ditte a cui Leitner subappaltava interventi e, fin dall’inizio in posizione più gravida di responsabilità, Tadini col gestore Luigi Nerini e il direttore di esercizio Enrico Perocchio.

Mottarone, la perizia choc: "Fune rotta prima del crollo". Gli esperti: "Il 68% del cavo era già compromesso. Controlli adeguati avrebbero evitato la tragedia". Nadia Muratore il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.

«Si esclude che la sciagura si sia determinata per cause accidentali, ma sia da imputare a una gestione che non rispettava le regole del settore».

Sono forse queste le parole più dure che si leggono nella perizia eseguita sulla cabina numero 3 della funivia del Mottarone, precipitata il 23 maggio dell'anno scorso e che costò la vita a quattordici persone. Gli esperti incaricati dal tribunale di analizzare struttura, funzionamento e gestione dell'impianto, dopo un lavoro durato più di un anno, hanno risposto ai quesiti del Gip di Verbania, affermando in maniera chiara che quella strage poteva essere evitata. Bastava eseguire un'adeguata manutenzione e i dovuti controlli. Nelle oltre mille pagine che riportano le analisi eseguite su ciò che resta della cabina, hanno evidenziato più volte la carenza della manutenzione, con oltre la metà dei 114 fili del cavo traente del secondo troncone che si erano spezzati per fatica, ben prima del giorno fatale. L'incidente è accaduto per la rottura della fune traente, in un punto all'interno del manicotto, dove i controlli potevano essere fatti solo a vista ma che non veniva smontato da tempo. Però la strage poteva essere ancora evitata, se non vi fosse stata anche la manomissione di dispositivi di sicurezza. Infatti i freni di emergenza erano stati bloccati, per evitare che una ricorrente perdita di pressione nelle centraline bloccasse l'impianto di risalita. Dopo l'incidente, fu lo stesso caposervizio Gabriele Tadini, ad ammettere di aver disinserito i freni con i così detti forchettoni. Inserirli per disattivare i freni, però, «è assolutamente in contrasto con le normative in quanto i freni di emergenza hanno la funzione di impedire che, a seguito della rottura della fune traente ne consegua la precipitazione del veicolo». I video dell'impianto di videosorveglianza, hanno evidenziato che i forchettoni erano disinseriti da almeno due settimane, ma questo non era stato annotato sul «registro giornale».

Il bilancio della tragedia poteva essere ancora più pesante se non fosse che nella cabina numero 4 - la gemella della 3, precipitata nel vuoto - il dispositivo di emergenza era in funzione e quindi non si staccò. La causa della frattura è il degrado della fune stessa verificatosi in corrispondenza dell'innesto nella testa fusa, punto più delicato della fune. E si precisa che: «La fune era appena in grado di portare uno sforzo di trazione pari a circa dieci tonnellate, corrispondenti al 20-25 per cento del tiro nominale della fune integra». La testa fusa era fatta a regola d'arte, poiché nessun filo si è sfilato, ma la situazione era molto diversa pochi centimetri dopo lungo il cavo. «L'analisi frattografica - si legge nella perizia - ha mostrato che, in corrispondenza del punto di rottura, il 68 per cento dei fili presenta superfici di frattura che testimoniano una rottura a fatica e fatica-corrosione dei fili ragionevolmente antecedente la precipitazione».

Le conclusioni delle analisi saranno discusse in tre udienze dell'incidente probatorio a fine ottobre dal pm Olimpia Bossi e dai legali degli indagati. Tra loro le tre figure che erano a capo dell'impianto: l'esercente Luigi Nerini, il caposervizio Gabriele Tadini e il direttore d'esercizio Enrico Perocchio, oltre a due società: la Ferrovie del Mottarone che gestiva la funivia e la Leitner che aveva ristrutturato l'impianto e ne curava la manutenzione.

