Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

SETTIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

L’ACCOGLIENZA

SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Guerra Calda.

LE VITTIME.

(ANSA il 17 giugno 2022) - L'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha reso noto che dall'inizio dell'invasione russa sono stati uccisi 4.481 civili. I feriti sono invece 5.565. Lo scrive Ukrinform. Secondo l'ultimo aggiornamento, le vittime includono 1.739 uomini, 1.159 donne, 119 ragazze e 125 ragazzi, oltre a 40 bambini e 1.299 adulti il cui sesso è ancora sconosciuto. La maggior parte dei civili uccisi è rimasta vittima di bombardamenti, missili e attacchi aerei.

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.

Quello messo in atto dalla Russia è un «urbanicidio», la distruzione sistematica di infrastrutture, ferrovie, aree abitate, siti industriali, ospedali. Aaron Clements-Hunt su Newsline Magazine fa un drammatico elenco dei danni che peseranno sul futuro dell'Ucraina, chiunque sarà il vincitore. Le devastazioni sono una conseguenza della tattica «storica» dei russi: terra bruciata, livellamento di qualsiasi ostacolo, punizione per tutti.

Mosca ha sparato oltre 2 mila missili a lungo raggio contro target militari e civili, messi insieme sotto un martello pesante. Al tempo stesso la resistenza ha scelto di trasformare alcune delle sue città in roccaforti, per un'esigenza bellica ma anche politica: lasciarle in mano all'invasore sarebbe un premio all'aggressione. 

Secondo l'esperto Tom Cooper, il generale Alexandr Dvornikov mantiene un ruolo primario, ma c'è anche - forse in posizione subordinata nonostante sia vice ministro - il generale Gennady Zhidko, con compiti di riorganizzatore/coordinatore. Il sentiero di guerra è consueto: ricognizione di droni, tiro di sbarramento non importa quanto preciso, progressione modesta di Battaglioni a ranghi incompleti una volta che l'area designata è stata indebolita (o si pensa che lo sia).

Ciò spiega i tempi lenti sui quali incide la capacità del nemico, tosto però fiaccato. I racconti dalle trincee ucraine danno il senso della sofferenza. Parlano di un alto numero di militari uccisi o feriti, della necessità di ruotare ogni tre giorni i fanti per impedire che abbiano un tracollo psico-fisico, della mancanza di sostituzioni adeguate. Nei primi 100 giorni la battaglia si è portata via chi era più addestrato, ora - spiegano - sono mobilitate le seconde schiere, civili che coraggiosamente devono indossare una divisa. Alcune unità sono state spazzate via, anche fra gli invasori.

Il comando di Zelensky deve mantenere l'equilibrio di un dispositivo impegnato sui quattro punti cardinali: a sud/sud est, dove c'è il cuore del confronto; a nord c'è una vigilanza attiva al confine bielorusso, anche se Lukashenko non sembra pronto a intervenire direttamente; la tutela della capitale Kiev e la difesa di Odessa; le retrovie, con la gestione degli aiuti Nato. Il neo-zar ha invece la possibilità di scegliere dove applicare la massima potenza, scelta che attenua parzialmente i guai logistici e la carenza di truppe. I mezzi, poi, alla Russia non mancano.

Ucraina, le vittime invisibili. Antonio Scurati su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.

«Oltre 31.000 militari russi sono già morti in Ucraina. , la Russia paga ogni giorno quasi 300 vite dei suoi soldati per una guerra completamente insensata contro l’Ucraina. E comunque verrà il giorno in cui il numero delle perdite, anche per la Russia, supererà il limite consentito». Lo ha affermato Volodymyr Zelensky lo scorso 7 giugno via Telegram. E io oggi mi chiedo e vi chiedo: quando verrà il giorno in cui il numero delle vittime di questa guerra supererà per noi che la stiamo a guardare il limite consentito dalle nostre coscienze? Soprattutto: quel giorno verrà mai?

A prima vista si direbbe che quel giorno dovrebbe essere già venuto. Raggiunto e sorpassato il centesimo giorno di guerra il numero complessivo di morti e feriti, sebbene incerto e controverso, è gia enorme. Se fosse vero ciò che il presidente ucraino sostiene riguardo alle perdite russe — una cifra verosimilmente gonfiata dall’intento propagandistico — l’Armata russa avrebbe perso in cento giorni di guerra in Ucraina più soldati di quanti l’Armata Rossa ne perdette in sette anni di combattimento in Afghanistan. Se poi passiamo al conteggio dei caduti dalla parte degli aggrediti i numeri diventano addirittura abnormi. Le forze armate della resistenza ucraina ammettono ora che i caduti sono da 100 a 200 al giorno (il numero dei feriti assomma ad almeno il triplo), ma la cifra che dovrebbe precipitarci verso l’intollerabile non è ancora nella lista: l’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani conferma la morte di oltre 4.300 vittime civili di cui almeno 274 bambini, aggiungendo che potrebbero essere migliaia in più se si tiene conto della ecatombe di Mariupol, definita «un grande buco nero». Al macabro conteggio andrebbero sommati decine di migliaia di dispersi, centinaia di migliaia di sfollati, deportati, traumatizzati, milioni di profughi. 

Ucraina: 3.381 vittime civili. Ma secondo l'Onu sono migliaia di più

Qui, però, mi fermo perché credo che il problema sia proprio questo: il conteggio. Temo, infatti, che la nostra coscienza collettiva — la prima persona plurale si riferisce al «noi» di quelli che stanno a guardare — stia pericolosamente scivolando nel baratro della disumanizzazione delle vittime, uno dei tanti che l’atrocità della guerra rischia di aprire sotto i nostri piedi. Mi riferisco a quell’abisso morale al fondo del quale diventa vero il vecchio adagio cinico che recita: la perdita di una vita umana è una tragedia, un milione sono statistica. Temo proprio che noi spettatori più o meno sinceramente commossi dalle tragedie altrui siamo giunti al punto in cui le vittime della guerra che da tre mesi si ripete uguale a se stessa sui nostri comodi schermi siano diventati statistica. Ne è triste indizio il fatto che le vittime, e in particolare i civili, vittime per eccellenza, abbiano smesso di occupare la scena mediatica.

Se ricordate, in principio furono loro, le vittime civili, i protagonisti del racconto televisivo — nel senso di «visto da lontano» — del conflitto narrato come tragedia umana. Su di loro, sulle loro inermi vite spezzate, sui loro poveri oggetti insanguinati, sui loro corpi massacrati dalla malvagità, attirarono la nostra attenzione i coraggiosi inviati sul campo, luogotenenti della nostra inveterata inesperienza. Scortati dai racconti di chi era giunto fin laggiù, oltre i confini del mondo a noi conosciuto, scossi dalle immagini dello strazio, in principio ci emozionammo per quelle vite non nostre. Trepidazione per loro, palpitammo, perfino, di sdegno e d’orrore. L’emozione, però, lo si sa, dura il volgere di un istante. Solo i sentimenti sfidano il tempo, solo i ragionamenti, le idee radicate, i valori consolidati durano a lungo. Le emozioni no, quelle si consumano in fretta, al pari di ogni altro prodotto dell’intrattenimento di massa.

Non a caso, al centesimo giorno di guerra le vittime civili della madornale, epocale, fatidica carneficina ucraina hanno presto finito per occupare sulle home page dei nostri quotidiani online lo stesso posto accordato dallo spietato conteggio dei click al macabro ma isolato delitto di cronaca oppure al gossip sull’ennesimo idiota di successo. Il focus informativo sulla guerra in Ucraina si è spostato, intanto, dalla tragedia delle vittime civili ai costi crescenti degli idrocarburi, alla tipologia di armamenti inviati e da inviare, alla fin troppo presunta malattia del dittatore. «Che ci vuoi fare? Così va il mondo», commenterà qualcuno. La gente dopo un po’ si annoia, la gente cambia canale in fretta, per la gente alla fine l’unico conto che conti davvero è quello che tocca pagare.

Permettetemi di obiettare: così va questo mondo qui, polarizzato tra lo sciocchezzaio degli influencer e l’orrore inconcepibile di massacri mediatici. E non va affatto bene. In questo mondo, al tempo stesso torpido e sovraeccitato, il giorno in cui le tragedie della guerra supereranno il limite consentito dalla nostra coscienza non è ancora venuto per la semplice ragione che non verrà mai. In questo mondo qui, nel reame dischiuso da decenni di apprendistato alla nostra quotidiana irrealtà mediatica, la morte di un bambino dilaniato dalle bombe è già scaduta a dato statistico 

(ANSA il 24 maggio 2022) - L'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha reso noto che 3.942 civili sono morti e 4.591 sono rimasti feriti in Ucraina dall'inizio dell'invasione russa. Lo riporta Ukrinform sottolineando che tra le vittime ci sono quasi 260 bambini.

Il bilancio, secondo lo stesso Ohchr, sarebbe comunque ancora più drammatico, considerando che "le informazioni provenienti da alcuni luoghi di intensi combattimenti sono in ritardo e molti rapporti sono ancora in attesa di conferma", scrive Ukrinform.

(ANSA il 23 maggio 2022) - Il bilancio delle vittime tra le truppe russe in Ucraina nei primi tre mesi dell'invasione del Paese è simile a quello registrato dall'allora Unione Sovietica durante i suoi nove anni di guerra in Afghanistan: lo scrive l'intelligence britannica nel suo aggiornamento sulla situazione in Ucraina nel rapporto pubblicato oggi dal ministero della Difesa su Twitter.

Londra non fa una stima dei soldati morti ma evidenza che "l'elevato tasso di vittime" è dovuto a una serie di fattori, tra cui una copertura aerea limitata, una mancanza di flessibilità e un approccio di comando che rafforza i fallimenti e induce a ripetere gli errori. E le perdite, sottolinea, continuano ad aumentare nell'offensiva del Donbass. 

Questo continuo amento dei morti tra le file dell'esercito, conclude l'intelligence, potrebbe portare ad una crescente insoddisfazione da parte della popolazione russa, oltre alla sua volontà di esprimerla in pubblico.

La disumanizzazione del conflitto. La guerra in Ucraina è diventata un videogame tra droni, dirette e like: ma i morti non si contano. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Dura solo 47 secondi e il filmato è presente su tutte le testate di informazione on line. È in bianco e nero, con una messa a fuoco non perfetta e sembra un videogioco di qualità mediocre. Il titolo, con cui in genere è presentato è “Mar Nero, il drone ucraino distrugge la nave da sbarco russa all’isola dei serpenti”. Si vede la sagoma di una imbarcazione e, poi, d’improvviso una fiammata che avvolge tutta la scena. Quando le fiamme si dissolvono, la scena torna quasi identica a prima e l’imbarcazione sembra allontanarsi lentamente dal molo al quale era ormeggiata.

Si tratta di immagini, che fanno seguito ad altre immagini simili di mezzi militari russi colpiti: carri armati, mezzi corazzati per il trasporto di truppe, la nave ammiraglia Moskva. Ma nel filmato relativo alla distruzione del mezzo da sbarco vi è qualcosa in più. Prima della fiammata si vedono dei puntini neri che si muovono: due a prua, due a poppa ed uno sulla banchina. Dopo la fiammata, vi sono delle sagome stese: sono cinque cadaveri. Offerti alla curiosità di tutti senza nessuna pietà. Un elemento accessorio della scena. Il miglior commento sembrano essere le parole, con cui ha chiesto aiuto tramite un post su Facebook, il maggiore Serhiy Volyna, della 36esima Brigata Marina Separata in Ucraina, attualmente bloccato nell’acciaieria Azovstal di Mariupol, con le truppe del reggimento Azov: «È come se ci trovassimo in un reality show infernale, dove noi siamo i militari, combattiamo per le nostre vite, tentiamo ogni possibilità per salvarci, e il mondo intero sta solo a guardare una storia interessante. L’unica differenza è che questo non è un film e noi non siamo personaggi di fantasia».

Nel racconto della guerra, che viene quotidianamente proposto dai maggiori organi di informazione, è come se vi fossero due facce appartenenti a storie completamente diverse: da un lato gli orrori delle violenze inferte ai civili, soprattutto vecchi, donne e bambini (si pensi a Bucha, ma non solo); dall’altro la dimensione asettica, da videogioco, della lotta tra gli eserciti. La prima faccia è quella destinata a raccogliere l’indignazione e la commozione di tutti. L’altra è materia di tifo, nella quale si calcola il numero dei mezzi distrutti e quello dei morti allo stesso modo nel quale si calcolano i punti nei videogiochi. Come se quelle dei militari non fossero vite di persone. Quasi che la guerra in Ucraina, come qualsiasi altra guerra, fosse una cosa brutta solo per le conseguenze sui civili, mentre sarebbe uno spettacolo interessante e, anzi, coinvolgente ed emozionante lo scontro tra i militari, condotto con le moderne tecnologie, che consentono di ridurre la contrapposizione fisica diretta. E non si tiene conto della circostanza che anche i militari sono persone, ciascuna di esse al centro di un micromondo affettivo e sociale.

La circostanza che anche i militari siano persone, poi, è tanto più rilevante in una guerra come questa, combattuta da individui che nessuna volontà avevano di combatterla. Gli Ucraini sono stati aggrediti e perciò costretti a difendersi, e quindi non può essere certamente addebitato a loro il conflitto. Ma, anche tra gli aggressori, molte prove raccolte sul campo (dichiarazioni di militari presi prigionieri, intercettazioni di telefonate) dicono che troppo spesso si tratta di giovani coscritti, mandati alla guerra addirittura a loro insaputa e minacciati di essere trattati da traditori se avessero esitato, quando hanno realizzato quale fosse il loro destino. Ecco, allora, che, se si tengono presenti questi aspetti, nella visione del filmato sulla distruzione della nave da sbarco russa, il sentimento prevalente, almeno per chi non partecipa direttamente alla guerra, non può essere la compiaciuta ammirazione per l’efficienza del drone Bayraktar, di fabbricazione turca, che a distanza e senza sporcarsi le mani consente la distruzione del mezzo nemico.

Ci sono quei cinque cadaveri, che non possono essere ignorati, che impongono pietà e che ricordano che non è né uno spettacolo né un videogioco. La tecnologia applicata alla guerra, per quanto evoluta, non può e non deve far dimenticare i sentimenti di umanità. La guerra, dunque, è una tragedia per tutti. Certamente lo è per i civili. Ma lo è anche per i militari degli eserciti in campo. Se si è consapevoli di questo non si può non essere anche consapevoli del fatto che la pace è una urgenza assoluta, quale che sia la prospettiva nella quale si guarda al conflitto. Né le sofisticate tecnologie utilizzate sul campo possono occultare che la posta in gioco è, innanzitutto, la vita di migliaia di persone. Tale urgenza coinvolge la responsabilità dei leader. E, perciò, non solo di Putin, ma anche di Biden e di Xi Jinping. Putin è l’aggressore, e non serve altro per delinearne le responsabilità.

Biden sta mostrando, in tutti i modi, la volontà di usare la guerra in Ucraina per indebolire o, addirittura, eliminare Putin. E, perciò, sta partecipando attivamente ad essa, mostrando così di non lavorare per la pace. Ma anche Xi Jinping sembra osservare sornione cosa accade per trarne i maggiori benefici possibili per il suo paese e per la sua leadership. E certamente, almeno sinora, non si è attivato per conseguire la pace. In definitiva, occorre, con tristezza, prendere atto che l’unico Leader, consapevole fino in fondo che questa guerra non è un videogioco, e che realmente vuole, con tutte le sue forze, la pace è Francesco. Astolfo Di Amato

Da blitzquotidiano.it il 10 maggio 2022.

Migliaia di corpi di soldati russi sono stati ammucchiati in dei sacchi sui treni frigorifero a Kiev, in Ucraina. Tutto questo mentre la Russia sfila sulla piazza Rossa. Lo scrive su Twitter Anton Gerashchenko, braccio destro del ministro degli Interni ucraino.

“Mentre la Russia sfila sulla Piazza Rossa, migliaia di suoi soldati morti sono ammucchiati in sacchi su treni frigorifero”. 

Lo scrive su Twitter Anton Gerashchenko, consigliere del ministro degli Interni ucraino, citando il servizio di Al Jazeera English.

“I russi si rifiutano di prenderli, così l’Ucraina potrebbe anche doverli seppellire a spese proprie”, aggiunge. 

Guerra in Ucraina, cadaveri soldati russi lasciati da Mosca in vagoni freezer a Kiev

Decine di cadaveri di soldati russi dentro grandi sacchi bianchi ammassati in un vagone refrigerato di un treno nella regione di Kiev. 

Sono i soldati russi morti al fronte che le truppe di Mosca non hanno però portato con sé quando se ne sono andate. A mostrarli è il canale televisivo del Qatar Al Jazeera English, che dedica al ritrovamento un servizio per raccontare “il costo umano della guerra”.

Uno di loro “era di un’elite di paracadutisti”, si spiega nel servizio, in cui si vedono le immagini delle ‘mostrine’ attaccate sulle divise. In un sacco sono stati trovati anche dei gioielli, probabilmente rubati ai civili ucraini, spiega l’emittente qatarina, spiegando di avere avuto accesso all’area nella regione di Kiev dopo che è stata liberata dall’occupazione russa.

“Gli ucraini hanno trattato i morti dei nemici meglio di come hanno loro hanno trattato i civili. Saranno tenuti finché sarà necessario. Deciderà il governo perché la Russia si rifiuta di prenderli. Non li vuole.

Ogni corpo è una prova di un crimine di guerra. Così se rifiutano di prenderli, l’Ucraina li seppellirà a proprie spese”, spiega il colonnello dell’esercito ucraino Volodymyr Liamzin.

(ANSA il 25 aprile 2022) -  "La nostra stima è che siano circa 15.000 gli effettivi russi uccisi" finora dall'inizio dell'offensiva di Mosca in Ucraina. Lo ha affermato Ben Wallace, ministro della Difesa del governo di Boris Johnson, nel suo aggiornamento settimanale sulla guerra ai deputati della Camera dei Comuni britannica.

Wallace ha aggiunto che stime di fonte varia indicano inoltre in circa 2.000 i veicoli blindati russi distrutti e in 60 gli elicotteri o aerei perduti. L'invasione, che secondo il ministro britannico nei piani di Mosca sarebbe dovuta durare "al massimo una settimana", sta ora richiedendo "molte settimane", ha concluso Wallace.

"Mio figlio è morto?": le chat choc delle famiglie dei soldati russi. Federico Garau il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

Secondo le autorità ucraine, in molte occasioni i russi non recupererebbero i loro caduti sul campo né accetterebbero la restituzione dei corpi.

Mentre il conflitto fra Russia e Ucraina si fa sempre più acceso, arriva la pesante accusa mossa contro il ministero della Difesa russo, reo, secondo alcune versioni, di non curarsi dei propri caduti sul campo. A tal proposito, secondo quanto affermato da alcuni giornalisti ucraini, ci sarebbero addirittura delle chat sui social russi in cui i genitori dei soldati starebbero disperatamente cercando notizie dei propri figli dispersi.

I messaggi su VKontakte

I giornalisti, come riportato da Repubblica, sarebbero riusciti ad infiltrarsi in alcuni gruppi aperti su VKontakte (una sorta di Facebook) e qui avrebbero recuperato alcune chat. "Salve. Sono il padre di Dmitry Krasoktin. Era con l'unità 64044 a Pskov. Abbiamo perso i contatti con lui dal 22 febbraio. L'ultima volta ci aveva detto che la sua unità sarebbe arrivata a Kharkiv il 23 febbraio. Il 26 febbraio abbiamo ricevuto una telefonata dal comandante che ci ha detto che nostro figlio è disperso", questo uno dei tanti messaggi riferiti dai reporter ucraini. La conversazione prosegue. Al padre di Dmitry viene consigliato di continuare a chiamare il comandante, ma l'uomo afferma di stare chiamando ogni settimana senza ricevere risposte.

Sempre nelle chat sarebbero molti i genitori ad affermare che il proprio figlio viene dato come "disperso", senza sapere come interpretare realmente questo termine.

Le accuse di Kiev

Stando a quanto dichiarato dalle autorità ucraine, le vittime fra i soldati russi sarebbero oltre ventimila, e l'esercito non starebbe facendo nulla per recuperare i morti, neppure quando le autorità di Kiev propongono di restituire i corpi. Corpi che, dunque, non verrebbero mai restituiti alle famiglie.

Sempre secondo quanto affermato dagli ucraini, a seguito della battaglia per la città di Voznesensk, sarebbe stato addirittura riempito il vagone refrigerato di un treno con i corpi dei russi caduti rimasti abbandonati dai propri compagni per le strade e i campi. I cadaveri sono stati poi portati a Kiev, e li si troverebbero ancora, perché il ministero della Difesa russo non avrebbe mai risposto alle sollecitazioni delle autorità ucraine. Insomma, a pari del conflitto in atto, proseguono anche le accuse e gli attacchi.

Ecco quanto può davvero durare la guerra in Ucraina

In una recente intervista, l'ex comico ed attuale presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky ha parlato proprio del problema dei corpi rimasti a seguito dei combattimenti, ed ha chiesto di trovare una soluzione.

Il programma ClearView

In Ucraina sta ora operando un gruppo informatico che ha il compito di dare un nome ai soldati russi deceduti tramite riconoscimento facciale reso possibile grazie all'intelligenza artificiale. Il volto viene messo a confronto con un database contenente numerose immagini ottenute dal social VKontakte e da internet ed in questo modo in molti casi è possibile risalire all'identità del soldato deceduto. Sarebbe stata l'azienda americana ClearView a dare in dotazione all'esercito ucraino tale programma.

Gli ucraini affermano di stare agendo in totale buona fede, ma il sospetto di molti, anche di un'esperta intervistata dal Washington Post, è che in realtà si tratterebbe di una vera e propria forma di guerra psicologica. C'è chi pensa che l'identificazione dei corpi serva per poi mandare le foto dei soldati uccisi alle famiglie che ancora li aspettano in Russia.

Toni Capuozzo, "ecco il numero di militari russi uccisi": le cifre sconvolgenti. Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

Nessuno vuole la pace. Per Toni Capuozzo il cessate il fuoco in Ucraina è ormai "un'illusione". Il problema sarà solo capire "fino a quando e se resterà una guerra confinata lì". I continui botta e risposta tra Washington e Mosca fanno pensare che il conflitto oramai sia già combattuto "al di fuori del campo di battaglia vero e proprio". L’Ucraina ha dimostrato di saper resistere, mentre la Russia si è rivelata più debole rispetto a 50 anni fa. Una situazione che potrebbe ingolosire molti. "La Nato - sottolinea l'ex vicedirettore del Tg5 - va forte: c’è la coda per entrare a farvi parte. Gli Stati Uniti vanno alla grande: hanno l’Europa raccolta attorno alla Nato, stanno cercando di trasformare l’Ucraina in una trappola per l’incauto Putin. I negoziati stanno a zero, virgola. Il pacifismo anche".  

Anche l'Unione europea secondo Capuozzo sarebbe a un passo da un'eventuale escalation. "'Vincere', è la parola d’ordine, ormai, dell’Unione europea, che non si accontenta di respingere l’invasione. Per bene che vada ci siamo infilati in una guerra civile di confine, senza sapere come e dove uscirne. Per male che vada, meglio non pensarci". 

Le uniche certezze, arrivati a questo punto, sono i numeri. Capuozzo riporta sul blog di Nicola Porro, quelli ufficiali: "Militari russi uccisi 19.900 (fonte Esercito ucraino); civili uccisi 1932 (fonte Nazioni Unite); crimini di guerra russi sotto investigazione 6482 (fonte Procura di Kiev); profughi in Italia 92716 di cui 34223 minori e 10566 uomini". Un vero e proprio sterminio che vede ancora lontanissime eventuali trattative.

“Militari russi e civili uccisi”. Capuozzo svela i numeri della guerra. L’inviato di guerra elenca le perdite sui due fronti e le difficoltà per i negoziati. Toni Capuozzo il 16 Aprile 2022 su Il Giornale.

La pace è un’illusione, ormai. C’è solo da capire fino a quando e se resterà una guerra confinata lì, anche se ormai è combattuta molto al di fuori del campo di battaglia vero e proprio. L’Ucraina ha dimostrato di saper resistere, e dunque appare un po’ più forte (coraggio, ma anche l’appoggio di intelligence e di armamenti Nato). La Russia appare più debole, o meno forte di quanto apparisse 50 giorni fa. La Nato va forte: c’è la coda per entrare a farvi parte. Gli Stati Uniti vanno alla grande: hanno l’Europa raccolta attorno alla Nato, stanno cercando di trasformare l’Ucraina in una trappola per l’incauto Putin. I negoziati stanno a zero, virgola. Il pacifismo anche.

L’opinione pubblica – e l’informazione – europea appaiono pronte a una possibile escalation. “Vincere”, è la parola d’ordine, ormai, dell’Unione europea, che non si accontenta di respingere l’invasione, ma cosa vuol dire? Riprendere Crimea e repubblichette del Donbass? Per bene che vada ci siamo infilati in una guerra civile di confine, senza sapere come e dove uscirne. Per male che vada, meglio non pensarci. Quanto a certezze, restano i numeri, al cinquantesimo giorno:

1. Militari russi uccisi 19.900 (fonte Esercito ucraino);

2. Civili uccisi 1932 (fonte Nazioni Unite);

3. Crimini di guerra russi sotto investigazione 6482 (fonte Procura di Kiev);

4. Profughi in Italia 92716 di cui 34223 minori e 10566 uomini.

Il “Corriere della Sera” online l’altro ieri pubblica un articolo sui “fazzoletti bianchi”: «Un segno di riconoscimento dell’esercito russo portato sia dai militari che dai civili ucraini nei territori liberati dalla Russia che non hanno paura di essere accusati di collaborare con la Russia». Segue poi la spiegazione del perché (secondo la propaganda russa ndr) occorra imitarli: «È un modo semplice per dichiarare pubblicamente il sostegno per i nostri ragazzi e esprimere solidarietà con i civili ucraini che hanno subìto il fuoco indiscriminato delle forze armate ucraine e dai battaglioni nazionalisti».

Nella stessa edizione, c’era una foto da Bucha. Il fazzoletto blu ucraino al braccio del militare. Un altro fazzoletto al braccio della vittima. 

Da avvenire.it il 15 aprile 2022.

I soldati russi che bussano alla sua porta. “Vai in cantina, vecchia”. E lei che sfida le armate con la Z. “Uccidetemi pure, ma non ci andrò”. L'ottanduenne Zinaida Makishaiva ha deciso di rimanere nella sua Borodyanka, città a nord-ovest di Kiev, sfidando la breve ma brutale occupazione delle truppe russe. “Ora che i miei sogni sono più felici posso dirlo: non ce l’avrei fatta a sopravvivere senza le mie galline, devo ringraziare loro”, racconta la donna all'agenzia Reuters. 

I carri armati russi si presentano la prima volta all’inizio di marzo. “Non ero molto spaventata, ho vissuto il secondo conflitto mondiale e il crollo dell’Unione sovietica”, racconta Makishaiva. 

Poi però i razzi iniziano a scandire il ritmo brutale della guerra. Alcuni missili Grad colpiscono la sua casa distruggendo il pollaio e un vicino di casa muore in un bombardamento. “Non potevo più andare nei campi a lavorare, a prendere cibo, niente. La paura non mi consente di descrive cosa provassi. Mi sentivo come morta, insensata”, racconta Makishaiva.

Intorno a lei solo cumuli di macerie, case dissestate, morte. “Le porte delle abitazioni erano state spazzate via. Non c’era più acqua, gas e cibo: niente di niente”. Salvo il coraggio dell’anziana donna che rimane in piedi tra le rovine: “Da mangiare mi erano rimaste solo un po’ di patate. Ho deciso quindi di portare dentro le galline e le ho fatto deporre le uova”. 

Trenta giorni di resistenza, con i russi che entrano nelle case e saccheggiano: “Le truppe sono venute in tre diverse ondate, ma la prima è stata la più brutale. Sono entrati e mi hanno ordinato di rimanermene in cantina”.

Ma Makishaiva disobbedisce, sfidando il fuoco incrociato per andare a prendere secchi d’acqua nel vicino pozzo. “Dovevo cavarmela da sola, perché mio figlio e i miei nipoti sono lontani in altre parti del Paese”, dice la donna. 

Non ci sono solo i cannoni, la fame e i fucili puntati alla tempia. Per trenta giorni Makishaiva non ha parlato con nessuno, divorata dall’insonnia. “Mi sentivo come sorda. Non c'era segnale per la radio e per un mese mi sono trovata a conversare solo con il mio cane e con il mio gatto”. 

Un incubo ad occhi aperti terminato solo una settimana fa, quando le truppe ucraine hanno riconquistato Borodyanka e Makishaiva è tornata alla vita. “Adesso esco, cammino più di tre ore al giorno e vado a prendere gli aiuti alimentari nella chiesa della città ”. 

Zinaida è anche tornata a dormire. Merito della radio che annuncia la mezzanotte e di una pasticca di valeriana che la consegna tra le braccia di Morfeo fino alle cinque del mattino. 

Ma l’anziana donna non dimentica la ferocia quando ad ogni passo vede un edificio in macerie o un carro armato distrutto. E si rivolge a Dio: “Prego che tutto questo sia passato e che i combattimenti non tornino più”.

Ucraina, il ritorno tra le macerie di Makariv. Per contare i sopravvissuti. Padre Bogdan, Oleva Parhomenko, Kateryna Skororvan, Vasili Antonyk. Sono in tanti ad essere fuggiti dall’hinterland di Kyiv quando hanno cominciato a sparare. E ora rientrano, cercando le loro case, che non ci sono più. Federica Bianchi (da Makariv) su L'Espresso l'11 aprile 2022.

È il momento del rientro nell'hinterland di Kyiv. Di contare i sopravvissuti. Di constatare che i risparmi di una vita sono andati in fumo insieme alla propria casa. Padre Bogdan pesta i vetri a terra, quello che resta della finestra della sua chiesa cristiana ortodossa della cittadina di Makariv, dedicata al vescovo ortodosso Rastovski. Alexsei, un parrocchiano che abita poco distante, sta prendendo le misure per rifarli. «L'ultima messa l'ho celebrata il 27 febbraio», dice in questa domenica prima di Pasqua: «Il 28 sono arrivati gli aerei russi, poi i carri armati e il mio villaggio, Makaverich, è finito sotto occupazione russa. Il giorno in cui hanno sparato al mio vicino mentre fumava in giardino ho deciso di andare via insieme a mia moglie».

La Chiesa si trova a pochi metri dal ponte di accesso al paese. Le auto in entrata fanno lo slalom tra i due crateri creati dalle bombe alla fine di febbraio: ma tutta l'area impone un duro esercizio di sopravvivenza. «Siamo fuggite quando ancora i russi non ci sparavano contro», dice Oleva Parhomenko, 32 anni: «Mi sono rifugiata nella campagna a ovest, dove per trenta giorni ho dormito vestita, pronta a scappare ancora. I russi non volevano che ce ne andassimo, volevano tenerci tutti ostaggi quando hanno cominciato a subire perdite. Oggi sono tornata a Makariv e ho trovato il mio appartamento completamente distrutto».

In questo villaggio e nelle sue frazioni a 40 chilometri da Kyiv, vivevano 15mila persone prima della guerra ma la maggior parte di loro è fuggita. Poco più di mille ha vissuto l'orrore del passaggio delle truppe russe in marcia verso Kyiv e dell'occupazione dei paesini di Andriivka e Lipyivka. Un'occupazione diventata sempre più cruenta man mano che l'ingresso a Kyiv stava fallendo, arrestato dall'esercito ucraino, dai partigiani e dai suoi propri errori nelle campagne intorno a Irpin. Secondo il sindaco Vadym Tokar il 40 per cento del villaggio di Makariv è distrutto e 132 persone sono state ritrovate cadaveri, civili o membri della resistenza.

Anche a Kateryna Skororvan e alla sua mamma l'artiglieria russa ha trasformato in rovine la villetta in campagna: «Sopravvive solo la cucina estiva e il garage», dice lei indicando la porta in metallo dipinta di verde. «Siamo diventate a tutti gli effetti delle senza fissa dimora», dice mentre versa le crocchette al pastore tedesco. Il cane è l'unico che continua a vivere a casa, in giardino.

Decine di cani senza padrone vagano alla ricerca di cibo per i villaggi e le campagne ucraine intorno a Kyiv: e non solo cani, anche gatti, polli, maiali, perfino cavalli. I padroni sono partiti, alcuni morti, le recinzioni distrutte. Skororvan offre un pasto a tutti. È il suo modo di aiutare. «Almeno io posso lavorare online e guadagnare un po' perché mi occupo di marketing digitale e parlo inglese», sospira. Internet non funziona nel villaggio ma è in piedi in gran parte della regione. Segno dei tempi, di questa guerra incastrata tra il secolo di ieri e quello di domani. «Mia madre, invece, era la maestra del Paese e ora nessuno va più a scuola», aggiunge: «Ricostruire la nostra casa non sarà facile».

Vasili Antonyk, un viso tondo avvolto da una pelliccia bianca intrecciata da capelli e barba, da Makarov non si è mai mosso. «Non ho soldi, non ho più mia moglie e mio figlio è un chirurgo a Kyiv», dice: «Dove dovevo andare?». Ha passato un mese seduto sul divano in velluto marrone del suo salotto, due centrini in uncinetto posati sulla spalliera, le medicine appoggiate con ordine su un tavolino accanto, insieme alle forbicine per le unghie, la bottiglietta d'acqua e un orologio da polso col cinturino in pelle nera. «Ascoltavo i bombardamenti, pensavo, dormivo. Ho provato ad andare nello scantinato ma faceva troppo freddo». Il giorno che i russi sono entrati in casa sua ha detto loro che nell'epoca dell'Unione sovietica anche lui era autista di carri armati. Che poi è diventato psichiatra e che il figlio è un chirurgo a Kyiv. «Sono stati gentili con me», dice accanto al buco nella parete frontale della casa colpita da un razzo, a pochi metri la lapide per al sua tomba che è già pronta in giardino: «È Putin che è uno psicopatico, non i russi». La voce trema.

Nel villaggio non tutti sono convinti che i russi si siano ritirati definitivamente. Temono il ritorno e la vendetta. Sempre spietata. Quando ha messo piede fuori di casa, il 1 aprile, Antonyk ha riconosciuto subito il cadavere del suo vicino Viktor, 50 anni, colpito lungo la strada principale che fiancheggia il cimitero mentre tornava a casa dal lavoro in bicicletta. Colpito e ucciso da un cecchino. Senza che nessuno abbia ancora capito perché. Antonyk ha sentito lo sparo. Lo ricorda bene perché «è stato un colpo distinto, davanti casa». Il corpo di Viktor, autista di autobus, è rimasto a terra, incastrato nella bicicletta, poi ricoperto da una coperta di lana a scacchi rossi e gialli per tre settimane. I russi ne avevano minato il cadavere. Come quando in Afghanistan minavano i giocattoli. Per fare male. Per terrorizzare gli innocenti e ridurli in sottomissione. Nel cimitero non si può ancora entrare. Ci sono mine anche tra le tombe. I morti devono aspettare, e i vivi pure.

Mine e munizioni sono sparse un po' ovunque nell'area. Quando i russi si sono ritirati il 31 marzo hanno dato fuoco alle polveri, dopo averle ammassate nelle case dei cittadini. Ma nei cortili, nelle aie, tra i cespugli ci sono ancora munizioni di ogni tipo, mortai, proiettili, ordigni inesplosi. I campi di grano, ancora solo distese di fango, sono puntellati dalle casse verdi delle munizioni militari russe. E dalle trincee. Scavate fin dentro le case degli abitanti. Un cerchio dipinto di giallo sul cancello d'ingresso vuol dire che sono passati gli sminatori dell'esercito, che la famiglia può rientrare a casa. I militari sono a decine nelle strade, come i poliziotti. A bonificare il territorio e a valutare i danni.

Poco fuori il villaggio, nella frazione di Lipivka, Marina e Sergei raccolgono legna per riscaldarsi. In tutta la regione ancora non c'è acqua corrente, non c'è elettricità e nemmeno riscaldamento. Da sei settimane si vive col cappotto sempre addosso, tra neve e pioggia battente, con una temperatura intorno allo zero. L'umidità penetra nelle ossa e arriva al cervello. «Un nostro vicino aveva tirato una molotov contro i carro armati russi», dice lei: «Lo sono venuti a cercare in casa e l'hanno giustiziato». Nessuno ha più osato uscire di casa. «È molto fortunato il nostro amico Volodomyr di Kharkiv. Ci ha appena fatto sapere di essere in Sicilia, con i figli a scuola. È contento». Ha 65 anni. È potuto uscire dal Paese, a differenza di tutti gli uomini tra i 18 e i 60.

Uccisi per una sigaretta mancata, perché donavano cibo, o per una domanda. Nello Scavo su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2022.

Un padre è stato finito perché non aveva sigarette da offrire agli occupanti. Per eliminare Valeryi e la moglie Nataliya hanno impiegato sette colpi: sei per lui, uno per lei. Erano andati in strada a dare un’occhiata. Non sono più tornati nella cantina dove li attendeva la figlia di 18 anni. A Hostomel il sindaco è stato centrato dai cecchini perché distribuiva cibo e farmaci nei rifugi sotterranei.

A mano a mano che le forze d’occupazione russa arretrano, è possibile raccogliere le prove dei brutali crimini di guerra. «Nelle ultime settimane, abbiamo raccolto prove che le forze russe hanno commesso esecuzioni extragiudiziali e altri omicidi illegali, che devono essere indagati come probabili crimini di guerra», ha affermato Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International. «Le testimonianze mostrano che civili disarmati in Ucraina vengono uccisi nelle loro case e lungo le strade in atti di indicibile crudeltà e scioccante brutalità».

«Mio padre aveva sei grandi buchi nella schiena». Lo ha raccontato Kateryna Tkachova, 18 anni. Il 3 marzo era a casa nel villaggio di Vorzel insieme ai suoi genitori, quando diversi carri armati contrassegnati con la lettera "Z" hanno occupato le strade. I suoi genitori, Nataliya e Valeryi, hanno lasciato la cantina dove si nascondevano per andare in strada. Prima però hanno detto a Katerina di non muoversi. Da li sotto ha sentito degli spari. «Una volta che i carri armati sono passati, sono saltata oltre la recinzione fino alla casa del vicino. Volevo controllare se erano vivi. Ho guardato oltre il recinto e ho visto mia madre sdraiata supina su un lato della strada, e mio padre era a faccia in giù dall’altro. Ho visto grandi buchi nel suo cappotto». L’occupazione armata gli ha impedito di avvicinarsi. «Il giorno sono tornata: mio padre aveva sei grossi buchi sulla schiena, mia madre un foro più piccolo nel petto». L’uccisione intenzionale di civili disarmati «è una violazione dei diritti umani e un crimine di guerra. Queste morti – insiste Amnesty – devono essere indagate a fondo e i responsabili devono essere perseguiti, compresa la catena di comando».

La geografia dei crimini segue a ritroso il tracciato dell’iniziale avanzata russa. Sono state ottenute prove di uccisioni indiscriminate anche a Charkiv e nell’oblast (regione) di Sumy. Fra l’altro è stato documentato un attacco aereo che ha ucciso persone in fila per ricevere del cibo a Chernihiv, mentre si moltiplicano i riscontri sui massacri a Izyum e Mariupol.

