Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

L’AMMINISTRAZIONE

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Burocrazia.

La malapianta della Spazzacorrotti.

 

INDICE SECONDA PARTE

Il Ponte sull’Italia.

La Sicurezza: Viabilità e Trasporti.

La Strage del Mottarone.

Il Mose.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Disuguaglianza.

I Bonus.

Il Salario Minimo.

Il Reddito di Cittadinanza.

Quelli che…meglio poveri.

Quelli che …dei call-center.

Il Lavoro Occasionale.

Le Pensioni.

L’Assistenza ai non autosufficienti.

Gli affari sulle malattie.

Martiri del Lavoro.

Il Valore di una Vita: il Capitale Umano.

Manovre di primo soccorso: Il vero; il Falso.

L'attività fisica allunga la vita.

La Sindrome di Turner.

Il Sonno.

Attenti a quei farmaci.

Le malattie più temute.

Il Dolore.

I Trapianti.

Il Tumore.

L’Ictus.

Fibromialgia, Endometriosi, Vulvodinia: patologie diffuse ed invisibili.

La Sla, sclerosi laterale amiotrofica.

La Sclerosi Multipla.

Il Cuore.

I Polmoni.

I calcoli renali.

La Prostata.

L'incontinenza urinaria.

La Tiroide.

L’Anemia.

Il Diabete.

Vampate di calore.

Mancanza di Sodio.

L’Asma.

Le Spine.

La Calvizie.

Il Prurito.

Le Occhiaie.

La Vista.

La Lacrimazione.

La Dermatite. 

L’ Herpes.

I Denti.

L’Osteoporosi.

La Lombalgia.

La Sarcopenia.

La fascite plantare.

Il Parkinson.

La Senilità.

Depressione ed Esaurimento (Stress).

La Sordità.

L’Acufene.

La Prosopagnosia.

L’Epilessia.

L’Autismo.

L’Afasia.

La disnomia.

Dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia.

La Balbuzie.

L’Insonnia.

I Mal di Testa.

La Gastrite.

La Flatulenza.

La Pancetta.

La Dieta.

Il Ritocchino.

L’Anoressia.

L’Alcolismo.

L’Ipotermia.

Malattie sessualmente trasmesse.

Il Parto.

La Cucitura.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.

L'Endemia. L’Epidemia. La Pandemia.

Le Epidemie.

Virus, batteri, funghi.

L’Inquinamento atmosferico.

HIV: (il virus che provoca l'Aids).

L’Influenza.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Alle origini del Covid-19.

Le Fake News.

Morti per…Morti con…

Il Contagio.

Long Covid.

Da ricordare… 

Protocolli sbagliati.

Io Denuncio…

I Tamponati…

Le Mascherine.

Gli Esperti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

Succede in Svezia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Germania.

Succede in Cina.

Succede in Corea del Nord.

Succede in Africa.

Il Green Pass e le Quarantene.

Chi sono i No Vax?

Gli irresponsabili.

Covid e Dad.

Il costo.

Le Speculazioni.

Gli arricchiti del Covid.

Covid: Malattia Professionale.

La Missione Russa.

Il Vaiolo delle scimmie.

Il virus del Nilo occidentale (West Nile virus, in inglese). 

Gli altri Virus.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

PRIMA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’Insicurezza.

Pungono le persone sulla schiena con la siringa: è allarme needle spiking. La vittima era china sulla sua bicicletta quando uno sconosciuto l'ha punta con una siringa per poi allontanarsi. Per la donna è iniziato un incubo. Federico Garau il 22 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È allarme a Roma dopo la denuncia di una donna di 40 anni, raggiunta per strada e punta con una siringa da un perfetto sconosciuto. Da quel momento per la vittima è iniziato un vero e proprio incubo. Gli inquirenti stanno lavorando per arrivare al responsabile.

"All'improvviso ho sentito una puntura"

L'episodio nella giornata di ieri, mercoledì 21 dicembre, in pieno centro a Roma, in via Brunetti. La donna stava togliendo la catena alla bici quando si è sentita pungere da qualcosa di molto piccolo che inizialmente non è riuscita a identificare. Alzato lo sguardo, ha visto un uomo, che si è subito allontanato.

Passato un primo istante di choc, la vittima ha compreso di essere stata punta da una piccola siringa, oppure da un ago. Malgrado il terrore, è salita in bici per seguire il soggetto che l'aveva aggredita. "Mi sono spaventata e sono rimasta impietrita, avevo paura che potesse farmi del male, però l'ho seguito con lo sguardo. Lui ha continuato ad andare avanti compiendo atti di vandalismo lungo la via. Appena mi sono ripresa sono salita sulla bici e l'ho seguito, sono riuscita a riprenderlo, lui mi ha visto e si è dileguato tra la folla", racconta la donna a Repubblica.

Compresa la gravità della situazione, la 40enne, madre di due bambine, è immediatamente corsa al pronto soccorso dell'ospedale Spallanzani, dove sono state attivate tutte le procedure del caso. "Sono fortunata perché non è uscito sangue, anche se la parte dove sono stata punta si è gonfiata. Ora dovrò comunque sottopormi ai test per hiv ed epatite", spiega la donna. "È stato veramente un trauma, ieri piangevo ed ero disperata ma sporgerò denuncia perché la stessa cosa potrebbe capitare a chiunque, anche a qualche bambino", aggiunge.

La denuncia alle forze dell'ordine

La 40enne ha effettivamente informato dell'episodio i carabinieri. Fondamentale il suo video in cui è ripreso l'aggressore, un uomo dai capelli rasati che indossa uno smanicato nero su una felpa beige e dei pantaloni chiari. Ai militari la donna ha raccontato di essersi chinata sulla propria bici per rimuovere la catena. Il movimento ha fatto sollevare i suoi indumenti, scoprendole parte della schiena, e proprio sulla schina ha ricevuto la puntura di siringa.

Il filmato è stato consegnato ai carabinieri, che si sono attivati per rintracciare il responsabile. La speranza è che in ogni caso si tratti di un gesto isolato. Quanto accaduto alla 40enne fa pensare al needle spiking, un fenomeno registrato in parecchie città dell'Europa. Capita spesso nelle zone della movida: il malintenzionato usa aghi e siringhe infette o contenenti droghe per pungere le vittime, spesso donne.

Casi del genere sono stati denunciati in Spagna, Francia e Inghilterra. L'allerta è massima. 

Da open.online il 22 Dicembre 2022

Roma, Via Brunetti, intorno a mezzogiorno di ieri. Lo sguardo calato per togliere la catena dalla bicicletta. Ed è lì che l’uomo ha colpito. «Mi si è alzata la giacca sulla schiena – ha denunciato una donna di 40 anni all’AdnKronos, ripreso da la Repubblica – All’improvviso ho sentito una puntura. Non so cosa fosse esattamente, forse una piccola siringa ma sono certa che fosse un ago. Ho alzato lo sguardo e ho visto un uomo allontanarsi». 

Non è chiaro il movente, ma il caso ricorda molto il needle spiking, il fenomeno delle iniezioni a tradimento che durante questa estate ha colpito centinaia di giovani mentre partecipavano a feste in Spagna e Francia. La donna ha denunciato il fatto ai carabinieri a San Lorenzo in Lucina.

«Quello che mi è successo è sconvolgente», dice la donna, madre di due figlie. «Mi sono spaventata e sono rimasta impietrita, avevo paura che potesse farmi del male, però l’ho seguito con lo sguardo», racconta. «Lui ha continuato ad andare avanti compiendo atti di vandalismo lungo la via. Appena mi sono ripresa sono salita sulla bici e l’ho seguito, sono riuscita a riprenderlo, lui mi ha visto e si è dileguato tra la folla», spiega la donna. 

Nel video da lei girato dalla donna e in quelli delle telecamere di sicurezza della zona – che al momento non vengono diffusi – si vede un uomo con una cresta a spazzola, rasata ai lati, che si allontana indossando uno smanicato nero su una felpa beige e un pantalone di colore chiaro. «Subito dopo sono andata allo Spallanzani», continua la donna, spiegando di essere «fortunata perché non è uscito sangue, anche se la parte dove sono stata punta si è gonfiata». «Ora dovrò comunque sottopormi ai test per hiv ed epatite. È stato veramente un trauma, ieri piangevo ed ero disperata ma sporgerò denuncia perché la stessa cosa potrebbe capitare a chiunque, anche a qualche bambino», racconta la signora.

Il needle spiking è un fenomeno diffuso da anni nei locali notturni del Regno Unito. Ma nel corso di quest’anno pare essersi diffuso in maniera massiccia anche in altri Paesi europei, tra cui Francia e Spagna. Le vittime lamentano sempre la stessa cosa. Mentre ballano e si godono la serata sentono un pizzicore, spesso al braccio, sintomo di un’iniezione a tradimento. Fatta probabilmente per inoculare qualche tipo di sostanza stupefacente che le stordisca e renda l’approccio più semplice.

Le cosiddette «droghe dello stupro». Chi subisce il colpo, nella maggior parte dei casi, riporta sintomi lievi. Come vertigini, nausea e mal di testa. Ma alcuni hanno segnalato anche perdita di memoria, spasmi o paresi muscolari, difficoltà a parlare e a muoversi. Anche chi non ha manifestato particolari sintomi denuncia comunque di aver avvertito dolore e prurito al momento della puntura. E presenta molto spesso un livido nel punto interessato.

Roma, passante punge una 40enne con una siringa: immagini-choc. Libero Quotidiano il 22 dicembre 2022

Sconvolgente a Roma: una 40enne, madre di due bambine, ha denunciato ai carabinieri di essere stata punta da una siringa. La donna ha raccontato di essere stata aggredita in pieno centro da un uomo. Appena dopo l'accaduto, la 40enne sarebbe salita in sella alla sua bicicletta inseguendo l’uomo e realizzando un video che è ora in mano agli inquirenti. Nelle immagini si vede un uomo rasato e con una cresta a spazzola con indosso uno smanicato nero su una felpa beige e un pantalone chiaro. Le indagini si focalizzano sul needle spiking, il fenomeno registrato già in diversi Paesi europei, consiste nel pungere sconosciuti, in particolare donne, con siringhe infette o contenenti droghe. 

"Era mezzogiorno, ero in via Brunetti, mi sono abbassata per togliere la catena alla bicicletta e mi si è alzata la giacca sulla schiena. All’improvviso ho sentito una puntura. Non so cosa fosse esattamente, forse una piccola siringa ma sono certa che fosse un ago. Ho alzato lo sguardo e ho visto un uomo allontanarsi", ha raccontato la signora all'Adnkronos ancora sconvolta. "Quello che mi è successo è sconvolgente. Mi sono spaventata e sono rimasta come impietrita, avevo paura che potesse farmi del male, però l’ho seguito con lo sguardo. Lui ha continuato ad andare avanti compiendo atti di vandalismo lungo la via. Appena mi sono ripresa sono salita sulla bici e l’ho seguito, sono riuscita a riprenderlo, lui mi ha visto e si è dileguato tra la folla". 

La 40enne accorsa subito allo Spallanzani, si dice fortunata: "Non è uscito sangue, anche se la parte dove sono stata punta si è gonfiata. Ora dovrò comunque sottopormi ai test per hiv ed epatite. È stato veramente un trauma, ieri piangevo ed ero disperata ma sporgerò denuncia Rapina a Grinzane Cavour, in un video la reazione del gioielliere: insegue e spara ai banditi. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2022.

Le immagini della sparatoria e della morte di due rapinatori proiettate in Corte d'Assise ad Asti durante il processo. La rabbia dei parenti in aula

Un video di otto minuti che, frame dopo frame, racconta la rapina in gioielleria e l’omicidio di due banditi avvenuti il 28 aprile 2021 a Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo. Il filmato è stato mostrato il 21 dicembre 2022 nel corso della seconda udienza del processo in cui l’orafo Mario Roggero, 67 anni (difeso dall’avvocato Dario Bolognesi), è accusato di omicidio doloso plurimo per aver sparato e ucciso due malviventi, Andrea Spinelli e Giuseppe Mazzarino. Un terzo bandito, Alessandro Modica, è stato ferito: l’uomo è riuscito a scappare ed è stato arrestato alcune ore dopo all’ospedale di Savigliano. 

A lungo nei mesi scorsi si era parlato di questo filmato e di come abbia cambiato la narrazione di quella giornata di primavera, trasformandosi poi nell’atto di accusa più forte contro Roggero. Eppure, in molti non erano pronti a vedere quelle immagini e a metabolizzarne la crudeltà. Non lo erano certamente i familiari delle vittime, assistiti dagli avvocati Marino Careglio, Giulia Mondino, Angelo Panza, Giuseppe Caruso e Carla Montarolo. All’inizio sui loro volti c’erano commozione e sofferenza, ma con lo scorrere dei frame si è manifestata la rabbia. «Bastardo», si è percepito tra il pubblico mentre sul monitor compariva la figura del gioielliere che prende a calci in testa Spinelli nei suoi ultimi istanti di vita.

Il video, mostrato dal pm Davide Greco ai giudici della Corte d’Assise di Asti, descrive la sequenza degli eventi a partire dalle 18.45 (nelle immagini l’orario è spostato di un’ora indietro, 17.45), il momento in cui le telecamere di sicurezza della gioielleria inquadrano i rapinatori arrivare a bordo di una Ford Fiesta bianca e parcheggiare in uno stallo sul retro del negozio, in un vicolo di via Garibaldi. I banditi, bardati con un cappello e la mascherina anti-Covid, entrano uno dopo l’altro nel locale. Il primo è Spinelli, che si finge un cliente e chiede che gli vengano mostrati alcuni gioielli. A servirlo è la figlia del titolare, mentre la madre è dietro il secondo bancone. Roggero è nel laboratorio sul retro. Qualche minuto dopo arriva Mazzarino, che estrae un coltello e minaccia le due donne. Infine, Modica con il borsone in cui mettere i gioielli. Sono momenti di tensione. I banditi legano la donna più giovane con fascette da elettricista e puntano la pistola (che poi si rivelerà essere un giocattolo, con tanto di scotch a tenerne insieme i pezzi) contro l’orafo e svuotano la cassaforte. 

Ma sono le sequenze finali, in parte immortalate anche dall’occhio elettronico di un ufficio postale, a restituire la drammaticità e la violenza di cui è impregnata la morte dei rapinatori. Le immagini mostrano i tre uomini che escono dal retro del negozio e si dirigono verso l’auto. Modica si siede al posto di guida, gli altri due cercano di salire dall’altra parte (la vettura ha solo due portiere). Roggero li insegue all’esterno, in mano ha il revolver che fino a pochi istanti prima era nascosto in un cassetto sotto il registratore di cassa. Raggiunge i banditi vicino alla vettura e spara in rapida successione cinque colpi: il primo colpisce lo specchietto retrovisore sinistro, gli altri vengono esplosi (tutti sul lato destro) all’interno della vettura mentre i malviventi braccati cercano di fuggire. Si vede l’auto che improvvisamente ha un sussulto: è il momento in cui Modica viene colpito alla gamba e toglie il piede dalla frizione. Mazzarino, esamine, prova a nascondersi dietro l’auto, ma si accascia a terra e muore. Modica riesce a scendere dalla vettura e fugge. Spinelli, già ferito a morte, cerca a sua volta di scappare. Cade a terra, Roggero lo raggiunge e lo colpisce alla testa e alla schiena con diversi calci. Poi di nuovo gli punta contro la pistola e preme il grilletto, ma a quel punto il tamburo è scarico. Tra il gioielliere e il bandito c’è una breve colluttazione, Spinelli tenta ancora di allontanarsi ma stramazza al suolo in mezzo a via Garibaldi. 

Gabriele Santoro su ANSA il 17 Dicembre 2022.   Una vita passata a dirigere le più importanti orchestre del mondo per regalare con la sua musica quel tocco in più ai film che li rendeva indimenticabili. Decenni di applausi e decine di premi, targhe, medaglie. Che ora però sono nelle mani di sconosciuti ladri, che forse non sanno nemmeno quanta storia hanno dietro, attirati dal metallo lucente più che dal loro significato. 

La casa alle porte di Roma di Riz Ortolani, uno dei più famosi compositori di colonne sonore del cinema italiano, scomparso nel 2014, è stata svaligiata ieri sera. A denunciarlo con un post su Facebook è stata la figlia del musicista, Rizia: "I ladri - scrive - hanno portato via premi in argento ricevuti nel corso della sua carriera. Si tratta di oggetti molto importanti per la famiglia, premi, piatti e medaglie con incisioni e dediche personali sia a lui che a mia madre Katyna Ranieri", anche lei cantante di successo e interprete del brano 'More', con cui Ortolani ottenne un Grammy e una candidatura agli Oscar. "Sono oggetti che non hanno valore commerciale ma affettivo: spero che i ladri li restituiscano".

Una carriera straordinaria, quella di Ortolani, partita dalla sua Pesaro e arrivata in tutto il mondo. Oltre 200 i film che ha musicato: da 'Il Sorpasso' di Dino Risi a 'Fratello sole sorella luna' di Zeffirelli, la lunghissima collaborazione con Pupi Avati, i cult del cinema di genere ('Non si sevizia un paperino'), i polizieschi di Damiano Damiani, i western. Il fan più famoso è forse Quentin Tarantino, che ha utilizzato le sue musiche per 'Kill Bill', 'Bastardi senza gloria' e 'Django Unchained'. E poi gli sceneggiati tv degli anni '60 rimasti nella memoria collettiva: 'La Cittadella', 'David Copperfield', 'La freccia nera'. L'abitazione del musicista si trova ad Aranova, a pochi chilometri dalla Capitale.

"Erano circa le 20 quando l'allarme è scattato subito dopo che l'avevamo inserito - racconta all'ANSA la figlia Rizia - I ladri erano ancora in casa, li abbiamo visti fuggire attraverso la rete di recinzione. Per fortuna non sono riusciti a salire al piano superiore". La famiglia ha sporto denuncia ai carabinieri, e ha provato a fare un primo inventario della refurtiva. Più facile a dirsi. 

Di riconoscimenti, Ortolani ne aveva ricevuti a decine: "C'erano premi in argento con incisioni dedicate a papà e a mamma - aggiunge -. Roba difficile da rivendere o da fondere. Hanno rubato i pezzi di una scacchiera, alcune forchette in argento, dei piatti. Oggetti che racchiudevano l'intera carriera di papà e mamma, dal valore commerciale ridicolo, ma solo un grande valore affettivo. Spero che i ladri possano capire e restituirci quanto rubato".

C'è una medaglia del presidente della Repubblica del 2001, per esempio, una dell'orchestra sinfonica della Rai, delle posate inglesi d'età vittoriana, un grande piatto con la dedica dei suoi musicisti quando lavorava in Messico, nel 1958. Proprio in Messico, due anni prima, aveva sposato Katyna, la mamma di Rizia. Che adesso, in attesa delle indagini dei carabinieri, può solo affidare ai social le foto della refurtiva e un appello: "Massima diffusione".

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 17 Dicembre 2022.   

«Sono tre giorni che dormo poco e non mangio, sono scioccata. Non è stato un furto ma un'operazione chirurgica. Ci sono troppe cose strane che non tornano in questa storia». Madalina Ghenea vive ore concitate dopo il furto subito in aeroporto a Fiumicino.

Un trolley da cabina con trenta oggetti preziosi, diamanti, gioielli e non solo. Valore stimato un milione di euro circa. 

Cosa è successo?

«Rientravo da Riad dove avevo partecipato a un evento della prestigiosa rivista Hia.

Ma anziché atterrare a Milano come previsto, 24 ore prima ho cambiato programma per ricevere a Roma il premio Magnifica Award. Viaggio in business class organizzato da Hia con una delle principali compagnie aeree mondiali che includeva l'auto con conducente già riservata all'arrivo. Non gli Ncc comuni, ma uno dedicato e incaricato della presa in consegna del mio trolley. Parcheggio in una piazzola riservata, lontana dall'area taxi». 

Il furto dove è avvenuto?

«In una zona sostanzialmente priva di sorveglianza. La macchina era parcheggiata adiacente al muro e il carrello bloccava l'accesso a terzi. Il trolley era in quel momento caricato dall'autista nel van». 

È stata colta di sorpresa?

«No, anzi, ho tenuto il trolley sotto controllo per tutto il tempo, in quel momento l'autista lo stava caricando nel van. Il ladro si è mosso con tranquillità senza forzature.

Indisturbato» 

Nessuno lo ha visto?

«Io, e gli sono corsa dietro urlando ma a un bivio non sono riuscita poi a capire da che parte sia poi andato o se c'era un complice ad attenderlo».

Perché dice che ci sono stranezze?

«Non voglio accusare l'autista, forse era stanco, distratto, ma anche io ero reduce da 18 ore di viaggio e non mi distraggo mai con oggetti di questo valore». 

Qualcuno l'ha aiutata?

«Ho chiamato il 112 e poi mi hanno aiutato dei calciatori (così mi hanno detto) che erano lì con le loro famiglie. Sono stati gentili. Hanno detto al conducente di non urlare contro di me e mi hanno indicato il posto di polizia per la denuncia. Era quasi in orario di chiusura e ho rifatto tutto il percorso correndo. Dovrebbero esserci le videoriprese». 

E immagini del furto?

«Sembra che l'auto fosse parcheggiata nell'unico punto "cieco" di quello spiazzo, dove il ladro non può essere capitato per caso. Ho presentato denuncia con l'avvocato Ilenja Mehilli e la consulenza della criminologa Roberta Bruzzone, le indagini sono partite». 

Ci sono altri punti oscuri?

«Prima della mia richiesta di cambio di prenotazione la persona che organizzava il viaggio mi ha informato che qualcuno aveva provato a cambiare il mio volo, un cambio non richiesto da me. Come se qualcuno fosse entrato nel sistema a nome mio o volesse controllarmi».

In passato lei ha denunciato un presunto stalker per episodi di varia natura. Pensa a un collegamento?

«Tanti episodi in otto anni circa. Messaggi strani, tentativi di sabotare la mia carriera e la mia immagine Pensavo a situazioni separate, ma mettendole in fila anche con questo furto, viene il sospetto che sia sempre la stessa persona». 

Come sta vivendo emotivamente questo furto?

«Malissimo. Ho pianto fino a terminare le lacrime. Sono dovuta ripartire per Milano per essere alla recita di mia figlia, l'appuntamento a cui tengo di più in assoluto, ma ho avuto paura di risalire in aereo o in treno e sono andata in auto. Ho pensato: "E se mi capita di nuovo? E se avessi raggiunto quel ladro che sarebbe successo?"». 

Viaggia spesso con oggetti di questo valore?

«Per lavoro sono abituata a viaggiare di continuo in Italia e all'estero e sono solita portare con me abiti, gioielli, borse di noti brand ecc. Con alcuni di questi non sono solo brand ambassador ma ho anche curato campagne pubblicitarie con la mia casa di produzione. 

Tutti i brand con cui lavoro sanno della mia attenzione e della mia professionalità e si fidano perché vedono lo scrupolo con cui custodisco le loro creazioni. Ero tranquilla, c'era un uomo ad attendermi allo sbarco per accompagnarmi, tutto era sotto controllo. Almeno così credevo».

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2022.

A tradirli sarebbe stata la pistola. L’avevano rubata venti giorni prima a una guardia giurata nel corso di una rapina ad un centro agroalimentare. E un pezzo di quell’arma è stato ritrovato vicino allo scooter che per gli inquirenti sarebbe stato usato nel secondo, tragico agguato: primo agosto scorso, un killer con il casco in testa esplode diversi colpi al bar del Parco, a Pescara; cadono a terra Walter Albi, architetto di 66 anni, e l’ex calciatore Luca Cavallito, 49, seduti al bar in attesa di qualcuno. Il primo viene ucciso, il secondo gravemente ferito. 

Succede ora che per quella sparatoria la Procura di Pescara abbia iscritto nel registro degli indagati tre persone, le stesse accusate della rapina commessa l’11 luglio al Centro agroalimentare di Cepagatti, sulle colline pescaresi, che aveva fruttato un bottino di circa 30 mila euro. Si tratta di Renato Mancini, pregiudicato di 49 anni di Francavilla, Fabio Iervese, quarantatreenne di Civitaquana, e del pescarese Cosimo «Mimmo» Nobile, conosciuto soprattutto per essere uno storico capo ultrà della curva del Pescara ma anche per i suoi precedenti. 

I primi due sono in carcere dal 21 settembre, raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare proprio per la rapina di luglio, rispetto alla quale Nobile risulta solo indagato ed è dunque in libertà. La notizia, anticipata dal Centro, è stata confermata dalla Procura che proprio ieri ha notificato al terzetto una richiesta di incidente probatorio per cristallizzare la prova del dna rinvenuto sui reperti che potrebbero inchiodare il killer. 

Un atto nel quale si ipotizzano l’omicidio e il tentato omicidio. «Per noi è un macigno — ha commentato l’avvocato Franco Perolino, difensore di Mancini —. Ricordo che il mio cliente si era avvalso della facoltà di non rispondere davanti al magistrato che aveva disposto il carcere per la rapina, custodia confermata dal Tribunale del Riesame».

Circa il movente dell’agguato, si fa strada quello economico. A parlarne è stato Cavallito, il quale, dopo essere stato a lungo in ospedale fra coma farmacologico e vari interventi chirurgici, è ora tornato a casa. Interrogato dagli inquirenti, ha indicato in un affare economico da 400 mila euro la possibile causa scatenante del delitto. Un progetto riguardante il porto turistico di Pescara, dove lui ed Albi pensavano di realizzare delle casette galleggianti. 

«Questo è ancora tutto da vedere», invitano alla prudenza in Procura, dove le indagini sono coordinate dalla procuratrice aggiunta Annarita Mantini. Del progetto avevano parlato in precedenza anche la sorella e il padre di Cavallito, quando il figlio non era in grado di testimoniare: «Luca e Albi volevano aprire una specie di albergo nel porto turistico, erano già a posto con le licenze, aspettavano solo che arrivasse il finanziamento», aveva detto in un’intervista al Corriere della Sera Dario, il padre, pure lui ex calciatore. Avevano pestato i piedi a qualcuno? 

Al di là del movente, la squadra Mobile di Pescara ha raccolto altri indizi che portano nella direzione dei tre indagati. Un importante contributo è arrivato dall’analisi di un cellulare, di alcuni supporti informatici e dalle immagini delle telecamere della zona, compreso il video che riprende il killer nel momento in cui entra nel bar e con freddezza spara il colpo di grazia all’architetto Albi.

Uso del riconoscimento facciale nelle città italiane: il Garante indaga. Walter Ferri su  L'Indipendente il 16 novembre 2022.

Il Garante della privacy italiano si è mosso per studiare a fondo una coppia di iniziative in mano a Comuni italiani che hanno forse preso un po’ troppo alla leggera le controverse tecnologie di riconoscimento biometrico. L’Autorità ha avviato dunque due separate istruttorie al fine di vigilare sulle mosse prossime future previste dai Comuni di Lecce e Arezzo.

Le normative italiane che riguardano il controllo e la raccolta dei dati sviluppati attorno ai sistemi di riconoscimento facciale sono ancora indefinite e imprecise, tuttavia la formula base prevede che questi strumenti possano essere adoperati solamente al fine di espletare compiti di interesse pubblico interconnessi all’esercizio di pubblici poteri. Per quanto riguarda i Comuni, il tutto viene giustificato formalmente dall’istituzione di “patti per la sicurezza urbana tra Sindaco e Prefettura”, tuttavia questo approccio è tendenzialmente soggetto a un attento scrutinio.

Grazie a un emendamento proposto dal deputato PD Filippo Sensi in occasione del cosiddetto decreto Capienze, la politica ha infatti assunto una posizione cauta nel definire come simili apparati di sorveglianza debbano prendere forma. Concretamente ne ha sospeso l’impiego in tutti quei contesti che non coinvolgano indagini della magistratura o la repressione dei reati. Nel dicembre del 2021 l’emendamento è divenuto legge: fino al 31 dicembre 2023 o, in alternativa, fino al giorno in cui verranno istituite norme più specifiche che siano in grado di prevenire ogni eventuale abuso, il riconoscimento biometrico dev’essere centellinato ai soli casi di comprovata necessità.

Il compito del Garante sarà ora quello di stabilire se Lecce e Arezzo siano state ligie nell’applicazione delle regole, ovvero che la portata dei loro interventi sia effettivamente commisurata alla necessità di combattere atti illeciti. La città pugliese dovrà dimostrare la bontà di un suo progetto nel quale, sostiene il GdP, è previsto “l’impiego di tecnologie di riconoscimento facciale”. Al Comune è richiesta la presentazione di tutti i dettagli riguardanti le strumentazioni utilizzate, nonché un report di valutazione dell’impatto che la strategia di sorveglianza può avere sul pubblico. Giusto per assicurarsi che non si sfoci nella “sorveglianza sistematica su larga scala di una zona accessibile al pubblico”.

Ad Arezzo la questione è ancora più sfumata. A essere messo al vaglio sarà un sistema di “super-occhiali infrarossi” che, collegandosi a banche dati nazionali, promette di essere in grado di leggere e interpretare i numeri di targa delle macchine di passaggio, così da avviare una verifica automatica che confermi la validità dei documenti del guidatore. L’Autorità mette in dubbio la validità del progetto in questione non solo ai fini di un eccesso di sorveglianza, ma anche per l’eventualità che i dispositivi possano essere adoperati, anche indirettamente, per controllare a distanza l’attività dei lavoratori. A rimetterci, insomma, non sarebbero solamente i cittadini, ma anche gli stessi vigili impegnati nei controlli.

Le indagini finiranno con il rallentare le implementazioni dei progetti gitati e non è detto che questi non deraglino definitivamente, almeno tenendo conto dei precedenti che si sono registrati in situazioni omologhe. Inciampi simili sono d’altronde prevedibili, perlomeno quando le strategie di sorveglianza vengono sviluppate senza usufruire dell’opportuna e necessaria consultazione del Garante della privacy. [di Walter Ferri]

La classifica del Sole 24 Ore: la città è decima. Perché a Napoli i cittadini denunciano meno che nelle altre città: la storia del salumiere Scarciello. Francesca Sabella su Il Riformista il 4 Ottobre 2022. 

Il Sole 24 ore ha tracciato la “mappa del crimine” con informazioni estratte dalla banca dati interforze dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno relative all’anno 2021. Ebbene, con grande sorpresa, soprattutto di coloro che continuamente indicano Napoli come la città peggiore del Paese, è Milano la città nella quale si consumano più reati e si registra il maggior numero di denunce. Ora, frenate l’entusiasmo, siamo comunque alla decima posizione nella top ten delle grandi città con più reati, ma c’è da dire anche che qui i cittadini sono più restii a denunciare. Andiamo con ordine.

Milano, quindi, si conferma al vertice dell’Indice della criminalità, che entrerà nell’indagine della Qualità della Vita 2022 a fine anno, con 193.749 reati denunciati nel corso del 2021: 5.985 ogni 100mila abitanti. Per dare un peso al fenomeno, la cifra risulta pari alla somma di tutti i crimini denunciati nello stesso arco di tempo a L’Aquila, Pordenone e Oristano, le tre province con meno densità di illeciti che si posizionano in fondo alla classifica. E così tra le 107 province italiane Milano è quella con più furti rilevati ogni 100mila abitanti, in particolare nei negozi e nelle auto in sosta; è settima per denunce di violenze sessuali; seconda per rapine in pubblica via; terza per associazioni per delinquere. Seguono per densità di crimini le altre grandi città: tra le prime dieci classificate si incontrano – oltre a Milano – anche Torino (3ª), Bologna (4ª), Roma (5ª), Firenze (7ª) e Napoli (10ª).

Sì, la sorpresa: Napoli è in fondo alla classifica per densità di atti criminali. Ma è prima per furti con strappo e di motocicli, ma anche di contrabbando. Ma qui c’è un ragionamento importante da fare: più denunce, però, non significa per forza meno sicurezza. Ma anche perché i dati sulle denunce riflettono la propensione dei cittadini a presentarle, legata a diversi fattori: la differente “soglia del dolore” della cittadinanza verso il crimine; il grado di fiducia nelle forze dell’Ordine; la più o meno efficace presenza delle istituzioni sul territorio. Soffermiamoci sulla propensione dei cittadini di Napoli a sporgere denuncia, sono centinaia le storie degli imprenditori che raccontano della paura di denunciare e rimanere poi soli, abbandonati dallo Stato e preda della criminalità organizzata che si ha avuto il coraggio di denunciare.

L’omertà non è un problema solo del Sud, sia chiaro, ma che qui le istituzioni abbiano abbandonato fette delle città è altrettanto chiaro e che questo si rifletta in una sfiducia nei confronti di forze dell’ordine e politica, anche. La frase che centinaia di volte abbiamo sentito dire è “ma che denuncio a fare” oppure “se denuncio mi fanno pure qualcosa”. Sono frasi che fanno parte del quotidiano di questa città. La sfiducia nelle forze dell’ordine e nella giustizia c’è e ed è concreta. Certo il decimo posto fa piacere, ma bisogna considerare il perché Napoli va a guadagnarsi l’ultima posizione. Basti pensare che in città la metà dei cittadini non denuncia i reati di camorra per paura di ritorsioni. Parliamo di un numero enorme di reati che non compaiono nei database della Polizia e quindi nelle classifiche. E basta ricordare due storie che fanno parte di una lista lunghissima di imprenditori che hanno denunciato e poi sono rimasti soli.

Luigi Leonardi, denunciò la camorra che gli chiese il pizzo per il suo negozio di articoli di illuminazione, lasciato solo dallo Stato e poi addirittura sospettato lui stesso di aver commesso un reato. Lui come il salumiere Ciro Scarciello che dopo aver denunciato la camorra, fu costretto a chiudere il suo negozio a Forcella. Sono solo alcuni esempi. Una bella notizia il decimo posto per Napoli, ma guardiamo oltre i numeri.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale". Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna. Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Genova, ucciso da una freccia nel centro storico. A scoccarla un residente infastidito dal baccano. Giulia Mietta su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022 

La vittima, il 41enne peruviano Javier Romero Miranda, era con un connazionale nei vicoli del quartiere Maddalena. L’omicida è un 63enne operaio navale, che ha imbracciato l’arco dal balcone di casa: è in carcere a Marassi. Toti: «Non esiste movida che possa giustificare un gesto simile»

Un peruviano di 41 anni, Javier Romero Miranda, è morto questa mattina all’ospedale San Martino di Genova dopo essere stato trafitto al torace da una freccia. L’episodio era avvenuto nella notte nel centro storico del capoluogo ligure, nel quartiere della Maddalena. A scoccare il dardo dalla finestra di casa un 63enne, Evaristo Scalco, subito arrestato dai carabinieri. L’uomo deve ora rispondere dell’accusa di omicidio volontario.

Secondo quanto ricostruito dalle forze dell’ordine tutto sarebbe nato da una lite in strada tra il 41enne peruviano e un suo connazionale. Il 63enne, infastidito dal baccano, avrebbe prima iniziato a inveire contro i due ma dopo qualche minuto, spazientito, ha preso arco e frecce e l’ha usato per scacciarli.

La vittima era stata ricoverata in ospedale, dove i medici lo avevano sottoposto a un complesso intervento chirurgico per rimuovere la freccia, conficcatasi nel fegato. Dopo ore di agonia, l’uomo però è morto.

Il 63enne, italiano, senza precedenti significativi, è un operaio navale, ora si trova in carcere a Marassi. Ha raccontato ai carabinieri del nucleo radiomobile di essere appassionato di bricolage e di essersi fabbricato da solo l’arma con cui ha ferito il 41enne. L’arco è stato sequestrato dai carabinieri.

A casa dell’omicida i carabinieri hanno trovato altri due archi fabbricati artigianalmente e una sessantina di frecce. I residenti della zona hanno raccontato che Scalco non era molto conosciuto ma a chi lo aveva incontrato era parso una persona tranquilla. Piuttosto, sono in molti a puntare il dito contro la gestione della movida nel quartiere del Maddalena: commercianti e comitati negli ultimi mesi hanno più volte caldeggiato un più massiccio intervento delle forze dell’ordine e delle istituzioni visto che la situazione era scappata di mano con frequenti risse notturne e altre situazioni di degrado. «Non esiste movida, rumore o qualsiasi altra situazione che possa giustificare una simile reazione. Collegare un gesto omicida con il divertimento dei giovani sarebbe il secondo elemento sconsiderato di questa triste vicenda», il commento del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.

Genova, ucciso da una freccia: era padre da un giorno. Il pm: «Aggravante dell’odio razziale». Giulia Mietta su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022.

Gli schiamazzi nel vicolo, la lite con Evaristo Scalco che dalla finestra della sua abitazione scaglia una freccia: «Non volevo uccidere, ho perso la testa quando li ho visti urlare»

Morire il giorno dopo la nascita di un figlio. Tragico il destino di Javier Miranda Romero, il 41enne che nella notte tra martedì e mercoledì è stato colpito e ucciso in un vicolo di Genova da una freccia scagliata dalla finestra della sua abitazione da Evaristo Scalco , 63 anni, maestro d’ascia con la passione per gli archi che da meno di un mese si era trasferito in piazza De Franchi, ma era disturbato dai continui schiamazzi notturni nelle viuzze del centro storico del capoluogo ligure. Ora è accusato di omicidio volontario e con l’aggravante dell’odio razziale: prima di scoccare la freccia ha urlato dalla finestra «stranieri di me..da».

L’immigrato peruviano era andato in un bar in via dei Quattro Canti di San Francesco a festeggiare con gli amici, mentre la moglie era ancora in ospedale, e guardare la partita Liverpool-Napoli di Champions League. Aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e, all’uscita, il gruppo aveva iniziato a fare rumore nel vicolo, a parlare ad alta voce, litigare tra di loro e a dare colpi anche a una saracinesca. Scalco si è affacciato e, forse a sua volta in preda ai fumi dell’alcol e con la musica ad alto volume che usciva dalla sua stanza come ha raccontato un amico della vittima, ha iniziato a inveire contro Romero, anche con termini razzisti. Questi a sua volta ha risposto e lo stava riprendendo con un cellulare. A questo punto Scalco, appena ritornato la sera stessa da Malta dove aveva fatto da prodiere su una barca a vela, ha preso un arco e ha scagliato la freccia.

Scalco, incensurato, esperto artigiano, come riporta Il Secolo XIX aveva ottenuto un ingaggio per alcuni lavori da svolgere sul «Kirribilli», lo yacht di Renzo Piano, in rimessaggio a Genova. Nella perquisizione nell’abitazione di Scalco i carabinieri hanno trovato e sequestrato tre archi e una sessantina di frecce. «Volevo solo dormire, ho perso la testa quando li ho visti urinare contro il muro», dirà agli inquirenti. «Ho detto che erano degli incivili e per risposta mi hanno lanciato contro uno o due petardi. Non ho capito cosa fossero, ma ho avuto paura. Ecco perché ho scoccato la freccia, ma non volevo uccidere». Ma i carabinieri che hanno eseguito la perquisizione hanno rilevato che la freccia scelta da Scalco era la più appuntita tra quelle trovate nella casa. Dove sono stati effettivamente rinvenuti due petardi, ma non esplosi.

Il pm Arianna Ciavattini ha convalidato l’arresto di Scalco, che dovrà essere sottoposto a un successivo interrogatorio.

Genova, l’omicidio con la freccia, Scalco disse: «Fa male? Ti avevo avvisato». La frase che smentisce la sua versione. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2022.

Le videocamere di sorveglianza, i telefonini e le riprese dei presenti al grave episodio relativo all’uccisione, a Genova, di raccontano una versione dei fatti diversa da quella dell’indagato, accusato di aver scoccato il colpo fatale. «Fa male? Ti avevo avvisato». Dall’analisi dei cellulari sequestrati dai carabinieri del nucleo radiomobile è giunta a prima smentita alle dichiarazioni di Evaristo Scalco, il maestro d’ascia di 63 anni in carcere con l’accusa di aver ucciso la notte tra martedì e mercoledì scorso, in vico, operaio edile di origine peruviana di 41 anni impegnato in una lite in strada. Scalco, rispondendo alla presenza del suo avvocato Fabio Fossati alle domande degli inquirenti, aveva sostenuto di non aver voluto colpire Miranda con la freccia. «Volevo solo intimorirlo, non pensavo di averlo colpito», aveva dichiarato. Tuttavia dall’analisi dei telefonini e dagli audio di chi ha potuto riprendere la scena i carabinieri hanno estrapolato una frase che dimostra la volontà dell’artigiano di colpire il peruviano con la freccia.

Le osservazioni del giudice

Il giudice Matteo Buffoni nell’ordinanza con cui ha convalidato l’arresto ha scritto: «Scalco ha scoccato la freccia da una posizione sopraelevata rispetto a quella della vittima, e quest’ultima, nonostante l’orario notturno, era ben visibile, essendo la zona ben illuminata. Miranda Romero era l’unico bersaglio possibile, visto che, come documenta il filmato tratto dal sistema di videosorveglianza, l’amico si era allontanato dalla visuale di Scalco: tutto ciò lascia pensare che l’indagato abbia preso la mira e al tempo stesso smentisce quanto egli ha dichiarato alla polizia giudiziaria. Durante l’interrogatorio, Scalco ha dichiarato di non aver avuto una buona visuale del bersaglio, vista la presenza di piante rampicanti sulle ringhiere del condominio. Tuttavia, dal video, si nota che la vegetazione sulle ringhiere è tutt’altro che folta, e sembra che dalla finestra la visuale del bersaglio sia quasi completamente libera. Nel video si sente distintamente Evaristo Scalco chiedere all’indirizzo della vittima, in quel momento in piedi con la freccia conficcata nel petto, copiosamente sanguinante e in stato di choc, se sentisse dolore per il colpo. L’indagato gli ha detto che lo aveva avvisato che gli avrebbe lanciato una freccia».

L’accusa di omicidio volontario

Secondo il magistrato questa frase, «è palesemente incompatibile con la convinzione di aver sbagliato il colpo». Scalco è accusato di omicidio volontario. Per il giudice sussistono i futili motivi perché «è evidente l’enorme sproporzione tra il motivo che ha scatenato la furia omicida e l’azione delittuosa». L’artigiano, si legge ancora nelle motivazioni, «non è in grado di controllare i propri impulsi» e potrebbe reiterare il reato.

Chi è Evaristo Scalco, l’uomo che ha scoccato la freccia: «Maestro d’ascia e tra i migliori marinai d’altura, l’arco se l’è fatto da solo». Giulia Mietta su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022.

Il ritratto dell’assassino di Javier Miranda Romero. Originario di Varese, si era trasferito nella casa di Genova da poco. Prima dell’omicidio aveva cenato e bevuto con gli amici, ma ai carabinieri è parso lucido. L’esperienza sulla barca di Renzo Piano 

Evarisco Scalco a sinistra nell’immediatezza del fatto, con ancora a terra il corpo di Miranda. A destra all’arrivo dei carabinieri che chiedono informazioni

Un uomo tranquillo, amante della musica, del mare e soprattutto del suo lavoro. Evaristo Scalco, 63 anni, l’uomo che deve rispondere dell’omicidio di Javier Alfredo Miranda Romero, è un maestro d’ascia e un marinaio con esperienza ultradecennale, noto nell’ambiente e stimato, tanto da essere chiamato a lavorare persino sulle «Kirribilli», le due barche a vela dell’architetto Renzo Piano a Genova. Sono queste le voci che girano tra i caruggi di Genova in queste ore, anche se nel quartiere della Maddalena sembrano essere pochi quelli che conoscevano «Evi» personale.

In piazzetta Defranchi viveva al primo piano di un palazzo antico, nell’appartamento messo a disposizione da un amico, da circa un mese. Per questo erano in pochi a conoscerlo. «Quel signore sembrava una persona del tutto normale, spesso ascoltava musica ad alto volume, musica prog», racconta un commerciante del vicolo. Poco distante alcune prostitute, fuori dai loro «bassi», dicono di non aver mai avuto a che fare con Scalco. Originario del varesotto, nato a Cittiglio ma residente a Laveno, sul lago Maggiore, dove ha una compagna, il 63enne era spesso in giro per il mondo per via del suo lavoro.

Il giorno prima dell’omicidio era appena tornato da Malta a bordo di una barca a vela trasferita a Genova. La sera stessa era uscito a cena con i colleghi. Forse qualche bicchiere di troppo, ma quando è stato ascoltato dai carabinieri, dopo aver ferito la vittima con una freccia, era parso lucido e consapevole, hanno riferito dal nucleo radiomobile. Per la sua professione era legato ai cantieri navali della Liguria ormai dagli anni Novanta. Oltre al capoluogo ligure aveva collaborato con alcune aziende artigiane del Tigullio, tra Chiavari e Lavagna.

«Siamo sotto shock, qui lo conosciamo tutti da tempo, Evi è uno dei migliori marinai oceanici mai visti, uno che ha le mani d’oro, richiesto da tutti per i lavori più difficili, e un tipo tranquillo, quello che è accaduto non si può spiegare», dice Leopoldo Leonardo, titolare di un bar sul porticciolo di Lavagna dove il maestro d’ascia andava spesso. «Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, così come quel pover’uomo che è morto, Evaristo sicuramente sarà distrutto per quanto accaduto — continua l’amico — se c’è l’alcol dietro a quello che è successo? Io non lo so, penso che un paio di gin tonic li abbia bevuti chiunque…».

Evaristo Scalco era considerato un mago con il legno e non solo. Ed è con le sue mani che ha costruito i tre archi, tra cui quello usato per colpire Javier Romero, e le 30 frecce sequestrate dalle forze dell’ordine. Negli ultimi anni aveva svolto anche attività di volontariato, con la protezione civile di Laveno. Soprattutto nel periodo del Covid si era adoperato per consegnare a chi ne aveva bisogno mascherine e generi di prima necessità.

Chi è Evaristo Scalco, l’operaio che ha ucciso con una freccia un uomo in strada: “Faceva baccano”. Redazione su Il Riformista il 2 Novembre 2022 

Infastidito dal baccano proveniente dalla strada, dove due persone stavano litigando, ha impugnato la balaustra e ha scoccato una freccia dalla finestra di casa, colpendo un uomo di 41 anni morto dopo poche ore in ospedale. Far west nel centro storico di Genova dove Javier Romero Miranda, origini peruviane, è deceduto in mattinata all’ospedale San Martino dove era arrivato in condizioni disperate dopo essere stato trafitto al torace dalla freccia.

L’episodio è avvenuto poco dopo le due di notte nel quartiere della Maddalena. A scoccare il dardo il 63enne Evaristo Scalco, arrestato dai carabinieri: dovrà difendersi dall’accusa di omicidio volontario. Ai militari ha spiegato di essersi fabbricato da solo l’arma perché appassionato di bricolage. L’uomo, operaio navale che vive a Varese, avrebbe insultato i due litiganti in strada prima di rientrare in casa, armarsi di balaustra e sferrare il colpo rivelatosi poi mortale. Nel corso della perquisizione in casa sua, i militari hanno sequestrato tre archi e una trentina di frecce, tutto fabbricato artigianalmente dall’arrestato.

Il 41enne è deceduto nella Rianimazione del Pronto Soccorso dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova. La morte è avvenuta alle 13.05. Era stato sottoposto a un delicato e lungo intervento chirurgico, iniziato alle 3 di questa notte, che purtroppo non ha sortito gli effetti sperati. Lo stesso Scalco, dopo aver scagliato la freccia dalla finestra di casa, è sceso in strada per soccorrere il 41enne: ha cercato di estrarre dal corpo il dardo che si è spezzato.

“Spero che i magistrati applichino il massimo rigore per chi ha compiuto questo gesto sconsiderato e che nessuno lo giustifichi, anche indirettamente”. Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, commentando la morte del 41enne peruviano- “Non esiste – sottolinea il governatore della Liguria – movida, rumore o qualsiasi altra situazione che possa giustificare una simile reazione. Collegare, in qualsiasi modo, un gesto omicida con il divertimento dei giovani, pure con tutte le sue problematiche, sarebbe – conclude Toti – il secondo elemento sconsiderato di questa triste vicenda”.

(ANSA il 3 novembre 2022) - La procura di Genova contesta l'omicidio volontario con l'aggravante dell'odio razziale e i futili motivi ad Evaristo Scalco, l'artigiano maestro d'ascia di 63 anni che la notte tra il primo e il 2 novembre ha ucciso con arco e freccia nel centro storico di Genova Javier Alfredo Romero Miranda, operaio peruviano di 41 anni. La pm Arianna Ciavattini la contesta perché Scalco prima di scoccare il dardo ha urlato a Romero Miranda e il suo amico "andate via immigrati di m..." 

La convalida dell'arresto è prevista per domani mattina. Nelle prossime ore verrà anche disposta l'autopsia eseguita dal medico legale Sara Lo Pinto. Secondo quanto ricostruito, la vittima era andata a guardare una partita con un amico e a festeggiare la nascita del secondo figlio. Avrebbero iniziato a parlare ad alta voce e Scalco, dalla sua abitazione, li avrebbe rimproverati per farli smettere. 

I due lo avrebbero insultato e minacciato e lui avrebbe a quel punto preso arco e freccia e scoccato il colpo. L'artigiano è anche sceso in strada e ha cercato di togliere la freccia dal corpo del ferito.

Marco Lignana per “la Repubblica” il 3 novembre 2022.

Era una notte di movida, o di “mala movida” a seconda dei punti di vista, come tante nei caruggi. La musica, le birre, gli schiamazzi. E le proteste dei residenti. Ma questa volta, nella notte fra martedì e mercoledì, l’esasperazione ha portato alla tragedia più inspiegabile: un artigiano navale 63enne con la passione (o meglio, l’ossessione) di archi e frecce, Evaristo Scalco, agli insulti ha risposto con un dardo scagliato dalla finestra di casa. E così ha trafitto Javier Alfredo Miranda Romero, 41 anni, nato a Lima ma da oltre vent’anni a Genova.

«Era nei vicoli a festeggiare la nascita del suo bambino venuto alla luce il giorno prima al Gaslini», raccontano distrutti e furiosi i parenti di Javier. Con la mamma e il piccolo ancora in ospedale, in pausa per qualche giorno dal lavoro, «voleva passare la serata a guardarsi la Champions e a stare con gli amici».

Da qui le versioni di chi era con Javier in vico Archivolto de Franchi, e dei vicini dell’omicida arrestato dai carabinieri del nucleo radiomobile, prendono due strade molto diverse. Evaristo Scalco ha urlato di essere «esasperato dal rumore» che non lo lasciava dormire. Secondo alcuni abitanti il gruppo avrebbe risposto con minacce e sparando petardi, per gli amici di Javier niente di tutto questo: «Era lui quello ubriaco e con la musica a tutto volume». […] 

Ora è in carcere, accusato di omicidio. Alcuni altri frequentatori dei caruggi, una volta sceso in strada, lo hanno fermato: «Tu di qui non ti muovi e quel corpo non lo tocchi più». Quando gli animi si sono surriscaldati, i vicini hanno portato via Scalco e lo hanno salvato dal linciaggio, fino all’arrivo dei militari. […] 

Quanto avvenuto in città ha scatenato la reazione degli abitanti del quartiere, che, dopo aver denunciato spaccio e aggressioni in decine di esposti, ora aggiungono «schiamazzi e petardi sparati tutta la notte. Evaristo Scalco ci pareva una persona tranquilla e pacifica». Impressioni ribadite da chi l’ha visto per anni nel vicino porto di Lavagna.

Il sindaco Marco Bucci parla di «un atto barbaro, inutile a risolvere i problemi, come qualsiasi azione violenta. Ma attendiamo che le indagini facciano chiarezza prima di gettare ombre sul nostro centro storico». Per il presidente della Regione, Giovanni Toti, «non esiste movida, rumore o qualsiasi altra situazione che possa giustificare una simile reazione».

Marco Fagandini e Tommaso Fregatti per “la Stampa” il 3 novembre 2022.

Mezzanotte passata, piazza De Franchi, cuore dei vicoli. L'omicidio da far west a colpi di arco e frecce nato da un mix di follia, rabbia ed esasperazione di chi nei vicoli la notte non riesce più a dormire a causa di un centro storico sempre più in balia di pusher, ubriaconi, balordi e mala movida, si consuma in quelle che le forze dell'ordine etichettano da mesi come "quadrilatero dello spaccio". E che comprende vico Mele, piazza delle Vigne, via San Luca e piazzetta San Sepolcro. 

Lì dove capannelli di pusher centroafricani vendono a tutte le ore del giorno e della notte dosi di cocaina, crack e eroina. Javier Alfredo Miranda Romero ha 41 anni, è nato in Perù e di professione fa l'operaio edile. Ha trascorso la serata con alcuni amici in un bar dei via dei Quattro Canti di San Francesco, assistendo alla partita di Champions League tra il Napoli e il Liverpool.

Ha bevuto un po' troppo e cammina a fatica quando passa davanti al civico 8 della piazza. Javier e i suoi amici gridano, danno colpi ad una saracinesca. «Mi sono affacciata - racconterà poco una - per le urla e il baccano. Lì ho visto un uomo a terra colpito da una freccia». 

Evaristo Scalco, per tutti "Evi", maestro d'ascia di 63 anni nato a Genova ma da anni trasferitosi nel Varesotto, la passione per archi e frecce, abita in quel palazzo di piazza De Franchi da poco più di un mese. Da quando ha ottenuto l'ingaggio come artigiano di coperta per il Kirribilli, il super yacht dell'archistar genovese Renzo Piano, in rimessaggio a Genova. Non riesce a dormire Evaristo, incensurato.

Ai carabinieri racconterà di essere rientrato la sera prima da Malta con un'imbarcazione a vela. «Volevo dormire ma quelle urla me lo impedivano», sottolineerà. Nel video delle telecamere del sistema di sorveglianza di vico Mele si vede prima una moto passare e poi Javier Miranda andare sotto l'abitazione di quello che sarà il suo assassino. Discutere, litigare e riprenderlo con il telefonino. «Gli gridava insulti razzisti, per quello lo riprendeva», metterà a verbale il suo amico che aggiungerà come sia stato lo stesso Scalco a provocarli: «Sentiva musica a tutto volume dalla sua casa ed era ubriaco». 

Il sessantenne prende l'arco che si è costruito da solo e lancia la freccia. Romero Miranda viene colpito al fegato. Barcolla, perde sangue. Ma resta in piedi per più di un minuto, mentre l'amico chiama i soccorsi. Poi rovina a terra davanti alle telecamere. Il resto della sequenza è drammatico.

Si vede il maestro d'ascia scendere in strada, tentare un soccorso al ferito - cerca di estrarre la freccia con una pinza e uno straccio - e poi venire aggredito dagli amici dello stesso. Che qualche minuto dopo lo consegnano ai carabinieri del nucleo radiomobile, che lo arrestano.

Miranda Romero morirà dopo sette ore di agonia e un secondo disperato tentativo di trapianto di fegato all'ospedale San Martino, poco prima delle 14. L'accusa per Scalco si tramuta in quella di omicidio volontario aggravato. L'uomo finisce in carcere. I carabinieri sequestrano in casa sua tre archi e 60 frecce.

Lui rende dichiarazioni spontanee ai militari e cerca di giustificarsi: «Volevo solo dormire. Ho perso la testa quando li ho visti urinare contro il muro. Ho gridato loro incivili e mi hanno lanciato contro uno o due petardi. Non ho capito cosa fossero, mi sono spaventato. Per questo ho usato l'arco, ma non volevo uccidere». 

Parole che dovranno essere confermate nell'interrogatorio davanti al giudice e al sostituto procuratore Arianna Ciavattini. I vicoli di Genova e in particolare la zona di San Luca e vico Mele sono al centro di un allarme per lo spaccio di droga.

Negli ultimi mesi è stato denunciato dai residenti come nel "quadrilatero" si formino capannelli di spacciatori di giorno e di notte. Gli abitanti, esasperati, hanno fornito ai militari terrazzi e finestre per documentare lo spaccio. E per vendetta gli stessi sono stati bersagliati dai pusher con lanci di pietre, bottiglie e petardi contro le finestre.

(ANSA il 4 novembre 2022) - "Li volevo solo intimidire, non volevo uccidere. Ho perso la testa, sono stato provocato". È quanto ha detto nel corso dell'interrogatorio davanti al gip Evaristo Scalco, l'artigiano e maestro d'ascia di 63 anni che la notte tra martedì e mercoledì ha ucciso con arco e freccia l'operaio Javier Miranda Romero di 41 anni nel centro storico di Genova. 

Il giudice Matteo Buffoni ha convalidato l'arresto e disposto la custodia in carcere. Scalco, difeso dall'avvocato Fabio Fossati, ha parlato per un'ora e mezza rispondendo alle domande. "Non sono un razzista. Anzi a chi lo è spiego sempre che gli immigrati scappano dalle guerre e dalla miseria.

Li ho visti urinare davanti al cancelletto e li ho rimproverati. È nata una discussione. Non mi ricordo di avere detto quella frase sugli immigrati". Scalco, secondo il suo legale, è una persona affranta, non abituato alla violenza. "Quando ho capito quanto successo sono sceso e ho provato a soccorrerlo. Sono tornato a casa per prendere degli asciugamani. Quella sera ero stanco, avevo la musica accesa ma non era alta visto l'ora".

Giulia Mietta per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2022.

Evaristo Scalco voleva uccidere quando ha scoccato quella freccia. E l'ha fatto spinto dall'odio razziale nei confronti degli immigrati, e anche dai futili motivi, perché si è giustificato parlando del troppo rumore sotto le sue finestre: questi i primi punti che la Procura di Genova, con il pm Arianna Ciavattini, mette nell'inchiesta sull'omicidio di Javier Alfredo Miranda Romero, 41 anni, ucciso nella notte tra martedì e mercoledì in centro a Genova da una freccia partita da un arco che Scalco si era fatto in casa. 

Maestro d'ascia, 63 anni, un mago con il legno e con le barche. Prima di mirare dalla finestra verso Javier Miranda Romero ha scelto, tra le frecce che aveva in casa (usate solitamente per la caccia al cinghiale), quella più appuntita. E ad aggravare la sua posizione ci sono anche le parole urlate a Romero e all'amico che camminava in strada con lui: «Stranieri di m...», come hanno riportato diversi testimoni. 

Romero stava in realtà festeggiando la nascita del suo secondo figlio, poche ore prima: aveva ancora nello zaino i vestitini del bimbo che la compagna, in ospedale, gli aveva chiesto di portare a casa. Per questo era stato in un bar della zona, dove aveva bevuto qualcosa con un amico. 

Oggi Scalco sarà ascoltato dal gip per la convalida dell'arresto, nel carcere di Marassi. La Procura avrà modo anche di verificare le prime parole pronunciate dal maestro d'ascia subito dopo l'omicidio grazie ai video girati in strada dai passanti e dall'amico della vittima. Subito bloccato dai carabinieri, Scalco avrebbe dichiarato di essere sceso in strada a soccorrere il ferito, ma in un video in particolare, si nota che va prima a litigare con il conoscente di Miranda Romero, e solo dopo tenta di prestare i primi soccorsi.

Il residente arrestato ha dichiarato, inoltre, che i due immigrati sotto casa avevano tirato petardi contro la sua finestra. I carabinieri avrebbero sì trovato un paio di petardi vicino all'abitazione, ma inesplosi. Le prime ricostruzioni, non ufficiali e non verbalizzate, fornite dal maestro d'ascia, quindi scricchiolano, ma solo oggi parlerà formalmente di fronte a un magistrato. 

Per i familiari di Miranda Romero il racconto che è stato fatto della vittima dopo l'omicidio è un altro motivo di rabbia: «Mio fratello era un gran lavoratore, non un ubriaco, stava solo parlando ad alta voce con un amico», dice Rosalia Fanny Miranda Romero, che era appena arrivata a Genova dal Belgio per conoscere il nuovo nipotino.

«Javier era amato e stimato da tutti, aveva faticato tanto per costruire la sua azienda, era in Italia dal 2003, viveva per i suoi figli» racconta Martha, la sorella maggiore mentre abbraccia Alessia Romero, 18 anni, primogenita di Javier. «Quello che è successo a mio papà è incredibile e ingiusto», ripete, senza togliere gli occhi dalla foto del padre e dalla sua felpa, piegata vicino a tre candele in un altare casalingo allestito per il lutto.

La casa è a poche decine di metri dal luogo dell'omicidio. In piazzetta Defranchi Evaristo Scalco abitava da meno di un mese. Originario del varesotto, era a Genova per motivi di lavoro. Martedì era appena tornato da Malta, per il trasferimento via mare di una barca a vela, e aveva cenato con i colleghi. Nel quartiere non lo conoscevano in molti: «Una persona del tutto normale, spesso ascoltava musica ad alto volume», racconta un commerciante del vicolo. 

Chi lo conosceva bene è Leopoldo Leonardo, titolare di un bar sul porticciolo di Lavagna: «Siamo sotto shock, Evi è uno dei migliori marinai oceanici mai visti, uomo dalle mani d'oro, richiesto da tutti per i lavori più difficili tanto che aveva lavorato anche sulla barca di Renzo Piano, la Kirribilli, quello che è accaduto non si può spiegare». Secondo l'amico, Scalco «si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, come d'altronde la povera vittima».

Aveva fabbricato da solo il dardo. Uccide uomo con una freccia, la verità di Evaristo Scalco: “Non sono razzista, volevo solo intimidirlo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 4 Novembre 2022

“Li volevo solo intimidire, non volevo uccidere. Ho perso la testa, sono stato provocato“. È questo che Evaristo Scalco, l’artigiano e maestro d’ascia di 63 anni ha detto al gip durante l’interrogatorio di convalida del suo arresto. È accusato di omicidio volontario per aver colpito con una freccia Javier Alfredo Miranda Romero, 41enne peruviano, che nella notte tra l’1 e il 2 novembre stava festeggiando la nascita del figlio nel centro storico di Genova, proprio sotto casa di Scalco.

Scalco è stato ascoltato dal pm Arianna Ciabattini e al gip Matteo Buffoni e ha raccontato la sua versione di quanto accaduto. Il giudice Matteo Buffoni ha convalidato l’arresto e disposto la custodia in carcere. Scalco, difeso dall’avvocato Fabio Fossati, ha parlato per un’ora e mezza rispondendo alle domande. Ha respinto con forza l’aggravante dell’odio razziale: “Non sono un razzista – ha detto, come riportato dall’Ansa – Anzi a chi lo è spiego sempre che gli immigrati scappano dalle guerre e dalla miseria. Li ho visti urinare davanti al cancelletto e li ho rimproverati. È nata una discussione. Non mi ricordo di avere detto quella frase sugli immigrati”.

E, secondo quanto riportato da Repubblica, ha aggiunto: “Posso assicurare che è qualcosa del tutto lontano da me, lo dice anche la mia vita, il mio impegno nella protezione civile (nel varesotto, fra Cittiglio e Laveno, in provincia di Varese, ndr), nell’aiuto che da volontario ho sempre prestato per tutti coloro che sono in difficoltà”. Il 63enne si è dichiarato “affranto per quanto accaduto”, ha detto di non essere “un violento” ma un semplice “appassionato di archi” tanto da aver partecipato in passato a raduni e manifestazioni dove viene insegnata la disciplina sportiva anche ai più giovani. Il dardo con cui ha colpito Romero l’aveva fabbricata proprio lui, come artigiano.

Scalco, secondo il suo legale, è una persona affranta, non abituato alla violenza. “Quando ho capito quanto successo sono sceso e ho provato a soccorrerlo. Sono tornato a casa per prendere degli asciugamani. Quella sera ero stanco, avevo la musica accesa ma non era alta visto l’ora”. Secondo quanto ricostruito dal Corriere, Scalco era appena rientrato a Genova via mare dopo aver portato una barca da Malta. Una delle prime ipotesi emerse è che l’uomo avrebbe bevuto qualche bicchiere di troppo.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Legge anti rave, avevano ragione Michelangelo e Kant. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 4 Novembre 2022

Quando eravamo al liceo la tecnica era sempre la stessa: la prima ora di lezione. E già perché quando approdammo al ginnasio dagli esami di III media e poi quando successivamente varcammo le porte del liceo dopo il biennio ginnasiale, la prima ora di lezione con i nuovi prof ci faceva capire l’antifona e ci aiutava a preparare da subito, per i mesi (o anni) a venire, le contromisure da inguaribili e goliardici evasori dello studio.

Con la Meloni è uguale. Con i suoi primi passi abbiamo capito cosa ci aspetta.

Rapida e efficiente nelle prime settimane dopo il voto, tant’è che non appena ha ricevuto l’incarico da premier aveva già pronta la lista dei ministri da sciorinare ai media e al basito Mattarella, poco dopo la abbiamo vista cazzuta e determinata nei primi atti di governo. Perché se qualcuno l’avesse pensato il tanto caro “Dio, patria e famiglia” non era un aforisma vuoto, ma la formula magica per dimostrare che ci sa fare e che lei è la persona giusta per “mettere in sicurezza il paese” anzi, chiedo scusa, la “nazione”. (Con questi bisogna adeguare anche la semantica).

E così, con la parola “sicurezza” si rispolvera il tema tanto caro a Salvini.

Era la filosofia del feudalesimo medievale. Il signore che abitava il castello garantiva la protezione alla sua comunità e in cambio otteneva il riconoscimento del potere. E quando questo si incrinava per le troppe angherie bastava mandare una vedetta che si inventava un nemico alle porte per permettere al signore di riaffermare il potere o aumentare le tasse.

E già perché per essere eroi ci vuole per forza un nemico e se non c’è bisogna crearlo. E la tecnica è giocare sulla paura della gente che così invoca un capo dal quale ottenere protezione. Lo ha fatto e continua a farlo Salvini con i migranti, lo ha appena fatto la Meloni con la norma anti raduni.

E fa niente che abbia preso lo spunto dal rave meno rave di tutti visto che a Modena addirittura hanno sgombrato spontaneamente e senza ausilio di caschi blu e manganelli. Però era importante stare sul pezzo e mostrare di garantire alle famiglie che quei “pericolosi” raduni di giovani, in posti e orari insoliti e inadeguati, sono finalmente scongiurati. E così, come se i rave fossero l’unico o il primo problema del paese, giù col primo decreto legge che introduce il reato punito dall’art.434 bis del Codice Penale alla faccia di Nordio che aveva in animo una mega depenalizzazione e alla faccia di Berlusconi che i reati previsti dal codice li odia a prescindere.

Colpiremo solo i rave tuona il Ministro dell’Interno dimenticando che ora è Ministro e non più Prefetto. Peccato che la norma è talmente generica che dice esattamente il contrario.

E già perché innanzitutto il luogo può essere un qualunque “terreno o edificio pubblico o privato”. Poi i soggetti attivi sono “chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma”. E infine il requisito oggettivo: essere “un numero di persone superiore a cinquanta”. La condotta, e qui siamo al ridicolo, è “la invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.

In questa summa di generiche astrattezze, che Giustiniano si starà rivoticando nella tomba, (sì va bene l’espressione è dialettale perché si dice rivoltando ma converrete che è carina) la domanda che viene spontanea è capire chi, e con quali modalità e parametri, stabilisce quando un raduno possa essere “pericoloso…ecc.ecc” prima ancora che si svolga.

Forse al Viminale avranno pensato di introdurre una nuova tecnica per la sicurezza, quella dell’indovino. Del resto non sarebbe complicato: il Prefetto chiede all’indovino di dare le carte e quello dice se l’evento “xyz” finirà a rissa o a caciara e il più è fatto.

Soprassedendo al più italico degli intercalari che comincia con “ma vaff…”, c’è da chiedersi infine dove sta scritta la parola rave da assicurare, come ha dichiarato il Ministro, che l’obbiettivo è colpire (o meglio vietare) solo questo tipo di manifestazioni, (ammesso che siano pericolose).

Ma la verità è un’altra. Così come é stato scritto il testo, il divieto è applicabile a qualunque raduno di qualsivoglia natura o genere e quindi occhio a matrimoni, funerali e prime comunioni perché, pur se limitate gli invitati o partecipanti a 50, se si infila all’ultimo momento il prete, come spesso succede, vi beccate 3 anni se siete tra gli sposi e 2 se siete tra gli invitati.

Ma l’invasione deve essere arbitraria, eccepirà il solito sapientone che si sente furbo.

Bene, è vero. Ma diventa la migliore linea difensiva per avvocati bravi e non. Basta avere un permesso di accesso dal proprietario e a quel punto fa niente se si radunano un milione di persone e se se le danno di santa ragione tanto la invasione non è arbitraria.

Che poi questa parola “invasione” è diventata una ossessione.

Salvini, che vuole fare il Ministro dell’Interno, quello della Difesa, quello del MIT per comandare le forze navali della Guardia Costiera, vede invasori ovunque ed è già pronto come Batman ad andare a difendere i sacri confini della patria anche quando è adagiato tra le tettone del Papeete.

Ora ci si mette anche la Meloni.

Il consiglio è di evitare di fare le cose con precipitazione e poi di curare la lingua italiana e non solo. È chiaro che con queste righe non vogliamo giustificare le accozzaglie di giovani, pericolose per rischi di risse e per loschi traffici. Ma certe cose si regolano con i controlli e non con i divieti, perché poi i giovani alla fine hanno pure il diritto di divertirsi.

E poi l’auspicio è che il mantra non diventi la sicurezza perché la storia insegna che in suo nome sono state fatte le peggio leggi liberticide, anzi, spesso la protezione del cittadino è stata la scusa per ridurne la libertà.

Stare sicuri in effetti è un tema importante e i cittadini ne hanno il pieno diritto.

Ma anche su questo terreno non sono i divieti, (che già esistono in forma compiuta) che assicurano la gente nelle loro case o in giro per le strade, piuttosto sono i controlli. Però se Polizia e Carabinieri non hanno soldi per mettere benzina e far uscire le pattuglie sarà difficile non solo controllare le comunità abitate ma anche far applicare i divieti contenuti nelle leggi.

Forse sarebbe stato più adeguato aumentare la dotazione finanziaria delle forze di polizia che fare pandette peraltro anche scritte con i piedi. Forse sarebbe più appropriato studiare e risolvere i problemi che fare sceneggiate dal vago sapore propagandistico.

Il problema è che aveva ragione Michelangelo: “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge… del più forte.” ma anche Kant: “il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione.”

E comunque diciamocelo: quanto era bello quando al Classico c’era il IV e V Ginnasio e poi I, II e III Liceo. Era più elegante ed anche un po’ snob.

Quarant’anni di rave: dagli anti-Thatcher alla “generazione Z”. Il mito dei rave nasce negli anni '80, quando Margaret Thatcher impose la chiusura di pub e discoteche alle 2: presto, troppo presto. Daniele Zaccaria il 3 Novembre 2022 su Il Dubbio.

Quando verso la fine degli anni 80 il governo di Margaret Thatcher impone la chiusura di pub e discoteche per le due del mattino in ossequio al suo credo piccolo borghese tutto ordine e decoro, le notti di milioni di giovani britannici si fanno ancora più buie.

«Fuck that bloody woman!», gridano molti di loro in quello che diventerà uno slogan generazionale. Non fanno parte di movimenti politici o gruppi studenteschi, non hanno nemmeno il piglio anarcoide e iconoclasta del movimento punk ormai giunto al crepuscolo, sono giovani normali, provengono dalle classi medio basse e in un paese incupito dalla precarietà e dalla disoccupazione cercano di ritagliarsi uno spazio impossibile di edonismo e fuga dalla realtà.

Dopo aver piegato la resistenza dei minatori e delle unions, privatizzato e liberalizzato parte dello storico welfare d’oltremanica, la Lady di ferro se la prende proprio con loro, i ragazzi e le ragazze dello “sballo”, che poi non sono altro che figli di quella classe operaia a cui ha dichiarato apertamente guerra, una guerra che ha stravinto senza fare prigionieri.

Come accade però in ogni sistema proibizionista la legalità è solo una coperta ipocrita con cui coprire la realtà, un tappeto sotto cui nascondere la polvere; così i giovani cacciati dalle sale da ballo ufficiali si organizzano per conto loro in crew e decidono di aggirare le leggi “vittoriane” del governo conservatore creando una rete di feste clandestine, rigorosamente gratis e senza limiti di orario.

È un’ondata sotterranea (letteralmente underground) che scorre dalle periferie periurbane di Manchester ai sobborghi proletari di Liverpool e che ha il suo epicentro nella capitale Londra dove i capannoni abbandonati nei docks del Tamigi per la crisi industriale improvvisamente si animano di migliaia di ventenni che “si lasciano andare”, ballando ore e ore senza sosta con una frenesia mai vista prima, accompagnati da giganteschi sound system, colonne di casse impilate, i bassi pompati a mille che vibrano con il battito del cuore, giochi di luce e psichedelia, tanto sesso, tanto alcool e l’apparizione delle prime droghe sintetiche.

In particolare l’exstasy che, dalle avanguardie danzanti della movida di Ibiza, sbarcano poi sul continente europeo e in Gran Bretagna. Dagli Stati Uniti, precisamente dai club di Chicago, invece proviene la musica, è un genere tutto nuovo e molto sgarbato, si chiama acid house e l’hanno inventato due DJ ancora oggi oggetto di culto, Jesse Saunders e Frankie Knuckles tramite il mitico sintetizzatore TB-303 che mima i suoni lividi e ipnotici della produzione industriale proprio nei luoghi del suo declino e che per un beffardo contrappasso diventano la colonna sonora della nuova, euforica, sottocultura giovanile.

Per i media conservatori è pura Babilonia mentre gli stessi DJ vecchio stile sparano a zero contro questi bizzari free party: «È la cosa più simile a un’orda di zombie che io abbia mai visto», esclamò dai microfoni della Bbc, Peter Powell, il disk jockey della radio di Stato tra gli applausi delle vecchiette.

Era il 1986, pochi giorni prima il club Hacienda di Manchester aveva organizzato la serata “Nude” all’insegna delle nuove tendenze musicali d’oltreoceano, un successo pazzesco che attira l’attenzione morbosa dei bigotti, mentre le tv trasmettono servizi allarmanti sul «nichilismo» della gioventù britannica, ingigantendo gli eccessi che pure non mancavano.

L’anno successivo a Londra il primo party che porta ufficialmente il nome di “rave”, viene chiamato Shoon e porta migliaia e migliaia di persone in una palestra abbandonata di Southwark Street. Anche in questo caso i media si scagliano contro i raduni danzanti, mentre per i ragazzi diventa sempre più difficile organizzare le serate, il governo è sul piede di guerra e la polizia li bracca ovunque, ma loro non demordono, con il tam tam e il telefono senza fili (all’epoca non esistevano né internet né i cellulari) riescono a mettere in piedi sempre nuovi eventi in luoghi sempre diversi. Come la celebre summer of love del 1989, che vent’anni dopo quella hippy di San Francisco, consacra la rave generation ormai diventata un fenomeno internazionale.

E a poco sono serviti i decreti varati da lady Thatcher che vietano i party illegali con più di dieci persone attorno a musica ripetitiva». Almeno il governo Meloni ha fissato il tetto a cinquanta persone.

D’altra parte come fai a fermare i ventenni quando si mettono in testa qualcosa? Il movimento ormai ha contagiato i giovani di mezza Europa, dopo il Regno Unito, Germania Italia e isole greche sono tra le mete più ambite tra chi nei primi anni 90 è alla ricerca di baldoria e feste folli, poi qualche anno dopo la cultura rave dilaga anche in Francia, Svizzera, Olanda, Belgio e infine nei paesi dell’est appena usciti dall’isolamento del socialismo reale.

L’espressione “rave”, che in inglese significa “delirare”, “estasiarsi”, “divagare”, appare la prima volta negli anni 50, ed è il modo con cui la stampa conservatrice descrive i raduni bohemien dei “selvaggi di Soho”, alcuni giornali parlano saltuariamente di “rave” indicando poi le feste londinesi degli immigrati giamaicani e caraibici del decennio successivo. Ma è ancora un aggettivo.

È solo al tramonto degli ’80 quando si intreccia con l’emergente musica elettronica e l’hip hop che il “rave” si fa sostantivo trasformandosi in un fenomeno culturale di massa che ancora oggi muove i giovani e faq incazzare i governi.

Come scrive il guru della “generazione chimica” e autore di Trainspotting Irvine Welsh, con queste nuove forme di divertimento e socializzazione giovanile, «la mappa psichica dell’Inghilterra veniva drasticamente ridisegnata, le vecchie regole perdevano ogni significato, le vecchie certezze si squagliavano come neve al sole, e le nuove dovevano ancora stabilirsi».

Rave party: cosa sono, come nascono e chi li organizza. GIULIA MERLO su Il Domani il 02 novembre 2022

Il fenomeno nasce a Detroit negli anni Ottanta e poi si sposta nel Regno Unito e in Europa. Ha come matrice culturale la protesta contro la cultura conservatrice e teorizza che modo migliore per sfuggire al controllo sociale è l’appropriazione temporanea degli spazi

Le norme varate dal governo Meloni per contrastare anche con l’arresto i rave party hanno riportato al centro dell’attenzione un fenomeno sociale che esiste dagli anni Ottanta e che nasce nella controcultura giovanile americana ma ha trovato spazio anche in Italia, prima nelle periferie delle grandi città e poi anche in provincia.

Nell’immaginario comune il rave party è una festa illegale a base di musica, alcol e droghe. Il fenomeno, in realtà, è molto più complesso, nasce in America e poi si sposta prima in Inghilterra e poi nel resto d’Europa. Ha come matrice culturale la protesta contro la cultura conservatrice di Ronald Regan in Usa e Margaret Thatcher nel Regno Unito, con i tagli all’assistenza sociale e la privatizzazione dei servizi, che ha generato forti conflitti e un aumento della forbice sociale.

COSA SONO

I rave sono delle aggregazioni illegali per ballare e ascoltare musica, che si svolgono fuori dai luoghi che convenzionalmente sono adibiti ad eventi musicali (come bar e discoteche) e il genere musicale che si suona – la techno – è esclusa dai normali circuiti commerciali. 

Nascono negli anni Ottanta intorno alla città di Detroit e la sua caratteristica è riassunta dall’acrononimo T.A.Z., “zona temporaneamente autonoma”, che è anche il titolo di un libro di Hakim Bey ed è considerato una specie di bibbia underground, in cui si spiega che il modo migliore per sfuggire al controllo sociale è l’appropriazione temporanea degli spazi.

La cultura dei ravers prevede di riappropriarsi del suolo pubblico, di cui tutti devono liberamente poter godere senza restrizioni, in una protesta contro il capitalismo e la logica di mercato imposta anche sul divertimento. Occupare lo spazio, infatti, ha il significato di liberarlo temporaneamente dalle restrizioni sociali e anche legali.

Durante queste feste non autorizzate, che hanno come caratteristica una durata di un paio di giorni, la musica suonata è la techno, un genere musicale sperimentale che nasce insieme alla cultura dei rave. Questa musica e i suoi sottogeneri negli anni Ottanta non veniva suonata nelle discoteche e il suo beat ripetuto ha l’obiettivo di fondere le individualità, facendole sparire. Ai rave party, infatti, si parla di “de-individualizzazione” e “de-gerarchizzazione” dei partecipanti, anche dei dj che non sono al centro della scena.

Il consumo di droga, in particolare speed, acidi e ecstasy, va di pari passo al consolidamento della scena rave e funge da amplificatore dell’esperienza di de-individualizzazione. Progressivamente, lo spaccio e il consumo di droghe diventa sempre più strutturale negli eventi.

Storicamente esistono tre tipi di rave: il rave on è la versione meno estrema, avviene in un locale chiuso e si paga un ingresso, quindi segue almeno parzialmente le regole sociali; il rave off, che invece avviene all’esterno e insieme alla festa c’è l’elemento di protesta e il fenomeno ibrido che è la street rave parade, che è un rave off ma che avviene con lunghi cortei in strada.

Il fatto che i rave avvengano molto spesso in strutture industriali abbandonate è significativo, perchè rappresenta il modo di riappropriarsi di uno spazio comunemente associato al lavoro e alla fatica per “liberarlo”, trasformandolo in un luogo di festa.

In Europa il momento spartiacque è stato il 1994, quando il Regno Unito ha emanato la prima legge anti-rave. In quel momento le cosiddette tribe inglesi, i gruppi di organizzatori di rave, hanno iniziato a spostarsi a sud, prima in Francia e poi in Italia.

IN ITALIA

In Italia il fenomeno si diffonde all’inizo degli anni Novanta e non si usa nemmeno il termine rave, ma quello di techno party. Si trattava di feste libere, che sono state definite  dal libro Rave in Italy come free party, «un virus dentro la metropoli», in cui si ricercava l’anonimato, non esistevano dj famosi e anche gli organizzatori erano anonimi. 

Con il passare degli anni e il cambio generazionale, però, anche la cultura rave in Italia si è andata sempre più ad assimilare con un format di divertimento a base di droga e musica. In Italia, i primi centri in cui si è diffusa sono stati Torino, Roma, Bologna e Milano.

Il fenomeno ha poco a che fare con i centri sociali, a cui spesso viene accostato, se non per una matrice culturale di sinistra. Ai rave, infatti, si suona solo musica techno, che invece non si sente nè nelle discoteche – dove c’è la musica commerciale  – nè nei centri sociali, dove si suona il reggae, il punk e l’hip hop. 

COME SI ORGANIZZANO

L’elemento che caratterizza l’organizzazione di un rave party è la segretezza. Il recupero delle informazioni attraverso chat e il passaparola tra i partecipanti è parte dell’esperienza, gli organizzatori individuano i luoghi abbandonati adatti all’evento che hanno in mente e solo all’ultimo minuto comunicano la data e il luogo. Le nuove tecnologie hanno aiutato molto, perchè le chat sono anonime e non localizzabili, si raggiungono molti più partecipanti e la posizione può essere condivisa con le coordinate di google-maps.

Quando internet ancora non c’era, i ravers venivano a conoscenza della festa attraverso volantini, passaparola o radio private che diffondevano un numero di telefono, a cui chiamare per conoscere l’indirizzo di un luogo di ritrovo. Lì veniva diffusa l’indicazione del posto del rave, in cui era già stato allestito l’impianto audio e le luci. 

L’obiettivo è creare questa grande aggregazione di persone senza che le forze dell’ordine se ne accorgono. In questo modo, se e quando l’evento viene notato, il numero di partecipanti è talmente alto che disperderli è molto complicato.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Sopprimerli per la destra è una bandiera. Cosa sono i rave, da Woodstock al boom degli anni ’90 storia dei raduni. David Romoli su Il Riformista il 2 Novembre 2022 

Bisognerà considerare un cattivo maestro anche Buddy Holly, star del rock’n’roll anni ‘50 perito giovanissimo in un tragico incidente aereo, e bollare come incitazione a delinquere uno dei suoi pezzi più famosi, il frenetico Rave On!, datato 1958? Il fenomeno che il governo Meloni ritiene “necessario e urgente” stroncare con le cattive ha radici antiche e una storia lunga, tanto da destare legittimi sospetti sull’urgenza dell’ennesimo decreto emergenziale.

Buddy non era infatti il primo a definire Rave quelle che gli anglosassoni chiamano “wild parties”, feste selvagge. Ci avevano pensato già all’inizio del decennio i beatnik di Soho, Londra, con il jazzista Mick Mulligan ribattezzatosi “King of Ravers”. Il nome e la cosa rimasero in vigore anche nella swinging London degli anni ‘60, in particolare tra i Mods, probabilmente la più influente sottocultura giovanile nella seconda metà del XX secolo. Si definivano “ravers” per l’abitudine di passare da un party selvaggio all’altro sia Steve Marriott che Keith Moon, rispettivamente cantante degli Small Faces e batterista degli Who, le principali band mod dell’epoca. Gli Yardbirds, altra band essenziale, intitolarono nel 1965 Having a Rave Up uno dei loro album più importanti.

Da molti punti di vista si può considerare un rave persino il concerto più famoso della storia, la tre giorni di Woodstock nell’agosto del 1969. Certo non si trattava di un evento segreto né gratuito e il padrone dell’area dove si tenne il concerto, il contadino Max Yasgur, era consapevole e consenziente. Ma a sorpresa si presentarono all’appuntamento circa 500mila giovani, l’area occupata di conseguenza si allargò a dismisura senza che Yasgur ci trovasse nulla di male, l’idea di far pagare il biglietto si trasformò in una chimera, gli stupefacenti erano ovunque, i decibel altissimi. Molte delle ragioni che secondo Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi rendono urgentissimo, oltre che necessario, l’intervento repressivo dello Stato si sarebbero potute addurre per vietare Woodstock.

Ma anche a voler essere puristi e a considerare Rave solo ciò che si indica oggi con quel nome, comunque di un fenomeno longevo e antico si tratta. S’intendono le feste di massa, con Edm, Electronic Dance Music in tutte le sue molte varianti sparata a palla, danza frenetica per ore, luci laser quando possibile, dunque quasi esclusivamente nei raduni legali, largo uso di sostanze stupefacenti, in particolare allucinogeni e non più soprattutto l’un tempo obbligatorio Mdma, base dell’Ecstasy. Le radici del Rave “moderno” datano ai primi anni ‘80, a partire dal Texas, dove l’Mdma era allora legale, per esplodere poi a Chicago, con la nascita della House Music. Dai club di Chicago la House Music e le feste di cui era l’anima rimbalzarono rapidamente nel Regno Unito, prima a Manchester, poi a Londra, in quella che viene definita “la seconda estate dell’amore” (la prima essendo quella hippie del 1967 a San Francisco) ma che in realtà proseguì senza soluzione di continuità dall’estate del 1988 a quella del 1989.

I Rave si diffusero subito in tutto il Regno unito e di lì in Europa, Italia inclusa. Le feste erano organizzate in grandi magazzini abbandonati e fabbriche dismesse, per quanto possibile lontano dai luoghi abitati per evitare le proteste, e si prolungavano per due o tre giorni. Nel 1990 furono varate in Inghilterra le prime leggi anti Rave, con l’obiettivo di reprimere “comportamenti antisociali e uso di droghe”: ospitare Rave illegali diventò punibile con ammenda fino a 20mila sterline. L’organizzazione dei free parties diventò così segreta, con l’annuncio dell’evento e della località di volta in volta scelta comunicato solo all’ultimo momento dalle radio libere oppure tramite segreterie telefoniche. Fu organizzato così il party che segnò l’inizio della guerra aperta dello Stato contro i ravers: quello di Castlemorton Common, Worcestershire, nel 1992.

Erano attese poche centinaia di persone. Ne arrivarono 20mila, a tutt’oggi il più grande Rave illegale nella storia del Regno Unito. La reazione del governo fu la legge, ancora in vigore, che permette alla polizia di respingere i veicoli nell’area di 8 km dalla località del Rave e vieta i raduni in cui più di 20 persone ascoltino musica “caratterizzata dall’emissione di ritmi ripetitivi” a volume tale da creare “seri disturbi per gli abitanti della località”. Nei 25 anni successivi, però, le leggi non hanno fermato la diffusione del Rave, anche se le feste più grandi vengono ormai organizzate nei Paesi nei quali i divieti sono inesistenti o più leggeri, come la Francia fino all’ottobre 2019 o l’Italia sinora. Gran parte dei Rave sono peraltro ormai legali, l’equivalente moderno dei vecchi festival rock, e radunano centinaia di migliaia di giovani, come l’Electric Daisy Carnival di Las Vegas nel 2013, al quale parteciparono 300mila persone, il più grande d’America sinora.

In Italia la destra ha trasformato i Rave, che si organizzano non da anni ma da decenni, in questione determinante per l’ordine pubblico nell’estate del 2021, quando circa 8mila giovani si radunarono per un party libero estivo di molti giorni vicino al lago di Mezzano, tra Lazio e Toscana. Fu l’occasione per sparare a zero sull’allora ministra Lamorgese, colpevole di non essere intervenuta. Le polemiche furono replicate a ottobre dello stesso anno, per un Rave vicino Nichelino, in Piemonte. Un gruppo di senatori di destra propose allora una legge draconiana che sarà probabilmente ripresa quasi integralmente dal dl in arrivo. L’appuntamento successivo fu nell’aprile di quest’anno, a Siena, e la destra promise di stroncare i festaioli una volta per tutte. Ora la festa è finita e il governo festeggia. Ma c’è poco, anzi non c’è niente da festeggiare. David Romoli

Anche nel resto del mondo si fanno i rave. Il Domani il 03 novembre 2022

Meloni ha presentato le nuove norme anti rave per non incoraggiare gli appassionati di techno stranieri a venire in Italia per festeggiare com’era avvenuto finora grazie alle regole lasche. Ma in realtà, non avrebbero bisogno di spostarsi, visto che i rave illegali anche all’estero sono parecchi. Spesso di dimensioni maggiori rispetto all’Italia

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni per giustificare la sua norma anti rave ha spiegato di non voler attrarre tutti gli appassionati di techno in Italia perché non ci sono regole a porre limiti. «Noi ci aspettiamo, con la norma sui rave, di non essere diversi dalle altre nazioni d’Europa». In passato «l’impressione che lo stato italiano ha dato è di un lassismo sul tema del rispetto delle regole e della legalità». Ora «la volontà politica fa la differenza» e «il segnale è che non si può venire in Italia per delinquere» perché «ci sono delle norme che vengono applicate».

Ma è davvero così? Vanni Santoni, scrittore esperto di cultura rave interpellato da Rivista Studio sul tema, sostiene che della dimensione considerata dalla nuova legge, cioè da 50 persone in su, «sono migliaia. Se si parla di “veri” free party, diciamo da 500 persone in su, stimerei oggi in un centinaio l’anno o giù di lì. Quelli davvero grossi, sull’ordine delle migliaia di persone, non più di 3-4 l’anno». 

Per avere una prova tangibile, basta considerare che nell’anno e poco più del governo gialloverde, quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno, ne sono stati contati 50 oltre la dimensione consentita dalla legge. 

REGNO UNITO

Quel che è certo, però, è che i rave non esistono soltanto in Italia, come farebbero pensare le parole di Meloni. Il problema di individuare un numero preciso, data la loro natura illegale, non esiste però soltanto in Italia.

A una richiesta di accesso agli atti, la Metropolitan police britannica risponde che «il numero di segnalazioni che abbiamo ricevuto non sarà totalmente sovrapponibile al numero di eventi che hanno effettivamente avuto luogo». Un’altra questione è la classificazione: per esempio, la Metropolitan police non considera “rave” gli eventi avvenuti all’aperto. In ogni caso, la risposta segnala 39 eventi e 15 interventi della polizia che hanno portato alla chiusura dell’evento nel 2019 e 24 eventi con 12 interventi fino a metà 2020. 

FRANCIA

Anche in Francia è difficile trovare cifre ufficiali, ma per avere un’idea delle proporzioni delle feste che hanno continuato ad aver luogo anche durante il lockdown si può ripescare qualche articolo di cronaca. Ad agosto 2020 un evento organizzato in barba alle restrizioni contro il coronavirus nella zona di Lozère ha attratto 10mila persone.

A gennaio 2021 in Bretagna un rave ha raccolto 2.500 persone nonostante le regole anti Covid: alla fine è intervenuta la polizia per interrompere l’evento. Altre 1.500 a giugno 2021 si sono riunite nella Francia occidentale. Insomma, i raver francesi hanno tutt’altro che bisogno di venire in Italia per festeggiare. 

GERMANIA

Stesso discorso in Germania, dove il sistema federale rende ulteriormente difficile la ricerca di dati puntuali. Anche in questo caso però conviene recuperare le notizie di cronaca. A giugno 2021 la polizia ha scoperto un centinaio di raver che festeggiavano sotto a un ponte autostradale, ma sono diverse le testimonianze di appassionati di techno che hanno ammesso di aver continuato a festeggiare a centinaia anche durante il lockdown.

È di gennaio 2022 la notizia di un rave illegale da 200 persone sgominato ad Amburgo, mentre dal 2018 la Sueddeutsche Zeitung ha dedicato un reportage alla cultura rave. A Lipsia, addirittura, la scorsa estate il comune ha dato il via libera all’organizzazione in alcune aree dedicate a qualsiasi tipo di festa non commerciale, in maniera di rendere un ricordo del passato i rave illegali. 

SPAGNA

Anche in Spagna non sono mancate le infrazioni delle norme anti Covid e nel 2021 sono state diverse le feste interrotte dall’intervento della polizia, come a luglio a Cadiz. Più tragiche le conseguenze di un rave illegale di quest’estate a Zamora, dove una turista svizzera ha perso la vita.  

La norma anti-rave. Dall’omicidio stradale al femminicidio: quando la risposta più comoda sono le manette. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Novembre 2022 

“Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza e la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali. Questo non è vero. L’abbiamo sperimentato sul campo, soprattutto quelli come me che hanno fatto per quarant’anni i pubblici ministeri”. Aveva appena giurato fedeltà alla Costituzione nelle mani del Presidente Mattarella, Carlo Nordio, ed era da pochi minuti il nuovo ministro guardasigilli del governo Meloni, quando pronunciando queste parole si impegnava per una “forte depenalizzazione” e una “riduzione dei reati”, soprattutto per velocizzare i processi. E anche sfoltire un po’ le carceri e quella piaga tutta italiana dei suicidi. È passata solo una settimana e un decreto del governo ha creato una nuova fattispecie di reato.

Il frettoloso scombiccherato decreto di “occupazione musicale” di proprietà privata come risposta a botta immediata a un fatto di cronaca, ne porta alla mente decine di altri cui si sono esercitati governi di destra e di sinistra. E altrettanti Parlamenti, pronti a legiferare con le agenzie di stampa tra le mani. Esilarante, pur in presenza di fatti tragici, fu il dibattito che seguì alcuni episodi di teppismo di ragazzi che si divertivano a tirare sassi dai ponti autostradali sulle auto di passaggio. Ci furono parecchi che seriamente proposero un reato specifico per i sassi dal ponte. Sono molti gli esempi delle scorse legislature in cui, fallito ogni tentativo di sfrondare un codice nato già in epoca “pesante” come fu quello degli anni del fascismo in cui fu creato il codice Rocco, sono spuntati come funghi nuovi tipi di reato ad appesantire le ipotesi già esistenti.

Il più clamoroso degli ultimi anni è quello dell’”omicidio stradale” del 2016. Ma potremmo ricordare degli stessi anni la nuova legge sul cyberbullismo piuttosto che quella sul caporalato o sul “femminicidio”. Per non parlare del decreto Zan. Stiamo parlando di fenomeni gravissimi su cui è giusto intervenire, da parte dello Stato, così come dagli Enti locali e anche del Terzo settore. Ma soprattutto sulla prevenzione, fondamentale, sugli omicidi stradali, per il controllo delle condizioni fisiche e mentali con cui ci si mette al volante. Non per sanzionare il comportamento di chi beve un bicchiere di troppo o assume sostanze psicotrope, ma per impedire che si salga in auto nelle condizioni conseguenti ai comportamenti, ubriachi o sballati. Così è importante avere la capacità di saper fermare, magari anche con l’uso del braccialetto elettronico, lo stalker pericoloso che può trasformarsi in omicida.

Naturalmente poi, in presenza di reati, il codice penale deve farla da padrone. Ma la domanda è: non esistono già da sempre le norme del codice penale che puniscono i fatti più gravi? Non esiste già il gioco delle attenuanti e delle aggravanti per tipicizzare ulteriormente comportamenti e situazioni? C’è poi un altro problema, anzi una statistica affermata non solo in Italia: mai l’aggravamento delle pene ha dissuaso alcuno dal commettere il reato. E bisogna ammettere che tutti questi nuovi reati, che arricchiscono ipotesi già esistenti, sono finalizzate sostanzialmente a un aumento delle pene. È così anche in questa nuova fattispecie sulle occupazioni coniata sulla scia del rave party di Modena, problema tra l’altro risolto anche con la vecchia legge e con sanzioni amministrative. Qualcuno può immaginare i ragazzi arrivati da tutta Europa per la musica e un po’ di sballo, consultare freneticamente il codice penale lungo il viaggio per conoscere la pena rischiata? E magari tornare indietro per paura della nuova legge?

La creazione del reato di “omicidio stradale” nel 2016 dal governo Renzi (che pure aveva tentato anche qualche depenalizzazione) è l’esempio dell’inutilità dell’inasprimento delle pene. I morti sulle strade sono ancora migliaia, l’ultimo proprio ieri, e i dati parziali e un po’ propagandistici diffusi dall’Anci segnalano un’apparente diminuzione del numero delle vittime, ma solo negli ultimi due anni a causa delle restrizioni conseguenti all’epidemia da covid e la scarsa circolazione stradale. Pare però che le forze politiche, quasi tutte, non si rassegnino. Certo, la prevenzione è più faticosa, impegnativa e costosa. Più facile la propaganda.

Quella di Fratelli d’Italia quando era all’opposizione, e oggi quella del Pd, i cui governi hanno più di altri rimpinzato il codice penale di norme vessatorie e inutili, oggi dall’opposizione. Servisse almeno per seminare anche nella sinistra più forcaiola qualche briciolo di senno. Una volta, nelle campagne elettorali, si promettevano riforme sociali, oggi solo manette. Ma che Paese è mai questo? Coraggio, ministro Nordio, faccia quel che ha detto dopo il giuramento. In fondo anche quelle sue parole erano una sorta di giuramento.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il rave di Modena non rispettava una dozzina di norme penali e civili. Linda Di Benedetto su Panorama il 02 Novembre 2022.

Dall'invasione di terreni ed edifici, allo spaccio, alle mancate norme sull'uso della musica e sulla somministrazione di cibi e bevande.

Da giorni non si parla d’altro: il rave party, soprattutto del decreto voluto dal governo di Giorgia Meloni che vieta tutti i ritrovi abusivi di gruppi di ragazzi tra musica a tutto volume ed anarchia assoluta. Molti infatti criticano la norma del governo, definendola addirittura anti-costituzionale che vieta le libertà individuali. Dall’altra parte c’è la legge e le regole che questo tipo di manifestazioni violano, senza alcun dubbio. Ma chi organizza un rave quali leggi sta violando? Parecchie, sia di carattere penale che civile. A rispondere sulle violazioni di carattere penale è l’avvocato Angelo Capelli. «Durante i rave illegali le norme del codice penale di riferimento che vengono violate riguardano l’articolo 633, ossia occupazione abusiva di immobili che prevede una pena di due anni di reclusione che con patteggiamento arriva anche un anno. Questo tipo di reato di “invasione di terreni ed edifici” a mio avviso prevede una pena scarsamente efficace, oltre che difficilmente applicabile perché a querela di parte. In pratica le forze dell’ordine possono intervenire solo se qualcuno denuncia altrimenti l’autorità giudiziaria non può procedere». Ma com’è possibile individuare tra migliaia di partecipanti ai rave chi denunciare? «È praticamente impossibile identificare i soggetti da denunciare. Quindi sono tutti reati che dal punto di vista penale prevedono una pena molto bassa e difficilmente perseguibile. Inoltre un altro reato che si profila nello svolgersi di questi eventi è il danneggiamento che rientra nell’articolo 635 e prevede una pena da 6 mesi a tre anni. Allora ben venga una norma che possa essere usata nel caso specifico come strumento di deterrenza da parte delle forze dell’ordine». A parlarci invece dei reati amministrativi commessi nei rave illegali è il comandante della polizia locale della città di Latina Francesco Passeretti. «Durante i rave illegali viene violata la norma prevista dalla circolare Gabrielli del 7 giugno 2017 emessa a seguito dei fatti di Torino, dove è morta una ragazza e ci sono stati centinaia di feriti per la calca. La Circolare Gabrielli fornisce regole precise per la gestione degli eventi che prevedono un forte afflusso di pubblico e fa una netta distinzione tra Safety (responsabilità di Comune, Vigili del fuoco, Polizia municipale, Prefettura, organizzatori) e Security (servizi di ordine e sicurezza). Obblighi da rispettare per garantire la sicurezza pubblica con un’adeguato piano di sicurezza dove si valuta la capienza del luogo in cui si svolge l’evento con un conseguente piano di emergenza e di evacuazione, nonché con l’approntamento di mezzi antincendio e di soccorso ed emergenza. Tutti obblighi che sono a cura dell’organizzazione e prevedono un adeguato numero di operatori. Ad aggiungersi a questo ci potrebbe essere anche un possibile divieto di vendita di alcolici e altre bevande in bottiglie di vetro». Nei rave cosa succede? «Nei rave illegali questa serie di prescrizioni non vengono assolutamente rispettate. Durante questi eventi vengono somministrati cibi e bevande senza alcuna autorizzazione sanitaria, in luoghi occupati abusivamente e per le quali prevista solo una sanzione amministrativa del Tulps. Ma oggi con il nuovo decreto verranno accorpate sotto la fattispecie di un unico reato. C’è poi da tener presente che ogni comune ha il suo regolamento per ogni singola violazione. A Roma per fatti del genere esiste il daspo urbano».

Alessandro Fulloni per corriere.it il 30 ottobre 2022.

Migliaia di persone, tra cui molti stranieri, hanno raggiunto tra la serata di ieri (sabato) e la notte un capannone abbandonato a nord di Modena, nei pressi della fiera e non lontano dall’uscita dell’autostrada dove si tiene un grande rave party di Halloween. Il raduno era in corso ancora in serata sotto la stretta vigilanza di polizia e carabinieri, nonostante in giornata il ministro degli interni Matteo Piantedosi avesse chiesto al prefetto di far sgomberare immediatamente l’area. 

L’evento «Witchtek» — questo il nome che si trova in rete —, tenuto sotto controllo da polizia e carabinieri, ha creato disagi in città, con blocchi stradali, code e traffico in tilt. 

In mattinata il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva dato mandato al prefetto di Modena e al capo della Polizia di adottare, raccordandosi con l’Autorità giudiziaria, ogni iniziativa per interrompere il rave e liberare l’area al più presto. Già domani (lunedì) Piantedosi porterà in Cdm, per un primo esame, una serie di misure normative per dare nuovi e più efficaci strumenti di prevenzione e intervento rispetto a casi del genere (qui il piano di Piantedosi, nel dettaglio).

Nel pomeriggio era anche iniziata una trattativa tra le forze dell’ordine, polizia e carabinieri presenti, per invitare i giovani — circa 3.000 sinora, giunti anche da Francia, Spagna, Germania e Austria — a lasciare l’area. Nel frattempo era stato convocato da parte della prefettura di Modena un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per la mattinata, per fare il punto sulla gestione della situazione. Le forze dell’ordine stanno prendendo i numeri di targa delle auto parcheggiate attorno al deposito.

Per motivi di sicurezza sono state chiuse anche uscite autostradali sull’A22 a Carpi e Campogalliano, oltre a Modena Sud in A1. Musica e balli sono andati avanti tutta la notte, le persone sono arrivate con camper e auto e l’intenzione è quella di rimanere fino a martedi. Non sono mancati momenti di tensione nella notte — riferisce il quotidiano cittadino La Gazzetta di Modena — con lancio di qualche petardo e razzo nautico.

Il resto della giornata è però trascorso in relativa tranquillità: il viavai dei partecipanti al rave è proseguito, alcuni hanno anche montato tende all’esterno del capannone abbandonato (una ex azienda agricola). Il sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, che ha preso parte al comitato in prefettura, in una dichiarazione ha sollecitato a «garantire nei tempi più rapidi possibili il ripristino della legalità in quell’area della città, tutelando l’ordine pubblico e l’incolumità di tutte le persone, che è fondamentale, agendo senza forzature, quindi, ma con determinazione e continuità dell’azione».

A complicare la giornata caotica della cittadina emiliana c’è il fatto concomitante che molti automobilisti in transito lungo l’autostrada stanno raggiungendo Modena per visitare il salone degli sport invernali «SkiPass», che si tiene in fiera. E proprio da Skipass informano che l’uscita autostradale per Modena Nord è regolarmente aperta. Il consiglio «è quello di raggiungere la fiera prendendo la tangenziale e uscendo all’uscita 16».

Modena, al rave party musica, alcol, canne e ragazzi in delirio: «Questa è libertà, noi non ce ne andiamo». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Siamo al Rave di Halloween che sabato sera ha portato fra i campi di grano di Modena Nord migliaia di giovani che hanno preso possesso di un gigantesco capannone industriale abbandonato 

Cris ha gli occhi lucidi, arriva da Bologna e parla così: «Qui si creano delle connessioni, qui c’è il battito tribale, qui c’è tekno con la kappa, senti che roba, bum bum bum, non la trovi da nessuna parte, dopo due giorni torni a casa con questo nella testa, le onde ti vanno nella memoria e voli». Seduto su una sedia dentro il capannone, Cris guarda verso il muro di casse acustiche che sparano una musica da stordimento davanti a centinaia di ragazzi sulle soglie dell’estasi. «Machine of delirium» è lo striscione neppure tanto ambiguo che domina sulle loro teste mentre ballano, bevono, fumano. Altri dormono per terra o se ne stanno seduti come Cris a raccogliere le idee: «Sono spaccato».

Tra campi di grano

Siamo al Rave di Halloween che sabato sera ha portato fra i campi di grano di Modena Nord migliaia di giovani che hanno preso possesso di questo gigantesco capannone industriale abbandonato a un passo dall’uscita autostradale. «Mi affascina l’organizzazione, ti mandano la posizione esatta tre ore prima e si arriva in massa in modo che nessuno possa fare nulla, quando sei in tremila come oggi è fatta. Sono stati davvero bravi... i migliori li fanno in Italia e Repubblica Ceca, anche in Francia... senti che roba».

Bum bum bum. Fuori, sulla strada, c’è la polizia che blocca gli accessi e si trova nella difficile situazione di chi deve obbedire all’ordine partito dall’alto di sgomberare la zona in breve tempo. «Interrompere il rave party e liberare l’area», ha deciso in modo netto il neoministro dell’Interno Matteo Piantedosi. «Bisogna tutelare ordine pubblico e incolumità delle persone, senza forzature», ha invitato alla prudenza il sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli augurandosi che vengano individuati e denunciati gli organizzatori del rave che sta mettendo a soqquadro la città.

Digos e dialogo

Stretti fra queste due esigenze, sgombero e incolumità, gli agenti della Digos hanno cercato inutilmente un dialogo con qualcuno che possa rappresentare questo popolo piombato di colpo a Modena. Cris, che non è l’ultimo arrivato e di rave ne ha già visti una quindicina, fa spallucce: «Ma gli organizzatori saranno stranieri, non li becchi dai». Nessuno qui dentro sembra avere intenzione di andarsene, così almeno fino alla tarda serata di ieri. «Ma se la festa dura fino a martedì perché dobbiamo sgomberare prima? Ricordati che questa si chiama libertà, questa è comunione, è fratellanza», spiega pacifica Ramona mentre il ragazzo che le sta accanto ci guarda storto. Lei, coloratissima, faceva la commessa vetrinista. Da due anni ha perso il lavoro e si è messa a fare piercing sul lago di Garda. Ne ha una decina sul viso.

Spunta un tipo con gli occhi agitati: «Quel muro di casse è come il muro di Berlino, perché queste cose non le scrivete?». Lui non ci guarda, prende la mira: «Perché non le scrivi, eh?». All’interno della struttura, privata, sono parcheggiati furgoni e allestiti banchetti. C’è chi prepara piadine, chi vende pizze e vin brulè a 5 euro e magliette «trouble family» a 15. Ci sono bandiere di pirati, zucche, diavoli. Ma su tutto domina lei: la canna. «Hashish, hashish, est-ce que tu veux?», chiede una ragazzina giovanissima e tatuatissima in minigonna nera e anfibi. Molti arrivano dall’estero, soprattutto dalla Francia. «Io sono un artista musicale e ho composto l’inno della cannabis, se la legalizzano faccio il botto», spera Cris che dice di essere laureato e nel frattempo si è alzato ed è uscito dal capannone. «Quando sono lucido saltello, jumper, mi piace di brutto, un po’ come l’elettroswing».

Multietnici e underground

All’esterno il campo di pannocchie è una distesa di tende, macchine, camper, molti scassati e con la targa coperta. I raver sono giovani, multietnici, underground, ribelli. Arrivano da Bologna, da Roma, Milano, Torino, Venezia, dall’estero. «Vedo sempre le stesse facce dalla Francia e dall’Olanda... sono traveller», spiega Cris che ogni tanto si blocca e chiede dov’era rimasto.

C’è un furgone ammaccato con targa elvetica, ci sono dei Ducati che hanno stipata dentro qualsiasi cosa, mentre tre Vigili del fuoco gironzolano intorno al capannone. «Siamo qui a controllare la solidità della struttura, non ci dovrebbero essere problemi». Passeggiano e osservano circospetti. Qualcuno li punta intonando la canzoncina: «Il pompiere paura non ne ha». Fa caldo e molti si mettono a torso nudo, come un ragazzo rasta che barcolla sostenuto dalla fidanzata.

Come fare

La polizia osserva tutto dall’esterno e cerca di capire come fare. «Abbiamo provato a contattare qualcuno per avviare un dialogo ma è stato inutile», sospira un dirigente. La sensazione è che qualcosa stia per scattare a breve. «Nooo, mancano ancora questi che sono artisti tosti», si dispiace Cris che ti fa vedere il programma dell’evento Witchtek: «Schockraver/fab23, Space invaders, Insane Teknology... Dov’ero rimasto? Capisci no? Musica illegale, allucinante, il mio mondo, qui dentro sopporto tutto... e poi è riuscito bene, o no?». Lui ha un sogno: «Un food and beverage su una spiaggia in un posto teso con il sound system sempre al massimo. Perché ti da stabilità».

La lezione di Piantedosi alla Lamorgese: così si ferma un rave party. Ci sono migliaia di persone a nord di Modena, dove è iniziato un rave party di Halloween: il ministro ha già dato ordine di liberare l'area. Francesca Galici il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

È allerta a Modena, dove migliaia di persone, molte delle quali straniere, hanno raggiunto un capannone abbandonato per un rave party di Halloween. L'evento Witchtek è stato segnalato ieri sera da polizia e carabinieri che hanno monitorato la situazione. Per motivi di sicurezza sono state chiuse anche alcune uscite autostradali sull'A22 a Carpi e Campogalliano, Modena Nord e Sud in A1. Le persone sono arrivate con camper e auto e l'intenzione è quella di rimanere fino a martedì.

Musica e balli sono andati avanti per tutta la notte ma il ministro Matteo Piantedosi ha già dato ordine di sgomberare il capannone al prefetto di Modena e al capo della polizia. Il rave party dev'essere interrotto e l'area liberata al più presto: sono queste le indicazioni del ministro che già domani porterà in Cdm, per un primo esame, una serie di misure normative per dare nuovi e più efficaci strumenti di prevenzione e intervento rispetto a casi del genere.

I numeri del rave sono già enormi: ci sarebbero 3mila persone accampate tra camper e tende. In un messaggio sui social diffuso nelle scorse ore dagli organizzatori si diceva: "Stasera le crew si riuniranno per darvi ciò che vi è stato promesso... Durante tutta la giornata verranno date delle indicazioni, seguitele. Quando uscirà la posizione sarà necessario essere tutti in un raggio ristretto". Quindi, a chi proviene da fuori, anche una nota di sicurezza contro le pattuglie delle forze dell'ordine: "Abbiamo voglia di combattere per ciò in cui tutti noi crediamo abbiamo bisogno che ognuno faccia la propria parte. State attenti a Biella, stanno fermando camion francesi e li scortano fuori regione". In queste ore sarebbero in corso trattative tra le forze dell'ordine, polizia e carabinieri presenti, per invitare i giovani a lasciare l'area. Nel frattempo è in convocazione da parte della prefettura di Modena un comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica per la mattinata, per fare il punto sulla gestione della situazione.

Per liberare l'area e fare in modo di mettere il capannone in sicurezza, per evitare disastri come in già passato ce ne sono stati, Matteo Piantedosi ha dato mandato al prefetto di Modena e al capo della Polizia di "adottare, raccordandosi con l'autorità giudiziaria, ogni iniziativa per interrompere l'evento e liberare l'area al più presto". Un tempismo perentorio che già di suo segna la distanza con il precedente titolare del Viminale, Luciana Lamorgese, la quale non è riuscita a interrompere i rave finché gli stessi non si sono esauriti autonomamente.

La festa dello sballo blocca mezza Emilia. Il prefetto di Modena però prende tempo. Tremila persone, chiuse le uscite delle autostrade nei pressi della zona. I vertici della sicurezza: troppa gente, serve responsabilità. Lucia Galli il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

L'appuntamento è nelle pieghe del web e sui social. È nato così, a tre anni dall'ultima volta, il reclutamento per il Witchtek 2k22, il rave che sta tenendo in scatto la zona di Modena Nord con oltre 3mila giovani arrivati - e ancora in arrivo - in un capannone industriale abbandonato fra la A1 e la A22. Autosole e Auto Brennero: eccolo l'ombelico di un mondo clandestino che, però, si è dato appuntamento alla luce del sole. L'idea? Il ponte di 4 giorni, un tempo perfetto per far convergere da ogni dove d'Italia e Europa truppe del divertimento fuori decibel. Il motivo? Halloween, la notte delle streghe, quelle witch, appunto, che tornano a suon di tecno, per un sabba post moderno e post pandemia. L'ultimo Witchtek che gli annali ricordino era andato in scena a Livorno, nel 2019, un'era pre covid fa. E, allora, This is the time, is the place, ecco l'ora e il posto. E le raccomandazioni: «Le crew vi daranno indicazioni: seguitele. Quando uscirà la posizione sarà necessario essere tutti in un raggio ristretto», questo il messaggio affidato ai social dagli adepti. In tanti si sono messi in viaggio: dal Piemonte arrivano in molti, sotto i 25 anni, già ferrati in checkpoint: «Attenti, a Biella, stanno fermando camion francesi». Messaggi non chiari, al limite del subliminale. I ragazzi del rave hanno messo gli occhi su un deposito agricolo fra Tre Olmi e Modena Nord. Non, non è il Modena park di Vasco e Colpa D'Alfredo: quella sembra preistoria a confronto. A poche km, dall'altro lato dell'Autosole stava andando in scena l'annuale Skipass, fiera nazionale sul turismo invernale, ma è parso chiaro da subito a tutti che il traffico che ha portato a chiudere anche le due uscite della A22 non era dovuto agli estimatori di sci e ciaspole e coppa del mondo. La musica è iniziata già sabato con i primi accampamenti: camper, auto, tende, tutti sotto un cielo da mega hertz, complice il clima estivo. Dopo una prima notte ad alto volume, ieri mattina, alle forze dell'ordine è arrivata anche la segnalazione del padrone del capannone. Oltre 200 uomini, fra carabinieri e polizia hanno cominciato a presidiare il territorio. Blindati, l'elicottero da una parte, qualche petardo in serata: il ministro Matteo Piantedosi è stato perentorio nel parlare di sgombero, ipotizzato non prima dell'alba di stamane in accordo con il prefetto di Modena Alessandra Camporota che per evitare disordini chiede di «superare la situazione con equilibrio e responsabilità». Quando ci sono migliaia di giovani, ammassati in un luogo, gli interventi vanno, però, calibrati. I 150 morti e la strage in Corea insegnano come la calca sia la rovina di qualunque festa. E allora: per tutta la giornata, ieri, i ragazzi sono sembrati più incuriositi che infastiditi dalle divise e dai media. Dal capannone arriva ritmata la colonna sonora dello stordimento. Dal capannone in molti vanno, vengono e barcollano: prendono aria, luce anche. C'è chi è vestito da sera, chi in tuta, cappuccio d'ordinanza calato sul capo: perché qui è notte e giorno nello stesso momento. Una ragazza straniera barcolla, si avvicina all'ambulanza, ma il suo accompagnatore ripete «Stop», come a dire: «Va tutto bene, non serve aiuto». Un altro ragazzo si butta sul prato: armeggia con un enorme disco, quasi un frisbee fuori misura. È la sua tenda, non riesce nemmeno a montarla. Altri si avvicinano ai taccuini: «Mercoledì sarò al lavoro, sai. Non faccio nulla di male. Per questo ponte bastava un giorno di ferie. Mi sono fatto i panini e sono partito». Un altro giovane argomenta: «Tutti vogliamo tornare a casa: contestazione politica? Mah, forse, non c'è molto spazio per i giovani, però direi che qui c'è soprattutto voglia di ballare». Ancora una notte e un giorno soltanto.

Piantedosi prepara la stretta sui rave: sequestri e denunce per chi li organizza. Ma il Pd li difende. È un'altra prova di quella discontinuità promessa su più fronti dal governo di centrodestra. Lodovica Bulian il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

È un'altra prova di quella discontinuità promessa su più fronti dal governo di centrodestra. Il pugno duro sui rave party comincia su quello di Halloween in corso da ieri in provincia di Modena, in un capannone dismesso non lontano dall'uscita dell'autostrada. Code, blocchi stradali e traffico in tilt. Circa tremila persone arrivate anche da Francia, Spagna, Germania e Austria. Ieri mattina il ministero dell'interno Matteo Piantedosi ha chiesto al prefetto e al capo della Polizia Giannini di avviare ogni iniziativa per interrompere la festa e liberare l'area al più presto. Il Viminale sceglie la linea dura. Tanto che oggi Piantedosi dovrebbe portare in consiglio dei ministri un provvedimento con «nuovi e più efficaci strumenti di prevenzione e intervento». Così li definisce il Viminale nell'annunciare le nuove disposizioni pensate per fermare immediatamente i raduni come quello in corso in Emilia Romagna. Il provvedimento - che potrebbe tradursi in un decreto da varare entro la settimana - dovrebbe contenere misure come il sequestro immediato e la confisca dei mezzi, - camion e furgoni - oltre che di tutto il materiale utilizzato per i raduni, come strumenti e apparecchiature musicali. Con un danno agli organizzatori dei rave che verrebbero dunque denunciati e perseguiti. A loro carico scatterebbe anche l'obbligo del ripristino dei luoghi danneggiati. Di fatto, nelle intenzioni del ministro, un potente deterrente all'organizzazione. Immediato il plauso del vicepremier e ministro per le Infrastrutture Matteo Salvini: «Basta rave party illegali, delinquenti che spadroneggiano, istituzioni umiliate: ora si cambia! Complimenti al ministro Piantedosi, avanti così». Si punta a delineare una fattispecie di reato che consenta sul piano preventivo di intercettare chat e canali social coperti, per sapere in anticipo quando e dove questi eventi si tengano ed evitare l'afflusso di grandi numeri difficili da sgomberare.

Del resto questa era stata una battaglia del centrodestra e della Lega e di Fratelli d'Italia soprattutto, che aveva attaccato duramente l'ex ministro Luciana Lamorgese per la gestione di un maxi rave che si era svolto a Mezzano, nel viterbese, nell'agosto scorso, dove aveva anche perso la vita un 24enne. La stessa Meloni aveva scritto su Facebook: «Sono cinque giorni che va avanti il rave party di Mezzano tra droga, alcol e illegalità. Nonostante sia anche morto un ventiquattrenne, nessuno è ancora intervenuto a sgomberare il campo. Lamorgese, ma dove sei?». Lei, l'ex ministro, aveva poi replicato in Aula alla raffica di interrogazioni, spiegando che mettere in atto uno sgombero sarebbe stato pericoloso per l'ordine pubblico, vista anche la presenza di bambini, e che aveva ritenuto più opportuna un'attività dissuasiva: «Per il raduno che si è tenuto tra il 13 e il 19 agosto, l'azione di forza era controindicata perché lo sgombero dell'area con il ricorso a idranti e lacrimogeni avrebbe creato rischi per ordine pubblico e salute. In Italia ci sono stati tanti rave in passato con concentrazioni fino a 5mila persone, - aveva detto Lamorgese - in nessuno di questi si è deciso di intervenire con la forza se non quando lo hanno potuto consentire circostanze di tempo e luogo soprattutto connessi al numero dei partecipanti». Ora con uno dei primi atti del governo Meloni si vuole evidentemente certificare un'inversione di rotta. Intanto da ieri è in corso una trattativa tra le forze dell'ordine, polizia e carabinieri, per invitare i giovani a sgomberare. I partecipanti dicono di voler rimanere fino a domani. Il proprietario del capannone occupato ha presentato denuncia alle forze dell'ordine.

E il Pd? Ovvio, fa le barricate in favore del rave: «Preoccupati. Non bisogna dar fuoco alle polveri salviniane». E il leader della Lega Salvini strabuzza gli occhi: «Difendono i raduni illegali? Siamo su Scherzi a parte?».

"L'ordine di sgombero ci sorprende e ci preoccupa". Il Pd difende il rave. Da sinistra coccolano i partecipanti al rave e non concordano con la linea dura di Piantedosi: centrodestra compatto attorno al ministro. Francesca Galici il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Ci sono migliaia di persone che da oltre 24 ore hanno occupato un capannone a nord di Modena per un rave party che è in programma fino a martedì. Facile immaginare cosa ci sia all'interno della struttura, dalla quale rimbomba musica ad alto volume. Mentre il prefetto Matteo Piantedosi, d'accordo con il prefetto e con i vertici delle forze dell'ordine, lavora per ripristinare la legalità e la sicurezza, da sinistra difendono il rave party.

"L'ordine del Ministro Piantedosi di sgomberare il rave party illegale in corso a Modena ci sorprende e ci preoccupa. Sorpresa perché garantire la sicurezza e rispettare la legalità è un compito delle forze dell'ordine che molto probabilmente davanti ad oltre 3000 giovani hanno optato per un'attività dissuasiva e non un'azione di forza, ci preoccupa visto il precedente di come è stato gestito l'ordine pubblico nei confronti degli studenti di Tor Vergata (La Sapenza, ndr) pochi giorni fa", hanno dichiarato la senatrice del Pd Vincenza Rando e l'onorevole Stefano Vaccari.

Parole che hanno fatto saltare sulla sedia molti, anche tra le forze dell'ordine. Le parole dei parlamentari sottintendono comportamenti irresponsabili da parte delle divise, che invece sono costantemente impegnate nel mantenimento dell'ordine pubblico, che è il loro lavoro. Davanti a queste parole, ha reagito anche Matteo Salvini: "Parlamentari PD difendono i Rave Party illegali e si preoccupano per il ritorno alla legalità. Siamo su Scherzi a parte?".

E mentre da sinistra paragonano il rave party con le manifestazioni di Predappio, dimostrando ancora una volta una certa ossessione nei confronti della destra, il ministro Piantedosi sta agendo per ripristinare la situazione nel più breve tempo possibile e con minori conseguenze possibili. Da Roma, ha dato mandato al prefetto di Modena e al capo della Polizia di adottare, raccordandosi con l'autorità giudiziaria, ogni iniziativa per interrompere il rave e liberare l'area al più presto. Per analizzare le misure si è riunito il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, in modalità permanente.

Da liberoquotidiano.it il 31 Ottobre 2022.

Oliviero Toscani come sempre non usa giri di parole. Il fotografo, ospite a Zona Bianca, difende i ragazzi che hanno letteralmente travolto Modena con un rave party abusivo che ha procurato anche la chiusura di alcune uscite autostradali. 

Secondo Toscani il pugno di ferro usato dal Viminale sarebbe eccessivo e contesta anche il servizio mandato in onda dal conduttore Giuseppe Brindisi: "Quelle immagini non dicono nulla, questo non è giornalismo.  Anche Woodstock era abusivo. Fate i seri, questo non è un buon servizio".

Brindisi lascia passare qualche secondo e restituisce il colpo a Toscani: "Non mi sembra corretto paragonare Modena a Woodstock. Quello che abbimo documentato è un rave abusivo, caro Toscani. E le immagini che abbiamo mostrato sono giornalismo, parlano chiaro". 

Toscani poi cambia obiettivo e attacca anche la parlamentare di Forza Italia, Rita Dalla Chiesa che contestava la condotta dei ragazzi all'interno del capannone occupato. Toscani è una furia: "Ma cosa state dicendo, sono dei ragazzi e non fanno nulla di male. Voi non potete dire che sono drogati". La Dalla Chiesa risponde a tono: "Hanno fatto una occupazione abusiva e questo basta per definire la gravità della situazione". 

 Rave, si può criticare, ma non quando si è fatto di peggio. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 03 novembre 2022

Piacerebbe che il governo - non questo, qualunque governo - fosse criticato anche aspramente per le cose che fa, non per quelle che si inventano a suo carico. E poi piacerebbe che la critica venisse da chi ha le carte in regola, non da chi è responsabile di comportamenti dello stesso segno, ma peggiori, rispetto a quelli che addebita alla controparte. Mettiamo i piedi nel piatto e diciamo senza girarci intorno che al liberale non piace troppo assistere all'introduzione di nuove figure di reato, come se non ce ne fossero abbastanza, o all'aggravamento delle pene, come se non fosse dimostrato che non è questo il modo per perseguire con efficacia presunti obiettivi sicuritari. 

E ovviamente, quando diciamo "liberale" (il dottore non ha ordinato di esserlo, e si è degnissime persone anche senza essere liberali), non ci riferiamo al profugo in diaspora dalle cene eleganti, né al manettaro che si improvvisa garantista quando gli arrestano il parente o l'amico. Tanto precisato, si può ritenere giusta o sbagliata la norma che punisce l'occupazione abusiva, da parte di più di cinquanta persone, di una proprietà immobiliare altrui per tenervi un raduno da cui "può derivare un pericolo per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica". Ma quel che non si può fare è spacciare la balla che per il tramite di questa norma si vietino e puniscano legittime occasioni di protesta o contestazione.

E invece è proprio questa falsità che si è spacciata, con il corollario di stupidaggini sui "diritti" calpestati e sul valore democratico del rave nel condominio occupato. Che poi lo strillo venga da chi giustificava e metteva in decreto il rastrellamento e la galera per gli irresponsabili, vale a dire quelli che organizzavano il party negazionista mangiando pizzette sulle panchine di un parco deserto o quelli che non tenevano il metro di distanza nella fila al supermercato, fa ben capire quanto sia genuino lo strepito per la svolta autoritaria. 

"Questo decreto puzza...". Gli artisti si accodano alla sinistra e sul rave fanno figuracce. Francesca Galici l'1 Novembre 2022 su Il Giornale.

La sinistra confonde "raduni" e "manifestazioni" e solleva la polemica contro il governo per i rave: Viminale costretto a ribadire l'ovvio con una nota 

Resta un mistero il motivo per il quale alla sinistra piaccia così tanto l'illegalità al punto che anche artisti e volti noti scelgono di esporsi pubblicamente in sua difesa. L'ultimo caso è il rave di Modena, che il nuovo ministro Matteo Piantedosi ha interrotto dopo poco più di 24 ore. Partendo da questo caso, è stato portato in Consiglio dei ministri un decreto col quale questo tipo di raduni, che avvengono in edifici privati occupati abusivamente e, spesso, sono occasione di spaccio e consumo di droga, sono stati resi illegali. Pene fino a 6 anni di reclusione e 10mila euro di ammenda: una stretta decisa da parte del Viminale che invece di essere accolta come un passo verso la legalità, da sinistra vedono come un'attentato alla libertà.

Arriva la stretta sui rave party: confisca e fino a 6 anni di reclusione

Dovrebbero dirlo a tutti quelli che si sono visti occupati i loro capannoni e campi, con danni di centinaia di migliaia di euro come accaduto a Viterbo. Ma la sinistra sembra più concentrata a coccolare i fuorilegge piuttosto che a cercare di rendere l'Italia un Paese migliore. E quindi ecco che in difesa dei rave party, sull'onda dell'inutile e strumentale polemica sollevata dal Pd, scendono in campo pure gli artisti. Sempre i soliti, ovviamente, senza sorprese di sorta per quanto riguarda la provenienza delle critiche al governo di centrodestra.

In prima linea ecco spuntare Fiorella Mannoia: "Questo decreto sui rave puzza, spero di sbagliare". Ma cosa vorrà mai dire Fiorella Mannoia? In tutta questa vicenda, l'unica puzza è quella dell'erba che sovente gira in questo tipo di raduni, ma la cantante si è accodata senza senso critico a quanto detto dal Partito democratico, che ora ha sollevato la polemica sul fatto che il blocco dei rave sia solo un pretesto del governo per rendere illegali gli scioperi e le occupazioni di università, scuole, fabbriche e simili. Alcuni l'hanno solo sottinteso, altri sono stati più espliciti, ma il chiodo fisso della sinistra è sempre lo stesso: convincere i cittadini che il governo Meloni è di estrazione fascista e che i provvedimenti presi sono di quella estrazione.

Ma sarebbe bastato leggere e soffermarsi, se proprio non si aveva voglia di capire, per rendersi conto che nel decreto non si parla di "manifestazioni" ma di "raduni" e che quindi tutta la loro polemica si basa su un castello di sabbia. Eppure, in tanti si sono lasciati convincere dal Pd, non solo Fiorella Mannoia. Erri De Luca scrive: "Atto primo scena prima. Il governo individua il grave pericolo delle manifestazioni musicali libere e gratis. Pene da patibolo contro la gioventù". Anche in questo caso si ignora deliberatamente che le "manifestazioni musicali libere e gratis" avvengono mediante occupazioni abusive. E ancora, alla Rete degli studenti medi e dall'Unione degli Universitari non è parso vero di trovare un così ampio appoggio dagli amici di sinistra: "In questo modo si limita la libertà di manifestare. Inaccettabile dare il via a repressione in scuole, atenei e piazze". E ancora una volta si confondono i raduni con le manifestazioni.

È servita una nota del Viminale per spiegare l'ovvio, ossia che la decisione presa in sede di Cdm "interessa una fattispecie tassativa che riguarda la condotta di invasione arbitraria di gruppi numerosi tali da configurare un pericolo per la salute e l'incolumità pubbliche". Questo provvedimento, si specifica nella nota, "non lede in alcun modo il diritto di espressione e la libertà di manifestazione sanciti dalla Costituzione e difesi dalle istituzioni". Il prossimo passo pr l'esecutivo sarà quello di fare i disegnini. O, forse, visto che si tratta di polemiche strumentali, nemmeno quello servirà, perché davanti a chi non vuole capire non ci sono soluzioni che tengano.

La sinistra ha trovato il modo di strumentalizzare anche questa nota. Il primo è stato Enrico Letta, testardo nella sua pretestuosa polemica: "Le precisazioni del Viminale sulla questione rave party non cambiano la questione giuridica che abbiamo posto. Anzi, la precipitosa e inusuale precisazione conferma che hanno fatto un pasticcio. Che si risolve solo col ritiro della norma".

Ma ovviamente non è l'unico. Giuseppe Conte gli fa eco e continua a buttare benzina sul fuoco con le sue esternazioni: "Questa norma è un docile strumento che, per la sua genericità, consentirà un esercizio discrezionale alle autorità preposte alla sicurezza e all'ordine pubblico. Si applicherà anche ai raduni negli edifici, quindi nelle scuole, nelle fabbriche, nelle università". Il leader del M5s parla di "esibizione muscolare di un governo impregnato di una ideologia iniquamente e soverchiamente repressiva". "Sono decisamente contrario ai Rave illegali, ma una nuova fattispecie di reato si scrive ponderandola bene, non così a cavolo per fare "la dura". È la differenza tra partecipare ad un talk show e stare al Governo", scrive su Twitter il leader di Azione Carlo Calenda.

Ma dalla maggioranza si tira dritto e Matteo Salvini plaude alla norma: "Viva la libertà, viva la democrazia, viva i giovani e la musica, nel rispetto delle regole. Quindi senza droga, senza armi, senza comportamenti illeciti, senza occupazioni abusive di spazi pubblici o privati. L'illegalità non verrà più tollerata, possono essere 15enni o 90enni. Si rispetta la legge, piaccia o non piaccia". Quindi, ha aggiunto: "Sui rave party non si torna indietro".

Quel rave a Predappio che nessuno ha fermato. Mentre i blindati della polizia accerchiavano il capannone di Modena, migliaia di nostalgici sfilavano indisturbati. Ezio Menzione su Il Dubbio l'1 novembre 2022.

Colpisce: stesso giorno, stesse ore. A Predappio sfilano nostalgici del regime fascista ringalluzziti dal governo Meloni e dal presidente del Senato, per festeggiare il centenario della marcia su Roma. Non lontanissimo da lì, vicino a Modena, due, forse tremila giovani erano convenuti in un gran capannone appositamente affittato per un rave, una delle tante feste spontanee che quasi settimanalmente nella bella stagione si tengono in tutta Italia e anche in tutto il nostro mondo occidentale. Diversa l’accoglienza da parte delle cosiddette forze dell’ordine. A Predappio si vuole che tutto fili liscio, nonostante la legge vieti saluti romani e tutti i parafernali dell’antico, ma sempre nuovo, regime. Lo vieta la legge; ma mai nessuna legge è stata tanto disapplicata. Essa vieterebbe non solo la ricostituzione del partito fascista, e questo per ora è fuori dalla portata di questi nostalgici che tanto la desidererebbero, ma anche gli emblemi e i comportamenti che a quel partito si richiamano. E di questi, a Predappio ce n’era a bizzeffe. Ma tant’è, anche questa volta, anzi, tanto più questa volta, tutto è fatto andare liscio: nessun fermato, nessun identificato formalmente, i promotori sono ben noti lippis et tonsoribus, ma nessuno è chiamato a rispondere di queste illegalità. Diversamente vanno le cose al rave in quel di Modena. Durante la notte centinaia di agenti e carabinieri, con camionette e blindati, accerchiano il capannone e intendono sgomberarlo con le buone o con le cattive. Si avvia una trattativa che va avanti fino al mattino, quando i giovani “si arrendono” e lasciano spontaneamente la grande struttura, portandosi via le proprie carabattole e, addirittura, ripulendo a modo tutto quanto. Questa volta (contrariamente a quanto successo in altre occasioni) non ci è scappato il morto né i feriti né gli arresti: solo 600 identificazioni, moltissimi gli stranieri, forse grazie alla nottata meteorologicamente mite e serena (ma solo meteorologicamente) di questa fine estate italiana. Ma il rave non era autorizzato e quindi illegale. Illegale per violazione di quale legge, di grazia? Non si sa. Ma la stessa Costituzione non tutela (art.17) il diritto di riunirsi, purché “pacificamente e senza armi”? Tanto quel rave non era vietato, che ora si vuole introdurre una legge che vieti i rave, con confisca dei beni utilizzati (il “doppio binario” si espande e i sequestri preventivi si allargano) e pene che arrivano a 6 anni. Oppure sono illegali in quanto luoghi in cui circola la droga? Sì, è vero, la droga in questi raduni circola eccome, ma non più che in un qualunque ginnasio.

Michele Serra per “la Repubblica” l'1 novembre 2022.

L'ordine pubblico è solo un'opinione. Tra il rave party di Modena e la curva di San Siro svuotata dagli ultras dell'Inter (polizia autoproclamata), qual è l'affronto più grave alle leggi e all'ordine? Da una parte c'è un capannone vuoto occupato illegalmente, e un branco di ragazzi che si rintronano di decibel e di altra robaccia. 

Dall'altro ci sono padri con i bambini, che hanno comperato un biglietto, magari fatto un centinaio di chilometri per andare alla partita, e vengono sgomberati a spintoni perché un capo della tifoseria, noto pregiudicato, è stato ammazzato. E allo stadio di Milano il lutto diventa obbligatorio, come nei quartieri di mafia quando muore il boss.

Di chi è lo stadio di San Siro, e di chi sono tutti gli stadi? Sono luoghi pubblici, nei quali vale la legge italiana? Oppure sono, come ognuno può vedere, luoghi privatizzati a suon di sberle, minacce, ricatti? I ministri che fanno la voce grossa con gli underdog (termine di moda, a Palazzo Chigi) dei rave party, la farebbero, o la faranno, anche con gli ultras che hanno usato lo stadio di Milano come casa loro, rovinando un sabato di festa a famiglie che avevano il solo torto di essersi sedute in curva? Ci scommetto: non lo faranno.

I rave dispiacciono anche politicamente a questo governo, gli ultras delle curve no. C'è una nota e rivendicata familiarità politica tra esponenti della destra oggi ministeriale e il tifo ultras. Sgomberare un capannone da ragazzi alterati, ma pacifici, e chiudere gli occhi sullo scempio di sabato a San Siro: l'ordine pubblico è solo un'opinione.

(ANSA il 31 Ottobre 2022) Al rave party di Modena è iniziata l'operazione di sgombero del capannone in disuso di via Marino e i partecipanti stanno lasciando l'edificio. Molti si sono già riversati in autostrada con i loro mezzi. Intorno alle 10,30 le forze dell'ordine in tenuta antisommossa si sono avvicinate all'edificio senza entrare all'interno mentre un funzionario ha detto al megafono: "Non siamo qui per voi e non entreremo, l'edificio è sotto sequestro perché pericolante, dovete andarvene". Dopo un primo momento di tensioni, ma senza scontri, i partecipanti al party hanno iniziato a lasciare l'edificio. Dentro stanno smontando le casse.

Iniziati i servizi per la messa in sicurezza dell'area di Modena Nord interessata dal rave, che ha visto l'afflusso di giovani da diverse regioni e dall'estero. Secondo quanto si apprende dalla Questura di Modena le attività in corso daranno esecuzione al sequestro preventivo dell'immobile adottato di iniziativa e in via di urgenza, per motivi di sicurezza strutturale legati allo stato dei luoghi, dichiarati dal proprietario della struttura e certificati in ultimo da sopraluogo tecnico.

Sono circa 600 le persone per ora identificate dalle forze dell'ordine per il rave party di Modena. Il dispositivo per eseguire il sequestro, approntato all'esito del Comitato Provinciale Ordine e sicurezza pubblica svolto ieri in Prefettura e del successivo Tavolo tecnico svolto in Questura alla presenza di tutti gli Uffici, Comandi ed enti interessati, vede il dispiegamento di forza pubblica, enti del soccorso sanitario e tecnico. Proseguono sul perimetro e sulle vie di deflusso le attività di identificazione dei raver e di controllo dei relativi mezzi, con il concorso di pattuglie territoriali dislocate a medio raggio, di unità cinofile antidroga e della Polizia stradale. (ANSA)

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 31 Ottobre 2022. 

Fin dagli albori, la cultura dei teknoraver lo ha sempre voluto fare illegale. Se gli permettessero di farlo a norma, non lo vorrebbero. Così, 3.500 ragazzi per lo più ventenni con qualche eccezione, dalle prime ore di ieri stanno ballando in un capannone abbandonato alla periferia nord di Modena. Hanno creato rallentamenti tali sul nodo autostradale lì accanto, da spingere le autorità a chiudere due caselli per alcune ore (complice anche una fiera sullo sci molto frequentata). 

Una volta arrivati, si sono installati su un campo di girasoli ormai mietuto, ci hanno montato le tende, hanno occultato la targa delle utilitarie con le magliette affinché nessuno potesse denunciarli, hanno aperto i battenti di vecchi camper scassati (tra camper invece nuovi e station-wagon tedesche di grossa cilindrata), e da lì ora vendono pizzette, birre, vin brulé, droghe sintetiche e magliette psichedeliche.

Nonostante la proprietà abbia fatto una querela, il nuovo ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, abbia chiesto lo sgombero, qualcuno si sia sentito male e fuori i reparti di intervento celere facciano la guardia, loro continuano la festa. 

Un rave di solito funziona così: si sceglie un'area industriale dismessa, possibilmente lontano dalle case (e questa lo è). Ci si dà appuntamento (stavolta la scusa è Halloween e il programma prevede di tirare dritto fino a domani), si fa girare la voce sui canali dell'ambiente, si arriva in massa e si occupa il posto. 

All'interno del capannone maggiore c'è una pista da ballo enorme: pareti di altoparlanti presso cui i più cotti ballano avvicinando la testa ai subwoofer, luci stroboscopiche, installazioni artistiche create con ricambi meccanici riciclati, graffiti continui sulle pareti, ragazze e ragazzi che ballano, cani che scorrazzano. Fuori, nel villaggio improvvisato, un generatore, un mixer e qualche cassa artigianale bastano ad aprire una festicciola a margine, tra chi ha bisogno di qualche ora di sonno su un sedile reclinato. 

Il dress code per il Witchtek (che va in scena da anni, sempre in un posto diverso), non c'è, ma un look eccentrico non guasta: uomini col velo da sposa, fanciulle truccate da mostri, luci led come aureole e, se ci si sente presi alla sprovvista, il torso nudo è la soluzione. L'ingresso è gratuito e il consumo di droga è libero: «Hashish, ketch, coltelli, pistole, Ak47», grida lo strillone di uno dei camper con davanti la fila di chi vuole comprare un po' di sballi. Naturalmente, i primi due prodotti del listino sono disponibili e richiestissimi, mentre gli ultimi non esistono, vengono annunciati solo per fare marketing.

Per «ketch» si intende la ketamina, un anestetico da assumere per inalazione. Per chi ha altri gusti sui paradisi artificiali, ci sono stimolanti, oppioidi o psicofarmaci. Sabrina, di Viterbo, siede a gambe incrociate con Chiara. Fanno quarant' anni in due e gli manca il tabacco per chiudere la canna. Fermano uno, gli chiedono una sigaretta, il ragazzo sembra un po' assente e gli domandano: «Tutto bene?». Lui conferma che è a posto e rigira la domanda: «Voi, tutto bene?», perché in fondo è sbagliato credere qui non esista la minima responsabilità: «Stiamo bene se ci prendiamo cura l'uno dell'altro, sennò non ci sta», spiega lei a suo modo. Tra gli stand di gastronomia spiccia e alcool da discount, per esempio, ci sono anche i banchetti per la cosiddetta «riduzione del danno».

Se hai comprato droga, puoi fare un test per vedere quanto è pura e se contiene sostanze tossiche. Si ti manca una siringa o un preservativo, te lo danno gratis. Se ti senti male, ci sono i materassi con le termocoperte che si offrono ai naufraghi. 

Italia, Francia, Germania, Svizzera, Belgio, Repubblica Ceca e Repubblica di San Marino: si capisce che la provenienza è varia dagli accenti e dalle targhe. Marion, 27 anni, di Nimes (Francia), si inciampa mentre cerca di saltare un fosso. Davanti a lei, ci sono le tre camionette dell'antisommossa e qualche volante che presidia. Sapeva che le forze dell'ordine sarebbero intervenute?

«C'est n'est pas facile - spiega - è sempre così. Non vogliamo dare fastidio a nessuno, ma di certo non torneremo a casa prima della fine, con tutta la strada che abbiamo fatto».

Operai, carrozzai, commesse, bariste e party raver di professione: le occupazione sono varie come le nazionalità, ma dentro non si parla di lavoro. A parlarne, sono i ristoratori dei pressi, che hanno visto tutti i coperti della domenica sfumare nella chiusura del traffico sulla zona.

«Oggi non si è visto nessuno, abbiamo aperto per niente», protesta Adam, origini arabe, menù modenese e figli con accento emiliano che battono il ristorante vuoto. Poi, entra uno dei raver e l'istinto per gli affari si sveglia: «Com' è la festa? Bella? C'è molta gente?». «Bisogna servire tutti i clienti - spiega appena è uscito - soprattutto quando non ce n'è». All'improvviso si sente uno scoppio uguale a quello che annuncia l'inizio di una carica di polizia. Tutti si voltano a vedere se il nuovo governo ha deciso di dare la sua prima prova di forza su questa mega festa di periferia. I bronci diventano subito sorrisi: sono solo i fuochi artificiali, nessuno pensa alla fedina penale o alla cartella clinica. A domani penseranno domani.

Da repubblica.it il 31 Ottobre 2022. 

Reclusione da 3 a 6 anni, multe da 1.000 a 10.000 euro e si procede d'ufficio "se il fatto è commesso da più di 50 persone allo scopo di organizzare un raduno dal quale possa derivare un pericolo per l'ordine pubblico o la pubblica incolumità o la salute pubblica".

È quanto si trova nel decreto legge passato oggi in Consiglio dei ministri - composto di nove articoli e che riguarda anche norme in materia di giustizia e di Covid - nella parte che riguarda il contrasto ai rave party. 

In caso di condanna, "è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e di quelle utilizzate per realizzare le finalità dell'occupazione". […]

Da repubblica.it il 31 Ottobre 2022.

Mentre i partecipanti al rave di Halloween di Modena lasciano ordinatamente il capannone sequestrato per motivi di sicurezza strutturale dalle forze di polizia mobilitate massicciamente dal neo ministro Piantedosi, arrivano le prime reazioni politiche. 

 "Ok stretta sui rave, ma governo spieghi Predappio", attacca il leader 5 stelle Giuseppe Conte. L'ex titolare del Viminale, Matteo Salvini inneggia al "pugno duro" e si riappropria dello slogan "la pacchia è finita". Per l'esponente Fabio Rampelli, "sui rave si cambia musica". Intanto la polizia prova ad abbassare i toni: "Non è stato uno sgombero, ha prevalso la trattativa". Soddisfatto il dem Stefano Bonaccini per la "soluzione positiva e senza violenza".

Le reazioni

Scrive sui social Giuseppe Conte, "leggiamo da indiscrezioni che il ministro Piantedosi dovrebbe presentare oggi in Cdm un decreto per tracciare la nuova linea di 'fermezza e rigorè in materia di sicurezza e ordine pubblico. Ben vengano azioni mirate a maggiore prevenzione e contrasto dell'illegalità, ma allo stesso modo ci aspettiamo dal titolare del Viminale e dal Governo una parola chiara sulla sfilata delle duemila camicie nere di Predappio, dove inni fascisti e braccia tese hanno evidenziato, qualora ve ne fosse bisogno, la labile linea di confine che divide la 'nostalgia dall'"apologia'".

"Modena, sgombero e sequestri in corso al rave party. Pugno duro contro droga, insicurezza e illegalità. È finita la pacchia". Così il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Matteo Salvini che su Facebook posta un video con la diretta sul rave. 

"La saggezza e l'esperienza del Ministro Piantedosi sono una risorsa per l'Italia e per la legalità". Lo scrive su Twitter il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri vicepresidente del Senato.

"Sui rave si cambia musica", secondo il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli, di Fratelli d'Italia, intervistato ad Agorà: "Non c'è alcun intento persecutorio, ma è inaccettabile che migliaia di persone si ritrovino in un capannone per un'iniziativa senza annunciarla né denunciarla. La legge è uguale per tutti e tutti devono rispettarla, nelle modalità con cui si svolgono i raduni e nelle notifiche alla questura. Ciò che appare comunque paradossale è la mancanza di intelligence e prevenzione. Come si possono spostare e concentrare 3mila persone provenienti da mezza europa in un posto senza che nessuno se ne accorga, consentendogli ogni illegalità?". 

Sulle iniziative a Predappio, continua Rampelli, si respinge qualsiasi tentativo di "accostamento al governo di centrodestra e men che mai a Fratelli d'Italia. Ci sono stati fior fiore di sindaci comunisti che hanno approfittato di queste date per fare economie locali".

Evidente soddisfazione per l'esito della vicenda è espressa dal dem Stefano Bonaccini. "Ringrazio tutti coloro che hanno lavorato a una soluzione positiva che ha permesso di tornare a una situazione di normalità rispetto a un evento organizzato illegalmente e in un capannone inagibile, uno spazio, quindi, che non poteva essere utilizzato in alcuna maniera. Il prefetto, il questore, il sindaco di Modena, oltre ovviamente al ministro dell'Interno, coi quali sono rimasto in contatto in queste ore. La Procura, e grazie ovviamente a tutte le Forze dell'ordine, alla Polizia locale, ai Vigili del fuoco, il Servizio 118 e il sistema di Protezione civile". Così il presidente della Regione Emilia-Romagna. "Va sottolineato come ciò sia avvenuto in maniera ordinata e senza alcuna violenza. Resta il rammarico per i forti disagi creati nei giorni scorsi, rispetto soprattutto alla viabilità, con ricadute su residenti e attività economiche. A maggior ragione è doveroso che venga ripristinata la legalità ogni qualvolta vengano violate le norme".

La situazione

A metà mattinata il rave è di fatto concluso. La musica è stata spenta intorno alle 10 ed è cominciato il deflusso dei partecipanti. Non sono stati necessari interventi "di forza" da parte delle forze dell'ordine. I partecipanti sono impegnati nella pulizia del capannone dai rifiuti di questi giorni. 

Secondo fonti della Polizia presenti sul posto, la trattativa tra forze dell'ordine e partecipanti è stata subito efficace, non c'è stato bisogno di sgomberare il capannone. Alle persone arrivate da tutto il mondo è stato spiegato che l'edificio è pericolante e quindi, per la la loro sicurezza, sarebbe stato meglio che se ne fossero andati. Nessuna resistenza nè momento di tensione, i ragazzi e le ragazze hanno preso atto del pericolo e se ne stanno andando via. Oltre ai poliziotti sono presenti i vigili del fuoco.

"Abbiamo reagito nella maniera giusta, nessuno ha alzato le mani, non vogliamo lo scontro". È il commento a freddo di Chiara, una delle partecipanti mentre l'edificio di via Marino, occupato abusivamente da sabato sera, si svuota lentamente e in maniera pacifica.

La sinistra che sta con gli sballati dei rave party coccola l'illegalità. Andrea Indini su Il Giornale il 31 Ottobre 2022

Saviano, Lerner e tutta la sinistra radical chic in campo contro lo sgombero. Pure i dem contro Piantedosi. Dalle occupazioni agli sbarchi, ecco chi fomenta l'illegalità in Italia 

Un elicottero della polizia sorvola il cielo terso sopra Modena. Sotto una ragazza alza il braccio, stende il dito medio, insulta gli agenti e mostra loro la lattina di birra che si sta scolando. Strafottente. Chissà se è stato per difendere il "diritto" allo sballo anche di questa giovane che il Pd si è espresso contro la decisione del ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, di far sgomberare il capannone occupato. "L'ordine ci sorprende e ci preoccupa". Se ne sono usciti così, ieri sera, i senatori dem Vincenza Rando e Stefano Vaccari. E non sono stati gli unici. Tutta la sinistra radical chic a inondare Twitter per esprimere solidarietà ai 3.500 che stavano tenendo il rave party non autorizzato, per dire che dopo tutto non sono loro i veri criminali da perseguire, per sottolineare che a Predappio comunque c'è di peggio.

Da sempre la sinistra coccola l'illegalità. Gli sbarchi, i centri sociali, le case occupate e financo i rave party illegali: i più moderati li tollerano con simpatia, mentre i più estremisti addirittura li sostengono. E così gli dev'essere venuto un travaso di bile quando, abituati a giocare in casa col lassismo dell'ex ministro Luciana Lamorgese, hanno sentito suonare un'altra musica al Viminale. Senza troppi proclami, Piantedosi è passato subito ai fatti e, nel giro di ventiquattr'ore, ha inviato a Modena 600 agenti che, senza troppi problemi, hanno sgomberato l'intera area. E così, non potendo accusare gli agenti per i modi "rudi" come invece avevano fatto dopo l'assalto dei collettivi studenteschi contro il convegno di Azione universitaria alla Sapienza, hanno montato una polemica pelosa.

Ad aprire le danze contro il Viminale è stato il dem Andrea Orlando che, sui social, ha scritto: "Segnalo al ministro degli interni il rave che si è tenuto a Predappio, a mio avviso di gran lunga il più inquietante. Era conforme alle norme vigenti?". Dello stesso tenore i tweet di Roberto Saviano ("Mentre il governo propone di alzare il tetto al contante Piantedosi ferma i 'veri criminali': Ong e rave party") e di Gad Lerner ("A un governo come il vostro verrà sempre più facile prendersela con il rave party di Modena e con il soccorso in mare delle Ong piuttosto che coi fascisti radunati a Predappio"). O anche le sparate televisive dell'immancabile Oliviero Toscani ("Strana questa voglia di castigare invece di capire"). E c'è persino chi, sempre in tivù, se ne è uscito dicendo che "il diritto di riunirsi è garantito dalla Costituzione" e chi si sarebbe aspettato dalla polizia una sorta di servizio d'ordine ("Potevano filtrare gli accessi").

Una marea di assurdità che non tiene contro che i 3.500 si trovavano all'interno di una proprietà privata e che il rave party non era stato autorizzato dalle autorità. Non esiste il diritto allo sballo. E tantomeno non esiste il diritto a occupare. È solo illegalità. Come è nell'illegalità che operano le Ong che ogni giorno riversano sulle nostre coste centinaia di clandestini. Accostare inoltre il degrado di Modena o i respingimenti delle navi nel Mediterraneo al raduno dei nostalgici del fascismo a Predappio è a dir poco fuorviante. Senza contare che, come ha fatto notare il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, "ci sono stati fior fiore di sindaci comunisti che hanno approfittato di queste date per fare economie locali".

I rave party sono la fiera dell'illegalità e dell'anarchia. Fermarli è doveroso. Federico Novella su Panorama il 31 Ottobre 2022.

Dallo sgombero (pacifico) a Modena alle decisioni del Consiglio di Ministri. Oggi è un giorno nero per chi credeva di poter continuare a fare quello che gli pare.

 C’è ancora chi pensa che i cosiddetti rave party siano un simbolo di libertà. Praticamente una festa di Paese, una processione religiosa, come le celebrazioni del santo patrono. Non scherziamo. La libertà di contravvenire alle regole non può essere ammessa, perché non è libertà: è anarchia. Ma non è solo questo. In Italia vale anche un discorso di eguaglianza dinanzi alla legge. In un paese in cui la burocrazia può rovinarti la vita per un divieto di sosta non pagato, non possiamo tollerare che si creino sacche di illegalità in cui si calpestano le più elementari norme sanitarie, fiscali, con l’utilizzo più o meno disinvolto di sostanze stupefacenti. Tollerare i rave party selvaggi e non autorizzati significa certificare la resa dello Stato.

Almeno finora, sembra che Piantedosi abbia fatto in pochi giorni ciò che non è riuscito alla Lamorgese in diversi anni. Anzi, di fatto possiamo certificare il “licenziamento” , nei fatti, della linea Lamorgese. Le operazioni di sgombero a Modena, dove tremila persone si erano date appuntamento a poche centinaia di metri dal casello autostradale, sono iniziate senza troppi problemi: è bastato minacciare il pugno duro per risolvere la situazione. Segno che parecchi nodi potrebbero sciogliersi facilmente se solo ci fosse la volontà politica. Il cambio di passo rispetto al passato è evidente. Ricordiamo con sgomento la follia della festa illegale di Mezzano, nell’agosto del 2021, quando per sei giorni una fetta del territorio nazionale venne messa a ferro e fuoco – e ci scappò purtroppo anche il morto – mentre, in lontananza, la pubblica sicurezza rimaneva tranquilla a guardare. Evidentemente, se nulla si fece, era perché mancava il coraggio delle istituzioni di far rispettare sé stesse. Il ripristino dell’ordine venne subordinato ad interessi politici, quelli di chi è convinto che i rave party siano ascrivibili al puro folklore, neanche fossero delle sagre paesane da tutelare. Il nuovo arrivato sulla poltrona del Viminale aveva promesso che la musica sarebbe cambiata, e in base ai primi segnali, così è stato. Oggi il consiglio dei ministri dovrebbe licenziare un decreto che sancisce una stretta sulle feste illegali, e che prevede sequestri e confische del materiale utilizzato, reclusione da tre a sei anni per gli organizzatori, e multe fino a 10 mila euro. Ci sarà senz’altro chi, di fronte a questo giro di vite, griderà all’autoritarismo. Ma assicurare il rispetto delle regole e la sicurezza di certi territori (nel caso di Modena, anche della comunicazione autostradale) non dovrebbe fare notizia. Al contrario, dovrebbe costituire la normale condotta di uno Stato democratico. La speranza è che la linea Piantedosi possa costituire un modello di governo, nel rispetto dei diritti di tutti: se si impone una linea, la si porti avanti con coraggio. La maggioranza silenziosa degli italiani approverà.

(ANSA il 27 Ottobre 2022) - E' accusato di omicidio e tentato omicidio plurimo il 46enne disoccupato che nel tardo pomeriggio di giovedì 27 ottobre ha accoltellato cinque persone in un centro commerciale di Assago, nell'hinterland milanese, uccidendone una e ferendo in modo grave altre quattro. A contestare i reati è il pm di MIlano Paolo Storari, che ha da poco cominciato a interrogare l'uomo che, secondo gli inquirenti, ha gravi problemi psichici. L'interrogatorio è videoregistrato.

(ANSA il 27 Ottobre 2022) - Si chiamava Luis Fernando Ruggieri, era un boliviano e aveva 46 anni l'uomo ucciso ieri pomeriggio al centro commerciale di Assago (Milano) da un coetaneo italiano con problemi psichici che ha accoltellato altre persone. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, la vittima era un dipendente della catena Carrefour e sarebbe stato uno dei primi a essere colpiti dall'aggressore. L'arma sarebbe stata recuperata proprio all'interno del supermercato dove lavorava Ruggieri. Quest'ultimo è morto durante la corsa in ambulanza per raggiungere l'ospedale.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 27 Ottobre 2022.

Un uomo di 46 anni, italiano, con problemi psichici, ha rischiato di fare una strage nel centro commerciale Milanofiori di Assago, a Milano. Ha afferrato un coltello dall'espositore all'interno del supermercato Carrefour e, all'improvviso, ha iniziato a colpire persone a caso, uccidendo un dipendente 47enne della catena di grande distribuzione e ferendone altre 5. Tra loro anche il calciatore del Monza, Pablo Marí. Tre di loro sono state trasportate in codice rosso in ospedale e il quadro clinico appare molto grave. 

Le persone coinvolte hanno dai 28 agli 81 anni. I carabinieri del comando provinciale di Milano stanno lavorando per ricostruire la dinamica, ma per ora escludono che possa esserci una matrice terroristica alla base del gesto.

Più probabile che l'uomo abbia colpito in preda a una crisi psichica esplosa all'improvviso. Tra i feriti anche Pablo Marí, difensore spagnolo del Monza, raggiunto da un fendente che non avrebbe provocato danni preoccupanti al calciatore di serie A. Secondo fonti vicine al Monza calcio, il difensore Pablo Marí è stato trasportato in codice rosso al Niguarda. Sarebbe comunque cosciente. All'ospedale ci sono anche Adriano Galliani, dirigente del Monza, e Raffaele Palladino, allenatore dei biancorossi. 

«Ora che siamo lontane siamo più tranquille ma eravamo veramente terrorizzate, non capivamo cosa succedeva, vedevamo gente scappare in lacrime - ha raccontato all'ANSA una ragazza che si trovava nel centro commerciale al momento dell'aggressione -. Mi è rimasta molto impressa una ragazza che piangeva, completamente sotto shock». Una scena da film americano, raccontano altri, che ancora faticano a ricostruire quanto accaduto poche ore fa.

«Eravamo al bar e pensavamo si trattasse di uno scippo perché abbiamo visto dei ragazzi e una signora correre, poi abbiamo visto sempre più gente con facce sconvolte e abbiamo capito che era successo qualcosa di grave», aggiunge un'altra ragazza che era nel bar del centro commerciale quando il 46enne si scagliava contro i passanti. «A un certo punto - continua la testimone - ha iniziato a parlare di pistole quindi molto gentilmente, mentre tirava giù la serranda, ci ha nascoste perché nemmeno lei capiva cosa stava succedendo. Siamo rimaste nel retro del bar mentre vedevamo anche il resto della ristorazione chiudere nascondendo le persone dentro. 

Poi dopo circa 5 minuti è arrivata una commessa del Carrefour che aveva assistito alla prima aggressione, non parlava di armi ma solo di un pazzo. Era sconvolta e la ragazza del bar l'ha soccorsa». Poco dopo, «abbiamo visto gente scappare e siamo andate via anche noi, siamo uscite mentre dall'altoparlante del centro commerciale chiedevano l'intervento urgente di un medico e ci siamo allontanate il più velocemente possibile. Ora, «sapere che l'hanno preso ci mette tranquille e speriamo - conclude - che i feriti possano cavarsela». Il dipendente del supermercato è morto durante il trasporto in ospedale.

L'uomo, di cui non sono state ancora fornite le generalità, si trova negli uffici del comando provinciale di Milano in via della Moscova, dove continuerebbe a profferire frasi prive di senso in linea con il suo evidente stato confusionale. Incensurato, era in cura da un anno per una grave crisi depressiva. Il caso è affidato al pm Paolo Storari. Nelle prossime ore il magistrato, che si è recato sul luogo in cui è avvenuta l'aggressione, interrogherà il 46enne, qualora quest'ultimo riuscisse a ritrovare la lucidità sufficiente. 

Francesco Calvi per gazzetta.it il 27 Ottobre 2022.

Pablo Marì, dall'ospedale di Niguarda dove è ricoverato dopo essere stato accoltellato nel centro commerciale di Assago, ha parlato con l'a.d. del Monza e l'allenatore Palladino che lo hanno raggiunto. Ecco le sue parole: "Oggi ho avuto suerte, perché ho visto una persona morire davanti a me". 

"Ero con il carrello con dentro il mio bambino - ha aggiunto lo spagnolo -, ho sentito un dolore atroce alla schiena. Dopodiché ho visto quest’uomo accoltellare una persona alla gola, davanti a me. Sto bene, lunedì sarò in campo", ha chiuso cercando di fare una battuta per esorcizzare lo schock di questa terribile disavventura.

 Altri particolari dell'accaduto li ha riferiti Galliani fuori dall'ospedale di Niguarda: "Pablo Marì mi ha detto che non si è accorto di nulla. Aveva il bambino nel carrello e la moglie al suo fianco. E all'improvviso ha sentito come un forte crampo alla schiena che era il coltello dell'aggressione. Probabilmente è stato salvato dalla sua altezza. Tutto questo è sconvolgente. La moglie è qui e ora i carabinieri la stanno interrogando. Come sta? Lui ha una forza incredibile. E sono vicino alla famiglia della vittima, è incredibile che una persona vada a lavorare e venga uccisa. Non ho parole".

Assago, cinque accoltellati al Carrefour, uno è morto: «Noi, barricati nei negozi». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

L'attacco nel centro commerciale e i racconti dei presenti sotto choc. Supporto psicologico ai dipendenti. Nei negozi barricati dietro le serrande abbassate Il governatore Fontana: serata amara per la Lombardia

Le telecamere del centro commerciale inquadrano le corsie centrali del supermercato. Sono le 18.35. I clienti si voltano tutti di scatto, in un’unica direzione. Le immagini non hanno il sonoro, ma i testimoni dicono d’aver sentito delle urla, forti, sconclusionate. Frasi senza senso. È in quella direzione che guardano tutti. Un uomo - in questo articolo: chi è Andrea Tombolini - cammina con in mano un coltello da cucina. Lo ha strappato dall'espositore dalla corsia dei casalinghi, ha aperto la confezione di plastica, ha liberato la lama, ha iniziato a muoversi tra i clienti. E ha colpito a caso. Quando i primi capiscono cosa sta succedendo lui è già dall’altra parte, dove ci sono le bibite, la frutta e i prodotti bio. Ora si sentono altre urla, sono di altri uomini e di donne. Gridano «aiuto». Gli altri corrono e scappano. Le mattonelle bianche del pavimento si ricoprono di sangue. Viene colpito anche il calciatore del Monza Pablo Marí, 29 anni, in prestito dall’Arsenal e qui insieme alla moglie. La coltellata lo prende alla schiena. È grave ma fuori pericolo. 

L’uomo con il coltello non corre ma barcolla. Si avvicina alle casse e colpisce per la quinta volta. Davanti a lui c’è Luis Fernando Ruggieri, 47 anni, origini boliviane, è uno dei capi dell’area casse. Non ha scampo. Ferite profonde al torace, muore mentre si tenta un trasporto in elisoccorso in ospedale. Poi si avvicina a una cassa e colpisce ancora. «L’ho visto arrivare, mi ha sfiorato con il coltello. Istintivamente ho spinto via mia figlia. Poi gli sono saltati addosso e lo hanno fermato», racconta una testimone terrorizzata. Lo bloccano i dipendenti del supermercato, gli addetti alla sicurezza, altri clienti. Tra loro anche l’ex calciatore interista Massimo Tarantino. Lo spingono a terra, cercano di allontanare il coltello. I carabinieri lo trovano sul pavimento, la lama è ancora vicino, ma lui non cerca più di scappare. L’uomo con il coltello si chiama Andrea Tombolini ha 46 anni, è nato a Milano, non ha precedenti. È stato in cura per una forte depressione. I genitori raccontano di un ricovero in psichiatria dopo un’operazione alla schiena, aveva firmato le dimissioni ed era uscito. Poi, il 18 ottobre era finito di nuovo al pronto soccorso: si era preso a pugni in testa e al volto. 

Nessuno sa perché abbia deciso di presentarsi ieri pomeriggio al centro commerciale Carrefour-Milanofiori di Assago, alle porte di Milano, proprio di fronte al Forum, per colpire a caso le sue vittime, agire come un mass murder. Quel che si sa di lui è che al centro commerciale sembra essere arrivato da solo, sette minuti prima di colpire. Ha ucciso Luis Fernando Ruggieri e ferito altre quattro persone. Tre sono ancora in condizioni critiche. Oltre al calciatore del Monza Marí (finito in ospedale in codice rosso), c’è anche una coppia di anziani e un cassiere. Hanno tutti ferite alla schiena e al torace. Sono stati colpiti di sorpresa. Tombolini viene portato in caserma, continua a farfugliare frasi senza senso. 

Ad Assago arrivano il pm Paolo Storari e i vertici dell’Arma con il generale Iacopo Mannucci Benincasa, comandante provinciale. «Sentivamo le urla, pensavo qualcuno stesse male — racconta la cassiera di un negozio —. Poi ci hanno fatto scappare». Sui social scoppia il panico: «Se siete ad Assago scappate, un pazzo sta accoltellando tutti». Dentro, tra le corsie della spesa, restano le tracce di un massacro ancora inspiegabile: «Non c’entra il terrorismo, non è stata un’azione eversiva», ripetono gli inquirenti. Ora si lavora per capire se Tombolini fosse seguito dai medici. E perché in un caldissimo giovedì di fine ottobre si sia comportato come un killer di massa.  

Pierpaolo Lio per il “Corriere della Sera” il 28 ottobre 2022. 

Sono i volti terrorizzati delle persone in fuga a far intuire il terrore, a stravolgere un banale giovedì pomeriggio. Per alcuni interminabili minuti, la ressa al Carrefour di Assago, comune alle porte di Milano, vive il panico senza sapere e senza capire. Osserva pietrificata la gente terrorizzata e in lacrime allontanarsi a perdifiato. Sente le urla di spavento, i singhiozzi. Ma non vede nulla.

«Io ero lì, stavo entrando mentre iniziavano a scappare le prime persone - racconta ad esempio Domenico Anselmo -. Non si capiva niente, tantissimo terrore, e un fuggi fuggi generale». 

Come lui, sono in molti a scoprire la follia esplosa tra le corsie solo più avanti, mentre le sirene s' affollano tutt' attorno. 

Mentre la comunità dei dipendenti intanto s' attiva, telefonino alla mano, per capire, per sincerarsi delle condizioni dei colleghi. «L'ho saputo dalla tv, e abbiamo iniziato tutte a chiamarci e a scriverci», spiega Giovanna Fontana, da tempo in pensione, ma ancora legata a molti al punto vendite di Assago. «È stato un incubo, mi hanno detto. Si sono trovati davanti questo matto». L'aggressore ha detto qualcosa? «Non lo sanno, troppa confusione, urla, caos».

«Luis è stato sfortunato», dice della vittima: «Non lo conoscevo bene, lavorava ai reparti, andava in cassa solo raramente». Tra i feriti c'è un altro dipendente, di 40 anni, a cui è molto legata: «Un ragazzo d'oro. Lo conosco da quando, studente universitario, era arrivato in stage». In quei momenti, mentre sulle pagine social della zona rimbalzano gli avvertimenti a non avvicinarsi, all'interno chi non riesce a prendere la via dell'uscita cerca riparo dove può. 

Spesso è l'aiuto di commercianti e commesse dei negozi affacciati sulla galleria centrale a offrire un nascondiglio per sottrarsi all'incubo. «Lì per lì ho preso una cliente e l'ho portata nel magazzino», è la prima reazione della dipendente della boutique Capello point: «Non potendo chiudere il negozio da dentro, ho pensato di rinchiuderci nel magazzino. Qua di fronte ci sono le casse e l'uscita: se l'aggressore non vede nessuno, prende e va, è stato il mio ragionamento».

Non c'è tempo per scoprire da cosa bisogna mettersi al sicuro. C'è chi parla di «un pazzo che tirava coltellate a caso», il panico che si rincorre da corsia a corsia, e l'input è solo scappare o nascondersi. «C'era chi gridava, gente che correva, le guardie - ricorda sempre la donna -. Ci hanno detto di evacuare tutti, evidentemente perché pensavano che l'aggressore potesse uscire». «Io avevo sentito qualcuno gridare aiuto, e ho immaginato che qualcuno si fosse sentito male: non ho visto nessuno insanguinato. Poi ho visto la gente scappare, i carabinieri». 

È lo stesso che capita a una ragazza, ancora scossa da quanto accaduto, «rinchiusa» dentro a uno dei bar per tenere fuori la follia. «Vedevamo anche il resto della ristorazione chiudere nascondendo le persone dentro»: «Eravamo veramente terrorizzate, non capivamo cosa succedeva, vedevamo gente scappare in lacrime. Mi è rimasta molto impressa una ragazza che piangeva, completamente sotto choc. Alla fine siamo uscite mentre dall'altoparlante chiedevano l'intervento urgente di un medico». 

Oggi il Carrefour sarà chiuso per lutto. Ha attivato un servizio di supporto psicologico. «Siamo profondamente addolorati nell'apprendere del decesso di un nostro dipendente. Ci stringiamo attorno alla sua famiglia - afferma il ceo Christophe Rabatel - e siamo vicini alle famiglie delle altre vittime».

Esprimono solidarietà il presidente del Senato, Ignazio La Russa, il Comune di Assago e il governatore Attilio Fontana: «Serata amara per la Lombardia».

(ANSA il 28 ottobre 2022) - La Procura di Milano ha suggerito a Carrefour di ritirare dagli scaffali di tutti i suoi supermercati italiani i coltelli in vendita. Un invito, secondo quanto si apprende in ambienti giudiziari milanesi, per il timore di eventuali episodi di emulazione dopo quanto accaduto ieri sera nel punto vendita della catena della grande distribuzione ad Assago, nel Milanese.

Pierpaolo Lio per corriere.it il 28 ottobre 2022.

Giovedì il 46enne Andrea Tombolini ha afferrato un coltello dall'espositore all'interno del supermercato Carrefour nel centro commerciale Milano Fiori di Assago, a Milano, e ha colpito cinque persone, fra le quali il calciatore del Monza Pablo Marì, uccidendone una, il 47enne Luis Fernando Ruggieri. L'aggressore è stato bloccato e portato in caserma: ora è accusato di omicidio e tentato omicidio 

I fendenti lo raggiungono alle casse, dove lui non avrebbe dovuto esserci. «È stato sfortunato», spiegava poche ore dopo Giovanna Fontana, ex cassiera al Carrefour di Assago, oggi in pensione. Luis Fernando Ruggieri, il 47enne dipendente accoltellato a morte giovedì dalla folle furia di Andrea Tombolini, lavorava infatti in reparto. Acque minerali, quello era il suo settore di competenza. «Ma a volte gli chiedevano di aiutare in cassa, può succedere». Dal 2017 abitava con la compagna a Trezzano sul Naviglio, dall'estate scorsa si era ritrasferito a Milano.

Luis era arrivato nel colosso francese della grande distribuzione solo da tre anni, dopo una lunga carriera in Esselunga («21 anni e mezzo», scriveva lo stesso Luis nel suo profilo LinkedIn) è una serie di brevi esperienze formative in Auchan, Amazon, Eurospin. Di origini boliviane, adottato da una famiglia italiana, Luis aveva studiato al liceo scientifico Piero Bottoni. Poi, la decisione di affrontare da studente lavoratore il Politecnico: Ingegneria informatica.

La laurea però la conseguirà più tardi, approfittando della pausa forzata del lockdown, in Scienze biologiche. «Per non sprecare il tempo in attesa di un lavoro nel periodo del lockdown - spiegava - ho ricominciato a studiare. Per interesse privato, in futuro vedremo». La sua scelta era caduta su un ateneo online, Unicampus, per non restare con le mani in mano e «non ostacolare eventuali opportunità lavorative come questo percorso in Carrefour».

«Era mio figlio, un bravo ragazzo, un lavoratore, pugnalato alla schiena da un pazzo», ha detto il padre Federico Ruggeri, rientrando a casa con la voce rotta dal pianto. «L'ho adottato da piccolino, l'ho amato sempre e lui mi voleva un bene dell'anima». «Ha sempre cercato di migliorarsi», ha aggiunto.

Omicidio di Assago, il dolore del papà di Luis Fernando Ruggieri: «Un pazzo me l’ha ucciso». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Il padre: «L’ho adottato da piccolino, l’ho amato sempre e lui mi voleva un bene dell’anima»

«Era mio figlio, un bravo ragazzo, un lavoratore. Ed è stato pugnalato alla schiena da un pazzo». Federico Ruggieri ha la voce rotta dal pianto, lo sguardo incredulo di chi è stato travolto dall’incubo. È il padre di Luis Fernando, il 47enne dipendente del Carrefour di Assago ucciso giovedì tra le corsie del supermercato alle porte di Milano dalla folle furia di Andrea Tombolini. È il primo pomeriggio quando il pensionato torna a casa, nel quartiere Bonola, dove negli ultimi mesi anche Luis era tornato a vivere. 

Al mattino aveva raggiunto la casa della compagna di Luis, a Trezzano sul Naviglio, dove il figlio aveva convissuto per cinque anni, per provare a condividere il dolore, per vedere se sorreggendosi a vicenda la tragedia possa fare meno male. Ed è là che ricorda l’ingresso nella sua vita di quel bimbo nato a La Paz, in Bolivia, accolto in una famiglia che pochi anni dopo vedrà la scomparsa della moglie. «L’ho adottato da piccolino, l’ho amato sempre e lui mi voleva un bene dell’anima», dice al Tg3. Per l’assassino non ha parole d’odio. Lo chiama «quel signore pazzo», che «dovevano prendere prima che facesse il casino che ha fatto». I fendenti hanno raggiunto Luis alle casse. «È stato sfortunato», spiegava poche ore dopo Giovanna Fontana, cassiera oggi in pensione. Luis lavorava nel reparto acque minerali, «ma a volte gli chiedevano di aiutare in cassa, succede». 

Era arrivato nel colosso francese della grande distribuzione da neanche tre anni, dopo una girandola di contratti con altre catene e una lunga parentesi in Esselunga («21 anni e mezzo», scriveva nel suo profilo LinkedIn). «Era discreto, un ragazzo serio, sempre educato e gentile e molto legato al padre», dicono di lui i vicini. «Una persona speciale, sempre sorridente, disponibile e gran lavoratore. Mancherai a tutti noi», scrive sui social Monika Forello, un’amica. «Ha sempre cercato di migliorarsi», aggiunge il padre, ricordando la sua determinazione. Luis aveva studiato allo scientifico Piero Bottoni. Poi, l’iscrizione al Politecnico: Ingegneria informatica, cinque esami, gli studi messi in pausa per dedicarsi al lavoro. Il sogno della laurea gli resta, però.

A marzo 2020 l’Italia si blocca, e «per non sprecare il tempo in attesa di un lavoro nel periodo del lockdown» sfrutta la pausa forzata per rimettersi sui libri: Scienze biologiche, stavolta, «per interesse privato, in futuro vedremo». Dà sette esami (sfiorando il 30, ma per quello «bisogna solo aspettare», ne era convinto), mentre la sua carriera riparte poco dopo, da Carrefour. Il lavoro era la sua vita. E sul lavoro, anni prima, aveva conosciuto la sua compagna. Francesca Mazzini è scossa dal pianto, non riesce a raccogliere le forze per parlare: «Era il più dolce del mondo, era buono, e io l’amavo», singhiozza. Sui social lo ricorda con una foto assieme: «Mi hai lasciato per sempre, amore mio — scrive — cosa farò adesso senza di te».

(ANSA il 28 ottobre 2022) - "Pensavo di star male, di essere ammalato. Ho visto tutte quelle persone felici, che stavano bene, e ho provato invidia": è quanto ha detto in sintesi Andrea Tombolini al pm di Milano Paolo Storari che lo ha arrestato, con le accuse di omicidio e tentato omicidio plurimo, per aver accoltellato le persone tra gli scaffali del supermercato Carrefour in un centro commerciale di Assago, nel Milanese. 

Nelle prossime ore il pm inoltrerà la richiesta di convalida dell'arresto del 46enne, che era in cura per problemi mentali, e si trova ora piantonato all'ospedale San Paolo nel reparto di Psichiatria.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 28 ottobre 2022. 

Solitario, senza una fidanzata, praticamente senza amici. Andrea Tombolini, il responsabile degli accoltellamenti di giovedì sera al Centro Commerciale Milanofiori di Assago, alle porte di Milano, era una specie di hikikomori di 46 anni, un ragazzo cresciuto con i genitori, quasi impaurito dal mondo che aveva intorno. «Persone perbene», ripetono conoscenti e investigatori parlando di mamma e papà Tombolini, che hanno sempre cercato di stare vicino a quel figlio «ansioso» e «premuroso». Non s’era isolato dalla società per scelta, ma fin da ragazzo era rimasto naturalmente ai margini delle compagnie di amici, del divertimento, della vita.

«Non era mai stato aggressivo né violento», ha ripetuto per ore il padre sconvolto davanti ai carabinieri. Parole che sembrano una difesa di circostanza davanti alle immagini delle telecamere di sorveglianza del Carrefour di Assago che mostrano Tombolini correre come una furia con il coltello in pugno e ferire a caso le sue vittime. Invece sembra davvero sia così. 

Perché prima dell’assalto di giovedì pomeriggio nel centro commerciale di Assago il solo episodio violento che lo riguarda sarebbe legato a un ricovero in pronto soccorso, il 18 ottobre, dopo un gesto autolesivo. In quell’occasione sarebbero stati gli stessi familiari di Tombolini a chiamare i soccorsi: lui in preda a una crisi s’era preso a pugni in testa e in faccia.  

Aveva fatto tutto da solo e davanti ai medici del San Paolo non era riuscito a spiegare il perché. Se ne era andato dall’ospedale con una segnalazione ai servizi psichiatrici per approfondimenti. Un iter di base, a cui non avevano fatto seguito ricoveri urgenti o trattamenti sanitari obbligatori. «Un disagio non attenzionato ma perché non aveva mai dato segnali di aggressività».  

Tombolini era tornato a casa con i genitori, in un quartiere delle periferia sud di Milano, alla sua vita solitaria e nel suo mondo chiuso e isolato. Nel suo fascicolo sanitario, ora al centro degli approfondimenti dei carabinieri coordinati dal pm Paolo Storari, risulterebbe un’altra crisi, ma non violenta, dopo un intervento alla schiena. Non «una delicata operazione alla colonna vertebrale» come il 46enne diceva ai genitori, ma un intervento di routine, senza nessuna conseguenza fisica.

Ma per lui era diventata una sorta di ossessione, come se «fosse un malato grave, in procinto di morire», hanno raccontato i genitori agli investigatori. Non era così, ma nella sua testa quell’idea aveva iniziato a rimbalzare martellante.  

Ora Tombolini è ricoverato piantonato in una stanza del reparto di psichiatria del San Paolo. Le sue condizioni sono apparse agli inquirenti incompatibili con il carcere, per il momento, anche se è in arresto per omicidio e tentato omicidio. È stato interrogato dal pm Paolo Storari, ha scelto di non avvalersi della facoltà di non rispondere, ha raccontato alcuni flash di quanto successo ieri.

Ma ora la sua versione dovrà essere confermata dagli accertamenti degli investigatori. Ora è nella mani dei medici nel tentativo di fargli ritrovare un po’ di lucidità. Non ha ancora spiegato nel dettaglio il perché del suo raid con il coltello in pugno.  

Quando i carabinieri del radiomobile di Corsico lo hanno fermato era a terra vicino alle case, sporco di sangue, urlava soltanto «ammazzatemi». Con gli investigatori non è mai stato aggressivo, s’è lasciato ammanettare e portare via. 

Al Carrefour era arrivato sette minuti prima di compiere l’assalto. Lo hanno confermato le telecamere esterne. Ha parcheggiato la sua bici all’esterno, è entrato, poi s’è diretto verso la corsia dei casalinghi. Ha preso con facilità un coltello dall’espositore dopo averlo scelto con cura (ora Carrefour sta prendendo misure di sicurezza in tutti i supermercati) poi ha atteso qualche secondo prima di lanciarsi di corsa tra i reparti. «Urlava parole senza senso», dicono i testimoni. Urlava e colpiva. Tutto è durato un minuto. Poi è stato fermato, è caduto a terra e si è lasciato arrestare. Come se la sua esplosione di rabbia fosse finita insieme alle sue forze.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 29 ottobre 2022.

Sette minuti. È il tempo che impiega il 47enne Andrea Tombolini per il suo blitz omicida. Le telecamere del centro commerciale Milanofiori di Assago, mostrate in esclusiva nel servizio di Giacinto Pinto al Tg1 delle 20, mostrano l’ingresso di Tombolini nel supermercato. Indossa una tuta e un giubbino scuro, ha un borsello a tracolla. 

Si avvicina alla corsia dei casalinghi, dall’espositore estrae un coltello. Poi inizia a correre. Nelle immagini successive si vede la fuga, disperata, dei clienti. Tombolini impiega 60 secondi esatti per colpire cinque persone e uccidere Luis Fernando Ruggieri. Nei video si vede il 47enne cadere a terra, vicino alla cassa 19. 

Nella schermata compare l’ex terzino interista, oggi dirigente della Spal, Massimo Tarantino. Sferra un calcio alla mano di Tombolini e riesce ad allontanare il coltello. Poi arriva la security del supermercato che lo immobilizza. Infine, l’arrivo dei carabinieri che ammanettano il 47enne e lo accompagnano in una stanza dell’ufficio dirigenza, mentre il centro commerciale viene evacuato.

Cesare Giuzzi e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2022.

Come una «bomba» ignota a tutti ma pronta a esplodere, la psiche dell'accoltellatore dell'ipermercato di Assago, Andrea Tombolini. E chissà se, beffa del destino, almeno la contraerea di una «valutazione psichiatrica» consigliata» il 18 ottobre e fissatagli per il 7 novembre, avrebbe magari potuto intercettare. 

Quella «valutazione psichiatrica» di nuovo richiamata da un appunto interno dell'ospedale San Paolo proprio il giorno prima della tragedia, mercoledì 26 ottobre, quando alle ore 15.17 Tombolini al «triage» aveva lamentato «persistenza di cefalea dopo colpi autoinflitti» il 18 ottobre, salvo poi allontanarsi prima di essere visitato.

E così, in questa sliding door che a ogni bivio di possibile presa in carico della sua psiche disturbata sembra invece aver imboccato la strada più sfortunata, l'uomo con il coltellaccio in mano finisce per somigliare, più che a un «missile» di superficie, a una insidiosa «mina» sotto terra: sulla quale giovedì 27 ottobre alle 18.35 mettono inconsapevolmente il piede e «saltano» in aria, percorrendo per lavoro o per fare la spesa i corridoi dell'ipermercato Carrefour di Assago Milanofiori, sei ignare persone.

Che mandano in tilt mentale Tombolini proprio mentre sta pensando di togliersi la vita: dallo scaffale «ho preso un coltello per farla finita, avevo intenzione di colpirmi», ma «ho visto le persone e ho deciso di colpirle per sopprimere la mia rabbia. Se devo descrivere il mio sentimento, era di invidia: perché le persone che ho colpito stavano bene, mentre io stavo male. Ritengo di avere un tumore e di dover morire». 

Ipocondriaco, senza amici, senza relazioni, senza lavoro, senza profili social, «troppo silenzioso» (dice il padre distrutto), «troppo sempre in disparte» (dice la madre in lacrime), «che al massimo si fermava a parlare di politica, ce l'aveva con tutti, destra e sinistra», racconta un vicino. Dal 2013 in un alloggio al piano terra di un palazzo Aler, il 46enne viveva in via Neera nel quartiere Stadera proprio con gli anziani genitori al centro dell'unica crisi che, col senno di poi, può essere ora riletta.

Alle 18.30 del 18 ottobre, il padre chiama la polizia perché il figlio ha spinto lui e la madre in cortile. Quando arrivano gli agenti, la situazione si è già tranquillizzata, anche se la vicina di pianerottolo ricorda di aver sentito (nel momento della lite) che «il papà urlava "io a 80 anni non voglio essere ammazzato da te"». 

Andrea Tombolini chiede comunque di essere portato in ospedale per «una gastrite». E in ambulanza all'improvviso «si prende a pugni in testa e al viso»: gesto «autolesivo», scrivono i sanitari, a seguito del quale il medico di base di Tombolini gli prescrive appunto quella visita psichiatrica in agenda il 7 novembre, e richiamata nell'appunto del 26 ottobre. Nel Carrefour si aggira 7 minuti, ma solo 60 secondi passano da quando sferra a casaccio la prima coltellata (con la lama di 20 cm presa dallo scaffale) a quando viene immobilizzato da clienti (come l'ex calciatore dell'Inter Massimo Tarantino) e dipendenti, mentre lui farfuglia «uccidetemi, sono pazzo».

A terra lascia 6 persone: a cominciare dal quasi suo coetaneo dipendente del supermercato Luis Fernando Ruggieri, che, sfortuna nella sfortuna, è il penultimo a essere colpito da una sola coltellata ma mortale. 

Alle due di notte in ospedale interrogato alla presenza del tenente colonnello Domenico La Padula, del pm Paolo Storari e dell'avvocato d'ufficio Daniela Frigione, abbozza le sue ultime ore: la sera «male per un reflusso gastrico», gastroscopia di pomeriggio, quindi giro in bici fino all'ipermercato, occhiali, corporatura robusta e andatura caracollante: «Però prima sono andato su un balcone e ho avuto pensieri di suicidio che non ho portato a termine. A casa con un coltello provai a ferirmi ma non ci riuscii, lo feci perché mi sono operato alla schiena e sono stato male».