L'analisi dei periti: "Forchettoni inseriti da 2 settimane". Strage Mottarone, il 68% della fune già corrosa prima della tragedia: “Controlli potevano evitarla”. Redazione su Il Riformista il 17 Settembre 2022 

Oltre due terzi della fune della funivia del Mottarone, precipitata il 23 maggio 2021 in un incidente costato la vita a 14 persone, quando la cabina “impazzì” a causa dei freni di emergenza bloccati con i forchettoni, erano già corrosi.

Ad attestarlo è la perizia depositata ieri in Tribunale al Gip di Verbania, dove sono indagate 14 persone e diverse società nell’inchiesta coordinata dal procuratore Olimpia Bossi. Nel documento si legge in particolare che “in corrispondenza del punto di rottura il 68% circa dei fili presenta superfici di frattura che testimoniano una rottura (…) a fatica/corrosione dei fili ragionevolmente antecedente la precipitazione del 23 maggio 2021”, con la funivia che sarebbe dunque precipitata “a causa del degrado della fune” traente.

La rottura della fune traente, secondo i periti, “è avvenuta non per un eccesso di sforzo, bensì a causa del degrado della fune stessa verificatosi in corrispondenza dell’innesto della fune nella testa fusa, punto più delicato della fune”.

Nelle oltre 1500 pagine di documenti firmate dai periti sottolineano anche come sulla fune traente non siano stati effettuati i controlli previsti dalla legge, almeno negli ultimi mesi prima della tragedia che ha visto come unico sopravvissuto il piccolo Eitan, che era a bordo della cabina numero 3 assieme ai genitori.

Il collegio presieduto dal professor De Luca dell’università di Napoli scrive nella sua relazione, riportata dall’Agi, che “al fine di ridurre al minimo i rischi di precipitazione della cabina la prescrizione di normativa, oltre a prevedere la già citata presenza e disponibilità del freno di emergenza agente sulla fune portante, richiede anche che vengano condotti specifici e programmati controlli alla fune traente in corrispondenza dell’attacco della medesima con la testa fusa finalizzati alla sostituzione della testa fusa all’apparire dei primi segnali di degrado. Questo proprio perché è noto (cfr Circolare 130/1987) che in corrispondenza di tale innesto con più probabilità possano avvenire rotture a fatica e fatica/corrosione di questo tipo”. 

Quindi dalle analisi mostrate nella perizia, prosegue De Luca, “con ragionevole certezza ingegneristica, si dimostra che () negli ultimi mesi i controlli, peraltro non ritrovati in alcun Registro, non sono stati effettuati; una corretta attuazione dei controlli stessi avrebbe consentito di rilevare i segnali del degrado, ovvero la presenza di anche un solo filo rotto o segni di corrosione, e quindi di sostituire la testa fusa, così come previsto da norme”.

Quanto ai forchettoni inseriti, che hanno inibito il sistema frenante, la questione era già stata ammessa pochi giorni dopo la tragedia da uno degli indagati, Gabriele Tadini, che però aveva definito la possibilità che la fune si rompesse un fatto “impossibile” da prevedere. Per i periti invece “la causa della precipitazione della cabina numero 3 della funivia è stata la presenza di esclusori del sistema frenante di emergenza (i forchettoni, ndr) inseriti dal personale di servizio della funivia”.

Forchettoni che, dall’analisi dei video registrati  dai periti, erano stati inseriti nei 16 giorni precedenti la caduta della cabina numero 3. 2Nelle corse registrate dai video in quel periodo, si ha una frequenza pari al 100% di presenza degli esclusori per il veicolo 3, e una percentuale pari al 68% per il veicolo 4, e ciò sia in assenza che in presenza di personale a bordo”, scrivono i periti

Eitan, nonno materno arrestato e scarcerato per rapimento nipote. Valentina Dardari il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il nonno materno di Eitan, il bambino unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, è stato arrestato e subito scarcerato. Tornerà in Israele in serata.