«Mio marito non è morto subito. Dalle 21,30 alle 4 del mattino respirava ancora, anche se non era cosciente. L’ho implorato: “Se puoi sentirmi, per favore muovi il dito”. Non lo ha mosso, ma ho messo la sua mano sul mio ginocchio e l’ho stretto. Il sangue scorreva. Quando ha esalato l’ultimo respiro, mi sono rivolta a mia figlia e gli ho detto: "Sembra che papà sia morto"». Trucidato per aver rifiutato un pacchetto di sigarette che non aveva. La moglie, 46 anni, ha raccontato che le forze russe hanno assediato il villaggio di Bohdanivka a partire dalla notte tra il 7 e l’8 marzo. Il giorno dopo, la famiglia – marito, moglie, suocera, e la figlia di 10 anni – ha sentito sparare dalle finestre del piano di sotto. Lei e il marito hanno gridato in russo: “Siamo civili, siamo disarmati”. A quel punto due militari hanno rinchiuso tutti al piano di sotto, nel vano caldaia: “Ci hanno costretto a entrare e hanno sbattuto la porta. Dopo appena un minuto hanno riaperto la porta – ha raccontato la donna ad Amnesty International –, e hanno chiesto a mio marito se avesse delle sigarette. Ha detto di no, non fumava da un paio di settimane». Non era la risposta che la soldataglia voleva sentire. Prima gli hanno sparato al braccio destro. Poi l’altro soldato ha ordinato: «Finiscilo». E gli hanno sparato alla testa. Quella notte un vicino di casa ha assistito all’irruzione e ha confermato di aver visto il corpo dell’uomo accasciato in un angolo del locale caldaia. La donna e il bambino di 10 anni sono fuggiti dal villaggio quello stesso giorno.

Durante i primi giorni dell’occupazione russa di Hostomel, devastata per la vicinanza con l’aeroporto militare di Kiev, Taras Kuzmak consegnava in auto cibo e medicinali nei rifugi antiaerei dove nascondevano i civili. Li hanno bersagliati per questo. Alle 13.30 del 3 marzo, Taras era con il sindaco Yuryi Prylypko e altri due uomini, quando la loro auto è stata colpita da colpi di arma da fuoco sparati con precisione da un grande complesso residenziale che era stato sequestrato dalle forze russe. Hanno cercato di saltare fuori dall’auto, ma uno di loro, Ivan Zorya, è stato ucciso immediatamente, mentre il sindaco Yuryi Prylypko è caduto a terra ferito. Taras Kuzmak e l’altro sopravvissuto si sono nascosti dietro un escavatore per ore mentre il tiro dei cecchini continuava. «Ci hanno notato e hanno immediatamente aperto il fuoco, non c’è stato alcun avvertimento», ha raccontato Tara. «Potevo solo sentire il sindaco Prylypko. Sapevo che era ferito, ma non riuscivo a vederlo e non sapevo se il colpo sarebbe stato fatale o meno. Gli ho solo detto di rimanere immobile, di non fare alcuna mossa». Sono rimasti accucciati per quasi due ore. Intorno alle 15 hanno sparato di nuovo nella loro direzione «e circa mezz’ora dopo ho capito che il sindaco era morto». La testa di Ivan Zorya è stata spazzata via dai proiettili, «penso che stessero usando qualcosa di grosso calibro». 

L'orrore nel villaggio vicino Kiev. Un mese nel bunker tra i cadaveri: “Persone morivano d’infarto o asfissia, si dormiva legati per non calpestare gli altri”. Giovanni Pisano su Il Riformista l'11 Aprile 2022. 

Un mese vissuto nello stesso bunker, al riparo dai bombardamenti e dagli attacchi dell’esercito russo. Trenta giorni vissuti nel seminterrato di 60 metri quadri di una scuola dove su oltre 300 persone presenti, 11 sono morte per infarto o asfissia, altre, almeno 8 civili, sono state uccise dalle truppe di Mosca e tenute lì, insieme ai vivi. E’ da brividi il racconto, riferito all’inviato dell’Ansa, di diversi abitanti di Yagydne, uno dei villaggi vicino a Lukashivka e Chernihiv, a nord della regione di Kiev. Il villaggio è stato distrutto dall’esercito russo che “hanno ucciso otto civili”.

A morire, per infarto o asfissia, anche 11 persone che per oltre un mese sono state nel rifugio di una scuola che ospitava in totale 380 civili. “Siamo stati per oltre un mese in 380 nel rifugio di una scuola, ma undici persone sono morte per infarto o perché non riuscivano a respirare. I soldati russi, tenendoci il fucile puntato, ci hanno permesso mano mano di seppellirli. Erano loro a darci il cibo dalle loro scatolette, mentre nelle nostre case hanno fatto razzie delle nostre cose: indumenti e roba da mangiare” spiegano.

Sull’argomento arriva anche il commento dell’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk che nel suo videomessaggio quotidiano racconta l’orrore della guerra che in Ucraina è arrivata al 47esimo giorno. “Mi ha colpito molto la storia di Lukashivka della regione di Chernihiv, che descrive come gli invasori trattavano soprattutto gli anziani. L’anziano Mykola, che ha più di 70 anni, testimone oculare, dice che quando i russi sono arrivati nel villaggio, hanno portato 140 persone nel seminterrato della scuola, il seminterrato di 60 metri quadrati. Non era permesso loro di uscire in cortile, e i morti erano tenuti lì insieme ai vivi. C’erano 50 bambini con loro, e così lui si legava con una sciarpa alla spalliera svedese quando dormiva, sospeso, per non calpestare nessuno accanto”. “Questo tipo di comportamento – aggiunge l’arcivescovo – non ha un futuro, e coloro che non onorano il padre e la madre, che non si prendono cura degli anziani, non possono avere la benedizione di Dio e non vivono su questa terra a lungo”.

L’arcivescovo ricorda poi il bollettino dei morti tenuto dalle Nazioni Unite: “Secondo gli ultimi dati dell’Onu, solo ufficialmente in Ucraina sono state uccise 1800 persone, ma la cifra reale – dice Sviatoslav Shevchuk- potrebbe essere molte volte di più, forse 10 volte, o anche maggiore, perché stanno cominciando solo ora a trovare i morti nelle città e nei villaggi liberati. Quasi 1500 persone sono ufficialmente scomparse, e non abbiamo notizie di loro. Potrebbero essere morti anche loro”.

Secondo infatti i dati diffusi dall’Onu, ad oggi le vittime civili del conflitto in Ucraina sarebbero almeno 1.842, tra cui 148 bambini. Lo rende noto nel suo ultimo bollettino l’ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), aggiungendo che i feriti sono almeno 2.493, di cui 233 minori. Le cifre, sottolinea l’agenzia Onu, sono sottostimate, viste le difficoltà negli accertamenti sul terreno.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

La civiltà contadina salva dal nulla delle fosse comuni. Ferdinando Camon su Avvenire il 12 aprile 2022.

Tornano le fosse comuni. Si vedono sempre più spesso sui giornali. Mentre scrivo questo articolo, ne sto guardando una, in una città dell’Ucraina, che era occupata ed è stata liberata. I liberatori vedono la terra smossa di recente e scavano: ed ecco apparire i morti. A volte son coperti da un telo, più spesso sono a contatto con la terra. Buttare i morti in una fossa comune significa sbarazzarsene, è il modo più spiccio per toglierli dalla vista, non è un modo per onorarli, ma per impedire che vengano onorati. Chi ha gettato quei morti in una fossa comune li odiava.

Chi scava e li tira fuori e li separa uno dall’altro per riconoscerli li ama. Chi li ha buttati nella fossa comune ha chiuso i conti con loro per sempre. Chi vuol tirarli fuori e seppellirli individualmente e nominativamente avrà conti aperti con loro per sempre. La vita continua all’infinito, e con la vita l’amore. Potrei anche dirlo all’inverso: l’amore continua all’infinito, e con l’amore la vita. Ho appena visto la foto del bambino che ha portato un succo di frutta sulla tomba della madre. Il succo si vede, è nel lungo bicchiere di plastica posato al centro della tomba. Il bambino è voltato verso di noi e ci guarda sorridendo, si vede che è contento. Lui e sua madre, con tanti altri, erano chiusi nel sotterraneo di un palazzo assediato, gli assedianti gl’impedivano di uscire, dovevano restare lì anche se lì morivano di fame e di sete. Sua madre è morta di sete. Adesso lui le porta da bere una raffinatezza: non banale acqua, ma un succo di frutta. È fiero di questo. E pensa che la madre sia fiera di lui.

È la morte come dialogo, tu e tua madre parlavate in vita e continuate a parlarvi dopo la morte. Perché questo sia possibile occorre che siate in due, tu e lei. La tomba permette questo dualismo. La fossa comune lo distrugge. Chi usa le fosse comuni vuole impedire i dialoghi dopo la morte. Ma sono quelli i veri dialoghi dell’uomo, i dialoghi in cui l’uomo dice la verità. In un certo senso, chi butta i morti in una fossa comune ci butta la loro verità. Ci sono fosse comuni tonde, come pozzi, e altre lunghe, come trincee. Questa che sto guardando è una trincea. Mentre vedo racchiuso in una foto questo sprezzo della civiltà, questo odio verso i nemici anche dopo che sono morti, vedo anche un’altra foto che mi commuove e mi riempie di orgoglio.

Vedo cioè dieci prigionieri russi in fila, inginocchiati, con le mani dietro la nuca. Li controllano dei soldati ucraini, col mitra in mano. Sono i vincitori. Uno dei vinti è appena morto, e i vincitori gli han fatto il funerale e l’han sepolto. Questi vinti, allineati e inginocchiati, ricevono controlli sanitari, cibo e acqua. Farebbero lo stesso loro, se fossero i vincitori? Spero di sì. Ma i vincitori di adesso sono contadini, e dicono di provare per i prigionieri un sentimento proibito in guerra: compassione. Ci voleva la civiltà contadina per riportare un po’ di umanità. Sono figlio di contadini, e non me ne vergogno.

Scarpe infangate. I russi hanno calpestato anche i nostri ricordi. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta il 30 Marzo 2022.

Nella mente restano solo immagini, il mondo che c’era prima che cerchiamo di riconquistare è stato distrutto dalle bombe, dai tank e dagli stivali sozzi dei soldati russi.

Cerchi di riconoscere i tuoi cari posti tra le mappe, le foto, le notizie sui paesi liberati dall’esercito ucraino. Se quella chiesa sul video era la chiesa dove sei stata battezzata a 6 anni, perché sei nata in Unione Sovietica dove Dio non esisteva, dove battezzare i bambini era un reato e quindi poteva succedere solo nell’Ucraina indipendente, due settimane prima di cominciare la prima elementare. No, non era la tua chiesa. Ma è una speranza di chiesa, magari in uno di questi giorni verrà liberata anche la tua.

Raccogli i brandelli dì notizie, attaccate alle linee telefoniche distrutte, che arrivano tra interferenze, scricchiolii da lontano, con quelle parole che ormai contengono tutto: siamo vivi, quello che segue dopo è irrilevante. Sono zone dove le luci sono spente e i ripetitori abbattuti.

Prima di voi, soldati russi, sono arrivate le vostre bombe a distruggere e a spaventare. Dietro le bombe siete arrivati voi con le scarpe sporche di fango delle vostre paludi, vi siete insediati lì nelle nostre case, avete ammazzato i nostri animali per sfamarvi, perché nessuno vi manda più i rifornimenti, avete portato fuori i nostri tavoli, dove noi ci sedevamo in famiglia a festeggiare le piccole feste. Ci avete bevuto sopra, poi avete cavalcato i vostri carri armati alla ricerca dei corpi fragili e spaventati femminili, per fare il giro dei vincitori su quei corpi e per le strade, nostre strade, dove in tanti abbiamo fatto i primi passi, dove andavamo a scuola con le cartelle piene di libri e di sogni, dove i nostri nomi sono rimasti scritti con la vernice sull’asfalto davanti alla scuola: classe 2003, l’anno in cui ci siamo diplomati.

Poi tanti di noi, come me, sono andati via, altri sono rimasti a fare i custodi del nostro passato vissuto insieme. Ci incontravamo per le cene di coscrizione per condividere le nostre vite pacifiche, per far conoscere le nostre famiglie ormai allargate con mariti, mogli e figli per poi essere pestati dalle vostre scarpe infangate.

Non ci sono i cellulari a testimoniare questo, li avete sequestrati, ci sono solo i vecchi cellulari gsm che grazie a qualche tacca una volta ogni tanto servono a comunicare dì essere vivi, per condividere paure e dolore. Oltre quelle chiamate, cade il silenzio.

Provi ad arrivarci con la memoria. A salire le scale dell’ingresso della scuola, a girare il tornante verso la via la più lunga del paese, dove abita tua cugina, dove conosci ogni buca nell’asfalto. Voli verso l’ufficio postale e verso il comune, prosegui fino alla fine della strada, dove la via diventa un campo di fiori. Adesso lì in quelle strade e in quei campi ci sono le vostre mine e le vostre scarpe fangose, arrivate a calpestare non solo il presente, ma anche tutti i nostri ricordi.

Non ci sono più civili, chi è morto, chi è scappato nei paesi vicini per sopravvivere. Perché quella non è vita, è sopravvivenza. Correre piegati da casa fino alla cantina che funge da rifugio, mentre il cielo si spezza in due. Contare per quanto basterà il cibo, sprofondare nei silenzi e nel buio di quelle cantine tra vicini di casa e le provviste. Di cosa parlate tra di voi? Sapete che giorno è oggi? Cantate le canzoni ai vostri figli? Gli fate fare un po’ di compiti per non perdere per sempre il programma di studio? Pensate agli orti? Pensate a seminare questa primavera con i missili che vi volano sopra le teste in direzione della capitale? Chi arerà le terre, se i cavalli sono già stati uccisi? Cosa germoglierà nei vostri campi minati? Avete seppellito i vostri cari, morti nei primi giorni sotto le bombe, quelle che dovevano solo spaventare, ma le bombe sono cieche e le loro traiettorie si incrociano sempre con le vite umane una volta lanciate.

Guardi i tuoi cari in quelle foto in bianco e nero, recuperati l’estate scorsa a casa. Hanno quei bordi ondulati, le scritte dietro con la penna blu: 1954, 1984, 1988. Gli occhi divorano ogni centimetro di quelle foto, ogni ruga sul viso e ogni piega sulle camicie e vestiti. Perché le traiettorie delle bombe sono imprevedibili, una volta lanciate possono far sì che quelle foto rimarranno l’unica memoria concessa, se non ripiegherete le vostre scarpe fangose dalle nostre terre del sole.

Come piume sull’asfalto dopo un colpo di mortaio, ma erano persone. Uniche. Barbara Stefanelli su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.

Tetiana Perebyinis aveva 43 anni ed era in mezzo ai suoi due ragazzi. Il primogenito Mykyta, 18, chiudeva la fila, Alisa, 9, la apriva. Sono morti a Kiev, uccisi da un copo di mortaio sparato sui civili.  

Nello scatto di Linsey Addario, mamma Tetiana (43 anni), tra i due figli Alisa (9) e Mykyta (18) e, in primo piano, il volontario Anatoly (26): tutti e 4 uccisi a Irpin.

I loro corpi in fila sull’asfalto, il trolley grigio rimasto assurdamente in piedi. L’abbaiare disperato di un cane a tagliare la polvere dopo l’esplosione. La fotografia di Lynsey Addario e il video di Andriy Dubchak resteranno nella memoria di questa guerra. La guerra scatenata da Vladimir Putin alle 5 di mattina di Kiev del 24 febbraio. Una guerra arcaica contro un Paese moderno, l’Ucraina, consapevole e forte di una giovane identità europea temprata in piazza Maidan pochi inverni fa. Tetiana Perebyinis aveva 43 anni ed era in mezzo ai suoi due ragazzi. Il primogenito Mykyta, 18, chiudeva la fila, Alisa, 9, la apriva.

PERCHÉ TANTA ATTENZIONE A UNA FOTO, A UNA FAMIGLIA, TRA LE TANTE SPEZZATE IN GUERRA? PERCHÉ SONO LE PERSONE A RESTARE SOTTO LE MACERIE DEI CONFLITTI, COME FOSSERO PIUME

Li guidava Anatoly, un giovane volontario che stava aiutando gli sfollati a scappare, morto poco dopo in ospedale. Sono caduti in sequenza, con le braccia stese nello stesso identico modo ai bordi del marciapiede, i polsi sovrapposti quasi dolcemente. Il padre, Serhiy, non era con loro: si era spostato a est per raggiungere la madre, malata, e portarla con sé. «Ci eravamo sentiti la sera prima», ha raccontato in un’intervista al New York Times. «Le chiedevo di perdonarmi perché non ero lì con loro, perché non c’ero io a proteggerli. Mi ha risposto: non preoccuparti, ce la faremo».

A fermarli - mentre cercavano di passare dall’altra parte del ponte - è stato un colpo di mortaio planato dritto tra loro. Perché tanta attenzione a una foto, a una famiglia, tra le tante spezzate - come sempre accade - in guerra? Perché sono le persone a restare sotto le macerie dei conflitti, come fossero piume. Persone e storie esclusive. Sono e siamo quello che siamo, direbbe la poetessa Wislawa Szymborska: casi inconcepibili, come tutti. Colpire deliberatamente i civili è un crimine di guerra, bombardare l’ospedale pediatrico di Mariupol è un crimine di guerra.

In Bielorussia gli ospedali sono pieni di soldati russi feriti in condizioni gravi. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.

Sono giovanissimi e riempiono le strutture sanitarie e gli obitori delle città vicine al confine con l’Ucraina. Un medico: «Dopo che la gente ha cercato di filmare i corpi caricati sui treni hanno iniziato ad effettuare queste operazioni solo di notte». 

Feriti e morti russi, spesso giovanissimi soldati di leva stanno riempiendo gli ospedali e gli obitori delle cittadine russe e bielorusse a ridosso del confine. Molti camion e ambulanze si recano in particolare verso i centri della Bielorussia come Narovlya, sul bordo della zona radioattiva di Chernobyl. E questo per due motivi: perché queste località sono le più vicine al fronte nord, quello attorno a Kiev, e perché così si evita di far vedere in Russia i risultati dell’Operazione militare speciale , come viene definita dal Cremlino.

Secondo Deutsche Welle, tantissimi feriti sarebbero stati vittime di esplosioni e incendi e arriverebbero nei nosocomi in condizioni molto gravi . Alcune testimonianze hanno parlato anche di obitori oramai stracolmi di corpi. Nella città di Mozyr, a ridosso del confine, l’obitorio non era già più in grado di ricevere morti il 3 marzo. Un abitante ha raccontato a Radio Krym.Realii, una sezione di Radio Liberty per Ucraina e Crimea, di aver visto molti sacchi neri che venivano scaricati da automezzi militari e messi su vagoni ferroviari russi. I passanti hanno iniziato a filmare quello che accadeva ma sono stati subito bloccati da militari che hanno imposto loro di cancellare ogni cosa dai cellulari.

Un medico dell’ospedale centrale ha detto che ora il controllo della struttura è in mano a polizia e servizi segreti. «Ci mancano i chirurghi. Dopo che la gente ha cercato di filmare i corpi caricati sui treni hanno iniziato ad effettuare queste operazioni solo di notte». I sanitari sono stati subito avvertiti: chiunque parlasse con fonti esterne, verrebbe subito licenziato.

Nell’ospedale numero 4 a Gomel già il primo marzo hanno iniziato a dimettere i pazienti ordinari allo scopo di liberare posti per i russi feriti, hanno raccontato parenti di malati. «Ci sono tantissimi russi e molti sono mutilati orribilmente», ha detto uno di loro alla stessa radio. Anche nelle cittadine russe a ridosso del confine arrivano comunque tantissimi feriti. Il giornale delle Forze Armate Stella Rossa ha parlato qualche giorno fa di 1.400 militari curati e mandati nei centri di riabilitazione.

In Crimea alcune scuole sarebbero state trasformate in ospedali da campo, secondo Refat Chubarov, presidente del Parlamento dei tartari di Crimea che si trova in esilio in Ucraina. «Il crematorio del villaggio Gvardeyskoye, vicino Simferopoli lavora giorno e notte», ha aggiunto.

Ucraina: in 24 giorni morti 847 civili. Denuncia da Mariupol: “Migliaia di deportati in Russia”. Penelope Corrado sabato 19 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.  

La guerra in Ucraina è entrata nel giorno 24, mentre proseguono feroci i combattimenti per le strade di Mariupol: il sindaco della città assediata, riferisce di intense battaglie di strada nel centro della città , che ostacolano gli sforzi per salvare le centinaia di persone ancora intrappolate nei sotterranei del teatro bombardato. Le forze russe hanno circondato il porto meridionale, che ha dovuto affrontare giorni di pesanti bombardamenti.

Migliaia di residenti di Mariupol sono stati portati in remote città della Russia, “deportati come fecero i nazisti durante la seconda guerra mondiale”. La denuncia è del sindaco della città martoriata dalla guerra Vadym Boichenko, che ha postato su Telegram un comunicato, riferisce Ukrinform.

Guerra in Ucraina, i dati Onu: almeno 847 vittime civili

Sempre più drammatico il numero delle vittime civili secondo l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Si conterebbero al momento 847 civili, inclusi 64 bambini, dall’inizio dell’invasione. La maggior parte dei morti è stata causata da bombardamenti e attacchi aerei. Ma i funzionari dell’Onu ritengono probabile che il totale reale sia molto più alto. Proprio i missili, in particolare quelli ipersonici sono stati impiegati dalla Russia per la prima volta in assoluto dall’inizio della guerra, distruggendo un deposito di armi nell’Ucraina occidentale. I missili ipersonici viaggiano molto più velocemente della velocità del suono, rendendoli difficili da intercettare.

La guerra in Ucraina si combatte anche sul piano economico e finanziario. Non a caso, oggi la Polonia ha chiesto il blocco commerciale: il primo ministro Mateusz Morawiecki ha esortato l’Ue a imporre un divieto totale del commercio alla Russia “il prima possibile”. Secondo il premier polacco, un blocco alle navi e alle merci russe costringerebbe Mosca a “fermare questa guerra crudele”.

Pechino definisce scandalose le sanzioni contro Mosca

Pechino ha invece ribadito la sua netta contrarietà alle sanzioni contro Mosca. “Stanno diventando sempre più scandalose”, ha dichiarato il vice ministro degli Esteri Le Yucheng, dopo che già ieri il presidente cinese Xi Jinping le aveva condannate nella videoconferenza con il presidente americano Joe Biden. Secondo Li, i cittadini russi vengono privati dei loro beni all’estero “senza alcuna ragione”. “La storia ha dimostrato più volte che le sanzioni non possono risolvere i problemi”, ha continuato il vice ministro, ricordando che “colpiscono solo la gente comune, hanno un impatto sul sistema economico e finanziario e danneggiano l’economia globale”. Pare quindi caduto nel vuoto l’appello di Kiev a Pechino. “La Cina può essere l’elemento importante del sistema di sicurezza globale se prende la decisione giusta sostenendo la coalizione dei Paesi civili e se condanna le barbarie della Russia“. Lo aveva affermato, in un post sul suo canale Telegram Mykhailo Podolyak, capo negoziatore dell’Ucraina e consigliere del presidente Zelensky. “E’ una chance per sedere al tavolo come pari: l’Occidente deve spiegare a Pechino come 1,6 trilioni di dollari differiscano da 150 miliardi di dollari”.

L’Onu stima almeno 816 morti ma potrebbero essere molti di più. Guerra Ucraina, quanti sono i morti tra adulti e bambini: il mistero del numero delle vittime. Rossella Grasso su Il Riformista il 19 Marzo 2022.

Dall’inizio della guerra in Ucraina sono almeno 112 i bambini che hanno perso la vita nel conflitto. Lo hanno reso noto le autorità di Kiev aggiungendo che 140 bambini sono rimasti feriti in seguito all’aggressione militare russa. Ieri pomeriggio a Leopoli si è svolta una manifestazione pacifica durante la quale sono stati portati in piazza 130 passeggini vuoti a simboleggiare i bambini morti in guerra.

Numeri spaventosi a cui si aggiungono quelli che riguardano gli adulti. Ma ricostruire il numero esatto di vittime che ha fatto questa guerra in 23 giorni è impossibile. Tra notizie di propaganda, fake news e l’impossibilità di comunicazioni esatte da parte degli ospedali e dei presidi militari il caos è totale.

Secondo il numero ufficiale diffuso dalle Nazioni Unite sono 816 i civili uccisi di cui 58 minori. Ma l’Alto Commissario per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha voluto sottolineare come il bilancio dei morti sia probabilmente molto più alto. D’altro canto, per le autorità di Kiev, nella sola città di Mariupol, 1.300 persone sono ancora sotto le macerie e almeno altre 3.000 sono rimaste ferite. Numeri che non corrispondono a quelli forniti dalle autorità comunali che parlano di zero morti e un ferito grave. Ancora giovedì si ipotizzava un bilancio di 20mila vittime.

Anche dalla parte russa è difficile risalire a un bilancio esatto delle vittime. “Molte parole sono state ascoltate oggi a Mosca in relazione all’anniversario dell’annessione della Crimea, c’è stata una grande manifestazione. È stato riferito che un totale di circa 200.000 persone sono state coinvolte nella manifestazione. Circa lo stesso numero di truppe russe è stato coinvolto nell’invasione dell’Ucraina. Immaginate solo che ci sono 14.000 corpi e altre decine di migliaia di feriti e mutilati in quello stadio. Ci sono già così tante vittime russe dall’inizio di questa invasione”. Lo ha detto il presidente ucraino il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso video notturno. “Questo è il prezzo della guerra. Poco più di tre settimane. La guerra deve finire”, ha aggiunto. Secondo Mosca, le vittime tra i soldati russi sarebbero 498.

Capire esattamente quante siano le vittime è davvero impossibile. L’Onu sta verificando le informazioni su 1.252 feriti. In molte zone colpite dai raid russi le comunicazioni sono controllate o tagliate. Sul tema c’è una fitta nebbia che aleggia che rende impossibile conoscere la verità. Non sempre i dati vengono infatti trasmessi da ospedali e obitori visto il caos che l’Ucraina sta vivendo.

Secondo quanto spiegato dal Corriere della Sera, la missione di monitoraggio dei diritti umani in Ucraina (Hrmmu) è attiva dal 2014. Dal 24 febbraio, buona parte del personale ora è stato dislocato e non è in grado di visitare i luoghi degli incidenti e di interrogare vittime e testimoni. Ciò significa utilizzare altre fonti di informazione, inclusi contatti e partner sul campo. Seguendo il principio che questo conteggio va fatto perché i dati sulle vittime non sono solo una raccolta di numeri astratti ma rappresentano singoli esseri umani. Contarli è cruciale per cercare poi responsabilità e dare dignità a ciascuna delle vittime.

A testimoniare la carneficina in Ucraina ci sono anche le ore di video che circolano sui social. Fosse comuni, bombardamenti continui e colpi di artiglieria pesante che continuano incessanti sulle città ucraine testimoniano la grande quantità di vittime che questa guerra sta facendo.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival. 

NON SOLO PROPAGANDA. Le perdite russe sono reali: 1.500 veicoli distrutti e 7mila soldati uccisi.  DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 17 marzo 2022

Gli ucraini celebrano sui social i sorprendenti successi delle loro forze armate. Molta è propaganda, ma c’è più di un fondo di verità: in tre settimane di combattimento l’esercito russo ha subito perdite pesanti.

Secondo analisi di ricercatori indipendenti, quasi 1.500 veicoli sono stati distrutti o catturati. Molti sono mezzi moderni e costosi, non facili da rimpiazzare rapidamente.

L’esercito russo ha ancora una notevole superiorità su quello ucraino e può trasferire nuove risorse da altri settori. Ma mobilitare ulteriormente le forze armate, per Putin può essere un’arma a doppio taglio.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

 L'intelligence Usa: in Ucraina le perdite russe hanno superato quelle americane a Iwo Jima. La Repubblica il 17 Marzo 2022. I calcoli riportati dal New York Times. I soldati morti sarebbero più di settemila, i feriti tra i 14 e i 21mila.

Peggio che Iraq e Afghanistan messi insieme, peggio perfino di Iwo Jima. Secondo le stime dell'intelligence americana, riportate dal New York Times, il numero di militari russi morti in 20 giorni di invasione dell'Ucraina avrebbe già superato quota 7.000. Più, dunque, delle perdite accumulate dagli Stati Uniti in vent'anni di guerre mediorientali, e più del numero di marines caduti nella sanguinosa presa di Iwo Jima, durata 36 giorni tra il febbraio e il marzo del 1945.

Sono numeri che, se confermati, metterebbero a repentaglio la stessa capacità russa di proseguire nell'offensiva. Il ragionamento del Pentagono, infatti, è che la piena operatività di ciascuna unità di combattimento sarebbe compromessa con perdite che superano il 10 per cento degli effettivi. E sommando i morti ai feriti, che secondo le stesse stime sarebbero compresi tra i 14 e i 21 mila, quella soglia sarebbe stata ampiamente raggiunta, considerando che l'Armata russa ha mobilitato fin qui circa 150 mila militari. 

Sempre secondo il Pentagono, i cui rapporti sull'andamento della guerra finiscono quotidianamente sulla scrivania di Joe Biden, un tasso così alto di perdite starebbe provocando una grave crisi del "morale delle truppe", riducendo significativamente la loro disponibilità a combattere. Uno di questi dispacci ha addirittura citato casi di soldati che avrebbero abbandonato i propri mezzi e si sarebbero dispersi nei boschi.

Le stesse fonti dell'intelligence americana, che hanno parlato al New York Times a condizione di restare anonime, riconoscono tuttavia che per quanto ben calibrate, le loro sono pur sempre delle stime: basate incrociando le notizie diffuse sia dai russi che dagli ucraini, l'analisi delle immagini satellitari, e dati abbastanza standard come il numero di persone che di norma compongono l'equipaggio dei carri armati e di altri mezzi militari andati distrutti.

Mio marito è morto in guerra »: ecco chi era l’ex marine ucciso in Ucraina mentre combatteva contro i russi. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 30 Aprile 2022.

Aveva 22 anni e lascia un figlio di 7 mesi. E’ stato inviato al fronte da una società privata di contractor, era impegnato in supporto alle truppe di Kiev contro i russi.

«Mio marito è morto in Ucraina. Era partito con il desiderio di aiutare le persone, aveva sempre sentito che quella era la sua missione principale nella vita. Sognava di fare il poliziotto o il p ompiere»: Brittany Cancel è la vedova di Willy Joseph Cancel, 22 anni, morto in combattimento il 26 aprile in Ucraina, arruolato da una società di contractor per supportare le forze di Kiev contro l’offensiva russa. La storia di questo ragazzo, che lascia un figlio di 7 mesi e una moglie giovanissima, ha commosso l’America ed è stata raccontata in un ampio servizio dell’agenzia Ap, firmato dal giornalista Jonathan Drew. La notizia della sua morte è stata riferita ai media dai parenti più stretti e confermata dalla madre Rebecca Cabrera.

Willy Joseph Cancel negli ultimi tempi aveva prima prestato servizio volontario per alcuni mesi nel corpo dei vigili del fuoco di New York, poi da maggio 2021 fino allo scorso gennaio aveva lavorato come ufficiale di correzione in una prigione privata nel Tennesse, il Trousdale Turner Correctional Center, una struttura di media sicurezza, nei pressi Nashville. Nella sua giovane vita, l’esperienza che lui stesso considerava più significativa era però un’altra, quella militare, finita in malo modo. Nel 2017 , appena conseguito il diploma alla Newburgh Free Academy di New York , si era arruolato nei marines, dove era rimasto fino al 2021 in un reparto di fucilieri in North Carolina (senza mai essere schierato in scenari di guerra all’estero). La sua carriera militare si era conclusa con il congedo dopo una condanna per “cattiva condotta” per non aver eseguito un ordine dei superiori (il corpo dei marines non ha fornito ulteriori dettagli).

Poco prima dell’invasione russa in Ucraina, era stato assunto da una società di contractor con appalti per la sicurezza in vari scenari “caldi” in tutto il mondo ed è stato poi selezionato per il fronte contro la Russia. «Credeva in ciò per cui l’Ucraina stava combattendo, e voleva farne parte per evitare che la guerra non arrivasse qui» ha dichiarato la madre alla Cnn. «E’ una notizia molto triste» ha commentato il presidente americano Joe Biden, anche se la Casa Bianca, pur avendo letto dei rapporti sulla morte del giovane, non ha ancora avuto conferme ufficiali. «Sappiamo che le persone vogliono aiutare, ma incoraggiamo gli americani a trovare altri modi per farlo piuttosto che recarsi in Ucraina per combattere lì» ha aggiunto Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca.

Secondo quanto raccontato da Rebecca Cabrera,Willy Joseph Cancel era partito per la Polonia il 12 marzo e pochi giorni dopo è entrato in Ucraina. «Voleva andare a combattere, si sentiva obbligato perché la guerra era sbagliata e voleva aiutare, è stato molto coraggioso» è invece il ricordo di Triston Mannahan, 21 anni, ex coinquilino del ragazzo. Willy Joseph Cancel, secondo le notizie a disposizione, è il primo americano morto in combattimento in Ucraina dall’inizio della guerra.

Da iltempo.it il 30 aprile 2022.

Un americano e un britannico caduti in battaglia. Due vittime in armi per l'Ucraina rischiano di far innalzare ancora di più la tensione tra la Russia  e le forze occidentali. La vittima inglese è Scott Sibley, era con un connazionale di cui non si hanno al momento notizie. Fonti diplomatiche riportate dalla BBC hanno affermato che molto probabilmente i due erano volontari stranieri in servizio con le forze armate ucraine a Mariupol o comunque nel Donbas. 

Il cittadino americano ucciso in Ucraina si chiamava invece Willy Joseph Cancel. Ex marine, lavorava a tempo pieno nella polizia penitenziaria del Tennessee prima della guerra. Poi è stato assunto come contractor da una società militare privata. Aveva attraversato il confine con la Polonia il 12 marzo scorso e si era unito con le forze armate ucraine. 

"È la notizia del giorno" commenta l'analista geopolitico Dario Fabbri intervenendo allo Speciale Tg La7 condotto dal direttore Enrico Mentana. "È interessante notare come le istituzioni americane che l'hanno confermata non l'hanno magnificata in nessun modo come ci si poteva aspettare. Dietro potrebbe esserci la volontà di dire che si stratta di decisioni isolate" di singoli contractor, "scelte arbitrarie di soggetti che sono andati a combattere per motivi di soldi, ideologici, sentimentali". I "mercenari americani agiscono sempre al fianco" delle truppe Usa, ricorda Fabbri, ma "con ci sono prove" che ci siano dispiegamento americani in Ucraina. "È una notizia che è impossibile sottovalutare" ribadisce il direttore di Domino. 

Poi c'è il caso di Paul Urey e Dylan Healy, due volontari britannici catturati nei giorni scorsi dai russi in Ucraina. A rivelarlo, citata dalla Bbc, l’organizzazione non governativa Presidium Network, che sul posto opera con le organizzazioni umanitarie locali e le famiglie di sfollati, fornendo anche assistenza medica. I due, che erano in contatto con la stessa ong, secondo le stesse fonti sarebbero stati catturati a un posto di blocco dell’esercito russo vicino a Zaporizhzhia, mentre erano impegnati nella "consegna di aiuti umanitari" e in operazioni di evacuazione di "una famiglia ucraina". Secondo fonti di Mosca, invece, sarebbero delle "spie": i russi, dopo averli interrogati, li avrebbero condotti in un posto di detenzione ignoto.

Gli Italiani. (ANSA il 25 aprile 2022) - Da ieri non si hanno più notizie di Ivan Luca Vavassori, il 29enne ex portiere di Pro Patria, Legnano e Bra, che si era arruolato nell'esercito ucraino come volontario nelle brigate internazionali. 

L'allarme su Instagram e Facebook. "Ci dispiace informarvi - scrivono i gestori delle pagine social - che la scorsa notte durante la ritirata di alcuni feriti in un attacco a Mariupol, due convogli sono stati distrutti dall'esercito russo. 

In uno di questi c'era forse anche Ivan, insieme col 4° Reggimento. Stiamo provando a capire se ci sono sopravvissuti". Vavassori è nato in Russia ed è stato adottato da una famiglia piemontese. 

Partendo per l'Ucraina, Vavassori aveva ricordato l'estrema difficoltà nella quale si sarebbe trovato ad operare. "La nostra - aveva scritto - sarà una missione suicida perché abbiamo pochissime unità contro un intero esercito, ma preferiamo provare. Quel che importa è morire bene, soltanto allora inizia la vita". 

Ivan Luca è il figlio adottivo di Pietro Vavassori, titolare dell'Italsempione, azienda della logistica, e di Alessandra Sgarella, sequestrata dalla 'ndrangheta nel 1997 e morta nel 2011 di malattia. 

Dopo il benestare dell'ambasciata di Kiev in Italia, l'ex calciatore è entrato a far parte della "Legione di difesa internazionale Ucraina", diventando il 'comandante Rome'.

Da ansa.it il 26 aprile 2022.

"Sono vivo, ho solo febbre molto alta, alcune ferite in varie parti del corpo. Per fortuna nulla di rotto". 

Lo ha scritto sul suo profilo Istagram. Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore di 29 anni andato a combattere in Ucraina nelle brigate internazionali, a fianco dell'esercito di Kiev. Il giovane ha, inoltre, ringraziato i suoi followers per i "messaggi di supporto che mi avete mandato".

Il pool antiterrorismo della Procura di Milano, guidato da Alberto Nobili, ha aperto un'inchiesta conoscitiva, quindi senza titolo di reato né indagati, sulla vicenda di Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore di 29 anni andato a combattere in Ucraina nelle brigate internazionali, a fianco dell'esercito di Kiev.

Dopo che per un giorno non si sono avute notizie del giovane, e si era temuto per la sua morte, ieri sera è arrivato sui social un aggiornamento con sui si rassicurava che è sopravvissuto con tutta il suo gruppo all'attacco russo a Mariupol. L'indagine, al momento esplorativa, punta a capire se c'è un eventuale giro di arruolamento illegale o di mercenari. 

Il pm Alberto Nobili ha delegato la Digos ad effettuare tutti gli accertamenti opportuni per chiarire i contorni della vicenda e quindi, si suppone, anche per sentire l'ex calciatore e i componenti del suo gruppo.

Da quel che si sa, Vavassori è partito per l'Ucraina per una sua personale decisione e a sue spese. A far scattare l'allarme, poi rientrato, era stato un messaggio apparso sul suo profilo social e da lui affidato per la gestione a una persona di fiducia.

Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore che combatte accanto all'esercito ucraino, "è vivo. E' in ospedale", dove è stato ricoverato con la febbre alta. 

Lo ha affermato al Tg1 il padre, l'imprenditore Pietro Vavassori, confermando quanto anticipato ieri sera sul suo profilo social. Vavassori, nato in Russia, è stato adottato da Pietro Vavassori, titolare dell'Italsempione, azienda nel ramo della logistica, e Alessandra Sgarella, sequestrata dalla 'ndrangheta nel 1997 e morta nel 2011 per una malattia. 

Ha giocato a calcio in serie C per il Legnano, la Pro Patria e il Bra, facendo anche un'esperienza anche in Bolivia, nella squadra del Real Santa Cruz. Per tutta la giornata di ieri si è temuto che il giovane fosse rimasto coinvolto in un attacco a Mariupol. In serata l'aggiornamento social e il sospiro di sollievo: "il team di Ivan è ancora vivo", notizia confermata questa mattina dal padre.