Giura di «prendere solo lo Xanax», inoltre «non uso droghe e nemmeno fumo», poi invece alla gip Patrizia Nobile ieri sera dice di aver consumato in passato Lsd. Butta lì passati problemi di alcolismo, ma poi «mi sono curato da solo perché ho reflusso e non posso più bere». E se giovedì notte balbetta «mi sembra impossibile aver fatto quello che ho fatto, non sono un violento, in passato ho avuto rabbia per motorini o bici del Comune, mi sembra impossibile avere rovinato la mia vita e quella delle persone che ho ucciso e ferito, sono pazzo», ieri sera a fine interrogatorio domanda candido: «Adesso mi riportate a casa?».

Cesare Giuzzi e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2022.

«Quando ho visto che tra i clienti dell'ipermercato c'era un calciatore del Milan, ho provato invidia perché lui stava bene e io invece male. Allora l'ho colpito con un coltello. Potevo fermarmi lì, invece non so cosa mi è preso, e ho cominciato a colpire altre persone», assicura stralunato venerdì sera alla gip Patrizia Nobile l'accoltellatore dell'ipermercato Carrefour di Assago Milanofiori. 

E, per quanto sfasata, questa narrazione del 46enne Andrea Tombolini coincide con la testimonianza della moglie del difensore Pablo Marí sul fatto che il marito non fosse stato colpito a casaccio, ma inseguito deliberatamente e poi accoltellato dall'aggressore. L'errore sulla maglia del calciatore - che non ha mai militato nel Milan ma gioca nel Monza guidato dall'ex numero uno dei rossoneri Adriano Galliani, precipitatosi quella sera a visitare il giocatore - tradisce che probabilmente Tombolini deve avere poi orecchiato che una delle sei persone che aveva ferito (oltre al dipendente assassinato Luis Fernando Ruggieri) fosse un calciatore, e dunque ora inventa di averlo riconosciuto. Tanto che la gip rimarca come né dalla moglie né da altre fonti emergano elementi «dai quali dedurre la non occasionalità dell'aggressione e il suo collegamento alla professione del calciatore».

Ma quello che probabilmente è vero è che a mandare in tilt la psiche disturbata di Tombolini, ossessionato dall'ipocondria e tormentato da pensieri di suicidio, deve davvero essere stata la scena della famiglia felice di quei due giovani sposi con il bambinetto nel sedile del carrello della spesa. Dalla convalida dell'arresto ieri pomeriggio, peraltro, emerge un terzo momento nel quale con un po' di fortuna una qualche presa in carico psichiatrica avrebbe forse potuto deviare la traiettoria della sua montante aggressività, infine esplosa giovedì pomeriggio. 

Sinora si sapeva della polizia fatta intervenire il 18 ottobre dai genitori buttati fuori di casa dal figlio, tensione poi però subito rientrata prima dell'arrivo degli agenti, con successiva richiesta del 46enne di andare in ospedale per la gastrite, e che nel tragitto aveva avuto gesti di autolesionismo (pugni in faccia e in testa) tanto che gli era stata programmata una visita psichiatrica il 7 novembre.

E si sapeva del suo essersi presentato proprio il giorno prima delle coltellate, il pomeriggio del 26 ottobre, all'ospedale San Paolo per la testa che ancora gli faceva male, «triage» che in un appunto medico interno richiamava il consiglio del 18 ottobre di visita specialistica, ma dal quale Tombolini si era però poi allontanato prima ancora di essere visitato. Adesso, invece, emerge che anche il 19 ottobre aveva avuto uno scoppio di ira con «distruzione di oggetti scagliati contro i genitori», i quali avevano «richiesto l'intervento delle forze dell'ordine»: ma «condotto al pronto soccorso» ancora una volta «se ne era allontanato a piedi».

Un'escalation negativa affiora nel racconto del padre, che la colloca «nelle ultime due settimane in cui é peggiorato il suo umore, ha smesso di parlare o parlava solo di suicidio». Il medico di base spiega agli inquirenti di avergli prescritto 5 mesi fa gocce di benzodiazepine, mentre dovrà essere verificato se sia vero ciò che Tombolini narra alla gip e all'avvocato Daniela Frigione (dopo aver negato al pm uso di droghe), e cioè di essere stato 20 anni fa «in cura» da uno psichiatra per il consumo di Lsd. Nei test del tossicologici eseguiti giovedì è emerso solo l'uso di benzodiazepine. Ieri la gip sposa la scelta del pm Paolo Storari di metterlo agli arresti non in carcere (anche per proteggerlo meglio da rischi di suicidio) ma in casa di cura, nel reparto di psichiatria del San Paolo con piantonamento di due agenti, in attesa di «auspicabili approfondimenti sulla sua imputabilità».

Andrea Tombolini, chi è il 46enne con problemi psichici che ha accoltellato 5 persone ad Assago.  Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Nel suo passato vari ricoveri in Psichiatria. L'ultimo passaggio al Pronto soccorso solo pochi giorni fa: si era colpito violentemente da solo al volto e alla testa.  Le accuse: omicidio e tentato omicidio 

Ha 46 anni e da tempo soffre di problemi psichici: questo il ritratto di Andrea Tombolini, il responsabile degli accoltellamenti di giovedì sera al Centro Commerciale Milanofiori di Assago, alle porte di Milano.

Gli accoltellati ad Assago

Un uomo è morto - il 47enne di origine boliviana Luis Fernando Ruggieri, dipendente del supermercato Carrefour - e altre 4 persone sono rimaste ferite.

Andrea Tombolini e i problemi psichici

Andrea Tombolini in passato è già stato ricoverato in Psichiatria per una forte depressione. L'ultimo passaggio al Pronto soccorso solo pochi giorni fa: si era colpito violentemente da solo al volto e alla testa. Tombolini dovrà rispondere ora di omicidio e tentato omicidio. 

Chi è Massimo Tarantino, l’ex difensore che ha disarmato l’accoltellatore del Carrefour di Assago. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

L’ex calciatore di Napoli, Inter e Bologna è stato tra i primi a immobilizzare l’uomo che ha ucciso un dipendente del Carrefour e accoltellato il difensore del Monza Pablo Marì 

«Urlava e basta». Due parole, affidate agli inquirenti da Massimo Tarantino, ex difensore di Napoli, Inter e Bologna (ma con una breve parentesi anche a Monza) e ora dirigente della Spal, in serie B, ancora sconvolto per quanto appena successo. L’ex calciatore è stato tra le prime persone intervenute nell’ipermercato di Assago, alle porte di Milano, per disarmare e immobilizzare il 46enne che, brandito un coltello da cucina dagli scaffali del Carrefour, ha accoltellato diverse persone (tra cui anche il difensore del Monza Pablo Marì) e ucciso il cassiere Luis Fernando Ruggieri.

«Io eroe? Non ho fatto niente...» dice ai giornalisti presenti all’esterno dell’ipermercato l’ex difensore 51enne originario di Palermo che, chiusa la carriera da calciatore nell’estate 2006 al Pavia, ha subito superato l’esame da direttore sportivo e ha lavorato prima per il Bologna e poi per la Roma (al fianco di Bruno Conti nella gestione del settore giovanile), prima di abbracciare il progetto Spal nell’estate 2021.

Tarantino era tra i clienti dell’ipermercato che, sentite le urla di Andrea Tombolini (ora in stato di fermo), si è avventato su di lui assieme ad altre persone e lo ha bloccato a terra, distante dal coltello con cui aveva colpito a morte il cassiere e ferito altri avventori del negozio.

Il mito di Altobelli, Beccalossi e Rummenigge

Figlio d’arte (suo papà Bartolomeo fa anche una breve apparizione in serie A con le maglie di Roma e Venezia negli anni ‘60) è il terzo di quattro fratelli tutti con il calcio nel dna. Anche se era su Gianni, il fratello maggiore, che erano riposte le aspettative maggiori: «Su di lui, ruolo centrocampista — racconterà poi Massimo — erano riposte le speranze di mio padre. Giocava nelle giovanili del Palermo con Zeman che lo chiamava “il professore”». Invece a trovare la via della serie A è Massimo, cresciuto nel mito di Altobelli, Beccalossi e Rummenigge e con l’Inter nel cuore.

L’incontro con Maradona

Ma è a Napoli che arriva la prima grande occasione. Ed è lì che ha la fortuna di incrociare, seppur per pochi mesi, Diego Armando Maradona: «Allora guardavamo con timore gli anziani. Una volta dovevo chiedere una cosa a Maradona: ho mandato avanti Francini». Erano gli sgoccioli dell’avventura del Diez nello stadio che ora porta il suo nome. Un giorno scompare. «Tornò alla vigilia della partita con la Fiorentina e partì dalla panchina, accanto a me. Quella domenica non la scorderò mai. Salivo le scale che portavano sul prato del San Paolo dietro di lui. Quando siamo entrati in campo ci ha accolti un incredibile boato. Un’emozione unica percorreva lo stadio. Non l’ho mai più avvertita. Avevo la pelle d’oca».

L’Inter e il Bologna

Non fa in tempo a vincere lo scudetto (quell’anno va in prestito al Monza), ma lo sente comunque un po’ suo: «Quella era casa mia». Qualche anno più tardi Boskov gli dice che l’Inter lo voleva, ma un brutto infortunio, una volta in nerazzurro, gli impedisce di giocarsi la grande occasione (alla fine scenderà in campo solo due volte in Coppa Italia per un totale di 156 minuti). E ricomincia da Bologna, dove«ho trovato il miglior ambiente possibile e una società che mi ha aiutato».

Massimo Tarantino e le coltellate ad Assago: «L’ho disarmato d’istinto, ma non sono un eroe». Monica Colombo e Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

L'ex difensore di Napoli, Inter e Bologna: «Ero al posto sbagliato al momento sbagliato ma ho fatto la cosa giusta per proteggere mia moglie e mia figlia. Sono sconvolto»

«Non ero preparato psicologicamente ad affrontare un evento tragico come quello che è accaduto sotto i miei occhi giovedì ad Assago. Mi deve credere se le dico che sono in difficoltà a parlarne, e non solo per quello che ho visto. Vorrei evitare di passare per uno che ruba la scena ai protagonisti. Io sto bene, ma ci sono persone in ospedale (come Pablo Marì del Monza, ndr ) e addirittura una che non ce l'ha fatta».

Massimo Tarantino dovrebbe in teoria essere avvezzo ai riflettori, non foss'altro perché prima di diventare dirigente sportivo è stato un difensore di Napoli, Inter e Bologna tra le varie squadre, con anche una parentesi al Monza a fine anni Ottanta, per ironia della sorte. È stato responsabile dell'area tecnica della Spal fino al 30 giugno scorso. «Poi non ho proseguito il rapporto di collaborazione». Giovedì sera era al centro commerciale dove ha svolto un ruolo non secondario nel fermare Andrea Tombolini.

Riavvolgiamo il nastro.

«Ero con mia moglie Tatiana e mia figlia Giorgia di 22 anni al supermercato a fare la spesa. Ci trovavamo in fila alla cassa con il carrello quando abbiamo sentito delle urla».

Si è spaventato?

«In un primo momento è calato il silenzio, perché tutti abbiamo cominciato a chiederci cosa stesse succedendo. Poi è sbucata una persona con la maglia sporca di sangue. A quel punto si è generato il panico, c'era gente che scappava a destra e sinistra».

Eppure non era ancora avvenuto il peggio.

«Purtroppo no. Nel fuggi fuggi generale un uomo con il coltello in mano è corso nella mia direzione, finché un dipendente del Carrefour si è frapposto fra me e lui. E ha preso la coltellata».

Lei cosa ha pensato?

«È stata una questione di attimi, non c'era il tempo di razionalizzare. Semplicemente ho dato un calcio al braccio dell'aggressore facendogli volare via il coltello. A quel punto l'ho immobilizzato finché non sono arrivate le forze dell'ordine che lo hanno preso in custodia».

Mi scusi ma non ha temuto per la sua incolumità?

«È stata una mossa irrazionale, mica sono addestrato. Non sono scappato perché il mio istinto primario è stato quello di proteggere mia moglie e mia figlia. Ho solo tentato di disarmarlo».

Cosa ha detto Tombolini quando l'ha bloccato a terra?

«Urlava, ma tutti gridavano in quel momento, non si capiva niente. C'era il caos generale. Poi quando è stato disarmato è rimasto immobile, si vedeva che non era lucido. Gli agenti sono sopraggiunti dopo poco, anche se in questo momento non ho bene la percezione del tempo».

Non si è svolta davanti a lei l'aggressione a Luis Fernando Ruggieri, quindi?

«No, perché è avvenuta nelle corsie centrali del supermercato. Credo che sia successo quando abbiamo sentito le prime due-tre urla, cioè al momento dei primi accoltellamenti. Solo in un secondo momento si è creato il panico nella zona delle casse».

Milano si è scoperta impreparata davanti al gesto di un folle?

«Tutti lo siamo stati. Si parla di vita ordinaria delle persone, in coda con il carrello alla cassa. Ma, ripeto, io sono sconvolto soprattutto per chi ha non ce l'ha fatta, per la sua famiglia e per chi ha subito le ferite».

Cosa prova ora?

«Non mi sento un eroe, anzi a dirla tutta provo disagio nel ritrovarmi al centro dell'attenzione. Reputo solo di aver fatto la cosa giusta dopo essermi trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato».

Riuscirà a tornare nella corsia di un supermercato o sceglierà la consegna a domicilio?

«Guardi, ho 51 anni e da tutta la vita faccio la spesa negli ipermercati. Un episodio, pur devastante, non può condizionare la vita mia e della mia famiglia. Non ci può rubare la quotidianità».

Da ilnapolista.it il 28 ottobre 2022.

Il giocatore del Monza, Pablo Marì, è stato operato questa mattina per le conseguenze della coltellata ricevuta ieri nel supermercato di Assago, alla periferia di Milano. Secondo le prime notizie, gli sarebbero stati suturati i muscoli danneggiati dall’aggressione. La Gazzetta dello Sport scrive che il difensore dovrà fermarsi per almeno due mesi. 

Anche oggi, in ospedale, al suo fianco, era presente il dirigente del club, Adriano Galliani, che da ieri è vicino al calciatore e che per primo, questa notte, ha aggiornato e rassicurato tutti sulle sue condizioni, riportando anche le sue prime parole. 

A fermare l’aggressore, con problemi psichiatrici alle spalle, è stato l’ex terzino del Napoli, Massimo Tarantino. 

“Urlava, urlava e basta. Io eroe? Non ho fatto niente…”. 

E’ stato lui che ieri pomeriggio ha fermato l’uomo che ha accoltellato le persone che facevano la spesa al Carrefour in un centro commerciale di Assago, compreso il difensore del Monza Pablo Marì. Un ex difensore che difende un altro difensore.

Marì resterà in osservazione in ospedale un paio di giorni, poi potrà fare rientro a casa. Per vederlo di nuovo sui campi, però, occorrerà aspettare il nuovo anno. 

Queste le prime parole di Marì ieri, dopo l’aggressione:

«Ho avuto fortuna, perché ho visto una persona morire davanti a me. Avevo il carrello, con dentro il bambino. Ho sentito un dolore atroce alla schiena. Dopodiché ho visto quest’uomo accoltellare una persona alla gola, davanti a me. Sto bene, lunedì sarò in campo…». 

L’amministratore delegato del club, Galliani, aveva invece fornito dei dettagli sul ferimento del giocatore: «Marì ha subìto una ferita abbastanza profonda sulla schiena, i tagli hanno lesionato i muscoli, non organi vitali, il ragazzo non è in pericolo di vita. Certamente ha problemi, ma mi dicono che dovrebbe riprendersi abbastanza rapidamente. Ha dei muscoli lesionati. Le lesioni ci sono, ma non gravissime. Lui è cosciente. Ha ferite anche alla bocca, lui non ricorda come se le sia procurate, forse ha avuto una colluttazione, gli hanno dato due punti sul labbro. Psicologicamente mi è sembrato stesse abbastanza bene, è lucido». 

Questo invece il messaggio di vicinanza dell’Arsenal su Twitter. Il club inglese detiene il cartellino di Marì, in prestito al Monza: “Il nostro pensiero va a Pablo Mari e alle altre vittime del terribile incidente di oggi in Italia. Siamo in contatto con l’agente di Pablo che ci ha detto che è in ospedale e non è gravemente ferito”.

Pablo Marí, il campione normale che stava facendo shopping a Milanofiori con moglie e figlio di 4 anni. Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Il difensore del Monza ferito dall'uomo che giovedì pomeriggio ha aggredito i clienti del centro commerciale di Assago. Medicato al Niguarda: «Il bimbo era seduto nel carrello, all’improvviso ho sentito un colpo alla schiena»

Pablo Marì ha 29 anni ed è originario di Valencia, in Spagna: gioca da difensore nel Monza, in prestito dall’Arsenal a partire dall’11 agosto di quest’anno

Alle 21.40 al pronto soccorso del Niguarda è arrivata anche lei, la signora Veronica. La bella moglie di Pablo Marì che, dopo la seduta di allenamento mattutina al centro sportivo di Monzello, ha scelto di passare un pomeriggio di relax in famiglia. La coppia, con Pablo, il bambino di quattro anni, si concede una mezza giornata di shopping al centro commerciale di Assago Milanofiori, senza immaginare di andare incontro al terrore e non allo svago. Il difensore del Monza risulta vittima dei fendenti di uno squilibrato e in codice rosso viene trasportato con l’elisoccorso all’ospedale Niguarda di Milano. 

In breve tempo la notizia si diffonde e Adriano Galliani, preoccupatissimo, riesce ad avere un breve colloquio telefonico con il giocatore. Rassicurato dal fatto che sia cosciente, l’ad del Monza raggiunge il pronto soccorso dell’ospedale insieme all’allenatore Raffaele Palladino e allo staff medico del club per stare vicino al giocatore e assumere informazioni dai sanitari del Niguarda. «Ha una ferita abbastanza profonda sulla schiena, ma non è in pericolo di vita», rivela Galliani, profondamente scosso dall’accaduto. «Non sono stati toccati organi vitali, certo sono stati lesi dei muscoli ma Pablo dovrebbe riprendersi. Lo stanno cucendo, così mi dicono gli infermieri che stanno uscendo dalla sala operatoria. Scherzando mi ha detto che lunedì vuole giocare con il Bologna». 

Leader della difesa, uomo spogliatoio, benvoluto da tutto il gruppo, Pablo Marì è arrivato in Brianza quest’estate in prestito — con obbligo di riscatto in caso di salvezza — dall’Arsenal, club proprietario del cartellino. I londinesi avevano già lasciato partire il giocatore spagnolo nel gennaio scorso prestandolo all’Udinese che però a fine campionato non lo ha riscattato. Così il neo-promosso Monza gli ha concesso una chance: non solo il difensore ha ripagato la fiducia risultando uno dei migliori in campo, ma ha anche segnato un gol allo Spezia. 

I compagni, scioccati, avrebbero voluto raggiungere Pablo all’ospedale per mostrare affetto e vicinanza ma la società ha dissuaso i giocatori per evitare assembramenti. «Caro Pablo, siamo tutti vicino a te e alla tua famiglia. Ti vogliamo bene, continua a lottare come sai fare. Sei un guerriero e guarirai presto», è il messaggio affidato ai social dall’ad Galliani. «Il bimbo era seduto nel carrello — prosegue l’ad —. Pablo mi ha detto di aver sentito all’improvviso un colpo alla schiena. Ha anche due punti alla bocca per la ferita riportata durante la colluttazione. Un episodio sconvolgente per Milano». Silvio Berlusconi, venuto a conoscenza del terribile episodio, ha chiesto informazioni a Galliani e a Palladino. In serata sono arrivati gli incoraggiamenti via social dell’Arsenal, dell’Udinese, del Milan e di Lorenzo Casini, presidente della Lega di A. «Ho avuto suerte», l’amara riflessione di Pablo.

Pablo Marì: da Monza ad Assago, ecco perché era in quel supermercato. Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Il difensore e la spesa per l’arrivo dei genitori dalla Spagna. Perché ha scelto la zona sud di Milano: i giochi per il figlio, le provviste alimentari. «Se non fosse stato un atleta sarebbe morto». E lui su Instagram: «Sto bene, grazie per l'affetto» 

Nell’immaginario collettivo i calciatori sono inavvicinabili, sospesi in una bolla di impenetrabilità, persi fra lussi e vezzi da star. Per molti di loro la realtà non di scosta molto dall’opinione comune. Di certo però non è aderente al modus vivendi di Pablo Marì, il calciatore spagnolo del Monza accoltellato nel tardo pomeriggio di giovedì al centro commerciale di Assago Milanofiori. In molti si sono chiesti: cosa ci faceva il leader della difesa del Monza — che lunedì giocherà regolarmente contro il Bologna —, squadra sì neo-promossa in A ma catalizzatrice di attenzioni considerando la proprietà che lo sostiene, al supermercato nella zona sud di Milano? Qualcuno aveva ipotizzato che fosse in zona per partecipare al concerto dei Placebo che sarebbe iniziato poco dopo, alle 20, al Forum. Invece nulla di tutto ciò.

Pablo Marì, che abita nella zona di Corso Magenta, in una zona centralissima e signorile di Milano ma sprovvista di grandi centri commerciali, era andato ad Assago con uno scopo preciso. «In pochi ci credono e anch’io in un primo momento ero dubbioso» spiega Adriano Galliani, accorso ancora venerdì mattina al Niguarda dopo l’intervento di suturazione ai muscoli della schiena lesi del difensore. «Oltre a fare un giro di negozi, aveva l’urgenza di fare la spesa perché oggi sarebbero arrivati i genitori e il fratello della moglie. Come famiglie normali, con ospiti in casa, avevano pensato di procurarsi delle provviste. In particolare quel centro commerciale piace anche a Pablito perché ha attrazioni che lo divertono». Come è noto, il giocatore spingeva il carrello in cui era seduto il bambino di quattro anni mentre la moglie Veronica camminava al suo fianco. Ieri dopo lo sconvolgente episodio e il conseguente trasporto con l’elisoccorso di Marì al Niguarda, la moglie Veronica ha accompagnato il bimbo a casa dove è rimasto con la baby sitter. La signora Marì nella serata di giovedì si è recata al Niguarda dove oltre a prendere informazioni sul marito è stata interrogata dalle forze dell’ordine. Oggi Pablito ha ripreso la vita normale alla scuola materna, Veronica è in ospedale dal marito. I nonni sono in arrivo a Milano.

Marì che intanto torna a parlare, un post su Instagram per ringraziare per l’affetto ricevuto: «Dopo il difficile momento che abbiamo vissuto ieri, io e la mia famiglia vogliamo comunicare che, fortunatamente, stiamo bene e vogliamo ringraziare per i tanti messaggi di affetto e sostegno che stiamo ricevendo — scrive Pablo — . Siamo vicini ai familiari ed agli amici della vittima a cui porgiamo le nostre più sentite condoglianze. Auguriamo una pronta guarigione anche alle altre persone ferite».

La società ha dissuaso i giocatori, provati dall’accaduto e che in massa avrebbero voluto recarsi all’ospedale, chiedendo di aspettare almeno 24 ore. Pablo Marì che questa mattina ha ricevuto in camera la visita di Galliani che gli ha trasmesso i saluti e l’affetto del presidente Berlusconi — che poi su Twitter ha scritto «Un abbraccio a Pablo Marì del "mio" Monza —, ha bisogno infatti di riposare, dovendo smaltire oltre che lo choc anche l’anestesia. Questa mattina si è voluto sincerare delle condizioni del giocatore anche il presidente della Regione Attilio Fontana. «Se non fosse stato un atleta, con una muscolatura imponente, sarebbe morto. Sarebbero stati colpiti organi vitali», l’amara constatazione di Galliani.

Chi è Pablo Marì (Monza) accoltellato al centro commerciale di Assago. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Ha 29 anni è sposato ed ha un figlio di 4 anni. Star dei social e appassionato di moda. In Italia ha già giocato nell’Udinese

Pablo Marì tra i cinque accoltellati di Assago

Uno dei cinque accoltellati nel centro commerciale di Assago, alle porte di Milano, è il difensore del Monza, Pablo Marì. Una notizia che ha sconvolto la squadra di Silvio Berlusconi e Adriano Galliani, allenata da Raffaele Palladino. È arrivato alla corte dei biancorossi, al primo anno in serie A, questa estate dall’Arsenal. Nella scorsa stagione, però, ha già giocato in A con la maglia dell’Udinese.

Dall’Inghilterra all’Olanda: carriera da giramondo

Pablo Marí nasce a Valencia il 31 agosto del 1993. Cresce calcisticamente nel settore giovanile del Maiorca e debutta a soli 18 anni in Liga contro il Granada. Nella stagione successiva trova continuità con la squadra B in Seconda Divisione dove gioca 28 partite segnando un gol. Nel 2013 passa al Gimnàstic de Tarragona in terza divisione, squadra con la quale esordisce in Coppa del Re contro il Burgos. Nella stagione successiva diventa un perno fondamentale del Gimnàstic giocando 35 partite segnando anche tre gol e diventando protagonista della promozione in Segunda División. Va al Manchester City, senza mai debuttare, venendo girato in prestito in Olanda al Nac Breda, club nel quale diventa anche capitano. Nel 2018 fa ritorno in Spagna, al Deportivo La Coruña, per poi trasferirsi al Flamengo in Brasile dove vince sia il campionato sia la Copa Libertadores. Il suo peregrinare in giro per il mondo lo porta all’Arsenal dove però, in tre anni, non riesce mai a guadagnarsi lo spazio giusto per mettere in mostra le sue qualità. Ecco allora che arriva la chiamata dell’Udinese. Infine, il Monza.

Una roccia in difesa

Pablo Marì è un difensore centrale dal fisico roccioso, ostico da saltare. Può giocare sia in una difesa a quattro sia in quella a tre, da difensore centrale, come ha fatto prima con Giovanni Stroppa e adesso con Raffaele Palladino.

Sposato con Veronica, ha un figlio di 4 anni

A giugno si è sposato con Veronica con la quale ha un figlio di quattro anni. È diventato uomo in fretta grazie alle tante esperienze fatte in giro per il mondo e questo è uno dei suoi più grandi pregi soprattutto quando si tratta di saper entrare nel modo giusto in un nuovo spogliatoio.

Star dei social e appassionato di moda

Pablo Marì sui social è molto seguito, ha un milione e trecentomila follower sul proprio Instagram, dove posta principalmente foto e video della sua famiglia e delle sue esperienze da calciatore. Il 9 ottobre con una bellissima foto in bianco e nero ha fatto gli auguri di compleanno alla sua Veronica. Invece, il 31 agosto per i suoi 29 anni ha postato un video con la sua consorte e il loro figlioletto.

Uomo accoltella persone a caso nel centro Milanofiori di Assago: morto un cassiere, ferito il calciatore Pablo Marí. Il 46enne bloccato da ex giocatore Inter Tarantino. La Repubblica il 27 Ottobre 2022.

Pablo Marì ferito nel centro commerciale: "Ho avuto suerte, è morto un altro al posto mio"

Accoltellati nel supermercato ad Assago, il racconto dei testimoni: "Tutti scappavano, i bambini piangevano"

L'ex calciatore ha fermato l'aggressore che, con un coltello preso da un espositore, ha ucciso un cassiere e ferito cinque persone

Ha giocato con Maradona, Zola, Ronaldo il Fenomeno, Baggio e Beppe Signori. Ma l'intervento più importante Massimo Tarantino, ex terzino sinistro di Napoli, Inter, Bologna e Como, lo ha fatto giovedì sera al Carrefour di Assago. È stato il primo a bloccare l'accoltellatore del Carrefour di Assago. È riuscito a frenare la sua furia omicida, anche se purtroppo il 46enne aveva già colpito mortalmente un cassiere e ferito cinque persone, tra cui il difensore del Monza Pablo Marì. Senza il suo coraggio, il bilancio sarebbe potuto essere ben più grave. "Ma non chiamatemi eroe, non ho fatto niente di speciale".

La carriera di Massimo Tarantino

Nato a Palermo 51 anni fa, figlio d'arte (il padre Bartolomeo ha giocato in A col Venezia una stagione), è cresciuto nel Cosmos Palermo e nel Catania. Nell'89 il passaggio al Napoli di Maradona, dove è rimasto sette anni. Sfortunato il passaggio all'Inter nel '96: un grave infortunio gli ha fatto saltare un'intera stagione. Il ritorno in campo con il Bologna, dove ha giocato cinque anni prima di passare al Como. In Lombardia un biennio prima di scendere di categoria con le maglie di Triestina e Pavia.

Massimo Tarantino, una vita nel calcio

E proprio a Pavia ha mosso i primi passi da dirigente, lavorando nel settore giovanile. E con le giovani promesse del calcio italiano ha lavorato a Bologna e Roma, nella "Cantera" di Bruno Conti. Nella passata stagione è stato direttore dell'area tecnica della Spal, oggi allenata da Daniele De Rossi. 

Uomo accoltella persone a caso nel centro Milanofiori di Assago: morto un cassiere, ferito il calciatore Pablo Marí. Il 46enne bloccato da ex giocatore Inter Tarantino. Massimo Pisa, Ilaria Carra su La Repubblica il 27 Ottobre 2022. 

L'aggressione alle 18,30 nel supermercato Carrefour. Un cassiere è morto durante il trasporto. Tra le persone colpite il giocatore del Monza. L'uomo fermato era stato sottoposto a un Tso, avrebbe preso il coltello dagli scaffali. È accusato di omicidio e tentato omicidio

E' stato l'ex calciatore Massimo Tarantino a disarmare l'uomo che nel Carrefour di Assago ha accoltellato diverse persone che facevano le spesa, uccidendo un cassiere, il 47enne di origine boliviana Luis Fernando Ruggieri, e ferendone altre quattro (compreso il giocatore del Monza Pablo Mari). "Urlava e basta" ha detto l'ex giocatore del Bologna, dell'Inter e del Napoli  che ha bloccato l'accoltellatore consegnandolo ai militari della stazione di Corsico (Milano). Restano gravi le condizioni delle altre persone ferite.

Mari, che non è in pericolo di vita, ha trascorso la notte all'ospedale Niguarda, dove è stato ricoverato dopo l'aggressione. E' stato colpito alla schiena: sarà sottoposto in giornata a un intervento chirurgico.

Andrea Tombolini, 46 anni, il responsabile degli accoltellamenti, da tempo soffriva di problemi psichici, già ricoverato in psichiatria per una forte depressione, solo qualche giorno fa era arrivato al pronto soccorso per essersi colpito violentemente da solo al volto e alla testa. Difficilre quindi capire cosa possa aver innescato la violenza improvvisa. E' stata una violenza durata pochi minuti ma che ha lasciato sgomenti clienti e dipendenti che hanno visto l'aggressore prendere un coltello da uno scaffale del supermercato e colpire a caso, chi gli era vicino.

L'aggressione al supermercato Carrefour del centro Milanofiori di Assago ieri sera

Aggressione nel supermercato Carrefour del centro Milanofiori di Assago, alle porte di Milano. Ieri sera intorno alle 18,30 un uomo ha accoltellato sei persone a caso, tra le corsie, in un'ora in cui il supermercato era molto frequentato, prendendo un coltello da un espositore. Un uomo, un cassiere del supermercato di 30 anni, è morto durante il trasporto in ospedale. Tra i feriti c'è anche il calciatore del Monza Pablo Marí. Tre persone sono state trasportate in codice rosso in ospedale e il quadro clinico appare molto grave. Le persone coinvolte hanno dai 28 agli 81 anni, quattro sono uomini, due sono donne.

L'aggressore fermato e disarmato da ex giocatore Inter Tarantino

L'aggressore, un italiano di 46 anni, è stato fermato e disarmato dall'ex calciatore dell'Inter Massimo Tarantino. "Urlava, urlava e basta", dice alle numerose telecamere delle televisioni l'ex giocatore, ora dirigente sportivo. "Io eroe? Non ho fatto niente...".

L'uomo, incensurato, avrebbe problemi psichici e sarebbe stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio. L'uomo, di cui non sono state ancora fornite le generalità, quando è stato portato negli uffici del comando provinciale di Milano in via della Moscova, ha continuato a pronunciare frasi prive di senso in evidente stato confusionale. È accusato di omicidio e tentato omicidio plurimo. Il caso è affidato al pm Paolo Storari.

 L'uomo fermato, lo scorso 18 ottobre era stato medicato in ospedale per ferite al volto che si era auto inferto prendendosi a pugni da solo. 

Una serata di terrore e tragedia nel supermercato di Assago

Una serata di terrore e di tragedia, nel supermercato del grande centro commerciale. Persone di ogni età, famiglie, in quell'ora in cui tanti si fermano a fare la spesa tornando a casa dal lavoro. All'improvviso le urla, il panico, quell'uomo che colpisce a caso e senza preavviso. Tutti corrono, la prima chiamata di allarme è alle 18,36. I carabinieri arrivano con il 118, fanno evacuare la struttura. 

Il calciatore spagnolo Mari portato in elicottero al Niguarda

Tra i feriti quattro uomini, tre dei quali giovani - di 28, 30 e 40 anni - e un anziano di 80, oltre a due anziane donne, che sono le meno gravi. Il più grave era il cassiere- poi morto - un ragazzo di 30 anni, trasportato d'urgenza a Rozzano, in arresto cardiocircolatorio, colpito al torace e all'addome. Il calciatore spagnolo in forze al Monza Marì, con una profonda ferita alla schiena, è stato trasportato all'ospedale Niguarda in elicottero: è cosciente e ha ricevuto le visite dell'amministratore delegato del Monza, Adriano Galliani, e dell'allenatore, Raffaele Palladino. Il giocatore parla e le sue condizioni non sembrerebbero gravi. Esclusa l'ipotesi del terrorismo, resta quella più probabile del gesto di uno squilibrato.

Accoltellati ad Assago, i testimoni: "Eravamo terrorizzati, vedevamo gente scappare"

"Eravamo al bar e pensavamo si trattasse di uno scippo perché abbiamo visto dei ragazzi e una signora correre, poi abbiamo visto sempre più gente con facce sconvolte e abbiamo capito che era successo qualcosa di grave": è quanto riporta una giovane che si trovava nel bar del centro commerciale. "A un certo punto - ricorda - la ragazza del bar ha iniziato a parlare di pistole quindi molto gentilmente, mentre tirava giù la serranda, ci ha nascoste perché nemmeno lei capiva cosa stava succedendo. Siamo rimaste nel retro del bar mentre vedevamo anche il resto della ristorazione chiudere nascondendo le persone dentro. Poi dopo circa 5 minuti è arrivata una commessa del Carrefour che aveva assistito alla prima aggressione, non parlava di armi ma solo di un pazzo. Era sconvolta e la ragazza del bar l'ha soccorsa". Poco dopo, "abbiamo visto gente scappare e siamo andate via anche noi, siamo uscite mentre dall'altoparlante del centro commerciale chiedevano l'intervento urgente di un medico e ci siamo allontanate il più velocemente possibile". La testimone aggiunge che "mi è rimasta molto impressa una ragazza che piangeva, completamente sotto shock". 

Accoltella persone nel supermercato ad Assago, Carrefour: "Massima vicinanza a dipendenti e clienti coinvolti"

"Siamo profondamente addolorati nell'apprendere del decesso di un nostro dipendente in seguito all'aggressione verificatasi oggi nell'Ipermercato Carrefour di Assago. Ci stringiamo attorno alla sua famiglia, con cui siamo in contatto per esprimere il nostro cordoglio" - afferma Christophe Rabatel Ceo Carrefour Italia - "Siamo vicini alle famiglie delle altre vittime coinvolte. Da parte nostra siamo a completa disposizione delle autorità competenti e faremo tutto quanto sia nelle nostre facoltà per permettere loro di svolgere il loro lavoro e ricostruire la dinamica dell'accaduto. Episodi del genere non dovrebbero mai verificarsi in assoluto, soprattutto durante lo svolgimento del proprio lavoro". L'azienda conferma che si è subito attivata per allertare i soccorsi e le forze dell'ordine e per fermare l'aggressore, che è stato preso in custodia, e per garantire il corretto svolgimento delle operazioni di soccorso. Rappresentanti dei vertici aziendali si sono immediatamente recati sul posto e sono in stretto contatto con le vittime e le loro famiglie. Carrefour Italia ha inoltre subito attivato un servizio di supporto psicologico per tutti i collaboratori coinvolti direttamente o indirettamente nell'accaduto.

Terrore nel Carrefour di Assago, Romano La Russa attacca: "Milano città violenta"

"Una serata amara in Lombardia per quanto accaduto al centro commerciale di Assago. L'abbraccio a nome di tutti i lombardi alla famiglia del giovane dipendente del supermercato che purtroppo ha perso la vita in seguito alle ferite ricevute". Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, commentando l'aggressione avvenuta poco prima delle 19 al centro commerciale Milanofiori. "Sto seguendo costantemente gli aggiornamenti sulle condizioni degli altri feriti che fortunatamente non sembrano in pericolo di vita -continua Fontana-. Mi auguro che gli inquirenti facciano rapidamente luce su quanto accaduto. Ringrazio dipendenti, clienti e forze dell'ordine intervenuti per bloccare il folle e tutto il personale sanitario intervenuto in soccorso delle vittime".

Alza invece la polemica politica l'assessore alla Sicurezza della Regione Lombardia, Romano La Russa: "Sono scioccato da quanto accaduto. Mi stringo intorno alle vittime, colpite da quello che sembra essere stato il folle atto di uno squilibrato, e alle loro famiglie. È un episodio di una gravità inaudita, che testimonia in maniera lampante come a Milano e nel suo hinterland si sia ormai oltrepassato ogni limite. E' mai possibile che la nostra città debba, con continui episodi di violenza, relegarsi sempre di più a una città incivile? Non è certo un caso che da 7 anni il capoluogo guidi le classifiche di città più insicura di Italia".

Assago, un minuto di furia "Invidiavo la loro felicità". L'interrogatorio dell'accoltellatore: "Avevo preso la lama per farla finita". In 60 secondi 6 aggrediti. Luca Fazzo il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Un minuto. Un minuto per prendere la propria vita di uomo di mezza età complicato e fragile, e trasformarla nell'inferno degli altri. Alle 18,42 di giovedì sera Andrea Tombolini nella corsia del centro commerciale di Assago prende dallo scaffale il coltello più lungo del kit da cucina che gli sta davanti. Sessanta secondi dopo, alle 18,43 è per terra, alle casse, disarmato, schiacciato al suolo. Alle sue spalle, le corsie segnate dalle urla, dal sangue, dal panico. Le immagini delle telecamere sono di una crudezza impressionante. Luis Ruggieri, dipendente del grande supermercato, non fa neanche in tempo a capire cosa accade, Tombolini gli passa accanto di corsa e gli tira un solo colpo al fianco, che lo ammazza nel giro di pochi minuti. E poi a casaccio, colpendo chi cerca di ostacolarlo e chi tenta solo di mettersi in salvo.

«Ho visto tutte quelle persone felici, che stavano bene, e ho provato invidia»: così, nel reparto di psichiatria dove lo portano nella notte, Tombolini spiega al pm Paolo Storari la sua trasformazione da consumatore di Xanax a distributore di morte. Parla delle sue paure, della convinzione di essere malato, della depressione che lo avvolgeva. Le riprese a circuito chiuso del grande Carrefour alle porte di Milano raccontano una storia che non calza del tutto alla versione del raptus. «Dura tutto otto minuti - racconta il generale Iacopo Mannucci - alle 18,35 l'uomo entra e comincia subito a cercare qualcosa. Alle 18,42 prende il coltello e inizia immediatamente a colpire». Se è stato un raptus, insomma, è stato un raptus iniziato prima e fuori, meno improvviso e incontrollabile di quel che Tombolini racconta o ricorda.

«Abbiamo chiesto - dice Marcello Viola, capo della Procura di Milano - la convalida del fermo con l'accusa di omicidio e di duplice tentato omicidio». Vuol dire che almeno due delle altre vittime di Tombolini sono vive per caso, i colpi erano dati con la volontà di uccidere. Per gli ultimi due saranno le perizie legali a stabilire se si tratta solo di lesioni o si aggiungeranno altre accuse di tentato omicidio. Ormai poco cambia. «Abbiamo chiesto a suo carico - spiega Viola - la custodia cautelare in una struttura psichiatrica». Niente carcere ma un luogo di cura, «perchè ci sembra la soluzione più adeguata vista la presenza di problemi psichici». E una assoluzione per vizio totale di mente potrebbe essere l'esito finale del processo.

Quanto gravi e note fossero le condizioni di salute del 46enne non è ancora del tutto chiaro. «Non c'erano state avvisaglie. Non consumava alcolici, non assumeva psicofarmaci, solo un antidepressivo», dice il procuratore. Tombolini non è neanche un emarginato, un drop out, la sua rabbia la sfoga contro se stesso, spaccando gli oggetti di casa: «Ha un padre e una madre presenti - dice il procuratore aggiunto Laura Pedio - che lo seguivano e lo curavano, per i primi di novembre gli avevano fissato una visita con uno psichiatra». I mostri che agitano la testa di Andrea esplodono prima.

Non è una storia di terrorismo, come si era temuto all'inizio, e nemmeno una storia di città insicure: «L'intervento del 112 è stato praticamente immediato - dice Viola - e ancora prima dei carabinieri erano intervenuti coraggiosamente i cittadini presenti nel supermercato». Ma è chiaro a tutti che a venire spezzato dal dramma di Assago, portato pressocchè in diretta da Internet in tutte le case d'Italia, è la percezione del centro commerciale - con la sua folla, le sue luci - come isola se non felice almeno protetta. Anche a questo si riferisce Silvio Berlusconi quando ieri ricorda che «la sicurezza dei cittadini deve essere la chiave della civiltà umana», e che lo Stato deve garantirla con ogni mezzo. 

"Con un calcio gli ho tolto il coltello. Istinto di protezione per la mia famiglia". L'ex difensore dell'Inter che ha disarmato l'assassino nel centro commerciale: "C'era sangue dappertutto e gente che scappava". Claudio Decarli il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

«Non sono un eroe, non lo sono mai stato, è stato solo istinto di protezione, ero lì con mia moglie e mia figlia».

È successo tutto in un attimo, cinque accoltellati, un morto, l'inferno. Ore 18,30, pomeriggio di spesa al centro commerciale Carrefour di Assago, gremito, bambini, genitori, carrelli che scivolano fra gli scaffali: «Ho sentito delle urla, confusione, mi sono girato, ho visto un tipo con un coltello in mano, ero a un metro, gli ho visto infilzare la lama nella schiena di un ragazzo, ho solo reagito in modo compulsivo, a sangue freddo, gli sono andato addosso e l'ho disarmato. È ancora tutto così confuso... avrò tempo di capire meglio». L'eroe che non vuole essere chiamato tale è Massimo Tarantino, ex calciatore di Napoli, Inter, Bologna, responsabile dell'area tecnica della Spal. Era lì anche lui con moglie e figlia: «Ho agito in modo irrazionale, è stato tutto così veloce che fatico a ricostruire».

Non vuole passare da eroe ma il coraggio in quei momenti non si compra fra gli scaffali di un centro commerciale.

«Ho agito d'istinto c'era la mia famiglia, ho temuto per loro. All'improvviso panico generale, tutti che urlavano, gente che si nascondeva dietro ai banchi, non si poteva capire come sarebbe andata a finire, credo che chiunque altro si sarebbe comportato come me. In quegli istanti».

C'è chi scappa

«No, si deve reagire e così ho fatto, ero lì con mia figlia, mia moglie, loro erano sotto shock c'era sangue, un morto a terra. Ho visto quell'uomo che stava avvicinandosi a mia moglie col coltello in mano istinto di protezione, nient'altro che istinto di protezione, c'era sangue dappertutto, gente a terra ferita, adesso so che uno di loro è stato accoltellato mortalmente, mi hanno detto che era un cassiere dell'ipermercato».

Cosa ricorda?

«D'istinto gli ho tirato un calcio sulla mano che stringeva il coltello, l'ha aperta e gli è caduto, con un altro calcio l'ho allontanato, poi l'ho spinto, gli sono andato addosso, alle spalle, a quel punto era a terra, immobile, non urlava più».

Poteva andare peggio, lei è stato..

«No, no...tutto così veloce, poi sono arrivati quelli della sicurezza, poi la polizia, tutto finito, ho abbracciato mia figlia, sul momento non ho pensato a nient'altro».

Uno degli accoltellati è un calciatore del Monza, Pablo Marì, già operato all'ospedale di Niguarda, fuori pericolo, si è salvato grazie alla sua muscolatura massiccia che ha impedito alla lama di penetrare oltre e lesionare parti vitali. Una mattanza stoppata dal coraggio di un ex calciatore

«Ma non chiamatemi eroe, scusate, ora non mi sento di dire altro, c'ero, ho visto tutto, adesso ho bisogno di tornare a una normalità che mi sembra così lontana».

Tre feriti in gravi condizioni. Accoltella 5 persone in un supermercato, fermato dai clienti: morto un dipendente del Carrefour, tra i feriti il calciatore Pablo Mari. Redazione su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Un uomo ha accoltellato sei persone in un centro commerciale di Assago, alle porte di Milano. L’episodio, non è chiaro se relativo a una lite o a un gesto di una persona squilibrata, è avvenuto in via Milanofiori poco dopo le 18.30 e ha visto protagonista un uomo fermato successivamente dai carabinieri. Uno dei feriti è morto poco dopo. Secondo quanto riportato dall’Ansa, si tratterebbe di un dipendente Carrefour. Le condizioni di 3 dei feriti sarebbero gravi, tanto da aver richiesto l’intervento dell’elisoccorso. Il centro commerciale è stato evacuato. Al momento si esclude che si possa essere trattato di un atto terroristico. I militari sono a lavoro per ricostruire la dinamica.  Secondo le prime ricostruzioni, un uomo armato di coltello sarebbe entrato nel centro commerciale e avrebbe cominciato a colpire i presenti.

L’uomo che ha accoltellato 6 persone nel centro commerciale (in un primo momento si erano dette 5) è stato bloccato da alcuni clienti e consegnato ai carabinieri di Corsico. Secondo quanto riportato da AdnKronos si tratterebbe di un 46enne italiano, classe 1976, verosimilmente affetto da disturbi psichici  che dopo essersi impossessato di un coltello in esposizione sugli scaffali del supermercato, senza apparenti motivi ha colpito a caso chi gli passava vicino. Si tratterebbe di un incensurato, in cura da un anno per una forte crisi depressiva.

Sul posto i carabinieri e 6 ambulanze del 118. Secondo quanto riportato dall’AdnKronos, tra i feriti quattro sono stati ricoverati in codice rosso; tra questi, un ragazzo di cui non sono ancora note le generalità, di età apparente di circa 30 anni, che ha riportato ferite da arma da taglio al torace e all’addome. Il giovane, rinvenuto in arresto cardiocircolatorio, è stato rianimato e trasportato dal personale dell’Areu all’ospedale Humanitas di Rozzano. Altri tre uomini sono stati trasportati in ospedale in codice rosso: si tratta di un 28enne, un 40enne e un 80enne, tutti accoltellati al torace. Ferite anche due donne, una 72enne ferita alla mano, trasportata in codice giallo al San Gerardo di Monza e una 81enne, che è stata soccorsa sul posto.

C’è anche il giocatore del Monza calcio Pablo Mari tra gli accoltellati. L’atleta è stato trasportato all’ospedale Niguarda di Milano, dove è stato raggiunto dall’amministratore delegato del club Adriano Galliani e dal tecnico, Raffaele Palladino. Il giocatore, prelevato in prestito dall’Arsenal, è cosciente, parla e non sarebbe in gravi condizioni. “Caro Pablo, siamo tutti qui vicino a te e alla tua famiglia. Ti vogliamo bene, continua a lottare come sai fare, sei un guerriero e guarirai presto”. Lo scrive l’ad del Monza Adriano Galliani, in un tweet pubblicato sull’account del club, rivolgendosi al difensore Pablo Mari.

“Ora che siamo lontane siamo più tranquille ma eravamo veramente terrorizzate, non capivamo cosa succedeva, vedevamo gente scappare in lacrime”: lo dice all’Ansa una ragazza che si trovava nel centro commerciale quando l’uomo ha iniziato a ferire le persone. “Mi è rimasta molto impressa una ragazza che piangeva, completamente sotto shock” aggiunge la testimone. “Eravamo al bar e pensavamo si trattasse di uno scippo perché abbiamo visto dei ragazzi e una signora correre, poi abbiamo visto sempre più gente con facce sconvolte e abbiamo capito che era successo qualcosa di grave”, ha raccontato una testimone all’Ansa. La ragazza in quel momento si trovava nel bar del centro commerciale. “A un certo punto – continua il racconto – la ragazza del bar ha iniziato a parlare di pistole quindi molto gentilmente, mentre tirava giù la serranda, ci ha nascoste perché nemmeno lei capiva cosa stava succedendo. Siamo rimaste nel retro del bar mentre vedevamo anche il resto della ristorazione chiudere nascondendo le persone dentro. Poi dopo circa 5 minuti è arrivata una commessa del Carrefour che aveva assistito alla prima aggressione, non parlava di armi ma solo di un pazzo. Era sconvolta e la ragazza del bar l’ha soccorsa”. Poco dopo, “abbiamo visto gente scappare e siamo andate via anche noi, siamo uscite mentre dall’altoparlante del centro commerciale chiedevano l’intervento urgente di un medico e ci siamo allontanate il più velocemente possibile”. Ora, “sapere che l’hanno preso ci mette tranquille e speriamo – conclude – che i feriti possano cavarsela”. Le indagini per ricostruire l’accaduto sono state affidate al pm Paolo Storari. Il magistrato si trova sul posto.

“In merito ai fatti verificatisi nell’Ipermercato di Assago nella serata del 27 ottobre, Carrefour Italia esprime la massima vicinanza ai dipendenti e ai clienti coinvolti nell’aggressione e alle loro famiglie. L’azienda conferma che si è subito attivata per allertare i soccorsi e le forze dell’ordine e per fermare l’aggressore, che è stato preso in custodia, e per garantire il corretto svolgimento delle operazioni di soccorso. Rappresentanti dei vertici aziendali si sono immediatamente recati sul posto e sono in stretto contatto con le vittime e le loro famiglie. Carrefour Italia ha inoltre subito attivato un servizio di supporto psicologico per tutti i collaboratori coinvolti direttamente o indirettamente nell’accaduto”.

Una tragedia senza un perchè. Cosa è successo ad Assago, un morto e 5 accoltellati al centro commerciale: l’assalitore aveva problemi psichici. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Quella del Centro Commerciale Milano Fiori di Assago sembra essere una tragedia senza un perché, un dramma della follia. Intorno alle 18.30 Andrea Tombolini, 46 anni, era tra i corridoi del Carrefour del centro commerciale. Dagli scaffali ha preso un coltello che era in esposizione, lo ha aperto e ha iniziato a colpire i passanti a caso. Ne ha feriti 5, tra cui il calciatore del Monza Pablo Mari. Poi si è diretto verso le casse dove si è scagliato su uno dei cassieri, Luis Fernando Ruggieri, 47 anni, origini boliviane. L’uomo è morto per le ferite riportate mentre lo trasportavano in elisoccorso in ospedale. Poi è fuggito ma è stato fermato dai clienti stessi: a bloccarlo c’era anche l’ex calciatore Massimo Tarantino. Una follia durata 7 minuti di panico, sangue e morte.

La follia è iniziata in un tranquillo giovedì pomeriggio. Le urla impaurite delle perone hanno fatto scattare l’allarme. Le persone che erano al centro commerciale hanno iniziato a fuggire, qualcuno si è nascosto all’interno dei negozi che hanno prontamente abbassato le saracinesche. Intanto Tombolini continuava a colpire a caso. Quando è arrivato davanti alle casse si è scagliato contro uno dei cassieri, Luis Fernando Ruggieri, 47 anni, origini boliviane. Muore poco dopo mentre cercano di portarlo in ospedale in elisoccorso. Fatali per lui le ferite profonde al torace. Tra i feriti anche il calciatore del Monza Pablo Mari che stava facendo la spesa con la moglie e il figlio piccolo. La coltellata lo prende alla schiena. Subito è stato trasportato all’Ospedale Niguarda. È grave ma non in pericolo di vita.

“L’ho visto arrivare, mi ha sfiorato con il coltello. Istintivamente ho spinto via mia figlia. Poi gli sono saltati addosso e lo hanno fermato”, ha raccontato una testimone al Corriere della Sera. Il 46enne è stato bloccato dai dipendenti del supermercato, dagli addetti alla sicurezza e da altri clienti. Tra loro c’era anche Massimo Tarantino. Poi Tombolini è stato consegnato alle forze dell’ordine. L’assalitore è milanese, non ha precedenti penali ma è stato in cura per una forte depressione. Il Corriere della Sera riporta il racconto dei genitori di Tombolini. Il 456enne era stato ricoverato in psichiatria dopo un’operazione alla schiena, aveva firmato le dimissioni ed era uscito. Poi, il 18 ottobre era finito di nuovo al pronto soccorso: si era preso a pugni in testa e al volto.

Non è ancora chiaro perché Tombolini abbia deciso di andare al supermercato e colpire persone a caso. Sarebbe arrivato da solo e avrebbe agito. Ha ucciso il cassiere e ferito altre 4 persone, tre delle quali ancora in condizioni critiche. Oltre a Pablo Mari tra i feriti ci sono anche una coppia di anziani e un cassiere. Tutti feriti alla schiena e al torace, colpiti di sorpresa. Quando i carabinieri del radiomobile di Corsico lo hanno fermato era a terra vicino alle case, sporco di sangue, urlava soltanto “ammazzatemi”. Con gli investigatori non è mai stato aggressivo, s’è lasciato ammanettare e portare via.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Stava facendo shopping con la moglie e il figlio piccolo. Chi è Pablo Mari, il calciatore ferito nel supermercato di Assago: “Ferito alla schiena”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Stava passeggiando tranquillamente con la moglie Veronica e il loro figlio piccolo nel centro commerciale di Assago quando un uomo ha iniziato a colpire i passanti con un coltello. Il calciatore del Monza Pablo Mari è tra i feriti del folle gesto che si è verificato giovedì 27 intorno alle 19.30. Trasportato subito all’ospedale Niguarda, è cosciente e non in pericolo di vita. Ma lo spavento è stato grande.

Pablo Marì è il perno della difesa del Monza. Secondo quanto riportato dall’Agi, è arrivato in Brianza ad inizio agosto in prestito dall’Arsenal, con obbligo di riscatto in caso di salvezza, il 29enne spagnolo cresciuto nel Maiorca è alla sua seconda esperienza italiana: nella seconda metà della passata stagione ha infatti disputato 15 partite con la maglia dell’Udinese. Mari ha collezionato in questa stagione 8 presenze, mettendo a segno anche una rete nella vittoria del Monza sullo Spezia.

Come sta Pablo Mari

“Il giocatore ha avuto una ferita abbastanza profonda sulla schiena, penetrante, ma non ha toccato organi vitali: non è in pericolo di vita”, ha detto Adriano Galliani, Ad del Monza, ai microfoni di “Tg2 Post”. Galliani appena saputa la notizia del folle gesto è corso in ospedale dal calciatore. “Mi dicono che dovrebbe riprendersi abbastanza rapidamente – ha aggiunto – Ha dei muscoli lesionati, delle lesioni ma non è gravissimo. È cosciente e gli stanno dando dei punti in una sala operatoria o qualcosa di simile. Ma ripeto, non è in pericolo di vita”.

Subito sono arrivati per lui messaggi di solidarietà tra cui quello della sua squadra: “Caro Pablo, siamo tutti qui vicino a te e alla tua famiglia, ti vogliamo bene, continua a lottare come sai fare, sei un guerriero e guarirai presto”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

 Andrea Tombolini, chi è l’uomo che ha accoltellato 6 persone al centro commerciale di Assago. Giampiero Casoni il 28/10/2022 su Notizie.it.

Andrea Tombolini, chi è l'uomo che ha accoltellato 6 persone al centro commerciale di Assago uccidendo un commesso del Carrefour di 47 anni 

Andrea Tombolini, ecco chi è l’uomo che ha accoltellato 6 persone al centro commerciale di Assago. Il 46enne è accusato di omicidio e tentato plurimo, ha gravi problemi psichici ed è piantonato nella caserma dei carabinieri della Moscova dove è stato interrogato per tutta la notte.

Open informa che tra i feriti nel Carrefour di viale Milanofiori anche il calciatore del Monza Pablo Marì.

Andrea Tombolini, il killer del centro commerciale

Adriano Galliani ha spiegato in merito che il calciatore è stato colpito alla schiena e “sta bene”. Dal canto suo il magistrato Paolo Storari ha accusato Tombolini di omicidio e tentato omicidio plurimo dopo che a fermarlo era stato l’ex calciatore Massimo Tarantino.

L’autolesionismo di qualche giorno fa

Attenzione, lo scorso 18 ottobre Tombolini sarebbe stato medicato in ospedale per alcune ferite al volto che si era inferto da solo prendendosi a pugni. Nella serata del 27 ottobre l’uomo è entrato nel centro commerciale di Assago alle 18,35, è entrato nel reparto casalinghi e ha preso un coltello da cucina, iniziando a correre e menare fendenti. Ha colpito un uomo di 40 anni e due anziani di 72 e 80 ed ucciso il dipendente Luis Fernando Ruggeri, boliviano di 47 anni. 

Ex difensore di Napoli, Inter e Bologna. Chi è Massimo Tarantino, l’ex calciatore che ha disarmato l’assalitore di Assago: “Non sono un eroe”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Ottobre 2022. 

Le grida, il fuggi fuggi generale e poi il sangue. Sono stati 7 lunghissimi minuti di puro panico nel Carrefour del Centro Commerciale Milano Fiori di Assago. Un 46enne italiano ha preso dagli scaffali un coltello, ha aperto la confezione e ha iniziato a colpire a caso i passanti. Ne ha accoltellati 5, uno è morto. Era il cassiere del supermercato, di appena 30 anni. Tra i feriti anche il calciatore del Monza Pablo Mari. Poi si è dato alla fuga ma è stato bloccato prontamente dai clienti stessi e consegnato ai carabinieri intervenuti sul posto. Tra i primi a bloccarlo c’è Massimo Tarantino, ex calciatore di Napoli, Inter e Bologna che subito si è scagliato sull’uomo in fuga ed è riuscito a disarmarlo. “Urlava, urlava e basta”, ha detto alle numerose telecamere l’ex giocatore, ora dirigente sportivo. “Io eroe? Non ho fatto niente…”.

Massimo Tarantino, ex difensore ora dirigente calcistico, stava facendo tranquillamente la spesa nel supermercato quando ha sentito le persone gridare. Come tutti si è voltato impaurito. Pochi istanti per capire cosa stava succedendo e vedere il 46enne barcollare armato di coltello. Così si è avventato su di lui assieme ad altre persone e lo ha bloccato a terra e disarmato.

L’ex calciatore, 51 anni, è originario di Palermo. Ex difensore di Napoli, Inter e Bologna (ma con una breve parentesi anche a Monza) e ora dirigente della Spal, in serie B. Chiusa la carriera da calciatore nell’estate 2006 al Pavia, ha subito superato l’esame da direttore sportivo e ha lavorato prima per il Bologna e poi per la Roma (al fianco di Bruno Conti nella gestione del settore giovanile), prima di abbracciare il progetto Spal nell’estate 2021.

È figlio d’arte e porta avanti la tradizione calcistica di famiglia. Suo padre Bartolomeo per un breve periodo ha indossato la maglia della Roma e Venezia in serie A negli anni ’60. Massimo Tarantino vede a Napoli la sua prima grande occasione. È qui che incontra Diego Armando Maradona anche se per pochi mesi. “Allora guardavamo con timore gli anziani. Una volta dovevo chiedere una cosa a Maradona: ho mandato avanti Francini”, ha raccontato in un’intervista al Corriere della Sera. Erano quelli gli ultimi anni della grande avventura di Maradona a Napoli. “Tornò alla vigilia della partita con la Fiorentina e partì dalla panchina, accanto a me – continua il racconto di Tarantino – Quella domenica non la scorderò mai. Salivo le scale che portavano sul prato del San Paolo dietro di lui. Quando siamo entrati in campo ci ha accolti un incredibile boato. Un’emozione unica percorreva lo stadio. Non l’ho mai più avvertita. Avevo la pelle d’oca”.

In carriera può vantare di esser stato compagno di squadra di Diego Armando Maradona (Napoli 1989-1990), Gianfranco Zola (Napoli 1989-1990 e 1991-1993), Luis Nazario da Lima Ronaldo (Inter, inizio stagione 1997-1998), prima di passare al Bologna nella sessione di calciomercato autunnale, Roberto Baggio (Bologna 1997-1998), Giuseppe Signori (Bologna 1998-2002).

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Davanti al malato psichico che diventa assassino siamo senza difese. Maddalena Bonaccorso il 28 Ottobre 2022 su Panorama.

I casi di ieri ad Asso e ad Assago mostrano ancora una volta la pericolosità e l'imprevedibilità di queste «mine vaganti» contro cui la sanità ha pochi strumenti 

Una giornata drammatica, segnata da due gravissimi episodi criminali che sembrano avere un unico punto in comune: la follia, un forte disagio psichico alle spalle che sembrava superato e probabilmente è stato sottovalutato. All’ipermercato Carrefour di Assago, il 46enne Andrea Tombolini ha ucciso a coltellate una persona e ne ha ferite gravemente altre 5, con l’arma reperita nei corridoi dello stesso esercizio commerciale. Nelle stesse ore ad Asso, in provincia di Como, il brigadiere Antonio Milia, 57 anni, ha ucciso il suo comandante con la pistola d’ordinanza, barricandosi poi in caserma per quasi tutta la notte, fino all’intervento risolutore dei Carabinieri dei corpi speciali che l’hanno bloccato e successivamente arrestato.

Nel passato di entrambi ci sono gravi episodi psichiatrici che, alla luce dei fatti, avrebbero dovuto essere meglio indagati: Milia era stato ricoverato nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Sant’Anna di Como, poi dimesso e dopo una lunga convalescenza durata diversi mesi giudicato idoneo al servizio da una commissione medico-ospedaliera. Tombolini, che durante l’interrogatorio di oggi ha dichiarato che avrebbe voluto “farla finita” pensando di essere gravemente ammalato, ma che poi, avendo visto “quelle persone felici” , ho provato invidia e ha deciso di aggredirle, il 18 ottobre era stato medicato in un PS lombardo per essersi inferto da solo delle ferite al volto e al cranio con dei pugni: anche nel suo passato ci sono ricoveri psichiatrici ed era seguito pure da un professionista privato. COME DIFENDERSI? RAFFORZANDO LA SANITA’ Episodi inquietanti, che instillano in una popolazione già segnata da pandemia, guerra e crisi economica, il timore di non essere adeguatamente protetta dalla follia dilagante che rende pericoloso persino recarsi in un supermercato a fare la spesa. Ma come possiamo difenderci da queste situazioni, che cominciano a essere sempre più diffuse? “Possiamo difenderci rafforzando i servizi di salute mentale” spiega il professor Leo Nahon, già direttore di Psichiatria dell’Ospedale Niguarda Ca' Granda di Milano “destinando loro più risorse e più tempo per l’ascolto dedicato, facendo diminuire lo stigma che si crea attorno alla psichiatria: che non è solo una disciplina curativa, ma spessissimo anche preventiva. Per ogni evento tragico come quelli riportati oggi in cronaca, ce ne sono centinaia altrettanto gravi che vengono evitati quotidianamente da un buon lavoro di prevenzione e cura che viene fatto nei servizi psichiatrici, che peraltro lavorano oggi con risorse di personale ridotte ai minimi termini. Ma questi eventi evitati, sia contro gli altri che contro se stessi, e che sono tantissimi, non fanno notizia”. Si tratta anche in questo caso di sanità in crisi, di risorse carenti, di medici e psichiatri che fanno il possibile e riescono a evitare drammi nella maggior parte dei casi ma che sono comunque, evidentemente, insufficienti per numero rispetto al fabbisogno. Sempre più sola e abbandonata a sé stessa e ai deliri della propria mente, molto difficili da indagare e comunque da non derubricare sempre e solo a episodi di depressione: “È sbagliato etichettare questi casi come depressione” continua Nahon “I rapporti tra depressione, paranoia e impulsività sono molto complessi ma anche curabili, sia farmacologicamente sia con interventi psicosociali integrati che rompano l’isolamento e diano sollievo dai fantasmi persecutori. Purtroppo in questi disturbi, spesso, l’insufficiente consapevolezza di malattia, la tendenza a celare una parte importante dei sintomi e la scarsa adesione alle cure rendono molto più difficile la diagnosi e la terapia. Va aggiunto comunque che anche la difesa sociale e la punizione del reato possono avere un valore terapeutico”. I CAMBIAMENTI BIOLOGICI E L’INFLUSSO SULLA MENTE Una situazione sicuramente complicata, dunque, nella quale si rischia anche che le persone interiorizzino il pericolo e comincino a temere di svolgere anche le operazioni più semplici e apparentemente innocue, con il timore di trovarsi accanto -in qualunque condizione- una bomba pronta a esplodere: “E’ proprio cosi” , spiega Fabrizio Mignacca, psicologo e psicoterapeuta “Anche perché è vero che le cosiddette mine vaganti, purtroppo, sono più numerose di quanto si sia portati a pensare. Siamo sempre insicuri, nei supermercati, nella metro, per strada: perché le malattie mentali, anche se facciamo finta di non vederle, hanno un’enorme diffusione. Ci sono poi sicuramente dei periodi critici, e queste persone esplodono: ora, a parte la difficile situazione che viviamo tutti, appena usciti dalla pandemia e ancora immersi nei venti di guerra e nella crisi economica, dobbiamo anche tenere conto del fatto che il mese di settembre coincide con l’inizio della nuova stagione biologica. L’anno biologico, infatti, non corrisponde con quello solare: l’autunno, con le giornate che si accorciano, il freddo, il desiderio di stare in casa e chiudersi all’esterno, acuisce sempre i disagi psichici e mentali, ed è per questo che questi avvenimenti succedono quasi sempre a cascata, a grappolo, in periodi definiti dell’anno”. INTERCETTARE I MALATI PER CURARLI MEGLIO Le persone che hanno già problematiche psichiatriche molto importanti, dunque, si rivelano particolarmente sensibili a questi cambiamenti. E quando si innesca il corto circuito drammatico dello stravolgimento dei ritmi e del non saperlo fronteggiare, in una situazione mentale già precaria, scoppia la tempesta perfetta e avvengono questi drammi: “E per fortuna, la sanità, anche se tagliata e massacrata da due anni di Covid” continua Mignacca “riesce ancora a contenere il problema: infatti in Italia, rispetto a quanto succede in altri Paesi, basti pensare agli USA, gli episodi di questo genere sono fortunatamente molto meno frequenti. Questo accade perché il SSN è estremamente attento, riesce a intercettare i casi e a bloccarli, anche se solo con la “sedazione”. Se ci fossero più risorse, oltre che sedare si potrebbe curare efficacemente”.

E’ fuor di dubbio, però, che quantomeno nel caso del brigadiere Milia, una Commissione medico-ospedaliera ne avesse certificato l’idoneità al rientro in servizio dopo un lungo periodo di disagio psichico, trascorso in parte in un reparto psichiatrico di un ospedale. Come può essere successo? “Questo è davvero grave” conclude Mignacca “e rientra nel campo delle responsabilità che andranno accertate. Io posso dire che è un episodio rarissimo, perché le forze dell’ordine, peraltro, sono molto attente a segnali di squilibrio e seguono i percorsi di cura e recupero con grande precisione e attenzione. Può essere successo che si sia agito in questo modo –ma le mie sono solo ipotesi perché nelle persone che hanno manifestazioni psicotiche o psicopatiche, spesso il rientro nella normale aiuta il recupero. E nella stragrande maggioranza dei casi questo modo di agire funziona molto bene. Forse c’è stata una reale sottovalutazione del problema”.

"Ma chi soffre di disturbi psichici di solito fa male solo a se stesso". L'esperto: "Attacchi imprevedibili, solo il 3% attribuibili a malati mentali. Sui pazienti servono analisi più attente". Marta Bravi il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Claudio Mencacci, direttore emerito di Psichiatria dell'Asst Fatebenefratelli Sacco di Milano e co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia (SINPF) l'uomo di 46 anni che due giorni fa nel centro commerciale di Assago ha accoltellato 6 persone, uccidendone una, è stato descritto come una persona che viveva ritirata dalla società, in casa con i genitori e che non è mia stato aggressivo.

«Sembra una condizione di psicosi, con un aspetto di persecutorietà. Non posso fare una diagnosi ma la cosa si manifesta con queste caratteristiche fatte dall'isolamento, ritiro, poche amicizie, qualcosa che sposta il campo della psicosi più sul versante di tipo persecutorio e paranoico».

I genitori dicono che da quando è stato operato alla schiena ha iniziato a vedersi come gravemente malato.

«Non sappiamo che idea della malattia si sia fatto, se si sentisse danneggiato o invalido ma sono forme che si definiscono dell'area psicotica e a volte correlate da aspetti allucinatori, uditivi o imperativi. Siamo di fronte a un crescente discontrollo degli impulsi: quando uno si autopercuote o passa alla violenza verso gli altri si tratta di una condizione di discontrollo dell'impulsività. Non si capisce bene se chi è attorno venga vissuto come qualcosa di fortemente minaccioso».

Si prendeva a pugni il volto, ma in pronto soccorso non era stato in grado di spiegare il motivo del suo gesto autolesionistico.

«Il fatto di essere preda di questa impulsività e aggressività... le indagini stabiliranno se aveva utilizzato anti inibitori come alcol o altro. È un luogo comune che le persone che soffrono di disturbi mentali sono violente. Solo il 3 per cento degli atti di violenza sono attribuibili a persone che soffrono di malattie mentali. Di norma chi soffre di disturbi psichici è vittima piuttosto che carnefice».

Anche i genitori dicono non è mai stato violento o aggressivo. Cosa prevede il protocollo nel caso di un accesso al pronto soccorso per atto autolesionistico?

«C'è sempre una valutazione della condizione fisica e della psicopatologia messa in atto, sulla scorta della storia della persona, se c'è o meno abuso di sostanze... si valuta la gravità delle condizioni. Non è che tutti quelli che commettono un atto autolesionistico devono essere ricoverati, basti pensare alla quantità di adolescenti che si sono presentati in pronto soccorso in questi 2 anni con lesioni da taglio o di chi ha tentato il suicidio, in questi casi non si utilizza il ricovero ma la presa in carico».

È automatica?

«No viene segnalata la persona e poi viene avvisato il centro di riferimento».

Se non chiama?

«Quando viene data un'indicazione di rivolgersi al centro è perché la persona possa ricevere le cure adeguate e sono sempre di natura volontaria ad eccezione del Tso».

Qual è il rischio di passaggio da un atto autolesionistico a un atto di violenza verso altri?

«Le persone tendono a farsi del male tanto che nel nostro Paese si contano 4mila suicidi l'anno, di cui 1200 di giovani cioè sotto i 26 anni. Il passaggio alla violenza verso gli altri è abbastanza raro».

Quali i campanelli di allarme?

«Il livello di irascibilità, irritabilità e persecutorietà».

Venendo al caso di Asso, il brigadiere che ha ammazzato il proprio comandante era stato ricoverato per depressione ma giudicato idoneo.

«Il tema delle armi per le forze dell'ordine è delicatissimo: se l'agente o il militare viene giudicato non in grado di portare l'arma viene segnata gravemente la sua carriera. La commissione giudica sulla base della documentazione specialistica che viene fornita».

Cos'è sfuggito allora?

«L'elemento dell'imprevedibilità che si può essere sovrapposto a una valutazione non attenta di alcune situazioni».

Tragedia a San Severo, 57enne con problemi psichici uccide il padre 98enne a coltellate. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini che hanno sentito urlare e hanno chiamato i soccorsi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Ottobre 2022

Un 98enne, Ennio Pompeo Favilla, è stato ucciso con alcune coltellate al collo e all’addome dal figlio 57enne affetto da anni da una grave forma di schizofrenia. L’omicidio è avvenuto la scorsa notte all’interno di un’abitazione in pieno centro a San Severo, nel Foggiano. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini che hanno sentito urlare e hanno chiamato i soccorsi. Quando i militari sono giunti in casa, il figlio della vittima, in evidente stato di shock, stringeva tra le mani il coltello da cucina, ancora insanguinato, con cui aveva ucciso il padre.

Con molte difficoltà i militari sono riusciti a disarmare e a bloccare il figlio della vittima che ora si trova in carcere. A quanto si apprende, padre e figlio vivevano nello stesso palazzo: il padre, al momento dell’aggressione, era solo nella sua abitazione. Il figlio vive con un’altra sorella in un altro appartamento. Già nel 2003 c'era stato un episodio analogo: il 57enne aveva ferito uno dei due genitori in maniera lieve.

Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 6 dicembre 2022.

Tra i suoi doveri ci sarebbe stata la tutela delle relazioni internazionali. Che però l'agente scelto di polizia Antonio Militano, 34 anni, ha rischiato di mandare in frantumi appropriandosi dell'anello che l'allora vicepremier libico, Ahmed Maiteeg, ha smarrito durante una visita di Stato a Roma. Questa l'accusa per cui il poliziotto è stato condannato a tre anni e sei mesi dal Tribunale, che ha accolto la richiesta del pm Gennaro Varone. I reati contestati: peculato, falso e rifiuto d'atti d'ufficio.

Reato quest' ultimo compiuto - secondo la Procura - nell'istante in cui Militano non ha restituito il gioiello nonostante sapesse chi ne fosse il proprietario, violando così l'ordine pubblico che prevede (anche) la tutela delle relazioni internazionali. È il 2 novembre 2018. A Militano viene assegnata la sorveglianza di Maiteeg, 50 anni, che soggiorna all'hotel Bernini Bristol, in piazza Barberini.

Il vicepremier, prima di andare via, dimentica in stanza l'anello e un cerchietto, custoditi in una scatolina. Appena se ne accorge, avvisa la direzione. Che fa recuperare il gioiello, di grande valore affettivo per Maiteeg, consegnandolo (dentro la scatolina) all'agente. Militano, però, si impossessa dell'anello, mentre la scatolina la lascia su un tavolo. Poi, in un verbale, sostiene di averlo perso. A smentirlo - secondo l'accusa - un video in cui si vede l'agente intascare il gioiello.

Blitz nella caserma di Asso, catturato il carabiniere fuori di testa che ha sparato e ucciso il suo comandante. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Ottobre 2022

Antonio Milia era stato ricoverato in psichiatria per problemi di disagio psicologico e successivamente era stato dimesso e giudicato idoneo al servizio. Il comandante generale Luzi: "Massima trasparenza nell'accertamento dei fatti"

È stato preso vivo dai reparti speciali del GIS dell’ Arma il carabiniere Antonio Milia, che si era asserragliato per dodici ore nella caserma di Asso (Como) dove era in servizio da anni. Non c’è stato invece purtroppo nulla da fare per il comandante della stazione, Doriano Furceri 57 anni, che lascia moglie e tre figli. Era morto, probabilmente dalle 17.30 di ieri, dopo che il brigadiere Milia gli aveva sparato. “L’ho ammazzato”, aveva gridato Milia.

L’epilogo della situazione cominciato ieri, è arrivato alle 5.40 quando una squadra del Gruppo intervento speciale dell’Arma ha fatto irruzione nel caseggiato giallo dopo che non avevano avuto successo le trattative intavolate prima da negoziatore, proveniente dal reparto operativo di Varese, e poi da uno dello stesso Gis. Il brigadiere-killer Antonio Milia ha sconfinato orari in cui sembrava dovesse ormai capitolare. Orari in cui, nel passato, altri più strutturati di lui, magari con esistenze da balordi e assassini di professione, erano caduti. Le tre, le quattro di notte. Fasi di crollo fisico ed emotivo, di stanchezza, di sonno che supera l’adrenalina. Ma lui, niente. Se non le lacrime, se non quel ripetere continuamente ai mediatori del Gis “L’ho ammazzato”. 

Un’azione repentina preparata in un quartiere generale improvvisato, la sede di un’azienda di pompe funebri. Prima di essere disarmato e bloccato il brigadiere 57enne ha sparato un altro colpo ferendo al ginocchio un operatore del reparto delle forze speciali. Nell’area operativa della Caserma non erano presenti altri Carabinieri, soltanto una donna militare si trovava in una camerata, mentre i familiari degli altri erano tutti al sicuro nel piano superiore. 

Il carabiniere Millia dopo un iniziale ricovero all’ospedale Sant’Anna, a causa di problemi legati a una forma di disagio psicologico ed una convalescenza durata diversi mesi, era stato riammesso in servizio a seguito del giudizio di una commissione medico ospedaliera, ente sanitario esterno all’Arma, e dopo copiosa documentazione medico sanitaria di una struttura ospedaliera pubblica. Dopo un’assenza di mesi, con i disturbi forse acuiti dal lungo periodo pandemico, il brigadiere Milia aveva ottenuto il “sì” al lavoro soltanto una settimana.  

Millia era però stato messo in ferie dai suoi superiori. Anche i componenti della Commissione medica, quelli che hanno acconsentito alla piena operatività di un uomo che andava destinato ad altra occupazione, saranno tra i primi a essere ascoltati, insieme allo psicologo, dalla Procura di Como, che coordina le indagini sull’omicidio del comandante Furceri. Il brigadiere è stato arrestato e nelle prossime ore sarà interrogato dal pm di turno della Procura di Como anche per chiarire i motivi del gesto. Il luogotenente Furceri era arrivato ad Asso lo scorso febbraio dopo essere stato per 18 anni a Bellano, comune che affaccia sul ramo lecchese del Lago di Como. 

La strategia d’intervento degli uomini del Gis si è sviluppata su due canali. Un primo gruppo si è posizionato a ridosso della cancellata dalla caserma, cancellata oltre la quale c’era Milia, per occuparsi della mediazione. Una seconda squadra del Gis ha ècreato un varco bucando la rete sul perimetro posteriore della caserma, entrando e raggiungendo via via le persone all’interno della struttura: i famigliari dei due carabinieri, una carabiniera che ha avuto il merito di gestire queste lunghissime ore aiutando nel controllo dei medesimi parenti. 

Le priorità dei carabinieri del gruppo intervento speciale erano la salvaguardia delle vite umane, nessuna esclusa. Infatti il Gis mettendo da parte l’enfasi mediatica, non ha condotto alcuna azione muscolare scegliendo di rendere inoffensivo il brigadiere con due taser, le pistole elettriche, e l’ausilio dell’unità cinofila. 

Il carabiniere Milia nel pomeriggio è stato interrogato dal pm di turno di Como alla presenza anche due magistrati della procura militare di Verona, competenti sui reati commessi dagli appartenenti alle forze armate.

Itragici fatti avvenuti all’interno della Stazione Carabinieri di Asso in provincia di Como “addolorano profondamente tutta l’Arma” ha detto il comandante generale Teo Luzi, a nome di tutti i Carabinieri, che “si stringe attorno alla famiglia della vittima, garantendo la massima trasparenza nell’accertamento dei fatti“. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri un messaggio dicendosi “profondamente scosso e rattristato dalle notizie dei tragici fatti” di Asso. “Questi eventi non dovranno più accadere” ha commentato il ministro della Difesa Guido Crosetto. Anche il presidente del consiglio Giorgia Meloni dice: “Sono rimasta profondamente colpita dalla notizia della tragica scomparsa presso la stazione dei Carabinieri di Asso del luogotenente carica speciale Doriano Furceri“ aggiungendo sui social : “Alla famiglia, ai suoi cari e all’Arma dei Carabinieri giunga il cordoglio e la vicinanza del governo. Al carabiniere del Gruppo intervento speciale rimasto ferito rivolgiamo i migliori auguri di pronta guarigione“ 

Questa sera ad Asso si terrà una fiaccolata, a cui parteciperà anche il parroco, in solidarietà alle due famiglie coinvolte, quella dell’omicida e della vittima, e in segno di “riconoscimento” della dedizione al lavoro e dell’umanità del luogotenente ucciso. Lo ha spiegato il sindaco del paese del Comasco, Tiziano Aceti, che ha espresso lo sconcerto della sua comunità. “Furceri era un punto di riferimento, un esempio sul lavoro – ha detto il sindaco -. Per quanto riguarda Milia, solo lui può essere in grado di spiegare che cosa ha fatto. Ora dobbiamo affrontare la tragedia di due famiglie“.

Asso, blitz delle forze speciali all'alba: preso il brigadiere che ha ucciso il comandante della stazione. Anna Campaniello e Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Dopo una notte di negoziazioni, all'alba l'intervento delle forze speciali all'interno della caserma di Asso, dove il brigadiere Antonio Milia ha sparato al comandante Doriano Furceri

Dopo una intera notte di negoziazioni, i reparti speciali dei Carabinieri hanno fatto irruzione nella caserma di Asso dove giovedì sera il brigadiere Antonio Milia ha ucciso, a colpi di pistola, il comandante della stazione. Il militare si era poi barricato all'interno della struttura, nascondendosi dietro una porta blindata all'ingresso della caserma: dopo il blitz è stato preso in consegna dai colleghi ed è illeso. Ferito lievemente un uomo delle forze speciali. Liberi, invece, e illesi, gli ostaggi che si trovavano in caserma al momento della sparatoria di ieri: una donna carabiniere che era in una camerata e le famiglie degli altri militari, che si trovavano chiuse negli alloggi di servizio, a distanza dall'assalitore.

Giovedì sera il brigadiere Antonio Milia ha esploso alcuni colpi con la propria pistola d'ordinanza contro il comandante di stazione Doriano Furceri. Alcuni testimoni l'avrebbero sentito esclamare: «l'ho ammazzato». Almeno tre i colpi esplosi verso il sottufficiale: chi era in caserma in quel momento ha sentito distintamente uno sparo, quindi i lamenti del ferito e poi almeno altri due colpi. 

Intorno alla caserma di Asso sono quindi arrivati i reparti del Gis, il Gruppo di intervento speciale dell'Arma, intervenuti poi alle prime luci dell'alba di venerdì. Del brigadiere, da diversi anni in servizio nel paese del Comasco, si sa che ha tre figli e che era stato ricoverato presso il reparto di psichiatria dell'ospedale di San Fermo per problemi psicologici e poi posto in convalescenza per diversi mesi. Da alcuni giorni era rientrato in servizio, dopo essere stato giudicato idoneo al servizio da una Commissione medico ospedaliera.

Il luogotenente Furceri - come Milia sposato e con tre figli - era stato invece trasferito ad Asso nel mese di febbraio, dopo 17 anni trascorsi quale comandante della stazione di Bellano, sul lago di Como ma in provincia di Lecco. Il trasferimento era stato disposto dopo che il sottufficiale dal mese di dicembre dello scorso anno era stato oggetto di ingiurie e accuse con scritte anonime sui muri del paese, che denunciavano un presunto intrigo amoroso del comandante con più di una donna sposata, con i rispettivi mariti pronti a passare alle vie di fatto. Un'altra scritta denunciava invece una situazione lavorativa irregolare in capo alla moglie del comandante. 

Pur obbligato al silenzio, il luogotenente aveva confidato mesi fa al Corriere tutto il suo sconcerto per la vicenda: «Non è vero niente — aveva assicurato — vedrò se procedere per diffamazione contro ignoti. Non la vendetta di mariti gelosi, ma solo il tentativo di farmi cacciare via da parte di qualcuno che ce l’ha con me. Non riesco a immaginare di chi possa trattarsi: non ho mai avuto screzi con nessuno». Non è chiaro se quanto accaduto possa essere messo in relazione con le accuse che determinarono il trasferimento di Furceri. 

Da ilgiorno.it il 27 Ottobre 2022.

Blitz nella notte del team del Gis ha, con un'unità cinofila d'assalto, nella caserma di Asso dove ieri, nel pomeriggio, il brigadiere Antonio Milia ha sparato al suo comandante e si è asserragliato in un assedio durato oltre 12 ore. 

Alle 5,40 l'azione  dei reparti speciali dell'Arma che hanno catturato Milia, dopo quasi 10 ore di trattative,  e liberato una donna carabiniere che era in una camerata della caserma e le famiglie degli altri militari che comunque non sono mai stati in pericolo. 

Il brigadiere, prima di essere avvicinato, alla vista del cane, è riuscito a esplodere un colpo, ferendo in maniera non grave, al ginocchio, un operatore del Gis, subito soccorso dai sanitari già presenti sul posto. 

Antonio Milia  sarebbe uscito zoppicando prima di essere preso in consegna dai colleghi. Mentre invece è stato trovato morto il luogotenente il luogotenente Doriano Furceri., Il graduato dovrebbe essere rimasto ucciso già ieri.

Prima del blitz, da fuori caserma, infatti si vedeva un corpo a terra.  "L'ho ammazzato", avrebbe urlato il militare secondo alcuni testimoni dopo avere esploso almeno tre colpi di pistola. . Per tutta la notte un mediatore ha trattato la resa dell'uomo, che in passato era stato ricoverato in ospedale, e poi posto in convalescenza per diversi mesi, per problemi di disagio psichico. Alla fine la decision e dell'intervento. 

La sparatoria e l'assedio

Sono state  ore di angoscia e di apprensione ad Asso, nel Comasco, dovbe il luogotenente Doriano Furceri,  è stato colpito dai colpi di pistola esplosi da un brigadiere in servizio nella stessa caserma, Antonio Milia, cinquantenne. 

 L'uomo si è asserragliato poi nella stazione che è stata circondata dai militari e anche dei corpi speciali. Almeno tre i colpi esplosi verso il sottufficiale: chi era in caserma in quel momento ha sentito distintamente un colpo, quindi i lamenti del ferito e poi almeno altri due colpi. Il brigadiere si è asserragliato in un locale all'interno dell'edificio, di tipo moderno, costruita una trentina di anni fa, e da quel momento, per nessuno è stato possibile sincerarsi delle condizioni del luogotenente. Intorno alla caserma di Asso sono quindi arrivati i reparti speciali dell'Arma, pronti a intervenire, con giubbotti antiproiettile e la loro strumentazione all'avanguardia. 

Il brigadiere e il luogotenente

Del brigadiere, da diversi anni in servizio nel paese del Comasco, si sa che era stato ricoverato nel reparto di psichiatria dell'Ospedale sant'Anna di Como, dimesso e posto in convalescenza per diversi mesi. Giudicato idoneo al servizio da una Commissione Medico Ospedaliera, sempre secondo quanto si è saputo, era rientrato in servizio da alcuni giorni ed attualmente era in ferie. 

Il luogotenente Furceri, invece, era stato trasferito ad Asso nel mese di febbraio, dopo 17 anni trascorsi quale comandante della stazione di Bellano, sul lago di Como ma in provincia di Lecco. Il trasferimento era stato disposto dopo che il sottufficiale dal mese di dicembre dello scorso anno era stato oggetto di ingiurie e accuse con scritte anonime sui muri del paese.

Le scritte denunciavano un presunto intrigo amoroso del comandante con più di una donna sposata, con i rispettivi mariti pronti a passare alle vie di fatto. Un'altra scritta denunciava invece una situazione lavorativa irregolare in capo alla moglie del comandante. 

Il comando provinciale di Lecco aveva spiegato che «i fatti che riguardano il comandante della stazione di Bellano sono al vaglio dell'autorità giudiziaria e sono anche oggetto di un'autonoma inchiesta avviata dall'Arma dei carabinieri per stabilire i contorni della vicenda e anche per valutare la sussistenza o meno dei requisiti per la permanenza del militare nell'attuale incarico o di un eventuale trasferimento altrove, vanno verificati i fatti anche a tutela dell'interessato». 

In seguito a questo, era poi scattato il trasferimento ad Asso. Le verifiche in queste drammatiche ore puntano a chiarire se i fatti di stasera possano essere messi in relazione con le accuse che determinarono il trasferimento di Furceri.

I conoscenti di Antonia Milia

"E' una persona a postissimo, mai ci saremmo aspettati una cosa del genere". Lo ha detto Giuseppe, un amico di Antonio Milia, nel piazzale fuori la caserma dei Carabinieri di Asso (Como) dove il brigadiere si e' barricato dopo aver sparato al comandante di stazione, Doriano Furceri. "Un altro suo amico e' riuscito a parlargli al telefono ma Antonio gli ha solo detto che metteva giu perché era agitato", ha aggiunto l'uomo che lavora come autista dell'azienda del trasporto pubblico locale. "Ho provato a chiamarlo anch'io, ma il telefono squilla a vuoto", ha concluso.

Asso, le ossessioni del brigadiere killer Antonio Milia: notte di terrore, alle 5.45 la resa. Andrea Galli (inviato a Como) su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Alle 17 il carabiniere aveva finito, con un colpo di grazia, il suo comandante Doriano Furceri. In cura per depressione, era tornato al lavoro solo da una settimana e si era messo subito in licenza

«Non cede. Non vuol cedere. Forse non cederà mai» ci aggiornavano i carabinieri a loro volta informati dai colleghi vicini al punto della negoziazione condotta dagli specialisti dei Gis, il Gruppo di intervento speciale. Del resto, il brigadiere Antonio Milia, 57 anni – «brigadiere killer», dicono adesso, dopo che è stato arrestato per aver ucciso il suo comandante Doriano Furceri – ha sconfinato orari in cui sembrava dovesse ormai capitolare. Orari in cui, nel passato, altri più strutturati di lui, magari con esistenze da balordi e assassini di professione, erano caduti. Le tre, le quattro di notte. Fasi di crollo fisico ed emotivo, di stanchezza, di sonno che supera l’adrenalina. Ma lui, niente. Se non le lacrime, se non quel ripetere ai mediatori del Gis «L’ho ammazzato», qui all’ingresso della caserma dei carabinieri di Asso, in provincia di Como, dove alle 17 Milia (si pronuncia accentando la seconda «i») aveva finito, con un colpo di grazia, il suo comandante Doriano Furceri, e dove si era trincerato rifiutando, fino alle 5.45, di arrendersi deponendo su di un davanzale la pistola d’ordinanza con la quale aveva colpito in due fasi, prima nel suo ufficio poi inseguendolo nel corridoio, il superiore, con cui da tempo immemore aveva degli screzi.

La degenza

Ebbene i due non andavano d’accordo, viene ripetuto e ancora ripetuto, il che però significa tutto e niente: piuttosto, se i rapporti tesi erano degenerati in fatti concreti, qualche collega o ulteriori superiori ne aveva preso nota? Erano state effettuate delle profonde valutazioni? Era stato ascoltato il personale della caserma, una struttura spropositata negli spazi rispetto alle sue quotidiane funzioni, collocata com’è in un paese di nemmeno 4mila abitanti? A meno che, certo, ogni riflessione vada esclusivamente inserita nel drammatico quadro sanitario di Milia, sposato, tre figli, proprio come la sua vittima. Una forte, fortissima depressione. Il ricovero. Le cure dei medici. Il ritorno a casa, ma non al lavoro. Altri periodi duri, cupi, di tormenti e dolore.

Infine, il parere della Commissione medica militare, che decide su vicende del genere: e al quesito se tenere ancora lontano il brigadiere dal lavoro e soprattutto da una pistola nella fondina, oppure se considerarlo pronto e sereno, senza esitare ha sentenziato per la seconda opzione. Milia? Nessun problema. Eppure, al netto delle frasi di circostanza per non parlare male comunque d’un collega dinanzi a uno sconosciuto, la verità è che il brigadiere stava molto male. Anche nei giorni scorsi aveva dato ampi, eloquenti segnali di disturbi, di incompatibilità con un ambiente di lavoro, a maggior ragione, figurarsi, per uno così delicato come quello dei carabinieri.

Aveva delle ossessioni, era convinto che il mondo ce l’avesse con lui, che il capo non lo considerasse valido, che l’Arma tutta volesse farlo fuori appena possibile, che i colleghi della caserma lo evitassero apposta, che la caserma di Asso fosse divenuta un mondo insopportabile, tanto che una volta, l’avevano fermato mentre sparava contro il pavimento della struttura. Uno psicologo lo ha avuto in cura per mesi e mesi: ne ha raccolto gli sfoghi? Le fissazioni? Se sì, pur nel rispetto del segreto professionale, per quale motivo mai, sempre tenendo in conto il mestiere di Milia, non ha informato i carabinieri? Perché? Il brigadiere ne parlava in giro, ci scriveva bigliettini che depositava ovunque, su quel presunto complotto planetario ai suoi danni.

Il paese di Andrea Vitali

I componenti della Commissione medica, quelli che hanno acconsentito alla piena operatività di un uomo che andava destinato ad altra occupazione, saranno tra i primi a essere ascoltati, insieme allo psicologo, dalla Procura di Como, che coordina le indagini sull’omicidio del comandante Furceri, il quale nel 2020 era stato cacciato dai suoi vertici dalla storica sede di Bellano, paese sul lago, ramo lecchese, dopo che parecchie scritte sui muri avevano in sostanza ordinato al luogotenente di smetterla d’insidiare le mogli di chiunque. Lui, pur vincolato al silenzio, in quei giorni, al Corriere aveva confessato un timore: d’essere al centro d’una infernale macchina del fango orchestrata da qualcheduno contro cui aveva indagato magari facendolo anche condannare. Che il medesimo argomento, ovvero presunte relazioni extraconiugali, abbia un’attinenza con la tragedia di Asso, resta al momento pura speculazione. Dopo un’assenza di mesi, con i disturbi forse acuiti dal lungo periodo pandemico, il brigadiere Milia aveva ottenuto il sì al lavoro soltanto una settimana fa, ma anziché rientrare – finalmente rientrare – s’era subito messo in licenza. Avendo l’alloggio di servizio nella caserma, poteva girarvi liberamente, alla pari di Furceri che, in relazione a quella storia di Bellano, aveva altresì ricevuto la solidarietà del residente più famoso del paese, lo scrittore Andrea Vitali («Sono tremendamente addolorato»).

Il finale complicato

La strategia del Gis si è sviluppata su due canali. Un primo gruppo si è posizionato a ridosso della cancellata dalla caserma, cancellata oltre la quale c’era Milia, per occuparsi della mediazione. Una seconda squadra del Gis si è aperta un varco bucando la rete sul perimetro posteriore della caserma, entrando e raggiungendo via via le persone all’interno della struttura: i famigliari dei due carabinieri, una carabiniera che ha avuto il merito di gestire queste lunghissime ore aiutando nel «controllo» dei medesimi parenti, e forse degli ulteriori carabinieri che però, ed è un tema che ha innescato e innescherà delle domande, nonostante la superiorità numerica, il loro stesso mestiere, la delicatezza della situazione, e il contesto logistico, appunto una caserma dell’Arma, non hanno cercato di sorprendere e bloccare Milia. 

Per quale motivo? Perché, ci viene spiegato, le priorità erano la salvaguardia delle vite umane, nessuna esclusa. Tanto che anche il Gis, forse «scardinando» certa enfasi mediatica, non ha condotto alcuna azione muscolare scegliendo di rendere inoffensivo il brigadiere con due taser, le pistole elettriche, e l’ausilio dell’unità cinofila. Dopodiché, per onestà di cronaca, non possiamo non raccontare il finale anomalo, ovvero conclusosi con il ferimento di uno dei Gis, super-esperti per antonomasia: nessuno si è accertato di «isolare» la pistola in precedenza poggiata da Milia; nessuno ha fatto in modo che la caduta dello stesso brigadiere, una volta colpito appunto dai taser, avvenisse non sopra quell’arma dalla quale è partito un proiettile che ha ferito, per fortuna di striscio, un Gis. Un finale complicato in una narrazione cominciata disgraziatamente. Bisognerà raccontare anche del piantone. Un piantone che, messo a protezione di una caserma, dinanzi agli spari, gli spari di un collega contro un collega, dinanzi al comandante agonizzante e al brigadiere che lo inseguiva, anziché intervenire, ecco, è scappato.

Antonio Milia, il carabiniere killer e i disagi psichici: chi lo ha autorizzato a rientrare in servizio? Indagine sui medici. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Asso (Como), ha ucciso in caserma il suo comandante. «Il superiore non lo riteneva pronto a tornare al lavoro»

Nell’attuale incertezza su chi indagherà, se la Procura ordinaria di Como oppure quella militare di Verona competente per giurisdizione, sono comunque già note le prime mosse dei magistrati: interrogare i componenti della Commissione medica che ha autorizzato il ritorno in servizio del brigadiere dei carabinieri Antonio Milia, il 57enne che giovedì ha ucciso il proprio comandante, il luogotenente Doriano Furceri, d’un anno maggiore, nella caserma di Asso, nemmeno 4 mila abitanti nella pacifica geografia tra i laghi di Como e Lecco. 

A quella Commissione, che raggruppa esperti sanitari sia dell’Esercito sia della medesima Arma, Milia aveva fornito ampia documentazione clinica di dottori privati, i quali a loro volta non avrebbero ravvisato anomalie nella possibilità di ridare un’arma a un uomo malato da gennaio di disturbi mentali, ricoverato in Psichiatria, sottoposto a lunghe cure, perseguitato da ossessioni, convinto che il mondo ce l’avesse con lui. Il mondo e in particolare proprio Furceri, che dirigeva Asso dal gennaio del 2021 dopo che i vertici dei carabinieri avevano deciso il suo spostamento: era a Bellano, il paese narrato dallo scrittore Andrea Vitali, amico di quel luogotenente destinatario di scritte sui muri delle case con l’accusa di «insidiare» ogni moglie della comunità. Pur obbligato al silenzio dai superiori, Furceri aveva confidato al Corriere lo sdegno per una «macchina del fango», sicuro d’essere il bersaglio di «qualcuno che ho catturato e che magari ho fatto anche condannare». 

In questa devastante storia di Asso, nell’annotare gli elementi nella loro complessità, dobbiamo riportare le prime parole pronunciate da Milia, infine arrestato dagli specialisti del Gis, il Gruppo d’intervento élite dell’Arma, alle 5.45 della notte tra giovedì e ieri. Ovvero al termine di quasi 13 ore di trattativa, ore durante le quali il brigadiere, sposato, tre figli come Furceri, non ha nascosto le intenzioni di suicidarsi senza dare seguito ai proclami. Ebbene, nelle iniziali confessioni confermate in sede d’interrogatorio, Milia ha raccontato che il comandante era responsabile (anche) dei suoi problemi famigliari: il brigadiere non andava d’accordo con la moglie, ormai da tempo, molto tempo, e per appunto ne incolpava Furceri «reo», a suo dire, di non aiutarlo sul luogo di lavoro complicandogli ancor più un’esistenza faticosa (in questo articolo tutti i fantasmi di Antonio Milia: i post-it contro i colleghi e gli spari a gennaio). In effetti il comandante non considerava il brigadiere pronto a riprendere la turnazione in caserma: aveva anzi bisogno di ulteriore riposo, e giovedì Milia era in licenza, pur essendo stato dichiarato dalla Commissione pronto all’effettiva quotidianità da carabiniere dieci giorni fa.

  Il brigadiere ha sparato contro Furceri nel suo ufficio inseguendolo mentre fuggiva e completando l’agguato con un colpo alla nuca. Forse il «colpo di grazia». Il cadavere è rimasto sul pavimento dell’ingresso della caserma, a ostruire la porta, mentre all’interno della struttura i familiari di Furceri come di Milia si erano nascosti negli alloggi di servizio, sul medesimo piano. Ma l’assassino aveva concluso gli obiettivi; non ha provato a raggiungere quei parenti o altri colleghi. Il brigadiere che adesso chiamano «brigadiere-killer», gli occhi di pianto persi nell’abisso, non cercava più nessuno.

Carabiniere spara e uccide il suo comandante nella stazione di Asso (Como). Si barrica in caserma e urla: "L'ho ammazzato". Arrestato dopo ore di trattativa. Redazione Milano su La Repubblica il 27 Ottobre 2022. 

Non si conoscono al momento i motivi del gesto. L'uomo che ha sparato era stato ricoverato per un disagio psicologico, attualmente era in ferie. Un carabiniere del Gruppo di Intervento Speciale (Gis) è rimasto ferito in modo non grave durante il blitz

Hanno fatto irruzione nella caserma di Asso, in provincia di Como, i carabinieri che per tutta la notte hanno trattato la resa del brigadiere l militare, Antonio Milia, asserragliato dopo aver sparato al comandante della stazione, il luogotenente Doiano Furceri. Un carabiniere del Gruppo di Intervento Speciale (Gis) è rimasto ferito in modo non grave durante il blitz. Il militare è stato colpito a un ginocchio da un colpo di pistola del brigadiere Milia, che ha sparato, prima di essere bloccato e disarmato, alla vista di un cane delle unità cinofile.

Milia è uscito zoppicando prima di essere preso in consegna dai colleghi: già nelle prossime ore l'uomo verrà interrogato dal pm di turno per cercare di far luce sui motivi della tragedia.

Libere e illese persone dentro la caserma di Asso

Sono liberi, e illesi, gli ostaggi che si trovavano nella caserma dei Carabinieri di Assago, in provincia di Como, dove per tutta la notte è rimasto asserragliato un brigadiere dopo aver sparato al comandante.

Si tratta di una donna carabiniere, che ha trascorso la notte chiusa in una camerata, in sicurezza, e delle famiglie degli altri militari, che si trovavano negli alloggi di servizio, a distanza dall'assalitore. 

Il dramma di Asso ha avuto inizio nel pomeriggio di giovedì

Tutto era iniziato nel pomeriggio di giovedì quando un appuntato dei carabinieri ha sparato al proprio comandante di stazione ad Asso, nel Comasco. Il militare, che ha usato la sua pistola d'ordinanza, si è poi asserragliato in caserma. Alcuni testimoni hanno riferito che il brigadiere che ha sparato al suo comandante per poi asserragliarsi in caserma, ad Asso, ha urlato: "l'ho ammazzato". Non si conoscono, al momento, i motivi del gesto avvenuto nel pomeriggio.

Il brigadiere Milia era stato ricoverato nel reparto di psichiatria

Entrambi i militari sono sposati e hanno rispettivamente tre figli. Quello che è certo, al momento, è che Milia era stato ricoverato presso il reparto di psichiatria dell'Ospedale di San Fermo della Battaglia (Como) poiché affetto da problemi di disagio psicologico e successivamente dimesso e posto in convalescenza per diversi mesi. Giudicato idoneo al servizio da una Commissione Medico Ospedaliera, era rientrato in servizio da alcuni giorni ed attualmente era in ferie.

Il luogotenente Doriano Furceri era stato trasferito ad Asso dalla provincia di Lecco

Era stato trasferito ad Asso dalla provincia di Lecco il luogotenente Doriano Furceri. Prima di arrivare in provincia di Como il sottufficiale ammazzato aveva prestato servizio per alcuni anni a Bellano, da dove è stato spostato per incompatibilità ambientale.

Nel centro storico della località sulla sponda orientale del lago di Como erano comparse alcune scritte contro il militare, sposato e con tre figli: "Giù le mani dalle mogli degli altri". Non si sa se queste accuse siano collegate con il gesto del brigadiere Antonio Milia.

Il generale Luzi: "Massima trasparenza e accertamento dei fatti"

I tragici fatti avvenuti all'interno della Stazione Carabinieri di Asso in provincia di Como addolorano "profondamente" tutta l'Arma. Il comandante generale Teo Luzi, a nome di tutti i Carabinieri, si stringe attorno alla famiglia della vittima, garantendo "la massima trasparenza nell'accertamento dei fatti". Il brigadiere Antonio Milia era stato riammesso in servizio a seguito del giudizio di una Commissione Medico Ospedaliera, ente sanitario esterno all'Arma, e dopo copiosa documentazione medico sanitaria di una struttura Ospedaliera pubblica.

I fantasmi dell’assassino e l’odio per il comandante "Lui era il mio nemico". La vittima contraria al reintegro dopo il ricovero in psichiatria. Il brigadiere e l’ipotesi del suicidio. Paola Fucilieri il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Un fiume in piena, a cavallo tra la disperazione e il desiderio di chiarire, spiegare, e persino - se mai fosse possibile - giustificare quel che non si può. Ovvero l'«odio» (così lo ha definito lui stesso ieri) che gli ha sconvolto la mente portandolo giovedì pomeriggio a uccidere a sangue freddo con tre colpi di pistola il suo diretto superiore, il 58enne maresciallo Doriano Furcieri, comandante della stazione dei carabinieri di Asso (una trentina di chilometro a nord est di Como, tra i due rami del lago) e a ferire a una gamba un altro collega del Gis di Livorno che ieri mattina, durante il blitz dei corpi speciali per liberare gli ostaggi trattenuti per 12 ore in caserma da Milia, aveva tentato di immobilizzarlo. Il militare non è in gravi condizioni.

Reduce dalla notte più buia e lunga della sua vita il brigadiere Antonio Milia, 57 anni, ieri pomeriggio, a partire dalle 14.30, nella caserma del comando provinciale dei carabinieri di Como, è stato interrogato dal pm lariano Michele Pecoraro accompagnato dai pm della Procura militare di Verona che indagano insieme sull'omicidio e il tentato omicidio. Una tragedia che ha rischiato un finale ancora più drammatico visto che giovedì, poco dopo aver sparato e ucciso il suo comandante, Milia aveva scritto un messaggio a tutti i suoi parenti per dir loro addio, lasciando intendere l'intenzione di togliersi la vita.

Prima dell'inizio dell'interrogatorio, si pensava che il brigadiere killer si avvalesse della facoltà di non rispondere, ma il 57enne, davanti ai rappresentati della giustizia militare e civile e al suo legale, l'avvocato Roberto Melchiorre, ha subito chiarito la sua intenzione di voler parlare e collaborare. A quel punto ha delineato una situazione insostenibile che durava da mesi e che con ogni probabilità, ha minato una mente (la sua) già provata da un fortissimo disagio. All'inizio dell'anno infatti Milia, vittima di una forma depressiva pesante, aveva minacciato di togliersi la vita con l'arma di ordinanza, ragion per cui era stato messo a riposo e allontanato per farsi curare. Dopo il ricovero in una struttura psichiatrica ospedaliera facente capo all'ospedale Sant'Anna di Como, da pochi giorni e con pieno appoggio di una commissione medica militare che lo aveva esaminato a Milano, era stato dichiarato idoneo a tornare in servizio «incondizionatamente», cioè senza limitazione di mansioni. Il brigadiere si era scontrato però con il comandante Furceri che si era opposto al suo reintegro, imponendogli di prendesi altri giorni di ferie dopo che Milia era rientrato al lavoro da appena qualche giorno, il 18 ottobre.

Da qui in avanti - cioè dal momento in cui si vede ancora una volta, dopo tanti mesi di assenza forzata a causa della malattia, tagliato fuori dal proprio lavoro - la follia s'impadronisce del brigadiere Milia. Che vede il maresciallo Furceri come un «nemico» che «sapeva che tra un anno sarei andato in pensione ma ugulamente non voleva riammettermi in servizio» ha ripetuto ieri davanti ai giudici Milia.

Giovedì, alle 17.30, uscito dal suo alloggio (vive con la famiglia in caserma, esattamente come la sua vittima) il brigadiere scende le scale e raggiunge l'ufficio di Furceri. Nessuno sa che cosa si siano detti veramente, ma ormai il brigadiere sapeva cosa voleva fare e non sarebbe mai tornato indietro. Così ha estratto la sua pistola d'ordinanza e gli ha sparato tre colpi a bruciapelo. Dopo aver gridato, come in una sorta di liberazione «l'ho ammazzato!», il brigadiere ha trascorso 12 ore appoggiato allo stipite della porta d'ingresso della caserma, in una mano il telefono cellulare, nell'altra la pistola. Dietro di lui, a pochi metri, a terra, era visibile il corpo del suo comandante. Asserragliatosi dentro, Milia ha impedito a tutti coloro che abitano in caserma con le loro famiglie di uscire, quindi, di fatto, li ha sequestrati. Chiunque ha tentato di avvicinarsi da quel momento si è trovato la sua arma puntata contro.

Poi il silenzio più totale, frammentato da qualche esclamazione isterica. Un negoziatore, proveniente dal reparto operativo di Varese, ha iniziato un serrato dialogo col brigadiere nel tentativo di convincerlo a deporre l'arma e arrendersi. Per ore il negoziatore, insieme ad altri colleghi dell'Arma, ha persistito nel tentativo di convincimento senza ottenere alcun risultato. Si è deciso tuttavia a continuare su questa strada per prendere l'uomo per sfinimento, anche se attorno alle 22 ad Asso da Livorno sono arrivati i Gis, le «teste di cuoio», i reparti speciali dell'Arma, pronti a intervenire.

La notte è trascorsa così, a parlare con i negoziatori, mentre una folla di persone comuni aveva raggiunto la caserma dopo che la voce di quello che stava succedendo si era ormai diffusa. Poco prima dell'alba, alle 5.40, i militari hanno messo in azione un blitz, impegnando i reparti speciali, per immobilizzare Milia e liberare gli ostaggi.

Di lui, delle sue reali condizioni psichiche, l'avvocato Melchiorre dice: «È distrutto. E abbiamo bisogno di capire tante cose. Si tratta di una situazione su cui non andranno fatti accertamenti solo sul piano giudiziario ma anche su quello clinico-sanitario»

Il killer instabile convinto di star bene e l'eroe che i mariti non sopportavano. Il brigadiere per tutti era guarito e si era lasciato il buio alle spalle. Il suo superiore era già stato trasferito per voci su storie di infedeltà. Paola Fucilieri il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Milano Non solo colleghi perché appartenenti alla grande famiglia dell'Arma dei carabinieri, ma anche mariti e padri di famiglia (hanno entrambi tre figli). Vicini (alloggiano tutti e due in caserma, ad Asso, teatro della tragedia) e praticamente coetanei. Ma diversissimi, incapaci di convivere nel medesimo spazio nel quale si muovono cercando di interagire il meno possibile, tra pareti divise da un disprezzo silente, nutrito da una sottile ma profonda disistima reciproca. Sono i classici opposti che si respingono in questa vicenda il brigadiere Antonio Milia, 57 anni e il suo comandante, il maresciallo Doriano Furceri.

Il brigadiere era stato sospeso dal servizio a febbraio di quest'anno dai suoi superiori di Como dopo che a gennaio aveva minacciato e apparentemente tentato di togliersi la vita con la pistola d'ordinanza, motivo per cui era stato ricoverato nel reparto di psichiatria dell'ospedale Sant'Anna a San Fermo della Battaglia, nel comasco. Eppure per gli specialisti il peggio era passato e, a dirla tutta, anche chi lo frequentava nella vita di tutti i giorni adesso sarebbe pronto a giurare che «stava benissimo» e che i grossi problemi psicologici che lo avevano afflitto erano ormai acqua passata. La commissione medica militare che a Milano aveva esaminato Milia nei mesi scorsi aveva dato il suo via libera, giudicandolo idoneo a tornare in servizio «incondizionatamente», cioè senza limitazione di mansioni. Un parere confortato anche dalla copiosa documentazione prodotta dalla commissione sanitaria del reparto di psichiatria dell'ospedale Sant'Anna di Como, a San Fermo della Battaglia. Furceri, suo comandante no, non lo rivoleva in servizio e si era opposto al suo reintegro, imponendogli di prendesi altri giorni di ferie anche se lui, il sottoposto, aveva appena ripreso il suo lavoro, una decina di giorni fa, il 18 ottobre. Avrebbe avuto origine da qui la furia omicida di Milia.

Per quel che riguarda la vittima, il maresciallo Doriano Furceri, 58 anni, di origine palermitana, aveva fatto una lunga gavetta nelle caserme e di pattuglia sulle strade di mezza Lombardia come Seregno (Monza) o alla compagnia di Merate (Lecco). Una missione in Kosovo nel 2004 gli era valsa una medaglia e, al suo ritorno, il comando, prestigioso, della caserma di Bellano (Lecco), punto di riferimento per tutta la zona della sponda orientale di quel ramo del lago di Como. Lì, in ben diciassette anni di servizio si era occupato di molte questioni. Nel febbraio 2021 era stato però trasferito d'ufficio per incompatibilità ambientale perché «accusato» pubblicamente sui muri del centro storico con scritte a caratteri cubitali tracciate da una mano anonima di insidiare le mogli altrui: «Giù le mani dalle mogli degli altri». Il suo nome non era stato scritto, ma il riferimento a lui con l'invito a togliersi «cintura» e «pistola» era parso chiaro a tutti, anche perché preceduto da insistenti chiacchiere di paese. Lui si era sempre difeso, spergiurando che non era vero nulla e anche la moglie aveva preso le sue parti. Ma tanto era bastato ai suoi superiori per metterlo prima in ferie forzate e poi per avviare un'inchiesta interna. Era quindi stato trasferito ad Asso per quelle che in maniera asettica e formale, vengono definite «ragioni di opportunità».

(ANSA il 29 ottobre 2022) - "L'attuale servizio per il supporto psicologico del Ministero della Difesa rivolto al personale militare sarà completamente ripensato, anche in funzione del contesto sociale di oggi che presenta indubbiamente criticità maggiori rispetto al passato. Eventi come quello avvenuto nella giornata di ieri, presso la Stazione dei Carabinieri di Asso (Como), che ha comportato la scomparsa del Luogotenente dei Carabinieri Doriano Furcieri non dovranno mai più accadere. È mia intenzione rivedere in maniera significativa e al più presto, il supporto psicologico al personale militare". Così il Ministro della Difesa Guido Crosetto in una nota.

Marco Gregoretti per “Libero quotidiano” il 29 ottobre 2022.  

Le prime due domande che vengono spontanee sono: se aveva avuto disagi psicologici così importanti come mai poteva tener l'arma nella fondina? La seconda: quando e perché erano iniziati questi disagi? 

Non è stata una passeggiata per il pm di turno di Como e per i suoi due colleghi della Procura militare di Verona interrogare, ieri pomeriggio dalle 15, il brigadiere Antonio Milia, 57 anni, padre di tre figli, sposato, che , intorno alle 17,30 di giovedì sera, con la pistola di ordinanza ha ucciso, nella caserma di Asso (Como), dove prestava servizio, il suo comandante, il luogotenente Doriano Furceri, 58, anche lui sposato, anche lui con tre figli.

La ricostruzione dei fatti raccontata nell'immediato è sostanzialmente confermata: Milia, ha sparato tre colpi di pistola (stando ad alcune testimonianze raccolte), ferendo a morte Furceri. Dopodiché si è barricato in caserma per tutta la notte. 

Poi, ieri mattina alle 6, un blitz del Gis (Gruppo di intervento speciale) dei Carabinieri, ha messo fine alla paura degli ostaggi, liberandoli tutti e prendendo in custodia il loro collega. Nel corso dell'irruzione, però, un proiettile partito dalla pistola di Milia ha colpito alla gamba una "testa di cuoio" del Gis: 20 giorni di prognosi.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha scritto al Comandante Generale dell'Arma Teo Luzi: «Sono rattristato per i tragici fatti della stazione dei Carabinieri di Asso. Nell'esprimere vicinanza all'Arma, la prego di far giungere i miei sentimenti di cordoglio ai famigliari del Luogotenente Furceri e gli auguri di pronta guarigione al Carabiniere ferito». 

Le accuse in capo al brigadiere potrebbero essere quelle di omicidio, tentato omicidio, sequestro di persona. Oltre a una seria di reati previsti dal codice militare. Tra le persone accorse sul posto, quando si è sparsa la notizia, sarebbe stato visto anche il suo vecchio comandante della stazione di Asso, il maresciallo Salvatore Melchiorre. 

Christian Bertossi, ex tenente dei Carabinieri, oggi titolare di una agenzia di investigazioni, la Be-Team security di Como, specializzata in processi penali, è un amico di Milia. È arrivato di corsa davanti alla caserma e accetta di parlare con Libero: «Ero a Como, mi sono precipitato ad Asso, dove abito, proprio a due passi dalla tragica scena del crimine. Mi offro per assistere il mio amico gratuitamente nella difesa tecnica e cercherò anche un avvocato che lo rappresenti. Sono molto sofferente: ho l'Arma nel sangue e nel cuore, un Carabiniere è morto perché lo ha ucciso un’ altro Carabiniere». Bertossi rivela a Libero un dettaglio interessante.

«Ho fatto di tutto per entrare a parlare con lui. Mi sono attivato con il mediatore. Ho mosso mari e monti. Avevo paura che potesse uccidersi. Lui sta male. Va curato. Ma non mi hanno autorizzato. Però sono riuscito a parlargli per telefono». Cioè, lo ha sentito direttamente, mentre era dentro con gli ostaggi?. «Sì, sì. Mi ha chiesto di continuare a essergli amico. Sono rimasto colpito dal suo tono tranquillo, durante la conversazione. Come se ci stessimo prendendo un caffè. Comunque i Gis sono stati bravi: lo hanno preso vivo».

Il "vulnus" sarebbe da ricercare nel contrasto con il comandante della sua caserma, sullo di un profondo disagio psicologico. Milla, infatti, era stato sospeso dal servizio per motivi psichiatrici in concomitanza con l'arrivo di Furcieri, che sarebbe stato trasferito da Bellano ad Asso, «per incompatibilità ambientale». 

Il provvedimento di sospensione «per motivi psichiatrici» era stato preso dal comando di Como, allarmato da comportamenti suicidari, probabilmente scaturiti da questioni personali e non strettamente di lavoro. A questo erano seguiti un ricovero nel reparto di psichiatria dell'Ospedale di Fermo della Battaglia e una lunga convalescenza. Al termine della quale la commissione medica di Milano ha autorizzato il rientro in caserma «senza alcuna limitazione». Ma la vittima non era d'accordo. Non voleva che il brigadiere Antonio Milia tornasse in servizio attivo.

Dopo una notte di negoziazioni all’alba il blitz dei militari. Carabiniere barricato in caserma, fermato dopo notte di trattativa: “Ha ucciso il comandante”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Il brigadiere si è asserragliato nella caserma dei carabinieri di Asso, provincia di Como, e ha sparato almeno tre colpi con la sua arma d’ordinanza. Poi le grida del comandante e i momenti di panico nel cercare di capire se fosse ancora vivo. È rimasto barricato per oltre 12 ore, una nottata di trattative, poi all’alba il blitz dei carabinieri. L’uomo è stato arrestato ma il comandante è già morto.

Il brigadiere Antonio Milia, nel pomeriggio di giovedì 27 ottobre si era barricato in caserma prendendo in ostaggio il comandante Doriano Furceri. Intorno alle 19.30 alcuni testimoni hanno sentito prima un colpo di pistola, poi le grida del comandante ferito. Poi sono seguiti altri 2 colpi. Per ore non è stato chiaro se il comandante fosse ancora vivo. L’Ansa ha riportato che alcuni testimoni hanno riferito di aver sentito il brigadiere urlare: “l’ho ammazzato”.

Per tutta la notte un mediatore ha trattato la resa dell’uomo, che in passato era stato ricoverato in ospedale, e poi posto in convalescenza per diversi mesi, per problemi di disagio psichico. Il militare era armato e minacciava di uccidersi. Con la locale Arma territoriale, sul posto sono arrivati i reparti specializzati per gestire tali situazioni di emergenza. All’interno della stazione, ma chiusa in un ufficio in condizioni di sicurezza, c’era anche una carabiniera. Negli alloggi, anche loro in sicurezza, le famiglie dei carabinieri. Il luogotenente e il brigadiere, che era stato riammesso in servizio perché ritenuto idoneo, sono sposati e hanno entrambi tre figli. Poi all’alba i carabinieri hanno fatto irruzione in caserma.

Il blitz dei reparti speciali dei carabinieri nella caserma di Asso, in provincia di Como, è scattato intorno alle 5.40, dopo una lunga notte di trattative con il brigadiere Antonio Milia. Un carabiniere del Gruppo di Intervento Speciale (Gis) è rimasto ferito in modo non grave durante l’irruzione nella caserma di Asso (Como). Il militare è stato colpito a un ginocchio da un colpo di pistola del brigadiere Antonio Milia, che ha sparato, prima di essere bloccato e disarmato, alla vista di un cane delle unità cinofile. Milia è stato fermato e arrestato. La procura di Como gli contesta l’omicidio del suo superiore, trovato morto questa mattina, e il tentato omicidio di un militare del Gis, ferito a un ginocchio in modo lieve da un colpo di pistola esploso negli attimi concitati dell’irruzione.

Secondo quanto riportato dall’Ansa, il luogotenente Doriano Furceri era stato trasferito ad Asso dalla provincia di Lecco. Prima di arrivare in provincia di Como il sottufficiale ammazzato aveva prestato servizio per alcuni anni a Bellano, da dove è stato spostato per incompatibilità ambientale. Nel centro storico della località sulla sponda orientale del lago di Como erano comparse alcune scritte contro il militare, sposato e con tre figli: “Giù le mani dalle mogli degli altri”. Non si sa se queste accuse siano collegate con il gesto del brigadiere Antonio Milia, che gli ha sparato e poi ha trascorso la notte asserragliato in caserma. Preso in consegna dai colleghi dopo l’irruzione dei reparti speciali, già nelle prossime ore l’uomo verrà interrogato dal pm di turno per cercare di far luce sui motivi della tragedia. Quello che è certo, al momento, è che Milia era stato ricoverato presso il reparto di psichiatria dell’Ospedale di San Fermo della Battaglia (Como) poiché affetto da problemi di disagio psicologico e successivamente dimesso e posto in convalescenza per diversi mesi. Giudicato idoneo al servizio da una Commissione Medico Ospedaliera, era rientrato in servizio da alcuni giorni ed attualmente era in ferie.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Antonio Milia, chi è il carabiniere che ha ucciso il suo comandante ad Asso (Como). Chiara Nava il 28/10/2022 su Notizie.it.

 Antonio Milia è un carabiniere che ha ucciso a colpi di pistola il suo comandante Doriano Furceri, per poi asserragliarsi dentro la caserma di Asso. 

Antonio Milia, carabiniere e padre di tre figli, ha ucciso a colpi di pistola Doriano Furceri, il suo comandante, poi si è asserragliato dentro la caserma di Asso. Aveva disturbi psichiatrici ma era stato considerato idoneo per la sua professione.

Antonio Milia, chi è il carabiniere che ha ucciso il suo comandante ad Asso 

Antonio Milia, brigadiere di origini sarde che viveva a Como, sposato e con tre figli, ha commesso un terribile omicidio. Il carabiniere ha ucciso a colpi di pistola Doriano Furceri, il suo comandante, per poi asserragliarsi dentro la caserma di Asso insieme al cadavere. In passato era stato ricoverato presso il reparto di Psichiatria dell’Ospedale di San Fermo della Battaglia, a Como, perché era affetto da problemi di disagio psicologico.

Successivamente era stato dimesso e posto in convalescenza per alcuni mesi. 

Antonio Milia aveva problemi psichiatrici ma era stato giudicato idoneo al servizio

Dopo il ricovero e la convalescenza, il carabiniere era stato giudicato idoneo al servizio da una Commissione Medico Ospedaliera, ente sanitario esterno all’arma, ed era rientrato in servizio da alcuni giorni, dopo un’importante documentazione medico sanitaria fornita da una struttura ospedaliera. Attualmente era in ferie.

Non sono ancora chiari i motivi di questo terribile gesto. Non è chiaro se si sia trattato di un raptus o di un regolamento di conti.

Ladri bambini. Milano, fermato ancora per rapina il 12enne marocchino. L'impunità per legge degli under 14 e le falle di comunità e servizi sociali. I percorsi di recupero? Inesistenti. Luca Fazzo il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

«Tanto lo so che non potete farmi niente». Sono loro i primi a saperlo, i ladri bambini che piagano il centro di Milano, e che trasformano in bersaglio qualunque orologio e qualunque borsa, e che vengono oggi evocati come ultima frontiera dell'insicurezza del capoluogo lombardo. Quando vengono bloccati - da ultimo l'altro ieri, uno sbarbato di dodici anni, dopo l'ennesimo Rolex sfilato al solito turista - non si spaventano, non devono implorare perdono. Non li aspetta il carcere nè il riformatorio. Li identificano, li segnalano, e poi li restituiscono alla famiglia: a volte la stessa famiglia che li ha mandati a rubare, spesso una famiglia che li trascura, li abbandona, o esiste solo sulla carta.

La chiave dell'impunità sta tutta lì, nelle poche righe in cui il codice penale fissa a quattordici anni il limite minimo per l'imputabilità. Dai quattordici e fino ai diciotto, si soggiace al tribunale dei minori, con le sue pene più blande, i suoi percorsi di recupero: anche se a volte anche quelli restano solo sulla carta, perchè chi frequenta il «Beccaria», lo storico minorile di Milano, ha a che fare con un turnover frenetico di ragazzi che entrano, escono, si dileguano nel magma urbano da cui provengono: e i tentativi di allacciarli svaniscono insieme a loro.

Al di sotto dei quattordici per la legge c'è il nulla, si apre il vasto regno dell'impunità. Non potrebbe essere che così, ovviamente. Come si può pensare di incarcerare o comunque punire un bambino che a stento comprende il senso delle sue azioni? La legge non prevede che lo Stato faccia del tutto finta di nulla. Per loro, ancora più che per i fratelli maggiori, dal momento dell'arresto dovrebbe innescarsi un percorso di aggancio e di recupero, in grado di inviarli su bivi diversi da quello che troppo presto hanno imboccato.

Il problema è che tutto avviene lontano dai rigori del codice penale, affidato alla mano malferma dei servizi sociali, che più di tanto non possono fare e a volte non fanno neanche il poco. D'altronde come trattieni un ragazzetto fuori controllo? Li portano in comunità, la mattina dopo se ne sono già andati, lasciando ai giudici minorili la desolante sensazione di svuotare il mare con un cucchiaio bucato. In teoria alcuni di loro in quanto abbandonati potrebbero essere dichiarati adottabili, ma chi se li piglia in casa?

Così, inevitabilmente, il messaggio che arriva loro è solo la garanzia dell'impunità incondizionata. Non arriva solo a i ladri bambini, purtroppo. Arriva anche agli adulti che gli stanno dietro e che li usano. Perchè questo è ovvio: non fanno tutto da soli. D'altronde che ne sa un bambino di come si piazza un Daytona rubato, di come si monetizza una Kelly? A dodici anni non si conosce il giro dei ricettatori.

Accade oggi con i piccoli di origine maghrebina quanto accadeva da sempre con i bambini rom. Che crescevano in una comunità dove le regole della devianza e della microcriminalità erano ben note, e dove fare i conti con la giustizia era una sorta di mestiere. Così a fare il lavoro sporco venivano mandati i figli minori, i non ancora quattordicenni: abbastanza agili per scavalcare un balcone o sfilare un portafoglio, troppo piccoli per essere puniti. Più che colpevoli erano vittime, e qualche indagine sullo stato di schiavitù in cui di fatto erano tenuti venne tentata ma senza grande seguito. Lo stesso accade oggi, a mandare allo sbaraglio i «non imputabili» sono a volte i padri o i fratelli maggiori, a volte semplicemente altri adulti diventati il loro riferimento in un contesto di rapporti familiari sfilacciati.

Così a muoversi nella città per conto degli adulti che li usano sono loro, i piccoli, che dei luoghi appetibili sono diventati conoscitori precoci: il quadrilatero della moda, le via della movida dove adocchiare il ricco distratto o alticcio. I «falchi» della Squadra Mobile hanno imparato a riconoscerli al volo, a volte a giocare d'anticipo, a volte a bloccarli. Sapendo già che li attende il sorriso quasi da scugnizzo: «Non potete farmi niente».

Ilaria Carra per repubblica.it l’8 novembre 2022.

Quanti anni ha Bilal? Nessuno è in grado di dirlo, del resto non è noto neppure il suo nome. E così il gip del Tribunale dei minori di Milano, senza la certezza che abbia 14 anni e sia dunque imputabile, lo ha scarcerato. 

È questo l'ultimo atto di una vicenda che ha suscitato una riflessione legata al problema dell'immigrazione minorile. La storia di Bilal, che racconta di essere sbarcato dal Marocco, appartiene alla categoria dei minorenni non imputabili e dei minori non accompagnati, un fiume di piccoli fantasmi che in città continua ad ingrossarsi.

Per la legge chi ha meno di 14 anni non è imputabile. Per alcune settimane Bilal, dichiarando di avere 12 o 13 anni, veniva fermato per aver commesso furti o rapine, veniva accompagnato in Comunità, fuggiva dalla comunità, commetteva di nuovo furti o rapine, veniva nuovamente fermato e così via per numerose volte. Fino a quando il Tribunale dei minorenni non ha deciso di sottoporlo ad una visita da parte di un medico legale per poter accertare la sua vera età.

Il 20 ottobre i consulenti del giudice avevano concluso sostenendo che fosse molto alta la probabilità che Bilal avesse 14 anni, e quindi fu arrestato. 

Secondo l'ultima perizia anatomopatologa richiesta a una struttura pubblica dopo l'arresto (avvenuto per l'ennesima rapina della collanina in Porta Venezia a due ragazzi), non si può stabilire con certezza che abbia 14 anni: secondo gli esperti che hanno studiato le sue ossa, la sua dentatura, la sua esperienza raccontata nelle sue parole, Bilal potrebbe avere tra i 13 e i 14 anni. La certezza che ne abbia 14 non c'è. E così, in casi come questo, secondo la normativa si presume la sua minore età.

E di conseguenza la sua non imputabilità. Sabato sera Bilal è stato scarcerato dal Cpa di Torino dove era detenuto da due settimane ed è stato collocato in una comunità, con l'aggravante di una misura di sicurezza "vista la sua pericolosità sociale". 

Una misura penale che è più forma che sostanza. In tutte le precedenti volte che era stato assegnato a una comunità, Bilal era sempre scappato e appena fuori era subito tornato a commettere furti e rapine.

La decisione è provvisoria: il gip fra 30 giorni dovrà esprimersi nuovamente alla luce della condotta di Bilal.

La fuga, la strada, i furti: un altro colpo del bimbo rapinatore. Il piccolo Bilal ancora in azione, arriva l'ennesimo fermo. Forte del fatto di non poter essere imputato per i sui reati, il baby rapinatore continua a colpire. Federico Garau il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Non c'è fine alle "prodezze" del giovane Bilal, il rapinatore marocchino di 12 anni che ha ormai preso in ostaggio la città di Milano, sicuro di riuscire sempre a cavarsela senza subire conseguenze per i suoi furti. La sua giovanissima età, infatti, lo rende non imputabile.

Il baby rapinatore ancora in azione

Comparso ancora una volta in zona stazione Centrale, uno dei suoi "terreni di caccia", il ragazzino è stato nuovamente sorpreso ieri, martedì 18 ottobre, dagli uomini in divisa. Bilal aveva appena rubato un orologio da circa 300 euro a un turista malesiano in piazza Duca D'Aosta dopo averlo aggredito insieme a un 18enne libanese. I carabinieri hanno fermato lui, il 18enne e altri due giovani marocchini, un 24enne e un 16enne (poi risultato almeno 19enne all'esame auxologico). Questi ultimi avevano derubato un turista indiano di 36 anni, strappandogli dal collo una collana d'oro del valore di 3mila euro.

I tre maggiorenni, il libanese e i due marocchini, sono finiti al San Vittore, mentre Bilal è stato nuovamente segnalato al tribunale dei minori di Milano e poi accompagnato in una comunità, da cui si spera non riesca ancora una volta a fuggire.

Solo a Milano una decina di colpi

Bilal sembra inarrestabile. In questi giorni si è sentito spesso parlare di lui, essendo più volte stato sorpreso e catturato dalle forze dell'ordine. Grazie alla propria età, tuttavia, il baby rapinatore è sempre riuscito a scamparla e a tornare in libertà.

Solo nella città di Milano sono quasi una decina i colpi commessi, a partire dal furto di un Rolex Daytona da 27mila euro in via Manzoni. Poi c'è stata l'aggressione ai danni di una ragazza in corso Buenos Aires, a cui aveva strappato una collana. Fermato dai carabinieri del nuleo Radiomobile, il 12enne aveva raccontato di far uso di droghe (Rivotril) e di avere la scabbia. Il trasferimento in ospedale si era poi concluso con l'ennesima fuga da parte del ragazzino.

"Ho la scabbia". E il baby bandito Bilal morde i passanti

Bilal ha poi continuato a far parlare di sé. Forte della propria posizione, ha proseguito con le sue scorribande. L'altro giorno i carabinieri lo hanno fermato in piazza duca d'Aosta. Il 12enne aveva con sé la videocamera di una coppia di turisti giapponesi, oltre che il cellulare e la carta di credito sottratti a un'altra vittima. Ancora una volta, i militari hanno solo potuto informare il tribunale dei minori. Poi il colpo avvenuto ieri notte.

Un ragazzino arrivato dal nulla

Bilal, così dice di chiamarsi il ragazzino, è stato un po' ovunque. Prima di raggiungere il capoluogo meneghino, è stato in Campania, poi in Lazio. Quindi a Torino e infine a Genova. Ogni volta è riuscito a fuggire dalle comunità a cui veniva affidato.

Il 12enne (l'età è stata confermata dagli esami condotti sulle ossa del polso) sembra comparso dal nulla. Non ha famiglia, né documenti. Le sue impronte digitali non sono mai state censite a Lampedusa, dunque non sappiamo neppure come sia arrivato in Italia. Anche per quanto concerne la sua nazionalità ci sono dubbi. Dice di essere marocchino, ma chi può asserirlo con certezza? Una cosa è sicura: avendo solo 12 anni, per la legge italiana non è imputabile.

La posizione della Lega

Ragazzino o no, Bilal resta in ogni caso un problema per la sicurezza cittadina. Per quanto sia interesse di tutti dargli un'educazione e una vita migliore (si tratta di un bambino), certi comportamenti non sono accettabili. Dura la posizione di Max Bastoni, consigliere regionale della Lega, intervenuto sul delicato tema dei crimini commessi dai minori non accompagnati. “Il caso del baby rapinatore nordafricano di 12 anni protagonista di 12 rapine in un mese dimostra che il sistema di accoglienza è completamente fallimentare" afferma il rappresentante del Carroccio. "Solo a Milano di 1.400 procedimenti aperti al tribunale dei minori solo 800 risultano inseriti in comunità da cui molti entrano ed escono per delinquere, per poi una volta riconsegnati fuggono indisturbati. Tutto a spese dei contribuenti" aggiunge.

“Dietro la maschera ipocrita dell’accoglienza si cela un pericolo costante e oramai incontrollato. Chi arriva sulle nostre coste finisce per entrare in un contesto paracriminale da cui mi pare difficile porre rimedio nell’immediato”, continua Bastoni. “Trovarli è difficile se non impossibile ma intanto il conto lo pagano i milanesi e i turisti. L’accoglienza diventa un alibi per subire i reati. Bel modo di intendere la società. Il sistema delle comunità è un fallimento da cui non sono esenti da colpa Comune di Milano e magistratura. Un copione già scritto. Basta pietismi, se non si è in grado di garantire sicurezza rispediamoli al mittente" conclude.

“A questo punto gli manca solo l’Ambrogino d’Oro vista la sua predilezione per gli orologi in metallo prezioso. Beppe Sala ci faccia un pensierino e glielo conceda” ha dichiarato con amara ironia Luca Lepore, capogruppo Lega al Municipio 2.

Monica Serra per lastampa.it il 20 ottobre 2022.

Bilal è stato arrestato. Una decisione che sarebbe stata presa in attesa di chiarire con certezza la sua età. Il ragazzino marocchino fermato dopo sette colpi a Milano - gli ultimi due questa notte - ha sempre dichiarato di avere dodici anni ed è sempre scappato da tutte le comunità per minorenni stranieri non accompagnati a cui il Comune di Milano lo ha assegnato. L’ultima volta proprio ieri. Anche gli esami ossei fatti il 6 ottobre, dopo il primo furto di un Rolex - avevano confermato la sua età troppo giovane per un arresto.

Le ultime due rapine questa notte, alle due e mezza, sempre vicino la stazione Centrale, in piazza Luigi di Savoia, con un complice di sedici anni. I due ragazzini hanno rapinato delle loro collanine, con l’aiuto di una tronchesina, un italiano di trentuno anni e un altro di venti. Due distinti episodi.

Le vittime hanno chiamato il 112 ed è arrivata una volante della polizia che ha fermato i due ragazzi. C’era anche Bilal. Questa volta sarebbero stati eseguiti su di lui degli esami più approfonditi di quelli ossei, che avrebbero dato un esito leggermente diverso rispetto ai precedenti. Bilal avrebbe in realtà tra i tredici e i quattordici anni. I giovani che hanno meno di 14 anni per legge non sono imputabili: l’arresto è in ogni caso escluso.

Ma in attesa di chiarire la situazione e stabilire la sua età con maggiore sicurezza, in accordo col pm di turno del Tribunale per i minorenni di Milano, il sostituto procuratore Pietro Moscianese Santori, e in ragione dei numerosissimi episodi di questi mesi, Bilal è stato rinchiuso nel Cpa del carcere minorile di Torino. Con lui è stato arrestato anche il presunto complice sedicenne.

Minori senza famiglia: la storia di Bilal e i bimbi della letteratura. Per Bilal, il rapinatore minorenne seriale marocchino comparso a Milano, non valgono più le categorie sociologiche e psicologiche del solidarismo sociale. Enzo Verrengia su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Ottobre 2022

Per Bilal, il rapinatore minorenne seriale marocchino comparso a Milano, non valgono più le categorie sociologiche e psicologiche del solidarismo sociale. Con lui e il flusso di giovanissimi che giungono dal Mediterraneo senza genitori, senza storia e senza identità, la condizione post-moderna, come la definì Jean-François Lyotard, compie una svolta ad U di qualche secolo, se non di millenni.

La sua figura furtiva e ultraviolenta, più che Arancia meccanica, evoca la caccia selvaggia. Frotte di bambini non battezzati che insieme ai soldati morti in battaglia sfuggono alla battuta guidata da Odino nelle notti del Sacro Periodo, le dodici successive al solstizio d’inverno. O meglio ancora i riti di passaggio analizzati da Arnold van Gennep nel celebre saggio che reca quel titolo.

Bilal viene classificato anagraficamente attraverso l’esame osseo e gli si attribuisce un’età compresa fra i tredici e i quattordici anni. Quindi è agli inizi di un’adolescenza che confina con l’infanzia e prende, nel peggio, il massimo vitalismo di entrambe.

Ma non gli si possono più ascrivere le problematiche e le possibilità di redenzione che Edmondo De Amicis ravvede nei piccoli protagonisti di Cuore. D’altronde, anche lì c’è Franti, irrecuperabile e proprio per questo elevato da Umberto Eco nel Diario minimo ad antieroe precursore del ‘68. Solo che Bilal e i suoi simili non contestano nulla.

Sono creature post-apocalittiche come le tribù di ragazzini feroci in Mad Max, di George Miller (1985), i minicannibali di Barbarella, di Roger Vadim (1968) e i rampolli inglesi di buona famiglia ridotti a bruti dopo che il loro aereo precipita su un’isola, come li racconta William Golding in Il signore delle mosche (1954).

Ancora, il background di sopravvivenza metropolitana ha corrispondenti in I bambini delle fogne di Bucarest, agghiacciante reportage di Massimiliano Frassi del 2002 sull’inferno sotterraneo della capitale rumena, dove alligna una giovane umanità abbandonata a se stessa dopo la caduta del comunismo.

Scenario non dissimile dall’underworld della Londra vittoriana narrata da Charles Dickens in Oliver Twist e David Copperfield, basati sulle esperienze dello stesso autore, costretto temporaneamente all’abiezione e al lavoro minorile per via dei debiti del padre. I mongrel, i bastardini di strada, infestavano i giorni e le notti di gentiluomini in carrozza, dagli occhi ipocritamente chiusi sul degrado nascosto sotto le fondamenta dell’impero britannico.

Vengono in mente anche gli sciuscià partenopei. I predecessori della paranza dei bambini furono gli scugnizzi, determinanti nella dura resistenza ai tedeschi, rievocata con struggente passione ideale da Nanni Loy nel suo film del 1962 Le quattro giornate di Napoli, dove si ammirano questi piccoli cresciuti a stenti e voglia di sopravvivenza combattere strenuamente la Wehrmacht.

Se non fosse che Bilal e i suoi simili non sono mossi da aneliti di liberazione come quei loro coetanei.

A Milano, la delinquenza minorile ha precedenti intrecciati con le lotte risorgimentali e la Scapigliatura. Per i «monelli» dell’Ottocento il crimine era un mezzo di sostentamento. I loro discendenti spopolano nei racconti e nei romanzi di Giorgio Scerbanenco, tra le cui pagine rapinano e ammazzano per the fun of it, il puro spasso. Non peggiori dei niños da rua, i ragazzini di strada delle favelas brasiliane.

Eppure, tanto retaggio storico-culturale è ancora oleografico rispetto alle coordinate epocali e geopolitiche in cui si muove la specie di Bilal.

Si può ripensare al fanciullo trovato nudo e incapace di esprimersi nelle foreste dell’Aveyron nel 1800 e preso sotto tutela dal dottor Itard, che non riuscì completamente a recuperarlo. François Truffaut vi si ispirò per Il ragazzo selvaggio, che diresse nel 1970.

Bilal si delinea quale abitatore delle foreste urbane sorte dalla caduta dell’occidente. Il suo vero archetipo è Mowgli, il cucciolo d’uomo del Libro della giungla, di Ruyard Kipling. Icona del grado zero della civiltà.

Milano, faccia a faccia con Bilal, il rapinatore seriale 12enne: «Scappo perché voglio essere libero. Nessuno mi può arrestare».  Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 20 Ottobre 2022

Il giovane di nuovo in stazione Centrale dopo l'ennesima fuga da una comunità. Racconta del viaggio dal Marocco verso la Spagna, delle sue peregrinazioni per l'Europa e dell'ultima di una lunga serie di rapine

È partito da Fez, in Marocco, poi dal porto di Tangeri è riuscito a raggiungere l'Europa. Bilal ha viaggiato per la Spagna infilato tra il pianale e il motore di un camion. Aveva 9 anni. Racconta una storia che sembra incredibile: un anno in Spagna tra Malaga, Barcellona, Alicante, San Sebastian; poi un anno in Francia tra Parigi, Marsiglia e Tolosa, ma anche in Germania a Colonia e Francoforte, in Danimarca, in Olanda. «Lì mi hanno arrestato, mi hanno chiuso in un carcere. Ma un carcere non come in Italia, dove si può giocare alla Playstation». 

L'ennesima fuga dalla comunità

Bilal è seduto sul gradone di un'aiuola della stazione Centrale. Sono le dieci di mercoledì sera. È appena arrivato da Genova con un Frecciarossa. È tornato a Milano dopo essere «evaso» per la quinta volta in otto giorni da una comunità. I carabinieri lo hanno portato meno di 24 ore prima, dopo averlo fermato proprio in Centrale per aver cercato di rubare l'orologio a un turista malese. 

I tagli sulle braccia

Indossa una tuta beige Puma, sotto ha una maglietta nera dei New York Yankees, ai piedi un paio di Vans. Dimostra almeno sedici anni, sul viso ha una sottile peluria. Sulle braccia i segni dei tagli che si è inferto qualche settimana fa con una bottiglia spaccata. «Ho dovuto fermarlo, è solo un ragazzino», ricorda un connazionale che s’avvicina durante il racconto.

I racconti improbabili

 Fuma di continuo, fuma e offre sigarette agli altri amici marocchini (parecchio più grandi di lui) che gli stanno intorno. I capelli sono lunghi, ha delle meches bionde ormai quasi sbiadite. Bilal racconta storie che non sembrano vere, non sembrano possibili. Un bambino partito da solo dal Marocco («I miei genitori non volevano, ma io desideravo solo l'Europa») e sopravvissuto incredibilmente in una selva di città, notti in strada e guai. «Non dormo qui, ho una casa con alcuni amici a Rho. Volete andare?». 

Il mix di lingue

Bilal dice di avere altri due appoggi a Milano. Il suo racconto è dettagliato. Potrebbe essere inventato, ma parla in modo fluente spagnolo, francese, tedesco: «Poco l'inglese». Anzi le sue parole sono una sorta di esperanto: mischia termini di più lingue, ma in modo sempre preciso. Perché scappi? «Perché non voglio stare chiuso. Mi piace essere libero, girare. Non ho bisogno di niente». 

La rapina in treno

Poi Bilal infila le mani sotto la tuta, dalle mutande sfila una mazzetta di banconote: «Non mi credete? Sono 600 euro. C'era un tizio sul treno che dormiva, glieli ho presi». Dice che domani manderà 400 euro ai genitori a Fez, perché «tutto quello che rubo mi serve per mandare soldi a loro». I 200 euro che restano «li spendo: mi compro le sigarette, da mangiare, i vestiti».

Su e giù per l'Italia

«La mia famiglia non vuole che rubi. Ma mio fratello più grande non aiuta la mia famiglia, mio papà ha un caffé, ma più piccolo dei vostri bar. Ha più di 50 anni, quando non riuscirà più a lavorare, come farà la mia famiglia?». Dice di avere altri fratelli e sorelle. «Sono arrivato in Italia da tre mesi, forse quattro. Ho girato: Roma Termini, Napoli, Torino Porta Susa, Genova. Venezia Santa Lucia, bellissima». 

«Cerco il mio amico Adil»

Le città hanno i nomi delle stazioni dei treni con cui si muove di continuo. A Torino lo hanno beccato con un amico dopo aver cercato di rapinare un 77enne. Il suo complice è stato arrestato, lui libero perché non imputabile. Ma non chiede di lui. La sua ossessione è Adil, 14 anni, anche lui marocchino. «Lo hanno arrestato più di un mese fa. Aiutatemi a trovarlo, è come mio fratello. Io sono qui a Milano per lui, posso pagargli l'avvocato, posso farmi mandare i soldi dai miei genitori per pagarglielo». 

L'«indotto» dei furti e le amicizie

Il racconto di Bilal attraverso gli atti giudiziari è scarno, quasi indecifrabile rispetto alle parole di un ragazzo molto più sveglio della sua età. Non è chiaro se chi gli sta intorno lo faccia per affetto o se, invece, viva sull'indotto dei suoi furti. Lui ogni tanto allunga una sigaretta, oppure dallo zaino tira fuori pacchetti di patatine che distribuisce come se fosse un fratello maggiore. «La tuta l'ho presa ieri, pagata 130 euro. Vedi qui? I carabinieri me l'hanno sporcata, adesso devo comprarne una nuova». 

«Nessuno mi può arrestare»

Bilal ruba, non lo nasconde. I furti commessi in questi mesi a Milano sono molti di più di quanti ricostruiti finora da polizia e carabinieri. Conosce bene i modelli degli orologi più preziosi. In via Manzoni ha tentato di sfilare un Rolex a un turista americano: «Quello era un bell'orologio, ci avrei fatto tanti soldi. Sai come mi hanno preso? Mi hanno inseguito due ragazzi in moto, mi sono venuti addosso». È quasi strafottente quando racconta di come le forze di polizia italiane non possano fargli niente. «Mi devono lasciare andare, nessuno mi può arrestare». 

Un lavoro per smettere di rubare

Poi però, quando un volontario di un'associazione si ferma a lasciargli un piatto che sembra gulash, lui accenna al futuro: «Trovatemi un lavoro, mille euro al mese. Mi bastano e non rubo più». Bilal, sei troppo giovane per lavorare: «Ho un amico a Napoli, ha la mia età e lavora». E la scuola? «Ci sono andato un anno, in Marocco: ho rubato una penna a un compagno, poi ho picchiato lui e l'insegnante. Ho fatto un casino». Noi hai paura? Lo sguardo diventa fisso: «Paura, io?».

La scabbia e gli psicofarmaci

 Il vociare intorno a lui si fa silenzioso. «Tutti dobbiamo morire, non si può vivere con la paura di morire». Sul corpo ha i segni della vita in strada, chiede una pomata per curare la scabbia. Ai carabinieri hai detto che ti droghi ma in ospedale non hanno trovato tracce di stupefacenti. «Come no, prendo due pastiglie di queste al giorno. Bilal apre lo zaino e tira fuori un pezzo di blister di Rivotril, uno psicofarmaco. «Adesso quando ho finito vado a comprarne altre dieci, vado qui dietro alla Centrale». 

Un caso unico

Prende un sorso di birra e le manda giù. La voce è impastata, le parole sono trascinate nella bocca. Poi si sdraia sul gradone dell'aiuola mentre intorno gli addetti dell'Amsa spazzano via un tappeto di rifiuti e bottiglie. «Lui è un caso unico - racconta il volontario, anche lui marocchino -. Ne ho visti tanti in strada, mai un ragazzo così sveglio, con una storia così incredibile alle spalle». Bilal si volta, sorride. Gli allunga una sigaretta. 

«Bilal va salvato»

Saresti disposto a farti aiutare? «Sì, però non voglio stare chiuso in comunità. Voglio anche essere libero di stare qui, di uscire. Questa è la mia vita». «Bilal ha bisogno di una persona che lo guidi, che lo conquisti e conquisti la sua fiducia. Ma va salvato», aggiunge il volontario. Con sé ha anche un borsello a tracolla: «È del mio amico che hanno arrestato con me martedì sera. Ha detto che tempo un giorno ed è fuori, devo darlo a lui». Lo custodisce con attenzione. Com'è Milano? «Bella, ma andrò via. Sto qui solo perché voglio rivedere Adil, finché non lo liberano io lo aspetto qui».

Bilal e le rapine a 12 anni: «Trovatemi un lavoro e smetterò di rubare. Aspetto che liberino Abdil». Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Il ragazzino, che dice di essere scappato di casa a 9 anni da Fez, in Marocco, è stato portato nel carcere minorile di Torino. È giallo sulla sua età: dalle analisi del polso ha al massimo 12 anni e mezzo 

Bilal dice d’aver attraversato l’Europa. D’essere partito, scappando dalla sua casa di Fez, in Marocco, quando aveva 9 anni. D’aver viaggiato partendo dal porto di Tangeri aggrappato al pianale di un camion. E di essere qui, alle dieci di sera, nella penombra della stazione Centrale di Milano, circondato da un mondo di lingue e facce indecifrabile, per «essere libero».

Indossa una tuta beige Puma («mi è costata 130 euro, l’ho presa ieri»), una maglietta nera dei New York Yankees, un paio di Vans ai piedi. Dimostra almeno 16 anni, anche se dice di averne solo 12. E gli esami ossei, eseguiti al Laboratorio di antropologia forense dell’istituto di Medicina legale dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, gliene attribuiscono al massimo 12 e mezzo. Meno di 14, l’età minima per essere accusato di un reato, arrestato, rinchiuso in un carcere. Così gli ultimi giorni di Bilal sono stati un’infinita fuga da polizia e carabinieri dopo furti e rapine e di «evasioni» dalle comunità per minori dove è stato affidato ogni volta. Bilal è diventato in poche settimane un caso quasi irrisolvibile, responsabile (sempre fermato in flagranza e con il bottino) di almeno una decina di rapine e furti solo a Milano e sempre rilasciato.

 Seduto sul margine di un’aiuola racconta una vita avventurosa, fatta di rapine, di un continuo peregrinare per Spagna, Francia, Olanda, Germania e Italia. Al termine di questo incontro, in cui parla della sua vita da diavolo e senza catene, Bilal finirà per la prima volta dietro le sbarre di un carcere minorile. Arrestato alle 2.30 di giovedì notte dalla polizia dopo aver rapinato collanine d’oro a due ragazzi proprio davanti alla Centrale. Secondo la Procura dei minori, adesso, non è del tutto certo che l’esame osseo abbia ragione e servono altri approfondimenti medici, perché invece gli anni potrebbero essere 14. Per questo, in attesa di una probabile liberazione, Bilal resterà rinchiuso nel Cpa del minorile di Torino.

L’incontro avviene quattro ore prima. Nello stesso luogo della rapina. Bilal è appena tornato da Genova, dopo la fuga dalla comunità per minori in cui i carabinieri lo avevano portato dopo l’ennesima rapina del giorno prima. Lasciando il capoluogo ligure ha salutato così gli operatori: «Io qui non ci resto, ho delle cose da fare a Milano». Mangia una specie di gulash che gli viene offerto dai volontari che sfamano le anime disperate della notte in piazza Duca d’Aosta. Dalle mutande sfila un rotolo di banconote. Sono 600 euro, il suo ultimo bottino razziato a un viaggiatore che poche ore prima s’era appisolato sul Frecciarossa dalla Liguria: «Guarda, non mi credi? Di questi, 400 euro li mando ai miei genitori. Il resto lo uso per le mie spese». Dispensa sigarette, patatine, biscotti agli altri marocchini, più grandi di lui, che quasi lo coccolano. Bilal ruba, non può finire in carcere e mantiene un po’ tutti. «Qui lo rispettano: è sveglio».

Fuma una sigaretta dietro l’altra, la birra tra le mani, nella tasca dello zaino un pezzo di blister di Rivotril, uno psicofarmaco (ne ingurgita due, «adesso vado a comprarne altre dieci qua dietro»). Sotto i capelli lunghi sbiancati da vecchie meches fai da te, lo sguardo è serio, da «grande», tradito solo da quel filo di peluria acerba sopra il labbro. «La mia famiglia non voleva, ma io sognavo solo l’Europa», dice. È partito con un obiettivo: «Voglio aiutare i miei genitori. Mio padre ha un piccolo caffè, ha più di 50 anni, e quando non riuscirà più a lavorare, come farà la mia famiglia ad andare avanti?». S’è lasciato alle spalle fratelli e sorelle, ma il più grande «non aiuta, non porta soldi a casa. Figurati che neanche saluta più mio padre».

Bilal parla una sorta di esperanto: mischia termini di lingue diverse, eredità dei suoi ultimi tre anni da vagabondo. Dal suo arrivo in terra europea è iniziato il suo infinito «Interrail»: la Spagna — Malaga, Barcellona, Alicante, San Sebastian —, la Francia — Parigi, Marsiglia, Tolosa —, la Germania — Colonia e Francoforte —, e poi l’Olanda, il Belgio, la Danimarca. In Italia «sono stato a Roma Termini, Napoli, Torino Porta Susa, Genova, Venezia Santa Lucia, bellissima». La sua cartina è una sequenza di stazioni ferroviarie. Si muove sempre in treno, una frontiera dopo l’altra, tra un furto e una rapina, una «sosta» in comunità e una in carcere («ci sono stato una volta, in uno olandese, ma è diverso dagli altri, si può anche giocare alla Playstation»). Bilal dice di vivere con alcuni «amici» in un appartamento a Rho, alle porte di Milano. Ma in città assicura di avere altri due appoggi. Ogni volta che è stato fermato, ai carabinieri e agli operatori dei servizi sociali del Comune ha detto di «non avere bisogno d’aiuto». Di avere «contatti» a Milano e di non preoccuparsi per lui. In realtà non è mai rimasto in comunità per più di un giorno.

Il suo racconto — in un costante frullatore di spagnolo, tedesco, francese e un po’ d’italiano che ricorda il Salvatore de «Il nome della rosa» — è dettagliato. E ricalca la biografia criminale che polizia e carabinieri aggiornano di continuo. L’orologio che hai strappato al turista americano in via Manzoni? «Quello era un bell’orologio, ci avrei fatto tanti soldi. Sai come mi hanno preso? Mi hanno inseguito due ragazzi in moto, mi sono venuti addosso». È quasi strafottente quando racconta di come polizia e carabinieri non possano fargli niente. «Mi devono lasciare andare, nessuno mi può arrestare». In realtà accade a cadenza quasi giornaliera: viene fermato e trasferito in qualche comunità, da cui regolarmente fugge. Perché scappi? «Perché non voglio stare chiuso. Mi piace essere libero, girare. Non ho bisogno di niente».

Quando un volontario di un’associazione si ferma e gli parla, lui accenna al futuro: «Trovatemi un lavoro, mille euro al mese. Mi bastano e non rubo più». Bilal, sei troppo giovane per lavorare: «Ho un amico a Napoli, ha la mia età e lavora». E la scuola? «Ci sono andato un anno, in Marocco, poi ho fatto un casino e ho smesso». Saresti disposto a farti aiutare? «Sì, però non voglio stare chiuso in comunità. Voglio anche essere libero di stare qui, di uscire. Questa è la mia vita».

Mentre sulla stazione cala la notte lui barcolla e si stende sul gradone di un’aiuola. Ma che ci fai ancora qua? «Aspetto che liberino Adil». Adil ha 14 anni, è un suo connazionale, è «il» suo amico, quasi un’ossessione: «Lo hanno arrestato più di un mese fa. Aiutatemi a trovarlo, è come mio fratello», spiega mentre fa il gesto di stringerselo al petto. «Io sono qui a Milano per lui, posso pagargli l’avvocato». Bilal, non hai paura? Lo sguardo diventa fisso: «Paura, io?». Il vociare intorno a lui si fa silenzioso. «Tutti dobbiamo morire, non si può vivere con la paura di morire».

Pierpaolo Lio per il “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2022.

In attesa che si risolva l'enigma sulla sua età, Bilal resta in carcere. Questa volta non andrà in comunità, strutture da cui, tempo 24 ore, il giovanissimo rapinatore seriale è sempre regolarmente scappato. Ieri il gip dei minori ha infatti deciso la convalida dell'arresto eseguito dalla polizia all'alba di giovedì in piazza Duca d'Aosta, al termine di una doppia rapina ai danni di due italiani di 31 e 20 anni. E ha confermato la decisione di trattenere in un carcere minorile il dodicenne/quattordicenne che giovedì era stato trasferito al Cpa di Torino. Nel frattempo sarà fissata una data per un incidente probatorio che stabilisca una volta per tutte la vera età del ragazzo. 

Da un punto di vista strettamente tecnico, la vicenda sta tutta qua. Da sempre considerato non imputabile, in quanto 12enne, la procura minorile - con il pm Pietro Moscianese Santori - sospetta ora che Bilal di anni ne abbia invece 14. L'aggancio per la svolta è una vecchia dichiarazione dello stesso Bilal all'epoca di uno dei primi controlli. Era settembre. E agli agenti che lo avevano fermato in quella circostanza, il giovanissimo marocchino aveva dichiarato una data di nascita a metà di ottobre del 2008. Se fosse così, la soglia dei 14 anni ora sarebbe stata superata, e in attesa del giudizio le porte del carcere sarebbero a quel punto scontate.

Gli esami ossei (polso, mano, scapola, dentatura) a cui era stato sottoposto in assenza di documenti ed eseguiti al Labanof di Cristina Cattaneo, eccellenza internazionale in ambito medico legale, avevano però indicato per lui un'età compresa tra i 13 e i 14 anni. E non avendo compiuto con certezza i 14 anni, finora era stato sempre rilasciato. Anche dei nuovi accertamenti con l'incidente probatorio si occuperà il Laboratorio di antropologia e odontologia forense dell'università Statale.

Superando i tecnicismi, resta la questione di fondo. Che riguarda Bilal, così come i tantissimi minori stranieri non accompagnati che popolano come fantasmi le vie della città. Sicuri che la risposta securitaria del carcere sia l'unica strada possibile, e la più efficace? Che Bilal sia «irrecuperabile»? Che dalla vita di strada non lo si possa strappare in altro modo? Che tra il circuito rivelatosi inefficace delle comunità e il marchio definitivo del carcere non ci sia altro?

La storia (tutta da verificare) che il ragazzo ha raccontato al Corriere ha dell'incredibile. 

La fuga a 9 anni dalla natale Fez. L'imbarco a Tangeri, aggrappato al pianale di un camion, per raggiungere il «sogno» Europa. E poi tre anni di vagabondaggio in treno - e di furti e rapine, per «sopravvivere» ma anche «per mandare denaro a casa, ai miei genitori» - tra Spagna, Francia, Germania, Belgio, Olanda, Danimarca. Le sue prime tracce nel nostro Paese risalgono a inizio agosto, quando viene fermato per strada solo e affidato a comunità nel Lazio e in Campania, da cui scappa presto. È l'inizio di uno schema destinato a ripetersi all'infinito.  

Pochi giorni dopo viene bloccato a Torino dopo aver rapinato con alcuni complici un orologio a un 77enne. Poi a metà agosto è a Genova, dove aggredisce e rapina un ecuadoriano. Infine l'arrivo a Milano. Il primo colpo è della sera del 10 ottobre, in via Manzoni: tenta di rapinare del Rolex Daytona da 27mila euro un turista statunitense. Viene fermato e portato in una comunità di Genova. Passano 48 ore ed è di nuovo a Milano. 

I carabinieri lo incrociano in via Lazzaro Palazzi, dove lo inseguono e lo bloccano dopo aver strappato la collanina d'oro a una studentessa 21enne. Il 16 ottobre ruba la valigia a una coppia di giapponesi di fronte alla Centrale. Stessa trafila: è acciuffato dai carabinieri che lo portano in comunità, «evade», ed è di nuovo in piazza Duca d'Aosta, dove viene arrestato giovedì dopo il doppio colpo. «Non voglio stare chiuso in comunità - aveva detto Bilal poche ore prima - . Mi piace essere libero, girare. Questa è la mia vita». Salvo poi aggiungere: «Trovatemi un lavoro, mille euro al mese. Mi bastano e non rubo più».

Milano, l'università dei furti di Rolex. Dopo i napoletani, i franco-algerini: lavorano a piedi in gruppo. Turisti nel mirino. Paola Fucilieri il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

«Sì, negli ultimi sei mesi abbiamo notato una lieve recrudescenza di questo tipo di reato, tipicamente predatorio, ma va detto che anche l'azione di contrasto agli scippi degli orologi di lusso non è mai stata così penetrante: noi della squadra mobile, anche con le pattuglie in moto dei Falchi, insieme ai colleghi del commissariato Centro, tra agosto e settembre, abbiamo arrestato ben 16 rapinatori di orologi di lusso... Credo non sia una cifra da poco in un tempo tanto ristretto, no?».

Reati e risultati. Azione criminale di alto livello da una parte, dall'altra azione di prevenzione e repressione calibrate in una sintesi di servizi e operazioni distribuite tra le varie squadre, gli uffici, i commissariati. Milano è così: risponde sempre a tono, quasi fosse un obbligo, un dovere ancora più dovere. Non che altrove le forze dell'ordine non si impegnino al contrasto dei reati predatori, ma è chiaro che qui la sfida è sicuramente maggiore, quotidiana, senz'altro incessante. In questura poi il questore Giuseppe Petronzi dal suo arrivo in città ha creato un team di grande collaborazione tra i suoi dirigenti, che naturalmente lavorano come se i risultati di un ufficio confluissero nell'altro. Marco Calì, 53 anni, da tre dirigente della Mobile, con i suoi investigatori, è senz'altro uno degli assi portanti di questo team.

«Gli scippi di orologi hanno subito una evoluzione, è sotto gli occhi di tutti - ci spiega - Prima erano appannaggio praticamente esclusivo delle batterie di napoletani-trasfertisti che arrivavano con i loro motorini oppure trovavano gli scooter già pronti qui, con le targhe contraffatte, intestati a prestanome. Questi malviventi usavano la tecnica dello specchietto, lo spostavano, il guidatore sporgeva il polso ed era fatta. Ora la gente si è fatta più furba: o non abbassa il finestrino o mette l'orologio sul polso destro. Così i rapinatori aspettano che la vittima scenda dalla propria vettura e l'assaltano: del resto si tratta di un'azione fulminea, di pochi secondi, strappandolo l'orologio cede subito».

Negli ultimi sei-sette mesi il parterre degli autori degli scippi di Rolex però si è allargato, abbozziamo, e ai napoletani si sono aggiunti i franco-algerini... «Esatto - conferma Calì - I predatori sono ragazzi molto più giovani che, bypassata la tecnica del motorino che scivola nel traffico, agiscono spesso a piedi, in gruppi di 4-5 e preferiscono individuare le vittime appena uscite da boutique di alta gamma, magari dopo acquisti a parecchi zeri o nei pressi di alberghi di lusso: per aggredirle sfruttano l'effetto sorpresa. Alcuni di loro (perlopiù egiziani e magrebini) avvicinano la vittima fuori dalle discoteche e dai locali, in zona corso Como, quando è reduce da una serata di divertimento e ha le difese naturalmente più basse. Fingono di chiedere una informazione, l'ora, accerchiano la persona con fare suadente, alcuni addirittura è come se ballassero... Quindi strappano l'orologio e scappano».

C'è un'altra particolarità che contraddistingue questa nuova tipologia di rapinatori di Rolex. Calì conclude spiegandocela: «I napoletani in scooter urtavano essenzialmente al tipo di orologio specifico che riconoscevano prima del colpo, mentre ultimamente è cambiata la prospettiva: dallo scippo di un orologio di un ben preciso modello e quindi valore economico, ora gli autori di questo tipo di reato vengono attratti soprattutto da una situazione globale nella quale la vittima designata potrebbe anche indossare un pezzo importante. In una indagine appena terminata con il commissariato Centro abbiamo notato che i rapinatori solo nella fase successiva al colpo, andavano a controllare su internet la marca dell'orologio (e quindi il valore) che erano riusciti a scippare: infatti è capitato che rapinassero anche pezzi di scarso valore».

Estratto da ilgazzettino.it il 30 novembre 2022.

Sulle loro teste pendono condanne definitive accumulate per anni e anni. Alcune 15, altre tra i 20 e i 25, fino al record assoluto di una di loro che ha collezionato la bellezza di 30 anni di carcere da scontare. E allora perché queste ladre, borseggiatrici professioniste, continuano a potersi muovere senza problemi, libere di continuare a sfilare i portafogli a turisti e residenti in città?

«Perché il nostro ordinamento prevede il rinvio automatico della carcerazione e sospensione della pena per le donne in stato di gravidanza - spiega il comandante del compartimento veneto della Polfer, Francesco Zerilli - queste donne, perennemente incinte, non possono finire in carcere».

I numeri provano che l'attività di contrasto esiste e non manca, solo che è inutile: la polfer dall'inizio dell'anno, tra denunciate e arrestate, ne ha individuate 290 (126 di queste, peraltro, sono state fermate dalla squadra di polizia giudiziaria dedita proprio al contrasto di questi crimini) solo all'interno della stazione di Venezia Santa Lucia: quasi una al giorno. [...]

È frustrante vedere che non pagano per i loro crimini, ma il nostro lavoro è bloccarle e continueremo a farlo. Anche perché se allentassimo la presa la loro attività criminale dilagherebbe senza limiti». Il bug giudiziario è veramente da manuale: di fatto la legge impedisce la carcerazione almeno fino al compimento del primo anno del bambino. [...]

Ottantenne sventa un furto a Venezia, le borseggiatrici lo aggrediscono con graffi sul volto.

Striscia La Notizia il 25/11/2022 

Bande di borseggiatrici continuano a imperversare nelle principali città italiane, derubando turisti e cittadini quasi indisturbate. Un fenomeno ormai capillare che ha reso gli italiani esausti e sempre più increduli di fronte all’immobilità delle istituzioni. Ma ieri, 24 novembre 2022, qualcuno si è opposto tentando di fermare questo scempio. L’eroe è Evasio, un cittadino di quasi ottant’anni che ha sventato un furto a Venezia. Protagonista una delle borseggiatrici già note in città e che Moreno Morello aveva pizzicato anche a Striscia la notizia.

La piaga sociale dei borseggi a Venezia, anziano aggredito

Se qualcuno tenta di impedire il reato, le borseggiatrici diventano delle tigri, urlando, sputando e scagliandosi contro chi le attacca. Ma c’è qualcuno, a Venezia, che ha provato a dire basta a tutto questo. Un anziano signore, Evasio, stanco di sopportare i soprusi di questa gente, ha provato a fermarle. Il risultato? Il suo viso era una maschera di sangue: profondi graffi al viso che però rappresentano un primo passo verso la vittoria contro l’ennesimo furto. Infatti, è riuscito a sventare l’attacco ai danni della turista presa di mira.

Veneziani ingrati, le persone aiuterebbero le ladre a farla franca?

In particolare, il furto sventato sarebbe quello di un cellulare dallo zaino di una turista. Il paradosso? I passanti veneziani volevano fermare Evasio.

«Non ho parole – racconta Evasio – fermo due ladre e non solo la vittima del borseggio se ne va senza nemmeno dire ringraziare, ma i passanti (veneziani) volevano fermare me perché questa urlava "Lasciami, sono incinta! Aiuto!"». Le due che l’anziano ha fermato (e che però sono poi riuscite a fuggire) sono le stesse riprese da Striscia la notizia.

«Sfido io – continua Evasio – queste sono giovanissime e ogni anno sono incinte. Sono conosciutissime da noi, le vediamo ovunque, ma non dalle forze dell’ordine. Gli amici mi dicono di lasciar perdere, ma cosa devo fare, lasciar questa gente rubare impunemente? Scusate, non ce la faccio».

Ad aiutare l’anziano in difficoltà dopo l’alterco solo un commerciante bangladese che gli ha dato i cerotti, la pasticceria Rizzardini che gli ha offerto assistenza e pochi altri.

Ma non è il primo caso: un paio di mesi fa a San Zulian, un olandese di origini orientali aveva fermato una ladra che aveva messo le mani nella borsa di sua moglie. In quell’occasione, però, nonostante l’intervento di alcuni passanti che avrebbero tentato di aiutare la borseggiatrice, egli l’aveva immobilizzata fino all’arrivo della polizia locale.

Si perde la fiducia, nonostante le denunce contro le borseggiatrici

Evasio è una persona che grazie al suo aiuto ha contribuito all’arresto di centinaia di persone. Ma dopo l’aggressione sembra rassegnato. Infatti, nonostante gli interventi di Valerio Staffelli, delle Forze dell’Ordine e i provvedimenti della Procura di Milano (sulla questione delle donne gravide), tutto sembra inutile, perché continuano ad esserci furti e violenze.

Striscia la Notizia con i suoi servizi e il suo intervento in prima linea si è battuta e continuerà a battersi in questa battaglia contro il disagio sociale, denunciando da Milano a Venezia e non solo, queste ladre che minano la sicurezza delle persone.

Sicurezza: città più pericolose oggi o 10 anni fa? Tutti i dati di furti, rapine e stupri da Milano a Roma. Milena Gabanelli, Cesare Giuzzi e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022.

La sicurezza è uno dei temi politici dominanti delle campagne elettorali, e non solo, da almeno 15 anni. Un’emergenza che ritorna, in un circolo infinito, dopo ogni fatto di cronaca. In vista del voto del 25 settembre Lega e Fratelli d’Italia ne fanno una delle bandiere del loro programma: «Riportare la sicurezza nelle città italiane». Eppure, le forze dell’ordine parlano di reati in calo e di indici sulla criminalità mai così bassi. Ma com’è davvero la situazione? Per capirlo vediamo l’andamento dei reati legati alla microcriminalità nelle 6 più importanti città in 10 anni (2009-2019) e lo mettiamo a confronto con il 2021. Lo facciamo con i dati forniti a Dataroom dal ministero dell’Interno su Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna e Napoli. Dai dati abbiamo escluso il 2020, perché tra lockdown e pandemia non può avere un reale valore statistico.

Rapine in case e negozi

La tendenza generale delle rapine in abitazione è al ribasso. A Milano crollano dopo il picco del 2013: i casi diminuiscono del 60%. Anche a Roma, Napoli e Torino l’apice si registra tra il 2013 e il 2015, mentre restano sempre sotto i 70 casi a Bologna e Firenze. Fortunatamente siamo lontani dagli allarmi di fine anni Novanta e dei primi Duemila quando le bande degli assalti in villa seminano il terrore in Veneto e Lombardia.

Giù a Milano anche le rapine nei negozi: dal 2012 in poi si scende del 50%. Solo a Firenze e Bologna il dato sul decennio rimane in costante equilibrio, mentre il calo è sensibile anche a Roma, Torino e Napoli. L’immagine delle gang di rapinatori armati di pistole e mitra è un retaggio del passato, oggi molti casi riguardano le cosiddette rapine improprie: persone sorprese a rubare in negozi e supermercati che spintonano i vigilantes o entrano in colluttazione con i commessi. Si tratta in realtà di taccheggi classificati come rapine.

Furti in case e negozi

I furti semplici nei negozi a Milano per anni oscillano intorno ai 10-12 mila, ma dal 2015 la curva inizia a scendere e nel 2021 i furti sono 7.218. Crollo anche nelle altre città, mentre restano stabili, con una tendenza al ribasso più lieve a Firenze e Napoli.

Per quanto riguarda il furto in casa, sappiamo che è uno dei reati che più incide sulla sensazione di insicurezza dei cittadini. Vedere violata la propria dimora, invasa la parte più intima della propria vita, rappresenta uno degli choc più difficili da superare. I dati anche qui, però, sono in discesa. A Milano i furti in abitazione toccano il picco nel 2013 e nel 2014 con oltre 20 mila casi: oggi meno 57%. E scendono anche a Roma, Torino, Bologna. Costanti a Napoli, mentre a Firenze il picco dei furti in abitazione si registra nel 2018, nel 2021 sono la metà.

Borseggi

I borseggi, o furti con destrezza, diminuiscono a Roma, Torino e Bologna. Restano invece costanti a Napoli, Milano e Firenze. Nel capoluogo toscano il picco si registra nel 2019 (9.389), ma si riducono di due terzi (3.020) lo scorso anno. Il 2021 coincide, però, con il forte calo del turismo dovuto alle restrizioni per il Covid. A Milano nel decennio non si scende mai sotto i 20 mila casi: sono 21.560 nel 2021. Più di Roma dove sono 17.234, ma in costante discesa dal 2015.

Auto, moto e motorini

I furti di moto e motorini crollano a Milano e a Roma: quelli di motorini nel capoluogo lombardo dal 2009 al 2021 segnano un meno 83%.

Superiori nei valori assoluti quelli di moto, ma comunque in discesa (meno 55%). In tendenza al ribasso anche a Bologna, Firenze, Torino. Il dato aumenta solo a Napoli dove nel 2021 s’è registrato un lieve rialzo. Furto d’auto: in diminuzione in tutte le città, a Milano la percentuale è di un meno 65%.

Le denunce

I dati del Viminale ci dicono quindi che non è vero che le nostre città sono meno sicure. E non si può dire neanche che furti e rapine sono diminuite perché si denuncia meno. Si denuncia sempre: perché un veicolo ha la targa, per rintracciare un computer o un cellulare (che hanno matricole sempre individuabili), o il furto di un portafogli anche perché la denuncia tutela da un uso improprio dei documenti, e serve per rifarli. I negozi invece sono assicurati, quindi la merce rubata viene quasi sempre denunciata, anche quando si tratta di furti di piccola entità. Lo stesso vale per tutto ciò che è coperto da un risarcimento. Solo il furto di bici raramente viene segnalato, ma lo stesso accadeva anche in passato.

I dati del Viminale ci dicono quindi che non è vero che le nostre città sono meno sicure.

Reati informatici

I reati che sono schizzati verso l’alto nel decennio sono invece quelli legati al mondo informatico. A Milano sono quadruplicati, conseguenza del maggior utilizzo di mezzi elettronici di pagamento e acquisti online. Sono reati di grandissima diffusione, spesso le bande colpiscono a strascico, come con il phishing, ossia con le email a pioggia nella speranza che qualche sprovveduto clicchi sul link truffa. Del resto, il reato di truffa nel nostro Paese non prevede la possibilità di svolgere indagini sofisticate, come l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche. E solo raramente, quando ci sono aggravanti, si arriva all’emissione di misure cautelari.

I reati che sono schizzati verso l’alto nel decennio sono invece quelli legati al mondo informatico.

Omicidi

È il reato che più ha risentito del calo, nei valori assoluti, rispetto al passato. Nel capoluogo lombardo c’è stato un picco nel 2009 di 42 casi, ma dal 2016 in avanti si scende sotto quota 20. Stesso andamento nella Capitale: dai 47 casi del 2014, i delitti si sono poi stabilizzati intorno ai 20. La tendenza su Bologna e Firenze è altalenante: un anno 12, un altro anno 5. È il caso di sottolineare che la voce «omicidi» include i «femminicidi», un delitto che spesso si consuma in ambito domestico, e non ha quindi legami con la criminalità, pertanto anche la sua repressione deve seguire un altro tipo di percorso.

Violenze sessuali

Un capitolo a parte riguarda le violenze sessuali. Bologna con 195 episodi segna il suo record assoluto degli ultimi dieci anni. A Milano nel 2021 si sono registrate 477 violenze, più di un caso al giorno, contro le 413 del 2019. Il picco nel 2009 con 520. Napoli con 206 casi si avvicina ai massimi del decennio. Le violenze non calano neanche a Torino, Roma e Firenze. Oggi il reato comprende, però, molte sfumature un tempo regolate da diversi articoli di legge: dagli atti di libidine allo stupro. Dal 2019 è stata introdotta una modifica del codice penale denominata «codice rosso» per quel che riguarda gli episodi che avvengono in famiglia, e che innalza l’attenzione delle forze dell’ordine con interventi e misure più rapide. Certamente rispetto al passato si denuncia di più, anche se probabilmente resta una quota elevata di sommerso. Come intendono Meloni e Salvini frenare questa violenza, con più carabinieri? Con la castrazione chimica? Tutti gli esperti concordano sulla necessità di un intervento di tipo culturale. Il programma dei due leader però non prevede l’insegnamento della educazione sessuale nelle scuole dell’obbligo. È una materia ampia, che prevede anche l’insegnamento al rispetto del corpo femminile.

Rispetto alle tipologie di reati presi in considerazione, sono gli immigrati a delinquere di più? Questi sono gli ultimi dati del Viminale. Dal 2018 al 2021 l’incidenza degli stranieri su arrestati e denunciati è pressoché identica: 32,1% contro il 31,9 dello scorso anno. La percentuale sale però se si parla di furti (43,2%), borseggi (58,7%), furti in casa (47,7%) e violenze sessuali (39,5%). Una incidenza che crolla invece al 17,1% per quanto riguarda le frodi e truffe informatiche, per i reati tipicamente mafiosi, dove il delinquente di nazionalità italiana batte la concorrenza mondiale: usura ed estorsioni sono rispettivamente al 6,8% e 20,9% ad opera straniera. Sugli omicidi gli italiani mantengono costantemente il primato, solo il 21% è commesso da stranieri.

Da Ansa il 5 settembre 2022.

Inquietanti sviluppi per l'omicidio di un 56enne a Bagnoli ucciso a Napoli lo scorso 31 luglio. 

Tra le ipotesi al vaglio della Procura per la morte di Davide Fogler, clochard che ogni tanto arrangiava facendo il parcheggiatore, ci sarebbe quella dell'omicidio nell'ambito di una sorta di 'battesimo da killer' o di un delitto per gioco, secondo quanto scrivono alcuni quotidiani.

L'omicidio era avvenuto davanti a molti passanti ma l'indagine è stata caratterizzata da profonda omertà. Inizialmente si pensava ad un incidente, poi i nuovi elementi dopo l'autopsia. Tra le ipotesi anche lo sparo per provare una pistola. 

Monica Serra per lastampa.it il 15 settembre 2021.

Otto anni di carcere. Una condanna più pesante di quella richiesta dalla procura è stata inflitta al comandante della polizia locale di Trezzano sul Naviglio, ora in aspettativa, Salvatore Furci. È accusato di aver fatto piazzare alcune dosi di cocaina nell’auto della comandante della polizia locale di Corbetta, Lia Vismara. Per il pm Gianluca Prisco, che aveva chiesto una condanna a sette anni e quattro mesi, dietro il piano organizzato da Furci (il presunto complice è già stato condannato) ci sarebbe stata la volontà di vendicarsi con la superiore che diede parere negativo alla sua assunzione nella polizia locale di Corbetta.

Furci, infatti, era risultato vincitore nel 2018 del concorso per ricoprire la posizione di ufficiale a Corbetta. Ma, a seguito del parere negativo espresso da Vismara, non aveva superato il periodo di prova e nel 2019 era tornato a rivestire la qualifica di agente all'interno della polizia locale di Milano. Una decisione che era stata ribaltata dal tribunale del Lavoro dopo il ricorso di Furci.

La vicenda, lunga e intricata, tra querele e controquerele, risale nel tempo. Durante un controllo dei carabinieri, che avevano ricevuto una segnalazione dal presunto complice, la droga era stata trovata nell’auto della comandante il 4 gennaio 2020. Furci – arrestato il 13 aprile del 2021 con le accuse di occultamento di droga e calunnia - ha sempre respinto le accuse. Anche oggi, in aula, visibilmente scosso dalla decisione, ha ribadito: “Non è possibile, non ci sono le prove”. Il suo legale, Gabriele Minniti, parla di “sentenza eccessiva: leggeremo le motivazioni e presenteremo appello”

«Sono contenta, perché dopo due anni si è conclusa una vicenda che si è trascinata con risvolti che ci hanno fatto patire parecchio”, ha detto in aula Lia Vismara, comandante dei vigili di Corbetta. “Ottimo il lavoro del pm: è encomiabile per come sia riuscito a ribaltare la situazione. Era una cosa insperabile dato che ero accusata di reati pesanti. Non credo però che sia finita qui». 

Il giudice monocratico Elisabetta Canevini ha anche disposto che il risarcimento nei confronti di Vismara sia da liquidarsi con una causa civile e al momento ha stabilito una provvisionale di 100 mila euro. 

Omicidio in stile Gomorra. "Il battesimo di un killer". Un rito di iniziazione per il nuovo affiliato dietro l'uccisione del clochard lo scorso 31 luglio. Stefano Vladovich il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.

Un battesimo del fuoco. Davide Fogler, 56 anni, è stato ucciso con un colpo sparato a bruciapelo per provare una pistola. Oppure come rito di iniziazione per un nuovo affiliato dei clan che contano. Quelli che comandano Bagnoli, periferia occidentale di Napoli. Gruppi criminali che da mesi stanno riorganizzando le piazze di spaccio cacciando dal quartiere persino i pregiudicati dei clan rivali. Queste le ipotesi più accreditate per la polizia che indaga su un omicidio assurdo, avvenuto il 31 luglio in pieno giorno in un «basso» della città.

L'uomo, trovato senza vita all'interno della sua abitazione in via Ilioneo, si pensava fosse vittima di una caduta accidentale, forse dovuta a un malore. Nemmeno il primo esame del medico legale era stato in grado di scoprire il foro alla tempia per quanto il poveretto, un clochard che viveva di espedienti, era conciato male. Capelli lunghi, barba incolta, sporco. Davide sarebbe stato ucciso «scimmiottando» la serie Gomorra, dove Genny Savastano, figlio del boss di Scampia Piero Savastano, assieme all'amico-nemico Ciro Di Marzio per diventare un capo deve uccidere un tossicodipendente. Ma alle Vele, fra i palazzoni popolari simbolo della criminalità, Genny sbaglia. A finire il poveraccio ci pensa Ciro, attribuendosi il merito dell'azione, una dimostrazione di «forza» per farsi strada nel giro che conta. E che comanda Napoli. In questa storia, però, i dubbi degli investigatori, la squadra mobile della questura partenopea, sono tanti. Il colpo di pistola è stato sentito da molti. In tanti avrebbero visto entrare nella catapecchia alcune persone, ma nessuno parla. «Non abbiamo un solo testimone che possa riferire elementi utili all'indagine - ammettono in questura - neanche fossimo a Siculiana o a Corleone». Ed è proprio questo aspetto che fa scattare una terza ipotesi, quella del regolamento di conti. Questioni legate al racket dei parcheggi abusivi, vista l'attività di Davide nel fine settimana, chiuse per sempre in una torrida giornata di fine luglio. La paura di ritorsioni, dunque, cucirebbe le bocche di quanti sanno ma non vogliono raccontare. È stato l'esame autoptico, eseguito nei giorni scorsi, a stabilire che la morte del 56enne è avvenuta per un proiettile esploso da distanza ravvicinata, un'esecuzione, tanto da convincere la Procura ad aprire un fascicolo per omicidio. I pm Valentino Battiloro e Cristina Curatoli leggendo le informative non escludono nemmeno che il delitto possa essere avvenuto per «gioco», per ingannare la noia in un afoso pomeriggio d'estate. L'assenza dell'arma e della polvere da sparo sulle mani della vittima scarterebbe anche l'ipotesi, assai remota, del suicidio. Fogler, conosciuto da tutti, era un uomo pacifico. Un emarginato dei tanti che vivono negli scantinati, i «bassi» di vecchi palazzi, arrangiandosi come possono. Senza famiglia, fuori dai gruppi che comandano, bersaglio ideale per gente senza scrupoli. Le indagini, nel frattempo, continuano anche utilizzando alcune telecamere comunali che potrebbero aver ripreso i mezzi usati dai killer per la fuga. Al vaglio degli investigatori i frame registrati dalle ore 14 di quel maledetto pomeriggio.

Valentina Lupia per roma.repubblica.it il 5 settembre 2022.

"Troppe persone sono vittime di furto Roma, io sono una di quelle. La polizia dovrebbe occuparsene ma non lo fa. E ora la mia vacanza è stata rovinata da un uomo che forse non verrà mai identificato". A sfogarsi è Dina, in arte Habeshadoll, turista americana d'origine nigeriana. Arriva dagli Stati Uniti, per la precisione da Dallas, in Texas. 

Del viaggio a Roma, purtroppo, non avrà un buon ricordo: un uomo le ha sottratto la borsa mentre era seduta in un ristorante in centro, concentrata a leggere il menu. Il video del furto, ripreso dalle videocamere del locale e pubblicato da Welcome to favelas ha fatto il giro del web. 

Dove si trovava quando ha subito il furto?

"In un ristorante vicino al Colosseo, si chiama "Coming out". È stato orribile".

Lo staff del ristorante l'ha aiutata?

"Sì, sono stati davvero carini e gentili. Mi hanno supportata, ero sconvolta. Poi sono andata a denunciare quanto accaduto alla polizia. Ma non è andata bene". 

Per quale motivo?

"Perché in sostanza hanno detto che non avrebbero potuto aiutarmi. Anzi, che non avrebbero potuto proprio fare niente: l'uomo indossava una mascherina e un cappello. È tremendo mi sono arrabbiata molto con la polizia". 

Cosa c'era nella sua borsa?

"La cosa più importante era il passaporto. Ora è un casino. Ho bisogno di un documento d'emergenza per poter tornare a casa mia". 

Come pensa di fare?

"Ho contattato l'ambasciata americana, ma purtroppo sono chiusi. Questo, infatti, è il weekend del Labor day (la festa dei lavoratori, ndr), che quest'anno cade il 5 settembre. Così dovrò aspettare". 

Non aprono per le emergenze?