Il nonno materno di Eitan Biran, il bambino unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, è stato arrestato e subito scarcerato. Lascerà l’Italia e tornerà in Israele. Shmuel Peleg, 54 anni, è stato arrestato questa mattina dai poliziotti della squadra Mobile di Pavia dopo essere atterrato all'aeroporto di Malpensa, alle 11.50, raggiunto da un mandato di arresto internazionale per il rapimento del nipote, cittadino italiano di 7 anni.

Gli agenti lo aspettavano a Malpensa

L’uomo, che sapeva di non poter rientrare nel nostro Paese dopo quanto era accaduto l’11 settembre del 2021, quando aveva rapito e portato a Tel Aviv il piccolo Eitan a bordo di un volo privato, si è consegnato alle forze dell'ordine. Peleg aveva infatti deciso di portare il nipotino in Israele senza avvertire la zia del bimbo, sua affidataria. Appena sceso dall’aereo il 54enne è stato preso in consegna dagli agenti e portato davanti al giudice per essere sottoposto all'interrogatorio di garanzia. Al termine dell'udienza, durata circa 3 ore, il giudice per le indagini preliminari ha sostituito la custodia cautelare in carcere con "il divieto di dimora nei territori di Pavia, Milano e Varese che dovrà lasciare entro 48 ore successive alla emissione del provvedimento e non potrà fare rientro in tali territori senza la preventiva autorizzazione e divieto di avvicinamento al minore senza preventiva autorizzazione".

Cosa ha detto davanti al giudice

La procura di Pavia ha anche reso noto che Peleg lascerà in serata l'Italia per fare rientro in Israele. Durante l’interrogatorio il nonno di Eitan si è difeso affermando: "Pensavo di avere diritto di poter stare con mio nipote, di aver fatto una cosa lecita. Il piccolo è sempre stato bene con me, non l'ho mai nascosto, appena siamo arrivati a Tel Aviv ho informato subito la zia Aya e le autorità locali". Peleg, difeso dall’avvocato Paolo Sevesi, ha quindi ribadito ancora una volta ciò che aveva già detto in precedenza, quando aveva sempre respinto l’accusa di aver rapito il nipote. Da mesi, sull’uomo pendeva l'ordinanza di custodia in carcere emessa dai magistrati di Pavia e un mandato d'arresto internazionale, come riferito dallo stesso legale che lo assiste insieme alla collega Sara Carsaniga. "Si è presentato stamani spontaneamente a Malpensa", ha precisato Sevesi.

Lascerà l'Italia in serata

Allo scalo di Malpensa c’erano ad aspettarlo sia i legali che gli agenti della Squadra mobile per eseguire il fermo. Si è trattato in pratica di una procedura concordata. L’avvocato ha poi aggiunto che il suo assistito “è stato, poi, subito portato dall'aeroporto in Tribunale, davanti al gip senza manette e per tre ore ha fornito spiegazioni su tutto, compresi gli aspetti affettivi e sentimentali di questa vicenda". La difesa ha quindi chiesto la revoca o la sostituzione della misura cautelare e il giudice ha sostituito il carcere con il divieto di dimora a Pavia, Milano, Varese e di avvicinamento a Eitan senza previa autorizzazione. Per il 54enne è stata applicata la stessa procedura seguita anche per il suo presunto complice, Gabriel Abutbul Alon. In seguito alla chiusura dell'inchiesta a luglio a carico dei due, si procede ora alla richiesta di processo. Secondo i pubblici ministeri di Pavia, Peleg e Abutbul avrebbero rapito il piccolo, che aveva allora 6 anni, "prelevandolo dal domicilio stabilito dall'Autorità giudiziaria italiana", a Travacò Siccomario, comune in provincia di Pavia, "sottraendolo alla tutrice" Aya Biran, ovvero la zia paterna.