Per l'intera giornata si è creduto fosse morto ma in serata è stato pubblicato, sempre sul suo profilo, che "la squadra di Ivan è sopravvissuta. 

Stanno provando a tornare, il problema è che sono circondati da forze russe così non sappiamo quando e quanto tempo dovranno impiegarci". Nell'attacco, conclude il messaggio serale, "ci sono 5 persone morte e 4 ferite, ma non sappiamo i loro nomi". 

Vavassori, quando è iniziato il conflitto in Ucraina, ha mollato il pallone per andare a combattere al fianco degli ucraini, arruolandosi nelle brigate internazionali. Nella 'Legione di difesa internazionale Ucraina' è diventato il 'comandante Rome' o 'Aquila nera' per quel suo vezzo, come ha raccontato su Tik Tok, di mettere un nastro nero intorno al caricatore del suo mitra.

Vavassori sostiene di avere maturato altre esperienze militari, nella Legione Straniera: "Avevo firmato per cinque anni ma sono uscito dopo tre. Ero distaccato ad Aubagne e Castelnodary", in Francia. Nel suo ultimo post, una settimana fa, appariva in mimetica e a volto coperto e scriveva: "Il soldato prega più di tutti gli altri per la pace, perché è lui che deve patire e portare le ferite e le cicatrici più profonde della guerra. Grazie mio Signore per essere ogni giorno al mio fianco, ti amo". 

Secondo le ultime informative, i 'foreign fighter' italiani che combattono in Ucraina sarebbero meno di venti, probabilmente diciassette: otto con i separatisti filo russi nel Donbass e nove con gli ucraini.

Tra le vittime filo russe c'era anche Edy Ongaro, detto 'Bonzambo, ultrà del Venezia e attivista dei centri sociali del Nord Est, ucciso a fine marzo. Invece per la Russia gli italiani in armi sarebbero 60, di cui dieci già tornati in patria e 11 morti in battaglia, una notizia che però "non risulta" all'intelligence italiana. 

All'inizio del conflitto Vavassori, al pari di molti altri italiani, aveva raccolto informazioni in ambasciata per unirsi agli ucraini. Ma proprio per le sue origini russe aveva avuto alcuni problemi poco dopo essere entrato tra i combattenti. 

Alla trasmissione 'Le Iene' aveva raccontato che qualcuno sospettava che fosse una spia, il cellulare gli era stato sequestrato ed era stato interrogato per alcuni giorni. Poi era tornato a combattere. E a raccontare la sua guerra: "Morire vent'anni prima o vent'anni dopo poco importa", aveva spiegato.  

Da tgcom24.mediaset.it il 2 maggio 2022.

Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore di 29 anni partito per l'Ucraina dove si è arruolato come volontario nelle brigate internazionali per combattere al fianco dell'esercito di Kiev, vuole rientrare in Italia. 

E' lui stesso ad annunciarlo in una storia pubblicata in lingua spagnola sul suo profilo Instagram. "Sono stufo - scrive - per me è abbastanza cosi'. E' ora di tornare a casa, non ho più la testa per andare avanti. Ho fatto tutto il possibile per aiutare. 

Ho messo tempo e vita a disposizione del popolo ucraino, però ora è tempo di riprendermi la mia vita" 

Quello combattente italiano, figlio di Alessandra Sgarella, sembra un crollo emotivo: pochi giorni fa aveva fatto sapere di essere rimasto ferito negli scontri, e poche ore fa aveva annunciato di essersi rimesso e di avere l'intenzione di andare fino in fondo.

Poi su Instagram lo sfogo: "Torno dove sono felice e torno per riprendermi tutto ciò che è mio - scrive -  Le cose sono cambiate molto da quando me ne sono andato, ma sono sicuro che con l'aiuto di Dio raggiungerò i miei obiettivi. E lei è al primo posto in questi", conclude con un evidente riferimento a una donna.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 25 aprile 2022.  

A un paio di giorni di distanza dall'annuncio di una visita del premier Draghi a Kiev, arriva la riposta indiretta della Russia: Mosca ha avvisato Roma che undici «combattenti di professione» italiani sarebbero caduti in territorio ucraino mentre «partecipavano a operazioni militari» contro le Forze armate della Federazione russa. 

I foreign fighters avrebbero fatto parte di un'unità di sessanta «mercenari» connazionali che si sarebbero schierati a fianco della resistenza di Kiev nel corso del confitto: dieci di loro sarebbero rientrati in patria, mentre gli altri sarebbero ancora in Ucraina insieme a «diverse migliaia di cittadini stranieri» in armi.

Di chi si tratti e in che situazione siano stati uccisi non è noto. E, al momento, fonti di intelligence non confermano le morti. «Allo stato non risulta che 11 foreign fighters di nazionalità italiana - spiegano - siano rimasti uccisi sul campo di battaglia in Ucraina in operazioni contro le forze russe. Sono in corso verifiche».

L'unico mercenario italiano morto di cui si è a conoscenza è Edy Ongaro, il 46enne veneziano ucciso il 30 marzo da una bomba mentre combatteva con le milizie separatiste del Donbass. 

L'informazione degli 11 combattenti uccisi è arrivata all'Italia dal ministero della Difesa russo attraverso i canali diplomatici, ed è stata comunicata a Palazzo Chigi. Sin dall'inizio della guerra, l'Antiterrorismo ha ripreso a contare chi stava scegliendo di recarsi in Ucraina per combattere. E sarebbero circa sessanta, uno di questi è Giuseppe Donnini, 52enne ravennate che nel novembre 2016 s' è fatto riprendere nel Donbass occupato dai russi insieme al commilitone Valter Nebiolo.

Arruolata con la resistenza ucraina è anche una 23enne di Mira, in Veneto: Giulia Schiff. «Io non sono un mercenaria - motiva la sua scelta -, non so se mi pagheranno e non mi interessa. Sono qui come volontaria non per fare soldi». Occhi celesti, capelli biondi, viso da ragazzina, Giulia è un ex allieva dell'Aeronautica cacciata dall'Accademia di Pozzuoli per «insufficiente attitudine militare», anche se lei ha sempre parlato di una ritorsione per aver denunciato gli atti di nonnismo che era stata costretta a subire.

All'indomani dello scoppio della guerra, è partita per l'Ucraina arruolandosi come foreign fighter nelle fila di chi combatte contro gli invasori russi. Nelle scorse settimane si trovava a Leopoli, ma aveva intenzione di tornare nella Capitale e, poi, di spostarsi verso il sud del Paese.

Nel conflitto dei russi contro gli ucraini c'è anche chi ha scelto di combattere dalla parte di Mosca. A cominciare da il generalissimo, Andrea Palmeri, 42 anni, ex capo ultrà della Lucchese, espatriato nel 2014, latitante condannato in primo grado a 5 anni di carcere per aver arruolato mercenari. 

La Polizia di prevenzione sta monitorando i combattenti partiti dall'Italia o quelli intenzionati a farlo. Attualmente ne sono stati censiti 17 in Ucraina: una goccia nel mare rispetto ai ventimila mercenari stranieri che si trovano in quelle zone di guerra. Molti sono stati militanti o simpatizzanti dell'estrema destra nostrana, equamente distribuiti tra le due fazioni in conflitto: 9 dalla parte degli ucraini contro i russi, nel Battaglione Azov o altrove, e 8 schierati con le truppe di Mosca.

Tra i primi ci sono anche 5 stranieri: 4 ucraini (fra cui il ristoratore Volodymyr Borovyk, 38enne che dal 2004 vive a Roma dove ha messo su famiglia e ha aperto un ristorante, partito due giorni prima che iniziasse l'invasione. Mosca avverte che chiunque verrà preso prigioniero essendo un mercenario non avrà diritto all'applicazione delle norme del diritto umanitario internazionale». Mentre al rientro in Italia rischia una condanna da tre a sei anni di carcere.

Andrea Pistore per corriere.it l'1 aprile 2022.

Dal Donbass arriva notizia della morte di Edy Ongaro, 46enne di Portogruaro, che dal 2015 combatteva nella regione dell’Ucraina insieme ai separatisti filorussi: la notizia della sua morte a causa di una bomba è iniziata a circolare nella tarda serata di giovedì 31 marzo ed è stata confermata anche da amici stretti del foreign fighter. Attivisti antifascisti che lo conoscevano hanno raccontato di aver avvisato la famiglia.

Chi era Edy Ongaro

«Verrà un tempo nel quale sapremo ascoltarci mutualmente; edificheremo una società equa e senza distinzioni; dove tutto è di tutti; basata sul lavoro e sorretta dalle mani callose dei proletari; che comparte e programma; che non lascerà nessuno per strada; che non sfrutta le masse per il profitto di qualche inutile avido egoista», scriveva così su Facebook il veneto sotto le bombe nel Donbass. 

Edy Ongaro, veneziano di Portogruaro, 46 anni, nome di battaglia «Bozambo», per la giustizia italiana era un latitante. Le forze dell’ordine lo cercavano dal 2015. Motivo? Dovevano ammanettarlo per aver aggredito una barista a cui aveva tirato un calcio all’addome perché si era rifiutata di versargli ancora da bere. 

Poi, in preda ai fumi dell’alcol, se l’era presa anche con i carabinieri, picchiando anche loro. Da quel giorno Ongaro era fuggito nell’Est Europa, arruolandosi nelle milizie comuniste filorusse che strizzano l’occhio a Putin, a combattere per l’indipendenza dall’Ucraina. 

«Mi sento vicino ai poveri»

Ongaro si trovava nel territorio diventato motivo di disputa tra Russia e Ucraina, dove il presidente russo ha ordinato l’ingresso delle truppe nelle regioni separatiste. Il «foreign fighter» nel 2015 aveva rilasciato un’intervista alla tv dei combattenti, poco dopo essere diventato parte integrante della brigata Prizrak: «Vengo da Giussago- rivendicava orgoglioso- un paesino tra Venezia e la Slovenia. Il mio nome di battaglia? Quello usato da un partigiano durante la seconda guerra mondiale, suona esotico e mi piace».

Il combattente poi raccontava: «Ho scelto questa brigata per il carattere internazionalista. Se ricevo una ricompensa? Sì, una colazione, un pranzo e una cena oltre a un kalashnikov che si chiama Anita, come la moglie di Garibaldi. Mi sento vicino ai poveri, ovunque nel mondo c’è un popolo che viene calpestato. 

Questa sana ribellione ci è stata insegnata dai nostri nonni contro il fascismo razzista. Finché ci sarà aria e sangue nel mio corpo credo che resterò qui in Ucraina». Su Youtube si trovano diversi servizi sul veneziano che raccontava anche la storia della sua famiglia e le vessazioni subite sotto il fascismo, da cui ha tratto ispirazione per emigrare nella zona diventata teatro di una delle più gravi crisi internazionali dell’età moderna. 

L’ultimo post e la rivendicazione dell’occupazione russa

Il «combattente straniero», che ha vissuto anche in Spagna per tre anni in cui ha «studiato» la guerra civile iberica, è sempre stato attivo sui social network (anche se per un periodo il suo profilo è rimasto chiuso) e il 20 febbraio ha ribadito la sua posizione «elogiando» l’invasione russa: «Quel giorno verrà, ma prima dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità umane per rendere questo unico pianeta a disposizione un posto più vivibile- scrive- sta a noi combattere senza tregua il mostro, stanarlo da ogni tombino. 

Massacrare i civili novorussi non ha mai portato fortuna a chi arrivava da ovest, subumani bastardi nazisti strumento imperialista da sempre». Il post è stato corredato dai commenti di amici e conoscenti, molti dei quali preoccupati dal silenzio di «Bombazo» che non dava notizie da una decina di giorni.

Toni Capuozzo su Edy Ongarlo: "Lo conoscevo, chi era davvero". L'inconfessabile verità sull'italiano ucciso in Donbass. Libero Quotidiano  l'01 aprile 2022.

Tra le vittime della guerra in Ucraina anche un italiano: Edy Ongaro. Il 46enne era nel Donbass dal 2015 e ha perso la vita proprio a fianco delle milizie separatiste, ucciso da una bomba a mano. A ricordarlo Toni Capuozzo. A lui il giornalista ex vicedirettore del Tg5 dedica un lungo post, definendo quanto accaduto "la notizia che più mi ha colpito". Edy, da Portogruaro - si legge sul profilo Facebook di Capuozzo -, "era inquadrato in una brigata internazionale a fianco dei secessionisti del Donbass. Seguivo il suo profilo, qui su FB, anche se da tempo era chiaro che avesse altre cose da fare".

Ma chi era davvero l'uomo definito dai più come "ricercato" in Italia? "Era un comunista vecchio stampo - lo descrive -, che non negava le foibe, e piuttosto ne faceva una gloria della giustizia proletaria. Riposi in pace, lui e la sua coerenza, che rivelano la grande confusione tra i cuori generosi e smarriti delle destre e delle sinistre più eccitabili". 

Ongaro era stato implicato in una rissa in un bar di Venezia, dove aveva colpito l'esercente con un calcio all'addome, scagliandosi alla fine anche contro un carabiniere. Rimesso in libertà il 46enne era sparito. Da qui quelle che il giornalista definisce "accuse taglienti tra camerati e tra compagni", che paiono "spasimi moribondi delle ideologie del ‘900". La domanda infatti è: "Cosa ha a che fare l’autoritarismo di Putin, e la sua politica di potenza con il vecchio comunismo ? Poco: solo l’assenza di libertà e la repressione del dissenso". Da qui la conclusione: "Il mondo, visto da queste mongolfiere ideologiche sembra un sanguinoso scherzo da primo aprile. Meglio restare con i piedi per terra". 

Originario di Venezia, era lì dal 2015. Edy Ongaro ‘Bozambo’, miliziano italiano ucciso in Donbass: combatteva con i separatisti, “lì era rinato”. Redazione su Il Riformista il 31 Marzo 2022. 

Edy Ongaro, miliziano italiano di 46 anni combattente dal 2015 per le forze separatiste (e filorusse) del Donbass, è rimasto ucciso mercoledì 30 marzo in battaglia, in un villaggio a nord di Donetsk, colpito da una bomba a mano. A diffondere la notizia il Collettivo Stella Rossa Nordest in un post sui social pubblicato poco dopo le 21 di giovedì 31 marzo.

“Con immenso dolore comunichiamo che Edy Ongaro, nome di battaglia Bozambo, è caduto da combattente per difendere il popolo libero di Novorossia dal regime fascista di Kiev.

Dalle prime informazioni ricevute sappiamo che si trovava in trincea con altri soldati quando è caduta una bomba a mano lanciata dal nemico. Edy si è gettato sull’ordigno facendo una barriera con il suo corpo. Si è immolato eroicamente per salvare la vita ai suoi compagni”.

“Edy era nato 46 anni fa a Portogruaro, Venezia, raggiunto il Donbass nel 2015 non lo aveva più lasciato. Era un Compagno puro e coraggioso ma fragile ed in Italia aveva commesso degli errori. In Donbass ha trovato il suo riscatto, dedicando tutta la sua vita alla difesa dei deboli e alla lotta contro gli oppressori. Ha servito per anni nelle fila di diversi corpi delle milizie popolari del Donbass fino alla fine dei suoi giorni”.

La notizia è stata poi confermata all’agenzia Ansa anche da Massimo Pin, amico di Ongaro, in contatto con esponenti della ‘carovana antifascista’ che si trova nell’Oblast. “Purtroppo è vero – dice Pin – I compagni in Donbass sono stati informati della morte di Edy da ufficiali della milizia popolare di cui faceva parte. Prima di comunicarlo abbiano informato il padre e il fratello”.

Lo sfogo del reporter italiano: “Nel Donbass l’Ucraina bombarda da 8 anni, dove eravate?”

A meno di una settimana dall’invasione russa in Ucraina, arrivò lo sfogo del reporter italiano Vittorio Rangeloni che dal 2015 vive nel Donbass.“Questo è il centro di Donetsk che in questo momento viene bombardato e non dalla Russia, non da Putin ma dall’esercito ucraino. In questi giorni sono tante le persone che scendono nelle piazze d’Italia e non solo nel mondo e invocano la pace, condannano la Russia, manifestano contro la guerra. Tutto questo è fantastico, è giusto, la guerra è qualcosa di sbagliato, di ingiusto ma è altrettanto sbagliata l’ipocrisia di chi se ne fotte del fatto che…”.

Originario di Lecco, Rangeloni attacca: “Non è una cosa che accade in questi giorni ma sono 8 anni che tutti i giorni sparano contro queste città e a voi non ve n’è fregato assolutamente niente, solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore. Scusate lo sfogo…“.

Dal 2015 si era arruolato nella brigata Prizrak. Chi era Edy Ongaro ‘Bozambo’ , combattente veneto in Ucraina ucciso in Donbass: “Mi sento vicino ai poveri”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Aprile 2022. 

Dal 2015 combatteva in Ucraina insieme ai separatisti filo russi. Una bomba a mano lo ha stroncato mentre era nel Donbass. Edy Ongaro, 46 anni, meglio conosciuto come “Mozambo” era partito dalla sua Portogruaro per diventare parte integrante della brigata Prizrak.

Ongaro per lo stato italiano era un latitante dal 2015. Aveva aggredito una barista perché si era rifiutata di versargli da bere. Poi se l’era presa anche con i carabinieri in preda a qualche bicchiere di troppo. Era riuscito a scappare e si è diretto verso il Donbass arruolandosi nelle milizie comuniste combattendo per l’indipendenza dall’Ucraina. A diffondere la notizia il Collettivo Stella Rossa Nordest in un post sui social pubblicato poco dopo le 21 di giovedì 31 marzo.

“Con immenso dolore comunichiamo che Edy Ongaro, nome di battaglia Bozambo, è caduto da combattente per difendere il popolo libero di Novorossia dal regime fascista di Kiev. Dalle prime informazioni ricevute sappiamo che si trovava in trincea con altri soldati quando è caduta una bomba a mano lanciata dal nemico. Edy si è gettato sull’ordigno facendo una barriera con il suo corpo. Si è immolato eroicamente per salvare la vita ai suoi compagni”.

“Edy era nato 46 anni fa a Portogruaro, Venezia, raggiunto il Donbass nel 2015 non lo aveva più lasciato. Era un Compagno puro e coraggioso ma fragile ed in Italia aveva commesso degli errori. In Donbass ha trovato il suo riscatto, dedicando tutta la sua vita alla difesa dei deboli e alla lotta contro gli oppressori. Ha servito per anni nelle fila di diversi corpi delle milizie popolari del Donbass fino alla fine dei suoi giorni”.

“Vengo da Portogruaro – rivendicava orgoglioso in un’intervista alla Tv dei combattenti, come riportato dal Corriere della Sera- un paesino tra Venezia e la Slovenia. Il mio nome di battaglia? Quello usato da un partigiano durante la seconda guerra mondiale, suona esotico e mi piace”. Il combattente poi raccontava: “Ho scelto questa brigata per il carattere internazionalista. Se ricevo una ricompensa? Sì, una colazione, un pranzo e una cena oltre a un kalashnikov che si chiama Anita, come la moglie di Garibaldi. Mi sento vicino ai poveri, ovunque nel mondo c’è un popolo che viene calpestato. Questa sana ribellione ci è stata insegnata dai nostri nonni contro il fascismo razzista. Finché ci sarà aria e sangue nel mio corpo credo che resterò qui in Ucraina”.

Su Youtube, in diversi servizi, aveva raccontato la storia della sua famiglia che aveva subito vessazioni durante il fascismo. Era questo il motivo che lo aveva spinto a partire per dare il suo contributo in quel conflitto iniziato nel 2014.

Nell’ultimo post su Facebook del 20 febbraio aveva ribadito la sua posizione nel conflitto: “Verrà un tempo nel quale sapremo ascoltarci mutualmente – scriveva – edificheremo una Società equa e senza distinzioni; dove tutto è di Tutti; basata sul Lavoro e sorretta dalle mani callose dei Proletari; che comparte e programma; che non lascerà nessuno per strada; che non sfrutta le masse per il profitto di qualche inutile avido egoista. Quel giorno verrà, ma prima dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità umane per rendere questo unico pianeta a disposizione un posto più vivibile; sta a Noi combattere senza tregua il mostro, stanarlo da ogni tombino. Massacrare i civili novorussi non ha mai portato fortuna a chi arrivava da ovest, subumani bastardi nazisti strumento imperialista da sempre”. Molti i commenti al post anche di conoscenti italiani preoccupati dal suo insolito silenzio sui social. Poi la conferma della sua morte.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

(ANSA  l'1 aprile 2022) - "Speriamo che la salma possa rientrare in Italia e che i funerali si possano svolgere qui in paese". Sono le parole di Rino Ongaro, zio paterno di Edy, il 46enne veneziano rimasto ucciso da una bomba a mano mentre combatteva con le milizie separatiste del Donbass. 

"Non abbiamo avuto altre notizie - ha fatto sapere all'ANSA l'anziano parente - ho sentito mio fratello Sergio questa mattina e anche lui sta attendendo qualche informazione ulteriore. Ci hanno soltanto confermato le tragiche circostanze in cui mio nipote ha trovato la morte.

Non sentivamo Edy da parecchio tempo, ma le sue condizioni ci venivano puntualmente riferite dal fratello Mirko, che manteneva un costante contatto telefonico. Non ho giudizi da esprimere su questa sua scelta: si trovava lì da sette anni - ha concluso - e dunque aveva maturato sue convinzioni sulle quali non entro".

(ANSA  l'1 aprile 2022) - "Non so darmi una spiegazione vera su cosa l'abbia portato lì. Sono frastornato, non so a cosa pensare". Sono le parole con cui Sergio Ongaro, sentito dai giornalisti sotto casa, ha commentato la morte in Donbass del figlio Edy, miliziano ucciso nelle forze separatiste, rimasto ucciso da una bomba a mano.

"Mi sto facendo tante domande - ha ribadito, ancora molto scosso - sul perché è successo, e come sia avvenuta la tragedia. Penso agli episodi che possono averlo spinto a quella scelta. Ma la risposta non la troverò". "Aspettiamo che qualcuno, e non so nemmeno chi, ce lo riporti a casa - l'auspicio del genitore -: vorrei fosse seppellito assieme a sua mamma, a Fossalta di Portogruaro".

Da lastampa.it  l'1 aprile 2022.

Un miliziano italiano di 46 anni, Edy Ongaro, combattente con le forze separatiste del Donbass, è rimasto ucciso ieri in battaglia, nel villaggio di Adveedka, a nord di Donetsk, colpito da una bomba a mano. La notizia è stata diffusa con un post dal Collettivo Stella Rossa Nordest con un post sul proprio Profilo Facebook, poi è stato confermato da Massimo Pin, amico fraterno di Edy, al quale è toccato il compito di avvisare la famiglia. 

«Il martirio di Edy Ongaro serva a rompere il castello di bugie di questa guerra, ma soprattutto a rilanciare la lotta antifascista e internazionalista. Il sacrificio di Edy mostri la forza del proletariato che saprà portare al trionfo del comunismo – scrivono i compagni di battaglia su Facebook –. Ti salutiamo Compagno Partigiano con il motto che ti era tanto caro: 'Morte al fascismo, libertà al Popolo».

Chi era Edy Ongaro

Edy Ongaro, 46 anni compiuti a febbraio, da 7 anni si trovava in Donbass, Bozambo il suo nome di battaglia, a combattere con le brigate comuniste che appoggiano Putin in ottica anti–ucraina.

Ongaro, prima della partenza per il Donbass, aveva avuto una vita complicata: disoccupato, ultrà del Venezia, nel 2015 venne coinvolto nell'aggressione di una barista e divenne latitante. I militari portogruaresi lo dovevano arrestare per l’aggressione a una barista de La Stretta, in pieno cento storico a Portogruaro. Le rifilò un calcio all’addome perché, in stato di ebbrezza, voleva un’altra consumazione e l’esercente si rifiutò.

Poi un periodo di permanenza in Spagna lungo tre anni dove, racconterà, ha «imparato molto sulla sulla guerra civile spagnola». 

Una vita complicata confermata anche dallo stesso Collettivo Stella Rossa che lo definisce come «un Compagno puro e coraggioso ma fragile» che «in Italia aveva commesso degli errori». 

Poi la scelta del Donbass, dove entra nella temuta brigata Prizrak, un battaglione di militari da ogni parte d'Europa che combatte contro l'esercito ucraino a favore della causa indipendentista filo-russa. In un'intervista poco dopo il suo arrivo si mostrava sicuro: «Non mi sento patriota, sono internazionalista e vicino agli esseri umani, i poveri, chi è uguale a me. Io liberamente non avendo nessuno peso sulle spalle penso che finché il sangue scorrerà da qui non uscirò mai. La mia scelta è di restare qui».

E ancora: «Verrà un tempo nel quale sapremo ascoltarci mutualmente; edificheremo una società equa e senza distinzioni; dove tutto è di tutti; basata sul lavoro e sorretta dalle mani callose dei proletari; che non lascerà nessuno per strada; che non sfrutta le masse per il profitto di qualche inutile avido egoista». 

Con l'approssimarsi della guerra, sui social sottolinea la decisione di Putin, convinto di lanciare ancora contro «le forze nazifasciste» di Kiev. Fino all'ultima battaglia.

Francesco Moscatelli per “la Stampa” il 2 aprile 2022.  

«Quando ho visto Massimo e mio figlio Mirko insieme davanti a casa ho capito subito. Mi sono detto: "Edy è andato via per sempre". Sapevo che rischiava grosso: quando tieni la mano vicino all'acqua bollente prima o poi ti scotti». Sergio Ongaro, 74 anni, non incontrava né sentiva il figlio Edy da sei anni. Ma appena comincia a parlarne, nella cucina al piano terra della loro casa di Giussago, una frazione di Portogruaro circondata dai campi, gli occhi di questo omone che ha trascorso la vita lavorando come muratore fra l'Italia e l'America Latina, si velano subito di lacrime.  

Non ha nemmeno una foto di suo figlio ma di sicuro, più che al miliziano filo-russo di 46 anni che aveva scelto come nome di battaglia Bozambo in omaggio a un partigiano, sta pensando al bambino a cui non poteva comprare i giocattoli «perché i soldi non erano mai abbastanza» e al ragazzino che accompagnava a giocare a pallone «anche se non era proprio portato». Gli hanno raccontato che è caduto in una trincea nel villaggio di Adveedka, a Nord di Donetsk, mentre combatteva contro l'esercito di Kiev. 

Edy, un ex militante di Rifondazione comunista affascinato dalle gesta di Gino Donè Paro ("El Italiano" che partecipò allo sbarco del Granma a Cuba), finito a scrivere sui social messaggi pieni d'odio contro i nazisti ucraini e contemporaneamente a sparare dalla stessa parte dei militanti neofascisti pro-Cremlino, in uno strano calderone dove ideologia e destini personali si mischiano così tanto da essere difficilmente decifrabili dall'esterno. Gli hanno spiegato che sarebbe morto nel tentativo di proteggere i suoi compagni della Brigata Prizrak da una granata.

E che ad avvisare Massimo Pin, l'amico comune che faceva da tramite fra lui e il figlio, è stato un altro combattente italiano a cui Edy aveva lasciato un foglietto con un numero «da chiamare se mi succede qualcosa». 

Ma al signor Sergio questi dettagli importano poco. Così come non gli interessano più nemmeno gli errori che Edy avrebbe commesso prima di lasciare l'Italia nel 2015: era accusato di aggressione e resistenza a pubblico ufficiale dopo un violento litigio con una barista nel corso principale di Portogruaro.

 Sarebbe stato questo uno dei motivi per cui aveva scelto di andare in Ucraina. «La guerra è sempre sbagliata e mio figlio ha fatto un errore a prescindere dalla parte per cui combatteva - ragiona Sergio -. Per me quelli che i soldati chiamano nemici sono solo altri uomini».  

Accanto a lui c'è la seconda moglie, una signora colombiana. «L'ultima volta che abbiamo discusso è stato nel 2016 - prosegue - . Lui era già nel Donbass. Io non ero d'accordo e gliel'ho detto. Quale padre può volere che il proprio figlio si metta in una situazione di pericolo? Mentre da quella volta con me non ha più parlato, con suo fratello si sono telefonati fino a poche settimane fa. Spesso le chiamate finivano con Edy che appendeva bruscamente. Mio figlio era fatto così: aveva una gran parlantina e cercava sempre di convincere gli altri delle sue idee. Ma era un buono, sempre pronto ad aiutare tutti».

Nella camera accanto alla cucina tutto è rimasto come lo aveva lasciato Edy, che in questa casa aveva vissuto prima con la madre, morta di Parkinson anni fa, e poi con la nonna paterna e Alexandra, la badante ucraina che assisteva l'anziana. Ci sono una rete di metallo con sopra un materasso, un armadio e una cassettiera.  

«I suoi libri sono in cantina. - continua il papà - Non ha mai studiato ma leggeva tantissimo. Aveva imparato da solo anche le lingue: spagnolo, russo, cecoslovacco. Siamo sempre stati di sinistra. Mio padre Antonio è stato il primo comunista del paese. Si era salvato dai nazi-fascisti e ci ha cresciuto insegnandoci il valore del lavoro e del sacrificio. Edy per un po' mi ha seguito nei cantieri ma crescendo è diventato sempre più ribelle». 

Fino a sei anni fa la vita di Edy Ongaro era scandita da impieghi saltuari, dalle serate nei centri sociali veneti, dalle partite con gli ultras del Venezia e dalle uscite con gli amici della squadra di calcetto "Stella Rossa". E poi i viaggi all'estero, sempre più frequenti: tre anni a Barcellona «per approfondire la guerra civile spagnola», l'Est Europa. «Aveva una fidanzata francese ma si sono lasciati. Poi abbiamo sentito che aveva una donna anche in Ucraina» aggiunge la moglie del papà, quasi scusandosi per non sapere molto di più.

 Domenica nella chiesetta bianca di Giussago ci sarà una messa di suffragio, in attesa che le ceneri di Edy-Bozambo possano rientrare in Italia per riposare nella stessa tomba della madre. «Né io né mio figlio siamo mai andati in chiesa - conclude il signor Sergio -. Ma volevamo dare la possibilità a tutti i suoi amici di salutarlo. Ancora non ci credo. Mi sembra ieri che sua mamma mi rimproverava per avergli scelto un nome che poteva sembrare femminile».

Edy Ongaro, l'italiano ucciso in Donbass: "Leghisti subumani da pestare. Europa, cagnetta col collare". Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.

Il suo kalashnikov si chiamava Anita, «come la moglie di Garibaldi», in Donbass era arrivato nel 2015 oltrepassando il confine sloveno, dopo un periodo di latitanza in Spagna; in Italia lo aspettavano ancora il padre Sergio, lo zio Rino, il fratello Mirko, oltre all'amico Massimo Pin e i compagni del Collettivo Stella Rossa nordest, che ora lo piangono da eroe. Ma Edy Ongaro, 46 anni, non tornerà da vivo. Forse alla famiglia sarà restituita la salma, «lo vogliamo seppellire vicino a sua madre, nel cimitero di Fossalta di Portogruaro», ha detto il padre sconsolato, incapace di darsi una risposta sulla fine tragica di quel figlio che non vedeva da troppo tempo. «Non so cosa pensare, mi domando il perché e il per come fosse là e non so darmi una risposta.

Spero solo che lo riportino qui», prega. «Mio figlio era un idealista ma quando si spara, quando si fa la guerra, non sono mai ideali buoni».

Lo zio Rino prova a spiegare ai cronisti che suo nipote non era contro Kiev: «È cresciuto qui nella casa accanto. Era un ragazzo molto intelligente, leggeva tanto, libri e giornali. Lui filo-russo? Non mi risulta. Non parlavamo di politica, ma non era contro l'Ucraina. Mia madre, sua nonna, aveva una badante ucraina che spesso preparava da mangiare anche per lui. Edy non ha mai fatto commenti a riguardo. Per me era andato là per la pace». 

«MOSTRO FASCISTA»

Eppure, basta farsi un giro in Rete per sentire cosa diceva di sé il 46enne vittima di una bomba a mano nel villaggio di Adveedka, nel nord di Donetsk: «Sì, sono un combattente comunista. Sono un internazionalista. La mia scelta è di rimanere qui, combattere per la libertà di questo popolo. Dobbiamo sconfiggere il mostro fascista. Starò qui fino alla fine dei miei giorni, finché il sangue mi scorrerà nel corpo. Dobbiamo fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per rendere questo pianeta un posto più vivibile; sta a noi combattere senza tregua il mostro, stanarlo da ogni tombino». Ongaro non aveva il fisico nerboruto dei foreign fighter più allenati, era smilzo e attaccato alla sigaretta, la mimetica perennemente addosso, il berretto storto e il pizzetto sale e pepe che lo invecchiava di qualche anno. Si era scelto "Bozambo" come nome di battaglia «in onore di un partigiano della Seconda Guerra Mondiale», nelle interviste sui canali della Resistenza citava Gaber perché «la libertà è democrazia, la liberta è partecipazione», ecco perché dopo essere stato arrestato per avere preso a calci una cameriera colpevole di non avergli versato altro vino (era ubriaco) era scappato dall'Italia. I familiari pensa vano che avesse raggiunto la Russia per turismo, invece lui si era unito agli indipendentisti con il mitra.

Del resto, da che parte stava Bozambo è evidente. Lo spiega bene Stefano Orsi, esperto di geopolitica, analista presso letteradamosca.eu, ilsudest.it e The Saker, in contatto con il miliziano fin dall'inizio della vicenda del Donbass. «Edy ed io ci scrivevamo», racconta Orsi a Libero, «credeva in quello che faceva, infatti è rimasto al fianco di un popolo di cui aveva sposato la causa, sino all'ultimo. Era anche una persona fragile, che credeva in un mondo di eguali e solidali e la sua scelta di arruolarsi nella brigata Prizrak, a 39 anni, non è stata casuale. Nel gennaio 2015 c'è stata la battaglia di Debaltsevo», per il controllo dello snodo ferroviario tra Donetsk e Lugansk, i due capoluoghi delle province ribelli. Lo ricorda anche Toni Capuozzo, grande inviato di guerra: «Edy Ongaro era un comunista vecchio stampo, che non negava le foibe, e piuttosto ne faceva una gloria della giustizia proletaria». 

EUROPA INUTILE

Nella sua vita precedente, prima di rimanere disoccupato, Ongaro era ultrà del Venezia, faceva il muratore e l'idea di costruire qualcosa torna sempre nelle sue parole e nei video trasmessi sui social. Ma aveva un nemico: l'Occidente, gli Stati Uniti, il fascismo e il leghismo che considerava un po' la stessa cosa. Disprezzava l'Europa definita «un cagnetto con il collare con le dodici stelle blu, la giri e c'è scritto "Made in Usa"». Per lui il Donbass «è come in Yugoslavia, è mettere i popoli fratelli sulla stessa terra gli uni contro gli altri», mentre «la Nazione è una, quella umana, poi volendo c'è l'altra, quella subumana, i razzisti, i fascisti, la Lega Nord, il Ku Klux Klan, il White Power, gente come Borghezio, gente che non dovrebbe avere la scorta ma essere picchiata dalla polizia». Ora per centri sociali e comunisti è «un martire», «un eroe», un esempio di coraggio e di coerenza. «Addio partigiano», scrivono su Facebook, «sei caduto contro le forze naziste ucraine. Ma chi ha compagni non muore mai!». Ci sarà una messa in suo onore.

Hanno tutti ragione. Ecco perché il Donbass è la patria dei rossobruni, i nazional-comunisti che tifano Putin. Stefano Cappellini su La Repubblica l'1 Aprile 2022. 

La vicenda del Donbass è stata in questi anni il più grande laboratorio del fenomeno rossobruno, cioè la convergenza ideologica di pezzi d'estrema destra ed estrema sinistra o, talvolta, la fusione delle due tendenze in un unico soggetto: formazioni nazional-comuniste o sovraniste, gruppi piccoli ma anche rapporti e contaminazioni con la politica che qualcuno definirebbe mainstream, in particolare Lega e M5S, e pezzi di Fratelli d’Italia, che oggi condividono il tifo per il Donbass russo e l’apologia della invasione russa, dopo aver sperimentato le prime convergenze sulla Siria e il sostegno ad Assad.

Ultrà di destra e sinistra. I 20 volontari italiani in guerra nel Donbass. Fausto Biloslavo su Il Giornale il 2 aprile 2022.  

Kharkiv. «Bozambo», al secolo Edy Ongaro, 46 anni, è caduto in battaglia su uno dei fronti più duri, davanti all'aeroporto di Donetsk. Il volontario di Portogruaro al fianco dei separatisti russi dal 2015 sarebbe stato ucciso da una bomba a mano ovvero in combattimento ravvicinato. Non è l'unico italiano che ha scelto di arruolarsi in Ucraina da una parte e dall'altra della barricata. Negli otto anni di guerra nel Donbass sfociata nell'invasione russa sono una cinquantina i connazionali che hanno imbracciato le armi. Adesso, secondo l'intelligence, meno di 20: al fianco dei filo russi sarebbero rimasti in 7 e gli altri sono con gli ucraini.

«Bozambo» era uno dei più noti sul fronte separatista. In una video testimonianza del 2015 con lo stemma del battaglione «fantasma» sulla mimetica parlava «di sana ribellione insegnata dai nostri nonni durante la resistenza». Ex muratore, a Barcellona è stato influenzato dalla leggenda della guerra civile spagnola. Nemico giurato dei governi tecnici in Italia bollava come «subumani i fascisti, i razzisti e Borghezio (esponente della Lega, nda) che dovrebbe venire picchiato ogni giorno dalla polizia». Per Bozambo «l'Europa è un cagnetto con il collare dello Zio Sam». E concludeva giurando «nessun passo indietro». La Rete dei comunisti lo ricorda con enfasi di altri tempi: «Un partigiano antifascista internazionalista. Bandiere Rosse al vento! Ciao Bozambo».

I nostalgici della falce e martello sono stati attratti dalle repubbliche ribelli a tal punto che è sorto un Comitato per il Donbass «gruppo italiano a sostegno delle forze che combattono per una Novorossiya libera, socialista, antifascista». La Novorossiya è l'antica mappa dell'influenza russa che si espandeva fino ad Odessa. Un altro «compagno» di Bozambo è Alberto Fazolo rientrato in patria, che si era arruolato nello stesso battaglione del veneto ucciso giovedì sotto il comandante Nemo, commissario politico dell'unità internazionale. Nel Donbass ci sono anche italiani di estrema destra, che vedono Putin come un nuovo idolo. Il più noto è Andrea Palmieri, soprannominato «Generalissimo». Quarantadue anni di Lucca, militante di Forza nuova, era il leader dei Bulldog, gli ultrà della squadra di casa. Latitante per una condanna sul reclutamento di combattenti è stato ferito durante un addestramento e non sarebbe più in prima linea. Al suo fianco c'è Riccardo Emilio Cocco. Sul fronte filo russo hanno fatto perdere le tracce l'ex portiere Ivan Vavassori e Massimiliano Cavalleri, 42 anni di Palazzolo, in provincia di Brescia, nome di battaglia Spartaco. Altro filo russo è Gabriele Carugati, alias Arcangelo, di Cairate, in provincia di Varese, figlio dell'ex segretaria cittadina della Lega. Di lui non si hanno più notizie da tempo.