"Sì, certo, per le emergenze sì, ma io ho il volo di ritorno verso l'America mercoledì e cioè in data successiva rispetto al giorno di riapertura previsto dall'ambasciata. Quindi dovrò aspettare". 

Come si sente?

"Ora la situazione è davvero terribile. Mi trovo a Roma e sto sprecando tempo e denaro a causa del furto che ho subito, anziché godermi la vacanza". 

Cosa la fa stare peggio?

"Che a Roma ci sono troppi ladri, ma alla polizia sembra proprio non interessare. Le forze dell'ordine dovrebbero fare di più e di meglio per questa città e per le persone". 

Estratto dall'articolo di Alessia Marani per “Il Messaggero” il 5 settembre 2022.

Oltre alle grate e ai normali sistemi d'allarme, a telecamere e a sensori in terrazzi e giardini, non è detto che presto non bisognerà dotare le proprie case persino di un sistema anti-droni per garantirne la sicurezza. E già, perché in questi giorni di fine estate stanno fioccando le segnalazioni (e le denunce) della presenza dei piccoli marchingegni pilotati da remoto che con i loro occhi elettronici dal cielo puntano sulle abitazioni lasciate vuote per le vacanze o il weekend con il preciso intento di spiare movimenti e posizioni all'interno.

L'allarme è scattato soprattutto nei comprensori residenziali tra il mare e l'Eur, dall'Infernetto a Casalpalocco, dall'Axa a Malafede dopo che i diabolici velivoli erano stati avvistati anche a Casal Lumbroso, sull'Aurelia, guarda caso proprio prima di un furto messo a segno all'interno di una villetta. Altri furti durante le vacanze sono stati segnalati nel quadrante interessato. E così è successo anche sul litorale. 

Motivo per cui qui è partito un tam tam tra i residenti per mettere in guardia chiunque si trovi a osservare un quadrotto in perlustrazione sopra il tetto della propria abitazione o su quello del dirimpettaio assente affinché contatti il 112. […]

Bande di ladri hi-tech erano state segnalate, finora, quasi esclusivamente nel centro-Nord Italia, con casi acclarati nelle province di Como, Treviso e Macerata. I ladri acrobati hanno utilizzato il drone per avere chiaro il quadro della situazione e pianificare il furto nei minimi particolari. 

A Tolentino, nelle Marche, i carabinieri andando a ritroso nelle immagini registrate dall'impianto di videosorveglianza di un capannone industriale svaligiati nottetempo, si erano resi conto che nei giorni precedenti al blitz un drone aveva sorvolato il tetto mettendone a punto una sorta di mappa. […]

Roberto, operatore abilitato di droni, ricorda, tuttavia, che «è corretto chiamare le forze dell'ordine solo quando il drone si avvicina abbastanza da riconoscere persone e cose oppure quando si sofferma per lungo tempo». Ma c'è chi ribatte subito: «Esatto i droni hanno il permesso di volare su tutte le zone, praticamente, ma quando ti trovi un drone su un attico a distanza ravvicinata per cui se lo vedi poi il drone se ne va di corsa due domande te le fai...». 

Gli investigatori, dal canto loro, sono cauti: «Il volo di un drone di per sé non costituisce un illecito e resta difficile evidenziare un nesso con i colpi, ma è bene che ogni sospetto sia segnalato». […]

In uno stato di diritto anche le forze dell’ordine rispondono degli sbagli. Il Domani il 26 agosto 2022

Dal 2012 il parlamento europeo chiede agli stati di dotare le divise di tutti gli operatori delle forze dell’ordine di codici d’identificazione ben visibili affinché l’autorità possa agevolmente risalire alla loro identità

Il problema Il parlamento europeo, con richiesta del 12 dicembre 2012, ha esortato tutti gli stati membri affinché dotino le divise di tutti gli operatori delle forze dell’ordine di codici d’identificazione ben visibili affinché l’autorità possa agevolmente risalire alla loro identità.

Cinque progetti di legge e 155mila firme raccolte da Amnesty non sono bastate. La fiera ritrosia, finanche ostilità, delle autorità di polizia a collaborare in tal senso, non solo non è comprensibile ma ricorda, purtroppo, quella opposta pervicacemente all’approvazione della legge sulla tortura. 

Cosa proponiamo?

Chi sbaglia, in nome e con la divisa dello stato, non può rimanere impunito. Proponiamo la cosa più semplice: rispondere alle richieste del parlamento europeo, alle decine di migliaia di cittadini che hanno chiesto di intervenire, e portare a compimento le proposte di legge che si sono sommate negli anni in parlamento e non sono mai state approvate. 

Quanto costa? 

Non avrebbe costi. Sarebbe una garanzia per i cittadini. 

Impatto atteso

Così si otterrebbe trasparenza e responsabilità. In una parola, è questione di civiltà. 

Basta omertà sulle forze dell’ordine: identifichiamo chi sono i violenti. ILARIA CUCCHI Il Domani il 26 agosto 2022

Quando accade, come è accaduto, che appartenenti delle forze dell’ordine si macchiano di comportamenti e atti che violano regole fondanti la legittimità del loro operato, durante tumulti e scontri in manifestazioni di piazza, il sistema viene messo in grave crisi e lo stato ferito. Chi sbaglia, in nome e con la divisa dello stato, non può rimanere impunito. 

Sei d’accordo? Firma la petizione

Il nostro giornale ha testimoniato con scoop e inchieste come quelle di Nello Trocchia sulla mattanza del carcere di Santa Maria Capua Vetere e con denunce come quelle di Selvaggia Lucarelli sui pestaggi degli studenti diversi episodi di violenza dello stato nei confronti dei cittadini. Ci è sembrato importante includere nel nostro programma una proposta che nonostante cinque progetti di legge non è mai diventata realtà: rendere obbligatori i numeri identificativi per le forze dell’ordine, come viene chiesto dal parlamento europeo. Abbiamo chiesto di scriverla a Ilaria Cucchi, una persona che nella vita ha conosciuto quella violenza e l’ha combattuta, riuscendo a far emergere la verità sull’assassinio del fratello Stefano Cucchi. Poi Cucchi è diventata a sua volta candidata al voto del 25 settembre con Sinistra italiana e Europa Verde. Abbiamo deciso di pubblicare in ogni caso il suo contributo e speriamo che la maggioranza dei candidati possano appoggiare questa proposta.

Lo stato ha il potere, che gli deve competere in via esclusiva, dell’uso della forza nei confronti delle persone, qualora ve ne dovessero essere i presupposti stabiliti dalla legge e dalla nostra Carta costituzionale. La violenza è prerogativa che gli spetta ma che è e deve essere rigorosamente limitata a confini ben delineati così da non compromettere la tutela del rispetto dei diritti umani. Mai e poi mai deve accadere che forza e violenza vengano esercitate in modo fine a sé stesso, inutilmente cruento.

Debbono semplicemente essere necessarie perché non esiste altra possibilità alternativa di intervento. Sono concetti semplici e, a parole, oggetto di unanime condivisione, salvo qualche tanto rara quanto deprecabile eccezione. Le operazioni di ordine pubblico sono il terreno più frequente sul quale si misurano questi concetti basilari per l’esistenza di un sistema democratico moderno.

Quando accade, come è accaduto, che appartenenti delle forze dell’ordine si macchiano di comportamenti e atti che violano queste regole fondanti la legittimità del loro operato, durante tumulti e scontri in manifestazioni di piazza, il sistema viene messo in grave crisi e lo stato ferito. Essi violano la legge commettendo reati esattamente come quelli che sarebbero stati chiamati a prevenire e reprimere. Si confondono con gli stessi criminali responsabili dei disordini che dovrebbero reprimere, e assicurare alla giustizia. Tutti responsabili di reati, diversi, ma pur sempre reati. E la piazza diventa una giungla. Si distinguono solo perché indossano una divisa che, in quel modo, infangano, con tanto di tenuta cosiddetta antisommossa: caschi, visiere protezioni, e manganelli. Tutto rigorosamente anonimo che ne rende impossibile l’individuazione e invece dà la possibilità dell’impunità.

Ciò è veramente inaccettabile, semplicemente indegno.

Talvolta ci vanno di mezzo cittadini malcapitati come Paolo Scaroni, tifoso del Brescia che il 24 settembre 2005 è rimasto vittima di una violenta aggressione alla stazione di Verona da parte di agenti di polizia. Rimase in coma due mesi ed è tutt’ora invalido al 100 per cento. Quei criminali, perché non sono altro che questo, non sono mai stati identificati con certezza e gli imputati del processo che ne conseguì sono stati tutti assolti per insufficienza di prove

Sorte analoga subì Luca Fanesi, tifoso della Sambenedettese che rimase gravemente ferito, il 5 novembre 2017, a Vicenza. Testa devastata da numerose gravi fratture, lungo periodo di coma, ora invalido anche lui al 100 per cento. Tutto archiviato. Pende ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Non è mio intendimento criminalizzare tutti gli operatori di polizia ma mi astengo dal cedere alla solita ipocrita retorica delle mele marce. Il problema c’è. Esiste eccome!

LA RICHIESTA EUROPEA

Tanto è vero che il parlamento europeo, con richiesta del 12 dicembre 2012, ha esortato tutti gli stati membri affinché dotino le divise di tutti gli operatori delle forze dell’ordine di codici d’identificazione ben visibili affinché l’autorità possa agevolmente risalire alla loro identità. Così si otterrebbe trasparenza e responsabilità. In una parola, è questione di civiltà.

Quasi tutti gli stati membri dell’Unione europea lo hanno fatto, tranne, ovviamente, noi. Cinque progetti di legge e 155mila firme raccolte da Amnesty non sono bastate.

IL NO ALLA LEGGE SULLA TORTURA

La fiera ritrosia, finanche ostilità, delle autorità di polizia a collaborare in tal senso, non solo non è comprensibile ma ricorda, purtroppo, quella opposta pervicacemente all’approvazione della legge sulla tortura.

Chi sbaglia, in nome e con la divisa dello stato, non può rimanere impunito. Terrificante se lo rimane perché anonimo e senza volto.

Mi adopererò con tutti i mezzi che mi verranno messi a disposizione, se verrò eletta, affinché questa legge venga finalmente approvata.

ILARIA CUCCHI. Attivista per i diritti umani, ha fatto una campagna per indagare sulla morte del fratello, Stefano Cucchi 

Genova, quel tragico G8 di sangue. Il titolo in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 22 luglio 2001. Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022.

«La guerra di Genova» è il titolo in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 22 luglio 2001. «293 feriti, città offesa»: nel capoluogo ligure si sta tenendo il G8. Due giorni prima le manifestazioni dei no-global sono culminate nella morte di un ragazzo, Carlo Giuliani. Non solo la città ma l’intero Paese appaiono sconvolti. «Violenti scontri lungo il percorso del corteo (300mila partecipanti) degli anti-global. A provocare gli incidenti gli anarchici del Black Block. Il bilancio è di 293 feriti, molti uomini delle forze dell’ordine, e oltre 70 arresti. Devastati negozi e banche, auto e cassonetti incendiati».

L’inviato della «Gazzetta» Stefano Boccardi racconta un’altra storia, quella che poi si rivelerà la più autentica. Raccoglie le voci di ragazzi baresi, di sacerdoti, di volontari: «Ci hanno lanciato addosso i black block. E poi ci hanno attaccato con i lacrimogeni. Dal basso. Dall’alto. Da tutte le parti. Noi eravamo al centro del corteo. E loro, i poliziotti, hanno fatto di tutto per non farci arrivare in piazza Giacomo Ferraris: ora non ho alcun dubbio. L’ho visto con i miei occhi. Sono stati proprio i poliziotti a permettere che i cosiddetti anarchici devastassero tutto. Potevano fermarli tranquillamente. È assurdo. Ci hanno trattato come bestie. A noi che eravamo a mani nude, mentre i “neri” continuavano indisturbati a spaccare tutto». Margherita Ciervo – ecologista non violenta, portavoce del GSF pugliese – piange come una bambina. Appare sconvolto anche don Angelo Cassano, parroco della chiesa San Giovanni Bosco al quartiere San Paolo di Bari. «Sono angosciato. Ci hanno riempiti di botte e lacrimogeni. Prima e dopo la manifestazione. Eravamo attaccati da tutte le parti. Dai black block e dai poliziotti». Don Angelo non ha dubbi: «I poliziotti volevano solo menare. E si sono serviti abilmente degli anarchici». Boccardi annota: «Doveva essere ed in parte è stata una manifestazione pacifica. Organizzata perfettamente solo in prima linea: quel corteo doveva essere controllato anche in coda. Ma ciononostante è arrivato a destinazione. Sul palco di piazza Ferraris si sono alternati i leader internazionali del movimento no-global. “Una vittoria” l’hanno definita tutti, ma – va detto – una vittoria amara, pagata col sangue di Carlo Giuliani e con le ferite di tanti giovani, venuti a Genova, forse un po’ ingenuamente, solo per protestare pacificamente».

Solo dopo settimane verranno alla luce le altre violenze compiute dalla polizia nei confronti dei manifestanti, il sangue versato nella scuola Diaz: le forze dell’ordine della democratica Italia, a Genova, hanno mostrato un altro volto. Era il luglio di ventuno anni fa.

La Movida è diventata il pericolo pubblico numero uno. Ordinanze per vietare gli alcolici, chiudere i locali o multare i ragazzi. Da Nord a Sud l’obiettivo è evitare che la socialità serale si concentri in aree ristrette, cercando di gestire il fenomeno. Ecco come. Massimiliano Salvo su L'Espresso il 5 Settembre 2022.

A Genova ha vinto la linea dura: in tutta la città, da quest’estate, è vietato passeggiare con una birra in mano dopo mezzanotte. Si può bere solo nei locali o nei dehors, per chi sgarra 500 euro di multa. Nel centro di Trieste la musica va spenta alle 22,30 in settimana e alle 23,30 nei weekend, salvo deroghe, mentre l’alcol d’asporto è illegale dalle 22; a Cervia e Milano Marittima, nella riviera romagnola, addirittura dalle 21.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 23 agosto 2022.

Emis Killa, col suo tweet, ha toccato un nervo scoperto della sinistra italiana. Il rapper, infatti, ha denunciato sui social quella che lui ha percepito come una mancanza di percezione di sicurezza a Riccione, una delle località balneari più frequentate dai giovani nel nostro Paese. 

Emis Killa ha paragonato Riccione a Marsiglia, una delle grandi metropoli francesi che negli ultimi anni ha mostrato più casi di disordine urbano a causa delle ben note problematiche delle banlieue, da dove provengono gran parte delle baby gang e dei delinquenti che terrorizzano i cittadini e i turisti.

"Riccione è diventata Marsiglia comunque. Una volta i giovani andavano lì a divertirsi, le famiglie anche. Ora dopo le 18:00 se sei un bravo ragazzo devi avere paura a farti una passeggiata sul lungomare. Le manganellate nelle ginocchia ci vogliono", ha scritto Emis Killa. Non è chiaro a cosa si riferisca il rapper, che non ha fatto nessun esempio concreto. 

Tuttavia, nelle città italiani, si verificano sempre più spesso situazioni al limite, che non si concretizzano nel reato ma danno la misura di una situazione sfuggita di mano proprio per la percezione di mancanza di controllo e di gestione del territorio. "Ha ragione Emis Killa", ha scritto sul suo profilo social Matteo Salvini. Il leader della Lega ha sottolineato come "il problema sicurezza nelle città è ormai dilagante e fuori controllo".

Di diverso avviso Simona Ventura, che da sempre trascorre parte delle sue vacanze a Riccione e che da qualche anno ha scelto questa cittadina, insieme al suo compagno, per un evento culturale estivo. "Caro Emis Killa, io la penso diversamente da te... Invece di lanciare invettive, cosa proponi? Viva la Romagna". C'è da dire che, comunque, che quella di Emis Killa non è stata né un'invettiva e nemmeno un attacco all'amministrazione. 

Ma Simona Ventura, nel suo messaggio, chiede a Emis Killa di fare proposte. Per cosa? Il sindaco di Riccione, Daniela Angelini, non ha apprezzato le parole del rapper e ha minacciato querela per diffamazione: "Sono indignata dalle parole di Emis Killa. Le respingo con forza e le ritengo frutto di assoluta malafede, ha raccontato una Riccione che non esiste".

Quindi, ha aggiunto: "A tutela dell'onorabilità della città che rappresento, dei nostri operatori, dei cittadini e degli ospiti stessi che amano Riccione, i nostri legali sono già al lavoro per procedere con le opportune azioni giudiziali, volte a punire questa gratuita diffamazione e a ottenere il risarcimento del danno d'immagine conseguente". Il primo cittadino di Riccione, eletto a giugno con una lista sostenuta da Pd e M5s, ha minacciato querela anche per "esponenti politici nazionali che per meri scopi elettorali intendono cavalcare questa azione denigratoria". 

"Dire che Riccione non è sicura è dire una cosa oggettiva". Facchinetti a gamba tesa. Dopo Emis Killa anche Francesco Facchinetti sottolinea la mancanza di sicurezza di Riccione: "Sostenere l’opposto è una grande bugia". Francesca Galici il 28 Agosto 2022 su Il Giornale.

Qualche giorno fa era stato Emis Killa ad accendere la polemica su Riccione, sostenendo che la cittadina "è diventata Marsiglia". Secondo il rapper "'na volta i giovani andavamo li a divertirsi, le famiglie anche. Ora dopo le 18.00 se sei un bravo ragazzo devi avere paura a farti una passeggiata sul lungomare. Le manganellate nelle ginocchia ci vogliono". L'appunto del rapper, rilanciato anche da Matteo Salvini, è stato accolto con rabbia dal sindaco del Pd di Riccione, Daniela Angelini, che si è detta "indignata dalle parole di Emis Killa. Le respingo con forza e le ritengo frutto di assoluta malafede". Il sindaco ha anche annunciato che "i nostri legali sono già al lavoro per procedere con le opportune azioni giudiziali, volte a punire questa gratuita diffamazione e a ottenere il risarcimento del danno d'immagine conseguente". Ma sullo stesso tema si è espresso anche Francesco Facchinetti nelle ultime ore, sulla stessa falsariga di Emis Killa.

"Se dico che Riccione non è più un paese sicuro e io con i miei figli non ci vado perché ho paura, non dico una bugia ma una cosa oggettiva", ha dichiarato Francesco Facchinetti su un video condiviso su TikTok. Quella dell'imprenditore sembra quasi una replica alle parole del sindaco che, in risposta a Emis Killa, ha detto che il rapper ha "ha raccontato una Riccione che non esiste" e che chi parla male della cittadina è in malafede. Facchinetti appare piuttosto arrabbiato nel suo video, che è quasi uno sfogo sul degrado in cui è scivolato il nostro Paese negli ultimi anni. "Dire che Riccione non è sicura è dire una cosa oggettiva e sostenere l’opposto è una grande bugia", ha proseguito Facchinetti. Il figlio del cantante dei Pooh non è entrato nello specifico del suo sfogo, ma le sue parole sembrano frutto di una profonda conoscenza di quel territorio: "Ho letto un sacco di commenti, ci sono persone che ritengono che solamente alcune zone di Riccione non sarebbero sicure. Col cavolo! Riccione non è più quella di una volta, che faceva concorrenza a Ibiza, ora non è neppure un’unghia di Ibiza".

Parole molto dure, forse addirittura più dure rispetto a quelle di Emis Killa. Facchinetti ricorda quando Riccione era il "quartier generale" di Claudio Cecchetto: "La Riccione di Cecchetto non esiste più spero possa ritornare agli antichi fasti insieme a Claudio, che so che sta lavorando per questo obiettivo e rimettere la grande Riccione e spero che ritorni la grande Riccione. Ma, se un posto non è sicuro, non è sicuro".

Giuseppe Baldessarro Rosario Di Raimondo per “la Repubblica” il 12 novembre 2022.

Frasi e comportamenti di un gruppo spietato nelle carte sul pestaggio a Crotone. Una madre e la figlia 17enne chiesero aiuto a un amico per punire un uomo che sul web insidiò la minorenne. I tre sono stati arrestati. Davide è stato ridotto in coma per uno scambio di persona. I giudici scagionano chi lo mandò al massacro con un messaggio: "Un codardo” 

Perché il pestaggio di Davide Ferrerio, il ventenne bolognese in coma dopo essere stato picchiato a Crotone lo scorso 11 agosto, è stato una spedizione punitiva che ha visto la collaborazione di tante persone. Fra cui due donne: la 41 enne Anna Perugino, ora in carcere, e la figlia 17 enne, finita in una casa famiglia. 

Sono accusate di concorso anomalo in tentato omicidio. Dietro le sbarre c'è già Nicolò Passalacqua, 22 anni, colui che colpì selvaggiamente Davide, forse usando anche un tirapugni. E dalle carte spunta anche un quarto indagato, per il quale non sono state disposte misure cautelari. 

"Ho visto la scena ed è caduto come un salame... Però che bel cazzotto": scrisse proprio così la ragazzina al picchiatore dopo quella terrificante sera d'agosto, al termine di una spedizione punitiva organizzata dalla madre. Una donna "infima" , scrive il gip di Crotone Michele Ciociola nella sua ordinanza.

Un passo indietro per ricostruire la vicenda. La ragazzina, alcuni mesi prima del dramma, viene contattata in chat da uno sconosciuto di 31 anni. Sua madre, nel tentativo di capire chi fosse quell'uomo, spinge la figlia a fissare un incontro. Che avviene l'11 agosto.  

"Aveva detto che gli avrebbe rotto la testa a questo", racconta un testimone. Quella sera Anna Perugino fa in modo che ci sia pure Nicolò (invaghito della ragazza). E succede l'impensabile: il 31enne arriva, viene affrontato dalla Perugino, si difende dicendo che sta solo aspettando il bus e si allontana. Sale in macchina e mente: alla ragazza dice di indossare una camicia bianca.

Il branco legge il messaggio, Passalacqua vede l'incolpevole Davide, che indossa un indumento di quel colore. Lo insegue e lo riduce in fin di vita. "Te l'avevo detto, non lo fare venire", dice la figlia, intercettata, alla madre, nelle ore successive all'aggressione, riferendosi a Nicolò. 

"Ma cosa ne sapevo io", la risposta. Anche Nicolò racconterà del momento in cui ha rincorso Davide: "Quando è scappato ho detto: Allora è lui! E gli sono andato dietro". 

Le due donne, in queste settimane, hanno persino contattato sui social il fratello di Davide, Alessandro. Con frasi come: "Smettila di andare in tv, noi non c'entriamo nulla". Lo conferma Fabrizio Gallo, uno degli avvocati della famiglia Ferrerio. Da parte di quel gruppo, dice, "non c'è stato un minimo di pietà". 

Nei giorni scorsi la mamma della vittima, Giuseppina Orlando, assistita da Gabriele Bordoni, aveva scritto al ministro della Giustizia Nordio per chiedere di allargare l'indagine. Per i magistrati, al di là del comportamento "codardo" del 31 enne, non ci sono responsabilità penali a suo carico. "Non ho mai visto Ferrerio", si è difeso lui. I fatti non contesterebbero questa versione. 

La mamma di Davide: "Noi stiamo morendo come famiglia"

Giusy, la mamma di Davide, non si dà pace. "Io so soltanto che il vero obiettivo della tragedia si è salvato puntando il dito contro mio figlio. È una cosa assurda, inspiegabile, straziante. Mio figlio è in coma, in stato vegetativo e non si sveglierà più. So soltanto questo. Noi stiamo morendo come famiglia".

Davide in coma dopo l'aggressione. Arrestate madre e figlia come mandanti. Indicarono il 20enne al picchiatore. Ma era uno scambio di persona. Stefano Vladovich il 12 Novembre 2022 su Il Giornale.

Arrestate madre e figlia per tentato omicidio in concorso. Dopo l'arresto di Nicolò Passalacqua, 22 anni, autore del pestaggio a sangue di Davide Ferrerio, il 20enne bolognese in vacanza a Crotone e scambiato per un altro, in carcere come mandanti della spedizione punitiva una 41enne, A.P., e sua figlia di 17 anni, M.A. Svolta nelle indagini sulla drammatica vicenda del ragazzo bolognese, figlio del vice procuratore onorario di Bologna, Giuseppina Orlando, originaria di Crotone, preso a calci e pugni la sera dell'11 agosto davanti al Tribunale cittadino.

Una storia assurda, zeppa di drammatiche coincidenze quella del tifoso rossoblù che aspetta un amico e si vede piombare su di lui come una furia Passalacqua. E tutto per una camicia che il ragazzo indossava, come quella del vero obiettivo del raid, un uomo di 31 anni che aveva adescato la 17enne su Instagram. A organizzare tutto la madre della ragazza, coinvolgendo anche un amico della figlia, Passalacqua. I tre arrivano all'appuntamento con il 31enne ma quando questo viene fermato nega di esser lui la persona che stanno cercando. Una volta al sicuro, invia un messaggio di sfottò alla ragazza. «Porto una camicia bianca». In strada c'è Davide che per sua disgrazia indossa proprio un indumento uguale a quello del molestatore. Nicolò non ci pensa un attimo, lo colpisce prima con due pugni in faccia, poi con un calcio allo sterno fino a quando stramazza a terra. Batte la testa Davide, ed entra subito in coma. Mentre lui è agonizzante gli aggressori sono ormai lontani ma le immagini delle telecamere congelano per sempre la scena fissando sui frame i loro volti.

La squadra mobile ci mette poco per individuare l'autore materiale del pestaggio, mentre Davide viene ricoverato prima nel vicino ospedale, poi trasferito d'urgenza nel reparto Rianimazione all'ospedale Maggiore di Bologna dove lotta tra la vita e la morte da tre mesi. Le due donne, in un primo momento, sono accusate solo di favoreggiamento e lasciate in libertà.

La polizia stringe il cerchio sui tre dopo le dichiarazioni dei testimoni, le intercettazioni telefoniche e ambientali, le perizie sui cellulari sequestrati agli indagati e l'analisi delle immagini del sistema di videocamere installate nel territorio. Respinti dal gip, invece, gli indizi raccolti su un'altra persona presente al pestaggio ma che non ne avrebbe fatto parte. «È doveroso segnalare - si legge su una nota della questura di Crotone - che la persona a bordo del ciclomotore più volte indicata sulla stampa come il soggetto che avrebbe provocato l'aggressione, è totalmente estranea alla vicenda, trattandosi di un soggetto che casualmente in quei momenti transitava nei pressi del Palazzo di Giustizia di Crotone, al pari di altri utenti della strada».

A firmare le due ordinanze di custodia cautelare il gip della Procura di Crotone e quello del Tribunale dei minori di Catanzaro. La mamma di Davide ha scritto al neo ministro della Giustizia, Carlo Nordico, per chiedere di indagare anche il 31enne che la 17enne aveva conosciuto in chat, con l'accusa di adescamento di minore. Domenica scorsa il Bologna calcio è sceso in campo con la scritta «Forza Davide» sulla maglia. SteVla

Biagio Chiariello per fanpage.it il 24 agosto 2022.

Davide Ferrerio è stato vittima di uno scambio di persona. È il risultato al quale è giunta la squadra mobile di Crotone, che ha ricostruito la dinamica dei fatti accaduti giovedì 11 agosto quando il 20enne di Bologna è stato selvaggiamente aggredito nel centro del comune calabrese, entrando poi in coma. Le forze dell'ordine hanno arrestato il presunto autore del gesto, Nicolò Passalacqua, 22enne senza fissa dimora.

Per la procura calabrese Davide è stato vittima di una spedizione punitiva che aveva come obiettivo un altro uomo, un 31enne che aveva dato appuntamento a una minorenne: la famiglia e i conoscenti di lei, tra cui Passalacqua, erano andati all'appuntamento con la giovanissima.

Quest'ultima aveva chattato per un periodo con l'uomo – che aveva comunque tenuto toni moderati e non aveva fatto riferimenti sessuali espliciti –  ma alla fine aveva chiesto di poter incontrare la minore. La giovane, spaventata si era rivolta alla madre che aveva suggerito di fissare un appuntamento con lo sconosciuto nei pressi del Palazzo di Giustizia alle 21 di giovedì sera.

Stando a quanto accertato, il 31enne avrebbe intuito il pericolo e, sentendosi braccato, ha scritto sui social alla ragazza di indossare una maglietta bianca, ma non era vero, per sviare i sospetti. Maglietta bianca che però indossava Davide Ferrerio. La minorenne ha così indicato lui ai suoi parenti. Dai video si vede che Passalacqua avvicina il 20enne per chiedergli chiarimenti:  ravvisando il pericolo, Davide ha cominciato ad allontanarsi e scappare.

Una volta raggiunto, Passalacqua lo ha colpito con una ginocchiata allo sterno e due pugni in testa. Ferrario ora si trova nella sua Bologna ricoverato in coma farmacologico.

Picchiato e mandato in coma a Crotone, il padre di Davide: "Per salvarlo ci vuole un miracolo". Redazione Tgcom24 il 26 agosto 2022. 

Non sembrano migliorare le condizioni di  Davide Ferrerio, il 22enne che, in vacanza dai parenti a Crotone, è stato ridotto in fin di vita per uno scambio di persone dopo un'aggressione in strada, per cui le indagini della Procura della Repubblica, svolte dalla Squadra mobile di Crotone, hanno portato all'arresto del 31enne  Nicolò Passalacqua. Davide è ora ricoverato, in coma, all'ospedale di Bologna e il padre Massimiliano conferma che non ci sono miglioramenti: "Davide è ancora pieno di tubi con gli occhi chiusi - ha detto a "Morning News" - un chirurgo ci ha contattato per vedere se ci sono possibilità di intervenire, ma spero che dal cielo abbiano pietà di un ragazzo innocente".

Il padre del ragazzo non riesce a darsi pace per la brutale aggressione ricevuta dal figlio: "Non riesco a capacitarmi di quanto avvenuto - ha detto - il fatto che si tratti di uno scambio di persone mi fa inc... ancora di più. Quello che ha fatto questo criminale è fuori dalla grazia di Dio".

Davide Ferrerio e l’aggressione a Crotone: picchiato e in fin di vita per uno scambio di persona. Carlo Macrì, inviato a Crotone su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022

Davide Ferrerio, 20 anni, calabrese residente a Bologna, è stato selvaggiamente picchiato e ridotto in fin di vita da un balordo di 22 anni che neanche conosceva. La madre: «Neanche in un film»

La sua colpa? Essere scambiato per un rivale in amore. È per questo assurdo motivo che la sera del 13 agosto scorso, a Crotone, Davide Ferrerio, 20 anni, crotonese residente a Bologna, è stato selvaggiamente picchiato e ridotto in fin di vita da un balordo di 22 anni, Nicolò Passalacqua, residente a Colleferro (Roma), arrestato dalla polizia con l’accusa di tentato omicidio. Una persona che Davide non ha mai conosciuto. Il peccato di Davide, tifosissimo del Bologna, è stato quello di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le telecamere della zona dell’aggressione hanno registrato tutte le fasi del pestaggio e, soprattutto, i momenti precedenti l’aggressione. «Neanche la sceneggiatura di un film da Oscar sarebbe stata così inverosimile, come la storia di mio figlio — dice Giusy Orlando, mamma di Davide —. Per quello che ha fatto, deve trascorrere i suoi giorni in carcere».

La trappola per l’adescatore della minorenne

Quella sera Davide era uscito da casa della nonna per incontrare un amico con cui andare a mangiare la pizza. Indossava un pantalone beige e una camicia bianca. Nell’attesa si era messo a passeggiare sul marciapiede davanti al Palazzo di Giustizia. Dall’altra parte della strada un gruppetto di persone, composto da una ragazza di 17 anni, la madre, il compagno di quest’ultima, il figlio della coppia e lo stesso Passalacqua. Il gruppetto era lì perché aspettava di individuare l’uomo che, attraverso Instagram e utilizzando un nick falso, aveva dato appuntamento proprio in quella zona alla 17enne, di cui, però, si era invaghito Passalacqua. Ecco perché la sua presenza sul posto. I componenti della comitiva a un certo punto hanno notato davanti a loro una persona che indossava una maglietta azzurra e hanno pensato potesse essere l’uomo che aveva adescato la 17enne. Nicolò Passalacqua gli è andato incontro chiedendogli se fosse lui la persona che aveva chiesto di incontrare la ragazza. L’uomo ha negato. Ed è andato via.

Lo scambio di persona e l’aggressione

Qualche minuto dopo la 17enne ha ricevuto sul suo profilo Instagram un messaggio in cui lo sconosciuto le faceva sapere di essere arrivato e di indossare una camicia bianca. Il gruppetto — come si vede dalle immagini delle telecamere — guardandosi intorno ha notato la presenza di un ragazzo con la camicia bianca. Quel ragazzo era Davide, che ancora attendeva per strada il suo amico. Passalacqua ha attraversato la strada e gli è andato incontro, con modi intimidatori, chiedendogli se fosse l’uomo dell’appuntamento. Davide ha cercato di fargli capire che c’era un errore di persona e, nel contempo, impaurito dal tono della voce del Passalacqua, ha cercato di allontanarsi con passo veloce, tentando di raggiungere l’abitazione della nonna. Passalacqua l’ha inseguito e dopo averlo raggiunto, gli ha sferrato un primo colpo con il ginocchio allo sterno, poi due pugni alla testa.

La caduta e il colpo alla nuca

Davide è caduto a terra stordito, sbattendo pesantemente la nuca sull’asfalto. Le sue condizioni sono apparse subito gravissime. Ricoverato all’ospedale di Catanzaro, da qualche giorno è stato trasferito a Bologna, in un centro specializzato.

Massacrato per uno scambio di persona: spunta il video choc. Davide, 20 anni, è stato massacrato di botte per uno scambio di persona. In un video choc si vede il ragazzo che viene inseguito e picchiato a calci e pugni, per poi essere lasciato tramortito per terra. Valentina Dardari il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

Davide Ferrerio è stato massacrato di botte per uno scambio di persona, come si vede in un video in cui sono ripresi i momenti precedenti all’aggressione. Il 20enne di Bologna, che ora si trova in coma e sta lottando tra la vita e la morte, si trovava in vacanza da alcuni parenti a Crotone quando è stato aggredito per sbaglio. È infatti spuntato un video in cui si vede chiaramente il ragazzo, con indosso una camicia bianca, aspettare un amico per andare a cena in pizzeria. Improvvisamente però ecco avvicinarsi una persona che prima gli parla e poi, quando il 20enne tenta di scappare, lo insegue per poi picchiarlo con una ginocchiata allo sterno.

Il video dell'aggressione

In seguito alle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica, e svolte dalla Squadra Mobile di Crotone, è stato arrestato Nicolò Passalacqua, identificato come l’autore dell’aggressione. Gli investigatori hanno infatti concentrato la loro attenzione sull'analisi delle immagini che sono state acquisite dalle telecamere di videosorveglianza presenti nell’area dove è avvenuto il pestaggio, e sull'analisi degli apparati cellulari delle persone coinvolte, oltre che sugli interrogatori di tutti i soggetti, anche coloro che sono risultati coinvolti solo in modo marginale.

"Ginocchiata allo sterno e pugni". Il pestaggio ripreso dalle telecamere

Da quanto emerso, Davide non conosceva colui che lo ha ridotto in fin di vita in un letto d’ospedale. Sembra infatti che Passalacqua stesse cercando un uomo che, attraverso i social, aveva dato un appuntamento a una sua amica minorenne, una giovane di 17 anni. A mettere in mezzo Ferrerio sarebbe stato il terzo soggetto, 31 anni, che ha usato il 20enne bolognese per cercare di distogliere le attenzioni del gruppo che lo stava cercando, in cui vi era anche Passalacqua. Avrebbe detto alla ragazza minorenne con cui stava chattando online che indossava una camicia bianca, portata invece dal 20enne.

Davide ha cercato di scappare

Nel filmato registrato dalle telecamere si vedono tutte le fasi precedenti al pestaggio e parte di questo. Si vede Nicolò Passalacqua andare verso Ferrerio con aria minacciosa, il ragazzo che prima tenta di spiegargli che ha sbagliato persona e poi, visto il pericolo, che cerca di fuggire ma viene raggiunto e picchiato violentemente. Con Passalacqua c’erano anche la minorenne, la madre della ragazza, il compagno della donna e il figlio della coppia. Il giovane bolognese è stato soccorso e trasportato prima all’ospedale di Catanzaro, per poi essere trasferito a Bologna, in un centro specializzato, a causa delle sue gravissime condizioni.

La ricostruzione della brutale aggressione di Crotone. Davide Ferrerio pestato e ridotto in fin di vita, dietro l’aggressione uno scambio di persona: ‘colpa’ di un corteggiamento su Instagram. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

Davide Ferrerio, il ragazzo 20enne di Bologna massacrato di botte e ridotto in fin di vita al termine di una brutale aggressione avvenuta a Crotone lo scorso 11 agosto, è rimasto vittima di uno scambio di persona. A scoprirlo nell’ambito delle indagini avviate dopo l’aggressione è stata la squadra mobile di Crotone, che per quel violento pestaggio ha tratto in arresto il 22enne Nicolò Passalacqua.

Ferrerio, trasferito nei giorni scorsi dalla Calabria all’ospedale Maggiore di Bologna con un aereo militare, è ancora in gravi condizioni e resta ricoverato in coma farmacologico a causa della emorragia cerebrale causata dal pestaggio.

Una violenza selvaggia nata da un equivoco, che nulla ovviamente toglie alla gravità dei fatti. Grazie a ore trascorse a visionare telecamere di videosorveglianza, tabulati, messaggi e chat social, il quadro per gli investigatori si è fatto chiaro: Ferrario è stato brutalmente picchiato perché vittima di uno scambio di persona.

Nicolò Passalacqua lo aveva infatti identificato come il 31enne che tramite un falso account Instagram aveva corteggiato una sua amica minorenne, che si era rivolta al 22enne in cerca di aiuto.

Davide Ferrerio, di fatto, è stato messo in mezzo dal terzo soggetto che ha utilizzato il giovane bolognese per distogliere le attenzioni del gruppo nel quale si trovava Passalacqua, 22enne di Colleferro (Roma). attualmente in carcere con l’accusa di tentato omicidio.

Come scrive l’Ansa, che ricostruire i momenti drammatici di quell’11 agosto, mentre Ferrerio era nei pressi del Palazzo di Giustizia di Crotone in attesa di un amico, Passalacqua era non lontano assieme a due sue parenti, alla ragazza minorenne, alla madre di quest’ultima, al di lei compagno e a un altro figlio della coppia.

L’obiettivo di Passalacqua e della madre della 17enne era quello di scoprire l’identità del ‘corteggiatore’ online e su indicazione della madre avevano fissato appuntamento nei pressi del Palazzo di Giustizia alle 21. Qui il 31enne aveva negato d’essere in attesa della ragazza: mentre si allontanava dall’area, sempre via Instagram scrive alla 17enne di essere arrivato a di indossare una camicia bianca, mentre in realtà aveva addosso una maglietta azzurra.

Qui dunque è avvenuto lo scambio di persona: leggendo ad alta voce il messaggio, Passalacqua individua in Davide Ferrerio, che indossava proprio una camicia bianca, il ‘corteggiatore’ di Instagram. Al 22enne che gli si avvicina per chiedere conferma, il giovane bolognese nega tutto e si allontana impaurito, prima camminando velocemente e poi correndo in direzione della casa della nonna di cui era ospite. Una reazione che spinge Passalacqua a inseguirlo nella convinzione che fosse lui l’uomo di Instagram, con l’aggressione brutale a suon di pugni che ha provocato le gravi ferite al ragazzo di Bologna.

Mara Rodella per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.

La cena in famiglia la sera di Ferragosto, il bagno nella piccola piscina allestita per i bambini e un altro bambino, vicino di casa di un anno e dieci mesi, che a una trentina di metri scarsi, pochi minuti prima delle undici, viene colpito da un proiettile vagante mentre dalla finestra di casa, una palazzina isolata, al primo piano, si affaccia con mamma e papà attirati proprio da quei «rumori» che, come tanti vicini, in prima battuta pensano essere fuochi d'artificio, o petardi. E invece no. Sono gli spari esplosi «per gioco» da una guardia giurata di 46 anni (fuori servizio) di casa a Corte Franca, lungo la provinciale che attraversando la Franciacorta arriva alla sponda del lago d'Iseo.

Non è da solo, però. Stando a una prima ricostruzione degli inquirenti il metronotte esce in strada con un amico di 31 anni e un ragazzo di appena 19, fidanzato della figlia della compagna. «Dai, proviamo le armi» avrebbe detto loro: lui che impugna la pistola d'ordinanza, gli altri un fucile a testa, tutti regolarmente denunciati. E finiti sotto sequestro. 

Inizia il «tiro a segno», pericolosissimo: contro i cartelli stradali (uno indica il nome della via, l'altro la direzione di marcia) a un'altezza di due metri come bersaglio. Ieri sono stati sequestrati anche quelli, dai carabinieri: riportano tredici fori. Crivellato di colpi anche il palo della luce a fianco, ma non è detto della stessa matrice. In tutto sarebbe stata esplosa circa una ventina di colpi: uno, di pistola, colpisce il piccolo al torace.

«Era affacciato alla finestra, a un certo punto è arrivato lo sparo e lo ha preso al petto» racconta il cuginetto minorenne il giorno dopo. «L'hai ammazzato, hai ucciso mio figlio» urla invece il padre del bimbo ore prima correndo verso la casa del vigilante mentre sua moglie, disperata, lo stringe tra le braccia. Miracolosamente, il proiettile non ha ferito alcun organo vitale: sottoposto d'urgenza a un delicato intervento chirurgico all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il bimbo si è svegliato e respira da solo. Potrebbe essere fuori pericolo.

La guardia, invece, è indagata per lesioni colpose gravissime. Fino a sera il 46enne è stato interrogato dagli investigatori nel tentativo di ricostruire la dinamica della vicenda, così come le altre due persone coinvolte, che potrebbero rispondere di porto illegale di arma da fuoco. Le posizioni sono al vaglio. Sembra peraltro che i racconti resi a caldo dai protagonisti agli inquirenti non siano stati, almeno inizialmente, concordanti: in prima battuta avrebbero riferito «solo» di un paio di colpi in aria. Ma i bossoli non si trovavano. Certo più di due, sembra che, forse spaventata, a «nasconderli» sia stata la moglie del 46enne, in soffitta, dove gli investigatori - che più volte sono tornati a Corte Franca - li hanno poi recuperati e repertati. 

Per ore le persone coinvolte sono state ascoltate in caserma. Sconvolti i vicini di casa, pur sollevati dalle buone notizie arrivate ieri dall'ospedale di Bergamo sulle condizioni del bimbo. «Ma si rendono conto di quello che fanno o no? Non è possibile» sbotta uno.

C'è anche chi dice non sia la prima volta, che il 46enne spara in aria, magari di notte: a pochi metri dalla soglia della sua villetta c'è uno dei parcheggi di una grande discoteca, che sorge poco lontano, «una notte i ragazzi facevano baccano e lui, esasperato, è uscito e ha sparato» racconta un residente della zona. E non sarebbe l'unico episodio. «È una persona tranquilla, mica uno scalmanato» assicura la suocera: «Dormivo già la sera di Ferragosto a quell'ora. Non so cosa sia successo»

L’ex ministro Pagliarini derubato a Milano: «Avevo localizzato il pc ma la polizia mi ha detto di andarci io». Redazione Milano su Il Corriere della Sera l'1 agosto 2022.

«Sono tornato a casa mia a Milano per la dichiarazione dei redditi, sono sceso dall’auto e ho aperto il portone di casa, quando sono tornato i miei averi erano spariti». L’ex ministro leghista Giancarlo Pagliarini, in passato anche senatore e assessore del Comune di Milano racconta la sua disavventura. Il furto. La denuncia. La localizzazione via gps di uno dei dispositivi elettronici spariti. La richiesta alla polizia. E la risposta spiazzante: «Mi hanno detto di non poterci fare nulla e che sarei dovuto andare io e che, una volta individuato l’indirizzo preciso, avrei dovuto chiamare nuovamente il 112».

Pagliarini racconta all’Ansa di essere stato derubato alcuni giorni fa, al ritorno dalla Liguria, dove si è trasferito dopo la morte della moglie Sonia. In quel momento di disattenzione, dall’auto spariscono due borse con documenti e tre pc. Si presenta quindi in un commissariato di Polizia a sporgere denuncia. Una volta fuori, attraverso lo smartphone riesce però a localizzare uno dei portatili rubati tramite app. Quando lo comunica agli agenti ottiene l’inattesa risposta. Così l’ex esponente leghista segue l’indicazione e, intorno alle 23, raggiunge una zona periferica della città guidato dal segnale gps. Richiama il 112, arrivano questa volta i carabinieri «ma purtroppo a quel punto i ladri avevano già spento i dispositivi». «Sono rimasto davvero stupito della reazione alla prima chiamata — conclude Pagliarini —, mandare me invece di andarci loro, sinceramente, lo trovo inaccettabile».

Dalla questura spiegano che la presenza della vittima di furto sul luogo in cui l’app di tracciamento segnala la presenza del device è fondamentale. Serve a verificare che l’indirizzo in cui si procede sia quello giusto (la localizzazione in genere ha un certo margine d’errore), ed è indispensabile per riuscire a individuare con precisione l’oggetto grazie, ad esempio, ad alcune funzionalità pensate appositamente come quella che permette di far suonare a distanza il telefono o il pc. Per questo la procedura in questi casi prevede che il diretto interessato chiami il 112 una volta sul posto e attenda là l’arrivo di agenti o carabinieri.

Estratto dell’articolo di Giampiero Valenza per “il Messaggero” il 12 agosto 2022.

Tre turisti vengono a Roma in vacanza. Uno di loro, intorno alle 9, parcheggia l'auto su lungotevere dei Cenci per iniziare, di buon'ora, una visita della città. A mezzogiorno ritornano lì e la trovano con uno dei finestrini rotti. Una banda di ladri aveva ripulito poco prima la Toyota di tutto quello che di prezioso hanno potuto trovare dentro: tre zaini, due Macbook, documenti e borsette. Proprio grazie al rilevamento satellitare degli apparati elettronici, hanno scoperto il covo dei malviventi: il campo nomadi di via Candoni, alla Magliana.

«Le forze dell'ordine ci hanno detto che purtroppo non sono potute entrare nel campo per motivi di ordine pubblico», hanno commentato i visitatori. […] Il campo rom di via Candoni, alla Magliana […] è di quindicimila metri quadrati di terreno, un centinaio di container, circa 800 persone, 200 minorenni, che vivono in baracche fatiscenti, in scacco delle continue faide interne tra famiglie di diverse etnie. […] Qualche settimana fa una squadra straniera di cricket è stata derubata di tutte le loro mazze proprio a pochi passi da via Candoni. «C'è chi per loro si è recato al campo e, dietro un compenso di denaro, pare sia riuscito a riottenere l'attrezzatura sportiva» […]  

Estratto dell'articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 agosto 2022.

Due mesi e venti giorni di reclusione per aver rubato un euro dalla Fontana di Trevi. Per questo è stato condannato un uomo di 64 anni. Senza, però, finire in carcere. La prescrizione, in Appello, ha evitato che la sentenza diventasse definitiva. [...]

Tutto ha inizio quando i vigili urbani scoprono il 64enne con un'asta telescopica con in cima montata una calamita. [...] È il sedici giugno del 2011. Ad osservarlo ci sono anche i caschi bianchi. Il 64enne sonda Fontana di Trevi a caccia di monetine fino a quando con il magnete non ne afferra una. La polizia municipale, a questo punto, si avvicina all'uomo e gli sequestra tutto, [...]

Gli agenti inviano gli atti in procura per la sorpresa del ladro, che pensava di cavarsela con una multa. [...] 

L'accusa - dettagliata - viene spedita ai pm che si mettono subito al lavoro. Così si legge nel capo di imputazione: l'indagato « al fine di trarre profitto si impossessava di una moneta presente all'interno della Fontana di Trevi, di proprietà del comune di Roma ». 

L'accusa del sostituto procuratore è furto aggravato. [...] per il magistrato, che non ha dubbi. L'uomo merita una pena esemplare: due mesi e venti giorni di carcere. Questa la decisione.

Il legale del 64enne non ci sta. Chiede che venga celebrato il processo in secondo grado. Troppi 80 giorni di carcere per una sola monetina [...] Alla fine, in Appello, l'uomo riesce a cavarsela. È tutto prescritto, anche perché l'udienza viene fissata undici anni dopo il verdetto del tribunale. [...]

"Ho dovuto pagare il Comune per riavere lo scooter rubato": la denuncia di Cruciani. Il giornalista Giuseppe Cruciani ha subito il furto del motorino in zona Navigli. Oltre il danno la beffa: 250 euro da pagare al Comune di Milano: “È giusto pagare per riavere una cosa propria?” Massimo Balsamo su Il Giornale il 27 Luglio 2022.

Disavventura a lieto (ma costoso) fine per Giuseppe Cruciani. Il celebre giornalista, al timone del programma radiofonico “La Zanzara”, ha subito il furto dello scooter a Milano nella notte tra giovedì e venerdì. Fortunatamente, è tornato in possesso del suo mezzo a due ruote, ma non senza sborsare qualche soldo.

"L'allarme sicurezza a Milano è giustificato. Sala? Insensibile". La polizia sbugiarda il sindaco

“Abito vicino ai Navigli, una delle zone della movida milanese dove, mi dice la Polizia, nell’ultimo periodo sono aumentati a dismisura i furti dei motorini”, ha esordito Cruciani ripercorrendo l'accaduto. I malviventi hanno messo le mani anche sul suo scooter, e qui inizia ciò che il giornalista ha definito “incredibile”. Il suo mezzo, poi, è rimasto coinvolto in un incidente: “La collisione è avvenuta in via Solari, il ladro si è dileguato e il mio motorino è stato trasportato in un deposito dove vengono lasciati i veicoli rimossi”, le sue parole riportate dal Corriere.

Cruciani non è stato avvisato dalle autorità ed è riuscito a recuperare lo scooter solo dopo qualche giorno. Ma non è tutto. Ecco l’amara sorpresa: 250 euro da pagare per la rimozione (con tariffa notturna maggiorata), il trasporto e il deposito del mezzo. Un esborso destinato alle casse del Comune di Milano guidato da Beppe Sala. Oltre il danno la beffa, in poche parole.

Allarme violenza, la sinistra tace

“Mi chiedo se sia giusto che un cittadino debba essere costretto a pagare per tornare in possesso di una cosa di sua proprietà che gli è stata rubata”, la denuncia di Cruciani. Pur comprendendo l’aumento dei furti da parte dei malviventi e il periodo piuttosto delicato, il giornalista si è chiesto perché non esista un fondo che copra almeno questa tipologia di spese per i cittadini derubati. “Dove vanno le nostre tasse?”, ha aggiunto. Un messaggio destinato a Beppe Sala, forse poco attento dei problemi della città ma certamente impegnatissimo nella campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre.

Assolto il gioielliere che uccise due rapinatori nel Napoletano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2022  

Fece fuoco a Ercolano contro i banditi che Il 7 ottobre 2015 cercarono di rubargli cinquemila euro appena prelevati

La prima sezione penale del Tribunale di Napoli, presidente Antonia Napolitano Tafuri ha assolto il gioielliere Giuseppe Castaldo che il 7 ottobre 2015 a Ercolano (Napoli) fece fuoco e uccise due rapinatori : Luigi Tedeschi e Bruno Petrone: il fatto non costituisce reato perché fu legittima difesa. 

La pistola era detenuta legalmente e i due erano armati. La Procura di Napoli, con il procuratore aggiunto Raffaello Falcone e il sostituto procuratore Ernesto Sassano, aveva chiesto l’archiviazione e, durante il dibattimento, l’assoluzione di Castaldo che è stata accolta con formula piena dai giudici.

Castaldo, difeso dall’avvocato Maurizio Capozzo era finito sotto processo per eccesso di legittima difesa, quel giorno, aveva appena prelevato 5 mila euro da un istituto di credito nei pressi degli Scavi di Ercolano quando le due vittime, in sella a uno scooter e armati di una pistola finta ma senza il tappo rosso di riconoscimento, gli ordinarono di consegnare il denaro. Castaldo tirò fuori la sua pistola e sparò mentre i malviventi lo tenevano sotto il tiro della loro.  Redazione CdG 1947

Si difende dai rapinatori: gli danno 12 anni di carcere. Valentina Jannacone su Culturaidentità.it il 22 Luglio 2022

Tu cosa faresti? Cosa faresti se entrando in casa, o nel tuo negozio, vedessi un tuo caro a terra, ferito, picchiato brutalmente e lì ci fossero ancora i delinquenti armati di pistola? Quali pensieri ti passerebbero per la testa? Nessuno potrebbe dirlo con certezza, sono attimi, impulsi istantanei: paura, rabbia, incredulità… qualcuno si bloccherebbe, altri reagirebbero. Non c’è una regola e chi non vi sia passato non può puntare il dito, affermare “la reazione è eccessiva, immotivata” o, al contrario, “inspiegabilmente nulla”.

Eppure, anche oggi, nonostante l’istituzione della Legge 36/2019 sulla Legittima Difesa, non c’è bilanciamento tra chi subisce e reagisce e chi compie il reato violento che ha portato ad una conseguenza talvolta tragica. Graziano Stacchio, Giovanni Petrali, Mario Cattaneo, Franco Birolo, sono solo alcuni degli innocenti cui si sia imposto il calvario di una giustizia che li rende criminali solo perché, temendo per sé e per i familiari, hanno agito. Figuriamoci se la vicenda risale al 2008, quando anche questa legge decisamente migliorabile non esisteva neppure.

È il caso di Guido Gianni, gioielliere di Nicolosi, che giungendo dal laboratorio vede la moglie Maria Angela a terra, trascinata per i capelli dietro il bancone, afferrata al collo e svenuta dopo essere stata colpita brutalmente dai 3 rapinatori armati che mettono in atto minacce di morte anche nei confronti di un cliente presente. Sono frazioni di secondo, un flash: non ci si può immaginare la pistola sia a salve, non c’era nemmeno il tappo rosso; non si può pensare “aspettiamo vadano via”; non si può sapere come si reagirà, se si resterà paralizzati dal terrore o la paura e la rabbia, il desiderio di proteggere chi si ama, sfocerà in qualcosa di diverso dall’inerzia che lo Stato prevede. Di Legittima Difesa, all’epoca, neppure si parlava. Sarà poi la Lega, con il contributo di Unione Nazionale Vittime, a lottare affinché la legge tenga in considerazione i diritti delle vittime: il diritto di difendersi da forme di attacco dirette. Ed allora l’uomo, disperato, probabilmente confuso e terrorizzato, afferra la pistola. Prova anche a sparare quattro colpi in aria, Gianni, quando i rumori e le grida fanno già intendere cosa stia accadendo. La scena che gli si para davanti uscendo dal laboratorio è troppo forte: i 3 aggressori, per nulla intimiditi dagli spari di avvertimento, diventano ancora più violenti, riprendono a picchiare la moglie sempre puntandole una pistola al petto e se la prendono anche con lui. Le lacrime scendono e l’istinto ha il sopravvento: i criminali, quelli veri, sono ancora nella piccola bottega quando partono due colpi fatali, involontari, frutto della colluttazione. È la firma sulla sua condanna: 12 anni e 4 mesi di carcere, 14 anni della propria vita cancellati ancor più da quella giustizia pronta a condannarlo, anziché proteggerlo dalla malvagità degli assalitori. Chissà fuori gli altri membri della malavita cosa avranno pensato? Di certo, Guido non ha meditato sul futuro, su ciò che sarebbe accaduto. Solo su sopravvivere e proteggere. Nessuno parla delle sue ferite, nemmeno quelle fisiche, mai refertate. Nel corso del processo, nelle varie sentenze non compaiono molti particolari: se non si fa cenno all’ingresso nell’attività di persone sconosciute, quando ancora le forze dell’ordine non era giunte sul posto, anche lo stato di turbamento e forte stress cui Giudo è stato sottoposto non compare nelle sentenze. Particolari che nella cronaca non fanno notizia, ma qualcosa dovrebbero pur valere nel corso del processo.

Guido è in carcere dal 28 maggio 2022. Dopo anni trascorsi tra tribunali, incertezza, dolore e continuo timore di quello che alla fine è stato: la vittima, nel nostro Paese, può divenire “carnefice” agli occhi di un Magistrato che interpreta pedissequamente una legge altrettanto limitata e rigida.

In questi mesi la moglie ha organizzato una petizione online per chiedere al Presidente della Repubblica la grazia  ed un sit-in sul lungomare di Catania cui hanno partecipato anche vari gruppi politici oltre al Sindaco del Comune di Gravina di Catania, Massimiliano Giammusso, con i componenti di Giunta.

Maria Angela, sono passati 14 anni dacché l’incubo ebbe inizio. A giugno la sentenza è stata confermata. Oggi Guido ha 62 anni. Nonostante la solidarietà di tante persone, il ripetere e ricordare gli accadimenti rivivendoli in tribunale, i giudici applicano pedissequamente una legge che non sembra tener conto di chi sia la vera vittima. In questi anni cosa è successo alla tua famiglia?

La nostra famiglia è stata rovinata. Abbiamo dovuto chiudere l’attività perché troppe erano le paure. Un calvario continuo di dispiaceri.

Cosa è successo al terzo assalitore ed ai membri della criminalità organizzata rimasti fuori dal negozio?

All’esterno della gioielleria erano presenti almeno altre tre persone facenti parte dello stesso commando, appartenenti ad una cosca mafiosa e arrestati qualche anno dopo, nel 2013, durante l’operazione “Squalo”. Del terzo malvivente, quello che era all’interno della gioielleria, non abbiamo notizie.

Nemmeno questa parvenza di giustizia è stata concessa: sapere di una condanna, possibilmente seria e rigorosa nei confronti di chi abbia rapinato, minacciato di morte, picchiato senza pietà, non sarebbe certo una consolazione, ma forse potrebbe ridare speranza in quella giustizia che pare invece aver abbandonato chi dovrebbe difendere.

Oltre alla richiesta di grazia, sta cercando almeno di far trasferire Guido dal carcere Ucciardone (Palermo) a Catania…

Ogni sabato partiamo alle 5 per andarlo a trovare. Purtroppo, le mie condizioni di salute non sono ottimali: lo stress della vicenda ha peggiorato alcune patologie, causandomi anche una malattia degenerativa alle ossa. Era Guido a prendersi cura di me…

Sono tante le vittime che dopo gli eventi traumatici, durante il percorso infinito nelle aule di tribunale, rivivendo quotidianamente la tragedia, incorrono in problemi di salute. Non solo psicologici, ma anche fisici. Qualcosa dentro si spezza e il dolore abbatte le naturali difese, talvolta in modo irreversibile.

Dopo quanto accaduto, è ancora possibile credere nella giustizia? Cosa vorrebbe dire a politici e magistrati?

Siamo tutti molto delusi dalla condanna che ha ricevuto Guido, non la meritava assolutamente. Sia prima che dopo il fatto definito “rapina violenta anomala”, mio marito si è sempre comportato benissimo: aiutava le persone in difficoltà, non ha mai ricevuto un verbale, né una multa o altro. Ha sempre rispettato le regole e le leggi. Sempre disponibile, con un sorriso per tutti, generoso, onesto e leale. Un grandissimo lavoratore e creatore di gioielli, un animo da artista. Un marito esemplare innamorato di me (per 40 anni non ci siamo mai divisi, neanche per andare a fare la spesa). Un padre eccezionale, sempre presente nella vita dei nostri figli.

Parole posate, nonostante gli eventi. Maria Angela mantiene salda la propria persona con una forza interiore inimmaginabile. Non inveisce, non si lamenta. Parla di delusione. Con compostezza. Organizza sit-in, chiede di firmare una petizione, mentre lo Stato e i Tribunali infieriscono con la definizione della condanna in Cassazione, lei ancora spera: “Non posso fare altro”. Ed è vero, non può. Gli unici a potere oggi sono Mattarella e un giudice che accordi il trasferimento. Troppo poco per un dolore così grande. Troppo poco anche per ridare fiducia agli organi di Giustizia, ma un passo verso un mondo meno distopico.

Valentina Jannacone – Direttivo Unione Nazionale Vittime e Coordinatore Regione Liguria

"Io, tiratore scelto, vi racconto l'orgoglio nel salvare le persone". Sofia Dinolfo il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Un'attività piena di rischi che necessita molta preparazione fisica e mentale. Il maresciallo maggiore Massimo Vicini racconta la sua esperienza a IlGiornale.it.

Un lavoro particolare, che diviene fondamentale in quei momenti di estrema delicatezza in cui si gioca tutto. Stiamo parlando dell’attività del tiratore scelto, la cui specializzazione vede questo professionista coinvolto in interventi diretti a interrompere un sequestro oppure azioni di fuoco di un folle o di un terrorista nei confronti di una o più persone.

Il suo ruolo richiede elevate capacità che vanno da una notevole competenza di carattere tecnico a un ottimo equilibrio psico-fisico, necessari per misurare le distanze, dirigere il tiro in condizioni di alta tensione senza mai cedere a stanchezza fisica o mentale. Come si prepara il tiratore scelto per lo svolgimento del suo lavoro? Ce lo spiega su IlGiornale.it il maresciallo maggiore Massimo Vicini il quale puntualizza che “Il possesso di determinati requisiti uniti a un’ottima preparazione fisica sono fondamentali".

Partiamo da una distinzione basilare. Che differenza c’è tra il Police Sniper e il Military Sniper?

“I due compiti hanno certamente in comune le basi che riguardano l’utilizzo e l’impiego dell’arma di precisione in dotazione, ma i differenti impieghi richiedono caratteristiche priorità, responsabilità e rischi diversi. Il Police Sniper opera di massima in un contesto urbano ove vi sono numerosi civili da salvaguardare. Il Military Sniper sovente opera in teatro di guerra a fronti contrapposti. Dunque correndo maggiori rischi”.

Quali sono le attività che un tiratore scelto svolge quotidianamente per tenersi in forma?

“È richiesta una ottima preparazione fisica e il possesso di particolari requisiti. Sicuramente al Military Sniper può essere richiesta maggiore prestanza fisica, vista la necessità di infiltrarsi in ambiente ostile, anche percorrendo lunghe distanze, trasportando anche il necessario al sostentamento per un periodo di permanenza medio lungo”.

Quanta resistenza si può richiedere in termini di ore durante un intervento? Fino a quanto si può arrivare?

“Il primo ricarico chiesto al tiratore scelto è quello di osservazione del proprio settore di tiro, comunicando o ingaggiando quanto prima l’eventuale minaccia individuata. Tale servizio richiede resistenza fisica e mentale che viene incrementata grazie all’addestramento. Il Police Sniper, al fine di garantirne la massima efficienza, ha maggiori probabilità di essere sostituito dopo un periodo di servizio medio lungo pari a 8/10 ore giornaliere. Il Military Sniper, in considerazione del luogo di impiego (teatro operativo sovente infiltrato in territorio nemico), raramente può ricevere il cambio sul posto per motivi tattico/operativi. Quindi il suo impiego nel luogo di osservazione può avere durate maggiori”.

Quanto conta il “peso" della responsabilità durante un intervento? Lo si avverte? O in quel momento si pensa soltanto ad agire?

“Il carabiniere, all’atto dell’arruolamento, viene sottoposto a visite psicoattitudinali al fine di verificare la sua idoneità. Lo stesso, dal momento del suo arruolamento, è cosciente delle proprie responsabilità convivendoci. Allo stesso modo, durante un’operazione, deve gestire le proprie reazioni emotive al fine di rimanere lucido. Il tiratore scelto viene sottoposto a un'ulteriore visita medica e psicoattitudinale per accertarne la specifica idoneità a svolgere tale particolare servizio. Tali selezioni, molto severe, hanno lo scopo di individuare tutta una serie di peculiarità caratteriali che mal si conciliano con l’incarico (impulsività, emotività e così via). Sicuramente, il 'peso' della responsabilità lo si avverte, ma questo rafforza la fermezza e la concentrazione nello svolgere il proprio servizio, con la consapevolezza che un eventuale errore può essere fatale”.

Claudio Brigliadori per “Libero quotidiano” il 5 giugno 2022.

Vittorio Brumotti e gli "spaccini": ormai è un genere cinematografico a sé, metà action movie all'americana, stile "Fast & furious" (su due ruote), metà poliziottesco all'italiana anni Settanta (qualcuno ricorda "Milano odia: la poliza non può sparare?"). 

A Striscia la notizia, su Canale 5, con cadenza settimanale il ciclista estremo entra come inviato nei fortini dello spaccio di droga italiani, a ogni latitudine. Dai quartieri-ghetto ci cittadine campane o pugliesi fino alle grandi metropoli, Roma e Milano. Da Sud a Nord, senso di impunità, degrado e violenza: una fotografia adrenalinica di quello che accade sotto i nostri occhi distratti.

Il format funziona. In 5 minuti, si passa dalla ricognizione con telecamera nascosta sul luogo del crimine, l'abboccamento con gli spacciatori, spesso immigrati, che offrono la mercanzia con nonchalance. Poi Brumotti e il cameraman tornano sul posto seguendo le forze dell'ordine arrivate per una perquisizione. Non è stato l'inviato di Striscia a denunciare, ma qualche residente disperato.

Qui però arriva il "twist" del servizio: spacciatori e immigrati, un mucchione di decine di persone, se la prendono con lui al grido di "infame", lo inseguono, gli tirano bottiglie, cercano di rubargli il girato. Nell'ultima puntata di questo True reality-crime in pillole (forse l'unico in Italia) Brumotti è al Parco Sempione, in pieno centro a Milano. Polmone verde che è anche centrale di stupefacenti.

Dopo aver avvicinato i fornitori di droga informandosi su quantità e prezzi, scatta il blitz degli agenti. E qui si scatena il dramma: il parco diventa un dedalo di viuzze, luoghi perfetti per un agguato della gang. Il ciclista, circondato, inizia a prenderle. «Ti tiro un calcio qua e muore, non me ne fot**e niente», lo avverte un energumeno. Non resta che scappare, a rotta di collo. Le riprese in soggettiva della bici che sfreccia a velocità folle tra alberi, aiuole, marciapiedi giù giù fino alla strada e lungo i rotai del tram, fino alla "salvezza", valgono da sole il prezzo del film, anche se viste e riviste (purtroppo) centinaia di volte.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 9 giugno 2022.

Il copione è sempre lo stesso: risse, pestaggi, violenza. E se sul Garda dopo i fatti del 2 giugno ormai è scattata la psicosi, con il sindaco di Castelnuovo che riceve preallarmi su una possibile e imminente nuova calata dell'orda da mucchio selvaggio, di località turistiche prese d'assalto ce ne sono diverse. 

A Rimini l'altra notte ombrelloni e lettini si sono trasformati in oggetti atti a offendere. È finita con una lotta corpo a corpo, durante la quale un immigrato africano ha staccato con un morso la falange di un dito al contendente albanese e l'ha ingoiata. La rissa tra due albanesi e due nigeriani è scoppiata all'altezza del bagno 70. Alle 3 della notte tra lunedì e martedì è dovuta intervenire la polizia, allertata da un istituto di vigilanza. In tre sono stati arrestati con l'accusa di rissa aggravata, mentre il quarto è ricercato. 

L'avanzata africana in Italia sembra inarrestabile: proprio come a Peschiera del Garda, solo due mesi fa anche a Riccione gli squilli di tromba sono arrivati via Tik tok, con un video che è subito diventato virale: due ragazzini scendono la scalinata del Palazzo dei Congressi e, a un certo punto, dicono «pure quest' estate Riccione sarà colonizzata». 

Sullo schermo sventolano quattro bandiere: Tunisia, Marocco, Senegal e Albania. È stato così annunciato a residenti e turisti che sarà un'altra estate bollente. Come quella dello scorso anno, quando la Riviera si è trasformata nel campo di battaglia delle baby gang: bande composte da giovani nordafricani poco più che maggiorenni, dediti a furti, risse e rapine.

Per quelle avvenute il 16 e il 23 di agosto 2021 sono anche scattati degli arresti. Ma l'episodio simbolo resta quello del 21 agosto nelle strade di Riccione, quando la solita orda, arrivata in città per partecipare al concerto a Misano del trapper Baby Gang (poi annullato), si era scatenata con danneggiamenti a go go.

«Da oggi in poi tornerò a zanzare (ovvero a derubare, ndr) i turisti» aveva annunciato sul Web, come riporta il Resto del carlino, il cantante marocchino Zaccaria Mouhib, in carcere dallo scorso gennaio. Dichiarazioni che gli erano valse il foglio di via del questore. E con l'estate ormai alle porte e le minacce di nuove invasioni, gli operatori turistici non nascondono la loro preoccupazione.

Le agenzie di security confermano di aver raddoppiato il personale. E per le forze dell'ordine si preannuncia un gran bel da fare. Il sindaco di Riccione Renata Tosi, proprio come ha fatto anche la collega di Peschiera del Garda Maria Orietta Gaiulli, ha giocato d'anticipo, scrivendo al prefetto. E anche il questore Francesco De Cicco, nel suo messaggio di saluto alla festa della polizia, ha invitato a «non sottovalutare il fenomeno».

Di certo è una questione che non potrà che essere affrontata dal Comitato per l'ordine e la sicurezza. Proprio come a Verona, dove ieri i sindaci dell'area del Garda, Trenitalia e Trenord, si sono collegati in videoconferenza con il prefetto per verificare l'opportunità di continuare con i controlli rafforzati sulla spiaggia. Tra le altre cose, è stato chiesto di poter usare lo strumento del Daspo urbano. 

Mentre le indagini della Squadra mobile veronese vanno avanti per identificare i facinorosi del 2 giugno. Le bocche sono cucite, ma gli investigatori sarebbero già riusciti a dare un nome a decine di africani. Poi scatteranno le denunce. Così come vanno avanti le indagini sulle molestie che le ragazzine di ritorno in treno da Gardaland hanno denunciato alla polizia. Con tanto di polemiche su chi ha permesso a centinaia di immigrati reduci dal rave di Peschiera di salire su quel regionale. 

«Abbiamo all'ordine del giorno i mezzi di trasporto e la stazione di Peschiera, soprattutto dopo quanto accaduto il 2 giugno, e a questo riguardo ho coinvolto Trenord e Trenitalia perché si tratta di garantire un trasporto in condizioni di sicurezza. E questo vuol dire dover dotare i vagoni di videosorveglianza», ha detto al termine del vertice con i sindaci il prefetto di Verona Donato Carfagna.

E anche a Jesolo, in provincia di Venezia, le notti sul litorale si stanno facendo sempre più complicate da gestire: risse innescate dalle solite baby gang di immigrati, vandalismo, schiamazzi. Il sindaco Valerio Zoggia ha chiesto rinforzi al prefetto di Venezia, denunciando una situazione «già grave». 

«Il periodo più difficile», ha spiegato, «è proprio l'inizio della stagione balneare. Sono situazioni che riguardano centinaia di ragazzi, non decine. Io stesso li ho visti arrivare con casse di superalcolici e poi partecipare alle risse. Controllare il territorio con questi numeri è impossibile». Il bilancio dello scorso fine settimana è di centinaia di interventi, soprattutto nella notte di sabato. Ma a Jesolo non è solo il litorale l'area presa di mira. C'è un problema di sicurezza anche nella centralissima piazza Mazzini, dove nelle ultime sere non sono mancate le risse tra giovani pieni d'alcol.

Fratelli di taglia. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'8 giugno 2022. 

Ad Arzergrande, solida cittadella del Veneto leghista dove PD è tuttalpiù la targa di Padova, il sindaco Filippo Lazzarin offre cento euro di ricompensa a chiunque denunci i verniciatori anonimi che hanno imbrattato muri e monumenti con scritte e ghirigori spray. A proposito di muri, quello dell’omertà si disintegra alla velocità del suono. , denunce o spiate che dir si voglia, e i colpevoli vengono subito individuati. (Sono minorenni annoiati di ambo i sessi, cinque personaggi in cerca di educatore). Il sindaco prende atto, ma saggiamente non gongola: prima vuole accertarsi che i ragazzi partecipino alle opere di ripulitura e i loro genitori alle spese. Immagino che il suo approccio pragmatico incontrerà il consenso di parecchi lettori: per quel che vale, anche il mio. Purtroppo, il compito del cosiddetto e maledetto corsivista di costume è di spargere dubbi e rendersi antipatico. Perciò non posso fare a meno di chiedermi quanto senso del bene comune ci sia in un Paese come l’Italia, dove nessuno considera mai «suo» quel che è di tutti, e dove per far scattare la molla arrugginita del civismo è necessario un premio in denaro: la taglia di cittadinanza. Poiché da tempo immemore vige l’usanza che guardie e ladri si mettano d’accordo per fregare lo Stato, non mi stupirei se a denunciare gli imbrattatori fossero stati i loro complici, con la tacita promessa di spartirsi la ricompensa.

Serenella Bettin per “Libero quotidiano” l'8 giugno 2022.

I radical chic l'hanno già additato come il sindaco sceriffo ma se disegnare membri virili sulle panchine e sui monumenti ai Lagunari va bene, allora va bene tutto. E tutto passa in cavalleria. La verità è che il sindaco di Arzegrande, un piccolo comune di appena cinquemila abitanti in provincia di Padova, si è stancato dei vandali, dei teppisti, di alcuni giovani che non hanno voglia di fare niente e che per noia disturbano la quiete, imbrattano i monumenti, le pareti, le palestre e le giostrine per i bambini. 

E così per trovare i colpevoli ha preso e ha messo una taglia di 100 euro. Il sindaco è Filippo Lazzarin, classe 1984; un sindaco giovane, 38 anni, abituato a lavorare e farsi il mazzo, direttore di un centro commerciale. Sindaco dal 2016, non è nuovo a questo genere di soluzioni.

 Nel 2018 aveva messo una taglia per trovare i furbetti dei rifiuti. La somma? Duecento euro. Una misura che aveva portato i suoi frutti. Nel giro di pochi giorni la gente aveva cominciato a fare foto, mandare segnalazioni, annotare le targhe delle auto dei furbi. Il segno che la natura umana è sempre quella. Quando tocchi il portafoglio delle persone, che sia per aggiungere soldi o toglierli, gli effetti si vedono eccome.

E infatti. In questo caso, gli atti dei vandali sono avvenuti nella notte tra lunedì e martedì scorsi e nel giro di 24 ore il sindaco aveva già sopra la sua scrivania due deposizioni con i nomi. La terza è giunta nella giornata di ieri. 

I responsabili dei muri imbrattati sono tutti ragazzini minorenni, italiani, dai 13 ai 16 anni, che per evadere la noia, per l'ebbrezza, per "le delusioni amorose" come hanno dichiarato, per altre giustificazioni quali il covid, il lockdown subito, le paturnie adolescenziali, le pagelle, hanno imbrattato con le bombolette spray le panchine del comune, quelle in piazza, il monumento ai Lagunari a cui il paese tiene molto, gli spogliatoi della palestra, le altalene dei bambini, le giostrine. "Ti amo", c'è scritto su alcune pareti. "Mi manchi". "Brindo a questa vita sbagliata". E poi altre immagini esaustive, come qualche organo sessuale maschile.

«Sono stanco di questi continui atti di vandalismo - dice il sindaco Lazzarin a Libero - non è la prima volta che capita. E così ho deciso di mettere una taglia. Ho visto che è l'unico modo per far venire fuori i responsabili. E infatti nel giro di poche ore li abbiamo trovati. Sopra la mia scrivania ho già tre deposizioni». I ragazzi informatori che hanno rivelato i nomi sono due maggiorenni e uno minorenne. Ai primi due, come promesso, vanno 50 euro a testa. Il terzo che è maggiorenne ha detto che l'ha fatto per senso civico e del dovere e i soldi non li ha voluti. 

I ragazzini responsabili sono tutti della zona. Tre ragazzi e due ragazze. «Qui ci sono danni al patrimonio per circa 1500 euro - ha detto il sindaco- oltre al disturbo della quiete pubblica. Le giostrine dei bambini erano nuove. Hai poco da dire Non si tratta di mettere la gente alla gogna, spiega, «ma di far rispettare alcune regole. I radical chic mi hanno già additato come sindaco sceriffo». Ora Lazzarin ha deciso che intende predisporre dei veri e propri corsi, o meglio laboratori, con i Lagunari per far vedere a questi ragazzi come si riparano i monumenti sporchi. 

«Voglio che i ragazzini vedano come si fa. Che si rendano conto della difficoltà, della fatica dell'impegno, del volontariato- dice- Ad ogni modo i prossimi giorni incontrerò i loro genitori. Se trovo collaborazione anche da parte delle famiglie bene, altrimenti i nomi li ho, prendo e denuncio. Non c'è santo che tenga. Basta con sta storia del covid, dei ragazzini che hanno subito il lockdown, dei giovani poverini, ci sono anche ragazzi bravi e quindi non vedo perché altri debbano andare in giro a fare danni».

Le immagini di Torino erano diventate virali. Armato di machete in strada, il 28enne torna libero e ringrazia il giudice: “Ero io la vittima”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

Avevano fatto il giro dei media e dei social le sue immagini, le foto e i video mentre a dorso nudo e con un machete in mano rincorreva un altro ragazzo in corso Giulio Cesare a Torino. Si erano moltiplicati editoriali e articoli sull’insicurezza, la paura, il terrore di vivere nella città, le periferie il degrado. Hamza Zarir, 28 anni, a una settimana da quel clamoroso episodio di mercoledì primo giugno, è tornato libero.

Lo ha deciso il giudice Pier Giorgio Balestretti che ha disposto la scarcerazione al termine dell’udienza. Sentiti alcuni testimoni sull’episodio avvenuto nel quartiere Aurora. “Grazie”, ha detto il ragazzo al giudice. La revoca della misura cautelare nei confronti del ragazzo marocchino era stata chiesta dall’avvocato difensore Francesca D’Urzo. Il 28enne dovrà recarsi ogni giorno presso il Commissariato Barriera di Milano a firmare. Mercoledì sarà di nuovo in aula per l’ultima udienza del processo con rito abbreviato.

Il ragazzo ha raccontato di essere lui la vittima dell’aggressione. Ha detto nell’udienza di convalida di essere stato assalito da alcuni pusher mentre era alla fermata del tram. “Il machete non era mio, l’ho raccolto da terra per difendermi”. Cinque i pusher che l’avrebbero aggredito secondo la testimonianza di un amico che era con il 28 enne quel giorno. Cinque pusher armati di spray al peperoncino, bottiglie, stampelle e catene delle bici.

“Loro spacciano e non vogliono che qualcuno si fermi alla pensilina”. Il testimone ha aggiunto che uno degli aggressori aveva un coltello e di essere scappato, prima di vedere l’amico, Hamza, con una ferita alla testa. Anche una donna marocchina ha testimoniato nell’udienza. Era stata ferita a un piede con un coccio di bottiglia. “Pur non essendo stato io a colpirla, le chiedo perdono”, ha chiesto il 28enne. L’accusa sosteneva che il ragazzo avesse colpito con il coltello un altro ragazzo del quale però si sono perse le tracce.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Irene Famà per “La Stampa” il 7 giugno 2022.

Basta un click e il "mostro" è servito con tanto di slogan. Hamza Zirar filmato a petto nudo, insanguinato, mentre in mezzo alla strada brandisce un machete e rincorre un altro uomo è l'immagine perfetta per urlare alla periferia violenta di Torino. 

Al quartiere Aurora senza regole. Per sbraitare contro gli immigrati. Ed eccolo lì l'uomo con il machete. Smilzo, con escoriazioni sul mento e sul braccio, che in tribunale pronuncia più volte le parole «grazie» e «scusatemi». 

Un ventottenne nato in Marocco e arrivato in Italia nel febbraio 2021, con una moglie e due figli piccoli al paese d'origine, che in aula ripete: «Mi dispiace per quello che è successo, ma in questa vicenda sono la vittima».

Hamza Zirar ringrazia il giudice Piergiorgio Ballestretti che ieri gli ha revocato la misura cautelare in carcere: non c'erano motivi per tenerlo in cella in attesa della sentenza. L'ha lasciato libero, con l'obbligo di presentarsi quotidianamente in commissariato a firmare. 

E alla donna, che in quel parapiglia, mercoledì scorso, è stata colpita al piede da una bottiglia di vetro mentre stava andando a prendere il nipote a scuola, Hamza Zirar legge una lettera: «Non l'ho colpita io, ma mi spiace per quello che è successo, mi spiace che è rimasta ferita e che si è spaventata». 

Le offre un risarcimento per le cure. Lei, in tribunale per testimoniare arriva con le stampelle e il piede ancora fasciato. Legge la lettera, lo osserva: «Stai tranquillo, ti ho già perdonato». Prima di lasciare l'aula, gli passa davanti. Hamza la ferma e le mette le mani sul capo: «Scusami».

Eccolo lì l'uomo con il machete. «Non ho documenti, solo la tessera sanitaria. Lavoro a Porta Palazzo, scarico le cassette di frutta. Ho affittato un posto letto da un amico e vivo con altre persone», racconta. 

Nel contesto che frequenta, le questioni non si risolvono a parole. E chi abita alla periferia nord della città la riassume così: «Da queste parti si inaugurano i campi da calcio, ma molti ragazzi non hanno la palla per giocare».

Assistito dall'avvocato Francesca D'Urzo, Hamza al giudice racconta la sua versione: «Chiedo scusa, non era mia intenzione avere questo comportamento. Ma ho cercato di difendermi». 

Da chi? «Dagli spacciatori che stanno alla fermata del tram 4. Già una volta mi avevano avvertito che da lì non sarei dovuto passare, che mi avrebbero ammazzato. Quel giorno mi hanno rincorso con spranghe e spray urticante. Mi hanno tirato delle bottiglie di vetro. Erano in cinque. Mi hanno strattonato». 

E il machete? «È caduto a uno dei miei aggressori e io l'ho raccolto da terra. Volevo tenerli lontani. Non li ho picchiati». È accusato di lesioni aggravate nei confronti di un suo connazionale: nei video Hamza lo rincorre, l'altro scappa. «È lui che aveva il machete, è lui che mi ha spruzzato lo spray urticante».

Quel giorno, il ventottenne aveva appena finito di lavorare. «Avevo bevuto un superalcolico ed ero da quelle parti con un amico». Lo stesso amico che ieri si è presentato in tribunale per raccontare cos'ha visto: «È andata così. Quelli hanno iniziato a spintonarlo, lui è riuscito a liberarsi e a scappare. Avevano spranghe, spray, una stampella utilizzata come una mazza, dei coltelli. Mi sono allontanato e quando sono tornato, ho visto Hamza ferito. Abbiamo preso il tram per andare in ospedale, ma è arrivata la polizia». Il machete? «Non lo so». 

Hamza ascolta la deposizione. E chiede di intervenire: l'amico non parla italiano e l'interprete, secondo lui, non fornisce un'interpretazione corretta. «Ha proprio parlato di stampella. Quelli ce l'hanno sempre, ma nessuno di loro ne ha bisogno. La usano perché così la polizia non li controlla». 

C'è poi un ulteriore testimone, che verrà sentito durante l'udienza di domani: pare abbia visto un uomo in bici con un machete. Sarà compito del giudice stabilire la responsabilità di Hamza in questa vicenda. I filmati? Forse non la raccontano del tutto.

Irene Famà per “la Stampa” il 15 giugno 2022.

«Non sono un mostro. E nemmeno un criminale. Sono uno sfortunato, questo sì». Hamza Zirar è "l'uomo del machete". Il 28enne marocchino che il 1° giugno, alla periferia di Torino, in mezzo alla strada, rincorreva un suo connazionale con un coltellaccio in mano. A petto nudo, ricoperto di sangue. Arrestato, processato, trasferito dal carcere al Cpr, è stato rimpatriato. Verrà giudicato in contumacia. Dice la verità, ma proprio tutta la verità? Chi può dirlo. Una cosa è certa: in Marocco è tornato dalla sua famiglia, in Italia resta il simbolo di quei quartieri complessi, dove povertà, violenza e mancata integrazione sono tutt' uno.

A Torino, per tutti, lei è «l'uomo del machete». Non è così?

«Al giudice l'ho spiegato. Dei pusher mi hanno aggredito, a uno di loro è caduto il coltello e io l'ho raccolto per difendermi. Mi hanno ferito, ci sono le foto».

Lei è la vittima?

«In quel caso sì. Non sono cattivo, sono solo sfortunato».

Sfortunato. Perché?

«Sono venuto in Italia per trovare un lavoro. Ci ho provato. Da voi la vita è bella. Non avrei affrontato un viaggio del genere, se non fosse stato per il futuro di mia moglie e dei miei figli».

Quale viaggio?

«Trentasei ore a bordo di un barcone con altre 120 persone. Dal Marocco a Lampedusa, passando per l'Algeria e la Libia».

Ha pagato qualcuno?

«Sì, certo. Funziona così».

Quanto?

«Quattromila euro».

In 17 mesi in Italia ha collezionato arresti e denunce per furto e rapina.

«Per rapina no».

Come lo spiega?

«Ho trovato una vita orribile. Mi sono ritrovato a dormire in strada, mangiavo e lavoravo un giorno sì e l'altro no».

Dove ha vissuto?

«In Campania, Lombardia, Piemonte. Andavo in centro e vedevo le persone in giro con le auto, i cellulari. Ero clandestino, senza documenti. Ho fatto degli errori. Ma sa cosa significa passare la notte sul marciapiede? Sa per chi ho sopportato tutto questo?».

Per chi?

«Per i miei figli. Il più grande ha 9 anni, la più piccola 4».

Nessuno le ha offerto un lavoro?

«Al mercato di Torino scaricavo le cassette della frutta e della verdura. Poi però mi hanno arrestato per la storia del machete».

In aula per la sentenza ci sarà la sua avvocata Francesca D'Urzo. Lei non potrà assistere. Le dispiace?

«Sinceramente? Sì. Spero che il giudice abbia capito».

Durante l'ultima udienza, però, ha fatto il dito medio al pubblico. Perché?

«Ero arrabbiato. Niente nella mia vita è andato come doveva».

Ora è tornato in Marocco.

«Lavoro come fruttivendolo, ma qui non voglio stare».

Per la legge non può tornare in Italia. Vuole provarci lo stesso?

«I miei figli meritano una vita diversa dalla mia. Qui non potranno mai averla».

Torino, mister machete? Dito medio ai giudici che lo liberano e la scoperta-choc: imbarazzo in magistratura. Marco Bardesono su Libero Quotidiano il 09 giugno 2022

Una giustizia che funziona a "rate", che giorno per giorno si rende conto degli errori commessi solo qualche ora prima e che tenta di porvi un improbabile rimedio o che finge di non accorgersi di nulla e in aula mette in scena una rappresentazione surreale.

Ad esempio, l'uomo del machete di Torino, scarcerato e tornato ieri di fronte al giudice perché accusato di lesioni e per il quale si era avanzata la giustificazione di una presunta malattia mentale, in realtà sembra essere sanissimo, mentre a suo carico sono emersi, a scoppio ritardato, una serie di precedenti.

Hamza Zirar, questo il nome del 28enne di origini marocchine, è stato fermato dalle forze dell'ordine ben dodici volte in un anno, tra Torino e Milano, ed arrestato, soltanto nell'ultimo mese, ben quattro volte. Inoltre, a carico dell'indagato c'è pure un ordine di espulsione del prefetto di Milano, emesso nel luglio del 2021, a cui il 28enne, irregolare in Italia, non ha, evidentemente, mai ottemperato. Libero, dunque, di circolare nel nostro Paese, come se nulla fosse successo.

LUNGO ELENCO

L'elenco piuttosto cospicuo dei reati che avrebbe commesso negli ultimi mesi, tra furti, ricettazioni, resistenze, invasione di edifici, interruzione di pubblico servizio, è stato letto ieri, a margine della seconda udienza per direttissima a carico del marocchino irregolare. Non è però mai stata formalizzata nel processo, né ieri né durante la scorsa udienza, il possesso del machete. Nessuno, durante l'udienza, che ieri è stata rinviata a luglio, ha chiesto che venisse contestato anche il porto abusivo di armi. In questo caso un machete lungo 45 centimetri e con il quale, pochi giorni fa, ha spaventato non pochi cittadini a Torino.

All'udienza l'imputato si è presentato e ha mostrato il dito medio in aula, verso l'alto, più volte, all'indirizzo di pubblico e magistrati. Un segno di disprezzo che però sembra non aver sortito nessun effetto. Nessuno, infatti, lo ha richiamato, nonostante l'udienza fosse in corso, nemmeno il giudice Piergiorgio Balestretti che, poco prima che l'udienza cominciasse, parlando informalmente con la pm, aveva criticato l'operato degli organi di informazione, esclamando: «Hanno scritto che l'imputato ha terrorizzato tutti col machete e che io l'ho scarcerato, roba da matti».

L'udienza è iniziata ed è stata subito rinviata dopo l'audizione di un solo testimone. Si tratta del titolare del bar "New York" di corso Giulio Cesare (l'aggressione era avvenuta di fronte al locale e a una scuola media), che ha raccontato quel che ha visto.

IL TESTIMONE

«Quel giorno uscivano i bambini da scuola, la strada era affollata quando quella gente ha lanciato di tutto, ed è passato quello che impugnava il machete. Il giorno dopo sono passati di nuovo davanti al mio locale e ne ho riconosciuto uno, era quello che veniva inseguito il giorno prima dall'imputato». Una fonte, che vuole rimanere protetta, perché vive nel quartiere e che ha assistito alla rissa, ha rivelato: «Hanno lottato perché sono tutti spacciatori, non malati psichiatrici».

Torino, un residente di Aurora: «Ho visto l’inseguimento con il machete, viviamo in un contesto difficile». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

La testimonianza nel processo per direttissima (con rito abbreviato) nei confronti di Hamza Zirar (che però non è stato identificato): l’11 luglio la sentenza.

«Lavoro in un contesto difficile. Quella è una zona malfamata. Ho visto due giovani rincorrersi: quello con il machete inseguiva un altro. Il giorno dopo ho avuto una discussione con uno dei due, che aveva lasciato la sua bicicletta davanti all’ingresso del mio locale». A raccontare in aula quegli istanti immortalati da alcuni video, diffusi poi sui social, è Rasched Kaled, il titolare del bar New York che si trova all’angolo tra corso Giulio Cesare e via Emilia: esattamente nel punto in cui è iniziata la rissa. «C’era gente che gridava. Lì di fronte c’è una scuola e i bambini potevano arrivare da un momento all’altro. Sono uscito dal bar e ho visto due che si rincorrevano». Rasched, che in aula non ha identificato Hamza Zirar come il ragazzo con il machete, non nasconde che quel tratto di strada nel quartiere Aurora è particolarmente degradato per la presenza di pusher, ma anche di malviventi che derubano la gente per strada: «Io lavoro — spiega il testimone al giudice —, quel bar mi è costato molto. Poi, posso dire giudice? Il giorno in cui la polizia municipale è venuta a chiedermi cosa avessi visto, mi ha fatto una multa da 900 euro perché il cartello su cui sono appuntati gli orari di chiusura e apertura del locale aveva le lancette accavallate». Dopo la sua testimonianza, il processo ha subito un nuovo rinvio. L’udienza è stata aggiornata all’11 luglio, quando andrà a sentenza.

Hamza è stato fermato a bordo del tram 4: infilato nella cintura dei pantaloni aveva ancora il coltello. Nel corso dell’udienza di convalida, il ragazzo aveva spiegato «di essere molto dispiaciuto per il proprio comportamento» e che il machete non era suo: «Sono io la vittima. Mi hanno aggredito in cinque perché non volevano che stessi alla pensilina del tram. Ho raccolto il coltello da terra per difendermi». Il giudice Balestretti ha quindi convalidato il fermo e disposto la misura cautelare, considerando la gravità del fatto e il rischio di inquinamento probatorio perché doveva essere interrogato l’amico che era con lui al momento dell’aggressione.

Il processo per direttissima (con rito abbreviato) si è aperto lunedì, quando sono stati sentiti due testimoni: il marocchino che era con Hamza quel pomeriggio e un’anziana signora, anche lei di origine magrebine, che era rimasta coinvolta nella zuffa e ferita a un piede con un coccio di bottiglia. L’amico ha confermato che lui e Hamza erano stati aggrediti da cinque pusher armati di spray al peperoncino, di stampelle e della catena di una bici: «Uno di loro aveva un coltello. Sono scappato e quando sono tornato ho visto Hamza con una ferita alla testa». Al termine dell’udienza, su istanza dell’avvocato Francesca D’Urzo (che assiste il 28 enne marocchino), il giudice ha poi deciso di revocare la misura cautelare in carcere, tenendo conto che il reato contestato e il rito processuale non lasciavano prevedere una possibile condanna superiore a tre anni.

Lasciato il carcere Hamza è stato portato al Cpr. Il giovane, che ha alle spalle alcuni precedenti di polizia, rischia il rimpatrio nel proprio Paese d’origine. In Italia è arrivato nel febbraio 2021 e non ha i documenti in regola. Inoltre, pesano anche episodi per i quali in passato è stato denunciato per furto, ricettazione e rapina. E aveva ricevuto due decreti di espulsione, che non ha rispettato.

Alberto Giachino per “la Stampa” l'8 giugno 2022.

Biciclette abbandonate all'imbocco delle scale. Nissa? «È lassù all'ultimo piano». La Torino di via Ghedini è un budello di strada senza neanche un balcone sulla facciata, e poche finestre. Tre portoni. Tre cortili. Una parete di cassette della posta con cognomi di mezzo mondo: quasi un'installazione. Forse un tempo le pareti di questa scala che sale per tre piani erano gialle. Oppure bianche, chissà. Oggi sono un mix che ricorda il colore del fango. Lo stesso non-colore delle ringhiere. Dei gradini e delle poche luci. Terzo piano. Nissa abita qui?

Eccolo qui il ragazzo accusato con altri trenta dell'assalto ai negozi dei marchi del lusso, in una notte di ottobre di due anni fa. Capelli biondo platino, ricci. Bermuda bianche. T-shirt. Dissero che faceva parte delle bande di quella notte in cui la periferia entrò di prepotenza nel centro. La notte dei ragazzi arrabbiati che andarono a prendersi quel che non potevano permettersi: borse di Gucci, vestiti di marca. Scarpe che costano 300 euro: una fortuna se non hai neanche un lavoro.

Perché Nissa? Perché era l'esempio di quella nuova generazione di torinesi, figli di famiglie arrivate da qualche sud del mondo. Ragazzi che non riescono a diventare torinesi. 

Anzi, Italiani. E navigano in un mondo sospeso. Nissa oggi non parla più. E tanto meno di quelli come lui. Arrabbiati con tutto e con tutti. La generazione che ha costruito il suo mondo in una periferia in cui i palazzi cadono a pezzi. A trecento metri da qui comincia Barriera di Milano. Era un quartiere operaio. È diventata la casa dei nuovi torinesi. E dei ragazzi che sono lì a metà. Non più algerini, tunisini o senegalesi o chissà che altro. Ma non ancora parte vera della città. 

I ragazzi di Barriera. Che vivono in strada. Che non hanno un lavoro e non studiano. La banlieue dice qualcuno. No, l'altra Torino. La chiamano seconda generazione. Ma Brahim Baya dice che chiamarla così è riduttivo: «Sono ragazzi nati qui e rimasti a metà del guado. Schiacciati tra due culture, vivono un conflitto permanente». Al Paese d'origine della famiglia non vogliono andare perché lì li chiamano stranieri. Qui sono sospesi. Brahim, 38 anni, ha messo su un centro con l'associazione islamica Alpi nel quale cerca di aiutare questa gente a trovare una strada. E non è uno slogan. Perché qualcuno riescono a strapparlo al nulla quotidiano. A invogliarlo a studiare. A inserirlo nel mondo del lavoro. Aspettando che arrivi finalmente la cittadinanza.

Chi non lo agganciano prende altre strade. La rabbia. «Spesso sono ragazzi che già avevano già qualche problema di devianza e sulla strada sbandano del tutto». Recuperarli? È più un'idea che una possibilità. Corso Vercelli, piena Barriera. La zona è quella dietro la chiesa Madonna della Pace. Ore 17,23. Nell'ordine accadono queste cose e tutto nello spazio di 20 metri e in tre minuti. All'angolo con piazza Foroni in sei fumano crack. Seduti per terra. Infischiandosene di chi passa e guarda. Un barista prende a schiaffoni sul marciapiede davanti al locale un ragazzo coi rasta che ha causato problemi nel bar. 

Nello slargo davanti all'oratorio sette spacciatori fanno il loro mestiere. Al bar Tiffany un omone grande e grosso divora un piatto di carne mentre sul marciapiede passa una ragazza con il cane al guinzaglio. E quando arriva qui cambia lato della strada per non passare davanti a venti giovanotti seduti sugli scalini dei negozi. Voi dove vivete? «Che ti frega». Che cosa fate qui? «Che ti frega». La tipa che è passata la conoscete? Risata.

Ridare fiato e speranza un posto come questa periferia è un lavoro complicato. Parlare di «rigenerazione urbana» è uno slogan adoperato da tanti negli anni. Ora ci sono una trentina di milioni sul tavolo. Dicono che saranno usati per scuole e altri progetti. È un passo. Il primo. Nel bello cresce il bello. E forse migliora la vita. Basta?

Giardini Alimonda sono un esempio. Un manipolo di vecchietti ci ha creduto e adesso i ragazzi qui vengono a fare sport, si incontrano. Provano a scappare dal nulla delle periferie, di strade dove manca tutto. Dove i negozi sono quelli essenziali: money transfer, bar, ancora bar, kebabbari, altri kebabbari, qualche parrucchiere multietnico, mini market multietnici, negozi di telefonia. Il resto? Poco o nulla. «C'è stato un incontro sulle seconde generazioni qualche giorno fa qui a Torino. I ragazzi si sono confrontati. Servono due tipi di intervento: uno istituzionale che aiuti queste persone a diventare italiane. L'altro è personale. Che li guidi a capire chi sono, dar loro delle certezze» dice - in sintesi - Davide Balistreri dell'associazione Arteria. 

Benissimo. Ma intanto qui succede di tutto. Il ragazzo col machete dell'altro giorno che inseguiva alcune persone è un esempio. E neanche il più importante. Il nulla delle giornate passate seduti davanti ai negozi è più grave. Il monopattino elettrico di proprietà è il punto di arrivo. Le ragazze italiane il desiderio. Il futuro? Boh. Se vivi in una casa come quella di Nissa, pensare di avere una vita migliore è un'impresa. La strada è più facile. Magari si rimedia anche una borsa di Gucci.

La parcheggiatrice spogliata dall’autista del Suv: «Lui urlava: sono di Ostia. Anche sua moglie lo aiutava». Nicola Catenaro su Il Corriere della Sera il 5 Giugno 2022.

Parla la donna vittima dell’aggressione choc a Portonovo, nell’Anconetano: «Turisti sempre più aggressivi e maleducati». Il sopralluogo dei carabinieri (che attendono la denuncia).

«Chi ca... sei? Fatti i ca... tuoi! La paghi tu la multa?». Una battaglia quotidiana con turisti spesso aggressivi e maleducati, che «arrivano qui con pretese assurde come quella di parcheggiare in curva o di lasciare l’auto davanti a un passo carrabile. E noi, che stiamo qui a sudare per uno stipendio che di certo non ci arricchisce, rischiamo anche le botte oltre a subire queste aggressioni verbali».

Insulti, sputi e calci

A parlare sono alcuni addetti ai parcheggi di Portonovo, località turistica dell’Anconetano molto frequentata e, da ieri, è salita alla ribalta per l’aggressione subìta da Cristina Bartoli, la parcheggiatrice di 53 anni che, per aver semplicemente contestato a un utente il fatto che stava andando contromano, giovedì pomeriggio è stata da quest’ultimo aggredita con insulti, sputi e calci (fortunatamente schivati) e, infine, strattonata fino ad essere spogliata di maglietta e reggiseno. Cristina aveva appena iniziato il turno con il collega Fabrizio Fiumicelli, suo compagno anche nella vita, quando è avvenuto il fatto. L’automobilista era invece con altre due donne, una delle quali (presumibilmente la moglie) ha partecipato attivamente all’aggressione scendendo dall’auto e minacciando e provocando i due addetti.

La minaccia: «Noi siamo di Ostia»

«Dicevano — ricorda lei — che loro erano di Ostia e che non ci rendevamo conto contro chi ci eravamo messi». Ad aggravare le cose, il fatto che Cristina abbia invocato persino la propria invalidità (la recente asportazione di entrambi i seni per un tumore) allo scopo di fermare l’uomo e non ci sia riuscita. «Non è stato un giorno di ordinaria follia — è il commento di Fabio Alessandrelli, datore di lavoro della vittima e presidente di Opera, una delle due coop che gestiscono i servizi ai turisti nella baia di Portonovo — nel senso che, pur avendo a che fare a volte con alcune persone maleducate, episodi di questo genere in cui i turisti alzano le mani sui nostri operatori e poi scappano sono davvero più unici che rari. Per questo siamo rimasti davvero male, anche se la denuncia non la possiamo fare noi, è un fatto personale e dipende da lei. Qui sono venuti i carabinieri e hanno fatto gli accertamenti, quello che possiamo fare noi è potenziare la collaborazione con il Comune e chiedere maggiori controlli».

Carabinieri a Portonovo

Il doppio lavoro nonostante le condizioni di salute

Tra gli operatori turistici c’è anche chi dà la colpa all’affollamento eccessivo che, soprattutto nei giorni festivi, fa registrare Portonovo, con la spiaggia presa d’assalto anche la mattina presto e tanti turisti da fuori regione, e invoca un’organizzazione basata su prenotazione e numero chiuso. Soltanto una proposta, per ora, dato che la stagione è già iniziata e comunque i turisti stanno aiutando concretamente a risollevare morale ed economia della zona dopo le restrizioni dovute alla pandemia. Cristina, dopo lo spavento e la solidarietà che continua ad arrivarle soprattutto dai social, è tornata al lavoro, anzi ai «due lavori — precisa lei — dato che per mantenermi la mattina faccio anche la badante nonostante i miei problemi di salute».

La ricerca dell’aggressore

Ma non ha ancora presentato formale denuncia. Senza questo atto, è difficile che l’inchiesta dei carabinieri della compagnia di Ancona, guidati dal capitano Manuel Romanelli, possa essere incardinata ufficialmente per arrivare all’individuazione del responsabile, secondo le testimonianze un uomo di mezz’età con accento laziale, alla guida di un Suv di cui non sono state annotate nè la targa nè la marca o il modello. Ulteriore difficoltà sarebbe rappresentata dalla mancanza di una videosorveglianza diretta nel punto in cui è avvenuta l’aggressione.

Portonovo: individuato l’aggressore che ha spogliato la parcheggiatrice. «È un turista, non ha precedenti». Nicola Catenaro su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2022.

Riconosciuto nel giro di poche ore l’autista del Suv che giovedì scorso ha insultato e poi denudato Cristina Bartoli, l’addetta al parcheggio della spiaggia nell’Anconetano. Decisive alcune testimonianze e le riprese delle telecamere. «Ha un accento laziale». 

È stato riconosciuto e identificato l’aggressore di Cristina Bartoli, la parcheggiatrice di 53 anni che giovedì scorso, intorno alle 16.30, per aver contestato a un automobilista il fatto che stesse andando contromano e a tutta velocità all’interno dell’area di sosta, è stata presa dallo stesso a sputi e calci e strattonata e spogliata di top e reggiseno di fronte a tutti. 

Dopo la denuncia della vittima, presentata questo pomeriggio ai carabinieri , e le varie testimonianze raccolte dai militari, l’uomo rischia ora di essere indagato dall’autorità giudiziaria per lesioni.

Il fatto come noto è avvenuto in uno dei parcheggi a servizio della località turistica di Portonovo, una delle baie più conosciute e frequentate in provincia di Ancona. Tutto è avvenuto nel giro di pochissimi minuti e le modalità con cui le cose si sono svolte, passando in maniera repentina dalle parole alle minacce e poi alle mani, non hanno dato modo ad alcuno dei presenti di annotare la targa del Suv di grossa cilindrata con cui l’aggressore, un uomo di mezza età di corporatura media e con accento laziale, accompagnato da due donne (una delle quali, la moglie o compagna, dava man forte al marito minacciando anche lei gli operatori coinvolti), si è dileguato nel momento in cui sono accorsi altri addetti dagli altri parcheggi. 

Nel punto in cui è avvenuta l’aggressione, non ci sono telecamere. Tuttavia, grazie ad alcune testimonianze decisive e al supporto dei sistemi di videosorveglianza sparsi lungo il percorso, i militari sono riusciti nel giro di poco tempo a riconoscere l’autore, un turista — senza precedenti penali se non in passato per un fatto di minore entità —, giunto a Portonovo per trascorrere qualche giorno di vacanza. 

Il fatto è accaduto peraltro all’uscita dal ristorante in cui aveva pranzato insieme alle due donne. L’aggressore non rischia per ora l’arresto, tuttavia sarà sicuramente chiamato a rispondere delle azioni violente di cui al momento è ritenuto responsabile (lesioni, anche se non gravi, mentre sarebbe da escludere la violenza sessuale) e che hanno suscitato clamore e choc nell’intera comunità locale.

È accaduto alla fermata Rogoredo. Spinge ragazza sotto al treno e scappa: giovane miracolata nella stazione della metro di Milano. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2022. 

Il treno della metropolitana sta per arrivare: sono le 23 di mercoledì 25 maggio, una ragazza è ferma sulla banchina della fermata Rogoredo della linea gialla a Milano. Improvvisamente, una donna le si avvicina da dietro e cerca di spingerla sui binari.  È successo tutto in pochi istanti: fortunatamente la giovane è riuscita a non perdere l’equilibrio e a fermarsi a pochi centimetri dal convoglio.

L’arresto

Gli agenti della Polmetro sono riusciti a  ricostruire l’accaduto grazie alle immagini di sorveglianza. La donna, che dopo aver spinto la ragazza è riuscita a scappare nonostante le altre persone presenti abbiano provato a bloccarla, è stata poi rintracciata alla fermata Duomo e arrestata.

Dopo una notte all’ospedale Fatebenefratelli è stata portata al carcere di San Vittore, dove attende le decisioni dell’autorità giudiziaria. Per la donna, che ha 29 anni e piccoli precedenti penali, l’accusa è di tentato omicidio. Non ha fornito alcuna spiegazione per ciò che ha fatto: non ha chiarito perché abbia tentato di buttare sotto il treno una persona che non conosceva e con cui non aveva avuto alcune discussione. Sono in corso ulteriori accertamenti per verificare se abbia problemi psichiatrici.

La giovane spintonata, una 26enne, non ha avuto bisogno di cure mediche e ha detto di non aver mai visto prima la responsabile del folle gesto.

(AGI il 18 maggio 2022) - Torna a crescere la fiducia degli italiani nelle forze dell’ordine. Secondo l’ultimo sondaggio realizzato da Lab2101 per Affaritaliani.it, al primo posto c’è l’Arma dei Carabinieri con il 58,6%, l’1,2% in più rispetto al precedente rilevamento. Subito dietro la Polizia di Stato con il 55,1% (+0,6%), la Guardia di finanza con il 54,6% e la Polizia locale con il 51,2%.    

Nella categoria “organi di pubblica sicurezza” si confermano largamente in testa i vigili del fuoco (86,2%) davanti a Guardia costiera (67,1%), Polizia penitenziaria (57,8%) e Servizi segreti (55,3%).     Tra le forze armate, prima l’Aeronautica militare (68,2%), seconda la Marina militare (67,9%), terzo l’Esercito (63,4%).

Arrestato vigile urbano: "tremila chilometri con l'auto di servizio per fatti personali". La Voce di Manduria martedì 10 maggio 2022

Un pubblico ufficiale della polizia municipale del comune di Lucera (Fg) è stato sottoposto agli arresti domiciliari con l'accusa di peculato e rivelazioni di segreti d'ufficio. Il dipendente avrebbe fatto uso dell'auto di servizio, percorrendo 3000 chilometri, per svolgere affari personali e per incontri con la sua compagna. Avrebbe inoltre rivelato dati sensibili e falsificate atti per cancellare sanzioni amministrative a conoscenti. Altri particolari nel comunicato stampa della Guardia di Finanza che riportiamo di seguito. 

I finanzieri del Comando Provinciale di Foggia hanno dato esecuzione ad una ordinanza di custodia cautelare degli arresti domiciliari emessa dal Tribunale di Foggia, su richiesta della Procura della Repubblica, nei confronti di un Pubblico Ufficiale, funzionario della Polizia locale di Lucera (FG), indiziato per condotte illecite commesse in danno della Pubblica Amministrazione di appartenenza.

Il provvedimento eseguito giunge all’esito di una più ampia indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Foggia e dalla Tenenza della Guardia di Finanza di Lucera e nell’ambito della quale risultano indagati 6 soggetti per le ipotesi di reato di peculato, falso in atto pubblico, truffa ai danni del Comune di Lucera e rivelazione di segreto d’ufficio.

L’Operazione, denominata “Doppio Alfa”, si fonda su un quadro gravemente indiziario costruito nel corso di una minuziosa attività di polizia giudiziaria, coordinata dalla Procura della Repubblica di Foggia, che ha permesso di far emergere, tra l’altro, presunti comportamenti di funzionari pubblici verosimilmente improntati all’indebita strumentalizzazione del ruolo e delle funzioni derivanti dallo stato di appartenenza ad un organo di Polizia, tra cui l’odierno arrestato.

In dettaglio, le indagini dei Finanzieri hanno evidenziato che il Pubblico Ufficiale sottoposto al provvedimento cautelare detentivo, con frequenza pressoché quotidiana, dopo aver attestato la propria presenza in servizio, si sarebbe allontanato dal luogo di lavoro, utilizzando l’autovettura del Comune per assolvere ad impegni privati, estranei alle proprie attribuzioni istituzionali. In tali circostanze il Funzionario avrebbe utilizzato l’autovettura di servizio per fare acquisti di vario genere, per raggiungere la propria compagna con cui si sarebbe intrattenuto oltretempo, per incontrare in altri Comuni (anche fuori Regione) persone che nessun legame avrebbero avuto con i doveri del suo ufficio, totalizzando, nei soli mesi di indagine, assenze dall’ufficio per circa 53 ore e percorrendo circa 3000 chilometri con l’autovettura in uso alla Polizia locale.

È stato inoltre constatato che il Pubblico Ufficiale avrebbe redatto atti ideologicamente falsi inerenti alle proprie attestazioni di servizio e all’uso della predetta autovettura, così come avrebbe predisposto numerosi atti falsi tesi ad “accomodare”, in favore di soggetti conoscenti, alcune pratiche e istruttorie amministrative del proprio Comando di Polizia locale. Tra queste, alcune sanzioni elevate per violazioni del Codice della Strada, per il cui “accomodamento” il funzionario avrebbe rilasciato permessi Z.T.L. retrodatati e emessi ad hoc, annullando così gli effetti delle contravvenzioni.

Infine, il funzionario pubblico con funzioni di comando avrebbe rivelato ad “amici e conoscenti” dati sensibili e riservati alla cognizione esclusiva del suo Ufficio, con particolare riferimento a report della Regione Puglia ad esclusivo uso degli Organi di Polizia.

Va precisato che le posizioni delle persone indagate sono al vaglio dell’Autorità Giudiziaria e che le stesse non possono essere considerate colpevoli sino alla eventuale pronunzia di una sentenza di condanna definitiva.

L’odierna attività evidenzia il permanente impegno della Guardia di Finanza e della Procura della Repubblica di Foggia nel contrasto alle diverse forme di reato contro la Pubblica Amministrazione che sottraggono alla collettività risorse pubbliche ed incidono negativamente sulla qualità dei servizi forniti ai cittadini. 

Foggia, arrestato il capo della polizia locale di Lucera: lasciava il lavoro per fare shopping. Altri 6 indagati. Rosaria Galasso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Maggio 2022.

Il comandante si sarebbe allontanato dal posto di lavoro per fare la spesa o incontrare persone. Presunti favori agli amici per annullare le multe.

Finisce ai domiciliari il comandante della polizia locale di Lucera. I finanzieri del Comando provinciale di Foggia hanno dato esecuzione ad una ordinanza di custodia cautelare degli arresti domiciliari emessa dal Tribunale di Foggia, su richiesta della Procura della Repubblica, per peculato, falso, truffa ai danni dello Stato e rivelazione di segreto d'ufficio.

Le indagini sono scattate un anno fa, dopo una segnalazione anonima. Il comandante Beniamino Amorico- veniva denunciato - si sarebbe macchiato di condotte poco cristalline, e così i finanzieri hanno deciso di vederci chiaro.

Intercettazioni ambientali e telefoniche, oltre a numerose attività di pedinamento, avrebbero costruito un quadro indiziario tale da giungere all'arresto. Non è comunque il solo. Insieme a lui sono indagate altre sei persone: cittadini che avrebbero ottenuto l'annullamento delle multe - questo contesta l'inchiesta -  grazie ai favori del comandante.

L’operazione, denominata “Doppio Alfa”, è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Foggia. In un anno - le indagini vanno da febbraio 2020 a settembre 2021 - il comandante, dopo aver «attestato la propria presenza in servizio, si sarebbe allontanato dal luogo di lavoro, utilizzando l’autovettura del Comune per assolvere ad impegni privati, estranei alle proprie attribuzioni istituzionali». In queste occasioni il comandante avrebbe utilizzato l’auto di servizio per fare acquisti di vario genere, per raggiungere la propria compagna o incontrare in altri Comuni (anche in Molise) persone che non avevano alcun legame con i suoi doveri di ufficio. In un anno avrebbe percorso con l'auto della polizia locale circa 3000 chilometri e avrebbe accumulato assenze per 53 ore. Negli atti, però, avrebbe dichiarato che quelle assenze erano per servizio.

Tra le accuse che gli vengono mosse anche quella di «accomodare, in favore di soggetti conoscenti, alcune pratiche e istruttorie amministrative del proprio Comando di Polizia locale. Tra queste, alcune sanzioni elevate per violazioni del Codice della Strada, per il cui “accomodamento” il funzionario avrebbe rilasciato permessi Ztl retrodatati e emessi ad hoc, annullando così gli effetti delle contravvenzioni». Infine, « il funzionario pubblico con funzioni di comando avrebbe rivelato ad “amici e conoscenti” dati sensibili e riservati alla cognizione esclusiva del suo Ufficio, con particolare riferimento a report della Regione Puglia ad esclusivo uso degli Organi di Polizia».

Fin qui le accuse, il comandante Amorico potrà adesso chiarire, davanti al magistrato, la sua posizione e dimostrare la sua estraneità ai fatti che gli vengono contestati.

Pierangelo Sapegno per “La Stampa” il 10 maggio 2022.

È stato ucciso senza una ragione da un vagabondo, nella hall dell'hotel Londra di Alessandria, dove faceva il portiere di notte. Albertino voleva fare il cantante della tv per dare un senso ai suoi sogni di bambino prodigio, e l'hanno ammazzato come ha vissuto, perché fino alla fine l'ha tradito il destino. A volte sembra che la morte sia fatta per la vita che abbiamo, crudele come la buona sorte che ci ha sfiorato senza che riuscissimo a prenderla. 

Questa è la storia di Alberto Faravelli, che incideva dischi come Albertino quando andava alla Rai da Mike Bongiorno, e che faceva il portiere di notte, a 69 anni, per rimpinguare i 700 euro o giù di lì di «minima» che gli sarebbero toccati di pensione.

L'hanno trovato due turisti all'una e 30 scorgendolo nel buio, riverso in una grande pozza di sangue dietro al bancone dell'albergo, quattro stelle e memorie di Belle Époque. I carabinieri hanno fermato un uomo di 46 anni, un italiano senza fissa dimora, inchiodato forse dalle immagini delle telecamere. Avrebbe colpito violentemente la sua vittima con il primo oggetto che ha trovato lì vicino, in uno scatto d'ira. Nessuno è riuscito a capire perché.

Ma la vita stonata di Albertino ha sempre avuto tante domande senza risposte. Abitava a Tortona, in una palazzina decorosa con gli alberi e i cespugli che fanno ombre gentili, e sul citofono c'era il suo nome accanto a quello della mamma, Faravelli Quaglia, perché per un motivo o per l'altro non era mai stato capace di raggiungere la tranquillità di una moglie, di una casa, di una sua famiglia. 

Da bambino dovevano avergli fatto credere che aveva un grande destino davanti a sé. Suo zio era un personaggio famoso, il Maestro Remo Panario, che aveva una bottega di barbiere, ma fra un taglio di capelli e l'altro, soprattutto insegnava musica alle giovani generazioni e anche a quelle più piccole.

Il Maestro aveva una sua banda, faceva teatro, ed era finito pure protagonista in un libro che racconta quegli anni ruggenti, «Liverpool, via Emilia». Fa crescere un mucchio di ragazzi di buone speranze, e uno diventò famoso, come Donatello, entrato nella hit parade con «Io mi fermo qui», melodia da lenti, guance contro guance e occhi chiusi, perché allora si usava così. Altri girano ancora le balere adesso con i loro complessi, come Michele Ventura, grande amico di Albertino.

Su di lui, Albertino, il Maestro punta tanto. Gli scrive le canzoni, lo porta a teatro, nelle riviste, ritagliandogli un quadretto tutto suo, anche se non ha ancora dieci anni. Sale su uno sgabello vestito da galeotto, e canta «L'evaso», musica di Panario e parole di Marziano Canegallo. 

Va allo Zecchino d'oro, e poi va anche da Mike Bongiorno, alla Fiera dei Sogni, un gioco a quiz, che lui spera di vincere per andare a Disneyland. E lui vince, e va a Disneyland con papà. La vita sembra come quelle cose che si vedono nei film. Quand'era piccolo e lo portavano dentro a quelle sale fumose, dalle finestrelle quadrate in alto scendevano lampi bluastri e sbuffi di fumo che annunciavano la scintilla alla base di quella stregoneria chiamata cinematografo.

Era questo il senso che avevano quegli anni per lui. Era quella scintilla, l'emozione che provavi in quegli attimi, quando sapevi che il film ti avrebbe portato in posti lontani, che non erano mai banali. Lì era come una chiesa, dove i sogni prendevano vita in quelle schegge di luce. 

Le ha conservate tutte quelle foto, lui alla Rai, vestito come un ometto, accanto a Gino Bramieri, o a Mike Bongiorno, o che sorride con papà Ettore davanti a Disneyland. Era così bellino, un po' grassottello, com'è rimasto poi quand'è cresciuto e la vita non è stata più quella che sembrava. Ma allora era un bambino prodigio, e c'era un'onda da rincorrere, gli fecero incidere anche dei 45 giri. 

Michele Ventura faceva l'apprendista parrucchiere dal Maestro Remo Panario, ma tagliare i capelli va bene, solo che la sua passione è rimasta la musica e lui ancora oggi gira con la sua band, I Beathovens. E dice che ad Alberto è rimasto attaccato lo stesso amore. Storie di provincia e di un mondo lontano. Michele ricorda però che suo zio ci credeva tanto e gli aveva scritto apposta una canzone, che cantava anche in teatro.

S'intitolava «Il divo», e diceva così: «Voi non mi conoscete perché sono piccino, ma un giorno sentirete parlare di Albertino, e per televisione, quel giorno canterò per voi questa canzone, nel Faravelli show». Poi non è andata così. Dentro al suo cinematografo, la scintilla s'è fermata lì e la pellicola non ha mai girato. Si sono abbassate le luci, il mormorìo s'è taciuto, ma il proiettore ha fatto solo un chioccio ronzio e basta, prima di bloccarsi. È stata così la vita di Albertino. Gli è rimasta la passione della musica, ma non il suo avvenire, non il suo luminoso palcoscenico.

È salito sulle navi da crociera e ha girato gli oceani, suonando le tastiere e cantando i brani degli altri, quelli famosi. E se per caso trovava qualcuno che lo conosceva, ci parlava, ma le sue canzoni, L'evaso e Il divo, quelle non poteva più farle. Non se l'era dimenticate. 

Quando tornava a casa le strimpellava per ridere, con Michele, o con sua sorella, Antonella, che suona il basso anche lei, in un gruppo che si chiama «Le Serenelle». È un tempo finito, doveva aver pensato questo. 

Il vento l'ha visto passare, gli ha soffiato accanto, ma cosa ne sanno gli altri, quelli che non capiscono neanche che cos' è, questo soffio della vita, questa scintilla del cinema. Cosa ne sa un vagabondo che ti uccide dei segreti racchiusi nei sogni, delle loro sconfitte. L'hanno trovato così, Albertino, con la testa reclinata sulla federa inamidata e la sua divisa da portiere. 

Doina Matei uccise con un ombrello Vanessa Russo: è nullatenente e sarà lo Stato a risarcire 760 mila euro la famiglia della vittima. La Stampa il 10 maggio 2022.

Ricordate la storia di Vanessa Russo, la ragazza di 23 anni uccisa per una lite al culmine di una lite alla stazione Termini di Roma? Per quella vicenda fu condannata Doina Matei a 16 anni di reclusione. E adesso, per le precarie condizioni economiche, Doina Matei non verserà un euro alla famiglia della ragazza. A pagare sarà lo Stato italiano. Esattamente 760mila euro che la Matei non dovrà versare in quanto nullatenente e con due figli a cui pensare. Così ha deciso il tribunale civile di Perugia, mettendo fine alla questione sul risarcimento che spetta alla famiglia della 22enne che Doina Matei ha ucciso con un ombrello 15 anni fa, dopo un diverbio in metropolitana, a Roma. «Siamo in presenza di una decisione non sorprendente perché in linea con l'orientamento della Corte di Giustizia Europea che in presenza di crimini particolarmente efferati stabilisce che il risarcimento da parte dei responsabili sia affidato, in casi specifici, allo Stato».Lo afferma l'avvocato Federico Vianelli, in passato legale della famiglia di Vanessa Russo, commentando la decisione della corte d'appello di Roma che ha accolto il verdetto della Corte Ue disponendo che allo Stato italiano spetta il risarcimento di 760 mila euro ai parenti delle vittima in quanto Doina Matei, la ragazza che colpì con una ombrellata la giovane romana, è nullatenente e senza fissa dimora. «In questa vicenda è già passato troppo tempo - afferma il penalista - e niente restituirà alla famiglia Vanessa e risarcirà del dolore e delle lacrime versate». Doina Matei era tornata libera nel 2019 grazie alla "buona condotta", con un anticipo di quattro anni

Valeria Arnaldi per “Il Messaggero” l'11 maggio 2022.

Esattamente 760mila euro. Questo l'ammontare del risarcimento alla famiglia della vittima, cui è stata condannata, in sede civile, Doina Matei per aver ucciso, quando aveva ventuno anni, con un ombrello, Vanessa Russo, poco più grande di lei, al culmine di una lite per motivi banali, sulla banchina della metropolitana della Stazione Termini, a Roma.

Matei, però, è nullatenente e senza fissa dimora, quella somma non può pagarla. 

A risarcire la famiglia Russo sarà lo Stato italiano. Era il 26 aprile 2007. Doina Matei uccise Vanessa Russo, colpendola con la punta dell'ombrello nell'occhio.

Romena senza permesso di soggiorno, grazie anche alle telecamere di sorveglianza, fu rintracciata, arrestata e condannata per omicidio preterintenzionale aggravato a sedici anni, poi parzialmente scontati in semilibertà e, in affidamento in prova ai servizi sociali fino alla fine della pena. 

IL RICORSO La famiglia Russo intentò causa pure in sede civile. Stabilito l'ammontare dell'indennizzo, il Tribunale di Perugia, affermò che la Matei era insolvente. E così i Russo presentarono ricorso al Tribunale di Roma. «Non è una questione di soldi ma di giustizia - diceva, nel 2017, Giuseppe Russo, padre di Vanessa, al nostro giornale - La vita di una persona non ha prezzo, ma qui pare che nessuno sia responsabile. La condanna prevede un risarcimento di cui nessuno parla. La responsabile non ha soldi, allora dovrebbe farsene carico lo Stato ma lo Stato non paga. Mia figlia è stata uccisa in città, sotto la metropolitana, nella stazione, senza alcuna sorveglianza». Ora, dopo tanti anni, il risarcimento arriverà.

La Corte d'Appello di Roma ha accolto il verdetto della Corte di Giustizia Europea, stabilendo che spetta allo Stato Italiano farsi carico del risarcimento. «Lo Stato italiano non è stato condannato al risarcimento in luogo della responsabile del fatto e in forza di una ipotizzata responsabilità sussidiaria, ma in virtù di una propria responsabilità diretta, che trae origine dall'inosservanza di un obbligo comunitario: quello, reiteratamente disatteso, di dotarsi di una legge volta l'indennizzo delle vittime di reati violenti», dice l'avvocato Giovanni Spina, legale dei familiari di Vanessa Russo. 

«C'è una giurisprudenza consolidata ormai, di cui questa sentenza è l'ennesima conferma - spiega l'avvocato Federico Vianelli, in passato legale dei Russo - l'orientamento della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, per la tutela rafforzata delle vittime, prevede che laddove vi sia l'impossibilità del condannato di garantire in tempi brevi l'indennizzo, sia lo Stato a provvedere. E dato che l'assassinio è avvenuto su territorio italiano, sarà lo Stato italiano a farlo». Un atto simbolico per i familiari.

«I genitori di Vanessa sono stati distrutti dall'assassinio della figlia, credo che destineranno la somma a onorare la sua memoria - prosegue Vianelli - Di fatto, hanno visto riconosciuta la loro richiesta, dunque l'esito della causa civile è stata una vittoria, certo che, così, rischia di diventare una vittoria di Pirro. In casi come questi, ci dovrebbe essere una sorta di automatismo, quando il danno è accertato ed è attestata anche l'insolvenza del condannato, le procedure dovrebbero essere più brevi. Sono passati tanti anni, troppi, da allora».

Anni di battaglie, appunto, e sofferenze. «L'obbligo di risarcire la vittima, in reati particolari gravi, a carico dello Stato, a fronte della impossibilità di farlo da parte dell'autore del reato, viene sancito della giurisprudenza comunitaria cui, l'Italia, si è dovuta adeguare - commenta l'avvocato Carlo Testa Piccolomini, legale di Doina Matei - Contrariamente a quanto riportato da alcuni, non si è trattato dell'ennesimo regalo alla romena. A Doina Matei è stata inflitta una pena esemplare, senza la concessone di attenuanti generiche, nonostante la giovanissima età, il difficile contesto di provenienza e il fatto che fosse incensurata».

E aggiunge: «Doina avrebbe potuto raccontare la storia dietro compenso, le richieste sono state molte, ma non ha mai neppure preso in considerazione la cosa. Cerca di condurre una vita normale, ovviamente con il peso di quanto accaduto. L'unico obiettivo, ora, per lei, è l'oblio. Molti, per omicidio preterintenzionale, sono stati condannati a meno di dieci anni di pena e non hanno mai risarcito le vittime»

La rumena che uccise Vanessa è nullatenente. Il risarcimento lo paga lo Stato. Rosa Scognamiglio il 7 Maggio 2022 su Il Giornale.

Doina Matei, la rumena che uccise con un ombrello Vanessa Russo, è già in libertà ma risulta nullatenente. Sarà lo Stato a risarcire i familiari della vittima. L'indennizzo ammonta a 760mila euro.

Sarà lo Stato a risarcire i familiari di Vanessa Russo, la 22enne uccisa con un ombrello dalla rumena Doina Matei in una stazione di Roma Capitale nel 2007. L'immigrata, già a piede libero dopo aver scontato 10 anni di pena, risulta nullatenente e con due figli a carico. Motivo per cui spetterà alla Repubblica italiana provvedere all'indennizzo - del valore complessivo di 760mila euro - in favore dei genitori e dei fratelli della vittima.

Romena uccise in metro "Semilibertà? Un diritto"

L'omicidio

Al tempo, la drammatica vicenda suscitò grande clamore mediatico per la singolare efferatezza dell'aggressione. Doina Matei, immigrata di nazionalità romena senza permesso di soggiorno, trafisse con la punta dell'ombrello Vanessa Russo a seguito di un banale diverbio. Il colpo sferrato dalla straniera - immortalato dalle telecamera di sorveglianza della metropolitana capitolina - fu tale da provocare la morte "per sfondamento della calotta cranica" della 22enne che morì dopo una straziante agonia. Doina, che intanto aveva tentato la fuga, fu rintracciata e arrestata presso la sua abitazione nelle Marche. L'accusa di omicidio volontario, formulata in prima istanza, fu subito rimodulata in omicidio preterintenzionale aggravato. La rumena chiese e ottenne di essere processata col rito abbreviato guadagnando, al netto dei possibili risvolti giudiziari, la riduzione di un terzo della pena. Sul finire del 2007, la straniera fu condannata a 16 anni di reclusione e al risarcimento dei danni nei confronti della famiglia Russo. La sentenza di primo grado fu confermata dalla Corte d'Appello nel 2008 e diventò definitiva due anni più tardi. Dopo aver scontato 10 anni di pena, nel 2019, Doina è tornata in libertà.

Il risarcimento

Nel 2012 i familiari di Vanessa decisero di rivolgersi al tribunale di Perugia, città dove era residente l'imputata, per ottenere il risarcimento. Due anni dopo (2014) giunse la sentenza del tribunale del capoluogo umbro che condannava Doina a versare 260.000 euro in favore del papà di Vanessa, 300.000 alla madre, 100.000 al fratello e altrettanti alla sorella. Somme non riscuotibili poiché Doina risultò essere nullatenente e con due figli a carico in Romania. A quel punto i genitori della 22enne decisero di citare lo Stato italiano, nella persona della Presidenza del Consiglio dei ministri, per ottenere l'indennizzo. Non ricevendo riscontro alcuno, i Russo presentarono un nuovo ricorso al tribunale di Roma, ottenendo la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento di 760mila euro complessivi. Dal suo canto, la Presidenza del Consiglio, attraverso l'Avvocatura dello Stato, faceva ricorso contro questa pronuncia sostendo che nel mentre fosse stato emanato un ddl che prevedeva - come da direttiva europea numero 80 del 2004 - un risarcimento per le vittime dei reati violenti. Ma "per la Grande Sezione della Corte di Lussemburgo - scrive Libero Quotidiano - la Repubblica italiana avesse indebitamente limitato gli indennizzi previsti per le vittime di reati violenti a cifre irrisorie e meramente simboliche". La Corte d'Appello di Roma, nei mesi scorsi, ha confermato la sentenza della Corte di Giustizia Europea: sarà lo Stato Italiano a risarcire i familiari di Vanessa.

Massimo Sanvito per “Libero quotidiano” il 30 aprile 2022.

Erano arrivati in oltre diecimila, da ogni parte d'Italia e oltre. Colonne di furgoni e auto carichi di casse, alcolici e droghe per raggiungere l'enorme distesa verde di Valentano (Viterbo), sulle rive del lago di Mezzano, per un rave party no stop. Ci fu un morto annegato, cani lasciati morire di sete sotto il sole, diversi stupri, persino un parto.

Mandrie di zombie che vagavano strafatti, storditi dalla musica e dalle pasticche, con gli occhi persi nel vuoto. Ci furono saccheggi di bar e case nei centri più vicini. Fu rubato gasolio dall'azienda agricola lì vicina e una ventina di persone che alloggiavano nell'agriturismo furono costrette a scappare.

Per quell'inferno durato 72 ore, a cavallo di Ferragosto, tra illegalità, tra illegalità un'area privata, la procura ha citato a giudizio una sola persona per invasione di terreni: tale Adurel Karafili, 34 anni, albanese, disoccupato e nullatenente. Solo lui su quindicimila persone. E la domanda sorge spontanea: com' è possibile? Il processo comincerà a marzo dell'anno prossimo.

Il quadro è a dir poco grottesco. Perché se dopo otto mesi di indagini si arriva a portare in tribunale una persona soltanto, pescata chissà come nella mischia, è abbastanza ridicolo. Tanto è vero che Piero Camilli, al secondo mandato di sindaco a Grotte di Castro (Viterbo), imprenditore, ex presidente del Grosseto e della Viterbese, ma soprattutto proprietario di quei terreni devastati dalla follia degli organizzatori e dei partecipanti del rave (o meglio: del "Teknival", come lo chiamarono), pochi giorni fa ha ricevuto la notifica da parte della procura di Viterbo.

«Mi hanno detto che sarò persona offesa nel procedimento contro una sola persona, un albanese che si trova in galera a Frosinone ma c'erano diecimila persone, io dovrei rifarmi soltanto sudi lui?», ha commentato Piero Camilli all'Agi.

Il 19 agosto, quando gli occupanti lasciarono l'area grazie alla mediazione della Questura, cominciò subito la conta dei danni: della bellezza di 300.000 euro quelli quantificati dal proprietario.

«Li vorrei dare tutti in beneficenza alla Croce Rossa. Io vivo del mio lavoro», ha spiegato Camilli. Che ha anche citato il ministero dell'Interno in via civilistica. L'inchiesta della procura è stata piuttosto complessa, considerata l'oggettiva difficoltà nel rintracciare gli organizzatori in mezzo a migliaia e migliaia di persone. Verissimo. Però i risultati lasciano alquanto a desiderare. Camilli non se ne capacita: «Se non si riescono a identificare i responsabili allora dovrebbe risarcirmi lo Stato». Come dargli torto? «$ paradossale che ci sia un solo imputato, penso e spero che la Procura stia lavorando a qualcosa di più ampio e che questa sia soltanto la punta di un iceberg», ha dichiarato Enrico Valentini, legale della famiglia Camilli. Per il reato in questione è prevista una pena massima di due anni ma con ogni probabilità si arriverà, al massimo, a una multa. Camilli la chiude con una battuta: «E adesso come posso rifarmi su una sola persona? $ una roba da film di Totò». Perché c'è davvero da ridere.  

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica” il 27 aprile 2022.

«Per i primi tempi voleva solo sequestrà e mi dava i pensierini, poi ha cominciato a chiedermi ma facciamo più sequestri, così esce qualche soldo». Prima la cocaina consegnata in caserma in cambio di soffiate e poi pure "la stecca" sui guadagni dello spaccio. 

Quello descritto alla Dda di Roma dal pentito Maurizio Zuppardo è un sistema inquietante che sarebbe andato avanti per undici anni all'interno della compagnia dei carabinieri di Latina, messo su da alcuni militari, ufficiali compresi, che sarebbero arrivati al punto di falsificare i verbali di sequestro della droga per consegnare parte della sostanza stupefacente all'attuale collaboratore, loro confidente, per fare più arresti.

Ricevuti gli atti, il procuratore capo di Latina, Giuseppe De Falco, e il sostituto Valentina Giammaria hanno aperto un'inchiesta a carico di undici indagati, dei quali nove carabinieri, formulando 35 capi d'accusa e ipotizzando i reati di corruzione, spaccio, peculato, falso, abuso ufficio, concussione, furto e violazione della legge armi. E per sei investigatori hanno chiesto l'arresto. [...] 

Il collaboratore ha parlato del vice brigadiere Camillo Marino e aggiunto che era a conoscenza di quelle vicende anche l'attuale maggiore Camillo Meo, andato poi a comandare la compagnia di Sassuolo, entrambi indagati e per i quali è stato chiesto l'arresto, negato dal gip non ritenendo attendibile Zuppardo, ma su cui, alla luce di un dettagliato ricorso, dovrà pronunciarsi il Tribunale del Riesame di Roma.

Su Marino il pentito ha anche detto: «Un carabiniere può guadagnà 1.400-1.500 euro al mese, non puoi farti nel 2008 una Golf ultimo tipo che costa 30-40mila euro e una casa nuova. Ogni volta che andava a sequestrà lui qualcosa spariva la roba, sparivano i soldi e la cocaina». Un altro vice brigadiere indagato, parlando al suo attuale comandante ha poi ammesso: «Con Zuppardo si pesava». [...]

Sparò al ladro e lo uccise, avvocato condannato a 14 anni di carcere. Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.

La decisione del tribunale di Latina arriva dopo quattro anni e mezzo: Francesco Palumbo sorprese i ladri a casa dei genitori e ne uccise uno in fuga. Il giudice non ha creduto alla legittima difesa. 

Non sparò per legittima difesa, ma con la volontà di uccidere. Con questa motivazione la Corte di assise di Latina, venerdì pomeriggio, ha condannato a 14 anni di carcere l'avvocato Francesco Palumbo, accusato dell'omicidio di Domenico Bardi, 46enne di Napoli e del tentato omicidio del complice Salvatore Quindici, sorpresi a rubare nell'abitazione dei suoi genitori nel complesso residenziale di via Palermo nel capoluogo pontino. Il delitto, avvenuto una domenica pomeriggio del 15 ottobre 2017, si è verificato quando i due uomini -appartenenti ad una banda specializzata in furti d’appartamento proveniente dalla Campania- si stavano dando alla fuga: in quel momento l'imputato, che si era precipitato a casa dei genitori avvisato dall’allarme, ha colpito a morte Bardi alla schiena mentre scendeva da una scala, e ferito poi l'altro ladro. Le indagini successive appurarono che i banditi erano disarmati, mentre l’avvocato raccontò di aver reagito pensando che il ladro avesse una pistola. La Corte, presieduta da Francesco Valentini, ha respinto la richiesta di assoluzione avanzata dalla difesa per mancanza dell’elemento psicologico, e ha inflitto al professionista pontino una pena superiore ai 12 anni sollecitati dal pm. A Palumbo sono state concesse le attenuanti generiche in quanto incensurato, ma è stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e legalmente per tutta la durata della pena.

Andrea Pasqualetto per corriere.it l'11 aprile 2022.

Si è alzato dal tavolo dove stava pranzando, è entrato nel locale e ha iniziato a inveire contro il banconista, pare per l’attesa eccessiva. Ne è una nata una discussione, poi una scazzottata e alla fine il cliente ha fatto come nel Vecchio West: ha estratto una pistola e ha sparato sul malcapitato. 

Uno, due, forse tre colpi. Corsa all’ospedale, intervento d’urgenza. «È gravissimo», hanno spiegato gli inquirenti. L’hanno intubato e sottoposto a un delicato intervento chirurgico: l’uomo è ora in rianimazione e la prognosi è riservata. 

La vittima

Si tratta di un ventitreenne originario di Santo Domingo dipendente del locale, il Casa Rustì, un ristobar in piazza della Rinascita, nel centro di Pescara conosciuto per gli arrosticini.

L’aggressore, un 29enne abruzzese emigrato all’estero, non era un cliente abituale del ristorante ed è stato catturato in un’area di servizio autostradale dalla polizia dopo alcune ore mentre cercava di scappare a bordo di un taxi. Era stato immortalato da alcuni video che lo riprendono mentre fa fuoco sul giovane dominicano che cercava riparo dietro il bancone. Lo colpisce al collo e al torace. 

Le testimonianze

A spiegare ai cronisti com’è nata la rissa è stato il titolare di Casa Rustì, ristorantino che si affaccia sulla centralissima piazza della Rinascita, il salotto della città: «Quell’uomo è entrato nel locale con il suo bicchiere di vino e ha cominciato a insultare il mio dipendente, lamentandosi, da quanto abbiamo capito, dei tempi di attesa. Gli ha dato prima un pugno, poi ha tirato fuori la pistola e ha sparato. Quello che si vede nelle immagini di videosorveglianza fa impressione».

L’aggressore stava pranzando all’esterno del ristobar, sotto un porticato. «Era accanto a me, avrà avuto una quarantina d’anni, vestito sportivo, calvo, pranzava da solo», ha raccontato una testimone. Sul posto è intervenuta la squadra mobile di Pescara. «Abbiamo naturalmente aperto un’indagine», si è limitato a dire il procuratore capo del capoluogo abruzzese, Giuseppe Bellelli. Il reato è tentato omicidio. 

Le ragazze sotto choc

In questa brutta storia è finita all’ospedale anche una ragazza. Si tratta di una dipendente del locale intervenuta per cercare inutilmente di calmare l’aggressore. «È sotto choc», spiega il titolare. 

E sotto choc anche la fidanzata della vittima, che era accanto a lui quando è scoppiata la rissa culminata nella sparatoria. La vittima, studente universitario dominicano da tempo residente in Abruzzo, è padre di un bimbo di due anni. «Bravissimo ragazzo, speriamo che se la cavi e si riprenda», sospira il titolare.

«Pescara non è più sicura»

La vicenda ha scosso Pescara. «Non è più una città sicura», non ha usato mezzi termini il vicepresidente del Consiglio regionale, Domenico Pettinari. «Le risse sono all’ordine del giorno e oggi stiamo parlando addirittura di una sparatoria in un luogo frequentatissimo da ragazzini e famiglie soprattutto di domenica. Davanti a questi gravi avvenimenti è inutile che si continui a sbandierare l’aumento di telecamere come panacea di tutti i mali. Le telecamere, se non accompagnate da un aumento delle forze dell’ordine, non servono da deterrente».

 Sparatoria a Pescara, parla il «tassista eroe»: «È salito sul mio taxi dopo aver sparato. Così l’ho chiuso dentro per farlo catturare». di Alessandro Fulloni Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

Pescara, parla il tassista che ha «mandato» in cella l’uomo che ha ferito il 23enne. 

«Ammetto: durante quelle tre ore è stato come se il sedile del mio taxi fosse fatto di spilli. Ma in qualche modo la divisa te la porti sempre dentro, anche se da pensionato. E forse grazie al mio passato quarantennale nelle forze dell’ordine sono riuscito a restare freddo...». Vincenzo, 67 anni, tre figli, voce giovanile, raggiunto al telefono dal Corriere, parla con serenità, anche se è un fiume in piena. Fa il tassista da soli sei mesi, «licenza ottenuta a Vasto, dopo essermi congedato: nella vita professionale precedente — scandisce orgoglioso — sono stato nelle Fiamme gialle dove ho raggiunto il grado di brigadiere».

Vincenzo era alla guida dell’auto bianca chiamata da Federico Pecorale — il 29enne poi arrestato per aver sparato, domenica, a Yelfry Rosado Guzman, banconista dominicano ventitreenne che ora lotta per la vita in Rianimazione — nel tentativo di organizzare una fuga in Svizzera. Una lite assurda, nel ristobar «Casa Rustì» in centro a Pescara: l’aggressore — con problemi psichici dovuti forse a una lontana caduta in moto — è entrato nel locale, rabbioso per il ritardo con cui stavano servendogli gli arrosticini. E ha sparato al povero Guzman. Una volta fermato, l’uomo ha anche detto che il giorno prima era «stato umiliato da dei rumeni e avevo chinato la testa».

Vincenzo ha incontrato la prima volta Pecorale «una settimana fa, mi aveva trovato su Google. Sono andato a prenderlo quattro volte a Gessi, dove mi ha detto che aveva dei parenti, portandolo a Pescara. L’ho lasciato sempre lì al mattino, vicino al lungomare, dove poi sono andato anche a riprenderlo, nel pomeriggio».

E domenica?

«Mentre ero a pranzo con mio figlio, mi ha chiamato verso le 15, un’ora dopo quella roba folle di cui ero ignaro. Abbiamo concordato un appuntamento alle 20».

Poi?

«Quando è salito mi ha detto: “stavolta devo fare un viaggio più lungo” e mi ha chiesto se potevo portarlo in Svizzera. Gli ho chiarito che la corsa sarebbe costata una marea di soldi e lui non ha fatto una piega, dicendo “non m’interessa”. Così ho fatto i conti, fissando il prezzo sui 1.500 euro; lui mi ha mostrato un rotolo di contanti che però non mi ha dato. Poi siamo partiti».

Come le era parso sino a quel momento quell’uomo?

«Un taciturno, un musone. Non abbiamo scambiato molte parole, nemmeno nelle corse precedenti».

Arriviamo alle 21 di domenica, quando riceve la chiamata delle forze dell’ordine...

«La prima deve essere stata dei carabinieri, le successive della polizia con il questore in persona, Luigi Liguori, che mi ha tranquillizzato. Parlavamo a voce bassa, io cercavo di non far capire con chi fossi al telefono. Però qualcosa quell’uomo deve avere intuito...».

Perché?

«Dallo specchietto ho visto che a un tratto ha cominciato ad agitarsi, il suo respiro era sempre più affannoso. Non era più tranquillo».

Ha avuto paura durante quelle tre ore?

«Diciamo che ho avuto un bel batticuore. Ma sapevo di stare in buone mani. Il resto lo ha fatto la mia vita precedente nelle Fiamme Gialle».

Ore 22.50. Scatta il blitz...

«Il questore mi aveva già indicato come sarebbe avvenuto parlandomi, diciamo così, da collega a collega. Mi ha suggerito di dire a Pecorale che avevo finito la benzina, poi di fermarmi a una stazione di servizio, uscire alla svelta dall’auto e chiuderlo dentro».

E lei?

«È andata come pianificato. Nel frattempo, percorrendo l’autostrada Adriatica, ero giunto alla stazione Metauro. Ho deviato, accostando al distributore. Sono uscito dal taxi facendo finta di iniziare il rifornimento ma in realtà bloccando Pecorale nell’abitacolo con la chiave automatica. Un istante dopo sono piombati gli agenti. Posso dirlo? Ma che bravi, che professionalità! Non era facile...».

Vincenzo, lei oggi riceverà un encomio ufficiale alla «Festa della Polizia»: si sente un eroe?

«Ma no, sono finito per caso in una situazione più grande di me e ho solo cercato di gestirla».

Flavia Amabile per “la Stampa” il 12 aprile 2022.  

Cinque colpi sparati a freddo, con lucida determinazione, perché gli arrosticini tardavano ad arrivare. E non erano così buoni come si aspettava. «Futili motivi», li definisce il questore di Pescara Luigi Liguori, quelli per cui un giovane sta lottando tra la vita e la morte. 

Era il terzo giorno che Federico Pecorale, 29 anni, tornava nello stesso ristorante-bar nel centro di Pescara, il Casa Rostì. «La nostra impressione era che si trattasse di un turista», sostiene Christian Fedele, il titolare del locale. Non sapevano che invece aveva una pistola in tasca, una calibro 6, 35 che ha estratto quando ha perso la pazienza e ha sparato cinque volte (quattro colpi andati a segno) Yelfry Guzman, cuoco e addetto al bancone.

Il giovane ha 23 anni, è di origini dominicane, ma vive a Chieti da tempo insieme con la madre e la sorella. Ha lavorato in un vivaio e da tre anni era stato assunto nel ristorante al centro di Pescara. «Un grande lavoratore, prendeva ogni giorno due autobus, un bravissimo ragazzo. Speriamo che si riprenda presto», dice Christian Fedele. 

Yelfry Guzman è stato portato all'ospedale Santo Spirito di Pescara e operato d'urgenza. È ricoverato in rianimazione e le sue condizioni sono gravi, lotta tra la vita e la morte. Disperata la madre Melania in attesa davanti all'ospedale. Ai suoi cari ripete «Non è giusto». Con lei ci sono l'altra figlia Melissa e Alice, la compagna di Yelfry Guzman. «È un incubo. Non so se riuscirò a perdonare quell'uomo», si sfoga lei. 

Nessuno riesce a capire che cosa sia accaduto nella mente di Federico Pecorale. Non ci riescono i suoi cari. E non ci sono riusciti ancora del tutto le forze dell'ordine, che pure hanno compiuto un piccolo miracolo individuando l'aggressore grazie alle telecamere del locale e a quelle nel centro di Pescara come strumento di contrasto alla movida e organizzando una complessa operazione che ha coinvolto quattro questure (Pescara, Fermo, Ancona e Pesaro) e due compartimenti della polizia stradale (Abruzzo e Marche), tutti coordinati da Pescara.

Pecorale si è diretto prima verso il mare per una passeggiata. Poi è tornato nell'albergo dove soggiornava dal 4 aprile. L'uomo è originario di Montesilvano, un grande centro a ridosso del capoluogo, ma vive da dieci anni in Svizzera. «Torna spesso per fare visita a parenti e amici», racconta Florenzo Coletti, il suo avvocato che lo conosce da tempo.

Gli investigatori della Squadra Mobile di Pescara diretti da Gianluca Di Frischia quindi, sono entrati in hotel ma Pecorale era andato via poco prima, aveva deciso di lasciare l'albergo con molto anticipo rispetto ai programmi iniziali. 

Nella sua stanza è stata trovata la felpa che indossava al momento della sparatoria, quelle che il questore Luigi Liguori definisce «tracce evidenti che lo riconducono al luogo del delitto». E l'inseguimento prosegue. A questo punto, però, gli inquirenti hanno il nome di Pecorale. È sconosciuto alle forze di polizia, non ha precedenti né porto d'armi. Ha dei parenti a Montesilvano e sono i primi dove vanno nella speranza di trovarlo. Non lui è a casa dei nonni a Vasto. 

Quando le forze dell'ordine arrivano, Pecorale è andato via da pochi minuti.

Ottengono però il numero del tassista privato che ha accettato di accompagnare Pecorale in Svizzera. Lo contattano senza che Pecorale sospetti. Il tassista monta un satellitare sul cellulare per consentire di tenere meglio sotto controllo l'auto. 

Poi, con la scusa di dover fare rifornimento, entra nell'area di servizio indicata dalle forze dell'ordine, quella di Metauro, in provincia di Pesaro e Urbino. Si ferma e si allontana dal mezzo chiudendolo con le chiavi dall'esterno. A quel punto Pecorale viene neutralizzato dai poliziotti e sottoposto a fermo per il tentato omicidio e il porto dell'arma. 

Al tassista, che ha svolto un ruolo decisivo, oggi verrà consegnato un riconoscimento durante le celebrazioni per la Festa della polizia. Non è ancora chiaro che cosa abbia davvero spinto Pecorale a sparare. L'impressione degli agenti che lo hanno fermato, ha sottolineato il questore, è che il 29enne «non avesse la percezione esatta di ciò che era successo, dell'esatto disvalore sociale. Sembrava quasi sorpreso della nostra presenza». 

Gli inquirenti escludono la premeditazione ma sottolineano anche la lucidità della fuga. E appaiono non del tutto convinti di fronte alla tesi dell'avvocato che difende Pecorale che l'uomo soffra di disturbi. «Sto contattando il servizio sanitario svizzero per farmi mandare i documenti perché il mio assistito ha comunque una problematica psichiatrica», assicura l'avvocato Florenzo Coletti.   

Paolo Vercesi per il “Corriere della Sera” il 17 aprile 2022.

«I primi due colpi di pistola me li ha sparati in faccia guardandomi negli occhi e non so come io sia riuscito a schivarli. Quando mi sono ritrovato a terra mi ha colpito due volte alla schiena lasciandomi nelle condizioni in cui mi trovo adesso. Ha sparato per uccidere e sono vivo per miracolo». Yelfry Guzman racconta da un letto della Neurochirurgia dell'ospedale di Pescara dettagli finora sconosciuti dell'aggressione di cui è rimasto vittima in un ristobar di Pescara. 

Ricostruzione che il ferito ha fatto con il suo legale, l'avvocato Piero Bisceglie, e ha ribadito al pm Fabiana Rapino che ha raccolto la sua testimonianza. Il primo colpo lo ha ferito di striscio alla testa; il secondo lo ha colpito al collo. Finito a terra dietro al bancone, tra le urla della collega Martina terrorizzata, il ragazzo è stato centrato alla schiena da altri due colpi e uno gli ha danneggiato il midollo: non muove le gambe, Yelfry, ma sta recuperando un briciolo di sensibilità che lascia ben sperare i medici. 

IL FATTO Guzman, 23enne di origine dominicana, stava cucinando arrosticini (spiedini di carne di pecora) al ristobar Casa Rustì in pieno centro a Pescara quando si è trovato a fronteggiare la folle reazione di Federico Pecorale, 29enne di origini abruzzesi ma residente a Losanna, in Svizzera. Già nei due giorni precedenti l'uomo aveva pranzato in quel locale sotto i portici di piazza della Rinascita. «Un cliente normale, abbiamo scambiato qualche parola» ha raccontato Yelfry. Poi è accaduto l'imponderabile, con i cinque colpi di pistola sparati al cuoco dal cliente fuori di sè. «Tutto per colpa della salatura degli arrosticini» ha detto il ragazzo ferito, confermando il banalissimo movente. 

Tutta la sequenza è stata ripresa dall'impianto di videosorveglianza del locale e secondo l'avvocato Bisceglie, anche in risposta all'ipotesi formulata dalla difesa di Pecorale, «prima degli spari non c'è stato nessun atto provocatorio di Yelfry a scatenare quell'azione, se non gli arrosticini battuti sul bancone per eliminare il sale di troppo cui sono seguite altre proteste di Pecorale perché secondo lui erano stati cotti male». Il legale di Pecorale, avvocato Florenzo Coletti, chiederà una perizia psichiatrica per il suo assistito.

Yelfry con mamma Melani, la sorella Meliza e il fratello Francisco: «Non cerchiamo vendetta, ma giustizia: quell'uomo dovrà pagare» hanno detto. L'avvocato Bisceglie potrebbe chiedere il sequestro di beni patrimoniali dello sparatore: «Se Pecorale aveva problemi mentali doveva esserci qualcuno a sua tutela - ha detto l'avvocato -. In ogni caso agirò di concerto con il pm. Siamo consapevoli che questo dramma ha distrutto due famiglie e per fortuna non è finito in tragedia».

Dramma a Barletta: ipotesi rapina. Omicidio nel bar, titolare ucciso a colpi di pistola: lascia due figlie piccole, moglie colta da malore. Redazione su Il Riformista l'11 Aprile 2022. 

Titolare di un bar ucciso a colpi di pistola all’interno del suo locale. E’ quanto accaduto in serata a Barletta dove ignoti hanno fatto irruzione al Morrison’s revolution, in via Rionero al quartiere Borgovilla, uccidendo, in circostanze ancora da chiarire, Giuseppe Tupputi, 43enne che lascia la moglie (con la quale gestiva l’attività) e due figlie, di cui una di appena due mesi.

Inutili i tentativi di soccorso dei sanitari del 118 che quando sono arrivati nel bar hanno soltanto potuto constatare il decesso dell’uomo, raggiunto da almeno uno dei tre proiettili esplosi. Le indagini sono affidate alla polizia che non esclude nessuna pista anche se quella in questo momento battuta porterebbe all’ipotesi di una rapina finita nel sangue, forse in seguito al tentativo di reazione di Tupputi.

Sul luogo dell’omicidio, oltre a polizia, carabinieri e 118, si è radunata una folla di circa un centinaio di persone. Tupputi era molto conosciuto nella zona. Abitava poco distante dal bar che portava avanti insieme alla moglie Giusy. Quest’ultima è stata colta da un malore quando è giunta al “Revoluton’s Morrison” e ha realizzato quello che era da poco accaduto.

E’ caccia ai responsabili di quanto accaduto. Non è chiaro se ad entrare in azione sia stata una solo persona. Saranno le immagini delle telecamere di videosoveglianza presenti nella zona ad aiutare gli investigatori così come possibili testimonianze di persone presenti al momento della tragedia.

Giuseppe Andriani per “il Messaggero” il 12 aprile 2022.

È rimasto ucciso in un agguato poco dopo le 20 di ieri, a Barletta, Giuseppe Tupputi.

Aveva 43 anni, è morto prima dell'arrivo dei soccorsi, inutili per quanto tempestivi, e delle forze dell'ordine, dopo esser stato raggiunto da almeno tre colpi di pistola, all'interno del proprio locale, il bar Morrison Revolution, in via Rionero, nel quartiere Borgovilla. Era il titolare dell'attività da diversi anni.

Sul posto sia gli uomini della polizia, che seguono lo sviluppo delle indagini, che i carabinieri, così come la polizia locale per cercare di regolare l'afflusso di amici e conoscenti della vittima. Sulla dinamica ancora diversi dubbi, così come resta un giallo il movente.

L'uomo era all'interno del proprio locale, attorno alle 20 di ieri, quando è entrato il suo assassino, che ha esploso tre colpi d'arma da fuoco, uno dei quali lo ha raggiunto e ferito a morte.

Nessuna pista, al momento, è esclusa. Al vaglio degli inquirenti, nei minuti successivi, la possibilità di una rapina finita male, ma nella tarda serata di ieri sembrava non essere la pista più concreta, per quanto resti piuttosto complicato capire la dinamica esatta e soprattutto la motivazione alla base di quello che sembra essere un vero e proprio agguato, quantomeno nella modalità. Gli inquirenti proseguono il proprio lavoro scavando nella vita della vittima. 

Informata del fatto la procura di Trani, che coordinerà le indagini, e il magistrato di turno, che disporrà, già oggi probabilmente, l'autopsia sul corpo per provare a raccogliere nuovi elementi. 

L'omicidio si è consumato in una zona periferica, nel quartiere Borgovilla. Non vi sarebbero, almeno secondo una prima ricognizione delle forze dell'ordine, testimoni oculari ma gli inquirenti puntano a raccogliere materiale tramite le telecamere di videosorveglianza della zona, per provare a capire qualcosa in più e magari identificare il mezzo sul quale l'assassino (sempre che sia uno solo) si sarebbe mosso per arrivare sul posto.

In tanti, ieri sera, si sono riversati in strada, tra conoscenti, parenti e amici del 43enne, che lascia la moglie e due figlie, la più piccola di appena due mesi. 

Numerosi i commenti sui social, nel ricordo di un ragazzo evidentemente benvoluto in città. Tanti, anche, quelli che pongono l'accento sulla sicurezza di Barletta in questa particolare fase storica. Quello di Tupputi è il terzo caso di omicidio nella città della Disfida.

A ottobre fu ucciso Claudio Lasala, appena 24 anni, probabilmente per un drink negato, in una discoteca del posto. In quel caso furono fermati due ragazzi, uno di 20 e l'altro di 18 anni, con l'accusa di omicidio volontario aggravato. Il 15 gennaio, invece, scomparve Michele Cilli. Il corpo del ragazzo, anche lui di 24 anni, a distanza di quasi tre mesi da quella notte, non è mai stato trovato. Sono stati arrestati, qualche settimana dopo, due trentenni del luogo: uno con l'accusa dell'omicidio e l'altro della soppressione del cadavere e di favoreggiamento. E il problema sicurezza, a Barletta, torna tragicamente dopo l'esecuzione di ieri.

Antonio Calitri per il Messaggero il 13 aprile 2022.

Fermato per omicidio volontario a distanza di poche ore dell'uccisione di Giuseppe Tupputi, avvenuto nel suo bar a Barletta la sera scorsa, il presunto autore grazie anche al sistema di sorveglianza dello stesso locale in cui è avvenuto il fatto. 

Si tratta del sorvegliato speciale Pasquale Rutigliano, che era andato a costituirsi ieri per non aver ottemperato la sera dell'omicidio, agli obblighi previsti dalla misura cautelare. Sarebbe così la terza lite da bar che sfocia in un omicidio nella città pugliese in meno di sei mesi. 

Tupputi, 43 anni, sposato e con due figli era titolare del Bar Morrison's Revolution alla periferia cittadina. Lunedì sera, intorno alle 19,30, è stato colpito da tre colpi di pistola all'interno del suo locale ed è morto poco dopo nonostante i tentativi da parte dei medici di rianimarlo.

La vittima, che abitava a pochi metri dal suo locale ed era molto conosciuta e ben voluta in zona, nel quartiere Borgovilla, non aveva mai avuto problemi con la giustizia e non aveva mai denunciato tentativi di estorsione. Così, aiutati probabilmente anche dalla presenza di un'altra persona che si trovava nel locale al momento della sparatoria, gli investigatori hanno subito escluso la pista della criminalità indagando invece su quella di una lite e di qualche conoscenza della vittima. Versione confermata anche dalla moglie che dopo aver sentito gli spari e visto il capannello di gente che si era radunata davanti al bar, è uscita di casa e ha scoperto il tragico accaduto, accusando poi un malore.

Con l'ausilio della polizia scientifica, giunta immediatamente sul posto e soprattutto dall'analisi delle immagini del sistema di videosorveglianza dello stesso locale, la Polizia ha scoperto in poco tempo quello che sarebbe il presunto autore dell'omicidio, che rispondeva al trentaduenne Rutigliano, personaggio conosciuto dalle stesse forze dell'ordine e che quella sera non aveva ottemperato all'obbligo della misura cautelare prevista. Alle 22,00 infatti era obbligato a stare al proprio domicilio ma da quanto trapelato, credendo di essere già ricercato, era scappato a Trani, città a pochi chilometri da Barletta.

Quando ha sentito dai media locali che le forze dell'ordine non avevano ancora il nome dell'autore dell'omicidio, nel tentativo di non attrarre sospetti su di lui è tornato in città ed è andato subito a denunciare il fatto che non era in casa al momento dei controlli, sembrerebbe a causa dell'auto che non riusciva a ripartire da Trani. 

Una circostanza che non ha convinto affatto la Polizia che ormai era già sulle sue tracce dopo aver visto le riprese di videosorveglianza e ascoltato alcune testimonianze, ed è stato fermato per omicidio volontario e porto illegale di pistola, che però non è stata ancora trovata. 

Sembrerebbe che all'origine del delitto ci sia stata una banale lite, la seconda in pochi giorni tra i due, addirittura dovuta solamente al fatto che Tupputi non voleva che Rutigliano restasse a bere la consumazione all'interno del locale. Per il momento il procuratore di Trani, Renato Nitti, non ha voluto aggiungere dettagli ma ha solo confermato che «dobbiamo ringraziare la Polizia che ha consentito, nel volgere di poche ore, grazie al coordinamento del collega pubblico ministero intervenuto, di individuare quello che ragionevolmente sembra essere l'autore del fatto e di sottoporlo a fermo».

Intanto a Barletta c'è paura e allarme per il terzo omicidio avvenuto in pochi mesi. A fine ottobre, sempre per un drink negato venne ucciso da due ragazzini il ventiquattrenne Claudio Lasala. E a gennaio, scomparve nel nulla Michele Cilli, anche lui di 24 anni, uscito da un locale proprio assieme a quello che poi è stato arrestato come presunto omicida.

OMICIDIO TUPPUTI. Barletta, barista ucciso per birra negata: fermato il killer, è un pregiudicato in fuga dai domiciliari. Giovedì 14 aprile il fermato sarà interrogato dal Gip di Trani ed il 15 aprile sarà conferito l’incarico al medico legale per l’espletamento dell’autopsia sulla salma della vittima. Redazione online su su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.

La polizia di Barletta ha fermato per omicidio volontario a distanza di poche ore dell'uccisione di Giuseppe Tupputi, avvenuto nel suo bar a Barletta in Via Rionero, il presunto killer grazie anche al sistema di sorveglianza dello stesso locale in cui è avvenuto il fatto. Domandi giovedì 14 aprile il fermato sarà interrogato dal Gip di Trani ed il 15 aprile sarà conferito l’incarico al medico legale per l’espletamento dell’autopsia sulla salma della vittima.

Prima la richiesta di una bottiglia di birra, poi la discussione per quelli che, in una nota della Questura di Barletta - Andria - Trani, vengono definiti «futili motivi». Questo ci sarebbe stato all’origine dell’uccisione del 43enne barlettano Giuseppe Tupputi, avvenuta intorno alle 19 di lunedì scorso nel suo bar, il «Morrison's Revolution», alla periferia di Barletta.

Il presunto autore dell’omicidio, Pasquale Rutigliano, 32 anni, con precedenti penali e sorvegliato speciale, da ieri mattina è stato sottoposto a fermo. La ricostruzione di quanto accaduto, hanno ribadito gli investigatori, è stata possibile grazie alle immagini riprese dall’impianto di videosorveglianza del locale. 

Intanto arriva la richiesta di aiuto della vedova Tupputi, la signora Giuseppina Musti, tramite il suo legale, Francesco Piccolo. «La mia assistita - dice l’avvocato - si sente abbandonata». «A fronte dell’enorme clamore mediatico della vicenda - spiega il legale - non ha ricevuto neanche una telefonata da parte di alcun rappresentante istituzionale, fatta eccezione per la visita della maestra della bambina più grande e la vicinanza di amici e familiari». «In tale momento drammatico e di grande sconforto - spiega Piccolo - si aggiunge la difficoltà, per lei, di ritrovarsi, da un giorno all’altro, il peso e la responsabilità dell’attività, che da poco, fra l'altro, era stata ristrutturata, con tutte le incombenze, anche economiche, che ne derivano». «Non so da dove cominciare», ha detto la donna al suo legale che, per suo conto, chiede che qualcuno si faccia sentire per aiutarla concretamente. 

L'APPELLO DI EMLIANO: MANCA LA POLIZIA

«Per 20 anni Barletta ha un pò campato di rendita su una serie di indagini ben fatte in passato, ma ho l’impressione che in questi 20 anni abbiamo un pò lasciato cadere le cose». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, intervenendo stasera a Barletta ad una manifestazione elettorale a sostegno della candidata sindaca del centrosinistra Santa Scommegna, parlando dell’omicidio del barista 43enne, ucciso con colpi di pistola da un avventore lunedì sera all’interno della sua caffetteria. Il presunto killer è stato sottoposto a fermo ieri. Rimarcando quanto già più volte denunciato dal procuratore di Trani, Renato Nitti, circa la carenza di organici delle forze dell’ordine, Emiliano definito ciò «insopportabile». «Noi indubbiamente lo abbiamo detto in maniera rispettosa e sommessa ma - ha aggiunto il governatore - il ripetersi di questi eventi gravissimi ci induce a specificare che questa è una questione di particolare importanza». "La sottovalutazione da parte dello Stato di questa situazione non è più tollerabile, abbiamo fatto i salti mortali in questi anni per cercare di mettere una pezza a queste mancanze ma la pazienza è finita», ha concluso Emiliano annunciando di voler chiedere al ministro dell’Interno di essere ricevuto assieme al procuratore Nitti.

Barletta, omicidio Tupputi: rabbia e preghiere. L'arcivescovo ai funerali: «Basta con le tragedie». La città ha tributato l’ultimo saluto al 43enne ucciso 8 giorni fa nel suo bar. Maria Pia Garrinella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.

Hanno ucciso un uomo e hanno colpito al cuore una città intera quei tre colpi di pistola. Hanno distrutto una famiglia e atterrito una comunità. A chi li ha esplosi penserà la giustizia. Oggi è il giorno di Giuseppe Tupputi, delle sue esequie, che saranno celebrate alle 16 nella parrocchia del Cuore Immacolato di Maria dall’arcivescovo, monsignor Leonardo D’Ascenzo e dal parroco, don Leo Sgarra.

Lacrime e preghiere

Sin dai primi minuti in cui è stata chiara la tragedia hanno preso il via le preghiere, i ricordi, le testimonianze e le lacrime per Giuseppe Tupputi, come in un corale, spontaneo e laico funerale popolare che dura da giorni. Otto giorni durante i quali lo spazio davanti al «Morrison’s Revolution», la caffetteria del 43enne sparato a morte la sera di lunedì 11 aprile, si è trasformato in un giardino colmo di fiori e biglietti, lasciati dagli amici, dai clienti del bar, dalla gente del quartiere, a ricordare e ringraziare quel ragazzone solare che, insieme a sua moglie Giusy, accoglieva tutti con il buon umore, la gentilezza e il sorriso. Quella tragica sera di lunedì 11 aprile, in mezzo alla folla di quanti in pochi minuti si erano radunati davanti al suo, e al loro, «Morrison’s Revolution», fra gli abbracci e lo sgomento, la speranza era che i soccorritori uscissero dal bar per portarsi via in ambulanza Giuseppe, a sirene spiegate. La speranza era che si salvasse.

Cinque giorni dopo, l’autopsia ha chiarito che sin da subito non c’è stato nulla da fare, che quei tre colpi di pistola avevano ferito Giuseppe senza lasciargli scampo. Ma il presunto assassino, Pasquale Rutigliano, 32 anni, rinchiuso nel carcere di Trani da martedì scorso, ha detto davanti al magistrato, nello stesso giorno in cui sul corpo di Tupputi veniva eseguita l’autopsia, di avere sparato in direzione del bancone, dopo che aveva chiesto una birra e per una discussione avuta con la vittima, per poi andare via. Oggi a Barletta è giornata di lutto cittadino, durante i funerali i negozi resteranno chiusi e le bandiere issate sulla facciata del Palazzo di Città sono a mezz’asta. Il cordoglio, l’indignazione e la solidarietà per la famiglia di Giuseppe Tupputi, sua moglie e le sue due bambine, hanno riempito la Settimana Santa, che a Barletta è stata scandita anche da annunci, dalla brutta vicenda, diventata di dominio pubblico, anzi virale, sui social, di una adolescente che ha picchiato una sua coetanea per strada perché aveva offeso una sua amica, mentre un’altra le filmava, e dai festeggiamenti pasquali, con i riti e le processioni tornati dopo due anni di assenza per la pandemia.

Dopo cinque mesi un'altra omelia su un omicidio

Poco più di cinque mesi fa, in occasione dei funerali di Claudio Lasala, il 24enne accoltellato a morte dopo una lite con due ragazzi più giovani di lui, il vescovo durante l’omelia diceva: «Di fronte a questa morte è necessario che questa città si svegli e queste lacrime di dolore si trasformino nella forza necessaria per metterci insieme, fare rete, aprire gli occhi su ciò che non va». Fra allora e lunedì scorso, un altro ragazzo ancora, Michele Cilli, è stato ucciso e il suo corpo fatto sparire, forse è stato distrutto. Evidentemente nulla è cambiato da allora, nessun percorso è stato intrapreso, nessuna presa di coscienza ha inciso sul presente. Sabato 23 aprile, quando quel ragazzo, Claudio Lasala, avrebbe compiuto 25 anni, per ricordarlo è prevista una grande manifestazione fra la Cattedrale e il Castello, organizzata da sua zia e dagli amici. Per quell’evento c’è un «esercito» che sta lavorando da mesi. Chissà che non arrivi davvero un segnale forte dalla comunità, così forte che non potrà essere ignorato.

«Di fronte alla morte di Giuseppe, come già dicevo a novembre scorso al funerale di Claudio La Sala - ha detto nell'omelia l'arcivescovo Leonardo D'Ascenzo - è necessario anzitutto che Barletta pianga. Il pianto aiuti questa città a mettere da parte distrazioni e banalità, ad essere madre che partorisce, che dona vita. Di fronte a queste morti è necessario che Barletta si svegli per davvero e queste lacrime di dolore si trasformino nella forza necessaria per fare rete e aprire gli occhi. Non vogliamo più che simili tragedie accadano e vogliamo fare di tutto perché non accadano più».

Il patto dell'educazione

Monsignor Leonardo D'Ascenzo, nel suo discorso,  sottolinea che «noi Vescovi, Prefetto e Sindaci della Bat abbiamo sottoscritto il Patto educativo provinciale, e insieme a tanti altri soggetti abbiamo iniziato un percorso che vogliamo proseguire facendo rete, cercando di ascoltare, di comprendere, di dare risposte. Ciascuno nel proprio ruolo, sentiamoci tutti chiamati a dare il nostro contributo. Siamo convinti che questa è la strada da percorrere. Non ci sono soluzioni che magicamente, dalla sera alla mattina, ribaltino una situazione sociale segnata da fragilità, carenze, mancanze. Siamo tutti convinti che dobbiamo investire in educazione e formazione al fine di promuovere e sostenere il rispetto reciproco e la convivenza pacifica e solidale». Tornando all'omicidio Tupputi, D'Ascenzo conta «un altro delitto nella cara e bella Barletta! Insieme alla vittima, il giovane Giuseppe Tupputi, ucciso mentre lavorava nel suo bar, proprio in questo quartiere, qui vicino, è stata colpita anche la sua famiglia - Giusy e le due piccole figlie, Francesca e Sofia - che non ha più un marito e un papà. Di fronte a questo altro omicidio probabilmente, nel nostro intimo, sperimentiamo sentimenti di delusione, rabbia, sfiducia, impotenza insieme a sofferenza e dolore. Non possiamo, però, e non dobbiamo arrenderci! Proseguiamo nell'affermare la cultura della vita, della legalità, della dignità della persona umana. Gesù, il Risorto, ha vinto il male con l’amore. Il suo esempio sia per tutti noi la ragione per respingere con decisione ogni forma di male e di violenza e per organizzarci in una reazione nel bene che ci veda tutti uniti come un unico corpo».

I funerali 

In tanti sono giunti a dare l’ultimo saluto al 43enne barista Giuseppe Tupputi, morto l’11 aprile scorso nel locale, il Morrison' revolution alla periferia di Barletta, dopo essere stato ferito da tre proiettili sparati da un cliente con cui aveva avuto un diverbio dopo la richiesta di una birra.

Il presunto assassino, Pasquale Rutigliano di 32 anni, è detenuto nel carcere di Trani. Nella chiesa del Cuore Immacolato di Maria, poco distante dal bar di Tupputi, si sta celebrando il funerale. A presiedere la cerimonia è il vescovo Leonardo D’Ascenzo, con lui c'è anche il parroco don Leo Sgarra. La chiesa è piena di familiari e amici di Giuseppe e tantissime sono le persone anche radunate all’esterno, sull'ampio sagrato della chiesa. Tupputi era molto conosciuto e benvoluto nel quartiere e anche in città. Fra i presenti anche il commissario straordinario del Comune di Barletta, Francesco Alecci, che per oggi ha proclamato il lutto cittadino; e i senatori barlettani Assuntela Messina e Dario Damiani.

Le parole del vescovo

«Di fronte alla morte di Giuseppe, come già dicevo a novembre scorso al funerale di Claudio Lasala, è necessario anzitutto che Barletta pianga. Il pianto aiuti questa città a mettere da parte distrazioni e banalità, a essere madre che partorisce, che dona vita». Lo ha detto il vescovo di Trani-Barletta-Bisceglie, Leonardo D’Ascenzo, nell’omelia per i funerali del barista 43enne di Barletta, Giuseppe Tupputi, ucciso con tre colpi di pistola l’11 aprile scorso, mentre era al lavoro nel suo bar.

«Di fronte a queste morti - ha proseguito il vescovo - è necessario che Barletta si svegli per davvero e queste lacrime di dolore si trasformino nella forza necessaria per metterci insieme, fare rete, aprire gli occhi. Non vogliamo più che simili tragedie accadano e vogliamo fare di tutto perché non accadano più». L’esortazione è a «respingere con decisione ogni forma di male e di violenza» restando uniti. «Non ci sono soluzioni che magicamente, dalla sera alla mattina, ribaltino una situazione sociale segnata da fragilità, carenze, mancanze - spiega - siamo tutti convinti che dobbiamo investire in educazione e formazione al fine di promuovere e sostenere il rispetto reciproco e la convivenza pacifica e solidale».

Poi, il pensiero del vescovo va alla moglie della vittima, Giusy, e alle figlie, di otto e cinque mesi. «Facciamo sentire, ciascuno come può, la nostra vicinanza affettuosa, discreta e concreta», augurando consolazione e speranza alla vedova e alle bambine. Il vescovo parla di «delusione, rabbia, sfiducia, impotenza insieme a sofferenza e dolore», dopo quanto accaduto. "Non possiamo, però, e non dobbiamo arrenderci - sottolinea - proseguiamo nell’affermare la cultura della vita, della legalità, della dignità della persona umana». All’esterno della chiesa sono stati fatti volare dei palloncini bianchi e uno rosso.

La vedova Tupputi: avevamo tanti progetti

«Ce lo dicevamo spesso di essere stati fortunati a incontrarci, di aver dato ciascuno molto all’altro. Eri un uomo sempre presente, sempre al mio fianco, un papà innamorato follemente delle sue principesse, un papà che, nonostante la stanchezza, dopo una giornata di lavoro, giocava con loro». Sono alcune delle parole della vedova di Giuseppe Tupputi, Giuseppina Musti, in un messaggio che ha letto alla fine della cerimonia funebre per suo marito, il barista 43enne di Barletta ucciso l’11 aprile scorso mentre era nel suo bar, con tre colpi di pistola sparati da un cliente, dopo un litigio per una birra. «Nel lavoro eri il mio punto di riferimento - ha ricordato la donna - il mio consigliere, quello che mi sgridava e mi faceva comprendere gli errori». Della loro vita privata la donna ha ricordato i piccoli gesti quotidiani, la colazione insieme e poi «la sensazione di essere insieme una forza capace di resistere a tutto o quasi», ha detto ancora con la voce rotta dal pianto. «Avevamo mille progetti, sogni e desideri ma siamo riusciti a realizzarne solo una piccola parte, l’altra è stata strappata via brutalmente e senza motivo», ha aggiunto.

«Ora devi promettermi di non lasciarmi mai più e di guidarmi a educare le nostre come volevi tu, con sani valori e principi, dovrai starmi al fianco», ha continuato la vedova, rimasta al fianco della sua bambina più grande per tutto il tempo, a farsi forza reciprocamente. «Vola più in alto che puoi, ti amo e sempre ti amerò - ha concluso la vedova, commuovendo tutti i convenuti - e ricordati di sorridere sempre come hai sempre fatto». All’uscita del feretro dalla chiesa, una folla di centinaia di persone ha applaudito e salutato il 43enne e ha fatto volare dei palloncini bianchi e uno rosso, si cui era scritto «Ciao Peppe».

Il feretro davanti il bar: «Giuseppe sei una rockstar»

Finita le cerimonia funebre, il feretro di Giuseppe Tupputi è stato portato davanti alla sua abitazione e al suo bar, il «Morrison's Revolution», dov'è stato ucciso l’11 aprile con tre colpi di pistola. Davanti al locale in tanti si sono radunati e una sua amica ha voluto salutare Giuseppe, «Morrison» come il leader dei Doors, così come lo chiamavano i suoi amici che conoscevano la sua grande passione per la musica: «Canta per le tue figlie - ha detto la ragazza - devono sapere di una città grigia che piange la nostra rock star». Per chi lo conosceva, infatti, Giuseppe era una «rock star» e la pedana del bar era il suo palco.

Da repubblica.it il 10 aprile 2022.

Pochi giorni fa il caso del bancario multato perché mangiava una frittura di pesce bevendo una lattina di birra seduto ai piedi della statua di Rubattino, ora quello del corriere che dopo aver preso una multa per divieto di sosta, se n'è vista comminare una seconda per aver bestemmiato. 

I vigili a Genova si confermano implacabili, applicano alla lettera il regolamento che riguarda il decoro urbano, ma anche la legge (imprecare è un reato depenalizzato, punito con 51 euro di ammenda).

Il fatto è avvenuto in piazza Soziglia, nel cuore del centro storico della città. Il corriere ha parcheggiato il furgone in un punto in cui la sosta è vietata anche per lo scarico/carico merci. Un vigile è intervenuto, gli ha detto di spostare il mezzo perché intralciava la circolazione e lo ha sanzionato. 

L'uomo ha provato a giustificarsi e quando ha capito che non c'era nulla da fare, ha bestemmiato. L'agente ha sentito e ha raddoppiato ai sensi dell'articolo 724 del codice penale. Quindi, è finita così: 197 per la sosta vietata, più la sanzione supplementare di 103 per l'imprecazione. 

Quando è troppo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2022.

Non sappiamo che cosa avesse fatto di male l’ambulante senegalese Pape Demba Wagne per meritarsi un trattamento alla George Floyd nel cuore di Firenze. Le immagini riprese da un passante davanti a Ponte Vecchio documentano soltanto il placcaggio dei due poliziotti municipali in borghese: uno si siede sulle gambe dell’ambulante e l’altro gli mette un braccio intorno al collo, e stringe. Ma se anche Wagne si fosse scagliato per primo contro di loro, come sostengono gli interessati, la reazione appare spropositata e trasmette quel senso di sopraffazione che sempre si prova nel vedere un uomo inerme sotto il peso di altri esseri umani, superiori a lui per forza e per numero. Con le debite proporzioni, è lo stesso schema dell’Ucraina. Le reazioni violente vanificano la complessità delle cause, trasformando qualsiasi spiegazione in una forma irritante di giustificazione. Fortunatamente il ragazzo senegalese non ha fatto la fine di George Floyd, ma le immagini restano impresse, e anche il sonoro: si sente Wagne rantolare e i due agenti imprecare contro chi li riprende: «Stiamo lavorando, questa è interruzione di pubblico servizio!». Vorrei amaramente tranquillizzare l’ambasciatore del Senegal, che ha parlato di razzismo: se si pensa a Cucchi, e non solo a lui, il colore della pelle c’entra poco, almeno stavolta. C’entra di più la sensazione di onnipotenza, e di impunità, che alcuni provano nel menare le mani con l’alibi del «pubblico servizio».

Firenze, venditore ambulante fermato e bloccato a terra da due vigili urbani: “Non respiro”. Intervengono i passanti e filmano la scena. Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.

L’episodio risale allo scorso 5 aprile ma la forza delle immagini del video che da giorni circola su internet spingono a riportare in evidenza quanto accaduto a Firenze dove alcuni passanti sono intervenuti per soccorrere un venditore ambulante tenuto a terra dai vigili urbani in borghese che lo avevano fermato per un controllo. Il fatto è accaduto su Lungarno Acciaioli, davanti al Ponte Vecchio. Gli stessi passanti accorsi per arginare quanto stava avvenendo, avrebbero girato il video, poi condiviso nel web, e chiesto agli agenti di interrompere l'intervento che vede l'uomo steso a terra urlare e invocare aiuto per la mancanza di respiro. Una situazione che riporta la memoria collettiva alla tragica vicenda americana di George Floyd, tenuto a terra con la forza dagli agenti della polizia e morto poche ore dopo. La storia risale al maggio del 2020 ed era accaduta a Minneapolis dove Floyd venne bloccato da due agenti della polizia dopo aver acquistato un pacchetto di sigarette con dollari falsi. Uno degli agenti si era accanito su di lui per 8 lunghi minuti, tenendolo a terra con un ginocchio spinto sul torace. Floyd ripeteva «non riesco a respirare», ma il poliziotto non demordeva. Il fermato, un uomo di colore di 46 anni, era morto poco dopo in ospedale. Il fatto aveva scatenato le proteste della comunità afroamericana dell’intera nazione dando vita al movimento «Black lives matter, le vite nere contano», scatenato contro il presidente di allora Donald Trump e contro le forze di polizia. Il venditore abusivo attenzionato a Firenze, è stato poi «sottoposto a fermo per identificazione e denunciato a piede libero per resistenza, lesioni e per rifiuto di generalità», si sarebbe rifiutato di fornire le proprie generalità e consegnare la merce e avrebbe prima strattonato un agente e poi colpito a spinte e pugni un altro che per questo ha tentato di immobilizzarlo. I responsabili del Comune riportano che «gli agenti coinvolti hanno riportato lesioni guaribili in tre e cinque giorni, mentre non risulterebbe alcuna lesione né alcun accesso al pronto soccorso da parte del fermato». «Depositeremo lunedì un esposto in procura al fine di consentire all'autorità giudiziaria di valutare se l'operato delle forze dell'ordine intervenute è stato rispettoso delle modalità e dei limiti che si impongono all'autorità di pubblica sicurezza e polizia giudiziaria». Lo ha detto l'avvocato Cosimo Magazzini, legale delle due persone, nonché autori del video, intervenute sul lungarno Acciaioli a Firenze, davanti al Ponte Vecchio, a sostegno di un venditore abusivo che era stato immobilizzato a terra da vigili urbani in abiti civili durante un controllo antidegrado. «I miei assistiti sono intervenuti - ha continuato il legale - mentre il fermo era già in corso e pertanto non conoscendo le ragioni che lo hanno imposto rimettiamo all'autorità competente la valutazione su un operato che ci è apparso sul momento non proporzionato rispetto al contegno del fermato».

Firenze, la municipale ferma l'ambulante extracomunitario abusivo e volano pugni. Il Senegal: “Arresto razzista”. Christian Campigli su Il Tempo l'11 aprile 2022.

Un video che ha scosso un'intera città. L'ha divisa, tra chi considera quel gesto inaccettabile e chi, al contrario, difende senza se e senza ma l'intervento delle forze dell'ordine. Siamo a Firenze, nel centro storico che il mondo ci invidia, sul lungarno Acciaiuoli, ad un passo da Ponte Vecchio. Due agenti della municipale, in borghese, si avvicinano ad un venditore abusivo. Secondo la versione fornita dall'amministrazione comunale, il senegalese viene “sottoposto a fermo per identificazione e denunciato a piede libero per resistenza, lesioni e per rifiuto di generalità, perché, quando è stato fermato per il verbale, si è rifiutato di dare le generalità e consegnare la merce e ha prima strattonato un agente e poi colpito a spinte e pugni un altro, che per questo ha tentato di immobilizzarlo. Gli uomini in divisa hanno riportato lesioni guaribili in tre e cinque giorni, non risulta invece alcuna lesione né alcun accesso al pronto soccorso da parte del fermato”. 

Il can can mediatico si crea grazie ad un video che fa il giro del web. È una passante a riprende l'africano, mentre viene immobilizzato a terra dagli agenti. Questa mattina persino il governo senegalese si è espresso sulla vicenda. “Denunciamo e condanniamo questo trattamento razzista, disumano e degradante, tanto più grave in quanto commesso da forze dell'ordine, che dovrebbero applicare la legge e garantire l'incolumità delle persone e dei beni. L'ambasciatore del Senegal a Roma ha ricevuto istruzioni di recarsi senza indugio a Firenze”. Un vero e proprio incidente diplomatico, sul quale anche la politica locale si è spaccata. “Vogliamo che si metta in discussione la responsabilità di chi governa la città – hanno sottolineato i consiglieri comunali Dmitrij Palagi e Antonella Bundu, di Sinistra Progetto Comune - La retorica del decoro e l'uso della Municipale per ordine pubblico”. Di tutt'altro avviso il consigliere regionale Francesco Torselli e il capogruppo a Palazzo Vecchio, Alessandro Draghi, di Fratelli d'Italia. “Ogni paragone ai casi Magherini e Floyd è fuori luogo. Le forze dell’ordine si sono limitate a svolgere il proprio ruolo e a fermare una persona che si era dimostrata violenta, non collaborativa e che vendeva merce contraffatta. Il resto è polemica strumentale.”.

Video del pestaggio ai danni di un 23enne fermato dalla polizia. LUCA SEBASTIANI su Il Domani il 07 aprile 2022.

Le immagini della brutalità sono state trasmesse da “Chi l’ha visto?”. La questura ha avviato un’azione disciplinare nei confronti dell’agente

Ha colpito con un calcio in faccia un ragazzo mentre era terra bloccato da un altro agente e ha cercato di schiacciargli il capo con il piede. È il motivo per cui un poliziotto della Questura di Foggia è stato trasferito ed è stata avviata un’azione disciplinare nei suoi confronti.