L'uomo accusato di aver portato il bambino in Israele. Mottarone, chiesto il rinvio a giudizio per il nonno di Eitan e per l’autista: accusati di sequestro di persona. Vito Califano su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

Chiesto il rinvio a giudizio per il nonno di Eitan Biran. La Procura della Repubblica ha formulato la sua richiesta per Shmuel Peleg, nonno del bambino unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone, che si era consumata nel maggio 2021, e per Abutbul Gabriel Alon, l’uomo che lo aveva aiutato, alla guida della macchina che aveva trasportato il piccolo fino in aeroporto, in Svizzera, da dove sarebbe partito un volo per Israele. Le accuse per i due sono di sequestro aggravato di minore, sottrazione di minore all’estero e appropriazione indebita.

L’episodio rientra nella lunga coda di una vicenda tragica, una strage con 14 morti che si era consumata il 23 maggio 2021 sulla funivia Stresa-Alpino-Mottarone quando una fune dell’impianto ha ceduto e una delle cabine in transito è caduta. Su quella cabina c’erano anche i genitori del piccolo Eitan, il fratello minore e altri familiari. La diatriba familiare, una battaglia legale, legata al bambino sopravvissuto ha aggiunto dolore al dolore.

Le accuse ai due uomini fanno riferimento a quando lo scorso settembre il nonno materno, Peleg, aveva portato il nipotino in Israele. Quindici giorni fa l’uomo era stato arrestato e subito scarcerato, era destinatario di un mandato di cattura internazionale. Il gip del tribunale di Pavia ha sostituito la custodia cautelare in carcere con il divieto di dimora a Milano, Varese e Pavia, dove il bambino vive con gli zii paterni e le cuginette, e disposto anche il divieto di avvicinamento al nipote.

Al momento del sequestro di cui Peleg è accusato, la zia risultava già affidataria del bambino, nominata nel maggio 2021 dal giudice di Torino. Senza avvertirla l’uomo aveva portato Eitan in Israele. I giudici di Tel Aviv hanno disposto infine il rientro del piccolo in Italia. “Pensavo di avere diritto di poter stare con mio nipote, di aver fatto una cosa lecita. Il piccolo è sempre stato bene con me, non l’ho mai nascosto, appena siamo arrivati a Tel Aviv ho informato subito la zia Aya e le autorità locali”, aveva detto il nonno durante l’interrogatorio, difeso dagli avvocati Paolo Sevesi e Sara Carsaniga.

Il volo era partito da Lugano. Secondo l’accusa un “piano premeditato e organizzato” che aveva privato il minore della “libertà personale” con un volo privato “contro la volontà della persona che ne aveva la custodia”. Dopo l’interrogatorio sia il nonno che il complice erano rientrati il primo a Tel Aviv e il secondo a Cipro. Il pm Valentina De Stefano della procura di Pavia, guidata da Fabio Napoleone, ha chiuso l’inchiesta lo scorso luglio, stralciando, in vista della richiesta di archiviazione, la posizione della nonna Ester Cohen, ex moglie di Shmuel Peleg.

Solo qualche giorno fa i tre periti incaricati dal gip di Verbania avevano depositato la loro perizia in cui si parlava del degrado della fune come della causa principale della tragedia. “In corrispondenza del punto di rottura – si legge nel documento – il 68% circa dei fili presenta superfici di frattura che testimoniano una rottura (…) a fatica/corrosione dei fili ragionevolmente antecedente la precipitazione del 23 maggio 2021”. Un monitoraggio avrebbe consentito di rilevare il degrado e procedere agli accorgimenti per scongiurare la strage. Per i periti l’incidente è stato causato dal degrado della fune traente “in corrispondenza dell’innesto” nella testa fusa e la presenza dei forchettoni che hanno escluso il funzionamento dei freni d’emergenza.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Il Mose.