La parte ucraina, ben prima del 24 febbraio, ha attirato militanti di destra legati a Casa Pound e non solo. Giuseppe Donini, 52enne di Ravenna si era arruolato nel battaglione Azov. Un altro camerata era Valter Nebiolo rientrato in Italia, come Francesco Saverio Fontana, con un passato in Avanguardia Nazionale che aveva combattuto con Azov strappando proprio la città di Mariupol ai filo russi. In arrivo ci sarebbe un ex legionario italiano che si è presentato al consolato ucraino a Milano. La Legione georgiana, uno dei reparti che recluta stranieri, era stata contattata nei giorni precedenti l'invasione da cinque italiani, ex militari pronti a combattere per Kiev. L'unica donna è Giulia Schiff, 23 anni, ex pilota dell'aeronautica che ha denunciato atti di nonnismo. Seguita dalle Iene nella sua avventura ucraina sostiene di voler combattere «per fermare la guerra prima che arrivi a casa mia». 

Chiamata alle armi. Chi sono i sessanta italiani che combattono in Ucraina. Michelangelo Freyrie su Linkiesta il 5 Aprile 2022.

Volontari mossi dalle motivazioni più disparate: la ricerca di status sociale, la definizione della propria identità, a volte la vendetta. Per loro, che pure non si considerano mercenari, potrebbero essere previste pene al rientro in Italia. 

In questa guerra si è parlato molto del reclutamento di cittadini stranieri nelle forze armate russe e ucraine, un fenomeno ormai ben radicato nella guerra contemporanea. La globalizzazione dell’informazione, la commercializzazione dei conflitti e l’estrema mobilità hanno abbassato di molto il costo che i singoli individui provenienti da paesi terzi devono pagare per partecipare alle guerre altrui.

La folla di cittadini italiani andata ad ingrossare le fila dell’esercito ucraino da un lato e delle forze separatiste dall’altro è un microcosmo che ben rappresenta questa tendenza. Secondo Francesco Marone dell’ISPI, all’indomani dell’invasione russa c’erano fra i cinquanta e i sessanta italiani impegnati nei combattimenti, ed è difficile quantificare il numero di nuovi volontari affluiti da febbraio.

Le storie personali di queste reclute sono le più svariate, ma è prima di tutto importante distinguere i combattenti italiani da gruppi armati apparentemente reclutati in Siria e inquadrati dal contractor Wagner nell’apparato militare russo. La distinzione è necessaria sia da un punto di vista militare che sociologico. Nell’ancora ipotetico caso siriano si tratta infatti di uno schieramento di brigate più o meno coese, unite se non dalla stessa storia operativa allora almeno da una simile esperienza nei combattimenti a fianco dei russi in Siria. Questi combattenti stranieri (il termine foreign fighter è per lo più osteggiato dagli analisti perché evoca l’esperienza specifica del meccanismo di reclutamento dell’ISIS, un unicum della storia recente) sono più assimilabili a mercenari, mobilitati per sfuggire alla povertà e in parte per fedeltà ai leader delle fazioni siriane che nelle ultime settimane hanno diffuso la chiamata alle armi.

I volontari italiani hanno poco da spartire con i loro omologhi soprattutto perché il loro reclutamento sembra essere marcatamente meno deliberato, rispondendo più alle loro esigenze individuali e a quelle delle repubbliche separatiste. È altamente sconsigliabile provare a fare psicologia spiccia dei singoli italiani arruolatisi in Ucraina; nonostante ciò, è possibile dare un’occhiata alla letteratura scientifica esistente sul tema dei combattenti stranieri (non mercenari), rimanendo però consapevoli anche dell’unicità dei diversi casi.

Secondi gli studiosi Randy Borum e Robert Fein, i volontari stranieri sono nella maggior parte dei casi mossi da un senso di vendetta nei confronti del nemico che andranno a combattere, o ciò che essi credono egli rappresenti, che esso sia il capitalismo consumistico occidentale, il materialismo o una società pluralistica. La ricerca di status sociale e il desiderio di definire una propria identità sono altre motivazioni estremamente importanti.

Tramite questa lente, e con tutte le precauzioni del caso, è possibile comprendere meglio anche i volontari italiani in Ucraina. Ciò che colpisce è infatti la diversità di motivazioni che hanno portato molti di loro a combattere e come questi moventi ideologici vengano utilizzati politicamente dalle fazioni in campo.

È istruttivo l’esempio di Edy Ongaro, comunista caduto in Donbass dove combatteva dal 2015. I media riportano che Ongaro combatteva nella brigata Prizrak (Fantasma”), una delle milizie più efficaci della “Repubblica popolare” di Lugansk (DNL). La brigata, almeno nelle fasi iniziali del conflitto, non è stata integrata nella struttura di comando dell’esercito della “Repubblica Popolare”, e come le altre milizie del Donbass andrebbe più che altro concepita come un gruppo autonomo unito solo nominalmente alle altre forze dell’esercito separatista.

L’Unità 404, formazione comunista di cui faceva parte Ongaro, era particolarmente vicina al comandante dell’unità Alexei Markov, uno dei pochissimi leader del Donbass a essere morto in un incidente e non essere stato assassinato in seguito a un conflitto di potere fra i capibastone della DNL e gli handler che per conto di Mosca cercano di mantenere una sembianza di controllo sulle milizie. Anche se è difficile navigare gli affari interni delle opache repubbliche separatiste (spesso più simili a cosche che organizzazioni politiche), è probabile che i soldati stranieri siano più dipendenti dai loro comandanti e servano quindi da correttivo ai piccoli criminali russofoni e aspiranti mafiosi stabilitasi nel Donbass dopo lo scoppio della guerra.

Ongaro era fuggito in Ucraina a seguito di seri problemi giudiziari in Italia, come del resto il militante neofascista Andrea Palmieri, anche lui combattente per la DNL. In generale, gli estremisti di destra hanno attirato il grosso dell’attenzione occidentale anche a causa dello stretto rapporto che molti di loro intrattengono con organizzazioni di supremazia bianca in Europa e negli Stati Uniti (uno fra tutti Matthew Heimbach, neonazista organizzatore della famigerata protesta “Unite the Right” di Charlotteville del 2017). L’impatto di queste reti transnazionali sembra in ogni caso più forte che per i sistemi di reclutamento a sinistra.

Secondo un report del Soufan Center, più di una trentina di white supremacist italiani avrebbero ad esempio partecipato ai combattimenti in Ucraina nello schieramento governativo, almeno fino al 2019. Il battaglione Azov è ovviamente l’esempio più noto, e già nel 2014 una fonte del Corriere della Sera indicava addirittura la presenza di soldati italiani in servizio attivo nella formazione di estrema destra.

Rispetto alla prima fase della guerra, tuttavia, la situazione per chi combatte dal lato ucraino è però molto diversa. Negli ultimi anni Kiev ha fatto molto per incorporare le milizie autonome presenti sul suo territorio nella Guardia Nazionale, il corpo di gendarmeria paramilitare del ministero degli Interni ucraino. Ciò è stato fatto per rafforzare il controllo delle autorità ucraine su queste unità autonome, la stessa motivazione che ha portato il governo di Zelensky a organizzare fin da subito una Legione Internazionale integrata all’interno delle Forze di Difesa Territoriale, la riserva ausiliare dell’esercito ucraino.

È qui che si è arruolata anche Giulia Schiff, pilota dell’Aeronautica Militare italiana espulsa nel 2018. L’ex sottufficiale, nota per le denunce di nonnismo e mobbing da lei mosse contro i commilitoni, non sembrerebbe essersi arruolata per motivi marcatamente ideologici.

Come gli altri italiani potrebbe comunque essere perseguibile dalla legge al suo rientro in Italia, dove l’articolo 288 del Codice penale stabilisce che «chiunque nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni. La pena è aumentata se fra gli arruolati sono militari in servizio, o persone tuttora soggette agli obblighi del servizio militare». Schiff ha protestato indicando di non «essere un mercenario» – dimostrando ancora una volta quanto queste distinzioni facciano fatica a stare al passo con il cambiamento nella sociologia della guerra.

Le Città martiri. Ucraina: l'assedio delle Azot e la cattura di due soldati Usa. Piccole Note il 21 giugno 2022 su Il Giornale.

Resistono gli ucraini assediati nell’impianto di Azot, a Severodonetsk,  dove si sta ripetendo il copione già visto alle Azovstal di Mariupol, con miliziani e soldati ucraini assediati nell’impianto industriale insieme a un numero imprecisato di civili (che è davvero arduo pensare che vi si siano barricati volontariamente, ma tant’è).

I russi stanno tentando di chiudere la morsa sui resistenti, sia a Severodonesk che nella attigua Lysychansk, separata dall’altra cittadina da un fiume, ma le operazioni militari proseguono con estrema lentezza: per i russi si tratta di risparmiare vite al proprio esercito; per gli ucraini di resistere in attesa delle nuove armi Nato.

Nel frattempo, ha avuto grande rilievo la notizia della cattura di due soldati americani, anche perché negli Usa hanno paura che possano subire la stessa sorte dei due britannici catturati dai russi di recente insieme a un marocchino, i quali sono stati condannati a morte da un tribunale di Donetsk.

La Russia aveva dichiarato fin dall’inizio della guerra che i combattenti stranieri catturati non sarebbero stati trattati da prigionieri di guerra e la condanna dei due “volontari” segue quella dichiarazione.

Detto questo, a seguito delle proteste britanniche, Mosca ha invitato Londra a contattare la Repubblica di Donetsk per avviare negoziati per la loro liberazione (BBC), cosa che Londra non vuol fare per una ragione di principio: teme di esser costretta in tal modo a riconoscere de facto la Repubblica indipendente. Per questo, ha contattato il ministro degli Esteri ucraino Dmitry Kuleba, incaricandolo di risolvere la cosa.

In realtà, trattando con Donestk non riconoscerebbe affatto la Repubblica in questione, riconosciuta finora da Mosca e pochi dei suoi alleati, ché il riconoscimento di un’entità politica come statuale è tutt’altro da un negoziato con un nemico.

La verità è che Londra teme di perdere di prestigio, abbassandosi a chiedere la liberazione dei propri prigionieri, da qui l’incarico all’Ucraina, anche se, sottotraccia, le trattative le sta facendo, eccome (si spera anche per il marocchino…).

Così, la storia dei due soldati britannici – ufficialmente volontari, di fatto forze speciali incognite in servizio attivo – insegna che anche per i due americani non ci sarà una condanna a morte, che avrebbe solo l’effetto di dare nuovi argomenti alla propaganda avversa, ma si avvierà un negoziato.

Interessante notare la storia di uno dei due americani catturati. Sul New York Post, un’intervista drammatica della madre del soldato, che spiega che il figlio si era arruolato come volontario per “salvare vite ucraine e non solo ucraine” (?) ed era pronto a morire (non sembra: certe cose si dicono, poi…).

La mamma, che è sempre la mamma, racconta che non era andato per combattere, ma solo “per addestrare i soldati ucraini'”. Fin qui la donna, che siamo alquanto certi che prima o poi rivedrà l proprio ragazzo, al contrario di tanti altri che stanno morendo in questa stupida guerra.

C’è un passaggio obbligatorio da fare, cioè il ragazzo deve dichiarare alle telecamere russe che è contro la guerra e che ha sbagliato ad andare in Ucraina, come hanno fatto i due britannici e come ha fatto anche lui.

Come si legge su Oda Tv, appena catturati, i soldati stranieri che combattono in Ucraina “in un solo giorno si trasformano in ‘figli dei fiori’, dichiarandosi contro la guerra”. Se citiamo questa Tv turca non è tanto per questa ironia, cinica eppur vera, quanto perché ci ha colpito una rivelazione di tale emittente.

In un articolo, infatti, Oda Tv spiega che il simbolo che campeggia sull’uniforme di uno dei due soldati americani catturati, Alexander John-Robert Drueke, lo rivela come membro dell’US Armed Forces Chemical Warfare Corps, cioè la forza militare Usa dedicata alle armi chimiche.

Infatti, il distintivo dorato, all’interno del quale si distinguono un tronco d’albero e un drago, è inequivocabile, Non avremmo creduto alla notizia, se non fosse che la stessa foto, e lo stesso distintivo, illustra il servizio dell’articolo del Nyp succitato. 

Se si ingrandisce la fotografia in questione, si vede perfettamente che il distintivo è quello indicato, come si riscontra anche su un sito specializzato delle forze armate Usa.

Nel presentare il militare, il Nyp spiega che Drueke era andato due volte in missione in Iraq, forse alla ricerca delle famose armi di distruzione di massa di Saddam. Ma che ci è andato a fare in Ucraina? Non ha competenze in fatto di addestramento per una battaglia di terra, dato che le sue competenze sono le armi chimiche.

Oda Tv ricorda che solo alcuni giorni fa il Pentagono ha rivelato di aver supportato 46 biolaboratori sparsi sul territorio ucraino, ma questo non spiega granché, dal momento che il ragazzo è partito da poco per la guerra. Così resta la domanda: che diavolo ci è andato a fare? Resterà inevasa.

La denuncia degli orrori di Kherson: "Nelle camere di tortura 600 civili".  Corrado Zunino su La Repubblica il 7 giugno 2022.

Nel territorio occupato di Kherson, Ucraina meridionale, immediatamente sopra la Penisola della Crimea, sono in corso - è la denuncia del governo ucraino - nuovi crimini di guerra. Violazioni collettive. La rappresentante permanente della presidenza ucraina in Crimea, Tamila Tacheva, ha detto, illustrando le sue parole con un rapporto, che a Kherson, la prima grande città presa dall'Armata russa, e nella sua regione seicento persone considerate ostili al nuovo regime sono state portate dalle truppe russe "in camere di tortura". 

Letizia Tortello per “La Stampa” il 5 luglio 2022.

Sa che è vivo, «di sicuro è ferito». Vedere i suoi compagni arrivare mutilati, al più grande scambio di prigionieri della guerra, l'ha fatta piombare in un incubo: quello di non poter riabbracciare mai più suo fratello, il sergente Sergei Volyna. 

Tetiana Kharko è una delle due persone che hanno assistito alla liberazione dei difensori dell'Azovstal: 144 per parte ucraina, lo stesso numero per parte russa. È la rappresentante dell'Associazione dei parenti dei combattenti di Mariupol. Li ha accolti a Zaporizhzha, pochi minuti dopo la scarcerazione, la scorsa settimana. 

Ma dal 20 maggio, questa 30enne vive settimane di angoscia, nel silenzio totale che avvolge il destino del comandante della 36a Brigata dei marines, forse l'eroe più umanizzato della lunga e dolorosissima battaglia dell'acciaieria. 

Quel volto con la barba, suo fratello, che tutto il mondo ha imparato a conoscere nei tanti appelli video dai social, in cui chiedeva aiuto. Per i comandanti Azov, i russi potrebbero prevedere la pena di morte, e quella scure potrebbe capitare anche al sergente Volyna. La stessa sorte la teme Katerina, la moglie del comandante del Reggimento Denis Prokopenko.

Signora Kharko, ci racconta lo scambio dei prigionieri?

«Quasi ogni soldato che era dentro l'Azovstal era ferito. Loro chiamavano "feriti" quelli che non riuscivano ad alzarsi e non potevano prendere il fucile. Gli altri continuavano a combattere. Delle 144 persone liberate, 95 erano combattenti Azov e il 90 per cento di loro è arrivato mutilato: senza gambe, braccia, tanti di loro sono sordi o hanno perso la vista. Io ero presente all'accoglienza a Zaporizhzha, a mezz'ora dal luogo della trattativa, un lungo ponte su cui hanno scambiati i prigionieri. È stato molto pesante».

Come sono stati trasportati?

«Sono arrivati sulle ambulanze, una per ciascun prigioniero liberato. Allo scambio era presente solo la Croce Rossa ucraina e i rappresentanti delle due parti. Li hanno liberati nella zona grigia, ma non posso dire il nome della località per ragioni di sicurezza. Abbiamo avuto dieci minuti per salutarli. Non abbiamo chiesto loro se erano stati torturati, piangevamo tutti, anche se loro provavano a trattenere le lacrime».

Erano dimagriti, segnati? Quali sono state le prime frasi che hanno pronunciato?

«È molto difficile trovare le parole per raccontare cosa ho visto. Forse non le hanno ancora inventate. Oltre alla menomazione fisica, erano grigi come se non fossero appartenuti a questo mondo. Sembravano dei fantasmi. Credo siano stati trattati molto male, nei giorni di permanenza in prigione. Era doloroso guardarli». 

Ha parlato con loro?

«Sì. Uno mi ha riconosciuto e ha detto che mio fratello gli aveva salvato la vita. Poi è venuto fuori che le amputazioni risalgono al periodo dentro l'acciaieria. Ai feriti tagliavano gli arti senza anestesia, questo ci hanno raccontato». 

Quand'è l'ultima volta che ha sentito suo fratello, il sergente Volyna?

«Il 20 maggio. Ci ha informato dell'evacuazione. Ci ha detto che da quel momento non avrebbe più comunicato perché si consegnavano ai russi».

Comunicavate, mentre lui era nelle viscere dell'Azovstal?

«Scriveva più che altro a sua moglie. Per alcune settimane non si faceva vivo. Scriveva sempre le stesse parole: "normale", oppure "sono intero". Niente di più. Ma a noi bastava». 

Quanti prigionieri dell'Azovstal mancano all'appello? Le trattative sono in piedi?

«Il presidente Zelensky aveva annunciato che erano 2000-2500 i soldati che si erano consegnati. Faremo di tutto per liberarli, le trattative sono appese a un filo, ma io sono fiduciosa che mio fratello tornerà. I russi stanno violando ogni giorno la Convenzione di Ginevra, non ci permettono di comunicare con loro. Non sappiamo neppure dove siano. Dicono a Olenivka, Rostov sul Don, Lufortovo, ma non abbiamo certezze. Non possono ucciderli o non rimandarli a casa. Però prego, perché ho molta paura».

Chi era il sergente Volyna?

«Un viso sempre sorridente. Un padre e un marito modello. Aveva studiato all'Accademia nazionale delle forze di terra Hetman Petro Sahaidachnyi, era andato in Cimea, poi era tornato subito per difendere il Donbass, nel 2014. Prima della guerra, da settimane era a Mariupol. Viaggiava tanto, faceva sei mesi in Donbass e sei mesi a casa a Kiev. Sergei ama suo figlio, chissà quanto soffre a non vederlo». 

Se ci fossero pressioni per trattare, voi di Azov accettereste di perdere il Donbass, che tanto avete difeso?

«Vi faccio un esempio per capire cosa ci sta capitando: questa guerra, per noi, è come se nella vostra casa entrasse una persona e prendesse una stanza e dicesse "è mia, se non me la dai uccido la tua famiglia". È una cosa assurda, ingiusta, inaccettabile. Per come la vedo io, la situazione si potrebbe definire con un referendum, dove la gente potesse decidere se vuole restare nella parte ucraina o diventare Russia. Ma senza armi, senza pressione. Con le armi non si può risolvere niente».

"Mio marito seviziato dai russi", la prova nel certificato di morte. Tonia Mastrobuoni su La Repubblica il 12 Giugno 2022. 

Il racconto di Ksenia Myronova. Il suo Denys torturato nelle carceri segrete di Kherson 

 "Un giorno Denys è uscito di casa e mi ha detto che doveva comprare un po' di benzina. Non è mai più tornato". Ksenia Myronova ci racconta l'atroce destino di suo marito lottando con le lacrime. Ogni volta che il dolore ha il sopravvento si ferma, vuole restare lucida, ha bisogno di ricordare ogni dettaglio. Denys è stato massacrato nelle camere di tortura di Kherson dagli sgherri russi, da un manipolo di sadici in passamontagna che lo hanno seviziato per settimane. È morto per le conseguenze di quelle torture. E il suo assassinio è l'ennesima prova dei crimini di guerra di Putin.

Il 23 marzo Denys Myronov è stato sbattuto nelle carceri segrete al civico 4 di Kirova, a Kherson, nella città occupata da marzo dalle truppe russe. Il 26 maggio, la polizia di Mykolaiv ha chiamato Ksenia per il riconoscimento del suo cadavere. In mezzo, due lunghi mesi di disperata ricerca di informazioni e di silenzio delle autorità russe. Soltanto grazie a tre compagni di prigionia, Ksenia è riuscita a ricostruire le torture inflitte al marito: i pestaggi continui, gli elettroshock, le buste di plastica infilate in testa per soffocarlo, i ricatti psicologici. "Denys è morto perché non ha mai parlato. E stato sepolto come un eroe. Ma io non mi do pace. E neanche nostro figlio".

Ksenia Myronova, cos'è successo il 23 marzo? E perché Denys è stato arrestato dagli occupanti russi?

"Mio marito faceva il commerciante di frutta e verdura. Dopo l'invasione russa si è unito alla resistenza. Il 23 marzo è uscito di casa per comprare un po' di benzina. Almeno, è quello che mi ha raccontato per non farmi preoccupare. In realtà avevano convocato lui e altre decine di partigiani per una riunione. Com'è emerso più tardi, era la trappola di un traditore. Denys è scomparso. Nei primi giorni, dal suo cellulare mi arrivavano ancora dei messaggi, ma ho capito subito che non era lui. Erano i suoi aguzzini sadici che mi prendevano in giro. Scrivevano "sono un po' in ritardo", "arrivo tra tre giorni", cose così. Ho cominciato a cercare i suoi amici. Nessuno lo aveva più visto. Poi ho iniziato ad avere paura: ho saputo che anche la moglie e i figli di un suo amico erano stati portati via dai russi. Ho preso mio figlio e il 6 aprile siamo scappati da Kherson a Novomoskovsk".

Quando ha avuto le prime notizie di suo marito?

"Quando mi ha chiamato un vicino e mi ha detto che un uomo e una donna erano venuti a cercarmi a casa. Lui si chiamava Aleksiy e aveva con sé l'orologio di mio marito (Ksenia ce lo mostra durante la videointervista, ndr) ed era stato liberato per uno scambio di prigionieri. Poi sono stati altri due compagni di cella ad aiutarmi a ricostruire cosa gli era successo: Anton e Igor. Entrambi hanno ceduto alle pressioni dei russi e hanno parlato. Perciò sono ancora vivi. Ma io sarò per sempre grata e entrambi per quello che hanno fatto per Denys".

Cos'è successo a Denys?

"Nei primi giorni avevano infilato un sacco in testa e messo le manette a tutti. E i pestaggi brutali sono cominciati subito. Denys è stato trattato con una tale violenza che dopo poco non riusciva a stare né in piedi né sdraiato. Gli hanno tolto i pantaloni e lo hanno picchiato con un bastone finché le gambe non sono diventate nere. Nel frattempo gli hanno sfondato il petto e spezzato le costole, perforandogli un polmone. Lo sappiamo dal certificato di morte, perché in due mesi non ha mai potuto vedere un medico. È morto per le conseguenze di quelle sevizie. I russi gli dicevano "se vuoi un medico devi parlare e devi confessare che sei un nazista"".

E lui?

"Non ha mai detto nulla. Quando non riusciva più a muoversi, i suoi compagni di cella hanno chiesto una sedia, e Denys ha dormito su quella sediolina per 22 giorni, imboccato da loro perché non riusciva a muovere bene neanche le braccia. Eppure i russi hanno continuato a picchiarlo, a divertirsi con delle buste di plastica che gli infilavano in testa per dargli la sensazione che soffocasse, a fargli degli elettroshock. Il 18 aprile lo hanno trasferito a Sebastopoli".

Nel carcere che serve di solito per gli scambi di prigionieri?

"Esatto. Ma invece è morto poco dopo, il 23 aprile. E la polizia di Mykolaiv mi ha chiamato oltre un mese dopo, il 26 maggio, per il riconoscimento del cadavere. Mio marito è solo il primo di un enorme gruppo di civili detenuto e torturato nelle camere delle torture di Kherson. È stato sepolto qui vicino a me, nell'Ucraina libera, con tutti gli onori militari. Perché è morto da eroe".

Quarta Repubblica, Toni Capuozzo: "Perché non usate la parola resa?", una amara verità. Libero Quotidiano l'

08 giugno 2022

Toni Capuozzo non le manda a dire. Come sempre l'inviato di guerra del Tg5 è molto diretto nelle sue analisi e di fatto a Quarta Repubblica torna su episodio di questa guerra che ha fatto parecchio discutere. Qualche giorno fa, come è noto, circa 2500 militari ucraini hanno lasciato l'acciaieria Azovstal dopo aver resistito per più di 80 giorni ai bombardamenti dei russi. I militari, come abbiamo visto nelle immagini che hanno fatto il giro del mondo, si sono consegnati nelle mani dei comandanti russi.

Da lì è iniziato un viaggio verso il carcere. La scelta di arrendersi è arrivata dopo un ordine diretto dall'alto comando militare di Kiev per volere dello stesso Zelensky. E Capuozzo su questo punto fa una riflessione non da poco: "Quando i militari ucraini dell'Azovstal si sono consegnati, abbiamo visto tutti le immagini, qualcuno sui giornali italiani, ad esempio il Corriere, ha parlato di 'evacuazione'. Quella era una resa, la parola giusta da usare è resa non evacuazione. Allora mi chiedo, anche la nostra, in Italia, è propaganda?".

Parole che hanno innescato il dibattito in studio tra gli ospiti presenti. Di certo la riflessione di Capuozzo apre anche interrogativi sul linguaggio usato da una parte del giornalismo di casa nostra per spiegare i fatti d'Ucraina. Ma una cosa è certa, la fine della battaglia della Azovstal è una resa a tutti gli effetti come avviene in tutte le guerre.  

Domenico Quirico per “la Stampa” il 10 Giugno 2022.

I santoni della scienza bellica, i gran marabutti delle discipline militari raccomandano sempre di imparare dai propri errori e di non ripetere mai la battaglia che si è appena perduta. Eresie come "difesa eroica fino all'ultimo uomo", "non cedere un centimetro di terreno", "sacrificarsi per infliggere le maggiori perdite al nemico" sono sobillazioni che invece si orientano, stuzzicanti, verso retori, politicanti e parolai come il ferro con la calamità. Sono intrugli che funzionano benissimo, ma per quelli che parlano della guerra standosene alla larga per strappare un applauso, e dopo un urrah! agli eroici difensori hanno già un piede in osteria.

La cosa più pericolosa non è fare propaganda; in guerra è sempre legittimo, talora necessario visto che l'unico scopo è vincere. A ogni costo. È semmai cominciare a credere nel lessico fantasioso della propria propaganda. 

Aggrediti da un prepotente più grosso e più forte è opportuno raccontarsi come eroici fino all'estremo, disposti a qualsiasi sacrificio umano, implacabili nel resistere, di essere tutti spartani alle termopili. È un ruolo che solo la vittima può recitare legittimamente, l'aggressore non può. Gli tocca la parte di chi imbraccia la minaccia annientatrice, del feroce senza tentennamenti. La parte dei russi e di Putin.

Il più grave errore commesso dagli ucraini in questa guerra sciagurata è stata l'epopea, finita in resa disastrosa, della acciaieria Azovstal a Mariupol. Mesi di efficace propaganda con gli squilli quotidiani sull'arditismo dei difensori sepolti nelle viscere dello stabilimento, e degli sventurati civili intrappolati con loro, e tutti egualmente decisi a resistere fino alla morte, si sono esauriti nella perdita di soldati molto determinati e addestrati che sarebbero stati risolutivi in altre battaglie. Con l'aggiunta del disastro filmato della resa ai soldati russi, che ha certamente piagato l'orgoglio di civili e combattenti ucraini.

Ora un altro stabilimento, questa volta chimico, l'Azot e un'altra città martire dirupata dalle cannonate, Severodonetsk. Una mischia strada per strada da giorni. Alcune centinaia di soldati e civili si sono barricati nella zona industriale, un quadrato di rovine, l'ultima ancora non sotto controllo dei russi. 

Secondo le indicazioni, confuse e contraddittorie che arrivano dal fronte, esisterebbe ancora quella che in linguaggio militare si chiama la linea della vita, ovvero un ponte e una strada su cui fuggire prima che la morsa russa si chiuda interamente. Si può dunque completare, senza troppa palpitante confusione, la ritirata. Infliggere ai russi l'impressione di un lavoro malfatto. Altrimenti potrebbe essere un'altra resa dolorosa.

C'è una decisione urgente da prendere a Kiev. E non pare che ci sia accordo. Bisogna scegliere tra l'epica difesa per continuare a affermare che «i russi non controllano Severodonetsk» luogo chiave della battaglia del Donbass, ma immolando inutilmente altri soldati. 

O cominciare a preparare l'opinione pubblica con timidi accenni alla necessità di doversi ritirare, la decisione militarmente sensata, ma precipitando le retrovie nel pessimismo e nella rassegnazione.

A opporsi sembra non siano i generali preoccupati da alcuni segni di sbandamento tra le file sfibrate dal martellamento russo. I politici invece pensano sia necessario insistere sull'immagine dell'eroismo a oltranza. Solo così, dicono, gli alleati si convinceranno che occorre rinforzare sempre di più i difensori. 

Nelle ultime ore infatti si moltiplicano gli appelli a inviare subito l'artiglieria pesante promessa da inglesi e americani: in tre giorni si garantisce, spazzeremmo via i russi da Severodonetsk. Fingendo di ignorare che queste armi bisogna prima imparare ad usarle. 

Ecco: i cannoni. Severodonetsk e la sua odissea sventurata confermano che il simbolo di questa guerra, all'inizio descritta come futuristica tutta droni missili e forze speciali, invece è lui, il vecchio, terribile, implacabile cannone. 

L'ordigno che ha creato, ormai sono cent' anni, nelle trincee della guerra che fu detta Grande, l'incubo della distruzione industriale dell'uomo. Nel Donbass è suo il fracasso della guerra. Non l'aereo o il carro armato. I cannoni russi che distruggono, pigiano uomini e cose, scavano trincee di assoluto indiscriminato annientamento. 

Il cannone che picchia risoluto, come se ogni volta avesse individuato la sua vittima, il suo bersaglio particolare e su quello si accanisse. Il rombo delle batterie dei pezzi campali sono ormai come il segno naturale dello scorrere delle ore del giorno, una polifonia che squarcia e assorda. 

E ogni colpo sembra che picchi un essere vivo, e affondi cercando un suo passaggio sotterraneo in una materia cedevole e morbida, la materia umana. Per i soldati e i civili ucraini che sopravvivono a Severodonetsk (pare siano ancora diecimila) e nei villaggi sulla linea della avanzata russa l'angoscia nasce dal silenzio che dalle loro linee risponde al rombo dell'altra parte. 

Non ci sono cannoni per ribattere. C'è solo una bestemmia di boati nemici che somiglia a una voragine e che nella sua implacabile continuità diventa a sua volta un terribile silenzio. 

Non ci sono dei che vegliano su di te, sei solo carne e ossa. Edifici e trincee, strade e ripari sprizzano in schegge fumanti, il maelstrom di fuoco smonta in bagliori vacillanti il mondo di un minuto prima, ti getta nel vuoto, manda in pezzi perfino il timore e la speranza. 

Anche i più coraggiosi diventano fatalisti, rassegnati: quando il destino cieco fatto di esplosivo e di acciaio deve colpire, lo farà senza che tu possa fare nulla. Ci si sente chiusi in una disperata eternità, come dei sepolti vivi in una miniera povere creature umane inghiottite in una solitudine inenarrabile da un caos minerale, meccanico. Nello spazio tra il lancio e l'esplosione il film dei ricordi ti passa davanti agli occhi in quell'unico orribile secondo. E la guerra diventa ciò che è, lo scorrere in fiumi monotoni dell'inumano.

Dal 2014 al 2022: il valore simbolico di Mariupol. Andrea Muratore su Inside Over il 16 maggio 2022.

A Mariupol infuria la battaglia finale per l’acciaieria Azovstal. Vera e proprio “Stalingrado d’Ucraina”, la città sul Mar d’Azov è stata pressoché interamente rasa al suolo dall’esercito russo nei primi ottanta giorni di conflitto e ora l’armata di Vladimir Putin mira a stanare i residui combattenti del Reggimento Azov. L’unità erede del celebre battaglione ultra-nazionalista e neo-nazista al centro della narrazione di Vladimir Putin sulla “de-nazificazione” del Paese limitrofo.

Per la Russia gli Azov asserragliati all’Azovstal non sono combattenti, ma criminali, nonostante l’Ucraina li abbia inquadrati della Guardia Nazionale sin dal 2015. E la ragione dell’asserragliamento degli ultra-nazionalisti a Mariupol e della martellante offensiva russa è legata tanto al valore strategico della città-martire quanto al suo peso simbolico.

Nel 2014 come nel 2022 Mariupol è il centro del contrasto tra Russia e Ucraina. E proprio la riconquista di Mariupol nel 2014, in cui l’esercito ucraino cooperò per la prima volta a tutto campo con gli ultra-nazionalisti di Azov, frenò sul nascere l’estensione della secessione filorussa a tutto il Donbass, aprendo la strada al lungo conflitto congelato e a bassa intensità degenerato otto anni dopo nella guerra d’Ucraina. L’espansione del Ruskij Mir fu frenata dal notevole apporto militare dato dagli Azov, che sul campo si guadagnarono l’integrazione nelle forze regolari ucraine, ma che iniziarono in quell’occasione a conquistarsi la triste fama che li ha accompagnati fino al 2022. Anno in cui sono diventati, da assedianti, loro stessi assediati proprio a Mariupol. A lungo capitale de facto del Donbass rimasto in mani ucraine, antemurale contro i secessionisti, base operativa per l’esercito ucraino a Est e le milizie nazionaliste. Città identificata per questo dai russi e dai russofili del Donbass come la capitale nemica per eccellenza. Specie dopo che sono emerse le violazioni dei diritti umani e gli omicidi compiuti dai membri del battaglione Azov, denunciate anche da Human Rights Watch, contro i civili russofoni.

Tutto questo mentre, incorporandolo nelle forze regolari, il governo ucraino ha cercato di rimettere i nazionalisti sotto il suo controllo depoliticizzando l’Azov. Operazione che, secondo il sito di open source intelligence Bellingcat, non è affatto riuscita nel suo intento, almeno non nella portata che si mirava a ottenere. Tirando le somme sullo stato del Reggimento Azov, a inizio invasione russa il Washington Post ha riportato il quadro di un gruppo consapevole delle sue origini, e ancora con un comandante aderente di estrema destra come Denys Prokopenko, ma in parte cambiato rispetto alle sue origini. Molte reclute che si uniscono al battaglione sono ben consapevoli del suo richiamo nazista, ma si uniscono nonostante la sua storia per vari motivi, inclusa la reputazione positiva di Azov per l’addestramento di nuove reclute. Il Post ha anche aggiunto che il battaglione è un vero e proprio “faro per gli anti-putinisti” di tutto il mondo, ma questo dettaglio non può far altro che accentuare le tendenze che hanno spinto i russi a insistere su Mariupol.

Negli occhi della propaganda russa Azov potrebbe anche riformarsi come corpo esterno a ogni forza armata ma rimarrebbe quello delle indelebili immagini del 2014-2015, anni di odii incrociati tra filorussi e antirussi. Anni costellati da roghi di icone ortodosse, torture e violenze ad opera degli Azov, accusati dall’Osce anche di esecuzione di prigionieri in forma continua e di creazione di fosse comuni. Anni in cui si è, soprattutto, sedimentata l’equiparazione tra il governo dell’Ucraina post-Maidan e il nazismo ad opera della narrazione russa.

E si torna a Mariupol, messa sotto assedio con una ferocia che non ha eguali nelle altre città ucraine e in cui gli stessi Azov contendono ai ceceni e agli altri militari russi il terreno strada per strada fino a ritirarsi nell’ultima ridotta dell’Azovstal. Consci che, come velatamente fatto intendere dai diplomatici e politci russi, per loro non esiste alcuna alternativa tra la resistenza e la morte. Mentre la Russia accanendosi su Mariupol pare voler colpire con durezza la capitale dell’anti-secessionismo e, soprattutto, far espiare ai suoi ultimi difensori le colpe di cui li accusa. Gli Azov devono, secondo l’esercito russo, essere presi sulla scia dell’esaurimento e della fame.

Bombe in superficie, blocco degli accessi nel sottosuolo, assedio attraverso la fame: le truppe di Putin vogliono rendere lunga e sofferente la strada verso il Valhalla dei nazionalisti neo-pagani dell’Azov. Forzarli all’irreversibile: al crollo della disciplina, alla diserzione, alla ribellione contro la fame, alla rappresaglia contro i loro stessi membri. Per mostrare un trofeo in una campagna che sta riservando poche soddisfazioni belliche all’esercito di Putin, nella città in cui tutto è iniziato e tutto prosegue. Nella città-martire presa d’infilata tra il nazionalismo etnico di Azov e l’invasione brutale della Russia, che ha prodotto un numero imprecisato di morti civili (pare 21mila nella città da febbraio a oggi) e la riapertura di vecchie ferite.

Otto anni fa la difesa di Mariupol da parte degli Azov e dell’esercito ucraino impedì ai secessionisti una vittoria strategica. Otto anni fa iniziò la lunga fase di incertezza culminata con l’aggressione russa che ha oggi nel Donbass conteso il suo epicentro. Otto anni fa, infine, iniziava il complesso rapporto tra le frange nazionaliste ucraine e il rispetto dei diritti umani addotto da Putin come movente per l’invasione. Mariupol, oggi come nel 2014, è strategica e simbolica. E lo sarà sempre di più negli anni a venire. Ammesso che ne resti ancora qualcosa dopo il “Crepuscolo degli Dei” del reggimento Azov che sta andando in scena nell’acciaieria sotto assedio.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 3 giugno 2022. 

Quando il 24 febbraio Vladimir Putin diede l'ordine ai suoi generali di attaccare l'Ucraina, la piccola Kira era appena nata. Figlia di una giornalista ventisettenne di Odessa, una città che in fondo non è neppure tra le più sfigurate di questa feroce guerra, morì insieme alla madre durante un attacco missilistico che colpì, il 23 aprile, il palazzo in cui abitava. 

Kira aveva appena tre mesi e la sua è solo una delle tante tragedie che ci consegnano questi primi cento giorni di guerra. La sua foto, con la madre che le dà il latte, è struggente, ma purtroppo non è l'unica: ci sono le immagini del teatro di Mariupol, usato come rifugio, dove sotto le macerie sono rimaste almeno 600 persone; le donne incinte in fuga dall'ospedale della stessa città bombardata; le foto sconvolgenti dei cadaveri per strada a Bucha, alle porte di Kiev: civili uccisi dall'esercito russo come confermato anche dalle immagini satellitari. 

Certo, anche i numeri parlano: 4.000 sono i morti ufficiali tra i civili, ma quelli reali sono molti di più, visto che nella sola Mariupol si ipotizzano almeno 22.000 vittime.

Secondo quanto dice Zelensky, 100 soldati ucraini muoiono ogni giorno nel Donbass e circa il 20 per cento del territorio è stato preso dai soldati di Mosca (o delle due repubbliche autoproclamate fedeli al Cremlino). E Stoltenberg, segretario Nato, avverte: «La guerra durerà ancora a lungo». 

Restano città sventrate dopo cento giorni di guerra: a Mariupol è danneggiato il 90 per cento degli edifici, nella non lontana Severodonetsk il 60 (in questo centro del Donbass 800 persone si sono rifugiate nei bunker antiaerei dei sotterranei della fabbrica chimica Azot). Sfigurate le vite di chi ci abitava e che, nella migliore delle ipotesi, è riuscito a fuggire. Si calcola siano stati 5,3 milioni gli ucraini che hanno raggiunto Paesi dell'Unione europea.