L’accaduto è stato ripreso su un video su Tik Tok e le immagini sono state trasmesse dal programma “Chi l’ha visto?”. Il 23enne era stato immobilizzato e fermato dalle forze di Polizia dopo un inseguimento di quasi tre chilometri per le strade della città di Foggia. Secondo la ricostruzione della questura il ragazzo non si era fermato a un posto di blocco, non aveva la patente e la macchina su cui viaggiava era sottoposta a fermo amministrativo. Una volta che le pattuglie sono riusciti a intercettarlo, dopo un tentativo di fuggire a piedi, è avvenuta la violenza: il poliziotto, correndo, ha sferrato un calcio al giovane e subito dopo ha cercato di schiacciargli la testa con un piede, ma è stato bloccato da un altro agente. Lo stesso ragazzo, Leonardo Di Francesco, come riporta Repubblica, ha descritto la situazione: «Io chiedevo scusa e dicevo che non lo avrei fatto più, uno di loro mi diceva di smetterla o mi avrebbe ammazzato e continuava a colpirmi».

La violenza è avvenuta lo scorso 2 aprile, ma è stata rilanciata dal programma di Rai3 nella puntata del 6 aprile in cui è intervenuta per telefono anche la sorella del 23enne che ha attaccato il poliziotto: «Non accetto questo abuso. Ha una divisa e deve dare l’esempio, non accanirsi con violenza così». La ragazza ha anche commentato le azioni del fratello: «È giusto che paghi ma non siamo né io né il poliziotto a decidere come, sarà un giudice a decidere la giusta punizione per mio fratello e l’amico, ma non noi».

La questura di Foggia ha rilasciato una nota ufficiale, in cui rende noto che «dell’episodio è stata immediatamente informata l’autorità giudiziaria per l’accertamento delle eventuali responsabilità penali». Il comunicato sottolinea che il comportamento del poliziotto, trasferito ad altra sede, «non corrisponde in nessun modo ai canoni ed ai valori della Polizia di Stato».

L'aggressione a Foggia. “Poliziotto mi ha preso a calci in faccia, picchiato anche in Questura”, il video finisce su TikTok: trasferito l’agente. Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Un calcione in pieno volto, mentre era a terra sotto il controllo degli agenti di polizia che lo aveva fermato poco prima. È il trattamento ricevuto Leonardo Di Francesco, 23enne di Foggia, vittima di una aggressione da parte della polizia lo scorso 2 aprile.

Una notizia emersa soltanto grazie al video girato da un residente della zona e postato sui social, TikTok in questo caso, e col caso poi finito in tv nel programma di Rai3 ‘Chi l’ha visto?’.

Leonardo viene inseguito per diversi chilometri da una volante della polizia dopo non essersi fermato all’alt degli agenti assieme ad un amico. “Non ho la patente, perché non l’ho ancora presa e la macchina era sottoposta a fermo amministrativo a causa di un precedente controllo dei carabinieri. Sapevo di non essere nel giusto, ho avuto paura e anziché fermarmi sono scappato”, racconta il 23enne a Repubblica. Dopo “una decina di chilometri”, capendo che scappare era inutile, il 23enne si ferma e si butta per terra.

È in quel momento che, come mostra anche il video sui social, arriva di gran carriera un agente che gli sferra un calcio al volto, tentando poi di continuare a colpirlo e schiacciargli la testa con un piede, venendo fermato soltanto grazie all’intervento dei colleghi.

Immagini che sono finite al centro della denuncia del 23enne e che hanno portato la polizia a prendere provvedimenti immediati. In una nota la Questura di Foggia ha fatto sapere infatti di aver avviato l’azione disciplinare e disposto il trasferimento. “In riferimento al video amatoriale diffuso sui social-media – scrivono dalla Questura – riferito all’arresto di un soggetto per resistenza a pubblico ufficiale avvenuto il 2 aprile a Foggia da parte di personale in servizio presso la locale questura si precisa che dell’episodio è stata immediatamente informata l’autorità giudiziaria per l’accertamento delle eventuali responsabilità penali; che nei confronti del poliziotto è stata avviata l’azione disciplinare e che lo stesso è stato destinato ad altra sede“.

Ma secondo Leonardo l’aggressione non sarebbe finita lì. Il 23enne denuncia infatti di esser stato colpito anche all’arrivo in Questura. “Sono arrivato in Questura alle 17.40 e sono stato rilasciato, per tornare a casa agli arresti domiciliari, intorno a mezzanotte. Mi hanno colpito di nuovo, io continuavo a dire ‘scusate non lo faccio più’ ma non serviva, l poliziotto mi rispondeva: ‘Se continui a chiedere scusa ti ammazzo’ e continuava a colpirmi”, racconta il 23enne.

Inutili i tentativi di chiedere di essere portato in ospedale, alla fine ad accompagnarlo presso il nosocomio foggiano è stata la sorella dopo il rilascio, con una visita che ha dato al 23enne sei giorni di prognosi.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Preso a calci in faccia da un poliziotto, ma il 24enne di Foggia viene condannato per resistenza. Il Tempo il 13 aprile 2022.

Era stato colpito al volto con un calcio da un agente al culmine di un inseguimento in auto, ma non è sfuggito alla condanna a un anno e quattro mesi di carcere per resistenza a pubblico ufficiale. Leonardo Di Francesco, 24 anni di Foggia, lo scorso 2 aprile, alla guida di un’auto in fermo amministrativo e senza patente, era stato arrestato per non essersi fermato a un posto di blocco della polizia.

La pattuglia lo aveva raggiunto e bloccato vicino alla sua abitazione. I poliziotti, una volta sceso dall’auto, lo avevano immobilizzato a terra. Un agente gli aveva poi sferrato un calcio in faccia. Tutta la scena era stata ripresa con un telefono cellulare dai vicini e poi diffusa sui social. Il poliziotto era stato sottoposto a provvedimento disciplinare e trasferito. Poi, però, la giustizia ha fatto il suo corso: il giovane è stato condannato al termine del processo con rito abbreviato. Il giudice ha comunque disposto la sospensione della pena.

Quei carabinieri infiltrati traditi dallo Stato. Salvino Paterno su Culturaidentita.it il 2 Maggio 2022.

Avvincente e pieno di umanità il libro di Angelo Jannone ex infiltrato nei narcos

Un’arma nel cuore, ma perché questo titolo? Perché “un’arma”? Ce ne sono altre? Leggendo il libro sono giunto ad una personalissima interpretazione: l’Arma dei Carabinieri non è un concetto oggettivo, ma del tutto soggettivo. C’è L’Arma che conta, dei dirigenti, dei burocrati, dei manager di palazzo e poi c’è l’Arma vera, investigativa, territoriale, quella che contrasta la criminalità al fianco del cittadino. Angelo racconta l’Arma vera. E lo fa proiettandoci nelle sue storie sbirresche facendoci vivere le emozioni dei protagonisti, soffrire e gioire con loro. Si percepisce l’odore pungente delle sigarette e il gusto dei troppi caffè ingurgitati avidamente dagli investigatori. E di quel caffè se ne assimilano le proprietà tanto da rimanere svegli per leggere ancora un altro capitolo e un altro ancora. E’ un autobiografia dove l’autore mette a nudo la sua esistenza senza celare dubbi, errori, debolezze, inquietudini. Una vita dove l’unica compagna è la malinconica solitudine. E’ un caleidoscopio di multipli brandelli di vita, da Roma a Corleone, dai mafiosi ai narcos colombiani, fino all’addio alle armi per transitare nella dirigenza Telecom, che forma immagini asimmetriche, imprevedibili, ma sempre sublimi. E’ uno spaccato della storia dell’Arma degli anni 80 – 90. Purtroppo la preistoria. Oggi paiono racconti antidiluviani, dove gli investigatori compensavano l’assenza di tecnologia con la passione e la creatività, aggirando insensate regole formali. Pronti a rischiare non solo la vita ma anche la maledetta carriera. Una vita di caserma dove tutto sapeva di famiglia. Come paiono diversi quei Carabinieri da quelli che oggi calcano strade sempre più impazzite. Uomini soli, annichiliti, vulnerabili, paralizzati dal terrore di finire nel tritacarne giudiziario. Abbandonati a loro stessi da tanti, troppi, comandanti che giustificano la loro codarda inefficienza con un saggio buon senso da carrierista. Un’arma nel cuore è un capolavoro letterario che suscita un melanconico amarcord in chi in quei decenni ha combattuto e sconfitto nemici dello Stato che parevano invincibili. Ma non è la nostalgia a farci immergere nelle pagine intrise di intensa umanità e sconosciute verità. Anzi questo libro dovrebbe essere letto soprattutto dai vertici dell’Arma, sì proprio dall’Arma “che conta”, da quei gallonati generaloni che hanno raggiunto le agognate posizioni apicali proprio tenendosi prudentemente distanti anni luce dalla polizia giudiziaria. Ebbene, se costoro si chiedono quale motivo si celi dietro i suicidi e la galoppante demotivazione, è proprio in questo libro che troveranno la risposta. Perché se è pur vero che l’arrogante supponenza dei magistrati terrorizza gli operatori, che ogni intervento operativo si svolge sotto l’occhio ipocrita e maligno di mille cellulari spianati, che microspie e microtelecamere hanno sostituito l’apporto confidenziale, nulla potrà mai sostituire quel saldo e caldo spirito di corpo che legava indissolubilmente i Carabinieri in quegli anni. Ed è quello che va disseppellito dalle coltri di vile, freddo e cinico opportunismo.

Dopo Skuola. Professioni “in divisa”, nonostante la guerra l’appeal di Forze Armate e di Polizia sui giovani resta alto. Daniele Grassucci su L'Inkiesta  Giugno 2022.

Dopo il boom del periodo pandemico, l’interesse dei giovani per le carriere "in divisa" mostra una flessione, ma non un tracollo: il primo conflitto “alle porte di casa” vissuto da questa generazione spinge soprattutto quelli con un interesse superficiale a scartare questa opzione. Anche quelli più determinati, però, tendono a preferire scenari ritenuti meno vicini al fronte: Forze di Polizia e ruoli non operativi nelle Forze Armate. 

Il primo conflitto “alle porte di casa” vissuto dai nostri giovani non fa tramontare l’appeal di una carriera nelle Forze Armate o di Polizia. Infatti, nonostante tutto quello che sta accadendo, ad oggi ben 3 ragazzi su 10 ritengono le “divise” ancora una possibile opzione per costruire il proprio domani. A segnalare questo dato, per certi versi sorprendente, è la quinta edizione dell’annuale Osservatorio sulle Professioni in Divisa, realizzato proprio nelle scorse settimane da Skuola.net in collaborazione con Nissolino Corsi, grazie alla partecipazione di oltre 30mila studenti di scuole medie, superiori e università.

Ovviamente un “effetto guerra” c’è, è inevitabile, ma investe soprattutto i meno determinati a sposare queste carriere, che invece avevano visto una crescita di interesse generale soprattutto nel periodo della pandemia. È innegabile, infatti, che le Forze Armate e le Forze di Polizia, in particolare durante il lockdown, siano state più “visibili” del solito, portando molte ragazze e molti ragazzi a guardare a queste realtà anche in prospettiva lavorativa: l’Osservatorio 2021 rilevava proprio che, a un anno dallo scoppio dell’emergenza, quasi 1 giovane 2 si dichiarava interessato a queste carriere. La contrazione da un anno all’altro, però, riguarda maggiormente quelli che si dicono “abbastanza” interessati, mentre è più contenuta in coloro che affermano di essere “molto” ben disposti a provarci.

La guerra fa comunque paura, anche ai più determinati

Tanti i fattori che potrebbero aver portato a un ripensamento così consistente. Ma forse non è un caso che, tra quanti ora come ora escludono un futuro “in divisa”, proprio 1 su 5 – grosso modo la fetta che si è tirata fuori da un anno all’altro – mette in cima alle motivazioni lo spettro dell’allargamento del conflitto e le preoccupazioni per la stagione di instabilità internazionale di fatto già aperta.

Ma la guerra, pur non conducendo a un totale dietrofront, sta in parte modificando anche i piani di chi continua a crederci. Non sempre, però, seguendo la linea di pensiero che potrebbe sembrare più scontata. Infatti, le ragazze e i ragazzi che mostrano apertura verso le carriere “in divisa” – complessivamente il 29%, con il 17% (oltre la metà) che si dice “fortemente” interessato – si dividono in quattro linee di opinione equamente rappresentate: c’è chi si sente ancora più motivato dallo scoppio del conflitto in Ucraina, chi invece sta sentendo indebolito il proprio interesse, chi non si sente minimamente toccato dall’attualità e chi sta ripensando al tipo di ruolo o divisa da indossare. Tra questi ultimi, 3 su 5 tendono a “allontanarsi” dal fronte, sognando le Forze di Polizia o ruoli meno operativi nelle Forze Armate; al contrario, i restanti 2 su 5 si stanno orientando, a differenza di quanto precedentemente immaginato, verso le Forze Armate e ruoli più operativi.

Crescono le Forze di Polizia, lieve calo per i corpi militari

A suffragare questo scenario, il tradizionale “borsino” – elaborato dallo stesso Osservatorio di Skuola.net e Nissolino Corsi – delle divise preferite dai ragazzi per una possibile carriera. Rispetto all’edizione 2021, l’appeal di tutte le Forze Armate (Esercito, Carabinieri, Aeronautica, Marina) è in lieve flessione. Di contro, guadagnano terreno le Forze di Polizia (soprattutto Polizia di Stato e Guardia di Finanza), che rosicchiano consensi che in passato andavano in direzione dei corpi dalla vocazione più spiccatamente militare. Ad esempio, tra le Forze Armate, l’Esercito conferma la prima posizione con il 16% dei voti (perdendo però ben tre punti percentuali in dodici mesi). Discorso opposto per la Polizia di Stato che, oltre a ribadire la leadership tra le Forze di Polizia, con il 14% dei voti, cresce ulteriormente nelle quotazioni (un anno fa era al 13%). Segno che le divise più orientate sugli “interni” attualmente appaiono un approdo meno incerto.

Una visione, quella delle aspiranti “divise”, che sicuramente conforterà le loro famiglie. Perché l’Osservatorio ha chiesto un parere anche a 2.500 genitori. I quali, nella maggior parte dei casi (46%), appoggerebbero la scelta del figlio o della figlia di intraprendere una carriera del genere. A cui si aggiunge un ulteriore 10% che sposerebbe la causa solo se andasse a ricoprire ruoli a basso rischio: in questo “contingente”, oltre la metà dichiara che la guerra ha fortemente condizionato tale opinione. Inoltre, più in generale, nella loro classifica dei corpi più graditi le Forze di Polizia scavalcano tutti e conquistano la vetta: Polizia di Stato e Guardia di Finanza, insieme, raccolgono quasi un terzo dei consensi (31%). L’Esercito – probabilmente la Forza Armata considerata al momento maggiormente chiamata all’azione in caso di allargamento del conflitto in Ucraina – convince appena l’8% di mamme e papà.

Dagonews il 7 giugno 2022.  

Caramba, che storie! L’ufficio stampa dei Carabinieri, con la regia di Claudio Camarca, ha realizzato il documentario “Io, carabiniere” (andato in onda su Rai2) in occasione del 208° Annuale di Fondazione dell’Arma. Alcuni personaggi famosi hanno raccontato la loro esperienza e i loro ricordi del periodo in divisa. 

Leonardo Pieraccioni è stato carabiniere di leva su consiglio del padre: “Quando mandai ai miei genitori la prima foto da carabiniere si misero a piangere, temendo per la mia vita. Io ero magrolino, inesperto, la prima zuppa (schiaffo ndr) l’avrei presa io. Quando andai a fare servizio di ordine pubblico allo stadio mia madre mi consigliò di ripararmi dietro mio zio, anche lui presente sugli spalti, per farmi difendere da lui”. 

Luca Barilla, vicepresidente dell’azienda di famiglia, anche lui carabiniere semplice, si commuove visibilmente nel ricordare il suo ultimo giorno di servizio.

Il Ministro Vittorio Colao è stato sottotenente 2° battaglione Liguria nel 1984: ”Ho apprezzato il valore negli anni successivi, perché da ufficiale ho imparato a gestire persone più anziane e più esperte di me. Non importa se sei tenente, brigadiere o carabiniere, nell’Arma tutti hanno un ruolo e ognuno lo rispetta per un obiettivo  comune. Ed è così anche nelle aziende, io ho potuto capire la leadership a 23 anni”. 

Il presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Giovanni Gorno Tempini, prestò giuramento con la sciabola del bisnonno, generale dell’Arma: ”Mio nonno venne a trovarmi al Circolo Ufficiali solo per vedermi in uniforme e dopo due giorni mancò. Per lui significò molto vedermi ”. Gegè Telesforo, che ricorda i momenti più duri del suo servizio a San Giovanni Rotondo, come l’intervento in seguito al suicidio di un giovane.

Il maestro pizzaiolo Gino Sorbillo: ”Quando ero in divisa mi sentivo come se avessi una corazza sotto e la porto ancora sotto la tenuta da chef, ancora oggi mi chiamano carabiniere svestito”. 

Un viaggio con punte di sincera emozione, restituita dalle testimonianze di personaggi illustri che svolsero gli obblighi di leva, come ufficiali di complemento dell'Arma o carabinieri ausiliari. Tra questi il Ministro per l'Innovazione Vittorio Colao, gli ambasciatori Riccardo Sessa e Stefano Pontecorvo, Leonardo Pieraccioni, Gegè Telesforo, il presidente di Cassa Depositi e Prestiti Giovanni Gorno Tempini e Ugo Brachetti Peretti, presidente del Gruppo Api, imprenditori come Luca Barilla, Franco Gussalli Beretta, Lamberto Frescobaldi, il giornalista Alberto Billà, il maestro pizzaiolo napoletano Gino Sorbillo.

Ognuno di loro, ancora profondamente legato all'universo valoriale dell'Arma, ha ricordato i tempi in cui vestiva l'uniforme dei carabinieri, sottolineando quanto tale esperienza fosse stata fondamentale nel successivo percorso umano e professionale e come tutti si sentano ancora carabinieri, con quell’uniforme idealmente cucita, nonostante i differenti percorsi intrapresi negli anni successivi al congedo.

Da blitzquotidiano.it il 15 settembre 2021.

Nelle scorse ore una poliziotta si è tolta la vita sparandosi un colpo di pistola. La tragedia è avvenuta negli uffici della Questura a Verona, dove l’agente era in servizio.

La vittima è una poliziotta di 46 anni, madre di una bambina, che era in servizio in Veneto, presso l’ufficio personale della Questura veronese. Il dramma si è consumato nella serata di ieri, lunedì 12 settembre, quando la donna avrebbe estratto la pistola di ordinanza facendo fuoco contro se stessa. Purtroppo non sono valsi a nulla i soccorsi immediati. La donna è morta poco dopo l’arrivo in pronto soccorso.

“Siamo vicini a familiari, amici e colleghi della poliziotta che 46enne ieri si è tolta la vita in questura a Verona. Non ci sono parole adatte al dolore della perdita, ma c’è da parte nostra la consapevolezza dell’abisso in cui ciascuno di loro si sentirà sprofondare. Il nome della collega si aggiunge a una tragica lista che annovera, dall’inizio dell’anno, già 49 suicidi fra gli appartenenti alle forze dell’ordine”. Così Valter Mazzetti, segretario generale Fsp Polizia di Stato.

“Sono – afferma Mazzetti – numeri agghiaccianti e, come è noto, la media fra gli operatori del comparto che si tolgono la vita è ben superiore alla media nazionale che conta inoltre tutte le fasce d’età, mentre quella dei colleghi è una fascia anagrafica delimitata. Continuare ad assistere inermi a questa ecatombe non si può. E, se pure nessuno può conoscere le singole realtà di fragilità e di sconforto che sfociano in simili tragedie, ciò che sappiamo, appartenendo a questo mondo, è che i disagi, i sacrifici, le difficoltà sono tante e tali che certamente alleviarle ed eliminarle, quando possibile, sarebbe determinante”.

“Attendiamo – conclude – provvedimenti concreti che contribuiscano ad alleviare le difficoltà tecnico-operative ed organizzative di un settore che richiede investimenti seri. Perché la sicurezza, proprio come la vita delle persone che lavorano per essa, non può essere considerata un costo”.

ALLARME NEL MONDO SICUREZZA. Strage in Puglia: il fenomeno suicidi con la divisa. Nel 2022 già cinque episodi tra le forze dell’ordine, ben 59 in tutta l’Italia. L’ultimo estremo gesto compiuto nel Tacco d’Italia risale al 13 giugno a Canosa. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Ottobre 2022.

BARI - Suicidi tra le forze dell'ordine, una strage silenziosa, intorno alla quale spesso si crea una coltre di silenzi e omertà. Un triste fenomeno in forte aumento che vede la Puglia, purtroppo, tra le regioni maggiormente interessate.

Dall’inizio dell’anno, infatti, sono già cinque i suicidi che si sono verificati tra gli operatori delle forze dell’ordine: l’ultimo, in ordine cronologico, risale allo scorso 13 giugno all’interno del commissariato di Polizia di Canosa di Puglia. A togliersi la vita fu un poliziotto, un vice sovrintendente di 50 anni che si è sparò con la propria arma di ordinanza mentre era al lavoro.

Ma, prima ancora, a decidere di togliersi la vita, apparentemente senza un motivo preciso, è stato anche un agente della Polizia locale di Bari di 45 anni (il 13 febbraio), un appuntato scelto dei Carabinieri forestali di 49 anni a Noci (il 27 febbraio), un appuntato scelto di 41 anni della Guardia di finanza a Bari (il 13 maggio) e un sottufficiale di 50 anni dell’Aeronautica militare a Bari (il 15 maggio), lanciandosi dalla finestra del Comando della Terza Regione Aerea...

 Non si arresta il fenomeno dei suicidi in divisa. Alessandra D Alessio su Culturaidentita il 15 Settembre 2022

E’ deceduta dopo ore di agonia l’agente di Polizia che lunedì ha estratto la pistola d’ordinanza facendo fuoco contro se stessa.

Nella prima metà del mese di settembre si sono tolti la vita altri quattro appartenenti alle Forze dell’Ordine: un carabiniere forestale, due appartenenti alla Polizia di Stato ed un appartenente alla polizia locale, tutti con la pistola d’ordinanza.

Sono 49 dall’inizio dell’anno, ben 49 colpi avvolti dal silenzio assordante delle istituzioni e di chi dovrebbe trovare una soluzione a questa terribile escalation.

Il fenomeno dei suicidi è la punta di un iceberg della perdita di quell’enorme patrimonio di umanità che portava gli uomini in uniforme ad avvertire come famiglie le rispettive istituzioni. Un mancato adattamento di quei valori di cameratismo alla evoluzione della società ed alla complessità del sistema normativo, che si traduce, in estrema sintesi, in una fallimentare gestione delle risorse umane che meriterebbe un serio e profondo check up. Già, perché di esseri umani si tratta, con le loro debolezze ed i problemi tipici che nella quotidianità assillano ognuno di noi.

Ma per sua stessa natura la condizione lavorativa degli appartenenti alle Forze dell’Ordine è fonte di notevole stress, essendo una delle più impegnative a livello fisico ed emotivo e caratterizzata da turnazioni di lavoro estenuanti, continua mobilità, esperienze traumatiche e non da ultimo da relazioni professionali caratterizzate da un sistema gerarchico. Tutto ciò non può non riflettersi sui meccanismi psicologici “adattativi” di cui ciascuno di noi è dotato e che utilizziamo per fronteggiare problematiche e situazioni di natura emotiva ed interpersonale.

E’ per questa ragione che il lavoro svolto dagli appartenenti alle Forze dell’Ordine è annoverato tra quelli maggiormente predisponenti a sindrome da burnout ed a stress correlato al lavoro.

Le ragioni che possono spingere al suicidio sono sicuramente molteplici e senza dubbio tra esse anche una vera e propria predisposizione al cosi detto “agito”, ossia il passaggio dal pensiero all’atto, a cui si aggiunge un elemento sicuramente non secondario, la disponibilità di un’arma da fuoco. E’ per questo che i militari che svolgono servizio armato possono essere sottoposti a scrupolose visite specialistiche volte a rivalutare l’idoneità psicologica al Servizio Militare Incondizionato. Ma a volte è proprio su queste procedure che ci sarebbe molto da dire.

L’indubbia esigenza di disporre di uomini e donne armati “lucidi ed equilibrati”, perchè chiamati a tutelare la sicurezza dei cittadini, non può non essere contemperata dall’altrettanta necessità di affiancare a quell’ iter burocratico valutativo un preciso progetto di sostegno psicologico.

Provate a pensare cosa possa significare per uomini e donne in uniforme subire l’onta ed il rituale del ritiro del tesserino, pistola e manette, seppur a scopo precauzionale: un rituale che si traduce nella privazione della propria identità. Spesso il rimedio “istituzionale” si trasforma esso stesso nella causa. Un momento di lieve e temporaneo malessere può trasformarsi, ad esempio, in un irrimediabile stato di depressione cronica, innescando un meccanismo perverso di non ritorno e senza uscita.

Oltre al comprensibile impoverimento delle risorse adattive individuali, conseguenza di un lento e progressivo logoramento causato da una professione senza dubbio usurante sotto tutti gli aspetti, a preoccupare è anche il pericoloso problema delle sindromi psicologiche e psichiatriche sommerse, quelle che non vengono riferite nel timore di finire nella spirale burocratica perversa. Sono soprattutto queste che possono determinare una sofferenza tale da indurre in alcuni casi a gesti estremi. In ogni caso c’è da dire che una adeguata gestione delle persone ed una corretta leadership militari potrebbero già rappresentare un decisivo elemento di dissuasione rispetto a tali drammatiche decisioni.

Da blitzquotidiano.it il 31 maggio 2022.

Un ufficiale dei carabinieri in servizio a Fermo si è ucciso in casa, sparandosi con la pistola di ordinanza. Aveva 55 anni – riferiscono oggi i media locali – e abitava in città da circa un anno e mezzo.

È il quarto suicidio nelle Marche nell’ultimo mese

È il secondo suicidio di un rappresentante delle forze dell’ordine a Fermo nel giro di 24 ore: il giorno prima si è tolto la vita un agente di polizia 50enne. Ma si tratta del quarto caso nelle Marche nel giro di un mese: il 25 aprile un polizotto a Pesaro, pochi giorni fa un giovane agente in Questura ad Ancona, fino agli ultimi due di questi giorni. Casi non collegati, dato che i quattro non si conoscevano.

Da bologna.repubblica.it il 27 aprile 2022.

E' entrato in caserma, a Borgo Santa Maria, e si è sparato un colpo in testa con la sua pistola d’ordinanza. E' morto così un carabiniere di 50 anni, pesarese, sposato, due figli. Un suicidio avvenuto ieri pomeriggio, quando avrebbe montato di pattuglia. Ad accorgersi del corpo senza vita è stato un collega. 

Appuntato scelto dei carabinieri, aveva un curriculum trentennale fatto di meriti e riconoscimenti, al lavoro è sempre stato ineccepibile. Anche se non sembrano esserci dubbi, la Procura della Repubblica che ha disposto gli accertamenti sulla morte. Il carabiniere era rientrato in servizio in caserma lo scorso anno, dopo una lunga riabilitazione dopo aver preso il Covid in modo pesante, con un ricovero in ospedale.

(Adnkronos il 27 aprile 2022) - ''L'iniziativa di oggi testimonia la grande attenzione verso il personale'' ha esordito il Comandante Generale dell'Arma dei  carabinieri Teo Luzi nel corso della conferenza sulla prevenzione degli stati di disagio e la promozione del benessere nell'Arma dei Carabinieri.''

L'argomento è reso attuale dalla emergenza sanitaria che ha generato una forte sensazione di incertezza e solitudine. Per altro la crisi o la guerra in corso ha generato ulteriori effetti collaterali, le immagini belliche generano dolore. Tali argomenti riportano al centro l'importanza della tutela dei cittadini e le relazioni umani e sociali'' ha continuato Luzi.

''Il disagio nascendo nei luoghi di vita e di lavoro va superato con l'aiuto delle comunità stesse. L'arma è consapevole che il carabiniere è al centro e coltiva la cultura del noi''. ''Nella premessa del regolamento generale è ribadito che il carabiniere sia sostenuto paternamente: rigore e impegno con il quale l'amministrazione si deve porre'' prosegue Luzi ''è necessario che alle attività di promozione e prevenzione si arrivi tramite un percorso culturale. Questa resta la sfida più impegnativa. Bisogna condividere con le istituzioni un processo che garantisca il benessere dei lavoratori in divisa e una migliore qualità di vita.

''Il Comandante Generale ha continuato: ''La qualità di vita resta connessa anche ad altri fattori multidimensionali: il lavoro è solo un tassello di grande importanza''. ''Il benessere di un carabiniere rappresenta un traguardo verso il quale si arriva tutti insieme, l'arma s'impegna a promuovere cultura del benessere e della prevenzione'' ha proseguito LUZI ''Il tema è molto più ampio rispetto quello sanitario. Le iniziative di collaborazione sono volte all'uso di strumenti innovativi per promuovere la creazione di serenità per perseguire i valori dell'Arma''.

Valeria Arnaldi per leggo.it il 7 aprile 2022.

Uno ogni cinque giorni. Tanti sono i suicidi che vedono protagonisti uomini delle forze dell'ordine. Da inizio anno, sono già stati diciotto. E il trend è in aumento. Nel 2020, sono stati cinquantuno. Nel 2021, cinquantasette. Numeri che hanno spinto il deputato di Forza Italia Roberto Novelli a presentare una mozione alla Camera per chiedere «al Governo di fornire i dati ufficiali, di monitorare il fenomeno e le sue cause e soprattutto di adottare misure immediate ed efficaci per fermare questa onda terribile che da anni si abbatte sulle nostre forze dell'Ordine». Insomma, per portare in primo piano l'emergenza e indagare i suoi numeri. Anche alla luce della pandemia.

Sì, perché nel 2019 i casi sono stati addirittura sessantanove. E la causa del successivo calo di vittime sarebbe proprio da ricercare nel periodo di lockdown per il Covid. «Durante la fase pandemica - spiega Alessandra D'Alessio, responsabile Psicologia Militare del Nuovo Sindacato Carabinieri - ho notato che tanti sono andati in convalescenza, alcune patologie latenti sono emerse e molti hanno preso un periodo di riposo. È come se la pandemia li avesse fatti sentire autorizzati a prendere una pausa. E anche chi ha lavorato, specie nel lockdown, ha visto diminuire la pressione. L'aumento, che notiamo oggi, nel numero di suicidi, di fatto, segna una sorta di ritorno alla normalità».

Da qui l'esigenza di intervenire. E presto. Anche perché il dato di suicidi in divisa è decisamente più alto di quella della popolazione italiana, e vede al primo posto i carabinieri. Cifre alla mano, il tasso di suicidi ogni centomila persone, oscilla tra 6,5 e 7,2 nella popolazione, ma passa tra il 9,65 del 2015 e il 26,82 del 2012 per i Carabinieri. Negli ultimi tre anni, secondo l'Osservatorio suicidi in divisa, si sono verificati 55 casi tra i Carabinieri, 36 nella Polizia di Stato.

«Trattandosi di vite umane, occorre intervenire con soluzioni efficace e rapide - commenta Novelli - Siamo di fronte a persone in situazioni di fragilità che hanno anche un'arma a disposizione per farla finita. Prima di tutto, bisognerebbe ampliare il servizio psicologico e provvedere a una rete esterna di professionisti. Uno dei problemi, infatti, è che molti hanno timore di confrontarsi con gli psicologi interni al Corpo, per le possibili ricadute in termini di carriera».

 Varie le cause. «Le ragioni che spingono al suicidio sono molteplici - spiega D'Alessio - e ci deve essere anche una predisposizione ad agire. Quando un militare manifesta problemi psicologici, gli vengono tolti tesserino, pistola e manette, a scopo precauzionale. Questo però può farlo sentire privato della sua identità». L'intervento, quindi, rischia di aggravare la situazione. «Il fenomeno deve essere discusso, gli strumenti attuali non sono sufficienti. L'impegno ora è a calendarizzare rapidamente la mozione - annuncia Martelli - farò il possibile affinché questo avvenga presto, magari già nella prossima seduta».

Il numero più alto di suicidi si registra nell'Arma. Massimiliano Zetti, segretario generale Nuovo Sindacato Carabinieri, come si spiega questo fenomeno?

«Siamo la forza armata con il più alto numero di appartenenti. E la disciplina è rigorosa. Quando si verificano suicidi, spesso nell'Arma ci si affretta a dire che non sono maturati in ambiente lavorativo. Le cause possono essere diverse certo, le problematiche possono essere di natura personale, sanitaria, debitoria e via dicendo, ma certe volte se anche nell'ambiente di lavoro le cose vanno male, diciamo che è la goccia che fa traboccare il vaso. Una sanzione disciplinare non sarà la causa ma può essere la scintilla».

Come si può intervenire?

«I carabinieri, ma anche i poliziotti, non si fidano degli psicologi interni al Corpo. Occorre pensare a una rete di professionisti esterni. Rivolgersi allo psicologo è difficile e, spesso, quando ci sono problemi, i colleghi vengono privati di pistola e tesserino, e poi mandati a casa, dove sono soli. Questo non migliora, di certo, la situazione». 

Dovrebbero rimanere in servizio?

«Sì, con altre mansioni, magari svolgendo lavori d'ufficio. Chi ha un problema psicologico non deve essere isolato, facendolo così sentire abbandonato, è fondamentale anzi che rimanga accanto ai suoi colleghi». 

Non solo carabinieri. Anna Maria Giannini, docente di psicologia all'ateneo Sapienza (Roma) ed esperta dell'area di Psicologia dell'Emergenza dell'Ordine Psicologi Lazio, che collabora con la Polizia, la disponibilità di un'arma può influire sul numero di suicidi?

«Possedere un'arma offre una via immediata, diciamo, a chi decide di commettere un suicidio ma non è il fattore determinante. Le cause sono da ricercare in più fattori e spesso non sono immediate. Molti credono che togliersi la vita sia una scelta dettata da una malattia mentale, a volte invece è una decisione lucida». 

Come viene affrontato il problema nella Polizia?

«Il problema è sempre stato affrontato in tavoli istituzionali in modo molto serio. Viene, inoltre, offerto supporto psicologico e si fa formazione agli agenti». 

In che modo?

«Si insegna loro a riconoscere determinati segnali nei colleghi. Chi vive tutti i giorni accanto a una persona e la vede operare sul lavoro, può cogliere cambiamenti nel suo comportamento e nell'umore, notare un'improvvisa tendenza a isolarsi. O può venire a conoscenza di problematiche personali importanti. Una presenza vicina aiuta la persona con un problema psicologico e può essere utile per sollecitarla a chiedere aiuto».

Massimo Riella arrestato. Fuga da film finita dopo 4 mesi: scovato in Montenegro dai carabinieri. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022. 

L’uomo era scappato a marzo dopo essere stato accompagnato sulla tomba della madre. Si era nascosto a lungo sui monti di Como, cacciando animali. 

La fine della latitanza di Massimo Riella, durata quattro mesi, anziché ridurre amplifica i misteri sul 48enne stanato in Montenegro. Di queste ore la notizia, anticipata dal Corriere, che già di suo pone un interrogativo non ovvio: ma che cosa ci faceva là, come ci era arrivato? Se già erano state quantomeno singolari le azioni successive all’evasione del 12 marzo, durante un permesso premio, poiché Riella s’era trincerato sulle montagne dietro casa sua cacciando per sopravvivere e protetto da un’intera valle, adesso c’è in aggiunta il tema della fuga all’estero. Anzi, volendo si potrebbe aprire un dibattito aggiuntivo sui familiari, che allora conoscevano la permanenza di Riella sui bricchi – comunicazioni attraverso «pizzini» e di sicuro incontri con il papà Domenico – , che in seguito hanno parlato con certezza di una morte causata dai proietti esplosi dalla polizia penitenziaria – tutto falso – e che, da ultimo, una volta «scoperto» come fosse invece vivo, hanno insistito nel geolocalizzare il pregiudicato da quelle stesse parti. Invece no. Invece Riella, originario di Brenzio, minuscola frazione sopra Dongo, aveva pianificato e condotto un trasferimento che, in sincerità, non era per nulla scontato considerando il suo modesto profilo delinquenziale.

L’ossessione per le moto

Per intanto, tra furti di materiale edili, storie di droga e una rapina a dicembre in danno di una coppia di novantenni per rubare poche centinaia di euro, Riella, separato dalla moglie (una figlia) e diviso dalla compagna (due figli), almeno nei primi due mesi non s’è mai mosso dalle alture del lago, trascorrendo il tempo dietro le sue ossessive passioni: le montagne e le moto. Moto che, anni fa, gli aveva portato via il fratello Cristian, deceduto mentre guidava a folle velocità sulle stradine dei paesi. Cristian riposa con la mamma Agnese nel cimitero proprio di Brenzio. A marzo si era spenta da poco, uccisa dal cancro, e in prigione Riella aveva attuato clamorose proteste, arrampicandosi sul tetto pur di ottenere il sì a una visita nel cimitero. L’avevano accontentato, solo che, appena si era aperta la portiera del furgone della penitenziaria, lui, che non era ammanettato, era balzato mollando calci a due agenti e s’era messo a correre in salita.

Le ricerche vane

Nemmeno i voli dell’elicottero, le unità cinofile, l’ausilio dei carabinieri avevano consentito il rintraccio. In quella circostanza, non fosse per la presa mediatica della vicenda – pur sempre «clamorosa evasione» era stata –, il perfetto sconosciuto Massimo Riella aveva iniziato a essere famoso. Non tanto tra la gente dei Bricchi, che lo conosce forse troppo, l’ha in simpatia e infatti l’ha agevolato nella latitanza fornendo cibo, coperte, rifugi per la notte; bensì nel resto del Paese. Ha forse contribuito la singolare figura del papà, un ex emigrante gruista in Svizzera poi convertitosi al mestiere di naturista, un dispensatore – parole sue – di consigli su come vivere bene, o meno peggio, e insieme su come combattere malanni di vario tipo. Non un «santone», per amor del cielo – il diretto interessato si offende – e nemmeno un truffatore; piuttosto, un letterario personaggio della commedia umana di provincia e, nella fattispecie, parlando ancora della sua attuale professione, «uno studioso che mette a disposizione del popolo il proprio sapere».

La rete all’estero

Nell’operazione di arresto della polizia penitenziaria, che si è fisiologicamente poggiata sull’Interpol e le autorità montenegrine, risulta che il 48enne si trovasse da tempo all’estero. Possibile che, nel corso delle sue detenzioni, abbia legato con dei montenegrini, o con qualcuno che lo ha messo in contatto con loro; oppure, sempre con la stessa gente, vantava dei crediti che era il momento di riscuotere. Qualcuno potrebbe averlo accompagnato assumendosi enormi rischi penali? Forse Riella, magari con documenti falsi, potrebbe essersi mosso sui mezzi pubblici se non, pure, sulle navi che collegano Italia e Montenegro. Raggiunta la nazione, avrebbe cercato di disperdersi in località sperdute, campando come capitava. L’improvvisare di giorno in giorno non è un problema per Riella, abile bracconiere, esperto di animali e delle variegate insidie della natura. È nato e cresciuto in montagna; e in montagna ha imparato tutto. Di per sé, e in ordine cronologico, per insegnamento del papà, lui pure cacciatore di frodo, e di un frate della scuola media dove l’avevano spedito dopo le disastrose – per il carattere, l’insubordinazione, le risse coi compagni – elementari. Mossa sbagliata perché Riella era divenuto il cocco di un fratone il quale, di nascosto, partiva per missioni di caccia portandosi dietro l’ex latitante. Uno definito, senza giri di parole e nemmeno recite, «mezzo matto» dai parenti, che forse volevano alleggerire il peso da violento di Riella al netto delle convinzioni degli uomini della speciale squadra della penitenziaria. Decisi a ogni mezzo lecito mezzo pur di trovarlo e lavare l’onta dell’evasione subìta da un sol essere vivente, disarmato, contro cinque.

Massimo Riella, le vittime lo scagionano: «Non è stato lui a rapinarci». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.

L’ex evaso recluso in Montenegro attende l’estradizione. Il padre Domenico: «Massimo pagherà quel che deve ma non la rapina, non avendola commessa»

Domenico e soprattutto Massimo Riella. Padre e figlio da Brenzio, frazione di Gravedona ed Uniti, lago di Como. I Riella, d’improvviso divenuti protagonisti delle cronache, mancavano da un po’: da luglio, quando dopo quattro mesi i carabinieri e la polizia penitenziaria avevano interrotto la latitanza del 48enne Massimo, infine stanato in Montenegro e, oggi, ancora là, in carcere. Ma in attesa di novità. La prima riguarda una non lontana estradizione: gli atti sono quasi pronti, Riella per Natale potrebbe ottenere il trasferimento in un carcere italiano, forse lo stesso Bassone di Como dov’era detenuto con l’accusa di una rapina in casa a due anziani. 

Rapina che potrebbe rappresentare la seconda novità. Riella ha infatti da sempre sostenuto d’essere innocente, e di essere scappato il 12 marzo approfittando di un permesso premio (per pregare sulla tomba della mamma Agnese) proprio per dimostrare che in quell’appartamento, lo scorso dicembre, non c’era mai stato, nonostante le impronte isolate dagli investigatori su un coltello e uno zaino lo collocassero sulla medesima scena del crimine. Ebbene, basandoci adesso sugli esiti delle indagini difensive come riferiscono i familiari, le anziane vittime avrebbero descritto un uomo «basso e grasso» che pertanto nulla c’entra con la corporatura atletica di Riella, il quale aveva dimorato in quei quattro mesi di latitanza sui bricchi intorno a Brenzio; di certo aveva beneficiato dell’aiuto di più d’uno, amici suoi oppure del papà 81enne, e di compaesani e ammiratori delle sue gesta e per nulla simpatizzanti delle forze dell’ordine. 

Il fatto che a un certo punto Riella avesse abbandonato la Lombardia per sconfinare, era legato alla convinzione d’essersi bruciato contatti e nascondigli. Ma per quale motivo proprio il Montenegro? Era stata l’assenza di soluzioni alternative perché l’evaso aveva dei contatti (coltivati durante la precedente detenzione) esclusivamente nell’area balcanica, anche se aveva anticipato dei soldi a un falsario così da ricevere un nuovo passaporto e volare in Sudamerica, appoggiandosi su di una donna che lo aveva tradito. Senza volerlo: la donna, forse amante, s’era lasciata andare a commenti al telefono, uno dei tanti del vorticoso elenco di apparecchi monitorati dai carabinieri. 

Lo scenario montenegrino rimane in ogni modo da esplorare, e pure in abbondanza, nella misura della codificazione dell’esatta rete di complici. Un’operazione che avverrà a suo tempo con il ritorno in Italia del diretto interessato, il quale avrebbe finora avuto rare telefonate a disposizione per dialogare con la famiglia. Dunque, signor Domenico, come sta il suo Massimo? «Pagherà quel che deve, concetto che ho ripetuto fin dall’inizio; ma non pagherà la rapina, non avendola commessa. Che sia un tipo matto, anzi dai, mezzo matto, è un’altra frase che lei mi ha sentito pronunciare un sacco di volte. Però è una persona buona, mica si mette ad aggredire anziani indifesi…». Che vi siete detti al telefono? «Eh, un bel niente: è saltata subito la comunicazione, non prendeva, sarà colpa del mio fisso, non ho cellulare, porta le malattie». 

Proviamo allora con la compagna di Riella: «Guardi, un’unica chiamata. Roba da cinque minuti. Tre minuti e mezzo li ha trascorsi a chiedere di noi, specie i bimbi, che gli mancano, ovvio. Il restante minuto e mezzo lo ha impiegato per dire che in carcere ha un unico problema». E non sono questioni, umanissime, legate magari alla coabitazione con dei duri, con pezzi grossi dei grandi traffici di droga e degli omicidi su commissione, con magari scenari, in prigione, di tragiche convivenze di «padroni di casa» che prendono di mira lo straniero... «Niente di tutto questo: l’unica noia è che non capisce la lingua. Ma pazienza. Massimo è uno che si abitua, è uno tosto, ne ha dato ampia dimostrazione; e mi permetta, è davvero uno da conoscere dal vivo», il che, riferito com’è a un ex Grande Evaso in cella, fa leggera specie, alla pari di parecchi passaggi di questa saga.

Massimo Riella, l’evaso catturato in Montenegro: a tradirlo l’errore fatale dell’amante-complice. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 18 Luglio 2022.

Il 48enne, scappato da Brenzio (Como) quattro mesi fa, arrestato nella capitale Podgorica. Si era nascosto a lungo nei boschi vivendo di caccia. La donna ha fatto una telefonata a un balordo per parlare di documenti falsi.

Martedì, l’errore fatale dell’amante-complice: una telefonata a un balordo per parlare di documenti falsi (lasciando intendere nel linguaggio in codice la nazione della consegna), e la conversazione caduta nella fitta e strategica trama di numeri sotto intercettazione dalla polizia penitenziaria; sabato, la fine della latitanza di Massimo Riella, catturato in Montenegro quand’era prossimo, grazie all’aiuto della donna, a cambiare identità.

La fuga del 48enne, durata quattro mesi e conclusasi in un appartamento della capitale Podgorica (girava in bici, percorreva chilometri), era da subito diventata una caccia investigativa nonché una saga corale e mappa di misteri. Misteri che permangono. In attesa che parli con i magistrati, nessuno pare saper ricostruire come dalle montagne sopra Como, dove si era rifugiato dopo l’evasione del 12 marzo, Riella abbia raggiunto il Montenegro.

Le trappole nei boschi

Risultano fin qui le seguenti coordinate: quella casa teatro del blitz delle forze dell’ordine indirizzate al covo dai carabinieri di Como del colonnello Ciro Trentin, rimanda a un uomo che aveva accettato di nascondere Riella, sembra collegato a giri di amicizie nate nei periodi di detenzione; le procedure dei documenti contraffatti erano partite grazie a un anticipo di soldi che l’ex fuggiasco potrebbe aver ricevuto mentre si nascondeva sui bricchi lombardi, da parte dei familiari o dei compaesani, magari quelli che l’avevano rifornito di cibo, coperte, biancheria intima, birra, cioccolato e stecche di Marlboro; in verità, gli investigatori non erano certi che Riella avesse lasciato l’Italia, tanto che loro avevano posizionato sugli alberi numerose foto-trappole, casomai il ricercato transitasse da quelle parti e fornisse precise tracce geografiche; l’amante-complice potrebbe essere sia una figura nuova sia un’antica conoscenza di un uomo noto per le molteplici, sovrapposte e sovente caotiche relazioni sentimentali.

La tomba della mamma

Già imprenditore edile che rubava il parquet ai concorrenti, incarcerato a dicembre per la rapina a due anziani che giura di non aver commesso, Riella era scappato approfittando di un permesso premio nella natale Brenzio, sopra Dongo. All’epoca, chiedeva da giorni di poter pregare sulla tomba della mamma Agnese, deceduta da poco; aveva perorato l’istanza con le buone, ma poi, rivelando il suo vero animo — per citare il padre, «è mezzo matto, mi ha sempre combinato casini» —, Riella s’era arrampicato sul tetto del penitenziario minacciando tragici epiloghi. Trattativa. E accordo. Cinque agenti l’avevano accompagnato al cimitero, avevano aperto la portiera del furgone ma lui, senza manette, aveva tirato calci e iniziato a correre. Una saetta. Aveva depistato i cani specializzati nel braccare le prede.

Ancor prima di domandargli del Montenegro, il papà dice: «Non so niente. Niente! Ma almeno è salvo!». Quando tornerà in Italia? Gli uffici del ministro della Giustizia Marta Cartabia contano un’estradizione ogni sei giorni, comprese nazioni sulla «lista nera» e criminali di spessore internazionale. L’ultimo arrivato è il broker dei narcos e uomo di ’ndrangheta Rocco Morabito. In confronto Riella è mera comparsa. Forse anche meno. Eppure, fumatore incallito e non un ragazzino, ha resistito a lungo in condizioni avverse. Merito, ripetono in famiglia, di un professore delle medie: un frate che se ne fregava dei libri e si portava dietro lo spirito libero Massimo. Lezioni nella natura di tecnica di bracconaggio, allenando la capacità di sorprendere, di giorno e perfino di notte, ogni sorta d’animale selvatico.

Massimo Riella, il "Rambo del lago di Como" in fuga ritrovato: clamoroso, dove era scappato. Libero Quotidiano il 18 luglio 2022

Cos'è che ha incastrato Massimo Riella? Parliamo del rapinatore scappato nei boschi vicino a Como quattro mesi fa e arrestato poi in Montenegro. La polizia sarebbe riuscita a individuarlo e fermarlo sabato scorso dopo aver intercettato una sua telefonata alla compagna: i due si erano sentiti per parlare di documenti falsi e programmare ancora la fuga del 48enne. Utilizzando un linguaggio in codice, avrebbero fatto intendere anche il Paese in cui sarebbe dovuta avvenire la consegna. Quando le forze dell'ordine lo hanno rintracciato - spiega il Corriere della Sera - lui sarebbe stato prossimo al cambio di identità.

In questi quattro mesi di latitanza, Riella si sarebbe spostato solo in bici. Per ora, però, nessuno riuscirebbe a capire come abbia fatto a raggiungere il Montenegro dalle montagne sopra Como, dove si era rifugiato dopo l’evasione del 12 marzo. Pare che ad ospitare il "Rambo del lago di Como", in un primo momento, sia stato un uomo collegato a dei giri di amicizie nate nei periodi di detenzione. Ma su questo punto non si sa nulla di più.

Il 48enne è un imprenditore edile ed era stato incarcerato a dicembre per la rapina a due anziani - che giura di non aver commesso -, poi era scappato approfittando di un permesso premio a Brenzio. Pare che avesse chiesto con insistenza di poter pregare sulla tomba della mamma Agnese; non riuscendoci, si era arrampicato sul tetto del penitenziario lanciando minacce. Da lì era partita la trattativa, che aveva portato a un accordo: cinque agenti l’avevano accompagnato al cimitero e quando avevano aperto la portiera del furgone lui, senza manette, aveva tirato calci e iniziato a correre. 

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2022.

Poi di sicuro, passionali e gelosi delle loro terre, si arrabbieranno e forse non ci faranno più entrare in paese, che conta un'unica strada d'accesso e d'uscita. Però i fatti questi sono: un'intera valle nasconde e protegge, veste e sfama Massimo Riella, fino al 12 marzo ignoto ai più e adesso, proseguendo a oltranza la sua latitanza, divenuto perfino leggendario come certi pirati del lago d'un tempo. 

Eppure, al di là di forzature mediatiche, Riella, evaso appena scese dal furgone della polizia penitenziaria (era senza manette) che l'aveva trasportato quassù a Brenzio per farlo pregare sulla tomba della mamma Agnese, da poco sepolta, «tira avanti una vita da schifo. Non fa altro che ripeterlo, preferisce la galera». 

Ma scusate, domandiamo a papà Domenico, ex gruista nella vicina Svizzera: ripeterlo a chi? «Oh insomma, sveglia! La gente se lo passa di casa in casa, il mio Massimo non vaga nei boschi cacciando a mani nude Lo tengono una notte a testa, quindi riparte. Semplice».

L'amico e la droga Riparte sbarbato e sfamato, la biancheria intima nuova, calze e maglioni di riserva. Ormai forse più sfuggente che fuggitivo. Signor Domenico, ma mica è un film, suo figlio deve consegnarsi. «Siamo già d'accordo che ce lo porto io, ai carabinieri. Prima però bisogna arrestare il vero colpevole. Il mio Massimo è mezzo matto, m' ha fatto disperare Però non è tipo da picchiare gli anziani. Lui è fuggito per dimostrare la propria innocenza. Anche se ho il terrore che voglia farsi giustizia da solo. Casomai l'accoppa...». 

Un attimo: siete contati, vi conoscete tutti, dunque chi sarebbe l'altro? «Non ricordo il nome. Un amico di Massimo. Traffica con la droga».

Il Dna sul coltello Riella, 48 anni, una figlia dall'ex moglie, una seconda compagna, imprenditore edile, era stato catturato a dicembre con l'accusa d'aver aggredito e derubato di settecento euro una coppia di novantenni di casa lungo la via che da Brenzio, ex municipio oggi frazione di 36 abitanti, scende al lago. Siamo oltre Dongo, nella zona alta del Lario. Quel predone era in passamontagna ma sull'arma impiegata, un coltello, gli investigatori avevano isolato un Dna. Il Dna di Riella, sul cui conto si vocifera in Procura di traffici di rifiuti e discariche abusive, a conferma di quanto proprio non sia un santo.

«Ma quale santo Per carità, avrà fatto sei, sette anni di cella, chi lo discute è scemo. Ma lui, anzi l'intera valle, che dico, ogni angolo delle montagne, esclude abbia preso di mira due poveri vecchi».

Lei quanti anni ha?

«Vado per gli ottantuno, in realtà sono giovanissimo. Mi stava scoppiando il fegato, bevevo un litro e mezzo di caffè al giorno per stare sveglio sulla gru. Mollai il lavoro, mi misi a studiare il corpo umano e le piante. Sono un naturista, regalo consigli per campare bene. Ad esempio, mi dia il polso Allora, allora Inizi a segnare: mele, cipolle rosse, tisana di ortica». 

Signor Domenico, resta il mistero sul (presunto) autentico rapinatore.

«Senta, quel tizio dormì da Massimo, a casa sua, e così ebbe l'occasione per incastrarlo, adoperando una lama sulla quale c'erano le impronte di mio figlio. Non ci vuole un genio». 

La caccia Sul furgone della Penitenziaria gli agenti erano cinque. L'autista fermò il mezzo a ridosso di un viottolo che conduce al cimitero, costeggiando prati e un pollaio. Una cinquantina di tombe. In fondo, quella del fratello Cristian, morto a 33 anni in un incidente di moto («Per forza, andava sempre a duecento all'ora»), e mamma Agnese. Ci sono dei fiori, e non è escluso che il Grande Evaso si sia regalato un'incursione. Dopodiché, a questo punto potrebbe sembrare che nessuno dia la caccia a Riella. Al contrario si sono mobilitati carabinieri e finanzieri, ed è falso che l'indagine sia cessata per risparmiare soldi.

O meglio, non era sostenibile spedire intere squadre sui bricchi, contando sulla presenza di residenti che fungono anche da sentinelle. Allora s' è ripiegato sull'analisi strategica, la coltivazione di informatori, l'attesa di dritte. Alla fine, cadono tutti. E i pizzini lasciano tracce. Sì, la notte mani anonime depositano fogliettini sotto sassi e dietro la ruota d'un trattore. Messaggi di Massimo Riella ai compaesani, o compagni di lotta.

Evaso nei boschi di Como, parla la figlia di Massimo Riella: «Certo che la gente lo aiuta. È testardo, non sa stare da solo». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.

Il detenuto è scappato il 12 marzo dal cimitero di Brenzio (Como) accompagnato dalla polizia sulla tomba della madre. Silvia, 20 anni: «A modo suo è un bravo padre, ma è una testa calda. Quando è solo gli manca l’aria». L’ex compagna: «Si deve consegnare, lo faccia per i suoi figli». 

Allora Silvia, non per farci gli affari vostri: ma Massimo Riella che papà è?

«Beh, a modo suo, un bravo padre. Che in generale sia una testa calda, ritengo sia inutile ripeterlo».

Il signor Domenico, cioè suo nonno paterno, ha precisato che lui, cioè Massimo, è mezzo matto ma molto generoso, uno che fa favori senza nemmeno chiedere grazie. Insomma, non è un caso che, da quand’è evaso lo scorso 12 marzo, la gente del paese e della valle lo nasconda e protegga, gli regali cibo e vestiti. Forse però, dapprincipio è stata un poco esagerata la narrazione di un uomo che sopravvive nei boschi cacciando a mani nude. Cosa ne pensa?

«Ma dai, su... Per forza che gli stanno dando un aiuto. Dopodiché, cosa vuole che le dica? Chiaro che ogni giorno in più, papà peggiora la propria situazione».

Dunque basta con la latitanza, si deve consegnare, anche premettendo che rimane convinto d’essere finito in una trappola?

«Ne ha combinate parecchie. Ma parecchie proprio. Però no, nel caso specifico non è tipo da entrare nelle case degli anziani e rubar loro i soldi».

Silvia, ventenne, è la figlia avuta dalla prima moglie da Massimo Riella, 48 anni, per appunto incarcerato a dicembre con l’accusa di un’aggressione contro due anziani che abitano nel paese di sotto al suo, che è Brenzio, 36 abitanti e 500 metri d’altitudine, in provincia di Como, nella parte alta del lago; per voce del signor Domenico, suo padre incontrato dal Corriere sabato nello studio-laboratorio (è un naturista, consiglia diete per disinfettare l’organismo), si sa che Riella, evaso gabbando cinque agenti della penitenziaria che lo scortavano, sempre a Brenzio e durante un permesso per pregare sulla tomba di mamma Agnese, giura la propria innocenza in merito al colpo, avvenuto, sostiene, per mano di un altro tizio, uno che traffica in droga, ed è convinto d’esser stato incastrato, per quale motivo e come lo s’ignora, essendoci le impronte del Grande Evaso sul coltello brandito dal predatore degli anziani. Torniamo dalla figlia, aggiungendo nel mentre che in questa storia, assai rischiosa perché nessuno può prevedere eventuali degenerazioni di Riella, che potrebbe anche cercare di farsi giustizia da solo, gli attori son tutti quanti sinceri. Una qualità del posto, insieme ai difetti, a cominciare dalla collaborazione al latitante; una collaborazione che equivale al favoreggiamento.

Non è la prima volta che suo padre è finito in galera, come ricordato dal nonno, a margine della prescrizione di una dieta. Tre giorni soltanto di mele...

«Le ho in mente, le diete. Sono assai dure. La galera di papà? Erano robe di droga e furti».

Quale furti?

«Si fregava il materiale del prossimo».

Nello specifico?

«Lui ha un’attività imprenditoriale, nel settore edile».

Il signor Domenico riferisce che trattasi di un abilissimo muratore.

«Papà aveva rubato per esempio del parquet, che poi aveva rivenduto. Irrompere da due anziani, terrorizzarli con un coltello in mano, io lo ribadisco: non ce lo vedo».

Detto del genitore, che tipo di uomo è suo padre?

«Un testardo. Se è convinto di una cosa, non c’è verso di farlo tornare indietro».

Rimarrà anni sui bricchi.

«Vediamo. Se scende e torna in prigione, evita quantomeno di complicare ulteriormente la situazione. In ogni modo, a proposito dell’uomo: ecco, ha due enormi passioni, le moto e le montagne. Inoltre insegue la compagnia, senza compagnia gli manca l’aria».

Difatti la latitanza è accompagnata da più d’uno.

«Star da solo non gli piace: è l’esatto contrario dell’eremita di montagna».

Ora, già che c’eravamo abbiamo cercato la donna che risulta essere l’attuale compagna di Riella. In realtà, specifica lei, «ci siamo separati un anno fa, rimanendo però in rapporti civili per il bene dei nostri due figli, minori».

La donna si chiama Sara.

Anche a lei chiediamo il suo pensiero sulla fuga.

«Senta, gliel’avranno già raccontato: Massimo è proprio una testa calda. Lo conosco bene, ovviamente. Ma, stando sul tema dei figli, con i piccoli si è sempre comportato bene, nulla da obiettare».

Ha un messaggio per lui?

«No».

Nel senso, se glielo domandiamo, che si sente di dire a Massimo?

«Non sono addentro l’indagine, leggo e osservo a distanza. Ma avrei una frase logica, direi l’unica possibile: “Massimo, adesso falla finita, pensa ai tuoi figli e chiudi questa vicenda, presentandoti al cancello della prigione”».

Crede pure lei che l’ipotesi di una rapina agli anziani non stia in piedi? Però l’indagine è stata accurata, ci sono delle prove.

«Se aveva bisogno di soldi, non serviva inventarsi un agguato: bastava presentarsi dal papà e come sempre gli avrebbe dato il denaro. Non vedo dove fosse il problema».

Massimo Riella, il kit da latitante nei boschi: corda, pentolino, riso, coltello, guanti di lana e rasoio. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.

Massimo Riella, bracconiere di 48 anni, è evaso il 12 marzo mentre gli agenti di Polizia penitenziaria lo accompagnavano al cimitero sulla tomba della madre. Un mese di fuga in Val di Liro, a mezz’ora dal paese natale di Brenzio (Como). Negli ultimi quattro giorni il silenzio con i familiari.

Corda d’arrampicata. Pentolino. Guanti di lana. Rasoio. Confezione di riso. Tre pacchetti di sigarette. Coltello. Maglietta intima. E uno zaino color verde militare a ospitare tutti questi oggetti: il kit da latitante di Massimo Riella, il 48enne evaso il 12 marzo e da allora fuggiasco sulle montagne dietro Dongo, nella parte alta del lago di Como. O forse no, perché «me l’hanno ucciso» ripete il padre Domenico, e allora Riella giacerebbe senza vita in qualche parte nei boschi. Magari nella stessa Val di Liro, a mezz’ora dal paese natale di Brenzio, neanche quaranta abitanti, e luogo dove venerdì sera sarebbe successo l’epilogo della caccia, che peraltro, secondo fonti investigative, al contrario prosegue, essendo lo stesso Riella ancora vivo.

La sparatoria con la polizia

Forse ferito, ma vivo. O forse neanche ferito e dunque saremmo dentro l’ennesima puntata (oppure recita?) di una sorta ormai di saga. Quella del bandito imprendibile, che si professa innocente (lo misero in galera a dicembre con l’accusa d’aver aggredito e derubato una coppia di novantenni), e che anzi giura d’esser vittima di una trappola. Arrestarono lui e non il vero colpevole, un suo amico che traffica in droga. Ora, nella Val di Liro i proiettili, esplosi dalla pistola di una guardia penitenziaria, son davvero partiti. Erano le 20. Una coppia di agenti monitorava papà Domenico e l’aveva seguito quand’era uscito, con un’evidente destinazione: il figlio. Accortosi del pedinamento, peraltro lungo strade deserte fra i campi, l’anziano, prossimo agli 81 anni, aveva cercato l’accordo con la penitenziaria, ottenendo che una sola guardia salisse a incrociare Riella. Così era avvenuto, l’agente e il latitante avevano cominciato a parlare, forse avviando una trattativa, senonché, s’ignora se per sbaglio, reazione a una resistenza o a un tentativo di disarmo da parte dell’evaso, oppure in conseguenza di un’azione volontaria, quella guardia aveva sparato. In aria, secondo la versione della penitenziaria e al vaglio della Procura di Como, per spingere Riella a desistere; ad altezza d’uomo secondo l’opposta convinzione del papà, testimone della scena («Ero lì a un metro»).

Le ricerche nel Comasco

Il signor Domenico, e con lui Silvia, la primogenita ventenne del latitante, hanno chiesto al Soccorso alpino d’avviare le ricerche, poiché a ieri sera — martedì 12 aprile — erano quattro giorni di silenzio totale di Riella, che prima di venerdì aveva sempre comunicato i propri spostamenti, anche servendosi di pizzini veicolati dai compaesani e dai valligiani che l’hanno accolto, fatto dormire e nutrito. Come andrà a finire ammesso che non sia già tragicamente finita? Il papà Domenico: «Sta passando troppo tempo e non ci sono novità… Io aspetto, alimento la speranza… Non sono credente, ma la notte parlo con Agnese e Cristian, e li prego di proteggere Massimo. Gli ho insegnato come sopravvivere nei boschi, come curare le ferite, quali erbe usare per alimentarsi… Io sono un bracconiere, lui è un bracconiere… Aveva imparato dai frati. Ce l’avevo mandato dopo le elementari, per rimetterlo in riga». Servì? «Figurarsi. C’era un fratone che andava a cacciare di frodo, si portò dietro Massimo e lui si impratichì… Solo che la cacciagione se la tenevano i religiosi…».

La famiglia di Riella

Quei due nomi menzionati, Agnese e Cristian, sono la moglie e il secondogenito di Domenico. Riposano nel cimitero di Brenzio. In carcere, Riella aveva insistito affinché potesse visitare la tomba della madre, deceduta da poco (il fratello era scomparso a 33 anni in un incidente di moto). Quel 12 marzo, cinque guardie penitenziarie avevano accompagnato il detenuto il quale, appena il mezzo si era fermato, non ammanettato aveva scalciato due agenti ed era corso via. La rapina ai due anziani è di dicembre. Inutile insistere, con i famigliari di Riella, sottolineando che spetta alla giustizia accertare i fatti; inutile aggiungere che le indagini sono state approfondite e suffragate dalle decisioni dei magistrati, e per la cronaca, avendo il Corriere letto le carte, comprovate da minuziose descrizioni delle vittime relative proprio a Riella. Dal bel panorama sul lago offerto dalla terrazza, il signor Domenico s’àncora a una domanda: «Massimo dove sei?».

Como, Massimo Riella in fuga da due mesi nei boschi sfamato dalla gente. «Arrenditi o non sarai più mio figlio». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.

Il 48enne evaso durante una visita alle tombe della madre e del fratello Cristian, il 12 marzo. L’appello del padre: «Sei innocente, ti prego torna a casa». Riella deve scontare la condanna per una rapina con aggressione a due anziani che abitano nella zona di Brenzio. 

Per dirla col papà, «il mio ragazzo è sparito». Il che — spiegando il concetto di Domenico Riella — non sottintende una sparizione del figlio Massimo in conseguenza della latitanza: già lo sapevamo, e giovedì saranno due mesi che lui evase e si nascose su questi monti dietro Dongo, sul lago di Como. La sparizione così va intesa: «Da quattro, cinque settimane non lo sento… Ma adesso basta. Lei mi dia una mano». In che senso? «Un appello. L’appello di un padre che non ne può più. La mossa di un padre che gioca l’unica carta possibile. E il mio appello è questo qui, poi lo diffonderò anche in televisione: “Ascolta Massimo, il film è finito. Fi-ni-to, d’accordo? C’è il primo tempo, il secondo tempo, dopodiché la gente si alza e va a casa sua. Arrenditi, consegnati, smettila una buona volta. Altrimenti non sarai più un mio figlio. Te lo giuro. Mai più. E ne ho perso già uno, di ragazzo, ho soltanto te...».

La condanna e la fuga

Dunque il 48enne Massimo Riella, fino al 12 marzo totale sconosciuto se non agli imprenditori edili ai quali rubava materiale da rivendere, ad esempio il parquet, rimane imboscato. Quale sia la strategia, ammesso che ne abbia una, lo s’ignora. Che si presenti nella caserma dei carabinieri domani oppure a Natale, ha il destino segnato: tornerà in prigione, per scontare la condanna relativa alla rapina con aggressione in danno di due anziani che abitano a breve distanza dalla natia Brenzio, 36 abitanti, tra le cui più estese proprietà vi sono quelle proprio dei Riella. Papà Domenico fu un operaio gruista in Svizzera e da tempo s’è reinventato «naturista», una sorta di consigliere sulle pratiche della sana esistenza. Non è un santone, perlomeno non si definisce tale; il popolo, compresi stranieri, crede in lui, e viene in pellegrinaggio — confermiamo per averlo visto — a domandare lumi su infiniti argomenti dal diabete alla pelle secca, dalla prostata a come avere finalmente una gravidanza.

In una fase iniziale era stato lo stesso papà a tenere i contatti col fuggiasco, il quale aveva chiesto il permesso di visitare la tomba della madre Agnese, appena morta: ma non appena cinque agenti della penitenziaria erano scesi e avevano aperto la portiera del furgone, quello era scattato a tradimento filando via (in precedenza gli avevano tolto le manette). Nel minuscolo cimitero, al fianco della mamma riposa anche il fratello Cristian, che perse la vita in un incidente di moto. Ora, un’abbondante quota di residenti sui bricchi, contadini e allevatori avevano — e si desume che continuino a farlo — garantito all’evaso protezione, cibo, mutande, sigarette, un letto a rotazione per rifiatare; fra loro, qualcuno s’era offerto quale staffetta per depositare a Brenzio dei pizzini, messaggi su foglietti nei quali Riella comunicava cosa gli servisse.

«Io sono innocente»

Osservando il padre, seguendolo mentre andava in quota sulla sua macchina, una sera due agenti avevano agganciato il fuggiasco, che aveva reagito lanciandosi in un dirupo, inseguito dai colpi di pistola sparati in aria per convincerlo a fermarsi. Il papà e la figlia Silvia, avuta da Riella nel primo matrimonio (ha inoltre due bimbi con l’ultima compagna dalla quale si è separato), avevano evocato un omicidio o un ferimento, col fuggiasco che si trascinava in agonia. Approfondite ricerche non hanno permesso di rinvenire nessun corpo. E manco una traccia di sangue. Una messinscena? Non dice come, ma papà Domenico ha avuto contezza che Massimo stia bene. Per la cronaca, l’evaso si ritiene innocente: il vero responsabile sarebbe uno spacciatore. «Siamo d’accordo con l’avvocato. Io insisto: “Massimo piantala, presentati alle autorità. Non sei colpevole, ma se perseveri a scappare non ti crederà nessuno”». 

Arrestato in Montenegro il latitante Massimo Riella: era evaso quattro mesi fa durante la visita alla tomba della madre. La Repubblica il 17 Luglio 2022.  

Il 48enne comasco aveva ottenuto un permesso per andare al cimitero, era il 12 marzo e da quel giorno era sparito. Per settimane si era nascosto nei boschi, poi il passaggio all'estero.

È finita dopo quattro mesi la latitanza di Massimo Riella, il 48enne evaso dal carcere il 12 marzo durante un permesso premio per recarsi sulla tomba della madre. La notizia della cattura è stata data dalla Provincia di Como. Il fuggitivo comasco è stato trovato in Montenegro, a 1.300 chilometri dai boschi nei quali era riuscito a nascondersi per settimane nonostante una imponente caccia all'uomo e forse grazie alla complicità di qualcuno che, sulle sue montagne che conosceva benissimo per la sua attività di bracconiere, lo aveva aiutato a nascondersi.

La fuga lunga 125 giorni è finita dopo che Riella per mesi è riuscito a sfuggire a ogni tentativo di cattura. Come riporta il sito del quotidiano, "anche quando uno degli agenti di polizia penitenziaria era riuscito a incontrarlo per tentare di convincerlo ad arrendersi e a costituirsi", era scappato di nuovo. "Quel tentativo era finito con una nuova fuga e l'accusa - che si è dimostrata del tutto inattendibile - del padre di Riella di un ferimento del figlio da parte dello stesso agente della penitenziaria", si legge nell'articolo.

Massimo Riella catturato in Montenegro: le tracce seguite dagli investigastori e il blitz

Gli investigatori hanno scoperto che negli ultimi giorni Riella era riuscito ad allontanarsi dall'Italia e per questo è stato spiccato un mandato di cattura internazionale. È stato il servizio di cooperazione internazionale dell'Interpol a comunicarne la cattura al Nucleo investigativo della Polizia penitenziaria che ne aveva seguito le tracce da tempo e che aveva segnalato al Servizio per la cooperazione internazionale di polizia (Scip) la sua presenza sul territorio montenegrino. Ora la magistratura italiana si è attivata per far scattare un arresto su domanda di estradizione.

Grazie alle articolate e complesse indagini svolte dal Nucleo investigativo regionale della Lombardia e coordinate dal sostituto procuratore di Como Alessandra Bellù, dalla fine di giugno gli uomini del Nic hanno mantenuto contatti diretti e costanti con i servizi di cooperazione internazionale, segnalando Riella dapprima in Montenegro, poi in Serbia e successivamente di nuovo in Montenegro. Fino a localizzare con precisione il luogo dove il fuggitivo aveva trovato rifugio, comunicandolo ai reparti speciali della polizia montenegrina che hanno eseguito il blitz.

Massimo Riella, ecco come il latitante è fuggito dal cimitero e si è nascosto nei boschi di Como

Il 12 marzo Riella, detenuto dal dicembre precedente nel carcere Bassone di Como in custodia cautelare con l'accusa di aver rapinato due anziani, era uscito sotto scorta per andare al cimitero di Brenzio, paesino sul lago di Como, per un saluto alla tomba della madre. Era bastato che per pochi minuti l'uomo restasse senza manette per consentirgli di sfuggire agli agenti. Poi per mesi era sparito nei boschi impervi del comasco, che conosceva bene dati i suoi trascorsi da bracconiere, probabilmente aiutato da amici e conoscenti, cacciando per procurarsi cibo e nascondendosi. Fino a quando di lui si è persa ogni traccia. 

Massimo Riella preso in Montenegro, tra fughe rocambolesche e caccia all'uomo: chi è il latitante nascosto nei boschi.  Lucia Landoni La Repubblica il 17 Luglio 2022.  

Il 48enne era in carcere a Como da dicembre per una rapina, ma a marzo, approfittando di un permesso per visitare la tomba di sua madre, è scappato. Per mesi l'hanno cercato sui monti che conosce bene, dove qualcuno lo avrebbe aiutato.

Bracconiere, piccolo rapinatore, detenuto, evaso, novello Robin Hood (anche se con scopi decisamente meno nobili) in fuga nei boschi del Comasco - ricercato dalle forze dell'ordine ma, in base alle ricostruzioni degli investigatori, sostenuto da gente del posto che gli forniva riparo e cibo all'occorrenza - e infine latitante con un mandato di cattura internazionale sulla testa: negli ultimi mesi Massimo Riella, il 48enne arrestato in Montenegro dopo un'imponente caccia all'uomo durata 125 giorni, ha assunto tutte queste identità, assoluto protagonista di una vicenda degna di un film d'azione.

Era evaso durante una visita alla tomba della madre al cimitero. Massimo Riella, finita dopo 4 mesi la fuga da film: fermato in Montenegro il ‘cacciatore dei boschi’. Redazione su Il Riformista il 17 Luglio 2022. 

La fuga è finita, gli interrogativi no. Dopo quattro mesi è terminata la caccia a Massimo Riella, il 48enne scomparso nel nulla il 12 marzo scorso, quando durante un permesso premio per visitare la tomba della madre al cimitero di Brenzio (Como) si era dato alla macchia, trincerandosi nei boschi sopra il lago di Como.

Riella, che doveva scontare una pena per un’aggressione con rapina nei confronti di una coppia di anziani, aggressione per cui lui si è sempre dichiarato innocente, è stato rintracciato in Montenegro. Come  il 48enne con la passione per le moto sia riuscito a raggiungere il Paese dei Balcani è attualmente un mistero.

Una vicenda che era diventato un caso nazionale. Riella per mesi era riuscito a sfuggire alle ricerche delle forze dell’ordine nascondendosi tra i boschi, una fuga degna di un film, cacciando la selvaggina per sopravvivere ma soprattutto col sospetto da parte degli inquirenti di una sorta di ‘protezione’ da parte dei cittadini della valle. 

L’ultimo contatto era avvenuto ad un mese dalla fuga, quando agenti della polizia penitenziaria lo avevano avvistato nei boschi sopra Dongo. Dopo alcuni spari Riella era però sparito di nuovo. “La gente se lo passa di casa in casa, il mio Massimo non vaga nei boschi cacciando a mani nude – aveva detto il padre Domenico, ex emigrante gruista in Svizzera poi convertitosi al mestiere di naturista -. Lo tengono una notte a testa, quindi riparte. Semplice. Siamo già d’accordo che ce lo porto io, ai carabinieri. Prima però bisogna arrestare il vero colpevole. Il mio Massimo è mezzo matto, m’ha fatto disperare… Però non è tipo da picchiare gli anziani. Lui è fuggito per dimostrare la propria innocenza. Anche se ho il terrore che voglia farsi giustizia da solo. Casomai l’accoppa…”.

Secondo quanto ricostruisce il Corriere della Sera, Riella per almeno due mesi si sarebbe nascosto nei boschi sopra il lago, dove il 48enne era di casa. Ma l’uomo da tempo si trovava all’estero, forse riuscendo proprio nel corso della sua detenzione a crearsi una rete all’estero: l’ipotesi è che in cella abbia legato con dei montenegrini, o che qualcuno lo abbia messo in contatto con loro. 

In ogni caso raggiunti i Balcani Riella si sarebbe nascosto anche lì in località sperdute, vivendo tra la natura e adattandosi all’ambiente, lui che in montagna è nato e cresciuto.

Separato dalla moglie, da cui aveva avuto una figlia, e diviso dalla compagna (da cui ne aveva avuti altri due, Riella era riuscito ad ottenere il permesso premio per recarsi sulla tomba della madre morta di cancro il marzo scorso grazie a singolari proteste in carcere, tra cui una arrampicata fino al tetto del penitenziario.

Massimo Riella, droga e armi nel covo: le perquisizioni in Valsassina. Il padre: «È un pazzo». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.

Le indagini dopo la cattura del latitante in Montenegro. Attesa per l’estradizione. Caccia ai compaesani e ai commercianti che hanno protetto la fuga. L’ipotesi che lo stessero per «vendere». Così l’amante slava l’ha tradito. Il padre: «Venti giorni fa l’ultimo contatto. Non so più cosa abbia in testa Massimo»

Il diretto interessato è un caso chiuso. Soltanto lui però, ovvero l’ex perfetto sconosciuto Massimo Riella, 48 anni, evaso il 12 marzo, catturato sabato in Montenegro in un appartamento della capitale Pogdorica, e divenuto tra fine primavera e inizio estate antologia della latitanza. Incerti i tempi dell’estradizione, però a chi indaga qui in Italia – carabinieri e polizia penitenziaria –, i tempi poco o nulla importano. Adesso, conclusa l’estenuante ricerca nonostante Riella avesse un modesto peso criminale nonché scarsi mezzi economici, di relazioni delinquenziali e crediti da riscuotere, è iniziata la fase 2. Che sarà intensa e implacabile. Compaesani e commercianti l’hanno nascosto, protetto, vestito, cibato; gli hanno dato, s’ignora se per puro animo generoso e una sorta di solidarietà inter pares – insomma valligiani che un po’ pensano di vivere in una Repubblica autonoma, quindi alieni alle regole dello Stato – posti letto, trappole per catturare animali, stecche di sigarette. E forse pure altro. 

La rapina ai due novantenni

Se è notorio il passato di illeciti di Riella – furti di parquet ai concorrenti quand’era imprenditore edile, e soprattutto storie di droga –, sono stati gli stessi familiari e i conoscenti, nel corso di questi quattro mesi di mezze bugie, presunte dritte, improponibili versioni, a rivelare la sua vicinanza con gli stupefacenti. Potrebbe essere un caso, ma magari no, per niente, che dalle prime perquisizioni condotte dai carabinieri nell’intera, vasta area primo nascondiglio di Riella siano saltate fuori dosi e armi. Il tempo ci dirà un eventuale collegamento diretto sia con l’ex fuggiasco che con i fiancheggiatori. Che sono tanti. L’intenzione della Procura, che coordina il Comando provinciale dell’Arma di Como, è quella di procedere – conviene ricordarlo – senza sconti né esitazioni. Al netto delle oggettive difficoltà logistiche delle indagini, praticamente estese nell’infinito, sui bricchi tra le sponde del lago e la Svizzera senza contare gli sconfinamenti del ricercato nel Lecchese e in Valtellina, rimarrà innegabile la densa coltre di omertà, di mancata collaborazione, di sfida perpetua alle forze dell’ordine. Nemmeno stessero coprendo un bimbo che giocava a nascondino: il pregiudicato Massimo Riella era stato arrestato lo scorso dicembre con l’accusa di aver rapinato due novantenni del paese sotto il suo, Brenzio, una frazione di 60 abitanti con un’unica strada per entrare e uscire. Prendere di mira, a casa loro, due poveri anziani per raccattare delle banconote… Ma si può? Il papà 80enne Domenico, ex operaio sulle gru in Canton Ticino e oggi naturista, cioè esperto in consigli su come campare bene rispettando il corpo – sì mele, bagni turchi e verdure; no caffè, alcol e cene – ha detto, ripetuto e ancora ripetuto che d’accordo tutto, ma una cosa così schifosa, «aggredire due vecchietti», non è «roba da Massimo. Impossibile». Eppure abbiamo letto il fascicolo del fatto, non certo un rapido riassunto per archiviare la pratica quanto un’inchiesta assai strutturata, e ogni elemento converge contro Riella a cominciare dalle nette testimonianze delle stesse due vittime.

Da mamma Agnese

Il signor Domenico ha avuto l’ultimo contatto col figlio una ventina di giorni fa. Il latitante stava in Valsassina. Non s’erano visti o sentiti: era stata una persona, l’ennesimo fiancheggiatore, a veicolare a Brenzio informazioni circa le condizioni di salute. «Stava bene, nonostante la ferita… Di sicuro, il mio Massimo è definitivamente un pazzo. Un pazzo colossale. Ma perché non si è consegnato? Oh, quante volte gliel’ho detto… Lui no, testone di uno… Dio mio, cosa diavolo gli è saltato in mente di andare là in Montenegro? Di lasciare l’Italia peggiorando ancor più la situazione?». Situazione che risulta infatti grave, gravissima, dovendo sommare all’evasione altri reati. Stavolta la permanenza in cella sarà lunga. E gli monteranno una guardia bestiale. Mica come l’altra volta, per appunto il 12 marzo, incipit di questa narrazione investigativa sovente esondata in commedia umana. Da giorni Riella, detenuto nel carcere di Como, protestava per andare a pregare sulla tomba della mamma Agnese, deceduta da poco. Per sostenere la vertenza, da uomo scarsamente incline alle trattative verbali, aveva preso e s’era arrampicato sul tetto del penitenziario. Del resto è uno con la passione di salire sui bricchi impennando con la moto da cross, e fa niente se basta un centimetro sbagliato per precipitare. Ebbene, da lassù Riella aveva minacciato gesti (ulteriormente) inconsulti. Sicché si erano dovuti arrendere e avevano accordato l’accompagnamento a Brenzio.

La discarica

Entrando nella frazione di Brenzio, a sinistra si scende al cimitero percorrendo una stradina, mentre a destra sorgono le proprietà immobiliari dei Riella. Prima delle proprietà, sorge un prato in pendenza in realtà discarica essendovi abbandonati mattoni, pietre, pezzi di mezzi agricoli, bidoni. Ma andiamo avanti. Sul furgone della penitenziaria le guardie erano cinque. Riella non aveva le manette, o meglio non le aveva al momento di scendere. C’è un’indagine anche su questa anomalia anche se pare che, contando sulla disarmante superiorità numerica, il capo della missione volesse consentire a Riella di vivere il momento e di farsi vedere dai compaesani senza i ferri ai polsi. Fatto sta che appena toccato l’asfalto il detenuto aveva mollato due calci e cominciato a correre. L’avevano subito perso. Per la cronaca, nel cimitero, al fianco della mamma, riposa anche l’unico fratello, Cristian, che perse la vita trentenne in un incidente in moto. «Per forza – ci aveva spiegato papà Domenico – prendeva le curve dei paesini a duecento all’ora». Ma, di nuovo, andiamo avanti. Comunque sottolineando che l’insistenza per visitare la tomba era un’enorme balla. Riella studiava come evadere e quella gli sembrava un’occasione vincente.

Il lancio kamikaze

Per lavare l’onta la polizia penitenziaria aveva innescato un caccia furiosa. Furiosa ma pianificata e in forze. Anche i carabinieri del comandante provinciale, il colonnello Ciro Trentin, erano naturalmente entrati in partita. Soltanto che la partita s’era presto trasformata in un muro contro pacifiche ma dirimenti bande ribelli. Chi oggi e chi domani, via via i valligiani avevano badato a che Riella non venisse catturato. Gli inseguitori ci erano andati vicino, ma vuoi per il sopra menzionato dilatato terreno di scontro – che facevano, spedivano cinquecento uomini guidati da tre elicotteri? – vuoi appunto per la progressione della rete di copertura finanche con divertimento di compaesani e montanari nel fregare le forze dell’ordine, i giorni avevano iniziato a passare. E del latitante nessuna traccia. Fino ad aprile, quando si sparse la voce di un presunto conflitto a fuoco, con i colpi esplosi da due guardie penitenziarie le quali, seguendo papà Domenico, era arrivate a ridosso di Riella, lo avevano acciuffato ma quello s’era divincolato, allora i poliziotti avevano sparato in aria per intimargli di fermarsi ottenendo il lancio kamikaze del fuggiasco in un burrone. L’indomani, a Brenzio, la notizia era questa: «L’hanno ammazzato». Siccome però le accurate ispezioni non avevano evidenziato nemmeno una goccia di sangue nella zona, e siccome ulteriori ispezioni avevano escluso la presenza d’un cadavere – non degnando di menzione, per carità, la vulgata secondo la quale gli animali selvatici avevano divorato l’intero corpo in un amen -, ecco, nella frazione avevano modificato il racconto evocando un Massimo Riella terribilmente ferito da un proiettile e prossimo a spegnersi dissanguato. 

L’amante

Ora, uno arriva in Montenegro con un proiettile nel petto, o ammesso che l’abbiano medicato e curato affronta un viaggio così disperato – da Como a Podgorica son 1.200 chilometri non di agevoli autostrade – in precarie condizioni fisiche? A proposito, mancano un’altra domanda e la sua risposta: ma come ci è andato a Podgorica? Treno, camion, macchina? Tocca a lui spiegarlo. A meno che il falsario, cui l’ennesima amante di origine slave di Riella, separato dalla moglie (una figlia) e separato pure dalla compagna (due figli) ha telefonato ignorando di cadere in una rete di telefonate intercettate, di fatto sigillando la chiusura della caccia, ecco a meno che il falsario, qui in Italia, per alleggerire la propria posizione racconti tutto quanto ai carabinieri. Si venda Riella. Ma d’altronde si crede che la sparizione dalle montagne sia stata una conseguenza dell’aria che tirava. Martellati, i fiancheggiatori stavano cedendo ed erano prossimi a tradirlo. «Tempo al tempo», ci disse all’epoca un investigatore. Tempo al tempo. Quello da calcolare in cella, magari facendosi portare l’abbondante rassegna stampa sulle proprie durature peripezie da (ex) perfetto sconosciuto destinato a rientrare nell’anonimato.

Omicidio di Budrio, 5 anni fa il caso del killer Igor il russo: la storia. Giuseppe Baldessarro su La Repubblica l'8 aprile 2022.

La lunga scia di sangue ha inizio la sera dell'8 aprile 2017: Norbert Feher uccide la guardia ecologica Valerio Verri e ferisce il compagno di pattuglia Marco Ravaglia.

E' la sera dell'8 aprile 2017, la guardia ecologica Valerio Verri e l'agente della provinciale Marco Ravaglia sono di pattuglia antibracconaggio assieme. E' l'ora del tramonto e pensano a un ultimo giro di controllo prima di rientrare a casa. Sono in via Spina, nel Mezzano, una strada di campagna tra Consandolo e Molinella, paesoni a cavallo tra le province di Bologna e Ferrara. Sul Fiorino che incrociano c'è una faccia nuova per quei posti ricchi di canali, forse un pescatore di frodo. Invertono la direzione di marcia e gli vanno dietro.

Dura poco, perché il mezzo si ferma con calma in uno slargo. Verri resta in auto, mentre Ravaglia va verso l'uomo che sta scendendo dal furgoncino. Poi i colpi di pistola rapidi, immediati, prima verso di lui, poi sul suo compagno che resta inchiodato al sedile. L'agente si finge morto. L'assassino lo scuote con un piede per verificare, quindi lo trascina per una gamba in maniera da liberare la carreggiata. Riparte con lo stesso Fiorino e sparisce nel nulla.

Torna nell'ombra Norbert Feher. O meglio, torna nell'ombra quello che inizialmente era conosciuto come Igor Vaclavic, o Igor il russo, come lo chiamano molti. Ed è quella sera che parte la caccia allo spettro che terrà in apprensione per interi mesi un pezzo di territorio della "Bassa". Quella notte scatta la caccia per la quale saranno impiegati centinaia di uomini dei carabinieri, reparti speciali e tecnologie d'avanguardia. Tutto inutile, fino al 15 dicembre successivo. Fino al suo arresto a migliaia di chilometri di distanza, in Spagna.

La belva, aveva già ucciso. Aveva ammazzato dopo anni di rapine e assalti ai casolari del ferrarese con una banda di slavi da cui poi si era staccato. Aveva ucciso il primo aprile, una settimana prima di assassinare Verri. La vittima prima vittima si chiamava Davide Fabbri e gestiva un bar con la moglie, a Riccardina di Budrio, nel bolognese.

L'uomo era entrato nel locale alle 9 di sera impugnando un fucile per portare via la cassa. Fabbri aveva reagito, ne era nata una colluttazione che li aveva portati nel retrobottega. Feher aveva estratto un pistola e gli aveva sparato due colpi al petto. Poi quello che i testimoni hanno descritto come "un uomo con gli occhi di ghiaccio" era sparito nella notte. Per poi riapparire nel Mezzano, e portarsi via la vita di Verri.

All'alba del 9 aprile la Compagni dei carabinieri di Molinella sembra un formicaio, arrivano decine di mezzi carichi di militari. Nel campo di fronte alla caserma gli elicotteri fanno la spola scaricando graduati. L'itera struttura diventa il quartier generale della caccia a "Igor". In quelle stanze si studia il personaggio, si analizza il territorio, si pianifica.

Nasce la "zona rossa", una vasta porzione di campagna e piccole frazioni dove l'assassino potrebbe nascondersi. "Igor" è scaltro, si muove con attenzione, è capace di stare nascosto in un buco qualsiasi per interi giorni.

Quelli che lo braccano partono a piccoli gruppi, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Si appostano sugli alberi, guardano nel buoi con i visori a infrarossi, portano con se cani molecolari. E cercano. Canneti, boschi, canali, campi e casolari abbandonati, setacciano ovunque. A volte trovano un giaciglio usato di recente, altre un capanno con i resti di cibi, ma di Feher nessuna traccia.

Col tempo si fa largo l'idea che il serbo si sia allontanato, gli investigatori lasciano il terreno per fare indagini diverse, su altri territori. I carabinieri hanno scoperto che potrebbe trovarsi in Spagna, aveva contatti da quelle parti, vecchi complici.

La guardia civil spagnola lo arresta il 15 dicembre, lo trovano svenuto sul ciglio di una strada esausto e sotto l'effetto di alcolici. Lo cercavano da ore perché era tornato a uccidere nella campagne di Teruel, in Aragona.

Si nascondeva in una tenuta agricola e quando è arrivata la guardia civil, chiamata dal proprietario, Igor ha di nuovo impugnato le armi. Sotto i suoi colpi sono caduti due militari, Victor Romero Pérez e Victor Jesus Caballero Espinosa, e il proprietario del ranch, José Luis Iranzo. Le impronte digitali dicono che è proprio lui, Norbert Feher, il killer che cercavano gli italiani.

La belva è in trappola. Agli investigatori dice tutto e nulla, li prende in giro. Non spiega come è scappato, chi sono i suoi complici, chi lo ha aiutato a fuggire. Afferma di aver sparato perché si sentiva in pericolo, perché glielo aveva detto Dio, che ne avrebbe potuto uccidere altri e che non era ancora finita. Sbagliava.

Nei mesi successivi è stato processato sia in Spagna che in Italia. Nessun rispetto per i giudici, niente pentimenti per le vittime, il ghigno ironico sempre stampato in faccia. Poi qualcuno gli ha detto che invece è finita davvero. E' stata la giustizia, quella iberica e quella italiana, che sono arrivati a condannarlo in via definitiva all'ergastolo. Sconterà prima la sua pena spagnola, poi quella italiana. E le sconterà entrambe. Sepolto dagli ergastoli, senza possibilità di fuga.

Mauro Giordano per corriere.it il 31 marzo 2022.

«Un colpo mi ha fatto esplodere l’omero, il secondo mi ha ferito alla spalla, il terzo ha preso il plesso brachiale e il quarto mi ha perforato un polmone, l’intestino e il colon. Sono vivo per miracolo, è come se fossi rinato». 

È una mappa del ricordo, del dolore e della paura quella che mostra Marco Ravaglia, 58 anni, agente della Polizia provinciale di Ferrara («sono un assistente, come un maresciallo» precisa). Ne sono quasi passati cinque di anni da quell’8 aprile 2017 che per lui ha rappresentato un personale viaggio di andata e ritorno dalla vita alla morte, una rinascita con nuovo nome: «il sopravvissuto di Igor». 

Una settimana prima (l’1 aprile 2017, ndr) era infatti iniziata la sanguinosa saga di Norbert Feher, diventato poi noto per l’Italia intera come «Igor il Russo» (nato in realtà nel nord della Serbia nell’81), il criminale che dopo aver commesso l’omicidio del barista Davide Fabbri durante una rapina al bar Gallo alla Riccardina di Budrio (Bologna) fuggì per otto lunghi mesi prima dell’arresto in Spagna.

Dopo aver attraversato 8 Paesi e aver cambiato 18 identità il 15 dicembre venne catturato a Mirambel, in Aragona, ma nel frattempo la sua scia di morte si era portata via altre quattro persone: la guardia volontaria Valerio Verri (quel maledetto 8 aprile a Trava di Portomaggiore, Ferrara) il pastore José Luis Iranzo Alquézar e i due poliziotti della Guardia Civil spagnola Víctor Romero Pérez e Víctor Jesús Caballero Espinosa (nel piccolo comune aragonese di Andorra prima dell’arresto, scaturito da un conflitto a fuoco). Come un belva feroce braccata Igor ferisce anche altre persone fino quando il 15 dicembre l’incubo finisce. Venne arrestato dopo un incidente stradale, poi i processi in Spagna e in Italia: condannato in via definitiva all’ergastolo in entrambi i casi. Sconta la pena nel carcere di Zuera, nel cuore della Spagna. 

«Diciamo che il tempo non ha cancellato nulla — sottolinea il 58enne —. Sono passati cinque anni ma il dolore sotto tutti i punti di vista è assolutamente lo stesso anche perché dalle 30 alle 50 volte durante il giorno mi capita di pensare a quei fatti. C’è un dolore interno ovviamente ma c’è anche quello esterno, perché come mi hanno detto i medici mi porterò i dietro i problemi di salute per tutta la vita. Ci sono momenti che ho un po’ meno male e altri di più, ormai ci sono abituato e sono diventati compagni di vita». 

Ravaglia, che conseguenze hanno avuto per lei le ferite provocate da Norbert Feher?

«La paralisi del braccio destro perché il proiettile mi fece esplodere l’omero in due pezzi. Fui trasportato a Cesena e ricordo tutto fino all’ingresso al pronto soccorso. Ci sono stati anche dei danni a delle vertebre. Su altri punti di vista diciamo che adesso sento le perturbazioni tre giorni prima che arrivino, ho acquistato questo potere (scherza, ndr). E poi il polmone e l’apparato digerente ovviamente non sono più tornati quelli di prima». 

Cosa faceva quell’8 aprile 2017 e cosa fa adesso?

«Diciamo che facevo quello che ritenevo e ritengo il lavoro più bello del mondo. Lavoravo in mezzo alla natura, la tutelavo e la proteggevo. Ora è tutto cambiato perché non svolgo più attività sul campo ma solo lavoro d’ufficio. Da distese di ettari verdi mi ritrovo dentro quattro mura ma preferisco sempre andare in ufficio. Anche con la pandemia ho sempre preferito lavorare nella sede della Polizia provinciale di Ferrara. Quel giorno stavo pattugliando il territorio insieme a Valerio Verri». 

A distanza di anni ritiene un pericolo inutile avervi mandato in quei giorni nelle campagne di Portomaggiore, sapendo che c’era un simile criminale in fuga?

«Innanzitutto bisogna sottolineare che il nostro Corpo non ha tra le responsabilità le ricerche personaggio con quel profilo di pericolosità. E infatti noi stavamo svolgendo una normale sorveglianza del territorio e della pesca, ci trovavamo a 40-50 chilometri da quello che era successo a Davide Fabbri a Budrio. Non avevamo avuto segnalazioni in merito, per noi si trattava di un servizio normale». 

E anche quel tipo di attività «normale» secondo lei in quei giorni non doveva essere sospesa?

«Con i “se” e con i “ma” possiamo ragionare a distanza di tempo. All’epoca si trattava di routine».

Cosa ha pensato quando Igor è stato arrestato e durante i processi? Si aspetta qualche risarcimento da lui?

«Non mi aspetto nulla perché è un nullatenente quindi non potrò mai neanche aspirare a forme di risarcimento materiale da parte sua, che tra l’altro non si è mai pentito. Anche ai tempi del processo di Bologna il mio avvocato in fase dibattimentale presentò un’istanza di risarcimento, ma più per prassi, perché era palese che non avrei mai visto un centesimo da quella persona e non lo vedrò mai. 

Ho seguito entrambi i processi, alla prima udienza in Italia non ero riuscito ad andare in tribunale perché l’emozione e lo stato d’animo erano ancora troppo scossi. Ricordo che quando ci fu la sentenza in Spagna sono rimasto collegato con il pc fino a mezzanotte aspettando la comunicazione. Quando l’ho sentita ho finalmente voltato una pagina. Non ho chiuso quel capitolo e non lo chiuderò mai, ma una pagina l’ho girata». 

Norbert Feher non si è mai pentito e anche nelle udienze si è mostrato freddo e spavaldo. Ha perfino aggredito gli agenti di polizia penitenziaria durante un trasferimento di carcere in Spagna. Lei sente di aver avuto giustizia?

«L’ergastolo mi è sempre sembrato giusto anche perché sono contrario alla pena di morte. Ritengo che sia sbagliata e che non andrebbe data a nessuno. Ovviamente non lo perdono, ma non odio». 

Lei e Valerio Verri quel giorno eravate armati?

«Io ero armato in qualità di agente, Verri essendo una guardia volontaria era disarmato». 

Cosa ricorda di quegli istanti, ha avuto la tentazione o la possibilità sparare?

«Dopo esserci fermati dietro al furgoncino dentro il quale c’era Igor tutto è successo in un’istante. Non ho fatto neanche in tempo a mettere il secondo piede a terra, una tempesta di colpi mi ha sovrastato. 

Consideri che sono alto un metro e 92 e peso 120 chili, per scendere dalla macchina ho dovuto fare una manovra con calma. Dopo essere stato raggiunto dai primi spari ho fatto come una torsione e per questo il quarto colpo mi ha praticamente attraversato. Io avevo la pistola nel cinturone con la doppia sicura e dopo aver sparato anche al povero Valerio Verri, Igor è venuto da me e siccome non riusciva a estrarre la mia pistola mi insultava». 

Ha sempre raccontato di essersi finto morto.

«Tenevo gli occhi chiusi e con un polmone perforato trattenevo il respiro. Lui mi ha girato il volto con la scarpa e mi insultava». 

Ha pensato che la volesse «finire» a quel punto?

«Sì, sono stati attimi interminabili in cui ho avuto la sensazione di essere come un animale braccato e finito. Alla fine ha preso la mia pistola, che infatti si trova ancora in Spagna». 

Dopo cinque anni cosa è cambiato nella sua vita? Affronta le cose diversamente?

«Ho sempre adorato la vita e l’ho sentita sfuggirmi dalle mani. In particolare sentivo di stare perdendo qualcosa di molto prezioso: mia moglie. Perderla sarebbe stato il dispiacere più grande (entrambi sono al secondo matrimonio e la moglie di Ravaglia ha un figlio nato dalle nozze precedenti,ndr). Posso dire che da quel momento viviamo in simbiosi, è come se lei fosse diventata veramente una parte di me».

Si è convinto del fatto che nei momenti più bui si scopre una luce?

«In tutta la mia vita anche nei momenti peggiori ho sempre cercato un lato positivo nelle cose che mi capitavano. Ho fatto esperienza già da piccolo quando mio padre morì: avevo solo sette anni. Ma ne sono convinto: anche nella più grande delle catastrofi si può ripartire e rinascere».

Karen Leonardi per “il Messaggero” l'1 aprile 2022.

Ha trovato le oche e le galline sgozzate. Le serrature chiuse con il mastice. I tombini occlusi con il cemento. Il pozzo svuotato. Non basta: ha subito minacce di morte, pedinamenti, intimidazioni. Tutto per mano di una persona, il vicino di casa, colpevole per sua stessa ammissione di ogni genere di angheria e sopruso. È una storia da film, ma è successa davvero: da quasi vent' anni una famiglia per bene è costretta a vivere nell'incubo del vicino stalker a tempo pieno. Di più: un persecutore seriale, un maniaco. Vittima dell'incredibile vicenda è Paola Scaramozzino, giornalista Rai da poco in pensione, che negli anni Novanta decise di trasferirsi ai Castelli Romani, in armonia con la natura e con le persone a lei care. Lei, il marito, la figlia, gli amati animali.

Un progetto di vita che non rinnega ma che, adesso, le è diventato impossibile proseguire. È lei stessa a raccontare fin dall'inizio il calvario che, dopo due decenni e 33 denunce, l'ha portata a un gesto sofferto: la vendita della sua villa, sulla via Appia, a sud di Velletri. Una decisione dolorosissima, rinunciare al regalo dei genitori per farla vivere felice con la sua famiglia.

LA RABBIA «Mi sento usurpata - racconta Paola - violentata nella mia persona. È la mia casa. Ho l'ansia quando entro nella strada perché non so mai cosa mi aspetta. Ho sempre il cellulare in una mano. Il 112 arriva subito quando lo chiamo. Mi conoscono i carabinieri, la polizia municipale, tutti, ma non ho scelta: la vendo in cambio della serenità». Ecco le sue parole per descrivere l'incubo fin dall'inizio: «È iniziato nel 2003 alla morte di mio padre. Un vicino mai visto prima perché viveva all'estero ha strappato i manifesti a lutto posti sul nostro cancello. È stato il primo segno, siamo rimasti increduli».

Poi un'escalation di avvertimenti. Minacce e aggressioni vanno avanti negli anni, nonostante le denunce e querele presentate ai carabinieri della compagnia di Velletri e «derubricate dalla Procura di Velletri - spiega la vittima - a semplici liti di vicinato». La serratura del cancello danneggiata con l'attack, la griglia di ferro dello scolo delle acque cementata, le grondaie otturate. «Vi sparo, vi sparo». Fino a che arriva il peggio.

«Ancora me la ricordo la scampanellata al cancello - prosegue Paola - di una domenica mattina: Devi togliere le galline e le oche. E io ingenua: Perché ti danno fastidio? Sei a 500 metri dalla mia casa. Decine di denunce sue e alla fine arriva a casa mia il direttore della Asl, il 113 e la polizia municipale per vedere l'allevamento di polli abusivo. Giunte scuse ufficiali da parte del dirigente dell'Azienda sanitaria . Giorni dopo la macabra scoperta: ho trovato 5 galline morte nel terreno di 1500 metri quadri e 3 oche decapitate nella tinozza piena di acqua dove si facevano il bagno. Erano oche francesi che ti seguono, vengono se le chiami, si fanno accarezzare. Le ho seppellite con un dolore immenso».

Anche la baby sitter, che ha vissuto con la famiglia per 7 anni, ha notato gli strani comportamenti del vicino. «Ci chiamava in continuazione a lavoro, a Roma - aggiunge la giornalista - perché il tizio sostava davanti al cancello facendo foto e riprese attraverso i buchi della siepe o delle griglie del cancello minacciandoci». La famiglia, cosi, decide di trasferirsi a Roma e utilizzare la casa nei fine settimana. Le vessazioni e i dispetti, però, non si fermano. Ieri mattina Paola Scaramozzino ha deciso di tornare negli uffici dei carabinieri della compagnia veliterna, dopo aver notato che la stradina di accesso era stata deliberatamente delimitata.

«Appena vede un'auto si precipita davanti al cancello, fa foto, filmini, minacce che si sono estese anche a chi mi viene a trovare. La strada è sua. Ha aggredito due agenti immobiliari, messo tronchi, laterizi, pietre. Sabato 26 marzo ha messo lastre di cemento lungo tutto il percorso della strada che porta alla mia abitazione». La strada è stata già oggetto di una causa civile vinta nei tre gradi dalla donna. Ma non è cambiato molto. «In una riunione di tutti i confinanti ha detto chiaramente che non mi farà entrare nel mio cancello e che mi deve distruggere». 

Massimo Sanvito per “Libero Quotidiano” l'1 aprile 2022.  

Uno spacciatore carico di sostanze su quell'auto che corre! Un clandestino con un lungo curriculum criminale! Un ladro con una sfilza di reati alle spalle! Un ubriaco o un tossico al volante! Un ricercato con chissà quali precedenti penali! Magari un terrorista! 

Guai però a muoversi. Guai a inseguirlo, anche se non si ferma all'alt delle forze dell'ordine. Guai a farsi sfiorare l'idea di bloccarlo prima che faccia danni. In Lombardia, gli agenti della Polstrada che avranno la sfortuna di vedersi sfrecciare davanti balordi incuranti dei posti di blocco dovranno togliere il piede dall'acceleratore e levarsi dalla testa strani pensieri, come «andiamo a prenderli»...

Sia mai. Non è uno scherzo, ma il contenuto di una nota (datata 28 marzo) inviata dai piani alti a tutte le sezioni regionali. Il dirigente del compartimento della Polizia Stradale lombarda, Maria Dolores Rucci, ha messo nero su bianco una serie di disposizioni in materia di inseguimenti, che ha fatto letteralmente balzare sul sedile i poliziotti del reparto.

Il senso della circolare è molto semplice e chiaro. Dato che acciuffare chi non ha rispettato la paletta alzata, o peggio ancora un posto di blocco, comporta giocoforza imprudenza - mica si può andare a venti all'ora - è meglio lasciar perdere per evitare che ci finisca di mezzo anche qualcuno che non c'entra nulla. 

Certo, gli agenti dovranno annotare targa, modello del veicolo e direzione di marcia per comunicarlo alla sala operativa, che a sua volta invierà i dati raccolti a tutte le forze dell'ordine presenti sul territorio.

Ma quanto tempo prezioso si perderà prima di braccare i fuggitivi, col rischio che scappino con tanti saluti e arrivederci? Nel giro di qualche frazione di secondo i poliziotti dovranno stamparsi in mente lettere, cifre e case automobilistiche, spesso e volentieri di notte, al buio, quando i malviventi hanno più margine d'azione. Eppure sarebbe più facile, e soprattutto immediato, spingere i cavalli delle volanti. Anche un solo attimo può fare la differenza in casi come questi. 

Le ragioni della direttiva stanno nelle possibili conseguenze degli inseguimenti. Bisogna tutelare la sicurezza di tutti gli utenti della strada, questa è la riflessione dei vertici, perché quello è il compito primario della Polizia Stradale.

Giusto. Però, di fatto, si finisce col scegliere di far scappare chi non si ferma all'alt piuttosto che prendersi qualche rischio per bloccarlo. In caso di "danni collaterali", le conseguenze per gli agenti sono anche parecchio pesanti: penali, amministrative, disciplinari ed erariali, nonché etiche e morali nel malaugurato caso che qualcuno si faccia male o ci lasci le penne durante la caccia ai malviventi. 

Della serie: occhio anche ai danni che causate alle pattuglie. Così, si finisce per delegittimare le stesse divise. E infatti il Sindacato autonomo di Polizia (Sap) non ci sta.

«Riteniamo che gli operatori ben conoscono i rischi, anche normativi, di un mestiere sempre più difficile da esercitare, ma abbiano altrettanto chiaro il servizio che devono garantire al Paese. 

La consapevolezza di doversi preoccupare maggiormente delle responsabilità piuttosto che delle insidie dei malfattori di turno è davvero mortificante; vorremo preoccuparci di assicurare i delinquenti alla giustizia e non delle conseguenze interne!», spiega il segretario nazionale, Gianpiero Timpano. 

Sulle barricate anche la Lega, per voce del consigliere regionale Alessandro Corbetta, che presenterà un'interrogazione all'assessorato alla Sicurezza: «Se il problema è quello di dover affrontare gli effetti collaterali di un inseguimento, adoperiamoci per una collaborazione con il governo centrale al fine di potenziare le tutele alle forze dell'ordine sulle conseguenze che alcune operazioni possono comportare ma senza farle abdicare al proprio ruolo».

Il rischio grosso, tra l'altro, è quello di fornire un assist a porta vuota ai delinquenti. Non appena sapranno che la polizia non potrà più inseguirli taglieranno con ancor più leggerezza i posti di blocchi, magari facendo pure una sonora pernacchia fuori dal finestrino all'indirizzo del povero agente di turno con mani e piedi legati. Una beffa in piena regola. Che non si esaurisce certo al mancato rispetto del codice della strada ma va ben oltre. 

«Le forze dell'ordine prive di autorevolezza e di serenità operativa non possono assolvere il loro compito istituzionale e non impediranno che taluni soggetti, oltre a fuggire impunemente, compiano reati ben peggiori», sottolineano ancora dal Sap. Con un una giusta convinzione: «Siamo certi che non è questo quello che vogliono i cittadini lombardi dalle loro forze dell'ordine». Eh già...

Polizia Stradale, mai previsto stop a inseguimenti. ANSA l'1 aprile 2022. Con le direttive impartite "non si è mai voluto venir meno al compito di inseguire gli automobilisti inottemperanti all'obbligo di arrestarsi all'alt" ma c'è "l'esigenza di garantire la maggiore tutela possibile all'incolumità degli utenti stradali e degli stessi operatori di polizia". Lo afferma la Polizia Stradale dopo la direttiva del compartimento della Lombardia su come comportarsi in caso di inseguimento di autovetture che non si fermano ai controlli. Agli operatori, prosegue la Stradale, si raccomanda "di adottare in tali occasioni tutte le opportune cautele senza, ovviamente, venir meno ai propri compiti istituzionali".

"Le disposizioni - precisa il Dipartimento - impongono l'acquisizione di tutti gli elementi descrittivi ed identificativi dell'automobile in fuga da condividere tempestivamente con la centrale operativa della Polizia Stradale che, mediante un'attività di coordinamento, coinvolgerà anche altri equipaggi in supporto a quello inseguitore". (ANSA).

Mattia Feltri per “la Stampa”  l'1 aprile 2022.

Sono molto stupito che Matteo Salvini non abbia ancora commentato con giubilo la dotazione del lazo alla polizia urbana di Parma (non sto scherzando: un lazo tecnologico, del terzo millennio, ma un lazo). 

Da qualche tempo, infatti, il nostro statista è piuttosto indaffarato a dire la sua su questo e quello, ma sulla guerra no. 

Dall'ultima scampagnata in Polonia, diciamo, quando il sindaco di confine mandò al diavolo lui e il suo Putin. 

Da allora, Salvini ha ripreso a occuparsi dei cari vecchi temi, ieri per esempio della flat tax, e l'altro ieri del nuovo stadio di Milano. Se nelle faccende attuali fa solo figure da bagonghi, tanto vale rifugiarsi nelle faccende classiche, su cui si muove con la dimestichezza del veterano. 

E dunque il suo Twitter e il suo Facebook sono di nuovo l'antologia del sovranista da spiaggia, contro la politica degli sbarchi del ministro Lamorgese, soprattutto contro immigrati e rom, rifugiati veri e rifugiati presunti. Però c'è il ritorno di un altro grande classico: il taser. Per gli ignari, il taser è una pistola elettrica con cui si immobilizza l'obiettivo senza ammazzarlo.

Salvini, grande sostenitore del taser, è entusiasta dell'uso fatto dalla polizia di Firenze su un peruviano che andava in giro ubriaco col coltello, e da quella di Cagliari su un nigeriano che guidava come un pazzo. Niente da dire, per carità. Soltanto mi rimane un dubbio: perché la nostra polizia può difendersi (e difenderci) dai teppisti con il taser, e gli ucraini non possono difendersi dai carrarmati russi con qualche mitragliatrice? A meno che non si stia studiando di mandargli il lazo.

(ANSA  l'1 aprile 2022) - Arriva il 'lazo' per la polizia locale di Parma. Dopo un periodo di sperimentazione entra nelle dotazioni il bolawrap, un nuovo strumento non-lethal in grado di immobilizzare (senza provocare danni fisici) malviventi o persone pericolose per sé stesse e per gli altri.

Il dispositivo è composto da un laccio in kevlar (una fibra sintetica dotata di grande resistenza meccanica alla trazione) che viene lanciato verso le gambe o il tronco del soggetto con l'effetto di ottenere una legatura efficace, che ne impedisce qualsiasi ulteriore movimento. 

Lo strumento, realizzato da un'azienda americana, è dotato anche di un laser guida per la mira e di una cartuccia a salve, che garantisce la proiezione del 'bola' alla velocità di oltre 150 metri al secondo fino ad una distanza di 6-7 metri. La sperimentazione sarà preceduta dalla formazione di una decina tra ufficiali e agenti, che a loro volta saranno i formatori interni dei reparti quando lo strumento sarà dotato a regime.

"Abbiamo deciso di dotare la Polizia Locale di Parma di questo strumento di autotutela: siamo il primo comune in Emilia Romagna a sperimentarlo ha spiegato l'assessore alla sicurezza del comune di Parma Cristiano casa - È estremamente efficace nell'immobilizzazione di persone pericolose, a distanza, e senza provocare danni fisici. 

Siamo sicuri che accrescendo le dotazioni di sicurezza della Polizia Locale saremo in grado di aumentare la percezione di sicurezza delle parmigiane e dei parmigiani. Se la sperimentazione darà esiti positivi, come si ipotizza, doteremo il Corpo di Polizia Locale del Bolawrap".

“Pericolosi, forse letali”: tutti i dubbi sui taser in uso agli agenti di 18 città. Un appalto accidentato, la fornitura assegnata alla Axon con procedura urgente, nonostante i rilievi sui rischi. Il no delle associazioni per i diritti umani e le perplessità di una parte del sindacato di polizia. Le pistole elettriche volute da Alfano e Minniti, osannate da Salvini, sono arrivate con Lamorgese. Rita Rapisardi su La Repubblica il 29 Marzo 2022.

Quasi nessuno avrà sentito parlare del “Thomas A. Swift's Electric Rifle” (il fucile elettrico di Thomas A. Swift), qualcuno in più, del suo vero nome, pochissimi invece che è entrato in funzione nelle forze dell'ordine italiane, che ora ne dispongono 4.482 esemplari. Si parla del taser, un’arma classificata come non letale, ma di dissuasione, in grado di immobilizzare un soggetto attraverso una scarica elettrica intensa, ma di breve durata. In pratica, il taser irrigidisce chi viene colpito. In diciotto città italiane, dal 14 marzo, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza hanno la pistola elettrica in dotazione, insieme alla restante attrezzatura.

La storia dei taser in Italia parte da lontano, dal 2014. Voluti prima dal ministro dell’Interno Angelino Alfano e poi dall’omologo Marco Minniti, l’introduzione dei taser si concretizza grazie proprio a colui che in queste settimane di guerra, si dice disgustato al solo al sentir nominare le armi. Nel luglio 2018 Matteo Salvini da ministro dell'Interno firma un decreto, che poi diventerà legge, che dà il via a alla sperimentazione in dodici città italiane per nove mesi: un primo passo per inserire i taser definitivamente nel kit delle forze dell’ordine.

Ma le vicissitudini che porteranno a individuare l’azienda fornitrice delle armi elettriche sono molte.

Si parte a dicembre 2018, con una “manifestazione di interesse” per stabilire chi fornirà i taser per la sperimentazione. Seguono poi due gare, una nel 2019 e una nel 2021. Dicembre 2019: si presentano tre multinazionali del settore la Axon, la prima ad aver depositato il marchio nel 1911, la Trade Company e la Tar Ideal Concepts Ltd. Saranno tutte e tre escluse. Il bando vale complessivamente in 8,5 milioni di euro, senza Iva.

L’esclusione di Axon, che già aveva fornito gratuitamente i 32 dispositivi per la prima sperimentazione, avviene per problemi tecnici. Si riscontrano infatti alcuni seri problemi di utilizzo durante le prove balistiche al centro di tiro della polizia di Nettuno, il luogo in cui di solito si fanno i collaudi per i dispositivi in dotazione alle forze dell’ordine e in cui lo stesso Salvini nel 2019 si era prestato a una esercitazione in prima persona del taser, insieme all’allora capo della polizia Franco Gabrielli: «Vogliamo averli anche sui treni, sulle volanti, nelle città», aveva dichiarato. I problemi riscontrati erano sostanzialmente due: non piena precisione dei dardi e incidenti in cui i dardi si staccavano, diventando potenzialmente pericolosi per i cittadini e per gli stessi agenti. Fornitura sospesa con decisione immediata.

All’epoca, dalla Axon protestano, vogliono ripetere le prove balistiche (con il contraddittorio), dicono che i dispositivi sono conformi e non si spiegano il risultato. Ma i documenti parlano chiaro, nella comunicazione della esclusione, 8 luglio 2020, si legge: «Si è rilevata la non conformità delle stesse ai requisiti ed ai parametri prestazionali previsti».

Nuovo bando, nuova esclusione per Axon, questa volta è il 23 febbraio 2021, il decreto di esclusione recita: «Vengono accertate alcune non conformità della campionatura di gara», rispetto ad alcune indicazioni, tra queste, banalmente, le pistole non avevano le istruzioni in lingua italiana e fondina e case porta taser non corrispondevano alle richieste. A queste imperfezioni si aggiungono quelle ben più rilevanti rilasciate dal Banco nazionale di prova per le armi da fuoco portatili, e che ricalcano i dubbi espressi nel 2020: prove di precisione e test di sparo (distacco dei dardi) falliscono in più occasioni, anche la memorizzazione dei dati non avviene correttamente.

Questa esclusione però non fa notizia come quella del 2020, nessuno ne parla. Il giorno dopo l’esclusione di Axon, il 24 febbraio, il ministero dell’Interno pubblica un nuovo documento, questa volta una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara, invitando a partecipare le tre aziende escluse nell’ultimo bando. In pratica dopo le precedenti non aggiudicazioni, il ministero valuta come «estrema urgenza» il risolvere la questione. Questa soluzione prevede però una vincita «all’offerta economicamente più vantaggiosa», senza prove tecniche, e una presa in carico pubblica degli eventuali rischi che i taser potrebbero avere durante l’uso. Vince Axon. Una delle contendenti la Condor S/A Industria Quimica, non ci sta, porta il ministero davanti al Tar del Lazio, ma poi abbandona.

All’acquisto delle armi esce ufficialmente la notizia: «Siamo onorati di essere stati selezionati per fornire alle Forze dell’Ordine italiane i dispositivi - dichiara a luglio Loris Angeloni, attuale director channel di Axon Italia - La missione di Axon è quella di proteggere la vita». Sul sito di Axon non si trova nessuna documentazione sulla conformità del modello Axon Taser X2, quello dato alle forze dell’ordine italiane, mentre nella scheda tecnica, scaricabile ma solo dopo aver fornito i propri dati, Axon descrive il taser come «la nostra arma più efficace» con «maggiore possibilità di evitare l’insorgere di conflitti».

 Axon Italia, sentita da L’Espresso, spiega di come i requisiti del bando italiano fossero unici rispetto a quelli di altri Paesi in cui opera, in Italia si sono fatte prove balistiche al pari delle armi da sparo: «Ma le nostre non lo sono - commenta Angeloni -, facciamo test di precisione, ma questo non va a modificare lo sviluppo dell’arma». L’altra richiesta, che non è stata superata nei primi due bandi, era quella che i dardi non si staccassero mai nel caso di sparo a vuoto: «Abbiamo deciso di creare una nuova cartuccia per il mercato italiano, che che riduce drasticamente le occorrenze di distacco del dardo». I test sono stati ripetuti una terza volta ad aprile 2021, con risultati, valutati migliori dal Ministero. Dal punto di vista di Axon, però, queste non sono migliorie, perché non mitigano il rischio, ma un adattamento alle richieste del cliente.

Sulla pericolosità di questi dispositivi si sono espresse associazioni, attivisti e medici. Nel 2007 il comitato contro la tortura delle Nazioni Unite si era preoccupato che l'uso delle armi TaserX26, provocando un dolore estremo, costituisse una forma di tortura e che in alcuni casi potesse anche causare la morte, come dimostrato da diversi studi attendibili e da alcuni casi accaduti dopo l'uso pratico. Amnesty International in un report del 2003 metteva già allerta sull’uso eccessivo della forza con i taser, definiti «pistole stordenti ad alta tensione associabile all’elettroshock», che aprono la strada ad abusi e torture (che l’associazione ha riscontrato in diverse carceri degli Stati Uniti). Nella documentazione si analizzano diverse morti «sospette», spesso registrate con diciture diverse, ma associabili all’uso dei taser, una di queste racconta di una studentessa di 15 anni, Chiquita Hammonds, spruzzata di pepe e colpita con un taser dalla polizia a Miramar, in Florida, a seguito di un lieve disturbo su uno scuolabus, «un trattamento crudele, disumano o degradante»”, si legge.

«Il rischio zero non esiste in particolare con un' arma che ha già causato la morte in altri Paesi. La preoccupazione è che vengano usate come arma di routine, per far rispettare la legge in assenza di una minaccia di lesioni gravi o di morte, dunque in modo non conforme agli standard internazionali sui diritti umani», spiega Laura Renzi, Campaign manager Amnesty International Italia.

Eppure uno dei motti di Axon è proprio quello di salvare vite: sul sito un contatore dice che oltre 246mila vite sono state salvate grazie a questi dispositivi. E più di 800 studi affermano che la «tecnologia taser è tra le opzioni più sicure ed efficaci di risposta alla resistenza».

Di fianco all’abuso ci sono anche i problemi di salute, come la possibile interferenza con i dispositivi pacemaker, sostenuta da numerose associazioni mediche, questo perché influenza la funzione cardiaca e celebrale e può portare ad arresto cardiaco o a una frequenza pericolosamente elevata.. A tal proposito la stessa Axon, a fronte degli studi, ha cambiato nel 2009 le proprie linee guida, consigliando l’utilizzo dei taser nella parte inferiore del corpo, evitando il torace. Anche il giornalismo si è occupato della questione. Reuters ha contato dal 2000 a oggi, 1000 morti da taser, in 153 casi è stata l’unica causa di morte. Nel 2015 Guardian aveva classificato 47 decessi su 957 come collegati all’uso dei taser.

In Italia il taser è considerata un’arma propria, non da fuoco, ed è regolata dall’uso legittimo delle armi, articolo del codice penale, per cui gli agenti non sono punibili per l’uso in alcune situazioni di armi, anche potenzialmente letali, solo in caso di legittimità, urgenza e legittimo ricorso alla forza. In alcune città le regole sono molto rigide, ad esempio a Torino, l’unità taser (fornita a tre volanti) deve intervenire su indicazione della centrale operativa, che è obbligata ad allertare il 118. Potenzialmente può essere usato anche durante un Tso.

«La pistola elettrica può essere utile in alcune circostanze in quanto mezzo di "coazione" meno impattante delle armi da fuoco - spiega a L’Espresso Daniele Tissone del sindacato di polizia Silp -, ma trattasi di un'arma a tutti gli effetti, che può, in taluni casi, essere letale al pari di un'arma da fuoco, oltre che produrre gravi lesioni». Il sindacato durante la sperimentazione aveva chiesto un tavolo di confronto tra i ministri della Salute, della Giustizia e dell'Interno, per accertare modalità di impiego e criticità per le forze dell’ordine, che non possiedono copertura assicurativa per rischi da risarcimento civile, e per i cittadini. Nulla di tutto questo è avvenuto. Legittima difesa, stato di necessità, eccesso colposo, aspetti penali che il taser mette in discussione, ma che sono stati ignorati. Anche l'Autorità Garante delle persone private della libertà ha espresso perplessità: necessario evitare l'utilizzo improprio e l’uso in luoghi come carceri e caserme.

Ma a parte Silp gli altri sindacati festeggiano. «Come testimonia la cronaca ormai quotidiana - spiega Pietro di Lorenzo di Siap, sindacato che da tempo porta avanti una campagna pro-taser - sono innumerevoli gli episodi che vedono protagonisti soggetti violenti nei confronti dei colleghi». Dello stesso parere anche il sindacato di polizia autonomo (Sap) che ha definito la situazione «un importantissimo risultato» e il taser «un’arma non violenta».

La Axon negli anni ha iniziato diverse sperimentazioni in Italia: a Ravenna, insieme alla Polizia Municipale, ha introdotto la body cam, mentre a Latisana, in provincia di Udine, le videocamere sui veicoli. Ora con il via libera nazionale, si pensa ai taser. Non si è perso tempo a Roma dove il 24 marzo il Consiglio ha approvato una mozione di Fratelli d’Italia e Lista Calenda, passata grazie ai voti del Partito Democratico che apre l’uso delle pistole elettriche anche alla polizia municipale.

E mentre la destra si spreca nei festeggiamenti, Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle tacciono, con rare eccezioni: «Non c’è mai molto da esultare quando si approvano armi che possono essere usate su chi non può difendersi», dichiara Chiara Gribaudo, deputata Pd. Intanto ha fatto già discutere un caso a Torino dove il taser è stato usato contro un senzatetto che alloggia in un’ex fabbrica abbandonata: è bastata la minaccia del taser a far sgomberare l’uomo. Nella stessa città, a gennaio, quaranta studenti inermi erano finiti in ospedale per le forti manganellate della polizia, alla richiesta dell’introduzione dei codici identificativi sui caschi delle forze dell’ordine, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, aveva subito chiuso. Mentre ora applaude i taser.

"La violenza esplode e non è tutta colpa della pandemia Covid". Luca Fazzo il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il professor Guglielmo Gulotta, uno dei massimi esperti italiani di psicologia forense, lancia l'allarme sulla violenza giovanile in città. Preoccupano la caccia agli oggetti-feticcio, il sesso senza rispetto e l'esibizione social.

Il lockdown, la compressione in stati ristretti, la rinuncia alla socialità non possono costituire gli alibi per il dilagare della violenza giovanile nel tessuto urbano milanese: perché siamo davanti a un fenomeno nato ben prima della pandemia e con cui dovremo confrontarci anche per molti anni dopo di essa. A spiegarlo è Guglielmo Gulotta, uno dei massimi esperti italiani di psicologia forense: il terreno dove si incrociano lo studio dei comportamenti criminali e dei processi mentali.

Professor Gulotta, da settimane le cronache milanesi ribollono di episodi sconcertanti, a volte l'impressione è che le cosiddette baby gang agiscano ormai fuori da ogni controllo. Da dove nasce questo fenomeno?

«Siamo davanti a una delle due forme di aggressività adolescenziale più vistose di questi tempi. Una è il bullismo, l'altra è l'organizzazione in bande giovanili più o meno strutturate. Bullismo e gang vengono a volte vissute come facce di fenomeni analoghi, ma in realtà hanno differenze sostanziali. Il bullismo si esercita contro obiettivi noti, ed è spesso perpetrato da un soggetto singolo, magari attorniato da altri che svolgono una funzione da coro o da claque. Le gang, invece, sono alimentate dalla coesione collettiva e colpiscono indiscriminatamente».

Qual è la molla che le spinge in azione?

«Una risposta ci viene dalla modalità stessa con cui veniamo a conoscere le loro azioni: questi ragazzi pubblicano per vanteria sui mass media e sui social le loro imprese che altrimenti resterebbero a volte sconosciute. La definirei trasgressione ludica. Poi, ovviamente, c'è dell'altro».

Ovvero?

«Sicuramente la conquista di beni materiali di consumo che sono fuori dalla loro portata e che hanno una forte valenza di status: dai telefoni ai capi di abbigliamento. D'altronde si tratta di bande urbane di vario tipo e dalla composizione quanto mai variabile, perché ne fanno parte sia ragazzi nati nella nostra cultura che di culture differenti, ma accomunati quasi sempre dalla provenienza da classi sociali disagiate. In loro la conquista dell'oggetto-feticcio si accompagna a una voglia di riscatto e diventa una sorta di reazione ai trattamenti ingiusti, o presunti tali, che ritengono di aver subito dalla società degli adulti».

Nelle analisi di questi giorni molti hanno indicato il disagio da lockdown come fattore detonante.

«Adesso la pandemia ha la colpa di tutto... Certo, dopo la fine del lockdown abbiamo avuto la percezione di una impennata, ma da qui a fare di un dato temporale anche un dato causale ce ne corre. Questo è un problema che nel mondo esisteva da ben prima del lockdown».

Che rapporto hanno con le regole? Trovano soddisfazione nel violarle o semplicemente le ignorano?

«Tutti noi violiamo le regole continuamente, perché se le applicassimo rigidamente il mondo si fermerebbe. In questi ragazzi c'è sicuramente qualcosa in più: la trasgressione della regola diventa un valore in sé, un motivo d'orgoglio, una conquista da esibire. Anche a costo di essere identificati e pagarne le conseguenze».

La dinamica è la stessa anche quando l'aggressività della banda prende di mira soggetti deboli come le ragazze? Le scene di Capodanno sono inquietanti.

«In parte sì, purtroppo. Quello che è andato in scena in piazza Duomo è stata una serie di episodi connotati, e lo dico con mille cautele e tra mille virgolette, anche da un aspetto ludico. Tra le regole che si possono violare in nome della trasgressione, c'è stata anche quella del rispetto per l'altro sesso. Le aggressioni sono state rese possibili da un meccanismo psicologico classico dell'agire di gruppo, la dispersione della responsabilità: più siamo e più si può fare, come se la responsabilità finisse tutta a un soggetto che agisce collettivamente e non ai singoli che ne fanno parte. E alla fine la soddisfazione del piacere sessuale non è diversa dalla gratificazione del rapinare un oggetto di lusso: hai delle spinte che non puoi soddisfare individualmente, la forza e la confusione ti convincono di poter fare quello che a quattr'occhi non oseresti».

"Nordafricani, trap e crimini: l'identikit delle baby gang”. Sofia Dinolfo il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Cresce il numero delle azioni violente messe in atto dalle bande dei baby criminali. Il maggiore Silvio Maria Ponzio spiega a IlGiornale.it le dinamiche che si celano dietro queste organizzazioni.

Proliferano i reati commessi da parte delle baby gang. Rapine, violenze e minacce sono gli atti illeciti compiuti, con maggiore frequenza nel weekend, dalle bande di delinquenti di minore età. Da Nord a Sud, un’escalation di denunce da parte delle vittime e diversi gli interventi delle Forze dell’Ordine diretti a garantire l’incolumità pubblica. Al momento, Milano risulta essere la città maggiormente colpita da questo fenomeno tanto da richiedere in Parlamento un dibattito sull’emergenza sicurezza nel capoluogo lombardo da parte degli esponenti politici del centrodestra.

La richiesta è partita dopo l’ennesimo episodio di violenza di sabato 19 febbraio nelle vie della movida milanese: Corso Como e piazza Gae Aulenti. Quella notte è successo di tutto con almeno otto risse, “sgabelli in faccia” e “teste spaccate”, come hanno raccontato alcuni testimoni su Instagram. I carabinieri sono al lavoro per debellare questo fenomeno con ferrate indagini e arresti. Gli ultimi sono quelli eseguiti il 2 marzo scorso dal Comando Provinciale di Milano. In manette sono finiti 8 minori appartenenti alla baby gang “Z4”. Ma come si formano questi gruppi? Perché stanno seminando così tanto terrore? “Siamo di fronte - dice a IlGiornale.it il maggiore Silvio Maria Ponzio – a una delle manifestazioni patologiche della devianza giovanile”. Il maggiore Ponzio è il comandante della Compagnia Carabinieri Milano - Porta Monforte e ci ha raccontato diversi dettagli che riguardano le dinamiche delle baby gang.

Cosa sono le baby gang?

"Le baby gang, al pari della 'mala movida' e del 'bullismo', rappresentano una delle manifestazioni patologiche della devianza giovanile. Sono comitive di giovani che, spesso accomunati in rete da particolari nickname identificativi (per esempio il codice di avviamento postale del quartiere in cui vivono e riferimenti alla zona che frequentano) e da caratteristici elementi distintivi (abbigliamento, tatuaggi, linguaggio, gestualità, luoghi di aggregazione e genere musicale), si avvalgono della forza intimidatrice del gruppo per commettere, talvolta con l’uso di armi da taglio o di semplici riproduzioni (scacciacani o pistole giocattolo prive del tappo rosso), svariate attività delittuose. Queste, determinano importanti riflessi in termini di ordine e sicurezza pubblica sia nelle aree cittadine (per lo più periferiche) di provenienza, sia in quelle più spesso centrali, in ragione della presenza di maggiori attrazioni e di locali di tendenza, ove i comportamenti antisociali/violenti, sia pure finalizzati ad affermare la presenza sul territorio e a rimarcare la superiorità sulle bande rivali (in taluni casi arrivando a vantare rapporti di amicizia con soggetti contigui alla criminalità organizzata), si manifestano nelle più disparate forme delinquenziali (risse, furti e rapine in danno di passanti, danneggiamenti, atti vandalici e di bullismo, spaccio di stupefacenti, blocchi stradali per la realizzazione di video musicali, eccetera)".

Come si formano?

"Possono costituirsi quasi per gioco, prendendo come esempio i modelli proposti dalle serie televisive o dalle nuove tendenze musicali, sulla base di pregresse amicizie o assidue frequentazioni tra giovani che, vivendo nello stesso quartiere e accomunati dai medesimi interessi, decidono di unirsi in gruppo e di delinquere in un secondo momento, ovvero nascono come vere e proprie associazioni criminali (per esempio le 'pandillas', tipiche delle comunità sudamericane stanziatesi in Italia) dedite alla commissione di reati, prevalentemente di natura predatoria. In questo caso sono gruppi dominanti stabili nel tempo, guidati da un leader, con una precisa gerarchia interna e con rigidi codici comportamentali che prevedono, talvolta, il superamento di determinate prove per poterne diventare un membro".

Quali sono i fattori aggregativi?

"La musica trap/rap, non certo come forma musicale particolarmente apprezzata dai millennial quanto invece come strumento di divulgazione di contenuti aggressivi e antisociali tramite testi e video spesso oggetto di azioni emulative, costituisce uno dei principali fattori di aggregazione e di costruzione di specifiche identità all’interno delle baby gang. Queste canzoni utilizzano spesso codici narrativi ricchi di slang codificati e di sistemi di occultamento usati per circoscrivere i destinatari dei contenuti ed escludere chi non appartiene a uno specifico contesto territoriale, naturalmente istituzioni e forze di polizia comprese. I brani sono affreschi della vita di periferia, di paragoni tra chi vive nel lusso e chi ai margini della società, di luoghi, simboli e fattori aggregativi (come strade, piazze, giardini pubblici, panchine, passamontagna, tute acetate, scarpe, orecchini, tatuaggi, eccetera)".

Perché stiamo assistendo al veloce proliferare delle loro attività criminose?

"La devianza giovanile è un complesso e mutevole fenomeno sociale, comprendente una serie di condotte che, pur non integrando necessariamente la commissione di reati, possono infrangere regole sociali, morali e di costume, incidendo sensibilmente sulla percezione di sicurezza di una comunità. Alla base dei problemi comportamentali tipici delle nuove generazioni, siano essi illegali o percepiti come trasgressivi e inurbani, vi sono sempre fattori di rischio individuali (come disturbi del comportamento e della socializzazione) e ambientali (per esempio condizione familiare, contesto socio-economico, difficoltà di integrazione dei minori stranieri, consumo di stupefacenti e alcool, emulazione di modelli negativi diffusi da web, da particolari generi musicali, social e serie tv). Se da un lato la pandemia potrebbe aver contribuito ad aumentare sentimenti di stress e preoccupazione tra i giovani per averne limitato le occasioni di socializzazione e di espressione a seguito della chiusura di scuole, di centri sportivi e attività ricreative, dall’altro non si può non tener conto del fatto che il fenomeno era noto anche prima dell’attuale emergenza sanitaria".

Quali sono le cause del disagio dei giovani

"Tra le principali cause alla base del disagio giovanile e degli atti devianti vi sono sicuramente i contesti familiari problematici (conflittualità tra i genitori, maltrattamenti, abusi, assenza di comunicazione o scarso interesse per le attività svolte dai figli), il deterioramento di un’efficace modello educativo, in parte dovuto al precoce abbandono del percorso scolastico, e la tendenza alla rigorosa selettività tra i membri di un gruppo, con la conseguente marginalizzazione di chi non si adegua o conforma ai modelli di riferimento. Credo che sia del tutto naturale che, durante l’adolescenza, il giovane si confronti con il mondo esterno per acquisire fiducia in se stesso e costruirsi come adulto. La voglia di esplorare il mondo e di avviare nuove relazioni lo porta a cercare un gruppo di coetanei con cui confrontarsi".

Cosa può accadere?

"Tuttavia è proprio qui, nella cerchia delle sue amicizie più strette, che il minore esprime la propria personalità attraverso l’azione, sperimentando e adoperando nuove e diverse modalità di interazione. Egli mette in pratica ciò che ha appreso dai contesti di socializzazione precedenti e, attraverso i comportamenti violenti o trasgressivi, tenta di comunicare il suo desiderio irrefrenabile di affermarsi e di superare i limiti in una cornice di autonomia. Il giovane ricerca quelle attenzioni che non ha ricevuto, quelle possibilità che la vita non gli ha offerto e che ritiene di non poter ottenere attraverso il contesto socio-familiare di provenienza. Ecco allora che la strada e ogni spazio pubblico diventano il luogo ove il ragazzo si sente osservato dagli altri, dove costruisce la propria identità e la propria reputazione, cimentandosi anche in rapporti di opposizione, conflittualità e forme estreme di violenza a tal punto da minimizzare le possibili conseguenze delle sue azioni".

Qual è la forza delle baby gang?

"La forza delle gang deriva dal fattore identitario di provenienza (la costante affermazione di vivere in un quartiere notoriamente malfamato incide molto sulla capacità di ingenerare timore nelle vittime più vulnerabili), dalla capacità di agire in branco secondo logiche di deresponsabilizzazione del singolo, di protezione reciproca e di assoluta indifferenza e spregiudicatezza alle regole più elementari della civile convivenza. Talvolta sono gruppi che, non avendo uno scopo razionale preciso, agiscono impulsivamente nel tentativo di provare una sensazione di ‘potenza’ e ‘superiorità’, colpendo le persone (in genere coetanei) ritenute più ‘deboli’. In altri casi, sono giovani che sfruttano esperienze criminali maturate in passato per commettere reati con modalità operative consolidate".

E la cronaca ci conferma diverse storie.

"Recenti indagini svolte dai carabinieri del Comando Provinciale di Milano hanno consentito di accertare che alcuni giovani appartenenti alla baby gang 'Z4', una delle 13 finora censite nel capoluogo meneghino, in più circostanze, anche con l’uso di armi da taglio, tra ottobre 2021 e gennaio hanno commesso violente aggressioni ed efferate rapine a danno di passanti. Gli atri punti di forza delle baby gang sono rappresentati dall’ottima conoscenza del territorio e dalla capacità dei singoli membri di comunicare tra loro utilizzando gruppi o canali social 'riservati' per concordare modalità operative, darsi appuntamenti e perfino organizzare risse, con la presuntuosa convinzione di poter eludere eventuali controlli da parte delle forze di polizia".

Perché riprendono e pubblicano sui social le loro violente attività?

“I baby gangster del 5G impiegano la tecnologia per divulgare, attraverso i principali social network, i video delle proprie azioni delittuose con una duplice finalità. Comunicativa, per esprimere spavalderia, arroganza, assenza di paura e senso di impunità dei propri appartenenti; celebrativa per effettuare proselitismo, acquisire consensi, dimostrare la caratura criminale del gruppo e accrescerne il ‘prestigio’ agli occhi delle gang avversarie. Il video e le foto costituiscono una sorta di ingresso trionfale nella piazza virtuale, tale da celebrare le gesta di cui la gang è capace anche nei confronti di chi è contro di loro. Nell’epoca in cui l’immagine di sé e il like sono elementi imprescindibili per l’adolescente in cerca della propria identità, il video con migliaia di visualizzazioni e condivisioni diventa un efficace strumento di motivazione e incitamento a delinquere”.

Hanno un leader? Come viene “eletto”?

“Alcune gang sono strutturate in modo tale da avere al loro interno un leader (il più delle volte appena maggiorenne) che si autoproclama tale in ragione della maggiore aggressività e carisma mostrati in determinate circostanze o per il solo fatto di essere stato già ristretto in istituti penali o in comunità, di avere maggiore disponibilità di denaro o seguito sui social. A lui non si può disobbedire: farlo significherebbe proporsi quale capo alternativo. Qualche volta si pone come una sorta di guida. Tutti lo reputano una persona fidata, pronta a dispensare consigli o parole di conforto. Altre gang, invece, si autoregolano, lasciando spazio decisionale ai sodali”.

Quanto conta il fatto di essere gruppo per una “buona riuscita” dei cattivi propositi?

“Direi fondamentale. Il gruppo è una sorta di piccola comunità. Quanto più è unito e saldo, tanto più i suoi componenti saranno spregiudicati, determinati e coraggiosi. Molto probabilmente nessuno degli appartenenti alla gang riuscirebbe a compiere atti così violenti o illeciti se dovesse attuarli da solo. Il senso di appartenenza a un gruppo stimola la solidarietà e l'aiuto reciproco in caso di necessità. La condivisione delle responsabilità e l’anonimato contribuiscono a far diminuire la paura e il senso di colpa che il singolo potrebbe provare nel compimento di un'azione illecita”.

Generalmente che famiglie hanno alle spalle questi ragazzi?

“I membri delle gang attive sul territorio milanese sono prevalentemente minorenni di età compresa tra i 12 e i 17 anni, anche di sesso femminile, italiani e immigrati di seconda o terza generazione (con una maggiore incidenza di nordafricani), alcuni dei quali già gravati da precedenti, che coabitano nelle zone periferiche delle aree metropolitane e nei vasti complessi residenziali di edilizia popolare. Talvolta sono minori stranieri 'non accompagnati' che, vivendo in strada o in stabili abbandonati a causa della frequente indisponibilità di posti letto nelle comunità di accoglienza, sono più proclivi alla commissione di reati".

Più in generale?

"È un fenomeno trasversale che, generalmente, interessa giovani che appartengono ai ceti sociali più bassi o a famiglie disagiate, in cui gli stessi genitori sono gravati da precedenti penali o affetti da dipendenze. Ciononostante, proprio in funzione di taluni fattori aggregativi come la musica, succede che anche i ragazzi ‘perbene’ e apparentemente meno problematici entrino a far parte delle bande, in questo caso non certo per fame di riscatto bensì per conquistare uno status sociale, per sconfiggere la noia di una vita ‘normale’ e per diventare famosi tra i coetanei mediante comportamenti antisociali e violenti”. 

È possibile correggere il cammino di questi ragazzi e portarli sulla buona strada?

“Certo. Occorre un’azione corale e congiunta, non soltanto al livello di forze di polizia ma da parte di tutte le componenti della società a cui viene demandato il delicato compito dell’educazione, coniugando percorsi riabilitativi e di inserimento per chi ha già sbagliato con efficaci iniziative preventive e di contrasto al fenomeno. L’obiettivo deve essere da un lato quello di sviluppare nei giovani una maggiore consapevolezza del disvalore sociale delle azioni commesse e delle relative conseguenze, dall’altro quello di rafforzare il network istituzionale al fine di ridurre la dispersione scolastica, coinvolgere maggiormente i giovani in attività sportive ed extrascolastiche (come volontariato, partecipazione a lavori socialmente utili e così via) e aiutare quei genitori assenti o distratti a correggere i comportamenti devianti dei figli con percorsi di socializzazione positiva e di inclusione”.

Come agite per prevenire questi fenomeni?

“L’Arma dei Carabinieri, nell’ambito del progetto di ‘diffusione della cultura della legalità tra i giovani’, con la collaborazione dei responsabili degli istituti scolastici, realizza una campagna annuale di incontri con gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado con lo scopo di educare gli studenti all’esercizio della democrazia, nei limiti e nel rispetto dei diritti inviolabili, dei doveri inderogabili e delle regole comuni condivise, quali membri della società civile, promuovendo al tempo stesso negli alunni la consapevolezza dei valori fondanti e dei principi ispiratori della Costituzione italiana per l’esercizio di una cittadinanza attiva a tutti i livelli del sistema sociale. In fondo, come sosteneva San Giovanni Bosco, ‘dalla buona o cattiva educazione della gioventù dipende un buon o triste avvenire della società’".

Ci può raccontare qualche esperienza con la quale si è confrontato nel corso del suo lavoro?

“Qualche mese fa mi sono occupato del caso di una bambina di 12 anni che, mentre si trovava al parco, è stata brutalmente aggredita e poi rapinata dello smartphone da una baby gang della zona come atto ritorsivo, perché la vittima era attratta da un compagno di scuola, di cui si era invaghita anche una coetanea della banda. A distanza di qualche ora, ancora dolorante per le percosse subite, la giovanissima si è presentata insieme alla mamma presso la stazione dei carabinieri indicatale dal maresciallo che qualche giorno prima aveva conosciuto a scuola durante un incontro sul bullismo. La piccola vittima ha trovato la forza di confidarsi con i genitori e di denunciare l’aggressione. All’odio e alla violenza ha risposto con il coraggio. I membri della gang sono stati tutti identificati e deferiti alla competente autorità giudiziaria. A ognuno di loro abbiamo consigliato di leggere ‘La fabbrica del male’ di Jan Guillou”.

Maria Rosa Pavia per corriere.it il 2 marzo 2022.

«Ma sul serio nel 2022 ancora si associa il burlesque ai night club? Si tratta di un’arte che può avere anche un valore sociale». Così la ballerina Holly’s Good, al secolo Daisy Ciotti, prende posizione il giorno dopo l’esplosione dello scandalo che l’ha investita in prima persona: la sua esibizione al circolo ufficiali delle forze armate di via XX Settembre, a Roma, ha portato alla rimozione immediata del direttore, oltre che fare il giro del web.

La showgirl di Roma esprime il suo disappunto, attribuendo l’indignazione generale a un malcelato sessismo: «Finti moralisti e perbenisti che si permettono di giudicare senza conoscere». 

La ballerina, unica italiana ad aver vinto un titolo mondiale alla Burlesque Hall of Fame di Las Vegas, la mattina dell’1 marzo, all’indomani del ciclone mediatico, ha cercato di fare come nulla fosse: come tutti i giorni si è recata nella scuola dove insegna in zona Aventino per la lezione delle 10.30.

Il tono è quasi stupito su Instagram: «Davvero è scandaloso che una donna sia consapevole e mostri il proprio corpo? Davvero con quello che si vede sui social e in tv, il sedere di un’artista fa tanto scalpore?» 

Il burlesque come strumento di emancipazione e valorizzazione della persona, così lo vede Holly’s Good. «Si tratta di un’arte che ogni anno aiuta tantissime donne e non solo, di ogni età e fisicità, a credere in se stesse, a farsi forza dopo un divorzio, una malattia, una perdita... N on solo è elegante da vedere, ma anche socialmente rilevante».

La ballerina che l’altra sera si è esibita al circolo ufficiali del ministero della Difesa ricorda lo stop delle esibizioni causa Covid che ha messo in ginocchio molti performer. E attacca i media: «Dopo due anni di pandemia in cui gli artisti sono stati dimenticati dalle istituzioni, continuate ad affossare gli eventi, invece di sostenerli!». 

La showgirl smentisce le voci secondo di un’esibizione accolta con freddezza: «Il pubblico presente era composto per il 50% da donne. Perlopiù mogli che, oltre ad aver apprezzato la musica jazz dal vivo, si sono complimentate con gioia e serenità per l’eleganza, la raffinatezza e la preparazione tecnica nella danza che abbiamo portato in scena».

Difesa: Guerini incassa male la Sassata sul Circolo Ufficiali “hot”; caccia il direttore, ma con qualche bugia…Mario Basso per sassate.it l'1 marzo 2022. 

Colpito e affondato (dal ministro) il colonnello Stefano Santoro, direttore del Circolo Ufficiali “hot” delle Forze Armate. Inevitabile, ma almeno opportuno vista la velocità della rimozione dall’incarico dell’alto ufficiale. 

Con qualche bugia, però, nella nota fatta diffondere dall’ADNKronos. Perché sostenere che la cacciata è avvenuta prima della denuncia di Sassate, con tanto di video, è una pietosa balla per provare a smentire che “l’alta vigilanza” cui era tenuto Guerini con il suo staff non ci sia stata.

Tutto è avvenuto sabato sera 26 febbraio. E ieri, domenica 27, negli uffici del gabinetto non ne sapevano niente. Infatti, la rimozione è di stamattina. Anche tentare di scaricare le responsabilità sullo Stato Maggiore della Difesa, fa ridere. Perché le attività del Circolo sono vagliate e approvate dal Consiglio d’Amministrazione, presieduto dal ministro, che difatti firma personalmente il decreto di nomina del Direttore. Non prendiamoci in giro. 

Così come è un’altra bugia che l’esibizione fosse un “pezzo unico”. Ecco, qui sotto, la seconda puntata… Ministro, non sarà il caso di cambiare anche qualcuno dei suoi più stretti collaboratori? Scegliendolo magari tra quelli che sono impegnati ad occuparsi di talmente tante cose da finire in “conflitto d’interesse”?

Estratto dell’articolo di Emiliano Bernardini per “il Messaggero” il 2 marzo 2022. 

(…) Holly' s Good, conosciuta anche come Daisy Ciotti, (…) in serata sul suo profilo instagram a corredo della locandina delle' vento di sabato 26 scrive: «Finalmente posso dirlo...per scaramanzia ho preferito aspettare. 

Il 26 febbraio ho portato in scena il primo di una serie di eventi per il Circolo Ufficiali Forze Armate d'Italia. Per tutto l'anno avrò la possibilità di portare in scena musica dal vivo, burlesque, danza, lirica e molto altro».

Contattata telefonicamente, ci dà la sua versione: «Ho scoperto poco fa cosa è accaduto. E sono molto sorpresa. Tra l'altro erano presenti anche le mogli. Ho ricevuto molti applausi e complimenti anche da loro. Non c'era affatto il clima di cui sento parlare. E nel contratto che abbiamo firmato c'era l'obbligo di non divulgare le immagini della serata». 

Cosa prevedeva il contratto e quando è stato firmato? «Lo abbiamo firmato più di un mese fa dopo aver partecipato ad un bando. Sono previste quattro serate di cui solo una di burlesque. Trovo folle che nel 2022 veniamo additate come spogliarelliste. Tutti erano ben consapevoli di cosa venivano a vedere. 

Le dico di più: nessuno ci ha chiamato dal ministero o dal Circolo. Le altre serate restano ancora in calendario». Già anche se più di una voce riferisce il contrario. Uno spettacolo che non ha trovati i favori nemmeno di Albadoro Gala una delle performer più importanti e maestra di Holly' s Good: «Penso che non è la prima e né l'ultima volta che performer rovinino l'immagine di tutte le altre colleghe. 

E' vero che in tempo di guerra, o di quasi guerra, le donnine tirano su il morale dei militari ma... Il burlesque deve essere adattato. Una professionista deve saper scegliere quale spettacolo fare in base al luogo e alle persone che ha di fronte. Quando è capitato a me ho fatto diversamente. Io avrei mostrato il lato più elegante dello show».

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2022. 

Stasera sul palco saliranno i «The Fuzzy Dice». Musica anni 50-60, per festeggiare il Martedì grasso. 

A meno che non ci siano stati cambi di programma, rispetto a quello previsto da settimane e pubblicato anche online sul sito del ministero della Difesa, nel settore dedicato al Cufa, ovvero il Circolo ufficiali delle forze armate. Un appuntamento nel quale - recita il tabellone sul web - «i soci potranno "vestire", per l'occasione gli abiti del periodo del "Boom economico Italiano"». 

Niente di male, si dirà. 

Se non fosse che su quello stesso palco, sabato scorso, è salita anche Daisy Ciotti, 33 anni, in arte Holly' s Good, pluripremiata ballerina di burlesque, «Best Debut» all'Hall of Fame di Las Vegas con il titolo «Most Classic 2019». 

Insomma, un asso della specialità, ma la sua esibizione è costata l'incarico al direttore del circolo di via XX Settembre, che si trova proprio alle spalle del palazzo della Difesa, prima ancora che i video dello show della giovane originaria dei Castelli Romani, ma diventata una star internazionale dopo essere sbarcata negli Usa, facessero il giro del web. 

A registrarli alcuni spettatori più che altro stupiti e in imbarazzo, qualcuno però anche piuttosto contrariato, dal fatto che la ballerina terminasse il suo show in perizoma, con lo stemma delle forze armate italiane stampato sulle quinte, in un periodo di guerra ai confini dell'Europa, con le nostre truppe impegnate a controllare la frontiera dell'Ucraina in fiamme. E per di più a due passi dal Quirinale.

 Quando l'hanno scoperto al ministero di via XX Settembre hanno deciso di procedere in via d'urgenza, anche perché nel programma delle «attività culturali e ricreative denominate "Musica e Sapori"», questa sessione di burlesque davanti a una platea composta per lo più da ufficiali in pensione con le loro consorti, non era stata segnalata e nemmeno autorizzata. 

Un incidente grave per un circolo che deve promuovere «lo sviluppo e il consolidamento dello spirito di corpo fra tutti gli ufficiali appartenenti alle forze armate, compresa l'Arma dei carabinieri e la Guardia di Finanza, con la promozione di attività culturali e ricreative a favore degli iscritti e dei loro familiari». 

La reazione dell'ufficio del capo di Stato Maggiore della Difesa, l'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, è stata dura e non si è fatta attendere. Non sono passate nemmeno 48 ore e il provvedimento di rimozione è stato comunicato, ieri mattina appunto, all'ufficiale considerato responsabile del fatto.

 «Nell'esprimere profondo disappunto per quanto accaduto», è stato spiegato dai vertici del Smd, oltre a ordinare «il trasferimento del direttore ad altro incarico», su richiesta del Ministro della Difesa, è stata avviata «immediatamente un'inchiesta interna tesa a verificare fatti e responsabilità che, qualora ravvisate, avranno come conseguenza provvedimenti disciplinari commisurati con la gravità dei fatti accertati». Quindi non si esclude che già nelle prossime ore altri militari in servizio al Circolo possano essere trasferiti.

Burlesque al Circolo ufficiali, parla la ballerina: «La mia è arte, nessuno scandalo. Italiani perbenisti». Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

Holly’s Good, al secolo Daisy Ciotti, il giorno dopo la bufera mediatica è andata a insegnare in una sala da ballo all’Aventino. «Il burlesque non è volgare, aiuta tante donne a credere in se stesse».

La ballerina di burlesque Holly’s Good

«Ma sul serio nel 2022 ancora si associa il burlesque ai night club? Si tratta di un’arte che può avere anche un valore sociale». Così la ballerina Holly’s Good, al secolo Daisy Ciotti, prende posizione il giorno dopo l’esplosione dello scandalo che l’ha investita in prima persona: la sua esibizione al circolo ufficiali delle forze armate di via XX Settembre, a Roma, ha portato alla rimozione immediata del direttore, oltre che fare il giro del web. La showgirl di Roma esprime il suo disappunto, attribuendo l’indignazione generale a un malcelato sessismo: «Finti moralisti e perbenisti che si permettono di giudicare senza conoscere».

La ballerina, unica italiana ad aver vinto un titolo mondiale alla Burlesque Hall of Fame di Las Vegas, la mattina dell’1 marzo, all’indomani del ciclone mediatico, ha cercato di fare come nulla fosse: come tutti i giorni si è recata nella scuola dove insegna in zona Aventino per la lezione delle 10.30. Il tono è quasi stupito su Instagram: «Davvero è scandaloso che una donna sia consapevole e mostri il proprio corpo? Davvero con quello che si vede sui social e in tv, il sedere di un’artista fa tanto scalpore?»

Il burlesque come strumento di emancipazione e valorizzazione della persona, così lo vede Holly’s Good. «Si tratta di un’arte che ogni anno aiuta tantissime donne e non solo, di ogni età e fisicità, a credere in se stesse, a farsi forza dopo un divorzio, una malattia, una perdita... N on solo è elegante da vedere, ma anche socialmente rilevante». La ballerina che l’altra sera si è esibita al circolo ufficiali del ministero della Difesa ricorda lo stop delle esibizioni causa Covid che ha messo in ginocchio molti performer. E attacca i media: «Dopo due anni di pandemia in cui gli artisti sono stati dimenticati dalle istituzioni, continuate ad affossare gli eventi, invece di sostenerli!». La showgirl smentisce le voci secondo di un’esibizione accolta con freddezza: «Il pubblico presente era composto per il 50% da donne. Perlopiù mogli che, oltre ad aver apprezzato la musica jazz dal vivo, si sono complimentate con gioia e serenità per l’eleganza, la raffinatezza e la preparazione tecnica nella danza che abbiamo portato in scena».

Burlesque al Circolo ufficiali di Roma, Misty Night: «Il mio corpo accostato agli show a luci rosse». Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.

Una delle ballerine ha cominciato da poco a esibirsi e si è trovata su tutti i media suo malgrado. Piange mentre dice: «Mi hanno descritta in modo volgare».

Era solo la terza esibizione dal vivo per Misty Night, eppure si è ritrovata con il viso e il corpo su siti, quotidiani e telegiornali. Quello spettacolo al Circolo ufficiali delle Forze armate di via XX Settembre a Roma, che ha causato la rimozione immediata del direttore, l’ha catapultata in un mondo a cui non ha ancora deciso se appartenere.

Martina, infatti, questo il suo vero nome, non sa per il momento se desidera dedicarsi al burlesque a livello professionale. Ha un altro lavoro che non vuole rivelare, così come il suo cognome. I boccoli scuri hanno ceduto il passo a una coda bassa, indossa scarpe da ginnastica e un cappotto nero, quasi a voler nascondere l’esuberanza fisica.

Tutt’altro portamento Holly’s Good, al secolo Daisy Ciotti, con chioma platino e avvolta in un tubino rosso. Ballerina e imprenditrice che ha partecipato al bando con cui si è aggiudicata la possibilità di organizzare cinque spettacoli al circolo e che si è esibita con Misty Night nella serata di sabato scorso.

Rispetto al momento storico in cui si è svolta l’esibizione - la guerra in Ucraina - Holly’s Good minimizza: «La serata di burlesque era programmata da più di un mese e mezzo». Nessuna sorpresa, dunque, per i partecipanti. Lo scalpore per la vicenda ha colto di sorpresa le due donne, con Martina che sottolinea: «La serata era cordiale, accogliente, sono stata trattata da artista. Non ci sono stati né imbarazzo né sgomento in sala, come riportato erroneamente da alcuni giornali».

A umiliarla, non il parterre ma la valanga di parole che le è crollata addosso nei giorni seguenti. Martina non riesce a trattenere le lacrime quando dice: «La mia immagine è stata calpestata, ci sono state descrizioni volgari, erronee, incongruenti e strumentalizzanti. Ho provato rabbia e disgusto». E punta il dito: «C’è ignoranza rispetto all’arte del burlesque. Sono nervosa perché è faticoso dover dare spiegazioni che non sento di dover dare». Rispetto al fatto che l’evento si sia svolto in un circolo di militari e in un periodo difficile, Misty Night ammette: «Probabilmente il tempismo non era dei migliori, ma purtroppo non è dipeso da me».

Nonostante il suo viso sia diventato ormai noto non vuole farsi fotografare né rivelare le sue generalità, perché vuole appropriarsi nuovamente delle decisioni che riguardano la sua persona: «Vorrei uscire allo scoperto come si deve e non voglio che la mia immagine sia associata a night club o, addirittura, a spettacoli a luci rosse, accostamento che qualcuno si è spinto a fare».

Gabriele Bianchi scrive dal carcere: “Ad uccidere Willy Monteiro Francesco Belleggia”. Giampiero Casoni il 26/02/2022 su Notizie.it.

Dalla sua cella di detenzione nel carcere romano di Rebibbia Gabriele Bianchi scrive ad AdnKronos: “Ad uccidere Willy Monteiro fu Francesco Belleggia”. 

Gabriele Bianchi scrive dal carcere una lunga lettera di “aggiustamento”, nelle intenzioni del processo in cui è coimputato per omicidio volontario: “Ad uccidere Willy Monteiro Francesco Belleggia”. Le parole del giovane di Artena, imputato con altri due per l’omicidio aggravato di Willy Monteiro Duarte, il 21enne cuoco di Paliano di origini capoverdiane, sono accuse precise.

Gabriele Bianchi scrive dal carcere: “È stato Belleggia”

Accuse su colui che a suo dire è stato il solo esecutore materiale del brutale omicidio che gettò un paese intero nello sconforto nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 vicino Colleferro, in provincia di Roma. La lettera Bianchi l’ha inviata dal carcere romano di Rebibbia, dove è ristretto in custodia cautelare, all’AdnKronos. E il sunto è questo: “Non ho toccato Willy nemmeno con un dito.

L’unico vero responsabile della morte di quel ragazzo pieno di vita è Francesco Belleggia”. E ancora: “È stato lui a scatenare la lite quella notte, lui a colpire Willy con un calcio al collo quando era in ginocchio, in procinto di alzarsi”.

Il racconto dal carcere: la messa, i corsi, la paternità e le scuse

Gabriele Bianchi è imputato nell’aula di Corte di Assise presso il Tribunale di Frosinone insieme al fratello Marco e a Francesco Belleggia.

Lo scopo è quello di creare un clima extra dibattimentale da cui l’immagine brutale di picchiatori sua e di suo fratello possa uscire ridimensionata e magari “fare polpa di merito” nel futuro pronunciamento della corte. La missiva contiene precisi riferimenti a circostanze come i mesi trascorsi in isolamento, il corso di perito informatico e di pianoforte, la presenza alla messa, gli allenamenti e la nascita del figlio. Nella lettera Gabriele è anche tornato a scusarsi con la madre della vittima.

Beatrice Tominic per fanpage.it il 27 aprile 2022.

Era finita a processo dopo aver insultato ininterrottamente per dieci minuti un agente della Polizia Locale che l'aveva appena multata per averla colta mentre guidava contromano su una strada di fronte all'Ara Pacis, accusata di oltraggio, minacce e violenza a pubblico ufficiale. La sentenza, dopo anni di udienze, è arrivata un paio di giorni fa: la donna, che lavora come funzionaria per una banca romana e che non ha mai ammesso quanto accaduto, è stata assolta con formula piena.

La vicenda ha origine nel 2015, ben 7 anni fa, come è descritto con la necessaria dovizia di particolari nel verbale stilato proprio dall'agente della Polizia Locale interessato insieme ad un'ispettrice del I gruppo Trevi. Nella mattina del 3 marzo, secondo il verbale redatto dai due agenti alle ore 11,05, si trovavano al varco di accesso della Zona Traffico Limitato (ZTL) di piazza Augusto Imperatore, di fronte al museo dell'Ara Pacis, nella via parallela di un tratto del Lungotevere in Augusta. Proprio dalla strada del Lungotevere, in quel momento, è arrivata una Mercedes che si è immessa nella ZTL, entrando nella via in senso opposto a quello di marcia.

Subito dopo aver compiuto l'effrazione, prima ancora che i due agenti si avvicinassero per multarla, la donna li ha raggiunti e ha iniziato ad insultarli. "Siete fannulloni e arroganti, rubate i soldi dello stipendio che vi pago io – ha iniziato ad urlare per la strada la donna – Datemi i vostri nomi che vi denuncio."

Poi, oltre alle offese, ha iniziato a deriderli: "Quanto ci mettete per fare un verbale! Serve la Treccani? Siete ignoranti, dovreste comprare un libro." Una volta terminata la prima serie di offese, la donna comincia di nuovo con la seconda, ripetendo le offese ininterrottamente senza permettere ai due agenti di esprimersi, fino alle 11.15. In quell'arco di tempo, mentre la donna continuava a parlare, i due vigili hanno redatto una multa di 112 euro per essere entrata nel varco attivo della ZTL, mai contestata e subito pagata dall'imputata.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 26 febbraio 2022.

Un monologo di insulti e minacce riservato ai vigili urbani non sempre costituisce reato. Almeno in base a una sentenza emessa ieri mattina dal giudice monocratico di Roma. Il processo (durato anni) a carico di una funzionaria di banca romana accusata dalla procura e da un dettagliato resoconto della Polizia Locale di aver recitato ininterrottamente, per dieci minuti, offese pressoché irripetibili a due vigili urbani che l'avevano multata, mentre viaggiava contromano di fronte all'Ara Pacis, non si è concluso, infatti, con una condanna esemplare, ma in una sentenza assolutoria con formula piena.

Forse perché sulle annotazioni di servizio non erano riportati i nomi di testimoni, pur indicati a margine? Le motivazioni si conosceranno tra un mese. Intanto la donna, assistita dall'avvocato Donatella Amicucci, è stata assolta dall'accusa di minacce finalizzate a impedire a un pubblico ufficiale di compiere il proprio ufficio. Agli atti, però, restano i verbali, le imputazioni e, da ieri, la sentenza.  

È la mattina del 3 marzo del 2015. «Ore 11,05», annotano un funzionario e una ispettrice del I Gruppo Trevi.

Agli atti, però, restano i verbali, le imputazioni e, da ieri, la sentenza. È la mattina del 3 marzo del 2015. «Ore 11,05», annotano un funzionario e una ispettrice del I Gruppo Trevi. «Eravamo impegnati al varco di accesso Ztl di piazza Augusto Imperatore, quando notavamo un veicolo marca Mercedes che, proveniente da Lungotevere in Augusta, impegnava in senso vietato la rampa dell'Ara Pacis entrando così in Ztl.

Prima ancora di avvicinarci al veicolo la conducente scendeva iniziando a inveire: Siete aggressivi, arroganti, maleducati, fannulloni, vi dovreste vergognare, rubate lo stipendio, siete sempre al bar in gruppi di cinque a chiacchierare, siete ignoranti, andate a studiare, andate a comprare i libri, siete ignobili, siete la rovina della società, voi non lavorate , rubate i sodi. Datemi i vostri nomi che vi denuncio. Vi pago io con i soldi delle tasse...Quanto ci mettete per fare un verbale! Che ci vuole la Treaccani?. Tali frasi - si legge ancora nel verbale - venivano urlate dalla signora in mezzo alla strada più volte e in maniera continuativa tanto che agli scriventi non veniva data la possibilità di parlare, neanche per provare a calmare i toni del monologo».

Insulti che si è arrestato solo alle 11.15». Nel frattempo i due caschi bianchi avevano redatto le multe anche per la circolazione in Ztl sprovvista di autorizzazione, 112 euro. Contravvenzione mai contestata e subito pagata dall'imputata, che in realtà, non ha mai ammesso lo sproloquio e ora è stata assolta. Adelaide Pierucci 

Luigi Biagi per il Messaggero il 13 aprile 2022.

I fratelli Marco e Gabriele Bianchi sono stati condannati anche in Appello per tentata estorsione e spaccio. La sentenza è stata emessa dalla Tribunale di Roma lunedì ma alleggerisce le pene inflitte a Velletri. 

I due artenesi sono alla sbarra a Frosinone per l'omicidio di Willy Monteiro, il giovane di Paliano ucciso a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020. La sentenza sulla morte di Willy dovrebbe arrivare alla fine di maggio ma quello nel tribunale ciociaro non è l'unico processo a carico dei Bianchi. I due fratelli di Artena hanno a che fare con le aule di giustizia per altre vicende avvenute fra il 2019 e il 2020 tra Velletri e Lariano.

L'anno scorso la magistratura veliterna aveva inflitto loro cinque anni e quattro mesi di reclusione per tentata estorsione e spaccio. Dopo il ricorso, l'altro ieri è arrivata la pronuncia della Corte d'Appello di Roma, che ha rivisto la decisione, riducendo la pena a quattro anni e sei mesi. 

«Non sono molto soddisfatto ha commentato l'avvocato Massimiliano Pica, che difende entrambi i fratelli e appena avrò letto le motivazioni, se sarà il caso, farò ricorso in Cassazione». 

Gli avvenimenti al centro del processo concluso a Roma sono la gestione della droga e il tentativo di recupero illegale di crediti, con minacce e percosse, nei confronti di clienti dell'area veliterna. Le indagini dei carabinieri di Velletri documentarono il pestaggio di un ragazzo di Lariano e di suo padre per un piccolo debito di droga. Le indagini portarono quindi a un ordine di arresto a carico di Marco e Gabriele emesso nel dicembre 2020, quando i due erano già in carcere per la morte di Willy.

In quei giorni le manette scattarono anche per altre quattro persone, tra cui un ragazzo di Artena, Orlando Palone, all'epoca diciannovenne, che è stato condannato l'anno scorso a 2 anni e 8 mesi da scontare ai domiciliari. Per lui l'avvocato Massimiliano Pica lunedì ha ottenuto un concordato a un anno e sette mesi, in forza del quale il giovane è stato rimesso in libertà. 

Nello stesso processo era implicato anche un veliterno di cinquant' anni, che con i Bianchi non ha avuto mai niente a che fare. Si tratta di Valentino Fabiani, arrestato nel 2020 e condannato l'anno scorso per spaccio. Il Tribunale di Velletri gli aveva inflitto sei anni e otto mesi di reclusione. La Corte d'Appello ha ridotto la pena a tre anni e dieci mesi, ai domiciliari. La decisione lascia soddisfatto l'avvocato Ascanio Cascella, che lo ha rappresentato nel processo.

Vincenzo Caramadre Marina Mingarelli per “il Messaggero” il 13 maggio 2022.

Ergastolo, il massimo della pena, per Marco e Gabriele Bianchi, 24 anni di reclusione per Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Sono le richieste di condanna per i quattro imputati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte il cuoco di Paliano, in provincia di Frosinone, di soli 21 anni, massacrato di botte a Colleferro la notte tra il 5 e il 6 settembre 2020. Ieri in sette ore di requisitoria, davanti ai giudici della Corte d'Assise di Frosinone, i sostituti procuratori di Velletri, Francesco Brando e Giovanni Taglialatela, hanno ricostruito le fasi di quella drammatica notte in cui il corpo del ragazzo venne «utilizzato come un sacco di pugilato» nel corso di «una aggressione becera e selvaggia messa in atto da quattro individui».

Una tragedia che, ha ricorda ieri l'accusa, «si consumata in 50 secondi». Per i pm Brando e Taglialatela non ci sono dubbi: Willy non è morto per una condotta preterintenzionale, chi lo ha colpito sapeva molto bene quali fossero i punti di contatto vitali per ucciderlo.

La lite scoppiata fuori ad un pub, il «Due di picche» si trasforma in tragedia con l'arrivo dei fratelli Bianchi che, come raccontato da un testimone, scesero da un’auto e si lanciarono contro chiunque capitasse a tiro. «L'azione è partita da Marco e Gabriele Bianchi, ma poi si salda con l'azione di Belleggia e Pincarelli e diventa una azione unitaria - hanno spiegato i pm -. Quello che è successo a Duarte poteva capitare a chiunque altro si fosse trovato di fronte» al branco.

Un ruolo centrale nella requisitoria ha avuto il modus operandi dei quattro e in particolare la loro conoscenza della Mma, l'arte marziale di cui i Bianchi sono esperti, che è stata utilizzata come arma per «annientare il contendente» e di «farlo senza considerare le conseguenze dei colpi». Parole durissime, poi quelle dei pm per definire i quattro imputati: «Da una parte gli aggrediti, dall'altra gli aggressori. Soggetti che provocano, soggetti che prevaricano. Che non hanno rispetto per nessuno. Protagonisti acclamati di sceneggiate nei locali, che hanno atteggiamenti paramafiosi».

Nessuna attenuante per i fratelli Bianchi, al contrario degli altri due imputati per questi due sono state accolte le generiche. Per quanto riguarda il coinvolgimento di Francesco Belleggia sono state trovate tracce di Dna della vittima su una sua scarpa. Segno questo che anche il 25enne di Artena, (l'unico che ha beneficiato dei domiciliari perché ha collaborato con la magistratura) ha contribuito in questo pestaggio. Stessa posizione per Mario Pincarelli che al momento dell'identificazione indossava una camicia bianca con evidenti tracce rosse.

Ernesto Cenciarelli, uno dei testimoni chiave nel disperato tentativo di difendere Willy è stato colpito con un calcio alla trachea da uno dei fratelli Bianchi. «Cenciarelli- ha dichiarato il pm Taglialatela- ha rischiato di morire come lo sventurato cuoco di Paliano. Perché è stato ucciso Willy? Cosa diciamo alla madre? Lui non aveva alcuno strumento di difesa, mentre uno gli schiacciava il diaframma, due lo pestavano. E stato ucciso senza motivo, perché si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato. 

Willy è stato accerchiato, uno di fronte e due ai lati, è stato preso a calci, schiacciato. Quante gambe devono avere i fratelli Bianchi se sono stati solo loro? Portatemi le prove che abbiano quattro gambe e otto braccia, ma non è così. Il suo corpo, che presenta lacerazioni ovunque, è stato usato come fosse un sacco da pugilato».

Presente in aula Lucia la madre della vittima, la quale mentre vengono ricostruiti gli ultimi istanti di vita del figlio, anche attraverso la proiezione di alcune immagini, si è portata le mani sul viso, non trattenendo le lacrime. Concludono i pm: «Willy è morto per la follia lucida degli imputati. Per la follia del branco». 

I fratelli bianchi appaiono nervosi. I pm in aula hanno smontato anche le ricostruzioni fornite nel corso del processo da due testi, Roussi Faiza e Aldo Proietti, chiedendo la trasmissione degli atti in procura per falsa testimonianza. «È inaccettabile- ha dichiarato il pm Taglialatela- che per un fatto così grave si possa essere reticenti». Parti civili, la famiglia del ragazzo, ma anche i comuni di Paliano, Artena e Colleferro, il 19 maggio concluderanno le difese. La sentenza è prevista per il 26 maggio.

"Io non l'abbandono". Omicidio Willy, la fidanzata di Gabriele Bianchi è sicura: “È innocente, mi ha detto che non l’ha colpito”.  Roberta Davi su Il Riformista il 13 Maggio 2022.  

La sera in cui Willy Monteiro Duarte venne massacrato di botte, lei era stata a cena a Velletri con Gabriele Bianchi, il suo compagno, il fratello Marco e altri amici. Scoprendo ciò che era successo solo alcune ore dopo, all’arrivo della polizia ad Artena, dove lo stava aspettando.

Giovedì 12 maggio Silvia Ladaga ha assistito alla lunga requisitoria dei pm Francesco Brando e Giovanni Taglialatela, nell’aula della Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone, al termine della quale è stato chiesto l’ergastolo per i fratelli Bianchi. “Visto come si erano messe le cose me lo aspettavo che il pm chiedesse l’ergastolo, ma Gabriele mi ha detto che non ha colpito lui Willy Monteiro e io a quello che mi ha detto ci credo” ha dichiarato la donna a Repubblica.

“Io non l’abbandono”

Silvia Ladaga ha 30 anni, è figlia di un esponente di Forza Italia e si è lei stessa candidata alle regionali 2018, senza però essere eletta. Dopo la morte di Willy, anche lei ha subito diversi attacchi sul web, ma non ha dubbi sul suo compagno: è innocente. “Ho ricevuto minacce, hanno scritto di tutto, ma io a Gabriele credo”.

Con lui era stata in vacanza a Ponza, aveva aperto un negozio di ortofrutta a Cori, in provincia di Latina. Da lui aspettava un figlio quando è stato arrestato. Un bambino che ora sta crescendo da sola e che porta in visita dal padre a Rebibbia, anche se quello ‘non è il suo mondo’, sottolinea.

La sentenza è prevista tra due settimane e lei è consapevole che il suo compagno potrebbe passare il resto della sua vita in carcere. “Io non l’abbandono” ha assicurato. Ma non lo fa di certo per pietà. “Lo faccio appunto perché credo a quello che mi ha detto Gabriele, alla sua innocenza”.

“Il corpo di Willy usato come un sacco di pugilato”

Secondo i pm l’omicidio del 21enne è stato ‘doloso, volontario e non preterintenzionale’ . I quattro imputati- i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia– hanno ucciso il 21enne senza un perché: “Willy è morto per la follia lucida degli imputati. Per la follia del branco” ha detto al termine della sua requisitoria Francesco Brando.

Massacrato di botte, “sopraffatto dai 4 imputati che lo hanno picchiato selvaggiamente con colpi micidiali, lui con le braccia scese, dicono i testimoni, non tentava nemmeno di reagire, preso a calci e pugni mentre boccheggiava e annaspava a terra, da solo per 50 eterni secondi prima di morire”. Secondi pieni di sofferenza, con il suo corpo, secondo Taglialatela, usato ‘come un sacco di pugilato’. Roberta Davi

Delitto Willy, la difesa dei coimputati: «Menzogne dagli amici dei Bianchi». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

I loro avvocati: «Assolvete Belleggia e Pincarelli, sono vittime di un accordo per salvare quei due». Penultima udienza in corte d’Assise a Frosinone per l’omicidio del 21enne. 

Marcare le differenze rispetto alle responsabilità ei fratelli Bianchi.Distinguere con precisione ogni singola azione compiuta. Smontare la tesi dell’accusa secondo cui a Colleferro, la notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, agì una banda di picchiatori consolidata nella composizione e nell’unità di intenti. Le arringhe degli avvocati difensori dei due coimputati nel delitto di Willy Monteiro Duarte, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, ha una direzione chiara: scaricare sui due picchiatori di Artena le cause esclusive della morte del 21enne Loro l’aggressione, loro i colpi mortali. Sia per Belleggia che per Pincarelli i legali hanno chiesto la piena assoluzione a fronte di una richiesta di condanna a 24 anni ciascuno avanzata dalla procura di Velletri nella precedente udienza. I pm hanno chiesto l’ergastolo per Marco e Gabriele Bianchi ma la differenza di pena sollecitata risiede solo nei precedenti penali a carico di questi ultimi due.

Parla per prima Loredana Mazzenga, legale di Pincarelli: «C’è stato un accordo tra gli amici dei fratelli Bianchi per limitare le responsabilità di questi aggravando invece la posizione degli altri imputati. Personaggi ritenuti attendibili dalla procura, ma che in realtà non lo sono, hanno attribuito a Pincarelli condotte da lui mai realizzate».

Il tema della corretta valutazione delle testimonianze, sul quale tanto ha insistito il duo di pm, Giovanni Taglialatela e Francesco Brando, viene ripreso anche nell’arringa del difensore di Belleggia, Vito Perugini, che ribalta le risultanze dell’accusa: «Ci sono diciassette testimoni — dice il legale — che con certezza individuano Belleggia (riconoscibile nella folla anche da un braccio ingessato, ndr) e dicono di non averlo visto sferrare colpi a Willy. Altri quattro, invece, lo chiamano in ballo ma tre di questi Shabani, Tondinelli e Cerquozzi sono gli amici dei Bianchi (il quarto, Cenciarelli, era a terra per difendere Willy, ndr) e offrono ricostruzioni piene di contraddizioni. Non si possono ritenere attendibili solo le parti che sostengono l’accusa. Belleggia non era amico dei Bianchi, non era nella loro chat dei pestaggi e non li ha chiamati lui in soccorso».

Secondo la procura, il 21enne di Paliano fu vittima di una «becera e selvaggia aggressione» di 50 secondi, nella quale i Bianchi agirono per affermare il proprio potere. Nella prossima udienza parlerà il loro difensore Massimiliano Pica, poi la corte d’assise di Frosinone entrerà in camera di consiglio per la sentenza.

Simona Berterame per fanpage.it il 20 maggio 2022.  

Un lungo abbraccio prima di separarsi, rimettere le manette ai polsi e rientrare in carcere. Si sono salutati così Gabriele e Marco Bianchi, al termine dell'ultima udienza in Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone. I due fratelli sono imputati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il giovane di Paliano morto dopo un violento pestaggio avvenuto la notte del 6 settembre 2020.

Jeans blu e camicia bianca, i due gemelli di Artena si sono presentati così all'udienza dedicata alle arringhe difensive. Sono rimasti in aula, impassibili, per sei ore filate. Accanto a loro Mario Pincarelli, anche lui accusato di aver ucciso Willy. Non si sono scambiati neanche una parola, nonostante fosse a un paio di metri da loro, neanche uno sguardo.

L'aula è affollata dagli amici di Willy. In mezzo a loro c'è la mamma Lucia, presente a tutte le udienze in silenzio composto. Ascolta, parla con un filo di voce e si lascia accompagnare sotto braccio dagli amici del figlio. In un angolo della stanza c'è anche Silvia Ladaga, la fidanzata di Gabriele. Anche lei non si è persa un'udienza, restando sempre in disparte per non attirare l'attenzione dei presenti.

Il pm di Velletri, Francesco Brando, ha chiesto l'ergastolo per i fratelli Bianchi e 24 anni per gli altri imputati, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Secondo il pubblico ministero si è trattata di "un'aggressione becera messa in atto da quattro individui in danno di un ragazzino. Noi pensiamo che questo sia un omicidio doloso, volontario e non preterintenzionale". Per l'accusa è Belleggia che ha colpito per primo Willy con un calcio al volto, ma sono i fratelli Bianchi ad averlo picchiato.

Gabriele Bianchi avrebbe colpito il giovane con un calcio al torace, uno dei colpi che si sono rivelati mortali. Il 26 maggio sarà il turno delle arringhe difensive dei Bianchi e delle eventuali repliche del pm. I giudici decideranno poi se riunirsi quello stesso giorno in camera di consiglio oppure far slittare la sentenza programmando una nuova udienza.

Omicidio Willy Monteiro, Gabriele Bianchi: «Non l’ho toccato nemmeno con un dito. Vorrei tornare indietro e cambiare tutto». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

All’udienza in Corte d’Assise a Frosinone, le parole del ragazzo accusato di omicidio volontario insieme al fratello Marco e ai presunti complici Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Sentenza il 4 luglio. La mamma di Willy: «Non si è ucciso da solo».

A fine udienza, dopo un lungo conciliabolo con il loro avvocato, i fratelli Bianchi si abbracciano stretti e per tre volte il maggiore dei due, Gabriele, afferra la testa dell’altro nella sua mano destra e gli stampa un bacio sulla guancia. Dopo le udienze passate a testa basta nell’ascoltare le accuse contro di loro, gli imputati principali di questo processo, seduti nella loro cella in aula sembrano ritrovare quella spavalderia che li ha sempre caratterizzati fino alla notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, quando parteciparono alla aggressione mortale contro Willy Monteiro Duarte a Colleferro. «Gabriele non ha colpito Willy e Marco l’ha colpito, come d’altronde ha ammesso fin dall’inizio, solo in maniera non decisiva, su un fianco», ha appena detto il loro legale Massimiliano Pica a conclusione della sua arringa. Per entrambi chiede l’assoluzione o, in subordine, di derubricare l’omicidio da volontario a preterintenzionale. Anche in questa seconda ipotesi, la differenza con la richiesta di condanna all’ergastolo sollecitata dalla procura di Velletri sarebbe sostanziale. «Non c’è niente da commentare, io so che ho perso mio figlio e di sicuro non si è ucciso da solo», dice la mamma di Willy, Lucia, uscendo amareggiata dall’aula di Corte d’Assise a Frosinone. La sentenza, inizialmente prevista per ieri, slitta al 4 luglio.

«Nessuno dei 26 testimoni oculari — gran parte dei quali identifica i due fratelli Artena come principali autori del pestaggio, ndr — può aver visto esattamente cosa è successo», ha sostenuto l’avvocato Pica, avvalendosi di una serie di slide nelle quali ha ricostruito quella che secondo una perizia da lui commissionata era l’esatta posizione dei testimoni sul luogo del delitto. «Il buio, la confusione, le altezze dei protagonisti alterate dalla presenza di un marciapiede» sono tutti fattori che avrebbero restituito ai presenti una visione distorta dei fatti. Questa versione chiama implicitamente in causa gli altri due imputati Francesco Belleggia e Mario Pincarelli (per loro sono stati chiesti 24 anni di condanna in virtù della mancanza dei precedenti che invece aggravano la posizione dei Bianchi). A loro volta, Belleggia e Pincarelli, chiedendo l’assoluzione per sé, accusano i due di Artena, esperti della disciplina da combattimento Mma e con una fama di picchiatori abituali per il gusto di «affermare il proprio potere», come detto dai pm Francesco Brando e Giovanni Taglialatela. A inizio udienza era stato Gabriele a rendere dichiarazioni spontanee: «Non ho ucciso Willy, non l’ho toccato neanche con un dito, e se anche avessi voluto non avrei saputo farlo. Se potessi tornare indietro cancellerei quella notte maledetta, i suoi genitori meritano giustizia». Parole accompagnate dai brusii di un gruppo di amici e mamme di Paliano accorse in solidarietà della famiglia Duarte. Alcuni di loro indossano magliette bianche con scritte dedicate al ragazzo:«Ciao Willy» e «Stiamo online» , il modo che avevano gli amici della comitiva per dire, «teniamoci in contatto» prima di quella tragica notte.

Fulvio Fiano per corriere.it il 26 maggio 2022.

Gabriele Bianchi si affida a brevi dichiarazioni spontanee per allontanare da sé l’accusa di aver ucciso Willy Monteiro Duarte: «Willy non l’ho toccato nemmeno con un dito. Il pm mi ha descritto come non sono, io non sarei stato in grado, nemmeno se lo avessi voluto, di fare quello di cui mi si accusa», sono le sue parole nell’ultima udienza del processo che si celebra in Corte d’Assise a Frosinone. 

Gabriele Bianchi è imputato per omicidio volontario assieme al fratello Marco e ai due presunti complici Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Il 21enne di Paliano venne massacrato di botte a Colleferro la notte tra il 5 e il 6 settembre del 2020. Per Bianchi e suo fratello Marco la procura di Velletri ha sollecitato l’ergastolo.

Ventiquattro anni la richiesta per gli altri due. «Willy merita giustizia come la merita la sua famiglia - ha aggiunto l’imputato nel corso di dichiarazioni spontanee -. In passato ho commesso errori, ma vi prego credetemi, Willy non l’ho ucciso io. Vorrei poter tornare a quella maledetta notte e cambiare tutto. Io sogno ancora di tornare dalla mia famiglia e crescere mio figlio». La sentenza, prevista per oggi, slitta invece al 14 luglio. 