Il Mose di Venezia costerà oltre sei miliardi di euro. E si sta già corrodendo (ma nessuno interviene). A un anno dall’allarme degli ingegneri ministeriali sullo stato dei meccanismi sotto l’acqua, nulla è cambiato: la ruggine nella maxi opera che dovrebbe salvare la città lagunare avanza. Intanto il completamento slitta ancora, nonostante il sollevamento in via sperimentale. E i costi, che inizialmente erano di un miliardo e mezzo, lievitano. Alberto Vitucci su L'Espresso il 9 Maggio 2022.  

«Il Mose? Lo finiremo nel 1995». La solenne promessa, pronunciata dal doge della prima Repubblica Gianni De Michelis, risale al 4 novembre 1988, il giorno del varo del Modulo sperimentale elettromeccanico che solcava in quei giorni le acque del bacino San Marco. Un sogno svanito presto. E nuovi traguardi annunciati con enfasi dai governi di ogni colore che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni.

Il Mose difende la Laguna, ma le isole rischiano di sparire: uno studio. Fiammetta Cupellaro su La Repubblica il 2 Aprile 2022.  

Un team di ricercatori dell'università di Padova e di Ca' Foscari ha scoperto che più le paratie si alzano salvando Venezia dall'acqua alta, più le "barene" che la circondano si abbassano. A lungo andare potrebbe cambiare perfino la morfologia della Laguna.

Viste da lontano sembrano solo isolette basse ricoperte di erba, rifugio di insetti, uccelli, pesci molluschi. Periodicamente vengono sommerse dall'acqua, poi riemergono. Sono le isole della barena di Venezia, parti importanti dell'intero sistema idrogeologico della Laguna, che però ora rischiano di sparire. Un team di ricercatori dell'università di Padova e di Ca' Foscari ha scoperto che, quelle isole composte da terra e acqua salmastra, sopravvissute proprio grazie alle alte maree che ciclicamente le ricoprono, cominciano già a risentire delle chiusure delle paratie del Mo.S.E (Modulo sperimentale elettromeccanico, definito anche Mose) il sistema per la regolazione delle maree posto alle bocche di porto di Venezia. Più le paratie si alzano salvando Venezia dall'acqua alta, più le barene si abbassano. A lungo andare potrebbe cambiare perfino la morfologia della Laguna. 

L'evoluzione morfologica della Laguna

Spiega il professor Luca Carniello, del Dipartimento di Idrodinamica e Morfodinamica lagunare e coordinatore dello studio: "Se da un lato l'utilizzo del sistema Mose risolve il problema delle acque alte che allagano Venezia e gli altri centri abitati della laguna, dall'altro abbiamo visto che c'è un impatto importante sull'evoluzione morfologica della Laguna veneta in generale, e delle sue barene, in particolare". E se fino a poco fa era solo un'ipotesi scientifica ora ci sono i dati. 

Lo studio dal titolo Loss of geomorphic diversity in shallow tidal embayments promoted by storm-surge barriers pubblicato sulla rivista scientifica Science Advances, coordinato oltre che da Luca Carniello anche da Andrea D'Alpaos del Dipartimento di Geoscienze dell'Università di Padova, ha analizzato gli effetti che hanno avuto le prime chiusure del Mose sull'evoluzione morfologica della Laguna dall'acqua alta: dal 3 ottobre 2020 (data in cui le paratie sono entrate in funzione per la prima volta) fino a gennaio. Un arco di tempo in cui il sistema è stato attivato 14 volte. "Quella serie di chiusure alla marea hanno ridotto l'apporto di sedimento sulle barene del 12% rispetto a quello che sarebbe arrivato senza che le bocche di porto fossero sbarrate dalla paratie", spiega Luca Carniello.