Oggi sta succedendo qualcosa di straordinario: sono più gli ucraini che tornano in Patria di quelli che scappano. Lo dice l'ultimo bollettino di Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere: tra il 25 e il 31 maggio quasi 260.000 ucraini hanno lasciato l'Ue per rientrare a casa. «In totale, 2,3 milioni di ucraini sono tornati nel loro Paese dall'inizio della guerra». Nel bilancio di questi cento giorni vanno anche considerate le perdite dei russi, a partire dai 31mila soldati morti (dati dello Stato maggiore ucraino). Era il 24 febbraio quando le truppe russe entrarono in Ucraina.

Per mesi il Cremlino aveva smentito ciò che la Casa Bianca aveva ampiamente preannunciato, ma la realtà, purtroppo, diede ragione a Biden. Da quella notte inizia anche una danza linguistica dei russi che non parlano di guerra, invasione e aggressione, ma di «operazione militare speciale» e «smilitarizzazione e denazificazione». Il 24 febbraio il Cremlino e l'opinione pubblica russa pensano che l'Ucraina si arrenderà rapidamente. Vengono diffuse fake news (le prime tra le tante): Zelensky è in fuga a Leopoli.

Non è vero. Mosca vuole insediare un governo collaborazionista. I feroci mercenari della Wagner puntano su Kiev per uccidere il presidente ucraino. L'esercito si avvicina con una lunga colonna alla Capitale. Più a Sud cade Kherson, le truppe sbarcano a Mariupol. Ma gli ucraini si difendono, Zelensky vieta agli uomini che hanno meno di 60 anni di lasciare il Paese. 

La difesa regge, anche con l'aiuto delle armi e delle informazioni dell'intelligence americana. Comincia a costruirsi l'epopea e la propaganda ucraina: Zelensky che registra video dai bunker, ma anche dalle strade di Kiev, nonostante i bombardamenti; i soldati ucraini, che difendono la base della Snake Island, sul Mar Nero, rispondono ai russi che intimano la resa con un «andate a quel paese» (la frase è più colorita e finirà su un francobollo).

Si trascina la fase dell'impantanamento. Putin, insoddisfatto, inizia a rimuovere i generali. Il 29 marzo la lunga colonna militare russa alle porte di Kiev torna indietro, il Cremlino cambia strategia e concentra le forze a Est. Il 4 aprile, sul Mar Nero, i missili ucraini affondano la Moskva, l'ammiraglia della flotta di Putin: i russi sembrano in affanno eppure nei giorni successivi infliggono perdite dolorose nel Donbass agli ucraini.

Il 17 maggio c'è la resa degli ultimi soldati ucraini, in gran parte del battaglione Azov, che si erano asserragliati nelle acciaierie di Mariupol. Più a Nord, a Severodonetsk, l'esercito russo prende buona parte della città e prova a isolare una parte delle forze nemiche. Stallo. Dai porti bloccati non parte più il grano, c'è il rischio di un'emergenza alimentare planetaria. La strada dei negoziati appare ancora irta di ostacoli. Sarà una lunga guerra, annuncia la Nato. Ci stiamo abituando e stiamo dimenticando chi, ogni giorno da cento giorni, muore in Ucraina.

Letizia Tortello per La Stampa il 25 maggio 2022. 

Li hanno scoperti mentre rimuovevano le macerie di un grattacielo nella «città nera», simbolo della distruzione e dell'accanimento della guerra di Mosca, Mariupol. Erano 200 corpi morti, in avanzato stato di decomposizione. «Il loro odore ha invaso un intero quartiere, man mano che venivano tirati fuori», ha spiegato il consigliere del sindaco, Petro Andriushchenko. Si affida come sempre a Telegram. Denuncia che non hanno avuto sepoltura e non si sa semmai l'avranno: i residenti si sono rifiutati di portare i loro corpi all'obitorio, secondo una procedura ritenuta umiliante imposta dai soldati filorussi.

È il nuovo orrore scoperto nel porto del Sudest, dopo il massacro delle bombe che per tre mesi non hanno dato tregua. Dei duecento non si sa nulla, se non che sono rimasti intrappolati nel rifugio di un palazzo in via Myru (pace). Dissotterrati dai detriti che li ricoprivano e ammassati in un cimitero improvvisato per strada, rinchiusi in sacchi neri e abbandonati lì.

Per la tumulazione ufficiale, secondo le nuove regole dei filorussi, infatti, è necessario portare da sé i morti all'obitorio, oppure registrare un video in cui si dichiara che il defunto è stato eliminato dalle forze ucraine, secondo quanto trapela dalle cronache di Kiev. Molti residenti si sono opposti, e allora il seppellimento è toccato ai russi. Questa carneficina è sono solo l'ultimo atto, in ordine di tempo, di uno sterminato elenco di vittime dei pesanti bombardamenti su Mariupol. Che avrebbero causato fino a 20 mila morti in novanta giorni di guerra, spiegano le autorità locali ucraine. Almeno 4 mila per le Nazioni Unite.

La caduta dell'acciaieria Azovstal ha segnato la svolta. Quello che una volta era un ricco centro produttivo sul mare, è oggi un fantasma di edifici anneriti, distrutti e rasi al suolo che i russi stanno iniziando a trasformare. 

Il ministero della Difesa di Mosca ha annunciato di aver completato lo sminamento del porto, con il disinnesco di 12 mila esplosivi. «I canali di avvicinamento e le acque interne sono state liberate dalle navi affondate e da altri ostacoli alla navigazione», fa sapere in una nota. Da stamane alle 8, la Russia aprirà un «corridoio umanitario» lungo 115 miglia e largo 2 miglia in direzione del Mar Nero, per consentire alle navi straniere di lasciare lo scalo portuale. In città, invece, è iniziata la «russificazione» dell'informazione: maxi schermi mobili trasmettono i telegiornali di Mosca in tutti i quartieri, spiega l'ucraina Ukrinform.

Su Telegram corrono anche le immagini. Gli ucraini la chiamano «Zombie Tv», e contestano l'iniziativa. Denunciano quella che vivono come l'estrema offesa: «Non si può dare in pasto alla nostra gente questa propaganda», sono i commenti sotto i post ufficiali ucraini sul social.

E poi c'è il processo ai combattenti della Brigata Azov, costretti ad arrendersi e catturati. Per loro, «nazisti nemici numero uno», Mosca deve preparare una punizione esemplare, da mostrare ai suoi e al mondo. Si terrà in più fasi, una delle prime sarà proprio simbolicamente a Mariupol, come tiene a precisare il capo dell'autoproclamata Repubblica di Donetsk (Dpr), Denis Pushilin.

 «Penso che non dovremmo ritardare con il processo - dice trionfale in un video -, e un certo numero di quelli (combattenti, ndr) intermedi dovrebbe comparire davanti al tribunale principale, come è stato dopo la Grande Guerra Patriottica. Prima di Norimberga, c'erano i tribunali di Kiev e Kharkov e un certo numero di altri. Apparentemente, uno dei primi sarà il Tribunale di Mariupol». È prevista anche la presenza di rappresentanti di Paesi stranieri, «compresi quelli occidentali», per assistere in diretta alla caduta degli Azovstal.

Il porto del Sud deve diventare, nella narrazione russa, un'appendice ucraina del Cremlino: è per questo che ieri circolavano informazioni secondo cui il governatore di San Pietroburgo, Oleksandr Beglov, sognerebbe per Mariupol un grande gemellaggio. E ne avrebbe già discusso al telefono con Pushilin, oltre che con l'autoproclamato sindaco della nuova Mariupol russa, Kostyantyn Ivashchenko. «Oggi Mariupol sta attraversando una fase difficile e noi siamo pronti a contribuire alla sua seconda vita», ha spiegato Beglov.

 Tutto pronto per la «rinascita»: «Dobbiamo stabilire legami industriali, nei settori dell'edilizia, della sanità, dell'istruzione, della cultura. L'assedio di Leningrado e l'occupazione di Mariupol, con la sua eroica liberazione dagli invasori fascisti durante la Grande Guerra Patriottica, hanno lasciato un segno profondo nel destino delle persone». Come dire, il passato sono solo macerie di cui Mosca vorrebbe cancellare la memoria.

 Mariupol, il saccheggio (segreto) del tesoro di Azovstal. Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2022.

Il grande furto del tesoro di Mariupol è iniziato. E rischia di portare con sé una cascata di complicazioni, che potrebbero spingere molti Paesi anche lontani dalla Russia e dall’Ucraina a decidere una volta per tutte con chi stare: con la nazione aggredita e derubata dei suoi prodotti o dalla parte dell’aggressore, che presto potrebbe mettere in vendita quei beni.

Nella notte fra sabato e domenica — come anticipato ieri dal Corriere — sono emersi i primi dettagli di quella che sembra un’operazione di saccheggio del metallo prodotto a Mariupol. Da giorni la città è ormai in mano all’esercito di Mosca e almeno una nave è già entrata in porto per prelevare — secondo la parte ucraina — 2.700 tonnellate di prodotti in metallo da trasportare 160 chilometri più a oriente nel porto russo di Rostov. L’agenzia di Mosca Tass ha confermato l’arrivo del mercantile a Mariupol, mentre un portavoce del porto ha detto a Reuters che il carico sarebbe destinato alla città russa sul Mare di Azov. La reazione di Kiev non si è fatta attendere. «Il saccheggio dei territori occupati continua — ha denunciato via Telegram la responsabile per i diritti umani dell’Ucraina Lyudmila Denisova —. Dopo il grano, gli occupanti si stanno dando a esportare prodotti in metallo».

Nelle stesse ore Metinvest, la compagnia ucraina proprietaria degli impianti di Azovstal e Ilych a Mariupol, avvertiva che l’operazione potrebbe essere più vasta. Prima dell’invasione erano ormeggiati in rada sei mercantili con un carico di 28 mila tonnellate di acciaio grezzo destinato all’export in Italia, Spagna, Belgio, Grecia, Portogallo e Turchia (per un valore di circa 20 milioni di dollari). Ora, secondo un comunicato del gruppo industriale ucraino, ci sarebbe un «alto rischio di furto e contrabbando» di Stato verso i porti russi di Rostov, Novorossiysk e altri. Per Metinvest è partita un’operazione «che ha tutti i segni di un atto di pirateria». Del resto a Mariupol si troverebbero già 200 mila tonnellate di acciaio, ghisa e altri metalli per centinaia di milioni di dollari.

Per il Cremlino, far trasportare questo tesoro degli impianti di Azovstal e Ilych in Russia potrebbe essere un atto di riciclaggio di Stato. Da Rostov e dagli altri centri i metalli potrebbero poi essere esportati — ufficialmente come prodotti russi — verso Paesi africani o asiatici che non applicano le sanzioni occidentali. Per questo Yuriy Ryzhenkov, amministratore delegato di Metinvest, mette in guardia governi e imprese che dovessero comprare dalla Russia metallo di dubbia provenienza. «Chiediamo con forza ai compratori europei e di altre aree del mondo di non comprare beni degli impianti di Mariupol finché la nostra impresa non abbia recuperato il pieno controllo», ha detto Ryzhenkov al Corriere giorni fa. In altri termini, sarebbe ricettazione su scala globale. Ma quanti nel mondo daranno la precedenza al diritto, rispetto alla possibilità di comprare materie prime a basso costo, resta ancora tutto da vedere.

Da notizie.virgilio.it il 31 maggio 2022.

Svolta nelle acque di Mariupol. Dopo due mesi di blocco a causa della guerra, la prima nave cargo ha lasciato il porto della città ucraina, con a bordo un carico di metallo. La notizia è stata diffusa dal Distretto militare meridionale russo, citato dall’agenzia Tass. 

Dove è diretta la nave

La prima nave cargo partita dal porto ucraino di Mariupol è diretta in Russia, precisamente a Rostov, sul Don.

Si chiama ‘Slavutich‘ ed è uscita dal porto scortato dall’artiglieria della Flotta del Mar Nero e da unità di pattugliamento navali antisabotaggio. 

Si tratta dello stesso cargo entrato a Mariupol il 27 maggio: la prima nave a farlo dopo la fine dell’assedio, una decina di giorni fa. 

Il canale televisivo Rossiya-24, citato dall’agenzia russa Interfax, nella giornata di lunedì 30 maggio aveva sottolineato che “le autorità sono in difficoltà, poiché i combattenti dei battaglioni nazionalisti in ritirata hanno praticamente raso al suolo l’infrastruttura con il fuoco dei lanciagranate. Il ripristino di tutte le infrastrutture portuali è l’obiettivo primario per ora”.

L’annuncio dei filorussi: “Prese le navi di Mariupol”

“Oggi 2.500 tonnellate di bobine di acciaio hanno lasciato il porto di Mariupol. La nave è diretta a Rostov sul Don”, le parole di Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, riprese dall’agenzia russa Interfax. 

Pushilin ha aggiunto che alcune navi del porto di Mariupol entreranno a far parte della flotta commerciale della Repubblica Popolare di Donetsk: “La decisione è già stata presa, saranno rinominate. Così, la Repubblica potrà formare una propria flotta commerciale”.

L’importanza del porto di Mariupol

Prima della guerra, quello di Mariupol era il più grande porto ucraino sul Mare di Azov. 

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La città, di circa 400 mila abitanti, era il centro dell’industria per la produzione di acciaio. 

Il sindaco di Mariupol, Vadym Boychenko, ha reso noto il bilancio degli attacchi russi su Telegram: “Da metà aprile, gli occupanti hanno seppellito almeno 16 mila residenti in fosse comuni vicino ai villaggi di Stary Krym, Mangush e Vynohradne. Inoltre, più di 5 mila persone sono state sepolte dai servizi di pubblica utilità nella prima metà di marzo”. 

Nei giorni scorsi, invece, sono state scoperte nuove fosse comuni a Mariupol.

Mariupol, cadaveri ammassati al supermarket. E i russi rubano 3mila tonnellate di metallo. Andrea Cuomo il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.

La denuncia del consigliere del sindaco: "Corpi come fossero immondizia" Una nave ormeggiata al porto riempita di materiale prelevato in Ucraina.

Mariupol capitale dell'inferno. La città sulle rive del Mar d'Azov, da qualche settimana nelle mani dei russi, continua a non trovare pace. È di ieri la notizia che i russi starebbe ammonticchiando i cadaveri degli ucraini da loro stessi uccisi in un supermercato: ad affermarlo è Petro Andriushenko, consigliere del sindaco, su Telegram: «Nei locali del Schyryi Kum supermarket sul viale Svobody, i russi hanno creato una discarica di corpi dei caduti ucraini riemersi dalle tombe quando hanno cercato di aggiustare le condotte d'acqua e anche cadaveri esumati. Li stanno accumulando come se fossero immondizia». Andriushenko posta anche una foto diffusa dal canale Telegram «Mariupol Now».

Lo stesso Andriushenko racconta anche dei continui saccheggi di metallo da parte dei russi. Una nave, la «Slavutych», registrata a Rostov sul Don, in Russia, avrebbe gettato l'ancora nel porto di Mariupol scortata dai militari russi, e da due giorni starebbe caricando il metallo rubato nelle varie località ucraine e destinato probabilmente a essere portato proprio a Rostov. Il «bottino» ammonterebbe a 2.700 tonnellate di metallo. La denuncia era partita sabato da Lyudmilla Denisova, commissaria parlamentare ucraina per i diritti umani, attraverso la sua pagina Telegram: «Dopo il grano, ora i russi portano via il metallo dai territori ucraini», aveva scritto, spiegando in tal modo il fatto che i russi si fossero dati da fare per sminare una parte del porto della città. «Inoltre, per una più conveniente rimozione del bottino, gli occupanti hanno iniziato a ripristinare i collegamenti ferroviari a Mariupol e Volnovakha», ha aggiunto la commissaria, secondo cui prima dell'invasione Mariupol ospitava circa 200mila tonnellate di metallo per un valore di 170 milioni di dollari. Mariupol ospita alla sua periferia meridionale una delle più grandi acciaierie d'Europa, Azovstal, che per settimane e fino alla resa è stata il cuore della resistenza delle milizie ucraine nell'assedio della città.

Mariupol è certamente uno dei luoghi in cui è avvenuto il maggior numero di crimini di guerra. Dei quali parla diffusamente, in un'intervista all'Adnkronos, Arsen Avakov, ex ministro dell'Interno ucraino dimessosi dopo oltre sette anni di governo meno di un anno prima dell'inizio dell'invasione russa. «La Russia - assicura Avakov - sta effettuando un'invasione militare dell'Ucraina sovrana. Il regime di Putin sta conducendo il genocidio del popolo ucraino, bombardando le nostre città e villaggi, uccidendo, stuprando e rapinando la popolazione civile, mandando le persone nei campi di concentramento. Ma perderà, senza dubbio, e subirà le meritate conseguenze della guerra di aggressione, il collasso dell'economia, il pagamento di enormi riparazioni». Secondo l'ex ministro «i criminali di guerra, il governo, i militari che stanno commettendo crimini efferati nelle città occupate, i propagandisti dovranno affrontare un Tribunale internazionale, un nuovo grande processo di Norimberga le cui udienze, a mio avviso, dovrebbero tenersi a Kharkiv e a Mariupol vittime di violenti bombardamenti. Se qualcuno riuscisse a sfuggire al banco degli imputati, sono sicuro che lo troveremo: puniremo chiunque abbia le mani sporche del sangue ucraino, chiunque abbia impartito ordini criminali, chiunque li abbia eseguiti, chiunque si sia occupato della propaganda del nuovo fascismo russo e della guerra contro l'Ucraina».

Da “La Stampa” il 30 maggio 2022. 

Una nave russa contenente grano, probabilmente rubato in Ucraina, è attraccata nel porto siriano di Latakia. Lo riporta la Cnn partendo da nuove immagini satellitari che mostrano un mercantile russo pieno di grano arrivato nel porto siriano di Latakia. 

Le immagini via satellite sono state fornite da Maxar Technologies, azienda privata che ha appalti con il governo Usa. Il mercantile coinvolto è la Matros Pozynich, una delle tre navi che caricano grano nel porto di Sebastopoli in Crimea dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina. Si tratta del suo secondo viaggio in quattro settimane.

Il cargo è stato visto l'ultima volta a Sebastopoli il 19 maggio (dov' è stato visto attraccare in territorio ucraino accanto a quelli che sembravano essere silos per il grano con il cereale che fuoriusciva dal nastro in una stiva aperta) e successivamente è stato rintracciato mentre transitava nello stretto del Bosforo e lungo la costa turca. Si stima che la nave possa trasportare circa 30 mila tonnellate di grano.

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 30 maggio 2022.

Il grande furto del tesoro di Mariupol è iniziato. E rischia di portare con sé una cascata di complicazioni, che potrebbero spingere molti Paesi anche lontani dalla Russia e dall'Ucraina a decidere una volta per tutte con chi stare: con la nazione aggredita e derubata dei suoi prodotti o dalla parte dell'aggressore, che presto potrebbe mettere in vendita quei beni. 

Nella notte fra sabato e domenica - come anticipato dal Corriere - sono emersi i primi dettagli di quella che sembra un'operazione di saccheggio del metallo prodotto a Mariupol. Da giorni la città è ormai in mano all'esercito di Mosca e almeno una nave è già entrata in porto per prelevare, secondo la parte ucraina, 2.700 tonnellate di prodotti in metallo da trasportare 160 chilometri più a oriente nel porto russo di Rostov.

L'agenzia di Mosca Tass ha confermato l'arrivo del mercantile a Mariupol, mentre un portavoce del porto ha detto a Reuters che il carico sarebbe destinato alla città russa sul Mare di Azov. La reazione di Kiev non si è fatta attendere. 

«Il saccheggio dei territori occupati continua - ha denunciato via Telegram la responsabile per i diritti umani dell'Ucraina Lyudmila Denisova -. Dopo il grano, i russi si stanno dando a esportare prodotti in metallo». 

Nelle stesse ore Metinvest, la compagnia ucraina proprietaria degli impianti di Azovstal e Ilych a Mariupol, avvertiva che l'operazione potrebbe essere più vasta. Prima dell'invasione erano ormeggiati in rada sei mercantili con un carico di 28 mila tonnellate di acciaio grezzo destinato all'export in Italia, Spagna, Belgio, Grecia, Portogallo e Turchia (per un valore di circa 20 milioni di dollari).

Ora, secondo un comunicato del gruppo industriale ucraino, ci sarebbe un «alto rischio di furto e contrabbando» di Stato verso i porti russi di Rostov, Novorossiysk e altri. Per Metinvest è partita un'operazione «che ha tutti i segni di un atto di pirateria». Del resto a Mariupol si troverebbero già 200 mila tonnellate di acciaio, ghisa e altri metalli per centinaia di milioni di dollari. 

L'impianto di Azovstal, tra l'altro, era strategico per le catene internazionali del valore, dato che da lì proveniva quasi metà del gas neon (legato alla lavorazione dell'acciaio) necessario alla produzione di chip. La paralisi dell'impianto rallenterà ulteriormente le forniture di semiconduttori.

Per il Cremlino, far trasportare questo tesoro degli impianti di Azovstal e Ilych in Russia potrebbe essere un atto di riciclaggio di Stato. Da Rostov e dagli altri centri i metalli potrebbero poi essere esportati - ufficialmente come prodotti russi - verso Paesi africani o asiatici che non applicano le sanzioni occidentali. 

Per questo Yuriy Ryzhenkov, amministratore delegato di Metinvest, mette in guardia governi e imprese che dovessero comprare dalla Russia metallo di dubbia provenienza. «Chiediamo con forza ai compratori europei e di altre aree del mondo di non comprare beni degli impianti di Mariupol finché la nostra impresa non abbia recuperato il pieno controllo», ha detto Ryzhenkov al Corriere giorni fa. 

In altri termini, sarebbe ricettazione su scala globale. Ma quanti nel mondo daranno la precedenza al diritto, rispetto alla possibilità di comprare materie prime a basso costo, resta ancora tutto da vedere.  

Domenico Quirico per “la Stampa” il 30 maggio 2022.

I supermercati raccolgono sotto il loro tetto molte persone come un tempo facevano solo le chiese. Occupano, se volete, il centro della vita collettiva contemporanea. Per secoli la chiesa ha occupato questo posto. Non a caso li si definisce i templi del consumo. Sarà per questo che i russi, come ha denunciato Petro Andriushenko, consigliere del sindaco di Mariupol, hanno gettato i cadaveri degli ucraini raccolti in città o esumati dalle tombe improvvisate in un supermercato abbandonato e semidistrutto. 

Ci crocifigge una immagine: corpi in decomposizione ammucchiati come un pavimento in mezzo agli scaffali devastati e vuoti, alle casse desolate, alle immondizie delle cose saccheggiate. 

In questa guerra abbiamo visto una quantità di scene orribili, stragi con i missili, e civili eliminati frettolosamente per strada come inciampi umani. La guerra in sé come crimine. Ogni guerra non inventa il mistero del male, ne rende ogni volta il suo linguaggio più lancinante. Ma la barbarie sui cadaveri mina le condizioni stesse della esistenza umana. La civiltà, ciò che siamo, corre lungo una cresta esigua di cui uno dei versanti è proprio una uscita come questa fuori dalla umanità. 

Il culto dei morti, il rispetto dei morti è un segno di umanità, dice un luogo comune filosofico. La tomba è un punto di partenza della umanità. Tutto in fondo inizia dalla fine. La morte e il suo culto rendono immortali.

La morte, se rispettata, coperta degnamente, celebrata anche con il più umile ritorno alla terra, rende immortali. Oggi, nel terzo millennio, assistiamo con angoscia alla profanazione della morte, celebrata in un osceno funerale al contrario, in un rito blasfemo, sui cadaveri di Mariupol, atrocemente abbandonati, in vista, in un supermercato come se fossero merce guasta di cui non si sa cosa fare perché la guerra, vincere è una occupazione più importate. Non è purtroppo una eccezione. Intravedo la stessa empietà disinvolta in altre terribili storie, come l'assalto alla bara durante il funerale della giornalista uccisa in Palestina. 

La negazione della tomba significa negare che ciò che si trova nel seno della terra, sotto un tumulo, una semplice lastra di pietra o al centro della fastosa piramide di un re, sia degno di rimanere. Anche se a poco a poco non ne resteranno che ossa e cenere e polvere. Una dignità è concessa anche ai resti materiali dal momento che non sono cose, scarti, ma resti umani.

Il rifiuto dell'autocrate Creonte di concedere questa distinzione a uno dei suoi fratelli è la ragione della rivolta politica di Antigone. Nella Città una certezza deve accomunare tutti, obbedienti e ribelli, la mancanza di rispetto per i resti dei mortali porta direttamente allo stato di natura, spalanca al Male le porte per l'invasione del mondo. 

In questi oltre novanta giorni dall'aggressione russa, talora anche con fatica, ho evitato di usare parole come genocidio, olocausto e sono convinto che coloro che l'hanno fatto hanno sbagliato.

Ma di fronte alla umiliazione dei morti, allo sfregio dei cadaveri uso per coloro che lo hanno compiuto questo sacrilegio, che hanno portato quei poveri resti nel supermercato e li hanno gettati lì, non la parola uomini ma contro uomini. Il silenzio dei morti ci appartiene come le grida d'aiuto delle vittime squartate dalle guerre e dei profughi, in quel silenzio riconosciamo la nostra voce. 

Per questi civili eliminati durante la feroce battaglia urbana non è certo stata una buona morte. Penso che non esista una buona morte, che sia un dolce nascondiglio, una pietosa bugia medievale e cristiana. Al massimo esiste una morte decente, civilizzata. E certo loro non hanno avuto diritto neppure a questa. Ma nel supermercato del viale Svobody siamo oltre.

A questi cadaveri abbandonati, ammucchiati si adatta la terribile definizione di Bossuet per i corpi in decomposizione: «Un non so che che non ha nome in nessuna lingua». E' così: sono morti indicibili. Sono la morte tutta nuda, che non ha soltanto giustificazione ma neppure nome. Riportati brutalmente al principio universale di distruzione. Stiamo lì davanti a quel fotogramma umiliati e spogliati, come persone che non hanno neppure più diritto al dolore perché la vergogna è diventata universale. Il morto che viene pianto, sepolto, indicato con una lapide, una croce, un semplice sasso fa ancora parte della umanità, non è un cadavere. Perché non lo si è abbandonato, lasciato cadere nel Nulla. 

Lo diventa quando come i morti del supermercato è lasciato a sé stesso. A Mariupol non si combatte più da giorni. Non esiste neppure la fragile, inaccettabile scusa del dire che chi sta combattendo strada per strada e lotta per non essere a sua volta ucciso non ha tempo per un gesto di pietà verso i vinti.

Questi cadaveri raccattati tra le rovine o addirittura esumati per mostrali sono abbandonati in quel luogo perché così si è voluto. Sono il contrario della pietà della cremazione, che è l'oblio dei corpi, la eliminazione della vita organica che contiene il messaggio: il morto non sarà che una astrazione, un ricordo astratto, un vuoto che coloro che lo hanno amato devono colmare. I cadaveri lasciati apertamente a disfarsi nel lento degrado fisico della materia, significano che non si vuole affatto sbarazzarsi di quei morti. Non si vuole con la tomba rubare pietosamente la morte alla natura, il sacro e i cimiteri sono un furto che umanizza, rubano la morte, la fanno nostra, la umanizzano. 

E' la profanazione totalitaria che afferra perfino il nemico ucciso. E' lo stesso meccanismo che portò nel 1793, l'anno del Terrore spinse la rabbia rivoluzionaria a profanare le tombe della cattedrale di Saint Denis sfasciandole con mazza e piccone, a compiere un regicidio anche contro i morti, scoperchiandone la polvere, decrasalizzandola e poi gettandola nella Senna.

I russi che hanno violato la morte dei morti ucraini esibendola con questa profanazione sfrenata al tempo della decomposizione appartengono alla stessa canaglia che vuole abolire la Storia, ai fanatici della tabula rasa, anche dei corpi dei nemici uccisi. I loro morti non hanno neppure il diritto di morire.

I prigionieri delle acciaierie di Mariupol “vengono torturati con le pinze, con l’elettroshock e con pratiche di strangolamento” dopo essere stati catturati dalle forze russe. Dagotraduzione da Daily Mail il 30 maggio 2022.

Il presidente francese Emmanuel Macron e il suo omologo tedesco Olaf Sholz hanno chiesto la restituzione dei 2.500 combattenti dell'Azovstal prigionieri dei russi, dopo la notizie emerse sulle terribili torture a cui sarebbero sottoposti nei campi di prigionia di Putin. 

Gli appelli dei leader europei arrivano dopo che i soldati ucraini scambiati con i prigionieri russi sono rientrati in patria e hanno denunciato in un report il trattamento particolarmente  brutale riservato ai difensori di Mariupol. 

I combattenti di Azov sarebbero stati picchiati, torturati con le pinze, sottoposti a pratiche di strangolamento e all’elettroschok. Ad altri soldati ucraini sarebbero state iniettate droghe per indurli a confessare presunti crimini.

In particolare sarebbero stati filmati durante presunte confessioni in cui erano costretti a cantare l'inno nazionale russo e a chiedere perdono. 

In alcuni filmati i prigionieri erano anche costretti a “confessare” di aver indottrinato la popolazione locale. 

Intanto, mentre gli sforzidi Putin si concentrano sulla presa di Severodonetsk, dove l'Ucraina sta subendo "gravi perdite", il think tank dell'Institute for the Study of War (ISW) ha affermato che la presa della città è un'operazione militare strategicamente insignificante e non merita lo sforzo bellico sostenuto.

Secondo l’ISW Putin starebbe "sprecando incautamente le sue risorse militari".  

Guerra Russia-Ucraina, per i prigionieri dell’Azovstal processo farsa stile Norimberga. Anna Zafesova per “la Stampa”  il 30 maggio 2022.

Botte sulle dita e sulle ferite aperte, con il calcio del fucile. Pinze. Elettroshock. Strangolamenti. 

«Le donne militari catturate prigioniere vengono costrette a compiere atti sessuali», denuncia asciutto il report della commissaria per i diritti umani di Kyiv Lyudmyla Denisova sui prigionieri ucraini detenuti nelle carceri di Donetsk, Taganrog e Voronezh.

Un accanimento particolare viene riservato ai membri del battaglione Azov, che si sono consegnati dopo due mesi e mezzo di resistenza a Mariupol. Ma anche militari di altri reparti vengono sottoposti a torture fisiche e psicologiche: molti prigionieri hanno riferito alla missione umanitaria venuta a verificare le loro condizioni che vengono stipati in venti in celle da 2-3 posti, ricevono pochissimo cibo e acqua, non hanno la possibilità di lavarsi e sono privati di assistenza medica. 

Alcuni denunciano di essere stati sottoposti a somministrazione di farmaci psicotropici, e di essere stati costretti a recitare la poesia «Perdonateci, cari russi», a imparare l’inno russo e la storia della bandiera e dello stemma della Federazione Russa: chi si rifiutava veniva picchiato e torturato.

Mentre Emmanuel Macron e Olaf Scholz nelle loro telefonate al Cremlino chiedono di liberare i quasi 2500 militari ucraini finiti dai bunker di Azovstal nelle prigioni russe, a Mosca sta maturando il piano non soltanto di non scambiarli con le centinaia di soldati russi caduti prigionieri degli ucraini, ma di organizzare un processo esemplare. 

Subito dopo la caduta di Mariupol, mentre Volodymyr Zelenzky rivelava che Putin aveva dato garanzie per l’incolumità dei combattenti, e il loro successivo scambio, molti parlamentari della Duma sono insorti per non riconsegnarli all’Ucraina, processandoli invece in Russia, addirittura di reintrodurre la pena di morte per i «criminali nazisti», come li definisce la propaganda russa.

Invece di trattarli come prigionieri di guerra tutelati da accordi internazionali, la Russia avrebbe intenzione di processare i militari ucraini in un «tribunale internazionale» per una punizione esemplare, sostiene Denis Pushilin, il «presidente» della enclave separatista di Donetsk, che vorrebbe ispirarsi al processo di Kharkiv, dove nel 1943 i sovietici condannarono all’impiccaggione tre tedeschi e un ucraino. 

E il capo della Crimea annessa Igor Aksyonov ha invocato la pena di morte, «una lezione per chi si è dimenticato Norimberga». Sarebbe un «processo politico per sostenere la narrativa sulla “denazificazione” promossa da Putin», ha dichiarato al Guardian Francine Hirsch, storica americana che ha scritto un libro sul processo di Norimberga e il ruolo dei sovietici.

Un processo-spettacolo, sul modello di quelli lanciati da Stalin contro le presunte congiure «trozkiste», parte di quella ricostruzione dell’Unione Sovietica che il Cremlino sta ormai portando all’ossessione. 

La guerra in Ucraina viene presentata da Putin come la prosecuzione diretta della Seconda guerra mondiale, con le copie della «bandiera rossa della vittoria» issata sul Reichstag affisse ai municipi del paesi ucraini occupati dai russi nel Donbass. I fake sul «governo neonazista» di Kiev da combattere come erede diretto dei seguaci di Hitler servono sia a motivare i russi, sia – almeno nell’immaginario del Cremlino – a spiazzare l’Occidente, accusandolo di «sostenere i nazisti».

Un processo dove almeno qualcuno dei reduci di Mariupol venisse costretto – con i farmaci, con le torture, con il ricatto – a «confessare» davanti alle telecamere, verrebbe presentato da Mosca come una «prova» della fondatezza della sua aggressione contro l’Ucraina. 

Curiosamente, dopo due settimane la risoluzione che proibisce lo scambio dei militari di Azov non è stata ancora messa ai voti, e fonti della Duma hanno rivelato al quotidiano Kommersant che in questo momento sarebbe «inopportuno».

Lo stesso giornale cita però informatori del Cremlino che sostengono che l’idea di una «Norimberga 2.0» non sia stata affatto accantonata, e che piace molto anche al ministero degli Esteri – ormai un ente di propaganda più che di diplomazia – come qualcosa da opporre alle accuse di crimini contro l’umanità rivolte ai russi dopo le stragi di civili a Bucha e in altre città ucraine. 

I parlamenti di sei Paesi hanno già riconosciuto la guerra lanciata dalla Russia come «genocidio del popolo ucraino», e mentre non è chiaro cosa i magistrati russi potrebbero incriminare ai militari di Azov, team di periti e legali internazionali stanno documentando le decine di migliaia di casi di bombardamenti, esecuzioni e stupri commessi in Ucraina dai russi. 

Per ironia della sorte, a voler lanciare una Norimberga è proprio quel Cremlino che rischia di finire al tribunale internazionale all’Aja.

Alessandro D'Amato per Open.online il 25 maggio 2022. 

Un accordo tra la Russia, l’Ucraina, la Croce Rossa Internazionale e l’Onu ha portato alla resa del Battaglione Azov e degli altri militari di Kiev che si trovavano nell’acciaieria Azovstal a Mariupol’. A raccontarlo oggi è Kateryna Prokopenko, moglie di Denis. Ovvero il comandante del reggimento che si è consegnato ai russi soltanto il 20 maggio. Nell’occasione, secondo il generale maggiore russo Konashenkov, Prokopenko sarebbe stato portato via «con un veicolo blindato speciale» verso aree sotto il controllo dell’esercito russo. Un trasferimento particolare che sarebbe stato giustificato dal fatto che «i residenti lo odiavano e volevano ucciderlo per le numerose atrocità commesse». 

Il patto segreto per il Reggimento

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera Kateryna sostiene che Kiev, Mosca, la Cri e l’Onu avrebbero un patto segreto per salvaguardare la vita dei soldati. Lei e Yulia, la moglie del soldato Arseniy Fedorov, dicono che i dettagli non si possono svelare: «Siamo in contatto con i negoziatori ma non possiamo divulgare informazioni su questo. Quello che possiamo dire è che è prevista la possibilità per i reclusi di fare telefonate periodiche ai familiari, probabilmente i graduati stanno avendo la priorità». I soldati di Mariupol si rifiutavano di consegnarsi ai russi perché questo avrebbe significato “morte sicura”. Ora gli arrestati si trovano tutti a Olenivka, paese della regione di Donetsk.

Tutti sarebbero reclusi nella colonia penale numero 52, capace di ospitare fino a tremila persone. Kateryna ha parlato anche con il Guardian. Al quale ha raccontato della telefonata con Denis durata trenta secondi prima che cadesse la linea. Il comandante le ha raccontato di stare bene: «Gli hanno dato acqua e cibo. Le condizioni soddisfano i requisiti degli accordi e non hanno subito violenze in questo periodo. Cosa accadrà dopo non lo sappiamo ma al momento ci sono terze parti come l’Onu e la Croce Rossa che tengono sotto controllo la situazione». Il capo dei separatisti filorussi di Donetsk Denis Pushilin ha detto ieri che gli occidentali potranno assistere ai processi a cui saranno sottoposti i soldati di Azovstal. I giudici dell’amministrazione di Donetsk e le autorità russe, ha aggiunto, stanno preparando i dossier per la corte marziale.

L’organizzazione dei combattenti

Intanto, riferisce sempre il Guardian, Kateryna e Yulia vogliono fondare un’organizzazione indipendente per sostenere i combattenti dell’Azovstal. «Lo scopo è organizzare chiamate settimanali con i detenuti, per sfatare le bugie dei russi sui nostri ragazzi, per garantire che le loro condizioni rimangano soddisfacenti – letto, medicine, acqua e cibo, e fare campagna per il loro rapido rilascio», spiegano. Secondo la Russia sono quasi 2 mila gli ucraini arresisi tra le rovine di Mariupol, dove hanno resistito per settimane nei bunker e nei tunnel dell’acciaieria. La difesa dell’Azovstal era guidata dal reggimento Azov, considerato “nazista” dai russi e con forti legami con l’estrema destra.

Pushilin, scrive l’agenzia di stampa Reuters, ha detto che i «criminali nazisti» dovrebbero essere processati da un tribunale. Prima si svolgeranno i cosiddetti processi “intermedi”, tra cui uno a Mariupol. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha dichiarato di aver registrato nomi e generalità di chi ha lasciato l’acciaieria. Il Cremlino ha annunciato che i prigionieri saranno trattati secondo gli standard internazionali. Ieri Taras Chmut, direttore della Ong Povernys Zhyvym, ovvero “Torna a casa vivo”, ha fatto sapere di aver effettuato missioni con elicotteri durante l’assedio. «Fornivamo il materiale su specifica richiesta degli assediati, che comunicavano con noi online. Era trasportato via elicottero dall’aviazione militare. 

Piccoli droni, sistemi di sorveglianza, visori termici, radio – è il tipo di rifornimenti nel quale siamo specializzati ed è quello che i combattenti ci chiedevano. Purtroppo alcuni elicotteri sono stati abbattuti e i piloti sono morti. A volte al ritorno riuscivano a evacuare i feriti che erano dentro l’acciaieria», ha spiegato Chmut.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 22 maggio 2022.  

Mescolo immagini, le sovrappongo e le confondo, ciò che importa non è contare le carcasse dei carri armati distrutti, i villaggi presi e perduti, le dichiarazioni dei politici, quello che conta è cogliere il senso segreto di questa guerra, mettere in luce il suo particolare inconfondibile carattere. Scelgo le immagini della resa ucraina a Azovstal e quelle di un villaggio a due passi del fronte dove sono rimasti donne vecchi e bambini che non sanno dove andare.