In una affollatissima e accaldata aula di tribunale, i due fratelli di Artena sono nella cella riservata agli imputati detenuti assieme a Pincarelli, tutti in camicia bianca. Presenti anche i genitori di Willy, alcuni loro parenti e un gruppo di amici che li sostengono con magliette dedicate al ragazzo: «Ciao Willy» e «Stiamo online», il modo che avevano gli amici della comitiva per dire, «teniamoci in contatto».

Secondo quanto ricostruito dai pm della procura di Velletri in base alle testimonianze gli oltre 30 testimoni ascoltati il primo calcio al torace di Willy venne scagliato con la pianta del piede da Gabriele Bianchi, una mossa di arti marziali che — ha accertato la perizia medica — già da solo sarebbe stato sufficiente a causare il decesso del 21enne. Con la vittima già a terra suo fratello Marco l’avrebbe poi colpito ripetutamente, coaudiuvato da Pincarelli e Belleggia. 

Un altro colpo ricevuto alla carotide sarebbe stato parimenti sufficiente a ucciderlo. Gli avvocati di Belleggia e Pincarelli hanno chiesto l’assoluzione dei propri assisti, sostenendo che non possono essere tenute in conto le testimonianze che li accusano, perché provenienti dagli amici dei Bianchi con l’intento di scagionarli.

Sullo stesso punto insiste, al contrario il difensore dei Bianchi, Massimiliano Pica, nella sua arringa. L’avvocato si avvale di alcune slide in cui simulando la posizione degli imputati — raffigurati da manichini — sulla scena del delitto, prova a smontare una alla volta le testimonianze di chi le accusa, spiegando perché non possono essere sufficienti a stabilire le responsabilità dei due fratelli di Artena. 

«Nessuno dei 26 testimoni oculari può aver visto con chiarezza quello che stava succedendo. Al momento del pestaggio era buio, c’era troppa gente presente, alcune visuali erano coperte da una siepe, altre testimonianze non tengono conto dell’altezza effettiva dei due perché uno di loro era sul marciapiede». Secondo Pica, tante sarebbero le incongruenze tra quanto detto in aula e quanto effettivamente successo. «Gabriele Bianchi non ha colpito Willy, Marco l’ha colpito ma in modo non decisivo». È la conclusione della arringa dell’avvocato Pica che chiede l’assoluzione per entrambi o, in subordine, di derubricare l’omicidio di cui sono accusati da volontario in preterintenzionale con esclusione delle aggravanti.

Amareggiata la mamma di Willy, Lucia, uscendo dall’aula: «Non c’è niente da commentare. Io ho perso mio figlio e di certo non si è ucciso da solo».

Grazia Longo per “La Stampa” il 27 maggio 2022.

«Sentire come Gabriele Bianchi si difende mi fa male al cuore. Riapre una ferita mai del tutto chiusa». Lucia Monteiro Duarte, madre di Willy, il ventenne ucciso a botte il 6 settembre 2020 a Colleferro, centellina le parole ma bolla come «senza senso» le affermazioni di uno degli imputati principali al processo per l'omicidio di suo figlio.

Alle 11,45 il presidente della Corte concede 15 minuti di pausa e lei, protetta dal marito Armando, da una parente originaria come loro di Capo Verde e da un gruppetto di amiche italiane, si concede uno sfogo lontano dall'aula. 

«Io so solo che Willy non ha mai fatto del male a nessuno - racconta -, studiava all'alberghiero e lavorava in un ristorante. Con i soldi che guadagnava come aiuto cuoco dava una mano anche in casa, a volte mi pagava la spesa. Era un figlio modello».

Il papà, Armando, aggiunge: «Si era anche aperto un conto in banca per mettere da parte i soldi. Aveva lavorato pure qualche mese in un ristorante in Calabria, era tanto volenteroso. Ora lui non c'è più e non può tornare indietro, ma giustizia deve essere fatta. 

Ci aspettiamo una condanna grave». E due ore più tardi, quando ormai l'udienza è conclusa e l'avvocato dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi ha appena chiesto la loro assoluzione, la mamma di Willy chiosa: «Cosa devo dire? Io ho perso mio figlio, che ora non c'è più, e di certo non si è ucciso da solo. Qualcuno è stato». 

Ieri mattina, all'inizio dell'ultima udienza del processo - la sentenza è prevista il 4 luglio - Gabriele Bianchi rende dichiarazioni spontanee: «Sono un po' agitato, Willy e la sua famiglia meritano giustizia. Mi auguro con tutto il cuore che dopo la sentenza i familiari trovino pace e serenità».

E sul suo ruolo precisa: «Willy non l'ho toccato nemmeno con un dito. Io non sarei stato in grado, nemmeno se lo avessi voluto, di fare quello di cui mi si accusa. Vorrei tornare a quella notte e cambiare tutto, il pm mi ha descritto come non sono. Ho sempre detto la verità». Sia per lui, sia per suo fratello la procura di Velletri ha sollecitato l'ergastolo, 24 anni per gli altri due imputati, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. 

Ieri, in un'aula affollata e accaldata, si è svolta l'arringa difensiva dei fratelli Bianchi, esperti di arti marziali. Sono entrambi nella gabbia degli imputati e indossano una camicia bianca aderente che a stento contiene i muscoli di spalle e braccia. Il loro avvocato, Massimiliano Pica, insiste sulla loro innocenza: «Nessuno dei 25 testimoni oculari poteva vedere con chiarezza quanto successo la notte del pestaggio di Willy. Al momento del pestaggio, era buio e nessuno era in grado di vedere con chiarezza quello che stava succedendo a causa della troppa gente presente».

Pica, per rendere più efficaci le sue parole, mostra una ricostruzione del luogo dell'aggressione con foto e diapositive. Precisa: «Quella notte la visibilità era scarsa o del tutto assente. Era impossibile per i testimoni distinguere i ragazzi, i colpi. E gli imputati hanno pagato lo scotto di una pressione mediatica subita da tutti, da me per primo. Si deve cercare di non lasciarsi condizionare, di vedere effettivamente quello che è accaduto». 

E ancora: «I testimoni sono stati sentiti dopo giorni, quando la tv dall'inizio ha definito colpevoli i fratelli Bianchi, senza mai usare il termine presunto. Ma non solo. Il professor Potenza, incaricato il 9 settembre dalla procura di Velletri di fare l'autopsia sul corpo di Willy, non ha mai parlato nella sua perizia di un calcio anteriore ma di insufficienza cardio respiratoria. È morto per le percosse, Willy, ma il calcio frontale non c'è mai stato. La lesività è sulla parte sinistra, dove infatti troviamo i segni». Poi l'avvocato incalza: «Gabriele non ha colpito Willy e Marco ha colpito un punto che non ha portato alla morte del ragazzo». 

Da qui le conclusioni: «Chiedo l'assoluzione per entrambi gli imputati per non aver commesso il fatto, la derubricazione a omicidio preterintenzionale e chiedo di guardare attentamente tutti gli atti processuali». Il papà di Willy, assistito dall'avvocato di parte civile Domenico Marzi, ascolta in silenzio e scuote il capo. Poi, a udienza ultimata, dice: «Non voglio usare parole forti, ma certo è una vergogna se quei ragazzi non vengono condannati. Io e mia moglie lo abbiamo detto sin dal primo giorno: non chiediamo vendetta ma giustizia. Giustizia vera, però».   

Omicidio Willy, i fratelli Bianchi hanno dato sfogo «ad un impulso violento». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.

Il 4 luglio attesa la sentenza. Secondo i pm, che hanno chiesto per loro l’ergastolo, i fratelli hanno colpito il giovane con il «solo intendo di ledere e senza un vero movente». 

Un «impulso violento e immotivato», una «azione del tutto spropositata». È la sintesi della accusa ai fratelli Bianchi per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte contenuta nella replica dei pm alle arringhe difensive depositata ieri.

In particolare, secondo la Procura di Velletri, i fratelli di Artena esperti di arti marziali, per i quali è stato chiesto l’ergastolo, hanno dato «sfogo al loro impulso violento, approcciandosi alla folla con il solo intento di ledere e non recedendo dal proprio proposito criminoso nonostante i tentativi» di alcuni presenti «di spiegare come non vi fosse assolutamente la necessità di adoperare violenza». Davanti alla Corte d’Assise di Frosinone i pm hanno chiesto anche 24 anni a testa per i coimputati Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. La sentenza è attesa lunedì prossimo. Riguardo alla aggressione del 6 settembre 2020 a Colleferro, secondo i pm «appare evidente come non vi fosse alcun elemento per giustificare una condotta di quel tipo, che quindi viene posta in essere nonostante l’assenza di un motivo valido, utilizzando quella discussione nata fuori ad un locale come mero pretesto per aggredire». Insomma: «Il movente della condotta è così banale che si può senz’altro osservare come un “non movente”».

Omicidio Willy Monteiro, Marco Bianchi scrive dal carcere: «Ho toccato il fondo ma combatterò per la verità». Carmen Plotino su Il Corriere della Sera il 28 giugno 2022.  

«Ho toccato il fondo. Ecco la vostra soddisfazione. È una cosa che non auguro a nessuno, la sensazione di essere da soli, al buio. Sono andato giù, ma oggi ho deciso di rialzarmi e combattere per la verità e per la vita». Non accenna al pentimento, non chiede scusa, cerca solo di influenzare l’opinione di chi legge la sua lettera, lunga sette pagine, e che Marco Bianchi spedisce all’Adnkronos dal carcere di Viterbo dove è recluso con l’ accusa di aver ucciso Willy Monteiro Duarte insieme con suo fratello Gabriele e gli amici Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. E si rivolge proprio al pubblico «influenzato», a suo dire, dalla descrizione che di loro è stata fatta dai media e che, sottolinea più volte, avrebbe «deviato» l’iter processuale.

Per lui e suo fratello il pubblico ministero ha chiesto l’ergastolo, per gli altri due 24 anni di reclusione. La lettera di Bianchi, in vista della sentenza attesa per il prossimo 4 luglio in Corte d’Assise a Frosinone, è uno sfogo quanto mai strumentale: parla, accusa i giornalisti e si rivolge alla madre del ragazzo massacrato di botte la notte tra il 5 e 6 settembre 2020 a Colleferro.

«Io e Gabriele siamo ragazzi di cuore, sinceri - scrive in stampatello e in un italiano incerto - Tutte quelle cattiverie che hanno detto contro di noi non sono vere, sono state solo bugie su bugie per farci toccare il fondo. Siamo stati descritti sin dall’inizio, senza conoscere gli atti del processo, come mostri e assassini. Dai giornali e dai social è stata usata una nostra foto per dimostrare che eravamo due ragazzi che pensavano solo a fare la bella vita. Ho avuto la forza di guardarmi allo specchio, di essere fiero di quello che sono e di combattere per la mia innocenza. Io e mio fratello non ci siamo mai nascosti su nulla, non abbiamo mai chiesto aiuto, non siamo mai stati protetti, sempre soli e divisi. Abbiamo sempre affrontato tutti i problemi per far capire la realtà delle cose, perché noi siamo così: disponibili, educati e rispettosi, sempre pronti ad aiutare i più deboli».

Comprensibile e pacata la risposta di Armando Monteiro, papà del 21enne ucciso a Colleferro: «Per adesso lasciamo le cose come stanno e non commentiamo. Il prossimo lunedì ci sarà la sentenza, confidiamo nella giustizia».

La lunga lettera alla vigilia della sentenza. Omicidio Willy, Marco Bianchi scrive alla madre della vittima: “Non l’abbiamo ucciso noi, il colpevole è al sicuro a casa sua”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Giugno 2022. 

Alla vigilia della sentenza attesa per il prossimo 4 luglio in Corte d’Assise a Frosinone, Marco Bianchi scrive una lunga lettera indirizzata alla madre di Willy Monteiro Duarte, ai giornalisti che hanno influenzato a suo dire l’opinione pubblica e il procedimento penale, a chiunque voglia ascoltare la versione di un uomo che si dice: innocente. Bianchi è accusato con il fratello Gabriele dell’omicidio di Willy, 21 anni, massacrato di botte in un pestaggio a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020. Il giovane era intervenuto per difendere un amico.

Per i fratelli Bianchi il pubblico ministero ha chiesto l’ergastolo. Per gli amici Mario Pincarelli e Francesco Belleggia 24 anni di reclusione. “Ho toccato il fondo. Ecco la vostra soddisfazione. È una cosa che non auguro a nessuno, la sensazione di essere da soli, al buio. Sono andato giù, ma oggi ho deciso di rialzarmi e combattere per la verità e per la vita”, si legge nella lunghissima missiva di sette pagine che l’imputato ha affidato all’AdnKronos. “Io e Gabriele siamo ragazzi di cuore, sinceri. Tutte quelle cattiverie che hanno detto contro di noi non sono vere, sono state solo bugie su bugie per farci toccare il fondo. Siamo stati descritti sin dall’inizio, senza conoscere gli atti del processo, come mostri e assassini. Dai giornali e dai social è stata usata una nostra foto per dimostrare che eravamo due ragazzi che pensavano solo a fare la bella vita. Ho avuto la forza di guardarmi allo specchio, di essere fiero di quello che sono e di combattere per la mia innocenza. Io e mio fratello non ci siamo mai nascosti su nulla, non abbiamo mai chiesto aiuto, non siamo mai stati protetti, sempre soli e divisi. Abbiamo sempre affrontato tutti i problemi per far capire la realtà delle cose, perché noi siamo così: disponibili, educati e rispettosi, sempre pronti ad aiutare i più deboli”.

“I problemi li abbiamo avuti a causa dei giornalisti che hanno perso il controllo, raccontando falsità su falsità. Come quella bellissima donna di Barbara D’Urso, che è madre di un figlio e non si rende conto prima di fare le puntate su di noi. Dentro sa benissimo il danno che può creare dicendo bugie sul nostro nome. Lei dormiva serena, io no, sapendo la guerra che avrei affrontato l’indomani in carcere per le bugie raccontate. Posso capire che è il vostro lavoro – riferendosi genericamente ai giornalisti – ma almeno siate umani e umili nel dire la verità, perché tutti siamo figli, tutti siamo genitori e disgrazie come questa possono accadere a chiunque. Solo che qui, oltre alla disgrazia, c’è anche la beffa che il colpevole non si è preso le proprie responsabilità. Ancora con il sangue sulle scarpe, se ne sta tranquillo in casa sua” scrive riferendosi a Belleggia, unico imputato ad oggi ai domiciliari.

“Sia io che Gabriele continueremo sempre, da uomini veri, a dire che non c’entriamo nulla con questo crimine. Non siamo degli psicopatici che negano davanti all’evidenza e prima o poi la verità uscirà fuori. C’è una grande differenza tra farsi la galera da colpevoli e farsela da innocenti. E quando tutto questo finirà, se ci sarà la possibilità di incontrarmi un giorno, rimarrete a bocca aperta – scrive tornando a rivolgersi al pubblico astratto dei media – stupiti, capendo che non siamo le brutte persone descritte dai media: quel ragazzo non è morto per mano nostra. L’ho messo in chiaro in aula, davanti al giudice, guardando in faccia la povera madre di Willy”.

Da metà della lettera in poi Bianchi comincia a rivolgersi esclusivamente a Lucia Monteiro. “Signora mia, ogni volta che ho la possibilità di guardarla, vedo il dolore e l’odio che può provare per chi le ha portato via suo figlio. È lo stesso sentimento che leggo negli occhi di mia madre, che è morta dentro e prova rancore per il vero colpevole, il bugiardo che ha rinchiuso i suoi figli in carcere al suo posto, per un crimine che non hanno commesso. Signora, io la guarderei come guardo mia madre. Se io e mio fratello fossimo gli artefici della morte di suo figlio, mai ci saremmo permessi di sostenere il suo sguardo come abbiamo fatto durante il processo, di guardarla come se guardassimo nostra madre. Non ci saremo mai permessi di negare le nostre responsabilità per tornare liberi: io, personalmente, mi sarei sentito sporco e infame”.

“Signora mia, se fossimo noi i veri responsabili di tutto questo, le avrei dato subito la soddisfazione che stavamo pagando la giusta pena. Parlo per me, ma anche per mio fratello che è in carcere senza aver toccato Willy con un dito. Io la verità l’ho detta subito, a suo figlio ha dato una spinta e un calcio per allontanarlo dal mio amico Omar (Shabani, sentito in aula come testimone, ndr), ma l’ho colpito al fianco, vero è che non ha nemmeno fatto in tempo a cadere che si è subito rialzato. Non mi sarei mai permesso di infierire con le responsabilità che derivano dallo sport che sia io che mio fratello praticavamo. A noi la Mma ha insegnato ad essere uomini, ad avere il controllo di noi stessi e ad essere sempre lucidi nelle azioni che commettiamo. Lo sport non ci ha insegnato certo ad essere assassini, al contrario ad essere responsabili, ad avere il pieno controllo della nostra forza”.

“Non siamo quei ragazzi che le stanno facendo credere, siamo semplici ragazzi di famiglia e di cuore, che se sbagliano si assumono le proprie responsabilità. La paura più grande, che non ci dà pace – conclude scrivendo anche in nome di suo fratello Gabriele – è quella di farci la galera per un fatto mediatico, non perché colpevoli. Prima o poi la verità uscirà fuori e spero sia dimostrata l’innocenza mia e di mio fratello, perché possa ritornare lui dalla sua famiglia e io crearmene una. Confido nella giustizia, la verità verrà fuori. Si sono inventati di tutto su di noi e mi spiace ma noi i problemi in carcere non li abbiamo mai avuti. Sono sempre andato in sezione con i comuni. Sulle falsità ci rido su, tra le tante quella che mi sputavano nei piatti senza sapere che ero io a portare il vitto. C’é chi ha la coscienza sporca. E non siamo io e mio fratello“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da video.repubblica.it il 4 luglio 2022.

Marco e Gabriele Bianchi sono stati condannati all'ergastolo per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte. È quanto ha stabilito la sentenza del processo per la morte del giovane. 23 anni invece la pena inflitta a Francesco Belleggia, 21 quella per Mario Pincarelli. Al termine della lettura del dispositivo, i tanti parenti e amici di Willy si sono sciolti in un lungo applauso, molta la commozione. "La aspettavamo questa sentenza, tutti i giorni l'abbiamo aspettata. Purtroppo Willy non c'è più ma almeno giustizia è stata fatta", ha commentato Maria Rosaria, zia del giovane di origini capoverdiane.

Ergastolo ai fratelli Bianchi, condanne per i due del branco. La sentenza per l'omicidio di Willy Monteiro a Colleferro. Il Tempo il 04 luglio 2022

Ergastolo per Marco e Gabriele Bianchi, 23 anni di carcere per Francesco Belleggia e 21 per Mario Pincarelli. Condanne dure da parte dei giudici della Corte d’Assise di Frosinone per il pestaggio e il feroce omicidio di Willy Monteiro Duarte, morto nel settembre del 2020. La lettura della sentenza viene accolta dagli applausi degli amici di Willy e le imprecazioni dei condannati, mentre restano in silenzio la madre e il padre della vittima: il verdetto rende giustizia, ma non restituisce loro il figlio ucciso a 21 anni, il 6 settembre di due anni fa, in una strada di Colleferro.

Soddisfatta la procura per una sentenza che rispetta l’impianto accusatorio, mentre è duro il commento dell’avvocato Massimiliano Pica, difensore dei fratelli Bianchi: «Non sono assolutamente d’accordo», «non riesco a capire quali saranno le motivazioni», evidenzia dopo il verdetto, prima di aggiungere: «Sono rimasto senza parole e la considero una sentenza mediatica. Dopo aver letto le motivazioni faremo ricorso».

Willy, classe 1999, origini capoverdiane, venne pestato a morte mentre cercava di difendere un amico in difficoltà. Il procedimento che si è concluso oggi è stato caratterizzato dal rimpallo di responsabilità tra i quattro imputati, originari di Artena. Nessun dubbio nella ricostruzione dell’accusa, accolta dalla sentenza della Corte d’Assise, sulla volontarietà dell’azione omicida dei fratelli Bianchi che, ha ricordato il pm nella requisitoria, hanno aggredito il giovane in modo «becero e selvaggio», con calci e pugni assestati come se avessero davanti «un sacco da pugilato».

La brutalità del pestaggio ebbe forte impatto sull’opinione pubblica e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella conferì al giovane, che lavorava come cuoco, la medaglia d’oro al valore civile alla memoria: «Luminoso esempio, anche per le giovani generazioni - si legge nella motivazione - di generosità, altruismo, coraggio e non comune senso civico, spinti fino all’estremo sacrificio».

Omicidio Willy, ergastolo per i fratelli Bianchi: dalle pose stile Suburra a quelle urla in aula contro giudici e testimoni. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.  

Le grida di gioia degli amici di Willy le hanno appena coperte. Ma da dietro le sbarre, alla condanna di ergastolo si sono sentite, chiare, le urla di Marco e Gabriele Bianchi. Contro il «tradimento» del coimputato, Francesco Belleggia. Contro chi non ha creduto ai loro «non abbiamo fatto niente. Willy non lo abbiamo ucciso noi». Contro i presunti autori, come dice il difensore, di un «processo mediatico». E contro chi, dicono loro, li ha fatti apparire come «mostri».

Le urla hanno fatto immediatamente scattare la corsa degli agenti penitenziari in aula. Preoccupati che la tensione degenerasse due anni dopo quel pestaggio sanguinario che in 54 brutali secondi lasciò il 21enne senza vita e senza un organo intatto.

Palestrati, supertatuati e con una fama violenta e opaca che li precedeva, i fratelli Bianchi quella notte erano stati chiamati apposta. Per punire chi aveva osato intervenire in una lite e provare a sedarla. E, a sentire gli amici di Willy, succedeva spesso che venissero usati come una sorta di «servizio d’ordine» dell’arroganza criminale.

Erano arrivati a tutta velocità. Avevano frenato bruscamente. Parcheggiato. E si erano avventati proprio su quel ragazzo esile, insieme a Francesco Belleggia e Marco Piancarelli, massacrandolo.

Furono «gli altri», dicono loro. «Nel buio» non si distingueva chi davvero colpì Willy, insiste il difensore. Ma le testimonianze sono univoche. Il primo a parlare in aula e dire cos’era successo la sera dell’omicidio è l’amico che era con Willy, Samuele Cenciarelli. Ieri era anche lui con gli amici stretti attorno a Lucia, la mamma della vittima. E ha contestato: «Io ero lì. Si vedeva che picchiavano tutti insieme. Usano la scusa dei lampioni spenti ma si stanno arrampicando sugli specchi».

Loro negano. Marco ammette di avergli dato solo un calcio al fianco sinistro e una spinta : «Ma si è subito rialzato». Gabriele accusa Belleggia: «Gli ha dato un calcio sul viso prendendo la rincorsa».

«Una vita accelerata», così un amico ha descritto la loro esistenza. Nelle conversazioni intercettate in carcere si scorge ancora l’arroganza e la violenza che le ha scandite. Racconta Marco Bianchi riferendosi all’ostilità manifestata dagli altri detenuti: «Poi mi sento chiamà la mattina… “’ao, a infame! A infame” Mannaggia.. ah infame! Mi hai spaccato il naso… il chiodo dentro al dentifricio… ogni cosa che succede, boooommm». E il fratello Gabriele lo avverte: «Devi stare attento, perché pure se dormi, quelli arrivano e ti zaccagnano». Lui però si mostra spavaldo: «Stai tranquillo, non vengono, sono mollicci».

Per comprendere meglio la personalità dei Bianchi ci sono anche le intercettazioni relative al nome del figlio di Gabriele. Il problema si pone dopo l’arresto. Manca poco al parto e lui ha deciso di chiamare il bebè Aureliano. Ne parla con la fidanzata e la madre che gli dice: «A lei tutti i nomi gli stanno bene ma quello no». Ed è la stessa fidanzata a spiegare il motivo: «Il 30 ottobre riesce la serie nuova di Suburra, si chiama: “Il ritorno di Aureliano”, non si può proprio chiama’. Vi contestano a voi proprio ogni cosa... lo stile di vita... di qua e di là, io vado a chiamà un figlio Aureliano? Lo so che non c’è niente di male, io, ma tu non ti rendi conto del fuori, Teso’. Cioè quello va a scuola, massacrato, appena arriva, teso’». Rilancia: «Leonardo, vuol dire forte come un leone». Ma lui non è disposto a cedere: «Non chiamate figlimo come un salame...aho, mi inc...zo come una bestia, eh».

Omicidio Willy, la madre dei fratelli Bianchi: «Condannati a furor di popolo, non ce l’aspettavamo». Aldo Simoni su Il Corriere della Sera il 5 luglio 2022.  

È il giorno della riflessione. Ma soprattutto del silenzio. La mamma e il papà di Marco e Gabriele Bianchi,, non rispondono a nessuno, né hanno avuto contatti con il loro avvocato Massimiliano Pica. Hanno solo scambiato qualche battuta con i parenti più stretti. E la mamma ha commentato: «È una sentenza ingiusta. Non ce l’aspettavamo. Sono stati condannati a furor di popolo».

«È fuori dubbio che siamo di fronte a una sentenza mediatica - aggiunge l’avvocato Pica -. Mi spiegate cosa significavano quegli applausi alla lettura della sentenza? I parenti e gli amici erano contenti? E di cosa? C’è poco da essere soddisfatti di fronte a una tragedia così grande. Sì, sono deluso. Profondamente deluso. Per me questa non è giustizia. Anzi, è un aborto giuridico». L’avvocato è un fiume in piena: «Se c’è stato un colpo mortale, perché infliggere due ergastoli? Gabriele non ha assolutamente toccato il ragazzo e Marco ha dichiarato di averlo preso nella parte frontale sinistra dov’era già presente una lesione. Un colpo non mortale, come ha ribadito il professor Potenza, perito della Procura. E se c’è stata una sequenza di colpi, quale è stato, allora, quello mortale? Non si possono infliggere due ergastoli di fronte a una ricostruzione fumosa e, a tratti, contraddittoria».

Così come l’avvocato, anche la famiglia dei fratelli Bianchi respinge la sentenza. In particolare la mamma, Simonetta Di Tullio, in un colloquio a Rebibbia con il figlio Gabriele (intercettato e finito nelle carte del processo) si stupisce del risalto mediatico dato alla tragedia: «Siete su tutti i giornali. Nemmeno se fosse morta la regina». Poi, parla anche di problemi di soldi: «Non ci sta più nessuno - dice a Gabriele -, ti hanno abbandonato tutti, amore mio! Ci dobbiamo vendere le macchine, perché non c’è rimasto più niente». Sembra sia lei a farsi carico della situazione. Il marito non ce la fa: «Quel poraccio di padrito (tuo padre)… quello non tiene coraggio a veni’ qua…. sennò gli piglia un infarto». A Gabriele fa una promessa: «Quando sarà tutto finito, quante persone mi levo dananzi (davanti)… quante!».

E in molti ricordano che Di Tullio, 55 anni, madre di quattro figli, il primo avuto a 22, invitava a non giudicare i figli dalle foto che li ritraggono in pose da spacconi, con i tatuaggi, i muscoli in bella mostra e gli orologi costosi. E diceva: «Se i miei figli hanno sbagliato è giusto che paghino, ma sono sicura che non sono stati loro a uccidere, una madre certe cose le sa».

Fratelli Bianchi, parla l’avvocato: «Non è stato omicidio volontario». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 6 luglio 2022.

Il penalista Pica anticipa: «Chiederemo in appello una nuova perizia che faccia davvero luce sulle cause della morte di Willy». 

«Avrebbe potuto e dovuto essere un processo per omicidio preterintenzionale e non volontario» chiarisce subito l’avvocato Massimiliano Pica che assiste Marco e Gabriele Bianchi , condannati all’ergastolo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Premettendo che «bisogna attendere le motivazioni di qui a novanta giorni» il penalista ritiene che si possano già fare alcune precisazioni. «Il processo è concluso e manca la paternità del calcio mortale, teoricamente un colpo frontale assestato alla vittima» puntualizza Pica. «Vi pare possibile, in queste circostanze, emettere una doppia condanna all’ergastolo?»

Nel corso delle udienze si è assistito a uno scontro tra le due perizie, quella della Procura e l’altra della parte civile, prosegue il penalista: «La perizia della parte civile conclude che vi fu un colpo mortale sferrato frontalmente e per mano di qualcuno esperto di arti marziali. Una perizia cucita su misura dei miei clienti insomma (appassionati di Mixed Martial Arts,ndr). Gli approfondimenti della Procura, curati dal dottor Saverio Potenza, raggiungono altre conclusioni. E precisamente il fatto che il calcio decisivo arrivò quando Willy era di spalle...»

Perché questo aspetto è così importante? Secondo l’avvocato Pica il dettaglio è cruciale perché permette di stabilire la verità dei fatti e attribuire ai «veri responsabili» la morte di Willy Monteiro Duarte: «Chiederemo ai giudici d’appello di disporre una nuova perizia che faccia luce in via definitiva sulle ferite inferte. Siamo convinti anche che molte delle testimonianze al processo siano inutilizzabili. Lo stesso Cenciarelli (Samuele Cenciarelli, teste al processo, ndr) ha riferito in aula che quella notte era troppo buio per poter capire davvero chi avesse fatto cosa. Ripeto: in queste condizioni come si fa a decidere che si tratta di un omicidio volontario?».

All’uscita dall’udienza decisiva, quella che ha visto assegnare due ergastoli ai fratelli Bianchi, la famiglia di Willy aveva commentato: «E ora niente sconti: questa è la condanna e questa deve rimanere. Non accetteremo mai scuse del tipo “si sono comportati bene in carcere, possono uscire prima del tempo…” La nostra speranza adesso è che questa sentenza non venga ribaltata in secondo grado e che i fratelli Bianchi scontino la loro pena, fino in fondo» Ma saranno altri giudici, a questo punto, a prendere una decisione in merito.

Omicidio Willy, separati in carcere i fratelli Bianchi condannati all’ergastolo. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2022.

L’abbraccio prima delle urla contro la sentenza sarà l’ultimo, per ora. Marco è stato trasferito. Solo il maggiore, Gabriele, resta a Rebibbia, dove lavora come volontario da «aiuto scrivano alla spesa». Il personale riferisce un comportamento corretto. 

Separati. I fratelli Bianchi, condannati all’ergastolo per l’omicidio di Willy Duarte Monteiro, non sono più una sola entità. Solo Gabriele resta nel carcere romano di Rebibbia. Il fratello minore, Marco è già in via di trasferimento in altra sede. Dopo la condanna all’ergastolo ciascuno sconterà la pena singolarmente.

Ventisette anni Gabriele, ventisei Marco, i «gemelli» esperti di Mma, l’arte marziale mista portata alle estreme conseguenze, che venivano chiamati per spedizioni punitive, ora saranno costretti a fare i conti con gli altri detenuti senza potersi spalleggiare uno con l’altro. Gabriele ha iniziato a lavorare come volontario come «aiuto scrivano spesa». Figura di sostegno all’amministrazione. Dal carcere riferiscono un comportamento corretto. Erano scattati i flash venerdì al loro abbraccio lungo, commosso, vigoroso, nella gabbia degli imputati appena pronunciata la sentenza che li ha ritenuti i maggiori colpevoli di quel pestaggio brutale che ha lasciato Willy a terra con il cuore spaccato a metà. Un primo istante di umanità mostrata da bulli tatuati, palestrati e violenti, da sempre mobilitati a dare di sé un’immagine minacciosa e arrogante. Poi le grida e le imprecazioni che avevano fatto scattare l’allarme nel personale penitenziario. Almeno per ora quell’abbraccio sarà l’ultimo.

Subito dopo l’arresto i due fratelli sono stati minacciati e insultati dagli altri reclusi. Sono state le intercettazioni depositate dall’accusa durante il processo a rivelarlo. Gabriele lo racconta al terzo fratello che è andato a trovarlo: «Marco sta sempre da solo, si fa i capelli da solo, cucina da solo, lava da solo. Lo chiamano ‘infame’. Ci stanno i bravi e ci stanno quelli non bravi, le merde». Secondo quanto poi ricostruito alcuni avrebbero sputato addosso, altri gli avrebbero messo un chiodo dentro il dentifricio, altri ancora gli avrebbe sputato nella pasta, come aveva scritto “Frosinone Today”. Nei colloqui in carcere i due fratelli si lamentano degli insulti ricevuti sui social: «A Gabriele hanno mandato sei milioni di messaggi pieni di insulti, tutte le peggio cose». Il loro complice Mario Pincarelli sarebbe stato invece invitato dagli altri detenuti a togliersi la vita.

Uccisero Willy Monteiro di botte. Ergastolo ai fratelli Bianchi. Rosa Scognamiglio il 4 Luglio 2022 su Il Giornale.

Marco e Gabriele Bianchi sono stati condannati all'ergastolo per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte. Ventitrè anni per Belleggia e Pincarelli

Ergastolo per Marco e Gabriele Bianchi, 23 anni di reclusione per Francesco Belleggia e 21 per Mario Pincarelli. Così ha deciso la Corte d'Assise di Frosinone dove è appena stata pronunciata la sentenza di condanna per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte. "E quello che speravamo in relazione al lavoro svolto, ma sappiamo che il giudizio poi si presta a delle variabili e il fatto aveva un contesto e delle sfumature che potevano dare adito a una diversa valutazione. Tuttavia le prove che avevamo prodotto erano, a nostro avviso, assolutamente sufficienti e più che fondate per chiedere quello che abbiamo chiesto", ha spiegato all'Adnkronos il pubblico ministero Giovanni Taglialatela al termine dell'udienza. "Una sentenza giusta", ha commentato all'uscita dall'aula Armando Monteiro Duarte, il papà di Willy.

Reati di droga, in carcere lo zio dei fratelli Bianchi 

Le reazioni

Una sentenza che "stabilisce un principio morale. La prevaricazione non può affermarsi come una vittoria. Mi auguro che la decisione dei giudici serva per tutti quei giovani che continuano ad agire con violenza". Così, l'avvocato Domenico Marzi, legale della famiglia Duarte, ha commentato a caldo la condanna nei confronti dei quattro imputati. Alla lettura del dispositivo erano presenti anche Lucia e Milena, rispettivamente la mamma e la sorella di Willy, che però hanno preferito non rilasciare dichiarazioni.

I commenti

Eleonora Mattia, presidente IX Commissione Consiglio regionale del Lazio, ha commentato con una nota la decisione dei giudici della Corte d'Assise di Frosinone. "Oggi è una giornata importante: la sentenza di primo grado - che speriamo sarà confermata in via definitiva quanto prima - condanna all'ergastolo gli assassini di Willy, il giovane eroe buono ucciso nel settembre 2020 a Colleferro. - si legge nel comunicato - Una tragedia che rimane ferita aperta per tutta la comunità locale, ma che abbiamo cercato con il tempo di trasformare in occasione di riscatto. Il sorriso buono di Willy è entrato nelle prime scuole del Lazio con progetti di sensibilizzazione e contrasto alla violenza e al bullismo e presto avremo una piazza bianca a lui dedicata proprio dove ha perso la vita".

Il leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ha espresso soddisfazione per la sentenza. "Bene! Speriamo che la condanna ora venga confermata nei successivi gradi di giudizio. - ha scritto su Facebook - Nulla potrà restituire Willy a chi gli voleva bene, ma il suo sorriso, il suo coraggio e il suo esempio rimarranno per sempre nei cuori di tutti noi. Un abbraccio a tutti i cari di Willy e a Lucia, mamma forte e coraggiosa, che ha cercato con tutte le forze giustizia per suo figlio".

L'omicidio

L'omicidio di Willy Monteiro Duarte, 21enne di Albano con origini capoverdiane, si è consumato nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 in largo Santa Caterina a Colleferro, in provincia di Roma. Il giovane sta rincasando dal lavoro quando nota una baruffa all'esterno del locale "Due di picche" riconoscendo tra i partecipanti alla rissa un ex compagno di scuola, Federico Zurma. Willy lo invita a venire via ma viene preso di mira dai due fratelli di Artena, Gabriele e Marco Bianchi, che si accaniscono contro di lui sferrando pugni e calci alla cieca. Alla brutale aggressione partecipano - secondo il racconto di alcuni testimoni - anche Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Il 21enne di Albano resta a terra tramortito dai colpi mentre i fratelli Bianchi e gli altri due autori del pestaggio si allontano a bordo del Suv Audi Q7. L'autopsia accerterà che Willy è stato ucciso in 51 secondi: decisivi un colpo sferrato al torace e un altro alla giugulare.

"Il sesso, le botte e lui a terra": il racconto choc dell'omicidio

Le indagini

La partecipazione dei fratelli Bianchi al pestaggio è quasi certa fin da subito, così come lo è quella di Pincarelli e Belleggia. I carabinieri intercettano i quattro a poche ore dall'omicidio grazie alle testimonianze di alcuni giovani che si trovavano all'esterno del locale di Colleferro. Belleggia fornisce una versione apparantemente credibile dei fatti, motivo per cui riesce ad ottenere i domiciliari. Mentre per i fratelli Bianchi e Pincarelli, che si professano estranei alla vicenda rimpallandosi le colpe, scatta un provvedimento immediato di fermo in carcere. A seguito di numerosi accertamenti, l'accusa nei confronti di tutti gli indagati diventa di omicidio volontario. Intanto, dal passato dei fratelli Bianchi emergono alcuni dettagli che definiscono il loro stile di vita: sono entrambi praticanti di Mma (Mixed martial art), percepiscono indebitamente il reddito di cittadinanza e sono sovente coinvolti in episodi di rissa ai danni di stranieri. Pestaggi di cui si vantano in una chat con gli amici chiamata la "Gang dello scrocchio".

"Abbella", poi le botte a Willy "Saltavano sul corpo inerme"

Il processo

Il 21 giugno del 2021 comincia il processo. I Comuni di Colleferro, Paliano e Artena si costituiscono parte civile. Nel corso della requisitoria i pm scrivono a proposito dei fratelli Bianchi che "hanno dato sfogo al loro impulso violento, approcciandosi alla folla con il solo intento di ledere e non recedendo dal proprio proposito criminoso nonostante i tentativi di alcuni presenti di spiegare come non vi fosse assolutamente la necessità di adoperare violenza". L'accusa formula la richiesta di condanna all'ergastolo per Marco e Gabriele mentre viene richiesta una condanna a 24 anni di reclusione per Francesco Belleggia e Mario Pincarelli.

STEFANO VLADOVICH per il Giornale il 5 luglio 2022.

«Giustizia è fatta». Ergastolo ai fratelli Bianchi, 21 e 23 anni agli altri imputati, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Applausi e urla di rabbia in aula, ieri, alla lettura della sentenza del presidente della Corte d'Assise di Frosinone Francesco Mancini, al termine del processo di primo grado per l'uccisione di Willy Monteiro Duarte, il 21enne di Paliano massacrato di botte dal branco. 

«È stata finalmente sepolta la strategia processuale dello scaricabarile in voga negli anni 80» commenta l'avvocato Massimo Ferrandino, legale di parte civile per il Comune di Artena. Commossi i genitori di Willy, la sorella e gli amici presenti in aula, mentre Marco e Gabriele Bianchi gridano e imprecano mentre vengono portati via dagli agenti penitenziari.

«Una condanna giusta ma che non potrà mai ridarci Willy» commentano i parenti della vittima. Per il legale della famiglia Monteiro Duarte, la condanna «stabilisce un principio morale: la prevaricazione non può affermarsi come una vittoria - spiega l'avvocato Domenico Marzi - Mi auguro che serva per tutti quei giovani che continuano ad agire con violenza».

Basta vedere un filmato dei fratelli Bianchi in allenamento per capire come sia morto Willy.

Colpito da più parti con ferocia e potenza tale da atterrarlo al primo colpo. Ma i quattro che si accaniscono su di lui, la notte maledetta del 6 settembre 2020 davanti a un pub di Colleferro, il Due di Picche, non si fermano. Lo colpiscono con calci e pugni per 50 secondi anche quando è a terra. Non si muove più Willy, sanguina, ma i quattro, i Bianchi, Pincarelli e Belleggia, continuano a pestarlo a morte. «Gli saltavano sopra» metteranno a verbale i testimoni. 

Inutile la difesa dei Bianchi.

«Gabriele non l'ha nemmeno sfiorato - dice Marco Bianchi -, io gli ho solo dato un calcio e una spinta per separarlo dal nostro amico Omar Shabani». «È stato un processo mediatico.

Va contro tutti i principi logici, attenderemo le motivazioni poi faremo appello» commenta, amaro, l'avvocato Massimiliano Pica. Soddisfatti, invece, i legali dei coimputati: «La condanna a 21 anni di reclusione per Mario Pincarelli (dei 24 chiesti dalla Procura, ndr) è migliore di quanto speravamo» spiega l'avvocato Loredana Mazzenga, difensore di Pincarelli. Marco Bianchi, in particolare, punta il dito contro l'ex amico Belleggia, l'unico al quale sono stati concessi gli arresti domiciliari: «Il colpevole non si è preso le proprie responsabilità. Ancora con il sangue sulle scarpe se ne sta tranquillo a casa».

Soddisfatto soprattutto il pm Giovanni Taglialatela della Procura di Velletri: «L'impianto accusatorio ha retto totalmente: ergastolo ai Bianchi, un anno in meno per un imputato e tre anni in meno per un altro». «Speriamo che gli altri gradi di giudizio confermino le pene» si augura il sindaco di Paliano, Domenico Alfieri. Tutti e quattro con precedenti penali, i «bravi ragazzi» di Artena, quelli col «cuore d'oro e sempre pronti ad aiutare gli amici in difficoltà», come si definiscono i Bianchi, hanno beneficiato anche di attenuanti generiche tanto da ridurre di alcuni anni la pena richiesta. 

Di certo tutti e quattro hanno condannato a morte Willy e solo perché ha cercato di smorzare una lite fra un ex compagno di scuola, Federico Zurma, e i picchiatori di Artena. Apprezzamenti volgari a tre ragazze fatti da Pincarelli ubriaco, la reazione dei fidanzati, la spinta giù per le scale prima e la scazzottata dopo di Belleggia che si scaglia contro l'amico di Willy nonostante un avambraccio ingessato. 

Sembra una lite fra ventenni se non fossero arrivati i Bianchi, chiamati da Michele Cerquozzi, un altro del branco. «Tornate qui, questi so' il doppio e noi le stamo a prende'». Quando scendono dal Suv per il primo che capita a tiro, Willy, è la fine.

Willy, testimonianza-choc sui fratelli Bianchi: "Cosa ho visto". In aula, pochi secondi prima dell'ergastolo...Libero Quotidiano il 04 luglio 2022

Grande commozione in aula tra i familiari e gli amici di Willy Monteiro Duarte dopo che i fratelli Marco e Gabriele Bianchi sono stati condannati all’ergastolo per l’omicidio avvenuto a Colleferro nel settembre 2020. Inoltre è stata disposta una condanna a 23 anni per Francesco Belleggia e a 21 anni per Mario Pincarelli.

Prima della sentenza, Samuele Cenciarelli - amico di Willy - ha ripercorso quella drammatica notte: “Quando ho visto il primo calcio a Willy sono andato ad aiutarlo ma mi hanno respinto. Li ho visti infierire tutti e quattro. Provo a dimenticare quella sensazione orribile, ma non ci riesco. Riesco a convivere col dolore, a dimenticare no. Sul volto dei fratelli Bianchi non hai mai visto segnali di pentimento”. Inoltre Samuele ha ricordato commosso il gesto di Willy: “Mi ha salvato la vita, non deve essere dimenticato quello che ha fatto in favore di un amico”.

Dopo la sentenza, gli imputati hanno gridato e imprecato, con il loro avvocato che ha definito il tutto “un processo mediatico” che va “contro tutti i principi logici”. Sentenza che è invece stata “giusta” per Armando, il padre di Willy: “Ineccepibile in Lina con le conclusioni del pm - hanno dichiarato i legali della famiglia - che legge le pagine processuali con un rigore assoluto e anche un riconoscimento di qualità per quando riguarda l’attività investigativa iniziale delle forze dell’ordine”.

Omicidio Willy, le agghiaccianti parole del legale dei fratelli Bianchi dopo l'ergastolo. Libero Quotidiano il 04 luglio 2022

Ergastolo per i fratelli Bianchi, Marco e Gabriele. Ergastolo per aver massacrato e ucciso a calci e pugni Willy Monteiro Duarte, il 21enne ammazzato a Colleferro il 6 settembre 2020. Una sentenza durissima. Come ce la si attendeva. E dopo la lettura della sentenza, in aula di tribunale, le urla di rabbia dei fratelli Bianchi, le minacce, gli improperi. Una scena agghiacciante. Gli altri due imputati, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, sono stati condannati rispettivamente a 23 anni e 21 anni di carcere.

A caldo, ecco le parole dell'avvocato difensore dei fratelli Bianchi, Massimiliano Pica. Parole che lasciano sbigottiti: "È stato un processo mediatico. Va contro tutti i principi logici. Leggeremo le motivazioni e poi faremo appello. Siamo senza parole", ha affermato dopo la sentenza dei giudici di Corte d'appello. Per il padre di Willy, Armando, "è una sentenza giusta".

La notte dell'orrore

Alle 3.30 di notte del 6 settembre del 2020 in largo Santa Caterina a Colleferro, in provincia di Roma, Willy Monteiro Duerte, 21enne cuoco italo-capoverdiano di Paliano, in provincia di Frosinone, è stato ucciso di botte per difendere un amico. Il ragazzo è stato preso a calci e pugni per aver tentato di bloccare una rissa che vedeva come protagonista un suo compagno di scuola. Nonostante i soccorsi, Willy Monteiro è morto poco dopo l'arrivo al pronto soccorso. 

In tempi record i carabinieri hanno identificato e arrestato i quattro picchiatori, fermati appena 25 minuti dopo l'aggressione, tutti residenti nel vicino paese di Artena. A finire in carcere i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti accusati di 'omicidio volontario con l'aggravante della crudeltà e dei futili motivi. Erano tanti i ragazzi e le ragazze che affollavano la zona di largo Santa Caterina nella notte tra sabato e domenica dove ci sono delle scalinate che portano ai locali notturni di Colleferro. 

Ciò che è certo è che Willy non conosceva le ragazze alle quali erano stati rivolti gli apprezzamenti e non conosceva nemmeno i ragazzi che lo hanno massacrato di botte. Willy conosceva solo un suo ex compagno di scuola, Federico, che era coinvolto nella lite e che aveva visto in difficoltà e per questo aveva deciso di intervenire in suo aiuto. Almeno tre testimoni, come ha scritto il gip di Velletri, Giuseppe Boccarrato, nell'ordinanza di custodia cautelare, sono concordi nel dire che i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, sono giunti con il Suv nero e una volta scesi dalla vettura "quando ormai la lite era finita, iniziavano a picchiare selvaggiamente qualsiasi persona che era presente lì sul posto". 

Come raccontato dai testimoni, i due fratelli, esperti dell'arte marziale Mma, picchiarono per 50 secondi con colpi a ripetizione Willy. Il gip, nell'ordinanza in cui si contesta ai quattro arrestati il reato di omicidio volontario, ha dichiarato: "Gli elementi conducono naturalmente a ritenere che i quattro indagati, non solo avessero consapevolmente accettato il rischio di uccidere Willy, ma colpendolo ripetutamente, con una violenza del tutto sproporzionata alla volontà di arrecargli delle semplici lesioni, avessero previsto e voluto alternativamente la morte o il grave ferimento della vittima".

Un ragazzo di nome Willy. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.

L’avvocato dei fratelli Bianchi ha tutto il diritto e forse il dovere professionale di scandalizzarsi per la condanna all’ergastolo degli assassini di Willy Monteiro Duarte. E i prossimi gradi di giudizio ci diranno se la sentenza emessa dal tribunale di Frosinone è davvero illogica e figlia di un «processo mediatico» come sostiene lui. Le deposizioni dei testimoni oculari descrivono un pestaggio omicida: se degli omoni palestrati si accaniscono su un ragazzo inerme, devono pur aver messo nel conto l’eventualità di ucciderlo. Però non si può negare che la personalità di Willy abbia influito sull’atteggiamento intransigente dell’opinione pubblica. Si parla sempre più degli assassini che delle vittime: è il grande cruccio dei familiari di chi non c’è più. Invece stavolta non è stato così. Stavolta tutti abbiamo sempre avuto ben chiaro che il bersaglio della furia dei bulli era uno studente-lavoratore, reduce da una notte di servizio ai tavoli di un ristorante, intervenuto pacificamente per sedare una rissa in cui era rimasto coinvolto un suo compagno di scuola. I valori morali di Willy confliggevano plasticamente con quelli dei suoi aguzzini, basati sul culto della violenza e di un malinteso senso dell’onore, a cui lui opponeva una storia personale di inserimento sociale e il vincolo sacro dell’amicizia. «Willy è un esempio di coraggio e mi ha salvato la vita: il suo gesto non va dimenticato», ha detto in tribunale il suo amico. E almeno questa è già una sentenza definitiva. 

Gianluca Nicoletti per “la Stampa” il 5 luglio 2022.  

I fratelli Marco e Gabriele Bianchi avranno lavorato sodo anni e anni. Ci vuole perseveranza per costruirsi addosso l'immagine standard dei truci spaccaossa. Solo quando hanno intuito che avrebbero pagato molto cara la loro «leggerezza» di aver ammazzato di botte un ragazzino inerme, ecco che si sono scoperti bravi figli di mamma. 

Quando l'ombra dell'ergastolo è cominciata ad allungarsi su di loro, i due picchiatori di paese hanno cercato di cambiare pelle. Hanno capito che la loro narrazione epica, funzionale per indurre timore, li avrebbe portati a essere percepiti dalla collettività come mostri di spietatezza.

Ecco quindi il tentativo di ricostruirsi un'immagine in extremis con quella lettera alla madre di Willy, in cui scrivevano che, se avessero ucciso suo figlio, mai avrebbero avuto il coraggio di guardarla come guardano la loro mamma. Certo, immaginiamo tutti che sicuramente ci sarà stata una mamma che stirava loro le camicie, a completare l'accurata iconografia con cui amavano rappresentarsi. Le pose marziali, i tatuaggi, i muscoli pompati, il cipiglio da duri e tutti i possibili espedienti per essere alla fine i primi tra gli sfigati, auto eletti al vertice della catena alimentare dei portatori di griffe. 

La mossa della catarsi mammona se la potevano anche risparmiare, non è servita a far cambiare di una virgola la presunzione pubblica della loro colpevolezza, anche la sentenza è arrivata che più dura non si può. Il qualunquismo da strada che oggi commenta quell'ergastolo non faticherà a fare la ola. Ci sarà persino chi andrà oltre; come degno epilogo di questa storia schifosa, dirà che i due fratelli si sarebbero meritati la pena di morte.

Purtroppo la vicenda non ispira commenti edificanti, ancora più improba è la fatica di cercare conforto nell'idea che si sia fatta giustizia. Tutto da subito è sembrato il più prevedibile esito di una limacciosa spietatezza, tollerata e fomentata. Un pensiero rasoterra che sta da troppo tempo inghiottendo, come una palude di sabbie mobili, quello che con grande fatica avevamo costruito lungo un impervio percorso di civilizzazione nazionale. 

È tutta colpa dei media! Sicuramente è così. È anche la spiegazione che si sono data i due Bianchi alla lettura della sentenza in aula. Certo ,sono stati tv e giornalisti a rappresentarli come mostri, però solo questo pretendeva il loro accurato maquillage.

Hanno fatto di tutto per assomigliare a quanto di più spocchioso e farlocco giganteggi nei luoghi canonici del fermento sub culturale. 

Di cloni dei due bulli di Colleferro se ne possono trovare a bizzeffe, se ne vedono ovunque si celebri l'apoteosi del maschio vincitore, dal talent estremo alle storie su Instagram. I fratelli Bianchi sembravano essere stati sfornati dalla catena di montaggio del modello più economico di pupazzume anabolizzato e arabescato, in loro era condensato tutto ciò che oggi incarna l'esempio vincente del machismo spavaldo da pugnal tra i denti e ali di gabbiano. 

Oggi i due pagano l'imperdonabile zelo di aver portato fino alle estreme conseguenze un pensiero che conquista sempre più seguaci, è la falsa promessa che il malessere contemporaneo può essere sanato solo se si estirpa tutto ciò che sembra «politicamente corretto». Sono stati seguaci ottusi del verbo corrente che predica intolleranza, hanno frantumato a pugni e calci l'esistenza del più fragile dei loro concittadini, senza nemmeno l'ombra di un motivo apparente. Hanno infierito a morte perché lo avranno considerato come un sacco per esercitare il loro perfetto stile di combattimento. Una lezione par fargli capire che loro erano i Bianchi, mentre lui invece era solo un nero.

Ergastolo ai carnefici di Willy. Davvero giustizia è fatta? Massimo rispetto, per lo strazio, il dolore irrisarcibile. Nulla da eccepire sul processo. E’ la sentenza, l’ergastolo, quel “fine pena mai” su cui occorre riflettere...Valter Vecellio su Il Dubbio il 5 luglio 2022.

Massimo rispetto, è fuori discussione, per lo strazio, il dolore irrisarcibile, irreparabile, infinito, della famiglia di Willy Monteiro Duarte. E’ stato ucciso in modo atroce, e i responsabili, i due fratelli Bianchi non hanno attenuante; il loro comportamento, anche dopo il delitto, è più che riprovevole, nulla hanno fatto per meritare anche una sola briciola di compassione. Detto questo, davvero “Giustizia è fatta”, come dicono un po’ tutti?

Nulla da eccepire per quel che riguarda l’inchiesta e lo svolgimento del processo. E’ la sentenza, l’ergastolo, quel “fine pena mai” su cui occorre riflettere. E proprio perché il delitto è stato atroce, senza attenuante; proprio perché gli assassini sono come sono, come sono apparsi e si mostrano. Ricordate il caso di Anders Breivik, il folle suprematista norvegese che il 22 luglio 2011 uccide ben 77 persone? In Norvegia l’ergastolo è stato abolito. Pur di restare fedeli ai loro valori, non hanno modificato le loro leggi come tanti pure chiedevano; i giudici hanno condannato Breivik al massimo della pena possibile: 21 anni di carcere, prorogabili di altri cinque per un numero indefinito di volte qualora, a pena scontata, fosse ancora ritenuto socialmente pericoloso. Non per Breivik, ma per tener fede a un valore/principio, anche in quel caso, hanno voluto escludere, almeno in linea teorica, “il fine pena mai”.

In Italia esiste una cosa che si chiama Costituzione, la più bella del mondo, come a volte si dice. L’articolo 27 sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La condanna all’ergastolo, dei Bianchi come di chiunque, contraddice questo principio/valore. Per questo ci si deve interrogare: “Giustizia è fatta”? Se poi non si ritiene di abolire l’ergastolo, almeno si modifichi l’articolo 21 della Costituzione, nella parte relativa alla “rieducazione”.

Questo, insegnano Marco Pannella e Leonardo Sciascia; difficile tener fede a questi valori/principi quando si tratta di casi come quelli di Willy e dei suoi massacratori. Proprio questi casi, tuttavia, lo impongono ed esigono.

La sentenza per i fatti di Colleferro. Marco e Gabriele Bianchi condannati all’ergastolo, la protesta degli avvocati: “Sentenza è un aborto giuridico”. Angela Stella su Il Riformista il 5 Luglio 2022. 

Sono stati condannati all’ergastolo per omicidio volontario i fratelli Marco e Gabriele Bianchi accusati della morte di Willy Monteiro Duarte avvenuta nel settembre del 2020 a Colleferro. I giudici della Corte di Assise di Frosinone hanno anche pronunciato una sentenza di condanna a 23 anni per Francesco Belleggia e a 21 anni per Mario Pincarelli. Disposta anche una provvisionale di 200mila euro ciascuno per i genitori di Willy e di 150mila euro per la sorella. Al termine della lettura della sentenza applausi e lacrime da parte della famiglia e degli amici di Willy Monteiro.

Si chiude così il primo grado di una tragica vicenda avvenuta tra il 5 e 6 settembre 2020 nel piccolo Comune in provincia di Roma: Willy lavorava in un ristorante come cameriere e voleva diventare cuoco. Stava tornando a casa dopo il lavoro quando vide che un suo amico era coinvolto in una rissa e tentò di difenderlo. Ma venne coinvolto anche lui e preso di mira dal branco. Secondo l’accusa, il corpo di Willy “è stato usato come fosse un sacco da pugilato”, cinquanta secondi in cui è stato preso a calci e pugni. “Willy non tenta nemmeno di difendersi, perché non gli viene nemmeno concessa la possibilità di farlo”.

Per quel suo gesto di “eccezionale slancio altruistico e straordinaria determinazione, dando prova di spiccata sensibilità e di attenzione ai bisogni del prossimo” il presidente della Repubblica Sergio Mattarella conferì al giovane la medaglia d’oro al valor civile. «È una sentenza giusta»­, ha commentato il padre dello sfortunato ragazzo di origine capoverdiana. Mentre i suoi legali, Vincenzo Galassi e Domenico Marzi, hanno aggiunto: «Una sentenza ineccepibile in linea con le conclusioni del pm che legge le pagine processuali con un rigore assoluto e anche un riconoscimento di qualità per quanto riguarda l’attività investigativa iniziale delle forze dell’ordine»­.

Soddisfazione appunto per il pm Giovanni Taglialatela: «È quello che speravamo in relazione al lavoro svolto, ma sappiamo che il giudizio poi si presta a delle variabili e il fatto aveva un contesto e delle sfumature che potevano dare adito a una diversa valutazione. Tuttavia le prove che avevamo prodotto erano, a nostro avviso, assolutamente sufficienti e più che fondate per chiedere quello che abbiamo chiesto»­, ha concluso.

Ovviamente di diverso avviso la difesa dei fratelli Bianchi, assistiti dall’avvocato Massimiliano Pica, che ci dice: «Quando è stata letta la sentenza, mi sarei aspettato tutto tranne che omicidio volontario con pena dell’ergastolo. Questa decisione va contro tutti i principi logici. Sono basito­». Il legale per i due ragazzi aveva chiesto l’assoluzione e in via subordinata l’omicidio preterintenzionale: «Gabriele non ha toccato Willy e Marco lo ha colpito in un punto che non ha portato alla morte del ragazzo. Per me questa sentenza è un aborto giuridico: sono davvero curioso di capire come motiveranno un omicidio volontario. Leggeremo le motivazioni e poi faremo appello»­.

Per l’avvocato, che quando prese la difesa dei due fu anche minacciato dai soliti hater, sulla decisione della Corte avrebbe influito anche «un forte processo mediatico. I giudici non sono immuni alle pressioni che vengono fuori dall’Aula. Ho letto commenti di politici e giornalisti che mi fanno capire che non conoscono affatto il processo. Prima di parlare o scrivere post su Facebook dovrebbero ragionare e interrogarsi su quello che è successo. Tutto questo scenario ci fa capire che oggi (ieri, ndr) ha vinto il giustizialismo»­.

Sulla narrazione dentro e fuori il Tribunale avrebbe pesato altresì «la raffigurazione dei due imputati nella solita posa e con i tatuaggi in vista. Tutto fatto per distorcere la realtà»­. I commenti a cui fa riferimento l’avvocato sono quelli della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: «Bene! Speriamo che la condanna ora venga confermata nei successivi gradi di giudizio»­. Poi quello di Giuseppe Conte, capo del Movimento Cinque Stelle: «La famiglia di Willy oggi ha ottenuto giustizia. Questa sentenza non li ripagherà del dolore che soffrono. Sta a noi ora seminare il coraggioso esempio di Willy fra i nostri ragazzi: generosità, solidarietà e contrasto a ogni forma di odio e indifferenza­». Non poteva mancare Matteo Salvini: «Dovere di una Giustizia giusta punirli con la massima severità»­. Ma anche quello molto sobrio – detto ironicamente – della firma del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi che ha apostrofato i fratelli Bianchi con “macellai efferati e schifosi” e “carogne” per concludere «Ora buttate via la chiave, nella speranza che ogni giorno possano rivivere l’inferno che ha vissuto Willy in quella mattanza che mai – mai – potrà avere perdoni»­.

Eppure persino il pm, nel chiedere le condanne, aveva dichiarato: «Stiamo per chiedere le pene, ma qualunque sia la pena, se ci sarà, è solo un aspetto. La pena anche più severa deve contenere anche una speranza, che riguarda loro stessi, un cambiamento, un rinnovamento, una redenzione e un pentimento autentico». Fuori dal coro invece Dj Aniceto, testimonial di sani valori in molti programmi tv di successo come quelli di Piero Chiambretti, che così ha commentato all’Adnkronos: «Non vedo trionfi nella condanna all’ergastolo di due giovani. La tragedia di Willy è un problema culturale e deve aiutarci a riflettere sul ruolo fondamentale che ha la scuola per combattere la cultura della violenza­». Angela Stella 

La scelta vendicativa dello Stato. Willy Monteiro, perché il carcere fino alla morte per i fratelli Bianchi è una crudeltà insensata. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 5 Luglio 2022. 

Marco e Gabriele Bianchi sono due fratelli. Sono stati condannati per un crimine odioso che parla in modo tremendo al nostro cuore: la morte di Willy Monteiro per pestaggio. Vengono in mente altri fratelli: Caino e Abele. Solo che la fratellanza, nella versione contemporanea, non è tra vittima e carnefice ma tra carnefici.

Personalmente trovo la notizia della condanna all’ergastolo dei fratelli Bianchi agghiacciante tanto quanto quella del reato commesso. È agghiacciante pensare che viviamo in uno Stato che pratica una pena così crudele, il carcere fino alla morte. E degrada così la giustizia a vendetta. Uno Stato che cede alla aberrante, violenta logica che al male si possa e si debba rispondere con altro male finanche nella forma della vendetta perpetua del fine pena mai.

È allo Stato che allora mi sento di rivolgere il nostro Nessuno tocchi Caino affinché nel nome di Abele, per difendere Abele, non diventi esso stesso Caino. Uno Stato-Caino che pratica, magari non più la pena di morte, ma la pena fino alla morte. Lo dico perché sono profondamente convinta che il modo in cui trattiamo Caino o i Caini, come in questo caso, è il modo in cui trattiamo Abele. Perché la violenza inflitta ad uno si ripercuote inevitabilmente nell’altro o negli altri. E ritenere che la vita stroncata di Willy possa trovare pace in una giustizia che manda per sempre in galera i suoi assassini penso sia una menzogna.

Perché occorre sempre cercare forme tali da interrompere la catena perpetua del male che chiama altro male senza rassegnarsi mai a ciò che ci abbruttisce, a ciò che ci degrada ad essere animali da giungla. Il pensiero nonviolento aiuta in questo senso. Ha aiutato ad abolire la pena di morte, sta aiutando ad abolire la pena fino alla morte. Perché l’ergastolo va abolito. Ai condannati all’ergastolo, ai Caini, va invece il nostro Spes contra spem affinché decidano di cambiare sé stessi, convertire la loro vita dal male al bene, dalla violenza alla nonviolenza.

In questo senso ci viene incontro Aldo Moro, il suo schierarsi contro l’ergastolo e il suo straordinario dire e cercare “non un diritto penale migliore ma qualche cosa di meglio del diritto penale”. Elisabetta Zamparutti

Guai a mettersi contro il tribunale dei social. Ergastolo fratelli Bianchi, Sansonetti: “Separati in cella, Stato feroce come loro con Willy”. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2022 

Guai a schierarsi contro il tribunale dei social. Guai a provare a leggere e analizzare un episodio in modo diverso dalla massa giustizialista. Ne sa qualcosa il direttore del Riformista Piero Sansonetti che in queste ore è stato letteralmente subissato di messaggi offensivi e diffamatori dopo un tweet sui fratelli Bianchi, condannati all’ergastolo in primo grado per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte.

“Hanno separato i fratelli Bianchi, dopo l’ergastolo. Non si vedranno mai più. Lo stato si comporta con loro con la stessa ferocia con la quale loro si sono comportati con Willy. A me non piace questa cosa. Non trovo che sia civiltà”, questo il pensiero di Sansonetti che ha fatto infuriare gli utenti social di Twitter (è addirittura in tendenza) e di Facebook.

Centinaia i commenti contro l’opinione del direttore. “Dott. Sansonetti, spesso trovo ciò che dice condivisibile e di buon senso, anzi, ritengo che lei sia uno dei pochi che rappresenta un giornalismo serio e indipendente. In questo caso dissento, sia umanamente e sia da marzialista. Quelle due belve meritano questo trattamento” scrive un utente su Twitter.

Altri commenti non li riportiamo perché sono volgari e offensivi. C’è chi addirittura augura il carcere allo stesso Sansonetti, chi attacca il suo eccessivo garantismo, dimenticando, tuttavia, che l’obiettivo della pena dovrebbe essere quello di rieducare. Il carcere non dovrebbe essere vendetta, anche se per l’opinione pubblica è esattamente il contrario.

Gabriele e Marco Bianchi hanno commesso un’azione orribile, insieme agli altri due amici Francesco Belleggia e Mario Pincarelli (condannati a 23 e 21 anni). I due fratelli sono stati condannati all’ergastolo per omicidio volontario anche se “Gabriele non ha toccato Willy e Marco lo ha colpito in un punto che non ha portato alla morte del ragazzo. Per me questa sentenza è un aborto giuridico: sono davvero curioso di capire come motiveranno un omicidio volontario. Leggeremo le motivazioni e poi faremo appello” ha commentato il loro legale Massimiliano Pica.

In un articolo pubblicato ieri sul nostro giornale, Elisabetta Zamparutti spiegava il perché “il carcere fino alla morte per i fratelli Bianchi è una crudeltà insensata“. Una sentenza “agghiacciante tanto quanto quella del reato commesso. È agghiacciante pensare che viviamo in uno Stato che pratica una pena così crudele, il carcere fino alla morte. E degrada così la giustizia a vendetta. Uno Stato che cede alla aberrante, violenta logica che al male si possa e si debba rispondere con altro male finanche nella forma della vendetta perpetua del fine pena mai”.

“Uno Stato-Caino  – prosegue – che pratica, magari non più la pena di morte, ma la pena fino alla morte. Lo dico perché sono profondamente convinta che il modo in cui trattiamo Caino o i Caini, come in questo caso, è il modo in cui trattiamo Abele. Perché la violenza inflitta ad uno si ripercuote inevitabilmente nell’altro o negli altri. E ritenere che la vita stroncata di Willy possa trovare pace in una giustizia che manda per sempre in galera i suoi assassini penso sia una menzogna”.

Fratelli Bianchi, furia-Dalla Chiesa contro Sansonetti: "Stato feroce con loro? Sai che..." Libero Quotidiano il 06 luglio 2022

Botta e risposta sia. La condanna all'ergastolo dei fratelli Bianchi per la morte di Willy Monteiro Duarte ha fatto discutere anche Piero Sansonetti e Rita Dalla Chiesa. Su Twitter il giornalista si è lasciato andare a uno sfogo personale sulla vicenda, commentando: "Hanno separato i fratelli Bianchi, dopo l’ergastolo. Non si vedranno mai più. Lo stato si comporta con loro con la stessa ferocia con la quale loro si sono comportati con Willy. A me non piace questa cosa. Non trovo che sia civiltà". 

Frasi non condivise dalla conduttrice, che a suo volta risponde: "Anche i genitori di Willy non lo rivedranno più". Ma la Dalla Chiesa non è la sola a pensarla così, tanto che più di un utente del web ricorda al direttore del Riformista che "la decisione di separarli dovrà pur avere una ratio, che sarà stata spiegata nel provvedimento che la dispone. Occorre partire da lì e vedere se la motivazione regge alla critica". Ma non è tutto, perché per alcuni "equiparare la violenza contro Willy alla separazione dei fratelli Bianchi è fuori luogo". 

La sentenza che ha visto i ragazzi condannati all'ergastolo è destinata a far parlare. La stessa mamma dei due, Simonetta Di Tullio, ha accusato i magistrati. Per lei e per l'avvocato di Marco e Gabriele si tratta di una decisione "ingiusta", "a furor di popolo" e "un aborto giuridico". Mentre dall'altra parte c'è invece chi grida: "Giustizia è stata fatta". 

Paolo Di Paolo per “la Repubblica” il 6 luglio 2022.

Che i fratelli Bianchi siano in carcere non sembra dispiacere a nessuno. Tutti i giovani di Colleferro tenevano a questa sentenza, e «stanno con Willy», mi dice una ragazza che lavora in uno dei pub della cittadina laziale. «Da due anni a questa parte non ho sentito voci di persone che dessero ragione ai due fratelli». Eppure, scavando, una mezza voce la trovo: non si può dire che sia dalla parte dei due aggressori condannati all'ergastolo, questo no, però - dice apertamente - «giustizia non è stata fatta». Le chiedo perché. E. mi risponde che «è stata data la sentenza che tutta Italia voleva sentire».

L'ergastolo ai Bianchi, appunto, e una pena più "lieve" a Belleggia e Pincarelli. Crede che i fratelli non siano colpevoli? «Credo che colpevoli lo siano tutti e quattro, altrimenti il povero Willy sarebbe ancora qui tra noi. Ma i Bianchi sono stati messi in primo piano come assassini, e degli altri non si è parlato mai. Secondo me ai due fratelli stanno facendo scontare tutti gli altri errori fatti in passato».

Il colpo fatale, secondo E., non sono stati loro a darlo. Poi aggiunge la frase più sibillina: «Fa comodo a molti tenere i Bianchi dentro, visti i buffi (debiti, ndr ) che tanti avevano con loro per i loro giri. Non ho mai creduto all'onestà di questi improvvisi giustizieri».

Che Belleggia, ora condannato a 23 anni, sia l'unico fra gli imputati ad avere ottenuto dall'inizio gli arresti domiciliari, non va giù a molti. 

È un'ombra strana, l'ombra dei Bianchi. Di corpi estranei a Colleferro, a Paliano: «Girovagavano, non sono di qui». Sono di Artena, contrada Colubro. Artena, con le case ammonticchiate a presepe, che vive una stagione politica incerta, segnata dalle indagini sulle attività illecite di sindaco e sindaco vicario. Un mese fa, per dire, un carabiniere è stato aggredito in piazza da uno spacciatore, che poi ha gettato la cocaina in un tombino.

Ma è troppo facile dire: Artena è una piazza di spaccio, Colleferro è così, Paliano è così. Montano i pregiudizi, e fanno male. I Bianchi cosa rappresentano? «Tatuati come il territorio che si sono illusi di dominare», come ha scritto Aurelio Picca, rappresentano loro stessi. Non sono simboli, non sono nemmeno sintomi, mi dice un attivista di Emergency: «Sono fuori misura». 

Non puoi pensare che abbiano alter ego, eredi, parenti stretti. Sono spacciatori, estorsori, non due ragazzoni esagitati finiti nei casini. «È stupido pensare che il problema sia la movida o, peggio, la movida di Colleferro ». Perché è innegabile che di sera, anzi di notte, quella specie di cittadella rialzata che dà su Corso Garibaldi si gonfi di giovanissimi che arrivano da tutti i luoghi vicino («dove non c'è quasi niente»).

Faccio notare, perché l'ho notato, che quella schiera di pub e locali sembra un mondo a sé, una zona spuria che non comunica con il resto della cittadina. È vero, mi sento rispondere. E anche don Christian, che si è insediato a Colleferro proprio nei giorni del lutto per Willy, dice che quell'incremento consistente della popolazione giovanile nei lunghi fine settimana e nelle lunghissime notti un certo effetto lo fa, e che «sacche sane» si mescolano a «sacche meno sane. Ma il problema non è il luogo».

Colleferro non è solo Colleferro: è l'Italia. «E se abbiamo un debito di responsabilità nei confronti dei giovani, lo abbiamo tutti in quanto adulti, non in quanto residenti qui». Mi parla di iniziative come quella dell'oratorio cittadino diffuso, «per offrire alternative ». E in effetti sono in parecchi a darsi da fare: associazioni laiche come "In cammino verso" che provano a riattivare un dialogo laddove sembra spento o impossibile. 

Le forze dell'ordine che sorvegliano la movida servono a poco, «forse solo a far sentire più oppressi i ragazzi». Un operatore sanitario mi dice che sarebbe ingenuo o ipocrita pensare che nella movida non ci sia consumo di sostanze. «Ma vale solo qui?». No. Cocaina, eroina sopra i 40-50 anni, cannabis, alcol a fiumi. Ma anche lui è convinto che il problema dei Bianchi e soci non sia quello di «una ghenga di tossicodipendenti », ma di gente «impaccata di soldi, coi macchinoni», allenata a una prepotenza che ha in sé la violenza, l'inabissamento morale, e che non c'entra con la geografia.

Fratelli Bianchi e Willy, le due madri contro e l’incontro in aula: Lucia Monteiro Duarte e Simonetta Di Tullio. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 10 Luglio 2022.

Dice Lucia: «È stata resa giustizia a Willy», dice invece Simonetta: «Condannati a furor di popolo». Le due donne separate da mondi diversi si sono incontrate nell’aula del tribunale di Frosinone e sono destinate a barricate opposte anche in futuro. 

Due madri, una storia. Quella di Willy Monteiro Duarte e l’altra, dei fratelli Bianchi. Una, Lucia Monteiro Duarte, riservata. L’altra, Simonetta Di Tullio, incapace di rassegnarsi. Le due hanno modi di comunicare opposti. Introversa la prima, sanguigna la seconda: «I miei figli sono stati condannati a furor di popolo» è stato il commento a caldo della donna, una bracciante di Artena. Mentre dal lato opposto, Lucia, si è definita sollevata dalla sentenza: «Nessun giudice potrà ridarci Willy. Ma almeno gli è stata resa giustizia» ha detto a margine dell’udienza conclusiva della Corte d’Assise di Frosinone.

Di Tullio sfogava la sua disperazione nel corso delle udienze con i figli in carcere: «Non ci sta più nessuno - dice amareggiata a Gabriele - ti hanno abbandonato tutti amore mio! Si tenemo venne (ci dobbiamo vendere) le macchine, tutto perché non c’è rimasto più niente». Si può immaginare l’angoscia per un domani fatto di debiti, avvocati e risarcimenti. Lei, la madre dei fratelli di Artena, però va dritta per la sua strada: «Una volta dimostrato.. — dice senza sapere di essere intercettata — tutta quella fanga che ci hanno messo in cima e che hanno visto l’innocenza di te e di tuo fratello saremmo soltanto noi famiglia a casa mia».

L’altra, Lucia, determinata nella difesa della propria privacy, si lascia sfuggire poche frasi nel corso della vicenda. La prima, straziante, all’indomani del riconoscimento del corpo martoriato di Willy: «Non ho saputo proteggerlo...» Poi di nuovo silenzio fino a lunedì 4 luglio, giorno della sentenza: «Oggi non c’è emozione — aveva detto — C’è solo dolore di fronte a questi ragazzi così violenti e brutali. Tanto dolore che porto dentro e che solo una mamma può capire. Spero, adesso, che la storia di mio figlio possa servire ad evitare tante altre tragedie. Abbiamo sempre creduto nella giustizia ed in cuore avevamo tanta fiducia». Ancora accorata di fronte alla ferocia del branco. Eppure fiduciosa nei confronti della giustizia e della capacità di convivenza tra persone profondamente diverse. 

Il futuro le troverà ancora separate. Lucia assieme al marito Armando ha già anticipato che conta sulla conferma della sentenza di ergastolo («Non escano prima» si è augurato papà Armando). Mentre Simonetta Di Tullio tornerà a battersi per la libertà di Gabriele e Marco in appello. Ai primi di ottobre scadranno i termini del deposito delle motivazioni, poi il ricorso, scontato dell’avvocato difensore Massimiliano Pica.

Fratelli Bianchi in aula, "guardi che Willy è morto": le immagini che sconvolgono l'Italia. Libero Quotidiano il 10 luglio 2022

A Un giorno in pretura, il programma in onda su Rai 3, le impressionanti immagini del processo ai fratelli Bianchi, poi condannati all'ergastolo per l'omicidio di Willy Montero, avvenuto il 6 settembre 2020 a Colleferro, il ragazzo ucciso brutalmente a calci e pugni.

E nel programma Rai, ecco gli imputati alla sbarra. Si difendono in qualche modo, provando a fornire la loro versione dei fatti. Per primo Gabriele: "Ero agitato, non sapevo la situazione, cosa stava succedendo. Pensavo che il mio amico stava litigando, se avessi saputo che non era così prendevo i miei amici e me ne andavo. Mi sono agitato e quando ho visto questo ragazzo, lo ho spinto. Il calcio? Glielo ho dato qui sul fianco". Dunque Gabriele Bianchi si alza e fa vedere dove avrebbe colpito Willy.

Poi però ecco due testimonianze. La prima di un amico di Willy: "Il primo colpo sferrato fu un calcio all'altezza del petto. Willy è volato contro una macchina", spiega. Dunque un testimone: "Ho visto Gabriele Bianchi arrivare spedito davanti a Willy e tirargli un calcio in petto. Un calcio frontala da davanti, piegando la gamba e spingendo col bacino".

Infine, la testimonianza di Gabriele Bianchi. Ancor più sconcertante. "Fosse vero che io e mio fratello abbiamo riempito di pugni il povero Willy... ma lei non pensa che quei colpi, con la nostra struttura fisica e la nostra esperienza, gli avremmo dovuto provocare delle fratture del viso? Il naso rotto? Labbro spaccato e mandibola rotta?", chiede al pm. Laconica la risposta: "Guardi che è morto, Willy".

I fratelli Bianchi e gli altri imputati dovranno versare 550mila euro alla famiglia di Willy: ecco i primi risarcimenti. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022.

Non c’è solo la condanna all’ergastolo per i fratelli Bianchi: secondo il dispositivo della sentenza emessa lunedì scorso nell’aula gli imputati dovranno versare 200mila al papà, altrettanti alla mamma più 150mila alla sorella. 

Il presidente della Corte d’Assise di Frosinone (Francesco Mancini) ha stabilito una prima quantificazione del danno subito dalla famiglia Monteiro Duarte con l’omicidio di Willy. Secondo il dispositivo della sentenza emessa lunedì scorso nell’aula gli imputati, vale a dire Marco e Gabriele Bianchi più Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, dovranno versare immediatamente duecento mila euro a ciascuno dei genitori della vittima più 150mila alla sorella: «Condanna gli imputati in solido inoltre al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva che determina in euro 200mila per ciascun genitore ed in euro 150mila per la sorella rigettando le ulteriori richieste». Si tratta di un primo passo verso il riconoscimento dei danni subiti dalla famiglia di Willy.

Non è tutto però. A conclusione di un processo fondato sulle testimonianze di chi partecipò alla notte del 6 settembre 2020, i giovani presenti in largo Santa Caterina a Colleferro, i giudici rinviano gli atti in Procura affinché s’indaghi sulle testimonianze di Faiza Rouissi e Aldo Proietti. La prima era la ragazza che per prima aveva raccontato ciò che aveva visto: «Chi materialmente ha picchiato Willy — aveva fatto mettere a verbale — è stato Gabriele Bianchi, che dapprima gli ha dato un calcio in pancia, quindi Willy si è accasciato a terra dopodiché si è rialzato ed è stato nuovamente colpito da Gabriele. A questo punto Willy rovinava a terra e perdeva sangue dalla bocca». Proprio su quel calcio «in pancia» sarebbero sorti problemi perché in altre circostanze Rouissi avrebbe parlato di calcio «al petto», un dettaglio non secondario per l’attribuzione delle responsabilità processuali.

I giudici hanno fissato a novanta giorni la deposizione delle motivazioni della sentenza. Scontato il ricorso da parte dei fratelli Bianchi assistiti dall’avvocato Massimiliano Pica che, nei giorni scorsi, ha già anticipato: «Chiederemo ai giudici della Corte d’Appello di disporre una nuova perizia che sia in grado di fare davvero luce sulle ferite inferte a Willy. Il processo di primo grado si è concluso senza che sia stata attribuita la paternità del calcio frontale che colpì il ragazzo».

Clemente Pistilli per repubblica.it l'11 luglio 2022.  

Prima l'orrore e ora pure la beffa. I genitori di Willy sembrano destinati a non avere neppure un centesimo di risarcimento. I fratelli Marco e Gabriele Bianchi, nonostante prima dell'arresto inondassero i social di foto in hotel di lusso, in barca e su moto potenti, risultano nullatenenti. I loro genitori, prima che gli venisse tolto a seguito di un accertamento della guardia di Finanza, percepivano persino il reddito di cittadinanza.

E non è molto differente la situazione di Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. La Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone ha condannato "i gemelli" all'ergastolo, gli altri due imputati a 23 e 21 anni di carcere, e a risarcire, solo di provvisionali immediatamente esecutive, 550mila euro ai genitori e alla sorella di Willy Monteiro Duarte. Non avendo a quanto pare conti correnti capienti né proprietà, i Bianchi e gli altri dovrebbero però cavarsela senza dover provvedere ai risarcimenti. 

"Quando c'è un incidente stradale ci sono le assicurazioni che coprono, ma in questo caso è diverso e non abbiamo mai pensato di poter recuperare denaro da quelli", conferma lo stesso avvocato Domenico Marzi, legale di parte civile. Una causa? "Non risultano avere nulla", precisa il legale dei familiari di Willy, "e sarebbe difficile capire contro chi farla".

A pesare moralmente però è soprattutto il fatto che gli imputati, in quasi due anni, non avrebbero neppure proposto un risarcimento simbolico. "Ci sono state delle lettere, dei tentativi che definisco inopportuni, per stabilire un contatto e niente più", afferma l'avvocato Marzi. Ma dopo la sentenza con cui i Bianchi sono stati condannati all'ergastolo ai genitori di Willy non è giunto neppure un messaggio, né dai due fratelli né dai loro familiari. 

La famiglia della vittima potrebbe rivolgersi alla Corte europea, chiedendo un risarcimento allo Stato italiano per quel giovane che non è riuscito a tutelare e che è stato massacrato senza un perché nella zona della movida di Colleferro, ma la strada è tutta in salita. "Valuteremo, vedremo bene cosa fare", conclude l'avvocato Marzi.

Serenella Bettin per “Libero quotidiano” l'11 luglio 2022.

«Non crede che Willy avrebbe avuto fratture del viso, il naso rotto, il labbro spaccato, la mandibola rotta se fosse stato vero che gli avessimo dato questi colpi?». «Guardi che è morto Willy». Raggelante. Ad ascoltare le deposizioni dei fratelli Bianchi si gela il sangue. Questa è la frase che Gabriele Bianchi rivolge al pm che basito gli risponde: «Guardi che Willy è morto». «Purtroppo lo so», risponde Bianchi. Il giudice evidentemente imbarazzato taglia corto: «Va beh, atteniamoci ai fatti del processo».

Sono le 3.20 del mattino del 6 settembre 2020 quando senza alcun motivo Willy Monteiro Duarte, un capoverdiano di 21 anni, viene ucciso davanti a un locale di Colleferro, comune della città di Roma. Perla sua morte vengono accusati quattro ragazzi: Francesco Belleggia, Mario Pincarelli e i due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele. 

La sentenza di primo grado di lunedì scorso non ha concesso sconti ai due fratelli che passeranno il resto della loro vita in carcere, anche se la strada per il passaggio in giudicato è ancora lunga. Ci sono Appello e Cassazione e tutti i benefici annessi e connessi qualora vengano riconosciuti. Gli altri due componenti del branco, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, sono stati condannati rispettivamente a 23 anni e 21. Così ha stabilito la Corte d'Assise di Frosinone. L'accusa aveva chiesto l'ergastolo per i Bianchi appunto e 24 anni per gli altri due.

Sabato sera su Rai3, durante la trasmissione Un giorno in Pretura sono andate in onda le deposizioni dei fratelli Bianchi e son state ripercorse le fasi processuali riproponendo le testimonianze delle parti coinvolte. Deposizioni sconvolgenti con i fratelli che provano a fornire la loro versione dei fatti. «Da stupido» dice Marco, «ero agitato, ho dato la spinta a Willy e il calcio. Ma il calcio... l'ho preso qui sul fianco, non l'ho preso sul petto, io so le mie conseguenze se do un calcio frontale sul petto. Io non mi sarei mai permesso di dare un calcio frontale.

La mia colpa, la mia responsabilità io l'ho sempre detta: ero agitato, non sapevo che stesse succedendo, quindi quando sono arrivato pensavo che il mio amico stava litigando, perché se io sapevo una cosa del genere che il mio amico non stava neanche litigando capivo la situazione, prendevo e me ne andavo. Siccome ho reagito male, mi sono agitato, quando ho visto questo ragazzo (Willy, ndr) ma com' era questo ragazzo poteva essere un altro, ho reagito male, gli ho dato la spinta».

«E il calcio dove glielo ha dato?» chiede il pm. «Gliel'ho dato qui sul fianco», risponde Bianchi che prima mostra il fianco destro e poi il sinistro. Una ricostruzione che diverge con quanto detto dai testimoni, che parlano di un forte calcio sul petto di Willy. «Ma lei» dice Gabriele Bianchi al pm, «lei non pensa che i colpi da me dati e da mio fratello per la nostra struttura fisica e la nostra esperienza...

Non crede che Willy avrebbe avuto fratture del viso, il naso rotto, il labbro spaccato, la mandibola. Ma lei» dice Gabriele Bianchi al pm, «lei non pensa che i colpi da me dati e da mio fratello perla nostra struttura fisica e la nostra esperienza... Non crede che Willy avrebbe avuto fratture del viso, il naso rotto, il labbro spaccato, la mandibola rotta se fosse stato vero che gli avessimo dato questi colpi? rotta se fosse stato vero che gli avessimo dato questi colpi?».

All'aggressione, come viene ricostruito, quella sera hanno assistito molte persone ma per la lestezza dei movimenti e dei colpi, per la troppa confusione, per il buio, dai testimoni sono state date molte versioni tra loro discordanti. La pubblica accusa ha ricostruito i 50 secondi - il lasso di tempo in cui Willy venne brutalmente picchiato dall'arrivo in auto dei fratelli Bianchi in mezzo alla folla, al calcio violentissimo che gli viene inferto, fino all'accanimento dei 4 imputati sul corpo a terra di Willy. 

I fratelli Bianchi sono esperti di arti marziali tanto che durante il processo il pm chiede come mai Marco Bianchi da un quotidiano locale venisse definito "il maledetto". «Lei sa perché?» chiede il pm. «No...così per caso, ma non mi presentavo mai agli incontri dicendo quel nome». «Lei sa per quale motivo le hanno dato questo nome?». «Ma è un nome così... dicendo il maledetto si associa a una persona violenta». Gli imputati sono stati condannati pure a pagare una provvisionale di 200mila euro ciascuno ai genitori di Willy e di 150mila euro alla sorella. Willy Duarte aveva 21 anni. Faceva l'aiuto cuoco, i soldi che prendeva li dava in famiglia. Sognava di fare lo chef.

Willy Monteiro, i fratelli Bianchi risultano “Nullatenenti”: potrebbe essere lo Stato a risarcire. Valentina Mericio l'11/07/2022 su Notizie.it.

Con la condanna all'ergastolo, i fratelli Bianchi dovrebbero corrispondere un risarcimento ai familiari di Willy. Risultano però nullatenenti. 

Con la condanna all’ergastolo per i familiari di Willy Monteiro potrebbe arrivare una “tegola” difficile da mandare giù. I due fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, nonostante avessero millantato sui social uno stile di vita agiato con tanto di hotel di lusso, non potranno corrispondere il risarcimento che è stato stabilito sul giudice.

Stando a quanto riporta la testata La Repubblica, i due risultano essere nullatenenti, mentre i genitori erano stati beneficiari del reddito di cittadinanza prima che venisse loro tolto. 

Oltre alla pena detentiva rispettiva all’ergastolo per i fratelli Bianchi e a 23 e 21 anni per Belleggia e Pincarelli, gli imputati sono tenuti a versare 200 mila euro ad imputato per i familiari di Willy e 150 mila la sorella.

Tuttavia, proprio perché non hanno proprietà né conti correnti in grado di provvedere alle provvisionali, tale disposizione potrebbe non essere mai attuata. 

L’avvocato di parte civile Domenico Marzi, a tale proposito, ha dichiarato: “Quando c’è un incidente stradale ci sono le assicurazioni che coprono, ma in questo caso è diverso e non abbiamo mai pensato di poter recuperare denaro da quelli”.

Ha anche aggiunto che nessuno degli imputati, durante questi anni, ha proposto di risarcire i familiari della vittima: “Ci sono state delle lettere, dei tentativi che definisco inopportuni, per stabilire un contatto e niente più”. 

Quelle lettere dal carcere che svelano chi sono i fratelli Bianchi. Evi Crotti il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'analisi della grafia di Gabriele e Marco Bianchi rivela le personalità dei fratelli condannati per il pestaggio in cui morì Willy Monteiro Duarte

Le lettere dal carcere non hanno evitato l'ergastolo a Gabriele e Marco Bianchi, i due fratelli condannati per il brutale pestaggio a Colleferro, in cui perse la vita Willy Monteiro Duarte.

Uccisero Willy Monteiro di botte. Ergastolo ai fratelli Bianchi

Gabriele Bianchi

Osservando la grafia di Gabriele (clicca qui) emerge una personalità povera e facile a lasciarsi condizionare dagli impulsi e dalle emozioni, creando così le condizioni per un difficile controllo sulle stesse.

Siamo di fronte a un ragazzo con una personalità immatura, che però ama essere protagonista (vedi occupazione totale dello spazio grafico) e quindi si lascia trascinare da chi rinforza questa sua sensazione di apparente protagonismo vincente.

La povertà di carattere, che si nota dal tipo di gesto grafico elementare e dalla firma perfettamente uguale al testo, mette in evidenza una mancanza di strutturazione elaborativa e mentale, per cui è facile preda dei più forti ed astuti. L’imitazione e la sudditanza lo rendono fragile nelle scelte e del tutto dipendente.

Marco Bianchi

La grafia di Marco (clicca qui), senza dubbio più costruita di quella del fratello, esprime una personalità più decisa e pronta a dare spazio ai desideri personali trovando così soluzioni per entrambi.

È persona senza dubbio dotata di un temperamento socievole, anch’egli amante del protagonismo e voglioso di essere considerato (vedi uso dello stampatello e occupazione totale del foglio con cancellature anomale).

Evidente in lui il narcisismo primario che chiede sempre immediata soddisfazione delle aspirazioni o degli impulsi primordiali che, mancando di controllo, impongono la soddisfazione immediata degli stessi. Nel caso di Marco tale spinta inarrestabile sembra accompagnata da una forte aggressività e una certa capacità di elaborare in modo manipolatorio ogni evento che gli capiti.

Senza dubbio superiore al fratello come intelligenza e abilità, Marco è la persona che sa imporre, comandare e condizionare chi gli sta accanto con seduzione e gioco emozionale non controllato.

 Omicidio di Willy: ora Belleggia teme la vendetta dei fratelli Bianchi. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

Definito «infame» dai fratelli di Artena, il coimputato teme rivalse da parte della malavita all’interno del carcere dove, secondo i giudici di I grado, dovrà scontare 23 anni. il suo avvocato: «Sparita un’intercettazione». 

«Chio poraccio è morto così per chillo ‘nfame de Belleggia. Belleggia di me...» diceva Marco Bianchi a colloquio con il terzo fratello (estraneo ai fatti) Alessandro nel carcere di Rebibbia. Il dialetto di Artena cambia poco la sostanza. É l’autunno del 2020 e i due bollano Francesco Belleggia, coimputato per l’uccisione di Willy Monteiro Duarte, come «infame». Dunque la sentenza di lunedì 4 luglio aprirebbe un problema in più secondo la difesa del giovane, l’avvocato Vito Perugini: «Su Francesco, il mio assistito, grava la maledizione dell’infamia, spedirlo in carcere a questo punto vorrebbe dire condannarlo a morte» commenta il penalista. Belleggia era stato scarcerato e mandato ai domiciliari subito dopo i fatti: «Mi sono trovato in mezzo alla lite mio malgrado — aveva detto al gip — ho chiesto anche scusa all’altra comitiva per le frasi di Mario (Pincarelli l’ altro coimputato, ndr), poi ho reagito alla provocazione di Zurma (Federico Zurma, amico di Willy,ndr), ma ero lontano quando gli altri hanno picchiato Willy».

Contro Belleggia, al processo, vi erano le testimonianze di Michele Cerquozzi, il giovane che avrebbe chiamato i fratelli Bianchi ad intervenire durante la lite fra comitive. E di Omar Shabani, altro amico dei Bianchi (coinvolto in una vicenda di spaccio assieme a loro). Denuncia l’avvocato Perugini: «C’è un’intercettazione fondamentale scomparsa dai radar processuali, si tratta di un frammento di conversazione avvenuta negli uffici dei carabinieri all’indomani dei fatti, quando Cerquozzi disse “Questi sanno tutto, sanno quello che abbiamo fatto, sanno che se semo messi d’accordo...” che fine ha fatto?» Una frase inequivocabile che assegnerebbe responsabilità definitive in capo ai Bianchi sostiene il difensore di Francesco Belleggia.

Riguardo a quest’ultimo il gip aveva parlato di «generale inattendibilità delle dichiarazioni rese dai due amici (Cerquozzi e Shabani, ndr) degli indagati». Venticinque anni, fidanzato con una coetanea di Velletri, amante dei cavalli e del karate, iscritto alla facoltà di ingegneria, sui social Belleggia celebrava l’amicizia con Pincarelli. I testimoni di quella notte lo avevano identificato per il gesso al braccio (un incidente con il motorino). Ora il rischio maggiore è che in carcere trovi qualcuno disposto a fargli pagare le sue dichiarazioni contro i fratelli di Artena.

Andrea Ossino per repubblica.it il 13 luglio 2022.

Dovranno scontare tutta la vita dietro le sbarre per aver massacrato e ucciso il ventunenne Willy Monteiro Duarte. E le giornate in carcere potrebbero non essere semplici. I fratelli Bianchi lo sanno bene. Del resto il trattamento a base di insulti, sputi, minacce riservato mesi fa nel carcere di Rebibbia potrebbe essere la diretta conseguenza di dinamiche criminali più ampie, come già rivelato da Repubblica lo scorso 16 aprile.

Perché i due fratelli di Artena avevano riscosso le attenzioni di malacarne di alto rango come Elvis Demce, 36enne albanese a capo di uno spietato gruppo di criminali. Le intercettazioni carpite dall'Antimafia di Roma lo rivelano chiaramente: "Stanno al G9 (reparto del penitenziario romano ndr), magari a pizzicarli", dicono i sodali dell'albanese pensando di sguinzagliare tale "Ciccillo", detenuto nello stesso penitenziario. La circostanza si inserisce in una conversazione sul controllo delle piazze di spaccio tra Prenestino, litorale Pontino, i Castelli Romani e Velletri. Demce non accettava che altri potessero inserirsi nei suoi affari. 

Per questo motivo ha iniziato una guerra contro il connazionale Ermal Aramaj. Non solo. "Bigis", all'anagrafe Francesco Bastianelli, aveva informato Demce di "un'operazione di polizia nei confronti di soggetti dei Castelli Romani - scrivono i carabinieri nell'informativa dell'indagine Aquila Azzurra - e in particolare nei confronti di due fratelli, i Bianchi, coinvolti nell'omicidio del giovane Willy Duarte Monteiro".

Un affronto, per il criminale albanese, che "invita Bigis ad informarsi sulle persone che sono state tratte in arresto e che spacciavano droga a 'casa loro'", annotano gli uomini del Nucleo Investigativo. 

"Vedi mpò chi so ste spie di merda che spacciavano a casa nostra", ordina il capo. Gli scagnozzi commentano: "Mamma mia quei daun de Colleferro hanno fatto i danni a colori co quel ragazzino che hanno ammazzato", dicono.

E vogliono intervenire. "Stanno al G9 primo piano", vengono a sapere. Poi la conferma: "Gia? sti cessi infami (....)Si hai visto tutte foto da coatti(..).Sti schifosi". Le intenzioni sono chiare: "magari a pizzicarli quei cessi veri". Per realizzarle hanno già pensato a un nome: "Poesse che stanno co Ciccillo (un altro detenuto ndr)", dicono prima di ricordare la fine fatta fare all'ultima persona che avevano deciso di punire.

Prima della morte di Willy i fratelli Bianchi hanno seminato il terrore nei Castelli. Per loro altri tre processi. Clemente Pistilli su La Repubblica il 13 Luglio 2022.  

Quattro pestaggi, quasi tutti compiuti ai danni di stranieri. Tra gli aggrediti molti non hanno denunciato per paura di ritorsioni: tra questi un giocatore di rugby

Quattro pestaggi, quasi tutti compiuti ai danni di stranieri. Prima della morte di Willy, per cui la settimana scorsa sono stati condannati all'ergastolo, i fratelli Bianchi hanno seminato il terrore nei Castelli Romani e per quattro episodi di violenza di cui sono finiti accusati, sono in corso tre processi davanti al Tribunale di Velletri. In autunno riprenderanno le udienze e Marco e Gabriele Bianchi, il primo campione di MMA e il secondo appassionato di boxe, rischiano altre pene.

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Roma” il 13 luglio 2022.

Quattro pestaggi, quasi tutti compiuti ai danni di stranieri. Prima della morte di Willy, per cui la settimana scorsa sono stati condannati all'ergastolo, i fratelli Bianchi hanno seminato il terrore nei Castelli Romani e per quattro episodi di violenza di cui sono finiti accusati, sono in corso tre processi davanti al Tribunale di Velletri. 

In autunno riprenderanno le udienze e Marco e Gabriele Bianchi, il primo campione di MMA e il secondo appassionato di boxe, rischiano altre pene. 

"Arrivano i Bianchi"

Quando quella maledetta notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 il suv dei gemelli, come erano chiamati i due fratelli di Artena per la loro somiglianza, si fermò in piazza a Colleferro, le decine di giovani presenti nella zona della movida iniziarono a urlare terrorizzati: "Arrivano i Bianchi". 

Si allontanarono in fretta anche Federico Zurma, di Colleferro, a cui Willy aveva chiesto se avesse bisogno d'aiuto dopo averlo visto discutere con Francesco Belleggia e la sua comitiva. E per il 21enne non ci fu niente da fare. Venne massacrato a calci e pugni e abbandonato sull'asfalto, ormai agonizzante, senza neppure ricevere soccorso. 

Vittime che non denunciarono

"Sapevamo della loro fama, li conoscevamo per quello", hanno ripetuto, riferendosi ai Bianchi, diversi testimoni davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone. 

Nella zona si mormora di diverse vittime che non hanno neppure denunciato le aggressioni subite per paura, tra cui un giocatore di rugby. Qualcuno però alle forze dell'ordine ha chiesto aiuto e quelle denunce presentate prima dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte hanno portato appunto a tre processi in corso a Velletri. 

Il primo processo

In un procedimento Marco e Gabriele Bianchi sono accusati infatti di aver massacrato con un tirapugni un 25enne di Lanuvio, a cui i medici gli riconobbero una prognosi di 30 giorni. Un pestaggio avvenuto il 14 gennaio 2018 a Velletri.

E nello stesso processo Marco Bianchi, questa volta insieme al fratello Fabio e ad altri quattro giovani, è accusato anche di una rissa esplosa, il 3 maggio sempre di quattro anni fa, nei pressi di un locale vicino alla caserma dei carabinieri di Velletri, finita con una serie di lesioni subite da due coimputati, un ventenne di Velletri e un 22enne di origini marocchine. 

Il secondo processo

In un secondo processo Marco Bianchi, che sul ring era chiamato "Maldito", insieme a due fratelli gemelli di Velletri, è poi accusato di un'aggressione ai danni di un 22enne originario del Gambia, che l'1 maggio 2018, in piazza Garibaldi a Velletri, sarebbe stato picchiato dopo aver fatto un apprezzamento a una ragazza. 

Il terzo processo

Infine, in un terzo procedimento, sono imputati per lesioni Marco e Gabriele Bianchi e i loro amici Vittorio Tondinelli e Omar Shabani, gli stessi che erano con loro due anni fa a Colleferro quando venne massacrato Willy. Secondo il sostituto procuratore Francesco Brando, lo stesso del processo per l'omicidio del 21enne, i quattro avrebbero picchiato un 41enne di origini indiane, domiciliato a Velletri. 

Lo straniero, il 13 aprile 2019, sarebbe stato colpito con una serie di pugni al volto e spinte, gli sarebbe stato rotto il naso e gli sarebbe stata provocata una lesione a un occhio, per cui i medici gli riconobbero una prognosi di 30 giorni. 

Lo spaccio e le estorsioni

Processi che si aggiungono a quello per l'omicidio di Willy e a quello per un giro di spaccio di cocaina ed estorsioni, con tanto sempre di pestaggi, tra Velletri e Lariano, per cui "i gemelli" sono stati condannati in primo grado e si sono vista confermare la condanna in appello, seppure con un po' di sconto: quattro anni e mezzo di reclusione. E per la stessa vicenda Shabani ha patteggiato la pena a 4 anni e 8 mesi di reclusione. 

L'inchiesta per tentato omicidio

Shabani, infine, era stato coinvolto anche in un'inchiesta per tentato omicidio, finita con un'archiviazione. Il 26 novembre 2017, mentre percorreva con la propria auto via Garibaldi, a Lariano, un giovane subì un attentato. Ignoti spararono un colpo di pistola, che colpì la Fiat Bravo della vittima e due auto, una Mini Cooper e una Volkswagen Golf si diedero alla fuga. 

I carabinieri, ricevuta la denuncia, esaminarono le telecamere di sorveglianza della zona e si convinsero che le due auto in fuga fossero una di un 38enne di Lariano e l'altra di Shabani, anche lui residente in quel Comune e, come sostenuto dal sostituto procuratore Carlo Morra, "non nuovo a litigi per motivi di viabilità".

Shabani, ascoltato dagli investigatori, rilasciò delle dichiarazioni spontanee. Disse che il colpo di pistola era partito dall'auto del 38enne e che a sparare era stata una persona a lui sconosciuta che viaggiava con il conducente della Mini. Poi però, interrogato, si avvalse della facoltà di non rispondere. 

I carabinieri del Ris non riuscirono a ricollegare con certezza i frammenti di proiettile recuperati sulla Fiat Bravo a una pistola sequestrata al 38enne e, ultimate le indagini, il sostituto procuratore Morra ritenne impossibile "individuare con certezza l'autore dell'esplosione del colpo di arma da fuoco". Un'inchiesta archiviata dal gip Giuseppe Boccarrato.

I fratelli Bianchi e i contatti con la criminalità romana. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.

Marco e Gabriele Bianchi, coinvolti in una inchiesta per droga, vengono citati da uno dei nomi emergenti e più temuti della malavita della Capitale, l’albanese Elvis Demce amico di Diabolik. 

Più che «semplici» picchiatori di provincia e ben oltre la truffa del reddito di cittadinanza percepito senza titolo, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, condannati all’ergastolo una settimana fa per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, avevano una fama in crescita in ambienti criminali di tutt’altro spessore, forse anche più intonata alle pose da boss che assumevano sui social. Di loro parla ad esempio uno dei nomi emergenti e più temuti della malavita della Capitale, l’albanese di origine ma romanissimo nei modi e nella sua rete di frequentazioni, Elvis Demce, detto Spartaco.

Il 36enne è stato a capo della banda di connazionali già in affari con Fabrizio Piscitelli «Diabolik» e poi sempre più autonoma anche nelle ambizioni, ed è ora in carcere per traffico di stupefacenti. Intercettato nell’ambito dell’inchiesta che ha svelato anche il suo proposito di compiere un attentato contro il pm che indagava su di lui, Demce commenta l’ordinanza di arresto che raggiunge i due fratelli di Artena quando sono già detenuti per l’omicidio di Willy.

È una vicenda di droga su cui indaga la procura di Velletri e la notizia arriva presto all’orecchio di Demce, che nella chat criptata «Sky Ecc», espugnata dai carabinieri del Nucleo investigativo in collaborazione con Europol, commenta con il fedele Francesco Bastianelli «Bigis»: «E vedi mpò chi so’ ‘ste spie di merda che spacciavano a casa nostra», intima Demce al sodale. «Come a rivendicare la piazza di spaccio della zona di Velletri e dei Castelli Romani», annotano i carabinieri del Reparto Operativo – Nucleo investigativo nella loro ultima informativa ai pm antimafia Francesco Cascini e Mario Palazzi. Proprio in quel territorio i Bianchi stavano allargando i loro interessi criminali, sostenuti dalla fama di violenti che li precedeva.

Una delle circostanze che ha convinto i giudici della corte d’Assise di Frosinone a condannarli con il massimo della pena per l’omicidio di Willy. La valutazione che la banda di Demce fa su di loro è di totale disprezzo: «Mamma mia, so quei due down che hanno fatto i danni a colori co quel ragazzino che hanno ammazzato». E ancora: «Sti cessi infami, hai visto che foto fa coatti?». In carcere i Bianchi non hanno avuto vita facile e la loro arroganza gli si è ritorta contro. Lo stesso Demce sembra volerli «punire»: «Stanno al G9 (il braccio del carcere di Rebibbia, ndr), magari a pizzicarli».

Fratelli Bianchi, quando Marco venne aggredito a Rebibbia e lo chiamavano 'infame'. Clemente Pistilli su La Repubblica il 14 Luglio 2022.

Un gruppo di detenuti avrebbe tentato di accoltellarlo alla gola poco dopo l'arrivo nel carcere romano. L'episodio ricostruito attraverso le intercettazioni

Quando i Bianchi sono entrati in carcere a Rebibbia, subito dopo la morte di Willy, non ci sarebbe stato solo chi gli sputava nei piatti e chi li minacciava. Un gruppo di detenuti sarebbe arrivato a entrare nella cella di Marco, cercando di accoltellarlo alla gola. "Maldito", come era chiamato Marco Bianchi quando combatteva sul ring, imponendosi nell'MMA, sarebbe però riuscito con la violenza a farsi largo anche dietro le sbarre e avrebbe trovato tra i detenuti anche qualcuno pronto a difenderlo.

Fratelli Bianchi e omicidio di Willy, nella chat della «Gang dello scrocchio» il piano degli amici per scagionarli. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.

I due fratelli condannati all’ergastolo per l’uccisione di Willy Monteiro Duarte avevano concordato una versione innocentista con gli amici più stretti.

Accuse agli altri imputati, versioni concordate alla lettera, frasi rimangiate in aula, tentativi di contattare i testimoni. Così la «Gang dello scrocchio», il gruppo di amici più stretti dei fratelli Gabriele e Marco Bianchi che celebrava i propri pestaggi in una chat dedicata dal titolo inequivocabile, ha provato a salvare i due picchiatori di Artena dall’accusa di aver ucciso Willy Monteiro Duarte e per la quale sono stati condannati all’ergastolo.  

«I super testimoni»

Le manovre per allontanare dai due fratelli la responsabilità dei colpi mortali inferti al 21enne di Paliano comincia con sorprendente lucidità già subito, in auto, durante la fuga da largo Santa Caterina a Colleferro, luogo dell’aggressione. In auto con l’amico Vittorio Tondinelli, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, i Bianchi provano a riversare su questi due la colpa di quanto accaduto: «Ma che avete fatto?». Una versione che il giorno dopo, ad arresto già avvenuto, proverà a sostenere anche il terzo fratello Bianchi, Alessandro - non coinvolto nell’indagine - che quella sera aveva prestato il suv a Marco e Gabriele e che li accoglie nel suo locale di ritorno dal raid: «Ci sono due super testimoni che possono scagionare i miei fratelli — dice — si sono già presentati dal nostro avvocato». 

«Come un calcio di rigore»

Le testimonianze sono quelle dello stesso Tondinelli, di Omar Sahbani e di Michele Cerquozzi. Sono i componenti, assieme ai due Bianchi, della chat «La gang dello scrocchio». Sahbani e Tondinelli condividono con Marco e Gabriele anche l’imputazione per lesioni in altre inchieste su episodi di pestaggio tuttora a processo presso il tribunale di Velletri e per una delle quali Marco è stato già arrestato in passato. Tondinelli, Sahbani e Cerquozzi usano la stessa metafora, identica anche nelle parole, del «calcio di rigore» per descrivere il colpo che Belleggia avrebbe sferrato al volto di Willy quando era già a terra. Le parole di Cerquozzi e Sahbani (Tondinelli è indagato per favoreggiamento perché era alla guida dell’auto), vengono così bollate in fase di indagini preliminari dal gip, per spiegare la diversa versione da loro fornita rispetto a quella di tanti altri testimoni che si erano spontaneamente presentati dai carabinieri: «Cerquozzi e Sahbani venivano sentiti dopo aver già appreso dalla stampa, e presumibilmente anche da Alessandro Bianchi, quale fosse stata la ricostruzione offerta a questo giudici dai due indagati (i fratelli Bianchi, ndr). Appare opportuno osservare come le convergenti dichiarazioni rese dai testimoni che si erano presentati spontaneamente e dunque certo non animati da interessi personali, rendano ferma confutazione alle ricostruzioni di Cerquozzi e Sahbani».

«I carabinieri sanno tutto»

Ma il gip arriva a una conclusione ancora più netta valorizzando un episodio avvenuto durante i colloqui in carcere registrati dai carabinieri: «Alessandro e Marco Bianchi erano certamente avvertiti del rischio di essere intercettati e per tale ragione avevano ritenuto di strumentalizzare la conversazione rendendola un elemento di riscontro alla rappresentazione offerta nel corso degli interrogatori e indirettamente al tentativo di assegnare l’esclusiva responsabilità del fatto a Belleggia». Gesti convenzionali, parole sillabate senza emettere suoni, sguardo alla ricerca di telecamere. Una versione insomma concordata che poi è stata affidata anche agli amici: «Ne discende - scriveva ancora il gip - una valutazione di generale inattendibilità delle dichiarazioni rese dai due amici degli indagati». «I carabinieri sanno tutto, sanno cosa abbiamo fatto e che ci siamo messi d’accordo», diranno Cerquozzi e Sahbani due settimane dopo, intercettati mentre sono in attesa di testimoniare. 

Gli amici degli amici

Ma nel corso del processo è emerso qualcosa di più. Alcuni testimoni, anche tra gli amici di Willy, sarebbero stati avvicinati per convincerli di aver visto male quanto accaduto a causa del buio e della confusione. Un’altra, Faiza Roussi è stata invece indagata per false dichiarazioni perché dopo aver fornito una versione uguale agli altri sul primo calcio sferrato da Gabriele Bianchi al petto di Willy, rispondendo in aula alle domande del difensore dei due fratelli ha improvvisamente sposato la loro versione di un unico colpo dato da Marco all’anca del 21enne. Faiza Roussi è fidanzata con un ragazzo che vive vicino a casa dei Bianchi in contrada Colubro, appena fuori Artena.

Fratelli Bianchi, l’omicidio di Willy Monteiro Duarte e le altre inchieste dallo spaccio alle lesioni. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022. 

Tutte le altre inchieste che coinvolgono i fratelli Bianchi: molte sono per lesioni e rissa, soprattutto verso extracomunitari. L’annuncio del difensore: «A breve faremo un comunicato». 

I problemi giudiziari dei fratelli Bianchi, condannati il 4 luglio all’ergastolo per l’omicidio del ventenne Willy Monteiro Duarte, a Colleferro, non si sono esauriti. Già era trapelato il processo per spaccio di sostanze stupefacenti nel quale erano coinvolti i «gemelli» come sono stati ribattezzati. Ma ora i due presunti assassini potrebbero essere coinvolti in altri procedimenti per reati che vanno dalle lesioni alla rissa per futili motivi.

In un primo caso i due sono accusati del pestaggio di un 25enne di Lanuvio. Era il 2018 e i fratelli Bianchi lo spedirono all’ospedale con una prognosi di 30 giorni. Quindi una rissa per motivi futili sfociata nel pestaggio a un ventenne di Velletri e a un ragazzo di origine marocchina. Ma non è tutto. Ci sarebbe ancora un altro caso. Il processo per lesioni nei confronti di un ventiduenne originario del Gambia di Marco Bianchi.

Infine Gabriele è sotto accusa per aver pestato un quarantenne indiano nel 2019. Il difensore dei due fratelli, avvocato Massimiliano Pica, rifiuta di commentare, annunciando per la prossima settimana un comunicato stampa che «scioglierà i dubbi sulla questione e le attenzioni dei media». Quanto alle sostanze stupefacenti, con i fratelli Bianchi erano state arrestate altre quattro persone: avevano allestito un giro fra Velletri, Lariano, Artena - in particolare in contrada Colubro - e altri piccoli comuni della zona.

I due fratelli facevano parte della «Gang dello scrocchio», amici stretti che celebravano i propri pestaggi in una chat dedicata dal titolo inequivocabile. La stessa che ha provato a salvare i due picchiatori di Artena dall’accusa di aver ucciso Willy Monteiro Duarte. Vittorio Tondinelli, Omar Sahbani e Michele Cerquozzi sono i componenti, assieme ai due Bianchi, della chat dello scrocchio. Sahbani e Tondinelli condividono con Marco e Gabriele anche l’imputazione per lesioni in altre inchieste su episodi di pestaggio tuttora a processo presso il tribunale di Velletri e per una delle quali Marco è stato già arrestato in passato. Tondinelli, Sahbani e Cerquozzi usano la stessa metafora, identica anche nelle parole, del «calcio di rigore» per descrivere il colpo che Belleggia avrebbe sferrato al volto di Willy quando era già a terra. Le parole di Cerquozzi e Sahbani (Tondinelli è indagato per favoreggiamento perché era alla guida dell’auto), vengono così bollate in fase di indagini preliminari dal gip, per spiegare la diversa versione da loro fornita rispetto a quella di tanti altri testimoni che si erano spontaneamente presentati dai carabinieri: «Cerquozzi e Sahbani venivano sentiti dopo aver già appreso dalla stampa, e presumibilmente anche da Alessandro Bianchi, quale fosse stata la ricostruzione offerta a questo giudici dai due indagati (i fratelli Bianchi, ndr). Appare opportuno osservare come le convergenti dichiarazioni rese dai testimoni che si erano presentati spontaneamente e dunque certo non animati da interessi personali, rendano ferma confutazione alle ricostruzioni di Cerquozzi e Sahbani».

Fratelli Bianchi, dalle videocamere di sorveglianza le immagini della notte dell’omicidio di Willy. Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.  

L’occhio elettronico delle telecamere di sorveglianza ha spiato e registrato i movimenti dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi in quella notte, tra il 5 e il 6 settembre del 2020, in cui Willy Monteiro Duarte fu assassinato. Per il delitto del cuoco 21enne di Paliano, i due di Artena sono stati condannati all’ergastolo nel primo grado di giudizio, mentre 23 anni di carcere sono stati inflitti a Francesco Belleggia e 21 a Mario Pincarelli.

Nelle immagini sgranate in bianco e nero catturate dagli obiettivi (e depositate con gli atti dell’inchiesta) le loro sagome si stagliano baldanzose. Quei fotogrammi sono stati cruciali per determinare la durata del pestaggio. I 50 secondi in cui il corpo di Willy è stato trattato come un sacco su cui ci si esercita in palestra. Calci e pugni hanno devastato gli organi interni del giovane, tanto da far scrivere, in seguito, al medico legale, che gli organi erano «mal riconoscibili». I fotogrammi sono stati come le tessere di un mosaico per i carabinieri. Sono servite ore di visione di filmati, raffronti e analisi incrociate per individuare i fotogrammi con i fratelli Bianchi e i loro amici e ricostruire la cronistoria della notte fatale per il giovane Willy.

Nello specifico, alle 03.23 i Bianchi arrivano sul luogo dell’alterco che, a causa loro, si trasformerà in un massacro. Stanno già salendo in auto per andare via alle 03.26. A distanza di tre minuti, approssimando e sottraendo la durata dei percorsi compiuti a piedi da Marco e Gabriele, il pm Giovanni Taglialatela ha ricavato quei 50 secondi. Le telecamere hanno tracciato tutti gli spostamenti. Quando all’una, i Bianchi posteggiano il loro suv Audi Q7, a Colleferro e, in compagnia dei loro amici, vanno verso i locali della zona. Vengono visti anche alle 02.19, quando con l’amico Tondinelli e tre ragazze raggiungono l’auto parcheggiata per andare a consumare un rapporto sessuale nei pressi del cimitero. Nelle immagini è rimasto immortalato anche l’arrivo dell’ambulanza. Sono le 03.47. È troppo tardi. Willy è già morto.

Le ex hostess rivelano cosa succede davvero a bordo di un aereo

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"Ucciso in 50 secondi". Ecco il video che inchioda i fratelli Bianchi. Dall'arrivo dei fratelli Bianchi a Colleferro agli ultimi istanti di vita del 21enne di Albano. I frammenti video che mostrano l'orrore di quella notte. Il pm: "Willy ucciso in 50 secondi". Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 27 Luglio 2022.

C'è una sequenza di immagini che "inchioda" Marco e Gabriele Bianchi, gli autori - insieme a Francesco Belleggia e Mario Pincarelli - del brutale pestaggio ai danni di Willy Monteiro Duarte, l'aspirante chef di Paliano massacrato nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020. I frammenti sono stati estrapolati dalle telecamere di sorveglianza della caserma dell'Arma di Colleferro e mostrano la successione esatta degli eventi: dall'arrivo dei "gemelli" di Artena in via Buozzi fino all'intervento dei soccorsi.

Le immagini

Le telecamere di sorveglianza hanno ripreso tutto, minuto per minuto, consentendo ai carabinieri di ricostruire la dinamica dell'accaduto. È la notte tra il 5 e il 6 settembre del 2020. Attorno all'una, Marco e Gabriele Bianchi arrivano a Colleferro a bordo di Audi Q7. Con loro c'è anche l'amico Vittorio Tondinelli. Alle ore 2.19 la comitiva si allontana dalla zona della movida con tre ragazze. Una telecamera inquadra il suv lungo la strada che conduce al cimitero dove, a quanto emerso dalle indagini, i due fratelli consumano un rapporto sessuale con le rispettive partner. Poco dopo, il veicolo riappare nel circuito delle telecamere di Colleferro. I "gemelli" di Artena hanno appena ricevuto una telefondata da Omar Shabani che chiede loro di tornare poiché Fancesco Belleggia (il terzo imputato ndr) è coinvolto in una rissa con una comitiva del posto.

L'omicidio di Willy

Alle ore 3.23 i fratelli Bianchi ritornano a Colleferro, in via Buozzi. Scendono dall'auto, parcheggiata all'esterno di un'edicola con i fari ancora accesi, e si dirigono all'esterno dell'ex bar "Smile" dove è in corso la colluttazione tra una comitiva di Colleferro e il gruppo di Artena. Lì, tra la folla, c'è anche Willy che è intervenuto in soccorso di un ex compagno di scuola, Federico Zurma, coinvolto nella zuffa. Alle ore 3.26 il 21enne di Albano è già morto: fatale un colpo sferrato al petto dai fratelli Bianchi mentre il ragazzo era a terra. A quel punto, i "gemelli" di Artena si danno alla fuga. Nella mentre, in via Buozzi, sopraggiungo i soccorsi: per Willy è già troppo tardi.

"Massacrato in 50 secondi"

Mediante il riscontro dei vari fotogrammi, estratti sia dalle telecamere all'esterno della caserma dell'Arma di Colleferro sia da quelle di sorveglianza cittadina, i carabinieri hanno potuto fare una stima esatta del tempo in cui si è compiuto l'omicidio: 50 secondi. Il materiale è stato raccolto in un report che si è rivelato decisivo per la condanna all'ergastolo dei fratelli Bianchi. La vittima "non tentava nemmeno di reagire, preso a calci e pugni mentre boccheggiava e annaspava a terra", ha spiegato al termine della sua requisitoria il pubblico ministero Taglialatela. Willy è stato ucciso in poco meno di un minuto.

Fratelli Bianchi, nella storia della loro famiglia c'è anche un femminicidio. Clemente Pistililli su La Repubblica il 18 Luglio 2022.  

Il 30 marzo 1970, Rolando Imperoli, fratello della nonna paterna dei due campioni di arti marziali, ritenuti responsabili dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte, uccise la moglie del cugino.

Pure uno zio dei fratelli Bianchi si macchiò di un omicidio. Di un femminicidio. Dopo la condanna all'ergastolo dei "gemelli", come erano chiamati Marco e Gabriele per la loro somiglianza, ad Artena c'è chi ricorda quell'episodio di oltre 50 anni fa. Era il 30 marzo 1970, attorno alle 18, quando Rolando Imperoli, fratello della nonna paterna dei due campioni di arti marziali ritenuti i principali responsabili dell'omicidio

Omicidio Willy, il film di quella notte: dal sesso al cimitero alla fuga finale. Tutti gli spostamenti dei fratelli Bianchi. Clemente Pistilli su La Repubblica il 24 Luglio 2022. 

Dalle telecamere di Colleferro, i carabinieri ricostruiscono secondo per secondo i movimenti dei killer e dei loro amici.

"Willy aveva le braccia scese, non tentava nemmeno di reagire, preso a calci e pugni mentre boccheggiava e annaspava a terra, da solo per 50 eterni secondi prima di morire". È un'immagine agghiacciante quella descritta dal pm Giovanni Taglialatela durante la sua requisitoria nel processo che ha portato alla condanna all'ergastolo dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, a 24 anni di carcere per Francesco Belleggia e a 21 anni per Mario Pincarelli.

Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 25 luglio 2022.

«Willy aveva le braccia scese, non tentava nemmeno di reagire, preso a calci e pugni mentre boccheggiava e annaspava a terra, da solo per 50 eterni secondi prima di morire». È un'immagine agghiacciante quella descritta dal pm Giovanni Taglialatela durante la sua requisitoria nel processo che ha portato alla condanna all'ergastolo dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, a 24 anni di carcere per Francesco Belleggia e a 21 anni per Mario Pincarelli.

A raccontare quella notte di violenza e follia, tra il 5 e il 6 settembre 2020, non ci sono però solo i tanti testimoni, le intercettazioni e le consulenze. Ci sono anche le immagini catturate dalle telecamere di sorveglianza a Colleferro. I carabinieri le hanno analizzate e si vedono persino i volti dei "gemelli", come erano chiamati i Bianchi per la loro somiglianza. Il risultato è un film dell'orrore.

Il destino del 21enne di Paliano è risultato irreversibilmente segnato quando, il 6 settembre 2020, a Colleferro sono arrivati i due esperti di arti marziali e i loro amici. Il gruppetto, lasciate le fidanzate ad Artena, si era diretto verso la zona della movida. Mancano 3 secondo all'1 quando una telecamera inquadra l'arrivo dell'Audi Q7. Il suv viene parcheggiato sulla regionale Carpinetana. Si intravedono Gabriele Bianchi e il suo amico Vittorio Tondinelli. Il gruppo si sta dirigendo verso i locali che come un magnete attraggono i giovani di quell'angolo di territorio stretto tra le province di Roma e Frosinone.

Al "Duedipicche" ci sono anche Willy con la sua comitiva, Federico Zurma insieme ai suoi amici di Colleferro, e altri due giovani di Artena, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. I Bianchi e Tondinelli a un tratto incontrano tre ragazze e decidono di allontanarsi. Alle 2.19 una telecamera li inquadra mentre stanno andando a prendere il suv. 

"I gemelli" sono con due giovanissime, una bionda e una mora, e Tondinelli li segue con una ragazza con un vestito lungo e uno spacco sulla gamba sinistra. Partono e vanno verso il cimitero, dove si apparteranno e faranno sesso, fino a quando gli amici Omar Shabani e Michele Cerquozzi gli telefoneranno, chiedendogli di tornare nella zona della movida, dove Belleggia sta discutendo con Zurma e gli altri ragazzi di Colleferro. 

L'Audi Q7 viene immortalata mentre transita su viale dei Caduti e, alle 2.20, in via degli Abeti. Alle 3.19, nella stessa strada, una telecamera registra le immagini del suv che sta tornando indietro. Alle 3.23 quelle dell'arrivo in piazza Buozzi e di alcuni giovani che guardano verso il punto dove è in corso la discussione. Le telecamere non inquadrano l'area vicina all'ex bar " Smile", dove dopo qualche secondo Willy verrà massacrato.

Alle 3.26 viene inquadrato il suv ancora parcheggiato. Il 21enne è già immobile a terra e i Bianchi stanno già correndo per saltare sull'Audi e scappare ad Artena. Alle 3.47 viene registrato l'arrivo dell'ambulanza, con il personale del 118 che cercherà invano di salvare la vita a Willy. L'ultima immagine è delle 4.01. Due giovani corrono in mezzo alla strada. Stanno scappando e uno è Pincarelli. Un film appunto. Di quelli che non si vorrebbero mai vedere. 

Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 26 luglio 2022.  

Due immagini, catturate dalla telecamera di sorveglianza della caserma dell'Arma di Colleferro, hanno consentito di accertare il lasso temporale esatto in cui è stato ucciso Willy e di far sostenere con certezza al pm Giovanni Taglialatela che sono stati sufficienti 50 secondi per massacrare il 21enne. 

Quei fotogrammi sono stati inseriti dai carabinieri in un rapporto con cui, analizzando tutti i filmati di quella maledetta notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, hanno ricostruito gli spostamenti a Colleferro dei fratelli Bianchi e dei loro amici, dall'arrivo nei locali della movida al momento in cui si sono appartati con tre ragazze nei pressi del cimitero, fino al ritorno in via Buozzi, dove hanno iniziato a tirare calci e pugni, per poi lasciare l'aspirante chef di Paliano agonizzante sull'asfalto e fuggire ad Artena, il loro paese. 

La telecamera dei carabinieri ha immortalato l'arrivo dell'Audi Q7 dei Bianchi. Marco e Gabriele, insieme al loro amico Vittorio Tondinelli, si erano allontanati dalla zona della movida per fare sesso con tre giovanissime che avevano incontrato al pub. Sempre una telecamera di sorveglianza li aveva ripresi mentre andavano via e altre telecamere hanno inquadrato il suv lungo il tragitto fatto per arrivare nei pressi del cimitero.

" I gemelli", come erano conosciuti i Bianchi per la loro somiglianza, erano però poi stati chiamati dai loro amici Omar Shabani e Michele Cerquozzi, che gli chiedevano di tornare perché in strada Francesco Belleggia stava litigando con un gruppo di ragazzi di Colleferro. L'arrivo dell'Audi, la frenata brusca, i due fratelli, esperti di arti marziali, che scendono di corsa e si dirigono verso i giovani vicini all'ex bar "Smile", iniziando subito a tirare calci e pugni, sono stati descritti dai tanti testimoni presenti al massacro, che hanno raccontato l'accaduto prima ai carabinieri e poi in aula.

«Eccoli, sono i Bianchi, arrivano i Bianchi», avrebbero iniziato a urlare terrorizzati diversi ragazzi che erano in piazza. Il loro arrivo è stato però immortalato anche dalla telecamera, che è riuscita a riprendere i fari accesi dell'auto. Dopo alcuni secondi un'altra telecamera ha ripreso anche l'Audi ancora parcheggiata, quando Willy Monteiro Duarte già era a terra agonizzante, poco prima che " i gemelli" saltassero di nuovo sull'auto insieme ai loro amici per tornare ad Artena.

È però sempre la telecamera di sorveglianza dell'Arma che inquadra l'Audi Q7 mentre, appena ripartita, sfreccia via. I carabinieri hanno confrontato l'orario dell'arrivo con quello della partenza e accertato così che tra i due momenti trascorrono appena un minuto e 25 secondi. 

Stimando il tempo impiegato dai " gemelli" per dirigersi verso la folla presente in piazza e quello per fuggire, salendo nuovamente sul suv, è stato così considerato che i colpi micidiali che non hanno lasciato scampo a Willy sono stati inferti al 21enne in 50 secondi. Un omicidio compiuto dunque in meno di un minuto, ma un tempo infinito per un ragazzo esile, che si è trovato a subire calci e pugni micidiali e che ogni volta che ha provato a rialzarsi da terra è stato raggiunto da ulteriori colpi senza avere neppure la possibilità di invocare pietà. « Non tentava nemmeno di reagire, preso a calci e pugni mentre boccheggiava e annaspava a terra», ha sottolineato al termine della sua requisitoria lo stesso pubblico ministero Taglialatela.

Le immagini delle telecamere, quella che per la prima volta mostra l'Audi Q7 in fuga, consentono di rivedere quell'orribile e assurdo film girato due anni fa a Colleferro.

Un accertamento che ha pesato nel processo davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone, che ha condannato Marco e Gabriele Bianchi all'ergastolo, e che sembra destinato a pesare nel prossimo giudizio d'appello. I due fratelli sono stati filmati mentre scappavano e il processo ha anche confermato che nessuno del gruppo di Artena si è fermato a soccorrere il 21enne. Neppure una telefonata per chiedere di inviare ai soccorsi. Willy è stato fatto a pezzi e abbandonato in mezzo alla strada, senza un perché e senza colpe.

Omicidio Willy, il giovane massacrato in 50 secondi: i filmati delle telecamere. Chiara Nava il 26/07/2022 su Notizie.it.

Le immagini delle telecamere di sicurezza mostrano tutti gli spostamenti dei fratelli Bianchi. Willy Monteiro è stato massacrato in 50 secondi. 

I fratelli Bianchi sono stati incastrati dalle immagini delle telecamere di sicurezza, che hanno mostrato ogni loro spostamento, ricostruendo quello che è accaduto la notte in cui è stato ucciso Willy Monteiro. Il giovane è stato massacrato in 50 secondi.

Omicidio Willy, il giovane massacrato in 50 secondi: i filmati delle telecamere

La scena che il pm Giovanni Taglialatela ha descritto durante la requisitoria del processo è davvero terribile. “Willy aveva le braccia scese, non tentava nemmeno di reagire, preso a calci e pugni mentre boccheggiava e annaspava a terra, da solo per 50 eterni secondi prima di morire” ha dichiarato il pm. Con queste parole si è conclusa la requisitoria del processo che ha portato alla condanna all’ergastolo per i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, a 24 anni di carcere per Francesco Belleggia e a 21 anni per Mario Pincarelli. 

Testimonianze, intercettazioni, consulenze e immagini delle telecamere di sorveglianza di Colleferro hanno ricostruito la terribile notte di violenza tra il 5 e il 6 settembre 2020.

I carabinieri hanno analizzato le immagini, in cui si vedono chiaramente i volti dei fratelli Bianchi. 

La notte dell’omicidio di Willy Monteiro 

Secondo la ricostruzione ufficiale, il gruppo di amici, lasciate le fidanzate ad Artena, si era diretto verso la zona della movida. Poco prima dell’1 di notte viene inquadrato l’arrivo della loro Audi Q7, che è stata parcheggiata sulla regionale Carpinetana. Nelle immagini si intravedono Gabriele Bianchi e l’amico Vittorio Tondinelli.

Nel locale “Duedipicche” ci sono anche Willy e i suoi amici, Federico Zurma insieme al gruppo di Colleferro, e altri due giovani di Artena, ovvero Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Intanto, i Bianchi e Tondinelli hanno incontrato tre ragazze con cui si sono allontanati. Verso le 2.19 la telecamera li inquadra mentre stavano andando a prendere il suv. I fratelli sono con due ragazze, una mora e una bionda, e anche Tondinelli è con una ragazza.

Insieme sono andati verso il cimitero, per avere dei rapporti sessuali. Questo fino a quando Omar Shabani e Michele Cerquozzi gli telefonano per chiedergli di rientrare nella zona della movida per via di una lite tra Belleggia e Zurma. Alle 3.19 si vede il suv che torna indietro e l’arrivo in piazza Buozzi. Le telecamere non inquadrano l’area vicina al bar Smile, dove Willy è poi stato massacrato, ma alle 3.26 si vedono i Bianchi correre verso l’auto è scappare. Alle 3.47 è stato registrato l’arrivo dell’ambulanza e l’ultima immagine è quella delle 4.01. 

Omicidio Anzio, il pugile Leonardo Muratovic ucciso per uno sguardo. Rinaldo Frignani e Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 18 Luglio 2022.

Movida violenta sul litorale romano: il pugile accoltellato aveva 25 anni. La lite in un locale. Suo padre aggredisce due buttafuori, arrestato.

Un pezzo della staccionata di legno dipinta di bianco rovesciato a terra; tre, quattro tovaglioli di carta imbevuti di sangue lì di fianco sull’asfalto; i nastri della polizia scientifica per sequestrare l’area, incluse due auto parcheggiate davanti alle scalette che da Riviera Vittorio Mallozzi scendono in spiaggia, per preservare eventuali tracce. La scena dell’omicidio di Leonardo Muratovic, 25enne pugile di origine croata ma nato in Italia e residente ad Aprilia, è un quadro che mal si sposa con le famiglie che risalgono verso le proprie case dopo una giornata al mare, verso la vita che scorre serena al tramonto di una giornata di violenza nel locale La Bodeguita, la spiaggia ai suoi piedi, vista sul bastione del Molo Innocenziano con tutti i locali più eleganti.

«Non è successo niente, un ragazzino è caduto e si è fatto male», dice una mamma alla figlia di pochi anni per liquidare in fretta la sua curiosità. La realtà è invece una lite nella notte con un’unica coltellata mortale sferrata al petto della vittima e un’appendice di vendetta, forse male indirizzata, da parte di suo padre Faodini, che nell’androne del commissariato di viale Antium, qualche ora più tardi, accoltella due addetti della sicurezza del locale convocati per testimoniare. I due, 31 e 57 anni, non sono in gravi condizioni, l’uomo, 56 anni, è stato arrestato per tentato omicidio.

Nessuna traccia invece dell’assassino, ma fino a sera sono stati ascoltati i testimoni, inclusa la fidanzata di Muratovic. Nel clima di tensione anche una giornalista della Rai è stata aggredita dalla mamma del 25enne per un malinteso sulle riprese effettuate. Sul posto è arrivata anche la squadra mobile dalla Capitale. La pista seguita inizialmente di una contesa nata per motivi di spaccio ha perso consistenza nel corso della giornata. Muratovic era formalmente incensurato, anche se noto alle forze dell’ordine, ma non sarebbe coinvolto in giri di criminalità.

«Ogni sera o quasi succede qualcosa davanti a quel locale — racconta una signora che chiede di restare anonima dalla terrazza del suo appartamento a pochi metri da La Bodeguita —. Vengono quelli di Aprilia e si scontrano con quelli di Anzio. Fino a notte fonda ci sono migliaia di ragazzi in spiaggia». L’ex chiosco del lido omonimo si è ingrandito nel corso degli anni diventando bar per aperitivi e poi ritrovo per musica all’aperto fino a notte fonda. «Vedevo spesso fuochi d’artificio e non capivo cosa ci fosse da festeggiare. Poi mi hanno spiegato che segnalano l’arrivo della droga. Anche ieri deve essere andata così», aggiunge la donna.

Suggestioni da Gomorra a parte, Anzio e la confinante Nettuno sono da tempo terra di conquista delle grandi organizzazioni criminali. È di questo febbraio l’operazione Tritone che ha portato a 65 arresti nelle due cittadine a sud di Roma, rivelando le pesanti infiltrazioni della ‘ndrangheta tra politica e imprenditoria, svelando la prima «locale» delle famiglie calabresi alle porte della Capitale. Il fascicolo per lo scioglimento delle due amministrazioni è ancora sul tavolo del prefetto (Nettuno oggi è commissariata per mancanza di una maggioranza politica e già nel 2005 è stata sciolta per mafia).

La rissa in cui ha perso la vita Muratovic è nata intorno alle 2, pare per banali questioni di sguardi «sbagliati». Muratovic è stato allontanato assieme al suo gruppo di amici e a quello rivale col quale litigava, in strada è stato ferito e si è accasciato sulla staccionata morendo poco dopo il ricovero d’urgenza agli Ospedali Riuniti. Pugile fin da ragazzo, a livello dilettantistico aveva combattuto nei pesi medi . Anche la Federazione pugilistica italiana gli ha dedicato un messaggio di cordoglio. Uno dei due buttafuori feriti, il 31enne, arrivato in ospedale ha avuto il tempo di postare una sua foto su Facebook ancora sanguinante, ma sorridente: «So stato accoltellato, se moro ve voglio bene».

Ucciso davanti a una discoteca. Il papà accoltella due buttafuori. Stefano Vladovich il 18 Luglio 2022 su Il Giornale.

Morto Leonardo Muratovic, pugile di 26 anni: caccia al killer. I vigilantes del locale feriti al commissariato di polizia

Tragedia sul litorale pontino. Litigano per una ragazza, viene accoltellato a morte mentre le telecamere riprendono la scena. E mentre in commissariato vengono interrogati decine di testimoni il padre della giovane vittime colpisce con un coltello i due body guard del locale, un chiosco bar sulla spiaggia.

Anzio, sono le 2 di sabato notte. A La Bodeguita, sulla Riviera Vittorio Mallozzi, centinaia di ragazzi ballano. Fra loro c'è anche Leonardo Muratovic, una promessa del pugilato, pesi medi, di Aprilia. Ma uno sguardo di troppo, un apprezzamento non gradito alla sua fidanzata scatena un putiferio. Una rissa furibonda con un gruppo di bulli che dalla spiaggia continua in strada. Secondo una prima ricostruzione della squadra mobile e del commissariato locale, coordinati dalla Procura di Velletri, Leonardo viene preso a calci e pugni da almeno 4 persone. Dopo la prima schermaglia, però, il 26enne riesce a fuggire, inseguito da uno della banda armato di coltello. Si rifugia in una gelateria vicina, ma viene raggiunto e accoltellato al petto con una lama lunga almeno 10 centimetri. L'assassino, trent'anni circa, con ancora i vestiti sporchi di sangue, sale in auto arrivata a tutta velocità e scompare nel nulla. Leonardo viene immediatamente soccorso e trasportato agli Ospedali Riuniti di Anzio Nettuno ma la grave emorragia non gli dà scampo. Parte la caccia all'uomo mentre il pm di Velletri e gli agenti di polizia mettono a verbale decine di testimonianze, fra queste quella della ragazza. Tutte concordi nel raccontare quanto accaduto: Leonardo viene pestato a sangue da un gruppo di picchiatori. Nonostante sia un pugile esperto, un professionista, il 26enne ha la peggio. Inseguito, viene accoltellato a morte con più colpi sferrati con violenza inaudita. «Abbiamo cercato di tamponare le gravi emorragie ma il paziente non ce l'ha fatta», commentano amareggiati i medici di Anzio. Purtroppo la storia non finisce qui. In commissariato vengono convocati anche gli addetti alla sicurezza del La Bodeguita, i «buttafuori» di 30 e 57 anni. Arriva anche il padre della vittima, è una furia. L'uomo sarebbe convinto che i due dipendenti siano responsabili della morte del figlio, che non abbiano fatto abbastanza per evitare la rissa finita in tragedia. Si scaglia contro i due con una lama e li ferisce gravemente. «È successo tutto in un attimo - racconteranno dei testimoni - li ha colpiti prima che potessero fermarlo». L'uomo viene arrestato in flagranza dagli stessi agenti che indagano sulla morte del figlio. L'accusa per lui è di duplice tentato omicidio mentre i body guard sono stati ricoverati in ospedale per le ferite d'arma da taglio che solo per miracolo non avrebbero leso organi vitali. Le indagini sul killer, intanto, porterebbero a un fermo. Un uomo corrispondente alla descrizione resa da tutti i testimoni della tragica lite, la stessa persona «congelata» dalle telecamere di sorveglianza del locale che inquadrano la Riviera Mallozzi mentre uccide Leonardo. Una storia drammatica per la cittadina pontina, da mesi a rischio commissariamento per infiltrazioni mafiose. «Da anni chiediamo un rafforzamento di uomini e mezzi sul litorale - spiega Domenico Pianese del Coisp, un sindacato di polizia - risse ed episodi di violenza sono all'ordine del giorno nelle zone della movida estiva. Mancano almeno 10mila agenti di polizia». La Federazione Pugilistica Italiana lo ricorda con un post su Fb: «Ciao Leonardo. Rip campione».

Estratto dell'articolo di Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 18 luglio 2022.  

Notte di sangue e coltelli sulle spiagge del litorale romano: Leonardo Muratovic, 25enne di origini croate residente ad Aprilia e pugile professionista, è morto con un colpo all'addome. Stava trascorrendo una serata con il migliore amico e la fidanzata e a un certo punto si è allontanato dal locale.

Perché? Non è chiaro, ma di certo c'è che ad attenderlo fuori c'era il suo assassino. La pista che seguono gli agenti del commissariato di Anzio e gli uomini della Squadra Mobile non è solo quella di una rissa degenerata in omicidio. Le due compagnie di ragazzi si sarebbero scontrate per futili motivi. Anche se con il passare delle ore e i racconti di testimoni e amici della vittima, non si esclude che dietro la morte del pugile ci sia altro: vecchie ruggini tra i ragazzi di Aprilia e una compagnia di Anzio? 

O forse, un conto aperto e legato a doppio filo con l'ambiente del pugilato?  

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Gli agenti di polizia hanno avviato la caccia all'assassino e per tutta la giornata di ieri sono stati ascoltati i quattro addetti alla sicurezza. Le risposte ai tanti interrogativi potrebbero arrivare da loro. Secondo i testimoni, infatti, il ragazzo sarebbe stato accompagnato fuori perché un gruppetto aveva chiesto di lui: «Non volevamo avere problemi all'interno del bar, lo abbiamo scortato fuori» hanno ripetuto i buttafuori ai poliziotti. In commissariato la tensione è stata altissima ed è finita male quando il papà di Leonardo ha incrociato due vigilante. Accecato dalla rabbia e dal dolore, li ha aggrediti armato di coltello ferendoli.

È stato necessario l'intervento delle ambulanze per soccorrerli e trasportarli in ospedale. E per il padre del ragazzo morto è scattato l'arresto per tentato omicidio. Nel frattempo gli uomini del commissariato hanno continuato ad ascoltare gli amici e i conoscenti che stavano trascorrendo la serata con Leonardo. Il sospetto ora è che la vittima conoscesse il suo killer. Vecchie ruggini, forse, tra diverse compagnie di ragazzi che frequentano i locali tra Anzio e Aprilia. Ma gli investigatori non escludono nessun'altra ipotesi e nell'inchiesta ci sono anche i colleghi della palestra. 

(...) 

Fla. Sav. per “il Messaggero” il 18 luglio 2022.

«Mio fratello è stato consegnato al suo assassino: i vigilantes hanno le mani sporche del sangue di Leo». Piange, si dispera, cerca di recuperare per qualche istante la lucidità Daniel Muratovic, il fratello maggiore di Leonardo. Le indagini su quanto avvenuto al Bodeguita Beach sabato notte sono ancora in corso. 

Il sospetto è che Leonardo non sia stato protetto dagli agenti quindi...

«No, anzi. Da quanto mi è stato riferito, Leo era nel locale e due uomini della sorveglianza lo hanno rintracciato all'interno e accompagnato fuori dove lo stavano aspettando. Ecco perché dico che è stato consegnato».

(...) 

Suo papà in commissariato ha incrociato gli agenti della sicurezza e ha dato in escandescenze ...

«Mio padre è malato, molto malato e ha appena perso un figlio. Non ero dentro il commissariato, ma siamo carichi di rabbia. Mio fratello era nel fiore degli anni, era sereno, felice. Pronto a vivere la sua vita e invece ora non c'è più. Era anche in un momento di cambiamento».

Pugile ucciso, cinque sono in fuga «Quella sera arrivava un grosso carico di droga». Fulvio Fiano, Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022. 

Per l’omicidio del 25enne Leonardo Muratovic, sabato notte ad Anzio, si cerca la banda che lo ha affrontato davanti alla Bodeguita, via in passato teatro di risse. Un consiglio comunale straordinario per lo spaccio sul lungomare. 

Casuale ma non inaspettato. L’omicidio del 25enne Leonardo Muratovic, sabato notte ad Anzio, seppur originato da una lite del momento nasce in un contesto di violenza e criminalità che solo per altre casualità di segno opposto non è sfociato in un delitto in precedenti, simili occasioni. Le indagini della Squadra mobile di Roma e del commissariato di Anzio si concentrano su un gruppo di cinque persone che a vario titolo sarebbero coinvolte nello scontro in cui il pugile dilettante è rimasto ucciso. L’assassino è fuggito a piedi portando con sé l’arma del delitto (un coltello a serramanico) confondendosi tra la folla di centinaia di ragazzi che affollavano La Bodeguita. Il locale teatro dell’omicidio è sprovvisto di telecamere di video sorveglianza, mentre erano non funzionanti quelle della palazzina di fianco, ai cui abitanti i poliziotti si sono rivolti la stessa notte in cerca di immagini. Nè grande collaborazione avrebbero offerto gli amici e i parenti del 25enne sentiti nelle ore successive. Tra loro la fidanzata di Muratovic e un suo amico stretto con cui la vittima passava la serata. Discorso a parte per il padre del ragazzo, arrivato in commissariato per farsi giustizia da solo e arrestato per duplice tentato omicidio dopo aver ferito, anche lui con un coltello, i due buttafuori convocati per testimoniare.

Quello che non viene trascurato dagli inquirenti è l’humus che da qualche tempo si è creato attorno all’ex chiosco-bar, diventato da almeno un paio di estati il ritrovo di comitive che vengono da tutto il litorale. Una miscela esplosiva di gruppi, se non vere bande, che spesso finiscono per fronteggiarsi, attratte anche dalla facilità con cui sul lungo mare della cittadina e nei vicoli attorno a Largo Bragaglia si vende o reperisce droga. Emblematici i precedenti: lo scorso agosto alcuni ventenni vennero medicati dopo una rissa ma preferirono non sporgere denuncia; a maggio un membro di una delle comitive che frequenta il locale fu ferito da una coltellata a Nettuno; una ragazza rima ferita a febbraio in un lancio di sedie poco distante dal luogo dell’omicidio.

E, allargando ulteriormente il campo, i traffici di droga che — favoriti dalle infiltrazioni mafiose sul litorale — fanno del porto di Anzio uno degli approdi preferiti per sbarcare la merce, che arriva a bordo anche di catamarani turistici per non dare nell’occhio, e verrebbe segnalata ai pusher e ai potenziali clienti con fuochi d’artificio anche a notte fonda. Ad aprile furono sequestrati 22 chili di hashish e cocaina, a giugno altri 60 destinati, secondo le indagini, a rifornire, dalla base scoperta in corso Italia, località di spaccio come Fondi, Sezze, Latina e finanche Tor Bella Monaca. Sabato sera, secondo voci da confermare, era atteso un altro carico importante e questo potrebbe aver innescato le tensioni fuori dal locale. D’altra parte perché uscire la sera armati e pronti a uccidere?

«Sul lungomare, nei locali aperti senza orario, ci sono adolescenti che vendono e comprano crack a cinque euro ma pare che a nessuno interessi», denuncia Lina Giannino del Pd (minacciata nei mesi scorsi per le sue denunce), che ha chiesto la convocazione di un consiglio comunale straordinario per la prossima settimana.

Omicidio Anzio, 20enne di origini magrebine va dai carabinieri e confessa. Ascoltato anche il fratello. Massimiliano Gobbi su Il Tempo il 20 luglio 2022.

Si consegna il presunto killer di Anzio. Svolta sull'omicidio, due fratelli si presentano con l’avvocato nella notte. Un ragazzo di origine magrebina nato ad Anzio di circa 20 anni si è consegnato ai carabinieri della stazione Gianicolense ammettendo la responsabilità nel delitto di Leonardo Muratovic, il pugile 25enne di Aprilia ucciso con una coltellata la sera del 17 luglio scorso davanti al locale Bodeguita sulla riviera Mallozzi.

Ad accompagnare il 20enne sarebbe stato il fratello. I due sono stati trattenuti in caserma per essere sentiti dai Carabinieri e dalla Squadra Mobile con il Pm della Procura di Velletri. Il ventenne, avrebbe confessato di aver accoltellato Leonardo. Da capire se sia stata consegnato anche l'arma del delitto agli investigatori. In caso di accertata responsabilità, sarà sottoposto a fermo da parte di polizia e carabinieri. Secondo quanto si apprende, il ragazzo avrebbe deciso di consegnarsi messo alle strette dell'intensa attività della polizia sul territorio. Dopo più di tre giorni dalla morte di Leonardo Muratovic, le indagini sembrano essere arrivate alla fase finale.

Pugile ucciso, si costituisce l’omicida. Era ricercato e temeva vendette. Fulvio Fiano  su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.

È un 20enne italiano di origine maghrebine il responsabile dell’assassinio di Leonardo Muratovic, la polizia era sulle sue tracce. È stato accompagnato dal fratello in una stazione dei carabinieri e trasferito in commissariato ad Anzio per essere interrogato. 

È durata poco meno di tre giorni la fuga dell’assassino di Leonardo Muratovic, il 25enne di Aprilia accoltellato a morte nella notte tra sabato e domenica sul lungo mare di Anzio. Un 20enne si è costituito ieri sera presso i carabinieri della stazione Gianicolense a Roma. La squadra mobile e il commissariato locale avevano individuato un gruppo di cinque persone che a vario titolo sarebbero coinvolte nell’omicidio da lì stavano stingendo il cerchio sull’omicida facendo terra bruciata attorno alla sua rete di conoscenti e amici. Con il 20enne c’era suo fratello che dai primi riscontri sembrerebbe estraneo alla vicenda. Sarebbe stato lui a convincere il ragazzo a consegnarsi, non avendo possibilità di fuga e nel timore di vendette tra gli amici di Muratovic. Si tratta di due giovani di origini maghrebine ma nati in Italia e come Muratovic residenti ad Aprilia. Una folla si è radunata all’esterno del commissariato di Anzio appena si è diffusa la notizia. Ragazzi e ragazze, amici della vittima, che stavano partecipando a una veglia funebre sul luogo del delitto deponendo mazzi di fiori, candele e lasciando volare in cielo alcune lanterne cinesi.

Il padre del pugile dilettante nella categoria «medi», origini croate ma italiano di nascita, ha accoltellato domenica due bodyguard del locale La Bodeguita mentre attendevano di essere interrogati in commissariato ed è stato arrestato per duplice tentato omicidio. Muratovic in passato era stato coinvolto in episodi simili, venendo segnalato all’autorità giudiziaria. La «frizione» scaturita nell’accoltellamento sarebbe scoppiata con l’altro gruppo in modo casuale (non si erano dati appuntamento e basti pensare che Muratovic era in compagnia della ragazza e di un amico con la sua fidanzata) ma sulla base di precedenti rancori. Anche per questo i buttafuori avrebbero provato a spegnere sul nascere la questione, inviando i due gruppi a lasciare il Bodeguita. Pochi passi più in là, però, la lite è ripresa, stavolta in modo violento e mortale.

Mentre proseguono le indagini, l’omicidio ha riacceso i fari sulla criminalità che imperversa lungo il litorale a sud di Roma. Se la «colonizzazione» della ‘Ndrangheta è fotografata dai 65 arresti dell’operazione Tritone di pochi mesi fa. Il deputato di Leu, Stefano Fassina, in una interrogazione parlamentare chiede alla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, iniziative mirate a contrastare questi fenomeni.

Fulvio Fiano per corriere.it il 20 luglio 2022.  

Sono stati fermati due fratelli di 21 e 26 anni per l’omicidio di Leonardo Muratovic, il 25enne di Aprilia accoltellato a morte nella notte tra sabato e domenica sul lungo mare di Anzio. I due si sono presentati la sera di martedì 19 luglio presso i carabinieri della stazione Gianicolense a Roma e attualmente si trovano nel carcere di Velletri. 

Il minore dei due ha confessato il delitto: «L’ho colpito io ma è stata una disgrazia durante la lite, non volevo ucciderlo». Il fratello si era presentato come «accompagnatore» ma è ritenuto responsabile in concorso, sebbene il fratello lo scagioni: «Ho fatto tutto io». 

La squadra mobile e il commissariato locale avevano individuato un gruppo di cinque persone che a vario titolo sarebbero coinvolte nell’omicidio da lì stavano stingendo il cerchio. Uno dei due fratelli si era costituito, accompagnato dall’altro, per il timore di vendette tra gli amici di Muratovic. I due giovani sono di origini maghrebine ma nati in Italia e come Muratovic residenti ad Aprilia. Una folla si è radunata all’esterno del commissariato di Anzio appena si è diffusa la notizia. Ragazzi e ragazze, amici della vittima, che stavano partecipando a una veglia funebre sul luogo del delitto deponendo mazzi di fiori, candele e lasciando volare in cielo alcune lanterne cinesi. 

Il padre del pugile dilettante nella categoria «medi», origini croate ma italiano di nascita, ha accoltellato domenica due bodyguard del locale La Bodeguita mentre attendevano di essere interrogati in commissariato ed è stato arrestato per duplice tentato omicidio. Muratovic in passato era stato coinvolto in episodi simili, venendo segnalato all’autorità giudiziaria. 

La «frizione» scaturita nell’accoltellamento sarebbe scoppiata con l’altro gruppo in modo casuale (non si erano dati appuntamento e basti pensare che Muratovic era in compagnia della ragazza e di un amico con la sua fidanzata) ma sulla base di precedenti rancori. Anche per questo i buttafuori avrebbero provato a spegnere sul nascere la questione, inviando i due gruppi a lasciare il Bodeguita. Pochi passi più in là, però, la lite è ripresa, stavolta in modo violento e mortale.

Come ricostruito nel decreto di fermo, che nelle prossime ore passerà dalla verifica dell’interrogatorio di garanzia del gip per l’eventuale conferma, ad innescare la lite sarebbe stato lo stesso Muratovic una volta arrivato nel locale. Lontano da dinamiche di guerra tra bande come qualcuno aveva ipotizzato, è stata la sua sola presenza , secondo i testimoni, a causare più di una reazione infastidita tra i presenti che ne conoscevano la fama di attaccabrighe e portatore di problemi,, anche nello stesso bar; «Guarda chi è arrivato», «Ma che ce sei venuto a fà?». La reazione del 25enne sarebbe stata di pari tono, «Che c’avete da guardà?», «Che c...vuoi?». La fase di sfida verbale è stata fermata sul nascere dai due buttafuori, che hanno invitato Muratovic a uscire dal locale, che in realtà la sera è un gazebo con le sedie e i tavolini in spiaggia. Ma il battibecco con alcuni presenti sarebbe continuato fino a che un gruppo ampio di persone si sarebbe scagliato contro di lui. «Si sono azzuffati in tanti», riferisce la stessa fidanzata dell’amico della vittima, presente con loro alla serata. Il corpo a corpo si innesca però con il 21 enne che lo ferisce al cuore con un coltello.

Non è ancora chiara la provenienza dell’arma. Secondo i due fratelli fermati sarebbe appartenuta allo stesso Muratovic. Il resto è la cronaca dei soccorsi vani per salvare la vita al ferito, l’accoltellamento dei due buttafuori in commissariato e infine la scelta dei due fratelli di costituirsi. Si sono presentati dai carabinieri accompagnati dall’avvocato Serena Gasperini, volutamente lontano dal commissariato di Anzio dove temevano agguati. Oggi però sono detenuti nel carcere di Velletri, lo stesso dove c’è il padre di Muratovic. L’autore materiale del delitto è incensurato, il fratello maggiore, accusato in concorso, ha dei precedenti risalenti a 10 anni fa, ha scontato un periodo in affidamento ai servizi sociali e oggi ha moglie e due figli. Sia lui che il fratello lavorano in un ristorante - pizzeria.

Omicidio di Anzio, due fratelli si presentano dai carabinieri e uno confessa: "Ho accoltellato io Leonardo". Romina Marceca La Repubblica il 19 Luglio 2022.   

Sono arrivati alle 20 alla stazione dei militari Gianicolense dicendo di aver fatto parte del gruppo che ha aggredito Leonardo Muratovic, ucciso con una coltellata a 25 anni. In cento assediano il commissariato di Anzio e sparano fuochi di artificio, interviene il reparto mobile.

Sono arrivati in caserma, due fratelli di Anzio, e uno dei due, un ventenne, ha confessato dopo tre giorni di ricerche serrate: "Sono stato io a accoltellare Leonardo Muratovic". Una confessione secca. Il giovane ha ammesso di aver aggredito con un coltello il pugile Leonardo Muratovic. La posizione del fratello è al vaglio degli investigatori. I due sono stati trattenuti dai carabinieri per comprendere se il loro racconto coincide con le indagini sul delitto.

Estratto dell'articolo di Ivo Iannozzi per “il Messaggero” il 19 luglio 2022.

(...) Alessandro Fabrizi, 51 anni, ventisette dei quali passati nel settore della vigilanza privata, sabato sera era il responsabile della sicurezza del locale. A 48 ore dall'omicidio cerca di riannodare i ricordi. 

«Quando è arrivato con gli amici mi sono raccomandato con Leonardo, che conoscevo bene, di stare tranquillo, perché in passato qualche problema c'era stato. Capita a volte con i ragazzi. Mi ha risposto che non c'era nessun problema». 

E invece in pochi minuti al Bodeguita Beach cambia il clima. «Con i miei colleghi - dice Fabrizi - abbiamo subito notato che c'era tensione tra il gruppo di Leonardo e un'altra comitiva che era già nel locale. C'è stato subito qualche battibecco, ma non so per quale motivo. 

A quel punto, considerato che è il nostro lavoro, abbiamo deciso, come già accaduto in altre occasioni, di invitare le due comitive a lasciare il locale considerato che c'erano altri clienti e alcune famiglie. I due gruppi, in tutto una decina di persone, hanno continuato la discussione, ma senza particolare tensione, lungo la passerella che dal piano della spiaggia porta sulla strada. Ero tranquillo e convinto che si sarebbero chiariti all'esterno. Era già accaduto in passato con altre comitive, ma non potevo pensare che questa volta quella discussione, che a me non era sembrata accesa, potesse degenerare in un omicidio».

(..) 

I DUBBI I motivi dell'aggressione Fabrizi non li conosce, ma ribadisce la tensione tra i due gruppi. Il fatto che si siano subito beccati - dice - lascia pensare che ci fosse della ruggine, magari dei conti in sospeso. Ma questa è una mia impressione. Comunque abbiamo raccontato tutto alla polizia». Fabrizi vuole anche ribattere alle accuse mosse dal padre di Leonardo - che domenica pomeriggio ha accoltellato davanti al commissariato due suoi colleghi -, che ha accusato i bodyguard di aver consegnato il figlio a chi lo ha ucciso. 

«È un'accusa ingenerosa - spiega - Sabato sera ci siamo comportati in maniera assolutamente corretta come abbiamo sempre fatto. E domenica mattina ho avuto anche modo di spiegare al papà di Leonardo come erano andate le cose, e il nostro ruolo in quei momenti. Ma non è servito perché poi ha accoltellato due nostri colleghi». Uno dei bodyguard feriti è stato operato ed è ricoverato nel reparto di rianimazione dell'ospedale Riuniti di Anzio: non è in pericolo di vita. Sono stati applicati 25 punti di sutura alla mano destra del collega che ha cercato di parare i colpi di coltello.

Romina Marceca  e Clemente Pistilli per repubblica.it il 19 luglio 2022.

Leonardo Muratovic è stato circondato da almeno 15 persone dentro al "Bodeguita beach" prima di essere accoltellato in Riviera Mallozzi a Anzio. Tutti giovani che, almeno al momento, sono spariti nel nulla. E il pugile morto a 25 anni sotto gli occhi della fidanzata, del suo migliore amico e della sua ragazza, conosceva quei giovani e anche chi lo ha ucciso. Tutti frequentatori di locali sul litorale esattamente come lo era lui. Ma tra il pugile, il suo amico e quei giovani c'era un conto in sospeso che è finito nel sangue. 

Come ha anticipato Repubblica ieri la guerra tra bande criminali per accaparrarsi il territorio lasciato vuoto dagli ultimi arresti sarebbe alla base dell'omicidio. A far scattare la ferocia omicida, secondo gli investigatori, è stato il business dello spaccio di droga sul litorale di Anzio. Nella strada dove è morto Leonardo Muratovic, racconta un residente, "si spaccia soprattutto cocaina". 

La corsa contro il tempo per arrestare l'assassino

È una corsa contro il tempo per arrestare l'assassino del pugile. L'accelerazione arriva anche per riuscire a terminare l'indagine prima che arrivi un'altra vendetta con la giustizia fai-da-te dopo quella da parte del padre del pugile. Fahrudin Muratovic è in carcere dopo avere accoltellato due buttafuori, accusati da lui di non aver tutelato il figlio dentro al locale: "Lo hanno consegnato ai suoi assassini". L'interrogatorio di convalida davanti al giudice è fissato per domani. "Ho avuto un momento di rabbia, un crollo di nervi", ha detto l'uomo alla polizia. 

"Non mi stupisce quello che è accaduto. Il modello vincente è quello delle organizzazioni criminali dal guadagno immediato e dalla giustizia sommaria che condanno. C'è bisogno di una risposta forte da parte dello Stato", dice Edoardo Levantini, presidente del coordinamento antimafia Anzio-Nettuno.

Individuati almeno due giovani

Gli investigatori del commissariato di Anzio e della squadra mobile hanno già individuato almeno due giovani che potrebbero essere gli autori della fine del pugile originario di Aprilia. Ma quei due ragazzi, che sono di Anzio nella zona del Bottaccio, non si trovano nella loro casa. E le ricerche si sono fatte affannose in tutto il territorio. Di certo gli investigatori non sono stati agevolati dalle almeno 20 persone che hanno ascoltato in questi due giorni. Il telefonino della vittima è stato passato al setaccio e qualcosa è saltato fuori. Sotto torchio c'è finito anche l'amico di Leonardo Muratovic che era al locale la "Bodeguita beach" con la vittima e le fidanzate di entrambi. 

"Gli amici sanno chi ha accoltellato il pugile"

Di certo lui, ma anche la ragazza di Muratovic, sanno chi ha accoltellato il pugile. Ma l'amico si è chiuso in un silenzio impenetrabile. Leonardo è stato ucciso con una coltellata tra petto e addome. Un fendente che non gli ha lasciato scampo. Al Bodeguita era conosciuto perché nel 2020 aveva danneggiato parte del locale con un machete durante una lite. Sabato scorso i buttafuori gli avevano chiesto di lasciare il locale proprio per quel precedente. Leonardo Muratovic era anche stato indagato, poco più che maggiorenne, per un'altra lite in un locale di Roma.

Sabato, secondo quanto ha ricostruito uno dei buttafuori del Bodeguita, l'aria si era fatta tesa tra lui e quei ragazzi. Qualcuno ha iniziato a tirargli la maglietta, qualcun altro gli parlava all'orecchio. Fino a quando quel gruppo, compresi gli amici di Leonardo, ha guadagnato l'uscita seguito dai buttafuori. In strada sono volati calci e pugni e c'è chi ha utilizzato anche cocci di bottiglia. Fino a quando Leonardo è stato colpito tra cuore e addome con un coltello. Tutti sono fuggiti ma un buttafuori ha cercato di salvarlo premendo con le sue mani sulla ferita per 40 minuti. "L'ambulanza è arrivata troppo tardi", denuncia il bodyguard. 

Litorale criminale. Dopo la retata dei clan è guerra di successione

Da una parte le bande che cercano di accaparrarsi con ogni mezzo le ricchissime piazze di spaccio e dall'altra quelle composte in particolare da minorenni che, tra un tiro di cocaina e uno di crack, girano armate alla ricerca della rissa. In mezzo le centinaia di cittadini e turisti che vorrebbero godersi l'estate ad Anzio, l'unico centro balneare romano su cui sventola la bandiera blu, ma dove al calar del sole il crimine prende il sopravvento e la paura per chi va a fare una passeggiata sul lungomare o entra in un locale inizia ad essere notevole. 

Quando, prima dei 65 arresti nell'inchiesta antimafia "Tritone", si dibatteva degli affari dei clan nella città neroniana, la risposta dei pubblici amministratori era sempre quella che l'unico problema era rappresentato dal microcrimine. Il tempo è trascorso e non è stata sanata né una piaga né l'altra. A cercare di arginare lo strapotere mafioso ci ha infatti pensato la Dda, ipotizzando la costituzione di una locale di 'ndrangheta e scandagliando gli affari che l'organizzazione criminale avrebbe fatto anche con gli affari criminali, mentre la commissione d'accesso inviata dal prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, ancora non avrebbe deciso se proporre lo scioglimento del consiglio comunale per condizionamenti mafiosi. Dall'altra invece la situazione va sempre più peggiorando. 

Gli arresti fatti nell'ambito dell'inchiesta antimafia

Proprio dopo gli arresti fatti nell'ambito dell'inchiesta "Tritone", i gruppi minori dediti allo spaccio stanno cercando di sfruttare il vuoto di potere che si è creato e di accaparrarsi le zone più redditizie, partendo da quella del lungomare e dei locali, dove in molti assicurano che la coca scorre a fiumi. Un business su cui avrebbero messo gli occhi anche gruppi provenienti dai centri limitrofi. Gli scontri sembrano inevitabili. E a cercare di "marcare il territorio", precisano fonti investigative, sarebbero soprattutto i cosiddetti bottaccioli, spacciatori della zona del Bottaccio, parte di Anzio Colonia. 

"Attorno ai locali tutte le notti c'è una rissa"

"Attorno ai locali tutte le notti c'è una rissa", sottolineano i residenti sul lungomare. La "Bodeguita Beach", il locale dove si era recato sabato notte l'apriliano Leonardo Muratovic e da cui è stato allontanato prima di essere accoltellato a morte, era stato in passato anche più volte segnalato dagli investigatori del commissariato, che ne chiedevano la chiusura per problemi di ordine pubblico. Ma sul fronte stretto delle violenze in strada l'allarme non è circoscritto ai locali, ma generalizzato. La notte in cui il 26enne è stato ucciso, a poca distanza, è stata fratturata la mandibola a un altro ragazzo e nei pressi della stazione ferroviaria una banda di minorenni, a torso nudo e su di giri, ha lanciato bottiglie di birra contro le auto in transito, dileguandosi a quanto pare solo quando si è fermato un vigilantes armato di pistola. 

Scene già viste quando gruppi di giovanissimi, armati di mazze, bloccavano e rapinavano gli automobilisti o compivano rapine nelle stesse stazioni ferroviarie. A maggio la Polizia aveva messo alle strette una banda composta da una decina di minori, sempre di Aprilia, responsabile di alcuni pestaggi. 

Direttamente ad Anzio gli investigatori sono inoltre da tempo alle prese con circa due gruppi dediti alle violenze, composte da 10-15 persone, che a volte seminano il panico anche al borgo medievale di Nettuno. "C'è una recrudescenza delle bande minorili", assicura un investigatore. Ma gli agenti sono pochi e mancano soprattutto forze giovani. I pochi rinforzi che vengono inviati non fanno in tempo a coprire i vuoti che subito ci sono altri trasferimenti. Una coperta troppo corta.

A far paura sono in particolare i gruppi di ragazzini che, drogati e decisi ad emulare i personaggi di fiction come "Gomorra", sono ormai fuori controllo. 

"Alcuni cercano di fare il salto di qualità"

Senza contare che alcuni cercano di fare il salto di qualità, affiancando noti pregiudicati e cercando di farsi largo nelle zone dello spaccio come Corso Italia, nel quartiere, dove gli equilibri già sono fragili. Non a caso di recente uno degli esponenti di quella piazza di spaccio è stato vittima di un attentato mentre era in auto e, nel corso dei diversi blitz, in quell'area sono stati sequestrati notevoli quantità di sostanze stupefacenti, somme ingenti in contanti e armi, dalle pistole ai fucili a canne mozze. Una polveriera.

20enne, nordafricano, ricercato: ecco chi ha ucciso Leonardo Muratovic. Tonj Ortoleva il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il giovane magrebino che si è consegnato ai carabinieri di Roma era ricercato dalla squadra mobile di Anzio. Fermato anche il fratello maggiore

Ha 20 anni, risiede ad Aprilia, è nato in Italia ma è di origini magrebine. Queste le prime informazioni trapelate dagli ambienti investigativi sul giovane che ieri si è consegnato ai carabinieri di Roma sostenendo di essere l’assassino di Leonardo Muratovic, il 26enne di Aprilia ucciso nella notte tra sabato 16 e domenica 17 luglio sul lungomare di Anzio (Roma) con una coltellata.

Temeva la vendetta degli amici della vittima

La fuga è durata nemmeno tre giorni e il 20enne che si è autoaccusato dell’omicidio Muratovic si è consegnato nella serata di martedì presso la caserma dei carabinieri Gianicolense di Roma. Era accompagnato dal fratello maggiore, estraneo alla vicenda. Sarebbe stato proprio lui a convincere il 20enne a consegnarsi alle forze dell’ordine, temendo una vendetta da parte degli amici di Leonardo Muratovic. Del resto i due nordafricani risiedono ad Aprilia e conoscevano con ogni probabilità sia la vittima sia gli amici. I carabinieri hanno immediatamente contattato il commissariato di Anzio e la procura di Velletri, che seguono l’indagine. I due ragazzi sono stati così portati sul litorale romano. Dagli ambienti investigativi c’è massimo riserbo rispetto all’interrogatorio a cui è stato sottoposto il giovane magrebino anche se pare confermato che fosse uno dei ricercati. Gli agenti stanno infatti verificando la sua versione per capire se davvero sia lui ad aver sferrato la coltellata. Nelle scorse ore la polizia aveva stretto il cerchio attorno a cinque persone sospettate di aver preso parte alla rissa da cui poi è nato l’omicidio.

La veglia per Leonardo e poi l’esodo verso Anzio

Nella serata di ieri erano in programma alcune iniziative per commemorare Leonardo Muratovic. Una ad Aprilia, in piazza Roma e poi ad Anzio, davanti alla Bodeguita, il locale sulla spiaggia di fronte al quale si è consumata la tragedia. Mentre qualche centinaio di persone si trovava lì per la commemorazione, con lanterne cinesi e fuochi d’artificio, si è sparsa la notizia che due persone erano state fermate per l’omicidio. A quel punto il gruppo si è spostato sotto al Commissariato di Anzio. In molti sono rimasti lì tutta la notte. Gli inquirenti, al momento, non hanno ancora emesso provvedimenti nei confronti del 20enne. La procura e gli agenti della questura vogliono capire bene le ragioni che hanno portato alla rissa, che potrebbero essere futili come uno sguardo di troppo oppure essere legate al mondo della droga. Il ragazzo sarà ascoltato nuovamente questa mattina dal pubblico ministero.

Pugile morto, presi due fratelli. "Ma il coltello era del Vikingo". Stefano Vladovich il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.

Si costituisce un 21enne di origini marocchine. E prova a scagionare il familiare 25enne. Fermati entrambi.

«L'ho ammazzato io, mio fratello non c'entra». Una confessione durata tutta la notte per Adam Ed Drissi, 21 anni e Ahmed Ed Drissi, 25 anni, due fratelli italiani di origini marocchine accusati dalla Procura di Velletri di aver ucciso il pugile Leonardo Muratovic, 25 anni, fuori da La Bodeguita di Anzio. I due si sono presentati con il loro avvocato alla stazione dei carabinieri Gianicolense, a Roma, per timore di ritorsioni. «Sono venuto a ribadire la mia innocenza» mette a verbale il maggiore dei due. «Il coltello? Ce l'aveva il Vikingo» dice l'altro. Muratovic si faceva chiamare così per il suo aspetto nordico, barba bionda e carnagione chiara.

I fratelli Ed Drissi raccontano ai carabinieri e agli agenti della squadra mobile che Muratovic era noto come un attaccabrighe. Poi i due mettono nero su bianco la loro versione dei fatti. «Eravamo in spiaggia con un gruppo di amici quando arriva il pugile. Lui è con la fidanzata e un'altra coppia di amici». In passato hanno avuto altre scaramucce i fratelli Ed Drissi e il Vikingo. Sguardi di troppo, commenti poco eleganti nei confronti delle ragazze, spintoni. Sabato notte fra i due gruppi scoppia l'ennesima scintilla. «Che c... c'hai da guarda'?». «Tu che ce sei venuto a fa' da Aprilia?». Basta poco per azzuffarsi. I fratelli, nonostante il fisico palestrato di Leonardo, non si fanno intimorire. Intervengono i due buttafuori, gli stessi poi feriti in commissariato dal padre di Leonardo. I due li prendono di peso e li cacciano fuori dal locale. Quello che succede dopo è ancora al vaglio degli inquirenti che hanno ascoltato una decina di testimoni e visionato le telecamere di sicurezza. Il boxeur e il più piccolo dei fratelli si spintonano, improvvisamente Muratovic si accascia sulla recinzione della gelateria vicina. Nessuno vede chi ha in mano la lama.

Sanguina Leonardo, ha una ferita profonda a un emitorace, crolla a terra. Fuggono tutti. A quel punto, e solo allora, gli addetti alla sicurezza chiamano i soccorsi. La cronaca purtroppo è nota. Quando Leonardo arriva agli Ospedali Riuniti Anzio Nettuno non c'è più nulla da fare. In commissariato scoppia il finimondo, la mattina dopo, quando Nino Muratovic ferisce con un coltello i bodyguard, 31 e 57 anni, finendo in carcere per duplice tentato omicidio. L'uomo li accusa di non aver fatto abbastanza per evitare che una stupida lite finisse in tragedia. La loro posizione, del resto, è al vaglio del pm dal momento che avrebbero dovuto chiamare le forze dell'ordine prima che la lite si trasformasse in rissa. La caccia al killer è cominciata. La polizia stringe i sospetti su un gruppo di ragazzi. I fratelli non si fanno trovare, almeno fino a quando non decidono di costituirsi. «La tensione ad Anzio è altissima - spiega il loro legale, l'avvocato Serena Gasperini -, le sorelle dei due giovani hanno paura a uscire di casa».

Nati in Italia, gli Ed Drissi lavorano il primo in un ristorante come aiuto chef, l'altro in una pizzeria. Il 25enne ha piccoli precedenti da minorenne, adesso è sposato e ha un figlio. Il 21enne, reo confesso, è incensurato. Martedì notte gli amici del Vikingo si sono radunati davanti al locale chiuso per una fiaccolata conclusa con fuochi d'artificio, tanto che è dovuta intervenire la polizia. In attesa dell'interrogatorio di garanzia del gip e della convalida del fermo i fratelli Ed Drissi sono stati rinchiusi nel carcere di Velletri. Per loro le accuse sono di omicidio volontario in concorso aggravato.

L'assassinio a coltellate del pugile 25enne. Omicidio Leonardo Muratovic, si costituisce un 20enne: “Ho paura di vendette”. Vito Califano su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

È un 20enne, si è costituito ieri sera. Dopo tre giorni dall’assassinio di Leonardo Muratovic, il 25enne accoltellato a morte nella notte tra sabato e domenica nei pressi di un locale sul lungomare di Anzio, un giovane si è consegnato alla stazione dei carabinieri Gianicolense di Roma. Con lui il fratello, che secondo le prime informazioni sarebbe estraneo alla vicenda. Sarebbe stato quest’ultimo a convincere il ragazzo a consegnarsi.

Muratovic era stato allontanato dal locale insieme con il suo gruppo di amici (la fidanzata e un’altra coppia) e al gruppo con il quale si sarebbero accese delle tensioni. La lite però è continuata all’esterno. Muratovic è stato ferito in strada, nei pressi del locale La Bodeguita sulla Riviera Mallozzi, e si è accasciato sulla staccionata morendo poco dopo il ricovero agli Ospedali Riuniti. Suo padre, 56 anni, è stato arrestato per tentato omicidio dopo che nell’androne del commissariato di viale Antium ha accoltellato due addetti della sicurezza del locale convocati per testimoniare.

Daniel Muratovic, fratello maggiore di Leonardo in un’intervista a Il Messaggero ha puntato il dito contro i vigilantes. “Da quanto mi è stato riferito, Leo era nel locale e due uomini della sorveglianza lo hanno rintracciato all’interno e accompagnato fuori dove lo stavano aspettando. Ecco perché dico che è stato consegnato”. I buttafuori hanno replicato di aver allontanato i due gruppi per scongiurare disordini all’interno del locale. A confermare il clima teso e violento nel quale si continua a svolgere la vicenda, l’aggressione a una cronista del Giornale Radio Rai mentre lavorava.

Sarebbe anche questo – un clima teso e violento innescato dalla coltellata fatale al petto – uno dei motivi che ha convinto il 20enne a consegnarsi: paura di vendette e ritorsioni. I due fratelli sono di origini maghrebine ma sono nati in Italia. Appena si è diffusa la notizia una folla di amici e conoscenti di Muratovic si è radunata nei pressi del commissariato di Anzio. Erano ragazzi e ragazze che stavano partecipando a una veglia funebre in memoria del 25enne. Il giovane verrà ora ascoltato dal pm titolare dell’indagine che verificherà la sua versione e nel caso disporrà il fermo.

Muratovic era incensurato ma noto alle forze dell’ordine. Praticava pugilato fin da ragazzino, combatteva nei pesi medi a livello dilettantistico. Ancora da accertare la dinamica della tragedia. Era emersa nei giorni scorsi l’ipotesi di una lite esplosa per futili motivi: questione di sguardi “sbagliati”. Sul Corriere della Sera si legge di precedenti rancori tra le due comitive. Anche per questo i buttafuori avrebbero invitato i due gruppi a lasciare il locale. Prima che il 20enne si consegnasse la Squadra Mobile aveva stretto il cerchio delle indagini su un gruppo di cinque persone.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Fermati due uomini di nazionalità romena. Accoltellato a morte alla gola, cadavere di un giovane ritrovato in strada: “Lite degenerata nell’omicidio”. Vito Califano su Il Riformista il 18 Luglio 2022. 

Sono due uomini di 27 e 30 anni, entrambi di nazionalità romena, le persone arrestate ad Artena, comune dei Castelli Romani, perché ritenute responsabili, a vario titolo, della morte dell’uomo, in corso di identificazione, per una ferita alla gola, avvenuta nella serata di ieri, in via Di Case Colonnella. Al termine di un’intensa e ininterrotta attività investigativa, i carabinieri della Compagnia di Colleferro e quelli del Nucleo Investigativo del Gruppo di Frascati hanno identificato i presunti autori dell’omicidio.

La Procura di Velletri aveva aperto un fascicolo per omicidio in merito al ritrovamento. Sul posto sono intervenuti i sanitari del 118 e i carabinieri. Non sono state rese note le generalità della vittima, che ancora non è stata identificata. Il corpo è stato rinvenuto intorno alle 21:30 di ieri sera, in strada a via di Casa Colonnella, una stradina del piccolo comune. Secondo le prime informazioni la vittima potrebbe avere un’età compresa dai 25 ai 30 anni. Al momento del ritrovamento era sprovvisto di documenti. Le indagini sono state affidate ai carabinieri di Colleferro e al Nucleo Investigativo di Frascati.

I militari, coordinati dal pm di Velletri Vincenzo Antonio Bufano, stanno ascoltando alcuni testimoni e acquisiranno le immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona che potrebbero aver ripreso elementi utili alle indagini. Il cadavere si trovava in contrada Macere nei pressi di via Tuscolana, la strada che porta verso i castelli romani e verso i pratoni del vivaro.

Il corpo dell’uomo aveva evidenti ferite da arma da taglio alla gola. La segnalazione è arrivata ai carabinieri ieri in serata. I militari hanno convocato in caserma alcuni residenti. Il Messaggero scrive che la vittima potrebbe essere di nazionalità albanese o romena. La pista più accreditata al momento è quella della lite culminata nella violenza, nel truculento omicidio a coltellate.

Il delitto potrebbe essere stato consumato in un’abitazione vicina al luogo del ritrovamento. La casa, abitata da coppie di giovani cittadini romeni, è stata messa sotto sequestro dai carabinieri. Si è recato sul posto il pm di Velletri Vincenzo Antonio Bufano mentre proseguono i rilievi tecnici del Nucleo Investigativo. La notizia del ritrovamento poche ore dopo quella della tragedia di Leonardo Muratovic, 26 anni, pugile dilettante ucciso a coltellate ad Anzio nella notte tra sabato e domenica dopo una lite in un locale.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro. 

Tragedia a San Severo. Accoltellato a morte in strada, Francesco Pio D’Augelli ucciso a 17 anni a due passi da casa. Vito Califano su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

Francesco Pio D’Augelli è stato ritrovato in strada, riverso in una pozza di sangue. È morto, a soli 17 anni, ucciso vicino casa a San Severo, in provincia di Foggia, nella serata di ieri. È stato accoltellato a morte. Inutili i soccorsi, l’intervento dei sanitari e delle forze dell’ordine, la corsa in ospedale dove l’adolescente è arrivato in condizioni gravissime.

Sul posto sono intervenuti gli operatori del 118 e gli agenti della Polizia di Stato. D’Augelli viveva lì vicino, in via Lucera, all’angolo con via Ferrini. È stato accoltellato all’addome: almeno un fendente fatale che non gli ha lasciato scampo. È stato trovato riverso sull’asfalto con una profonda ferita al fianco sinistro. Il movente, la dinamica del terribile episodio sono tutti da ricostruire.

L’aggressione si sarebbe consumata intorno alle 21:30 di ieri sera. Dopo essere stato colpito D’Augelli sarebbe riuscito a trascinarsi ma solo per qualche metro, prima di accasciarsi al suolo, dov’è stato ritrovato e soccorso. Il 17enne è arrivato in ospedale in condizioni disperate. In corso le indagini degli inquirenti che stanno vagliando anche le immagini di videosorveglianza della zona per ricostruire la dinamica del violento omicidio.

Scene di disperazione e disordini al pronto soccorso del nosocomio “Masselli Mascia” della cittadina pugliese. Dopo il ritrovamento e la corsa in ospedale numerosi parenti del 17enne e conoscenti si sono infatti presentati presso la struttura sanitaria. Nessuna notizia al momento sul responsabile o gli eventuali responsabili della terribile violenza.

La comunità nel foggiano è sconvolta. Centinaia i messaggi di cordoglio che si leggono sui social, alcuni anche di parenti del 17enne. “Vita mia chi ci darà la forza per affrontare questo dolore”, si legge. “Condoglianze ma perché, dico io, in che mondo viviamo a uccidere così un ragazzo di 17 anni. Adesso la famiglia avrà un dolore incolmabile”, aggiunge un altro utente. “Sono anch’io mamma di un ragazzo di 17 anni che purtroppo da quasi 2 anni è diventato un angelo a soli 15 anni incidente stradale. Non si può accettare la perdita di un figlio è innaturale, posso solo mandarvi un abbraccio grande e sono sicura che Francesco vi darà la forza per continuare a sopravvivere“, la solidarietà di un’altra madre. “Cresci un figlio per 17 anni, con tutti i sacrifici e cerchi di insegnargli i principi e valori morali educativi e poi all’improvviso qualcuno lo strappa alla Vita”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Ragazzo di 17 anni muore accoltellato nel Foggiano: la lite per una ragazza, si costituisce 15enne. "Non volevo ucciderlo". Tatiana Bellizzi su La Repubblica il 19 Luglio 2022.   

Francesco Pio D’Augelli è morto vicino la sua abitazione. Gli investigatori erano sulle tracce del presunto assassino già poche ore dopo il delitto grazie ad alcune testimonianze che avevano parlato di una lite avvenuta sabato 16 luglio. Tensioni davanti alla questura

Si è costituito poco fa il 15enne ritenuto il presunto assassino di Francesco Pio D'Augelli, il 17enne accoltellato a morte nella serata di lunedì 18 luglio a San Severo. Gli investigatori della squadra mobile erano sulle sue tracce.

Nella sua ultima storia su Instagram Francesco Pio D’Augelli aveva postato un viaggio verso Roma.

Litigano per una ragazzina. A 15 anni uccide il rivale. Stefano Vladovich il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

La vittima è un 17enne. L'assassino si è consegnato: "Non volevo ammazzarlo". Il delitto per gelosia.

A 15 anni uccide un 17enne per gelosia. «Te la faccio pagare, ti ammazzo». Sembrava un litigio fra adolescenti, quello accaduto due giorni prima a di San Severo, Foggia. Una lite per una fidanzatina contesa fra i due. Lunedì sera, purtroppo, le minacce urlate davanti agli amici si trasformano in tragedia quando la vittima, Francesco Pio D'Augelli, 17 anni, trova sotto casa, in via Lucera, l'assassino, 15 anni appena. Il ragazzo ha un coltello nelle mani, i due litigano furiosamente, qualcuno li sente gridare.

Quando i familiari accorrono nella traversa vicina, via Ferrini, Francesco è a terra in un lago di sangue. Ha una ferita profonda al fianco sinistro, fa appena in tempo a dire il nome dell'aggressore poi perde i sensi. È già agonizzante quando arriva un equipaggio del 118. Il 17enne viene trasportato all'ospedale Masselli Mascia, i medici tentano l'impossibile per rianimarlo mentre parenti e amici si azzuffano davanti al pronto soccorso. Francesco muore poco dopo. La polizia è sulle tracce del baby assassino, lo cerca in casa ma non lo trova. Qualche ora dopo, alle 13 di ieri, l'epilogo quando il minorenne, accompagnato dai genitori e dall'avvocato di famiglia, si presenta al commissariato di via Gramsci. Tra i parenti dell'omicida la tensione è altissima, volano insulti e minacce ai giornalisti, tanto che devono intervenire gli agenti. Secondo le prime indagini Francesco Pio sarebbe stato colpito da almeno un fendente sotto al costato. Mentre il 17enne fugge a gambe levate, Francesco fa una decina di metri poi si accascia a terra. I familiari non lo vedono tornare, si preoccupano ed escono di casa per cercarlo. Fino a tarda notte il 15enne è stato interrogato dal magistrato e dagli uomini della squadra mobile di Foggia. Il ragazzino sarebbe scoppiato a piangere: «Francesco mi ha sferrato due pugni al volto, io ho afferrato il coltello che avevo e l'ho brandito, lui si è avvicinato a me ed rimasto ferito ad un fianco. Non volevo ucciderlo», racconta. In attesa del fermo di pg, le accuse per il 15enne sono di omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Sotto choc la cittadina dell'Alto Tavoliere, già sconvolta per una serie interminabile di fatti di sangue legati soprattutto alla criminalità organizzata. Il sindaco, Francesco Miglio, in un post su Facebook esprime «Dolore, sofferenza, vicinanza alla sua mamma, al suo papà, ai suoi familiari. Il lutto e il cordoglio dell'intera comunità che mai vorrebbe raccontare fatti così gravi, così inauditi e inspiegabili».