Il ciclo della sedimentazione sugli isolotti della barena è importante: è la causa della loro sopravvivenza, solo così si possono innalzare sopra il livello del mare e restare emerse. "Altrimenti sprofonderebbero", dice ancora Carniello. Queste suggestive formazioni sono periodicamente sommerse, dipendono dalle maree: quando l'acqua si ritira, dopo averle allegata rilascia materiali che si depositano sulla vegetazione. Si sedimentano facendo crescere l'isola. La gran parte della "costruzione" della barena, il 70%, spiegano i ricercatori di Padova e Venezia, accade proprio durante le acque più alte, gli eventi meteo marini intensi per i quali è prevista l'attivazione delle barriere del Mose.

Gli effetti e le possibili soluzioni

Con le bocche di porto chiuse all'Adriatico, le correnti delle acque lagunari si rallentano e i sedimenti tendono a non depositarsi sugli isolotti della barena ma rimangono all'interno dei canali, contribuendo all'interrimento. Servono nuovi studi. "Per questo diciamo che l'utilizzo ripetuto e prolungato del Mose rischia, se non opportunamente controbilanciato, di minare questo processo di accrescimento delle barene minacciandone l'esistenza e, con essa, l'espletamento dei numerosi servizi ecosistemici che queste forme lagunari forniscono" dice ancora il professor Carniello. Così, se da un lato la temporanea chiusura delle bocche di porto risulta indispensabile per la limitazione delle acque alte, dall'altra, se non si interviene, la morfologia della Laguna è a rischio. 

Dunque che fare? "Bisogna trovare un compromesso tra le esigenze di salvaguardia delle aree urbane dalle inondazioni e la conservazione dell'ecosistema lagunare. Per questo è urgente capire quali interventi siano in grado di mitigare gli effetti messi in luce dalle indagini, in modo da poterli realizzare prima possibile - scrivono gli autori dello studio su Venezia - Soluzioni complementari al sistema Mose potrebbero, ad esempio, essere adottate al fine di ridurre il numero complessivo di chiusure annuali, mitigandone così, almeno in parte, gli effetti negativi sulla conservazione della morfologia lagunare".  Altrimenti? "Venezia, senza la barena, non sarebbe più una laguna. Resterebbe solitaria in mezzo a qualcosa di simile a una baia" .

Da ilgazzettino.it il 30 marzo 2022.

Il colore giallo delle dighe mobili, che è un po’ il marchio del Mose, quasi non si intravvede più. Le enormi paratoie, in acqua anche da nove anni, sono ormai tappezzate di “vita” marina. Alghe, cozze che hanno prosperato indisturbate, grazie alla totale mancanza di manutenzione. Sono impressionanti le immagini ravvicinate delle paratoie sollevate girate dalla Guardia di Finanza. Documentazione delle due ispezioni organizzate, tra la primavera e l’estate dell’anno scorso, nell’ambito dell’inchiesta della Corte di conti sulle criticità del Mose.

LE ISPEZIONI

In un momento di totale stallo dei lavori, per la crisi del Consorzio Venezia Nuova, nonché di grande tensione ai vertici della governance del Mose, la Procura contabile spinse perché si facessero queste verifiche sul campo per fare chiarezza sull’entità dei danni. I finanzieri del Nucleo di polizia economica e finanziario di Venezia, in collaborazione con il Reparto operativo aeronavale, che mise a disposizione i sub, per due volte andarono alle bocche di porto a documentare lo stato del Mose.

Le paratoie, per l’occasione, furono sollevate, i sub si immersero per riprendere da vicino le pareti incrostate. Piccole porzioni furono ripulite, come mostrano le immagini, anche dai militari sulle barche d’appoggio, con un semplice raschietto. Si vide che l’antivegetativo aveva evitato il peggio. 

In generale gli accertamenti esclusero un degrado irreparabile, che pure si temeva, ma confermarono i danni. Ora l’inchiesta contabile sta continuando con lo scopo di appurare eventuali costi aggiuntivi legati a questi danni, ai ritardi dei lavori, alla mancata manutenzione. Nel frattempo, nell’ultimo mese, l’impasse del Cvn è stato superato. I lavori di completamento della grande opera sono in fase di riavvio. Ma la manutenzione delle 78 dighe mobili aspetta ancora.