Allora tutto mi sembra più chiaro: questa è l'ennesima guerra della povera gente, in divisa e non, l'unica guerra vera nel mare delle bugie, la guerra e il dolore. Quelli di Azovstal, i vinti di Azovstal, terribile nome di ferro e di sangue. Adesso che è finita senza gloria ma soltanto con immenso, inutile sacrificio mi appare davvero una Giarabub ucraina: migliaia di uomini tagliati fuori dalla battaglia che conta, ma usati come propaganda, gli irriducibili...quelli che non si arrendono...che impediscono ai russi di avanzare.

Propaganda per nascondere errori strategici e sconfitta come quando ci inventammo, in Africa settentrionale, travolti dagli inglesi, la epica resistenza di una remota, inutile oasi libica che il nemico trascurava perché non valeva neppure la fatica di attraversare il deserto.

Adesso escono in lunghe file, si rovesciano fuori dalle macerie dei loro rifugi nella catacombe della acciaieria in gruppi stanchi, urtandosi disordinatamente prima di incamminarsi verso il nemico che li attende. C'è un immenso silenzio intorno, interrotto solo dai comandi dei soldati russi che ordinano di deporre gli zaini e di mostrare i tatuaggi alla ricerca di quelli del reggimento «fascista», e dal rumore del vento. Le raffiche passano su quegli uomini esausti, feriti, umiliati come un'onda. I vinti come naufraghi gettati a riva dalla tempesta, gettati a riva dalla dolce onda del vento.

In quel sibilo che sembra poter piegare non solo i fili d'erba ma anche i ruderi e rottami sparsi nella strada dove si svolge il rito della resa, il respiro, le parole rauche di vincitori e vinti assumono un suono grave. Ora che hanno perso la battaglia e sono lisi dalla fame e dalla fatica, avvolti in uniforme sporche e lacere li guardo: fronti dure, ostinate, sì sono una razza nuova, una razza dura, modellata già da otto anni di guerra.

Marciano poi ordinati, in doppia fila verso gli autobus che li porteranno via verso un destino molto incerto, marciano per fame, per stanchezza, per restare vicini ai loro compagni di ottanta giorni di agonia. Ieri, i russi hanno ipotizzato uno scambio di alcuni di loro con l'oligarca filorusso arrestato dagli ucraini Viktor Medvedchuk.

Con il passare dei giorni si dirada, tra quelli che si consegnano, il numero dei feriti che si appoggiano a stampelle di fortuna o sono trasportati dai compagni sulle barelle. Si direbbe che non soffrano, forse il dolore non può nulla su quegli animi distratti dallo strazio della sconfitta, su quegli animi assenti, segretamente assenti. Passano volti pallidi dalle grandi occhiaie di aizzati dalla fame, di una tristezza dura. Hanno l'aria più di meccanici al termine del pesante turno di lavoro che di soldati.

Ai russi alcuni volgono un sorriso così strano, così umiliato che quasi vorresti li guardassero con odio. Pensano alla loro solitaria, triste, disperata lotta sottoterra. Certo qualcuno a scuola ha letto la ritirata di «Guerra e pace», la ritirata nel bagliore degli incendi, sulle vie ingombre di fuggiaschi, di feriti, di armi abbandonate. Non questo è toccato loro.

Non c'è nel loro campo di battaglia nessun Andrea Wolkonski disteso nel grano, come nella motte fatale di Austerlitz. I loro morti immagino siano rimasti sepolti nelle catacombe: anonimi, segreti, invisibili. Mi sembra che le rovine dell'acciaieria dovrebbero mettersi a gridare, che da tutte le ferraglie e le strade e i raccordi ferroviari dovrebbe alzarsi un urlo. Invece c'è solo il sibilo del vento.

È questa una resa che lascia nell'aria la vuota, fredda, deserta atmosfera dei cortili delle fabbriche dopo uno sciopero fallito. Qualche indumento, qualche zaino abbandonato, qualche carcassa di binari o di capannoni. È logico sia così: in questa mischia di Mariupol la fabbrica, i suoi macchinari e recessi hanno agito come corpi vivi, quasi come persone e soldati. Un urto meccanico, industriale, acciaio contro acciaio, e la loro morte di uomini è così un fatto illogico, un assurdo.

I soldati di Azovstal fissano con uno sguardo pieno di stupore e di rimprovero i nemici che gettano fuori dai loro zaini stracci e oggetti che sull'asfalto cadono con leggeri rumori di metallo. Come se venissero a carpire un loro segreto, a profanare, toccando e gettando quelle povere cose, l'orrendo e sacro mistero della battaglia e della morte. 

Quando si sfilano, a un ordine, le magliette e compaiono i tatuaggi, ecco: solo allora con l'uniforme sembrano aver perduto ogni sicurezza di sé. Quel silenzio perfetto sembra per la prima volta stupirli, allarmali. Non è lo stesso delle interminabili settimane sotto terra quando si attendeva l'inevitabile rombo del bombardamento. È un silenzio che sta per tradirli, che riserva terribili sorprese.

I russi, che devono aver ricevuto istruzioni severe, di interpretare bene questa straordinaria occasione di propaganda, si muovono, alcuni, interminabilmente pazienti e annoiati, altri svogliati e torbidi come a un noioso posto di blocco. Come se facessero un banale lavoro della guerra. Eppure si sente fischiare l'odio come l'acqua su un focolare rovente. 

Azovstal è stato un grave errore degli ucraini. Aver sacrificato i combattenti più pugnaci in una difesa inutile e senza speranza, innanzitutto, invece di farli fuggire quando era possibile. Ma è in primo luogo una disfatta nella comunicazione, loro che finora l'hanno utilizzata con perizia, a cominciare dal presidente. 

Le sequenze di questi soldati vinti, esaltati per ottanta giorni come impavidi, invincibili eroi, la falsa metafora della «operazione umanitaria» con cui si è cercato di nascondere il disastro, pesano molto di più che le immagini delle carcasse dei carri armati o dei mezzi russi distrutti. Questi sono uomini vivi, i loro volti i loro corpi, i gesti parlano dolorosamente.

Un rottame di ferro non dice nulla, un uomo che si arrende è già un simbolo. Metto accanto le immagini degli abitanti di un villaggio del fronte, la telecamera gira tra le isbe di una povertà che sembra più antica e irrimediabile di qualsiasi guerra, anche di questa, c'è quasi visibile un odore di antica consunzione, bambini e donne e vecchi ci sbarrano gli occhi addosso, alcuni così magri che a toccarli verrebbe il timore di romperli. La guerra si è trasferita in loro.

Una nera, appassita mano di vecchio apre la porta della sua casa. I vetri fracassati, i buchi aperti dalle bombe nel tetto sembrano lì da sempre. Si sovrappongono immagini del 1941. Tolgo da quelle di oggi solo le ciabatte di plastica, i mitra dei soldati. Ecco i cinegiornali con le truppe italiane che avanzano nel bacino carbonifero del Donbass: gli stessi luoghi, le stesse isbe, la stessa paziente disperazione. Hanno creduto di aver pagato il loro debito con la storia una volta per sempre. Si sono ingannati. Una donna che ha figli piccoli ma è già vecchia, consunta, piangendo grida: restiamo qui perché non abbiamo altro luogo dove andare.

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2022.

«Proviamo coi turchi». Schiacciato dall’incubo dell’acciaieria, pressato dall’eroismo obbligatorio, raccontano che Volodymyr Zelensky non ha dormito notti intere. A Chernihiv avevano stampato i cartelloni, «aspettiamo a casa i nostri eroi». 

Su Change.org era partita la petizione dalle mogli dei soldati di Azov, un milione di firme, perché «una figura internazionale» intervenisse a mediare. Ma da settimane non si vedeva proprio una luce, in quei sotterranei: «Era impossibile sbloccare la situazione per via militare — spiega Zelensky —, ci siamo dovuti affidare alla diplomazia».

Quale? Il primo spiraglio, spiega una fonte diplomatica europea, è arrivato con una telefonata la mattina dell’8 maggio. I russi avevano finalmente detto sì al corridoio d’Onu e Croce rossa, per far uscire dall’Azovstal almeno le donne, i bambini e gli anziani. 

Ora si trattava di salvare la pelle dei militari: non solo Azov, anche la 12esima brigata della Guardia nazionale, la 36esima dei marines, l’antiterrorismo, gli agenti dei servizi Sbu, i poliziotti, le guardie di frontiera, i volontari, tutti quelli che erano rimasti intrappolati a combattere là sotto. Quando suona il cellulare, quella mattina, è la chiamata che Zelensky aspettava.

Dall’altra parte c’è lo storico leader dei tatari di Crimea, Mustafa Dzhemilen, che siede alla Rada di Kiev. È un buon amico di Erdogan, da giorni chiede al presidente turco di trovare una via di fuga: una nave che porti gli assediati fuori da quell’inferno. Dzhemilen ha un messaggio del Cremlino per gli ucraini, fatto filtrare attraverso Ankara: dev’essere Zelensky a dare l’ordine ad Azov d’arrendersi, dicono i russi, solo così la situazione può sbloccarsi. «Non abbiamo ore — avverte Dzhemilen —, abbiamo secondi».

Manca poco al 9 maggio, però. Alle celebrazioni di Putin sulla Piazza Rossa. Al fatidico anniversario della vittoria sovietica sul nazismo. Alla giornata in cui tutto il mondo guarda a Mosca. E non si può, pensa Zelensky, regalare ai russi un simile annuncio: il presidente ucraino domanda che dentro l’acciaieria resistano ancora. Solo un pochino. Poi, si potrà fare: lo darà personalmente lui, l’ordine d’arrendersi.

I mediatori

Il ruolo dei turchi. Le pressioni d’israeliani e francesi. L’intervento degli svizzeri, che hanno appena riaperto l’ambasciata a Kiev e vogliono ospitare in luglio una specie di conferenza di pace. E probabilmente, una decisiva telefonata degli americani.

«Lo sblocco è stato concordato coi partner occidentali», dice Zelensky, per evitare la morte sicura di «centinaia» (dicono gli ucraini) o «migliaia» (2.439, precisano i russi) di militari chiusi per 82 giorni negli 11 km quadrati della più grande acciaieria d’Europa. Ora che è finita, le tv del Cremlino mostrano le svastiche tatuate e le aquile hitleriane di Azov, per minimizzare lo stallo militare cui diciassette brigate di Putin sono state costrette dalla resistenza d’un manipolo. E anche la retorica di Kiev trasforma la resa in un’evacuazione — «sono le nostre Termopili» —, facendo passare la definitiva conquista russa di Mariupol per «una vittoria di Pirro».

Le pressioni

Ma la domanda resta: che cos’ha spinto Zelensky a cedere? E in cambio di che? L’8 maggio, s’era ancora appesi alle richieste al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. E solo il 10 maggio, una settimana prima della soluzione, i russi avevano bombardato l’acciaieria 38 volte in un giorno. Il 12, l’ambasciatore ucraino all’Onu s’era appellato disperato al diritto umanitario internazionale. 

Il 13, c’era stata l’implorazione pubblica di tre ex presidenti ucraini, Petro Poroshenko, Viktor Yushchenko e perfino dell’impopolarissimo Leonid Kuchma, «l’amico di Mosca». Il 14, la ministra Iryna Vereshchuk aveva detto che solo una sessantina d’intrappolati sarebbero stati evacuati. 

Di colpo, quattro giorni fa, Zelensky ha mollato: «Gli eroi ci servono vivi», ha detto. Non poteva più tenere le pressioni d’alcuni suoi militari, spiega la fonte diplomatica, che erano disposti perfino a un’offensiva «clamorosa e altamente simbolica» sull’Azovstal.

Il presidente ha considerato Mariupol ormai persa — «è morto il 90 per cento dei nostri elicotteristi che hanno provato a portare aiuti all’acciaieria» — e non se l’è sentita di continuare il braccio di ferro. Quanto l’abbia digerita chi sosteneva gli eroi, non si sa. L’ala di chi non accetta cedimenti, e neppure negoziati, è predominante: «Non conosco altri confini che quelli dell’indipendenza del 1991», chiarisce il capo dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, casomai tornasse l’idea di rinunciare a qualcos’altro.

Gli Azov se ne vanno al loro destino nelle prigioni russe, Zelensky dice «li riporteremo a casa». Uno scambio con Viktor Medvedchuk, magari, l’oligarca ucraino amico di Putin che «Ze» fece arrestare più d’un anno fa, scatenando l’ira dello Zar. O uno scambio di prigionieri di guerra: in otto anni di Donbass, è l’unica cosa su cui Mosca e Kiev hanno sempre trovato un accordo. 

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2022.  

«Lui ora lo stanno torturando e gli stanno strappando le unghie. Lui invece è morto. Lui è tornato come me. Di lui invece ne ho perso traccia da un mese. A lui invece hanno sparato cinque proiettili nella gamba».

Robert K. ha meno di trent’anni. E’ un militare del battaglione d’Azov. Apre il telefono, mostra un’immagine. Un gruppo di sei ragazzi in divisa. Sono i suoi compagni. Erano i suoi compagni. «È l’ultima foto che ci siamo fatti tutti insieme».

Robert ha gli occhi azzurri, i capelli ricci, meno di 30 anni. «Dopo aver combattuto in Donbass ho lasciato la mia città, facevo sicurezza privata. Poi a febbraio sono tornato con il battaglione». Seduto in un bar di Zaporizhzhia racconta la sua storia. Ma prima di iniziare chiede: «Sono ancora in servizio, quindi non pubblicate il mio nome per intero».

Quando ha lasciato Mariupol?

«E’ stato il 15 di marzo. Il comandante ci ha detto: avete due opzioni, o restate e combattete fino alla fine. O andatevene vestiti da civili, se volete salvarvi. Io avevo la mia famiglia dentro. Erano chiusi in uno scantinato da settimane senz’acqua e senza cibo. Dovevo metterli in salvo. E dovevo salvare me stesso».

Cosa era successo nelle settimane precedenti?

«I russi hanno mandato in avanti gli ucraini che erano riusciti ad arruolare. Li hanno usati per individuare le nostre posizioni, come carne da macello. Poi hanno iniziato a bombardare. Artiglieria e aerei. Ogni mezz’ora. Colpivano di tutto, obiettivi civili, militari, non importava». 

Quale era il vostro compito?

«Avevamo l’ordine di proteggere la popolazione. E evacuare il più alto numero di civili possibile. Erano tutti terrorizzati. Dalle bombe ma anche dalla voce che in città stessero arrivando gli uomini di Kadyrov. Inoltre c’erano tre navi russe piazzate nella baia. Dal 10 marzo sono iniziati i corridoi ma i russi bombardavano anche quelli».

Quando avete capito che le cose si stavano mettendo davvero male?

«Quando i russi sono entrati dentro il distretto 17. Ci siamo asserragliati dentro l’ospedale numero 2 per proteggere i civili. I chirurghi operavano sotto i bombardamenti. C’erano anche dei giornalisti e dei fotografi che abbiamo aiutato a scappare. Un deputato ucraino della città anziano è venuto da noi. Lo mandavano i russi. “Arrendetevi”, ci ha detto”. Poi hanno fatto irruzione nell’ospedale e hanno sparato ai militari feriti nei loro letti»

Quando ha deciso che era il momento di lasciare?

«Mentre eravamo diretti alla base, i russi con i droni hanno individuato il punto esatto e l’hanno bombardata. Solo per un caso non c’era dentro nessuno. Ma hanno distrutto tutti i nostri rifornimenti, non avevamo più niente. Armi, cibo. Poi hanno bombardato l’obitorio. Era pieno di cadaveri fino al soffitto. Te lo immagini? Fino al soffitto. I pezzi dei corpi sono finiti ovunque. Mariupol, la mia città, era diventato l’inferno».

Come ha fatto a mettere in salvo la sua famiglia?

«Quando il comando ci ha lasciato liberi di scegliere sono corso da loro. Erano stravolti, non dormivano da giorni. Ho detto: abbiamo un’ora di tempo. Mi sono tolto la divisa e siamo partiti con un convoglio di auto. Lungo la strada verso Zaporizhzhia abbiamo passato 14 checkpoint russi. Ci hanno fermato 20 volte». 

Non aveva paura di essere riconosciuto?

«Sì, è stata solo fortuna. Controllavano i tatuaggi. Ne ho uno sulla spalla destra. Ma non l’hanno visto perché guardavano solo il petto e le braccia. Una volta mi hanno portato fuori dalla macchina e mi hanno messo con la faccia al muro. Pensavo fosse finita. Invece no, mi hanno preso il telefono, ma avevo tolto tutto. Foto, numeri di telefono».

Dove si trova ora la sua famiglia?

«Prima siamo stati a Leopoli ospiti di un amico. Ora loro sono all’estero. Ma io sono tornato per combattere due settimane fa». 

Cosa prova di fronte alle immagini dei suoi compagni che si sono arresi ai russi dopo l’assedio dell’Azovstal? Pensa che torneranno indietro?

«Ho parlato con molti di loro fino a cinque giorni fa. Alcuni, per me, sono come fratelli. Hanno vissuto l’inferno e ora è anche peggio probabilmente. Ma sono sicuro che torneranno indietro. Il bene deve vincere sul male».

Robert distoglie lo sguardo. Un suo compagno si avvicina al tavolo. E’ ora di andare. Si è pentito di aver lasciato Mariupol?

«No, perché ho messo in salvo i miei cari. E ora posso tornare a combattere e vendicare i miei compagni».

Un piccolo elemento di umanità in una guerra feroce. Ad Azovstal è vera resa, ora è il momento della verità: ci sono laboratori chimici sotto l’acciaieria? Toni Capuozzo su Il Riformista il 17 Maggio 2022. 

Le parole hanno un senso. Quello che succedendo all’Azovstal non è una generica evacuazione come ci racconta la grande informazione. Quello che sta succedendo all’interno dell’acciaieria di Mariupol è una resa. Una resa dignitosa. Non c’è nessuna immagine che racconti una sfilata di chi si arrende sotto le forche caudine dei trionfatori, non è una resa umiliante e non è neppure una resa ‘con l’onore delle armi’ – come si dice nel linguaggio militare – perché le armi vengono abbandonate e consegnate.

Quello che sta succedendo all’Azovstal è frutto di un accordo tra Ucraini e Russi, al quale hanno collaborato anche Nazioni Unite e Croce Rossa, che introduce un piccolo elemento di umanità in una guerra feroce, senza spazi di pietà e di rispetto del nemico. Che fine faranno i feriti? Attualmente sono in un ospedale nelle repubblichette secessioniste e verranno probabilmente passati all’Ucraina in uno scambio di prigionieri. Per quanto riguarda quelli che non sono feriti, è facile che per alcuni di loro possano esserci dei processi perché il battaglione Azov è quello che si è reso protagonista di tante scorrerie nelle repubbliche secessioniste in questi otto anni di guerra che hanno preceduto questo grande scontro che stiamo provando a raccontare.

Un elemento quindi di umanità dentro la guerra mentre per il resto tutto sembra essere molto più irrazionale. Difficile sostenere che un allargamento della Nato sia una misura destinata a far calare la tensione. Per tornare all’Azovstal resta un punto di domanda: cosa c’era sotto quei laboratori? Vedremo se le denunce della propaganda russa sull’esistenza dei laboratori chimici hanno un fondamento e soprattutto vedremo se ha fondamento la tesi che sosterrebbe la presenza di esperti occidentali al fianco degli ucraini e del battaglione Azov.

Il Daily Mail Express ha confirmatio la presenza di almeno tre britannici tra coloro che si sono arresi all’Azovstal. Vedremo se ci sono altre persone. Questo è il momento della verità per la propaganda russa. Vedremo se sono fatti oppure solo illazioni destinate ad essere smentite dalla realtà. Toni Capuozzo

"Missione completata". Da Kiev l'ordine di lasciare l'Azovstal. Federico Giuliani il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.

Kiev ha confermato di aver ordinato l'evacuazione di tutti i combattenti di Azovstal: si continua a lavorare sull'uscita degli ultimi militari dall'impianto. Nella notte massiccio attacco missilistico nella regione di Leopoli

Sono in corso le ultime operazioni per completare l'evacuazione dei combattenti rimasti asserragliati nell'acciaieria Azovstal di Mariupol. Nel corso della notte il governo ucraino ha confermato l'uscita dallo stabilimento di 264 militari. Si tratterebbe di 53 soldati feriti, condotti a Novoazovsk, e di altri 211 uomini portati a Olenivka, nel territorio controllato dai filorussi a Donetsk.

Evuacuazione quasi terminata

Kiev ha confermato di aver ordinato l'evacuazione di tutti i combattenti di Azovstal, cedendo di fatto il controllo della città alla Russia dopo un assedio durato mesi. "Il presidio di Mariupol ha completato la sua missione di combattimento", afferma un comunicato dello stato maggiore delle forze armate ucraine. "Il comando militare supremo ha ordinato ai comandanti delle unità di stanza all'Azovstal di salvare le vite dei loro uomini", aggiunge la nota.

"Si continua a lavorare sull'evacuazione di altri militari dall'impianto. Tutti i militari dovranno essere riportati sul territorio controllato dall'Ucraina seguendo la procedura di scambio", ha spiegato Hanna Mailar, viceministro della Difesa dell'Ucraina. "Speriamo di poter salvare i nostri ragazzi", perché l'Ucraina "ha bisogno di eroi vivi, e penso che ogni persona giudiziosa capirà queste parole", ha dichiarato Volodymyr Zelensky, citato dall'agenzia Ukrinform. All'operazione, ha aggiunto il presidente ucraino, partecipano l'esercito ucraino e l'Intelligence in collaborazione con la Croce rossa e l'Onu.

Il trasferimento dei soldati

Nella notte sono arrivate le prime immagini di decine di bus carichi di militari. Secondo quanto riportato da Reuters, i veicoli hanno regolarmente lasciato lo stabilimento. In precedenza, il comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, aveva annunciato in un video la decisione di obbedire agli ordini del Comando supremo di evacuare il sito, in seguito a un accordo per l'evacuazione dei feriti.

Le ultime stime dei militari ancora presenti nell'Azovstal parlavano di 600 soldati, di cui molti feriti anche gravemente. Su twitter, in tarda serata, è apparso anche il filmato di un militare ferito su una barella. "Eseguiamo l'ordine di evacuazione del comando supremo", ha fatto sapere Prokopenko. Dopo aver resistito 82 giorni, ha dichiarato il comandante del battaglione Azov, respingendo "le forze soverchianti del nemico", ora "per salvare vite umane", la guarnigione sta attuando la decisione approvata dal comando supremo, "sperando nel sostegno del popolo ucraino".

Leopoli sotto attacco

Mentre erano in fase di svolgimento le operazioni per evacuare i soldati dall'acciaieria, la città di Leopoli, nell'Ucraina occidentale, a circa 70 km dal confine con la Polonia, è sottoposta al più massiccio attacco missilistico dall'inizio dell'invasione russa. Il sindaco di Leopoli, Andriy Sadovy, ha affermato che non ci sono notizie confermate su missili che hanno colpito la città ma invita tutti gli abitanti a stare al riparo. "Ringraziamo chi mantiene i nostri cieli al sicuro! Al mattino daremo informazioni più accurate. Abbiate cura di voi e non ignorate gli allarmi antiaerei", ha detto ai suoi concittadini in un messaggio diffuso sui social.

In seguito le autorità ucraine hanno spiegato che si sono verificate anche esplosioni a Novoyavorivsk. Maksym Kozytsky, capo dell'amministrazione militare regionale di Leopoli, ha in seguito reso noto che un massiccio attacco missilistico aveva preso di mira una base militare ucraina a circa 15 chilometri dal confine con la Polonia. Una fonte della Cnn ha riferito di aver visto le difese aeree illuminarsi in direzione della struttura militare di Yavoriv, a una quarantina di chilometri di distanza dalla città da cui erano state sentite esplosioni.

Fonderia Azovstal, "un odore terribile": in sala operatoria... la terrificante testimonianza. Libero Quotidiano il 15 maggio 2022

La morsa dell’esercito russo continua a farsi sentire sui resistenti ucraini che si trovano all’interno dell’acciaieria Azovstal. Gli invasori continuano a lanciare attacchi dal cielo e con l’artiglieria, rendendo sempre più critiche le condizioni di chi vive in quei sotterranei da settimane. Non è chiaro quante persone ci siano lì sotto, forse un migliaio, ma di certo quelle in grado di combattere sono di meno: molti sono mutilati o comunque fanno fatica a reggersi in piedi.

Le testimonianze riportate dal Corriere della Sera sono a dir poco drammatiche: “La situazione è pessima - ha dichiarato un ufficiale di polizia - deprimente. Ci sono circa 600 persone in condizioni spaventose. Sono sistemati come in una enorme palestra. Qualche decina di letti a castello e per il resto tutti per terra. C’è un odore terribile, ci sono mosche e lamenti”. Inoltre i medici sono costretti a fare il loro lavoro in condizioni disperate: “Non ci sono strumenti. La sala operatoria ormai è un tavolo vicino al muro, non ci sono medicine e le operazioni si fanno senza anestesia”. 

In pratica non serve neanche riportare ferite gravi per rischiare la vita: bastano le condizioni igieniche e sanitarie disperate per trasformare ogni ferita in un pericolo mortale. Nonostante gli attacchi russi e i tentativi di trattative da parte dell’Ucraina, la situazione è ancora in stallo e per ora non si vede una soluzione all’orizzonte. “Non si tratta neanche più di mancanza di acqua, cibo, luce, medicine - ha sottolineato Lyudmila Denisova, la commissaria per i diritti umani dell’Ucraina - si tratta di mancanza di qualunque condizione che assomigli alla vita”.

I resistenti di Azovstal e l'ultima battaglia. "Pronti anche alla fine". Andrea Cuomo il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

Dai russi bombe al fosforo sull'acciaieria. Il diktat di Mosca: "No ai negoziati per Azov".

Mariupol, Europa. Non passa giorno senza che la città martire dell'Ucraina faccia notizia, senza che le bombe la colpiscano, senza che la desolazione e la fame si accrescano di un po'. Non sono solo gli ordigni russi ad ammazzare. «I residenti - dice il consigliere del sindaco di Mariupol Petro Andryushchenko - riferiscono di un tasso di mortalità atipico. Molte persone di mezza età stanno morendo. Esaurimenti nervosi, mancanza di servizio medico, condizioni antigieniche e la fame sono i quattro protagonisti dell'Apocalisse a Mariupol».

Solo una completa evacuazione può salvare la città sul Mar d'Azov, che prima della guerra contava quasi mezzo milione di abitanti e ora è la prigione per decine di migliaia di fantasmi terrorizzati e affamati. Qualcuno riesce ad andarsene ma è lento stillicidio. Ieri un convoglio composto da 500-1.000 auto di civili evacuati da Mariupol è riuscito a entrare, dopo tre giorni di attesa, a Zaporizhzhia. E a poco serve l'ottimismo del presidente Volodymyr Zelensky, che spera di ospitare l'anno prossimo proprio a Mariupol l'edizione dell'Eurovision Song Contest che spetta all'Ucraina che sabato sera ha vinto l'edizione italiana con il gruppo Kalush. «Faremo tutto il possibile».

Certo al momento immaginare cantanti, appassionati e giornalisti da tutta Europa animare una città che è un enorme rovina appare il sogno di un'idealista. Di certo nel caso tutto andasse come ora appare difficile immaginare sarebbe bellissimo che la location fosse l'acciaieria Azovstal, che è ancora sotto attacco. I russi sono certi di farla cadere e di poter quindi prendere il controllo totale di Mariupol, strategico per saldare le conquiste nel Sud e nell'Est dell'Ucraina. L'esercito di Putin continua a lanciare attacchi di artiglieria pesante sull'acciaieria, impedendo al migliaio di soldati e miliziani asserragliati di andarsene. I russi, secondo il consigliere del sindaco Andryushchenko, avrebbero utilizzato per la prima volta anche bombe incendiare o al fosforo contro l'acciaieria. «Gli stessi occupanti affermano che sono stati usati proiettili incendiari 9M22C con strati di termite. La temperatura di combustione è di circa 2-2,5mila gradi Celsius. È quasi impossibile fermare la combustione. L'inferno è sceso sulla terra alla Azovstal». Questo è il danno. La beffa è che i russi avrebbero scritto su alcune bombe destinate a essere lanciate su Azovstal le parole pronunciate dalla band ucraina Kalush dopo la vittoria all'Eurovision per sensibilizzare l'Europa a salvare l'acciaieria. «Questa è la reazione dell'esercito russo alla nostra vittoria all'Eurovision 2022. In alcune fotografie in possesso degli Ucraini, la cui autenticità è però non dimostrabile, si vedono le bombe, non ancora sganciate, con delle scritte in inglese e in russo con un pennarello nero. In una si legge: «Aiutate Mariupol, aiutate l'Azovstal, ora», come detto dal frontman dei Kalush Oleh Psjuk sul palco di Torino. In un'altra «Kalush, come avere chiesto». In una terza le parole «Eurovision 2022» e «Azov». Inoltre figura la data di ieri: «14.05».

Vanno avanti anche i negoziati per evacuare l'acciaieria, che sono però una giungla quasi impenetrabile. Un'ulteriore ostacolo è rappresentato dai combattenti del battaglione Azov, che come precisa Vladimir Medinsky, capo della delegazione si Mosca ai colloqui con Kiev, «non potranno essere oggetto di negoziati politici». Per Medinsky si tratta infatti di «criminali di guerra». E che per gli Azov le cose si mettano decisamente male è confermato dai parenti dei miliziani, che ieri sono andati a Istanbul a ringraziare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan per l'appoggio ricevuto. Kateryna, moglie di un miliziano, ieri in una conferenza stampa ha detto che gli uomini asserragliati nell'acciaieria «hanno perso le speranze e si preparano alla battaglia finale, perché non credono in una soluzione diplomatica».

Quei martiri destinati alla fine. Paolo Guzzanti il 15 maggio 2022 su Il Giornale.  

Penso a quel migliaio di giovani che stanno per morire come topi nelle gallerie dell'acciaieria di Mariupol. Le loro giovani mogli belle e composte e non piangono in pubblico. Parlano dei mariti con orgoglio ma a voce bassa e vorrebbero vederli tornare vivi dal momento che la loro morte non è necessaria alla guerra. Ma i russi hanno deciso che devono morire e sigillano e spendono milioni di rubli pur di ammazzarli tutti non perché siano soldati nemici - del Paese che hanno illegalmente invaso e che quei soldati hanno difeso.

Abbiamo visto mille volte sugli schermi i loro comandanti emaciati e feriti vacillanti affamati e malati di tutte le malattie che si possono prendere in un cimitero sotterraneo. Gli invasori vogliono che restino morti nella loro necropoli. Hanno supplicato in nome delle leggi di guerra di poter uscire ed essere trattati come prigionieri, ma da Mosca è arrivato un fortissimo «njet»: non se ne parla nemmeno perché per Mosca quelli non sono uomini ma bersagli da tirassegno. Sono il battaglione Azov e dichiarati nazisti, loro che sono nati trent'anni fa mentre il nazismo è morto quasi da ottanta.

Il loro sacrificio barbarico rievoca la strage degli ufficiali polacchi nella foresta di Katyn con le mani legate e un colpo alla nuca. Le ultime ombre di questo battaglione che non ha più aria, cibo, munizioni, medicine cadono e le giovani mogli composte sono davanti allo scenario apocalittico di un crimine che nessuno è in grado di fermare. 

I 600 feriti a terra, le operazioni senza anestesia. L’inferno Azovstal. Giusi Fasano il 15 maggio 2022 su Corriere della Sera.

L’ufficiale di polizia dice che «la situazione è pessima, deprimente. Ce ne sono circa 600 in condizioni spaventose». Parla dei feriti nella pancia dell’acciaieria Azovstal. Spiega anche come sono sistemati, quei 600: «Come in una enorme palestra. Qualche decina di letti a castello e per il resto tutti per terra. C’è un odore terribile, ci sono mosche e lamenti». I medici fanno quel che possono ma ogni bombardamento va sempre peggio, si perdono pezzi, spazi, vite. «Non ci sono strumenti medici», conferma il tizio che si fa chiamare «Police». «La sala operatoria ormai è un tavolo vicino al muro, non ci sono medicine e le operazioni si fanno senza anestesia». Mentre il medico rovista in una ferita gli anestetici sono una cintura da stringere forte fra i denti e la forza della disperazione. 

È il racconto da un luogo alla fine dell’umanità. Arriva nelle case degli ucraini dal «National Telemarathon», programma messo assieme da più televisioni, ciascuna focalizzata su un argomento preciso. Il canale governativo «Rada» aveva fatto avere a «Police» la domanda sui feriti dell’impianto siderurgico sotto attacco. E ai telespettatori sono state lette le sue parole. Azovstal è un buco più nero della mezzanotte. Nei suoi sotterranei giganteschi si muore di guerra e di infezioni. E non serve avere ferite gravissime per giocarsi la vita, perché in quelle condizioni igieniche e sanitarie ogni ferita può diventare mortale.

Nessuno sa quanti soldati si nascondano nelle sue viscere. Forse mille, dicono le fonti più attendibili. Ma molti di loro, appunto, non sono nemmeno in condizioni di stare in piedi e sono tanti anche i mutilati. «Stiamo cercando di accordarci per uno scambio di 38 prigionieri russi per i 38 feriti più gravi» aveva annunciato due giorni fa la numero due del governo, Iryna Vereshcuk. Ma dopo giorni e giorni di trattative sfinenti, i numeri non sono ancora definiti e la situazione è in stallo o, per dirla con il presidente Volodymyr Zelensky, sono in corso «negoziati molto complessi» per liberare da Azovstal feriti e medici. «Stiamo facendo tutto il possibile per evacuare anche tutti gli altri, ciascuno dei nostri difensori».

Aveva visto giusto Lyudmila Denisova, la Commissaria per i diritti umani dell’Ucraina, che già una settimana fa diceva che «non si tratta neanche più di mancanza di acqua, cibo, luce, medicine. Si tratta di mancanza di qualunque condizione che assomigli alla vita». Tutto questo mentre i russi raggruppano nei pressi dell’impianto un gran numero di soldati di fanteria per tentare l’assalto finale e mentre si fanno sentire le voci del reggimento Azov, che difende Azovstal. Raccontano via Telegram che ogni santo giorno piovono sull’acciaieria sempre più bombe e colpi di artiglieria pesante, «ma anche se la situazione è estremamente critica i difensori fanno sforzi sovrumani e stanno respingendo i tentativi di sfondare le loro posizioni».

Di fatto la situazione è disperata, come sanno bene le mogli e la madri dei combattenti asserragliati lì dentro che chiedono aiuto al presidente cinese Xi Jinping per salvarli. Un appello che ha le voci di cinque mogli e un padre di militari accerchiati nella fabbrica. «È rimasto un solo uomo al mondo a cui possiamo rivolgerci ed è il leader cinese», parla per tutti Stavr Vychniak, «poiché ha una grande influenza sulla Russia e sul presidente Vladimir».

Per portare fuori da lì i feriti la vicepremier Vereshuck ha rivelato in un’intervista al Corriere di pretendere stavolta «un accordo firmato dalle parti», e cioè la Russia, l’Ucraina, la Croce Rossa che dovrebbe fisicamente andare a prenderli, e un Paese terzo come mediatore. Il Paese dovrebbe essere la Turchia. E non è un caso se Ankara proprio ieri si è detta pronta a inviare una sua nave per consentire l’evacuazione dei soldati feriti da Azovstal. Lo ha fatto sapere il portavoce del presidente Recep Tayyip Erdogan parlando con la Reuters. «Il nostro piano — ha detto — prevede che le persone evacuate dall’acciaieria siano portate via terra al porto di Berdiansk, sul Mar D’Azov, e che la nave turca, poi, li conduca a Istanbul. Se si può fare in questo modo la nostra nave è pronta». Sono tutti pronti: la Turchia, l’Ucraina, la Croce Rossa. Ma sono pronti i russi?

Quale destino per i combattenti di Azov nell’acciaieria di Mariupol? Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 5 Maggio 2022.

Hanno scelto di non arrendersi perché sicuri che Mosca non rispetterebbe il diritto internazionale sui prigionieri di guerra. Per la Convenzione di Ginevra possono anche essere inviati in altri Paesi .. E’ quello che chiedono le loro compagne arrivate a Roma. 

Solo i civili sono coinvolti nell’accordo tra Mosca e Kiev che ha portato alle recenti evacuazioni dall’acciaieria Azovstal. Il destino di diverse centinaia di combattenti ucraini, da settimane l’ultima resistenza di Mariupol, appare plumbeo. Ancora di più ora, che è in corso l’assalto via terra, con i russi che hanno fatto irruzione all’interno del dedalo di tunnel sotterranei in cui gli ucraini sono trincerati.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

In punta di diritto possono scegliere se combattere fino alla morte o arrendersi nella speranza di essere risparmiati. I comandanti della resistenza ucraina nello stabilimento-fortezza hanno ripetutamente respinto le richieste di resa avanzate da Mosca per il timore – quasi una certezza – che la Russia non rispetti i termini della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, date le precedenti violazioni delle regole che disciplinano la condotta bellica.

Tanto più che gran parte di loro sono uomini del reggimento Azov, il target (e pretesto) della missione di «denazificazione» dell’Ucraina voluta da Putin. «Se si arrendono alla Russia possono essere detenuti», ha precisato Marco Sassoli, professore di diritto internazionale all’Università di Ginevra. Ma non torturati, massacrati, come loro temono succederebbe se deponessero le armi. 

Il Comitato internazionale della Croce Rossa svolge un ruolo cruciale nei conflitti in tutto il mondo, mediando tra i combattenti su questioni come l’organizzazione degli scambi di prigionieri e il monitoraggio delle condizioni dei detenuti. Eppure la Croce Rossa non ha detto se ha incontrato prigionieri di guerra in custodia russa dall’inizio della guerra il 24 febbraio, un silenzio che secondo Sassoli potrebbe essere un «cattivo segno». 

Secondo la Convenzione di Ginevra, i prigionieri di guerra «devono sempre essere trattati con umanità» e non possono essere «sottoposti a mutilazioni fisiche o a esperimenti medici o scientifici» che non siano giustificati da motivi di salute. Mentre i membri delle forze armate che sono feriti o malati, nel frattempo, «devono essere rispettati e protetti in ogni circostanza». 

Il punto del diritto umanitario internazionale che potrebbe aprire una terza via è questo: a differenza dei civili, i prigionieri di guerra possono essere inviati con la forza in altri Paesi per impedire loro di tornare dal campo di battaglia. E proprio richiamandosi a questo principio che le compagne dei combattenti arrivate Roma lanciano un appello alla comunità internazionale: «Non vogliamo che i nostri uomini muoiano. Stiamo aspettando che i Paesi più coraggiosi li evacuino. Non permetteremo questa tragedia».

Sulla fattibilità di questo percorso c’è più di un dubbio. Pascal Hundt, capo del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Ucraina, ha ricordato che solo i civili sono coinvolti nell’accordo russo-ucraino che ha portato alle recenti evacuazioni da Azovstal. E si è detto incerto sulle prossime uscite: «Il Cicr ha poca influenza quando si tratta di raggiungere un accordo di cessate il fuoco, e spetta alle parti trovare un accordo e far uscire queste persone. Continueremo a fare pressione anche se la speranza è vicina allo zero».

Zelensky stroncato dalle mogli del Battaglione Azov: "Siamo disperate, come cancella i nostri uomini". Libero Quotidiano il 06 maggio 2022.

"Stanno cercando di tapparci la bocca": le mogli dei soldati del battaglione Azov attaccano il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il suo governo. Secondo loro, non si starebbe facendo abbastanza per aiutare i militari intrappolati da settimane nell'acciaieria Azovstal di Mariupol. Per esprime il proprio disappunto e la propria rabbia, le donne sono addirittura scese in piazza. Ed è paradossale che abbiano scelto come luogo di protesta la piazza dell’Indipendenza a Kiev, la celebre Maidan, dove si tennero le rivolte del 2014 contro la presidenza filo-russa di Viktor Yanukovich.