Con la morte di Francesco Pio D'Augelli sale drammaticamente a sei la lista degli omicidi avvenuti nella provincia di Foggia dall'inizio dell'anno, due a San Severo. L'8 aprile scorso, difatti, viene ucciso con cinque colpi di pistola in pieno volto Salvatore Lombardi, 30 anni. Il killer, reo confesso, è un ragazzino di 17 anni. I due si erano dati appuntamento ai giardini pubblici per parlare.

San Severo, killer del 17enne chiamò il fratello della vittima: «L'ho accoltellato». Probabile movente del delitto la gelosia della vittima per alcuni messaggi che la fidanzatina si era scambiata mesi fa proprio con il 16enne. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Luglio 2022

«Vieni a prenderti a tuo fratello, l’ho appena accoltellato. Portalo in ospedale». E’ il contenuto della videochiamata che il 16enne (compiuti da poco) reo confesso dell’omicidio di Francesco Pio D’Augelli, ha fatto lunedì sera al fratello della vittima subito dopo aver colpito il 17enne con un fendente mortale al fianco sinistro. L’omicidio è stato compiuto in via Lucera, a San Severo (Foggia). Probabile movente del delitto la gelosia della vittima per alcuni messaggi che la fidanzatina si era scambiata mesi fa proprio con il 16enne. Un passaggio che questa mattina l’indagato ha ribadito durante l’interrogatorio di convalida del fermo tenutosi davanti al Gip del Tribunale per i Minorenni di Bari. Nella circostanza il 16enne ha sostanzialmente confermato la confessione resa al pm martedì pomeriggio quando si è costituito in questura, a Foggia, aggiungendo il particolare di questa videochiamata. A quanto si apprende nella videochiamata l’adolescente avrebbe inquadrato la sua mano insanguinata. Il sedicenne ha anche affermato che tra lui e la fidanzatina del 17enne c'era stato solo uno scambio di messaggi via social e di non avere mai pensato di intraprendere una relazione con lei. Un particolare - emerge nell’interrogatorio - che il 16enne avrebbe anche ribadito domenica sera, giorno prima dell’omicidio, al fratello della vittima confermandogli che tra lui e la ragazzina non c'era mai stato nulla. Così come ha più volte evidenziato di essere andato armato di coltello all’appuntamento con la vittima, ma che sperava che si chiarissero e il litigio terminasse lì. Al termine dell’interrogatorio il pm ha chiesto che il 16enne venga lasciato in carcere mentre i difensori dell’indagato hanno chiesto l’esclusione dei futili motivi (il 16enne è accusato di omicidio volontario aggravato dai futili motivi) e la riqualificazione dell’accusa in omicidio preterintenzionale. Il Gip si è riservato di decidere nelle prossime ore.

Un unico colpo letale all’addome, con la lama che è penetrata in profondità ferendo organi vitali. E' morto così il 17enne di San Severo (Foggia) Francesco Pio D’Augelli, stando all’esito dell’autopsia eseguita oggi pomeriggio nell’istituto di medicina legale del Policlinico di Bari dal professor Francesco Introna. Per il delitto, compiuto la sera del 18 luglio scorso, è attualmente in stato di fermo con l’accusa di omicidio volontario un 16enne, reo confesso, che il giorno dopo si è costituito.

Uccidere per futili motivi. Una volta i ragazzi avevano ideali, oggi trovano loro stessi nel branco. Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 18 Luglio 2022. 

Si può morire accoltellati per uno sguardo? È accaduto ad Anzio nella notte tra sabato 16 e domenica 17 luglio. La vittima Leonardo Muratovic, 25 anni, un pugile di origini croate, è stato ucciso nel pieno della movida, sulla riviera Mallozzi del litorale romano, luogo frequentatissimo nel periodo estivo.

Leonardo Muratovic era in compagnia di amici e della fidanzata quando è iniziata la diatriba con un altro gruppo di giovani. Dopo una serie di minacce e spintoni entrambi i gruppi, compreso il 25enne, sarebbero stati allontanati fuori dalla security. Fuori dal locale, una volta in strada, avrebbero deciso di ‘risolvere’ la questione. Muratovic dopo una coltellata al petto si è prima accasciato su una staccionata di legno per poi finire in terra perdendo sangue.

Morirà poco dopo essere stato trasportato in ospedale. Il motivo della rissa degenerata poi in questo omicidio? Pare per banali questioni di sguardi “sbagliati”.

Purtroppo a questa tragedia, a distanza di poche ore si e sommata un’altra violenza. Questa volta per mano del padre della vittima, Faodini, che ha deciso di vendicare il figlio. Nell’androne del commissariato di viale Antium, qualche ora più tardi, accoltella due addetti della sicurezza del locale convocati per testimoniare. I due, 31 e 57 anni, non sono in gravi condizioni, l’uomo, 56 anni, è stato arrestato per tentato omicidio.

In questi giorni la cronaca ci riporta tante, troppe notizie di violenze, morti ed accoltellamenti per mano di giovani ragazzi che in un attimo riescono a trasformare quella che all’apparenza sembra una serata fra amici, in teatro di morte e sangue. Allora viene da chiedersi il perché? Non che ciò non sia mai esistito. Purtroppo risse e colpi di testa ci sono sempre stati, però ho la percezione, forse sbagliata, che ci sia un’accelerazione di violenza tra i giovani.

Arrivare ad uccidere per una frase magari scomposta, non può non farci riflettere e soprattutto pensare che dietro tanta rabbia ci possa essere una realtà meno superficiale su cui dover riflettere.

Forse quegli adolescenti siamo noi. La nostra incapacità di mostrare amore, le nostre indifferenze, la nostra smania di manifestare ostilità, la nostra faziosità elevata a valore. Loro la assorbono, la rielaborano, la estremizzano, perché gli adolescenti estremizzano, e talvolta, per fortuna raramente, la trasformano in violenza fisica e persino in morte.

Penso alla generazione degli adolescenti anni 60. Esattamente le stesse persone nel 1966 corsero trainati dalla passione a Firenze a riparare i danni dell’alluvione (gli angeli del fango), e pochi anni dopo imbracciarono la mitraglietta. Vanga o mitraglia, lo stesso estremismo.

Allora era guidato dalle ideologie (la patria, la bandiera, oppure la lotta e l’odio di classe), oggi guidati da niente. Futili motivi. Quel che conta è che devono trovare se stessi e non trovano altro che la forza del branco o del bicipite.

Andrea Camurani per corriere.it il 17 luglio 2022.

Secondo il capo della banda, quel giovane pusher di soli 25 anni, anche lui marocchino, non ascoltava abbastanza gli ordini. E andava punito in maniera esemplare. Così, pescando in un campionario che sembra attingere quasi in rituali simbolici fatti di violenze e brutalità gli hanno tagliato un orecchio, ma solo alla fine di sette ore di frustate, legato ad un albero, con le secchiate d’acqua in faccia per farlo rinvenire durante gli svenimenti. 

Poi, dopo altre botte e un braccio spezzato, è stato denudato e mandato in strada: qualcuno ha chiamato l’ambulanza e i carabinieri sono poi andati in ospedale a Varese per cominciare a mettere una tessera nel mosaico della guerra allo spaccio nei boschi, dove da tempo sembra essersi impennato il livello della violenza per il controllo dello spaccio.

Il fatto è avvenuto ai primi di giugno, il 4 per l’esattezza, nelle valli dell’Alto Varesotto, in Valcuvia. Sono le zone di quel turismo nato a inizio Novecento e rifiorito nei decenni seguenti al «boom», scelte soprattutto dalla borghesia milanese per costruire la seconda casa così da villeggiare in località scampate alla cementificazione selvaggia. 

Duno, Arcumeggia: paesini individuati ora dai pusher di eroina per non dare troppo nell’occhio e riuscire a controllare un territorio che ha poche vie d’accesso. Infatti per muoversi vengono scelte persone del posto cadute nella tossicodipendenza: in cambio della dose portano in giro i «cavalli» della droga, magari con auto che sfuggono ai sistemi di lettura targa così da non insospettire troppo le forze dell’ordine.

Proprio uno di questi «tassisti» dei pusher, verso la metà di giugno è stato violentemente punito dopo aver commesso un errore: aveva lasciato il telefono spento, diventando irraggiungibile per i capi. Per punizione, lo hanno legato a un ramo e tenuto appeso per tre ore, fintanto che l’albero non si è spezzato, facendolo cadere a terra. Poi, dopo aver caricato un fucile da caccia, gli hanno messo le canne dell’arma in bocca. La vittima, un quarantenne italiano che vive in un paese vicino, ha dovuto ricorrere alle cure mediche. 

Per questi due episodi i carabinieri di Luino, agli ordini del capitano Alessandro Volpini, sono riusciti a ricostruire gli spostamenti della banda, trovata nel Pavese, e raggiunta all’alba di qualche giorno fa in un appartamento di Parona, centro tra Vigevano e Mortara: una caccia a cui hanno partecipato anche i militari del nucleo investigativo di Pavia e finita con un rocambolesco inseguimento sui tetti delle case e che ha portato al fermo dei tre marocchini trentenni accusati di rapina (a entrambe le vittime sono stati sottratti oggetti e soldi), detenzione di droga, e tortura.

Dopo l’arresto il gip ha disposto la custodia cautelare in carcere in attesa di accertarne le responsabilità durante il processo. Le indagini sul grande giro di droghe in tutto il Nord del Varesotto sono ancora in corso: un’area vasta difficile da controllare, con montagne in cui per chilometri capita di non incontrare nessuno e per questo, soprattutto durante la pandemia, scelte per lo spaccio «in quota». 

Lo racconta Marco Dolce, sindaco di Duno, 150 abitanti. «Durante i lockdown, il fondovalle era piuttosto presidiato dalle forze dell’ordine, così lo spaccio si è trasferito sulle alture. Vengono sfruttati i viottoli che si dipanano dalla strada asfaltata ed entrano nel bosco, spesso in concomitanza con segnali ben visibili». 

Nel caso dei due episodi legati alle torture, il segnale distintivo era un numero «9» dipinto con vernice rossa su di un grande masso: da lì si entrava nella piazza di spaccio. 

Omicidio di Anzio, quando era ormai a terra a Leonardo anche una bottigliata in testa. Uno dei fratelli affiliato dei Gallace. Romina Marceca, Clemente Pistilli su La Repubblica il 22 Luglio 2022.

Adam Ed Drissi si è accusato dell'omicidio, cercando di tenere fuori il fratello Ahmed, che ha una condanna per aver accoltellato il cognato e nel 2016 era stato arrestato per un'intimidazione a colpi di pistola. È anche legato alla famiglia mafiosa Gallace: è il genero di Angelo, detto Titti, condannato in via definitiva nell'inchiesta antimafia "Appia".

"L'ho colpito per difendermi e il coltello con cui l'ho ferito era il suo, di Muratovic. Mio fratello Ahmed non c'entra niente". Interrogato dal gip del tribunale di Velletri, il ventenne Adam Ed Drissi ha ripetuto la stessa versione data martedì scorso ai carabinieri di Roma quando è andato a costituirsi.

Il giovane ha cercato di proteggere il fratello 26enne, giurando che è estraneo all'omicidio compiuto sulla Riviera Mallozzi ad Anzio il 17 luglio scorso, e ha pure cercato di ridimensionare la sua posizione, assicurando che fuori dal locale "La Bodeguita" è stata la vittima a tirare fuori un coltello, che lui si è difeso, ha disarmato Leonardo Muratovic e a quel punto lo ha ferito.

Romina Marceca e Clemente Pistilli per “la Repubblica” il 21 luglio 2022.

Da oltre 24 ore i fratelli Adam e Ahmed Ed Drissi, 20 e 25 anni, di Anzio, si trovano rinchiusi nel carcere di Velletri, in un reparto precauzionale dove stanno facendo la quarantena Covid. Sono accusati dell'omicidio di Leonardo Muratovic, il 25enne di Aprilia assassinato il 17 luglio scorso sulla Riviera Mallozzi, nella città neroniana. 

Dopo aver reso irraggiungibili anche i loro cellulari e dopo una fuga durata poco più di 48 ore, ospiti di alcuni amici a Roma e temendo forse chi cerca vendetta per il pugile ucciso, sono andati a costituirsi martedì scorso ai carabinieri di Gianicolense. 

Il sostituto procuratore della Repubblica di Velletri, Vincenzo Antonio Bufano, alla luce delle indagini svolte dal commissariato di Anzio e dalla squadra mobile di Roma, ha emesso un provvedimento di fermo. 

La sera dell'omicidio Muratovic, insieme a un amico e alle rispettive fidanzate, era arrivato nel locale " La Bodeguita". In passato era stato protagonista di episodi di violenza spaccando alcuni tavoli con un machete.

La vigilanza lo ha invitato a allontanarsi e lui ha risposto: « Sto bene qui » . A quel punto sarebbero intervenuti i due fermati, che conoscevano bene l'apriliano. Ahmed, secondo la testimonianza della fidanzata della vittima, lo avrebbe anche preso per il pizzetto dicendogli di andare via. Il giovane ha un precedente per aver accoltellato il cognato nel corso di una lite e per un'intimidazione a colpi di pistola contro un uomo di Anzio nel 2016. 

I buttafuori avrebbero quindi allontanato tutti i protagonisti del litigio e una volta fuori sarebbe esplosa una rissa e il 25enne è stato accoltellato a morte. La fidanzata di Luca, l'amico con cui il pugile si trovava al " Bodeguita", ha aggiunto che fuori dal locale Muratovic si era azzuffato con i due fermati e in particolare con Adam, aggiungendo di aver cercato di difendere il pugile e il suo ragazzo colpendo uno degli aggressori con una bottiglia di plastica, ma di essere stata a sua volta aggredita da un'altra ragazza, che le aveva detto che quelli erano i suoi fratelli.

« I fatti per cui si procede - sottolinea il sostituto procuratore Bufano - consentono di poter affermare che gli attuali indagati, in concorso morale e materiale, hanno dapprima aggredito e successivamente accoltellato il Muratovic». 

«L'ho accoltellato io e non c'entra nulla mio fratello » , ha dichiarato Adam. Il numero degli indagati però potrebbe anche aumentare. Ad Anzio c'è chi assicura che in precedenza proprio Adam era stato picchiato da Muratovic e che soprattutto il pugile prima sarebbe stato accoltellato e poi picchiato. «Leo è stato aggredito almeno da cinque persone. 

Quando era a terra gli hanno anche spaccato una bottiglia in testa » , sostengono fonti vicine alla famiglia della vittima. « Io quei due fratelli li conosco come ragazzi perbene. Sono rimasto molto sorpreso » , dice il cognato di Leo. 

In carcere a Velletri, nel reparto isolamento, intanto c'è pure il padre del 25enne, il 59enne Fahrudin Muratovic, che domenica ha perso il controllo nell'anticamera del commissariato e ha accoltellato due buttafuori del " Bodeguita". « Quando mi sono trovato davanti quei due non ho capito più nulla», ha detto al gip. Il titolare del locale dove è avvenuta la lite, sconvolto per l'omicidio, ha confidato agli amici: «Ora basta. Mi tengo il ristorante e la pizzeria, il Bodeguita non lo apro più».

"Questa volta Willy si è difeso", il paragone shock dell'avvocata dei fratelli arrestati per l'omicidio di Anzio. Clemente Pistilli su La Repubblica il 22 Luglio 2022. 

Gli indagati erano tenuti da tempo sotto controllo dalle forze dell'ordine, considerati due teste calde. Uno dei fratelli Ed Drissi ha precedenti ed è legato alla famiglia mafiosa Gallace. Un parallelo assurdo quello fatto con la vittima dei "gemelli" Bianchi

"A distanza di pochi giorni dalla sentenza sull'omicidio di Willy Monteiro Duarte, che ha portato alla condanna di pugili professionisti, mi viene da dire che questa volta Willy si è difeso". Una dichiarazione-shock quella dell’avvocatessa Serena Gasperini, difensore dei fratelli Adam e Ahmed Ed Drissi, accusati dell’omicidio di Leonardo Muratovic, 25enne di Aprilia ucciso nella notte tra sabato e domenica scorsa ad Anzio.

Nella città neroniana, dopo un litigio all’interno del locale “La Bodeguita”, sulla Riviera Mallozzi, la vittima, un pugile già noto alle forze dell’ordine per violenze in un locale a Roma, si è scontrata con Adam, anche lui pugile, e Ahmed, che da minorenne accoltellò il cognato e sei anni fa venne arrestato dopo aver compiuto un’intimidazione a colpi di pistola, legato alla famiglia mafiosa Gallace. Muratovic aveva già creato problemi a “La Bodeguita”. In passato aveva spaccato i tavoli con un machete. Sarebbe stato invitato ad allontanarsi, avrebbe discusso con i due fratelli e una volta fuori accoltellato. Le indagini sono ancora in corso, ma a quanto pare il 25enne sarebbe stato aggredito anche dopo essere stato colpito all’emitorace e gli avrebbero spaccato anche una bottiglia in testa mentre era già a terra.

Un quadro ben diverso da quello di Willy. Nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, nei pressi dei locali della movida a Colleferro, il 21enne Willy Monteiro Duarte venne massacrato a calci e pugni senza un perché, solo per essersi fermato a chiedere a un amico in difficoltà se avesse bisogno d’aiuto. Un linciaggio che avrebbe avuto come protagonisti principali i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, campioni di arti marziali, già noti alle forze dell’ordine per una serie di aggressioni, oltre che per spaccio ed estorsioni, e in primo grado condannati all’ergastolo. Due picchiatori che si sarebbero accaniti su un ragazzo gracile, appassionato di calcio, che aveva studiato per fare lo chef e che non aveva mai creato mezzo problema, con l’unica colpa di essersi trovato “nel posto sbagliato al momento sbagliato”, come sottolineato dai pm davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone.

Un quadro nettamente diverso da quello di Anzio. Ma i due fratelli Ed Drissi dichiarano che il coltello non era il loro, bensì della vittima, e tale affermazione, tutta da verificare e a cui gli inquirenti non sembrano credere minimamente, essendo in contrasto con quanto sinora emerso dalle indagini e dalle testimonianze, è stata sufficiente all’avvocatessa per fare l’incredibile paragone.  

Estratto dell'articolo di Camilla Mozzetti per il Messaggero il 22 luglio 2022.

C'è un nome che ricorre nella storia dei due fratelli magrebini, Adam e Ahmed Ed Drissi, accusati in concorso dell'omicidio del pugile Leonardo Muratovic. 

Ed è il nome Gallace quello della potente - e ramificata - cosca di ‘ndrangheta che da Guardavalle, in provincia di Cosenza, già alla fine degli anni Settanta del secolo scorso è partita alla volta del litorale laziale imponendo il proprio potere criminale. 

E se da una parte è pure vero che le colpe dei padri non ricadono sui figli, c'è un dato: il maggiore degli Ed Drissi è sposato con la figlia di un Gallace. Nello specifico, il padre in questione è Angelo Gallace, cugino di secondo grado di Antonio, catturato nella notte di mercoledì dai carabinieri del Ros dopo due anni di latitanza scattata a seguito della condanna definitiva per associazione di stampo mafioso.(...) 

L'ASCESA Le indagini accertarono come il sodalizio calabrese si fosse imposto nel litorale laziale aprendosi anche a nuove conquiste. 

Quella dei Gallace è una famiglia strutturata: da vecchia mafia rurale è diventata una consorteria criminale dedita allo spaccio di stupefacenti ma anche alle estorsioni (praticate pure con i sequestri di persona), alle truffe, all'usura. Tutte attività che, nel corso degli ultimi 50 anni, senza mai recidere quel legame con la casa madre calabrese, operante nella fascia ionica a cavallo delle provincie di Catanzaro e Reggio, hanno permesso ai Gallace di imporsi non solo nei territori di Anzio, Ardea e Nettuno. 

(...)

I PRECEDENTI Il genero di Angelo Gallace dovrà rispondere di omicidio in concorso con il fratello minore Adam benché in fase di interrogatorio di fronte al gip abbia spiegato di aver sì, preso parte alla rissa di sabato davanti al locale La Bodequita ma di non aver colpito il pugile. Di quella pugnalata sferrata all'emitorace che non ha lasciato scampo al venticinquenne Muratovic la responsabilità se l'è presa il fratello più piccolo, incensurato. Ahmed in passato ha avuto problemi con la giustizia, il suo legale ricordava l'episodio di quando, ancora minorenne, accoltellò il fidanzato della sorella mentre nel 2016, a bordo di una moto e con un complice, esplose cinque colpi di pistola contro l'abitazione di un pregiudicato 30 enne nella località Santa Teresa di Anzio.

I carabinieri lo arrestarono e gli sequestrarono una Beretta calibro 7,65 perfettamente funzionante, carica e con un colpo in canna. L'arma era stata rubata mesi prima nel frusinate. All'epoca però non si capì il motivo che c'era dietro all'agguato poi fallito per il semplice fatto che il bersaglio non era in casa. Forse la droga considerati i precedenti specifici dell'uomo con l'ipotesi - mai confermata né esclusa - che il tentato omicidio fallito fosse stato comandato.

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 4 agosto 2022.

"Ho visto i fratelli Bianchi in caserma mentre si toglievano gli anelli e li consegnavano al loro avvocato". Era il 18 novembre dell'anno scorso quando, davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone, rispondendo alle domande del pm e delle difese, Francesco Belleggia fornì il particolare sui gioielli che, la notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, quando venne massacrato a Colleferro il 21enne Willy Monteiro Duarte, a detta del coimputato sarebbero stati indossati dai "gemelli", come erano chiamati Marco e Gabriele Bianchi per la loro somiglianza. Il difensore dei due campioni di arti marziali ha negato, ma proprio su quegli anelli spunta ora fuori un giallo.

Sugli anelli possibili tracce biologiche

Al termine del processo "i gemelli", indicati da tutti i testimoni come gli aggressori della vittima, uccisa senza un perché a calci e pugni nella zona della movida, sono stati condannati all'ergastolo, Belleggia a 24 anni di reclusione e Mario Pincarelli a 21 anni. Il particolare degli anelli non sembra aver avuto alcun peso, ma è importante.

Se Willy è stato colpito da chi indossava dei monili su quegli oggetti potrebbe essere rimasto del materiale biologico, un elemento che sarebbe stato fondamentale per stabilire chi ha sferrato pugni micidiali, mentre in assenza di quei gioielli l'accertamento è stato impossibile. 

Quando, subito dopo la tragedia, vennero bloccati ad Artena e portati nella caserma dei carabinieri a Colleferro i Bianchi, Belleggia e Pincarelli, i quattro vennero fotosegnalati dai militari. Gli investigatori hanno annotato gli indumenti indossati dai quattro al momento del fermo e li hanno sequestrati.

Addosso ai fermati dopo il massacro solo bracciali

Ecco dunque che Marco Bianchi, sul ring dell'MMA conosciuto come "Maldito", risultava indossare un pantalone di cotone beige, una polo blu "La Martina", un paio di scarpe bianche e rosse "Alexander Mcqueen", un paio di calzini di colore grigio e una felpa acetata nera "Diadora". 

Gabriele Bianchi risultava invece indossare un pantalone bianco "Victor Cool", una cintura in pelle blu, una camicia blu "Anthony Morato", un paio di mocassini blu "Antony Sander", un paio di calzini bianchi e due bracciali in oro giallo. Nessuna traccia di anelli. 

Gli unici anelli trovati indosso ai fermati e sequestrati sono stati quelli di Pincarelli: uno in acciaio a testa rettangolare, uno in oro giallo con brillanti con il marchio Versace e uno in oro giallo sempre a testa rettangolare. Anelli quest'ultimi su cui non è stata trovata alcuna traccia biologica. 

Il testimone: "Avevano due anelli di oro giallo"

Le parole di Belleggia sembravano destinate a restare bollate come una bugia. Ecco però che dagli atti emerge che quando proprio un amico dei Bianchi, uno di quelli che quella maledetta notte era con loro, Vittorio Tondinelli, è stato interrogato dai carabinieri, ha detto: "Per quanto ricordo Bianchi Gabriele indossava due anelli d'oro, credo due, come quelli che lo vedo indossare nelle foto e immagini apparse sui social". Gli anelli diventano così un mistero. E c'è di più. 

Gabriele Bianchi alla madre: "L'orologio e gli anelli ce li avete voi vero?

Il 16 ottobre 2020, nel carcere di Rebibbia, Gabriele Bianchi haincontrato la madre Simonetta Di Tullio e la fidanzata Silvia Ladaga. Quella conversazione è stata intercettata e sottoposta a una perizia. Gabriele chiede alla madre e alla fidanzata: "L'orologio mio, le collane, gli anelli, ce li avete voi o no?". La fidanzata: "Si, si ce li abbiamo. Ce li ha Alessandro". 

Come poteva avere Alessandro Bianchi, fratello dei due arrestati, oggetti che a quanto pare Gabriele indossava quando è stato fermato e che dovevano essergli sequestrati? "A posto", taglia corto l'arrestato. La fidanzata però gli chiede: "Ma scusami i due bracciali?". E lui: "Chigli (quelli) me li hanno sequestrati". Solo quelli. Un giallo appunto e forse un aspetto che dovrà essere chiarito nel prossimo processo davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Roma.

Fratelli Bianchi, il suocero di Gabriele: «Mia figlia stravolta dai colloqui in carcere, proteggerò mio nipote». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 4 agosto 2022.  

«La verità? Ho scelto io il nome. Aureliano. Suona bene ed è poco usato. In ballo c’erano anche Ettore e Flavio. Non mi suonavano altrettanto. Aureliano. Sono nonno senza essere suocero. Suburra non c’entra, manco sapevo che fosse il nome di uno dei protagonisti della fiction,» dice Salvatore Ladaga, imprenditore della sanità, consigliere di Forza Italia dalle origini, già socialista con simpatie per i radicali d’antan («Consideravo Pannella un amico» sorride) ma soprattutto affezionato cliente del vecchio ristorante «Da Benito al bosco» passerella per politici, da Blair a Gentiloni, nel cuore impervio di Velletri. Sua figlia è la compagna di Gabriele Bianchi, uno dei due fratelli - l’altro è Marco - condannati all’ergastolo per aver ucciso massacrandolo di botte Willy Monteiro Duarte. 

«Davvero vi interessa com’è iniziata? — chiede lui nel viavai di camerieri accaldati — Era la fine del 2018 e mia figlia Silvia, bella, cocciuta, indipendente, però certo non abituata a vivere sulle barche come l’avete descritta voi...Insomma lei. Viene da me e mi dice: “Papà se devo fare un figlio è con lui che lo faccio”. Lui era Gabriele Bianchi. Magari anche lei ha il complesso della crocerossina, vai a sapere. Le dico: “Ma cosa c’entra lui con noi, con te? E badate bene, non è questione di ceto, ci mancherebbe. Ma di modi. Lui è un bullo, un cretino, un prepotente. E lei: “Andiamo a vivere assieme” mi comunica. Appartamento pronto. Di lei si capisce. Scelgono i mobili e tutto. Mi metto in moto anch’io. Penso: “Ora devo aiutarli”. E allora gli do una mano ad aprire una frutteria. Certo, un bullo».

I fratelli Bianchi spacciavano droga, organizzavano spedizioni punitive, anche quella sera furono chiamati appositamente e poi Willy Monteiro è stato massacrato. Era il 6 settembre 2019. « Gabriele era lì. E non doveva. Era andato al cimitero (con delle amiche, ndr). E non va. Tutte cose che gli ho detto quando abbiamo parlato giorno fa dopo la sentenza (la condanna all’ergastolo avvenuta il 4 luglio scorso, ndr). Squilla il telefono a casa di mia figlia che, per inciso, abita con la mia ex moglie. Appartamento comodo, agiato, in cui mio nipote viene viziato un giorno dopo l’altro...Squilla il telefono ed era lui da Rebibbia. E allora gliele ho cantate: “Caro mio qui si parla del fatto che se righi dritto forse domani potrai accompagnare tuo figlio all’università. A giorni alterni. Forse. Questo è il futuro che ci aspetta».

Omicidio Willy: la vittima, gli aggressori, i testimoni: ecco le loro storie

Quindi mostra una foto del bimbo. Lui in calzoncini extra small con una magliettina spugnosa che sorride a un pallone gigante, in alto su una seggiola. Continua: «Siamo tutte vittime collaterali dei fratelli Bianchi. Però questo qui di più. Lui che c’entra? Non era nato. Gli ultimi giorni sono stati devastanti. Mia figlia che torna stravolta dai colloqui in carcere: “Pa’ sono preoccupata per Gabriele”». Ladaga ha promesso alla figlia che non l’abbandonerà: «Cambieremo avvocato, sceglieremo un tecnico che guardi perfino oltre la Cassazione, alla Corte europea se necessario, perché io neanche nell’appello ho fiducia. Troppa pressione, troppo battage». I fratelli Bianchi non hanno mai chiesto perdono alla famiglia di Willy, non lo hanno fatto nemmeno durante il processo. «Rispetto la dignità con la quale hanno affrontato un dolore così grande. Ma non era arrivato il momento. Sarebbe stato frainteso».

Fratelli Bianchi, la vita in carcere di Marco e Gabriele (separati) tra attività sportiva e pasti cucinati da soli. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.  

Il primo è recluso a Viterbo, l’altro si trova a Rebibbia, dove riceve le visite della compagna e ha potuto conoscere il figlio. L’avvocato: «Detenuti pienamente inseriti». 

«Detenuti pienamente inseriti» nei penitenziari di Viterbo e Rebibbia dove Marco e Gabriele Bianchi vivono. I fratelli di Artena condannati all’ergastolo per il pestaggio che ha ucciso Willy Monteiro Duarte stanno evidentemente cercando di cambiare strategia e dimostrare un atteggiamento diverso da quando erano liberi e organizzavano spedizioni punitive anche a scopo di estorsione . Il loro avvocato, Massimiliano Pica, ha rimesso il mandato qualche settimana fa. Ora sono alla ricerca di un «tecnico» che affronti il loro caso. Ribaltare il verdetto non sarà facile. Ma la buona condotta può influire e così dai due penitenziari filtra che nessun problema è stato finora creato, che nessuno dei due ha manifestato comportamenti da attaccabrighe. Entrambi curano il proprio spazio, si cucinano da soli con un fornelletto da campeggio, soprattutto fanno l’attività sportiva consentita e compatibile con le restrizioni di un carcere. A Rebibbia, per fare un esempio, esiste una palestra dotata di attrezzatura che può essere utilizzata da chi è recluso. I fratelli Bianchi specialisti dell’Mma, le arti marziali miste, continuano ad allenarsi e alla fine anche dietro le sbarre sembra essere questa la loro principale occupazione.

Gabriele ha conosciuto il figlio, Aureliano, nato dalla sua relazione con Silvia Ladaga, la compagna. Lei ha voluto portarglielo appena nato durante uno dei colloqui. Lo aveva già rivelato al Corriere Salvatore Lagada aggiungendo: «Mio nipote è come noi una vittima collaterale di questa storia».

L’immagine che i Bianchi stanno cercando di trasmettere è meno arrogante e rissosa da quella che ha segnato le loro giornate prima del pestaggio che vite fino al pestaggio che ha causato la morte di Willy il 6 settembre 2020. Ma sembra difficile credere a un atteggiamento davvero diverso da quello emerso dai documenti processuali. Lo stile di vita di Marco e Gabriele Bianchi è sempre stato noto a tutti fra Colleferro e Artena. Le ostentazioni sui social. Gli allenamenti nelle arti marziali miste. La violenza. Dalle intercettazioni ambientali disposte a ridosso dell’uccisione del cuoco capoverdiano affiora una diffusa consapevolezza riguardo alla loro brutalità.

Ne parlano durante una lucida conversazione in caserma Omar Shabani e Alessandro Di Meo, due della comitiva che la notte del 6 settembre 2020 partecipò ai drammatici avvenimenti. «Cugì, parlamose (parliamoci) chiaro no — dice Shabani — cioè questi tenevano una vita un po’ accelerata no, facevano quello che facevano, mo senza dirlo però si sapeva quello che facevano, no?».

Mentre l’altro annuisce, Shabani va avanti: «Magari quando.. quando issi (loro) erano in casa erano cazzi loro quello che facevano, però per dirti no, cioè un esempio stupido, no Alessa’, quando risciamo (usciamo) sempre insieme io e te, no...» Si discute dello stile di vita dei Bianchi, protagonisti piuttosto vistosi delle notti paesane.

E Shabani allude al loro gusto per le apparenze: «Issi(loro) erano pigliato una cosa che comunque se non volevi ai (andare) a cena fuori non poteva esse’ (essere) se non.. se non porti.. cioè capito? Se non porti l’orologio d’oro non ti fai la foto coatta, non ti fai la storia mentre stai a magna’. Ma a mi che cazzo me ne frega di ste stronzate, aho. A me che cazzo me ne frega». Una critica in sordina quella degli amici che, forse, non intendevano sfidare a viso aperto i Bianchi.

In coda alle intercettazioni di Shabani e Di Meo anche i colloqui in carcere di Alessandro Bianchi, fratello di Marco e Gabriele, della madre Simonetta e dello stesso Gabriele. La donna, preoccupata e amareggiata per il presente (e il futuro) dei suoi figli, li invita a resistere, a tenere duro: «E guarda amore qua la cosa va per le lunghe, te (tu) ti devi sta calmo» suggerisce. E ancora: «(L’avvocato, ndr) ha detto eh.. dice.. che tu.. tu devi un altro carattere bello mio ed è meglio così che reagisci, invece isso(lui) e sappi che di fuori gliu mun(il mondo) è cambiato! Non è più chiesto(questo) che ti immagini tu. Non ci sta più niciuno(nessuno) ti hanno abbandonato tutti amore mio, tutti, tutti, tutti!».

Fratelli Bianchi, parla l’amico Omar Shabani: «I condannati all’ergastolo dovevano essere quattro». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022 

L’amico dei Bianchi, accusato con loro di spaccio, commenta la sentenza sull’omicidio: «Quella fu una rissa di paese. Voi non lo sapete come funziona nelle piazze di paese. Ci si scontra, si fa anche a botte, purtroppo è così». 

«Ho detto al processo quello che avevo visto ma non sono stato ascoltato, altrimenti all’ergastolo ci sarebbero anche Pincarelli (che ha avuto 21 anni di carcere, ndr) e Belleggia (che ne ha avuti 23, ndr)»: Omar Shabani, 26 anni, parla per la prima volta dopo la condanna all’ergastolo inflitta ai fratelli Gabriele e Marco Bianchi per aver pestato a morte Willy Monteiro Duarte il 6 settembre 2020 a Colleferro. Da mesi è agli arresti domiciliari per il reato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Accusato di aver spacciato cocaina assieme a Marco e Gabriele Bianchi. La sera dell’omicidio era presente. «Ero lì ma non ho toccato nessuno. Facevo parte della comitiva ma non sono io quello che ha preso a calci Willy. Sono solo un testimone di quella notte. Io non c’entro».

Tuttavia lei ha partecipato forse ha fomentato i Bianchi in quel momento? «Questo non è vero» Dalle intercettazioni era emerso che neppure i soccorsi erano stati chiamati: «Noi non c’eravamo resi conto che il ragazzo fosse morto. Uno esclude a priori la possibilità della morte e noi non potevamo immaginarla in quel momento» dice Shabani. Giura, poi, che la sua vita da allora è cambiata: «Sono diventato padre e ora anche io vedo le cose da un altro punto di vista. Per tutti sono l’amico dei Bianchi e di conseguenza un poco di buono. Mi sono permesso di commentare la sentenza di Serena Mollicone, la ragazza uccisa ad Arce, e mi sono piovute accuse sui social (“La giustizia non è uguale per tutti” aveva scritto a proposito dell’assoluzione dei carabinieri imputati). Non ho più il diritto di esprimere un parere. Ricevo lettere di minaccia anonime». Che però può denunciare se vuole, è un suo diritto: «Non ho soldi da buttare negli avvocati io» ribatte. Quindi, aggiunge: «Quella fu una rissa di paese. Voi non lo sapete come funziona nelle piazze di paese. Ci si scontra, si fa anche a botte, purtroppo è così».

In un’intercettazione dei carabinieri, all’indomani dell’omicidio di Willy, Shabani raccontò di essersi voluto allontanare dai fratelli Bianchi senza aver trovato il coraggio di dirglielo apertamente («ma io solo che.. solo che verbalmente mi rimaneva difficile sbatterglielo in faccia, dirtelo no. Quindi dico li ho lasciato i’(andare ndr), piano piano, piano piano li ho lasciati..»). Oggi dice che forse andrebbe a trovare i Bianchi in carcere ma non può in quanto «pregiudicato». Infine, il suo lavoro: «Faccio il carrozziere, anzi sono responsabile del settore con un contratto a tempo indeterminato, sono orgoglioso del mio lavoro purtroppo non mi danno il “lavorativo” (il permesso di lavorare in officina deve essere autorizzato dalla magistratura, ndr). Ho iniziato a lavorare a 16 anni come “fruttarolo” e non ho mai smesso».

Fratelli Bianchi: le nove denunce e gli altri processi per risse, aggressioni e droga. Ilaria Sacchettoni e Aldo Simoni su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.

Marco e Gabriele Bianchi, condannati all’ergastolo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte e ora reclusi a Viterbo e Roma Rebibbia, dovranno affrontare altri dibattimenti. 

Qualcuno ha testimoniato nel corso del processo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Altri (molti) hanno preferito il silenzio. Prima dei fatti di Colleferro, avvenuti il 6 settembre 2020, i fratelli Bianchi (Marco e Gabriele) avevano già sulle spalle ben nove denunce collezionate in 24 mesi. Il motivo? Sempre lo stesso: risse, minacce, pestaggi, compreso quello a un giocatore di rugby. «La morte di Willy può definirsi casuale solo per l’identità della vittima. Era certo che prima o poi sarebbe capitato un episodio simile, viste le condotte di Marco e Gabriele Bianchi. È un caso anzi che non sia morto anche l’amico che ha provato a soccorrerlo» aveva detto il 12 maggio scorso il pm Francesco Brando durante la sua requisitoria per la morte del cuoco capoverdiano.

I processi per droga

La fama dei fratelli Bianchi era consolidata dunque. C’è, per cominciare, la condanna della Corte d’Appello di Roma a 4 anni e 6 mesi per una vicenda di droga ed estorsione. Le indagini dei carabinieri di Velletri documentarono il pestaggio di un ragazzo di Lariano e di suo padre per un piccolo debito di droga con i fratelli di Artena. Non solo. Marco è accusato di aver massacrato con un tirapugni un ragazzo di 25 anni di Lanuvio che, dopo l’aggressione, finì in ospedale. I medici gli prescrissero 30 giorni di cure. Era il 14 gennaio del 2018.

Le aggressioni agli stranieri

In questo processo Marco Bianchi (con il fratello Fabio) è accusato anche di una rissa esplosa nei pressi di un pub a due passi dalla caserma dei carabinieri di Velletri. Ne pagarono le conseguenze un ventenne velletrano e un 22enne di origini marocchine. Altro episodio: il primo maggio del 2018 si verifica un altro fatto di violenza. Marco Bianchi è accusato di un’aggressione ai danni di un giovane del Gambia, 22 anni, che poco prima, sempre a Velletri, era stato picchiato per un apprezzamento rivolto ad una ragazza del posto. Il terzo procedimento è simile ai precedenti: i fratelli Bianchi sono chiamati in causa per aver aggredito un indiano di 41 anni, domiciliato a Velletri. Era il 13 aprile del 2019 quando l’uomo, un extracomunitario, fu colpito da pugni e calci che gli procurarono la rottura del naso e una lesione ad un occhio. Anche per lui la prognosi fu di 30 giorni. Di Marco e Gabriele Bianchi si parla anche in merito a una rissa tra italiani e giovani dell’Est davanti a una discoteca sull’Appia Sud, sempre a Velletri. Prima fuggono, poi vengono rintracciati dai carabinieri: ma la denuncia, questa volta, non scatta. Paura?

Le violazioni amministrative

Non mancano le violazioni amministrative: ne sa qualcosa Marco (che sul ring era chiamato «Maldito») sorpreso a girare per strada in pieno lockdown senza una motivazione plausibile. Non sta certo andando a lavorare, è disoccupato, nonostante su Facebook ostenti orologi e moto di grossa cilindrata. «Maldito» e suo fratello finiscono nel mirino della Guardia di Finanza che indaga su quanti percepiscono il reddito di cittadinanza senza averne diritto e finiscono per denunciare la famiglia Bianchi. E poi c’è Mario Pincarelli (21 anni per l’aggressione mortale a Willy): un anno prima dell’omicidio aveva colpito, ad Artena, un vigile che gli aveva ricordato l’uso obbligatorio della mascherina. Dalle scorribande al tribunale. Dal ring alla cella: due anni vissuti sempre sopra le righe. Sulla condanna all’ergastolo si esprime Salvatore Ladaga, papà di Silvia, compagna di Gabriele (i due hanno un bambino, Aureliano). «Prima di giudicare aspettiamo le motivazioni. Gabriele ha sempre ripetuto di non aver dato alcun calcio a Willy, di non averlo toccato, non è suo il colpo mortale. Diciamo invece che sono stati condannati sotto l’effetto di un bombardamento mediatico nazionale. I giudici avevano sulle spalle una pressione incredibile, dopo che lo Stato, nelle sue massime autorità, già si era espresso, con tanto di medaglia d’oro a Willy. In carcere Gabriele studia per prendere un diploma e impara a suonare la chitarra».

Fratelli Bianchi, nuova condanna: auto di lusso, droga e nomi in codice. E per l’appello cambiano avvocati. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 28 Agosto 2022.

I due principali responsabili dell‘uccisione di Willy Monteiro Duarte, già condannati all’ergastolo, hanno ricevuto 4 anni e 6 mesi di pena per lo spaccio e le estorsioni nella zona dei Castelli. E in vista dell’appello per l’omicidio di Colleferro cambiano i loro avvocati

In tempi rapidi e paralleli a quelli del processo per l’uccisione di Willy Monteiro Duarte, una nuova condanna ha raggiunto senza avere lo stesso clamore i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, i due praticanti di Mixed martial art che per il delitto di Colleferro hanno ricevuto l’ergastolo. La vicenda è quella relativa agli arresti del dicembre 2020 ottenuti dalla procura di Velletri per un giro di droga e pestaggi verso i debitori nei quali i due fratelli di Artena avevano un ruolo centrale. Dopo l’iniziale condanna a cinque anni e quattro mesi di reclusione, ridotta in Appello a quattro anni e mezzo, i Bianchi aspettano ora che venga fissata la data della Cassazione per rendere definitiva la sentenza. 

L’ordinanza di arresto li aveva raggiunti mentre erano già detenuti per l’omicidio del 21enne di Paliano, ucciso a calci e pugni all’esterno di un locale di Colleferro tre mesi quasi esatti prima di questa nuova inchiesta. Una indagine del Nucleo operativo dei carabinieri che a rileggerla già conteneva molti degli elementi poi emersi nel corso del processo in corte d’Assise a Cassino, che si è concluso a luglio con la condanna per il concorso nell’omicidio di Willy anche di Francesco Belleggia e Mario Pincarelli (21 e 23 anni rispettivamente).

Nell’inchiesta di Velletri erano finiti in carcere anche Omar Shabani, membro della chat «la gang dello scrocchio» in cui i Bianchi vantavano con gli amici i loro pestaggi, e presente anche lui sulla scena dell’omicidio di Willy, pur non coinvolto nelle indagini. Il gruppo finito in carcere (ne facevano parte anche altri due amici dei Bianchi) spacciava soprattutto cocaina nell’area di Velletri, Lariano, Artena e dintorni, rinominando la droga “caffè”, “camicie”, “magliette”, “giacchetto”, “aperitivo”, chiavi”, o “il cd di Gomorra”. Come per il lusso ostentato sui social anche le modalità di spaccio avevano il fine collaterale di comunicare all’esterno la «potenza» della banda, che si muoveva spesso su auto di grossa cilindrata. Poi, con l’entrata in vigore del lockdown e il divieto a circolare si erano trovati canali alternativi per le consegne, come l’uso di meno appariscenti monopattini.

Proprio Marco Bianchi «Maldito» sui ring dei tornei di Mma, era stato sorpreso a girare su uno di questi mezzi in violazione delle norme di contrasto alla pandemia, senza saper fornire spiegazioni alla sua necessità di allontanarsi da casa. I Bianchi in prima persona erano poi responsabili di minacce e pestaggi per riscuotere i pagamenti in ritardo, anche qui volutamente alimentando la fama di picchiatori che ormai li precedeva in tutta l’area al confine tra Roma e Frosinone e che infastidiva anche boss di ben altro rango per le loro aspirazioni di crescita. 

Le intercettazioni raccontano che dopo aver picchiato un 20enne per un debito di poche decine di euro, il gruppo di pusher gli intimava di non denunciare: «Sei un infame tu e tuo padre, siete solo dei pezzi di merda...avete torto marcio e andate pure a fa la denuncia infami...morti de fame». Il gip che firmò gli arresti diede a questi fatti una lettura simile di quella fatta dal collega dell’ordinanza per il delitto di Willy, riscontrando che «per le specifiche modalità e circostanze dei fatti, abituali e reiterati nel tempo, e per la loro gravità, si ritiene sussistente il concreto ed attuale pericolo che gli indagati perseverino in altre azioni delittuose e condotte analoghe a quelle contestate» e che a suo giudizio quei pestaggi apparivano «chiaramente indicativi di una spiccata e sistematica capacità delinquenziale». Questo precedente (Shabani ha patteggiato la pena a 4 anni e 8 mesi di reclusione) ha gravato anche sulla decisione di affibbiare solo ai due Bianchi e non anche ai loro coimputati, l’ergastolo per l’omicidio di Willy. 

In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado, i fratelli di Artena hanno intanto dovuto cambiare avvocato, dopo la rinuncia per diversità di vedute con il legale che li ha seguiti fino alla sentenza, Massimiliano Pica. Per preparare l’appello hanno nominato loro difensori tre legali del foro di Roma: Valerio Spigarelli, Ippolita Naso e Pasquale Ciampa.

I fratelli Bianchi si separano per salvarsi in Appello. In primo grado la condanna all'ergastolo, ora difensori diversi. Estorsione e spaccio, altri 4 anni. Redazione il 28 Agosto 2022 su Il Giornale.

I fratelli Marco e Gabriele Bianchi, condannati all'ergastolo per l'uccisione di Willy Monteiro Duarte, hanno ricevuto un ulteriore pena di 4 anni e mezzo per spaccio ed estorsione. Si tratta di un'inchiesta parallela a quella dell'omicidio di Colleferro per la quale i «gemelli» di Artena (chiamati così per la straordinaria somiglianza dei fratelli) erano stati arrestati a dicembre del 2020 (il provvedimento era stato emesso quando già erano reclusi in carcere).

L'indagine, condotta dal Nucleo operativo dei carabinieri di Velletri, riguarda un giro di droga e intimidazioni verso alcuni debitori nei quali i Bianchi, secondo gli inquirenti, avevano un ruolo centrale. Nell'inchiesta di Velletri sarebbe stato coinvolto anche Omar Shabani, membro de «la gang dello scrocchio», la chat in cui i due fratelli si vantavano dei pestaggi e della loro vita violenta e fuorilegge. Il gruppo di pusher, di cui facevano parte anche altre due persone, spacciava soprattutto cocaina nella zona di Velletri, Artena e Lariano. Per la droga venivano usati nomi in codice come «caffè», «camicie», «magliette», «chiavi», «cd di Gomorra». La banda si muoveva con auto di lusso salvo poi utilizzare il monopattino durante il lockdown. Secondo gli inquirenti, i Bianchi avevano alimentato la loro fama di «picchiatori» anche per le minacce e i pestaggi nei confronti dei debitori. In una intercettazione fondamentale per l'inchiesta per spaccio, i due pusher di Artena avrebbero intimato a un ragazzo di 20 anni di non denunciare. «Sei un infame tu e tuo padre, siete solo dei pezzi di merda... Avete torto marcio e andate pure a fare la denuncia, infami... Morti di fame», sarebbero state le parole testuali. Il gip che firmò l'ordinanza di arresto, al tempo, precisò che «per le specifiche modalità e circostanze dei fatti, abituali e reiterati nel tempo, e per la loro gravità» si riteneva «sussistente il concreto ed attuale pericolo che gli indagati perseverino in altre azioni delittuose e condotte analoghe a quelle contestate». Inoltre riteneva che quei pestaggi apparivano «chiaramente indicativi di una spiccata e sistematica capacità delinquenziale».

In attesa che vengano depositate le motivazioni della sentenza di primo grado, i due fratelli hanno cambiato difensori, e hanno anche deciso di cambiare strategia: le posizioni giudiziarie dei due, da adesso in poi, si separano. Marco Bianchi ha nominato un suo penalista di fiducia, il fratello altri due. I nuovi avvocati sono Valerio Spigarelli, Ippolita Naso e Pasquale Ciampa, tutti del foro di Roma.

Estratto di “40 secondi. Willy Monteiro Duarte. La luce del coraggio e il buio della violenza”(ed. Baldini+Castoldi), di Federica Angeli, pubblicato da “la Repubblica” il 30 Agosto 2022.

Quella notte, dopo aver massacrato di botte Willy, i fratelli Bianchi, mandando in frantumi la lastra che separa il piano di realtà da quello immaginario, scapparono sul Suv su cui riuscì a salire anche Belleggia (Pincarelli tornò invece con l'amico con cui era arrivato a Colleferro) e rientrarono ad Artena dove, in un parcheggio lontano 300 metri dal locale del fratello maggiore, pianificarono attraverso una sorta di patto d'onore la verità da raccontare su come erano andate le cose. Ribaltare la verità, smussarla, tirarla per la coda e trasformarla in verosimile. 

La crudeltà e la totale gratuità di ciò che era successo avevano invertito il rapporto tra luce e oscurità, sprofondando le loro coscienze nell'assurdo di quei delitti privi di movente commessi per azioni indecifrabili che non avevano una logica. L'apice della malvagità, per quanto mi riguarda, è proprio commettere un delitto per quelli che gli investigatori classificano come «futili motivi», che nei tribunali prende le vesti dell'aggravante.

[…] Il primo tentativo dei fratelli Bianchi è dunque quello di far dire a tutti i presenti nella macchina che loro sono sì arrivati in via Bruno Buozzi ma non sono neanche scesi. Sono passati da lì e subito tutti quanti si sono precipitati in macchina. Uno dei tre amici dei Bianchi farà presente che il piano non può funzionare, che c'erano decine e decine di testimoni. Sia il pm che il giudice, quell'8 settembre, chiederanno a Belleggia se è stato intimidito e minacciato a dire una bugia e lui risponde con vaghezza: «Loro sono un po' così che cioè, come posso dire che "sennò annamo a finì in mezzo ai guai", dato che avevano dei precedenti».

Di fronte alla bocciatura del patto, passano al piano B: «La responsabilità è di tutti». Come se il mal comune mezzo gaudio, in sede penale, valesse uno sconto e non la contestazione del «concorso» che equivale alla stessa pena per tutti. 

In aula Francesco espliciterà meglio la dichiarazione sulle indicazioni che avevano dato i Bianchi: «Dite mo', se ce vengono a cercà i carabinieri, che non siamo scesi, dite che vi siamo venuti a prendere perché c'era una rissa dove voi vi siete trovati coinvolti. Noi siamo rimasti in macchina, non dite che siamo scesi sennò ci collegano subito all'aggressione, e ci incolpano». E i loro tre amici tutti insieme, o meglio Omar, dice: «Ma come famo a di' 'sta cosa? Hai visto la gente che c'era? Vi hanno visto tutti».

Fulvio Fiano per corriere.it il 31 agosto 2022.

Dopo la mazzata della condanna all’ergastolo ad inizio luglio, gli sfoghi verbali e gestuali nell’aula del tribunale di Frosinone contro la decisione della corte d’Assise che reputano ingiusta e influenzata dall’attenzione mediatica sul caso, Marco e Gabriele Bianchi arrivano all’ultima parte della loro seconda estate in carcere con una ritrovata fiducia di poter ribaltare o almeno smussare le accuse a proprio carico. 

Prima della pausa estiva i due fratelli di Artena, ritenuti i principali responsabili dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte il 6 settembre 2020 a Colleferro, hanno incontrato i loro nuovi legali, Ippolita Naso e Valerio Spigarelli per il 28enne Gabriele, Pasquale Ciampa per il 26 enne Marco.

Il contenuto dei colloqui è ovviamente riservato, ma agli occhi di chi li ha potuti vedere i fratelli Bianchi sono apparsi rinfrancati. Massimiliano Pica, l’avvocato che li ha seguiti in questo processo e in altre vicende giudiziarie che li vedono indagati (e in un caso già condannati in secondo grado) ha rimesso tutti i mandati per «diversità di vedute» con i suoi assistiti. Un rapporto logorato anche dalle tensioni processuali che spetta ora ai colleghi del foro di Roma raccogliere.

Appena rientrati dalle ferie i nuovi difensori dei due lottatori di Mma si sono messi al lavoro per esaminare la grande mole di carte dell’inchiesta.Ci sono quasi cinquanta testimonianze da leggere e mettere a confronto in cerca di margini per incardinare la linea difensiva, ci sono filmati di videocamere da vedere e intrecciare con il racconto dei presenti, ci sono prove scientifiche da passare al vaglio.

I tempi però sono stretti, perché i 90 giorni per il deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado scadono a inizio ottobre e per quella data bisognerà aver chiaro il quadro della situazione fin nei dettagli per poter poi proporre un fondato ricorso in appello. Su quali punti insisteranno i difensori è prematuro dirlo, proprio perché mancano ancora i ragionamenti dei giudici di corte d’Assise dai quali partire. Qui proviamo a ipotizzare qualche contromossa, partendo dagli spunti emersi dal processo concluso con la condanna anche di Francesco Belleggia e Mario Pincarelli (23 e 21 anni di condanna rispettivamente).

Tutto, o molto, ruota attorno alle testimonianze dei ragazzi delle diverse comitive che hanno assistito alla prima lite tra Belleggia e i ragazzi di un’altra comitiva e al successivo irrompere dei Bianchi, che alla cieca si sono scagliati nella ressa, colpendo il 21enne di Paliano con origini capoverdiane. 

In 26, secondo il i pm della procura ciociara, hanno riconosciuto Gabriele come quello che ha sferrato il primo calcio al petto di Willy, per poi vederlo colpire di nuovo il ragazzo a terra assieme a suo fratello Marco. La procura, nella su requisitoria accolta dai giudici, ha incluso nel pestaggio anche Pincarelli e Belleggia parlando di condotta di quattro contro uno, «il branco contro un soggetto che subisce la devastazione... la quantità di segni sul corpo della vittima che sono la conseguenza, e danno la percezione, della furia che si è scatenata su Willy».

In questo concorso in omicidio ci potrebbero essere spazi per ridefinire le singole posizioni, come hanno già provato a fare anche gli avvocati degli altri due imputati nel corso del processo. Di fatto i quattro condannati per l’omicidio si accusano a vicenda e torneranno a farlo in secondo grado. 

Le altre prove che la difesa dei Bianchi potrebbe attaccare sono le tracce di dna di Willy su una scarpa di Belleggia (i due fratelli sostengono che sia stato lui a colpire al volto il 21enne) e la mancanza di immagini che raccontino la scena al di là delle testimonianze. Nei frame recuperati dalle videocamere di zona si vede arrivare il loro Suv e li si vede allontanarsi, ma la scena non viene ripresa.

«Il buio e la confusione rendono inattendibili le testimonianze» è stato sostenuto in primo grado. E ancora, la difesa dei due fratelli si è concentrata a processo anche sulla esatta collocazione degli aggressori e dei testimoni sulla scena del pestaggio, ancora una volta per provare a dimostrare che le ricostruzioni offerte ai giudici sono da prendere con le molle. 

Dei due fratelli di Artena l’unico a prendersi qualche responsabilità è stato Marco, ammettendo di aver colpito Willy con un calcio ma su un fianco. Gabriele ha sempre negato di aver preso parte al pestaggio, che invece — secondo le perizie — è stato compiuto proprio da chi sapeva che tipo di conseguenze avrebbero avuto i colpi sferrati sulla vittima. Willy sarebbe morto indipendentemente sia per il calcio al torace che per un successivo colpo alla gola. Una aggravante per chi, come i due imputati esperti di arti marziali, quei colpi stava sferrando. 

 Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 31 agosto 2022.

Hanno negato di aver ucciso Willy, hanno scaricato le principali responsabilità sul coimputato Francesco Belleggia e hanno pure giurato che quella maledetta notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 entrarono nei giardini di Colleferro temendo che fossero in pericolo i loro amici, salvo poi rendersi conto che nessuno dei giovani lì presenti voleva aggredire Omar Shabani e Michele Cerquozzi. 

C'è però una telefonata che sembra smentire i fratelli Bianchi. Si tratta di una conversazione di 15 secondi tra Gabriele Bianchi e Shabani. E di quella telefonata nessuno dei due vuole parlare. 

I gemelli, come erano chiamati i Bianchi per la loro somiglianza, prima dell'aggressione costata la vita al 21enne Willy Monteiro Duarte, insieme all'amico Vittorio Tondinelli e a tre ragazze appena conosciute al pub, si erano appartati nei pressi del cimitero di Colleferro. 

Dopo il litigio tra un gruppo di ragazzi del posto, Belleggia e il coimputato Mario Pincarelli, Shabani e Cerquozzi telefonarono più volte a Gabriele Bianchi e a Tondinelli, chiedendogli di tornare perché era tardi, avevano lasciato le fidanzate ad Artena e volevano andar via dalla zona della movida. 

"Quando siamo arrivati e abbiamo visto tutta quella folla pensavamo che stessero aggredendo i nostri amici", si sono giustificati i Bianchi che, giunti nei pressi della caserma dei carabinieri, si erano fatti largo tra la folla e, senza un perché, avevano iniziato a tirare calci e pugni.

"Ho colpito Willy, ma non gli ho sferrato io il colpo mortale", ha specificato Marco davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone. "Io sbagliando ho colpito solo l'amico di Willy, Samuele Cenciarelli, e mi scuso con lui", ha giurato Gabriele.  

Una telefonata sembra però smontare anche la tesi dell'equivoco. Alle 3.22 Gabriele, che fino a quel momento aveva solo ricevuto telefonate dagli amici, ha preso il cellulare e ha contattato Omar. Hanno parlato per 15 secondi. Un minuto dopo i Bianchi sono giunti nella zona della movida e due minuti dopo già stavano fuggendo verso Artena, lasciando Willy in fin di vita sul selciato. 

Avendo parlato con Shabani un minuto prima di fermare il suv ed entrare nei giardini sembra difficile che Gabriele Bianchi, in primo grado condannato all'ergastolo insieme al fratello Marco, non avesse saputo cosa stava accadendo e quindi non fosse stato rassicurato del fatto che tanto Omar quanto Cerquozzi non rischiavano alcuna aggressione. 

Quella conversazione risulta dai tabulati telefonici. Alle 3.24 Matteo La Rocca, amico di Willy, ha scattato una foto alla targa del suv dei "gemelli" e l'ha consegnata ai carabinieri. E alle 3.55 i Bianchi sono stati bloccati ad Artena dai carabinieri, mentre si dirigevano al bistrot del fratello Alessandro e mentre erano "palesemente accaldati e nervosi". 

Cosa si sono detti Shabani e Gabriele Bianchi un minuto prima che Willy morisse? In aula Bianchi ha negato di aver fatto quella telefonata e, davanti al tabulato esaminato dai carabinieri, ha detto di non ricordarne il contenuto. Una conversazione di cui ha affermato di aver perso la memoria pure Shabani. 

Altri aspetti da chiarire nel prossimo processo davanti alla Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Roma.

I consigli del killer di Luca Sacchi ai fratelli Bianchi e quella strana amicizia nata in carcere. Clemente Pistilli, Andrea Ossino su La Repubblica l'1 settembre 2022.

Dietro la scelta di Gabriele di cambiare avvocato le dritte di Valerio Del Grosso: "Ecco come ho evitato l'ergastolo"

Da un killer a un altro. Dietro la scelta dei fratelli Bianchi, in particolare di Gabriele, di assumere nuovi avvocati c'è un'amicizia nata dietro le sbarre, tra i pesi della palestra del penitenziario romano di Rebibbia. È lì che Gabriele Bianchi, condannato in primo grado all'ergastolo insieme al fratello Marco per aver pestato a morte a Colleferro, senza un perché, il ventunenne Willy Monteiro Duarte, ha conosciuto Valerio Del Grosso, che sempre in primo grado ha rimediato 27 anni di carcere per aver sparato in faccia al

Clemente Pistilli e Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 2 settembre 2022.

I fratelli Bianchi devono restare separati. A luglio, dopo aver incassato una condanna all'ergastolo per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, e aver urlato la sua rabbia poco prima di salire su blindato della polizia penitenziaria che l'attendeva fuori dal Tribunale di Frosinone, Marco Bianchi ha chiesto di poter lasciare il carcere di Viterbo. E di essere trasferito a Rebibbia, per riunirsi al fratello Gabriele. Niente da fare. Il Dap ha detto no. 

Inutili le polemiche sulla spietatezza dello Stato, scoppiate dopo le condanne e dopo la falsa notizia che "i gemelli", come erano chiamati i due fratelli per la loro somiglianza, fossero stati divisi in quel momento. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) ha ritenuto necessario tenerli in carceri diverse due anni fa. E lo ritiene necessario ancora. Marco Bianchi, che sul ring dell'Mma era conosciuto come "Maldito", attenderà il processo d'appello al Mammagialla di Viterbo. Gabriele Bianchi, invece, a Roma, nel più grande carcere d'Europa. 

Dopo la morte del 21enne di origini capoverdiane, ucciso due anni fa nella zona della movida a Colleferro per essersi fermato a chiedere a un amico in difficoltà se avesse bisogno d'aiuto, i Bianchi erano finiti entrambi a Rebibbia. 

Gabriele trascorreva le prime giornate guardando in tv "Temptation Island" e leggendo "Topolino", Marco a cucinare. «Nel cibo ci sputano e mi preparo le cose da solo.

Le compro allo spaccio», aveva detto "Maldito" all'altro fratello, Alessandro. Un periodo duro, in cui i due avrebbero subito anche aggressioni, riuscendo però a difendersi. Da alcune intercettazioni è stato ipotizzato che Marco abbia subito pure un tentativo di accoltellamento, bloccando e dando una testata all'aggressore: «Qua sono tutti mollicci», aveva rassicurato sempre ad Alessandro.

Il Dap ha poi ritenuto opportuno separare i due. Durante l'emergenza Covid non è stato permesso loro di recarsi in tribunale per le udienze e sono stati fatti collegare in videoconferenza. E dopo due anni, lasciare i Bianchi divisi è ancora ritenuto necessario.

Fratelli Bianchi incastrati da una foto per un pestaggio a Velletri. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2022.

La brutale aggressione risale al 13 aprile 2019 per una banale lite stradale: decisiva una foto scattata da un testimone. 

Il coraggio di un indiano di scattare una foto mentre davanti ai suoi occhi si sta consumando un violento pestaggio ha incastrato i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, condannati all’ergastolo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. A trovare la forza di prendere il telefono e documentare quello che accadeva è stato Jaspret Singh, 30 anni, indiano con permesso di soggiorno. È lui il testimone senza paura che la sera del 13 aprile del 2019 assiste al pestaggio del suo amico Deepak Kumar, 30 anni, anche lui indiano, da parte dei fratelli Marco Bianchi, 26 anni, e Gabriele, 28 anni e quando loro vanno via dopo avergli fracassato senza motivo il volto, fotografa la macchina in fuga. Proprio grazie allo scatto di Singh, i carabinieri di Velletri sono risaliti ai Bianchi. L’episodio, indicativo dei metodi violenti dei fratelli, risale a diciassette mesi prima dell’omicidio di Willy, avvenuto il 6 settembre del 2020.

Per questo episodio i Bianchi sono sotto processo a Velletri con l’accusa di lesioni aggravate per aver rotto il naso e creato gravi lesioni all’occhio sinistro con calci e pugni a Kumar. Il dibattimento è ancora in corso. Insieme ai Bianchi sono imputati con le stesse accuse Omar Shabani e Vittorio Edoardo Tondinelli, quest’ultimo sodale dei fratelli picchiatori tanto che nel processo per l’assassinio di Willy era nell’elenco dei testimoni della difesa. Ecco la cronaca di quella sera del 13 aprile di tre anni fa. Sono le 21.30: Singh, Kumar e un altro indiano camminano in una strada buia di Velletri, via Madre Teresa di Calcutta. Una Mini Cooper li sfiora. Allora Kumar gli grida qualcosa contro. L’auto inchioda. Fa inversione. Raggiunge i tre indiani. Qualcuno, non il guidatore, chiede scusa. «Fate più attenzione, potreste ammazzare qualcuno con il vostro comportamento», li rimprovera Kumar. Parole che suonano come un affronto per chi è nella macchina. Dalla Mini escono in quattro. Oltre a Marco e Gabriele Bianchi, c’è Shabani, italiano, 28 anni, condannato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti con i Bianchi. E infine Tondinelli, 26 anni. I quattro hanno un atteggiamento minaccioso.

Nel suo racconto Singh descrive in maniera dettagliata quei momenti: «Vengono verso di me, mi urlano qualcosa, Kumar s’intromette per evitare discussioni, ma in tre (tra loro i Bianchi) lo circondano, lo strattonano e uno lo colpisce con un pugno. Solo l’autista non partecipa al pestaggio». Singh assiste impotente, ma scatta la foto decisiva. Qualche giorno dopo l’aggressione, i carabinieri mostreranno al teste la foto dei fratelli Bianchi: sono risaliti a loro grazie all’immagine della targa della Mini. Senza tentennamenti, Singh li riconosce. Senza paure, li riconosce anche Kumar. È un sopravvissuto, la stessa sorte non è toccata a Willy.

Il video-racconto dal giorno dal brutale pestaggio alla messa a Paliano per ricordarlo, passando dal processo e dalla condanna dei fratelli. Maria Rosa Pavia su CorriereTv su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

Sono passati due anni dalla tragica notte in cui Willy Monteiro Duarte è stato assassinato. Aveva 21 anni e cinquanta secondi di calci e pugni gli hanno spaccato il cuore e altri organi interni. Una violenza inaudita scaraventata su uno scricciolo. Un ragazzo dalla faccia pulita, con uno sguardo dolce. Una vita ai fornelli per il suo lavoro da cuoco, con la passione per il rap di Noyz Narcos e le uscite con gli amici. Tutto finito. Solo perché la notte tra il 5 e il 6 settembre del 2020 ha fatto un brutto incontro. Quello con i fratelli Marco e Gabriele Bianchi che, per la sua morte, sono stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Frosinone un paio di mesi fa. Più lieve la pena per gli altri due imputati: 23 anni per Francesco Belleggia, 21 per Mario Pincarelli. «Tristezza, solo tristezza» le parole di Lucia, la madre di Willy, prima della lettura della sentenza per gli assassini del figlio. Gli occhi umidi, le spalle curve, nel cuore lo stesso vuoto del giorno del funerale di quel figlio tanto amato. Quando quella foto di Willy, con il vestito buono e quel papillon nero che indossava nelle occasioni, è stata attaccata ai lati di un carro funebre. È stato un funerale toccante, il marito Armando al braccio di Lucia, chiuso nel suo dolore. Con loro la figlia Milena. Quel giorno tutto il loro paese, Paliano, ha partecipato. Tutti vestiti di bianco, con palloncini e striscioni per ricordare il giovane. Il 6 settembre 2022, la messa a Paliano per ricordare quel ragazzo che, come ha detto il padre «Rimarrà sempre nel cuore».

Willy, due anni fa l’omicidio. «Anche io pestato come lui dai fratelli Bianchi». Giulio De Santis e Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 5 settembre 2022.

Due anni fa a Colleferro veniva ucciso Willy Monteiro Duarte, il 21 enne di Paliano colpito a morte con calci e pugni durante una rissa nella quale non era coinvolto. Due mesi fa per l’omicidio la corte d’Assise di Frosinone ha condannato all’ergastolo i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, a 23 anni Francesco Belleggia e a 21 Mario Pincarelli. Ma l’emozione per quel delitto è ancora viva.

Lontani dall’attenzione mediatica, Lucia e Armando, i genitori del ragazzo che studiava da cuoco e sognava di fare il calciatore, lo ricorderanno oggi con una cerimonia privata e una messa a Paliano assieme all’altra loro figlia, Milena, che oggi ha 20 anni. Una riservatezza e una dignità che hanno sempre mantenuto e che li ha aiutati a superare i momenti più difficili e a guardare in faccia durante il processo gli assassini di loro figlio, senza mai lasciarsi andare a una parola di odio. La morte di Willy è diventata un esempio di solidarietà e altruismo riconosciuta anche dalla medaglia al valor civile attribuitagli dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a un mese dal delitto.

E mentre le difese degli imputati preparano le proprie mosse in vista del deposito delle motivazioni della sentenza contro la quale hanno già annunciato ricorso (i fratelli Bianchi hanno nominato tre nuovi avvocati anche per il ricorso pendente in Cassazione per una condanna per spaccio a 4,6, anni), da un altro processo riemerge un episodio citato anche dalla procura di Frosinone per descrivere il modo di agire dei due fratelli di Artena, protagonisti di pestaggi che secondo i pm non avevano altra motivazione se non quella di «affermare la loro forza».

«Violenti e cattivi. Mi hanno picchiato senza motivo. Erano ubriachi, feroci, matti. Ho avuto paura di morire. Mi hanno rotto il naso e incrinato l’orbita dell’occhio destro. I segni delle loro botte me li sono portati addosso per settimane»: così li descrive Deepack Kumar, indiano, 41 anni, da 13 anni in Italia, che ha incrociato i due «gemelli» lottatori di Mma la sera del 13 aprile 2019 in via Madre di Calcutta a Velletri.

Video consigliato: Omicidio di Willy: due anni di emozioni, il dolore, i ricordi di chi l'ha amato

«Sto andando al supermercato con due amici — continua l’uomo —, quando una Mini per poco non ci investe. Gli grido di fare attenzione. Quelli fanno inversione. Accetto le scuse ma dico che devono fare attenzione. Non pronuncio parolacce. Non li offendo. Eppure, escono dall’auto in quattro. Tre mi picchiano. Due sono i fratelli Bianchi — nel processo in corso a Velletri sono imputati di lesioni gravi — li ricordo bene. Grossi, tatuati e cattivi. Mi danno calci e pugni senza mai fermarsi. Se ne vanno quando sono ormai a terra, immobile». Di quegli attimi ricorda anche altro: «Ho avuto paura di morire. Di non rivedere mai più mia moglie e mia figlia».

Ad aiutarlo sono i due suoi connazionali che erano con lui: «Per miracolo sono ancora vivo. Willy non ha avuto la mia stessa fortuna. Non so se per quello che mi hanno fatto avrebbero dovuto essere arrestati. Però dopo tanta violenza, qualcuno avrebbe dovuto fermarli. Quando ho saputo che avevano ucciso Willy, non sono rimasto sorpreso». Una cosa Kumal ci tiene a dirla: «Sono stato contento del loro arresto, perché il mondo mi è parso un posto più sicuro. Non mi hanno mai cercato, ma la paura è finita soltanto quando ho saputo che erano in carcere».

Fra chi lo ha aiutato c’è Jaspret Singh, 30 anni: «Ricordo tutto di quella sera. Erano grossi, violenti e cattivi. In tre si sono avventati su Kumal. Un pezzo di pane. Che vigliacchi». Singh ha scattato la foto all’auto che ha permesso di incastrarli: «Ho fatto il mio dovere, ho aiutato un amico». Proprio come Willy, che cercava di tirar via dalla rissa un suo ex compagno di scuola.

"Ecco i colpi per uccidere gli avversari a mani nude", quando i fratelli Bianchi insegnavano in palestra. Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 5 settembre 2022

Poco prima dell'omicidio di Willy, i "gemelli" tennero degli stage in un centro sportivo di via Baldo degli Ubaldi: il racconto degli atleti che vi parteciparono

"Mi ricordo bene dei fratelli Bianchi. Ci insegnavano come finire un avversario e lo facevano con una violenza incredibile". A due anni dall'uccisione del 21enne Willy Monteiro Duarte, massacrato di botte senza un perché nella zona della movida a Colleferro, e dopo la condanna all'ergastolo inflitta dalla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone ai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, detti "i gemelli" per la loro somiglianza, un appassionato di arti marziali rivela un particolare inedito sui due imputati.

Estratto dall’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 5 settembre 2022.

"Mi ricordo bene dei fratelli Bianchi. Ci insegnavano come finire un avversario e lo facevano con una violenza incredibile". A due anni dall'uccisione del 21enne Willy Monteiro Duarte, massacrato di botte senza un perché nella zona della movida a Colleferro, e dopo la condanna all'ergastolo inflitta dalla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone ai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, detti "i gemelli" per la loro somiglianza, un appassionato di arti marziali rivela un particolare inedito sui due imputati. 

Oltre a praticare MMA, un mix di karate, judo, muay thai, brazilian jiu jitsu, pugilato, lotta libera, kickboxing e grappling, i due avrebbero infatti anche dato lezioni a Roma e, in una palestra in via Baldo degli Ubaldi, nel quartiere Aurelio, avrebbe insegnato le cosiddette mosse di finalizzazione, quelle con cui viene bloccato l'avversario.

Prima di finire in carcere, Marco Bianchi, che sul ring veniva chiamato "Maldito", era l'atleta migliore del team allenato dallo zio. […] 

E secondo gli inquirenti sono stati proprio dei colpi micidiali, sferrati con la tecnica mista di arti marziali, a uccidere Willy, un ragazzo gracile di corporatura, ucciso in 40 secondi. Gabriele Bianchi ha invece sempre negato di praticare MMA e di essersi dedicato in passato, non a livello agonistico, solo al pugilato e alla kickboxing. 

"Ad allenarci - assicura il testimone - erano tutti e due e si vedeva che anche Gabriele conosceva bene l'MMA". E aggiunge: "Nonostante fosse un allenamento erano particolarmente violenti. Con le mosse di finalizzazione un avversario viene bloccato e a quel punto è facile sia rompere all'avversario un arto che ucciderlo". […]

"Ci insegnavano come uccidere l'avversario". La foto che incastra i Bianchi. Spunta la foto di un altro pestaggio brutale. Prima dell'omicidio di Willy, i due fratelli insegnarono in una palestra di Roma. Un altleta: "Erano violenti". Rosa Scognamiglio il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.

C'è una foto che incastra i fratelli Bianchi, già condannati all'ergastolo per l'uccisione di Willy Monteiro Duarte e ora a processo per un altro, brutale pestaggio con l'accusa di lesioni aggravate. Nell'aprile del 2019, i "gemelli" di Artena si scagliarono contro un 30enne indiano riducendolo in fin di vita: l'aggressione fu immortalata con lo smartphone da un testimone oculare. Ma non è tutto. Pochi mesi prima dell'omicidio di Colleferro, i due avrebbero tenuto delle lezioni di MMA in una palestra di Roma. "Ci insegnavano come finire un avversario a mani nude", ha raccontato a Repubblica.it uno degli atleti che partecipò al corso.

Il pestaggio

L'episodio, rilanciato sulle pagine del Corriere della Sera, risale alla sera del 13 aprile 2019. Deepak Kumar sta passeggiando in via Madre Teresa di Calcutta, a Velletri, in compagnia di due connazionali, quando un'auto li sfiora. Uno dei tre ragazzi stranieri, scampati al peggio per un soffio, ammonisce da lontano gli automobilisti: "Fate più attenzione o potreste ammazzare qualcuno", grida. A quel punto, la vettura inchioda e dall'abitacolo escono i fratelli Bianchi. Con loro ci sono anche l'amico Omar Shabani e Vittorio Edoardo Tondinellli. In men che non si dica, i quattro accerchiano uno dei tre indiani, Jaspret Singh, intenzionati a malmenarlo. Kumar prova a sedare gli animi ma Marco e Gabriele Bianchi non vogliono saperne: si accaniscono contro il giovane fino a rompergli il naso e procuragli gravi lesioni all'occhio sinistro. Singh estrae il telefono dalla tasca dei pantaloni e scatta una foto alla targa della vettura coi fuggitivi a bordo. Poche ore dopo, quella foto è nelle mani dei carabinieri di Velletri che risalgono al proprietario dell'auto e agli altri della comitiva. Nei giorni successivi al fatto, tre dei quattro amici vengono indagati con l'ipotesi di reato per lesioni aggrevate.

"Ci insegnavano a finire l'avversario"

È un curriculum dell'orrore quello dei Bianchi. Stando a quanto rivela Repubblica.it, nei mesi antecedenti all'omicidio di Willy, i due fratelli avrebbero tenuto delle lezioni di MMA in una nota palestra della Capitale. A darne conferma è uno degli atleti che partecipò alle lezioni: "Me li ricordo bene. Ci insegnavano come finire un avversario con una violenza incredibile", sono state le sue parole. Del resto non è una novità che, prima di finire in carcere, Marco Bianchi salisse sul ring (nell'ambiente era noto con l'appellativo di "maldito"). Gabriele, invece, ha sempre negato di aver praticato MMA. "Ad allenarci c'erano tutti e due – ha assicurato il testimone –e si vedeva che Gabriele conosceva bene l'MMA. Nonostante fosse un allenamento, erano particolarmente violenti". E infine: "Con le mosse di finalizzazione un avversario viene bloccato e a quel punto è facile sia rompergli un arto che ucciderlo".

Flavia Amabile per “La Stampa” il 5 settembre 2022.

L'insegna è appena visibile dalla strada. Il vialetto conduce a un parcheggio vuoto e a un albergo-ristorante dove quattro uomini parlano a voce alta e il resto della sala è vuoto. Qui Willy Monteiro lavorava come assistente cuoco. 

 Trascorse l'ultima sera di lavoro tra i fornelli e i ripiani di acciaio sotto lo sguardo attento dei suoi colleghi. Due anni dopo nella grande cucina campeggia la foto di Willy con il sorriso che l'ha reso indimenticabile. Nazzareno D'Amici, il titolare, lo guarda e scuote la testa. «Ancora volete parlare di Willy? Per me era come un figlio ma voi giornalisti state esagerando. A Colleferro ne hanno ammazzati prima e dopo.

Voi però vi occupate solo di lui». Era una sera di inizio settembre anche due anni fa. Era il primo fine settimana al rientro dalle vacanze che non c'erano state perché il Covid faceva paura e di soldi ne sono girati sempre pochi tra i ragazzi che frequentano il piazzale Oberdan di Colleferro, il recinto dove si svolge la movida, una manciata di locali dove andare a prendere una birra allietati da alcune luci color ghiaccio, una fontana popolata da fenicotteri rosa rigorosamente finti e tanta noia. La notte tra il 5 e il 6 settembre del 2020 la noia fu bruciata in 40 secondi di violenza, quelli che bastarono ai fratelli Gabriele e Marco Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli per assalire e uccidere Willy Monteiro, 21 anni.

Due anni dopo, durante il primo fine settimana al rientro delle vacanze, il recinto è identico e la noia una nebbia che avvolge le sere di una movida immobile nel tempo. 

«Vuoi sapere che cosa è cambiato in questi due anni?» chiede Luca Martone, 36 anni, fisico massiccio.

È l'una di notte, lui e la fidanzata Ilaria hanno le risposte lente e il tono della voce fuori controllo di chi ha bevuto qualche bicchiere di troppo. 

«Nulla. Qui non cambia mai nulla. Io quella sera c'ero, non ho visto nulla perché sono andato via prima e sto andando via prima anche stasera». La regola di chi va a bere nel recinto di Colleferro con una ragazza è di non fermarsi mai fino alla chiusura dei locali. «È il momento peggiore - continua Luca - sono tutti pieni di alcol, basta un'occhiata di troppo a una ragazza, la lite scoppia in un secondo».

E ne scoppiano di continuo di liti dalle parti del recinto sorvegliato dai fenicotteri finti. Alcune diventano casi di cronaca, come è accaduto ad aprile quando un giovane è finito in ospedale per una scazzottata o a maggio quando un ragazzo di 19 anni è stato accoltellato mentre passeggiava di sera in centro con gli amici. 

Altre finiscono archiviate come una normale conseguenza dell'alto tasso alcolico che gira in queste strade. «Non è vero che non è cambiato nulla» sostiene Valerio, 22 anni. Lui c'era la notte in cui Willy fu ucciso. C'era anche nei fine settimana precedenti quando con Willy bevevano una birra e parlavano della Roma. Ha continuato a frequentare il recinto di Colleferro anche dopo, quando ha iniziato a lavorare a Reggio Emilia come magazziniere e la movida immobile di questo piccolo centro terrorizzava tutti tranne i frequentatori abituali.

«Willy non c'è più, non ci sono più nemmeno i fratelli Bianchi e noi siamo condannati a venire in questo posto dove abbiamo perso un amico». Indica il giardino spelacchiato dall'altra parte della strada dove Willy fu pestato a morte. «Li ho visti con i miei occhi i fratelli Bianchi che si accanivano contro Willy, ho visto il suo corpo martoriato che veniva portato via su una barella. 

Ogni volta che vengo a bere una birra guardo quel pezzo di marciapiede mi faccio il segno della croce. Se potessi andrei altrove ma per trovare un posto diverso dove bere qualcosa in compagnia di sera bisogna arrivare fino a Roma». Valerio si ferma un istante. Quello che ha visto lo ha raccontato anche in tribunale, è uno dei testimoni del processo che ha portato agli inizi di luglio alla condanna all'ergastolo per i fratelli Bianchi e a 23 anni per Francesco Belleggia e 21 per Mario Pincarelli. La banda di Artena li hanno definiti, il paese legato a Colleferro dalla stessa strada provinciale e dall'identico destino di morte. «Ho spiegato in tribunale quello che ho visto ma noi amici non ne parliamo mai, cerchiamo di dimenticare. A volte avrei voglia di parlarne con mia madre ma non ci riesco. Grazie per avermi fatto sfogare stasera».

«È cambiato che sembra che la morte di Willy sia colpa di Colleferro - sostiene Virginia Cirilli, 18 anni. - Non è colpa nostra. Quello che è capitato sarebbe potuto succedere ovunque. E sarebbe potuto capitare a chiunque. È successo qui perché ci sono più locali che altrove». La notte avanza. Il tasso alcolico aumenta. 

Qualcuno parla di politica. Al tavolo di Michele, Riccardo, Silvia e Bruna si ride di Berlusconi e del suo sbarco su TikTok. «È ridicolo - dice Michele - vuole fare il finto giovane ma sembra mio nonno». In pochi però sanno per chi votano. Non lo sanno i quattro giovani seduti al tavolo. Non lo sa Valerio. Luca Martone sa che non andrà a votare e Ilaria, la fidanzata, che non voterà Giorgia Meloni. Tutti sono convinti che, comunque sia, non cambierà nulla.

Ormai sono quasi le tre del mattino, quasi l'ora in cui fu ucciso Willy Monteiro. Intorno al cimitero un'auto è ferma. Dentro qualcuno sta facendo qualcosa che preferisce resti segreto. Forse sesso come due anni fa i fratelli Bianchi, che si erano appartati in uno di questi anfratti poco illuminati prima di andare a seminare l'orrore davanti al recinto di Colleferro. Ad Artena è sempre aperto il pub di Alessandro Bianchi, il più grande dei fratelli. Dentro non ci sono clienti. In tanti, invece, si fermano davanti all'ingresso per salutare e scambiare due chiacchiere. Nulla cambia dentro e fuori la movida immobile di Colleferro.

Fulvio Fiano e Giulio De Santis per il “Corriere della Sera” il 6 settembre 2022.

Due anni fa a Colleferro veniva ucciso Willy Monteiro Duarte, il 21 enne di Paliano colpito a morte con calci e pugni durante una rissa nella quale non era coinvolto. Due mesi fa per l'omicidio la corte d'Assise di Frosinone ha condannato all'ergastolo i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, a 23 anni Francesco Belleggia e a 21 Mario Pincarelli. Ma l'emozione per quel delitto è ancora viva. 

Lontani dall'attenzione mediatica, Lucia e Armando, i genitori del ragazzo che studiava da cuoco e sognava di fare il calciatore, lo ricorderanno oggi con una cerimonia privata e una messa a Paliano assieme all'altra loro figlia, Milena, che oggi ha 20 anni.

Una riservatezza e una dignità che hanno sempre mantenuto e che li ha aiutati a superare i momenti più difficili e a guardare in faccia durante il processo gli assassini di loro figlio, senza mai lasciarsi andare a una parola di odio. La morte di Willy è diventata un esempio di solidarietà e altruismo riconosciuta anche dalla medaglia al valor civile attribuitagli dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a un mese dal delitto. 

E mentre le difese degli imputati preparano le proprie mosse in vista del deposito delle motivazioni della sentenza contro la quale hanno già annunciato ricorso (i fratelli Bianchi hanno nominato tre nuovi avvocati anche per il ricorso pendente in Cassazione per una condanna per spaccio a 4,6, anni), da un altro processo riemerge un episodio citato anche dalla procura di Frosinone per descrivere il modo di agire dei due fratelli di Artena, protagonisti di pestaggi che secondo i pm non avevano altra motivazione se non quella di «affermare la loro forza». 

«Violenti e cattivi. Mi hanno picchiato senza motivo. Erano ubriachi, feroci, matti.

Ho avuto paura di morire. Mi hanno rotto il naso e incrinato l'orbita dell'occhio destro. I segni delle loro botte me li sono portati addosso per settimane»: così li descrive Deepack Kumar, indiano, 41 anni, da 13 anni in Italia, che ha incrociato i due «gemelli» lottatori di Mma la sera del 13 aprile 2019 in via Madre di Calcutta a Velletri. «Sto andando al supermercato con due amici - continua l'uomo -, quando una Mini per poco non ci investe. Gli grido di fare attenzione. Quelli fanno inversione. Accetto le scuse ma dico che devono fare attenzione.

Non pronuncio parolacce. Non li offendo. Eppure, escono dall'auto in quattro. Tre mi picchiano. Due sono i fratelli Bianchi - nel processo in corso a Velletri sono imputati di lesioni gravi - li ricordo bene. Grossi, tatuati e cattivi. 

Mi danno calci e pugni senza mai fermarsi. Se ne vanno quando sono ormai a terra, immobile». Di quegli attimi ricorda anche altro: «Ho avuto paura di morire. Di non rivedere mai più mia moglie e mia figlia». Ad aiutarlo sono i due suoi connazionali che erano con lui: «Per miracolo sono ancora vivo. Willy non ha avuto la mia stessa fortuna.

Non so se per quello che mi hanno fatto avrebbero dovuto essere arrestati. Però dopo tanta violenza, qualcuno avrebbe dovuto fermarli.

Quando ho saputo che avevano ucciso Willy, non sono rimasto sorpreso». Una cosa Kumal ci tiene a dirla: «Sono stato contento del loro arresto, perché il mondo mi è parso un posto più sicuro. Non mi hanno mai cercato, ma la paura è finita soltanto quando ho saputo che erano in carcere». Fra chi lo ha aiutato c'è Jaspret Singh, 30 anni: «Ricordo tutto di quella sera. Erano grossi, violenti e cattivi. In tre si sono avventati su Kumal. Un pezzo di pane. Che vigliacchi». Singh ha scattato la foto all'auto che ha permesso di incastrarli: «Ho fatto il mio dovere, ho aiutato un amico». Proprio come Willy, che cercava di tirar via dalla rissa un suo ex compagno di scuola.

Willy Monteiro, messa in suo ricordo a Paliano. La mamma: «Dolore immutato». Aldo Simoni su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

A due anni dalla notte in cui Willy fu ucciso brutalmente, fra il 5 e il 6 settembre, nella Chiesa di Sant’Andrea apostolo il ragazzo è stato rievocato da parenti e amici. 

Mamma Lucia entra in chiesa, a Paliano, spingendo la carrozzina della nipotina Michelle, nata lo scorso febbraio. È lei, la bimba che le ha regalato la figlia Milena, a darle la forza di guardare al futuro con fiducia e speranza, dopo aver perso il figlio Willy, due anni fa, durante l’aggressione a calci e pugni per la quale sono stati condannati all’ergastolo i fratelli Marco e Gabriele Bianchi. «Sì, sono passati due anni – confessa mentre entra in chiesa – ma il dolore è sempre lo stesso. La ferita è sempre aperta».

Nella Collegiata di Sant’Andrea, a Paliano, dove è stata celebrata la messa in ricordo del 21enne, c’erano tutti gli amici che il legame con Willy se lo sono tatuato addosso. E la parola «perdono» è riecheggiata più volte tra i presenti al rito funebre. Due anni che la famiglia Monteiro ha passato in silenzio. Mai sotto i riflettori. E ancora oggi, sebbene il processo abbia condannato all’ergastolo i fratelli Bianchi, i genitori di Willy non hanno mai detto (nemmeno agli amici più cari e al parroco) se hanno, o meno, perdonato gli assassini del figlio.

Compresi Francesco Belleggia (che ha avuto 23 anni di carcere) e Mario Pincarelli (21 anni), gli altri due giovani che parteciparono al pestaggio. Il perdono è una parola che, pure tra gli amici, è difficile da pronunciare. «Quando un’amicizia viene spezzata per sempre, senza motivo, è difficile non portare rancore ed essere indulgenti. No. Noi non perdoniamo», dice Mattia, 21 anni, uno dei più cari amici di Willy mentre si avvicina alla Collegiata. «Soprattutto – aggiunge - dopo aver sentito, durante il processo, frasi che puntavano a negare l’evidenza. La brutalità dell’aggressione».

Don Paolo, il parroco che ha celebrato il rito, sul perdono della famiglia dice parole eloquenti: «Mamma Lucia è sempre stata una donna estremamente riservata. Si sarebbe infilata sotto terra, dopo il processo, per non parlare e per non essere avvicinata dai giornalisti. Quando non va a Roma (dove presta servizio presso un paio di famiglie) viene in chiesa e ci dà una mano per le pulizie della parrocchia. Ebbene, il dilemma del perdono se l’è sicuramente posto, ma dobbiamo sempre tener presente che ci sono due livelli: il perdono mediatico e il perdono del cuore». Come per dire: il primo non ci sarà, il secondo c’è già stato.

La sentenza è un altro tasto dolente per la famiglia Monteiro: «È stata giusta ma il dolore resta. Speriamo che, negli altri gradi di giudizio, non venga ridimensionata»: ha sempre ripetuto papà Armando, temendo che, in appello, i quattro condannati possano avere sconti. Mentre mamma Lucia ha sempre ribadito: «Nessun giudice potrà ridarci Willy. Ci mancherà sempre. In ogni attimo della giornata il mio pensiero è sempre rivolto a lui. È come se lo cercassi. Il mio cuore è sempre con lui. Ma almeno, per ora, gli è stata resa giustizia. C’è solo dolore di fronte a questi ragazzi così violenti e brutali. Tanto dolore che porto dentro e che solo una mamma può capire. Spero, adesso, che la storia di mio figlio possa servire ad evitare tante altre tragedie. Io so soltanto che ho perso un figlio che non si è ucciso da solo». «Ai fratelli Bianchi - hanno sempre ripetuto i genitori – non abbiamo nulla da dire. Nessuno di loro ci ha mai contattato durante questi anni di dolore e ora noi non abbiamo nulla da aggiungere».

Omicidio Willy, al complice dei fratelli Bianchi solo una multa (sospesa) per aver aggredito un vigile. Aldo Simoni su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022.  

L’ispettore municipale era stato insultato e preso a pugni ad Artena, per aver chiesto al 24enne di indossare la mascherina. Pena pecuniaria di 6.750 euro

Minacce, insulti e pugni ad un ispettore dei vigili urbani di Artena: se l’è cavata con una semplice pena pecuniaria (6.750 euro) Mario Pincarelli, uno dei quattro condannati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, due anni fa, a Colleferro. «Sicuramente – osserva il suo avvocato, Loredana Mazzenga – ha giocato a suo favore il fatto che il decreto penale, emesso dal Gip del Tribunale di Velletri, è giunto a maggio, quando Pincarelli era ancora incensurato. Tra l’altro, non avendo precedenti, all’epoca, la pena è stata anche sospesa». Dunque, almeno per l’aggressione al vigile, caso chiuso. «Sicuramente – prosegue l’avvocato Mazzenga – se la condanna per l’omicidio di Willy fosse arrivata qualche mese prima, anche il procedimento per l’aggressione al vigile avrebbe preso un’altra piega».

Pincarelli, 24 anni, è infatti accusato di aver partecipato all’aggressione del giovane cameriere Willy Monteiro Duarte, due anni fa a Colleferro, assieme ai fratelli Bianchi, condannati all’ergastolo lo scorso luglio. A Pincarelli, per aver avuto un ruolo più defilato, la Corte d’Assise di Frosinone, ha invece inflitto 21 anni. Pena, che sta scontando nel carcere di Regina Coeli. Di questa aggressione si è parlato, velatamente, anche nel corso del processo in Corte d’Assise per descrivere i comportamenti e gli atteggiamenti, tipici, degli imputati. Un episodio, però, che l’ispettore, vittima dell’aggressione, ha difficoltà a ricordare. Oggi Sandro Latini ha smesso la divisa di vigile urbano. Lavora sempre per il Comune di Artena, ma in un ufficio ben più tranquillo: la segreteria degli Affari generali.

«L’aggressione di Pincarelli? Ormai l’ho rimossa, non ne voglio più sapere. Ogni volta che qualcuno me la ricorda mi irrito. Divento nervoso». «A pensarci oggi, ripensando a quel suo atteggiamento arrogante, non lo avrei certo fermato» confessa Latini, 59 anni, ispettore dei vigili, con trent’anni di servizio alle spalle. L’ispettore fa fatica a rispolverare quei momenti. Parla a tratti, come se la memoria avesse già cancellato quell’aggressione. «Era il 21 agosto di due anni fa. Ero in servizio con la mia collega Francesca Querciolini. E, transitando lungo piazza Monsignor De Angelis, abbiamo notato un gruppetto di ragazzi (due maschi e due femmine) che ridacchiavano, tutti senza mascherina». «Era sera, da poco era entrato in vigore il decreto che prescriveva l’obbligo della mascherina in presenza di un assembramento». Quel ragazzone, esuberante e tatuato, non passa di certo inosservato. «Era la prima volta che lo vedevo. Non sapevo né chi fosse, né da dove venisse. Perciò mi sono avvicinato con garbo, e ho ricordato a tutto il gruppetto che dovevano indossare la mascherina».

Ma Pincarelli, spavaldo, lo ignora. «Dovete metterla» insiste Latini. Di contro riceve un sorriso sarcastico e qualche parola pesante. Come a dire, “della legge me n’infischio”. Ma l’ispettore non ci sta a lasciarsi intimorire. «Capisco che il mio invito è caduto nel vuoto e allora chiedo a Pincarelli di darmi i documenti. A quel punto, inaspettatamente, reagisce in maniera alterata. Inizia a insultarmi e si fa minaccioso». L’ex vigile si ferma. Il ricordo di quei momenti gli fa ancora male e non riesce a trovare le parole. Pincarelli, sempre senza mascherina, si mette faccia a faccia davanti all’ispettore e inizia a spintonarlo.

Ma è il giudice a ricostruire l’aggressione nel decreto penale quando scrive che verso la pattuglia vennero pronunciate frasi «provocatorie e minacciose». In particolare Mario Pincarelli (e il suo amico Emanuele Pulvirenti) disse a Latini: «sei una m…» , «andatevene e non rompete i co…..» . Non solo, prosegue il giudice, ma «Pincarelli colpì con violenza, ripetutamente, con pugni , la spalla dell’ispettore Latini che cadeva a terra, impedendogli poi di rialzarsi». E davanti a questa scena nessuno dei presenti si muove, nessuno interviene. Poiché la situazione stava degenerando, è proprio la vigilessa Querciolini, che si era fermata a una decina di metri, a chiamare subito i carabinieri.

«Sì, sono stati i militari, successivamente, a denunciarli: lui e il suo amico (per resistenza a pubblico ufficiale). Io non ho fatto nulla, né sono stato chiamato in Procura per testimoniare. Anzi, l’aspetto giudiziario l’ho proprio ignorato e non so neppure quale sia stato il suo iter. Di certo c’è che io Pincarelli non l’ho più rivisto, né ci tengo ad incontrarlo. Se il giudice non avesse emesso un decreto penale di condanna e si fosse andati a processo, sicuramente ci saremmo ritrovati in Tribunale. Ma forse è meglio così». Ma ad Artena come era arrivato? «Non lo so. Credo che non avesse neppure la patente – risponde Latini – per cui penso che Pincarelli ad Artena sia stato accompagnato dal suo amico. Ma è una mia deduzione, perché i documenti non me li ha dati».

Sono attimi difficili da raccontare. Ma non è finita qui. Perché, una volta a casa, non è stato facile riferire l’accaduto ai figli. Aperta la porta, ha pensato a come cercare le parole giuste; ma i social, come spesso avviene, erano arrivati prima: «I miei figli sapevano già tutto da Facebook» ricorda. Ma l’aggressione sarebbe finita lì se, due settimane dopo, non fosse giunta la notizia dell’arresto dello stesso Pincarelli, dei fratelli Bianchi e di Francesco Belleggia. «L’aggressione e l’uccisione di Willy Monteiro Duarte è di una tristezza infinita - commenta Latini -. Succede quando si perde di vista il rispetto: da quello per la divisa , a quello per la vita umana».

Daniele Molteni per leggo.it il 30 settembre 2022.

Omicidio di Willy Monteiro. Sono arrivate le motivazioni della sentenza. «L'irruzione dei fratelli Bianchi sulla scena di una disputa sino ad allora solo verbale, e comunque in fase di spontanea risoluzione, fungeva da detonatore di una cieca furia». 

È quanto scrivono i giudici della Corte d'Assise di Frosinone nella motivazioni della sentenza con cui hanno disposto l'ergastolo per i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, la condanna a 23 anni per Francesco Belleggia e 21 anni per Mario Pincarelli, accusati della morte di Willy Monteiro Duarte, ucciso a Colleferro, tra Roma e Frosinone, il 6 settembre 2020, una sera come tante nel cuore della movida. 

«Omicidio iniziato con un calcio al petto»

Per i giudici «l'azione violenta, invero già in atto in quanto i due fratelli si erano fatti largo fra la folla a spintoni e manate, a quel punto otteneva ulteriore impulso. I quattro si compattavano a falange ed avanzavano in modo sincrono, impattando contro il corpo del povero Willy che si era appena intromesso per capire cosa stesse accadendo». 

Secondo i magistrati «è proprio in quel momento che egli veniva colpito da Gabriele Bianchi con un violentissimo calcio frontale al petto portato con tecnica da arti marziali che lo sbatteva contro un'auto in sosta.

E il tentativo del povero ragazzo di rialzarsi veniva respinto dapprima con un pugno del medesimo Gabriele Bianchi mentre il fratello con un calcio neutralizzava il tentativo del Cenciarelli di correre in aiuto di Willy e, poi, da calci e pugni inferti da tutti e quattro gli imputati, finanche mentre il ragazzo era inerme a terra; il tutto nel brevissimo volgere di pochi secondi. Quindi i quattro correvano via e salivano in auto dandosi a fuga precipitosa».

Fratelli Bianchi, le motivazioni della sentenza sull’omicidio Willy: «Una furia cieca». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.

I giudici della Corte d’Assise di Frosinone che hanno condannato all’ergastolo Marco e Gabriele Bianchi: «Azione a falange, calcio frontale al povero Willy con tecnica da arti marziali» 

Omicidio «volontario» perché i fratelli Marco e Gabriele Bianchi con i loro amici (Francesco Belleggia, Mario Pincarelli) accettarono il rischio che Willy Monteiro Duarte potesse morire. Omicidio per «futili motivi» perché s’intervenne «con una furia cieca del tutto fuori contesto e inutile» contro un ragazzo inerme. Settantaquattro pagine di motivazioni con le quali la Corte d’Assise di Frosinone, presieduta da Francesco Mancini, spiega i due ergastoli decisi contro i fratelli di Artena e archivia il delitto di Colleferro come, ragionevolmente (il movente è rimasto parzialmente inesplorato), un’iniziativa. volta ad «affermare attraverso l’uso brutale della violenza fisica» il «predominio» e la «supremazia» di alcuni «nel loro ambito territoriale». Respinta come poco convincente la linea difensiva degli imputati e particolarmente di Gabriele Bianchi al quale s’imputa di essersi «rifugiato dietro il clamore mediatico suscitato dalla morte di Willy che, a suo dire, avrebbe condizionato i testi» per spiegare l’accusa nei suoi confronti dei molti ragazzi presenti agli avvenimenti. Nessun condizionamento invece: «il disallineamento di molte delle deposizioni» dimostra che ciascuno ha raccontato la propria versione in piena libertà.

Da Vittorio Tondinelli a Michele Cerquozzi fino alla deposizione «neutra» nei confronti dei Bianchi di Omar Shabani, ciascuno ha portato acqua al mulino della verità. «Si è verificato esattamente l’opposto — sottolineano i giudici — di una scena proiettata in una sala cinematografica a spettatori seduti su comode poltrone. Si è infatti ingenerata un’azione convulsa, violenta, rapidissima, mobile...». Tutti concordano nel descrivere il protagonismo di Gabriele Bianchi e del fratello nell’azione. Il calcio fatale? Fu sferrato «usando entrambi gli arti come una molla e impiegando come leva un palo (della segnaletica, ndr). A monte di tale orgia violenta ci sono le personalità controverse dei due fratelli, cultori della ferocia: «Sui loro cellulari . — scrivono i giudici — sono state rinvenute immagini di animali in agonia, immagini nelle quali si fa riferimento a Scampia e si mima un colpo di pistola». Diverso il caso di Francesco Belleggia e Mario Pincarelli che, voltando pagina, hanno sostanzialmente ammesso i loro comportamenti e iniziato un percorso diverso (Belleggia, ad esempio, studia all’Università).

Nessun dubbio, poi, che i calci dei Bianchi, uno sferrato al torace, in aperta violazione delle regole delle mixed martial arts delle quali i fratelli si dicono seguaci, siano stati determinanti nel «complesso lesivo dal quale è conseguito non solo il trauma (irreversibile) di cuore, polmoni, timo e carotide, ma che ha travolto anche il diaframma, la milza, il pancreas e il fegato, oltre che il corpo, il naso e gli arti». Violando le regole della Mma i Bianchi accettavano il rischio di un omicidio concludono i giudici. «Un semplice grazie all’onestà intellettuale dei giudici» dicono, a distanza, dalla famiglia di Willy, assistita dall’avvocato Domenico Marzi. I giudici individuano in Gabriele Bianchi il primo vero responsabile di quella morte: «L’istruttoria ha dimostrato non solo che Gabriele Bianchi dava inizio al pestaggio di Willy colpendolo con un calcio frontale con tecnica da arti marziali, ma anche che egli si accaniva su di lui mentre era a terra».

Non convincente, dicono i giudici, la linea difensiva dell’imputato: «L’unica seria difesa articolata dal Bianchi posto di fronte al numero e alla persuasività delle deposizioni che gli attribuivano un ruolo di primaria importanza nel pestaggio di Willy, è stata quella di negare pervicacemente la veridicità di quanto ribadito da tutti costoro» attribuendo ai media il potere di influenzare i testimoni dei fatti. Il pestaggio da parte del quartetto (la coppia di fratelli e Francesco Belleggia e Mario Pincarelli, gli altri due condannati a 23 e 21 anni) viene descritto in questi termini: «I quatto si compattavano a falange e avanzavano in modo sincrono, impattando contro il povero Willy». Non c’è stato secondo i giudici alcun condizionamento dei testi, visto che le deposizioni hanno dimostrato un disallineamento delle loro versioni. Se i media avessero influenzato i ragazzi che hanno assistito a quella notte allora, scrivono i giudici, si sarebbe avuta un’omologazione della loro deposizione. Quindi si sottolinea «un ruolo attivo di Marco Bianchi» nella vicenda: «Non è poi privo di rilievo, il fatto che proprio lui (Marco Bianchi, ndr) si incarichi di neutralizzare con un calcio Cenciarelli che come più volte detto stava intervenendo per proteggere Willy».

Fratelli Bianchi, colpo di scena: nei guai il maggiore, cosa ha fatto con l'auto. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2022

Non solo Marco e Gabriele Bianchi, i due fratelli condannati all'ergastolo in primo grado per la morte di Willy Monteiro Duarte. Adesso anche il loro fratello maggiore Alessandro sarebbe nei guai. Dopo aver finito di lavorare al suo bistrot ad Artena, come si legge su La Repubblica, l'uomo si sarebbe messo alla guida della sua auto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti e alcol e si sarebbe diretto verso Rocca di Papa, per tornare a casa. Poco prima, però, sarebbe finito fuori strada, travolgendo alcuni segnali e finendo la sua corsa su una rotatoria. 

Dopo l'incidente, sul posto sono intervenuti i carabinieri della compagnia di Velletri, che pare si siano subito insospettiti sia per la natura dell'incidente sia per l'atteggiamento del 35enne. Il ristoratore avrebbe riportato solo delle contusioni. Poi, sottoposto al drug test, sarebbe risultato positivo. Secondo i medici, avrebbe assunto alcol e cocaina prima di salire in auto. Per questo sarebbe scattata la denuncia alla Procura della Repubblica di Velletri e gli sarebbe stata ritirata la patente.

Dopo la morte di Willy, ucciso a calci e pugni a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, Alessandro aveva difeso i due fratelli. E, intercettato nel carcere di Rebibbia, durante un colloquio con Marco - come sottolinea Repubblica - avrebbe detto: "A quel ragazzo là che è morto, gli hanno fatto la medaglia d'oro, tutto quanto, eh". Poi avrebbe aggiunto che al suo ristorante andava ormai solo gente di Colubro, la frazione in cui vive la famiglia Bianchi, definendo le persone di Artena "infami" e "pezzi di me**a".

(ANSA il 9 ottobre 2022) - E' stata accertata nel pomeriggio la morte di Romina Bannini, l'educatrice 36enne coinvolta nell'incidente sulla A4, costato la vita ad altre sei persone, nel furgone proveniente da Riccione e diretto in Carnia. Lo ha comunicato l'azienda Ulss della Marca Trevigiana, che ha concluso la procedura di accertamento della morte. Bannini era stata ricoverata all'ospedale Ca' Foncello di Treviso dopo essere stata estratta, viva ma in condizioni gravissime, dall'abitacolo del mezzo. I familiari, su richiesta espressa in passato da lei stessa, hanno acconsentito alla donazione degli organi.

Seduta nell'ultima fila di sedili, Romina era stata estratta venerdì ancora viva dalle lamiere del pulmino. Trasportata d'urgenza all'ospedale di Treviso, le sue condizioni erano risultate subito gravissime. 

Trentasei anni, Romina era coordinatrice dell'area educativa della cooperativa "Cuore 21" - il braccio operativo dell'associazione "Centro 21" di Riccione - realtà che si prende cura di persone con sindrome di Down e che lei stessa aveva contribuito a fondare. Bannini era in viaggio con la comitiva romagnola diretta a Lauco, in provincia di Udine, per partecipare all'iniziativa "Ventuno cuori in osteria" organizzata con il centro per l'educazione 'Zaffiria' di Rimini. Con lei le vittime dell'incidente di venerdì in A4 sono sette. Spezzate le vite di tutti gli occupanti del furgone che si è schiantato contro il tir. Si tratta di Massimo Pironi, ex sindaco di Riccione, alla guida del mezzo, e quattro ragazze e un ragazzo di "Centro 21-Cuore 21": Francesca Conti, Rossella De Luca, Maria Aluigi, Valentina Ubaldi e Alfredo Barbieri.

Antonella Gasparini per il “Corriere della Sera” il 9 ottobre 2022.  

Sguardi persi nel vuoto, abbracci, lacrime. «Ora che sono in Paradiso i nostri figli possono godere della parte migliore. Ora sono loro a doverci aiutare, a vegliare su di noi». Cristina Codicè, presidente dell'associazione «Centro 21» di Riccione, lo dice con un sussurro. Ha guidato i familiari dei sei morti dell'incidente sull'autostrada A4, da Riccione a San Donà per il riconoscimento. Ma lei stessa è mamma di una delle vittime, Maria Alugi, 34 anni. «I nostri figli devono darci la forza per affrontare tutto questo. Ne abbiamo bisogno», dice, circondata dagli altri fratelli, sorelle, genitori.

Ieri è stato il giorno del dolore delle famiglie (che hanno espresso il desiderio di celebrare un funerale unico per i ragazzi); dello strazio, dei malori all'uscita dell'obitorio dell'ospedale. I cinque amici - oltre a Maria Aluigi, Alfredo Barbieri, 53 anni, Francesca Conti di 25, Rossella De Luca, 37 anni, Valentina Ubaldi, 31 anni, quasi tutti affetti dalla sindrome di Down, e il loro accompagnatore, l'ex sindaco di Riccione, Massimo Pironi - sono morti nell'impatto contro un tir. La settima passeggera, l'educatrice R.B., 34 anni, che viaggiava con loro, è ricoverata gravissima a Treviso. 

All'uscita dell'obitorio, dove i parenti hanno affrontato il riconoscimento (le salme rientreranno domani), qualcuno si è sentito male ed è stato soccorso. Ad accompagnare mamme, papà, fratelli e sorelle, il parroco di Riccione don Alessio, due psicologhe e, con la presidente Codicè, la sindaca di Riccione Daniela Angelini.

«È una tragedia immane - dice - qualcosa che va al di là della normale sopportabilità, l'associazione è una realtà conosciuta». Angelini ha ricordato con commozione l'ex sindaco Pironi che, terminato il mandato di primo cittadino, era tornato a dedicarsi all'associazione nata per seguire i portatori della sindrome di Down. 

«Generoso ed entusiasta, ha dedicato la vita a questa realtà in cui aveva trovato una seconda famiglia. L'avevo incontrato proprio il giorno prima», ricorda la sindaca, che ha proclamato tre giorni di lutto cittadino. Era lui venerdì pomeriggio alla guida del furgone dell'associazione che doveva portarli a Lauco (Udine) alla convention sui progetti dedicati alle persone con sindrome di Down. Il mezzo è finito ad alta velocità contro l'autoarticolato che procedeva lento e che aveva frenato, si è infilato sotto il tir ed è rimasto schiacciato con i passeggeri incastrati nell'abitacolo.

La Polizia stradale non ha trovato segni di frenata. Venerdì in quel tratto a tre corsie dell'A4, nei pressi dello svincolo di San Donà-Noventa di Piave, c'erano rallentamenti per un altro incidente con un'auto andata a fuoco. La Procura di Venezia ha aperto un fascicolo d'indagine per omicidio stradale, un atto formale: di fatto, con la morte del possibile responsabile dell'incidente, non c'è nessuno da perseguire. Il camionista croato che era alla guida del tir non risulterebbe indagato, il suo mezzo è sotto sequestro, ma per ora la ricostruzione è quella di una distrazione dell'autista del furgoncino. Sull'asfalto sono rimaste le giacche tolte e buttate nell'ultimo sedile per la giornata calda, piena di sole, le valigie, i portafortuna. E i sogni di chi viaggiava per la prima volta da solo, lontano da casa.

Clemente Pistilli per repubblica.it il 7 ottobre 2022.

Ubriaco e drogato, dopo aver finito di lavorare al suo bistrot ad Artena si è messo alla guida di un Fiat Doblò e si è diretto verso Rocca di Papa, per tornare a casa. Giunto in centro a Velletri, in piazza Garibaldi, è però finito fuori strada, ha travolto alcuni segnali e ha terminato la sua corsa su una rotatoria. 

Con un incidente stradale, avvenuto all'alba di martedì scorso, i Bianchi tornano al centro delle cronache. Questa volta a finire nei guai è stato Alessandro, fratello maggiore di Marco e Gabriele, quest'ultimi condannati all'ergastolo in primo grado per la morte di Willy Monteiro Duarte, massacrato a calci e pugni senza un perché a Colleferro, nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020. 

A una settimana di distanza dal deposito delle motivazioni di quella sentenza emessa dalla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone, Alessandro Bianchi si è reso protagonista dell'incidente. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della compagnia di Velletri, che si sono insospettiti per quello strano sinistro e per l'atteggiamento del 35enne. Il ristoratore ha riportato solo delle contusioni ma, sottoposto al drug test, è risultato positivo. 

I medici hanno stabilito che aveva assunto alcol e cocaina prima di salire in auto. Per lui è scattata così la denuncia alla Procura della Repubblica di Velletri e gli è stata ritirata la patente. Dopo la morte di Willy aveva difeso i due fratelli ed era stato intercettato nel carcere di Rebibbia mentre diceva a Marco, durante un colloquio: "A quel ragazzo là che è morto, a quello Willy gli hanno fatto la medaglia d'oro, tutto quanto, eh". E aveva aggiunto che al suo ristorante andava ormai solo gente di Colubro, la frazione in cui vive la famiglia Bianchi, definendo le persone di Artena "infami" e "pezzi di merda".

Oltre che per la morte di Willy "i gemelli", come vengono chiamati Marco e Gabriele Bianchi, hanno collezionato diverse altre accuse sempre per risse e pestaggi. I processi sono in corso e, per un giro di spaccio ed estorsioni tra Velletri, Lariano e Artena, sono già stati condannati anche in appello. In un processo sempre per rissa, nei pressi di un locale di Velletri, oltre a Marco, che sul ring dell'MMA veniva chiamato "Maldito", è imputato anche un quarto fratello, Fabio. Ora la denuncia per Alessandro.

Fratelli Bianchi, nuovo esame su Willy: la difesa vorrebbe rimettere in discussione le cause della morte. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022. 

I difensori del maggiore dei due fratelli di Artena, Gabriele, ottengono l’autorizzazione ad esaminare i campioni istologici conservati dopo l’autopsia

Una nuova consulenza sul corpo di Willy Monteiro Duarte. La ha accordata la Corte d’Assise di Frosinone accogliendo una richiesta in tal senso dei difensori di Gabriele Bianchi, il 28enne di Artena già condannato in primo grado all’ergastolo assieme a suo fratello Marco per l’omicidio del 21enne. L’esame dei «vetrini istologici preparati a seguito dell’esame autoptico» sarà effettuato da un consulente medico dei legali alla presenza del consulente della procura di eventuali altre parti interessate. Assieme ai due fratelli Bianchi lo scorso luglio i giudici hanno condannato a 23 anni Francesco Belleggia e a 21 Mario Pincarelli, loro complici nel pestaggio.

Si tratta di una mossa preparatoria a raccogliere nuove eventuali prove in vista dell’Appello, al quale la corte d’Assise rimanda. In particolare i difensori cercano margini per rimettere in discussione le cause della morte del ragazzo aggredito senza motivo in largo Santa Caterina nel corso di una discussione alla quale non partecipava. Ventisei tra i testimoni ascoltati dalla procura di Frosinone individuano in Gabriele Bianchi l’autore del calcio frontale, scagliato con la pianta del piede mentre caricava la spinta sull’altra gamba, che ha colpito Willy al torace. Un colpo che l’autopsia ritiene sufficiente, anche se considerato singolarmente, a causare il decesso del 21enne per arresto cardiaco (l’altro colpo mortale viene inferto con la mano «a taglio», una mossa di karate, alla carotide). Dall’esame dei tessuti i difensori di Gabriele Bianchi sperano di arrivare a risposte diverse sui tempi e le cause del decesso, arrivato praticamente subito al termine dei 50 secondi di pestaggio, senza che si facesse neanche in tempo a chiamare i soccorsi.

L’altra prova a scapito del loro assistito che gli avvocati puntano a ricavare da questi esami è quella sulla presenza di dna degli altri due imputati, in particolare quello di Francesco Belleggia, sulla cui scarpa destra sono state trovate tracce biologiche di Samuele Cenciarelli, l’amico che col suo corpo provava a far scudo a Willy. Gabriele e suo fratello Marco individuano nella loro ricostruzione, respinta in primo grado di giudizio, Belleggia e Pincarelli come coloro che hanno sferrato i colpi mortali a Willy, tra cui uno al suo volto quando il 21enne era già a terra, «tirato come un calcio di rigore». Una tesi ribadita dai Bianchi anche durante un loro colloquio in carcere che secondo la procura è stato però rivelatore della loro volontà di creare una falsa ricostruzione.

Rinaldo Frignani per corriere.it il 9 novembre 2022.

Secondo l’accusa avrebbero partecipato alla macabra esecuzione di un passero e di una pecora, uccisi a fucilate nel 2017 e nel 2019 nelle campagne di Artena. I carabinieri della compagnia di Colleferro hanno notificato a Marco Bianchi, 26 anni, condannato con il fratello Gabriele per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, al padre Ruggero, di 59, e ad altre due persone di 34 e 67 anni, l’avviso di conclusioni indagini che potrebbe preludere alla richiesta di rinvio a giudizio da parte dei pm del tribunale di Velletri. 

In particolare il 2 ottobre di cinque anni fa Marco Bianchi avrebbe, sempre secondo gli accertamenti condotti dai militari dell’Arma e le contestazioni della procura, esploso un colpo di fucile per disintegrare il volatile in precedenza catturato e lanciato in aria da un suo amico, anch’egli indagato. Due anni più tardi, invece, il padre avrebbe agito in concorso con il quarto indagato per uccidere una pecora che era stata precedentemente ferita. Ai quattro viene contestata anche la condotta della crudeltà nei confronti degli animali.

Omicidio Willy, i fratelli Bianchi vogliono l'assoluzione: "Sono specchio della nostra società. Sui media caccia al mostro".  Clemente Pistilli su La Repubblica il 10 dicembre 2022.

Le motivazioni della richiesta di appello. In primo grado i due sono stati condannati all'ergastolo per l'omicidio del giovane cuoco di Paliano. L'avvocata di "Maldito": "Testimoni inattendibili e ubriachi". E i difensori di Gabriele ipotizzano che alcune lesioni alla vittima siano state causate dai medici durante il massaggio cardiaco

Non sono attendibili i tanti testimoni che hanno descritto come è stato massacrato Willy Monteiro Duarte. Sono stati influenzati dai media e forse erano pure ubriachi. Non è poi chiara la causa della morte del 21enne di origine capoverdiana e al massimo si può parlare di un omicidio preterintenzionale, un incidente in pratica, causato da chi voleva sferrare solo un calcio o uno schiaffo e invece ha compiuto un assassinio. Con queste motivazioni, nell'appello depositato dall'avvocata Vanina Zaru, Marco Bianchi spera di veder annullata la condanna all'ergastolo che gli ha inflitto la Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone per la morte del giovane cuoco di Paliano, picchiato a morte nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 a Colleferro, nella zona della movida, dove si era fermato a chiedere a un amico in difficoltà se avesse bisogno d'aiuto.

"Maldito", come era chiamato l'imputato sul ring dell'MMA, la tecnica mista di arti marziali di cui era campione, punta a una nuova perizia, ad essere assolto o almeno a ottenere una sostanziosa riduzione della pena. Speranze che, con appelli articolati, nutrono anche gli altri tre imputati, il fratello Gabriele, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti di Artena.

L'avvocata Zaru definisce scarsamente credibili i giovani che hanno assistito alla morte di Willy Monteiro Duarte. "Il teatro dell’evento - sostiene la legale nel ricorso presentato - è un luogo scarsamente illuminato" e "le persone chiamate a testimoniare sono giovani che alle tre e mezza di notte si trovavano nei luoghi della cosiddetta movida. Un’indagine più accurata per comprendere chi e in che misura avesse quanto meno assunto alcolici, avrebbe probabilmente delineato lo scenario della reale attendibilità e della genuinità dei ricordi".

Poi l'affondo sulla stampa, "che dal primo istante ha ingaggiato una vera caccia al mostro, identificando Marco Bianchi come un soggetto pericoloso, perverso, violento". Per l'avvocata, non è stata fatta chiarezza sulla reale dinamica dei fatti, sul "contributo obiettivo" posto da ogni singolo imputato, non è stato neanche possibile avere una risposta "in termini certi" sulla causa della morte del 21enne e l’intera vicenda si è sviluppata in una manciata di secondi.

E le altre indagini su "Maldito"? La sua partecipazione alla "gang dello scrocchio", la chat in cui i fratelli Bianchi avevano postato anche foto in cui apparivano armati? "Circostanze assolutamente prive di pregio giuridico", "folklore e conversazioni di dubbio gusto". "Marco Bianchi - sottolinea l'avvocata Zaru - non è colto, ha gusti musicali di dubbio gusto, è calato in una realtà in cui è importante dare di sé, sui social, un’immagine di persona benestante e vincente, è rumoroso e per certi aspetti può apparire sgradevole. Ma oltre ad essere lo specchio della società in cui viviamo e in cui stiamo facendo crescere i nostri figli, non appare diverso da molti altri giovani che cercano di imitare stili di vita fatui, non contrastati, peraltro, da una risposta adeguata culturale da parte di nessuno". E insieme ai suoi familiari sarebbe pure stato vittima di "una sistematica volontà di demolizione dell’essere umano che non è degna di un Paese civile".

A chiedere l'assoluzione è anche Gabriele Bianchi. I suoi avvocati, Valerio Spigarelli e Ippolita Naso, battono sulla "forte eco mediatica" della vicenda, arrivando a sostenere che avrebbe fatto venir meno l'imparzialità dei giudici, con una sentenza che, sul fronte medico-legale, "fa lo shopping tra le diverse tesi avanzate dai consulenti della parte pubblica e di quella privata". I due difensori insistono su un calcio sferrato da "Maldito" a Willy Monteiro Duarte e sui colpi inflitti al giovane da Belleggia e Pincarelli, sospettando pure che alcune lesioni riscontrate sulla salma della vittima siano state causate dal massaggio cardiaco a cui è stata sottoposta dai medici. Ma soprattutto sostengono che non è stato Gabriele l'autore del colpo fatale.

Una tesi quest'ultima portata avanti anche dall'avvocata di Pincarelli, Loredana Mazzenga, che ha chiesto l'assoluzione o uno sconto di pena per il suo assistito, condannato a 21 anni di carcere. Pincarelli ha ammesso di aver dato alcuni pugni a Willy, ma l'avvocata evidenzia che non sarebbero stati quelli a uccidere il giovane.

A ribadire ancora una volta di essere totalmente estraneo all'aggressione al 21enne è stato infine Francesco Belleggia, condannato a 23 anni di carcere. Il suo difensore, l'avvocato Vito Perugini, ha ricordato che ad accusare l'imputato di aver colpito Willy, sferrandogli un violento calcio alla testa, sono stati soltanto i tre amici dei Bianchi presenti quella sera a Colleferro, Vittorio Tondinelli, Omar Shabani e Michele Cerquozzi, e che quelle testimonianze sarebbero caratterizzate da "assoluta inattendibilità". Testi che avrebbero avuto solo l'intenzione di scaricare su Belleggia per far allontanare le accuse peggiori dai fratelli Bianchi.

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado per “Il Messaggero” il 12 dicembre 2022.

Marco e Gabriele Bianchi, secondo i loro rispettivi difensori, vanno assolti dalla Corte d'Appello di Roma dall'accusa di aver ucciso Willy Monteiro Duarte a Colleferro, il 6 settembre del 2020, perché le testimonianze raccolte nel processo di primo grado sono ritenute contraddittorie e poco attendibili, e non c'è chiarezza su quale sia il colpo mortale. 

Nei motivi di impugnazione di entrambi i fratelli si legge tra le righe che le responsabilità del decesso, eventualmente, sarebbero da far ricadere sugli altri due imputati. Il 4 luglio scorso i Bianchi sono stati condannati all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Frosinone, perché, in concorso con Mario Pinciarelli e Francesco Belleggia Francesco, avrebbero colpito il 21enne violentemente con pugni e calci al capo, al collo, al torace e all'addome, anche quando la vittima si trovava a terra, priva di sensi e non in grado di opporre difesa.

Secondo l'avvocato Vanina Zaru del foro di Firenze, difensore di Marco Bianchi, [….] riguardo i giovani testimoni, «un'indagine più accurata per comprendere chi e in che misura avesse quanto meno assunto alcolici, avrebbe probabilmente delineato lo scenario della reale attendibilità e della genuinità dei ricordi».

A peggiorare la situazione avrebbe contribuito, secondo il legale, «la versione offerta dalla stampa, che dal primo istante ha ingaggiato una vera caccia al mostro identificando Marco Bianchi come un soggetto pericoloso, perverso, violento».

«Non è colto, ha gusti musicali di dubbio gusto, è calato in una realtà in cui è importante dare di sé - sui social - un'immagine di persona benestante e vincente, è rumoroso e per certi aspetti può apparire sgradevole. Ma oltre ad essere lo specchio della società in cui viviamo e in cui stiamo facendo crescere i nostri figli, non appare diverso da molti altri giovani che cercano di imitare stili di vita fatui, non contrastati, peraltro, da una risposta adeguata culturale da parte di nessuno». 

Anche secondo gli avvocati romani Ippolita Naso e Valerio Spigarelli, il processo di primo grado «ha avuto una vasta eco mediatica, da un lato con una abnorme ed illegittima pubblicità delle acquisizioni probatorie, d'altro lato con la mostrificazione di alcuni dei protagonisti, primo fra tutti l'imputato Gabriele Bianchi», che i due legali assistono. […] 

Secondo Naso e Spigarelli «la sentenza è fondata su di una lettura preconcetta, e comunque erronea, degli esiti probatori, favorita anche dalla mancata assunzione di una perizia medico legale disposta dal giudice». Gabriele Bianchi «non ha colpito la vittima e non ne ha cagionato la morte, intervenuta a causa di un colpo al collo che persino la sentenza non gli addebita», si legge nell'atto di appello.

 «Se il colpo al torace inferto con il primo calcio sferrato a Willy e attribuito a Gabriele avesse realmente determinato una commozione cardiaca, la vittima avrebbe perso istantaneamente coscienza, il suo cuore avrebbe smesso di battere e non si sarebbe potuto rialzare in piedi né camminare». Tra l'altro, secondo il collegio difensivo, «non è affatto un colpo proibito dalle arte marziali». Su questa linea anche l'avvocato Zaru: «nessuno ha descritto l'agire di Marco Bianchi come una sorta di killer armato dei propri arti». […]

“Testimonianze contro fratelli Bianchi cambiate nel tempo”, parla l’avvocato dei condannati per la morte di Willy Monteiro. Paolo Comi su Il Riformista il  14 Dicembre 2022

Avvocato, cosa c’è negli atti che avete depositato come difensori in difesa di Gabriele Bianchi? Abbiamo letto di “appello shock dei difensori”.

Temo purtroppo che il solo fatto che il mostro faccia appello, si dichiari innocente del reato di omicidio doloso, contesti le testimonianze e le consulenze, per la stampa italiana sia scioccante. Peraltro, non è una novità, visto che anche nel corso del processo aveva detto di non aver colpito Duarte. Il fatto è che in certi casi la stampa interpreta alla lettera il sentire comune: sei un mostro? non hai diritti, neppure quello di difenderti. Vale per Bianchi, per i capimafia, per tutti quelli distrutti sui media prima di essere giudicati. Premesso che con l’avvocato Ippolita Naso sono intervenuto al momento dell’appello, qui la faccenda non si esaurisce nella mostrificazione dell’imputato, che pure c’è stata, ma nell’alterazione dei meccanismi del giudizio.

Quali meccanismi del giudizio sarebbero stati alterati?

Analizzando le carte del processo ci siamo accorti che molte delle dichiarazioni testimoniali le quali, anche in maniera contraddittoria tra loro, sono state poste alla base della condanna, sono progressivamente cambiate nel tempo in virtù delle informazioni che, illecitamente, comparivano sui media. Addirittura, c’è stato chi, interrogato a poche ore dal fatto aveva ammesso di non essere in grado di ricostruire l’episodio, o di riconoscere Gabriele, poi nel dibattimento gli ha attribuito il colpo letale.

Ma i testimoni sono tanti!

Quanto ho detto vale per un bel numero di essi. L’intera azione è durata quaranta secondi, di notte, in posto poco illuminato. Cioè in condizioni tali da rendere le testimonianze oculari per definizione terreno di informazioni da sottoporre ad un vaglio rigoroso. Non bisogna essere giuristi, o esperti di psicologia giudiziaria. C’è un teste che sulle prime non sa dare dettagli, poi nel corso delle indagini identifica Gabriele Bianchi come colui che ha colpito Duarte, perché l’aggressore aveva i capelli biondi. Il fatto è che Gabriele Bianchi quella sera non aveva i capelli di quel colore, però li aveva in alcune delle foto che hanno iniziato a girare subito sul web. Il teste riconosce un particolare inesistente. Lo fa in buona fede, si badi. Così come ci sono molti testi che arricchiscono i loro ricordi man mano che passa il tempo e si moltiplicano le informazioni sulle chat e sui social.

La sentenza assume che questo meccanismo di arricchimento del ricordo sia perfettamente normale.

È sbagliato, è una massima di esperienza che contraddice le nozioni più elementari delle scienze cognitive che dimostrano, anche in maniera sperimentale, che questa è una affermazione errata: se arricchisci il ricordo è perché hai avuto altre informazioni rispetto a quello che hai visto. La cosa normale è che si ricordi meglio prima. Dopo il ricordo sfuma. È su questa considerazione che si fonda anche la regola del processo che permette di rammentare ai testimoni le precedenti dichiarazioni, il così detto meccanismo delle contestazioni. Succede spesso che la maggior parte dei cronisti giudiziari chieda gli atti di appello ai difensori (quando lo fa) e poi va a farseli spiegare dall’accusa, pubblica e privata, e alla fine escono fuori titoli come quelli che stiamo commentando, che non sono cronaca ma propaganda. Nel nostro atto si indicano cose serie – come, ad esempio, il fatto che non ci risultano depositate prove documentali di cui si è discusso nel processo – che avrebbero dovuto muovere i cronisti a chiederci lumi sulla questione, Lei li ha sentiti? Io no, solo una giornalista prima di pubblicare ha chiesto spiegazioni.

Quali sono gli altri temi delle impugnazioni?

Ce ne sono assai, e ne discuteremo nel processo perché i processi li faccio in tribunale, qui sto solo dicendo che l’informazione su questo caso è una schifezza e fa folklore sugli appelli.

Cosa avete contestato?

Le risultanze medico legali, sia nel metodo che nel merito. Le abbiamo contestate attraverso l’opinione del professor Costantino Ciallella che spiega come la tesi della cosiddetta commotio cordis, cioè il colpo al petto che si attribuisce a Gabriele Bianchi – e che, lui sia chiaro, nega di aver dato – è comunque contraddetta dal fatto che, proprio i testi, raccontano che dopo quel colpo la vittima si è rialzata ed ha fatto dei gesti. Cosa impossibile se fosse vera la commotio. Abbiamo dimostrato che la tesi del colpo mortale, quasi rituale, che avrebbe dettato “le regole di ingaggio”, come si dice in sentenza per giustificare il dolo eventuale di omicidio volontario ed escludere la preterintenzione, è fondata su di una falsa informazione che vuol quel colpo vietato persino nelle arti marziali. Non è vero, sarebbe bastato aprire un manuale della federazione per verificarlo.

Cosa chiedete?

Chiediamo che si faccia un processo giusto, e tale non è quello che ho letto: l’enormità della pena lo dimostra. Hanno riconosciuto il dolo eventuale e dato l’ergastolo, già questo fa riflettere. E alla stampa chiediamo di lavorare con onestà, leggendo le carte senza occhiali foderati dai preconcetti, e anche di lasciar da parte gli algoritmi quando hanno in mano il destino delle persone.

Cosa c’entrano gli algoritmi?

Glielo spiego subito perché dimostra che sbatter il mostro in prima pagina non è, soltanto, subcultura giudiziaria ma è dovuto anche a motivi più prosaici. Questa estate, quando sono stato nominato, su di un quotidiano hanno scritto, inventandosi la circostanza di sana pianta, che il mio nome era stato consigliato a Bianchi da un altro detenuto, mio cliente, da poco giudicato per l’omicidio di Luca Sacchi che aveva evitato all’ergastolo. Risultato? Una balla costruita solo sulla coincidenza del difensore e un titolo pulp secondo il quale il “Killer di Sacchi consiglia a Bianchi il suo avvocato… per evitare l’ergastolo”. Ora, al di là del fatto che la cosa non era vera, vederla pubblicata per diversi giorni di fila mi ha mosso, oltre a fargli i complimenti per la fantasia, a chiedere ai cronisti di quella testata cosa ci sarebbe stato di tanto interessante se un detenuto avesse consigliato ad un altro il proprio avvocato, visto che succede mille volte al giorno in tutte le carceri italiane. Sa la risposta? “Avvocato ha ragione, non è una notizia ma nella riunione del mattino il capo ci ha detto che l’algoritmo segnala che i Bianchi sono in cima ai click, ergo tocca scrivere di loro.” Il bello è che l’esistenza dell’”algoritmo capo redattore” mi è stato confermato da altri cronisti giudiziari. Anche Michele Serra, in prima pagina su quello stesso giornale, si è chiesto se con i fratelli Bianchi non si fosse un po’ esagerato. “Non gliela faccio più di vedere le loro facce ogni volta che accendo il computer” ha scritto. “Il male va mostrato” l’ineffabile risposta del suo direttore. Alla faccia della corretta informazione e della presunzione di innocenza scritte in Costituzione, evviva l’algoritmo che ci fa incassare quattrini. E non mi risponda “È la stampa bellezza!” perché la stampa dovrebbe essere una cosa più seria.

Paolo Comi

Casale Monferrato, ucciso di botte come Willy da una gang di giovanissimi. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022.

Fermato un ventenne di origine moldava. La sorella della vittima: «Era un bravo ragazzo» 

Cristian Martinelli aveva 35 anni

Accerchiato e poi picchiato a sangue. Fino alla morte. Non solo preso a pugni e calci ma anche massacrato con una spranga di ferro. Cristian Martinelli, 35 anni, è morto dopo due giorni di agonia. Con il presunto assassino, Nicolae Capstrimb, 20enne di origine Moldava, fermato domenica mattina dai militari guidati dal colonnello Giuseppe Di Fonzo, si conoscevano. Così come il resto della gang di dieci giovani, tra cui anche una ragazza, tutti di origine marocchine, moldave ma residenti nel Casalese, che da tempo lo importunavano. Proprio come accaduto venerdì scorso. Il 35enne, che avrebbe compiuto gli anni l’altroieri, era arrivato in stazione da Morano, nel Vercellese, dove viveva con la famiglia, per andare a fare una visita di controllo.

«Aveva avuto qualche problema di droga in passato - raccontano alcuni giovani seduti sulle panchine che circondano la stazione, così come conferma anche la sorella Valentina-. Ma ne era uscito e stava prendendo in mani la sua vita. Ora era a posto. Era una persona buona. Non meritava di morire così». Una cittadina tranquilla Casale Monferrato che, tutto d’un tratto, sabato mattina, si è riscoperta simile a Colleferro dove il giovane Willy era stato ucciso dalla violenza del branco. Anche Cristian è stato vittima del gruppo che se la prende con la persona più fragile. A fare scattare la furia del gruppo, con ogni probabilità, una parola di troppo detta a quella ragazza già nota, come tutti gli altri, alle forze dell’ordine. Erano le 13.30 di venerdì, la piazza era piena di studenti che facevano ritorno a casa con i bus quando è scoppiata una rissa. «Per quello è stato richiesto l’intervento delle forze dell’ordine — raccontano Alby e Vere che gestiscono la tabaccheria antistante la stazione —. Da quando non ci sono più Polfer e le telecamere sono solo nel piazzale della stazione questa è diventata zona franca».

Così tra i binari i ragazzi fanno i bulletti tra una richiesta di sigaretta e un’altra. «Ma nessuno si aspettava la morte di un giovane». Cristian ci ha messo due ore per accorgersi di stare male. Solo alle 16 è stato soccorso da alcuni pensionati che chiacchieravano nella vicina Piazza Vittorio Veneto. Barcollava, così lo hanno portato in ospedale dove è morto dopo un’agonia di due giorni. Prima di spegnersi per sempre e riuscito a raccontare ciò che gli era accaduto e soprattutto a indicare il pestaggio come causa di quelle ferite che aveva sul corpo. «E poi mancavano i suoi occhiali da sole — racconta la sorella —. Ma non posso credere che quel ragazzo abbia fatto tutto da solo. Mio fratello aveva un rene spappolato e varie emorragie». Sono stati proprio quegli occhiali uno degli indizi che hanno portato i carabinieri di Alessandria e di Casale Monferrato, coordinati dalla procura di Vercelli, al giovane moldavo, fermato prima per lesiono aggravate e poi, dopo qualche ora, diventate omicidio volontario. Questa mattina è intanto atteso l’interrogatorio di garanzia. Non è escluso che le indagini possano portare a nuove denunce.

Andrea Zanello per “La Stampa” il 19 ottobre 2022.

È morto dopo due giorni di agonia, dopo essere stato picchiato selvaggiamente all'interno della stazione ferroviaria di Casale Monferrato. Lunedì Cristian Martinelli avrebbe compiuto 35 anni. Le ultime parole che è riuscito a dire nel tardo pomeriggio di venerdì a medici e soccorritori raccontavano di un'aggressione subita. Poi ha perso i sensi e non si è più svegliato. 

Aveva la milza spappolata e un rene compromesso, i medici dell'ospedale di Casale lo hanno intubato e portato nel reparto di rianimazione, intuendo subito che le sue condizioni erano disperate.

Un'indagine lampo del personale del nucleo investigativo del reparto operativo di Alessandria e della compagnia di Casale ha portato al fermo di un ventenne moldavo con diversi precedenti penali. È residente a Casale: sarebbe stato lui a colpire Cristian Martinelli fino ad ucciderlo. È accusato di omicidio preterintenzionale: oggi si svolgerà l'interrogatorio di garanzia, davanti al giudice per le indagini preliminari. 

Sono sconosciuti per ora i motivi dell'aggressione in cui Cristian Martinelli è stato picchiato, pare con un'arma impropria: un bastone o una spranga, forse con un posacenere a tubo. Sarebbe stato lasciato a terra e colpito anche mentre era inerme. Si parla di futili motivi su cui bisogna ancora fare luce.

Ci sarebbero, però, anche altri indagati, elemento che apre alla possibilità che il ventenne abbia agito assieme ad altri oppure che qualcuno abbia cercato di aiutarlo. E c'è l'ombra dell'azione di una baby gang: «In molti in questi giorni mi hanno chiamato dicendomi che nella zona della stazione di Casale c'è un gruppo di ragazzi che importuna la gente. Anche mio fratello aveva avuto qualche problema, tanto che mi aveva detto che in passato si era rivolto ad una pattuglia di carabinieri», ha detto Valentina Martinelli, sorella della vittima, dopo aver saputo della morte di Cristian.

«Sono sollevata per questo provvedimento della magistratura – ha dichiarato ieri dopo la notizia del fermo –, ma non credo che si possa picchiare una persona e ridurla in quel modo da soli. Se ci sono altri responsabili devono essere individuati. Una vicenda del genere non può restare impunita». 

A questo proposito, «Non tutte le bestie sono in gabbia» recita uno striscione comparso ieri sera in stazione a Casale, vicino ad un altro che chiede giustizia. Gli indizi raccolti dai carabinieri, però, per ora hanno portato solamente ad un arresto. I militari si sono recati a Morano nell'abitazione dove la vittima viveva con i genitori. Gli investigatori avrebbero recuperato la custodia di un paio di occhiali da sole di proprietà di Cristian Martinelli. Quegli occhiali non sarebbero stati trovati insieme al suo proprietario, ma altrove. 

Altre risposte importanti ed elementi utili all'inchiesta condotta dalla Procura di Vercelli e coordinata dal sostituto procuratore Anna Caffarena potrebbero arrivare dall'autopsia sul corpo della vittima, disposta nei prossimi giorni, per stabilire quanti e quali colpi siano stati fatali a Cristian Martinelli. L'uomo si era recato a Casale per ragioni mediche: aveva appuntamento con una dottoressa dopo un passato difficile: «Non c'entra la droga, mio fratello stava uscendo da quel mondo, voleva riprendere in mano la sua vita», ha concluso Valentina.

Massacrato di botte alla stazione: fermato moldavo. Cristian Martinelli, 34 anni, è stato picchiato con una spranga. È caccia ai complici del killer. Nazareno Dalle il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Picchiato tanto da ucciderlo, all'interno della stazione ferroviaria di Casale Monferrato. Un'aggressione violenta, in cui sarebbe stato usato anche qualche oggetto: una spranga o altri attrezzi recuperati in stazione.

Cristian Martinelli, 35 anni, è morto dopo due giorni di agonia nell'ospedale della cittadina piemontese in provincia di Alessandria. La Procura di Vercelli, competente per territorio, ha coordinato l'indagine che per ora ha portato al fermo di un giovane moldavo, poco più che maggiorenne e residente in città. È accusato di omicidio preterintenzionale. I carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Alessandria e della compagnia di Casale in pochi giorni hanno raccolto indizi che hanno condotto al giovane, ritenuto autore dell'aggressione avvenuta venerdì. La vittima era stata trovata sola e dolorante. Una volta soccorso, prima di perdere i sensi per non risvegliarsi più, il trentacinquenne aveva detto di essere stato aggredito e picchiato.

Era arrivato a Casale Monferrato da Moranao, sempre in provincia di Alessandria, dove viveva con i genitori. All'ospedale Santo Spirito Cristian Martinelli era stato portato subito in rianimazione: aveva la milza spappolata e un rene danneggiato. Una situazione disperata: è morto domenica senza riprendere più conoscenza, ma le attività dei carabinieri per trovare i responsabili del pestaggio nel frattempo erano già partite. Nella stessa giornata era stato fermato il ragazzo ritenuto responsabile del pestaggio.

L’autopsia sul corpo del trentacinquenne, che ha avuto almeno un’emorragia interna, potrà dare informazioni più precise sulle cause della morte, su quali colpi possano essere stati fatali e con cosa siano stati inferti, se a mani nude o con altri oggetti. Non c'è un movente: si parla di futili motivi per ora. L'interrogatorio di garanzia del fermato, in programma nella giornata di oggi, potrebbe fornire una spiegazione a una morte che rimane senza una motivazione solida. L'indagine resta aperta e non è escluso che possano essere individuate altre persone coinvolte. La sorella della vittima, alcuni pensionati che si ritrovano nei pressi della stazione e i commercianti della zona hanno raccontato di un gruppo di giovanissimi che tormenta chi si aggira da quelle parti. L'azione di una baby gang o l'aggressione di un branco però resta solamente un'ipotesi senza conferme per ora.

Sparatoria di Roma. Il premier Meloni ricorda l’amica Nicoletta uccisa da un folle: “Bella e felice, non è giusto morire così”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Dicembre 2022

A perdere la vita, oltre a Nicoletta Golisano, la segretaria contabile del consorzio Valleverde, Elisabetta Silenzi, 55 anni, e la consigliera Sabina Sperandio, 71 anni. Nella tragica mattinata romana sono rimaste ferite anche quattro persone, tra cui una donna è stata colpita al collo, in arresto cardiaco venendo rianimata in ambulanza, trasportata codice rosso all' Ospedale Sant’Andrea. Un’altra, ferita al torace trasportata codice rosso al Policlinico Umberto I. Poi altre due vittime, un ferito al volto trasportato codice rosso al Policlinico Gemelli. E infine un cardiopatico trasportato all' Ospedale Pertini in codice rosso per malore e dolore toracico.

Con un lungo e commosso post su Facebook il premier scrive: “Nicoletta era una mamma protettiva, un’amica sincera e discreta, una donna forte e fragile allo stesso tempo. Ma era soprattutto una professionista con un senso del dovere fuori dal comune. È stato quel senso del dovere a portarla lì, di domenica mattina, dove un uomo la aspettava per ucciderla a colpi d’arma da fuoco, insieme ad altre due donne, durante una riunione di condominio a Roma“. Sono queste le parole di sfogo di  Giorgia Meloni per la morte dell’amica Nicoletta Golisano, 50 anni, revisore dei conti, una delle tre vittime rimaste uccise nella sparatoria nel quartiere di Fidene di Roma.

“Nicoletta era mia amica . Lascia il marito Giovanni e uno splendido bambino di dieci anni, Lorenzo. Con la sua, altre famiglie, alle quali esprimo tutta la mia vicinanza, sono state distrutte” scrive la premier che in serata ha postato su Facebook una foto sorridente assieme a Nicoletta Golisano ricordandola nella didascalia, senza darsi pace per quanto accaduto. “L’uomo che ha ucciso queste tre donne innocenti, e ha ferito altre tre persone, è stato fermato e spero la giustizia faccia quanto prima il suo corso –sottolinea Giorgia Meloni –. Il poligono dal quale aveva sottratto la pistola (il porto d’armi gli era stato rifiutato) è sotto sequestro. Eppure la parola “giustizia” non potrà mai essere accostata a questa vicenda. Perché non è giusto morire così“. “Nicoletta era felice, e bellissima, nel vestito rosso che aveva comprato per la festa del suo cinquantesimo compleanno, qualche settimana fa – conclude il presidente del Consiglio –. Per me sarà sempre bella e felice così. Addio Nico. Ti voglio bene“.

Tutto è successo in un incontro tra condomini, organizzato nel bar “Il posto giusto” alla periferia della Capitale, terminato nel sangue, che è stato posti sotto sequestro per gli accertamenti balistici mentre i militari ascoltavano i sopravvissuti. Una vera e propria strage è stata evitata grazie a Silvio Paganini, l’ “eroe” 67enne che è saltato addosso ed immobilizzato il killer prima dell’arrivo dei Carabinieri i quali lo hanno preso in consegna il killer, Claudio Campiti, 57 anni, arrestato per portarlo nella caserma del Nucleo radiomobile di Roma  in attesa della convalida del fermo poi emesso dal pm Giovanni Musarò della Procura di Roma. Nelle sue tasche trovati un totale di 170 proiettili ed anche un secondo caricatore.

“Eravamo già tutti seduti nella sala, quando si è aperta la porta, è entrato quell’uomo con una pistola in pugno. La stringeva con due mano e mirava dritto ai volti”. racconta Paganini con accanto la moglie, e gli altri parenti accorsi in ospedale. Campiti ha tentato di uccidere anche Paganini. “Abbiamo visto la morte in faccia – aggiunte il 67enne, che è rimasto ferito alla guancia da un proiettile – in un attimo ha esploso quattro colpi, stava per sparare ancora. Non ho avuto il tempo di riflettere, gli sono saltato addosso e ho provato a fermarlo prima che uccidesse ancora”.

“Io ho sentito almeno sei colpi, ma saranno stati di più, non ho capito nulla, vedevo la gente cadere per terra, c’era tanto sangue”, racconta Gianni un altro condomine superstite dall’assemblea condominiale, che insieme ad alcuni soci si sono avventati contro l’improvvisato killer “Si sono tutti gettati su di lui, lo hanno fermato altrimenti i morti sarebbero stati ancora di più – spiega Gianni – una persona in particolare è stata un eroe, è uno dei nostri consiglieri. Ha cercato di prendere la pistola ma lui ha continuato a sparare e lo ha colpito alla guancia. Il consigliere ha continuato a lottare ugualmente e lo ha disarmato, poi ha soccorso le persone senza neanche farsi medicare”.

A perdere la vita, oltre a Nicoletta Golisano, la segretaria contabile del consorzio Valleverde, Elisabetta Silenzi, 55 anni, e la consigliera Sabina Sperandio, 71 anni. Nella tragica mattinata romana sono rimaste ferite anche quattro persone, tra cui una donna è stata colpita al collo, in arresto cardiaco venendo rianimata in ambulanza, trasportata codice rosso all’ Ospedale Sant’Andrea. Un’altra, ferita al torace trasportata codice rosso al Policlinico Umberto I. Poi altre due vittime, un ferito al volto trasportato codice rosso al Policlinico Gemelli. E infine un cardiopatico trasportato all’ Ospedale Pertini in codice rosso per malore e dolore toracico. 

“Aveva una pistola con 16 colpi in canna, un altro caricatore in tasca e una busta di proiettili”. La pistola utilizzata dal killer era stata noleggiata al poligono di tiro e mai restituita. Inoltre tempo fa aveva chiesto il porto d’armi ma gli era stato negato. Il “rigetto” della domanda era arrivato grazie alle informazioni fornite dai Carabinieri del luogo dove viveva, in provincia di Rieti, che avevano riferito delle liti in atto con il Consorzio Valleverde, l’urbanizzazione sul lago del Turano, nel Reatino, dove abitava Campiti e si cui era in corso la riunione di condominio.

L’immagine di quella Glock, l’arma impugnata da Claudio Campiti, è rimasta impressa nella memoria del signor Bruno, socio anziano del consorzio Valleverde, scampato per un vero e proprio miracolo alla mattanza di domenica mattina, quando l’uomo ha sparato durante l’assemblea di condominio uccidendo tre persone e ferendone altre tre. Quello che il consorziato sopravvissuto non riesce a spiegarsi è come faceva quell’uomo con evidenti problematiche alle spalle ad avere una pistola, considerando anche che i Carabinieri avevano rigettato la sua richiesta di avere un porto d’armi.

I Carabinieri hanno recuperato anche l’arma una Glock calibro 45 sottratta in un poligono di tiro a Tor di Quinto, hanno accertato che l’uomo già in passato aveva minacciato nel nel suo blog “Benvenuti all’inferno” i vicini di casa e gli amministratori del Consorzio Valle Verde. “Era moroso, doveva pagare anche l’allaccio in fogna – racconta una delle sopravvissute alla mattanza. – La storia si trascinava da anni ma mai avrei immaginato che potesse arrivare a tanto. Ma noi abbiamo segnalato e denunciato tutto già un anno fa nessuno è mai intervenuto per fare qualcosa“.  Redazione CdG 1947

Da open.online l’11 Dicembre 2022.

«Nicoletta era mia amica». Con questa frase Giorgia Meloni racconta sul suo profilo Instagram il legame con una delle vittime uccise dal 57enne Claudio Campiti a colpi di arma da fuoco nel corso di una riunione del Consorzio Valleverde nei pressi di un bar del quartiere Fidene a Roma. «Nicoletta era una mamma protettiva, un’amica sincera e discreta, una donna forte e fragile allo stesso tempo.

Ma era soprattutto una professionista con un senso del dovere fuori dal comune», scrive la premier condividendo una foto che la ritrae con lei e un’altra amica. «È stato quel senso del dovere a portarla lì, di domenica mattina, dove un uomo la aspettava per ucciderla a colpi d’arma da fuoco, insieme ad altre due donne, durante una riunione di condominio a Roma», prosegue. La premier spiega poi ai suoi utenti che il 57enne è stato fermato e si augura che «la giustizia faccia quanto prima il suo corso». E riferisce che il poligono dal quale ha sottratto la pistola è sotto sequestro. 

 Stando alla ricostruzione degli inquirenti, l’uomo aveva prelevato questa mattina stessa, 11 dicembre, la pistola al poligono di tiro Tor di Quinto. «Eppure la parola “giustizia” non potrà mai essere accostata a questa vicenda. Perché non è giusto morire così», sottolinea Meloni. E conclude dicendo: «Nicoletta era felice, e bellissima, nel vestito rosso che aveva comprato per la festa del suo cinquantesimo compleanno, qualche settimana fa. Per me sarà sempre bella e felice così».

Roma, sparatoria a Fidene. Il killer e l’odio per i condomini: «Vi uccido tutti». Tre morti. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.

Sangue all’assemblea nella periferia della Capitale. Claudio Campiti ha fatto irruzione sparando al tavolo dei vertici del Consorzio. Per le troppe liti gli era stato negato il porto d’armi

Le tute bianche del Raggruppamento investigazioni scientifiche dei carabinieri si muovono dentro le pareti plasticate del gazebo, intorno ai cadaveri, alla ricerca di dettagli utili a riscontrare la dinamica della strage. Fuori, alcuni parenti delle vittime si scambiano sguardi increduli. Perché è difficile credere a ciò che è accaduto, capire come e perché la terza domenica di Avvento s’è trasformata in una domenica di sangue ai margini di Fidene, borgata all’estrema periferia Nordest di Roma, dove il cemento ha avuto la meglio sul verde.

Per ora la spiegazione è tutta nella lucida e premeditata follia di Claudio Campiti, l’inquilino 57enne che ha atteso l’assemblea del Consorzio che gestisce l’area dove abitava da solo e in condizioni precarie, settanta chilometri ancora più a Est, per uccidere tre persone e ferirne altre quattro, di cui una in modo grave. Ma solo perché altri inquilini l’hanno sopraffatto e disarmato, altrimenti la mattanza in stile campus nord-americano avrebbe avuto un bilancio ancora più drammatico.

La ricostruzione compiuta attraverso le testimonianze e le riprese delle telecamere del bar-pizzeria che aveva messo a disposizione i locali — «Il posto giusto», si chiama, ma nessuno se la sente di ironizzare davanti a un’insegna che improvvisamente suona così fuori luogo — è quella di un’esecuzione in sequenza; tre donne ammazzate una dopo l’altra: Sabina Sperandio, Elisabetta Silenzi e Nicoletta Golisano, rispettivamente consigliera, segretaria e commercialista del Consorzio. Campiti avrebbe continuato a uccidere, un’altra donna è stata colpita gravemente alla testa, ma tra la pistola che s’è inceppata e alcuni dei presenti che gli sono saltati addosso disarmandolo la strage s’è fermata.

Il caricatore della Glock semiautomatica conteneva 16 proiettili ma Campiti in tasca ne aveva un centinaio, sottratti al Poligono nazionale di Tor Di Quinto insieme all’arma. Gli avevano consegnato tutto di prima mattina, dove s’era presentato esibendo la carta d’identità come in altre occasioni. Ieri però non ha sparato alle sagome, è risalito in macchina con arma e cartucce puntando verso Fidene. E forse questo è l’aspetto più inquietante della storia: come si possa portar via una pistola così facilmente da un Poligono di tiro, che non a caso è stato sequestrato dalla Procura di Roma. Qualche mese fa Campiti aveva chiesto il porto d’armi, ma gli fu negato proprio per le liti condominiali di cui c’era traccia negli archivi dei carabinieri. L’incredibile sfondo della tragedia.

Il Consorzio Valle Verde, incastonato tra i borghi di Ascrea e Rocca Sinibalda con vista sul lago del Turano, in provincia di Rieti, offre di sé le immagini di un piccolo paradiso terrestre, ma l’uomo tramutatosi in assassino lo dipingeva nel suo blog come un inferno. L’ha scritto letteralmente a novembre 2021, «Benvenuti all’inferno», prima di una lunga requisitoria dai toni astiosi: «Qui con il codice penale lo Stato ci va al cesso. Qui denunciare è tempo perso, so’ tutti ladri... Il Consorzio Valle Verde è in realtà un’associazione a delinquere, direi anche mafiosa perché — accusa Campiti citando un noto magistrato antimafia — quando un gruppo di manigoldi riesce a soggiogare dei cittadini c’è mafia». Nelle sue denunce Campiti accomuna tutti: gli altri inquilini, ma anche amministrazioni locali, Prefettura e Procura che «hanno legalizzato il pagamento del pizzo esigendo le quote consortili».

Il contenzioso s’è arricchito di denunce e controdenunce, istanze per esigere le somme non pagate a cui si aggiungono quelle richieste dal Comune. «Aveva avuto un contributo per sopperire alle sue carenze economiche e realizzare l’allaccio alla fognatura, ma i lavori non sono mai stati realizzati per cui gli sono stati chiesti indietro i soldi», racconta il sindaco di Ascrea, Riccardo Nini. Campiti però ribatteva lamentando la distruzione della cassetta postale e la mancanza di illuminazione, con frasi che oggi suonano come un presagio: «Il lampione davanti alla mia abitazione si spegne regolarmente lasciandomi al buio tutta la notte. Mi stanno tenendo senza pubblica illuminazione. Si sa, al buio si vede meno e si può sparare in tranquillità».

Temeva le aggressioni, Campiti: «Persone a me care del paese dicono di stare attento alle “schioppettate”», e a leggere ora le sue proteste sconnesse sembra che all’improvviso abbia deciso di aggredire lui per primo. Giocare sciaguratamente d’anticipo. Una mossa che nessuno immaginava, nemmeno tra quelli che ne conoscevano l’animosità e la propensione alle liti. «C’erano discussioni ma tutte per futili motivi, mai niente di serio», ricorda il signor Giovanni che come quasi tutti gli altri soci del Consorzio vive a Roma. Tutti proprietari di seconde abitazioni. Solo Campiti lì aveva la prima, se abitazione si può chiamare quel cubo di cemento con porta e finestre sbarrate, il piano superiore rimasto un cantiere dove campeggia un’antenna parabolica e lo striscione «Consorzio Raus», rivelatore della sua personale battaglia e delle tendenze nazi-fasciste che s’intuiscono anche da immagini e slogan che adornano il suo profilo facebook.

«Un tipo strano, solitario e segnato dal dramma di un figlio adolescente morto sulle piste da sci dieci anni fa». Così lo considerava il signor Giovanni fino a ieri mattina, quando l’ha visto trasformarsi in un killer freddo e spietato: «È entrato, ha chiuso la porta alle sue spalle, ha tirato fuori la pistola e io ho pensato che volesse minacciarci. Invece ha subito fatto fuoco contro la prima donna seduta al tavolo della presidenza, poi la seconda, la terza. Una cosa tremenda... Qualcuno gli è saltato addosso, io sono corso ad aprire la porta per far uscire tutti».

Un testimone ha sentito l’assassino gridare «Vi uccido tutti», prima di premere il grilletto della Glock. Uno solo. Gli altri ricordano gli spari e il sangue. Portato in caserma, e poi in ospedale prima del trasferimento in carcere, Campiti è rimasto in silenzio. Come i parenti delle vittime che ora guardano le tute bianche del Ris muoversi dentro il gazebo intorno ai corpi dei loro cari.

Claudio Campiti e la sparatoria di Roma: il blog, il figlio morto, le telecamere nascoste e la casa mai finita. Rinaldo Frignani e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.

Aveva fatto la cronaca dei contenziosi e delle denunce a quella che considera «una banda di delinquenti». Nel 2012 la morte del ragazzo sulle nevi della Val Pusteria

Per la sua guerra privata al Consorzio Valle Verde Claudio Campiti - il 57enne che domenica ha ucciso tre persone a Roma - aveva piazzato telecamere nascoste davanti all’abitazione che nel 2010 aveva acquistato all’asta per circa 200 mila euro. «Chi è (e chi lo ha mandato) il tizio che è venuto a fregare 4 cocchi di legna più per intimidire che altro?», scriveva sul suo blog «Benvenuti all’inferno», a corredo di frame datati novembre 2021 nei quali si vedono persone attorno allo scheletro di quella che sarebbe dovuta essere una villetta con vista sul lago del Turano, in provincia di Rieti.

Cinquantasette anni, ex imprenditore, sposato con Rossella Ardito, già addetta culturale in alcune ambasciate italiane, Campiti viveva come un fantasma sulla collina che sovrasta il complesso residenziale nel Comune di Ascrea. Doveva essere una casa per le vacanze con la moglie e le figlie Sveva e Costanza, invece è rimasta un’opera incompiuta: solo il pianterreno è chiuso da quattro mura. Un sogno spezzato per motivi tuttora misteriosi, forse anche economici, dopo il dolore infinito per la morte del figlio 14enne Romano, studente del liceo Chateaubriand a Villa Borghese, deceduto il primo marzo 2012 in Val Pusteria in un incidente durante una gita in slitta sulla Croda Rossa. Da quel lutto era seguita una battaglia giudiziaria, con tre condanne, e la creazione di una fondazione con il nome del ragazzo scomparso. Campiti aveva organizzato manifestazioni, fiaccolate. Nelle interviste di allora si lamentava di non essere stato ricevuto dai politici locali.

L’approdo a Valle Verde ha fatto precipitare il suo già precario equilibrio. Denunce e controdenunce, minacce ai vertici del Consorzio, dispetti. «Viveva ai margini», racconta uno dei vicini, Mario Bartulli. Proprio con Valle Verde c’era un contenzioso di 10 mila euro perché Campiti non aveva mai versato le quote sociali, che ammontano in media a 170 euro a trimestre, in base alla cubatura delle abitazioni. Non una cifra impossibile per chi ha una seconda casa, ma per lui era ormai una questione di principio. Impossibile notificargli l’ingiunzione di pagamento. Da quel momento la situazione era peggiorata. Le minacce ricevute dai consorziati avevano portato a una denuncia in Procura che, secondo le vittime, è stata persa. «Abbiamo appreso della denuncia ma non possiamo dire nulla al momento», conferma il pm di turno.

Ormai però la guerra era dichiarata. Cominciata prima con le carte bollate e poi conclusa ieri con una pistola rubata in maniera incredibile al poligono a Tor di Quinto: iscritto da anni, Campiti è uscito indisturbato dal cancello dopo aver ritirato in armeria una Glock 45. Nessuno ha controllato che si recasse davvero nelle postazioni di tiro, come nessuno ha visto che si allontanava nel parcheggio con la valigetta contenente la pistola. Era pronto a tutto: nella sua Ford Ka verde aveva lasciato uno zaino contenente 6mila euro in contanti, un passaporto, cambi di indumenti. In tasca al giubbotto aveva addirittura 170 proiettili: voleva fare una strage e poi sparire nel nulla. La procura gli contesta per questo la premeditazione e anche il pericolo di fuga. Nella serata di ieri il 57enne è stato condotto in carcere a Regina Coeli.

All’ordine del giorno dell’assemblea dei soci nel bar «Il posto giusto», a Fidene, che non è mai iniziata, ci sarebbe stata la costruzione di una piscina e di campi da tennis nel complesso. Il 57enne era contrario: avrebbero rappresentato spese ulteriori per lui che viveva con un allaccio elettrico abusivo, senza acqua e senza servizi igienici, in quella che era comunque diventata la sua residenza ufficiale. Ma Campiti non sopportava nemmeno il fatto che a pochi metri dalla sua proprietà venissero scaricate sterpaglie ed erbacce frutto degli sfalci.

Altri motivi di litigi e minacce — come quelle l’estate scorsa ai ragazzini che giocavano a pallone nel giardinetto vicino casa sua — e comportamenti quantomeno singolari — girare mezzo nudo —, fino allo striscione affisso allo scheletro di cemento con la scritta «Consorzio raus!». Avvertimento dal tenore nazista, già accompagnato in passato da foto di miniature di Hitler e Mussolini sul suo profilo Facebook con motti fascisti, come «Molti nemici molto onore». E di nemici, almeno nella sua mente, Campiti ne aveva tanti. Li ha citati tutti nel suo blog, accusandoli di essere «un’associazione a delinquere mafiosa» che può contare su un «paradiso penale» assicurato dalla «Procura e dalla Prefettura» di Rieti, e «dai comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda». «Qui denunciare è tempo perso, so’ tutti ladri — rivelava —. È un feudo concesso dallo Stato al Consorzio Valleverde. Ormai dopo varie denunce mi è chiaro che la banda è a tutti i livelli». Ritenendosi un perseguitato, «costretto a pagare il pizzo alla banda», il consorziato-ribelle si è preparato all’ultima battaglia: temeva l’esproprio della sua casa e potrebbe essersi vendicato  colpendo per primo.

Da repubblica.it l’11 Dicembre 2022.

"Mentre sparava urlava 'Mafiosi vi uccido tutti'". Silvio Paganini, un 67enne impiegato nel settore del turismo riesce a parlare con molta fatica dal letto del pronto soccorso del policlinico Gemelli. È lui l'eroe che ha fermato e disarmato Claudio Campiti, il killer di Fidene: ha ucciso tre donne e ha ferito quattro persone domenica mattina durante una riunione di condominio. 

"Eravamo già tutti seduti nella sala, quando si è aperta la porta, è entrato quell'uomo con una pistola in pugno. La stringeva con due mano e mirava dritto ai volti". Accanto a Paganini ci sono anche la moglie, gli altri parenti accorsi in ospedale.

Campiti ha tentato di uccidere anche Paganini. "Abbiamo visto la morte in faccia - afferma il 67enne, che è rimasto ferito alla guancia da un proiettile - in un attimo ha esploso quattro colpi, stava per sparare ancora. Non ho avuto il tempo di riflettere, gli sono saltato addosso e ho provato a fermarlo prima che uccidesse ancora". 

Nella colluttazione anche Paganini è rimasto ferito da un proiettile al viso. "Mentre cercavo di fermarlo urlava inferocito: 'Mafiosi, adesso vi uccido tutti"". Finché l'eroe non riesce a togliergli la pistola dal pugno e a immobilizzarlo, in attesa dell'arrivo dei carabinieri. 

“Aveva un caricatore con 16 colpi in canna, un altro in tasca e una busta di proiettili. Voleva ucciderci tutti”. Bruno, socio anziano del consorzio Valle Verde, è vivo per miracolo, salvato dagli altri consorziati di quella comunità che dopo gli anni ’70 si è venuta a creare dalle parti del lago del Turano, lungo la strada che da Roma porta verso l’Adriatico, la stessa che questa mattina si era riunita per discutere del bilancio preventivo annuale. Una riunione come tante trasformata in una mattanza quando Claudio Campiti, 57 anni, alle 9,30 è entrato nella saletta di un bar nel quartiere Nuovo Salario, in via Monte Giberto, premendo il grilletto, uccidendo tre persone e ferendone almeno quattro. 

“Io ho sentito almeno sei colpi, ma saranno stati di più, non ho capito nulla, vedevo la gente cadere per terra, c’era tanto sangue”, spiega Gianni raccontando come alcuni soci si sono avventati contro l’improvvisato killer, un uomo che “non pagava mai le quote, ma contestava ogni cosa, aveva anche un blog, diceva che tutti rubavano e non veniva mai alle riunioni” è il ricordo.  

“Si sono tutti gettati su di lui, lo hanno fermato altrimenti i morti sarebbero stati ancora di più – spiega Gianni – una persona in particolare è stata un eroe, è uno dei nostri consiglieri. Ha cercato di prendere la pistola ma lui ha continuato a sparare e lo ha colpito alla guancia. Il consigliere ha continuato a lottare ugualmente e lo ha disarmato, poi ha soccorso le persone senza neanche farsi medicare”.

Da repubblica.it l’11 Dicembre 2022.

"Benvenuti all'inferno": così aveva aperto il suo sproloquio delirante sul proprio blog personale Claudio Campiti, l'uomo di 57 anni fermato dai carabinieri di Roma con l'accusa di aver aperto il fuoco contro i partecipanti alla assemblea condominiale organizzata domenica in una sala a Fidene, uccidendo tre donne e ferendo altre quattro persone. 

"Qui la banda a delinquere del Consorzio e dello Stato ti dice come devi pagare il pizzo senza rompere i coglioni ma elegantemente dice solo che devi partecipare", scriveva attaccando la gestione del consorzio Valleverde, una urbanizzazione sul lago del Turano, a metà strada tra i comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti.

Quello di Campiti è un crescendo di invettive contro i gestori e i vicini. C'è la cronistoria delle denunce depositate perfino nei confronti del prefetto di Rieti. 

"Nella Sabina Mafiosa - aggiunge Campiti - trovare un tecnico che mi servirebbe per allacciarmi ora alla rete idrica e fognaria, se sei in lite con la banda locale è praticamente impossibile". 

All'interno del 'consorzio della discordia' "il postino non entra a consegnare la posta perché è proprietà privata - accusa l'uomo - se non paghi le rate consortili a vita ti fanno scrivere dal loro avvocato.  Il consorzio Valleverde è un consorzio che dovrebbe garantire solo la rete idrica, la manutenzione stradale, l'illuminazione, la rete fognaria ma di fatto è un condominio".

Secondo Campiti, "lo Stato mistifica" le cose "ingannando a scopo di lucro il cittadino". Così domenica, dopo anni di rabbia repressa, Campiti si è seduto in assemblea, ha estratto una pistola e ha fatto fuoco.

Roma, spara durante una riunione di condominio in un bar di Fidene: uccise tre donne. Il killer voleva scappare. Andrea Ossino, Giuseppe Scarpa su La Repubblica l’11 Dicembre 2022.

È successo domenica in via Monte Giberto. Ci sono anche tre feriti gravi. La testimonianza di una delle condomine: "Ha aperto la porta e ha iniziato a sparare"

Un uomo di 57 anni, Claudio Campiti, ha fatto fuoco durante una riunione di condominio in un bar nel quartiere romano di Fidene, ha ucciso tre donne e ferito gravemente tre persone. Subito dopo Campiti è stato fermato dai carabinieri. La strage è avvenuta durante l'assemblea del consorzio Valleverde, una urbanizzazione nel Reatino, vicino al lago del Turano, che si teneva a Roma perché la maggior parte dei proprietari risiede nella Capitale.

Campiti voleva scappare: nello zaino seimila euro contanti e passaporto

In serata il pm di turno, Giovanni Musarò, ha emesso un decreto di fermo nei confronti dell'uomo contestando il triplice omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, il triplice tentato omicidio - in riferimento alle persone rimaste ferite - e il porto abusivo di armi. Campiti al momento della sparatoria aveva con sè il passaporto e in uno zaino vestiti e sei mila euro in contanti. Per questo la Procura parla anche di pericolo di fuga.

Campiti aveva con se' un totale di 170 proiettili e anche un secondo caricatore. A quanto si apprende i colpi esplosi sono stati 7-8, altri sette erano nel caricatore e 155 sono stati trovato addosso a Campiti.

L'arma portata via dal poligono. Al killer era stato negato porto d'armi

L'arma usata per uccidere le tre donne sarebbe stata portata via questa mattina dal poligono di tiro di Tor di Quinto, dove Campiti era iscritto. L'uomo si è armato della pistola e delle munizioni ma, invece di dirigersi sulla linea di tiro, si è allontanato arrivando sul luogo della mattanza. Per questo la procura di Roma ha disposto il sequestro del poligono.

Campiti nel 2020 aveva fatto richiesta alla questura di Rieti del porto d'armi. I carabinieri della stazione del comune di Ascrea, nel reatino dove risiedeva l'uomo, hanno espresso parere sfavorevole dato che a suo carico c'erano denunce proprio con il consorzio di cui lui era membro insieme alle persone che oggi si erano riunite nel gazebo a Fidene. Resta da chiarire chi ha autorizzato la sua iscrizione al poligono e come sia stato possibile che nessuno si è accorto che aveva portato via la pistola.

La testimonianza: "Ha aperto la porta e ha iniziato a sparare"

Una delle persone presenti all'incontro ha descritto a Repubblica quei momenti terribili: "Era la riunione di fine anno del condominio. A un certo momento quest'uomo, uno dei condomini di nome Claudio Campiti, è entrato, ha caricato la pistola e ha iniziato a sparare".

La strage all'assemblea del consorzio Valleverde, tra Rocca Sinibalda e Ascrea

Il condominio i cui soci erano riuniti è il consorzio Valleverde, una urbanizzazione collocata in un'area turistica residenziale che si estende per circa 25 ettari tra i comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti, sul costone di una collina che domina il lago del Turano. Il Consorzio nasce negli anni '70 a seguito di un piano di lottizzazione approvato dai due comuni. Si occupa della gestione e manutenzione ordinaria delle strade, della rete fognaria, dell'illuminazione, dei servizi e delle zone a verde. La riunione di fine anno si teneva a Roma perché buona parte dei soci del consorzio abitano nella Capitale. 

Il movente: una lite per motivi condominiali

Il movente che ha fatto aprire il fuoco a Campiti sarebbe una lite per ragioni legate al consorzio, contro cui l'uomo nutriva da tempo un radicato odio, tanto che sulla sua casa, un rudere non finito, campeggia uno striscione con la scritta "Consorzio Raus". Dopo l'inizio della riunione, all'improvviso è scoppiata una discussione tra l'uomo, ora in stato di fermo, e tre donne. Non c'è stato nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo, che Campiti ha tirato fuori una pistola e ha fatto fuoco.

La sparatoria nel bar "Il posto giusto" di Fidene

La tragedia si è consumata in una sala di fianco al bar "Il posto giusto" che si trova in via Monte Giberto 21 a Fidene, affittata per la riunione. Le prime chiamate ai carabinieri sono arrivate alle 9.33 e riferivano che un uomo aveva aperto il fuoco. Campiti è stato poi disarmato da un impiegato del settore del turismo che ha raccontato: "Gli sono saltato addosso prima che uccidesse ancora"

L'uomo aveva già minacciato i condomini

"L'uomo era conosciuto da tutti, era un consorziato e in passato aveva fatto minacce verbali a tutti noi", dice una consorziata presente alla riunione. "Ha sparato contro il consiglio di amministrazione del consorzio - ha aggiunto la testimone -. L'arma si è inceppata ad un certo punto ed è stato bloccato da alcuni consorziati che hanno anche sbloccato la porta. Io mi sono salvata perché mi sono messa sotto il tavolo e sono riuscita ad uscire carponi dalla sala", afferma la donna ancora sotto shock. Un'altra testimone racconta: "E' entrato nella sala, ha chiuso la porta e ha urlato vi ammazzo tutti e ha cominciato a sparare".

Nel profilo Facebook di Campiti simboli legati al nazifascismo

Una medaglia con un fascio littorio e il motto fascista 'Molti nemici molto onore', 'soldatinì con le fattezze di Hitler e Mussolini, assieme a decine di foto di quelle che sembrano gite domenicali a Roma, a Villa Adriana di Tivoli tra gli altri.

Ci sono tre feriti gravi ricoverati in codice rosso

Sono tre i feriti gravi a causa della sparatoria e ricoverati in codice rosso. Una di loro, una donna, è arrivata al Sant'Andrea in condizioni generali gravissime. La donna è stata operata d'urgenza: l'intervento è terminato alle 13.45 e la paziente è stata trasferita in rianimazione con prognosi riservata.

Alcuni presenti colpiti da malore

In molti hanno assistito all'accaduto senza poter intervenire. Alcuni di loro hanno accusato un malore. Tante le segnalazioni arrivate al 112, soprattutto da chi ha visto con i propri occhi la sparatoria.

"Ora vi ammazzo tutti". Irrompe all'assemblea, spara e uccide tre donne. Irrompe nella riunione condominiale, scarrella e spara. "Vi ammazzo tutti!". Tre donne uccise sul colpo, una cinquantenne in fin di vita, altri tre condomini feriti. Stefano Vladovich il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Irrompe nella riunione condominiale, scarrella e spara. «Vi ammazzo tutti!». Tre donne uccise sul colpo, una cinquantenne in fin di vita, altri tre condomini feriti. Una strage, ieri mattina, durante l'assemblea di fine anno per i consorziati del residence Valleverde, ad Ascrea lago del Turano, nel reatino, riuniti nel gazebo di un bar nel quartiere Fidene, a Roma Nord. Claudio Campiti, 57 anni, il killer, è stato bloccato da un vicino di casa, Silvio Paganini, 67 anni, che l'ha disarmato e consegnato ai carabinieri arrivati pochi minuti dopo.

Sono passate le 9 della domenica quando l'uomo, «una persona disturbata, che vive in una casa mai finita ad Ascrea», lascia il poligono di tiro a Tor di Quinto portando via una pistola semiautomatica 9x21, una Glock. Un'arma micidiale, in grado di trapassare una persona e colpirne un'altra con lo stesso proiettile. Sono le 9.30, l'assemblea è appena cominciata, trenta persone sono sedute ai tavolini del bar «Il Posto Giusto» di via Monte Giberto 21. Campiti parcheggia la sua Ford Ka verde lungo la strada. «È entrato come una furia, sembrava non avesse nulla in mano», racconta Luciana Ciorba, vicepresidente del Consorzio. Sbarra la porta, urla come un matto, mentre con la mano sinistra carica colpo in canna, il primo di 15 proiettili. La punta contro l'intero consiglio di amministrazione, dal presidente alla contabile. Preme il grilletto almeno cinque volte, colpendo per prima la segreteria, Sabina Sperandio, 71 anni, che muore sul colpo. Poi uccide Elisabetta Silenzi, 55 anni e Nicoletta Golisano, 50 anni. Fabiana De Angelis, 50 anni, viene centrata alla testa e crolla anche lei sul pavimento ma respira ancora. Dopo è la volta della presidente Bruna Marelli e di Lino de Santis, colpiti a un fianco. La gente si getta a terra, cercando riparo fra i tavoli. L'arma si inceppa, un vicino, Paganini, nonostante una ferita di striscio al volto, ne approfitta e gli salta addosso. «Un eroe - racconta un'altra donna sopravvissuta alla strage - se non era per lui quel pazzo avrebbe ucciso altri». Campiti è a terra, cerca di liberarsi ma intervengono altri condomini che lo immobilizzano. «Mi sono precipitata alla porta per far uscire tutti - racconta ancora la testimone - ma questa si apriva al contrario. Una volta aperta siamo usciti e abbiamo chiamato il 112». Pochi istanti e una pattuglia del nucleo radiomobile dei carabinieri si precipita sul posto. Campiti viene ammanettato e portato in caserma, al Torrino, mentre le ambulanze fanno la spola a sirene spiegate fra Fidene e gli ospedali vicini. Fabiana De Angelis, 50 anni, è la più grave e viene portata al Sant'Andrea. «L'abbiamo sottoposta a un intervento chirurgico - spiegano i sanitari - durato 4 ore. Adesso è nel reparto rianimazione in prognosi riservata». L'anziana presidente, Bruna Marelli, viene trasportata al policlinico Umberto I mentre Lino de Santis, colto da malore, è ricoverato all'ospedale Pertini. Il quarto ferito, Paganini, viene medicato al Gemelli. «Campiti non è un matto - ripete, ancora sotto choc, Luciana Ciorba - è entrato in assemblea per uccidere. Non voleva pagare le spese del consorzio. Punto. Vive in una casa non finita, una specie di catapecchia senza acqua e luce. Lo abbiamo denunciato decine di volte: se la prendeva con i bambini, a volte girava mezzo nudo vicino il parco giochi. Diceva che eravamo tutti mafiosi. L'anno scorso ha pubblicato un blog in cui se la prende con chiunque di noi facendo accuse gravissime. Abitiamo a Roma, queste di Ascrea, Rocca Sinibalda, sono seconde case, per le vacanze. Qui vicino, a Colle Salario, c'è la sede del consorzio, lui è l'unico che viveva fisso ad Ascrea». Il pm, Giovanni Musarò, giunto sul luogo della tragedia, ha messo a verbale le varie testimonianze. Per Campiti fermo di pg per accuse che vanno dall'omicidio volontario plurimo aggravato al porto abusivo di arma da fuoco (aveva chiesto il porto d'armi, negato) e lesioni gravi. Il pm gli contesta pure la premeditazione. Con se aveva 170 proiettili, un passaporto forse da utilizzare per fuggire e dei vestiti. Da chiarire come abbia fatto ad allontanarsi dal poligono senza restituire l'arma e con ben due caricatori. Che per fortuna ha usato solo in minima parte.

L'inferno di Claudio tra intimidazioni e ossessioni. "Qui so' tutti ladri". In un blog il 57enne arrestato se la prendeva coi vicini e col sindaco. La casa fatiscente senza acqua né luce, sui social deliri nazifascisti. Dieci anni fa la morte di un figlio adolescente. Stefano Vladovich il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«Mi tengono al buio, si spara meglio». Claudio Campiti, 57 anni, viveva come un eremita nel residence Valleverde, sul Turano, fra i comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda. Nel reatino era arrivato una quindicina di anni fa da Ladispoli, dopo la separazione dalla moglie imprenditrice e dai tre figli adolescenti. Poi la tragedia nel 2012 quando un figlio 14enne, Romano Campiti, muore in slittino su una pista della Croda Rossa in Val Pusteria. Un incidente che lo segna per sempre. Al processo contro l'ad della Drei Zinnen spa e il maestro di sci, nel 2017, la condanna per violazione delle norme di sicurezza e il risarcimento per lui di 240mila euro. Ma Campiti ce l'ha con il mondo intero. La sua abitazione, mai ultimata, è l'unica del consorzio senza acqua corrente ed energia elettrica. Avrebbe dovuto eseguire i lavori di allaccio alla rete fognaria ma non verranno mai effettuati tanto che il Comune gli chiede la restituzione del finanziamento. Campiti, insomma, vive di denunce, aggressioni verbali, risentimento verso tutti i suoi vicini. Non lavora, sopravvive con quello che gli resta e con il reddito di cittadinanza. Sul suo profilo fb Campiti posta foto con fasci littori, soldatini con i volti di Hitler e Mussolini e il motto del ventennio «Molti nemici, molto onore». Ma è su un blog messo in rete nel novembre del 2021 che Campiti esprime tutta la sua rabbia contro i 300 consorziati, i sindaci di Ascrea e Rocca Sinibalda, il prefetto, le istituzioni tutte. «Benvenuti all'Inferno» il titolo del suo diario/denuncia. «Qui con il codice penale lo Stato ci va al cesso - scrive -. Qui so' tutti ladri. È un feudo concesso dallo Stato al consorzio Valleverde. Lui ha legalizzato la mafia... con sgherri della Procura e della Prefettura che girano per il consorzio».

A torso nudo nelle aree comuni, Campiti faceva davvero paura. Sulla sua abitazione affigge uno striscione: «Consorzio Raus». Per lui Valleverde somiglia più a un campo di concentramento che a un residence. Se la prende soprattutto con Lino De Santis, uno dei feriti al bar «Il Posto Giusto». «Boscaiolo - scrive -, sostenitore del Sindaco di Ascrea e presente con la famiglia in consiglio comunale. Questa persona sin dal primo giorno che ho messo piede in questo territorio di merda si è aggirato insieme al suo boss Mario Ferrara. Scorrazzano in continuazione nel territorio del Consorzio (roba loro come dicono pure) passando più volte anche davanti alla mia abitazione». Poi passa all'attacco di Bruna Marelli, la presidente ferita anche lei durante la sparatoria: «Una strega sotto spoglie di brava nonnina. Una recita intimidatoria avveniva quando mi ritrovavo a parlarci nella sede del consorzio, lei faceva la parte della persona perbene mentre il mastino napoletano Luciana Ciorba senza motivo interveniva digrignando i denti e abbaiando». Non accetta regole e statuto, Campiti. Se la prende persino con i cani senza guinzaglio all'interno del consorzio. «È vietato lasciarli liberi fuori dalle proprietà - continua sul blog - e ai trasgressori è prevista un'ammenda. Funzioni di polizia, ma non per tutti». Lamenta di essere lasciato senza illuminazione pubblica. «Il lampione davanti alla mia abitazione si spegne regolarmente alle 11,50 o 12,50 a seconda dell'ora legale ed è l'unico che lo fa lasciandomi regolarmente al buio tutta la notte. Ora poi deve essersi esaurita la lampadina e praticamente è sempre spento. Mi stanno tenendo senza pubblica illuminazione, si sa al buio si vede meno e si può sparare in tranquillità». Una personalità bipolare, paranoica, con manie di persecuzione. «Una lucida follia - spiega il criminologo Carmelo Lavorino -, in preda soltanto a un desiderio di rivalsa, di farsi giustizia da solo. La strage gli conferisce un'enorme gratificazione. Un soggetto che ha perso sicuramente il contatto con la realtà, i freni inibitori della logica, in preda dei propri fantasmi ma perfettamente in grado di intendere e di volere. Un soggetto comunque atipico. Ha pianificato con calma, scientificamente, la propria azione».

"Ingiusto morire così". L'addio di Meloni all'amica freddata dal killer di Roma. Il premier Giorgia Meloni ha postato sui social il suo addio all’amica Nicoletta Golisano, una delle donne vittime della furia omicida del killer di Fidene. Valentina Dardari l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il premier Giorgia Meloni ha postato sui social il suo addio all’amica Nicoletta, una delle donne vittime della furia omicida del killer di Fidene. Questa mattina l’uomo, ora in mano ai carabinieri, aveva aperto il fuoco durante lo svolgimento di una riunione di condominio all’interno di un bar di via Monte Giberto a Fidene, nel quartiere a nord-est di Roma. L’omicida ha ucciso tre persone, tutte donne, e ferito almeno altre quattro persone, alcune in modo molto grave. Tra le vittime, oltre a Sabina Sperandio ed Elisabetta Silenzi, anche Nicoletta Golisano, la 50enne madre di un bambino di 10 anni, amica del premier Meloni.

Il ricordo del Premier

"Nicoletta era una mamma protettiva, un’amica sincera e discreta, una donna forte e fragile allo stesso tempo. Ma era soprattutto una professionista con un senso del dovere fuori dal comune. È stato quel senso del dovere a portarla lì, di domenica mattina, dove un uomo la aspettava per ucciderla a colpi d'arma da fuoco, insieme ad altre due donne, durante una riunione di condominio a Roma. Nicoletta era mia amica. Lascia il marito Giovanni e uno splendido bambino di dieci anni, Lorenzo. Con la sua, altre famiglie, alle quali esprimo tutta la mia vicinanza, sono state distrutte", ha scritto sui suoi profili Instagram e Facebook.

Ha ucciso 3 donne innocenti

Nel post, accompagnato da una foto in cui si vedono le due amiche sorridenti, vengono spese anche delle parole nei confronti dell’omicida, il 57enne Claudio Campiti: "L'uomo che ha ucciso queste tre donne innocenti, e ha ferito altre tre persone, è stato fermato e spero la giustizia faccia quanto prima il suo corso. Il poligono dal quale aveva sottratto la pistola (il porto d'armi gli era stato rifiutato) è sotto sequestro. Eppure la parola "giustizia" non potrà mai essere accostata a questa vicenda. Perché non è giusto morire così. Nicoletta era felice, e bellissima, nel vestito rosso che aveva comprato per la festa del suo cinquantesimo compleanno, qualche settimana fa. Per me sarà sempre bella e felice così. A Dio Nico. Ti voglio bene", ha concluso la Meloni rivolgendo un ultimo pensiero alla cara amica.

L’omicida, residente del consorzio, è entrato nel gazebo in cui si stava tenendo l'assemblea e, dopo aver chiuso la porta dietro di sé, e si è avvicinato alle persone del consiglio. Ha quindi estratto la pistola che aveva rubato al poligono e ha aperto il fuoco.