I CONTROLLI

E pensare che, secondo il progetto, ogni paratoia doveva essere sottoposta a una manutenzione ordinaria ogni 5 anni e ad una straordinaria ogni 15. Un ciclo continuo di montaggio e smontaggio delle enormi strutture. Si calcolava che a regime le paratoie da manutenere sarebbero state in media 18 l’anno: 7 in manutenzione straordinaria e 11 in ordinaria. Tutto ancora sulla carta. Ma le prime paratoie sono sott’acqua dal 2013, ben oltre i 5 anni della manutenzione ordinaria! Per alghe e cozze una pacchia che continua.

I TENTATIVI DI TENERE IN PIEDI UNA SCATOLA VUOTA. La politica teme i debiti del Mose più del suo fallimento. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 17 febbraio 2022

La corte dei conti vuole rivedere l’accordo tra il Consorzio Venezia Nuova e il provveditorato alle opere pubbliche approvato dal governo.

Con un emendamento al Milleproroghe intanto si mette in sicurezza l’accordo con le imprese creditrici.

Il consorzio deve troppi soldi a tutti per farlo fallire. Commissario dopo commissario, però, i lavori però restano in stallo. 

Dall’obiettivo di salvare Venezia dalle acque a quello di salvare il Consorzio Venezia nuova (Cvn) dai suoi debiti. Per questo è stato approvato un emendamento al decreto Milleproroghe per evitare l’irreparabile, cioè che gli accordi con le imprese per tenere in piedi il concessionario a cui abbiamo affidato i lavori (in stallo) del Mose debbano aspettare il bollino della Corte dei conti. Secondo documenti consultati da Domani, però, i magistrati contabili hanno deferito anche l’accordo tra Cvn e provveditorato, già approvato dal ministero.

Negli ultimi mesi la priorità di tutte le istituzioni è stata salvare quello che all’epoca della presidenza di Giovanni Mazzacurati è stato al centro della più grande corruzione mai avvenuta in Italia e poi, con la gestione commissariale successiva, un centro di spese scriteriate e infine oggi, con il nuovo commissariamento in vista della liquidazione, è rimasta una scatola vuota alla ricerca di liquidità per saldare debiti e far fronte alle dispute giudiziarie seguite alla condanna dei suoi vertici. Resta anche l’ente concessionario per il completamento delle opere per proteggere Venezia. Nonostante sia stato creato un apposito commissario straordinario al Mose, la potete Elisabetta Spitz, l’aggiornamento della convenzione approvato nel 2021 dal Cipess riconosce ancora a Cvn un ruolo centrale, destinare altri 538 milioni di euro e proroga il contratto senza penali.

Cvn deve presentare una proposta definitiva di ristrutturazione del debito per evitare il fallimento entro il 28 febbraio. Per questo il ministero delle Infrastrutture ha approvato via decreto l’accordo tra il consorzio e il provveditorato interregionale per le opere pubbliche di Veneto, Trentino e Friuli, che prevede la cancellazione di circa 132 milioni di debiti del consorzio. L’avvocatura dello stato di Venezia ha dato parere positivo con una lettera del 27 gennaio in cui si argomenta che l’eventuale fallimento «renderebbe oltremodo gravoso e aleatorio l’effettivo recupero delle somme da parte dell’amministrazione statale nei confronti del Cvn», nonché «la concreta conclusione dell’opera». Anche la presidenza del Consiglio e il ministero sono in attesa di soldi. Il fallimento non è previsto.