Nel corso delle manifestazioni, mogli, madri e sorelle dei soldati Azov si sono lamentate del fatto che il governo non starebbe facendo nulla per risolvere l’assedio dell’impianto siderurgico, che è sotto bombardamento russo da giorni. Non sono mancati nemmeno momenti di tensione, che hanno reso necessario l'intervento delle forze dell’ordine. Queste ultime hanno ricordato che il Paese è “sotto legge marziale” e che quindi “le manifestazioni sono proibite”.

"Siamo disperate, forse il nostro governo non vuole parlare di Azov e Mariupol - ha raccontato la sorella di un soldato Azov a Repubblica -. Stanno cercando di chiudere l’argomento Mariupol in modo che la gente non parli e si dimentichi della guarnigione militare. Non ci supportano". Le proteste, come spiega il Riformista, sarebbero nate sul gruppo Instagram “Save Mariupol”, che poi però sarebbe stato oscurato. 

Azov, i parenti dei soldati chiusi nell'acciaieria: "Il governo ci tappa la bocca". Paolo Brera su La Repubblica il 6 Maggio 2022.

I familiari alzano la voce, accusando Zelensky di non fare abbastanza per risolvere l’assedio che minaccia di ucciderli tutti: "Stanno cercando di chiudere l'argomento Mariupol in modo che la gente non parli e si dimentichi del battaglione".

“Basta chiacchiere, è ora di fare qualcosa per salvarli”. Le mogli e le fidanzate, le madri e i fratelli dei soldati del battaglione Azov chiusi nell’acciaieria dell’Azovstal a Mariupol alzano la voce contro il governo Zelensky, accusandolo di non fare abbastanza per risolvere l’assedio che minaccia di ucciderli tutti.

“Siamo disperate, forse il nostro governo non vuole parlare di Azov e Mariupol… Stanno cercando di tapparci la bocca e di chiudere l'argomento Mariupol in modo che la gente non parli e si dimentichi della guarnigione militare. Non ci supportano”, dice a Repubblica la sorella di un soldato del battaglione Azov chiuso nell’acciaieria.

Giovedì pomeriggio, per il secondo giorno consecutivo, un gruppo di parenti e amici dei soldati del battaglione Azov ha attraversato le vie del centro di Kiev diretto a piazza Majdan, per protestare e chiedere di salvare i soldati intrappolati nell’acciaieria. Ma se mercoledì la manifestazione si era conclusa pacificamente a Majdan, giovedì le cose sono andate molto peggio. I manifestanti si sono trovati davanti la polizia che li ha dispersi, “prendendo i documenti degli uomini” e fermando alcuni degli organizzatori. La manifestazione non era stata autorizzata, e gli organizzatori si sono difesi dicendo che alcuni non erano stati avvertiti ed erano scesi in piazza comunque.

La motivazione ufficiale per la negata autorizzazione e la successiva repressione è l’esistenza della legge marziale, che rende automaticamente impossibile organizzare qualsiasi protesta. Ma la mossa resta singolare, perché il battaglione Azov in questo momento in Ucraina è al massimo della sua popolarità: la strenua resistenza per la difesa di Mariupol ha trasformato tutti i soldati del più discusso tra i reggimenti della guardia nazionale ucraina in un manipolo di eroi. E allora cosa sta succedendo?

Gli organizzatori della manifestazione vanno oltre: dicono che le loro pagine social e i post in cui parlano di Azov e in sostegno dei soldati del reggimento sono stati cancellati, sono letteralmente “spariti” dalla rete. E la disperazione per non vedere alcuna plausibile soluzione che possa portarli in salvo - al contrario dei civili per i quali almeno un’ipotesi tramite i corridoi verdi è tuttora in piedi - monta in rabbia.

I rapporti difficili tra il governo e il reggimento - figlio del battaglione che ci conquistò pessima fama di crudeltà nella guerra del Donbass, venendo formalmente accusato di crimini contro l’umanità da diverse istituzioni internazionali - sono ben noti. Nei precedenti governi Azov aveva potuto contare su una forte spalla nel governo, e in particolare nel ministero degli Interni. Ma i tempi sono cambiati. Lo stesso presidente Zelensky, che nel 2019 aveva conferito un onore militare al comandante del reggimento Denys Prokopenko, si era visto negare il saluto militare in un segno di spregio che non ha certo dimenticato; neppure quando di fronte alla pressione popolare gli ha conferito, il 19 marzo, il titolo ufficiale di “Eroe ucraino” con l’Ordine della Croce d’Oro.

Un mese fa - mentre andavano avanti complesse trattative sui massimi sistemi con i negoziatori russi fino all’appuntamento decisivo di Istanbul, e intanto Mariupol si sgretolava tra migliaia di civili morti - il vicecomandante del reggimento Sviatoslav Palamar aveva rotto il silenzio con un messaggio video fortemente polemico: “I politici dicono costantemente che ‘li sosteniamo, siamo in costante contatto con loro’, ma per più di due settimane nessuno risponde al telefono e nessuno comunica con noi”.

C’era volta molta diplomazia per rientrare nei ranghi. La protesta sollevava dubbi sulle reali intenzioni del governo di Kiev sulla difesa a oltranza di Mariupol, praticamente impossibile e molto costosa per il numero di vittime che avrebbe comportato. Davvero, ci si domandava, il governo pensava di fare qualcosa per smorzare il dramma che si stava profilando nell’acciaieria? Un contrattacco, come chiedevano i soldati asserragliati? Una trattativa efficace?

La difesa di Mariupol serviva a Kiev per tenere occupati contingenti importanti di soldati russi che si sarebbero riversati altrove, ma era anche un grosso problema negoziale perché non poteva essere militarmente difesa. E una tragedia di proporzioni epocali avrebbe reso impossibile qualsiasi ipotesi di trattativa. Come avrebbe potuto, il governo, accettare qualsiasi minimo compromesso di fronte all’eccidio di una comunità e al sacrificio dei “patrioti” del reggimento Azov e degli altri reduci superstiti, come il 36esimo di marina?

Il giorno successivo la risposta non era venuta dal governo né direttamente dal presidente Zelensky. Era arrivata dal generale Valeriy Zaluzhnyi, il capo delle forze armate che gode di grande fiducia tra i militari e di una notevole autonomia rispetto alla politica: in una dichiarazione su Facebook aveva sostenuto che "le comunicazioni con le unità delle forze di difesa che eroicamente resistono nella città sono mantenute stabili, facciamo il possibile e l'impossibile per la vittoria e la protezione delle vite dei militari e dei civili. Abbiate fede nelle forze armate dell'Ucraina". Ora, però, la fede dei familiari è decisamente svanita.

Le storie dei sopravvissuti alla notte di Mariupol. Daniele Raineri su La Repubblica il 3 Maggio 2022.  

Dopo settimane di trattative, 156 donne, anziani e bambini evacuati dai sotterranei dell’acciaieria e portati a Zaporizhzhia. I russi fermano parte del convoglio. Missili su Leopoli e nell’Ovest

ZAPORIZHZHIA - Centocinquantasei donne, anziani e bambini sopravvissuti per due mesi ai bombardamenti russi contro l'acciaieria Azovstal di Mariupol sono arrivati ieri pomeriggio nell'Ucraina non occupata dopo un viaggio di quaranta ore - grazie a un'evacuazione negoziata con molte difficoltà dalle Nazioni Unite. Sono testimoni diretti dell'operazione militare più brutale ordinata dal presidente russo Vladimir Putin nel contesto dell'invasione ucraina e forse del suo ventennato al potere: quella che aveva per obiettivo la conquista di Mariupol, una città piazzata in una posizione strategica sulla costa ucraina.

Diario della resistenza. L’orrore di Mariupol raccontato dalla moglie di un soldato ucraino. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 30 Aprile 2022.

Yuliia Fedosiuk ha 29 anni ed è sposata con Arseniy, militare del battaglione Azov che proprio in questi giorni sta lottando nella città del sud-est del Paese: «Il loro appello è rivolto ai Paesi dell’Unione europea, chiedono di tirarli fuori da quell’inferno, a partire dai cittadini feriti e indifesi a cui le armate russe non consentono di scappare».

«Gli ucraini non perderanno la speranza nemmeno davanti a tutto l’orrore e la distruzione di Mariupol, la resistenza non si fermerà». Yuliia Fedosiuk ha 29 anni ed è sposata con Arseniy, anche lui 29enne, soldato del battaglione Azov che proprio in questi giorni sta lottando a Mariupol in un teatro di guerra fatto di macerie e sangue.

Yuliia risponde al telefono da Roma. Dice che da otre due mesi vive un misto di paura e speranza: gli attacchi russi sul territorio della sua Ucraina sono terribili, ma non smette di pensare nemmeno per un minuto che gli ucraini possano avere il futuro che vogliono e che meritano.

Il battaglione Azov in cui combatte suo marito in questo momento rappresenta l’ultima resistenza all’offensiva russa a Mariupol. Il porto del sud-est del Paese è stato definito la «Aleppo europea» dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea, Josep Borrell. Una città rasa al suolo, che però ancora può essere salvata. Della simbolica acciaieria Azovstal costruita nel 1933, all’inizio dell’epoca sovietica, è rimasto ormai poco più che la carcassa, ma al suo interno trovano riparo circa 600 soldati feriti e mille civili, protetti dal labirinto delle camere sotterranee. In tutta la città, invece, si stima che rimangano circa 100mila persone. Ma per tutti le condizioni di vita sono critiche: giovedì le autorità locali hanno dichiarato Mariupol vulnerabile alle epidemie, a causa delle spaventose condizioni sanitarie in gran parte della città e dal fatto che ci sono ancora migliaia di cadaveri ai bordi delle strade.

«L’appello di Arseniy e degli altri soldati che sono con lui è rivolto ai Paesi dell’Unione europea, chiedono di tirarli fuori da quell’inferno, a partire dai cittadini feriti e indifesi a cui le armate russe non consentono di scappare», dice Yuliia, che tutti i giorni dialoga con il marito.

Possono tenersi in contatto con discreta frequenza grazie ai modem di Starlink, il servizio di internet satellitare della SpaceX di Elon Musk. «Possiamo chattare, ma non possiamo parlare, non sento la sua voce perché la qualità della connessione non ce lo consente». Non è sempre stato così: «A inizio mese – aggiunge – non l’ho sentito per una settimana, ed è stato terribile perché non c’era modo di avere informazioni, e in generale tutte le notizie che arrivavano dal fronte non erano di prima mano quindi non sempre ci si poteva fidare. Pregavo tutti i giorni perché fosse ancora vivo».

Mercoledì mattina alcune decine di persone, soprattutto mogli, sorelle e madri dei soldati del battaglione Azov hanno manifestato a Kiev per chiedere corridoi umanitari a Mariupol, per evacuare i civili e i militari feriti. Si sono dipinte il viso di rosso, come il sangue dei loro compatrioti e familiari. Hanno intonato l’inno nazionale e scandito slogan rivolti al governo di Kiev, all’Onu, alla Croce Rossa: «Salvate Mariupol», «Salvate i bambini», «Salvate i nostri soldati», «Salvate Azovstal».

Il timore di molti ucraini come Yuliia che hanno contatti diretti con chi sta al fronte è che l’orrore di Mariupol possa ripetersi anche altrove, in altre città.

«Arseniy e gli altri soldati del battaglione Azov sanno che le forze russe non si fermeranno: l’armata russa, dicono, è disposta a proseguire questa strage in tutto il Donbass e tutta la parte orientale dell’Ucraina», dice Yuliia.

Yuliia è originaria di Leopoli, città dell’Ovest dell’Ucraina, ma si è trasferita a Kiev una decina d’anni fa per finire l’università e per muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Nella capitale ha conosciuto Arseniy, ma nel 2014 lui ha seguito il battaglione Azov nel Donbass. «Per molti anni l’ho visto appena 4 o 5 volte l’anno, non di più», spiega Yuliia.

Sul ruolo del battaglione Azov in Donbass negli ultimi otto anni si è parlato molto. Si è parlato dell’estremismo di destra, delle aggressioni ai cittadini filorussi, dei metodi brutali e violenti. Ma spesso sono generalizzazioni, spesso i racconti sono esagerati, spiega Yuliia.

Dopotutto, in ogni situazione di conflitto l’entropia dell’informazione schizza alle stelle. Come è accaduto dall’inizio dell’invasione russa del 24 febbraio. E tra fake news, propaganda russa e altre negligenze dei media, per un cittadino comune è difficile farsi strada nell’enorme rumore di informazioni che circolano. «C’è una parte dei media e dei giornalisti che sta facendo buon lavoro, raccontano la guerra dal fronte o con equilibrio – dice Yuliia – ma in troppe testate ci sono infiltrazioni della propaganda russa, si sentono finti esperti che parlano a sproposito di neonazismo dell’Azov, tutto questo inquina il dibattito e non aiuta a capire la realtà».

Ora che è in Italia, Yuliia vive a Roma in un appartamento insieme ad altre tre donne, tutte mogli di soldati del battaglione Azov arrivate nella capitale italiana grazie ad alcuni amici che vivono qui da tempo.

Dall’Italia spera di aiutare a diffondere meglio il messaggio di aiuto che ogni giorno arriva da suo marito: «Vogliamo dire a tutta l’Italia e all’Europa che Putin non si fermerà con l’Ucraina, è un nemico della civilizzazione e dei valori occidentali. Noi ucraini ora vogliamo combattere, vogliamo vincere la nostra guerra, ma abbiamo bisogno dell’aiuto degli Stati europei. E speriamo che arrivi presto l’embargo alle fonti energetiche russe, che ancora finanziano lo spargimento del nostro sangue».

Flavia Amabile per “la Stampa” l'1 maggio 2022.

È quasi distrutta l'acciaieria Azovstal di Mariupol dove da due mesi gli uomini del reggimento Azov vivono nascosti nei cunicoli sotterranei insieme a centinaia di civili. Sanno di non poter resistere a lungo e sono pronti ad arrendersi e a smettere di combattere, assicura Yulya Fedosiuk, 29 anni, moglie di Arseniy, parlamentare del partito di Zelensky e uno dei combattenti del battaglione. Yulya da cinque giorni è a Roma insieme ad altre tre mogli di combattenti del battaglione.

Perché?

«Volevamo incontrare i giornalisti, i politici e i diplomatici italiani per chiedere aiuto per i nostri mariti». 

Ci siete riuscite?

«Abbiamo incontrato i giornalisti non solo italiani, anche stranieri».

E i politici e i diplomatici?

«Ancora nessuno. Speriamo che ci chiamino». 

Che cosa gli direste se vi chiamassero?

«Che i nostri mariti chiedono aiuto. Hanno bisogno del loro intervento per garantire un'uscita sicura da Mariupol. E siamo qui per dire che i nostri mariti e i soldati del battaglione Azov si impegnano a firmare un accordo in cui, se avranno la possibilità di lasciare la città in modo sicuro, non prenderanno più parte a questa guerra. Andranno a vivere in un Paese terzo. Potrebbe essere l'Italia, la Turchia o un altro Paese, quello che conta è che non sia la Russia o la Bielorussia». 

Quindi i soldati presenti nell'acciaieria sono pronti ad arrendersi?

«Sì. E ad andare via attraverso un corridoio. Ma non ci si può fidare dei russi, lo si è visto.

Hanno sparato più volte sui corridoi umanitari. Quindi i soldati chiedono un intervento della diplomazia e della politica per garantire che l'uscita avvenga in modo sicuro». 

Come mai avete scelto Roma e non, per esempio, Parigi o Berlino?

«Abbiamo amici all'ambasciata ucraina presso la Santa Sede, era più facile organizzare un viaggio e una permanenza. E poi in Italia la propaganda russa è molto forte, ci è sembrato necessario venire e condividere con chi aveva voglia di ascoltare le informazioni su quello che sta accadendo a Mariupol».

Che ruolo ha l'attivista e portavoce delle Pussy Riot, Pyotr Verzilov, in questo viaggio?

«Nessuno. È solo un mio amico e voleva realizzare un film sulla nostra missione. L'idea e l'organizzazione del viaggio sono nostre». 

Di chi?

«Mia. Mi sono resa conto che era necessario parlare con gli Stati stranieri, di condividere all'estero le informazioni su Mariupol. Ho chiamato l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede e gli ho spiegato che cosa volevo fare. Lui mi ha risposto che gli sembrava una buona idea e mi ha detto di venire a Roma. E, una volta qui, ci ha fornito i contatti dei giornalisti con cui parlare».  

Tornerete in Ucraina?

 «Dipende dalla situazione. Bisogna vedere se ci lasciano tornare. Se non dovessero lasciarci pensiamo di andare in Germania o negli Stati Uniti, ma ora ancora non lo sappiamo». 

Che notizie ha da Mariupol? 

«Orrende. La situazione peggiora di giorno in giorno».  

Riesce a comunicare con suo marito?

 «Sì, comunichiamo via Telegram. Mi manda foto, video. Ha perso 15 chili in due mesi, ho una foto, è orribile».  

Che cosa le ha detto suo marito quando ha saputo che sarebbe venuta a Roma? 

«Che spera che io possa aiutarlo a mettersi in salvo».  

Ha paura? 

«Hanno tutti paura per la loro vita e per quella dei civili che sono con loro. Soltanto una soluzione politica e diplomatica potrà salvarli».  

Vi aspettavate una guerra? 

«Sì, sapevamo che c'era questa possibilità. Sapevamo che Putin non si sarebbe accontentato del Donbass e che avrebbe provato a prendere tutta l'Ucraina».  

Come vi siete preparati ad affrontarla? 

«Mio marito dal 2014 si è arruolato come soldato. E abbiamo imparato quello che potevamo nel campo medico per essere in grado di aiutare i feriti, i malati, chiunque ne avesse bisogno». 

In Italia c'è chi sostiene che il battaglione Azov sia un covo di neonazisti e che sia la causa della guerra scatenata da Putin. Che cosa risponde? 

«Questa è una delle informazioni veicolate dalla propaganda russa. Il battaglione Azov fa parte dell'esercito ucraino, è composto da persone che arrivano dall'Armenia, dalla Crimea, dalla Grecia. Ci sono ebrei e persone di tantissime nazioni. A Mariupol gli unici nazisti sono i soldati russi che uccidono civili, attaccano ospedali, commettono crimini inauditi».

Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

«Siamo venute a Roma per raccontare la verità su Mariupol, i nostri mariti non sono dei neonazisti, stanno resistendo nell'acciaieria ma il tempo stringe». Parla con un filo di voce Kateryna Prokopenko, illustratrice 27enne e moglie di Denis Prokopenko, l'uomo che guida la resistenza di Mariupol, il comandante del reggimento Azov. Additato da Putin come vertice di quelle forze «neo-naziste» da cui l'Ucraina deve essere «liberata» e decorato da Zelensky come «eroe» del Paese. «Sono orgogliosa di mio marito, per districarsi dalla propaganda occorre guardare ai fatti: lui e i suoi uomini stanno difendendo tutti noi» scandisce. Il pericolo di perdere per sempre il suo compagno è reale: «So che potrei non rivederlo mai più, se succederà non sarà per niente, si saranno sacrificati per il loro Paese. Questa sarà l'unica consolazione».

Le mogli dell'Azov Con Kateryna sono arrivate in Italia altre tre compagne di combattenti intrappolati nell'acciaieria. C'è Yulya Fedosiuk, 29enne, ex assistente di un parlamentare del partito di Zelensky, che non vede il suo Arseniy da «due lunghissimi mesi». «Lo sento al telefono - dice - ho saputo che dieci giorni fa è riuscito a raggiungere gli altri nell'acciaieria nuotando da una sponda all'altra del fiume». C'è Anya Naumenko, 25 anni, di Kharkiv, manager, che sta con Dmytro Danilov dal 2014: «Avremmo dovuto sposarci a maggio, chissà», sospira. «Ci parliamo ogni due giorni, di solito gli racconto del nostro cane e di altre amenità». C'è anche Andrianova Olha, 31enne, titolare di un asilo nido a Leopoli, moglie di Petrenko Serhiy, ex canoista olimpionico ora nel reggimento.

Ad accompagnare le signore dei combattenti a Roma è Pyotr Verzilov, fondatore delle Pussy Riot ed editore di Mediazone , «l'unico sito di notizie in Russia assieme a Meduza a raccontare la guerra in Ucraina. È stato bloccato, ma i nostri lettori sono aumentati», spiega questo dissidente diventato noto quando nel 2018, per protestare contro le persecuzioni politiche, osò interrompere la finale dei Mondiali di calcio sotto gli occhi esterrefatti di Putin. Poche settimane dopo, l'avvelenamento: si riprese a Berlino, nello stesso ospedale dov' è stato poi curato Navalny. 

«Dopo il suo arresto, con le proteste e la dura repressione che ne è seguita, mi sono convinto che sarei stato più utile fuori di prigione, quindi fuori dalla Russia». In Ucraina sta girando un film sul conflitto con l'amico Beau Willimon, il creatore della serie House of cards : «Abbiamo incontrato Zelensky e parlato con lui anche di amore, perché il documentario indaga su come le relazioni nascano, restino vive e muoiano in tempi di guerra», anticipa Verzilov al Corriere in videochiamata da Roma insieme alle quattro donne, tra le protagoniste del film. 

La storia d'amore di Kateryna è nata a distanza: «Ho conosciuto Denis nel 2015 sui social: io ero a Kiev, lui combatteva nel Donbass. Abbiamo iniziato a fare del trekking insieme. Fino a una vacanza nel 2018, tra le cascate norvegesi. Una mattina Denis mi indicò un pacchetto, l'hanno portato i troll , ha detto: dentro c'era un anello con incisa una montagna». Poi le nozze.

A ricordarle che suo marito è un personaggio controverso, accusato di essere alla guida di un reggimento neo-nazista, perde la sua flemma pacata: «È propaganda. Se difendere il proprio Paese da aggressioni esterne significa essere nazionalisti, allora sì, Denis è un nazionalista: come puoi dirti ucraino se non sei disposto a salvare il tuo Paese fino alla morte? Ma nazista no. Nel reggimento ci sono anche ebrei. Nazista è l'espansionismo di Putin». Concorda l'amica Yulya Fedosiuk: «Batterti per il tuo Paese vuole dire difendere la gente dai crimini degli aggressori. Non è la lingua a identificare una nazione ma i valori condivisi. La cultura della resistenza ai soprusi è nel nostro dna. Il movimento di dissenso russo invece è ancora agli albori».

Arrendersi? Mai Rispetto alle incerte possibilità della diplomazia, una cosa non si deve chiedere, osserva Katerina: «Come possiamo accettare una resa imposta dagli aggressori, dopo i massacri di civili?». Rispetto a quanti anche in Italia invocano una resa, Yulia è perentoria: «Anche da voi circola molta propaganda. Ieri passeggiando per Roma abbiamo visto un manifesto contro il reggimento Azov. Ci sono ancora alcuni politici qui che si fanno portavoce degli interessi di Mosca, anche un gruppo di intellettuali ha scritto una lettera per invitarci ad arrenderci e porre fine alla guerra, senza dire però che è stata la Russia a iniziarla». Lo scorso 21 aprile Putin ha ordinato di sospendere il previsto assalto finale all'acciaieria. «I russi continuano a sganciare centinaia di bombe al giorno.

Mio marito - subentra Anya - è stato ferito la scorsa settimana». Storie di resistenza quotidiana. «Mangiano una volta al giorno, hanno perso almeno 10 chili», racconta. Preparano zuppe di patate e pane, mescolando acqua con pane raffermo. Il loro umore dipende dal momento: l'altro giorno Dmytro era affranto per la morte di due suoi amici. Un altro era sollevato perché era riuscito a lavarsi i capelli, non faceva una doccia dal 23 febbraio! Ha esultato anche quando è riuscito a prendere dell'acqua fresca fuori dall'acciaieria. Un lusso. Di solito bevono "acqua tecnica", quella per il funzionamento dei macchinari».

 Battaglione Azov, chi ha portato le mogli dei "nazisti ucraini" in Italia. "E' la prova della propaganda". Libero Quotidiano il 29 aprile 2022.

Kateryna Prokopenko, 27 anni, illustratrice e moglie di Denis Prokopenko, l'uomo che guida la resistenza di Mariupol, il comandante del reggimento Azov, e Yulya Fedosiuk (nella foto), 29 anni, ex assistente di un parlamentare del partito di Zelensky, che non vede il suo Arseniy da "due lunghissimi mesi" sono arrivate in Italia per "raccontare la verità su Mariupol. I nostri mariti non sono dei neonazisti", raccontano al Corriere della Sera, "stanno resistendo nell'acciaieria ma il tempo stringe". 

I loro mariti sono i "neonazisti" dai quali secondo Vladimir Putin l'Ucraina deve essere "liberata". "Sono orgogliosa di mio marito, per districarsi dalla propaganda occorre guardare ai fatti: lui e i suoi uomini stanno difendendo tutti noi", dice Kateryna. "So che potrei non rivederlo mai più, se succederà non sarà per niente, si saranno sacrificati per il loro Paese. Questa sarà l'unica consolazione".

Le mogli dei combattenti dell'Azov sono state accompagnate a Roma da Pyotr Verzilov, fondatore delle Pussy Riot ed editore di Mediazone , "l'unico sito di notizie in Russia assieme a Meduza a raccontare la guerra in Ucraina. È stato bloccato, ma i nostri lettori sono aumentati", annuncia il dissidente diventato famoso nel 2018 quando, per protestare contro le persecuzioni politiche, osò interrompere la finale dei Mondiali di calcio sotto gli occhi esterrefatti di Putin.Pyotr fu avvelenato poche settimane dopo, ma fu curato e si riprese nello stesso ospedale di Berlino dove è stato poi curato Navalny. Ma sui social si scatenano: "È la prova della propaganda ucraina in Occidente". 

"Qual è la verità": la moglie del comandante del battaglione Azov a Roma. Alessandro Ferro su Il Giornale il 28 aprile 2022.

A Mariupol e nell'acciaieria Azovstal il conflitto è tutt'altro che terminato: da quelle parti, decine di uomini del battaglione Azov si trovano ancora all'interno del bunker dell'acciaieria cercando di resistere all'esercito russo che, nonostante lo stop imposto da Putin, continua a bombardare tutta l'area. Molti combattenti si trovano asserragliati dentro con le forze ridotte ai minimi termini e la vita che non riesce a tornare alla normalità. Kateryna, moglie del comandante Denis Prokopenko a capo del reggimento Azov, si trova a Roma assieme alle compagne e mogli di altri tre combattenti agli ordini del marito e nella serata di giovedì 28 aprile saranno anche ospiti del programma "Porta a Porta" di Bruno Vespa per raccontare l'orrore e lanciare un appello per salvare i loro compagni.

"Qual è la verità"

"Siamo venute a Roma per raccontare alla gente la verità su Mariupol, i nostri mariti stanno ancora resistendo nell’acciaieria ma il tempo stringe", racconta al Corriere della Sera. Con l'ansia per le sorti di suo marito, si dice "orgogliosa" perché lui e i suoi uomini "stanno difendendo tutti noi". Nella vita prima della guerra era una disegnatrice di fumetti, adesso non può esercitare la sua professione perchè è più importante raccontare dal vivo quanto succede nel suo Paese. Nel suo viaggio in Italia l'hanno seguita, come detto, anche altre tre compagne di uomini che combattono ad Azovstal: tra queste c'è Yulya Fedosiuk, ex addetto stampa di un assistente parlamentare di Zelensky, che non vede il marito da più di due mesi. "Vogliamo raccontare la verità su Mariupol, in Italia circola molta propaganda. Anche ieri passeggiando per Roma abbiamo visto un manifesto contro il reggimento Azov". A suo dire, alcuni esponenti politici del nostro Paese avrebbero "legami con la Russia e si fanno portavoce degli interessi di Mosca, anche un gruppo di intellettuali hanno scritto una lettera in cui ci invitano ad arrenderci per porre fine alla guerra senza dire che è stata la Russia ad iniziarla…."

Chi è il dissidente Verzilov

Nel loro viaggio italiano, le quattro donne sono state accompagnate da Pyotr Verzilov, dissidente russo e fondatore di un sito indipendente con il quale racconta la vera verità della guerra in Ucraina. Il suo giornale si chiama Mediazone e, assime a Meduza, sono gli unici che sono andati controcorrente al regime rischando grosso tant'é che hanno cercato di avvelenarlo già prima di quanto accaduto con Alexei Navalny. Divenne soprattutto famoso per aver interrotto la finale dei Mondiali russi sotto gli occhi dello Zar per protesta nei confronti delle persecuzioni politiche e richiedere che i prigionieri venissero rilasciati. Eccoli, tutti e 5 per far aprire gli occhi (come se ce ne fosse bisogno), su quanto accade in Ucraina. "I russi stanno continuando a sganciare centinaia di bombe sull’acciaieria ogni giorno, ogni giorno ci sono vittime", sottolinea Yulya. Accanto a lei c'è anche la 25enne Anya Naumenko, fidanzata con il soldato Dmytro Danilov con il quale dovrebbe sposarsi a luglio ma per adesso è impossibile programmare una cosa del genere.

Come stanno i combattenti

L'amore tra Kateryna e il comandante del battaglione d'Azov è nato sui social grazie anche alla passione in comune per musica e trekking. "È una miscela unica di coraggio, integrità morale, disciplina. Sempre pronto ad aiutare, non si tira mai indietro", racconta al quotidiano italiano. Nonostante il coraggio, molti affermano che sia un neo-nazista ma la compagna risponde con fermezza che "se difendere il proprio Paese da aggressioni esterne significa essere nazionalisti, allora Denis sì, è un nazionalista: come puoi dirti ucraino se non sei disposto a salvare il tuo Paese fino alla morte? Ma nazista no - sottolinea - Nazista è l’espansionismo russo di Putin". L'amica Anya racconta che i combattenti sono allo stremo, tanti chili persi, un solo pasto al giorno e il pane raffermo che, se non viene immerso in qualche zuppa, diventa immangiabile. L'acqua, poi, è tutt'altro che fresca ma "tecnica, cioé "quella che era destinata al funzionamento dei macchinari".

L'orrore nell'ospedale dell'acciaieria Azovstal di Mariupol. Orlando Sacchelli il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il Comune di Mariupol ha diffuso immagini raccapriccianti dall’ospedale allestito in uno dei rifugi dell’acciaieria Azovstal, dove vengono curati feriti militari e civili. Le condizioni sono disumane.

Sono sconvolgenti le immagini che mostrano un ospedale improvvisato in uno dei rifugi dell’acciaieria Azovstal di Mariupol. Le ha condivise, sui propri canali social, il consiglio comunale della città. Foto molto crude, come possono essere crude le immagini di una sala operatoria, con le mostruose ferite della guerra e le pessime condizioni dovute alle estreme difficoltà in cui sono costretti a lavorare i medici, a peggiorare le cose. I feriti, colpiti dalle schegge e dai proiettili, sono sottoposti a interventi in locali dove "sterile" è solo una parola astratta, con pochissima luce, lettini sporchi di sangue e condizioni igieniche disumane. Un'altra faccia, brutale, della guerra scatenata dalla Russia contro il "popolo fratello" dell'Ucraina. Medici e infermieri fanno quello che possono ma sono alle stremo: non hanno quasi più medicinali e lavorano alla meno peggio, come se fossimo tornati indietro di due o tre secoli, se non di più. Salvare più vite possibile è l'unica cosa che conta. Ma spesso diventa utopia. 

"Ecco come appare l’ospedale di Azovstal - si legge sul sito del Comune -. Foto terribili. Ma il mondo ha bisogno di sapere cosa sta succedendo. Sono 24 ore su 24 sotto il fuoco dell’esercito russo. Continuamente. E non solo i militari. La maggior parte sono civili. Ci sono almeno 2.000 civili nello stabilimento metallurgico. Donne, bambini e anziani. Molti feriti. In condizioni antigieniche e condizioni terribili. Senza farmaci. La situazione è catastrofica, mancano acqua potabile e cibo. Queste persone devono essere salvate immediatamente".

La diplomazia va avanti. Ieri Putin ha incontrato Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Sembrava esserci uno spiraglio, quantomeno per i soccorsi e i corridoi umanitari. Ma non è risultato così facile e scontato. "Oggi non ci sarà un corridoio umanitario per evacuare i civili da Mariupol", ha detto il consigliere del sindaco, Petro Andryushchenko, secondo quanto riferisce il quotidiano britannico Guardian. Andryushchenko ha poi aggiunto che i russi stanno di nuovo attaccando l’acciaieria. La guerra va avanti, non si ferma. Neanche di fronte al disastro umanitario e ai corpi straziati dei feriti.

(ANSA il 21 aprile 2022) - "I nostri cittadini hanno riferito che oggi a Mangush, vicino Mariupol, i soldati russi hanno scavato una fossa comune di 30 metri e portato dei corpi con i camion". Lo rende noto il sindaco di Mariupol Vadim Boychenko, citato dall'Agenzia Unian.

(ANSA il 21 aprile 2022) - A Mariupol gli ucraini hanno minato alcune infrastrutture e anche delle imbarcazioni straniere ormeggiate nel porto. Lo ha detto il ministro della difesa russo Sergey Shoigu nel colloquio col presidente russo Vladimir Putin, secondo quanto riporta l'agenzia russa Interfax. "I principali complessi infrastrutturali cittadini, incluso il porto e i canali di navigazione, sono stati minati. Non solo sono stati minati, ma sono anche stati bloccati da gru per imbarcazioni", ha detto Shoigu. "Le imbarcazioni che si trovavano là erano per lo più straniere", ha aggiunto.

(ANSA il 21 aprile 2022) - Kiev ha offerto a Mosca uno scambio di prigionieri russi e di inviare alti funzionari a Mariupol per negoziare l'evacuazione di quasi 1.000 civili e 500 soldati feriti, ma "finora" la Russia ha respinto la proposta: lo ha detto il presidente ucraino Vlodomyr Zelensky, secondo quanto riporta il Washington Post.

(ANSA il 21 aprile 2022) - I militari ucraini possono deporre le armi e lasciare Mariupol attraverso i corridoi umanitari. Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. "I militari ucraini hanno avuto e hanno ancora la possibilità di deporre le armi e lasciare la città attraverso i corridoi designati", ha detto Peskov in conferenza stampa commentando la proposta del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che le truppe russe catturate siano scambiate con la fornitura di un passaggio umanitario sicuro per i militari ucraini. "Questa possibilità esisteva anche prima che il presidente Zelensky facesse la sua dichiarazione", ha detto.

Dorella Cianci per “Avvenire” il 21 aprile 2022.  

Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, arrivando a Kiev, ha dichiarato: «La storia non dimenticherà questi crimini». Crimini più volte denunciati da Andriy Nebitov, capo della polizia della regione e figura centrale anche nella sicurezza dello stesso presidente Zelensky. 

Oltre al noto massacro di Bucha, ci sono ulteriori fatti di uguale gravità, da segnalare?

Gli eventi di Bucha, purtroppo, ci riserveranno nel tempo dettagli ulteriormente raccapriccianti. Non tutto è noto. 

A nord di Kiev, nel giorno della ritirata russa, sono stati trovati più di 900 cadaveri (ad oggi ben più di mille), uccisi con colpi di pistola alla testa, segno di un ordine giunto all'ultimo o di una ferocia esibita non tanto nei confronti della popolazione locale, ma del mondo, che invece, a sua volta, in quelle ore, notava il pantano in cui la Russia si è infilata.

Nella sola Bucha sono stati scoperti 420 corpi, ma altrettanti ne sono stati segnalati nei giorni seguenti in aree limitrofe e, in particolare, negli scantinati della cittadina, dove anziani, donne e bambini avevano cercato rifugio. Sono stati massacrati lì, a freddo. Brutali inoltre le scene dei corpi delle donne abusate trovate nell'area di Chernihiv, dove intorno sorgeva un poliambulatorio d'emergenza. Ulteriori dati in tal senso sono ancora in arrivo da Borodyanka. 

Sembra quasi che Cherniv sia stata la cittadina che più si è sacrificata, proprio per proteggere Kiev e la sua storia, sbarrando la strada verso la capitale alle truppe russe È esattamente così. La piccola Cherniv ha resistito e ha fatto quasi da barriera per evitare il peggio alla capitale. 

L'invasore di Mosca avrebbe voluto umiliare Kiev e non è accaduto; però, in quelle zone più periferiche, hanno perso la vita in tanti: ricordo i genitori di Danilo, di 12 anni, rimasto solo col suo gatto e con la casa distrutta; Darina, ferita alle gambe e ora in Israele.

Non solo: la bella biblioteca cittadina è stata totalmente rasa al suolo e, anche chi resta, è lì senza elettricità. Ci sono ancora diversi aspetti da chiarire: avete visto le terribili immagini del drone su Cherniv? La situazione, come stiamo capendo ora, era preoccupante già a inizi marzo e restano da chiarire le responsabilità, nei crimini, delle truppe provenienti dalla Bielorussia. 

La situazione è più tesa nel sud costiero, ma come state riuscendo a garantire la sicurezza nei territori intorno a Kiev, in particolare con l'arrivo di alte cariche istituzionali?

La situazione è drammatica lì, ma l'allerta è rossa in tutto il Paese e il livello di sicurezza, a Kiev, è coordinato col ministro della Difesa. Non basta soltanto l'organizzazione della polizia, in particolare quando avvengono queste visite eccezionali, che, però, hanno necessariamente bisogno di alcune ore di preavviso, non divulgato ai media. 

Non posso scendere nei dettagli, ma ovviamente questa sfasatura di comunicazione, di poche ore, garantisce la sicurezza degli ospiti e del nostro stesso governo. Con questo monitoraggio, coordinato col ministro, si è resa possibile l'uscita all'esterno di Zelensky per accogliere le altre autorità in visita. È un buon segnale.

Putin, la liberazione di Mariupol è un successo.

(ANSA-AFP il 21 aprile 2022) - Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che "la liberazione di Mariupol è un successo". 

Mosca, 142.000 civili evacuati da Mariupol.

(ANSA il 21 aprile 2022) - Oltre 142.000 civili sono stati evacuati da Mariupol: lo ha detto il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, nel corso di un incontro con il presidente Vladimir Putin. Lo riporta l'Interfax. 

Mosca, 2 mila soldati ucraini assediati nell'acciaieria

Circa 2 mila soldati ucraini sono assediati nell'acciaieria Azovstal di Mariupol e restano asserragliati dentro il centro siderurgico. Lo ha detto il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu, citato da Interfax. 

Putin annulla assalto ad acciaieria Azovstal a Mariupol

Il presidente russo Vladimir Putin ha annullato l'operazione per prendere d'assalto l'acciaieria di Azovstal a Mariupol, indicando la necessità di salvare le vite delle truppe. Lo riporta l'agenzia russa Tass.

Putin, chi si arrende avrà la vita risparmiata

Il presidente russo Vladimir Putin afferma che tutti coloro che si arrendono ai soldati russi a Mariupol hanno la garanzia che la loro vita sarà risparmiata. Lo riferisce l'Interfax. 

Mosca, 3-4 giorni per fine operazioni acciaieria Mariupol

Serviranno ancora 3-4 giorni per completare le operazioni nell'acciaieria di Azovstal di Mariupol, dove si trovano le rimanenti truppe ucraine: lo ha detto il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, nel corso di un incontro con il presidente Vladimir Putin. Lo riporta l'Interfax.  