Il porto d'armi negato e il furto della pistola: chi è il killer di Roma. Claudio Campiti è residente a Rieti e gli era stato negato il porto d'armi proprio a seguito delle denunce intercorse con il consorzio. Francesca Galici l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Un'assemblea di condominio nel quartiere Fidene di Roma si è trasformata in una tragedia. Tre persone sono state uccise e altre tre sono rimaste ferite dopo l'assalto di un uomo che ha fatto irruzione all'interno della stanza dove i condomini si erano riuniti per discutere della gestione dell'immobile. Si chiama Claudio Campiti l'uomo fermato in seguito alla sparatoria avvenuta in un gazebo di via Monte Giberto.

La lite, gli spari e il sangue: strage alla riunione di condominio a Roma

L'uomo è stato bloccato subito dopo la sparatoria dalle persone presenti alla riunione ed è stato poi portato dai carabinieri nella caserma del Nucleo radiomobile di Roma. Pare che Campiti vivesse in quel consorzio, con il quale erano in corso da anni discussioni e tensioni. Sembra ci siano numerose denunce reciproche tra Campiti e l'amministrazione del consorzio, che ha a più riprese accusato il killer di essere inadempiente. Pare che Campiti vivesse in condizioni di indigenza in un appartamento senza allacci elettrici e idraulici e senza le fognature, per le quali il Comune gli aveva fornito i fondi, che lui avrebbe utilizzato per altri scopi, come spiega un testimone a il Messaggero.

"Claudio Campiti non era matto. È entrato armato nel bar dicendo 'vi ammazzo tutti', aveva l'intenzione di sparare. C'erano problemi con il condominio, ci sono state diverse denunce alla procura della Repubblica per minacce", ha dichiarato la vicepresidente del consorzio Velleverde, Luciana Ciorba, presente durante la sparatoria. La donna ha poi aggiunto: "Non voleva pagare le spese del consorzio. questa estate aveva minacciato dei bambini. Nel consorzio ci sono più di 200 consorziati, che lo hanno fermato e poi abbiamo chiamato i carabinieri".

Un consorziato assente nel momento della sparatoria ha dichiarato: "Aveva obiettivizzato la struttura dirigente del consorzio, i membri del consiglio di amministrazione, poi nella bolgia, l'area era anche piccola, ci è andato di mezzo anche qualche consorziato". La dinamica di quanto accaduto la racconta chi, per sua sfortuna, si è trovato in quel gazebo durante la sparatoria: "Ho provato a saltargli addosso ma già altri gli si erano buttati addosso. Aveva bloccato la porte e ci ho messo un pò per far uscire la gente. Se non fosse stato per noi sarebbe stata una strage, aveva 2 caricatori e altre cartucce. Ho visto una ragazza accanto a me che è stata colpita ed è morta".

Claudio Compiti era in possesso di una pistola ma non era in possesso del porto d'armi, che gli era stato negato grazie alle informazioni fornite dai carabinieri del luogo dove viveva, in provincia di Rieti, che avevano riferito delle liti in atto con il consorzio. Questo non ha però fermato l'uomo dal procurarsene una, sottraendola da un poligono di tiro.

La falla nel sistema di sicurezza: l'uomo aveva 175 proiettili. La strage di Fidene e le porte aperte nel poligono di Tor di Quinto: killer via con pistola e munizioni. Redazione su Il Riformista il 12 Dicembre 2022

Dopo la strage di Fidene e gli oltre 170 proiettili trovati in possesso del killer Claudio Campiti, 57 anni, le indagini mirano a far luce su quanto successo all’interno del poligono di viale Tor di Quinto a Roma, dove poco prima di presentarsi al bar dove era in corso la riunione di condominio del consorzio Valleverde, l’uomo era riuscito ad allontanarsi con la pistola Glock 41 con la quale ha poi sparato all’impazzata sui presenti, uccidendo tre donne (Sabina Sperandio, Elisabetta Silenzi e Nicoletta Golisano, rispettivamente di 71, 55 e 50 anni) e riducendo in fin di vita un’altra donna e ferendo in modo non grave altre due persone.

Come è possibile che nessuno al poligono si sia accorto della fuga armata di Campiti? Il 57enne frequentava da tempo i poligoni (era iscritto dal 2018), aveva la tessera Platinum del poligono nazionale e domenica mattina, poco prima delle 9, l’ha mostrata, insieme al documento d’identità che avrebbe dovuto riprendere una volta terminata l’esercitazione. Invece Campiti non si è affatto diretto verso la linea di tiro, bensì ha imboccato l’uscita ed è nuovamente salito sulla Ford Ka per recarsi al bar di via Monte Giberto, a Fidene, dove nel gazebo esterno era in corso la riunione di condominio.

Una falla, quella nel sistema di sicurezza del poligono, sulla quale sono adesso in corso accertamenti da parte dei carabinieri e della procura capitolina che hanno acquisito le immagini della videosorveglianza per ricostruire i movimenti dell’uomo ed eventuali responsabilità della struttura, attualmente sotto sequestro preventivo. I militari hanno acquisito anche i verbali di ingresso e di uscita di ieri.

Al momento non risultano indagate altre persone oltre il 57enne, attualmente in carcere per triplice omicidio aggravato dai futili motivi e dalla premeditazione. Possibile che per lui possa scattare anche l’accusa di appropriazione indebita per aver portato via l’arma. Secondo gli investigatori, Campiti era un tiratore mediamente esperto. Le tre vittime sono state infatti colpite in parti vitali.

Intanto dopo aver trascorso la notte in rianimazione, rimangono molto gravi le condizioni di Fabiana De Angelis ricoverata al Sant’Andrea di Roma dopo essere stata ferita durante l’attentato di ieri nel quartiere Fidene. La donna, da quanto si apprende, resta sotto stretto controllo medico, in prognosi riservata. Migliorano invece le condizioni di Bruna Marelli, ricoverata al Policlinico Umberto I. La donna “resta sotto osservazione ma le sue condizioni sono buone, non è più in prognosi riservata”.

Dimesso invece Silvio Paganini, l’uomo che ha disarmato Claudio Campiti (che ha sparato otto colpi, altri sette erano nel caricatore e altre 155 in suo possesso) ed è rimasto ferito da un colpo di arma da fuoco al volto durante la colluttazione. Nelle scorse ore ha lasciato il Policlinico Agostino Gemelli.

Quanto è difficile ottenere un’arma in Italia? YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 12 dicembre 2022

Il killer del condominio, a Roma, non aveva ottenuto il porto d’armi che gli era stato negato nel 2018. Ma come funziona la legge in Italia? Quanto è difficile ottenere il porto d’armi? E quante sono le armi in circolazione?

La brutalità del triplice omicidio di Roma avvenuto durante una riunione di condominio pone dubbi e interrogativi sulla facilità con la quale il killer sia riuscito ad avere un’arma da fuoco nonostante gli fosse stato negato il porto d’armi in passato.

Secondo una prima ricostruzione, nella mattinata dell’11 dicembre l’assassino si è recato in un poligono di tiro a Roma, nel quartiere di Tor di Quinto, dove avrebbe preso – si pensa al furto o al noleggio senza restituzione – una pistola semiautomatica Glock. Non è ancora chiara la dinamica e le motivazioni con le quali l’uomo abbia preso l’arma da fuoco e sul caso stanno indagando gli inquirenti. Per il momento il poligono è stato posto sotto sequestro. Ma quanto è complicato ottenere un’arma da fuoco in Italia?

QUANTE SONO LE ARMI IN CIRCOLAZIONE

Come raccontato in un altro articolo di Domani non ci sono dati ufficiali del ministero dell’Interno sul numero delle armi in circolazione. Gli ultimi numeri a disposizione sono quelli della polizia, secondo la quale circa un italiano su 60, ovvero 1.222.537 persone, ha a disposizione una licenza regolare di porto d’armi. La maggior parte di queste sono state rilasciare per la caccia, seguono poi le motivazioni sportive. In Europa, i dati sono diversi e tra i paesi con il maggior numero di armi c’è la Finlandia, per via della sua storica tradizione di caccia. Secondo il Flemish Peace Institute sono 25 milioni i cittadini che hanno in possesso almeno un’arma, per un totale di 80 milioni. Il rapporto è quasi di 16 armi ogni cento persone.

Se è complicato avere dati precisi sulle armi regolari in circolazione, diventa impossibile per le cosiddette ghost guns, ovvero quelle armi fantasma costruite in casa attraverso stampanti 3D, facili da reperire nel dark web, e che non sono registrate. Un fenomeno molto diffuso negli Stati Uniti che ha allarmato la Casa Bianca e ha spinto il presidente Joe Biden ad adottare misure di contrasto.

La situazione preoccupa anche le istituzioni europee, dato che questo tipo di armi senza alcun componente metallico non possono essere rilevate dai metal detector e rischiano di essere utilizzate per attacchi terroristici o omicidi. L’attacco terroristico di Halle in Germania del 2019 è stato compiuto anche con armi da fuoco compresi alcuni componenti stampati in 3D. 

COME OTTENERE UN’ARMA

In Italia vigono regole molto stringenti per ottenere il porto d’armi, ovvero il permesso per poter detenere in casa un’arma da fuoco. Questo può essere rilasciato per tre diversi motivi:

per uso sportivo,

per difesa personale

o per la caccia (riservato ad alcuni tipi di armi come i fucili).

Dopo aver avuto ottenuta l’idoneità psicofisica dalla propria Asl locale, compilata una serie di documenti burocratici e ottenuto un certificato che attesti la capacità nel maneggiare l’arma, l’autorizzazione finale per il porto d’armi viene rilasciata dalla questura di riferimento. Secondo la normativa chi ha la licenzia può detenere fino a 3 armi comuni, 12 armi sportive e un numero illimitato di fucili da caccia (molti dei quali vengono acquistati dai collezionisti) ma per questo serve un’ulteriore autorizzazione da parte della Questura.

Per quanto riguarda i proiettili possono essere detenuti fino a 200 munizioni per le armi comuni, 1000 cartucce per fucili da caccia (fino a 1500 con denuncia). Un numero che rimane abbastanza elevato, il killer autore del triplice omicidio a Roma è stato trovato in possesso di 170 munizioni ma non è ancora chiaro dove le abbia prese o acquistate.

Nel 2018 i carabinieri di Rieti gli avevano negato il porto d’armi. Bruno Frattasi, prefetto di Roma, ha spiegato che si è comunque «recato al poligono, dove era iscritto da diversi anni, e da lì si è allontanato con l’arma. Le indagini sono in corso e la magistratura appurerà le responsabilità e a chi sono ascrivibili».

I Carabinieri stanno acquisendo la documentazione, i verbali di ingresso e uscita del poligono e analizzeranno le telecamere presenti all'interno della struttura. Frattasi, accusato di triplice omicidio e tentato omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, è accusato anche di porto abusivo di armi. Non è escluso che per lui possa scattare anche l'accusa di appropriazione indebita per aver portato via la pistola dal poligono.

LA NEGAZIONE E L’INTEGRITÀ PSICOFISICA

La licenza di portare armi può essere negata a tutte quelle persone che abbiano ricevuto condanne per reati commessi con violenza, come il furto, la rapina, l’estorsione, il sequestro di persona, per chi ha condanne a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all’autorità o per delitti contro la personalità dello stato o contro l’ordine pubblico.

Infine l’autorizzazione può essere negata a chi sia stato già condannato per porto abusivo di armi o per reati come la diserzione in tempo di guerra. In questa procedura burocratica manca però un tassello importante, ovvero un sistema per incrociare le informazioni sullo stato di salute mentale e il possesso di armi.

Una proposta di legge presentata alla Camera dei deputati il 22 luglio del 2021 chiedeva di istituire un collegio medico presso ciascuna azienda sanitaria locale, composto da tre medici del Servizio sanitario nazionale di cui almeno uno specialista in neurologia e psichiatria.

Secondo la proposta, «qualora nell’accertamento si riscontrino segni (anche ad uno stadio iniziale) di disturbi psico-comportamentali, è fatto divieto di rilasciare il certificato ed è data immediata comunicazione all'autorità di pubblica sicurezza competente che, a seconda dei casi, rifiuta il rilascio o il rinnovo della licenza di porto d'armi, o ne dispone la revoca». 

YOUSSEF HASSAN HOLGADO.  Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Follia pensare che la follia non ci riguardi. La prima sensazione, la più semplice, è lo sconcerto, non comprendere quale razionalità sia ancora presente in chi commette crimini tanto brutali, così poco comprensibili. Stefano Zecchi il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La prima sensazione, la più semplice, è lo sconcerto, non comprendere quale razionalità sia ancora presente in chi commette crimini tanto brutali, così poco comprensibili. In fondo noi speriamo sempre che ci sia una guida nelle nostre azioni e che i nostri comportamenti abbiano una logica che, almeno, non ci faccia stare male. Poi accade qualcosa di inaspettato e ci diciamo che sono incidenti al corso normale dell'esistenza che non riguarderà mai noi. Ma quell'inatteso da cui ci sentiamo indenni, può riguardare anche noi che, finora, abbiamo passato in una comprensibile normalità la nostra esistenza. La malattia mentale esiste e va curata come ogni altra malattia. Invece ci sentiamo immuni da qualsiasi probabile deviazione dal comportamento «normale» e dobbiamo considerare che, come non ci si deve vergognare se si è affetti da problemi cardiaci, così non ci si deve nascondere se ci coglie un disturbo che condiziona la nostra «normalità». Certo, scrivo normalità tra virgolette perché stabilire i criteri che possano definirla è indiscutibilmente complesso, coinvolge una serie di valutazioni sul sociale e sul politico, oltre che sulle problematiche mediche, e la tendenza è quella di ampliare al massimo i confini dell'idea di normalità. Ma per quanto si voglia essere politicamente corretti e disponibili nei confronti delle devianze dei comportamenti altrui, pensare che non ci sia un punto di rottura all'interno di una responsabile e civile condotta quotidiana, significa consegnarsi a una visione ideologica della vita. E questa ideologia continua ad accompagnarci da quando la ormai legge Basaglia di antica data ci aveva detto che i manicomi andavano chiusi perché la malattia mentale andava curata nella società e non in apposite strutture di cura. La legge è superata, ma non la mentalità politica che l'ha prodotta. Nell'omicida romano c'erano tutte le possibilità di prevedere il suo atto criminale se soltanto ci fosse stata una cultura che si fosse preoccupata di capire la situazione mentale, la personalità di quello che sarebbe diventato un efferato criminale. E invece prevale l'idea: la malattia mentale c'è ma potrebbe anche non esserci. Tutto vago. O meglio, tutto ideologico, perché si preferisce lasciare per strada, tra le case, una persona dai sintomi chiaramente preoccupanti, piuttosto che prendersi la responsabilità di dire che quella persona è un pazzo, che può essere un pericoloso criminale. Meglio pensarci tutti normali e dimenticarci che la follia esiste. Questa è la vera follia.

La pistola utilizzata a Fidene rubata in un poligono. Strage alla riunione di condominio, la crociata del killer Campiti contro il Consorzio: “L’avevamo già denunciato per minacce”. Redazione su Il Riformista l’11 Dicembre 2022

Si erano incontrati in una sala adiacente al bar ‘Il posto giusto’ di via Monte Giberto a Fidene, alla periferia di Roma in zona Colle Salario, per la consueta assemblea di fine anno del Consorzio Valleverde, un complesso residenziale sul lago del Turano, a metà strada tra i comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti.

Lì sono stati raggiunti da Claudio Campiti, 57 anni, armato di un Glock calibro nove che avrebbe rubato in un poligono di tiro a Tor di Quinto dove si era recato proprio questa mattina per partecipare ad una sessione di tiro, senza poi restituire l’arma e portandola via senza che nessuno se ne fosse accorto. Entrato armato nella sala, ha prima minacciato i presenti e quindi ha aperto il fuoco uccidendo tre donne e ferendo gravemente altre tre persone.

Le vittime sono state identificate: si tratta di Sabina Sperandio, 71 anni, Elisabetta Silenzi, 55 anni, e Nicoletta Golisano, 50 anni. Quest’ultima, commercialista incaricata della revisione dei conti del Consorzio, era amica della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che sui social ha pubblicato un post e una foto assieme alla donna vittima della strage compiuta stamane. “Nicoletta era una mamma protettiva, un’amica sincera e discreta, una donna forte e fragile allo stesso tempo. Ma era soprattutto una professionista con un senso del dovere fuori dal comune. E’ stato quel senso del dovere a portarla lì, di domenica mattina, dove un uomo la aspettava per ucciderla a colpi d’arma da fuoco, insieme ad altre due donne, durante una riunione di condominio a Roma. Nicoletta era mia amica. Lascia il marito Giovanni e uno splendido bambino di dieci anni, Lorenzo. Con la sua, altre famiglie, alle quali esprimo tutta la mia vicinanza, sono state distrutte“, scrive Meloni. “L’uomo che ha ucciso queste tre donne innocenti, e ha ferito altre tre persone, è stato fermato e spero la giustizia faccia quanto prima il suo corso. Il poligono dal quale aveva sottratto la pistola (il porto d’armi gli era stato rifiutato) è sotto sequestro. Eppure la parola “giustizia” non potrà mai essere accostata a questa vicenda. Perché non è giusto morire così“, aggiunge la premier. “Nicoletta era felice, e bellissima, nel vestito rosso che aveva comprato per la festa del suo cinquantesimo compleanno, qualche settimana fa. Per me sarà sempre bella e felice così. A Dio Nico. Ti voglio bene“, conclude Meloni.

Dietro la strage compiuta dall’uomo questa mattina, bloccato con grande coraggio da alcuni cittadini, prima di venir fermato e condotto in caserma dai carabinieri del Nucleo radiomobile intervenuti sul posto, c’era la sua crociata contro il Consorzio.

Un odio manifestato anche online, su un blog gestito da Campiti. L’ultimo post risale al 2 novembre 2021, si intitola “Benvenuti all’inferno”, e le parole al suo interno sono il segnale dei gravi problemi che si sono manifestati questa mattina nella strage, dopo anni di rabbia repressa.

“Il Consorzio Valleverde è in realtà una associazione a delinquere (come dicono a parole in Procura), direi anche mafiosa”, accusava Campiti. “Qui la banda a delinquere del Consorzio e dello Stato ti dice come devi pagare il pizzo senza rompere i coglioni ma elegantemente dice solo che devi partecipare“, scriveva attaccando la gestione del Consorzio, allegando ance una sorta di cronistoria delle denunce presentate anche nei confronti del prefetto di Rieti.

In quel luogo che alcuni romani avevano scelto per le loro vacanze, e in cui Campiti invece viveva regolarmente, i ‘precedenti’ erano già stati significativi. La vicepresidente del consorzio, Luciana Ciorba, ha raccontato al Corriere della Sera che “un anno e mezzo fa lo avevamo denunciato per minacce, anche se nessuno ci ha chiamato per raccontare la nostra storia. Era divenuto aggressivo e anche poco decoroso, girava seminudo anche quando c’erano ragazzini”.

Secondo la testimone il problema era che Campiti “non voleva pagare quello che avrebbe dovuto e questo andava avanti da molto tempo”. La donna cita anche un episodio avvenuto la scorsa estate: “Il consorzio aveva costruito un campo di pallavolo per i bambini, che un giorno per sbaglio sono passati rasente alla sua proprietà. E’ uscito, li ha minacciati di ucciderli e i bambini si sono spaventati tantissimo. Sono state fatte tante denunce, ma nessuna ha avuto seguito”.

A fermare Campiti mentre urlava “Mafiosi, vi uccido tutti”, è stato Silvio Paganini, 67enne impiegato nel settore del turismo. Ricoverato al pronto soccorso del policlinico Gemelli, ha raccontato a Repubblica quanto accaduto questa mattina bel bar di Fidene: “Eravamo già tutti seduti nella sala, quando si è aperta la porta, è entrato quell’uomo con una pistola in pugno. La stringeva con due mano e mirava dritto ai volti“.

Paganini, ferito al volto da un proiettile, senza esitare gli si è gettato contro per fermarlo: “In un attimo ha esploso quattro colpi, stava per sparare ancora. Non ho avuto il tempo di riflettere, gli sono saltato addosso e ho provato a fermarlo prima che uccidesse ancora“.

Campiti è stato colto da malore una volta portato in caserma ed è stato necessario l’intervento di un’ambulanza. Durante l’interrogatorio l’uomo non ha risposto alle domande degli inquirenti ed è rimasto in silenzio.

Aveva più di 170 proiettili e in auto soldi e vestiti. I fantasmi del killer di Fidene, il figlio morto e la casa mai finita: “Mi tengono senza luce ma al buio si spara meglio”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Dicembre 2022

Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che una domenica mattina di dicembre in cui si stava svolgendo l’assemblea di condominio, si sarebbe potuta trasformare in una strage. La follia ha preso il sopravvento a Fidene, periferia di Roma in zona Colle Salario, dove Claudio Campiti, 57 anni, ha impugnato la pistola, portata via dal poligono poco prima, e ha sparato sui condomini del Consorzio Valleverde, un complesso residenziale sul lago del Turano, a metà strada tra i comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti, che si erano riuniti per la consueta assemblea di fine anno. Ha ucciso tre donne e ha ferito altre quattro persone, di cui una in modo grave. Poi la pistola si è inceppata e alcuni dei presenti gli si sono piombati addosso disarmandolo e fermando quella strage che forse sarebbe continuata. Campiti aveva con se 170 proiettili e anche un secondo caricatore.

Secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, in serata Campiti è stato fermato con l’accusa di triplice omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, il triplice tentato omicidio, in riferimento alle persone rimaste ferite, e il porto abusivo di armi. Quando è arrivato sul posto dove si stava svolgendo l’assemblea di condominio aveva con se il passaporto e in uno zaino vestiti e sei mila euro in contanti. Per questo la Procura parla anche di pericolo di fuga.

Ex imprenditore, Campiti viveva come un fantasma nello scheletro della villetta vista lago che aveva acquistato nel 2010. Il Corriere della Sera racconta che era sposato e aveva due figlie. Quella villetta doveva essere la casa per le vacanze per tutta la famiglia. Ma era rimasta incompiuta con solo il piano terra chiuso con quattro mura. Viveva con un allaccio elettrico abusivo, senza acqua e senza servizi igienici. Campiti se ne stava lì nel buio a covare odio e a scrivere minacciosi post sui suoi social e sul suo blog. Aveva anche piazzato delle telecamere di videosorveglianza all’esterno della villetta asserendo che gli erano stati rubati dei ciocchi di legna. Di recente gli era stata notificata l’ingiunzione di pagamento, da cui è sfuggito per mesi. “Mi stanno tenendo senza pubblica illuminazione, si sa al buio si vede meno e si può sparare in tranquillità”, scriveva sul suo blog, come riportato da Repubblica. Oggi quelle parole risuonano ancora più agghiaccianti.

Lite condominiale si trasforma in strage, tre morti a Roma: spari all’impazzata in un bar, fermato il killer

Un tragico evento aveva rotto l’equilibrio e l’animo di Campiti. Nel 2012 suo figlio 14enne, Romano, morì in Val Pusteria in un incidente durante una gita in slitta sulla Croda Rossa. Iniziò così la battaglia giudiziaria finita con tre condanne, e la creazione di una fondazione con il nome del ragazzo scomparso. Poi quel suo precario equilibrio si è rotto ancora di più e sono iniziate le denunce, le controdenunce e le minacce al Consorzio e i dispetti. Come quando l’estate scorsa aveva aggredito dei ragazzini che giocavano a pallone, girava mezzo nudo e aveva affisso uno striscione alla sua casa con sui scritto “Consorzio raus”. Le minacce ricevute dai consorziati avevano portato a una denuncia in Procura che, secondo le vittime, è stata persa. “Abbiamo appreso della denuncia ma non possiamo dire nulla al momento”, ha confermato il pm di turno. Poi la situazione è precipitata in una domenica di dicembre quando Campiti ha impugnato l’arma e ha sparato.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Rinaldo Frignani per corriere.it il 12 dicembre 2022.

Claudio Campiti aveva la tessera Platinum del poligono nazionale in viale di Tor di Quinto. Un frequentatore abituale, un appassionato di armi, come si evince anche dai contatti sul suo profilo Facebook. E anche un esperto tiratore, grazie proprio alle regolari visite nella struttura romana dove era ben conosciuto. Aveva preso il diploma finale di tiro il 15 novembre 2019, come sarebbe riportato nella scheda tecnica a lui intestata, mentre l'abilitazione alle armi con iscrizione al poligono risale a due anni prima. Insomma, un habitueé del centro. 

Ecco perché chi domenica mattina gli ha consegnato la pistola usata poi nella strage di via Monte Giberto, a Fidene, non si sarebbe sorpreso più di tanto quando il 57enne, ora in carcere per triplice omicidio aggravato dai futili motivi e dalla premeditazione, ha chiesto e ottenuto una Glock  41, con numerose confezioni di proiettili camiciati calibro 45. 

Ci aveva già sparato più volte, la conosceva bene, così come l'armiere, che ora rischia di essere indagato insieme con i vertici del poligono, che al momento non vogliono rilasciare dichiarazioni, che gli ha consegnato arma e munizioni alle 8.55, circa 35 minuti prima dell'arrivo di Campiti nel gazebo del bar «Il posto giusto».

Ma ad aggravare quello che è successo a Tor di Quinto è oltretutto il fatto che nessuno si è reso conto se non quando era ormai troppo tardi che il 57enne non si è affatto diretto verso la linea di tiro, con le postazioni e i bersagli, ma soprattutto gli istruttori addetti alla sicurezza, bensì ha ripreso la strada per il parcheggio dove aveva lasciato la sua Ford Ka verde e ha imboccato il cancello d'uscita portandosi dietro la Glock e le scatole con le munizioni. 

All'armeria di Tor di Quinto ha lasciato la tessera Platinum e il documento d'identità che avrebbe dovuto riprendere una volta riconsegnata l'arma. Una evidente falla nei controlli di sicurezza del poligono sulla  quale i carabinieri della compagnia Montesacro e del Nucleo investigativo di via In Selci stanno indagando per accertare le responsabilità di chi avrebbe dovuto vigilare e non l'ha fatto.

 In questo senso potrebbero tornare utili le immagini della videosorveglianza interna ed esterna del complesso così come l'acquisizione dei documenti relativi all'iscrizione e alle visite di Campiti al poligono negli ultimi cinque anni. Una questione che è stata affrontata proprio lunedì mattina dal prefetto Bruno Frattasi nel corso del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica convocato all'indomani della strage di Fidene.

«Programmeremo una stretta sui poligoni di tiro, ne parleremo ora con il questore e le altre forze di polizia per vedere i controlli amministrativi che noi possiamo fare quanto alla regolarità della conduzione della gestione da parte dei vari gestori di queste strutture», spiega il prefetto, che aggiunge: «É giusto che si pianifichi e che l'attività si porti avanti con rapidità, questo posso dire con riguardo alla generalità delle strutture che andremo a controllare. 

Ma riguardo a quello che è accaduto non posso pronunciarmi assolutamente, anche per il rispetto che occorre dare alle attività che sono in corso di indagine, affidate alla magistratura. Individuare responsabilità prima che l'abbia fatto la magistratura non è corretto farlo. Non posso esprimermi su quello che è successo ieri, certo resta il fatto che una persona si è allontanata con l'arma da una struttura di tiro eludendo i controlli».

La strage di Fidene: la rabbia scritta sulla lapide del figlio, il killer e quei 10 anni vissuti da fantasma. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022.

L’uomo della strage nella riunione di condominio. Le lettere a politici e personaggi famosi. Nella casa tugurio senza acqua né bagno, allacci abusivi alla luce. E la «guerra» con chi lo accusava di morosità

«All’adorato Romano senza più quel futuro di studente brillante negato da una corrotta gestione del Patrimonio dell’Umanità». Incisa sulla lapide del figlio c’è tutta la rabbia di Claudio Campiti. Un eterno atto d’accusa contro chi nel 2012 sulle nevi della Val Pusteria gli ha portato via il suo ragazzo, liceale modello alla scuola francese Chateaubriand di Villa Borghese, il giorno prima del suo compleanno. E contro chi — secondo lui — durante il processo ha tentato di infangarne la memoria. Ma è solo l’inizio di una tragica parabola. Dieci anni dopo il 57enne ex imprenditore e assicuratore, che aveva trascorso la giovinezza a Ladispoli e Cerveteri, sul litorale romano, ha scaricato tutto quell’odio nel gazebo affollato di innocenti del bar «Il posto giusto», fra Fidene e Colle Salario. Convinto di essersi vendicato di chi gli aveva fatto terra bruciata attorno in un complesso residenziale vicino Rieti, gestito dal Consorzio Valleverde ad Ascrea, dove pensava di potersi invece rifare una vita. 

Dieci anni, forse anche di più, vissuti come un fantasma: mai una foto con l’ex moglie diplomatica, Rossella Ardito, sconvolta e chiusa nella sua casa a Prati, né con le figlie Sveva e Costanza, cresciute nel ricordo straziante del fratello maggiore. Dieci anni di lotte parallele, ma separate, per ottenere giustizia per il figlio scomparso in un assurdo incidente in slittino sulla Croda Rossa. Lui nell’ombra, ma in fondo sempre presente con il blog dedicato a Romano, al quale ha fatto raccontare in prima persona tutte le sue iniziative per far mettere in sicurezza quel tortuoso tracciato fra gli alberi. Gli incontri con gli amministratori locali, le denunce in Procura sulla pericolosità delle piste e la mancata manutenzione, le telefonate all’Istituto di sanità per conoscere le statistiche sugli incidenti sulla neve. Le lettere a politici e personaggi famosi, anche a Reinhold Messner. 

Un impegno continuo per la verità, poi certificata dalla condanna definitiva di tre persone. «Sono morto sulla pista di slittino, se una strada di montagna si può chiamare pista, finendo contro un albero. Per questo devo ringraziare il gestore che nulla ha fatto per mettere in sicurezza il tratto dove io sono morto. Io sapevo sciare ma non ero mai stato su uno slittino. Mio papà vuole che vi racconti la mia storia e quello che lui sta facendo per evitare che altri papà debbano soffrire quanto tocca a lui ora e fino alla fine dei suoi giorni toccherà soffrire», scriveva Campiti sempre a nome del figlio. Ora, dopo quello che ha fatto a Roma, a soffrire sono sette famiglie. Ma lo stile di quei post è lo stesso che il killer di Fidene ha poi utilizzato nell’altro blog, Benvenuti all’Inferno, l’arma nelle sue mani per attaccare il direttivo del Consorzio Valleverde.

Prima di impugnare davvero la pistola, non con la mente offuscata — almeno fino a oggi non è emerso nulla al riguardo — ma, secondo gli inquirenti, con un lucido progetto pluriomicida che prendeva in considerazione anche l’ipotesi di una fuga all’estero. Fra i suoi obiettivi anche Luciana Ciorba, salva per un soffio. «Quello non è matto per niente», assicurava domenica con lo sguardo terrorizzato. Campiti la insultava in modo pesante, indicandola come una delle responsabili del fallimento del suo investimento al Turano: uno scheletro di cemento armato da trasformare in casa per vacanze. È rimasta così per 15 anni, senza autorizzazioni per completarla. Senza acqua, bagno. La corrente elettrica assicurata da allacci abusivi. In guerra con chi gli ricordava che era moroso sulle quote condominiali. 

Al contenzioso per i mancati versamenti, Campiti ha replicato con denunce e slogan sul web. Nel 2016 il primo striscione con la scritta «Consorzio raus!», poi l’accusa, con un esposto, ai suoi componenti di essere «un’associazione a delinquere mafiosa con tanto di pagamento del pizzo». Non ha risparmiato nessuno, nemmeno la Procura e la prefettura di Rieti. Lo aveva fatto anche a Bolzano, quando se l’era presa con i magistrati. «L’ennesima udienza, l’ennesimo pm, mi chiedo a cosa serva questa figura se praticamente a ogni udienza cambia. Forse sarebbe meglio levargli il disturbo di partecipare», aveva scritto. Identico atteggiamento a Rieti, scenario diverso, ma scontro continuo — nelle caotiche riunioni di condominio, con i carabinieri presenti — al quale Campiti non è stato sempre da solo nelle sue rivendicazioni. Dal 2015 però nessuno lo ha più seguito. E l’escalation di rancore e problemi economici ha preso il largo, come l’ossessione per le armi da fuoco.

Ilaria Sacchettoni e Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 12 dicembre 2022.

Per la sua guerra privata al Consorzio Valleverde Claudio Campiti aveva piazzato telecamere nascoste davanti all'abitazione che nel 2010 aveva acquistato all'asta per circa 200 mila euro. «Chi è (e chi lo ha mandato) il tizio che è venuto a fregare 4 ciocchi di legna più per intimidire che altro?», scriveva sul suo blog «Benvenuti all'inferno», a corredo di frame datati novembre 2021 nei quali si vedono persone attorno allo scheletro di quella che sarebbe dovuta essere una villetta con vista sul lago del Turano, in provincia di Rieti. 

Cinquantasette anni, ex imprenditore, sposato con Rossella Ardito, già addetta culturale in alcune ambasciate, Campiti viveva come un fantasma sulla collina che sovrasta il complesso residenziale nel Comune di Ascrea. Doveva essere una casa per le vacanze con la moglie e le figlie Sveva e Costanza, invece è rimasta un'opera incompiuta: solo il pianterreno è chiuso da quattro mura.

Un sogno spezzato per motivi misteriosi, forse anche economici, dopo il dolore infinito per la morte del figlio 14enne Romano, studente del liceo Chateaubriand a Villa Borghese, deceduto il primo marzo 2012 in Val Pusteria in un incidente durante una gita in slitta sulla Croda Rossa. Da quel lutto era seguita una battaglia giudiziaria, con tre condanne, e la creazione di una fondazione. Campiti aveva organizzato manifestazioni, fiaccolate. 

Nelle interviste lamentava di non essere stato ricevuto dai politici locali.

L'approdo a Valleverde ha fatto precipitare il suo già precario equilibrio. Denunce e controdenunce, minacce ai vertici del Consorzio. «Viveva ai margini», racconta uno dei vicini, Mario Bartulli. In ballo un contenzioso di 10 mila euro perché Campiti non saldava le quote sociali, in media 170 euro a trimestre. Non una cifra impossibile, ma per lui era ormai una questione di principio. Impossibile notificargli l'ingiunzione di pagamento. Da quel momento la situazione era peggiorata. Le minacce ricevute dai consorziati avevano portato a una denuncia in Procura che, secondo le vittime, è stata persa.

«Abbiamo appreso della denuncia ma non possiamo dire nulla al momento», conferma il pm di turno. Ormai però la guerra era dichiarata. Cominciata con le carte bollate e poi conclusa ieri con una pistola rubata in maniera incredibile al poligono a Tor di Quinto, ora sequestrato: iscritto da anni, Campiti è uscito indisturbato dal cancello dopo aver ritirato in armeria una Glock 45. 

Nessuno ha controllato che si recasse nella postazione di tiro, come nessuno ha visto che si allontanava con la valigetta contenente la pistola. Nelle sue intenzioni c'era quella di sterminare tutti i 32 partecipanti alla riunione nel bar di Fidene - «Il posto giusto», ironia della destino - e fuggire all'estero: addosso gli sono stati trovati due caricatori pieni e 170 proiettili sfusi, nella sua Ford Ka uno zaino con passaporto, 6mila euro e indumenti. 

La procura gli contesta la premeditazione e il pericolo di fuga. All'ordine del giorno dell'assemblea dei soci ci sarebbe stata la costruzione di una piscina e di campi da tennis. Il 57enne era contrario: spese superflue per lui che viveva con allacci elettrici abusivi, senza acqua e servizi igienici, in quella che era la sua residenza ufficiale. Campiti non sopportava nemmeno il fatto che a pochi metri dalla proprietà venissero scaricate erbacce frutto degli sfalci. Altri litigi e minacce - ai ragazzini che giocavano nel giardinetto vicino casa sua - e comportamenti quantomeno singolari - girare mezzo nudo -, fino allo striscione sullo scheletro di cemento, con la scritta «Consorzio raus!».

Avvertimento dal tenore nazista, accompagnato in passato da foto di miniature di Hitler e Mussolini sul profilo Facebook con link a negozi di armi e motti fascisti. Su tutti «Molti nemici molto onore». E di nemici, almeno nella sua mente, Campiti ne aveva tanti. Li ha citati tutti nel suo blog, accusandoli di essere «un'associazione a delinquere mafiosa» che può contare su un «paradiso penale» assicurato dalla «Procura e dalla Prefettura» di Rieti, e «dai comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda».

«Qui denunciare è tempo perso, so' tutti ladri - rivelava -. È un feudo concesso dallo Stato al Consorzio Valleverde. Ormai dopo varie denunce mi è chiaro che la banda è a tutti i livelli». Ritenendosi un perseguitato, «costretto a pagare il pizzo alla banda», il consorziato-ribelle si è preparato all'ultima battaglia: temeva l'esproprio della sua casa e potrebbe essersi vendicato colpendo per primo.

(ANSA il 12 dicembre 2022) - Nel decreto di fermo la Procura di Roma contesta anche il pericolo di fuga nei confronti di Claudio Campiti, l'uomo che oggi ha ucciso tre donne e ferito altre tre persone. L'indagato, infatti, aveva con sé al momento della sparatoria il passaporto e in uno zaino vestiti e sei mila euro in contanti.

Giovanni Bianconi per “il Corriere della Sera” il 12 dicembre 2022.

Le tute bianche del Raggruppamento investigazioni scientifiche dei carabinieri si muovono dentro le pareti plasticate del gazebo, intorno ai cadaveri, alla ricerca di dettagli utili a riscontrare la dinamica della strage. Fuori, alcuni parenti delle vittime si scambiano sguardi increduli.

Perché è difficile credere a ciò che è accaduto, capire come e perché la terza domenica di Avvento s’è trasformata in una domenica di sangue ai margini di Fidene, borgata all’estrema periferia Nordest di Roma, dove il cemento ha avuto la meglio sul verde. 

Per ora la spiegazione è tutta nella lucida e premeditata follia di Claudio Campiti, l’inquilino 57enne che ha atteso l’assemblea del Consorzio che gestisce l’area dove abitava da solo e in condizioni precarie, settanta chilometri ancora più a Est, per uccidere tre persone e ferirne altre quattro, di cui una in modo grave. Ma solo perché altri inquilini l’hanno sopraffatto e disarmato, altrimenti la mattanza in stile campus nord-americano avrebbe avuto un bilancio ancora più drammatico.

La ricostruzione compiuta attraverso le testimonianze e le riprese delle telecamere del bar-pizzeria che aveva messo a disposizione i locali — Il posto giusto, si chiama, ma nessuno se la sente di ironizzare davanti a un’insegna che improvvisamente suona così fuori luogo — è quella di un’esecuzione in sequenza; tre donne ammazzate una dopo l’altra: Sabina Sperandio, Elisabetta Silenzi e Nicoletta Golisano, rispettivamente consigliera, segretaria e commercialista del Consorzio. Campiti avrebbe continuato a uccidere, un’altra donna è stata colpita gravemente alla testa, ma tra la pistola che s’è inceppata e alcuni dei presenti che gli sono saltati addosso disarmandolo la strage s’è fermata.

Il caricatore della Glock semiautomatica conteneva 16 proiettili ma Campiti in tasca ne aveva un centinaio, sottratti al Poligono nazionale di Tor Di Quinto insieme all’arma. Gli avevano consegnato tutto di prima mattina, dove s’era presentato esibendo la carta d’identità come in altre occasioni. Ieri però non ha sparato alle sagome, è risalito in macchina con arma e cartucce puntando verso Fidene. 

E forse questo è l’aspetto più inquietante della storia: come si possa portar via una pistola così facilmente da un Poligono di tiro, che non a caso è stato sequestrato dalla Procura di Roma. Qualche mese fa Campiti aveva chiesto il porto d’armi, ma gli fu negato proprio per le liti condominiali di cui c’era traccia negli archivi dei carabinieri. L’incredibile sfondo della tragedia.

Il Consorzio Valle Verde, incastonato tra i borghi di Ascrea e Rocca Sinibalda con vista sul lago del Turano, in provincia di Rieti, offre di sé le immagini di un piccolo paradiso terrestre, ma l’uomo tramutatosi in assassino lo dipingeva nel suo blog come un inferno. L’ha scritto letteralmente a novembre 2021, «Benvenuti all’inferno», prima di una lunga requisitoria dai toni astiosi: «Qui con il codice penale lo Stato ci va al cesso. 

Qui denunciare è tempo perso, so’ tutti ladri... Il Consorzio Valle Verde è in realtà un’associazione a delinquere, direi anche mafiosa perché — accusa Campiti citando un noto magistrato antimafia — quando un gruppo di manigoldi riesce a soggiogare dei cittadini c’è mafia». Nelle sue denunce Campiti accomuna tutti: gli altri inquilini, ma anche amministrazioni locali, Prefettura e Procura che «hanno legalizzato il pagamento del pizzo esigendo le quote consortili».

Il contenzioso s’è arricchito di denunce e controdenunce, istanze per esigere le somme non pagate a cui si aggiungono quelle richieste dal Comune. «Aveva avuto un contributo per sopperire alle sue carenze economiche e realizzare l’allaccio alla fognatura, ma i lavori non sono mai stati realizzati per cui gli sono stati chiesti indietro i soldi», racconta il sindaco di Ascrea, Riccardo Nini. Campiti però ribatteva lamentando la distruzione della cassetta postale e la mancanza di illuminazione, con frasi che oggi suonano come un presagio: «Il lampione davanti alla mia abitazione si spegne regolarmente lasciandomi al buio tutta la notte. Mi stanno tenendo senza pubblica illuminazione. Si sa, al buio si vede meno e si può sparare in tranquillità».

Temeva le aggressioni, Campiti: «Persone a me care del paese dicono di stare attento alle “schioppettate”», e a leggere ora le sue proteste sconnesse sembra che all’improvviso abbia deciso di aggredire lui per primo. Giocare sciaguratamente d’anticipo. Una mossa che nessuno immaginava, nemmeno tra quelli che ne conoscevano l’animosità e la propensione alle liti. «C’erano discussioni ma tutte per futili motivi, mai niente di serio», ricorda il signor Giovanni che come quasi tutti gli altri soci del Consorzio vive a Roma. 

Tutti proprietari di seconde abitazioni. Solo Campiti lì aveva la prima, se abitazione si può chiamare quel cubo di cemento con porta e finestre sbarrate, il piano superiore rimasto un cantiere dove campeggia un’antenna parabolica e lo striscione «Consorzio Raus», rivelatore della sua personale battaglia e delle tendenze nazi-fasciste che s’intuiscono anche da immagini e slogan che adornano il suo profilo facebook.

«Un tipo strano, solitario e segnato dal dramma di un figlio adolescente morto sulle piste da sci dieci anni fa». Così lo considerava il signor Giovanni fino a ieri mattina, quando l’ha visto trasformarsi in un killer freddo e spietato: «È entrato, ha chiuso la porta alle sue spalle, ha tirato fuori la pistola e io ho pensato che volesse minacciarci. Invece ha subito fatto fuoco contro la prima donna seduta al tavolo della presidenza, poi la seconda, la terza. Una cosa tremenda... Qualcuno gli è saltato addosso, io sono corso ad aprire la porta per far uscire tutti».

Un testimone ha sentito l’assassino gridare «Vi uccido tutti», prima di premere il grilletto della Glock. Uno solo. Gli altri ricordano gli spari e il sangue. Portato in caserma, e poi in ospedale prima del trasferimento in carcere, Campiti è rimasto in silenzio. Come i parenti delle vittime che ora guardano le tute bianche del Ris muoversi dentro il gazebo intorno ai corpi dei loro cari.

Gianluca Nicoletti per “la Stampa” il 12 dicembre 2022.

Sarà ricordata come «la strage della riunione di condominio». La carneficina in un bar periferico di Roma, che è costata la vita a tre donne e gravi ferite ad altre quattro persone, è intessuta di un così alto coefficiente di ottusa violenza, ignoranza e bestiale istinto di sopraffazione da non permettere eccessive astrazioni. È pur vero che è veramente difficile non rimandare al luogo comune di come, dietro al periodico rendiconto tra condomini, ci sia spesso la sensazione del possibile accendersi di un campo di battaglia.

La terrificante riunione di condominio bimestrale, che si svolgeva a turno nelle case dei condomini, presieduta da Fantozzi è, sotto l'intento satirico, la più cruda e realistica rappresentazione di quanto questo evento sia un momento di verità. Forse la resa dei conti più implacabile tra esseri umani, la cui convivenza è definita da un regolamento. Gli inquilini se le danno di santa ragione distruggendo il salotto di casa del ragionier Ugo, salvo poi congedarsi con i soliti rituali di ipocrita affabilità che le esigenze di facciata impongono anche a chi si odia di cuore.

Forse può servirci riflettere sulla cronaca della mattanza di Fidene, assieme a quanto sia stato possibile immaginare, o ricordare di esperienza personale, riguardo al pregiudizio che ognuno ha radicalizzato nel tempo sulla riunione di condominio. 

Il riunirsi per deliberare su interessi in comune dovrebbe essere, senza dubbio, un liberatorio rituale collettivo, in uno spazio e un tempo circoscritti, condivisi da persone che convivono. Molto più spesso però diventa l'occasione in cui ognuno è tentato a esprimere il disagio immancabile di ogni coabitazione.

Alla riunione il condomino convocato va armato delle sue rivendicazioni, con la speranza, quasi sempre frustrata, di ottenere giustizia da una sorta di tribunale del popolo, costituito temporaneamente per l'occasione. 

Nulla come la coabitazione condominiale ci mette di fronte alla necessità di mettere in atto strategie di convivenza con persone che non abbiamo scelto di incontrare ogni giorno nel nostro pianerottolo, con cui condividere ascensori, parcheggi, androni e scale. Nella convivenza condominiale abbiamo modo di sperimentare le nostre e altrui bassezze.

Conosciamo l'invidia per chi pensiamo abbia più di noi senza meritarlo, la frustrazione di dover subire i suo malumori, le sue angherie, come pure i suoi piaceri e le sue fortune.

Nel condominio ci si misura i centimetri di davanzale, i decibel di trambusto infantile come pure di affocamento sensuale. Gli afrori delle cucine, dei bagni, delle canne fumarie, delle caldaie, degli scarichi, dei cani, dei gatti. 

Solo attraverso la comunità condominiale misuriamo, ogni giorno, la nostra sopportazione di presenze aliene al perimetro sacro di casa nostra. La gestione del condominio esprime poi una gerarchia di figure simboliche che spesso contribuiscono a destabilizzare ulteriormente la nostra tenuta civica, messa a prova nel micro universo del convivere quotidiano.

C'è sempre un amministratore, che per qualcuno è un alleato in giochi di piccolo potere, per altri la testa di ponte di un complotto mirato a speculare, depauperare, svilire la nostra proprietà. Poi le classiche figure che esprimono ulteriori poteri abusivamente amministrati, come il portiere, l'umarell zelante che mette ovunque cartelli minatori. L'avvocato che minaccia citazioni, quello che non paga le quote e infine quello che alle riunioni litiga sempre con tutti perché la sua convinzione è avere tutti contro.

È la concretizzazione di ogni odioso vicino allucinabile, colui che lamenta con insistenza di trovarsi in una cosmica congiunzione di circostanze avverse, accusando gli altri di appartenere al centro operativo di ogni ingiustizia e vessazione a suo danno. Quando in questa crudele micro rappresentazione di ogni possibile distorsione del potere e del diritto, qualcuno va alla riunione di condominio portandosi in tasca una pistola, quel già instabile universo implode. Avviene, come si è visto, la più disastrosa apoteosi del banale malessere, oltre ogni dimensione della tragedia per cui possiamo esserci, nel tempo, allenati a saper gestire.

Estratto dell’articolo di Martina Di Berardino e Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 13 dicembre 2022. 

«Claudio Campiti? Sì, è qui. È in linea di tiro, sta sparando. Perché, cosa è successo?» . I carabinieri arrivano al Poligono di Tor di Quinto, l'uomo ha appena compiuto una strage, 3 donne morte 3 persone gravemente ferite. Ma i responsabili all'ingresso della struttura, quelli che gli hanno consegnato l'arma, non lo sanno.

[…] Troppe coincidenze. Ecco che gli investigatori e i dipendenti vanno in linea di tiro. Qui un istruttore è categorico: « Campiti oggi non si è mai visto » .  In pratica il 57enne ha preso l'arma, ha girato i tacchi e ha guadagnato l'uscita senza che nessuno se ne accorgesse. […] 

Tra l'altro, in passato, nello stesso impianto si erano verificati altri spiacevoli episodi. Nel 2010 un trentenne si suicidò nel bagno dopo aver noleggiato una pistola. E nel 2012 il socio del poligono Marcello Ventrella, detto "il londinese" presentò un certificato medico falso, rubò una 44 Magnum presa in affitto e rapinò un ufficio postale a Firenze.

[…] Campiti ha ritirato la Glock nella valigetta di contenimento obbligatoria e sigillata con una fascetta che avrebbe potuto aprire soltanto un istruttore o un responsabile della struttura, e invece di avviarsi verso i bersagli di carta cerchiata ha ripreso l'auto ed è andato al bar di Fidene. 

Prima di noleggiare l'arma, Claudio è passato in segreteria per acquistare il massimo dei proiettili consentito: 4 scatole da 50 pezzi. Nonostante fosse assolutamente vietato, è uscito dalla struttura senza difficoltà con la Glock aprendo così una serie di interrogativi sulla sicurezza e sulla facilità di impadronirsi di un'arma: i Tsn, tiro a segno nazionale, sono un supermarket delle armi?

Per noleggiare un'arma basta presentare un certificato di idoneità rilasciato dal medico di base (come per la palestra), un'autocertificazione che attesti l'assenza di carichi pendenti (mentre per il porto d'armi serve il nulla osta della Questura), un documento valido e superare il breve corso di maneggio. Poi, passato il corso, si può affittare una pistola o un fucile nell'armeria del Poligono pagando la quota, esibendo l'attestato di idoneità e lasciando come deposito un documento. 

L'arma però non può per alcun motivo uscire dalla struttura, ma alla disposizione non consegue alcun controllo e chiunque, con la pistola appena affittata, può uscire. Non c'è comunicazione tra armeria e pedana di fuoco. Anche di questa assenza di comunicazione ha approfittato Campiti. Per adesso Tor Di Quinto è sotto sequestro da parte del pm Giovanni Musarò, il magistrato titolare dell’indagine contro il killer di Fidene.

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino e Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 13 dicembre 2022.

«Sparava frontalmente al bersaglio, puntava uno a uno tutti i presenti». […] «Ha fatto una sorta di tiro al bersaglio », raccontano le testimonianze dei superstiti. A Roma, due giorni fa, intorno alle 9,30, il killer nel dehor del bar alla periferia di Fidene «ha mirato in punti vitali con una Glock calibro 45», dice il pm. 

[…] E quando spara non sbaglia, rivelano i 30 colpi su 30 messi a segno sul bersaglio che nel 2019 gli ha permesso di conseguire il diploma nella sede del Tiro a segno nazionale di Tor di Quinto, lo stesso circolo dove era iscritto dal 2017 con un abbonamento Platinum e da cui, mezz' ora prima della mattanza, ha rubato sotto il naso degli addetti l'arma prediletta.

[…] Una carneficina terminata al grido di «maledetti mi avete lasciato sei anni senz' acqua, vi ammazzo tutti», ma orchestrata già a partire dai primi di novembre. Tre zaini pieni di indumenti, un tablet, un passaporto, il coltello allacciato sulla coscia e un pugnale in tasca rivelano la premeditazione e l'idea di fuggire.  Per il piano di morte mancava solo la pistola. […]

Gra. Lon. per “la Stampa” il 13 dicembre 2022.

Una domanda si impone su tutte: com' è possibile che Claudio Campiti sia uscito indisturbato dal poligono di Tor di Quinto portandosi via la pistola? Il guaio è che il Tiro a segno nazionale è organizzato in modo tale che per abbandonare la struttura non è necessario ripassare dal punto in cui si è ricevuta l'arma a noleggio, è sufficiente non andare più a recuperare il documento di identità consegnato in pegno. 

Inoltre all'uscita manca il metal detector e tra l'armeria e l'area tiro c'è un parcheggio dove è facile muoversi senza problemi. Del resto l'assassino a Tor di Quinto era di casa: si era iscritto il 31 maggio 2018 e aveva conseguito il diploma finale di tiro il 15 novembre 2019, come risulta nella scheda tecnica a lui intestata. Ma le sue abilità erano cresciute al punto che aveva ottenuto addirittura la tessera platinum, che conferma la capacità di ottenere 30 colpi sul bersaglio su 30 sparati. 

Si allenava con regolarità e la sua pistola preferita era proprio quella usata per il triplice delitto di domenica mattina: la Glock calibro 45. L'ha chiesta espressamente domenica alle 8,55, il poligono aveva aperto alle 8,45, e si è anche fatto consegnare 100 proiettili. Gli altri 70 di cui era in possesso li aveva molto probabilmente messi da parte durante precedenti sedute di tiro.

Il pm Giovanni Musarò e i carabinieri del comando provinciale di Roma stanno indagando per capire le falle all'interno del Poligono. Sia di carattere organizzativo sia strutturale, riferite alla costruzione dell'impianto. Si stanno cioè raccogliendo gli elementi utili per accertare la possibilità di contestare eventuali reati ai responsabili del centro, sia a livello direttivo sia a quello degli istruttori armieri. È evidente che c'è stata un'omessa vigilanza, ma è probabile che si ravvedano anche altre ipotesi di reato.

A Tor di Quinto non esiste alcun collegamento tra chi consegna la valigetta con armi e proiettili e chi sta alla linea di tiro, dove Campiti non è mai arrivato perché è salito sulla sua Ford Ka verde regolarmente in sosta nel parcheggio ed è andato via portandosi via la Glock e le munizioni. 

E purtroppo non esiste neppure il vincolo, da parte del poligono, di verificare se a chi noleggia un'arma è stata respinta la richiesta del porto d'armi come avvenuto a Campiti. Non solo, il certificato sulle condizioni psico-fisiche non deve essere rilasciato da uno psicologo, ma basta la firma del medico di base.

I carabinieri hanno messo sotto sequestro il poligono e hanno prelevato documenti e filmati della video sorveglianza. Singolare, infine, che l'iscrizione al poligono sia avvenuta pochi mesi dopo un acceso contenzioso con il Consorzio Valleverde per l'accusa nei confronti di Campiti di aver incendiato delle panchine. Intanto il prefetto di Roma Bruno Frattasi osserva: «Programmeremo una stretta sui poligoni di tiro, ne parleremo ora con il questore e le altre forze di polizia per vedere i controlli amministrativi che noi possiamo fare quanto alla regolarità della conduzione della gestione da parte dei vari gestori di queste strutture. È giusto che si pianifichi e che l'attività si porti avanti con rapidità, questo posso dire con riguardo alla generalità delle strutture che andremo a controllare».

MAIL A DAGOSPIA il 13 dicembre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo: 

Buongiorno,

Mi chiamo Giampaolo Bianchi, sono un chirurgo ed esercito in un ospedale romano.

Volevo precisare che il 13/6/2013 ci fu un altro suicidio al poligono. Il mio vicino di linea si suicidò dopo aver conseguito l'abilitazione il giorno precedente. La pallottola mi passò attraverso i capelli, ed ancor oggi non so come sono sopravvissuto.

Dopo pochi giorni ebbi un colloquio con il presidente dell' epoca, per far presente che i tiratori erano separati da "zanzariere". Conservo ancora il certificato di morte del suicida, in quanto l'ambulanza accorsa, non aveva il medico a bordo, e lo dovetti redigere io. 

All’epoca del suicidio, l’attuale presidente, oggi dimissionario, era consigliere. Mi rivolsi in primis a questa persona per avere un appuntamento con il presidente, e mi sembrò che ci fosse come una specie di “fastidio” per la mia richiesta.

Il fatto all’epoca fu attenzionato con 2 piccoli trafiletti su due giornali romani. 

Cordiali saluti

Dott. Giampaolo Bianchi

Da romatoday.it – 13 giugno 2013 

Si è puntato la pistola alla testa ed ha premuto il grilletto. Tragedia al poligono di tiro a segno nazionale di viale di Tor di Quinto dove un uomo di 69 anni si è suicidato sparandosi un colpo alla tempia. L'episodio si è verificato intorno alle 12 di questa mattina quando altre persone che stavano sparando ai bersagli hanno visto il pensionato, originario di Napoli ma residente a Roma, da diversi anni accasciato al suolo riverso con il volto nella terra. Inutili i soccorsi, l'uomo è deceduto sul colpo. 

INTERVENTO CARABINIERI - Allertati i carabinieri della compagnia Trionfale, diretti dal maggiore Pascale e coordinati dal tenente Di Stefano, i militari non hanno potuto far altro che constatare il decesso del pensionato, appurando la tesi del suicidio.

Giuseppe Scarpa per repubblica.it il 13 dicembre 2022.

Non ce l'ha fatta Fabiana De Angelis, la quarta donna colpita domenica mattina da Claudio Campiti. La donna è morta all'ospedale Sant'Andrea, dove era stata ricoverata subito dopo la sparatoria, avenuta a Fidene, durante una riunione di condominio. Sale così a quattro il terribile bilancio della sparatoria  avvenuta durante l'assemblea del consorzio Valleverde, una urbanizzazione nel Reatino, vicino al lago del Turano, che si teneva a Roma perché la maggior parte dei proprietari risiede nella Capitale.

Federico Garau per ilgiornale.it il 13 dicembre 2022.

Emergono ulteriori dettagli sulla figura di Claudio Campiti, il 57enne che domenica scorsa ha tolto la vita a Sabina Sperandio, Elisabetta Silenzi e Nicoletta Golisano durante una sparatoria da lui provocata. L'uomo, ora chiuso dietro le sbarre del carcere di Regina Coeli per triplice omicidio aggravato da premeditazione e in attesa dell'udienza di convalida, ha percepito per un lungo periodo di tempo il reddito di cittadinanza.

Le verifiche fiscali

Sono ore fondamentali per le indagini. Decisi a scavare a fondo nella vita di Campiti, i carabinieri incaricati di condurre l'attività investigativa hanno effettuato anche dei controlli di natura fiscale nei confronti del soggetto. A quanto pare il 57enne, già profondamente segnato dalla morte del figlio Romano Campiti, morto in un tragico incidente in montagna, aveva anche perso il lavoro. 

Campiti si trovava dunque in forti difficoltà economiche e per diverso tempo aveva beneficiato del sussidio grillo. Gli inquirenti parlano dell'arco di tempo compreso fra aprile 2020 a settembre 2022. Questo quanto emerso dai controlli di natura fiscale effettuati dai carabinieri, che hanno fatto accertamenti sui redditi dell'uomo. Percependo il reddito di cittadinanza per circa 2 anni, Campiti avrebbe ottenuto poco meno di 9000 euro totali. 

Anche le difficoltà economiche, oltre al trauma per la perdita del figlio, potrebbero essere alla base del raid omicida commesso dal 57enne.

Gabriele Romagnoli per “La Stampa” il 14 dicembre 2022.

Questa non è una difesa di Claudio Campiti, l'assassino del condominio (ci penseranno i suoi avvocati). Questo è un tentativo di spiegare che cosa può succedere nella geometria di un'esistenza quando la linea retta su cui si camminava si spezza, eppure si va avanti, sul vuoto. Più che equilibristi impossibili, morti viventi. 

«Zombie!», direbbe un bambino. Claudio Campiti non l'aveva più, il suo bambino. L'aveva perso dieci anni fa, appena quattordicenne. Un incidente sullo slittino, in mezzo a nevi lontane. 

Voleva dei responsabili. Aveva sostituito la passione con l'ossessione. Fatto causa. Vinto un processo. Ottenuto un risarcimento. E ancora. Contro un uomo, altri due, tutti quanti. Sono vicende per cui si può perdere la ragione. O la fede. O entrambe.

Si fa spesso notare che nel nostro vocabolario non esiste una parola per definire chi ha perduto un figlio. Un tentativo nominalista di esorcizzare l'eventualità. Se non è dicibile non è possibile. Eppure accade. Ci sono lingue poco parlate in cui quella parola esiste. Mondi in cui la morte violenta non è occasionale. Ti aspetta al varco tutte le volte in cui si spegne una luce. 

Ogni sofferenza è riproducibile. Ogni vita lo diventa. Da questa parte del mondo no. È trauma. Ostacolo non rimuovibile. Eppure ti lascia vivo.

Dicono anche: «Quel che non ammazza, ingrassa». E non è una conquista. Si diventa obesi e indifferenti. Farsi ammazzare da qualcosa mentre ancora si respira, morire dentro, è un segno di umanità. Significa riconoscere un valore superiore alla nostra vita. Proclamare: senza, non ha più senso. Mettersi a correre. 

Chiudersi in clausura. Frequentare un poligono come fosse un bar. Perdere amici.

Trovare nemici. Farlo con estrema facilità: possono esserlo tutti, perché camminano su una linea retta che s' incrina ma non si spezza, per mano ai loro figli, premurosi.

Nei primi diciotto anni la parola che un genitore dice più spesso a un figlio non è «Tesoro» è «Attento!». Non può impedire l'imprevedibile. Fermare niente. Dopo, di chi è veramente la colpa? Si attacca chiunque per alzare rumore, coprire la voce interna che dice: «È colpa mia». Che dice: «Avrei dovuto...».

Segue un elenco interminabile di azioni. Di sliding doors contro cui sbattere la faccia.

Il tempo, il tempo non ripara niente. Più scorre e più allontana dall'ultimo momento di felicità, che fa male ricordare. I genitori che perdono un figlio quasi sempre si separano. Perché il loro legame più forte diventa quello più intollerabile. Non fuggono dalla vita di prima, è quella a fuggire da loro. 

Lo racconta Richard Ford in Sportswriter, quando fa incontrare davanti alla tomba del figlio due genitori così, divorziati, che ricordano la vita di prima: «Pagavamo i conti, facevamo la spesa, andavamo al cinema, compravamo automobili e macchine fotografiche, stipulavamo assicurazioni, cucinavamo all'aperto, andavamo a feste, visitavamo scuole e ci volevamo bene nel modo dolce e guardingo degli adulti. Insomma, la solita vita che non merita applausi, la vita normale di tutti noi».

E dopo, invece? Il protagonista dice di sé: «Ho affrontato il rimpianto. Evitato la rovina». Claudio Campiti non ce l'ha fatta. Forse non l'ha voluto. A volte la rovina è percepita come una necessità, l'unica forma di espiazione possibile per essere sopravvissuti, per non aver protetto anche quello che era impossibile immaginare. Il rimpianto dilaga. Come evitarlo? Non esistono certezze, solo opinioni, manuali, pareri alla televisione. In America organizzano gruppi per persone che hanno vissuto esperienze simili. Per alcuni è come entrare in quell'attrazione del luna park dove ci si moltiplica in un gioco di specchi e infine ci si perde.

Nel film australiano Lantana il padre della bambina scomparsa va ogni sera sul luogo dell'incidente e sosta, da solo, in auto. La moglie psicologa lo rimprovera: «Anche io ho perso una figlia!». «Sì, ma tu ci hai scritto un libro». Non ho mai letto Paula, di Isabel Allende. Né altri testi del genere. Ho letto invece Leonard Cohen, sottolineato la riga in cui ha scritto che a volte l'arte è una calcolata manifestazione di sofferenza. E questo, lo dovessi mai fare, tu questo figlia non me lo perdonare (ritornello di Roberto Vecchioni). Dalla vita che non merita applausi a quella che attira il generale sdegno il passo è breve, ma è un passo nel vuoto. 

La linea si è spezzata, è scattato un tirante e ha rotto il cavo. È successo per strada, su una pista da sci, a scuola. È stato uno scherzo, non sempre del destino, un atto di follia, una fatalità. Se ricorrono a quest' ultima espressione si diventa matti. Fatalità, che tra otto miliardi di persone proprio quel bambino, quella ragazza si trovasse lì e ora? Non esiste, qualcuno deve averne la responsabilità. E se non qualcuno, allora tutti.

Come si sfugge al desiderio di vendetta? Chi non ha mai visto il film Un borghese piccolo piccolo, in cui il padre interpretato da Alberto Sordi (uno di quelli la cui vita non merita applausi) si trasforma in assassino del rapinatore che ha incidentalmente colpito suo figlio (Vincenzo Crocitti) durante una sparatoria con la polizia? Chi non ha provato un brivido di identificazione? Claudio Campiti non è quel borghese, ha stroncato le vite di quattro persone non legate alla morte del suo ragazzo. Non ha cause di giustificazione nel codice penale né nel dibattito civile. Eppure anche i giurati che inevitabilmente lo condanneranno penseranno, prima di farlo, alla differenza, sottile come un filo, tra quel che si è e quel che si diventa.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 14 dicembre 2022. 

Fabiana De Angelis non ce l'ha fatta. È morta al Sant' Andrea. È la quarta vittima di Claudio Campiti dopo Elisabetta Silenzi, Sabina Sperandio e Nicoletta Golisano. Il sindaco Roberto Gualtieri ha reso omaggio ieri a chi è stato ucciso domenica in via Monte Giberto. 

Le indagini dei carabinieri del comando provinciale puntano a chiarire come il 57enne abbia potuto far uscire la pistola che aveva noleggiato dal poligono di Tor di Quinto, ora sequestrato per ulteriori accertamenti, e dove abbia custodito il denaro incassati dal settembre 2020 con il reddito di cittadinanza.

Sono 7 i dubbi ancora da chiarire sulla strage di Fidene.

 Il tenore di vita

Come sopravviveva Campiti nel rudere nel Consorzio Valleverde, nel reatino? Senza acqua - ogni giorno riempiva taniche alle fontanelle di Rocca Sinibalda -, con allacci elettrici abusivi e il sussidio statale. Girava su una vecchia Ford Ka. Nonostante questo aveva i soldi per pagare l'iscrizione annuale al poligono (circa 400 euro). C'è il sospetto che qualcuno lo aiutasse ad andare avanti. Chi? 

Pronto a scappare

Un complice che potrebbe avergli organizzato la fuga dopo la strage. Campiti aveva passaporto e indumenti. Destinazione ignota, si scava nei rapporti su whatsapp e in chat. Fra gli oggetti sequestrati anche un tablet. Su Facebook postava foto di località turistiche, forse scattate da amici. Il passaporto fa pensare a un progetto estero. 

La famiglia

Il killer di Fidene non avrebbe avuto più rapporti con l'ex moglie Rossella Ardito e le figlie Sveva e Costanza. Già all'epoca della morte del figlio maggiore Romano, sulle nevi della Val Pusteria, Campiti seguì da solo, parallelamente alla coniuge, la lunga vicenda giudiziaria. Sui social le figlie non hanno foto insieme con il papà. 

Al poligono

All'armeria di Tor di Quinto il 57enne ha ritirato una Glock 41 a noleggio. Nel complesso a Roma nord era conosciuto, perché iscritto da anni e in possesso della tessera Platinum. È uscito senza essere notato da nessuno sfruttando falle nel regolamento della struttura. 

La valigetta con la Glock

Al momento non sarebbe stato trovato il contenitore della pistola usata nella strage. È quello fornito dall'armeria del poligono a chi noleggia un'arma. Campiti l'ha buttato? Oppure prima di andare a Fidene si è fermato da qualche parte? 

Come ha colpito

Quale criterio ha usato il killer per uccidere nel gazebo del bar? Il 57enne ha sparato subito a chi sedeva al tavolo a destra, quello del cda del Consorzio: Sperandio, Golisano, De Angelis, la presidente Bruna Marelli (ferita). L'intervento di Silvio Paganini (ferito) ha impedito che proseguisse. Elisabetta Silenzi, che sedeva nel banchetto a sinistra per raccogliere le firme dei presenti, è stata colpita da un proiettile esploso durante la colluttazione fra i due.  Dall'autopsia di ieri emerge che sia trattato di un'esecuzione. 

L'infermità mentale

Per chi lo conosce al Consorzio assolutamente no. L'aggravante della premeditazione che gli viene contestata dagli inquirenti, e che oggi sarà ribadita nell'udienza di convalida davanti al gip, è una chiara presa di posizione dell'accusa. I soldi messi da parte, il passaporto e il bagaglio pronto confermerebbero questa tesi. Ma per alcuni Campiti aveva perso la testa dopo la morte del figlio. C'è l'ipotesi della richiesta da parte della difesa della semi infermità mentale. Anche se al poligono aveva presentato un certificato di idoneità psicofisica.

Estratto dell'articolo di Edoardo Izzo e Grazia Longo per “La Stampa” il 14 dicembre 2022.

Un inferno. Il film dell'orrore della mattanza compiuta domenica mattina da Claudio Campiti a Fidene è reale. La telecamera all'interno del gazebo del bar dove si stava svolgendo l'assemblea dei condomini contro cui ha sparato l'assassino ha registrato tutto. Dal primo all'ultimo colpo esploso. Le immagini sono state estrapolate dai tecnici dei carabinieri del Nucleo investigativo e riproducono quanto finora riferito dai superstiti. 

E intanto salgono a quattro le vittime: Fabiana De Angelis, 50 anni, commercialista, la più grave dei quattro feriti, è morta ieri sera. Il suo nome si aggiunge così a quello delle altre tre donne uccise, Nicoletta Golisano, Elisabetta Silenzi e Sabina Sperandio, rispettivamente di 50, 55 e 71 anni. […]

E mentre si attende l'interrogatorio di convalida del fermo, stamattina alle 10 nel carcere di Regina Coeli, proseguono le indagini dei carabinieri coordinati dal pm Giovanni Musarò. Le accuse contro Campiti, ex assicuratore da oltre 10 anni disoccupato, sono pesantissime: quadruplo omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e i futili motivi, e triplice tentato omicidio. E mai come in questa drammatica vicenda, tutte le tappe sono state filmate.

Una fototrappola che Campiti aveva sulla porta della sua casa, il rudere all'interno del Consorzio Valleverde tra Ascrea e Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti, lo riprende mentre esce di casa alle 7,30 di domenica scorsa. Le telecamere interne ed esterne del Poligono Tor di Quinto lo filmano quando entra, alle ore 8,45, mentre ritira la valigetta con la pistola Glock calibro 45 alle 8,55 e pochi istanti dopo quando esce indisturbato portandosi via l'arma e sale sulla sua auto e si dirige a Fidene. […]

Estratto dell'articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 14 dicembre 2022.

Dalle banche dati istituzionali affiora il nome di Claudio Campiti quale destinatario del reddito di cittadinanza. Novemila euro in tutto fra aprile 2020 e settembre 2021. Poi più nulla. Il killer di Fidene, probabilmente, aveva smesso di farne richiesta. Può darsi che, in seguito, fosse subentrato qualche lavoretto o sussidio, in ogni caso tutto si sarebbe svolto con regolarità, senza contestazioni. 

Resta il problema dei debiti accumulati con il consorzio Valleverde (circa 10 mila euro negli anni, secondo l'avvocato Rita Gigli, ma appena 1.700 stando all'ultimo decreto di ingiunzione appena notificato). Ma resta anche la questione del contante, oltre 6 mila euro, di cui Campiti era in possesso quando è stato fermato, all'esito della mattanza di via Monte Giberto a Fidene: erano soldi pubblici?

[…] i carabinieri del Nucleo investigativo, coordinati dal pm Giovanni Musarò, analizzano le immagini registrate (c'erano telecamere nel gazebo della strage come pure al Poligono di tiro dove Campiti ha sottratto la Glock utilizzata per fare fuoco) in cerca di dettagli che confermino la premeditazione del piano. Tutto, dall'escamotage utilizzato per appropriarsi dell'arma alla fuga in preparazione con tanto di passaporto pronto, allude a preparativi ben congegnati.

Mistero, invece, sulla valigetta sigillata che Campiti avrebbe preso in consegna alle 8,45 di quella mattina al Poligono di tiro: non l'aveva con sé quando è stato fermato, durante gli attimi concitati appena successivi alla sparatoria, sicché gli investigatori la stanno ancora cercando. I corpi di Elisabetta Silenzi, Sabrina Sperandio e Nicoletta Golisano sono già stati sottoposti all'autopsia (preceduta da una Tac attraverso la quale il professor Antonio Oliva del Gemelli ha rilevato la traiettoria del proiettile) e gli esami avrebbero offerto conferme sulla ricostruzione della strage.

Campiti ha mirato al cuore delle vittime, cadute una dopo l'altra come le sagome di un tiro al bersaglio. Verso le 9,20, dopo aver chiuso con cura la porta del dehor, l'ex imprenditore di 57 anni «si dirigeva immediatamente verso il tavolo in cui era seduto il consiglio di amministrazione (del consorzio Valleverde, ndr) e dopo aver pronunciato la frase "Vi ammazzo tutti" immediatamente iniziava a sparare» si legge nel decreto di fermo. In attesa di conoscere tutti i perché della vicenda - Campiti sarà ascoltato dal gip assieme al suo difensore, ma potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere - i pm sottolineano come la «sproporzione» tra il reato e le cause configuri un'aggravante. Riguardo ai controlli sui poligoni il capo della polizia, Lamberto Giannini dice: «Tematica già all'attenzione».

Da open.online il 14 dicembre 2022.

C’è un mistero sui soldi di Claudio Campiti. L’uomo della strage del condominio aveva con sé 6.235 euro in contanti. Ed era un percettore del reddito di cittadinanza. Ma non risulta avere altre entrate. Campiti ha percepito il sussidio dall’aprile 2020 al settembre 2022. Per un totale di circa novemila euro. Ma aveva debiti nei confronti del consorzio Valleverde: un decreto ingiuntivo per 1.700 euro era appena partito. Anche se l’esposizione debitoria arriva in totale a 10 mila. Gli accertamenti fiscali compiuti dagli investigatori partono dalla situazione economica di Campiti. Che non lavorava più come assicuratore da molto tempo prima della morte del figlio Romano in un incidente con uno slittino. 

Il consorzio e i debiti

Campiti potrebbe aver ottenuto il reddito anche nei mesi di ottobre e novembre: la registrazione nelle banche dati potrebbe arrivare nelle prossime settimane. Di certo viveva modestamente nel rudere del Consorzio Valleverde ad Ascrea che aveva acquistato per una cifra vicina ai centomila euro. Ma che doveva ancora essere terminato in tutti i suoi lavori. Tanto che lui stesso ha lamentato la mancanza di acqua e luce. A quell’acquisto risalgono le sue follie. Aveva infatti comprato senza rendersi conto che l’acquisto comportava l’impegno a coprire i costi dell’urbanizzazione della zona. 

Quella era la condizione messa dai comuni di Ascrea e Rocca Sinibalda per il permesso di costruire. La lottizzazione doveva portare alla costruzione di strade, rete fognaria e impianto elettrico. A carico di chi aveva acquistato i lotti di proprietà. E chi non pagava rischiava l’espropriazione. Da qui nasce la strage. E così Campiti è probabilmente andato in rosso. Non avendo più i soldi né per finire la costruzione né per concludere i lavori di urbanizzazione. Per questo ha urlato «Mi avete lasciato senz’acqua per vent’anni» durante la sparatoria. 

Il poligono

Rimane il mistero dei soldi in tasca. Anche se l’uomo ha percepito circa 490 euro al mese per più di due anni, il totale incassato è di novemila euro. Se ne aveva più di seimila in tasca, come li ha avuti? Possibile che abbia soltanto risparmiato quelli del reddito? Oppure lavorava in nero? L’udienza di convalida del fermo richiesta dal pm Giovanni Musarò avverrà all’interno delle mura del carcere romano di Regina Coeli e l’uomo dovrà rispondere di accuse gravissime: omicidio volontario plurimo aggravato dalla premeditazione. 

I carabinieri stanno battendo anche un altro fronte. Quello del poligono di tiro di Tor di Quinto, dal quale l’uomo è riuscito a portar via l’arma del delitto. Saranno acquisiti i verbali di entrata e di uscita e anche le immagini delle telecamere di sicurezza per capire se ci siano state falle nei meccanismi di sorveglianza. Campiti ha potuto prelevare in armeria una Glock ’45 lasciando un documento. Ma non è mai arrivato alla linea di tiro.

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il Corriere della Sera il 15 Dicembre 2022.

La valigia dell'omicida era attrezzata per una vacanza all'estero, in luoghi caldi. Claudio Campiti, il 57enne ex imprenditore di Ascrea (Rieti) che domenica mattina ha fatto fuoco su quattro persone durante l'assemblea del consorzio Valleverde, a Fidene, aveva caricato sulla sua Ford, oltre al passaporto, «costume da mare, accappatoio, ciabatte...», accessori più adatti a una breve vacanza che a una nuova vita.

Estratto dell’articolo di Michela Allegri per il Messaggero il 15 Dicembre 2022.

Nessun segno di pentimento, solo livore e rancore. «Ero esasperato dalle loro condotte mafiose», ha detto ieri il killer di Fidene, Claudio Campiti, interrogato a Regina Coeli dal gip Emanuela Attura. Il cinquantasettenne non ha risposto alle domande chiave, ma ha continuato a ribadire l'odio che prova per i componenti del consorzio Valleverde, che gestisce una serie di villette nella zona del lago di Turano, in provincia di Rieti, dove Campiti aveva comprato un rudere mai ristrutturato. Il magistrato non ha dubbi: il carcere è l'unica misura possibile per contenere l'ira dell'indagato e anche per evitare che fugga.

Domenica, quando è stato fermato dai carabinieri subito dopo la strage, «aveva con sé tre zaini contenenti oggetti personali e contanti - scrive il gip nell'ordinanza con cui ha disposto la custodia cautelare - come ammesso in fase di interrogatorio era certo che non sarebbe tornato a casa». E ancora: «Non ha dato segno di resipiscenza, il livore e il risentimento che sono emersi fanno ritenere che, se rimesso in libertà, non desisterebbe da ulteriori condotte sanguinarie». 

LA PISTOLA Domenica, dopo avere fatto irruzione nel gazebo del bar Il posto giusto, durante una delle riunioni del consorzio - con il quale aveva diversi contenziosi culminati con il mancato allaccio alla rete idrica per la sua abitazione - Campiti ha sparato ai presenti come una furia: ha ucciso quattro donne e ha ferito altre due persone. Per il magistrato, che ha disposto per lui anche il regime di sorveglianza, l'uomo sarebbe pronto a uccidere ancora. 

(...)

 IL POLIGONO L'ordinanza scandisce i passi fino al blitz omicida. Come prima cosa Campiti è andato al poligono per prendere l'arma. Ha comprato anche 100 proiettili. Poi, ha raggiunto il dehor. Erano presenti 32 persone: 28 consorziati, 3 revisori e il segretario dell'assemblea. Alle 9,30 l'uomo è entrato, ha chiuso la porta e ha iniziato a sparare «a bersaglio» - scrive il gip - alle persone sedute al tavolo. 

Ha subito ucciso Sabina Sperandio, Nicoletta Golisano, Elisabetta Silenzi, e ha ferito la presidente, Bruna Marelli. Fabiana De Angelis, raggiunta da un proiettile, è morta due giorni fa in ospedale. Ieri sono stati donati i suoi organi.

Ora, però, le indagini puntano anche sul poligono. Campiti è andato al Tiro a segno nazionale a prendere una pistola, perché nel 2020 il questore di Rieti gli aveva negato la licenza per il porto d'armi. Aveva due tessere: una del Tiro a segno nazionale, sezione di Roma, e un abbonamento Platinum 2022. Era iscritto dal 2018. Oltre al presidente, domenica gli inquirenti hanno ascoltato anche l'armaiolo incaricato di consegnare le armi ai soci. Quando gli è stato chiesto se conoscesse Campiti, ha risposto che «si trovava in quel momento sulla linea di tiro» e ha mostrato ai carabinieri la carta di identità che gli era stata consegnata. Invece, il cinquantasettenne era uscito indisturbato con una pistola in tasca. Un'altra impiegata del Tsn ha detto che alle 8,58 Campiti aveva comprato da lei 100 proiettili calibro 45. Gli stessi proiettili che ha usato per fare una strage. «Sono stati i cinque minuti più lunghi della nostra vita - hanno detto i superstiti, che si sono incontrati ieri con il loro legale, l'avvocato Fabrizio Gallo - Eravamo andati ad una riunione del consorzio, una cosa normalissima, e ci siamo ritrovati in mezzo all'inferno. Non si può dimenticare». Michela Allegri

Strage di Fidene, «La frustrazione regna anche nelle assemblee di condominio», parla un amministratore di immobili. Maria Rosaria Spadaccino su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.

Andrea Tiburzi, 43 anni, da quasi vent'anni  lavora nel settore

Andrea Tiburzi amministratore e socio Anaci

«La sera della riunione di condominio finita in strage a Fidene l’ho passata a scrivermi con i colleghi, commentando preoccupato come la frustrazione nei palazzi stia diventando pericolosa», racconta Andrea Tiburzi, 43 anni, amministratore di condominio, socio Anaci (Associazione nazionale amministratori condomini italiani), con alle spalle 18 anni di carriera e 40 condomini amministrati 

Perché parla di frustrazione? 

«Ma è il momento che stiamo vivendo tutti, c’è un impoverimento umano, la violenza fisica e verbale è ormai ovunque, anche nei piccoli gesti. Ma per noi c’è una variante in più». 

Quale? 

«Quella economica, dobbiamo chiedere il pagamento di rate condominiali o di riscaldamento a famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese, per cui il condominio diventa una spesa che è difficile da sostenere, a volte quasi un lusso. Ma non è solo il tema economico a creare problemi». 

Quali sono gli altri? 

«La dissoluzione della comunità, dei rapporti umani, qualunque cosa accade in un palazzo è colpa dell’amministratore. Non si riflette mai, si cercano solo colpevoli. La storia di Fidene squarcia solo il velo del silenzio circa il disagio del condominio e dell’amministratore». 

Ha mai avuto scontri o liti durante le assemblee? 

«Io cerco sempre di sdrammatizzare, cerco di far riflettere le parti, evito di aumentare la tensione. Scontri ci sono stati, per fortuna solo verbali». 

Motivi degli scontri? 

«Sempre economici, anche i bonus fiscali non hanno aiutato. Si è creata una grande aspettativa che però spesso è stata disillusa ed è diventata rabbia». 

Così si fa per questo in Anaci? 

«Abbiamo partecipato a corsi organizzati su come contrastare la tensione o come comunicare durante i momenti di maggiore difficoltà. Credo che in futuro bisognerà pensare anche ad un sostegno psicologico esterno per aiutare il lavoro dell’amministratore»

Da ansa.it il 19 dicembre 2022.

 Cinque persone sono state uccise e un'altra ferita in una sparatoria nella periferia di Toronto, nel Canada orientale. Lo rende noto la polizia. Il sospetto killer sarebbe morto dopo uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine, ha detto ai giornalisti il capo della polizia locale Jim MacSween aggiungendo che la sparatoria è avvenuta in un condominio.

La sparatoria ieri sera a Vaughan, cittadina a circa 30 chilometri a nord di Toronto. La persona ferita è stata trasportata in ospedale e non è in pericolo di vita. "Una volta arrivati, gli agenti si sono trovati di fronte a una scena orrenda in cui numerose persone erano decedute", ha detto MacSween ai giornalisti. 

La polizia sta indagando sul movente e sull'eventuale connessione tra le vittime e l'omicida, che avrebbe agito da solo. La sua identità non è stata resa nota. Le vittime sono state trovate in diversi appartamenti dell'edificio, ha precisato il capo della polizia locale aggiungendo che tutti i residenti sono stati evacuati immediatamente. 

Il numero delle sparatorie di massa in Canada è di gran lunga inferiore a quello degli Stati Uniti, ma questi eventi hanno subito un'impennata negli ultimi tempi, tanto da spingere il Paese a vietare lo scorso ottobre la vendita di pistole. Nell'aprile 2020, un uomo armato travestito da poliziotto ha ucciso 22 persone nella provincia orientale della Nuova Scozia, la peggiore sparatoria di massa mai avvenuta nel Paese. Lo scorso settembre, un uomo ha ucciso 11 persone e ne ha accoltellate altre 18, soprattutto in una comunità indigena isolata nella provincia del Saskatchewan.

(ANSA il 20 dicembre 2022) - L'uomo che ha ucciso a colpi d'arma da fuoco cinque persone (tre uomini e due donne) in un condominio alla periferia di Toronto è un immigrato italiano che aveva molestato per anni i suoi vicini e aveva minacciato il board dell'edificio nella convinzione che la sala elettrica lo facesse ammalare. 

Lo ha riferito la polizia, dopo aver identificato l'aggressore come Francesco Villi, 73 anni, emigrato in Canada con la madre quando aveva 17 anni e rimasto ucciso nello scontro con gli agenti poco dopo la tragedia. Una tragedia che rievoca quella dei giorni scorsi a Fidene, alla periferia di Roma, dove il 57enne Claudio Campiti, da tempo in lotta con l'amministrazione condominiale e i suoi condomini, ha ucciso quattro donne durante la riunione di condominio nel gazebo di un bar.

Tre delle vittime di Villi erano membri del board del condominio. I video della sua pagina Facebook, compreso uno postato il giorno della sparatoria, documentano la sua frustrazione con il management della palazzina e con gli altri residenti, e includono le sue frequenti ma non documentate accuse sulla nocività della sala elettrica. Villi aveva perso diverse battaglie legali con il board, che nel 2019 aveva richiesto un provvedimento restrittivo nei suoi confronti per le molestie verso altri condomini.

Un tribunale gli aveva proibito anche di postare sui social. Nei mesi recenti, la società proprietaria dell'edificio aveva chiesto al tribunale di imprigionare Villi e di costringerlo a vendere il suo appartamento come "sanzione" per non aver rispettato la precedente misura dei giudici. In un post pubblicato domenica, l'uomo li aveva definiti "assassini" per le azioni legali che avevano intentato contro di lui.

Gabriele Romagnoli per “la Stampa” il 20 dicembre 2022.

In Italia esistono due forme di Stato: la Villetta e il Condominio. La prima è un'aspirazione, il secondo una rassegnazione. Nella villetta si finisce per ammazzarsi in famiglia, nel condominio tra famiglie. 

Quando nella villetta esplode la violenza di Pietro Maso o di Erika e Omar gli osservatori del vivere sociale si affrettano a caricare qualche responsabilità sul locus commissi delicti, individuando un fattore scatenante in quell'isolamento, quell'ambizione su fondamenta, dunque fondamentale. Quando la sessa cosa accade nel condominio, come a Fidene, si minimizza. Forse perché gli osservatori abitano in una struttura del genere o perché se lo si segnala come miccia le esplosioni a seguire potrebbero essere troppe. 

Il condominio tribalizza. Raduna sotto una tenda allargata un numero vario di umani. Non esiste una cifra perfetta, nel senso di innocua. Quello piccolo, da sei o otto, facilita le contrapposizioni, i faccia a faccia quotidiani, rende le invidie e i dissapori continui e diretti. Quello grande, da decine, addirittura un centinaio, è il luogo perfetto per le fazioni, la guerra civile. Il condominio non è naturale.

Siamo una specie pericolosa, dovremmo vivere a distanza di sicurezza, almeno cinque chilometri, altroché villette a schiera. Schierate l'esercito sui pianerottoli, nei garage, alle porte degli ascensori. L'agguato è in agguato. Nessuno rivela volentieri quanto guadagna (ancor meno, quanto denuncia). Nel condominio è sotto gli occhi di tutti in quanto si abita. 

C'è questa cosa dei millesimi che lo rende noto. Chi più ne ha più paga, certo, ma si scopre che ha balconi più larghi, o doppi servizi. Quindi, sicuramente «farà del nero». Già non bastava la diseguaglianza spalmata sui piani. Quello dell'attico guarda tutti dall'alto in basso, quello del pian terreno è pronto a tutto pur di salire al suo livello. Ma ce n'è sempre uno superiore. Come nella scala dell'ordinamento giuridico (stufenbau) concepita dal filosofo tedesco Hans Kelsen: quando sei arrivato alla legge costituzionale, che cosa resta?

La norma fondamentale (grundnorm), quella presupposta. L'equivalente del superattico. Quello verso cui, con la languida malinconia dei superati, guardava dall'attico il protagonista della Grande Bellezza. È una dannazione, è una provocazione. Il palazzo è disseminato di mine anti-condomino. Si può esplodere per una veranda abusiva sbucata nottetempo al terzo piano (lanciamole contro dei cachi), per la pergotenda che diventa un tetto permanente (e allora ci buttiamo sopra i rifiuti), per l'ascensore che si ferma sempre al quarto, dove hanno fatto il bed and breakfast, quelli che ci vanno tirano fuori il valigione e chi se ne frega se di sotto c'è un invalido che aspetta (denunciamo il proprietario a Equitalia). 

Ogni condominio ha il suo maniaco del silenzio, uno che vive solo, di fianco a una famiglia con tre figli e infila sotto la porta un biglietto con su scritto: «Siete pregati di usare meno lo sciacquone, disturba la mia quiete. Forse che io disturbo la vostra?». Che lui sia uno e loro cinque non lo concerne.

Sono cresciuto in un condominio circondato per ogni lato da spazio erboso o ghiaioso. Ideale per organizzare partite di calcio, ma ero l'unico bambino. Il colonnello in pensione dell'ultimo piano impose la norma che vietava l'ingresso in cortile a bambini residenti in altri palazzi. I loro condominii approvarono quella che nel diritto internazionale (avrei scoperto all'università) si definisce «clausola di reciprocità»: misero al bando me. Guerra fredda alla periferia di Bologna. 

«Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio», avrebbe scritto l'algerino Amara Lakhous nel 2006, quando i condomini cominciavano ad assomigliare ad assemblee dell'Onu e ora, come in quello enorme e diroccato del film «Come un gatto in tangenziale», si accusano gli indiani di cuocere cibi dall'odore troppo forte, o i bengalesi di suonare e cantare quand'è ora di dormire o i cinesi di essere tanti, di non essere mai gli stessi, o forse sì, perché non si sa distinguerli.

A New York il condominio è una repubblica, decide per votazione ogni piccolo particolare (il colore della riga sui battiscopa, il segnale che distingue le porte a cui i bambini possono bussare per Halloween dicendo «dolcetto o scherzetto?», l'orario di apertura delle sale comuni). È un referendum continuo e lo scopo è di rendere le scelte condivise e le diseguaglianze ridotte. Nei condomini più moderni d'Italia si è importato il modello: zerbini identici a ogni soglia, colore delle tende da sole uguale per tutti. Non fosse che si scatenano discussioni sanguinose per stabilire il materiale su cui pulirsi le suole delle scarpe e la tonalità di grigio da esporre ai balconi o terrazze.

Dove avvengono? Nel luogo più temuto: l'assemblea. Una persona educata e mediamente istruita dalla scuola e dalla vita può partecipare a un massimo di tre nel corso dell'esistenza. Poi o diventa come gli altri condomini o diventa la loro vittima designata. L'amministratore, una figura mitologica, metà uomo e metà regolamento, ha subito la mutazione genetica all'inizio della professione e non reagisce più. Neppure quando la diatriba sul portierato conduce alla cattura di ostaggi da parte di chi pretende il part-time per risparmiare, che tanto possiamo mettere le caselle per Amazon. 

Può bastare questo, o anche meno, per innescare un odio che sale come un ascensore esterno mai voluto e privo del comando di discesa, che deflagra come una caldaia per cui non si è votata la manutenzione e porta la fotografia del palazzo nelle pagine di cronaca nera cittadina. «Che dice dottore, per i valori immobiliari questa fama sarà un bene o un male?». Anche via Poma era un condominio. Molti assicurano che l'assassino di Simonetta Cesaroni abitava lì. Forse aveva un complice nel palazzo, qualcuno che l'ha coperto. Anche la colpa si divide a millesimi.

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 17 novembre 2022.

Incompatibile nel procedimento per diffamazione in cui Massimo Adriatici è parte offesa, giudice che ne decide i destini processuali in quello in cui l'ex assessore leghista di Voghera è invece imputato per eccesso colposo di legittima difesa per aver sparato e ucciso il marocchino Youns El Boussettaoui, la sera del 20 luglio 2021. È la vicenda che riguarda il magistrato di Pavia, Maria Cristina Lapi. 

In un caso, svolge le funzioni di gip nel procedimento in cui il leghista è indagato per la morte del marocchino. Nell'altro chiede, con una comunicazione del 15 novembre 2021 all'allora presidente vicario dell'ufficio gip, di essere sollevata dall'incarico. […]

Il fascicolo riguarda le presunte diffamazioni di due vogheresi, Gianpiero Santamaria e Davide Palumbo, che sulla loro pagina Facebook "Politica è partecipazione" attaccano molti politici locali, tra cui Adriatici. […] 

 E il giudice Lapi chiede al suo capo di astenersi, «essendo emerso dalla lettura degli atti - scrive - che tra i post e i video segnalati, alla base della richiesta di sequestro, vi è un video in cui vi sono allusioni alla sottoscritta, proprio in correlazione con il procedimento sopra indicato». E cita il passaggio: «Si vocifera che il gup o il gip fosse fidanzata con Adriatici».

«Un'allusione», scrive Lapi. Ma, scrive, «alla luce di quanto sopra, ritengo che sussistano ragioni di opportunità che giustificano la richiesta di astensione». Il presidente dei gip, il giorno stesso, «ritenendo che ricorrano gravi ragioni di convenienza, autorizza l'astensione ». 

Così il giudice Lapi lascia il processo in cui Adriatici è parte lesa, ma resta gip nell'altro fascicolo in cui Adriatici ricopre un ruolo ben più rilevante da indagato. In questa indagine Lapi ha tenuto ai domiciliari l'assessore, paventando «gravissimi rischi per la collettività», ma si è sempre opposta alle richieste degli avvocati della vittima, Debora Piazza e Marco Romagnoli, di modificare il capo di imputazione in omicidio volontario, anche se l'autopsia ha concluso che il colpo è stato esploso «dall'alto verso il basso», e per un testimone «a sangue freddo». E ha dichiarato inammissibile la richiesta di copia forense del cellulare di Adriatici, poi accolta dalla Cassazione.

Massimo Adriatici, lo «sceriffo» di Voghera: pressioni politiche dopo l’omicidio e testimonianze «costruite». Andrea Galli inviato a Voghera (Pavia), su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

Il 20 luglio 2021 l’allora assessore alla Sicurezza di Voghera uccise con un colpo di pistola Youns El Boussettaoui. Slitta il processo, dibattimento in aula forse a ottobre. Spuntano inquietanti retroscena: i tentativi di impossessarsi dei verbali e la ricerca di testimonianze «da aggiustare».  

«Un processo complicato»

«Quel dannato giorno» è la definizione dell’uomo che tutto originò. Ovvero Massimo Adriatici. A settembre, due mesi dopo l’omicidio, l’avvocato ha ottenuto l’iscrizione all’albo dei Cassazionisti. Chissà quale corso seguirà, lungo i gradi di giudizio, il suo processo: sembrava dovesse iniziare a breve e invece pare bisognerà aspettare, forse ottobre. Ora, tecnicamente così non è, ma adattando gli iter giudiziari a un’evidenza concettuale, l’indagine sulla morte di Youns El Boussettaoui è di fatto ripartita da zero. Sempre da qui — la scena del crimine nella centrale piazza Meardi a Voghera — e sempre dall’esplorazione di che cosa davvero accadde. Certo, impugnando la sua Beretta, Adriatici sparò un unico proiettile; certo, quel calibro 22 long rifle devastò l’addome e il rene destro della vittima provocando una ferita letale; certo, la Procura di Pavia aveva un capo e adesso ne ha un altro, c’erano una linea guida, un metodo operativo e se vogliamo un orientamento (per forza) cambiati; ma ciò premesso, l’assai corposa perizia del Ris non ha cristallizzato, azzerando ogni ragionevole dubbio, la dinamica balistica. Motivo per cui sarà aggiunta un’integrazione. Non è l’unico esercizio in agenda: gli inquirenti aspirano a ottenere un definitivo «posizionamento» e lavorano su una raffigurazione tridimensionale per collocare l’uno, il 47enne Adriatici, e l’altro, il 39enne marocchino El Bousettaoui, alle 22.20 del 20 luglio 2021. Un giorno dannato. Come i successivi. In quanto si fa torto alla verità, beninteso non quella investigativa, non raccontare il delitto nella sua interezza.

Il leghista e l’immigrato

Mai un omicidio ha sintetizzato una significativa densità di elementi: l’assessore alla Sicurezza per di più leghista che uccide l’immigrato irregolare. O meglio, stringendo ancor più e a seconda dei punti di vista, anzi delle interpretazioni politiche: lo sceriffo pistolero e il vagabondo clandestino, l’autoproclamato sbirro del popolo e lo straniero abbandonato dallo Stato. Del resto, rimarranno a sconfortante memoria un po’ di retroscena. Per esempio l’uomo fidato dell’onorevole di centrodestra che chiamò uffici vari in Prefettura l’indomani mattina pretendendo i primi verbali dell’inchiesta; oppure il portaborse dell’onorevole di centrosinistra che allargò il giro di telefonate istituzionali pretendendo – pure lui – informazioni segrete, con peraltro le indagini all’inizio, giocoforza parziali e lacunose. Dopodiché vennero, per azione di presunti intermediari di presunti legali, le ricerche in quell’afosissima Voghera di presunti testimoni aggiuntivi i quali non videro ma avrebbero potuto vedere. Ci riportarono fonti qualificate, però senza prove, che addirittura girarono mirabolanti promesse in merito a rapidi aggiustamenti di permessi di soggiorno a patto che… Una pena che si aggiunse alla tragedia di Adriatici, il quale ha tolto la vita al prossimo rovinandosi la propria e agendo per legittima difesa. Ma sarà così?

Un uomo solo

L’esatta accusa è eccesso colposo di legittima difesa, come deciso dal gip che si tenne gli ultimi minuti a disposizione prima di decretare. Ma quest’accusa potrebbe anche trasformarsi in omicidio colposo, pur restando codificati i notori comportamenti del povero El Boussettaoui: non aveva né casa né lavoro, aveva avuto o magari ancora aveva problemi mentali e di droga; infastidiva i clienti dei bar, dove arraffava pizzette e panini, si spogliava e masturbava, urlava frasi senza senso e orinava; e anche quella sera, al «Bar ligure» di piazza Meardi, ubriaco aveva molestato e insultato, aveva issato una sedia, aveva lanciato una bottiglia di birra, aveva mal risposto allo stesso Adriatici che poi aveva colpito, come da referto medico, con un pugno in faccia, e forse stava per colpire una seconda volta. O una terza. O una quarta. Che insomma quell’uomo fosse un doloroso problema sociale a Voghera, era evidente; che nessuno, a cominciare dai suoi familiari, abbia voluto o potuto dargli una mano è una storia che parimenti va registrata. 

La giunta degli scandali

Al contempo, la sciagurata giunta comunale di Voghera – sono in aggiunta da ascriverle le chat razziste e gli scandali legati a una società municipalizzata con ammanchi, caos nei bilanci, furberie, raccomandazioni, denunce di mobbing, concorsi truccati e via elencando… –, aveva mesi e mesi prima ricevuto dai vertici delle forze dell’ordine plurime segnalazioni sul «caso Adriatici». Cioè: guardate che esagera, che millanta, che si crede il comandante supremo, che dà ordini e organizza summit; cercate di porre un argine. Dunque si sapeva; si sapevano i dettagli. Non fosse che, in piena linea con l’andazzo italiano, l’assessore lì era restato. Massì, vabbè, ma tanto. In sostanza: chi se ne frega. Era restato al suo posto, armato, il colpo in canna. E di ronda. Casomai poliziotti e carabinieri nella cittadina dagli scarsi reati e dalla buona percezione di sicurezza, oggi come allora serena e serafica, ritmi lenti e il sacrosanto rispetto di una regola ferrea – gustarsi gli aperitivi –, fossero degli incapaci. A meno che, attenzione, non sia stata un’assoluta «disgrazia».

La dinamica

Come ripetuto da Adriatici, lui non voleva uccidere El Boussettaoui ma l’ha fatto a causa della caduta e del colpo partito contro la propria volontà. Laddove ci sia stata invece la consapevole scelta di sparare, l’atto potrebbe esser stata una reazione alla minaccia: El Boussettaoui aveva già aggredito e, minaccioso, incombeva su Adriatici intanto precipitato sull’asfalto e impaurito, nonché privo degli occhiali caduti e distanti. Ma la vittima non era armata, e allora risulterebbe una sproporzione a monte fra i duellanti. In ogni modo, avendo già chiamato la polizia con una telefonata in commissariato sfruttando anche il passato da ex agente e la rete di conoscenze, e non essendo braccato in una stanza chiusa a chiave dall’esterno, Adriatici poteva anche allontanarsi e attendere, per appunto, l’arrivo delle pattuglie: alle 22.15 la prima macchina dei carabinieri (la polizia non aveva personale libero) giunse in piazza Meardi. 

In Procura

Nessuna telecamera ha ripreso i secondi decisivi dello sparo. Un’altra telecamera ha però mostrato in precedenza Adriatici camminare alle spalle di El Boussettaoui. Forse lo seguiva, o forse no: Voghera ha quattro strade in croce, i locali quelli sono, i cittadini s’incontrano spesso. Adriatici aveva saputo da un commerciante delle perenni persecuzioni, anche quella sera, di El Boussettaoui e ha deciso di andare a mandagli un segnale (o dargli una lezione): forse sì o forse no, Adriatici aveva l’abitudine, dopo aver cenato, di passeggiare per digerire. Aveva regolare porto d’armi, e teneva la pistola in tasca come uno ci tiene i fazzoletti, un gesto abituale, una pratica quotidiana, non una strategia predeterminata nella convinzione di dover usare l’arma: forse sì o forse no, ché era comunque una pistola carica, pronta all’uso. Si diceva a Voghera, in quei dannati giorni: era nell’aria che potesse finire in dramma. Per l’uno, per l’altro. Per entrambi. Aspettiamo il processo, aspettiamo la legge. In Procura stanno procedendo di cesello e centimetro, di esame e controesame e contro-controesame, sovente senza delegare ma tenendo a sé ogni attività e analisi delle risultanze. Col tacito obiettivo di spurgare il caso dall’eco mediatica e dalle strumentali mosse/influenze politiche. Basterà? Nutrire il dubbio, raccomanda chi investiga, aiuta a risolvere gli omicidi e in generale, prima di essi, a capire la realtà. Forse pure quella di Voghera e dei suoi giorni dannati. Forse.

Caso Voghera, ora la procura vuole processare la vittima post mortem. I legali di famiglia di Youns El Boussettaoui, l'uomo ucciso dall'allora assessore leghista Massimo Adriatici, hanno ricevuto un decreto di citazione in giudizio per una vicenda che precede la morte del 39enne marocchino. Il dubbio il 25 marzo 2022.

«Quando abbiamo ricevuto l’atto siamo rimasti senza parole». È un commento amaro quello dei legali di Youns El Boussettaoui, il 39enne di nazionalità marocchina ucciso lo scorso 20 luglio dall’allora assessore leghista del comune di Voghera Massimo Adriatici.

Come riporta Repubblica, la procura di Pavia infatti ha notificato agli avvocati della famiglia un decreto di citazione a giudizio davanti al giudice di pace per una vicenda precedente alla morte di Youns, intimandogli di presentarsi in aula il prossimo 3 febbraio. La vicenda risale al 10 maggio scorso, due mesi e dieci giorni prima dei fatti di Voghera, quando l’uomo venne fermato dai vigili che lo trovarono senza documenti. Ne è scaturito un procedimento, per il quale la procura di Pavia vorrebbe processare Youns da morto. Un vero e proprio corto circuito della giustizia se si considera che il documento è stato depositato in procura l’11 giorno scorso, più di un mese dopo il delitto. E lo stesso documento è stato poi vistato a settembre, mentre erano in corso le indagini sulla morte del giovane marocchino.

I fatti

Youns El Boussetaoui è stato ucciso in Piazza Meardi a Voghera (Pavia) il 20 luglio 2021 da un colpo di pistola esploso da Massimo Adriatici, indagato per eccesso colposo di legittima difesa. Avvocato e assessore alla sicurezza nella giunta di centrodestra guidata dal sindaco Paola Garlaschelli, Adriatici deteneva regolarmente la pistola con cui ha sparato. Eletto nelle file della Lega, è titolare di uno studio di avvocatura molto noto, ed è salito all’onore delle cronache locali per iniziative contro la cosiddetta “malamovida” come l’abuso di sostanze alcoliche nelle ore serali. Quanto a Youns, è noto che l’uomo soffrisse di disturbi psichici, ma è emerso che la sera in cui è morto stesse camminando tranquillamente prima di accorgersi di essere pedinato dall’assessore Adriatici. La tragedia fece esplodere un vero e proprio caso politico con tanto di “difesa d’ufficio” del leader leghista Matteo Salvini che avvalorò la tesi della legittima difesa.

Le indagini

Lo scorso febbraio la Procura di Pavia ha chiesto la proroga delle indagini, per altri sei mesi. Il sostituto procuratore Roberto Valli, titolare dell’inchiesta, ha presentato la richiesta al gip Maria Cristina Lapi. La scadenza dei termini era fissata per domenica 20 febbraio. Ma gli inquirenti hanno ancora bisogno di tempo per svolgere nuovi accertamenti, a partire da una ricostruzione virtuale della scena del crimine. Gli avvocati della vittima insistono perché venga aggravata l’accusa nei confronti di Adriatici, insistendo per l’ omicidio volontario: un’ipotesi che invece viene fermamente negata dai legali dell’ex assessore. Le perizie condotte sino ad ora hanno analizzato le immagini delle telecamere della zona e le testimonianze di tre persone, sentite in Tribunale nel corso di un incidente probatorio.

Da ilgiorno.it il 22 ottobre 2022.

La Procura di Pavia ha chiuso le indagini, mantenendo l'accusa originaria di eccesso colposo di legittima difesa, per Massimo Adriatici, ex assessore alla Sicurezza del Comune di Voghera che la sera del 20 luglio 2021 uccise con un colpo di pistola in piazza Youns El Bossettaoui, marocchino di 39 anni. La notifica dell'atto, che prelude alla richiesta di processo, è stata confermata dal suo difensore, Gabriele Pipiceli. 

L'episodio era avvenuto in piazza Meardi, nella cittadina pavese, la sera del 20 luglio 2021: dopo una lite e un'aggressione della vittima nei confronti di Adriatici, l'ex assessore aveva esploso un colpo di pistola che aveva ucciso il 39enne marocchino.

Intorno alle 22.30 Adriatici, ex poliziotto con regolare porto d'armi, aveva chiamato in Commissariato per far arrivare una pattuglia in piazza Meardi, perché El Bossettaoui stava infastidendo i clienti di un bar. Quest'ultimo lo aveva sentito mentre faceva la telefonata, gli si era avvicinato e lo aveva spintonato. A quel punto era nata la colluttazione durante la quale era stato esploso il colpo letale.

La reazione della difesa

Filtra soddisfazione da parte della difesa dell'ex esponente della giunta. "Prendiamo atto con la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini come, all'esito di un articolato e sereno lavoro svolto dalla procura, la contestazione è quella di un eccesso colposo di legittima difesa". 

Lo dichiara Gabriele Pipiceli, avvocato dell'ex assessore alla sicurezza del Comune di Voghera, Massimo Adriatici, commentando la chiusura delle indagini sulla morte di Youns El Bassettaoui, per cui l'allora esponente leghista della giunta è accusato di eccesso colposo di legittima difesa. 

"Valuteremo quindi quali iniziative difensive intraprendere, ritenuto che il nostro assistito abbia agito in un contesto di piena legittima difesa", sottolinea il legale della difesa, aggiungendo che "è chiaro che in ogni caso, in questa triste vicenda, il ruolo dell'avvocato Adriatici è stato quello dell'aggredito che si è difeso".  

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 22 ottobre 2022.

Trasferire il processo ad altra sede, diversa dalla procura di Pavia, dove ci sarebbe «un rapporto del tutto amichevole tra due delle più importante cariche del tribunale» all'epoca dei fatti, e Massimo Adriatici, l'ex assessore leghista alla Sicurezza di Voghera, che la sera del 20 luglio 2021 sparò e uccise il marocchino Youns El Boussettaoui. 

Dieci giorni fa il pm di Pavia, Roberto Valli, ha chiuso le indagini per eccesso colposo di legittima difesa, ma gli avvocati della famiglia della vittima, Debora Piazza e Marco Romagnoli, chiedono che la procura generale di Milano, «all'esercizio dell'azione penale si attivi per la remissione del processo». 

Una decisione che arriva dopo aver visionato il contenuto del cellulare dell'avvocato e politico leghista, da cui emergerebbero i rapporti di amicizia con l'allora capo reggente della procura di Pavia, Mario Venditti, e con il giudice Daniela Garlaschelli, ex presidente della sezione penale del tribunale, entrambi ancora in servizio a Pavia.  

La procura si è sempre opposta alla richiesta dei legali di avere copia forense del telefono, decisione avallata dal gip Maria Cristina Lapi, che l'ha dichiarata «inammissibile». È stata poi la Cassazione a dichiarare «del tutto legittima la richiesta dei difensori di esaminare atti e prove già acquisite dal consulente della procura». Il pm non ha consegnato il dispositivo, ma ha ammesso solo la consultazione, con gli avvocati costretti a prendere appunti a penna di quanto ritenuto rilevante.

Nel loro esposto segnalano come il 30 marzo 2021, Venditti - che mesi prima partecipa a un convegno della campagna per il candidato sindaco leghista a Legnano - chiede su whatsapp un incontro ad Adriatici. «L'ho intravista in tribunale. Se è ancora in zona può passare da me?». «Buongiorno dottore, termino l'udienza e salgo da lei!» risponde Adriatici. 

Non si sa quale sia l'argomento dell'incontro, ma nel pomeriggio, un medico di Pavia scrive ad Adriatici: «Mi è stato segnalato il suo numero dal signor procuratore Mario Venditti in merito alla questione della revoca di patente a carico di mia figlia. Sono a chiederle quando fosse possibile fissare un appuntamento per discutere della questione». Adriatici poi seguirà il caso. Poco dopo è un assessore di Pavia, il leghista Pietro Trivi, a scrivere ad Adriatici. «Grazie Massimo, ho dato il tuo cellulare a Venditti che me lo ha chiesto». 

In un altro sms a un collega avvocato, il 25 aprile 2021, a proposito di un'iniziativa sulla sicurezza, Adriatici scrive: «A colloquio con il dott. Venditti ci sono andato tra i primi e, dopo avergli spiegato la situazione del personale, mi sono impegnato a distaccare un agente dopo le assunzioni conseguenti al concorso che stiamo per bandire». 

Gli avvocati inseriscono nell'esposto anche i messaggi che si sarebbero scambiati Adriatici e il giudice Daniela Garlaschelli, sorella del sindaco leghista di Voghera Paola Garlaschelli, fino a pochi mesi fa presidente facente funzione della sezione penale del tribunale di Pavia. «Avvocato, mi pare giusto segnalarglielo perché è un post aperto al pubblico», scrive il giudice il 25 ottobre 2020, ad Adriatici. Viene indicato uno scritto su Facebook in cui si critica la politica di "tolleranza zero" della giunta di Voghera. «Grazie», risponde l'assessore. 

Il giudice sembrerebbe informare l'avvocato, sabato 23 gennaio 2021, di un fascicolo: «Avv. buongiorno, mi scusi per le modalità di comunicazione ma sono in ufficio e ho notato che il suo procedimento (..) è prescritto». Allegato, uno «screenshot di un capo di imputazione». «Grazie, va bene, risparmio un viaggio a Pavia - risponde Adriatici -. Gentilissima come sempre».  

«I colleghi mi hanno detto che lei aveva preso come praticante una delle nostre tirocinanti che si era trovata molto bene! - scriverebbe ancora il giudice -. Ora ne abbiamo un altro vogherese che avrebbe bisogno di integrare con pratica forense, lei avrebbe posto o cerchiamo altrove?». «Disponibilissimo» risponde l'assessore. E anche venti giorni dopo la tragedia, appuntano i ricorrenti che «il giudice invia su whatsapp un'immagine ad Adriatici, indecifrabile».

 Gli avvocati Piazza e Romagnoli scrivono nell'esposto al procuratore generale di Milano Francesca Nanni, che «detti contatti tra l'indagato e le cariche istituzionali dovevano essere esplicitati, circostanza che non si è verificata». E chiedono che la procura generale si attivi per trasferire il processo. Lo chiederà anche la sorella di Youns, Bahija, stamattina in un presidio davanti alla procura.

Le investigazioni private. Com’è cambiato il mondo delle investigazioni private. Veronica Grimaldi su Il Giornale il 23 Febbraio 2022. 

Com’è cambiato il mondo delle investigazioni dopo il Covid?   Quali sono oggi le indagini più richieste? Ne parliamo con il Professor Giuseppe Gelsomino, direttore dell’agenzia investigativa Shadow Detectives di Milano che dal 1981,  oltre ad essersi occupato di alcuni dei più importanti casi di cronaca d’Italia, aiutando le indagini alla ricerca della verità, ha aiutato migliaia di persone a risolvere problemi di varia natura. Dal 1994 è docente universitario di Tecnica Investigativa e Criminalistica. Nella sua carriera ha operato sovente in collaborazione con Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Direzione Investigativa Antimafia. 

Professore, com’è cambiato il vostro modo di operare dal Covid in poi?

In realtà   il lavoro  non ha   subito  mutamenti  rilevanti.  Nonostante la pandemia  e  le   diverse situazioni peculiari di tale periodo, l’investigatore non deve far altro che adattarsi alla situazione e continuare ad applicare le tecniche. Per fare un esempio concreto: sono cambiate le abitudini delle persone, le quali tendono ad uscire  di  meno, ma questo non  significa che gli amanti rinuncino ad incontrarsi o che i delinquenti smettano di compiere reati. Pertanto, la situazione ha solamente accentuato la necessità di adattarsi alle situazioni, non ha modificato in maniera sostanziale il modo di lavorare. 

Quali sono i casi mediatici più importanti di cui si è occupato?

Ho   svolto   diversi   incarichi   che   possono   essere   definiti   “casi   mediatici”.   Tra   i   più   rilevanti troviamo   sicuramente  un   importante   caso   di  estorsione   al  Porto   di   Gioia   Tauro,  il sequestro di  Silvia Melis, sequestro Laila Cavalli e sequestro di Santina Renda, poi il caso  Pollicino,  il  delitto   di   Cogne   e   il  delitto  di  Garlasco.  In   molti   di   questi   casi   ho collaborato con i Carabinieri, con la  D.I.A. e con i Pubblici Ministeri riguardante l’omicidio di Chiara Poggi. 

Servono degli studi particolari per intraprendere il mestiere di detective?

Sono necessarie conoscenze approfondite in diversi ambiti. Non si tratta tuttavia di studi universitari convenzionali, quanto piuttosto di competenze che si acquistano unicamente svolgendo un percorso di formazione mirato. Tra le basi necessarie per diventare un bravo investigatore vi sono materie che si imparano sui libri, come ad esempio la criminalistica, le procedure scientifiche forensi, la psicologia investigativa, la cinesica, la prossemica, la semiotica e la semiologia, ma le qualità più importanti, come la calma e il pieno controllo su se stessi si ottengono solamente con percorsi differenti. È infatti fondamentale per un investigatore praticare le discipline marziali e la meditazione, capaci di sviluppare qualità sorprendenti all’interno della psiche e dell’animo umano. Inevitabilmente tali attività spingono l’individuo naturalmente verso ciò che possiamo considerare “giusto”, verso un senso di giustizia naturale che prescinde dalle credenze religiose, ma che conserva la medesima forza morale. 

Quali sono i casi che trattate di più?

Un tempo si lavorava molto sulle infedeltà coniugali. Attualmente il panorama delle attività è composto principalmente da indagini relative alla difesa in ambito penale, alla prevenzione di truffe e raggiri. 

Come arriva a capire la verità?

Quando mi affidano un caso in ambito penale, la prima cosa da fare è analizzare attentamente i primi rapporti e le prime dichiarazioni, poi svolgere sopralluoghi sui luoghi menzionati all’interno di questi documenti, in modo da entrare nella storia e individuare immediatamente le eventuali anomalie o contraddizioni che spesso aiutano l’investigatore a raggiungere la verità. 

Vi è mai capitato durante un’investigazione di vedere qualcosa di illecito e di denunciarlo?

Noi lavoriamo al servizio del cliente, per cui tutto ciò che scopriamo lo segnaliamo al medesimo registrando e documentando ogni evento o circostanza. In ogni caso, qualora nello svolgimento delle attività fossimo testimoni della consumazione di un reato, saremmo tenuti ad allertare immediatamente le autorità competenti. 

In quali casi rifiuta il caso?

All’investigatore si rivolge ogni tipo di persona, di conseguenza è molto importante valutare con attenzione il cliente e le sue richieste, in modo da evitare casi che potrebbero portare a risvolti illeciti. Per quanto riguarda specificamente le indagini penali, accetto il caso solo quando sono convinto che la persona da difendere sia innocente, o comunque accusata di un fatto che non ha commesso. Diversamente non apporterei alcun beneficio alla difesa, poiché mi limito a raccogliere dati oggettivi che aiutano a ricostruire la realtà dei fatti e, se il cliente fosse colpevole, il mio intervento non farebbe che peggiorare la sua posizione. 

Quale è stato un caso che non ha accettato?

Un caso che non ho accettato è stata un’indagine relativa ad una rapina a mano armata in una banca, a Milano, nel corso della quale una guardia giurata era stata uccisa e i rapinatori erano stati individuati e condannati. Uno di questi mi propose di occuparmi del caso per essere scagionato dall’accusa di omicidio. In particolare, questa persona sosteneva che gli ultimi due proiettili inseriti nel caricatore (quindi i primi ad essere sparati dall’arma) erano a salve. A suo dire, non si sa come, la pistola avrebbe sparato un proiettile vero, uccidendo la guardai giurata. Ho rinunciato al caso in quanto non potevo difendere una persona che oltre ad aver eseguito la rapina avesse comunque accettato il rischio di sparare proiettili veri in un eventuale conflitto a fuoco. 

Nel penale con il suo lavoro quante persone ha scagionato da false accuse?

Nell’ambito del penale diciotto. Diciotto persone che, grazie alla nostre indagini, sono state scagionate. All’Università spiego ai miei studenti che un investigatore, in realtà, per quanto abbia il mandato da parte del cliente o dell’avvocato, svolge un servizio utile al giudice. Il quale, con il supporto del materiale e delle prove che abbiamo trovato, è in grado di stabilire la verità. 

In passato, negli anni ’60, il tradimento coniugale costituiva un reato?

Si, è così. Oggi non costituisce più reato, ma rimane un fatto importante per un investigatore sotto doversi punti di vista. Ad esempio, in sede di separazione, sulla base di determinate condizioni, può essere ritenuta da un giudice come una motivazione valida per addebitare la separazione a uno dei coniugi. Inoltre, dal punto di vista penale, fin troppo spesso, il tradimento costituisce la causa scatenante di comportamenti violenti da parte del partner tradito, che possono sfociare persino in maltrattamenti o atti persecutori, il così detto “stalking”. 

Sono più le donne o gli uomini che chiedono di pedinare il coniuge?

In realtà, la domanda da parte di uomini e donne è pressoché identica. La differenza principale, nella mia esperienza, è che, gli uomini sono spesso in grado di finanziare le indagini autonomamente, mentre le donne, in alcuni casi, quando magari si siano dedicate alla famiglia e non alla carriera, non dispongo dell’autonomia finanziaria necessaria per avviare l’indagine. 

I social network e internet vi hanno rubato in parte il lavoro?

Direi di no. Il lavoro è semplicemente cambiato, come è giusto che sia in una società all’avanguardia come la nostra. Il progresso non può essere ritenuto responsabile dei problemi che possono scaturire a livello lavorativo a seguito delle innovazioni. L’importante è stare sempre al passo con i tempi e adeguarsi al cambiamento, beneficiando delle eccezionali soluzioni offerte dalla tecnologia odierna. Le informazioni che forniscono i social network, infatti, ci aiutato molto e semplificano diverse parti di un’indagine. Tuttavia, i social forniscono informazioni ma, da soli,  non consentono sicuramente di indagare. Un’indagine somiglia per molti versi alla costruzione di un edificio: le informazioni sono il materiale da costruzione e il progetto dell’edificio costituisce il filo logico da seguire per giungere ad una tesi che, come un palazzo, deve necessariamente “stare in piedi”. Per di più, le informazioni fornite dalle persone tramite i social difficilmente rispecchiano la realtà e vanno considerate sempre con molta attenzione. Ad ogni buon conto anche le informazioni più veritiere necessitano di un soggetto che con esperienza e capacità professionale sappia interpretare e mettere assieme, nella maniera più corretta, i vari pezzi giungendo alla verità. 

E il GPS vi aiuta?

Il GPS ci aiuta in molte occasioni nelle quali i pedinamenti possono diventare difficoltosi. Si tratta, ad esempio, di casi nei quali è necessario tenere una certa distanza dall’obiettivo a causa della conformazione dei luoghi, oppure nel caso in cui il soggetto da pedinare sospetti di essere sotto controllo e metta quindi in atto comportamenti volti a scovare e identificare eventuali investigatori. Anche in questo caso, tuttavia, il GPS non è altro che un mero strumento al servizio dell’investigatore che semplifica alcune fasi del pedinamento, ma a nulla servirebbe se fosse impiegato da un soggetto che non disponesse delle capacità proprie di un investigatore. La mera attestazione di un veicolo in un determinato luogo, infatti, prova ben poco ed è dunque necessario che a ciò si accompagnino i filmati, le foto e i rapporti investigativi realizzati dall’investigatore. 

Quanto costa oggi rivolgersi ad un investigatore?

I costi variano a seconda del tipo di attività. Per fare un preventivo corretto è prima necessario parlare a fondo con il cliente al fine di conoscere tutti i dettagli della vicenda in merito alla quale andremo ad investigare. A seguito di questo confronto, viene poi redatto il piano di lavoro, all’interno del quale viene presentato il prospetto analitico dei costi. 

Un caso insolito?

Ci hanno chiesto recentemente di pedinare l’amante, anziché la moglie. Lui era un regista sempre in giro per il mondo ed era molto geloso. Era convinto che l’amante avesse una relazione con un altro uomo. I suoi sospetti erano fondati, perché abbiamo infatti colto la sua amante in compagnia di un altro uomo, in atteggiamenti che non lasciavano spazio al dubbio. Inoltre, li abbiamo documentati mentre lei faceva entrare l’uomo all’interno della casa nella quale viveva, pagata dal nostro cliente. 

È stato molte volte in situazioni di pericolo?

Le racconto un fatto che mi è capitato diversi anni fa. Seguivo un caso che mi portò a recarmi all’interno di un quartiere particolarmente malfamato. Cercavo il capo di un gruppo di malavitosi, ma non era lui il mio obiettivo. Sapevo da fonte certa che quest’uomo mi avrebbe potuto fornire informazioni importanti per risolvere il caso ed ero quindi determinato ad incontrarlo. Non appena arrivai, fui fermato da due bambini, che mi chiesero di dargli dei soldi. Io gli risposi che se volevano dei soldi per comprare del cibo, sarei stato io stesso a comprarglielo nel bar situato poco distante. I due accettarono. Li portai nel bar e gli offrii il pranzo. I bambini furono talmente felici per quel semplice gesto, che non finirono più di ringraziarmi. Una volta uscito dal bar, mi rimisi alla ricerca e chiesi informazioni ad un gruppo di persone che frequentava lo stesso locale nel quale l’uomo che volevo incontrare era solito passare le serate. Le cose cominciarono a non andare per il verso giusto perché, chiaramente diffidenti, non avevano alcuna intenzione di condurmi da lui. In breve, mi ritrovai circondato da una trentina di uomini armati che stavano per aggredirmi. Io avevo nella fondina, sotto la giacca, una Beretta calibro 9, ma non la avrei mai usata. Mentre mi accerchiavano, entrai nello stato mentale tipico del combattimento. Sapevo che, da un momento all’altro, avrei dovuto lottare per la mia vita quando, improvvisamente, mi sentii afferrare per le gambe.  Guardai in basso e i vidi i due bambini a cui avevo offerto il pranzo, i quali si misero ad urlare: “Lasciatelo, lasciatelo stare! È un nostro amico!”. Sostanzialmente, era avvenuto un miracolo. I bambini erano i figli di uno di questi uomini e immediatamente il gruppo si sciolse. Mi salvarono la vita. Proprio i bambini mi presero per mano e mi portarono dall’uomo che cercavo. In seguito, mi spiegarono che il comportamento del gruppo era dovuto al fatto che la persona che stavo cercando era stata ferita appena il giorno prima da un colpo d’arma da fuoco sparato da una banda rivale e pensavano che io ne facessi parte. 

Cosa consiglia oggi a chi vuole intraprendere questo mestiere?

Oltre alle conoscenze pratiche, che si imparano sul campo, un investigatore deve possedere molte capacità che sono in realtà frutto di un duro lavoro improntato allo sviluppo della propria persona. Tra queste spiccano sicuramente la calma, la pazienza, la compassione, la perseveranza, il coraggio, la gentilezza e l’umiltà. Senza questi elementi anche la persona più preparata da un punto di vista tecnico non sarebbe un buon investigatore. Personalmente, per lo sviluppo di queste capacità consiglio di praticare discipline marziali, come ad esempio il judo, il karate e il kendo. 

E una persona che non usa un arma come fa a difendersi in un caso estremo?

Imparare a difendersi è uno stato mentale, se la tua mente è pronta alla reazione, il corpo segue di conseguenza, nella maniera più indicata.  Le discipline che ho menzionato aiutano in questo.

Le Armi. Azienda di armi Remington risarcisce vittime strage di Sandy Hook. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.  

È la prima volta che accade: l’azienda verserà 73 milioni di dollari. Nella strage morirono 26 persone. Il commento di Biden: «I produttori siano responsabili» 

Joe Biden ha parlato di accordo storico e probabilmente non ha torto. La Remington ha accettato di versare 73 milioni di dollari a 9 famiglie dei bimbi uccisi nella scuola di Sandy Hook, nel 2012. Il 12 dicembre di quell’anno, Adam Lanza, un ventenne con seri problemi mentali, uccide la madre Nancy e poi si introduce nell’istituto che aveva frequentato. In pochi istanti falcia 26 persone, in gran parte studenti delle elementari, quindi si toglie la vita. In cinque minuti spara 154 colpi. Un’azione letale dove il killer usa un fucile Bushmaster prodotto dalla Remington. Un modus operandi visto decine di volte nei licei e nelle università statunitensi trasformate in gallerie di tiro da persone instabili o folli.

I parenti dei bambini hanno accusato la Remington di aver fatto pubblicità e messo in vendita un prodotto che aveva le caratteristiche di un’arma da guerra, un «pezzo» che non doveva essere offerto sul mercato civile. Una tesi respinta dalla difesa della compagnia che però alla fine ha dovuto arrendersi. Una conclusione salutata positivamente dalle associazioni che si battono per maggiori controlli e dalla stessa Casa Bianca.

La tragedia di Sandy Hook, a Newtown, nel Connecticut racchiude tutti gli aspetti di una minaccia a volte più seria del terrorismo: quella rappresentata dagli sparatori su ampia scala, i mass shooter. Adam, nonostante i guai personali, ha sempre rifiutato le cure e la madre ha assecondato la passione per le armi. Lei stessa, per paura di perderlo, ha evitato di assumere una linea decisa in favore di un ricovero coatto. Pensava di poterlo assistere da sola e meditava di cambiare città. Il giovane, in uno stato di autoreclusione, passava ore ai videogiochi e spesso rimaneva chiuso nella sua stanza al buio, rifiutando contatti diretti.

In quell’ambiente ristretto conduceva ricerche su altri responsabili di massacri, teneva il conto delle vittime, aveva messo a punto un suo archivio su una lunga serie di episodi violenti. E, purtroppo, aveva accesso ad un piccolo arsenale, con un paio di pistole, un fucile a pompa, un altro con calibro 22 e molte munizioni. Una deriva progressiva che lo ha portato a trasformarsi in carnefice di piccoli innocenti.

Al dolore delle famiglie si è aggiunta anche la disperazione per le folli teorie cospirative, sostenute da ambienti dell’estrema destra, tendenti a negare l’esistenza dell’eccidio. Per alcuni era un «piano» dell’amministrazione Obama per porre restrizioni al possesso e alla vendita di armi. Non è chiaro cosa abbia innescato Adam Lanza, la polizia non ha individuato un movente preciso e lui ha distrutto in modo meticoloso il suo computer in modo che non potessero ricavarne dati. Una delle ipotesi è che il progetto di Nancy — divorziata da tempo dal padre dell’assassino — di lasciare Newtown per trasferirsi all’Ovest possa aver scatenato l’esplosione finale. 

Da corrieredellosport.it l'11 febbraio 2022.

Ha fatto precedere la lettera da una telefonata: «Vorrei che la considerasse lo sfogo di un padre scandalizzato e amareggiato che ha portato per la prima volta il figlio di 9 anni allo stadio. La prima e anche l’ultima, e spiegherò perché. Può anche non firmarla, non è questo l’aspetto più importante e poi non sono alla ricerca di visibilità». Dopo averla letta non credo che serva una risposta, un commento: dentro c’è tutto, ci sono i nostri stadi. 

L’autore, il padre, ad ogni modo, è un magistrato, Roberto Spanò, presidente della sezione Penale del Tribunale di Brescia. Caro direttore, scrivo per segnalare gli incresciosi episodi di cui sono stato - purtroppo - spettatore nella giornata del 5 febbraio, in occasione del derby Inter-Milan, verificatisi, a mio giudizio, anche e soprattutto a causa delle gravi manchevolezze evidenziate dal servizio d’ordine gestito dalla società ospitante.

Sabato pomeriggio mi sono recato al Meazza a seguito delle insistenze di mio figlio di 9 anni, che mai aveva assistito prima di quel momento dal vivo a una partita di calcio. Forse, ingenuamente, non avendo dimestichezza con lo stadio, non ho considerato che i biglietti del primo anello blu mi avrebbero esposto alle angherie di parte dei tifosi della squadra avversaria, assiepati (ma i posti non dovrebbero essere a sedere?) lungo la ringhiera dell’anello superiore. Pensavo, evidentemente a torto, che certi fenomeni appartenessero al passato. 

Una volta raggiunti i posti assegnati, il clima festoso vissuto all’esterno si è infatti ben presto trasformato in un incubo. Dall’alto è cominciato a piovere di tutto, acqua, birra e, soprattutto, sputi. Per sottrarre me e il bambino al tiro al bersaglio mi sono avvicinato alla ringhiera dietro la porta, giusto in tempo per vedere sotto i miei occhi un ragazzo cadere nel vuoto a testa in giù ad un altezza di più di due metri in un eccesso di esultanza dopo la rete segnata dall’Inter.

La scena è stata di notevole impatto. Dapprima il tifoso non ha dato segni di vita, poi, quando si è girato, aveva il volto completamente imbrattato di sangue. L’incidente è sfuggito del tutto agli steward, intervenuti solo a seguito di ripetute invocazioni di soccorso da parte dei presenti. 

Il peggio è tuttavia accaduto dopo, quando un gruppo di persone vestite di nero e incappucciate si è materializzato all’improvviso nel nostro settore iniziando a colpire con calci e pugni tutti coloro che trovavano sulla loro strada, provocando un fuggi-fuggi generale. Per fortuna la capienza limitata ha ridotto l’eventualità che si creasse una calca pericolosa. 

Gli steward? Non pervenuti. Mio figlio, di fronte a tanta violenza, si è impressionato e si è messo a piangere a dirotto, chiedendomi di tornare subito a casa. Mentre cercavo di tranquillizzarlo, anche con l’aiuto di altri spettatori che, vedendo la scena, si erano inteneriti, sono proseguiti gli sputi e il lancio di oggetti, tra cui due bottiglie di plastica (di piccole dimensioni) che hanno reso vano ogni ulteriore tentativo di sdrammatizzare ciò che accadeva.

E gli steward? Di nuovo assenti. Volgendo lo sguardo verso l’angolo di destra del terreno di gioco si poteva scorgere una vistosa macchia gialla creata dalla concentrazione in quel luogo di una ventina di addetti alla sicurezza. 

Le due invasioni di campo e la reazione maldestra del personale di vigilanza cui abbiamo assistito nell’abbandonare l’impianto hanno costituito la cartina di tornasole della inadeguatezza del servizio d’ordine, i cui compiti, a quanto pare, sono quelli di invitare i tifosi (quelli non facinorosi) a stare seduti e a indicare i posti assegnati.

Con grande amarezza, ma senza poter ribattere, nel rincasare ho appreso che mio figlio non ha intenzione di mettere più piede in uno stadio di calcio. 

Aggiungo che quanto accaduto non ha avuto nessuna eco, per quanto a mia conoscenza, sui mezzi d’informazione; men che meno sono state mostrate le riprese televisive dei disordini. Evidentemente si è preferito nascondere la polvere sotto il tappeto per non danneggiare l’immagine che si vuole dare all’estero del campionato italiano.

 Francesca Morandi per corriere.it il 17 febbraio 2022.

«Il pm mi ha detto che il ragazzo è a casa, non è più in ospedale, ma le sue condizioni di salute sono ancora molto gravi. Bene, così non può raccontare la sua versione. È una cosa positiva». 

Non sapeva di essere intercettato Giovanni Carrera, 68 anni, da oltre trenta tassista molto noto a Cremona. Un tassista «cinico» per dirla con la Squadra Mobile. Già indagato a piede libero, dopo quella telefonata choc fatta il 7 febbraio scorso, subito dopo l’interrogatorio in Procura, Carrera mercoledì è finito agli arresti domiciliari per sequestro di persona e lesioni personali gravissime a Luca, 27 anni, la notte di Natale volato dal taxi van lanciato a forte velocità, caduto a faccia in giù, ridotto in coma da un trauma alla testa.

La lite per 10 euro

E tutto per 10, maledetti, euro. Luca è stato dimesso dall’ospedale, ma la ripresa è lenta. La vista è compromessa, non distingue una biro. Di «futili motivi», di «ripicca» verso «il malaugurato passeggero» messo in una condizione di «estremo pericolo» da un tassista, «il cui servizio dovrebbe caratterizzarsi per profili di particolare pacatezza, disponibilità e addirittura sicurezza dei trasportati», parla il gip Pierpaolo Beluzzi nella durissima ordinanza di custodia cautelare, motivata «dall’attuale e concreto pericolo» che il tassista reiteri il reato, «anche – e soprattutto – con il pericolo di gravi danni all’incolumità fisica delle persone». 

La corsa e il bancomat

Secondo la ricostruzione degli uomini del commissario capo Marco Masia, la notte di Natale è andata così. Dopo aver cenato con due amiche alla Chiave di Bacco, in piazza Marconi, alle 3,30 Luca ha chiamato un taxi. 

I tre giovani volevano andare all’hotel B&B, in via Mantova. È arrivato Carrera. Davanti all’albergo è nata una discussione sul pagamento della corsa: 20 euro in tutto. Luca ne aveva 10. Voleva saldare con il bancomat, ma Carrera non aveva il pos. Non lo ha mai avuto.

Il «sequestro» nel Van

Nel van è scoppiata una lite: le ragazze, spaventate, sono scese. Il tassista è ripartito a forte velocità con il portellone aperto e con sopra Luca. Ha imboccato strade contromano a forte velocità, come risulterà dalle telecamere esaminate dalla polizia. 

Carrera voleva portare il cliente al bancomat, oppure riportarlo in piazza Marconi. Luca era in pericolo su quel taxi, una mina vagante. «Non mi fa scendere», ha detto alle amiche che lo hanno chiamato al cellulare.

Cinquanta metri dopo, lo schianto a terra, in via Mantova, nei pressi della Credem. E solo cinque minuti dopo, Carrera è tornato, trovando Luca a terra, in un lago di sangue. Lo ha preso di peso e lo ha trascinato sul marciapiede. Grazie a un passante, ha chiamato il 118. 

Le accuse a Giovanni Carrera

Il 7 febbraio scorso, il tassista è salito in Procura accompagnato dall’avvocato Paolo Bregalanti. Davanti al pm Messina si è difeso per oltre un’ora. «Le ragazze sono scese, il giovane è rimasto su. Eravamo d’accordo di andare al bancomat. Sono partito, ho dato un colpetto ai freni. Di solito il portellone si chiude. Non si è chiuso. Dopo 5-10 metri mi sono fermato, sono sceso e l’ho chiuso. Andavo pianissimo.

Il ragazzo ha ricevuto una telefonata. Ho l’impressione che l’amica gli abbia detto: “Scendi”. Mi sono voltato, non c’era più. Secondo me, aveva già aperto il portellone, probabilmente non ha centrato il predellino ed è caduto. Sono tornato dopo poco per assicurarmi che avesse raggiunto l’albergo. È arrivato un ragazzo, gli ho detto di chiamare il 118». 

Ma la sua verità non trova riscontro nell’attività investigativa. In particolare, alla polizia non risulta che Carrera si sia fermato a chiudere il portellone nel punto indicato. «La sua versione è incompatibile con i tempi di percorrenza del taxi dall’hotel fino al luogo dell’incidente». 

Non solo. Sono in corso accertamenti per verificare se nel sollevarlo di peso, trascinandolo sul marciapiede, Carrera abbia ulteriormente aggravato le condizioni del giovane. 

Le intercettazioni

Subito dopo l’interrogatorio, Carrera si è attaccato al telefono. «Ho saputo dal pm che il ragazzo è a casa, ma sta male. Bene, è una cosa positiva». Nel pomeriggio di ieri, la Squadra Mobile si è presentata a casa di Carrera e gli ha notificato l’ordinanza di custodia cautelare. 

Osserva il gip Beluzzi: «Emerge con evidenza l’assoluta futilità dei motivi, rappresentati dalla mancata accettazione del pagamento della risibile somma di 10 euro a mezzo di carta elettronica, che vanno ad evidenziare l’incontrollato stato di irascibilità dell’indagato, pronto ad adottare condotte violente ed estremamente pericolose per l’altrui incolumità solo per una sorta di “ripicca” verso il malaugurato passeggero, che si trovava nell’impossibilità di saldare completamente – per una parte irrisoria – il corrispettivo per la corsa (e sarebbe stato sufficiente entrare nell’hotel B&B, e avuta conferma della registrazione), avere tutte le garanzie per risolvere tranquillamente la questione anche solo con un impegno di lasciare la somma il mattino seguente presso la portineria. 

Tale mancanza di controllo dei propri impulsi, e per di più collegata alla sua attività di servizio – che al contrario proprio in quanto collegata ad un servizio pubblico, dovrebbe caratterizzarsi per profili di particolare pacatezza, disponibilità e addirittura ‘sicurezza’ dei trasportati – va a rappresentare un rilevante, attuale e concreto pericolo per la reiterazione in fatti reato della medesima indole per i quali si procede , anche – e soprattutto – con il pericolo di gravi danni all’incolumità fisica delle persone».

Luca Lombardo, il cliente sequestrato dal tassista di Cremona la notte di Natale: «La lite per il bancomat, la corsa a tutta velocità, poi il buio». Francesca Morandi su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2022.

Luca Lombardo, 27 anni, racconta la corsa della notte di Natale: caduto dal taxi è finito in coma. «Avevamo 10 euro. Avrei pagato il resto con il bancomat. Il tassista aveva cominciato ad alzare la voce». Il tassista Giovanni Carrera arrestato per sequestro e lesioni gravissime.

«Non è vero che ci eravamo accordati per andare al bancomat. Ricordo che nella mano sinistra avevo il telefonino, nell’altra il portafoglio. Il tassista ha detto che andava piano? È una balla. Dall’hotel alla discesa per via dell’Annona lui non andava per niente piano. Mi ricordo che ero chinato nel taxi, sbattevo la testa. Poi, basta». Luca Lombardo ha 27 anni, un ciuffo di riccioli sulla fronte, il pizzetto e un bellissimo sorriso. Sta pian piano recuperando, dopo quella violenta botta in testa. Se l’è presa la notte di Natale, cadendo dal taxi van, durante una lite per 10 euro con Giovanni Carrera, 68 anni, il tassista cremonese da giovedì agli arresti domiciliari con l’accusa di averlo sequestrato e di avergli causato lesioni gravissime

I ricordi di Luca

Da tre anni, Luca gestisce due chioschi di benzina in città, uno in via Mantova, l’altro in via Massarotti. Nei progetti c’è il terzo a San Daniele Po, dove abita con mamma, papà e la sorella. Da qualche giorno è tornato a lavorare. Giovedì era al chiosco di via Mantova con la zia Silvana. «Sono contento di essere tornato al lavoro». Racconta: «La vigilia di Natale, dopo cena, ero andato con le mie amiche Alessia e Ramona in un locale, la Chiave di Bacco, in piazza Marconi. Mi ricordo la torta, il gin tonic. Ricordo anche che poi siamo usciti. Alle tre del mattino, le mie amiche avevano fame. In un distributore lì vicino ho preso delle patatine e dell’acqua». Il dopo di Luca è pieno di «non ricordo». Alle tre e mezza i ragazzi hanno chiamato un taxi. E come già accaduto altre volte, avevano deciso di fermarsi a dormire in un b&b. In piazza Marconi li ha caricati Giovanni Carrera. «Non mi ricordo chi ha chiamato il taxi», aggiunge Luca.

La lite per 10 euro

Alessia e Ramona alla polizia hanno raccontato della lite sul pagamento della corsa: 20 euro in tutto. «Avevamo 10 euro. Avrei pagato il resto con il bancomat. Le mie amiche hanno detto che il tassista aveva cominciato ad alzare la voce, ma non mi ricordo. Ricordo invece che Alessia ha detto “andiamocene” e ha aperto il portellone. Lei è scesa dall’auto, seguita da Ramona. Io non ce l’ho fatta. Il tassista è ripartito a forte velocità. Mai mi sarei buttato dal taxi in corsa». Luca è finito a faccia in giù in un lago di sangue. La corsa in ospedale, il ricovero in Terapia intensiva, poi in Neurochirurgia. Il 31 dicembre, papà Nino ha telefonato a zia Silvana: «Luca si è svegliato e ha chiesto di fare colazione». E in famiglia hanno tirato il primo sospiro di sollievo. Il 10 gennaio è tornato a casa. «Non vedevo l’ora, ma non sapevo che cosa mi fosse successo».

L’intercettazione

Diversa la versione del tassista: «Le ragazze sono scese, il giovane è rimasto su. Eravamo d’accordo di andare al bancomat. Sono partito, ho dato un colpetto ai freni. Di solito il portellone si chiude. Non si è chiuso. Dopo 5-10 metri mi sono fermato, sono sceso e l’ho chiuso. Andavo pianissimo. Il ragazzo ha ricevuto una telefonata. Ho l’impressione che l’amica gli abbia detto: “Scendi”. Mi sono voltato, non c’era più. Secondo me, aveva già aperto il portellone, probabilmente non ha centrato il predellino ed è caduto». La sua verità non ha trovato riscontro nell’attività investigativa: «La sua versione è incompatibile con i tempi di percorrenza del taxi dall’hotel fino al luogo dell’incidente». Infine, l’intercettazione del 7 febbraio che inchioda Carrera: «Il pm mi ha detto che il ragazzo è a casa, non è più in ospedale, ma le sue condizioni di salute sono ancora molto gravi. Bene, così non può raccontare la sua versione. È una cosa positiva».

Forze dell’Ordine. Colpo da oltre 15mila euro: fondamentali due basisti. L’incontro con il pregiudicato e la rapina alle Poste, arrestati due carabinieri: “Seguiteci in caserma…” Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Febbraio 2022

Hanno macchiato la divisa spacciandosi si per carabinieri ma nel corso di una rapina da loro stessi ideata grazie alla complicità di pregiudicato che andava in caserma a firmare. Così, giorno dopo giorno, è nato un rapporto confidenziale tra quest’ultimo e i due militari in servizio alla Compagnia di Casoria, comune in provincia di Napoli, fino ad arrivare a organizzare una rapina nei pressi dell’ufficio postale grazie anche alla preziose informazioni fornite da due delle quattro vittime del colpo. E’ quanto ricostruito dai poliziotti della Squadra Mobile di Napoli e dagli stessi carabinieri del Comando Provinciale che hanno avviato le indagini, coordinate dalla Procura partenopea, dopo il colpo realizzato tre anni fa, lo scorso 21 gennaio 2019, all’esterno dell’ufficio delle Poste di Corso Meridionale a Napoli. Un colpo da oltre 15mila euro tra denaro in contante, assegni vidimati (e subito bloccati dopo la denuncia) e cellulari e preziosi in possesso delle vittime.

In carcere sono finiti i due appuntati dei carabinieri, di 37 e 49 anni (uno in servizio a Casoria, l’altro a Crispano), che avrebbero partecipato al colpo perché spinti da problemi di natura economica, e l’uomo, un 36enne, che ha pianificato e realizzato la rapina. Sono ritenuti gravemente indiziati di rapina aggravata e sequestro di persona ai danni delle quattro persone che lavoravano per una impresa di pulizie. Tra le quattro vittime figuravano anche due conoscenti (di cui un parente) del pregiudicato che ha organizzato la rapina insieme ai due carabinieri. Quest’ultimi, che risultano indagati e per i quali non è stata emessa nessuna misura cautelare, avrebbero fatto da basisti, fornendo informazioni utili al commando entrato poi in azione perché conoscevamo i movimenti dei colleghi, i quali almeno una volta al mese andavano alle Poste per prelevare o versare denaro e assegni.

In particolare, due uomini in abiti civili, ma muniti di una palina ed una cartellina identiche a quelle in uso alle forze di Polizia, dopo essersi qualificati come appartenenti all’Arma dei Carabinieri, hanno fermato e controllato i quattro che avevano appena effettuato alcune operazioni postali. “Seguitici nella caserma di Torre del Greco perché dobbiamo fare degli accertamenti” hanno riferito i due carabinieri al gruppo una volta all’esterno. L’uomo che aveva la borsa con all’interno denaro e assegni, è stato fatto salire nell’auto ‘civetta’ dei militari mentre agli altri tre è stato chiesto di seguirli a bordo di un’altra vettura. Da Corso Meridionale il tragitto verso la caserma è stato interrotto nel vicino Centro Direzionale quando i militari-rapinatori hanno fatto scendere dall’auto con una scusa la vittima, fuggendo poi via a velocità sostenuta con lo zaino e i soldi.

L’auto alle spalle, colta di sorpresa, ha provato a inseguire i militari salvo poi recarsi ugualmente presso la caserma di Torre del Greco. Una volta giunti, si sono resi conto che era tutta una messa in scena, denunciando quanto accaduto ai carabinieri presenti. Le indagini partite nelle ore successive sono andate avanti fino al maggio 2021. Sono state condotte dalla sesta sezione (criminalità diffusa) della Squadra Mobile, guidata dal dirigente Alfredo Fabbrocini, e dai carabinieri stessi. Decisive le immagini delle telecamere di videosorveglianza presenti nella zona oltre all’attività tecnica svolta dai poliziotti (intercettazioni telefoniche e ambientali). 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Giuseppe Crimaldi per "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.  

Il sospetto è pesante e le accuse, semmai, sono ancora più gravi. A mettere a segno la rapina commessa nel 2019 all'ingresso dell'ufficio postale di corso Meridionale sarebbero stati - oltre ad un pregiudicato - due carabinieri. Due servitori dello Stato che con la loro condotta complice avrebbero infangato la gloriosa divisa dell'Arma. La svolta nelle indagini è giunta ieri mattina, con l'arresto dei due militari e del loro complice.

L'ASSALTO

Ricostruiamo i fatti. Sono le 15.30 del 21 gennaio 2019 quando scatta il raid. Tre persone attendono l'uscita dagli uffici postali di un gruppetto di persone che ha appena prelevato un'ingente somma di denaro. Scatta il raid. Due degli aggressori mostrano anche - stando alla ricostruzione investigativa (le indagini sono state svolte dalla Squadra mobile di Napoli sotto il coordinamento del sostituto Stefano Capuano) - un distintivo ed una paletta in dotazione all'Arma. 

«Fermi, carabinieri!», urlano gli aggressori intimando l'alt alle vittime. E, in effetti, pur agendo in abiti borghesi, due dei tre rapinatori sono proprio dei militari, entrambi appuntati scelti che all'epoca dei fatti prestavano servizio presso la compagnia di Casoria, il 37enne Andrea T. ed il 49enne Antonio V. Con loro c'è il terzo complice: si tratta di un pregiudicato - il 36enne Alfonso L. - che abitualmente si recava in caserma per ottemperare ad un obbligo di firma.

Emerge così l'inimmaginabile sospetto che rafforza l'ipotesi accusatoria: l'idea del colpo sarebbe maturata proprio negli uffici della caserma di Casoria; è qui che Alfonso L. avrebbe proposto alle due divise l'organizzazione della rapina, forse anche conoscendo le presunte difficoltà economiche nelle quali i due appuntati si sarebbero venuti a trovare in quel periodo. 

LE ACCUSE

Un quadro indiziario che prende corpo con il tempo, surrogato anche da elementi di prova importanti, derivanti dalla visione delle immagini dei sistemi di videosorveglianza dell'ufficio postale, oltre che da intercettazioni telefoniche ed ambientali. Di qui le contestazioni della Procura, che nei confronti dei tre arrestati ipotizza i reati di rapina aggravata e sequestro di persona (nei confronti del pregiudicato il pm contesta anche il reato di estorsione).

Tra gli indagati figurano anche due delle vittime della rapina (che lavorano insieme alle altre due per una ditta di pulizie e per le quali il giudice per le indagini preliminari che ha firmato il provvedimento cautelare non ha ritenuto necessario far scattare gli arresti). Si tratta di persone legate da vincoli di parentela con il pregiudicato (fino al quel momento ritenuto responsabile solo di piccoli reati) titolare di un'attività commerciale nel Napoletano. 

Erano proprio loro, secondo l'accusa, a passare le informazioni sensibili, a cominciare dai giorni nei quali le vittime si recavano alle poste per effettuare i prelievi. Somme cospicue che hanno fatto gola a lui e anche ai due carabinieri che, come detto, in quel periodo sarebbero stati afflitti da problemi economici. Secondo quanto emerso dall'analisi dei sistemi di videosorveglianza dell'ufficio postale e della zona, i due carabinieri avrebbero costretto una delle quattro vittime - un anziano che aveva messo nel suo zaino i soldi in contanti e anche altri 18mila euro in assegni (subito bloccati e resi inesigibili) - a salire sulla loro macchina: ipotesi che ha fatto scattare la contestazione del gravissimo reato di sequestro di persona. 

FUGA CON L'OSTAGGIO

Quel che accadde immediatamente dopo ha del rocambolesco. Seguiti dalle altre tre vittime, che viaggiavano in un'altra vettura, i presunti rapinatori si spostarono fino al vicino Centro Direzionale, dove l'ostaggio venne finalmente fatto scendere dal veicolo, ma senza lo zaino. A quel punto i carabinieri ripartirono a tutta velocità, inseguiti dalle quattro vittime che però non riuscirono a tenere il passo dei fuggitivi. Fatta ovviamente salva la presunzione d'innocenza degli indagati, il quadro investigativo - alle indagini della Mobile ha fornito il proprio contributo la stessa Arma dei carabinieri - ha determinato il gip Marco Giordano a firmare le misure cautelari.

La polizia e la tutela dei diritti del cittadino. Luigi Manconi su La Repubblica l'11 febbraio 2022.

Dal caso di Riccardo Magherini a quello di Cerciello Rega, la formazione degli uomini e delle donne titolari di compiti di controllo è essenziale. La prendo alla lontana, ma si tratta di una premessa che può essere utile per meglio spiegare fatti recenti. Il 30 gennaio del 2014, una circolare del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri raccomandava, nel caso di fermo di persone per strada, di evitare «i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona».

Luigi Manconi, l'ex Lotta Continua che non sa distinguere tra carabinieri e spacciatori. Carlo Giovanardi su Libero Quotidiano il 14 luglio 2022

A Luigi Manconi non manca certamente la coerenza quando si tratta di commentare il comportamento delle Forze dell'Ordine. Dall'antica militanza in Lotta Continua si porta dietro granitiche certezze che ha più volte esternato negli ultimi anni: se poliziotti e carabinieri, accusati di aver causato per imperizia e negligenza la morte di un cittadino sono condannati, allora sono colpevoli; se sono assolti sono colpevoli lo stesso perché si tratta di uno sbaglio giudiziario. Ma su Repubblica Manconi ha superato se stesso commentando la sentenza di condanna dei due giovani americani riconosciuti colpevoli dell'assassinio, a Roma, del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega.

SENTENZA POLITICA

Manconi lamenta che il filo conduttore che ha orientato il giudizio del Tribunale è «un sostanzialismo che sembra insofferente verso alcune garanzie che il diritto pone a tutela della correttezza assoluta delle procedure», «un sostanzialismo che rivela una ridotta sensibilità in nome della colpevolizzazione del reo, verso il rigore dei vincoli e dei limiti, delle guarentigie e delle forme».

Questo atteggiamento, secondo Manconi, non ha valorizzato le «anomalie» del comportamento di Cerciello Rega e del suo collega Varriale «in un ambiente ed un clima in cui può accadere che si svolgano gran parte delle relazioni tra consumatori di sostanze psicoattive, spacciatori delle stesse, intermediari e, non raramente, membri delle forze di polizia», «in una zone di "confine" e al limite della legalità dove, cioè, persone ricattate o prezzolate scambiano ruoli, segnalazioni e piccoli e grandi vantaggi con spacciatori e militari». 

ORDINE ILLEGALE

Questo, secondo Manconi, è una sorta «di ordine illegale garantito dalla disponibilità dei vari attori a rimanere nei propri ranghi ed all'interno dei propri spazi, a rispettare le altrui competenze, a non violare un codice occulto ma ferreo che stabilisce le funzioni di ognuno». «Ecco», conclude, «potrò sbagliarmi, ma l'omicidio di Cerciello Rega sembra essere stato il tragico "incidente" che ha fatto saltare questo ordine micro-criminale». Cerciello Rega pertanto non sarebbe un carabiniere caduto nell'adempimento del suo dovere ma una sfortunata vittima di un ordine micro-criminale di cui faceva parte. È una insinuazione pesantissima- ed è lo stesso Manconi a mettere le mani avanti dicendo «potrei sbagliarmi» - ma non sussurrata in una chiacchierata al bar, ma scritta in uno dei principali quotidiani italiani. Sarebbe troppo chiedere al ministro degli Interni e al vertice dell'Arma dei Carabinieri se, oltre ai fatti chiariti dai giudici, non intendano intervenire pubblicamente smentendo la teoria manconiana o viceversa, se fondata, azzerando questo «ordine micro criminale»?

"Sbirri morti", "M...". Gli insulti choc dei centri sociali agli agenti. Federico Garau il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Fratelli d'Italia chiede un intervento urgente da parte della giunta Sala.

Slogan contro le forze dell'ordine, scritte sui muri e vetrine imbrattate sono ciò che rimane dopo il passaggio del corteo che ieri ha sfilato per le vie del quartiere Ticinese di Milano con lo scopo di celebrare il diciannovesimo anniversario dell'assassinio di "Dax", all'anagrafe Davide Cesare.

Il corteo

Il ragazzo, che all'epoca dei fatti aveva 26 anni, venne aggredito e accoltellato da Giorgio Morbi e dai suoi figli Federico e Mattia. L'omicidio dell'attivista bresciano, verificatosi nella notte tra il 16 e il 17 marzo del 2003, avvenne all'altezza dell'incrocio tra via Brioschi e via Zamenhof, dinanzi al bar Tipota. Proprio da lì è partito nella serata di ieri, mercoledì 16 marzo, un corteo composto da circa 300 militanti di vari gruppi anarchici, antagonisti e antifascisti di Milano. Oltre al ricordo di Davide Cesare, che faceva parte del centro sociale autogestito O.R.So. (Officina di Resistenza Sociale), quest'anno gli organizzatori hanno deciso di dedicare la manifestazione anche ad Adil Belakhdim, sindacalista investito e ucciso a Novara durante uno sciopero fuori dai cancelli della Lidl di Biandrate, e a Lorenzo Parelli, studente 18enne deceduto in un'azienda della provincia di Udine durante uno stage rientrante nel progetto di alternanza scuola-lavoro.

"È molto difficile trovare le parole in questa giornata", ha dichiarato all'apertura dell'evento un'esponente dell'Associazione Dax 16 marzo 2003. "Sono passati diciannove anni ma ogni anno che passa e' sempre piu' complesso ricordarlo. Ogni anno cerchiamo di portare avanti il ricordo di Davide senza vittimismo e nella maniera più dignitosa possibile", ha aggiunto.

Le scritte e lo sfogo di FdI

A seguito del passaggio dei manifestanti, tuttavia, sono comparse alcune scritte contenenti insulti contro le forze dell'ordine, che hanno prodotto immediate reazioni nel mondo politico milanese."Dopo la manifestazione antifascista dei centri sociali e degli antagonisti, il quartiere dei Navigli si sveglia con nuovi atti vandalici: danneggiati muri di palazzi storici, soprattutto in corso San Gottardo, e vetrine di istituti di credito, dove sono comparse scritte ingiuriose contro le Forze dell’Ordine", ha commenta in una nota ufficiale il consigliere comunale di Fratelli d'Italia Francesco Rocca. "C'era da aspettarselo, è noto a tutti il modus operandi dei militanti antifà", ha aggiunto. "Non è più possibile tollerare slogan come “Più sbirri morti”, “1213”, la traduzione numerica dell’acronimo inglese ACAB, All Cops Are Bastard. Non mi aspetto la condanna della Giunta Sala che chiude gli occhi di fronte ai centri sociali", ha affondato in conclusione il rappresentante di FdI. "ma mi auguro che vengano presi seri provvedimenti nei confronti di vandali e seminatori d’odio che non hanno alcun rispetto per il bene comune e per la democrazia".

Delitto Cerciello: i carabinieri nelle chat augurano agli autori una fine «alla Cucchi». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera l'8 Febbraio 2022.  

«S periamo che gli fanno fare la fine di Cucchi...». Il macabro auspicio viene dall’interno della caserma di via in Selci, elite investigativa dei carabinieri. È il 26 luglio 2019, giorno del fermo di Gabriel Christian Natale Hjorth, uno dei due indiziati per l’omicidio (avvenuto poche ore prima) di Mario Cerciello Rega, tra i militari, forse, uno dei più rispettati. Inciso: la sentenza nei confronti dei due militari che pestarono Cucchi (Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo) arriverà solo il 14 novembre 2019, ma l’Arma ha già annunciato l’intenzione di costituirsi parte civile al processo sui depistaggi e la verità su quell’episodio risalente al 2009 sta già facendo il giro di caserme e presidi, sussurrato. Eppure qui la consapevolezza è al limite della rivendicazione.

Al processo nei confronti di Fabio Manganaro, il militare accusato di aver sottoposto Natale Hjorth a misura di rigore non consentita dalla legge — la benda sugli occhi immortalata in foto — sono state depositate le chat circolate quel giorno fra i carabinieri del Nucleo investigativo e altri colleghi. L’ingegnere Sergio Civino, incaricato dalla pm Maria Sabina Calabretta di estrarre i dati dagli apparecchi in uso ai militari, ha analizzato il contenuto dei messaggi, molti dei quali tradiscono rabbia, giustizialismo, vendetta: «Ammazzateli più che potete», inneggia lo stesso che propone un pestaggio «alla Cucchi». Mentre un collega teorizza trattamenti d’altre epoche e latitudini: «Non mi venite a dire: “Arrestiamoli e basta” — scrive —. Devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero quando fanno queste cose. Per carità, c’è gente che nonostante le difficoltà passate riesce a integrarsi, a lavorare e a farsi una famiglia ma poi ci sono ‘sti soggetti che sono come le bestie». Alcuni si vantano: «Appena li hanno portati al Reparto operativo ho buttato uno schiaffo a uno, poi mi hanno fermato i colleghi...». Altri ancora inneggiano: «Pena di morteeeeeeee...»

Qualcuno fra i militari collegati in chat, timidamente, avanza dubbi riguardo al bendaggio di Natale Hjorth: «Una cavolata». Ma il suo garantismo è travolto dalle esclamazioni di segno opposto: «Lat sfunnat e mazzate?» Li avete sfondati di mazzate? scrive in dialetto un collega. «Bisogna squagliarli nell’acido» è il suggerimento di un altro, un carabiniere tanto furioso quanto confuso (non è ancora riuscito a vedere Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, dunque pensa che siano due neri). Di colpo si fa strada il parere di una rappresentanza sindacale che suggerisce prudenza e introduce il tema dei diritti: «Poi sta quello del Cobar...che ha detto che non si toccano», spiega uno. Risposta: «Ammazzate pure a lui». Infine la chiosa, sbrigativa: «Che dito nel c... queste associazioni di m...»

Dalle frasi inviate via smartphone emerge la consapevolezza diffusa che a prevalere possa essere la linea giustizialista, per usare un eufemismo: «Li dovrebbe prendere un’altra stazione», dice un militare. Mentre un collega che ha fiutato gli umori generali replica: «Perché seriamente c’è il rischio che appena sbagliano a parlare li pestate». Infine l’equivoco creato dalla segnalazione venuta in un primo momento dal superstite Andrea Varriale, il primo ad accusare erroneamente due extracomunitari: «Erano ‘sti due scemi. Non erano negri?», domanda un militare. La prossima udienza sarà il 5 aprile e Natale Hjorth testimonierà sui fatti di quel giorno.

Andrea Ossino per roma.repubblica.it il 9 febbraio 2022.

Occorre "squagliarli nell'acido". La speranza è "che gli fanno fare la fine di Cucchi". Sono parole pesanti, quelle depositate nel processo a carico del carabiniere Fabio Manganaro. Specialmente perché provengono da alcuni militari. 

Manganaro è accusato di aver sottoposto Natale Hjorth, l'assassino del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, a una misura di rigore non prevista dalla legge: l'imputato, che insieme all'amico Finnegan Lee Elder domani affronterà il processo d'Appello dopo una condanna all'ergastolo rimediata in primo grado, è stato bendato in caserma. 

Per queste parole Manganaro è a processo. E ieri sono state depositate alcune chat ritenute rilevanti. I dialoghi partono il 26 luglio del 2019.

Esattamente 87 secondi dopo le 10 del mattino c'è il primo messaggio: "Li abbiamo presi stiamo venendo al reparto", scrive un militare. Le risposte vanno in un'unica direzione: "Ammazzateli di botte". E ancora: "Speriamo che gli fanno fare la fine di Cucchi", dicono riferendosi al geometra ammazzato di botte dai militari. 

I superiori, si evince dalle conversazioni, capiscono i rischi: "Eh ci vogliono lasciare mezz'ora in stanza con loro a noi che siamo in tre...Però ha detto che poi rischiamo di fare cazzate quindi non voglio che si alzano mani". Ma alcuni carabinieri non si placano: "Ammazzateli più che potete". E c'è chi si lamenta della presenza di un ragazzo che appartiene a un'associazione: "Ammazzate pure lui".

Qualcuno riflette e cerca di far capire la situazione: "Li dovrebbe prendere un'altra stazione perché seriamente c'è il rischio che appena sbagliano a parlare li pestate...", scrive. "Si ma qualche mazzata ai coglioni se la prenderà, alla fine non si torna indietro", suggerisce un altro collega. 

E i più aggressivi: "Non mi venite a dire arrestiamoli e basta. Devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero", scrivono mentre altri dicono che "bisogna squagliarli nell'acido". Perché sarebbe "la miglior vendetta". 

Uno dei militari racconta anche ciò che sarebbe accaduto in caserma: "Appena lo hanno portato al reparto operativo ho buttato uno schiaffo a uno, poi mi hanno fermato i colleghi. E nel frattempo buttavo io le ginocchiate sul petto", scrive mentre altri minimizzano: "Ma non gli hanno alzato così tanto le mani". 

Ci sono anche dialoghi che si riferiscono al giorno dopo. E iniziano quando un interlocutore posta il link di un articolo di Repubblica in cui viene pubblicata la foto del ragazzo bendato. "Com'è uscita la foto?", domandano. "Una cavolata, io ero li", dicono. Qualcuno ha dubbi: "Dici forse si poteva evitare?". Altri no: "È stato bendato per non vedere, per sicurezza. Poteva sbattere la testa ovunque". 

CASO CERCIELLO REGA. Le chat dei carabinieri raccontano la violenza durante l’arresto dei due americani.

Roma. La foto di Gabriel Christian Natale-Hjorth, sospettato per l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, legato e bendato. GIULIA MERLO su Il Domani il 09 febbraio 2022.

Il militare che bendò uno dei due ragazzi è sotto processo per aver utilizzato una misura di rigore non prevista dalle legge. Sono state depositate le chat dei carabinieri, a cui l’accusato non ha preso parte, che però raccontano il clima

Poco dopo l’arresto dei due diciottenni americani poi condannati per l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, i carabinieri via chat si lasciano andare alla rabbia. A dimostrarlo sono le trascrizioni dei messaggi scambiati in quelle ore, ammessi nel corso del processo a carico del carabiniere Fabio Manganaro, accusato di aver sottoposto Gabriel Natale Hjorth a una misura di rigore non prevista dalla legge per avergli bendato gli occhi durante l’interrogatorio.

LE INTERCETTAZIONI

«Squagliateli nell'acido», «ammazzateli di botte», «fategli fare la fine di Cucchi» sono solo alcune delle frasi che si leggono nelle chat. Secondo gli estratti pubblicati da Repubblica, emerge che i superiori avevano capito che la situazione era rischiosa: «Eh ci vogliono lasciare mezz'ora in stanza con loro a noi che siamo in tre...Però ha detto che poi rischiamo di fare cazzate quindi non vogliono che si alzino mani», scrive uno. Le incitazioni, però, sono inequivocabili: «Ammazzateli più che potete».

Alcuni messaggi sono particolarmente aggressivi, con i carabinieri che incitano i colleghi dicendo che i due non possono solo essere arrestati, ma «devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero». Altri aggiungono che «bisogna squagliarli nell'acido».

Nelle chat, emerge anche il racconto dei fatti accaduti in caserma: «Appena lo hanno portato al reparto operativo ho buttato uno schiaffo a uno, poi mi hanno fermato i colleghi. E nel frattempo buttavo io le ginocchiate sul petto».

Queste chat sono state ritenute rilevanti per comprendere il contesto, ma nessuna delle frasi è riferibile all’imputato Manganaro. Nel giorno dell’arresto la foto del ragazzo, ammanettato e bendato in caserma, era stata fatta circolare tra le chat dei carabinieri e poi è finita pubblicata anche sui giornali, facendo il giro del mondo vista la risonanza internazionale del caso.

I PROCESSI PARALLELI

Quello che è in corso a carico di Manganaro è un processo parallelo e vede il giovane Natale Hjorth come parte offesa, rispetto a quello principale per omicidio in cui Natale Hjorth è già stato condannato all’ergastolo in primo grado insieme a Finnegan Lee Elder.

Domani inizierà l’appello per il processo per omicidio volontario, ma la rivelazione delle chat nel processo al carabiniere contribuisce ad intorbidire il clima. Già il primo grado era stato particolarmente teso: in appello gli avvocati dei due americani contestano anche la condotta del tribunale, che avrebbe interferito con la difesa. 

Inoltre, molto pesante era stata anche la condanna: anche se materialmente l’omicidio è stato commesso da Lee Elder, anche Natale Hjorth è stato condannato in concorso per omicidio volontario.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La chat dei carabinieri sul killer di Cerciello. "Faccia la fine di Cucchi". Stefano Vladovich il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

I messaggi al processo per il bendaggio di Hjorth. L'Arma: "Punizioni esemplari".

«Ammazzateli di botte, Michè». «Fategli fare la fine di Cucchi». Ancora: «Ci vogliono lasciare mezz'ora nella stanza a noi di Farnese». La «stanza» è la numero 8 della caserma di via In Selci, quelli di «Farnese» sono i colleghi e gli amici più cari del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, massacrato con 11 coltellate da due giovani americani strafatti di alcol e cocaina la notte del 25 luglio 2019 a Roma. Chi voleva lasciarli in quella stanza e per fare cosa? A scambiarsi i messaggi 4 carabinieri: Michele Lorusso, Michele Nicassio, Giuseppina De Marco e Cristian Salvati. Sono queste le chat choc portate in aula alla prima udienza da Francesco Petrella, avvocato della difesa di uno dei due assassini, Gabriel Natale Hjorth, nel processo contro il maresciallo dell'Arma Fabio Manganaro, autore del bendaggio di Hjort durante il fermo per l'omicidio. Manganaro è accusato di aver usato una misura di rigore non prevista dalla legge ovvero il bendaggio del sospetto.

Secondo una prima dichiarazione il motivo del foulard sugli occhi sarebbe stato quello di interrogare Hjorth e confrontare la sua voce con quella al telefono la notte maledetta, quella in cui i due ventenni, dopo aver cercato di acquistare droga, rubano lo zaino all'amico dello spacciatore, Sergio Brugiatelli, per chiedere un riscatto. «Maschio come ti chiami?» chiede il carabiniere Andrea Varriale al giovane bendato. A sottolineare che il procedimento è relativo solo a questo reato, il bendaggio, che prevede una pena massima di trenta mesi, il giudice Alfonso Sabella. Prove documentali, le chat, acquisite da un perito nominato dal pm nel processo contro Hjort e Lee Elder Finnegan, autore materiale dell'omicidio. Frasi che rendono l'atmosfera di quei drammatici momenti sottolinea l'avvocato. «Toni offensivi ed esecrabili - scrive in una nota l'Arma dei Carabinieri -. Non appena gli atti con i nominativi dei militari coinvolti saranno resi disponibili l'Arma avvierà con immediatezza i conseguenti procedimenti disciplinari per l'adozione di provvedimenti di assoluto rigore». I messaggi fra i quattro continuano: «Li abbiamo presi, stiamo venendo al reparto». Il reparto è quello operativo di via In Selci che ha condotto l'indagine recuperando l'arma ancora insanguinata e arrestando in poche ore i due assassini, condannati in primo grado, nel maggio scorso, all'ergastolo.«Non mi venite a dire arrestiamoli e basta - scrive un carabiniere dei quattro -. Devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero». Uno propone: «Bisogna squagliarli nell'acido».

Tra le prove ammesse il video (ancora in rete) e la foto di Hjorth bendato con il capo chino e ammanettato con le mani dietro la schiena all'interno della caserma. A girare il filmato e scattare la foto, diffusa in un gruppo whatsapp, un altro carabiniere presente nella stanza 8, Silvio Pellegrini, indagato per abuso d'ufficio e rivelazione e diffusione di segreti d'ufficio. Nella ripresa in caserma compare anche Varriale, il compagno di pattuglia di Cerciello che aveva ingaggiato una lotta furiosa con Hjort mentre Finnegan uccideva il vicebrigadiere. Stefano Vladovich

Cerciello Rega, umiliazioni e botte nella caserma degli orrori. Dopo le foto del ragazzo americano bendato, ora spuntano le chat tra i militari: ci sono riferimenti a Stefano Cucchi e “promesse” di pestaggi. Valentina Stella su Il Dubbio il 10 febbraio 2022.

Si apre domani a Roma il processo di appello per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega. I due imputati, Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, vi arrivano con una pesante condanna all’ergastolo perché i giudici hanno creduto alla versione del collega di Cerciello Rega, Andrea Varriale, il quale ha sostenuto che lui e Mario si erano qualificati come carabinieri e poi erano stati assaliti dai due americani. Ma è andata davvero così?

I dubbi sono molti, data la controversa condotta di alcuni esponenti dell’Arma, emersa durante il dibattimento di primo grado. Basti pensare al fatto che Varriale, l’unico vero testimone dei fatti, per timore di una punizione aveva mentito ai suoi superiori dicendo di aver avuto con sé la pistola d’ordinanza, circostanza poi smentita.

Le nostre perplessità sull’operato di alcuni carabinieri si rafforzano alla luce di quanto sta emergendo nel processo costola riguardante il bendaggio dell’imputato Gabriel Natale nella caserma di via In Selci. Come già raccontato, infatti, nel processo sono state acquisite come prove documentali alcune scioccanti conversazioni tratte da chat whatsapp tra diversi militari dell’Arma. Esse sono altresì contenute nel fascicolo di un altro processo a carico del carabiniere che scattò e diffuse la foto di Gabriel. Ma pende anche un terzo procedimento a carico dell’ex comandante della stazione di Piazza Farnese, a cui viene contestato il reato di falso.

Ricapitolando: sono in corso un processo principale e tre satelliti. Domanda: perché non accorpare gli ultimi tre in un unico procedimento? Per non ricostruire un quadro preoccupante della condotta dei carabinieri, una sorta di “dividi e sminuisci”? Tornando alle chat, le abbiamo lette ma, per coerenza con la posizione di questo giornale, ve le racconteremo e non faremo i nomi delle persone coinvolte, in quanto anche per loro vale la presunzione di innocenza, o il diritto a non essere dileggiate se non coinvolte in prima persona nel procedimento. Però non possiamo sottrarci dal giudicarle stupefacenti per la loro gravità, essendo state pronunciate da chi dovrebbe rispettare le regole, garantire il rispetto dei principi dello Stato di Diritto, custodire responsabilmente cittadini privati della libertà personale.

Vi abbiamo già raccontato che Gabriel viene bendato e ammanettato dietro la schiena; subisce poi una sorta di interrogatorio in assenza del suo avvocato. E non sappiamo per quanto sia andato avanti tutto questo. Prima, durante e dopo questi momenti concitati nelle chat si scatena la peggiore violenza verbale che inneggia anche a quella fisica, verso entrambi gli indagati. Ci si augura che vengano ammazzati, oppure sciolti nell’acido, insomma che gli venga fatta fare la fine di Cucchi. E ad un carabiniere che accenna all’intervento eventuale di un rappresentante Cobar che aveva detto che i due ragazzi non si dovevano toccare, gli viene addirittura risposto di ammazzare pure il sindacalista. Un altro poi, con un pizzico di lucidità, suggerisce che dovrebbe essere un’altra la stazione dei carabinieri a prenderli in custodia, non quella di appartenenza della vittima, perché sostiene che è facile che ci scappi un  pestaggio. Però qualche mazzata e un taglio ai genitali se li devono prendere, dice un altro, mica possono solo essere arrestati, prosegue il collega.

La preoccupazione dei militari è che con le leggi che abbiamo escano subito dal carcere per buona condotta e poi gli si dedichino film e speciali tv. Tutto questo è già scandaloso ma non finisce qui perché poi arriva l’ammissione anche della violenza fisica, in nome dell’occhio per occhio e con l’invocazione della pena di morte: uno racconta che appena il sospettato è arrivato in caserma gli ha dato uno schiaffo, mentre altri gli davano ginocchiate sul petto, ‘rassicurando’ tuttavia che non avevano alzato troppo le mani.

Oltre questo quadro allucinante di violenza verbale e fisica ce n’è un altro non meno importante e che riguarda da vicino il processo principale. È davvero chiaro quello che è accaduto quella calda e tragica notte di luglio? Sono gli stessi carabinieri a sollevare dei dubbi nelle chat, quando sostengono che gli avvocati difensori si appelleranno a qualcosa, anche perché – aggiungono – non c’è chiarezza dei fatti, tanto è vero che ammettono che tra colleghi della caserma ci si stanno scambiando opinioni perché le cose non sono chiare a nessuno, e non credono molto alla versione data da un altro collega. Probabilmente si stanno riferendo al compagno di Cerciello Rega, Andrea Varriale, che secondo loro sta nascondendo qualcosa, forse anche per paura.

L’Arma, stigmatizzando questi «toni offensivi ed esecrabili», sta valutando azioni nei confronti degli autori di quelle affermazioni: «non appena gli atti con i nominativi dei militari coinvolti saranno resi disponibili, l’Arma – si legge nel comunicato diffuso dal Comando generale – avvierà con immediatezza i conseguenti procedimenti disciplinari per l’adozione di provvedimenti di assoluto rigore». E però questo quadro allarmante ci pone un grande interrogativo: possiamo fidarci, o meglio, la Corte di Assise di Appello di Roma può fidarsi delle dichiarazioni già rese o che verranno rese dai carabinieri in aula, considerato il rispetto che nutrono per le nostre leggi e tutta la cortina di fumo che aleggia su quella notte e sui giorni successivi? Tutto questo scenario non dovrebbe sollevare un ragionevole dubbio a favore degli imputati che hanno sempre dichiarato che Cerciello Rega e Varriale non si sono qualificati quando sono intervenuti?

Le frasi dei militari sono state depositate nel processo a carico di Fabio Manganaro. Omicidio Cerciello Rega, le chat dei carabinieri sugli imputati: “Fategli fare la fine di Cucchi”. Roberta Davi su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.

“Fategli fare la fine di Cucchi”. Ma anche “Squagliateli nell’acido“. È il 26 luglio 2019, giorno del fermo di Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, i due ragazzi accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega.

Le frasi shock provengono da alcune chat dei carabinieri del Nucleo investigativo e altri colleghi, estrapolate dai dispositivi usati dai militari. Sono state depositate nel processo a carico di Fabio Manganaro, il militare accusato di ‘misura di rigore non prevista dalla legge’ per aver bendato Hjorth nella caserma di via in Selci, immortalato in una foto che ha poi fatto il giro del web.

Le chat ‘incriminate’

Nelle ore successive al fermo dei due americani, le chat svelano parole pesanti, intrise di rabbia e giustizialismo, come riporta Il Corriere della Sera. Anche se c’è chi cerca di far ragionare i colleghi.

Omicidio Cerciello Rega, le motivazioni dell’ergastolo agli americani: “Nessun pentimento, ucciso per evitare arresto”

 “Li abbiamo presi stiamo venendo al reparto”, scrive un militare e gli altri commentano: “Ammazzateli di botte” oppure “Speriamo che gli fanno fare la fine di Cucchi”. Facendo appunto riferimento al caso di Stefano Cucchi, picchiato in caserma dopo l’arresto avvenuto il 15 ottobre 2009 e morto sette giorni dopo all’ospedale Pertini, per il quale sono stato condannati dalla Corte d’Assise d’Appello a 13 anni di carcere i carabinieri accusati del pestaggio, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro.

Tra le frasi finite all’attenzione del giudice anche quella di un carabiniere che scrive: “Non mi venite a dire arrestiamoli e basta. Devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero. Per carità, c’è gente che nonostante le difficoltà passate riesce a integrarsi, a lavorare e a farsi una famiglia ma poi ci sono ‘sti soggetti che sono come le bestie“. Mentre altri rincarano la dose: “Li avete sfondati di mazzate?” E ancora: “Bisogna squagliarli nell’acido“. 

Un altro militare descrive invece ciò che sarebbe successo in caserma: “Appena lo hanno portato al reparto operativo ho buttato uno schiaffo a uno, poi mi hanno fermato i colleghi” sono le sue parole quasi di vanto. Qualcuno interviene cercando di far comprendere la situazione: “Li dovrebbe prendere un’altra stazione perché seriamente c’è il rischio che appena sbagliano a parlare li pestate…” suggerisce. 

E quando un rappresentante sindacale fa presente che bisogna essere prudenti e che i due ragazzi non si toccano, la risposta è “Ammazzate pure a lui”. 

La prossima udienza sarà il 5 aprile.

Il processo per l’omicidio Cerciello

Per la morte di Cerciello, ucciso con undici coltellate il 26 luglio del 2019 nel quartiere Prati, i due americani sono stati condannati in primo grado all’ergastolo.

Domani 10 febbraio saranno in aula per il processo d’appello.

La replica dell’Arma dei Carabinieri

“L’Arma dei carabinieri ha appreso che, nell’ambito del processo a carico del Maresciallo Capo Fabio Manganaro, per la vicenda del bendaggio di Gabriele Natale Hjorth, sono stati depositati atti di un consulente esterno della Procura relativi a contenuti di alcune chat intercorse tra militari dai toni offensivi ed esecrabili” si legge in una nota del Comando Generale dell’Arma.

“Non appena gli atti con i nominativi dei militari coinvolti saranno resi disponibili, l’Arma avvierà con immediatezza i conseguenti procedimenti disciplinari per l’adozione di provvedimenti di assoluto rigore”. Roberta Davi

«L’immagine di Hjorth bendato non è casuale: volevano orientare l’opinione pubblica». Al via il processo scaturito da quello scatto che fece il giro del mondo. Parla il legale dell’americano condannato all’ergastolo per l’omicidio Cerciello Rega. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

Inizia a Roma il processo di primo grado per il bendaggio subìto da Gabriel Natale Hjorth. Si tratta di una costola del processo principale per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, per cui sono stati condannati all’ergastolo Gabriel e Finnegan Lee Elder. Dinanzi al giudice Alfonso Sabella, ci sarà l’imputato Fabio Manganaro, carabiniere individuato come l’autore del bendaggio.

Quella foto del ragazzo bendato, con le mani legate dietro la schiena e la testa reclinata in avanti ha fatto il giro del mondo. Fu scattata il 26 luglio 2019 all’interno della Caserma dei Carabinieri di Via In Selci in Roma. L’accaduto ha fatto nascere immediatamente una doppia indagine presso la Procura di Roma: una per abuso di autorità contro arrestati o detenuti, di cui deve rispondere Manganaro, e un’altra per violazione del segreto investigativo e abuso d’ufficio, per cui è stato rinviato a giudizio Silvio Pellegrini. Ne parliamo con uno dei due legali di Gabriel Natale, l’avvocato Francesco Petrelli, che lo assiste insieme a Fabio Alonzi.

Avvocato quella immagine ha suscitato immediatamente sdegno

Sul fatto intervenne immediatamente il Generale dell’Arma Nistri, dicendo che “quanto è successo è un fatto molto grave” e che si sarebbe avviata una “indagine interna” e anche l’allora Presidente del Consiglio Conte disse che “riservare quel trattamento a una persona privata della libertà non risponde ai nostri principi e valori giuridici, anzi configura gli estremi di un reato o, forse, di due reati”. Sul fronte della magistratura ci fu anche un importante intervento del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione Salvi, il quale aggiunse che si sarebbero dovute anche accertare “eventuali responsabilità per omessa vigilanza”, cosa che non ci risulta sia stata fatta.

Non pensavamo potesse accadere una cosa del genere nelle nostre caserme

Quella del bendaggio o blindfolding dovrebbe essere sconosciuta in un Paese civile e democratico; infatti è una pratica diffusa nei territori di guerra, dove i regimi statali autocratici e totalitari o Stati deboli cedono il passo ad organizzazioni paramilitari o terroristiche. O dove anche gli Stati decidono di sospendere le garanzie costituzionali: si pensi ad esempio ai fatti ancor più gravi di Abu Ghraib in Iraq o a Guantanamo. ll Comitato europeo per la prevenzione della tortura, organismo del Consiglio d’Europa, ha condannato la pratica del blindfolding in quanto “trattamento inumano e degradante”. L’essere bendati fa perdere il senso del tempo e dello spazio, rende inermi e si diviene così un oggetto nelle mani dei carcerieri, è una pratica che umilia il detenuto ma soprattutto disumanizza il rapporto con colui che è sottoposto ad una misura limitativa della libertà e tende a rendere irresponsabile dei propri gesti o a far sentire tale da chi la adotta. Gabriel Natale mentre era bendato venne anche videoripreso e fu sottoposto a una sorta di interrogatorio.

Il grave episodio è stato anche oggetto di vostre discussioni nel processo di primo grado per la morte di Cerciello Rega

Anche la sentenza della Corte di Assise, sebbene non ne abbia discutibilmente fatto discendere conseguenze sul piano processuale, non ha voluto “assolutamente sottovalutare la gravità di quel bendaggio” affermando che “si tratta di un atto lesivo della dignità umana, ingiustificabile e come tale va certamente stigmatizzato”. Ma il fatto va oltre l’indegnità di quel trattamento in sé e ci permette di fare anche qualche altra considerazione sugli effetti della circolazione di quella immagine del giovane bendato accasciato e con le mani dietro la schiena nel momento che tale pubblicazione ha integrato un ulteriore illecito che è quello previsto dall’art. 114 del codice di rito. Mi chiedo quale e quanta influenza abbia avuto quella immagine nel determinare nel pubblico la convinzione della sicura colpevolezza dell’accusato. Chi è ristretto in quelle condizioni e sottoposto ad un simile trattamento “deve” essere colpevole, lo è sicuramente! Quella che è stata una sconsiderata pratica vessatoria, a causa della sua vasta e immediata diffusione ha avuto l’effetto di sostenere l’accusa facendone immediatamente percepire la presunta fondatezza, oltre e al di là della prova. In maniera del tutto distorta è il trattamento subìto e il modo in cui il sospettato viene presentato in immagine a fondare la sua responsabilità. Si tratta di un meccanismo psicologico facilmente comprensibile.

Giovedì inizierà il processo di appello. Il suo assistito ha avuto l’ergastolo pur non avendo accoltellato la vittima

Tutti ricordano quella immagine ma nessuno sa che Gabriel Natale era disarmato, che neppure ha visto ferire il povero Cerciello, che quando è fuggito, pensando di essere stato avvicinato da un malintenzionato, neppure aveva capito che vi era stato un ferimento, che non ha in alcun modo partecipato a quel tragico fatto. Resta drammaticamente fondamentale il modo in cui un indiziato venga mostrato al pubblico. È proprio questo il senso della Direttiva europea sul rafforzamento della “presunzione di innocenza” del 2016 attuata solo da due mesi in Italia: evitare che l’indagato e l’imputato vengano “presentati come colpevoli” anche nella formulazione delle notizie, nei titoli, nell’informazione in genere. Questa legge purtroppo non era in vigore quando è successo il bendaggio ma comunque probabilmente non sarebbe bastata ad attenuare lo strapotere mediatico e quello dei social che oramai sopravanzano anche nell’informazione giudiziaria i media classici. In generale solo un atto di responsabilità dei singoli comunicatori e un cambio profondo della cultura dell’informazione possono arginare la barbarie di certe modalità di comunicare il processo, mortificando l’immagine e la dignità delle persone, compromettendo l’equità dei giudizi e distruggendo la vita di innocenti.