Commissari alla spesa

Il Cvn è nato nel 1982, 10 anni prima di Tangentopoli, e non può morire. Solo tra il 2003 e il 2017, dice il bilancio 2020 di Cvn, ha inghiottito 6,4 miliardi di fondi pubblici: non sono bastati per terminare i lavori, nel 2020 le barriere sono state messe in funzione, ma solo in via sperimentale. Il commissario liquidatore nominato a fine 2020 si è ritrovato 200 milioni di debiti, soprattutto nei confronti delle stesse imprese consorziate, tra le quali a loro volta c’erano aziende inadempienti che non versavano la quota dovuta al consorzio – in un documento recente del provveditorato alle opere pubbliche si parla della necessità di un prestito per «imprese al collasso» – e poi contenziosi pendenti per oltre 550 milioni.

COMMISSARI ALLA SPESA

I vertici che lo hanno gestito fino al 2014 hanno prodotto fatture inesistenti e tangenti, fino a 40 milioni di euro da pagare all’Agenzia delle entrate, il commissariamento anche della Comar, consorzio delle tre principali aziende coinvolte. I commissari straordinari che sono seguiti spendevano 22 milioni di euro l’anno solo di gestione, 14 milioni per i dipendenti, e intanto i lavori rallentavano, i soldi non venivano spesi per i progetti. E la situazione non è migliorata nemmeno con il commissario straordinario. Il termine dei lavori è slittato, prima al 2021, ora al 2023, forse al 2025, e quindi l’aumento dei costi di manutenzione e gestione.

Cvn intanto sta negoziando l’accordo transattivo con le aziende consorziate con cui è indebitato, e anche su questo servirà il parere della Corte dei conti, che rischiava di arrivare dopo la scadenza sul piano di risanamento. Ma l’intervento puntualmente arrivato attraverso il Milleproroghe permette l’entrata in vigore dell’accordo a partire dalla data della sottoscrizione.

GLI ACCORDI CON LE IMPRESE

Domani ha potuto vedere una delle scritture private con le imprese che aderiscono al consorzio. L’accordo prevede che l’impresa rinunci a tutte le iniziative giudiziarie e che acconsenta una riduzione del 25 per cento sui lavori già previsti, per corrispondere quel 25 per cento allo stesso consorzio, e infine anche una riduzione del 16 per cento sui costi delle opere di ingegneria, sempre da corrispondere al consorzio. In cambio ottiene di non essere coinvolta nella causa di risarcimento danni avanzata dallo stato nei confronti dello stesso consorzio e il pagamento dei lavori già realizzati e non pagati: il 30 per cento a dieci giorni dall’approvazione del piano di risanamento, il 20 per cento entro la fine di aprile e l’altro 50 per cento entro la fine di novembre.

Prima però c’è da superare l’ostacolo Corte dei conti: secondo i documenti che ha visto Domani il 15 febbraio la Corte ha deferito l’accordo tra provveditorato e consorzio: da una parte, fa notare un magistrato, l’intesa afferma che 42 milioni di euro chiesti dal Consorzio al Provveditorato «non sono riconosciuti», dall’altra che la cifra verrà versata successivamente. Per questo è stata chiesta una adunanza pubblica, entro il 28 febbraio, per valutare la legittimità del decreto.

La Corte aveva già considerato di carattere eccezionale un altro provvedimento varato per “salvare” il consorzio, cioè l’atto (il settimo) con cui a gennaio è stata aggiornata la convenzione che regola i rapporti con il concessionario e che appunto eccezionalmente prevedeva la contabilizzazione anticipata nel bilancio del Consorzio di ricavi pari al 12 per cento di quanto ricevuto, giustificata «solo ed esclusivamente dal rappresentato interesse pubblico ad assicurare la prosecuzione e il completamento dei lavori in tempi rapidi».

Al momento, però, i lavori sono praticamente fermi. Ieri la deputata di Italia viva Sara Moretto ha chiesto conto al ministero «dello stallo» e di una governance che da mesi è tutta precaria». Al momento l’autorità per la Laguna, istituita anche per superare il sistema attuale dei commissari, è ancora senza vertici. Il ministero ha risposto che per ora hanno tutti agito bene. GIOVANNA FAGGIONATO