Caso Cerciello, la difesa di Elder: «Omessi elementi a suo favore». Prosegue il processo di appello per la morte del vicebrigadiere: «I giudici hanno deciso di difendere l'attendibilità di Varriale per poter sostenere la tesi accusatoria». Valentina Stella su Il Dubbio il 4 marzo 2022.

Prosegue il processo di appello per la morte del vicebrigadiere Cerciello Rega. Oggi hanno parlato i legali di Finnegan Lee Elder, gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra. Per quest’ultimo, «la sentenza di primo grado fa una scelta chiarissima: per sostenere la tesi accusatoria deve necessariamente difendere l’attendibilità di Varriale (il carabiniere unico testimone oculare dei fatti, ndr)» e per questo «è fortemente criticabile perché deve motivare in modo assolutamente insufficiente» diversi accadimenti di quella notte. Ma soprattutto, rileva Capra, la sentenza «utilizza le prove in modo parziale e questo è l’aspetto peggiore. Non si può piegare l’elemento probatorio prendendo solo la parte che ci fa gioco per sostenere una determinata tesi». Qualche esempio?

Il primo: «La sentenza sorvola ed è costretta a farlo su quella che probabilmente è la prova principale di questo processo: l’immagine tratta dalla telecamera dell’Unicredit, quella che smentisce il racconto del carabiniere Varriale». Questo elemento è fondamentale per determinare la dinamica dell’incontro e la successiva colluttazione tra i due americani e i carabinieri. Il secondo concerne le intercettazioni ambientali: «Nella sentenza – prosegue Capra – le si utilizzano solo per sostenere alcune tesi e non si fa alcun riferimento a quelle effettuate in carcere tra Elder, i suoi familiari e l’avvocato Peters, nelle quali il ragazzo dice dieci o quindici volte “non si sono identificati, non hanno mostrato i tesserini, non sapevo che fossero poliziotti”». Ed infatti Capra chiede ai giudici di concentrarsi su un punto: «Che cosa ha compreso Elder nell’incontro con i due carabinieri. Questo è il cuore del processo», ossia stabilire se Fin e Natale abbiano compreso che quei due militari in borghese, coi bermuda e senza pistola, erano dei carabinieri. Il terzo: «Nella sentenza di primo grado leggiamo addirittura che “le difese hanno contestato una serie di risultanze, modificando anche la strategia processuale in virtù delle risultanze che via via emergevano”. Mai fatta una cosa del genere signori giudici», perché, spiega ancora Capra, «quattordici minuti dopo i fatti, parlando su Facetime con la fidanzata Cristina, e sette ore dopo l’arresto, Finnegan ha dato sempre la stessa versione, ossia di essersi sentito attaccato da due delinquenti. Ma la sentenza di primo grado ha dimenticato di includere la testimonianza di Cristina».

La seconda parte dell’intervento di Capra si è concentrata su alcune anomalie riguardanti alcuni esponenti dell’Arma dei carabinieri. La prima riguarda un verbale di sit (sommarie informazioni testimoniali) tenuto nascosto: «Lo dico ai giudici popolari: quando il pm fa una indagine tutti gli atti devono finire nel fascicolo messo poi a disposizione della difesa. Ebbene, gli investigatori vedono che tra l’informatore – spacciatore (uno dei protagonisti di quella notte) e un militare dell’Arma di Trastevere (dove tutto è iniziato, ndr) ci sono oltre 2000 contatti telefonici, fino a poche ore prima dei fatti. Allora chiamano il carabiniere e gli chiedono una serie di cose rispetto a quel rapporto con un “soggetto di elevato interesse investigativo per il reato di omicidio”. Questo importante verbale non viene trasmesso al pm. Quando solleviamo la questione dinanzi la Corte ci saremmo aspettati che questa sobbalzasse», perché era stato violato il codice, «invece la Corte liquida il problema dicendo “è vero che l’annotazione non viene allegata alle informative, ma il rapporto dei due è stato considerato irrilevante”. Tutto questo è sbagliato, perché era un verbale di sit, ma c’è stato completo disinteresse sotto questo profilo». Un’altra anomalia riguarda «quello che è stato definito il superteste, Saracila, ora indagato per falsa testimonianza e pluripregiudicato. Per tutta la fase delle indagini e nelle informative, oltre che nelle mirate fughe di notizie sulla stampa, Saracila viene beatificato come teste oculare decisivo circa un colloquio di alcuni secondi tra i ragazzi e i carabinieri. Eppure fin da subito un carabiniere disse che lì non c’era». Infine, «tra le varie questioni poco chiare di questa vicenda ci sono le relazioni del comandante Ottaviani, finito sotto processo per questa vicenda. Il Comandante Ottaviani è colui che ha redatto la relazione di servizio certamente falsa ed avente ad oggetto la circostanza dell’aver prelevato la pistola di Varriale presso l’Ospedale Santo Spirito», circostanza poi smentita perché Varriale e Cerciello non avevano l’arma.

Sulla colluttazione si legge in una nota dei legali a fine udienza: «Finnegan Elder non poteva sapere che era un carabiniere, non aveva l’uniforme, la pistola e non ha mostrato il tesserino. Il ragazzo ha avuto una reazione istintiva, purtroppo tragica, alla manovra di bloccaggio di Mario Cerciello Rega che lo aveva steso a terra, stringendogli il collo. La perizia dimostra che questa è l’unica posizione compatibile con le ferite sul corpo del vicebrigadiere. Le ferite sono sulle parti laterali del tronco, nessuna alle spalle né frontale. Quindi nessuna aggressione a freddo come vorrebbe l’accusa. Finnegan ha reagito pensando di essere in pericolo di vita».

Cerciello Rega, arriva il giorno del giudizio: i carabinieri mostrarono davvero il tesserino? Attesa per oggi la sentenza di secondo grado sulla morte del vicebrigadiere Cerciello Rega. Ecco su cosa punta la difesa degli imputati. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 marzo 2022.

Arriverà probabilmente oggi nel tardo pomeriggio la sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega. Otto le udienze, stamattina dieci minuti alle parti per le controrepliche. Poi i due giudici togati e i sei popolari si riuniranno in Camera di Consiglio per decidere il destino dei due giovani statunitensi: Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, condannati in primo grado all’ergastolo.

Due giorni fa ha concluso la difesa di Natale, con l’arringa dell’avvocato Francesco Petrelli che lo assiste insieme a Fabio Alonzi, e che ha subito stigmatizzato l’operato dei giudici di primo grado: «il punto più critico della sentenza è che il giudice ha operato una selezione arbitraria del patrimonio delle evidenze, eliminando tutto quello che avrebbe messo in crisi l’ipotesi accusatoria».

Addirittura Petrelli parla di «inequivocabile e grave travisamento della prova» in relazione ad uno specifico fatto: «occorre a questo punto censurare l’argomentazione con la quale la Corte di prima istanza ha ritenuto di poter dimostrare la conoscenza certa del Natale del possesso dell’arma da parte dell’Elder, in quanto fondata sul grave travisamento di un elemento di prova. Si legge, infatti, in sentenza – ricorda Petrelli – che “gli inquirenti sono risaliti all’Hotel Le Meridien dalle tracce di sangue rinvenute sulla porzione di marciapiede e sulla griglia che costeggia l’albergo (…), tracce che hanno dato esito positivo al Combur Test e al Bluestar Orbit“. Data l’esistenza di questa fondamentale prova biologica “è evidente che in quel luogo Elder ha riposto l’arma nella custodia e poi nel tascone prima di rientrare in albergo, solo così possono spiegarsi le consistenti tracce di sangue rinvenute nel fodero (…) dunque Natale è esattamente consapevole quando si sta recando sul luogo dell’incontro che il suo amico è armato di un coltello da combattimento” ( Sent., p. 320)».

I giudici per Petrelli «trascurano un dato fondamentale, emerso all’esito degli approfondimenti tecnico biologici sulla identificazione di quelle tracce di sangue: esse non sono poi risultate compatibili con il Dna del Cerciello. Se ne deve dedurre in maniera inoppugnabile che quelle tracce non sono affatto il segno del passaggio dell’arma del delitto e del suo contestuale “gocciolamento”. Appare singolare – ha concluso il legale – che i giudici non si siano confrontati con tali risultanze scientifiche prima di formulare quella arbitraria considerazione. E poi come è mai possibile desumere da ciò che sarebbe avvenuto dopo il fatto, cioè la vista del coltello dopo che si era consumato il ferimento, la circostanza che Natale ne avrebbe avuto conoscenza anche prima?».

In sintesi Petrelli ha chiesto ai giudici di «riedificare la sentenza dalle fondamenta». Ricordiamo che il Pg Saveriano ha chiesto la conferma dell’ergastolo per Finn e 24 anni per Natale. La difesa del primo invece punta all’assoluzione perché l’imputato avrebbe agito per legittima difesa o in subordine per legittima difesa putativa; chiedono in alternativa l’esclusione delle aggravanti per poter accedere al rito abbreviato per la riduzione di un terzo della pena. La difesa del secondo invece chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Oggi sapremo come andrà a finire, ossia se la difesa è riuscita ad instillare il ragionevole dubbio nella Corte. Infatti la domanda principale a cui dovranno rispondere è: i carabinieri Andrea Varriale dice la verità quando sostiene che lui e Cerciello hanno mostrato i tesserini e si sono qualificati come militari dell’Arma? Se la risposta è sì per i due ragazzi arriverà una sentenza sfavorevole, se la risposta è no lo scenario attuale potrebbe cambiare di molto.

Pena ridotta ai due americani: lo schiaffo al carabiniere ucciso. Marco Leardi il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.  Niente più ergastolo per Elder e Hjort, entrambi condannati per l'omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello. Dovranno scontare rispettivamente 24 anni e 22 anni.  

Niente più ergastolo. La corte d'appello ha deciso: condanne ridotte per Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, i due americani responsabili dell'omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Il militare 35enne venne ucciso con undici coltellate a Roma, nel luglio del 2019, al termine di quella che il tribunale aveva definito come "un'escalation di illegalità". In primo grado i due erano stati condannati alla pena massima. Dopo poco più di tre ore di camera di consiglio, i giudici di secondo grado hanno stabilito che per Elder la condanna scende a 24 anni, mentre per Hjorth a 22 anni. Una sentenza accolta con fastidio dalla difesa degli statunitensi.

Rosa Maria Esilio, vedova del vicebrigadiere ucciso, ha invece utilizzato i toni di chi - al di là della giustizia e dei suoi tempi - è condannata al dolore e al ricordo. "Il sacrificio di mio marito non deve essere dimenticato: un servitore dello Stato ucciso nel momento più felice della sua vita. Il dovere della memoria non è solo di noi familiari ma è di tutti'', ha affermato la donna dopo la sentenza che ha ridotto le condanne. "Era un carabiniere orgoglioso, coraggioso, che ha dedicato la sua vita alla sicurezza della società il suo sangue rimarrà in eterno su quella strada. Vi prego di ricordarlo così: un carabiniere dagli occhi azzurro cielo traboccanti di felicità, di onore e di coraggio, che è morto nel momento più felice della sua vita", ha agggiunto Rosa Maria Esilio, che era sposata da soli 43 giorni con il vicebrigadiere eroe.

Massimo Ferrandino, avvocato della vedova, da parte sua ha espresso una certa soddisfazione "perché al di la delle pene l'impianto accusatorio ha retto". Al contempo, il legale ha aggiunto: "Nessuna sentenza potrà lenire il dolore nel cuore della vedova Rosa Maria Esilio. Certamente con questa sentenza il sacrificio di un uomo dello Stato quale Mario Cerciello Rega non è stato vano''.

Nella requisitoria del 10 febbraio scorso, il sostituto procuratore generale Vincenzo Saveriano aveva chiesto di confermare l'ergastolo per Elder e ridurre a 24 anni la condanna per Hjorth. I giudici hanno invece stabilito una riduzione di pena per entrambi, eppure la reazione della difesa all'odierna sentenza è stata piccata, muscolare. E a esprimere le parole più adirate è stato l'avvocato Renato Borzone, difensore di Finnegan Lee Elder insieme con il collega Roberto Capra. "Che schifo. Un compromesso per cercare di salvare un mentitore ma noi contiamo sempre sull'estitenza di un giudice a Berlino e a Strasburgo. Quello che è successo è indegno. Restano le bugie del testimone principale. Mi riferisco alle 53 bugie di Varriale", ha affermato il legale, riferendosi al carabiniere Andrea Varriale, che era in servizio con Mario Cerciello la notte del delitto.

Altrettanto irritate, ma con toni più contenuti, le parole di Francesco Petrelli, difensore di Christian Gabriel Natale Hjorth insieme al collega Fabio Alonzi. "Sono state riconosciute le attenuanti generiche. Non nascondo la grande delusione, perché avevamo sicuramente dimostrato l'estraneità di Natale. In una situazione come questa ci aspettavamo venisse riconosciuta l'innocenza dell'imputato. Natale non aveva previsto l'omicidio, perché non era prevedibile. Il mio assistito non ha visto e non ha potuto valutare neanche le conseguenze. Leggeremo le motivazioni e credo che sarà non facile motivare una condanna in una vicenda così complessa", ha detto l'avvocato, comunicando l'intenzione di fare ricorso in Cassazione.

La vicenda giudiziaria è dunque destinata a proseguire. Nella sentenza di primo grado, quella dell'ergastolo, i giudici avevano spiegato che i due statunitensi agirono "secondo un programma preordinato", con una "volontà omicidiaria evidente". Ora l'appello apre un nuovo corso.

Cerciello Rega, a Salvini e Meloni non piace lo sconto di pena. Dalla destra alla sinistra estrema passando per i Verdi, si solleva l'indignazione social per la sentenza di appello che ha ridotto la pena per i due americani condannati all'ergastolo in primo grado. Valentina Stella su Il Dubbio il 19 marzo 2022.

Dalla destra alla sinistra estrema passando per i Verdi, non è affatto piaciuto lo sconto di pena comminato ieri dalla Corte di Assise di Appello di Roma ai due giovani americani Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega.

Come vi abbiamo raccontato, rispetto all’ergastolo ottenuto in primo grado sono stati condannati rispettivamente a 24 e 22 anni di carcere. Ma è troppo poco per alcuni. Marco Rizzo, Segretario del Partito Comunista, in preda ad un leggere complottismo: “La legge (non) è uguale per tutti. Il Cermis insegna. Se sei statunitense in italia la giustizia è più clemente. Decade la pena all’ergastolo per Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, accusati dell’omicidio del vice brigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega”. 

Matteo Salvini non sorprende ormai più: “È stata ridotta la pena per gli assassini del carabiniere Cerciello Rega. Giustizia? No, vergogna”. È in buona compagnia di Giorgia Meloni: ” Una decisione assurda che offende la memoria di quest’uomo e tutti i suoi cari.  Come può, questa, definirsi giustizia?”. 

E poi Francesco Storace: ” Niente ergastolo per gli assassini di Cerciello Rega. Criminali a metà”. Disappunto anche da parte di Francesco Borrelli (Europa Verde): “Pene ridotte per gli assassini del carabiniere Cerciello Rega. La vita di un uomo vale sempre meno”. Ma la decisione non è piaciuta anche ad altri personaggi pubblici. Sergio De Caprio, noto come Capitano Ultimo, ha tuonato: ” Pene attenuate per omicidio Brigadiere Cerciello Rega. Nessun clamore, nessuna mobilitazione, delle Fazioni e dei media asserviti. In fondo era solo un Carabiniere.  Lui combatte,  Lui Vive”. Non poteva mancare Gianluigi Nuzzi: “Omicidio Cerciello: niente più ergastolo: ridotte in appello le pene per i due americani. Ogni commento è superfluo…” a cui, in sintonia, risponde Valerio Staffelli: ” che amarezza”.

E infine Unarma, Associazione Sindacale Carabinieri: “Accettiamo la sentenza di condanna a 24 e 22 anni per i due studenti americani con grande rammarico, perché ci opponiamo all’immagine di un Paese che riduce in appello la detenzione a dei delinquenti. Mario Cerciello Rega ha scontato il suo dovere con la vita, mentre ai suoi assassini è stata scontata la pena. Per UNARMA questa storia rappresenta una giustizia depotenziata, dove l’ergastolo poteva rappresentare una misura detentiva ma soprattutto di correzione, di rispetto verso la perdita della vedova Cerciello Rega, a cui ci stringiamo, ma soprattutto una mancanza di rispetto verso gli italiani, a cui in questo modo comunichiamo quanto poco voglia dire onorare la vita di un loro connazionale e di un rappresentante delle istituzioni”.

Sì, hanno ragione tutti: che amarezza vedere politici e giornalisti invocare l’ergastolo “dimenticando” che la pena deve essere rieducativa; e che cialtroneria giudicare spesso senza conoscere gli atti processuali cedendo ancora una volta alle semplificazioni e alla propaganda populista, stimolando la pancia e non l’intelligenza collettiva. E poi, se davvero teniamo al rispetto della legge, perché non ci si è scandalizzati  quando lo stesso imputato, Gabriel Natale Hjorth, veniva bendato e schiaffeggiato in una caserma dei carabinieri, mentre nelle chat i carabinieri scrivevano: “ammazzateli di botte, scioglieteli nell’acido, fategli fare la fine di Cucchi”?

Dall'ergastolo a 24 e 22 anni. Riconosciute le attenuanti generiche. Omicidio Cerciello Rega, condanna ridotta per i due americani: “Che schifo, ben 53 bugie dell’altro carabiniere”. Redazione su Il Riformista il 17 Marzo 2022.

Dall’ergastolo a 24 anni per Finnegan Lee Elder, l’accoltellatore materiale, e  a 22 anni per Gabriel Natale Hjorth per l’omicidio in concorso del vice brigadiere Mario Cerciello Rega ucciso con undici fendenti in via Pietro Cossa, nel quartiere Prati a Roma, nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019.

Questa la decisione dei giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma che hanno ridotto le condanne inflitte in primo grado per i due turisti americani, riconoscendo le attenuanti generiche. La sentenza è arrivata al termine di una camera di consiglio durata circa tre ore. La richiesta del procuratore generale era della conferma dell’ergastolo per Finnegan Lee Elder, 24 anni invece per Gabriel Natale Hjorth.

Rosa Maria Esilio, moglie del vice brigadiere originario di Somma Vesuviana (Napoli) che aveva 35 anni ed era sposato da poco più di un mese (43 giorni), ha così commentato: “Il sacrificio di mio marito non deve essere dimenticato: un servitore dello Stato ucciso nel momento più felice della sua vita. Il dovere della memoria non è solo di noi familiari ma è di tutti”. Quella notte Cerciello Rega era intervenuto con l’altro militare Andrea Varriale per recuperare uno zaino rubato dai due turisti californiani a un pusher, Sergio Brugiatelli.

Peggio quella di Renato Borzone, difensore, insieme al collega Roberto Capra, di Finnegan Lee Elder: “Che schifo. Un compromesso per cercare di salvare un mentitore, ma noi contiamo sempre sull’esistenza di un giudice a Berlino e a Strasburgo. Quello che è successo, è indegno. Restano le bugie del testimone principale. Mi riferisco alle 53 bugie del carabiniere Varriale“. Quest’ultimo era l’altro carabiniere che quella sera si trovava insieme a Cerciello Rega.

Soddisfatto l’avvocato della vedova del carabiniere: “Al di là della pena l’impianto accusatorio ha retto” ha commentato Massimo Ferrandino. “Nessuna sentenza -ha aggiunto- potra’ lenire il dolore di Rosa Maria. Certamente con questa sentenza il sacrificio di un uomo dello stato come Mario Cerciello non è stato vano” aggiunge.

La difesa

I due americani hanno sempre sostenuto di aver aggredito Cerciello e Varriale (che erano in abiti civili e senza la pistola d’ordinanza) senza sapere che appartenessero alle forze dell’ordine e di averli scambiati per uomini mandati da Brugiatelli al quale avevano sottratto uno zaino per vendicarsi di essere stati imbrogliati da un pusher di sua fiducia che aveva ceduto loro tachipirina frantumata al posto di un grammo di ‘neve’. Brugiatelli aveva concordato con i due americani un appuntamento per farsi restituire lo zaino in cambio di 100 euro e un po’ di droga, ma a quell’incontro si presentano Cerciello e Varriale, che vengono brutalmente aggrediti. Il primo muore nel giro di 30 secondi dopo aver ricevuto undici coltellate, Varriale viene invece lievemente ferito. I due americani vengono individuati nel giro di 12 ore in un albergo a poca distanza dal luogo dell’omicidio.

Delitto Cerciello Rega: «Disegno criminoso degli imputati, ma i due carabinieri non ponderarono il pericolo». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.

I giudici della I Corte d’Assise d’Appello ritengono che Elder (condannato all’ergastolo) e Natale (24 anni) abbiano pianificato insieme l’omicidio. Ma evidenziano in un passaggio «la superficialità del’intervento» dei militari. 

Un disegno condiviso. Un omicidio, quello del brigadiere Mario Cerciello Rega, avvenuto in Prati il 26 luglio 2019, con due strateghi e un solo esecutore materiale. Motivando la condanna inflitta a Finnegan Lee Elder, autore delle undici coltellate inferte e condannato all’ergastolo in secondo grado ma anche quella di Gabriel Christian Natale Hjorth (a cui sono andati 24 anni di carcere), i giudici della I Corte d’Assise d’Appello sembrano condividere l’impostazione prospettata dai colleghi del primo grado. Il delitto Cerciello fu messo in atto dal solo Elder ma pianificato da entrambi i ragazzi, due americani al loro primo soggiorno in Europa e nella Capitale.

«Era lo stesso Natale — si legge nel documento — a considerare Cerciello Rega una vittima non già del solo Elder bensì del complessivo disegno criminoso posto in essere assieme dai due, per cui al contrario si riteneva pienamente responsabile a tal punto da scappare immediatamente e gestire in prima persona le attività volte a far perdere le loro tracce». Quanto al fatto che i due militari (la vittima Cerciello Rega e il suo collega superstite Andrea Varriale) fossero in abiti borghesi e senza divisa, questo, a detta dei giudici, non ha un peso specifico nell’alleggerire la posizione dei due responsabili: «Ad avviso di questa corte infatti, non si ravvisa alcun elemento idoneo a porre in dubbio la piena consapevolezza del Natale di quanto stesse accadendo, ivi compresa la qualifica soggettiva dei militari, più volte espressa a voce da entrambi al momento dell’approccio».

Era questo un passaggio cruciale del processo e della linea difensiva degli imputati. L’uno e l’altro avevano giustificato l’aggressione come una difesa, sia pure estrema, dettata dalla paura di avere di fronte a sé dei criminali anziché due esponenti delle forze dell’ordine. L’appuntamento era stato infatti, precedentemente organizzato per recuperare i soldi della cocaina «taroccata» acquistata a Trastevere e restituire lo zainetto sottratto all’intermediario della compravendita di stupefacente, Sergio Brugiatelli. I giudici confermano dunque l’aggravante applicando pene pesantissime. Anche se, aggiungono a margine una valutazione severa dei comportamenti dei militari: «L’intervento è stato sì caratterizzato da ampia sottovalutazione e superficialità da parte dei militari senza che questi ponderassero il pericolo» tuttavia ciò avvenne perché si intendeva concludere rapidamente un’operazione apparentemente banale.

Nel complesso viene sconfessata la linea prospettata dalla difesa di una versione «preordinata a coprire le intrinseche anomalie proprie di un’operazione volta alla salvaguardia di un confidente (Italo Pompei lo spacciatore, ndr)» e in generale di comportamenti ambigui da parte dei carabinieri tenuti in tutta l’operazione. Gli imputati ebbero chiaro il quadro della situazione per i giudici.

Delitto Cerciello Natale Hjorth: «Mi misero una tovaglia in testa». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

Il racconto al processo nei confronti del carabiniere che lo bendò. Spuntano altri due filoni investigativi, uno dei quali per minacce. Insultato, bendato e fotografato quindi fatto circolare in chat. 

Tre quarti d’ora con una benda sugli occhi e i polsi stretti dietro la schiena. I lunghi attimi durante i quali nessuno rispondeva alle sue domande. L’ umiliante fermo in hotel durante il quale gli venne chiesto di denudarsi e fare flessioni (un modo per scoprire se nascondeva stupefacenti?) assieme all’amico, accusato dell’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, Finnegan Lee Elder. Al processo nei confronti del carabiniere Fabio Manganaro, imputato per abuso dei mezzi di costrizione, è la volta di Gabriel Christian Natale Hjorth, condannato a trent’anni per l’omicidio Cerciello (diversamente dalla condanna all’ergastolo riportata dall’amico) e chiamato a raccontare come visse quel 26 luglio 2019, trascorso nella caserma del nucleo investigativo di via In Selci. «Ricordo che mentre mi portavano giù nel garage dell’hotel c’era roba del ristorante. Presero, allora, una tovaglia e me la misero sulla testa. Poi mi caricarono in auto. Ero tranquillo, tentavo di alzare la testa per vedere dove mi stessero portando ma mi davano gomitate e cazzotti perché tenessi la testa bassa» ripete Gabe rispondendo alle domande della pm Sabina Calabretta.

«Quindi salimmo dentro una stanza con scrivanie e computer insomma un ufficio. E mentre ero faccia a terra, dopo avermi tolto la tovaglia, mi misero le manette e la benda. Nessuno parlava con me ma solo tra di loro; io facevo domande per capire cosa stesse succedendo ma nessuno mi rispondeva». Natale Hjorth ricostruisce in un buon italiano gli avvenimenti, replicando al suo avvocato, Fabio Alonzi e a quello della difesa (Pasquale De Vita). Il ragazzo ebbe paura, confida oggi. Il suo diritto a un trattamento umano, compatibile con le restrizioni imposte dal fermo, sarebbe stato violato. Insultato prima, bendato poi, quindi fotografato ed esibito via whatsapp come un trofeo. Poco prima in albergo un’altra stravaganza: «Ci fecero spogliare e fare flessioni. Poi una volta rivestiti ci fotografarono con i cellulari» racconta al giudice Alfonso Sabella.

Intanto emerge l’esistenza di un altro filone d’indagine che riguarderebbe le minacce ricevute da Gabe quello stesso giorno e un altro ancora che riguarda le lesioni (schiaffi) nei suoi confronti. Tra gli accertamenti effettuati dall’autorità giudiziaria c’era anche l’analisi dei cellulari dei militari le cui chat hanno restituito conversazioni poco onorevoli: «Speriamo che gli fanno fare la fine di Cucchi...» si augurava uno dei presenti. Il Comando generale dei carabinieri aveva annunciato provvedimenti disciplinari contro quei militari che, nel luglio 2019, durante il fermo di Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, indiziati per l’omicidio di Cerciello Rega, si abbandonarono alla rabbia in chat.

Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 26 maggio 2022.  

«Ci hanno fatto spogliare e ci hanno fatto fare flessioni, ci hanno scattato foto con telefonini. Poi in caserma mi hanno tenuto con gli occhi bendati per 45 minuti e qualcuno mi diceva "hai i minuti contati". Avevo paura, non sapevo dove mi stessero portando, e se alzavo la testa mi davano gomitate» . 

In tribunale, Christian Gabriel Natale Hjorth racconta dettagli inediti su ciò che è accaduto a ridosso dell'omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Particolari che i magistrati analizzano nel processo celebrato ieri a carico del carabiniere Fabio Manganaro, che ha bendato il ragazzo americano dopo l'arresto. Ma in Procura esistono altre due indagini: una per minacce e l'altra per lesioni. Entrambe contro ignoti e sempre con la stessa vittima: Natale. 

 I pm hanno chiesto di archiviarle, anche se il gip, per quanto riguarda le minacce, ha disposto nuove indagini. 

I fatti accaduti la notte del 26 luglio del 2019 sono noti: Finnegan Lee Elder e Natale Hjorth hanno ucciso con 11 coltellate il militare dell'Arma che cercava di interrompere il loro tentativo di estorcere cocaina e denaro a un pusher che poco prima li aveva fregati. Per quei fatti sono stati condannati in Appello a scontare 24 e 22 anni di carcere. Tuttavia gli investigatori, e anche l'Arma dei carabinieri, intendono appurare se i due assassini siano stati trattati secondo il regolamento.

Da qui le due indagini. E anche il processo che vede il carabiniere Fabio Manganaro accusato di aver bendato l'americano nella caserma di via in Selci, dove la tensione era alle stelle. E ieri, in aula, Natale ha raccontato particolari inediti sul suo arresto, dicendo di essere stato costretto a spogliarsi e fare flessioni ( procedura utilizzata per scoprire se gli indagati nascondono armi o droga), di essere stato picchiato, minacciato e infine bendato. « Il maresciallo Manganaro non è il protagonista delle dichiarazioni di Natale Hjorth, non è mai stato nella stanza dell'albergo - spiega il difensore Marcello De Vita - Anche le testimonianze di oggi hanno dimostrato la straordinarietà della situazione in cui ha operato Fabio Manganaro, un contributo fondamentale per la verità ci sarà il 22 giugno in occasione dell'esame dell'imputato».

Omicidio Cerciello Rega, «i tesserini non furono esibiti». Dubbi su Varriale. I giudici d’appello: «I due militari superficiali, ma si qualificarono durante la colluttazione ». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 giugno 2022.

Poco coraggiose e a tratti illogiche le 296 pagine con cui la Prima Corte di Assise di Appello di Roma ha motivato la condanna, comminata lo scorso 17 marzo, a 22 anni di reclusione per Natale Hjorth Gabriel e a 24 anni per Finnegan Lee Elder per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega.

Rispetto al capitolo cruciale della dinamica della colluttazione, sulla quale si gioca la configurazione del reato e di conseguenza la pena da infliggere, si dice che il collega di Cerciello Rega non è stato ritenuto credibile sulla descrizione della traiettoria («non risponde al vero quanto riportato da Varriale sul punto» perché «il dato è smentito dalle risultanze in atti»), che non è sicuro neanche che abbiano mostrato i tesserini identificativi («l’esibizione dei tesserini rimane affidata solo alle dichiarazioni del Varriale con il dubbio di un intervallo temporale insufficiente per prelevare i documenti, mostrarli a distanza e poi riporli per procedere al contatto fisico») e non si riesce a dimostrare come Elder abbia potuto dedurre che fossero carabinieri, visto che erano anche in borghese. Infatti leggiamo: «la qualificazione a voce può ritenersi del tutto provata perché riscontrata dalle dichiarazioni rese dall’imputato Natale» il quale aveva sostenuto che «mentre si trovavano più o meno a buttarsi addosso a me, ha detto “carabinieri”». E però ci chiediamo: Natale conosceva la nostra lingua ma Elder no e allora come avrebbe potuto dedurre che erano militari dell’Arma? E come si concilia questo con quanto emerso dalla trascrizione delle intercettazioni in carcere di Elder: «Sono andato a dormire e mi sono svegliato. Perché non pensavo fosse un poliziotto, pensavo fosse un tipo qualunque»?

Per di più sulla posizione del carabiniere Andrea Varriale leggiamo: «Aveva pacificamente condotto l’operazione del 26 luglio 2019 senza avere con sé la pistola d’ordinanza, contravvenendo all’ordine di servizio. Tale circostanza è stata contraddittoriamente prima negata e successivamente ammessa. L’attendibilità del militare è stata fortemente messa in dubbio dalle difese degli imputati».

La difesa di Elder fece mettere agli atti 54 punti in cui a loro parere il carabiniere mentì. La Corte di Assise di Appello ne prende in esame solo 9 e conclude tuttavia che «la mancata veridicità di talune singole dichiarazioni non necessariamente implica un giudizio di generale inattendibilità del teste». Quindi da un lato ci sono diversi punti che a nostro giudizio paiono irrazionali, ma dall’altro lato, accantonando qualsiasi «in dubio pro reo », si condannano i due americani sostenendo che sapessero che dinanzi a loro avevano due militari dell’Arma.

In altri passaggi della motivazione leggiamo che «è senz’altro chiaro come i due militari abbiano agito con superficialità, omettendo di adottare modalità e cautele previste dai protocolli operativi a loro difesa, ed in particolare lasciando in caserma l’arma di ordinanza, contravvenendo all’ordine di servizio: l’operazione è infatti sicuramente anomala, ma l’anomalia è da ricondursi ad un’involontaria distorsione di prassi, posta in essere da un militare di grande professionalità e riconosciuta esperienza nella gestione dei fatti di microcriminalità, come era Cerciello». Tuttavia per la Corte, da parte di Elder Finnegan Lee si è avuta una condotta «del tutto abnorme rispetto a quella posta in essere dal vicebrigadiere Cerciello» e ha «deliberatamente perdurato nella propria azione aggressiva sino a condurla al tragico compimento».

L’altro americano, Gabriele Natale Hjorth, ha avuto invece un ruolo di «organizzatore» e di «aizzatore» nell’azione di Elder. Un capitolo della sentenza è dedicato a quanto accaduto nella caserma dei carabinieri: «Non vi è dubbio alcuno che le forti critiche nella sentenza gravata in relazione a quanto avvenuto» ossia «maltrattamento, il successivo bendaggio e la videoripresa ad opera di militari in servizio dell’allora solo fermato Natale siano fermamente da condividere non solo dal punto di vista etico- morale ma pure e soprattutto in punta di diritto, atteso che tali pratiche risultano gravemente violative dei principi costituzionali a tutela della dignità e dell’integrità della persona e del suo diritto di difesa».

Atti per cui pendono due procedimenti presso il Tribunale di Roma. Tuttavia non si può condividere, per i giudici, la richiesta della difesa di rendere inutilizzabile l’interrogatorio, in quanto quest’ultimo si svolse dopo ore e in altri locali diversi da quelli della caserma e fu condotto da due magistrati. Il commento dell’avvocato di Lee Elder, Renato Borzone: «Una sentenza completamente diversa da quella di primo grado, che coglie per la prima volta brandelli di verità, ma non li conduce alle giuste e inevitabili conseguenze sulla dinamica dei fatti. Riconosce che gli spacciatori di Trastevere furono fatti andar via dai carabinieri perché informatori. Riconosce, finalmente, che non c’è nessuna prova che i due carabinieri abbiano mostrato i tesserini, inchiodando Varriale al fatto che l’itinerario che descrive per avvicinarsi ai ragazzi è smentito dalle telecamere. Riconosce, per la prima volta, che i ragazzi furono afferrati, senza esibizione dei tesserini, dai carabinieri. Ma poi, improvvisamente, come spaventata dal cogliere le conseguenze delle premesse, la sentenza cerca a tutti i costi di affermare che però i due si qualificarono come carabinieri, non subito, ma durante la colluttazione ( e senza spiegare come Elder da un giorno in Italia avesse potuto afferrare tale parola). E da lì inizia il tentativo di raddrizzare gli eventi per proteggere Varriale da se stesso e dalle sue ricostruzioni incredibili. Un impianto logico veramente tentennante, pur nel tentativo di andare, ma solo fino a un certo punto, oltre le terribili verità ufficiali propinate in questo processo. Insomma, se si potesse dare un titolo a una sentenza potremmo dire che è la seconda puntata di “Salvate il soldato Varriale”».

Il commento dell’avvocato di Natale, Francesco Petrelli: «La sentenza ribalta completamente l’impostazione del primo giudice smentendo clamorosamente il racconto del carabiniere e affermando che i tesserini non furono esibiti. Ma una volta affermata la inattendibilità di Varriale sul punto e l’assenza di una condotta aggressiva da parte di Natale non si comprende più in cosa sarebbe consistito il suo concorso nell’omicidio del povero Cerciello. Né Natale né Varriale videro cosa stava accadendo in quella manciata di secondi e Gabriel si allontanò di corsa senza avere alcuna consapevolezza di quanto era accaduto».

Il commento di Massimo Ferrandino, legale di Rosa Maria Esilio, vedova di Mario Cerciello Rega: «La sentenza di primo grado e quella di Appello danno giustizia a Mario Cerciello. Anche in questa motivazione per i giudici i due carabinieri si erano identificati. Nulla giustifica l’efferata azione di Elder e oggi Natale viene addirittura qualificato come aizzatore. Altro che bugie di Varriale. I due americani sono stati lucidi e decisi».

Luigi Manconi per “la Repubblica” il 6 luglio 2022.

Qualche settimana fa sono state rese note le motivazioni della sentenza di appello per l'omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega. In primo grado, gli imputati, due giovani turisti americani, erano stati condannati all'ergastolo; l'appello ha inflitto all'autore materiale del delitto, Finnegan Lee Elder, 24 anni di reclusione e al complice, Gabriel Natale Hjorth, 22. Il ridimensionamento delle pene sembra andare incontro a una ragionevole richiesta di giustizia per due ventenni trovatisi, come è palese, in una situazione più grande di loro, che li ha travolti per sempre. 

Eppure, le incongruenze del processo e della sentenza sono assai significative (come evidenziato da cronisti attenti quali Valentina Stella e Andrea Ossino). Dunque, vale la pena - è proprio il caso di dire, trattandosi di un esercizio doloroso - riprendere la questione e approfondire alcuni elementi: innanzitutto per rispetto della memoria di un giovane uomo, ucciso a trentacinque anni; e per evitare che la sua fine sia segnata da zone d'ombra e da interpretazioni approssimative.

Vediamo. Un punto cruciale del dibattimento ha riguardato l'ipotesi che i due americani fossero a conoscenza o meno dell'identità delle persone che li avevano fermati. Ossia i due carabinieri si erano qualificati come tali in maniera comprensibile per due persone straniere con scarsa o, in un caso, nulla conoscenza della lingua italiana? Oppure è plausibile che Elder e Hjorth li avessero scambiati per due anonimi aggressori e se ne fossero difesi?

L'esibizione dei tesserini da parte dei carabinieri rimane affidata solo alle dichiarazioni del secondo militare, Andrea Varriale, che non eliminano il dubbio di uno spazio temporale insufficiente per prelevare i documenti, mostrarli a distanza e poi riporli prima di procedere al contatto fisico. Di conseguenza, la ricostruzione degli attimi precedenti presenta una serie di punti oscuri. I legali degli imputati e, in particolare, l'avvocato Renato Borzone hanno evidenziato 54 contraddizioni nella deposizione di Varriale, ma la Corte ne ha presi in esame appena 9. Tuttavia, le valutazioni di quest' ultima sono particolarmente severe: 

«È senz' altro chiaro come i due militari abbiano agito con superficialità, omettendo di adottare modalità e cautele previste dai protocolli operativi e, in particolare, lasciando in caserma l'arma di ordinanza, contravvenendo all'ordine di servizio: l'operazione è infatti sicuramente anomala ». Ciò nonostante, scrivono i giudici, tali comportamenti vanno fatti risalire «a un'involontaria distorsione di prassi, posta in essere da un militare di grande professionalità e riconosciuta esperienza ». Ma i rilievi indicati dalla Corte, a proposito delle contraddizioni di Varriale, che pure sono appena una piccola parte di quelle segnalate dalla difesa, non vengono considerate sufficienti a sostenere la tesi che i due americani potessero ignorare l'identità di chi li aveva fermati.

La sostanziale «anomalia» (secondo la Corte) dell'intera operazione non basterebbe a motivare una ricostruzione più aderente ai fatti e alla logica di quanto avvenne quella notte. Ma questo sembra essere il filo conduttore che ha orientato il giudizio del Tribunale, inducendolo a un sostanzialismo che sembra insofferente verso alcune garanzie che il diritto pone a tutela della correttezza assoluta delle procedure. Un sostanzialismo che rivela una ridotta sensibilità, in nome della colpevolizzazione del reo, verso il rigore dei vincoli e dei limiti, delle guarentigie e delle forme. Ma c'è un altro punto cruciale. Uno degli americani, poco dopo il fermo, venne sottoposto a maltrattamenti e a bendaggio all'interno di una caserma. I fatti hanno portato all'apertura di due procedimenti penali ma, per la Corte, non sarebbero stati sufficienti a compromettere il successivo interrogatorio, che, dunque, va considerato valido a tutti gli effetti. 

Ma si può ritenere tale una deposizione - anche se avvenuta a distanza di qualche ora e in un altro luogo - così pesantemente preparata e condizionata da un trattamento illegale? Da qui una riflessione: tutta la vicenda, a partire dal primo contatto dei due turisti con spacciatori e confidenti fino all'intervento dei carabinieri e, poi, al fermo e al trattenimento in caserma, risente di un ambiente e di un clima ben precisi. Sono l'ambiente e il clima in cui può accadere che si svolgano gran parte delle relazioni tra consumatori di sostanze psicoattive, spacciatori delle stesse, intermediari e, non raramente, membri delle forze di polizia. Relazioni che, secondo gli strateghi della repressione del mercato delle droghe, sono necessariamente situate in una zona "di confine" e al limite della legalità. Dove, cioè, persone ricattate o prezzolate scambiano ruoli, segnalazioni e piccoli e grandi vantaggi con spacciatori e militari.

 Tutto ciò in situazioni dove le regole sono flessibili e derogabili, dove si chiudono gli occhi davanti ad alcuni reati e li si sgranano davanti ad altri. Dove le diverse figure sociali assumono contorni variabili. Dove, insomma, il primo obiettivo da perseguire è il mantenimento dello status quo, che non prevede cambiamenti radicali e, tanto meno, mutamenti degli equilibri e dei rapporti di forza. In altre parole, a parte le occasionali ed "eccezionali operazioni contro il narcotraffico", questa sembra essere l'ordinaria politica della droga nei centri urbani: una sorta di ordine illegale garantito dalla disponibilità dei vari attori a rimanere nei propri ranghi e all'interno dei propri spazi, a rispettare le altrui competenze, a non violare un codice occulto ma ferreo che stabilisce le funzioni di ognuno. Ecco, potrò sbagliarmi, ma l'omicidio di Cerciello Rega sembra essere stato il tragico "incidente" che ha fatto saltare questo ordine micro-criminale.

Il caso sull'assassinio del carabiniere. Omicidio Cerciello Rega, ergastolo per gli americani ma i conti non tornano. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 18 Dicembre 2022

Anche alla luce di ciò che è scritto nella Costituzione a proposito del ruolo rieducativo della pena, abbiamo una obiezione di principio sull’ergastolo, a maggior ragione, ovviamente, sull’ergastolo ostativo. Non nascondiamo che questa nostra obiezione di principio si è trovata di fronte ad una seria difficoltà nel fare i conti con i responsabili dei più efferati delitti di mafia accompagnati da autentiche stragi.

Anche rispetto a questo dubbio però siamo stati costretti a segnare il passo quando abbiamo visto come sono andate le cose nella realtà, in primo luogo c’è stato il depistaggio avvenuto dopo la strage di Via D’Amelio che ha colpito Borsellino e la sua scorta. Su quel depistaggio ancora non si è fatta luce ma non è stata cosa di piccolo conto perché uno dei suoi protagonisti è stato il questore La Barbera, un personaggio molto importante nella polizia di Stato, un tipo che non si sarebbe mosso se non per sollecitazioni di alto livello, non sappiamo se politiche, giudiziarie, economiche-finanziarie. Per altro verso se andiamo a vedere come sono andate le cose nella realtà, anche alla luce di recenti e agghiaccianti esibizioni televisive di inquietanti personaggi dichiaratamente responsabili di decine di assassinii per strangolamento tipo Gaspare Mutolo, quasi tutti i principali responsabili delle stragi di mafia si sono pentiti e con questo “accorgimento” di fatto hanno – e di molto – relativizzato la loro pena.

Questa è la premessa di principio e di fatto sull’ergastolo che ci porta a mettere in questione tre casi in un certo senso minori rispetto a quelli citati, e cioè l’ergastolo Alfredo Cospito e quelli dei due giovani americani, uno dei quali ha assassinato il carabiniere Cerciello Rega. Diversamente da altri che si sono pronunciati sul primo caso, quello dell’anarchico, noi non contestiamo la gravità e anche la pericolosità dei reati da lui commessi e anche l’estremo avventurismo di una rete che per un pelo non ha fatto una vittima colpendo una persona del tutto estranea alla vicenda, cioè la diplomatica Susanna Schlein, quindi a nostro avviso quella rete che ricorre a un terrorismo di intensità medio alta va certamente perseguita: quello che contestiamo è il ricorso all’ergastolo. Veniamo all’ultimo caso, quello costituito dalla pena dell’ergastolo che ha colpito nello stesso modo i due giovani americani Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth coinvolti nell’assassinio del carabiniere.

A suo tempo il caso ha creato una tale emozione che di fatto ogni difesa è stata annullata. Adesso, prima dell’appello, non possiamo fare a meno di sollevare alcune questioni. Partiamo da una premessa. Conoscendo un po’ Trastevere e l’intrico di reati di media e piccola gravità che ogni sera vengono commessi in quella zona della città, non possiamo fare a meno di avanzare un primo rilievo: da quello che è risultato dalle ricostruzioni ufficiali ad un certo punto in quella zona, a notte inoltrata quando la confusione è massima, un pezzo dell’arma dei Carabinieri si è mobilitato per il recupero del borsello di un personaggio che svolge come professione il ruolo di intermediario fra gli spacciatori e i turisti. È stato escluso che costui svolgesse il ruolo di informatore. E allora, a fronte di tanti furti, rapine, scontri fisici, molestie sessuali, spaccio che non vengono perseguiti non per colpa, ma per l’impossibilità materiale di far fronte ad una tale serie di reati, come è potuto avvenire che nella notte un settore dell’arma dei Carabinieri si è mobilitato per il recupero di un borsello che forse conteneva un telefonino?

Per di più a compiere l’operazione recupero sono andati due carabinieri in bermuda e maglietta (si è detto per non attirare l’attenzione), entrambi disarmati (e uno di essi su questo punto decisivo ha anche reso falsa testimonianza). A quel punto il rischio che quell’efferato omicidio sia anche il frutto di un terribile e tragico equivoco è elevatissimo, nel senso che i due americani possono aver ritenuto di trovarsi di fronte a due uomini inviati dagli spacciatori. Certamente, in ogni caso, la reazione di uno dei due giovani americani è stata del tutto criminale e tale da meritare una pena assai severa, ma di qui all’ergastolo ce ne corre, così come anche l’equiparazione delle posizioni dei due giovani impegnati in distinte colluttazioni, che però confermano ulteriormente la possibilità dell’equivoco. In sostanza, anche al di là della nostra posizione di principio sull’ergastolo, riteniamo che tutta la vicenda vada riletta in modo profondo, perché molti conti non tornano affatto. Per altro verso il ricorso a due ergastoli ci sembra più diretto a tacitare ogni dubbio, che non ad esprimere una condanna commisurata a ciò che è accaduto nella realtà. Fabrizio Cicchitto Presidente di Riformismo e Libertà

"Non imputabile". Assolto l'uomo che ha ucciso i due poliziotti a Trieste. Francesca Galici il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Alejandro Augusto Stephan Meran non imputabile, quindi è stato assolto dalla corte d'Assise di Trieste. Per lui 30 anni di Rems.

Si è concluso con una sentenza di non imputabilità il processo in corte d'Assise a Trieste contro Alejandro Augusto Stephan Meran, l'uomo accusato di aver ucciso i due agenti Matteo Demenego e Pierluigi Rotta durante una sparatoria in questura a Trieste il 4 ottobre 2019. Meran è stato assolto e per lui il giudice ha applicato una misura di sicurezza detentiva del ricovero in una Rems per la durata minima di 30 anni. Una sentenza che era nell'aria, che però non soddisfa nessuno, se non i difensori di Meran.

Il giudice ha accolto le richieste della difesa di Meran, che aveva chiesto la pronuncia "nel senso della totale infermità". Paolo Bevilacqua, difensore di Meran, durante la sua arringa ha sottolineato che si stava giudicando una persona malata. Di diverso avviso, ovviamente, i legali difensori delle famiglie dei due poliziotti uccisi. Rachele Nicolin e Cristina Birolla, avvocati di parte civile che rappresentano rispettivamente le famiglie Demenego e Rotta, avevano chiesto una sentenza di condanna, rimettendo ai giudici "il compito di valutare le prove offerte, le perizie, le testimonianze, valutando anche la pericolosità sociale di Meran". Gli avvocati hanno sottolineato che "i colpi sono stati esplosi per uccidere. Sono mancati due bravi poliziotti". Da parte di Roberto Mantello, avvocato di parte civile di uno degli agenti feriti nella sparatoria, era invece stata avanzata la richiesta di una nuova perizia, non accolta dal giudice che, invece, ha proceduto con l'assoluzione.

La sentenza di assoluzione di Meran, che in questo modo è stato sottratto al processo penale per totale infermità mentale, "turba profondamente e riapre una ferita in realtà mai chiusa". Così si è espresso in una nota il Sindacato autonomo di polizia, che aggiunge: "Nessuno ha mai voluto vendetta, nè gli operatori di Polizia, nè le famiglie delle vittime, nè i 'sopravvissuti' a quella vicenda, nè i cittadini di Trieste e l'intero Paese. Da parte di tutti, anche dai massimi rappresentanti delle istituzioni, si chiedeva invece semplicemente giustizia".

La delusione è profonda anche per Franco Maccari, vicepresidente nazionale del Sindacato Fsp Polizia: "È una decisione che lascia sgomenti, interdetti, senza parole". Andrea Cecchini, segretario nazionale del Sindacato di polizia Italia celere si è unito ai colleghi: "La sentenza di Trieste getta nello sconforto tutte le donne e gli uomini delle Forze dell'Ordine. Quanto vale davvero la nostra vita? Carnefici da condannare quando facciamo rispettare la legge, vittime sacrificali quando ci uccidono barbaramente. La nostra vita vale un bel funerale di Stato, tanti propositi, tante belle parole e poi ecco qua, pochi mesi e tutto finisce nel dimenticatoio, siamo sconvolti".

Gianpaolo Sarti per “la Repubblica” il 5 marzo 2022.

Alle tre di pomeriggio di ieri il signor Pasquale Rotta aveva davanti agli occhi un plico di settanta pagine che si girava e rigirava nervosamente tra le mani da tutto il giorno. Quando ha letto l'ultima facciata, in fondo, ha capito: l'assassino di suo figlio con molta probabilità non sarà mai ritenuto colpevole, né condannato.  

Difficile descrivere i sentimenti del signor Pasquale. Rabbia? Delusione? «Rabbia», dice. Lui è il papà di Pierluigi Rotta, uno dei due giovani agenti che il 4 ottobre 2019 era stato ammazzato in Questura a Trieste sotto i colpi di pistola esplosi dal trentenne dominicano Augusto Stephan Meran. 

L'altra vittima è il collega (e amico) Matteo Demenego, anche lui un giovane poliziotto. Ora, a distanza di quasi tre anni e mezzo da quel dramma, una perizia psichiatrica "bis" sull'omicida potrebbe capovolgere le sorti del processo. La perizia, diversamente dalla precedente, sostiene che l'assassino, Meran, "non è capace di volere". In sostanza non è imputabile, non punibile. Dunque tutto potrebbe finire senza colpevole né condanna, con una sentenza di proscioglimento, anche se lo straniero è accusato di due omicidi e otto tentati omicidi. Che significherebbero ergastolo.

Perché dopo aver freddato Rotta e Demenego, Meran aveva continuato a sparare all'impazzata. Lo aveva fatto impugnando con entrambe le mani le pistole strappate alle due vittime, cercando di fuggire nell'atrio della Questura prima di essere neutralizzato con una pallottola all'inguine da un poliziotto. La nuova perizia è stata disposta dal giudice Enzo Truncellito della Corte di assise di Trieste, su richiesta dagli avvocati Alice e Paolo Bevilacqua, difensori di Meran. Il documento porta la firma del professor Stefano Ferracuti, ordinario di Psicopatologia Forense della facoltà di Medicina dell'università La Sapienza di Roma.  

Ferracuti ha sottoposto Meran, attualmente detenuto in carcere a Verona, a una valutazione psicodiagnostica. Nei vari test è stato riscontrato "un grave deficit di flessibilità cognitiva" e una sintomatologia "di verosimile tipo psicotico in risposta a tratti di personalità paranoide". Ma soprattutto il domenicano all'epoca dei fatti soffriva, e soffre tuttora, "di schizofrenia di gravità servera". E quando aveva sparato si trovava in una condizione "di delirio persecutorio", tale "da escludere totalmente la capacità di volere". 

Di qui la non punibilità. Nel documento si solleva anche il tema della pericolosità sociale del dominicano "con necessità di un internamento in una residenza per l'esecuzione di misure di sicurezza". Non il carcere, dunque, ma una Rems. L'ultima parola spetta alla Corte di assise, il 14 marzo, dopo l'esame del perito in Corte di assise. «Sono addolorato», commenta il padre di Pierluigi Rotta, Pasquale.  

«C'è scritto che l'assassino non era capace di volere. Evidentemente i periti precedenti non erano così bravi da dare una loro valutazione. Vuol dire che il perito intervenuto nella seconda perizia è più bravo. Ma perché se già c'è una perizia che dice una cosa, si deve fare un'altra? Io penso che la giustizia, anziché tutelare noi cittadini, stia tutelando un assassino ».

Manila Alfano per "il Giornale" l'8 febbraio 2022.

Ordinaria follia o un segnale mafioso senegalese? Domenica sera a Torino una volante della polizia è stata accerchiata, presa a calci e costrette ad allontanarsi da decine di tifosi del Senegal durante i festeggiamenti per la vittoria della Coppa d'Africa. È accaduto in corso Palermo, nel quartiere Barriera di Milano da settimane al centro dell'attenzione per l'allarme sicurezza, al fischio finale della partita finita ai rigori contro l'Egitto. 

L'episodio, filmato da alcuni residenti, sta diventando virale sui social e mostra immagini davvero preoccupanti. Intervenuti con altri reparti, la polizia dopo un'ora ha riportato la calma e ora è al lavoro per identificare i responsabili dell'assalto. Sulla volante presa d'assalto, la parlamentare torinese di Fratelli d'Italia, Augusta Montaruli, presenterà una interrogazione al ministro Lamorgese.  

«Il ministro deve dirci come sia possibile arrivare a situazioni come questa», afferma Montaruli che, in una nota congiunta con l'assessore regionale Maurizio Marrone, ringrazia «la questura per il cambio di passo avvenuto nelle ultime settimane e le forze dell'ordine a cui va la nostra solidarietà: chiediamo di andare avanti a maggior ragione senza timori» 

«Mentre Lo Russo dorme, Torino ormai sta diventando una banlieue in cui le strade vengono devastate per festeggiare la vittoria del Senegal alla finale di Coppa d'Africa - sostengono Montaruli e Marrone -. Anni di governo Pd e M5S e questo è il risultato. I video parlano chiaro - proseguono Marrone e Montaruli -, bande di immigrati africani che aggrediscono le volanti della polizia nel quartiere, costringendole alla fuga, e poi generano il caos in strada. Di sicuro per loro lo psicologo da strada proposto dal sindaco è una barzelletta. Serve che anche l'amministrazione comunale si impegni più seriamente. Da tempo denunciamo come Torino nord si stia trasformando in un maxi ghetto in cui imperversano gli spacciatori della Mafia africana».

Eppure c'è chi vede dell'altro dietro a questo episodio di violenza. «Questo attacco non è casuale, non è un festeggiamento per una vittoria. È un rigurgito mafioso di spacciatori che finalmente stanno temendo di perdere il controllo della zona. È il segnale che l'impegno delle forze dell'ordine sta dando i suoi frutti» ha commentato il presidente della Circoscrizione 6 di Torino, Valerio Lomanto, sull'assalto alla volante della polizia durante i festeggiamenti per la vittoria della Coppa d'Africa da parte del Senegal. 

«Il cambio di passo in Barriera è evidente - rivendica Lomanto in un post su Facebook -. Questore e prefetto hanno fatto seguire alle parole i fatti, con azioni muscolari sul territorio. Per questo motivo, oggi più che mai - sollecita - la politica e i cittadini devono stare vicino alle forze dell'ordine, sostenerle e ringraziarle per quanto fino a qui è stato fatto».  

E in una nota Domenico Pianese, segretario del sindacato di Polizia Coisp si è augurato che «l'assalto criminale a una volante della Polizia nel quartiere torinese Barriera di Milano, oltre a circolare sui social, arrivi anche all'attenzione di chi ha responsabilità istituzionali e di quanti sono sempre pronti a criticare l'operato delle forze dell'ordine».

Nello Trocchia per editorialedomani.it il 7 febbraio 2022.

Luciana Lamorgese è ministra dell’Interno dal settembre 2019, responsabile del ministero nel secondo governo Conte, quello giallorosso, e confermata nell’esecutivo allargato, a guida Mario Draghi. Pochi mesi dopo il suo insediamento è arrivata la pandemia con il lockdown, le chiusure, i controlli conseguenti poi le proteste e i cortei: no-vax, fascisti, operai e studenti. Quella che era stata battezzata come la scelta migliore, si è trasformata nel governo in una casella tanto scottante quanto intoccabile pur di garantire equilibri e rapporti istituzionali.

Lì in quel ruolo è arrivata anche grazie alla moral suasion esercitata dal Quirinale e da Ugo Zampetti, influente consigliere del Presidente, segretario generale della presidenza della Repubblica. La prima scelta che avrebbe accontentato tutti era quella di Franco Gabrielli, attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza, una scelta, grazie anche alla sensibilità dell’interessato, che è saltata perché il passaggio da capo della polizia di Stato a ministro dell’Interno appariva inopportuno.

Lo stesso Gabrielli si complimenta e benedice la nomina di Lamorgese: «la conosco da tempo e mi sono sempre trovato bene». Escluso Gabrielli, la scelta è caduta sulla prefetta, consigliera di Stato, Luciana Lamorgese. Con il passare dei mesi i fallimenti nella gestione dell’ordine pubblico si sono moltiplicati, le criticità mai affrontate dalla politica e dai partiti nella gestione delle piazze si sono aggiunte a una gestione statica e immobile. 

La ministra più che responsabile è diventata testimone di disastri gestionali, ma è rimasta al suo posto superando abilmente le critiche del predecessore, Matteo Salvini, e quelle dei democratici arrivate dopo le manganellate inferte dalla polizia, in piazza, agli studenti.

Ma i crani feriti di ragazzi inermi sono solo l’ultima immagine, l’acme di sangue e violenza di mesi nei quali l’ex prefetta di Milano ha collezionato fallimenti, senza mai individuare un responsabile, sposando la logica del vuoto decisionale. 

«La concezione prefettizia, che è anche quella di Lamorgese, è troncare e sopire, rinviare e scaricare, una concezione che ha un problema quando deve confrontarsi con la complessità della realtà. Non è solo questione dei fallimenti nella gestione dell’ordine pubblico, ma l’immobilismo è evidente anche su altre questioni chiave», ragiona un influente esponente di maggioranza.

Ma prima di prendere in esame buchi e falle nella gestione bisogna riavvolgere il nastro e tornare a due anni fa. «Ora è inamovibile perché metterla in discussione significa piazzare un siluro sotto il governo, ma bisogna capire il perché della scelta di una tecnica che quasi tre anni fa aveva senso, ma che oggi appare problematica, anzi un vero boomerang per i partiti e per il paese», aggiunge.

Lamorgese come tecnica aveva un obiettivo, pienamente raggiunto, quello di sterilizzare il ministero, procedere a una lenta desalvinizzazione. «I partiti prima hanno preferito sfilarsi per evitare di assegnare a un  politico quel ministero e, successivamente, l’hanno lasciata lì perché rappresenta un valido parafulmine in un periodo di sollevazioni, proteste e inevitabili scontri di piazza», dice un funzionario di polizia.

Nessun politico avrebbe superato indenne questo periodo, ma la ministra ci è riuscita dribblando con artifici dialettici ogni carenza gestionale, riuscendo a evitare scontri interni e restando nell’ombra. Un’ombra dalla quale le tocca uscire sempre più di frequente perché le piazze brulicano di tensione e proteste. 

Matteo Salvini aveva stressato il ministero, il dicastero più politico che c’è visto che si occupa di diritti e libertà civili. Dopo il leghista che andava in giro a farsi selfie con i poliziotti, vestito con felpa di ordinanza, firmava i decreti sicurezza, inaspriva le misure contro le navi che salvano migranti, bisognava sminare da scorribande quel ministero evitando nuovi protagonismi salvaguardando così la sicurezza pubblica. 

Lamorgese, benedetta dal Colle, diventa garanzia per i partiti dopo la stagione di Salvini finita rovinosamente con il ministro a petto nudo che mette dischi al Papeete. Lamorgese libera dalla propaganda il dicastero, riassesta i rapporti tra il mondo prefettizio e quello della polizia, rasserena e garantisce l’apparato di sicurezza dal quale proviene avendo percorso la strada della carriera di relazioni e di palazzo. 

Prefetta di Venezia, nel 2013 diventa capo di gabinetto del ministro Angelino Alfano, confermata dal successore Marco Minniti che la nomina prefetta di Milano, nel 2017. Quando va in pensione viene nominata dal primo governo Conte consigliere di stato prima di diventare ministra all’arrivo dei giallorossi.

Ma oltre a svelenire il clima cosa è realmente cambiato e cosa è successo in questi quasi tre anni? Per capirlo bisogna partire dal mare, dai soccorsi e dai migranti che muoiono. Il tema che Salvini aveva trasformato in terreno di contesa elettorale giocando a fare il duro con i disperati.

«La verità è che non è cambiato quasi nulla. Le capitanerie di porto, nonostante le competenze, hanno perso quel ruolo centrale nel soccorso. Certo non c’è più la propaganda becera, non c’è più una modalità urlata, ma questo paradossalmente rappresenta un aggravamento della situazione perché il tema non è più al centro del dibattito pubblico e il soccorso diventa solo una questione che discutono gli addetti ai lavori. Gli ostacoli restano gli stessi della stagione targata Salvini, la gravità è la medesima, i migranti continuano a morire in mare, ma tutto avviene nel silenzio generale», dice Vittorio Alessandro del comitato per il diritto al soccorso.

Alessandro per anni ha organizzato il salvataggio di vite umane, ha servito lo stato da ammiraglio, oggi in congedo. Il comitato di cui fa parte vanta altri componenti di rilievo come il senatore Luigi Manconi, lo scrittore Sandro Veronesi, costituzionalisti ed ex magistrati come Armando Spataro. 

«Gli immigrati restano dei clandestini anche se non viene dichiarato apertamente. Le navi ong raggiungono le banchine dopo giorni di attesa, ma non ottengono un luogo sicuro, come previsto dalla convenzione di Amburgo, ma un porto di destinazione. Viene riservata una qualunque banchina con le stesse modalità che vengono riservate alle navi commerciali.

Anzi peggio. Una nave che porta banane ha una priorità maggiore di una che salva migranti. E questo succede oggi non ai tempi di Salvini ministro», dice Alessandro. Poche settimane fa sette migranti sono morti per ipotermia mentre erano su una imbarcazione, ma ci sono anche altre questioni che restano senza risposta: l’uso delle navi quarantene e in generale l’assenza di una visione d’insieme del tema, completamente cancellato dall’agenda. 

«A mare, come dicono i pescatori, stanno bene solo i pesci. Quando c’è una nave con persone a bordo bisogna farla attraccare subito senza attesa, senza perdita di tempo. Il tema non deve essere affrontato con una logica emergenziale, ma bisogna avere una capacità di gestione che non c’è», conclude Alessandro. 

Salvini ha continuato ad attaccare Luciana Lamorgese per gli sbarchi, ma in realtà ha contribuito a rafforzarla. «Se tu critichi aspramente la responsabile del Viminale, ma non presenti una mozione di sfiducia in realtà stai abbaiando alla luna costringendoci di fatto a difenderla o comunque a mitigare le critiche», dice un esponente dei democratici. 

Se in mare è un disastro, con morti e tragedie continue, a terra con l’ordine pubblico il fallimento è ciclico. Un fallimento che non può prescindere da vuoti giuridici e organizzativi, non affrontati e continuamente rimandati da ogni governo.

Il modello Lamorgese si inserisce in un quadro di mancanze. «Ci sono mancanze nella cornice giuridica, le norme sulle manifestazioni risalgono agli anni trenta, ogni violazione è punita con una contravvenzione, ma a questo si associa la carenza di equipaggiamenti, la strumentazione di ordine pubblico è stata abbandonata, i cavalli sempre meno, gli idranti pochi, all’estero dispongono di tute protettive, noi non abbiamo neanche i caschi radiocollegati. 

Bisogna evitare lo scontro, l’avvicinamento, ma il combinato disposto della tenuità normativa che non funziona da deterrente e la penuria di uomini e strumentazione spiegano in parte i ripetuti fallimenti. In piazza gli agenti vanno ancora con scudo e manganello, sembriamo tornati alle Termopili», dice un funzionario di polizia.

A questo si aggiunge un’altra assenza. «Manca una reale comunicazione tra le forze dell’ordine in campo e con 20 mila persone in piazza diventa impensabile garantire l’ordine pubblico. La normativa era inadeguata negli anni settanta e oggi diventa superata visto che le persone si danno appuntamento sui social e possono ritrovarsi in un attimo e occupare una piazza, cambiare percorso evidenziando le fragilità degli apparati di sicurezza. Questa è la premessa poi c’è il vuoto della politica, la polizia si trova a supplire alla capacità di ascolto, mediazione e concertazione. Un disastro, basti pensare all’assalto alla Cgil», aggiunge.

Nove ottobre 2021, la Digos avvisa, i precedenti consigliano contingenti rafforzati, ma la piazza viene sottovalutata e i fascisti, guidati da Giuliano Castellino, Roberto Fiore assaltano la sede del primo sindacato italiano, a Roma, in pieno giorno. Un fatto incredibile, ma in nome del motto "trattare e sopire" nessuno ha pagato le conseguenze di quanto accaduto.

Il primo errore, raccontato proprio da Domani, riguarda il contingente di forze dell’ordine disposto nelle strade. Per fronteggiare i facinorosi, consentire lo svolgimento regolare del corteo contro la certificazione verde e garantire il diritto costituzionale di manifestare c’erano solo venti militari dei reparti mobili dell’arma dei carabinieri.

All’inizio della manifestazione i venti carabinieri dei reparti mobili non erano presenti in piazza del popolo da dove partono i fascisti per devastare e occupare la sede della Cgil, ma altrove. La previsione di un numero ridotto di manifestanti è stata sbagliata e non sono bastati i 600 poliziotti. Il secondo errore attiene alla gestione della piazza. 

Quello che è successo nelle strade della città eterna racconta di un drappello di neofascisti in grado di intestarsi un’avanzata inarrestabile. «Guardi non voglio parlare di chi ha gestito l’ordine pubblico, ma una cosa così io non l’ho mai vista», racconta un ex prefetto della capitale.

Nessuno fornisce spiegazioni.  La prefettura non parla, fa sapere che le aliquote di personale da utilizzare vengono disposte di concerto con la questura, la questura non fornisce spiegazioni in merito all’evento di sabato 9 ottobre. Così tocca alla ministra andare in aula. 

«Devo escludere l'inquietante retroscena su infiltrati alla manifestazione, c'erano agenti in borghese appartenenti alla Digos con compiti di osservazione e monitoraggio, agli stessi compiti era addetto anche l’operatore in abiti civili che appare in alcuni video diffusi sui social durante l’azione di alcuni esagitati che intendevano provocare il ribaltamento di un furgone della polizia. In realtà l’operatore stava verificando che la forza scaricata sul mezzo non riuscisse effettivamente nell’intento», dice mentre l’aula la interrompe protestando.

La Cgil non la attacca mai frontalmente mentre Daniele Tissone, il segretario del sindacato di polizia, a Domani parla di «perenne situazione di emergenza per l’assenza di una legge organica sulle manifestazioni, richiesta, ma mai approvata dalla politica». Matteo Salvini risponde all’informativa accusando la ministra di scaricare le responsabilità su chi sta sotto, ma i malumori sono diffusi. 

«Alla fine il questore, il poliziotto è il fusibile del sistema, come la luce dell’albero di natale, costretta a bruciarsi per salvare le altre luci, in primis la politica. Comunque un ministro politico non avrebbe mai scaricato i suoi uomini», dice un funzionario di polizia. Dopo il nove ottobre restano, comunque, al loro posto questore e prefetto, quest’ultimo, Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto di Salvini ministro.

Non c’è solo il nove ottobre. Mentre Castellino e Fiore assaltavano la Cgil indisturbati, a Cosenza e non solo, il dissenso sociale viene contenuto con l’uso di misure della sorveglianza speciale. È il destino toccato, tra gli altri, a una giovane attivista, responsabile di occupazioni di stabili pubblici per assegnarli a povera gente senza casa. 

Si tratta di Jessica Cosenza, raggiunta da una proposta di sorveglianza speciale, ora al vaglio del tribunale. Manifesta Jessica, si batte per una sanità decente, per alloggi popolari e sbaglia occupando case, manifestando senza le necessarie autorizzazioni e così, per la questura, la sua ‘ascesa delinquenziale è inarrestabile e risulta pericolosa socialmente. Il tribunale deciderà se accogliere o meno la proposta avanzata dalla locale questura. 

Piovono multe per assembramenti e presidi contro le misure del governo, lo sfascio sanitario in Calabria mentre la regione piange la morte di una bambina di due anni, deceduta all’ospedale Bambin Gesù di Roma perché in Calabria non sono state attivate le terapie intensive per i più piccoli. 

Torniamo ai fallimenti nella gestione dell’ordine pubblico che non si limitano all’assalto alla Cgil. A capodanno, a Milano, una decina di ragazze vengono molestate durante i festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno e a chiedere scusa per l’ignobile violenza perpetrata da bande di ragazzini indisturbati è il sindaco della città Beppe Sala. Oggi è previsto l’arrivo della ministra a oltre 30 giorni dai fatti per partecipare a un incontro in prefettura sulla sicurezza in città attraversata da guerre tra bande e scene da far west come quella dei giorni scorsi con i poliziotti che hanno inseguito cinque persone che non si sono fermate all’alt. Inseguimento che si è concluso con il ritrovamento di un mitra Uzi in strada.

«La gestione dell’ordine pubblico paga l’assenza di decisione e guida, questo produce schizofrenia nelle risposte, a volte lassismo, altre manganello», dice l’esponente influente della maggioranza di governo. La schizofrenia che ha portato dal lassismo di ottobre con i fascisti indisturbati fino alle manganellate gratuite sulla testa degli studenti che protestavano per l’alternanza scuola lavoro e per la morte dello studente Lorenzo Parelli, schiacciato da una lastra d’acciaio di 150 chili mentre era all’ultimo giorno di stage in fabbrica. 

«Purtroppo alcune manifestazioni sono state infiltrate da gruppi che hanno cercato gli incidenti. Dobbiamo quindi operare per evitare nuovi disordini», dice la ministra dopo le polemiche. Le immagini non mostrano infiltrati ma teste sanguinanti, pestaggi, manganellate. Parole che hanno scontentato tutti anche diversi esponenti del Partito democratico. Sulla difesa di Lamorese il Pd è in grossa difficoltà, non solo per le risposte fornite sui manganelli in testa agli studenti.

Al ministero si impone lentamente la cordata prefettizia, i tecnici allargano la sfera d’influenza e questo, non solo al Viminale, sta diventando un problema. Oltre all’ordine pubblico sono diversi gli errori contestati: il mancato scioglimento di Forza nuova, la stasi sulla questione immigrazione, la nomina del leghista Roberto Maroni a capo della consulta istituita contro il caporalato, ma anche l’immobilismo sulla riforma degli enti locali.

Al momento, però, non sembra esserci altra strada che rinnovare la fiducia alla ministra. In fondo ai partiti questo caos non rappresenta solo un problema, ma una manna dal cielo. Cadranno su una prefetta, senza pretese di rielezione, le responsabilità della gestione delle piazze, del dissenso che monta, del disagio sociale e anche degli innumerevoli fallimenti. La ministra testimone, alla fine, fa comodo a tutti.

Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022. 

Prosciolta con la formula più ampia per avere messo in piedi quel balletto, un istante dopo il giuramento dei cadetti della scuola sottufficiali di Taranto, che nell'estate 2020 imbarazzò non poco la Marina Militare. Soprattutto perché dalla caserma uscì un video diventato virale ovunque. 

Ecco la scena, il 6 agosto: conclusa la cerimonia e mentre nel piazzale gli allievi sono tutti sull'attenti, si presenta una tenente di vascello che, in uniforme bianca, sciabola e nastro azzurro, si mette a ballare sulle note di Jerusalema l'hit che furoreggiava su Tik Tok. Poi l'ufficiale dà un ordine e tutti la seguono nel ritmo e nei passi. 

Ma dopo che il filmato rimbalzò sui social, con milioni di visualizzazioni, la Marina avviò un procedimento disciplinare e la donna finì indagata per «disobbedienza continuata pluriaggravata» in concorso con il sottufficiale che l'aveva coadiuvata. Ieri, nell'udienza davanti al gup militare di Napoli, il pm ne ha chiesto il rinvio a giudizio ma il giudice ha disposto il «non luogo a procedere» per entrambi gli imputati «perché il fatto non sussiste». 

«La giovane ufficiale avrebbe dovuto essere premiata dalla Marina. Invece è stata indagata » osserva Giorgio Carta, il legale dell'ufficiale che intanto sta prestando servizio nelle Marche. Con il procedimento disciplinare sospeso in attesa del giudizio penale «confido che la Marina voglia chiudere questa vicenda traumatizzante per una comandante madre ed entusiasta del proprio lavoro». Soddisfatta anche Floriana De Donno, avvocata del sottufficiale. «Il gup è stato tranciante: nessuna disobbedienza, il reato non esiste».

Davide Petrizzelli per torinotoday.it l'1 febbraio 2022.

Si concluderà probabilmente a febbraio 2022 il processo, in tribunale a Torino, contro i parenti di una ragazzina rom, che a breve diventerà maggiorenne, all'epoca residente in un campo di Orbassano, accusati di concorso in furto e maltrattamenti in famiglia. 

Tutto nasce dalla denuncia della giovane che il 30 aprile 2018, dopo avere rubato merce per 800 euro nel negozio Scarpe & Scarpe del centro commerciale Le Gru di via Crea, aveva preso un bus e si era presentata nella caserma dei carabinieri di Grugliasco per autodenunciarsi e denunciare il padre, il nonno paterno, lo zio e la zia per averla costretta a commettere una serie di furti.

"Quando il bottino che porto a casa non li soddisfa - aveva raccontato - mi picchiano col bastone e mi tengono chiusa in casa a fare le pulizie". La giovane aveva deciso di ribellarsi a quell'esistenza e da allora è stata spostata in una comunità.

Ai parenti (la madre era scappata via tempo fa) è stata revocata la potestà genitoriale. In aula la giovane è rappresentata dall'avvocato Roberto Saraniti, mentre i quattro imputati, che negano ogni addebito, sono difesi dall'avvocato Vittorio Pesavento. A sostenere l'accusa è il pm Laura Ruffino.

Dal "Corriere della Sera" il 19 gennaio 2022.

Non saranno sempre in funzione, ma «ogni qualvolta l'evolversi degli scenari faccia intravedere l'insorgenza di concrete e reali situazioni di pericolo di turbamento dell'ordine e della sicurezza pubblica o quando siano perpetrati fatti costituenti reato».

Le bodycam per poliziotti e carabinieri sono realtà. E saranno utilizzabili fin dalle prossime manifestazioni o comunque dai primi servizi di ordine pubblico. Con la soddisfazione dei sindacati e l'ok del Garante della Privacy.

È di ieri la circolare del capo della polizia Lamberto Giannini ai reparti: 700 apparecchi, da applicare sulla spalla o sul petto dell'operatore, sono destinati proprio ai capi squadra e ai loro vice nei Reparti mobili delle Questure, e altre 249 agli ufficiali dei battaglioni dell'Arma dislocati in ogni regione.

Per il momento si tratta di servizi di ordine pubblico e non di pattugliamento «quale ulteriore strumento di documentazione degli accadimenti e, nel contempo, di tutela del personale operante», scrive ancora Giannini, sottolineando che i contenuti multimediali saranno conservati da personale addetto alla sicurezza dei dati personali «per sei mesi dalla data di effettuazione delle videoriprese».

Le bodycam, secondo il capo della polizia, sono necessarie in quanto la gestione degli eventi di ordine pubblico «ha messo chiaramente in luce come una puntuale ed efficace attività di documentazione video-fotografica degli stessi, soprattutto nelle fasi critiche, risponda a diverse finalità, sia con riferimento a specifiche esigenze probatorie sia sul piano della comunicazione istituzionale».

La registrazione delle immagini dovrà essere interrotta «quando venga meno la necessità di documentare gli eventi» e in caso di errori i dati dovranno essere subito cancellati. Una volta tornati in caserma, i supporti dovranno essere collegati a un totem informatico per lo scarico dei dati, da trasferire su supporti-archivio chiamati «Nas», a disposizione della polizia scientifica e alla sezione Rilievi dell'Arma per l'individuazione di reati da segnalare all'autorità giudiziaria, mentre le memorie delle telecamere saranno cancellate.

(ANSA il 18 ottobre 2022) - Due poliziotti in carcere e uno agli arresti domiciliari nell'ambito di una indagine antidroga della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Catania e della Procura di Siracusa: gli indagati sono accusati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. 

Arresti domiciliari anche per un quarto uomo, non appartenente alle forze di polizia. Gli agenti della squadra mobile della Questura di Siracusa, del servizio centrale operativo della Polizia di Stato e i Finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria del comando provinciale di Catania, hanno eseguito l'ordinanza di custodia cautelare del gip del Tribunale di Catania nei confronti dei quattro indagati, a vario titolo, per associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti e psicotrope e, tra gli altri, corruzione, peculato e falso in atto pubblico. 

Il gip del Tribunale di Catania ha disposto la custodia cautelare in carcere per Rosario Salemi, 51 anni, già in quiescenza; e Giuseppe Iacono, 58 anni, in servizio alla Polfer di Siracusa; e il sequestro preventivo a loro carico, rispettivamente, per un importo pari a 209mila 908 euro e a 374mila euro. 

Arresti domiciliari per un vice ispettore di Polizia Claudia Catania, 54 anni; e per Vincenzo Santonastaso, 51 anni di Noto, complice - dice l'accusa - nel traffico degli stupefacenti messo in atto da due dei poliziotti coinvolti. Indagato anche un carabiniere, in servizio a Siracusa, per rivelazione di segreto d'ufficio in concorso.

(ANSA il 18 ottobre 2022) - Le indagini che hanno portato all'arresto di 4 persone tra cui 3 poliziotti sono due: la prima coordinata dalla Procura di Siracusa nel biennio 2019-2020 dalla quale era emersa "la stretta vicinanza di due dei tre appartenenti precedentemente in servizio presso la sezione antidroga della Squadra mobile ai familiari di uno dei maggiori esponenti di una piazza di spaccio siracusana, poi divenuto collaboratore di giustizia".

La seconda coordinata dalla Dda catanese, nel corso della quale i finanzieri del Gico avrebbero accertato che dal 2011 al 2018, i poliziotti "avrebbero contribuito a rifornire abitualmente le piazze di spaccio in virtù del rapporto illecito creato con due esponenti di spicco delle associazioni criminali dedite al traffico di stupefacenti, poi divenuti collaboratori di giustizia". 

Secondo la Dda "gran parte della sostanza stupefacente che sarebbe stata ceduta dietro corrispettivo dai poliziotti a tali referenti proveniva dai sequestri eseguiti nel corso di indagini e sottratta all'esito delle analisi di laboratorio effettuate sui campioni, prima del deposito presso l'ufficio Corpi di reato del Tribunale di Siracusa.

La sostanza stupefacente sequestrata veniva sostituita con materiale di ogni genere, come mattoni di terracotta al posto dei panetti di hashish o mannitolo in luogo della cocaina". I poliziotti avrebbero inoltre rivelato ai loro complici "l'esistenza di indagini a loro carico della Procura di Siracusa e della Dda di Catania, comprese specifiche informazioni in merito a intercettazioni in atto, idonee a pregiudicarli, e ai luoghi dove erano installate microspie delle forze dell'ordine, e i contenuti dei verbali di collaboratori di giustizia". 

Agli arrestati non sarebbero arrivati solo i proventi derivati dal traffico di droga: "Gli indagati - dice l'accusa - sarebbero stati tra loro legati anche da un rapporto corruttivo stabile e duraturo, ricevendo dai referenti della piazza di spaccio remunerazioni periodiche per le informazioni fornite e il sostegno garantito".

·        La Burocrazia.

Intervista di Antonio Giangrande alla radio tedesca ARD.

Salerno Reggio Calabria: Eterna Incompiuta.

«Attenzione, spesso si cade nei luoghi comuni. La Mafia e la Corruzione sono icone che dove non ci sono si inventano per propaganda politica o per coprire i propri fallimenti. Spesso dietro quel fenomeno si nasconde l’inefficienza tutta italiana. Il problema è che ci sono persone sbagliate (incapaci più che disoneste) a ricoprire ruoli di responsabilità. Si pensi che addirittura Antonio Di Pietro (il PM di Mani Pulite) ha avuto responsabilità nel dicastero di competenza. I politici dicono cosa fare, ma sono i burocrati che decidono come fare (in virtù delle leggi, come la Bassanini, che hanno dato potere ai dirigenti pubblici). Le leggi artificiose create dagli incapaci politici, perché non hanno fiducia dei loro cittadini, crea caos e nel caos tutto succede. Basterebbe rendere tutto più semplice e quel semplice controllarlo.

Un procedimento pur se corrotto dovrebbe comunque avere una soluzione. La Salerno-Reggio Calabria, a prescindere da mafia o corruzione in itinere, comunque non ha soluzione di continuità: ergo, vi è incapacità, più che disonestà.

E’ come quel luogo comune sugli italiani: si dà l’appuntamento per le otto circa e, se va bene, ci si incontra a mezzogiorno.

Se i politici sono nominati con elezioni truccate, questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. Se i politici nominati raccomandano i funzionari pubblici con concorsi truccati (compreso i magistrati), questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. I dirigenti nominati con concorsi truccati non hanno remore a truccare gli appalti. Alla fine, però, i lavori dovrebbero concludersi. Invece tutti se ne fottono del risultato finale, avendo per sé soddisfatto i propri bisogni. A questo punto sono tutti responsabili del fallimento: i politici, i funzionari pubblici (compreso i magistrati per omissione di controllo) e gli imprenditori che delinquono; i giornalisti che tacciono ed i cittadini che emulano.

La mia proposta come presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” attraverso il suo braccio politico “Azione Liberale” è che ogni procedimento amministrativo pubblico ha un suo responsabile che ne risponde direttamente, attraverso la perdita del posto, della buona riuscita per sé e per i suoi sottoposti da lui nominati.

Però, purtroppo, un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Estratto dell’articolo di Raffaele Ricciardi, Rosaria Amato per “la Repubblica” il 9 dicembre 2022.

C'è il collega violento che in un momento di rabbia urla «ti spacco la faccia». E quello più sottile, che raccomanda ai nuovi arrivati di non prestare soldi al vicino di scrivania perché non li restituirà mai, o racconta in giro che "porta sfiga". La violenza tra colleghi è un'area grigia rispetto al mobbing classico, quello "verticale" che oppone i sottoposti ai superiori. Ma il bullismo, o mobbing "orizzontale" come lo definisce la giurisprudenza, è tutt' altro che trascurabile: da una survey realizzata per Repubblica da Aidp (Associazione direttori del personale) emerge che coinvolge il 30% delle imprese, e per il 43% dei manager è frequente.

Tra le vittime ci sono soprattutto donne e giovani. Un risultato in linea con l'ultima indagine del Workplace Bullying Institute, centro di ricerca per il quale il 30% dei lavoratori statunitensi ha avuto a che fare con colleghi-bulli. «La violenza entra nei luoghi di lavoro in due modi, differenziabili in base al movente - spiega Silvio Ripamonti, professore di Psicologia del lavoro all'Università Cattolica - nel mobbing "classico" c'è un fine organizzativo: un interesse a eliminare un dipendente, collega o capo. Il bullismo, invece, è fine a sé stesso: uno sfogo della propria aggressività».

La tipologia più diffusa, secondo l'indagine condotta su 600 manager dal Centro Ricerche dell'Aidp guidato dal professor Umberto Frigelli, in collaborazione con la Cattolica, è costituita da pettegolezzi e voci di corridoio: riguarda oltre il 50% dei casi. Seguono esclusione e boicottaggio, svalutazione delle opinioni anche davanti ai superiori (un po' più del 30%), invasione della privacy. 

Il 34% degli intervistati è stato testimone di aggressioni e il 4% di maltrattamenti o minacce. «L'effetto individuale di questi comportamenti è l'aumento di malattie stress-lavoro correlate», spiega Ripamonti. Ma c'è anche un deciso impatto sulla produttività: «Crescono assenteismo e turnover».

Il fenomeno lievita, e anche le denunce. In assenza di una legge, anche se diversi tentativi sono stati fatti negli ultimi 20 anni, i tribunali hanno costituito una sorta di codice del mobbing, compreso quello "orizzontale". «La svolta è rappresentata dalla sentenza del 4 dicembre 2020 della Cassazione - spiega Emanuele Dagnino, professore di Diritto del Lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia - che amplia la responsabilità disciplinare del datore di lavoro rispetto ai comportamenti che vanno a incidere sul benessere delle persone in azienda». […]

Riforma delle Riforme. Nicola Porro il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Se solo il famoso Pnrr servirà a cambiare il codice degli appalti, rendendo le cose più semplici e veloci, beh insomma ne sarebbe valsa la pena.

Se solo il famoso Pnrr servirà a cambiare il codice degli appalti, rendendo le cose più semplici e veloci, beh insomma ne sarebbe valsa la pena. Non appaia un paradosso. Ma i 220 miliardi che arrivano dall'Europa, per gran parte sono prestiti. E dunque condizionati ad essere impiegati in opere che rendano più di quanto costeranno, con gli interessi, alle generazioni future. Molti Paesi proprio per questa difficoltà hanno preferito prendere solo una parte dei 750 miliardi messi a disposizione dell'Europa: cioè quella a fondo perduto. Come ha fatto la Spagna. Fatta questa lunga premessa, questi 220 miliardi occorre spenderli, o meglio investirli, in tempi brevissimi: entro il 2026. Sarà una corsa contro il tempo. È per questo che la riforma degli appalti è la riforma delle riforme. Perché sarà il vero «regalo» che ci «imporrà» l'Europa. Il ministro Salvini ieri si è detto entusiasta, sostiene che verranno velocizzate le opere, sburocratizzate anche innalzando la soglia di affidamento dei lavori, così da aiutare le piccole e medie stazioni appaltanti. Ci sono molti tecnicismi, che si capiranno soltanto quando si avrà la prova dei fatti. Sulla carta il governo sostiene che l'80 per cento degli appalti oggi in essere avrebbe potuto essere più veloce, con questo restyling del codice. In un paese in cui tra gare, appalti ed esecuzioni si impiegano decine di anni, per costruire un'infrastruttura sarebbe un miracolo. Con i Tar sul piede di guerra, le conferenze di servizi pletoriche, le Sovrintendenze rigidissime e comitati dei cittadini che spuntano come funghi, abbiamo qualche legittimo dubbio. Ma niente come la dotazione infrastrutturale di un Paese ha senso che sia finanziata con risorse pubbliche. Vedete, una parte, infinitesimale ovviamente, delle risorse del Pnrr sono state dedicate a giovani giuristi per aiutare i giudici a stilare sentenze. Bene, serviranno a deflazionare il monte di arretrati. Ha un certo peso per la salute di uno stato di diritto, anche se relativo (non nullo) sulla crescita del Pil. Ma non saranno questi investimenti a restituire i costi del debito che stiamo accendendo con il Pnrr. Restano grandi sfide più concrete: non riusciamo ad avere una rete energetica congruente con le nostre esigenze (si pensi al fatto che abbiamo un blocco del trasporto del gas a Sulmona), abbiamo ancora troppo poco ferro dove servirebbe e occorrerebbe davvero avere una infrastruttura telematica all'avanguardia. Non vi è un motivo per non credere che il Ponte dello stretto sia il simbolo di questa rinascita. Speriamo che sia la volta buona. Sono queste ultime le infrastrutture che riusciranno a generare valore continuo e nel tempo, e che uniche giustificano l'aumento del nostro debito pubblico.

Estratto dell’articolo di Luca Monticelli per “la Stampa” il 17 dicembre 2022.

«È l'iniziativa più importante di questi due mesi di governo». Il vicepremier e responsabile del dicastero delle Infrastrutture, Matteo Salvini, definisce così il via libera preliminare del Consiglio dei ministri al nuovo Codice degli appalti. «Questo decreto consente di tagliare la burocrazia e gli sprechi, garantirà trasparenza e permetterà di aprire cantieri in tempi più veloci. Creare lavoro è la miglior battaglia alla corruzione che possa esserci», spiega Salvini nel corso della conferenza stampa.

Il segretario della Lega respinge le accuse dell'Autorità anticorruzione, che ha acceso un faro sull'allentamento del conflitto di interessi. «Le critiche dell'Anac possono essere rivolte tranquillamente al Consiglio di Stato che ha condiviso le nostre proposte, lascio a loro il dibattito accademico […]» […] 

[…] Il Codice doveva essere approvato la settimana scorsa, il rinvio è stato causato anche dalle differenti visioni di Giorgia Meloni e Matteo Salvini sulle modifiche da apportare alla bozza preparata dal Consiglio di Stato. Differenze che sembrano essere state superate.

La nuova legge sugli appalti è «un volano per la crescita - sottolinea la premier - è un provvedimento organico, equilibrato e di visione, frutto di un lavoro qualificato e approfondito, che permetterà di semplificare le procedure e garantire tempi più veloci».

Nel testo spicca il principio del risultato, inteso come interesse pubblico primario che riguarda l'affidamento del contratto e la sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto tra qualità e prezzo. […] in sostanza, il risultato viene prima di tutto. 

Scatta inoltre l'obbligo di prevedere adeguamenti se i rincari dei materiali superano il 5 per cento e arriva l'appalto integrato, prima vietato, che consente di attribuire con una stessa gara il progetto e l'esecuzione dei lavori. In chiave di semplificazione delle procedure, gli attuali tre livelli di progettazione sono ridotti a due: un progetto di fattibilità tecnica ed economica e un progetto esecutivo.

[…] Scoppia la polemica sui minori vincoli dei subappalti che possono diventare "a cascata". Secondo la Fillea Cgil si tratta di una misura che «porta le nefandezze che spesso incontriamo nell'edilizia privata nel settore pubblico. Da domani assisteremo ad una frammentazione dei cicli produttivi, al massimo incentivo possibile, al nanismo aziendale, alla nascita di imprese senza dipendenti. Aziende che prenderanno lavori pubblici in subappalto per poi subappaltare ad altre aziende che a loro volta subappalteranno, teoricamente all'infinito. Aumenteranno zone grigie, infortuni, sfruttamento e rischi di infiltrazione criminale», denuncia il sindacato. […]

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 17 dicembre 2022. 

La voglia di fare presto e di semplificare al massimo può essere una cattivissima consigliera. Così ad esempio la vede «Libera», intrepida associazione antimafia: «Rischia di alimentare gli appetiti di organizzazioni criminali, corrotti e corruttori, allarga le maglie ed allenta i controlli, anche depotenziando le funzioni dell'Autorità Anticorruzione. Una beffa natalizia».

Sono tante le perplessità, i dubbi, le critiche. È un fatto, per dire, che questa riforma permetterà il subappalto a cascata. […] Ecco, le infitrazioni criminali. […] La corsa a mettere le mani sugli appalti pubblici è sempre più difficile da contrastare. […] Questa è la triste cornice in cui ci si muove. E l'Anac, l'Autorità Anticorruzione, trema. Nei giorni scorsi c'è stata una certa interlocuzione con Palazzo Chigi. Alcune cose sono cadute lungo la strada, altre sono da verificare. Di certo, l'Anac è molto perplessa alla prospettiva di vanificare la riforma delle stazioni appaltanti. 

Se ne contano ben 36mila con oltre 100mila centri di spesa. Teoricamente, sulla base di una riforma del governo Renzi, e come concordato nell'ambito del Pnrr, sarebbero dovute scendere a 12mila. E invece ecco la retromarcia decisa ieri dal governo. Nella proposta Anac, per poter svolgere appalti superiori ai 150.000 euro, una stazione appaltante avrebbe dovuto dimostrare di avere un certo numero di requisiti, altrimenti occorreva aggregarsi. 

In futuro, invece, appalti fino a 500.000 euro potranno essere fatti anche da stazioni appaltanti piccole, senza capacità di acquisti, e senza garanzia di avere tecnici adeguati. All'Anac, poi, sono stati direttamente sforbiciati i poteri quanto alle verifiche sulle Soa, ovvero le attestazioni che dimostrano i requisiti economici e organizzativi dell'impresa che partecipa alle gare più grosse. 

Così come è stato ridotto il suo ruolo in materia di controllo dei conflitti d'interesse, per esempio sui Rup, i Responsabili unici del procedimento all'interno degli appalti, i quali non devono mai essere in conflitto d'interesse. Può sembrare una piccola cosa, ma «ci troviamo tanti casi in cui gli affidamenti vengono fatti a parenti o conoscenti», ha spiegato Giuseppe Busia, il presidente dell'Anac. E ancora. 

È stato abolito l'elenco delle società "in house" che permetteva ad Anac di verificare se i servizi affidati da Comuni e Regioni alle loro società non potessero essere svolti meglio con gare aperte sul libero mercato. Nel braccio di ferro hanno vinto gli enti locali che vogliono gestire in proprio i servizi. Ha vinto l'idiosincrasia trasversale di destra, sinistra e centro alle gare.

L'approvazione del testo da parte del Cdm. Cosa c’è nel nuovo Codice degli Appalti, le novità e le critiche: “Beffa natalizia, liberalizzazione del subappalto a cascata”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Dicembre 2022

Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri il nuovo Codice degli Appalti, il testo unico che disciplina i rapporti tra la pubblica amministrazione e le società incaricate a svolgere determinate opere pubbliche. Le norme puntano a garantire il rispetto della trasparenza, della concorrenza e della meritocrazia. La premier Giorgia Meloni ha definito la normativa approvata dal suo governo un “volano per la crescita e l’ammodernamento infrastrutturale”. Alla conferenza stampa il vice primo ministro e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Immediate però le critiche, dalle opposizioni e dall’Anac oltre che dall’associazione Libera.

Il nuovo provvedimento include l’affidamento diretto dei lavori fino a 500mila euro, anche senza la qualifica di stazione appaltante; una liberalizzazione dell’appalto integrato, quell’appalto affidato a un solo soggetto sia per la progettazione che per la realizzazione; la cancellazione del Piano generale trasporti e logistica sostitutio da una lista di opere prioritarie; maggiore digitalizzazione delle procedure; più flessibilità nei settori speciali come acqua, energia e trasporti; un meccanismo di revisione dei prezzi che interverrà quando la variazione dei costi dell’opera supererà il 5% del prezzo totale, si applicherà sull’80% della variazione.

“Un provvedimento organico, equilibrato e di visione, frutto di un lavoro qualificato e approfondito, che permetterà di semplificare le procedure e garantire tempi più veloci. E che rappresenterà anche un volano per il rilancio della crescita economica e l’ammodernamento infrastrutturale della Nazione. Il Governo ringrazia il Consiglio di Stato per il grande lavoro svolto e che ha contribuito al raggiungimento di questo importante risultato”, ha detto la Presidente del Consiglio Meloni parlando di “un altro impegno preso con gli italiani”.

Per Salvini “questo nuovo codice dovrà tagliare sprechi e la burocrazia, viene incontro alle esigenze delle imprese e degli enti locali, permetterà di aprire cantieri in tempi più veloci e creerà più lavoro. È la miglior battaglia alla corruzione e al malaffare. Più dell’80% degli appalti, se questo codice fosse in vigore, sarebbe più rapido, veloce, efficace e innovativo”. Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha riferito che il lavoro sul Codice Appalti si è svolto “in assoluta concordanza di intenti” tra Consiglio di Stato e governo nella stesura del codice appalti, e poi ha aggiunto “tutti questi conflitti non li vedo” ma “saremo lieti di leggere” i rilevi dell’Anac “una volta che ci invieranno le loro considerazioni”.

Le critiche sono scattate infatti immediatamente. Per Libera il nuovo Codice “rischia di alimentare gli appetiti di organizzazioni criminali, corrotti e corruttori, allarga le maglie ed allenta i controlli, anche depotenziando le funzioni dell’Autorità Anticorruzione. È una beffa natalizia”, si legge in una nota. Il segretario Fillea-Cgil Alessandro Genovesi ha definito il nuovo regolamento una “liberalizzazione del subappalto a cascata” con le aziende che “prenderanno lavori pubblici in subappalto per poi subappaltare ad altre aziende che a loro volta subappalteranno, teoricamente all’infinito. Aumenteranno zone grigie, infortuni, sfruttamento e rischi di infiltrazione criminale”. Critiche anche dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac).

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Codice degli appalti, tutte le novità del decreto sui contratti pubblico-privato. Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022.

Digitalizzazione, appalti integrati, procedure sotto soglia, subappalti, concessioni, revisione dei prezzi, general contractor, settori speciali, Anac. Salvini: «Grande riforma». Il Pd: «Colpo di spugna su sicurezza e legalità»

«Allo scopo di fugare la cosiddetta “paura della firma”, è stabilito che, ai fini della responsabilità amministrativa, non costituisce “colpa grave” la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti». In altre parole, un tentativo di mettere un freno alla cosiddetta «paura della firma», ovvero il timore dei dirigenti pubblici di incorrere in violazioni di legge firmando atti amministrativi. È questo uno dei punti contenuti del decreto legislativo approvato ieri dal Consiglio dei ministri, in esame preliminare, per la riforma del Codice dei contratti pubblici (fondamentale per il decorso del Pnrr), la cui applicazione a tutti i procedimenti è prevista dal prossimo 1° aprile.

Gli obiettivi e i timori

Proposto dalla presidente Giorgia Meloni, secondo la quale il nuovo Codice degli appalti (su cui aveva lavorato anche il governo Draghi) «rappresenterà un volano per il rilancio della crescita economica e l’ammodernamento infrastrutturale della nazione», e dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, il testo si basa su due leve cardine. La prima ha come fondamento il «principio del risultato», inteso come l’interesse pubblico primario del codice. Riguarda l’affidamento del contratto e la sua esecuzione, da svolgere con «massima tempestività e migliore rapporto tra qualità e prezzo nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza». Il secondo è il «principio della fiducia» nell’azione della pubblica amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici. Per Salvini: «È la migliore battaglia alla corruzione e al malaffare che ci possa essere, più breve l’iter meno uffici devi girare più rapido è l’appalto più difficile per il corrotto incontrare il corruttore. Si aiutano i piccoli comuni, si dimezzano le garanzie chieste alle imprese». Molte però le critiche. Il Pd parla di «colpo di spugna su sicurezza, qualità del lavoro e legalità» e di «rischio criminalità nel non avere limiti al ricorso dei subappalti». Per l’associazione Libera «è una riforma che rischia di alimentare gli appetiti di organizzazioni criminali, corrotti e corruttori».

Qui sotto le principali novità del testo.

Digitalizzazione

La digitalizzazione diventa un vero e proprio «motore» per modernizzare l’intero sistema dei contratti pubblici e l’intero ciclo di vita dell’appalto. Viene definito «ecosistema nazionale di approvvigionamento digitale» i cui pilastri si individuano nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici, nel fascicolo virtuale dell’operatore economico, appena reso operativo dall’Autorità nazionale anti corruzione (Anac), nelle piattaforme di approvvigionamento digitale, nell’utilizzo di procedure automatizzate nel ciclo di vita dei contratti pubblici. Quel che viene proposto, inoltre, è la digitalizzazione integrale in materia di accesso agli atti, in linea con lo svolgimento in modalità online delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici. È previsto che tutti i cittadini abbiano la possibilità di richiedere la documentazione di gara, nei limiti consentiti dall’ordinamento vigente, attraverso l’istituto dell’accesso civico generalizzato.

Infrastrutture prioritarie

Il disegno di legge include l’inserimento dell’elenco delle opere prioritarie direttamente nel Documento di economia e finanza (Def), a valle di un confronto tra Regioni e governo; la riduzione dei termini per la progettazione; l’istituzione da parte del Consiglio superiore dei lavori pubblici di un comitato speciale appositamente dedicato all’esame di tali progetti; un meccanismo di superamento del dissenso qualificato nella conferenza di servizi mediante l’approvazione con decreto del presidente del Consiglio dei ministri; la valutazione in parallelo dell’interesse archeologico.

Appalti integrati

Il governo Meloni reintroduce la possibilità dell’appalto integrato senza i divieti previsti dal vecchio codice del 2016 (poi più volte modificato). Il contratto potrà quindi avere come oggetto la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori sulla base di un progetto di fattibilità tecnico-economica approvato.

Procedure sotto la soglia

Si adottano stabilmente le soglie previste per l’affidamento diretto e per le procedure negoziate nel cosiddetto decreto «semplificazioni Covid-19». In altre parole, si stabilisce il principio di rotazione secondo cui, in caso di procedura negoziata, è vietato procedere direttamente all’assegnazione di un appalto nei confronti del contraente uscente.

Subappalti

Il testo promosso da Meloni e Salvini introduce il cosiddetto subappalto a cascata, adeguandolo alla normativa e alla giurisprudenza europea attraverso la previsione di criteri di valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante, da esercitarsi caso per caso.

Concessioni

Per i concessionari scelti senza gara, ci sarà l’obbligo di appaltare a terzi una parte compresa tra il 50 e il 60 per cento dei lavori, dei servizi e delle forniture. L’obbligo non vale per i settori speciali (ferrovie, aeroporti, gas, luce).

Revisione dei prezzi

È confermato l’obbligo di inserimento delle clausole di revisione prezzi al verificarsi di una variazione del costo superiore alla soglia del 5 per cento, con il riconoscimento in favore dell’impresa dell’80 per cento del maggior costo.

General contractor

Torna la figura del «general contractor», cancellata con il vecchio codice. Con questi contratti, l’operatore economico è dunque «tenuto a perseguire un risultato amministrativo mediante le prestazioni professionali e specialistiche previste, in cambio di un corrispettivo determinato in relazione al risultato ottenuto e alla attività normalmente necessaria per ottenerlo».

Partenariato pubblico-privato

Si semplifica il quadro normativo, per rendere più agevole la partecipazione degli investitori istituzionali alle gare per l’affidamento di progetti di partenariato pubblico-privato. Si prevedono ulteriori garanzie a favore dei finanziatori dei contratti e si conferma il diritto di prelazione per il promotore.

Settori speciali

Maggiore flessibilità e una più marcata peculiarità per i cosiddetti «settori speciali», in coerenza con la natura dei servizi pubblici gestiti dagli enti aggiudicatori (acqua, energia, trasporti, ecc), sono altri obiettivi a cui aspira a puntare il governo. Le norme introdotte risultano «autoconclusive» e quindi prive di ulteriori rinvii ad altre parti del codice. Si prevede la possibilità per le stazioni appaltanti di determinare le dimensioni dell’oggetto dell’appalto e dei lotti in cui eventualmente suddividerlo, senza obbligo di motivazione aggravata.

Esecuzione

Sul versante dell’esecuzione, è contemplata la facoltà per l’appaltatore di richiedere, prima della conclusione del contratto, la sostituzione della cauzione o della garanzia fideiussoria con ritenute di garanzia sugli stati di avanzamento.

Governance e poteri dell’Anac

Per fugare la cosiddetta «paura della firma», è appunto stabilito che, ai fini della responsabilità amministrativa, non costituisce «colpa grave» la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti. Si effettua il riordino delle competenze dell’Anac in attuazione del criterio contenuto nella legge delega, con un rafforzamento delle funzioni di vigilanza e sanzionatorie. Si superano le linee guida adottate dall’Autorità, attraverso l’integrazione nel Codice della disciplina di attuazione. In merito ai procedimenti dinanzi alla giustizia amministrativa, si prevede che il giudice conosca anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell’operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo. Si applica l’arbitrato anche alle controversie relative ai «contratti» in cui siano coinvolti tali operatori.

L’Italia che non spende e la figuraccia PNRR. Colpa della burocrazia. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Dicembre 2022

È toccato a un uomo del Sud, il ministro Fitto, annunciare quello che in molti temevano: l’Italia non riesce a spendere i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). «La previsione di spesa – ha dichiarato Fitto, che ha la delega a coordinare il Piano – quando fu approvato era di 42 miliardi al 31 dicembre, poi è stata corretta al ribasso a 33 miliardi una prima volta e a 22 miliardi lo scorso settembre. Nei prossimi giorni noi prenderemo atto di quanto si è speso, temo che la percentuale di spesa non sarà molto alta e sarà distante dai 22 miliardi di euro».

Dunque non siamo in grado di utilizzare nei tempi previsti neppure un terzo dei 66,9 miliardi di euro già erogati da Bruxelles. Il meccanismo europeo per distribuire i soldi destinati alla «ripresa e resilienza» è semplice ma inesorabile. Prima è stata individuata la cifra globale da assegnare a ciascun Paese. L’Italia è stata la maggiore beneficiaria con 191,5 miliardi di euro.

L’Europa ha versato 24,9 miliardi come anticipo già ad agosto 2021; a fronte dei primi obiettivi raggiunti dal governo Draghi ha pagato altre due rate da 21 miliardi ciascuna (ad aprile e novembre 2022). Il meccanismo a questo punto prevede che vi sia una verifica somme spese: se non si raggiungono i tetti prefissati, si blocca il pagamento delle rate successive.

Come ricordato da Fitto, non riusciremo a utilizzare nei tempi previsti neppure la cifra minima di 22 miliardi. Il che fa pensare che quando Germania e Francia si sono dimostrate generose con l’Italia, appoggiando l’assegnazione di quasi 200 miliardi, l’abbiano fatto con una certa perfidia. Della serie: destiniamo pure questi soldi agli italiani, ma incapaci come sono non riusciranno a spenderli tutti e li restituiranno. Del resto è quanto è successo e succede con i vari fondi di sviluppo che l’Europa mette a disposizione delle regioni più povere, Puglia compresa.

Ma il punto non è questo. La questione è: perché l’Italia non riesce a spendere la valanga di soldi che le consentirebbe di avvicinarsi agli standard dei Paesi più evoluti e – soprattutto – permetterebbe al Sud di colmare buona parte del divario che lo separa dal Nord? Naturalmente ci sono più fattori che concorrono all’incapacità di spesa, che diventa così la prova provata dell’arretratezza strutturale del Paese.

Si può dire però che il principale freno sia rappresentato dalla burocrazia. Enti, istituzioni, centri ricerca che hanno presentato progetti e ottenuto fondi nell’ambito del Pnrr ora non sanno come fare per investirli e rendicontarli. Manca personale amministrativo adeguato. I responsabili dei vari progetti sono disperati, stanno provando in ogni modo a reperire giovani laureati per seguire le pratiche, curare la documentazione, tenere i contatti burocratici con Roma. Niente da fare. I pochi soggetti presenti nelle pubbliche amministrazioni sono oberati di lavoro, essendo gli unici. Pur essendoci la possibilità di assumere, con varie forme di contratti, nessuno si fa avanti. E i tecnici europei incaricati delle verifiche sono già a Roma per cominciare a «mettere il naso» nelle carte.

La vicenda, drammatica e paradossale, richiama alla mente l’impiegato Checco Zalone del film Quo Vado. Il personaggio è la sintesi dell’arretratezza della nostra macchina amministrativa. Il mito del «posto fisso» contiene in sé il principio dell’inamovibilità e dunque della staticità, dell’ora e per sempre. Risultato: la maggior parte delle pubbliche amministrazioni è ferma al secolo scorso, come mentalità innanzitutto; poi come dotazioni tecnologiche e infine come organizzazione. La formazione del personale, che dovrebbe essere costante e continua per tenere il passo con la società che corre, è una rarità. Del resto non abbiamo inventato noi la regola del «silenzio-assenso»? In pratica se una pubblica amministrazione entro 30 giorni (90 per alcuni settori «sensibili» come salute e ambiente) non risponde a un’istanza, si ritiene che la risposta sia positiva. Un meccanismo per ovviare all’inerzia della Pa e tutelare diritti e interessi dei cittadini.

Se questo è il principio alla base della legge 241/90, l’uso che se ne è fatto ha però dilatato molto i confini e annacquato le eccezioni che pure la norma contiene. La regola del silenzio-assenso comporta che spesso non solo non vi sia una comunicazione all’interessato, ma anche che quella istanza non sia stata verificata da alcuno. Sarebbe interessante sapere, per esempio, quante delle pratiche edilizie degli ultimi trent’anni a Ischia siano state «approvate» grazie a questa regola. Per altro con il silenzio-assenso è piuttosto difficile risalire al vero responsabile del procedimento. È una delle cose che probabilmente scoprirà l’inchiesta della Procura di Napoli, molto enfatizzata dai media, quasi che sia un’iniziativa eccezionale: di fronte a 12 morti e un Paese disastrato la magistratura non doveva muoversi? È verosimile invece che nonostante enfasi e prevedibile raffica di avvisi di garanzia, alla fine l’inchiesta non approderà a nulla di concreto. Un po’ come la direttrice di Quo Vado, che non riesce a mandare a casa l’impiegato Zalone. Con buona pace del ministro Fitto che dovrà ora giustificare all’Europa la figuraccia italiana.

ABUSO D’UFFICIO. Decaro: «Il governo tuteli i sindaci. Anche io da indagato ho pensato al suicidio».

Il primo cittadino di Bari rilancia l’appello: «Regole più chiare per chi amministra». Sisto: «C’è la necessità di intervenire sull’abuso di ufficio. Siamo di fronte a 5mila iscrizioni sul registro degli indagati in un anno, con sole 27 condanne». Simona Musco su Il Dubbio il 21 Dicembre 2022

«È successo anche a me: sono stato indagato per concorso in tentato abuso d'ufficio. E ho pensato al suicidio. Ho pensato: adesso mi butto al mare con l'automobile e non sento più niente, non soffre più mia moglie, non soffrono più le mie figlie, non soffrono più le persone che mi conoscono e soprattutto non soffro più io. Per fortuna non l'ho fatto». Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente di Anci, nel cerchio infuocato del processo mediatico ci è passato come tanti altri. A lui è capitato circa dieci anni fa, quando da deputato del Pd si ritrovò indagato per la presunta raccomandazione di un cugino con l'allora assessore regionale Alberto Tedesco per fargli superare un concorso indetto dall'Arpa Puglia.

L’accusa aveva chiesto un anno e 4 mesi, al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Ma il gup optò per l’assoluzione - poi confermata in appello -, scelta che per il politico rappresentò la fine di un «incubo». Un incubo tanto grande da spingerlo a pensare di porre fine alla sua vita. Come capitato ad altri, prima e dopo di lui, alcuni dei quali non sono riusciti a fermarsi un attimo prima: un anno, ad esempio, fa a togliersi la vita fu Angelo Burzi, fondatore di Forza Italia in Piemonte, che si uccise dopo la condanna nel processo “rimborsopoli” dopo essersi sempre proclamato innocente.

Decaro ha ricordato la propria vicenda martedì scorso, durante il convegno “Magistratura e stampa. Democrazia, informazione, giurisdizione”, davanti, tra gli altri, al sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto e al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Un’occasione, ha spiegato il primo cittadino, per rilanciare l’appello dell’Anci affinché la politica affronti il tema della responsabilità dei sindaci. «Avendo chiesto il rito abbreviato, dopo quattro anni, se non si fosse alzato l’avvocato Michele Laforgia a chiedere dei tempi certi, io non mi sarei candidato a fare il sindaco di Bari. L'ho presa male, perché mi ritenevo una brava persona e mi sono ritrovato indagato e su tutti i giornali e i telegiornali d'Italia per una questione molto limitata», ha spiegato.

Nonostante le accuse a suo carico fossero relativamente leggere, infatti, il suo nome finì in una maxioperazione sulla sanità nella quale c’era di tutto: dalla corruzione alla concussione, passando per la prostituzione. Un «calderone» che fagocitò anche Decaro, facendolo diventare un presunto «impresentabile» per la politica, nonostante la presunzione di innocenza. Quel tempo, per fortuna, è passato. Ma il problema rimane ancora irrisolto, tant’è che la stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rispondendo all’appello dell’Anci ha garantito ai sindaci un intervento legislativo per definire meglio le norme e circoscrivere le responsabilità.

«Lo dichiaro per l'ennesima volta - ha sottolineato Decaro -, non stiamo chiedendo né l'impunità né l’immunità, non stiamo chiedendo di abrogare dei reati per i sindaci e gli amministratori locali, non sarebbe giusto e sono convinto, da sindaco, che se un sindaco sbaglia deve pagare anche più degli altri. Il tema è: qual è la responsabilità del sindaco? Non ti puoi ritrovare indagato per qualunque cosa succeda nella tua città. Io credo che non esista un reato di ruolo. Chiediamo di definire i contorni delle norme». Anche perché i dati statistici sono tremendi: in percentuale, il 93 per cento degli amministratori locali indagati per abuso d'ufficio è stato assolto o archiviato.

«È giusto che i magistrati indaghino se c’è una norma che lo prevede e che il giornalista dia notizia di ciò - ha aggiunto -, ma questo meccanismo, alla fine, ha portato molte persone, molti amministratori ad abbandonare il proprio ruolo. Ci sono accuse finite sui giornali e ci sono tanti amministratori che hanno abbandonato con dolore una missione che gli era stata assegnata dai cittadini. Ho conosciuto tanti che non si sono ricandidati, tanti che si sono dimessi perché sottoposti ad un’indagine che poi ha portato all'archiviazione, tanti che si sono ammalati».

Sisto ha assicurato l’intenzione del Governo «di mettere ordine» alla materia. «C’è la necessità - ha detto a margine del convegno - di intervenire sul reato di abuso di ufficio. Siamo di fronte a cinquemila iscrizioni sul registro degli indagati in un anno, con sole 27 sentenze di condanna. Si valuterà se cancellare la norma o intervenire per rendere più tipiche alcune forme di abuso di ufficio, in modo da evitare che questa norma incida negativamente sulla fisiologia dell’attività amministrativa». Contemporaneamente il ministro Carlo Nordio ha annunciato l’intenzione di riformare le intercettazioni e le regole per la loro pubblicazione, «per evitare la corsa al gossip», quella che dà vita al processo mediatico, «molto spesso - ha sottolineato Sisto - più punitivo del processo svolto nelle aule di tribunale».

Il viceministro ha richiamato l'articolo 8 del Codice deontologico dei giornalisti, che impone il rispetto del principio della presunzione di innocenza. Che però spesso rimane ai margini, in una sorta di «accanimento terapeutico che, in nome dell'articolo 21, diventa, a mio avviso, un eccesso inaccettabile, perché provoca danni e tutto sommato non accontenta la fondamentalità del diritto dell'articolo 21, contemperato dal 15 e dal 27. E allora se ne ha questo ci aggiungiamo la deontologia ha ragione che dice che probabilmente dobbiamo riprendere il tema delle responsabilità».

L’idea di abolire o modificare il reato di abuso d’ufficio non piace al presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia, secondo cui «sembra che si vogliano ridimensionare le capacità investigative proprio nel momento in cui si dovranno gestire i fondi del Pnrr». Il processo penale, ha affermato il leader del sindacato delle toghe, «tranne casi eccezionali, non è il luogo della segretezza». E nemmeno le indagini, per le quali il segreto è limitato a «singoli atti». Perché «il segreto è contrario alla democrazia e va usato con cautela e in maniera eccezionale. Può servire anche a proteggere diritti fondamentali - ha aggiunto -, però non è una struttura pesante nel processo penale, che deve essere aperto. Tanto più il fatto ha creato allarme sociale tanto più ci sarà attenzione: è impossibile pensare di creare una paratia intorno al processo per renderlo impermeabile alla legittima curiosità della pubblica opinione che vuol sapere cosa succede». Il che non significa violare i segreti investigativi, ma rendere trasparente il potere. Proprio per tale motivo ridimensionare le intercettazioni «è un messaggio politico che continuo a non comprendere, almeno finché non verrà dettagliato». Parole che hanno suscitato meraviglia in Sisto: «Il segreto, nel nostro codice di rito, nella fase delle indagini è la regola. Questo liberismo dell’Anm mi stupisce, perché non solo non tutela il processo e l’indagato, ma non tutela il cittadino. Il processo penale non è calibrato su magistrati e avvocati, ma sul cittadino».

L'azione di Nordio sulla contestata norma. Abolire il reato di abuso d’ufficio non basta: il problema è la classe dirigente dei comuni. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Novembre 2022

Il procuratore Gratteri, in una largamente condivisibile intervista resa alla Stampa di ieri, ha sostanzialmente dato il suo via libera alla riforma dell’abuso d’ufficio che il ministro Nordio ha iscritto tra le prime incombenze dell’agenda ministeriale. Con la solita schiettezza il magistrato calabrese ha ricordato quel che tutti sanno ossia che l’articolo 323 del codice penale è diventato solo uno spauracchio per i pubblici amministratori, soprattutto locali, ma che si tratta ormai (e da tempo) di una norma praticamente priva di ricadute applicative nelle aule di giustizia.

La riforma pentastellata del 2020 aveva già compresso e compromesso il perimetro di punizione voluto dal codice penale e la modifica annunciata dal ministro Nordio dovrebbe praticamente solo ratificare quella che a tutti gli operatori risulta essere una già effettiva abrogazione di fatto del reato. L’idea di meglio descrivere la condotta punibile, e di restringerla ai soli casi in cui l’amministratore operi con l’esclusivo intento di avvantaggiare o danneggiare qualcuno, dovrebbe di molto limitare lo spauracchio delle indagini e dei processi che tanto affligge chi si occupa della cosa pubblica. È innegabile che l’amministrazione, soprattutto locale, patisca da anni la cosiddetta "sindrome della firma" ossia la paura di sottoscrivere atti che possano poi dar luogo all’intervento delle procure della Repubblica.

Certo incidere sull’abuso d’ufficio dovrebbe alleggerire sindaci e assessori dal timore di avere la polizia giudiziaria per casa o in ufficio, ma non si può ignorare che stanno venendo al pettine questioni irrisolte dell’apparato burocratico periferico che eventi drammatici come quello di Ischia o paralisi gestionali come quelle sull’impiego delle risorse (anche del Pnrr) non fanno altro che rendere ancora più urgenti.

In primo luogo, non si può non prendere atto del livello mediamente (ovvio) scadente della classe dirigente locale in Italia. A capo di amministrazioni medio-piccole e non solo si rinvengono troppe volte figure sprovviste di vere competenze amministrative e che fanno della conquista e della conservazione del consenso il loro unico obiettivo, magari nutrito dell’aspirazione agli scranni più alti e remunerati delle regioni o del parlamento.

Alla fuga dei "migliori" dalla politica che affligge tutte le istituzioni negli ultimi due decenni almeno, è corrisposta una desertificazione della classe dirigente locale con il costituirsi di piccoli principati, enclave e qualche volta clan che agiscono in proprio e in modo totalmente autoreferenziale. In questa palude l’abuso d’ufficio esercita un modesto effetto deterrente nelle cooptazioni, nelle concessioni, nelle inerzie (soprattutto in tema di violazioni edilizie) che segnano la bassa qualità delle amministrazioni locali. In nome dell’autonomia e del localismo si è largheggiato nel consentire la costituzione di staff, consulenti, uffici di supporto, incarichi esterni e rispetto a questi gangli clientelari l’articolo 323 serve a poco o a nulla.

Due ricadute. Gli amministratori, impegnati nell’estenuante conservazione del consenso, seguono poco la concreta vita della macchina burocratica e si affidano ai capi di essa per tutte le questioni rilevanti. Donde la diffidenza verso apparati che non sono stati scelti da loro e che continueranno a operare dopo di loro al servizio del prossimo ras locale. La riforma Bassanini, insomma, meriterebbe un’attenta revisione. Una recente indagine ha dimostrato che, malgrado le riforme legislative sul punto, negli uffici dei comuni sciolti anche più volte per mafia operino sempre gli stessi funzionari e dirigenti che sono la vera spina dorsale del potere amministrativo locale. La "paura da firma" è, quindi, anche il frutto di una congenita diffidenza verso dirigenti e funzionari che il politico eletto si ritrova nei posti-chiave, che non ha il coraggio di far ruotare, che preferisce blandire anziché controllare. Ogni firma, però, può essere un’imboscata tesa da infidi ausiliari assunti negli anni da altre cordate e ora potenzialmente ostili.

I metodi di assunzione e selezione del personale a livello locale, soprattutto nel Mezzogiorno, sono ampiamente discutibili. Nei decenni si è consolidato un circuito clientelare e abusivo che, soprattutto grazie alle periodiche "stabilizzazioni" e "regolarizzazioni", si è impossessato delle macchine burocratiche locali e regionali. Troppe volte a discapito della competenza e della professionalità. Donde il secondo problema: la cronica insufficienza di personale esperto che possa svolgere i delicati compiti rimessi alla macchina amministrativa locale. Come pianificare interventi complessi, regolazioni urbanistiche, risanamenti territoriali se non si dispone di personale che sappia finanche predisporre un modesto bando di gara o approvare un progetto esecutivo. Il dramma delle varianti in corso d’opera che paralizzano per anni e anni i cantieri è un ginepraio inestricabile di corruzioni, incapacità e inadeguatezze. Pochi sono gli eletti disponibili a sottoscrivere atti di cui poco capiscono, ma per i quali fiutano a occhio e croce l’insufficienza di chi li predispone.

In questo guazzabuglio arrivano le procure della Repubblica, con il loro carico di inevitabili esposizioni mediatiche, spettacolari acquisizioni di documenti, perquisizioni e quant’altro. Il processo mediatico supplisce all’incerto processo penale (come ha riproposto di recente Vittorio Manes, Giustizia mediatica, Il Mulino, 2022) ed è questo il vero problema che tanto impensierisce la politica. Tutti sanno che i processi si perdono per strada, tra una prescrizione e un’assoluzione sulla fedina penale degli amministratori finiscono una manciata di condanne definitive. Ma le tribolazioni mediatiche, il calpestio sulla presunzione di innocenza sono timori reali in cui la "sindrome della firma" assume i contorni di una "paura della gogna" ben più efficiente e irreparabile dell’iscrizione nel registro degli indagati e moltiplicata all’infinito dagli implacabili motori di ricerca su internet.

Abolire o, comunque, contrarre l’area del reato di abuso di ufficio è una soluzione piuttosto bizzarra e certo insufficiente se il fine fosse quello di porre rimedio a problemi di questa complessità che, come visto, mettono in pericolo la vita dei cittadini, l’incolumità delle case, la sicurezza del territorio, l’efficienza dei servizi. Si dovrebbero inaugurare politiche di vero ricambio e riqualificazione del personale, centralizzare attività di progettazione e manutenzione, accorpare servizi complessi, agevolare il ricorso alle esternalità competenti snellendo gli elefantiaci apparati burocratici. L’unica strada per arginare la "paura della firma" è quella di rendere affidabili gli uffici e sicura la collaborazione; anche se è vero che contenere lo sventolio del nodo scorsoio mediatico ha pure i suoi innegabili vantaggi per la serenità di chi deve governare in condizioni così difficili.

Alberto Cisterna

Meloni dichiari guerra ai mandarini di Stato. Il retroscena sul governo. Luigi Bisignani il 27 novembre 2022 su Il Tempo.

Caro direttore, SOS manovra anticalcare a Palazzo Chigi. Ora che la legge di bilancio è stata approvata e inizia il suo tradizionale iter burrascoso in Parlamento, Giorgia Meloni, per non rimanere ingorgata, deve iniziare la rivoluzione vera nei gangli dove davvero il potere si esercita: tra i mandarini nei ministeri da subito e nelle aziende pubbliche in scadenza. Con le poltrone chiave quasi tutte in mano a persone irriducibilmente genuflesse al Pd e i centri finanziari da sempre ostili al centrodestra, il presidente del Consiglio sa bene che va operata una vera e propria rivoluzione copernicana se vuole che le decisioni coraggiose che sta mettendo in atto prendano corpo. Del resto, lo «spoil system» degli incarichi pubblici è ormai una prassi consolidata anche nelle più illuminate democrazie. Anche se, a differenza dei primi governi Berlusconi-Gianni Letta, che chiamarono la crème tra i «grands commis de l'État» (Catricalà, Frattini, Monorchio e Masi, per fare qualche nome), va detto che il personale nei gabinetti del governo Meloni, salvo alcune eccezioni, non è certamente di primo livello e questo creerà dei problemi con le direzioni generali.

A titolo esemplificativo, non può essere di certo l'Avvocato dello Stato Stefano Varone, onesto e operoso Capo di gabinetto del ministro Giorgetti, a fronteggiarsi con un personaggio chiave come il Dg del Tesoro Alessandro Rivera, da sempre nella galassia Pd e responsabile, assieme alla sua struttura, di scelte a dir poco discutibili. Per citarne solo tre, la vicenda Mps, così cara al Nazareno, poi il ridicolo affaire Alitalia, dove ha sposato una cordata, a dispetto sembra perfino del suo ministro dell'epoca Daniele Franco e dello stesso Super Mario, per poi tornare in queste ore sui suoi passi e, da ultimo, l'imposizione nel cda di Tim del presidente di Cdp Gorno Tempini, pretoriano di Guzzetti e Bazoli, in pieno conflitto di interessi il quale dovrà dimettersi per aver portato avanti, dettando i tempi come un metronomo, la proroga di un'offerta accantonata definitivamente, con la Consob che dovrebbe ora vigilare.

E proseguendo su Tim, il ragionamento non può non toccare il sempre più disorientato Dario Scannapieco, fresco di una sontuosa cena al Museo Egizio di Torino dove, oltre alle mummie esposte evocative della sua politica immobilista, è arrivato accompagnato da una pletora di collaboratori. Forse solo per decenza lo stesso Rivera, che a breve dovrebbe essere sostituito al Tesoro da Stefano Cappiello - attuale numero due della direzione generale dopo che il principale pretendente Antonino Turicchi è volato in Ita - ha dato forfait all'ultimo minuto. Sempre su Tim, a parte gli sforzi del suo ufficio stampa, Scannapieco ha cancellato in un flash tutti i suoi propositi di offerta della rete che ha portato avanti per mesi, con il risultato di paralizzare l'azienda, il settore e, fatto ancor più grave, disorientando anche i mercati. Il Governo lo ha talmente sconfessato, senza che lui se ne sia ancora accorto, tanto che il sottosegretario con fresca delega Butti pare stia lavorando a una nuova proposta insieme agli altri protagonisti, a partire proprio dai francesi di Vivendi, che la Cassa di Scannapieco ha invece sempre ignorato. Ma se il tema Tim deve essere «governativo», è il Governo che deve operare per la sua risoluzione e il piano Minerva può rappresentare una soluzione. Cdp dovrebbe infatti coordinare i fondi infrastrutturali per lanciare un'Opa su Tim alla quale anche i francesi di Vivendi potrebbero partecipare ovvero essere liquidati al prezzo di Opa.

Le obiezioni che Cdp non ha la cassa necessaria per realizzare l'operazione sono sterili perché a questo Governo, lungi dal controllo sugli utili, interessa quello sulla governance. Senza contare che comunque Tim ha già venduto circa mezza rete a Kkr e lo stesso ha fatto Cdp con OpenFiber.

Tornando ai mandarini inamovibili, un altro esempio è il posto in Mediocredito Centrale dove, come presidente assieme ad altri mille incarichi, siede l'avvocato Massimiliano Cesare, un napoletano da sempre «tazza e cucchiaino» con Enrico Letta. Comunque, prima ancora di aggiornare il Pnrr all'inflazione, l'Esecutivo dovrà aggiornare i vertici di quella moltitudine di strutture di missione ad hoc di cui il «governo dei migliori» ha infarcito tutti i ministeri.

Per ora, solo Matteo Salvini si è mosso, accettando, si fa per dire, le dimissioni di Giuseppe Catalano, inchiavardato lì sin dai tempi del ministro piddino Delrio. Tra i vertici da aggiornare, la Segreteria tecnica del Pnrr, guidata da Chiara Goretti, e il Nucleo Pnrr Stato-Regioni, che fa capo al Dipartimento per gli Affari Regionali ed è capeggiato da Gianni Bocchieri, inviso alla zarina Licia Ronzulli. Quest' ultimo, fondamentale per il ruolo che nell'attuazione del Pnrr hanno gli Enti Locali, non è riuscito a sbloccare i colli di bottiglia nel flusso delle risorse dalle amministrazioni centrali a quelle a valle. In quest' ottica non si capisce perché Raffaele Fitto abbia portato con sé proprio la ex Capo dipartimento degli Affari Regionali, Gilda Siniscalchi, che quegli imbuti ha contribuito a creare.

La Segreteria tecnica, invece, si è limitata nel tempo a ratificare obiettivi raggiunti solo sulla carta e la cui mancata effettiva attuazione costerà cara al governo Meloni, cui verrà ingiustamente attribuita una responsabilità che non è sua. Non mancherà di sottolinearlo alla premier il suo consigliere economico, di recente nomina, Renato Loiero, per vecchie ruggini con la dottoressa Goretti risalenti al periodo in cui lavoravano entrambi al Servizio Bilancio del Senato. Il grande consenso che la Meloni ha nel Paese passa anche dal rimuovere le troppe incrostazioni nel «deep State» senza le quali ogni decisione dell'Esecutivo viene fatta rimbalzare all'infinito. Giorgia continui a fare di testa sua perché così finora ha vinto e non si faccia distrarre dalle sirene che troppo spesso vengono dai Colli più alti o dalle colline dell'Umbria. 

Fax e cablogrammi. Storia della mia lotta contro la burocrazia, il reddito diffuso di milioni di incompetenti. Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Ottobre 2022.

Che sia ritirare cinquemila euro in banca, fare un passaporto in questura o un esame in ospedale, non puoi mai ottenere subito ciò che vuoi. Mai. In nessun caso. Neanche se regni su un impero

Nell’agosto del 2021 ho passato una mattinata a cercare di farmi dare i miei soldi dalla mia banca: dovevo saldare cinquemila euro al traslocatore che aveva portato i miei mobili da una casa a un’altra, e allo sportello della banca si avvicendavano sempre nuovi funzionari che in sempre più fantasiosi modi si rifiutavano di darmi i soldi con cui pagare il traslocatore in nero. È forse questo un articolo sull’eroica banca che impedisce i pagamenti in nero qualunque governo ci sia? Mmm, no.

Nell’agosto del 2022 ho passato un paio di settimane in questura. Ci andavo quasi tutti i giorni, cercando di capire se avrei mai ottenuto un passaporto con cui poter partire per l’Inghilterra all’inizio di settembre. È forse questo un articolo sul fatto che Milano è una città civile dove c’è un ufficio per i passaporti urgenti, e a Bologna se chiami l’ufficio stampa della questura per chiedere se tale ufficio esista ti risponde una tizia che dice «Non le so queste cose, il mio lavoro è dare informazioni ai giornalisti»? Mmm, no.

Nell’ottobre del 2022 ho passato un’intera giornata al telefono con dischi automatici che promettevano che prima o poi mi avrebbe risposto un cristiano, cristiano che avrebbe dovuto prenotarmi una tac, tac che secondo tutti conveniva fare in un ospedale pubblico che aveva acquistato un nuovo modernissimo macchinario. Alla fine il cristiano mi ha risposto, e mi ha detto no io non posso prenotargliela, le mando le istruzioni per mail, tipo caccia al tesoro. Alla fine le istruzioni sono arrivate e dicevano che in quell’ospedale l’esame modernissimo andava prenotato via fax. È forse questo un articolo per dire a Stefano Bonaccini di trasferire in questo secolo la sanità dell’Emilia Romagna, per la quale si spreca moltissimo la parola «eccellenza» ma per prenotare un esame devi mandare un cablogramma? Mmm, no.

In tutti questi casi – la banca, la questura, l’ospedale – io sono solita citare una scena d’un film con Romy Schneider che passava spesso alla tele quand’ero piccola, La giovane regina Vittoria. In una scena verso la fine, quando lei è già innamorata e Alberto sta per arrivare a Kensington Palace e Vittoria vuole fare buona impressione, la regina strepita che il palazzo sia freddo e le finestre sporche. La dama di compagnia (interpretata da Magda Schneider, la madre) convoca un valletto, che però desolatamente comunica: «I lacchè reali dipendono dal caposcuderia, e non possono nemmeno toccare le finestre». Quanto ai caminetti, «il lord apparecchiatore fa preparare la legna, e il lord cameriere accende il fuoco, ma prima di settembre non esiste un pezzo di legna al castello». Il film è del 1954, e già il riscaldamento tardava come nell’autunno del gas russo di sette decenni dopo.

La dama di compagnia insiste, e il valletto torna, sempre più desolato: «Dall’interno, maestà, le finestre dipendono dal dipartimento del maggiordomo di corte, dall’esterno dall’amministrazione boschi e foreste». Se la regina Vittoria non riusciva a far pulire le finestre, posso io pretendere di prenotare un esame con una telefonata, con una mail, col fascicolo sanitario elettronico (l’invenzione che più promette e meno mantiene di tutti i tempi)?

Se ci sono due dipartimenti per i vetri esterni e quelli interni di Kensington Palace, posso io meravigliarmi se, nella divisione per regioni della sanità italiana, quando in Emilia mi consegnano il certificato vaccinale della mia intera vita, esso contenga la profilassi per la febbre gialla fatta nel 1981 ma non le prime due dosi del vaccino per il Covid, che saranno pure dell’anno scorso ma sono state fatte in Lombardia e mica pretenderemo si scambino informazioni?

Se la regina non riesce a precettare il lord apparecchiatore e il lord cameriere, posso io averla vinta con funzionari che sostengono che se mi danno tutti i (miei) soldi che chiedo poi non gli resteranno contanti in cassaforte? (Sotto i materassi degli italiani ci sono più banconote che nella cassaforte della mia banca).

Il fatto è che, sebbene io da quarant’anni di fronte a ogni ostacolo ripeta «i vetri esterni dipendono dall’amministrazione boschi e foreste» (un riferimento che capiamo in tre), non ho evidentemente ancora introiettato il portato dell’informazione. Ovvero: contro la burocrazia stupida non puoi vincere. Mai. In nessun caso. Neanche se regni su un impero.

(E infatti Giorgia Meloni, che mica è scema, si è ben guardata dal prometterci che non dovremo pagare tre cifre diverse in tre posti diversi, tre cifre che vanno tutte allo Stato ma tu devi incomodarti tre volte, per fare il passaporto: ha promesso di alzare il tetto del contante, che è molto meno infattibile che risparmiarti il giro delle tabaccherie perché ti serve un bollo da 73 euro e mezzo ma le tabaccherie hanno un tetto ai bolli che possono emettere ogni settimana: una non vorrebbe dire «kafkiano», ma la costringono).

In una delle giornate passate in questura lo scorso agosto, dopo un’ora di fila sono stata rimandata a nuova udienza perché non avevo portato la stampata del modulo contenuto nella mail con cui mi confermavano l’appuntamento. Ma me l’avete mandato voi, ce l’avrete. Lo deve portare stampato.

Quel giorno erano aperti anche il pomeriggio, quindi ho atteso che pranzassero comodamente e sono tornata tre ore dopo, dopo aver dato dei soldi a un cartolaio perché mi stampasse il prezioso modulo, e anche dopo averlo compilato (avevo tre ore da far passare). Il tizio allo sportello l’ha stracciato: dovevo firmarlo davanti a lui, sennò come faceva a sapere che la firma fosse mia? Non ho chiesto perché mai avrei dovuto far firmare da qualcun altro il modulo di richiesta del mio passaporto, e – vile – quando ha ristampato lui i moduli che avrei quindi firmato al suo cospetto non gli ho neppure detto: ma brutti stronzi, non potevate stamparli voi già stamattina, invece di farmi perdere mezza giornata?

Nel pomeriggio del giorno in cui ho rinunciato a prenotare l’esame via fax in ospedale, il centralinista della clinica in cui lo stavo prenotando a pagamento mi ha detto che avrei dovuto presentarmi il giorno dell’esame con un modulo in cui il mio medico di base certificasse che non sarei morta se mi iniettavano un mezzo di contrasto. Ho detto: scusi, ma non posso autocertificarlo? Il medico di base non mi ha mai vista prima, mentre io so con una certa qual certezza di non essere morta a nessun esame con mezzi di contrasto precedente. Giuro che mi ha risposto: «Il medico ha una laurea». Sapendo bene che non avrei voluto fare la figura di quella che rivendica l’università della vita. E che avrei quindi perso un’ora ad andare da uno che non mi aveva mai vista e che ha messo delle crocette su un modulo dopo avermi chiesto se avessi insufficienze renali. Le crocette che avrei messo io, ma con la laurea sua.

È forse questo un articolo che dice che qualunque lord apparecchiatore, e medico di base che mette crocette sotto dettatura ma dopo aver fatto spendere i genitori per farlo studiare, e cartolaio vicino alla questura che stampa moduli a pagamento, e fabbricante di fax comprati dalla sanità emiliana, che tutti loro resteranno disoccupati se ci liberiamo della burocrazia, e che perciò la burocrazia è una forma di reddito diffuso?

Non so, ma di sicuro è un articolo che si domanda: ma se io sono dovuta tornare due mattine in banca perché cinquemila euro me li davano a rate sennò non gli restavano i soldi per la merenda, quelli che prelevano diecimila euro con tanto agio sono forse correntisti altrove?

Sotto il diluvio degli «omissis». Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022

Come l’esasperazione del linguaggio burocratico serve a nascondere protagonisti di vende discutibili

«Il responsabile dell’abuso edilizio, in qualità di proprietario degli immobili censiti in catasto terreni al Fg. 5 mappale n. 516, risulta essere la ***** - p.IVA *****, con sede a ***** via *****, legalmente rappresentata dal sig. ***** nato a ***** il ***** – C.F. ***** residente a ***** in via *****, in qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione». Dieci omissis su 59 parole! Più di uno ogni sei!

L’ordinanza n. 32 di «rimessa in pristino per opere realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali (art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i.)» pubblicata sull’albo pretorio di Bolzano Vicentino, un paese di 6.384 abitanti sulla strada Vicenza-Cittadella merita il Guinness dei Primati. Sia chiaro: il ricorso agli asterischi per occultare i protagonisti di vicende che possano sollevare scandalo fra i corregionali o i concittadini è vecchio. E ha visto episodi stupefacenti. Come una delibera della Regione Calabria del 2013 che stabiliva di «liquidare all’on. (Omissis) l’assegno mensile di euro 6.647,67 al lordo delle ritenute di legge, a titolo di vitalizio maturato per il mandato di Consigliere Regionale». E chi era questo «omissis» che andava a prendere un vitalizio sette volte più alto del reddito pro capite calabrese? L’ex potentissimo assessore regionale Mimmo Crea. Condannato due anni prima a cinque anni e mezzo di carcere per peculato. «Eh, la Calabria!» Sbuffano i nordisti più fanatici.

Stavolta «l’omissis», come hanno raccontato il Giornale di Vicenza e Vicenza Today, copre invece Daniele Galvan, il sindaco di Bolzano Vicentino il cui mandato scade nella primavera 2023 anche se le opposizioni vorrebbero dimissioni lampo. Non solo per il pessimo esempio dato con l’abuso da demolire («una platea di 7 metri per 6 per una altezza di 30 centimetri, tra l’altro occultata con quindici centimetri di terreno di riporto, in area di vincolo paesaggistico e all’interno di una fascia di rispetto idraulico»). Ma anche per non avere mai risposto alle contestazioni di avversari e giornali. Pesa come un macigno la strabiliante e ridicola grandinata di asterischi (non ci crederete: «ragioni di privacy») che nell’ordinanza appena citata nasconde i nomi, i ruoli, gli indirizzi non solo del sindaco ma perfino del suo avvocato. Cinquantadue omissis (52!) su due pagine dopo tre di premesse: richiamato… preso atto… visto... Verificato…

Golden power. Lo strano paese dove per fare impresa bisogna chiedere il permesso allo Stato. Istituto Bruno Leoni su L'Inkiesta il 26 Luglio 2022.

Si parla spesso di riduzione della burocrazia, ma i confini dei poteri speciali del governo si sono continuamente dilatati in questi ultimi anni con interventi ripetuti e disordinati: il settore privato ormai si sente in dovere di domandare sempre il disco verde alla politica. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta 

Una delle principali missioni che si è assegnato il governo Draghi – e uno dei principali temi della campagna elettorale appena iniziata – è la semplificazione e la riduzione delle pastoie burocratiche. Sarebbe bello se questo slogan evergreen si trasformasse, ogni tanto, in un fatto.

L’amara verità è invece che anche i “semplificatori” a parole complicano nei fatti. Prendiamo, per esempio, il caso del golden power. Secondo quanto si apprende da un articolo di Affari e Finanza, nel 2021 a Palazzo Chigi sarebbero arrivate ben 496 notifiche – 1,3 al giorno considerando tutte le 365 giornate, 1,9 considerando solo quelle lavorative – che avrebbero portato a interventi in ventisei casi e l’opposizione del veto in uno soltanto. Nel 2020, a fronte di 341 notifiche i poteri speciali erano stati esercitati 37 volte più un veto. Nel 2019, le notifiche erano state 83 e i casi in cui i poteri erano stati esercitati 13.

Da questi numeri si colgono due tendenze, strettamente legate l’una all’altra. Da un lato è letteralmente esploso il numero di operazioni giunte all’attenzione della Presidenza del Consiglio. Dall’altro, è calata la proporzione di quelle che hanno condotto ad azioni effettive.

Se quest’ultima è nel complesso una buona notizia, non lo è la prima: essa trasmette infatti la percezione che le circostanze in cui le imprese si sentono (o sono) in dovere di cercare il disco verde alla politica è in continua crescita.

È importante che, almeno finora, i poteri speciali siano stati utilizzati solo in una minoranza dei casi: ma quel che conta è che l’Italia sta diventando lentamente, e quasi senza accorgersene, un paese nel quale un’impresa, per svolgere la sua attività, sempre più spesso deve chiedere il permesso.

Il problema è che i confini del golden power si sono continuamente dilatati in questi ultimi anni, con interventi ripetuti e disordinati di allargamento delle fattispecie potenzialmente esposte a notifica. Questo ha anche comportato una crescente vaghezza, che nulla ha a che vedere con la casistica abbastanza precisa e chiara definita dal governo Monti nel 2012. Sicché, nel dubbio, le imprese notificano, alimentando un girone infernale di carte bollate utili a nulla se non a proteggersi contro il rischio di essere rintuzzate ex post con tutte le conseguenze del caso.

Oltre alla proliferazione delle notifiche, dall’esame dei casi in cui i poteri sono stati utilizzati emerge un pattern abbastanza preoccupante: spesso il governo pone prescrizioni irricevibili che vincolano, o addirittura fanno saltare, il deal, prescrizioni che è difficile definire strategiche, del valore di pochi milioni di euro, e che però rappresentano per le aziende che intendono effettuarli la differenza tra una prospettiva di crescita e una di stagnazione.

Il motivo ideologico della “sicurezza nazionale” diventa una corda alla quale impiccare il principio del diritto di proprietà e fa impressione che uomini politici e partiti che vorrebbero essere “pro-business” fingano di non accorgersene.

Il golden power è, in un certo senso, l’apoteosi dello statalismo. Possono esserci ragioni per sottoporre a scrutinio alcune specifiche operazioni, relative al controllo di attivi “strategici” (qualunque cosa ciò voglia dire) e al coinvolgimento di soggetti provenienti da paesi non democratici e non legati a noi da accordi di libero scambio e di protezione degli investimenti. Come Istituto Bruno Leoni abbiamo fatto delle proposte in tal senso. Il problema è che non stiamo assistendo al tentativo pragmatico di affrontare in modo moderno il tema della sicurezza nazionale. Siamo davanti a una forzatura in virtù della quale un numero di operazioni sempre più ampio e indefinito, nel nome di un concetto vago e onnicomprensivo di sicurezza nazionale, viene esposto a decisioni fondamentalmente arbitrarie da parte del potere politico.

Come abbiamo detto in passato, il golden power in questi termini appare come un esproprio mascherato perché implica che i proprietari non possono disporre realmente dei loro beni: devono prima acquisire il consenso del principe. In una campagna elettorale assennata si discuterebbe di come rivedere il campo di applicazione del golden power. Temiamo invece che, anche su questo, la politica possa finire a giocare con le bandierine.

·        La malapianta della Spazzacorrotti.

Il ritorno alla normalità ha fatto impazzire il mondo grillino. Scarpinato e Travaglio furiosi: così ci demoliscono la spazzacorrotti! Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

È bastato fare il solletico alla legge “spazzacorrotti” di Conte-Bonafede perché la Presidente del Consiglio fosse considerata amica dei ladri, quella che porta la borsa con la refurtiva del Guardasigilli. Eppure, con la votazione di due giorni fa, il Senato non ha fatto altro che cominciare a tirar giù un mattoncino con cui il furore grillino aveva equiparato a un mafioso o un terrorista chi commetteva un reato contro la pubblica amministrazione. Si torna a prima del 2019, semplicemente.

Il pubblico ufficiale che si sia reso responsabile di reati come la corruzione o la concussione sarà arrestato, processato e condannato esattamente come è sempre accaduto prima che i giacobini si impadronissero del governo. Si torna alla normalità. E questo pare inaccettabile. Lo ha detto in aula il senatore Scarpinato, che dopo trent’anni e miliardi spesi per nutrire squadre intere di “pentiti”, dichiara fallimento perché cerca ancora la “verità” sulle stragi degli anni 1992-93. E vuole in galera per sempre i pubblici amministratori allo stesso modo dei mafiosi. “Pentiti” esclusi, naturalmente. Lo gridano i giornalisti di complemento, facendo il gioco delle tre carte e appellando la presidente Meloni come “amica dei ladri”.

Ma il Senato ha vissuto una giornata in cui la zampata del ministro Nordio ha lasciato l’impronta, dopo dichiarazioni pubbliche in cui aveva già raddrizzato la rotta, in seguito alla prima strampalata versione del “decreto rave”. Il famoso provvedimento che aveva trasformato d’improvviso le opposizioni al governo Meloni in una squadra di pannelliani, e che comunque noi continuiamo a ritenere quanto meno inutile, ha assunto nella prima votazione del Senato una faccia decisamente più bonaria. Prima di tutto il reato, da delitto contro l’incolumità pubblica scende di livello e diventa contro il patrimonio, punendo in definitiva, se pure in modo severo con pene fino a sei anni di carcere, solo i promotori e gli organizzatori dei rave party.

Una discreta verniciata di garantismo, dietro la quale si intravede la mano di Forza Italia e del suo capogruppo in Senato Pierantonio Zanettin. Cui dobbiamo anche quell’emendamento che sottrae i reati contro la Pubblica Amministrazione da quelli “ostativi” rispetto ai benefici di legge, che è ben più di una iniziativa individuale. È una scelta politica dell’intero governo, che è stata subita dal mondo grillino come un colpo micidiale sparato al cuore della “Legge spazzacorrotti” di Conte e Bonafede. Il mondo di Travaglio e Scarpinato è parso impazzito. Si sono messi tutti a correre come i criceti sulla ruota. Hanno sparato insulti e falsità. Il senatore grillino ha svolto la propria parte con onore e disciplina rispetto allo stile del proprio partito.

Poi, mentre un direttore del Fatto limitava le proprie ossessioni a quel che sta succedendo al Parlamento Europeo e il Pd, evocando la questione morale di Berlinguer di 40 anni fa, l’altro direttore apostrofava la Presidente del Consiglio con toni da nervi saltati. Cercando di imbrogliarla, prima di tutto. Perché non è vero che il Senato ha stabilito che “i condannati definitivi per corruzione e altri gravi reati contro la Pubblica Amministrazione possano scontare la loro pena senza trascorrere nemmeno un giorno in prigione”. Ed è inutile appellarsi a quell’infausta dichiarazione con cui Giorgia Meloni si era definita “garantista” durante il processo e “giustizialista” nell’applicazione della pena. Perché comunque la presidente ha scelto, persino forzando il garantista Berlusconi, un ministro che ha ribadito anche in questi giorni come non tutto debba essere prigione e manette.

Mentre sollecitazioni come quella della lettera del Fatto cercano di sospingere la premier verso un trapassato prossimo della sua storia politica, quasi dimenticando che sia in Alleanza Nazionale che poi nel partito Futuro e Libertà di Gianfranco Fini è esistita anche una cultura di destra tutt’altro che forcaiola. Anche se in Fratelli d’Italia è in parte ancora da costruire. Il codice penale nella sua normalità non fa sconti ai pubblici ufficiali infedeli. E le regole sui benefici di legge previsti a partire dal momento in cui il condannato ha scontato almeno un terzo della pena, valgono per tutti, con l’esclusione appunto dei reati cosiddetti “ostativi”, che in gran parte sono delitti contro la persona e la sua incolumità.

In particolare stiamo parlando di terrorismo e mafia. Ma anche di riduzione in schiavitù o violenza sessuale di gruppo. Cioè di responsabili di delitti che comportano situazioni di pericolo, rispetto alle quali, per chi ci crede e ritenga che la soluzione unica per sanzionare chi ha strappato le regole della convivenza civile, sia quella di rinchiudere le persone, il carcere può avere un senso. Per gli altri no. E comunque la reclusione non può essere eterna, dal momento che, come ha detto la Consulta, lo stesso ergastolo sarebbe in contrasto con la funzione rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione, se non esistesse per il condannato la possibilità di godere di quei benefici previsti dalla legge che prima o poi gli restituiranno la libertà.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Viviamo nel Paese degli azzeccagarbugli. Alla fine puoi pensarla come vuoi, essere di destra o di sinistra, ma appena entri in una qualsiasi stanza dei bottoni ti accorgi che, con le leggi che ci sono in questo Paese, il mestiere più complesso, quasi impossibile, è governare. Augusto Minzolini su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Alla fine puoi pensarla come vuoi, essere di destra o di sinistra, garantista o giustizialista, ma appena entri in una qualsiasi stanza dei bottoni, dai ministeri, alle Regioni, ai Comuni, ti accorgi che, con le leggi che ci sono in questo Paese, il mestiere più complesso, quasi impossibile, è governare.

Ieri se n’è accorta anche Giorgia Meloni quando ha riproposto, davanti all’assemblea dei sindaci, la «questione» di quello strano reato, riformato più volte, ma che continua ad incutere paura a chiunque debba mettere una firma su un atto amministrativo, su una disposizione, su una nomina, che è il famigerato «abuso d’ufficio». Semplificato o meno, tale è la fumosità che ancora circonda la norma che nessuno si sente al sicuro e con la magistratura che ci ritroviamo ovviamente la reazione è quella di stare fermi, di muoversi il meno possibile. Insomma, sei portato a non decidere, a non scegliere, in sintesi, a non governare. Il dramma è che la revisione di questa norma non è stata neppure inserita tra le riforme che dovevano accompagnare il Pnrr. Un paradosso.

Così nei comuni aleggia la «paura» della firma, che, in un modo o nell’altro, echeggia anche nei piani di governo superiori. La miscela che mette insieme questo timore con l’eccesso di burocratizzazione blocca il Paese, i tempi dei progetti e della realizzazione delle opere si allungano. Mentre le carte bollate riempiono gli uffici dei tribunali o del Tar: ci sarà un motivo se solo a Roma lavorano trentamila avvocati e se il numero di legali in Italia supera quello di Germania e Francia messe insieme. Siamo in mano agli azzeccagarbugli. Risultato: hanno impiegato meno gli Egizi ad erigere la piramide di Cheope che le istituzioni di questo Paese a realizzare qualche linea della metropolitana di Roma. È una cappa che è diventata congenita, che rallenta tutto e ora rischia di esercitare la sua influenza negativa pure sulle opere del Pnrr. Basta un nonnulla e tutto si blocca con il rischio di perdere i fondi europei.

Solo che queste incrostazioni, questi meccanismi perversi sono diventati cronici e se il legislatore non interviene con mano ferma, in tempi brevi, rischiamo di dover spiegare all’Europa ritardi inaccettabili. Anche perché l’inflazione ha fatto lievitare i costi delle opere e le imprese ora pongono il problema che i preventivi di spesa che hanno presentato in alcune gare sono saltati e vorrebbero una loro revisione. Un meccanismo perverso che ha messo in bilico 40 miliardi che ci dovrebbero arrivare da Bruxelles. Ma, soprattutto, paralizza la costruzione delle grandi opere di questo Paese: due giorni fa il Tar ha bloccato il nodo dell’alta velocità di Bari sud per salvare gli alberi di carrube. Immaginate cosa significhi costruire il Ponte di Messina con questa legislazione. A Genova, addirittura, c’è chi, invece di dargli una medaglia, ha posto il problema dell’ineleggibilità del sindaco Bucci per il suo ruolo di commissario alla ricostruzione del ponte Morandi. Né nessuno si interroga, ringrazia o fa il mea culpa specie tra gli ambientalisti per aver osteggiato la realizzazione del Mose voluta dal secondo governo Berlusconi, cioè il sistema di dighe mobili che in questi giorni difende efficacemente Venezia dall’acqua alta. Esempio di ingratitudine ideologica.

Agguato delle toghe rosse. Si può discutere di ciò che si vuole ma nel nostro "modello costituzionale" le leggi le fa il Parlamento, mentre i giudici le applicano, magari in silenzio come avviene in nazioni che hanno una tradizione democratica ben più antica della nostra. Augusto Minzolini il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

In questo Paese, stravagante nel bene e nel male, capita spesso di rituffarsi nel passato. Le parole con cui Egle Pilla, presidente di «Area democratica», cioè l`ultima versione della corrente delle «toghe rosse», ha aperto l`assemblea generale della sua associazione, sembrano davvero un tuffo nel passato. Un mezzo grido di allarme per l`arrivo in Parlamento di una maggioranza di altro colore, ovviamente di centrodestra - in caso contrario, visto l`impianto ideologico del suo discorso, avrebbe brindato, per dirla con Gaber, a barbera e champagne - accompagnato da una serie di «critiche» e di «riserve» che riecheggiano i discorsi di certa magistratura negli ultimi 40 anni, come se lo scandalo Palamara fosse passato invano. Parla di «ridimensionamento del modello costituzionale di magistrato», se la prende con la riforma del reato di abuso d`ufficio, si scandalizza perché si parla «di separazione delle carriere» tra giudici e Pm, denuncia che il ruolo del pubblico ministero sia sempre «più compresso e sacrificato» e si addolora per la riduzione delle spese per le intercettazioni. Forse ha nostalgia del vecchio manuale della Stasi.

Ora si può discutere di ciò che si vuole o di come la si pensa, ma nel nostro «modello costituzionale» le leggi le fa il Parlamento, mentre i giudici le applicano, magari in silenzio come avviene in nazioni che hanno una tradizione democratica ben più antica della nostra. Non ci sono dubbi in proposito. Perché l`«autonomia della magistratura» non significa che i giudici debbano fare il controcanto alle leggi che approva un Parlamento espressione della volontà popolare. Tantomeno sta a loro giudicarle. Questa è stata una modifica maturata nel tempo nel Dna della nostra magistratura che non c`entra però nulla, proprio nulla, con la Carta Costituzionale. Anzi, ci fa a botte. Anche perché in questo modo è inevitabile che il magistrato si colori politicamente, mandando a ramengo uno dei concetti, tanto belli quanto vacui, di cui si fa vanto il nostro sistema giudiziario: «un magistrato non deve essere solo imparziale ma apparire tale».

P.s. A proposito ieri Marco Travaglio, che riscrive la storia a suo piacimento, mi inserisce tra coloro allontanati dalla politica dalla legge Severino. Gli rinfresco la memoria: il Senato respinse l`applicazione della Severino nel mio caso giudicando la sentenza persecutoria (un unicum); poi mi dimisi da solo (sarei potuto restare in Parlamento tranquillamente) perché nel discorso che feci in mia difesa dissi che la mia era una battaglia di principio, non la difesa di una poltrona, per cui avrei lasciato il seggio qualunque fosse stato l`esito del voto sulla mia persona. E sono uomo di parola. Di più la mia vicenda ha dato spunto anche ad una legge. Io fui assolto in primo grado, condannato in secondo da un tribunale in cui c`era un giudice che era stato ex parlamentare e sottosegretario del Pd per dodici anni, mentre il relatore della Cassazione che confermò la condanna era stato il capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia del governo Prodi. La vicenda fece scalpore e il Parlamento qualche mese fa ha addirittura approvato una legge, quella che impedisce ad un magistrato che va in politica di tornare in magistratura, proprio perché non si ripetano episodi del genere. Una legge che, di fatto, potrebbe portare il mio nome e che se ci fosse stata all`epoca mi avrebbe evitato la condanna. Una condanna che, comunque, viste le modalità con cui è avvenuta, oggi considero una medaglia. Quanto a Travaglio non me la prendo per ciò che scrive. In una querela che gli feci per diffamazione si difese dicendo che la sua era satira. Motivo per cui ora qualunque cosa scriva non querelo, la prendo a ridere, come si fa con le battute di un comico da avanspettacolo.

L'incontro a via Arenula. Severino contro la legge Severino: “No alla sospensione dei sindaci per abuso d’ufficio”. Angela Stella su Il Riformista il 3 Dicembre 2022

Ieri mattina a Via Arenula il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha ricevuto, insieme al viceministro Francesco Paolo Sisto, l’Associazione nazionale Comuni italiani, guidata dal presidente Antonio Decaro e dal vicepresidente vicario Roberto Pella. Nella delegazione Anci, anche il segretario generale, Veronica Nicotra, e il sindaco di Treviso, Mario Conte. Oggetto dell’incontro, durato circa un’ora e avvenuto nello studio del Ministro, il tema della responsabilità dei sindaci. Era stato lo stesso Guardasigilli ad annunciare qualche giorno fa l’incontro in occasione della presentazione del libro “Non diamoci del tu – La separazione delle carriere” di Giuseppe Benedetto, Presidente della Fondazione Luigi Einaudi ed edito da Rubbettino.

“L’obiettivo delle riforme iniziali – aveva detto l’ex magistrato – è avere un impatto positivo sull’economia del Paese. Anche per questo dopodomani (ieri, ndr) incontrerò rappresentanti dell’Anci per discutere di una profonda revisione dei reati che paralizzano l’amministrazione. Si tratta della ‘paura della firma’ o come preferisco dire io dell’amministrazione difensiva”. Antonio Decaro al termine del colloquio col Ministro si è detto soddisfatto: “L’incontro è andato bene, c’è disponibilità da parte del ministro e del viceministro a rivedere alcune norme per evitare che i sindaci possano essere ritenuti responsabili qualsiasi cosa accada all’interno del Comune. Noi non riteniamo che la responsabilità possa essere sempre del sindaco solo per il fatto che ha un ruolo. Non esiste il reato di ruolo”. Decaro ha aggiunto che “ci sono più norme che interessano la responsabilità dei sindaci”, spiegando che c’è la volontà “di fare un percorso nei prossimi giorni per analizzarle una per una con il consenso del parlamento”.

“Il tema è circoscrivere le responsabilità penali e civili. Non vogliamo l’immunità né l’impunità – ha precisato Decaro –. Non vogliamo un trattamento di favore ma sapere quali sono le regole da rispettare in maniera rigorosa e le vogliamo rispettare”. Tra queste non poteva mancare una revisione del decreto Severino. “Abbiamo chiesto – ha detto sempre Decaro – di affrontare il tema della legge Severino. Il sindaco è l’unica figura istituzionale che viene sospesa per 18 mesi nel caso di condanna in primo grado, anche per un abuso d’ufficio che come sappiamo nel 97% dei casi non arriva a sentenza definitiva. Su questo è d’accordo anche la Severino, che da ministro fece la norma. E dal ministro Nordio c’è disponibilità a fare delle verifiche rispetto alla questione della sospensione”, ha concluso il Presidente Anci.

Lo spirito proficuo dell’incontro e l’inizio di un percorso ci è stato confermato anche dal Vice Ministro di Forza Italia Francesco Paolo Sisto che ci ha riferito: “Nella riunione col Ministro i sindaci hanno fatto sentire tutto il loro disagio per l’esistenza di situazioni giudiziarie che bloccano oltremodo la loro libera attività. In primo luogo si sono soffermati sulla necessità di intervenire sull’abuso di ufficio, rimodulandolo oppure abolendolo, per passare poi a quella di evitare responsabilità oggettive, dovute solo al fatto di ricoprire la funzione di primo cittadino. Hanno poi criticato la legge Severino che, a fronte di una sentenza non definitiva, li sospende dalla loro carica, per concludere con le preoccupazioni derivanti da un eccesso di attività della Corte dei Conti. Il Ministero ha mostrato ogni disponibilità a raccogliere il grido di dolore dei sindaci e a riflettere su meccanismi normativi che possano consentire di affrontare fattivamente i problemi prospettati”.

Sempre da Fi ieri è giunta una nota congiunta di Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo a corredo dell’incontro: riformare abuso d’ufficio e Severino “sono battaglie storiche di Forza Italia che finalmente con questo governo possono vedere la luce”.  Ricordiamo che già due giorni fa il Partito Democratico ha presentato due disegni di legge in merito alla modifica della legge Severino nella parte della sospensione dalla carica dei sindaci dopo il primo grado di giudizio e in materia di responsabilità politica, amministrativa ed erariale dei sindaci. Insomma, al di là dei dettagli tecnici normativi, sembra esserci un’ampia convergenza tra governo e forze di maggioranza e opposizione per aiutare i sindaci ad operare con maggiore serenità. Angela Stella

Patto con i sindaci contro la paura dell'abuso d'ufficio "Certezze sul Pnrr o l'Italia s'inchioda". Meloni all’Anci: "Basta con i timori di manette ad ogni timbro". La trattativa con l’Ue: "Se non interviene Bruxelles, sarà difficile". Massimiliano Scafi il 25 Novembre 2022 su Il Giornale. 

E no che non ci siamo dimenticati del Pnrr, giura la premier, come potevamo? Del resto, chi può fare a meno di quei fondi per la ripresa? Il Piano non è nella Finanziaria, verrà inserito in un decreto, ma «questo tema sta comunque al primo posto dell'agenda di governo», anche perché, «come dice il presidente Mattarella, è un appuntamento che l'Italia non può fallire».

Ma è lo stesso Pnrr di Mario Draghi? O lo cambierete? Qualcosa, annuncia Giorgia, si potrà modificare, se a Bruxelles saranno d'accordo. «Dobbiamo verificare con la Ue le misure più idonee per aggiornarlo». Qualcosa però va registrata subito qui, a casa, e riguarda gli appalti. Burocrazia lumaca, «paura della firma», cantieri che rischiano di non decollare, 40 miliardi europei che possono evaporare. «Servono norme certe sull'abuso d'ufficio - spiega all'assemblea dell'Anci - o la nazione si inchioda».

Insomma, è «arrivato il momento di affrontare la questione della responsabilità dei sindaci», sostiene Giorgia assecondando le pressioni di ampi settori della sua maggioranza. Oggi troppi braccini corti, troppi enti, poteri intermedi, pareri, vincoli vari che frenano il via libera alle opere che l'Unione ci chiede, che ostacolano il grande patto con l'Europa, soldi in cambio di lavori e riforme. «Siamo nella fase in cui dobbiamo affrontare concretamente l'avvio dei cantieri, perciò e necessario accelerare l'iter di approvazione dei progetti». È proprio qui che come al solito «emergono le criticità di un sistema rigido di regole complesse e incerte». Il Pnrr è una «straordinaria occasione per modernizzare il Paese e non vogliamo che le risorse restino sulla carta». L'idea è di cambiare certi meccanismi dei fondi di coesione «per mettere i comuni in grado di gestire alcuni servizi».

Serve «un impegno di squadra». Il Pnrr assegna infatti 40 miliardi ai comuni per programmi di rigenerazione urbana, scuole, asili, infrastrutture sociali. «Il governo ha subito attivato la cabina di regia, emerge la necessità di maggiore coordinamento». Grande spazio quindi ai sindaci, «che nei rapporti con i cittadini hanno salvato la faccia alle istituzioni e hanno bisogno di uno Stato loro alleato».

Se poi questi sindaci hanno paura di finire in galera, ecco che la macchina si inceppa. E dunque per la premier «si devono definire meglio le norme penali per gli amministratori pubblici, a partire dall'abuso di ufficio, leggi che hanno un perimetro talmente elastico da dare spazio a interpretazioni discrezionali». Palazzo Chigi, assicura, non vuole «regalare immunità», tuttavia sarebbe il caso di mettere i sindaci in condizioni di agire con serenità, senza temere le manette ad ogni timbro. Oggi nel «passaggio tra assegnazione e utilizzazione» si perde tempo, quando invece «dobbiamo correre».

Anche sulla manovra, dice la Meloni, «stiamo andando al massimo della velocità» ma con il freno tirato. Già i soldi in cassa sono pochi, poi ci si mette pure il caro bollette a succhiare gran parte degli euro disponibili. «Abbiamo sulla testa la spada di Damocle dell'energia che drena le risorse. Gli interventi per calmierare ci costano cinque miliardi al mese».

Avanti così e a marzo saremo da capo a dodici. Si spera che Bruxelles cambi rotta sul tetto al prezzo del gas. «Se non interverrà la Commissione, sarà difficile fare fronte ancora».

Abuso d’ufficio, cos’è. «Assolti il 90% degli indagati». Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2022.

Prevede una condanna fino a 4 anni ma la formulazione è molto generica e fa «tremare la mano» agli amministratori pubblici. Il caso dell’ex sindaco di Novara, assolto dopo 10 anni per una questione di schiamazzi in un bar 

L’ultimo caso celebre in ordine di tempo riguarda l’ex governatore della Calabria Mario Oliverio: il tribunale di Catanzaro lo ha assolto dall’accusa di abuso d’ufficio per aver nel 2018 stanziato 95.000 per promuovere le bellezze turistiche della sua regione al Festival dei due mondi di Spoleto. Ma nelle stesse ore lo stesso reato è costato una condanna a un anno per il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà che nel 2015 concesse un immobile comunale a una onlus. Vai a capire. L’unica cosa certa è che l’articolo 323 del codice penale è da almeno un ventennio il tormento di sindaci, amministratori locali, presidenti di Regione e giù giù fino a semplici funzionari che periodicamente finiscono nelle maglie dell’abuso d’ufficio: violazione che colpisce ubiquamente appartenenti a tutti gli schieramenti politici.

Il problema è stato riproposto in più occasioni, l’ultima due giorni fa all’assemblea dell’Anci da sindaci di tutta Italia. la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha annunciato che metterà mano alla riscrittura del testo ma altrettanto aveva fatto Luigi Di Maio nel 2019. Basta la lettura dell’articolo così come riportato dal codice per rendersi conto di quanto ci sia spazio per interpretazioni. Si macchia di abuso d’ufficio «il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto». Qualsiasi atto amministrativo, da una multa cestinata in su, rischia di essere letto come un gesto in contrasto con la legge con il risultato che il timore dell’abuso d’ufficio spesso finisce per «far tremare la mano» ai sindaci nel momento di firmare un provvedimento.

La condanna va da uno a quattro anni. L’ultima riscrittura risale al 1997 e in quel caso - si era negli anni successivi a Tangentopoli - passò una correzione in chiave più permissiva e la pena massima fu anche abbassata da 5 a 4 anni (cosa che oggi impedisce ad esempio di effettuare intercettazioni telefoniche quando la procura sospetta l’esistenza di questo reato). Dal 2008 al 219, sono stati 150 i pubblici ufficiali condannati per questa fattispecie ma molto più numerose le assoluzioni. Che magari arrivano dopo un decennio. Come è capitato all’ex sindaco di Novara Massimo Giordano il cui presunto «interesse personale» era consistito del non aver preso provvedimenti nei confronti di un bar da cui provenivano schiamazzi notturni.

«Come sindaci ne abbiamo chiesto la riformulazione per arrivare ad una regola chiara. Anche perché – ha concluso – statisticamente le indagini sui presunti abusi si concludono nel 90% dei casi con assoluzioni, mentre resta l’impatto sulla vita degli amministratori ingiustamente accusati» ha detto il presidente dei sindaci italiani Antonio De Caro, primo cittadino di Bari. A gennaio una sentenza della Cassazione ha cercato di fare chiarezza scrivendo che perché sia ravvisabile l’abuso d’ufficio deve essere provata «l’intenzionalità». Ma frattanto le vittime illustre di questa roulette giudiziaria non si contano. Ci sono ad esempio l’ex sindaca pentastellata di Roma Virginia Raggi, la sua collega di Torino Chiara Appendino, il governatore della Lombardia Attilio Fontana (tutti assolti) ma anche amministratori che vivono il loro travaglio lontani dai riflettori come (stiamo sempre agli ultimi assolti in ordini di tempo) il sindaco di Grumo Nevano o la dirigente del personale del comune di Lizzanello. Quest’ultima finita sotto inchiesta per una questione di ferie non concesse.

Il caso Bagnoli. Le inchieste flop lasciano impuniti i pm e scoraggiano i pubblici amministratori. Salvatore Prisco su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

L’ottima notizia dell’assoluzione «perché il fatto non sussiste» degli amministratori della società “Bagnoli futura”, creata per la bonifica dell’area, tratti a giudizio per presunto disastro ambientale, solleva anche problemi. Ottima, naturalmente, per gli imputati. Fui querelato per presunta diffamazione via Facebook prima di un’assoluzione con la stessa formula. Il processo fu più volte rinviato e vissi nel frattempo un disagio psicologico. Una quisquilia rispetto ad accuse patite da galantuomini che hanno atteso giustizia per quattordici anni, con l’eco sgradevole dello strepitus fori, ossia il chiacchiericcio di stampa e di piazza.

Immagino dunque che cosa abbia ad esempio passato il notaio Santangelo, che pure avrebbe potuto invocare la prescrizione e ha rinunciato a farlo, perché ai suoi occhi di uomo di diritto questo ne avrebbe sporcato, lasciando dubbi di scorrettezza, la figura. Se si vuole incentivare la partecipazione politica, arricchendola di qualità e di competenze che tutti constatiamo oggi mancarle, di persone rette, intenzionate a dedicare una parte della loro vita alla cosa pubblica, trasferendovi abilità mostrate negli affari privati, tre lustri per vedersi riconosciuta onestà di comportamenti sono un tempo il cui peso in ansie e in danaro necessario a sostenere spese legali a difesa non è sostenibile. Chi abbia serio lavoro e buona reputazione non sarà motivato da una vicenda del genere, sicché continueremo a consegnare la politica a mezzecalze senza etica pubblica, prive di qualunque lavoro, che vedono in essa la soluzione, lecita od opaca, di problemi alimentari e di collocazione esistenziale, dotate perciò di un pelo sullo stomaco tanto folto da fare sopportare il rischio di un’accusa penale come un mero incerto del mestiere.

Né è sopportabile che pubblici ministeri da cui provengano accuse gravi sempre smentite in dibattimento (non vorremmo altre querele, ma chi abbia anni e memoria ricorderà un’inchiesta napoletana pubblicizzata con fanfare e titoloni di quotidiani, finita nel nulla, ma col suicidio di un assessore disperato, come del resto ne conobbe l’inchiesta “Mani pulite” della procura milanese) non paghino dazio per il ripetutamente malaccorto esercizio di una – a questo punto dubbia – professionalità e continuino a imperversare con successo mediatico e, almeno finora, possibilità di uscire dalla corporazione dandosi alla politica. Si sta riformando il “pianeta giustizia”, sollecitati dalla prospettiva di incassare soldi dall’Unione Europea in cambio di riforme che ammodernino la pubblica amministrazione in senso lato.

Saranno però palliativi se non si avrà il coraggio di incidere i nodi veri, riformando la Costituzione e prevedendo il sorteggio integrale dei componenti togati del Csm, l’attenuazione dell’altrimenti insostenibile obbligatorietà dell’azione penale e soprattutto, più che la separazione delle finzioni tra accusatori e giudicanti, l’estromissione del pubblico ministero dall’ordine giudiziario. Si tornerebbe peraltro alla lettera della Costituzione, che testualmente vuole sottoposto alla legge il solo giudice e il pubblico ministero indipendente, ma nei limiti previsti dalla legge sull’ordinamento giudiziario (artt. 101, 2° comma e 107, 4° comma).

Salvatore Prisco

La malapianta grillina che ha devastato la giustizia. La corruzione è peggio che uccidere, la barbarie della legge simbolo dei grillini che ha devastato la giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Gennaio 2022. 

Al dottor Piercamillo Davigo, che ama dilettare i suoi ammiratori con storielle paradossali, sostenendo che convenga, dal punto di vista della burocrazia giudiziaria, ammazzare la moglie piuttosto che divorziare, sottoponiamo un altro quesito. È più conveniente uccidere il coniuge (facciamo il marito questa volta, va) o essere imputato di un reato contro la Pubblica amministrazione? Sul Riformista di ieri il magistrato Alberto Cisterna ha ricordato in modo magistrale la scomparsa tragica di Angelo Burzi. Basterebbe mettere insieme due suoi concetti, “giustizia come malattia” e “gogna perpetua” e avremmo già detto tutto. Perché, se è vero che storicamente la giustizia non è stata uguale per tutti da un punto di vista sociale e di censo, ancor meno oggi lo è da un punto di vista politico. E soprattutto moralistico.

Da molti anni leggiamo nei provvedimenti giudiziari e nelle sentenze le analisi di schiere di magistrati che si fanno sociologi e psicologi al fianco di chi “ruba una mela”. Buone intenzioni, che dovrebbero stare fuori dalle aule dei tribunali e trasferirsi, più che in parrocchia, nelle amministrazioni locali. Così finisce che, quasi per una sorta di nemesi della storia, la “giustizia come malattia”, la sofferenza del processo e del carcere finiscono per scagliarsi sul mondo dei privilegi e del potere. O sull’immaginario di quell’universo, per come è percepito. “Tiè!” sembra diventata la parola d’ordine, quasi una risposta al grido “lavoratoriii!”, la pernacchia di Alberto Sordi nei Vitelloni di Fellini. Due leggi sono il simbolo dello sberleffo –e il dottor Cisterna le cita puntualmente- , quella del 2012 che ha preso il nome della ministra guardasigilli del governo Monti, Paola Severino, e l’altra dal nome ripugnante di “spazzacorrotti”, voluta dal ministro Bonafede ed entrata in vigore il 9 gennaio del 2019, quando il premier Giuseppe Conte e il Movimento cinque stelle governavano con la Lega di Salvini.

Se è vero che la prima ha regalato notti insonni a Silvio Berlusconi, che sulla base della retroattività della norma, ha perso il seggio al Senato dopo l’unica condanna definitiva, la sua applicazione ha prodotto soprattutto la strage degli amministratori locali. Lungi da noi il voler dare lezioni alla Corte Costituzionale, ma la sospensione dal ruolo di sindaci, assessori e consiglieri per mesi e mesi, dopo una sola condanna di primo grado, con l’accompagnamento consueto di strilli sui giornali e paternali politiche televisive sull’”opportunità” di allontanamento dalla vita pubblica di persone spesso in seguito assolte, fa proprio a pugni con la ratio dell’articolo 27. E speriamo che provveda il prossimo referendum almeno a eliminare l’automaticità del provvedimento. Non è un caso se abbiamo parlato di “strage”. Perché il sadismo, esplicito e voluto, di norme come la “spazzacorrotti” è stato pensato proprio come vendetta che ferisce e che uccide. E il fatto che sia stata applicata retroattivamente per un anno prima che intervenisse la Corte Costituzionale non è stato senza conseguenze. Proprio come accade per i reati di mafia, anche quelli di corruzione sono per esempio “ostativi” all’applicazione dei benefici previsti dai regolamenti penitenziari.

Così, per tornare un attimo alla storiella che vorremmo raccontare al dottor Davigo, prendiamo due condannati a cinque anni di carcere, un rapinatore e Roberto Formigoni. Il primo dopo un anno può avere l’affidamento ai servizi sociali e uscire dal carcere. Il secondo, no. Perché il suo diritto è stato “spazzato via” dagli amici di Bonafede. E infatti è proprio quello che è successo. È quel che capita un po’ tutti i giorni. Perché nei confronti del condannato “comune” la freddezza della sanzione spesso è accompagnata da un qualche senso di umanità, per cui, se il giudice non ne valuta una particolare pericolosità, anche uno che ha accoltellato il collega può andare ai domiciliari. O un ex rapinatore, quando mancano quattro anni al termine della pena, può essere affidato ai servizi sociali. A Roberto Formigoni non fu concesso, a causa dello spirito di vendetta degli amici di Bonafede.

E che dire di quel che capitò a Luca Guarischi, che tornò dall’Algeria per scontare un residuo di pena inferiore ai quattro anni il 10 gennaio 2019 e fu costretto a un anno di carcere perché dodici giorni dopo entrò in vigore la legge “spazzacorrotti” , prima che nel 2020 la Corte Costituzionale ne dichiarasse l’irretroattività? È ovvio che qui c’è prima di tutto un problema di cultura. Non punisco il reato che hai commesso, ma la tua persona. Sei un corrotto, il che equivale a essere un mafioso, un reietto della società. Devi essere isolato, per te non ci può essere futuro. Ecco la “giustizia come malattia”, ecco la “gogna perpetua”. Proprio quel che succede con i condannati per reati di mafia. Nei processi che riguardano la criminalità organizzata, una delle esigenze che stanno alla base di norme “speciali” e di una certa applicazione delle regole, è quella di tenere isolati i detenuti rispetto all’ambiente criminale esterno. Di qui per esempio l’articolo 41 bis del regolamento, che impone il carcere “impermeabile”, piuttosto che l’impossibilità di godere di quei benefici che si applicano ogni giorno anche a responsabili di gravi reati, omicidi, ferimenti, stupri, rapine. Parliamo di permessi premio, di lavoro esterno, di liberazione anticipata. Chi ha sulle spalle un reato “ostativo”, se non si è genuflesso con la cenere sul capo, sa che la sua condizione sarà eterna, che è condannato per sempre, che la sua è una vera pena capitale.

Non è molto diverso per gli “ostativi” della corruzione, come di quelli del “concorso esterno”. In fondo sono gli stessi, quelli che hanno sul corpo le stimmate del far parte del mondo del privilegio percepito. La percezione, proprio come quella del caldo d’estate, è elemento dominante. Anche se deviante. Non a caso, dal punto di vista giornalistico, si usa spesso il concetto di “odore”: odore di mafia, odore di corruzione. Così è più facile usare metodi investigativi, o di giudizio, ordinari nei confronti di colui che ha ucciso la moglie, ma straordinari contro un avvocato come Pittelli che ha “evaso” la detenzione domiciliare scrivendo una lettera senza aver chiesto l’autorizzazione. Oppure un consigliere regionale che forse ha consegnato gli scontrini sbagliati e ha chiesto un rimborso non dovuto, o sulla cui legittimità c’è incertezza.

Non dobbiamo dimenticarci di Angelo Burzi, e neanche permettere che l’avvocato Pittelli “marcisca in galera”, dopo che è stata “buttata la chiave”. Sono ugualmente vittime, e non stiamo parlando di innocenza o colpevolezza. Stiamo parlando di ferite sul corpo, di ferocia di leggi e di processi, e del valore della vita. Loro non l’hanno sottratta a nessuno, ma qualcuno, in un modo o nell’altro, l’ha sottratta a loro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cantone e l'allarme sul referendum giustizia: "Senza la legge Severino i mafiosi nelle istituzioni". Liana Milella su La Repubblica il 17 febbraio 2022.

Parla il procuratore di Perugia, ex capo Anac: "Mi auguro che i cittadini, se adeguatamente informati, non intendano tornare indietro su una norma di civiltà". "Se fosse cancellato il decreto Severino sull'incandidabilità e decadenza dei condannati, le conseguenze sarebbero gravissime perché potremmo trovarci di fronte a persone riconosciute colpevoli di reati di mafia che potrebbe restare tranquillamente ai loro posti nelle istituzioni". È massimo l'allarme del procuratore di Perugia Raffaele Cantone che, dieci anni fa, fu tra i consulenti del governo per la stesura della legge Severino.

La legge trasformata in un sistema afflittivo e cieco. Severino e spazzacorrotti, la giustizia ridotta a gogna. Alberto Cisterna su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.  

Quello di Angelo Burzi non rimarrà, purtroppo, l’ultimo suicidio generato da un mondo complesso e controverso come quello della giustizia. Sia chiaro: persone si tolgono la vita ovunque a causa di una condanna o di una carcerazione ritenute insopportabili. In questi giorni si parla di quel Jeffrey Epstein che, in Usa, ha cancellato la propria esistenza schiacciato dallo scandalo sessuale che lo ha visto protagonista.

L’esperienza del processo e, soprattutto, quella del carcere è dura, molta dura a sopportarsi; se poi a distruggere la propria vita è l’imputato che si proclama innocente in un gesto di estrema disperazione, è inevitabile la spinta del sistema e dei suoi corifei a trovare giustificazioni, a farsi schermo con le condanne. Si finisce, così, per macchiare la vittima, il suicida, di una duplice colpa: quella di essere un pregiudicato matricolato e quella di non aver saputo reggere il peso della condanna. È una prova muscolare quella che ci si attende dal reo, meglio ancora se – a capo cosparso di cenere – si proclama anche sinceramente pentito e bisognoso di perdono. Guai a ribellarsi a questo cliché che rassicura il sistema, di cui anzi il sistema ha un bisogno estremo per saldare alla propria, inevitabile primazia giuridica, anche una sorta di supremazia morale, capace di muoversi a compassione verso l’empio che accetta supinamente il proprio destino.

In fin dei conti il dibattito sull’ergastolo ostativo si concentra tutto nel postulato sotteso a questa doppia supremazia: carcere duro, ma sconti e benefici per chi si sottomette allo Stato e collabora. Indipendentemente, anzi a dispetto di ogni percorso rieducativo e di ogni resipiscenza, si accettano solo genuflessi e riscattati. Con una certa approssimazione certo, ma alcune reazioni quasi infastidite al suicidio di Angelo Burzi potrebbero trovare una spiegazione in questa doppia soggezione che ciascun condannato, ciascun detenuto si pretende debba pagare allo Stato, quasi che la perdita della verginità giuridica ed etica degradi la dignità della persona umana e la renda mero oggetto di una potestà superiore, onnivora. Troppo facile è non credere all’autolesione mortale in nome della propria innocenza, quando una sentenza definitiva predica il contrario. Troppo semplice ricordare al reprobo che, concluso il processo, nessuna innocenza sopravvive e ciò che conta è la fredda prosa di un verdetto.

Però. Però a leggere le ultime parole dell’ex consigliere regionale, la sua laica e disperata professione di innocenza si coglie altro. Vi è una filigrana che tiene insieme quelle frasi, disvela un mondo ulteriore in cui – nostro malgrado – siamo stati trascinati e, quindi, confinati. La legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno disegnato – forse anche a dispetto dei loro fautori – i perimetri di un’afflizione imponente, quasi smodata per imputati e condannati. Sospensioni, confische, carcere duro, misure di prevenzione, decadenze e altro ancora hanno messo in funzione un gigantesco triangolo che risucchia le vite, prima ancora che sanzionare le condotte dei colpevoli. È un sistema afflittivo perfetto, panottico, senza scampo che colpisce il reo a 360° non lasciandogli alcuna via di fuga. Il peculato nei fondi messi a disposizione dei consiglieri regionali ha, obiettivamente, avuto risposte ondivaghe in molte parti del paese. Vi sono indagini fallite che proseguono stancamente solo per non certificare l’innocenza degli imputati e assoluzioni già pronunciate, anche qualche condanna.

Angelo Burzi era stato assolto in primo grado e condannato in appello, sino alla conferma in Cassazione. Un percorso, obiettivamente, non rettilineo che – a prescindere totalmente dal merito – deve aver sfibrato l’imputato al punto tale da indurlo al gesto estremo del togliersi la vita. Ma la lettera non dice questo o almeno non dice solo questo. Non può farsene un’esegesi che sarebbe sconveniente e inappropriata, ma un paio di punti meritano di essere colti. Innanzitutto il prologo: «Natale 2021 Conoscere per decidere». Un’ovvietà per qualunque persona, a maggior ragione per i giudici che si sono occupati di lui. Ma conoscere cosa? Le carte forse? Ma quello è scontato che siano state conosciute. La sua vita? Ma quella resta praticamente fuori dalle aule di un processo, tutto concentrato su pochissimi frammenti di un’esistenza, spesso su un solo gesto, su un attimo d’impeto. Le aule non giudicano vite, esaminano fatti, comportamenti.

Cosa voleva, quindi, Angelo Burzi? Forse che ci accostasse alla sua condanna e alla sua morte conoscendo la sua verità, quella che le prove dell’accusa hanno schiantato e di cui non c’è traccia nel suo certificato penale. Certo la malattia da poco scoperta, certo le sofferenze probabili e imminenti: «si preannuncia quindi un prossimo futuro dl approfondimenti, di interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli… panorama non certo entusiasmante, ma c’è di peggio. La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte». La giustizia come una malattia, come un male oscuro che lo ha fagocitato e, quindi, restituito alla vita da colpevole. Poi l’accerchiamento, lo schianto imposto da leggi imperturbabili nella loro supponente severità. La paura di perdere il vitalizio come conseguenza della condanna e, ancora, «probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro».

Se non fosse che «tutto ciò è .. insostenibile, banalmente perché col vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care». E, infine, il richiamo alla soggezione morale, al supplizio etico che quella condanna imponeva senza scampo; il rimprovero (giusto o ingiusto che sia) a chi secondo lui «ci ha messo molto del suo, probabilmente aggiungendo le sue valutazioni di ordine etico morale, del tutto soggettive e prive sia di sostanza che di sostenibilità giuridica, alle richieste dell’accusa».

I processi per chi saccheggia le risorse pubbliche o si corrompe sono giusti, anzi necessari. Tuttavia guai a trasformarli in una sorta di gogna perpetua, nella bulimica ricerca di ogni più minuto brandello della vita pubblica di una persona per sanzionarlo e reprimerlo. Se le pene, tutte le pene, si trasformano in una perenne vendetta per soddisfare il senso di rivalsa della plebe, allora anche il sacrificio della vita acquista la dignità di un testardo argomento contro la giustizia di una condanna. Alberto Cisterna