Le ultime ore dei difensori di Mariupol. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 20 aprile 2022

Gli ucraini sono asserragliati nell’immensa acciaieria Azovstal, non ha cibo, acqua e stanno finendo le munizioni. In città, intanto, ci sarebbero ancora centomila civili che cercano di sopravvivere in scantinati e rifugi improvvisati

Asserragliati nell’acciaieria Azovstal, un labirinto di dieci chilometri quadrati nella parte meridionale della città, gli ucraini dicono di avere ancora «pochi giorni o poche ore».

Mariupol è sotto assedio da quasi due mesi ed è diventata il simbolo delle distruzioni che l’invasione russa ha inflitto al paese.

In città ci sono ancora centomila civili, secondo il sindaco, e molti di loro potrebbero trovarsi dentro l’acciaieria.

Ieri mattina è scaduto il termine del nuovo ultimatum offerto dalla Russia alle truppe ucraine che difendono Mariupol, la città diventata simbolo della distruzione inflitta all’Ucraina dall’invasione russa.

I difensori della città, circondati e senza rifornimenti fin dai primi giorni dell’invasione, hanno respinto l’offerta. Ma nel pomeriggio, il presidente ucraino Zelensky ha offerto di scambiare prigionieri di guerra russi con gli ultimi ucraini che difendono la città.

«Possiamo resistere ancora qualche giorno, forse qualche altra ora soltanto», aveva detto ieri mattina il maggiore Serhiy Volyna, comandante della 36esima brigata di fanteria di marina. «Questo potrebbe essere il nostro ultimo messaggio, il nostro ultimo messaggio di sempre».

AZOVSTAL

Volyna insieme agli ultimi difensori ucraini si trova nell’enorme acciaieria Azovstal, un impianto che occupa un’area di dieci chilometri quadrati accanto al porto di Mariupol. Sotto l’intrico di edifici e capannoni che si trova in superficie, si estende un ancora più fitto labirinto di tunnel e depositi sotterranei, una «seconda città», come l’ha definita Yan Gagin, funzionario della cosiddetta repubblica separatista di Donetsk, i cui soldati sono impegnati in città accanto alle truppe della federazione russa.

Si tratta di un terreno difficile in cui combattere e che avvantaggia i difensori. Secondo gli ucraini, i russi stanno utilizzando bombe anti bunker: ordigni pesantissimi che penetrano a fondo nel terreno prima di esplodere. Alcune di queste bombe avrebbero colpito un ospedale vicino all’acciaieria.

Ma anche senza i bombardamenti, gli ucraini stanno finendo munizioni, acqua e cibo e sono senza medicine per prendersi cura dei circa 500 soldati feriti. 

I CIVILI

Accanto alle vicende militari, prosegue l’ordalia dei civili di Mariupol, una città che prima della guerra aveva oltre 400mila abitanti. Oggi, secondo il sindaco Vadym Boichenko, circa centomila persone vivono ancora tra le rovine, negli scantinati e nei rifugi improvvisati. Ieri, un accordo parziale era stato raggiunto per evacuare oltre 6mila persone con novanta bus, ma sia il sindaco che il suo vice hanno detto che è impossibile verificare se l’evacuazione è avvenuta con successo o è stata bloccata, come è avvenuto diverse altre volte nelle scorse settimane.

Probabilmente ci sono civili anche nei sotterranei dell’Azovstal. Secondo testimoni sentiti dal New York Times, all’inizio di marzo c’erano almeno 4mila persone nascoste nei circa 90 rifugi creati dentro l’acciaieria. 

GLI UOMINI DI AZOV

All’Azovstal sono rifugiati anche gli ultimi soldati del reggimento Azov, una controversa formazione ultranazionalista legata all’estrema destra ucraina. Il loro comandante, Denis Prokopenko, ha pubblicato due giorni fa un video che mostrerebbe famiglie con donne e bambini nei sotterranei dell’acciaieria. Mariupol è una città simbolica per il reggimento, che qui combatte i cosiddetti separatisti da oltre otto anni. Ma non è l’unica base del reggimento, che ha il suo quartier generale a Kiev e distaccamenti a Kharkiv e Dnipro.

DAVIDE MARIA DE LUCA

Marco Ventura per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.

«Esaurite le capacità operative, è giusto e anche onorevole abbandonare il combattimento. Non ha senso tenere dei soldati a combattere a Mariupol, che ormai è nel controllo dei russi. Zelensky dovrebbe ordinare la resa. È possibile una sortita dalle acciaierie per riconquistare la città? No, allora un capo deve saper dire basta, arrendetevi».

Nessun dubbio su che cosa dovrebbe fare il presidente ucraino. Per il generale Marco Bertolini, già comandante del Coi (Centro operativo interforze), della Brigata Folgore e del Col Moschin, sul campo in Libano, Somalia, Kosovo, Afghanistan, «i combattenti del Reggimento d'Azov hanno dimostrato di essere forti e determinati, hanno conteso il territorio in maniera dura, valorosa. Questo era il loro compito, far perdere ai russi molto tempo e molti uomini. Che cos' altro devono fare operativamente?» 

Rimane questa ridotta nell'acciaieria

«Sì, là questa resistenza ha buon gioco a tenere duro perché un'acciaieria è un ambiente compartimentato, che consente a chi si difende di organizzarsi bene, poi ci sono ampie zone sotterranee per cui è difficile venirne a capo. Ma è una ridotta destinata a essere sopraffatta, queste forze non possono ricevere rinforzi, rifornimenti, né essere portate fuori». 

Un loro comandante ha chiesto l'estrazione

«Un'operazione di estrazione la puoi condurre in un ambiente semi-permissivo o permissivo, ma a Mariupol è impossibile che arrivi un elicottero a portare via chi c'è, ci hanno già provato e lo hanno abbattuto. I combattenti ucraini a Mariupol non hanno alternative alla resa, insistere nel farli restare sino alla fine non avrebbe un significato militare, ma propagandistico. Non cambia la situazione che resistano qualche giorno o una settimana in più. Dovrebbero arrendersi, questo è quanto». 

I russi avrebbero difficoltà a spazzar via le sacche di resistenza?

«Prendere Mariupol è stata un'impresa difficile, ha richiesto l'impiego e la perdita di molte forze. Ora, essendo l'acciaieria un obiettivo puntiforme, non ci sarebbe bisogno di grandi manovre, basterebbe un forte intervento aereo. Ma non vogliono farlo per non pagare il prezzo politico delle vite umane, di civili e militari insieme. Ai russi basta aspettare: nessuno può recuperare quei soldati e alla fine dovranno uscire».

Ci sono i corridoi umanitari

«Servono per i civili. I militari hanno solo un modo per uscire: combattere aprendosi la strada con le armi, o arrendersi. I corridoi umanitari hanno poi lo svantaggio che se vanno via tutti i civili, a quel punto arriva sul serio il missile sgombra-pensieri che uccide tutti quelli che sono rimasti».

C'è bisogno di martiri?

«Zelensky potrebbe ritenere che la resa incrini un po' l'aura dei combattenti ucraini disposti a tutto; inoltre se a Mariupol morissero tutti combattendo sarebbe un'altra cosa da imputare ai russi. A prescindere da ogni dietrologia, è una situazione che è successa anche a noi: Mussolini diede l'ordine a Pantelleria di arrendersi perché aveva avuto informazioni sbagliate sul fatto che ormai dovesse capitolare, secondo lui era inutile perdere vite umane per niente, in realtà era un'isola fortezza, difficile da conquistare. A Mariupol a maggior ragione. La distruzione di una città è già un prezzo molto alto, l'uccisione di molti civili è orribile, e la perdita di combattenti valorosi, per niente, non ha senso. Il responsabile ultimo delle decisioni è sempre politico»

Conquistare tutto il Donbass non sarà facile

«Le truppe ucraine che fronteggiano le due repubbliche separatiste sono lì da otto anni, in posizione fortificata e interrata. Non si tratta di operare contro truppe allo scoperto, ma di avere la meglio su unità predisposte alla difesa. Probabilmente non si tenderà a spazzarle via con un'offensiva, ma a tagliarle fuori dal resto del paese, prendendole alle spalle». 

A Mariupol non si faranno prigionieri?

«La resa dà garanzie al soldato negli eserciti moderni e regolari, è un istituto previsto e normato dal diritto internazionale bellico. E i russi hanno interesse a non creare situazioni da ritorcere contro di loro. Non vorranno passare per orchi. Diverso il caso delle formazioni irregolari, che operano fuori dal diritto internazionale e non rispondono a catene gerarchiche precise».  

Il senso dimenticato dell'eroismo. Vittorio Macioce il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

I rintocchi di mezzogiorno non hanno avuto risposta. A Mariupol lo sanno per chi sta suonando la campana. Non serve chiederselo. I russi sono stati chiari. «Avete due ore per lasciare la città». Si chiama ultimatum e serve a chi semina morte per lavarsi la coscienza. È come dire: abbiamo dato loro una possibilità. È la vita in cambio della resa. Chi non lo farebbe? E invece niente, silenzio. Tutto questo mentre Putin si atteggia a bullo globale. Prima annuncia e prepara una sfilata celebrativa della vittoria per il 9 maggio, tra le strade morte della città-simbolo distrutta. Poi mette in mostra - come un Kim Jong-un qualunque - il suo «missile impareggiabile». Lo ha battezzato Sarmat e punta il muso verso Occidente. Ma può spaventare gli spettatori dei tg europei, non la gente di Mariupol.

Le macerie sono l'ultimo riparo, ma quel «basta» non arriva. Non lo dicono i soldati ucraini e non lo dice la città. I bus umanitari attraversano a fatica la linea del fronte e si dirigono verso via Taganrogskaya, la fermata della speranza, e poi faranno tappa alle acciaierie Azovstal, per correre poi verso Zaporizhzhia. È la via della sopravvivenza per bambini, donne e anziani. Solo che non è una fuga. Non c'è ressa. Non ci sono code e gli autobus non sono pieni. Si arriva a piccoli gruppi, con il cuore devastato, perché non più in grado di resistere. Chi può invece ha scelto di restare e questo per noi che stiamo qui è qualcosa di indecifrabile, quasi impossibile da comprendere. Non ci appartiene più. È fuori dall'orizzonte delle nostre vite. Davvero qualcuno è disposto a morire per un'idea? Non sai neppure darle un nome. Che roba è? La puoi chiamare patria o libertà, ma non la senti, non la vedi, non la vivi. È troppo astratta. Ma queste per la gente di Mariupol non sono soltanto parole. Non sono chiacchiere da bar o da salotto televisivo. È la realtà. È il dramma della vita e ti costringe a scegliere. È qualcosa di radicale, al di là del qui e adesso. Non vogliono vivere come vuole Putin. Non vogliono svendere il futuro di chi verrà dopo. Non vogliono sottomettersi.

Allora te lo chiedi: tu lo faresti? Forse no, probabilmente no. Non lo sai, perché ti ci devi trovare, ma dire sì sarebbe disonesto. È come giurare adesso che nel '43 saresti andato in montagna. È come prendersi una patente da antifascista sotto gli applausi del 25 Aprile. Chi lo ha fatto davvero avrebbe capito lo sguardo di chi adesso sta a Mariupol. Solo che non ci sono più. Non c'è più nemmeno quel poeta giovane e illuso che nel 1849 andò a combattere sotto il Gianicolo per una vaga idea di Italia. Anche quello era un sogno impossibile. Cosa ti porta a combattere per la Repubblica romana di Mazzini quando di fronte hai l'esercito francese? Nulla che oggi si possa capire. Un proiettile gli frantumò la gamba e dopo quattro giorni, alle sette del mattino, morì di cancrena. Aveva 21 anni e si chiamava Goffredo Mameli.

La tragedia di Vanda, morta dopo 80 anni nei rifugi che la salvarono dai nazisti. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 20 Aprile 2022.

Aveva solo 10 anni quando nell’ottobre del 1941, rifugiandosi in una cantina di Mariupol, riuscì a salvarsi dai nazisti. Ottant’anni dopo, è morta in quegli stessi sotterranei: il luogo in cui, questa volta, si era rifugiata per nascondersi dagli invasori russi. Vanda Semyonovna Obiedkova, 91 anni, è deceduta il 4 aprile dopo settimane senza luce e acqua, tra il freddo e la mancanza di cure mediche, nella città simbolo della resistenza del popolo ucraino. 

A raccontare la sua storia è la figlia Larissa su Chabad.org. “Perché sta succedendo tutto questo?” chiedeva con un filo di voce Vanda, superstite dell’Olocausto che, nella sola area di Mariupol, causò tra i 9.000 e i 16.000 morti. 

Il racconto della figlia Larissa

Nelle ultime due settimane l’anziana donna non riusciva neanche a muoversi. “Dopo tutto l’orrore che aveva vissuto durante la persecuzione nazista non meritava di morire così“ ha raccontato tra le lacrime la figlia Larissa. Lei, insieme alla sua famiglia, ha potuto lasciare la città rasa al suolo dai russi solo all’inizio di questa settimana, grazie a uno dei pochi e fragili corridoi umanitari, aiutata della locale comunità ebraica guidata dal rabbino Mendel Cohen. 

“Quando sono iniziati i bombardamenti massicci, ci siamo trasferiti in cantina, ma non c’erano riscaldamento, acqua, elettricità.” Larissa ha cercato di prendersi cura della madre immobile a letto, “ma non c’era niente che potessimo fare per lei– ricorda- Abbiamo vissuto come animali”. Andare a prendere l’acqua era rischioso: due cecchini si erano piazzati vicino alla fonte più facilmente raggiungibile. “Eravamo bersagliati dalle bombe e la casa tremava. Mia madre mi diceva che non ricordava nulla di simile dalla seconda guerra mondiale”. 

Nata nel 1930, Vanda era una bambina di 10 anni quando nell’ottobre del 1941 i nazisti occuparono Mariupol e iniziarono a rastrellare e deportare gli ebrei. Quando le SS arrivarono a casa sua, uccisero sua madre Mindel. Lei, nascosta nella cantina di casa, non riusciva a parlare per la paura: “Quel silenzio la salvò”, spiega Larissa. Il padre di Vanda non era ebreo: convinse i tedeschi che la bimba fosse greca e la portò in un ospedale, dove rimase fino alla liberazione della città nel 1943. Vanda si sposò nel 1954, quando Mariupol era stata ribattezzata dai sovietici Zhdanov. 

Vanda amava la sua città, che non aveva mai voluto lasciare, neanche con la guerra. Ed è lì che la figlia ha voluto almeno darle una degna sepoltura, sfidando i bombardamenti insieme al marito. Ora sua madre riposa in un parco pubblico, non lontano dal mare d’Azov.

“Mariupol è un cimitero”

La testimonianza di Larissa descrive l’inferno e l’orrore della guerra in Ucraina, dove i civili continuano a morire. Lei, che ora è lontana dalle sue atrocità, dice che non tornerà a Mariupol. “Non c’è più una città, non ci sono case, non c’è nulla. È tutto perso, perché  ritornare?” afferma.

Mariupol è una città fantasma, completamente distrutta dai russi. Come sottolinea il rabbino Mendel Cohen, ormai è “un immenso cimitero”. Mariangela Celiberti

L. Cr. Per “il Corriere della Sera” il 18 Aprile 2022.

«Resa? Non ne abbiamo mai neppure parlato. I russi possono tranquillamente fare a meno dei loro ultimatum. Gli eroi combattenti di Mariupol si batteranno sino all'ultimo uomo, non cercano il martirio ma sono pronti a morire. Ma i rinforzi arriveranno prima».

Resta quasi interdetto il comandante Michail Pirog quando gli si chiede dell'eventualità che gli ucraini accerchiati da quasi due mesi scelgano di arrendersi per avere salva la vita: «Non è un'opzione contemplata», spiega calmo. A 55 anni, Pirog guida il quarto Battaglione dei volontari della formazione nazionalista Azov, circa mille uomini nel distretto di Zaporizhzhia, la città del Centro-Sud più prossima a Mariupol. 

Quanti sono gli ucraini accerchiati che ancora combattono?

«Sono dati riservati. Posso dirle che ci sono Marine della 36esima e 503esima Brigata, soldati della Guardia nazionale e tanti volontari della Azov. Sono unità ancora operative, siamo riusciti a inviare loro rinforzi di armi e munizioni sino a poche settimane fa.

Possono ancora resistere per settimane, ma gli mancano cibo e acqua come ai civili». 

Qui negli ambienti militari si parla di circa mille soldati ucraini accerchiati contro 10.000 russi. Ha senso?

«Sì, direi che la proporzione è quella. Non so però dire con precisione quali quartieri siano ancora nelle loro mani oltre alla zona delle acciaierie Azovstal, anche perché le posizioni cambiano di continuo: stiamo parlando di una battaglia tra le vie di una grande zona urbana. I posti di resistenza sono parecchi e rendono complicata l'avanzata russa». 

Una classica guerriglia urbana con bombe molotov e cecchini?

«Direi più di così. I nostri posseggono ancora razzi, armi anticarro, mortai leggeri.

Sono soldati di un esercito, non guerriglieri urbani».

Cosa risponde a chi, anche tra i Paesi europei alleati dell'Ucraina, accusa la Azov di essere una formazione neonazista e razzista?

«Noi siamo patrioti che combattono per la libertà e la democrazia. La propaganda russa falsifica la realtà e ci accusa di nazismo, mentre sono proprio i soldati russi a uccidere civili, a rubare e violentare. Sono loro i nuovi hitleriani. Noi ci battiamo anche per difendere le democrazie europee contro il fascismo espansionista di Putin». 

E le vostre origini cosacche? Siete figli delle stesse unità che stavano a fianco delle SS durante la Seconda guerra mondiale.

«Lo sa che c'erano un mucchio di russi collaborazionisti tra le guardie dei lager nazisti? Ma l'Armata Rossa era un'altra cosa. Per noi l'anima cosacca è oggi sinonimo di libertà contro la dittatura oppressiva di Putin. Altro che razzisti! Con noi ci sono ebrei, azeri, tartari di Crimea, armeni, cattolici, musulmani». 

Chi vi critica menziona la svastica sulle vostre uniformi e bandiere.

«La svastica è un antico simbolo slavo, pan-europeo, persino indiano. Per noi non ha alcun rapporto col nazismo. Accusereste mai gli indiani per le svastiche antiche millenni? Ma sono discorsi che davvero oggi non hanno senso. La realtà è che ci stiamo difendendo da un'aggressione violenta e fanatica. Abbiamo bisogno di tutto il vostro aiuto».

Oltre 100mila le persone in città senza acque e cibo. La battaglia di Mariupol, cittadini costretti a indossare fasce bianche come i soldati russi: “Li mandano a recuperare i morti”. Redazione su Il Riformista il 18 Aprile 2022. 

Donne, anziani e bambini costretti a indossare una fascia bianca sia sulla gamba destra che sul braccio sinistro. Fascia bianche uguale a quella che usano i soldati russi e i separatisti del Donbass. E’ la denuncia che arriva da Mariupol da parte del capo della polizia locale Mykhailo Vershinin secondo cui la popolazione rimasta – circa 100mila persone – viene utilizzata dall’esercito invasore per scavare tra le macerie e recuperare i cadaveri perché – secondo Vershinin – l’esercito russo sta cercando di cancellare le tracce dei suoi crimini.

Costringere i civili a indossare fasce bianche sulla gamba destra e sul braccio sinistro, le stesse utilizzate dai soldati, significa – secondo il capo della polizia – “portare la popolazione locale al rango di combattenti. Quindi mandano la gente nelle zone che possono essere attaccate, dove potrebbero morire”.

Intanto nella città portuale a sud dell’Ucraina, l’esercito russo continua ad avanzare e a controllare sempre più zone. Gli ucraini hanno rifiutato la resa e si avvicinano ora dopo ora alla battaglia finale. Nonostante gli appelli per far evacuare i cittadini, ad oggi sarebbero presenti ancora 100mila persone a Mariupol. Persone che devono fare i conti non solo con le bombe e con gli attacchi e le violenze dell’esercito invasore, ma anche con la totale assenza di aiuti umanitari. Da settimane la città è isolata e molte persone si sono rifugiate nell’acciaieria Azovstal di Mariupol ancora controllata dal battaglione nazionalista Azov. “Ci sono anche neonati. Queste persone si sono nascoste dai bombardamenti nei depositi dell’impianto”, ha detto.

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In città, così come sottolineato dal vicesindaco Sergi Orlov, “la situazione è la stessa rispetto agli ultimi giorni, la città è completamente isolata e non arrivano aiuti umanitari. Abbiamo bisogno di acqua e derrate alimentari. Continuano i bombardamenti, la città è rasa al suolo e i russi hanno occupato gran parte della città, ma l’esercito ucraino continua la battaglia”.

Secondo il consigliere del sindaco di Mariupol, Petro Andriushchenko, le forze russe hanno chiuso l’ingresso e l’uscita dalla città ed è possibile muoversi solo con un pass. “Centinaia di cittadini devono fare la fila per ottenere un pass, senza il quale sarà impossibile non solo spostarsi tra i quartieri della città, ma anche uscire in strada a partire da oggi”, ha affermato.

Guerra a Mariupol, uccisi 50 militari ucraini: c’è anche il comandante Baranyuk. Lo ha annunciato il vice capo delle milizie separatiste filorusse del Donetsk, Eduard Basurin. Lo scontro armato risalirebbe al 12 aprile scorso. Il Dubbio il 17 aprile 2022.

Volodymyr Baranyuk, comandante della trentaseiesima brigata di fanteria marina delle forze armate ucraine, è stato trovato morto a Mariupol. Lo ha annunciato il vice capo delle milizie separatiste filorusse del Donetsk, Eduard Basurin. Secondo Basurin, Baranyuk potrebbe essere stato ucciso durante il tentativo di fuga dalla città assediata di un centinaio di militari ucraini, lo scorso 12 aprile. «Nella notte tra l’11 e il 12 aprile, un gruppo di militari della trentaseiesima brigata marina, separata delle forze armate ucraine, ha tentato di sfondare dall’impianto Ilyich assediato», ha spiegato Basurin, «la fuga è stata impedita dalle forze speciali della Repubblica Popolare del Donetsk.

Durante l’ispezione del luogo dello scontro, sono stati trovati il corpo del comandante della brigata, il colonnello Baranyuk Vladimir Anatolyevich, i suoi effetti personali e le armi». Secondo Mosca, durante il tentativo di fuga dello scorso 12 aprile, 50 militari ucraini furono uccisi dalle forze russe e altri 42 si arresero.

Ucraina, nell’orrore di Mariupol: “Noi fuggiti, senza cibo e bianchi come spettri”. Brunella Giovara La Repubblica il 18 Aprile 2022.

I racconti dei sopravvissuti tra stenti, tentativi di fuga ed evacuazioni in Russia.

Erano “bianchissimi in faccia. E anche le loro mani, erano così bianche. Poi non stavano in piedi, immagino per la mancanza di zuccheri nel sangue. Sono scesi dalla macchina a fatica, e io ho pensato che erano veramente come gli zombie”. Così appaiono i sopravvissuti di Mariupol, a chi li aiuta a fuggire dai campi di detenzione russi. Basta un’occhiata, sono quelli che si trascinano e sono davvero esangui, denutriti, così senza colore. Sopravvissuti nella città bombardata, nelle cantine e nei rifugi, per salvarsi dalle bombe e dai rastrellamenti, ora hanno paura del buio, dei rumori violenti, di cosa altro potrebbe succedergli. Molti sono stati evacuati dai russi, portati nei campi del Donetsk prima, e dopo nei campi di “filtraggio” in Russia, dove vengono interrogati e controllati (i telefoni, gli eventuali tatuaggi nazionalistici, il rilievo delle impronte digitali).

Ma qualcuno riesce a fuggire, grazie a una rete di autisti, volontari (anche russi) e rifugiati ucraini, che parte dalla Repubblica della Georgia. Il gruppo Volunteers Tbilisi sta organizzando viaggi pericolosi – soprattutto nel tratto russo - per portare definitivamente in salvo queste persone. Da Taganrog, ad esempio, alcuni russi senza nome hanno portato i fuggitivi in macchina fino a Rostov, altri li hanno presi in carico e accompagnati in treno a Vladikavkaz, la capitale dell’Ossezia del Nord. Alla stazione, ecco l’autista georgiano, che gli fa attraversare il confine e li sistema in un primo rifugio nella parte sud del Paese, dove possono ricevere la prima assistenza, un letto, il cibo. E una concreta libertà.

La notte del 31 marzo uno di questi trasporti ha trasferito a Akhaltsikhe una famiglia di 8 persone di Mariupol, in stato pietoso, così come le ha viste Masha Belkina, una ragazza di vent’anni che coordina le attività di Volunteers Tbilisi. Masha è russa di nascita, ma quattro anni fa la famiglia si è trasferita nella capitale della Georgia e ha aperto un piccolo albergo. Bisogna spiegare che i georgiani temono di fare la stessa fine degli ucraini, così come i polacchi, e molti uomini sono partiti volontari per combattere i russi a fianco dell’esercito ucraino. E giusto nei giorni del viaggio di questa famiglia di Mariupol verso la Georgia, due volontari tornavano in patria in una bara. Caduti sul campo, si chiamavano Gia Beriashvili e Davit Ratiani, uccisi durante un combattimento a Irpin. Il corpo del terzo caduto, Bakhava Chickbava, non è ancora stato rimpatriato. Si sa che è morto durante uno scontro a Mariupol. Ad accogliere le prime bare all’aeroporto, la presidentessa della Georgia, Salome Zourabichvili, tanto per spiegare l’importanza e il significato della presenza di questo Paese sulla scena del conflitto. 

Ma tornando alla famiglia di Mariupol, erano otto e tutti malconci. Con due feriti seri, una donna di 52 anni ferita da schegge in tre punti del corpo, e una profonda altra ferita in una gamba, e il figlio , anche lui colpito da una scheggia alla scapola sinistra. Nel campo russo di Bezymennoye dove erano finiti, i medici avevano proposto un intervento chirurgico, ma lei aveva rifiutato, non fidandosi dei medici “nemici”. Sono stati poi operati in Georgia, e stanno meglio. Nel trasporto c’era anche una donna molto anziana, e un figlio, che si portava dietro un piccolo sgabello di legno. Masha gli ha detto che in macchina non ci stava, di lasciarlo lì. E lui prima ha detto che gli serviva per fare sedere sua madre, per non stancarla troppo. Poi ha confessato che era l’unica cosa che si era salvata dalla loro casa, “della nostra vita”. 

Volunteers Tbilisi ha finora traghettato in Georgia 2mila ucraini. Da lì, se vogliono, vengono aiutati a raggiungere la Polonia, la Francia, la Germania. Molti restano, perché sperano di tornare presto alle loro case. Alena Dergachova, giornalista della testata indipendente online The Village (invisibile in Russia, perché oscurata) ha visitato questa famiglia e non è riuscita a parlare con loro perché “sono in uno stato psicologico molto grave”.

Ucraina, Ong denuncia: 150 bimbi portati via da Mariupol con la forza. Redazione Tgcom24 il 18 aprile 2022.  

Un gruppo per i diritti umani della Crimea ha denunciato che i russi avrebbero portato via con la forza da Mariupol circa 150 bambini, 100 dei quali ricoverati in ospedale, la maggior parte strappata ai genitori. "L'esercito di Mosca li ha trasferiti nella direzione di Donetsk occupata e del Taganrog russo", ha affermato Olha Skrypnyk, capo del gruppo per i diritti umani della Crimea, riferisce Ukrinform.

I russi avrebbero portato via anche 16 bambini da un centro benessere a Mariupol. Secondo Andriushchenko, i bambini rapiti non sono orfani. "Gli orfani, insieme al personale dell'orfanotrofio - ha ricordato - sono stati evacuati da Mariupol il 24 e 25 febbraio", ha affermato il funzionario del Gruppo per i diritti umani della Crimea.

Come ha osservato un consigliere del sindaco di Mariupol, citato da Ukrinform, alcuni dei "bambini rapiti hanno perso i genitori a causa dei crimini di guerra della Russia", ma "o hanno tutori nei territori non occupati o sono sotto la protezione dello Stato". Nella Mariupol assediata - secondo le ultime informazioni - restano circa 120.000 civili.

Domenico Quirico per "La Stampa" il 17 aprile 2022.

Tutti i bambini russi, da generazioni, crescono sillabando questi nomi: la fonderia "Ottobre rosso", la fabbrica di cannoni "Barricata rossa", lo stabilimento chimico "Lazul''. A ripeterle quelle parole si gonfiano di epopea, di storia, di gloria.

Anche se oggi il luogo dove sorgevano ha cambiato nome, Volgograd, per loro per sempre sarà Stalingrado, la città del mito russo, della grande guerra patriottica.

Tra dieci, venti anni tutti i bambini in Ucraina impareranno a memoria un altro nome: la fonderia Azovstal, lo scriveranno nei compiti a scuola, la ripeteranno riempiendola di gloria, di eroismo, di sacrificio patriottico.

Forse su Mariupol dove sorge lo stabilimento sventolerà un'altra bandiera, quella russa, ma per loro sarà sempre la città della gloria dove un pugno di soldati ucraini preferirono morire tra le rovine che arrendersi. Così nascono le leggende. E le guerre senza fine. Ottobre rosso, Azovstal restano nella memoria tutta la vita, si radicano, si infiltrano, incominciano a crescere e germogliare, fino a trasformarsi in qualcosa di grande, raccolgono tutta l'essenza di ciò che è avvenuto.

La storia riserva strane combinazioni, capovolge i destini, li fa specchiare l'uno nell'altro come per prendersi gioco degli uomini e della loro illusione di esserne i padroni, di tenerli saldamente in pugno. Nell'agosto del 1942 i soldati russi, e ucraini, con alle spalle il Volga, barricati in una fonderia trasformata in fortezza, cambiarono il corso della Seconda guerra mondiale fermando la sesta armata nazista. Ottanta anni dopo le parti sono rovesciate. Sono i soldati russi gli invasori che devono, metro dopo metro, strappare i ruderi della più grande fonderia d'Europa ai fanti di marina e ai miliziani del battaglione Azov che rifiutano la resa. Per i russi i discutibili ultra nazionalisti dell'Azov sono «i nazisti».

Aggrediti e invasori, vittime e aggressori: lo scambio delle parti nell'atroce gioco delle guerre.

Stalingrado era una bella città nel 1942, come Mariupol 50 giorni fa. Con una università, grandi spazi aperti, ombre fresche e lunghe, parchi e blocchi di appartamenti bianchi con certe figure di donna sulle facciate a sorreggere niente, palazzi dall'aspetto immacolato che riflettevano il grande fiume e la abbagliante luce estiva. Portava il nome del Padrone, era simbolo e vetrina del mondo nuovo.

Quando i tedeschi attaccarono il 23 agosto, seicento aerei, a turno, volando basso, la schiantarono pezzo a pezzo. Da settimane i civili fuggivano verso il Volga portandosi dietro fagotti, carrette, spronando il bestiame.

Come a Mariupol avevano dato loro pale, carriole e ciocchi di legno per costruire all'ultimo momento trappole per carri armati e trincee. Ma avevano capito che sarebbero servite a poco. Sapevano che la armata del generale Ciukov, un tipo ambizioso, ostinato, sopravvissuto nei tempi di ferro di Stalin, aveva l'ordine di morire nella stretta lingua di terra che correva lungo il fiume, come se dall'altra sponda del Volga non ci fosse terra.

Molti non ebbero il tempo di fuggire, nel primo giorno e nella prima notte di bombardamenti morirono in quarantamila.

Anche a Mariupol i russi sono arrivati troppo presto, il 13 marzo. E pare che, dice Mosca, ormai le aree urbane sono state "ripulite" dalle forze ucraine.

Accade sempre così, si spera, si ritarda, forse il fronte si sposterà. Non lo sanno ma gli Stati maggiori hanno già tirato un segno rosso sulla carta geografica: qui vietata la resa, obbligatorio morire.

Oltre diecimila civili sono già morti. I soldati rimasti si battono nella immensa acciaieria. Davanti a loro ad ogni lato ci sono i russi che si aprono la strada con l'apocalisse dei "Solntsepeck", che 80 anni fa si chiamavano "gli organi di Stalin", alle loro spalle il mare da cui non verrà alcun aiuto.

Guardiamo Stalingrado dopo pochi giorni di battaglia: le case e le strade erano morte, sugli alberi non c'era più un ramo verde, tutto era stato distrutto dal fuoco, i palazzi erano una enorme discarica di frontoni in pezzi, nei pochi edifici ancora in piedi la gente si affollava cercando di portar via quello che non era stato distrutto.

Uomini si davano la caccia per uccidersi, con mitra, bombe a mano, baionette. Il Volga fumava per il calore delle granate tedesche.

E ora guardate le fotografie di Mariupol con i suoi campanili amputati e le file interminabili di edifici distrutti i cui fregi neoclassici riposano le loro volute sui marciapiedi, il teatro, cupo, annerito e solitario si innalza tra un cumulo di macerie con una ferita di mattoni che sembra sanguinare al crepuscolo. Se volete vedere un paesaggio di rovine più desolato di un deserto, più selvaggio di una montagna e fantastico come un incubo angoscioso, allora avete due città a cui pensare ora, Stalingrado e Mariupol. Sono le città senza più luci come se cercassero di negare la propria esistenza, solo chilometri di edifici che sembrano aver spento gli occhi. I russi nella città sul Volga avevano ammassato mezzo milione di soldati, ne morirono più di trecentomila. A Mariupol i difensori ucraini sono ridotti a qualche migliaio, gli altri che difendevano la città, e molti di coloro che cercano di conquistarla da un mese, sono morti.

Anche ottanta anni fa il cuore dell'epopea e della tragedia furono, nella parte Nord della città, gli indefinibili resti della fonderia Ottobre rosso: resti ancora alti, scolpiti arditamente dalle bombe come monumenti alla guerra, oppure piccoli come pietre tombali, travi contorte spuntavano dalle macerie come ruote di prua di navi affondate da tempo, e poi le sei ciminiere rimaste in piedi che un destino dotato di senso artistico aveva reciso dai capannoni distrutti si alzavano su mucchi grigi di calcinacci che sembravano eterne pietre messe lì dall'origine del mondo e apparecchiature fuse dal calore.

La leggenda racconta che quando già i tedeschi erano nel sobborgo di Spartakovka e gli Stuka scendevano in picchiata gli ultimi carri armati uscirono senza verniciatura, appena montati, dalle catene di montaggio per gettarsi nella battaglia.

Nei sotterranei di Azovstal e allora in quelli di Ottobre rosso immaginate solo bombardamenti, rumore incessante, polvere, fuoco, freddo e buio. Il fetore di carne putrefatta si mischia con quello del metallo rovente e del sudore. In luoghi simili dieci giorni è il massimo che chiunque può sopportare, si diventa un po' meno che umani, si impara che esiste qualcosa peggiore della morte, restare mutilati o cadere in mano al nemico.

Si comincia a provare una sorta di estasi durante l'azione che arriva al suicidio. E questo spinge anche a rifiutare la resa. Accadono cose eroiche e altre che sono la spietatezza e pura crudeltà. Bisogna diventare esseri di ferro. Agli uomini di Ottobre rosso fu detto che dovevano resistere perché dietro il Volga non c'era più niente. Non era vero: tre armate preparavano la trappola gigantesca per i tedeschi. Dietro Azovstal non c'è davvero più niente.

Il racconto di Tatiana rifugiata nell’acciaieria Azovstal: «Nel buio e senza acqua, tra le urla dei bambini». La giovane era tra i 156 civili rimasti per due mesi nel bunker di Mariupol, tratti in salvo dalle Nazioni Unite. «Ci lavavamo con l'antisettico per tenere a bada le infezioni». Federica Bianchi su L'Espresso il 4 maggio 2022.

Il bus verso l'ostello è arrivato. Tatiana Trotzok, 25 anni, afferra di corsa la coscia di pollo che sta mangiando nel campo di raccolta rifugiati a Zaporizhia e la infila nella tazza di caffè ormai vuota per portarla con se insieme a Daisy, la cagnolina yorkshire di cinque anni. Accanto a lei la madre e il marito. Sono due mesi che mangia solo zuppa in scatola e biscotti, al freddo su un tavolo di fortuna costruito con le assi di legno trovate nell'acciaieria dove si era nascosta. Trotzok fa parte dei 156 rifugiati della fabbrica Azovstal a Mariupol che sono stati tratti in salvo dalle Nazioni Unite, durante un viaggio in territorio occupato dai russi durato due giorni.

«Ci siamo rifugiati in Azovstal all'inizio della guerra perché mia madre lavorava lì ed era certa che sarebbe stato un posto molto sicuro», inizia a raccontare lei. «Per quattro giorni ci eravamo accucciati nel corridoio di casa, un’ appartamento al terzo piano di una palazzina periferica, sperando che i bombardamenti finissero presto. Poi nella notte tra il primo e il secondo giorno di marzo abbiamo sentito missili volare sul tetto. Quattro sibili lunghissimi seguiti da quattro esplosioni. Con la quinta la lampada notturna a forma di luna è uscita dalla presa e ha preso fuoco. In pochi minuti abbiamo deciso di lasciare casa».

Una decisione tempestiva. Pochi giorni dopo l'edificio è stato distrutto.

«Quando siamo entrati in uno dei bunker dell'acciaieria non c'era nessuno dentro. I soldati sono arrivati il 4 marzo. Abbiamo tentato di lasciare l'acciaieria il 3 marzo per cercare la nonna con cui avevamo perso ogni comunicazione». Il telefono non funzionava. Sono bastate poche ore sotto i colpi continui dell'artiglieria per capire che non saremmo mai riusciti a raggiungere la sua casa in centro. Così siamo rientrati nel bunker di Azovstal, dove siamo rimasti insieme agli altri, 43 persone in tutto, fino a tre giorni fa quando hanno aperto i corridoi umanitari». Prima di uscire dalla fabbrica hanno lasciato un biglietto con i numeri di telefono della nonna, l'indirizzo, i loro contatti, nella speranza ancora viva che qualcuno la trovi nei prossimi giorni. O l'abbia già trovata. 

Daisy annusa il bicchiere di latte che porta la volontaria, poi beve senza sosta. Trotzok mostra le braccia sporche, nere fino alle spalle, giù oltre le caviglie: «Sono tutta nera, non mi lavo da un mese. Perdonate il cattivo odore». L'unica acqua all'interno dell’acciaieria era quella usata dalle macchine refrigeranti per gli altiforni. Ce n'era in abbondanza per bere ma senza elettricità non arrivava nei bagni. Le quattro toilette devono essere svuotate manualmente fuori dal bunker nei piani superiori dell'acciaieria quando i bombardamenti conoscevano una pausa. «Ci lavavamo con l'antisettico per tenere a bada le infezioni».

Dentro il bunker la vita era lenta, scandita dalla cura dei bisogni primari: il tè la mattina, gli abbracci di chi ha paura, l'evacuazione della toilette, gli strilli di terrore dei bambini quando i bombardamenti diventano più intensi e le porte del bunker erano aperte per fare entrare un po' d'aria dai piani superiori; la zuppa cucinata per il pranzo; i pianti di chi non ce la fa più; le notizie che arrivano dalla radio. E che fanno discutere, che fanno passare le ore e danno o tolgono speranza a seconda dei giorni. Poi i latrati acuti dei cani, dei dieci piccoli cani portati nel bunker insieme ai bambini da un popolo che impazzisce per gli yorkshire e gli spitz. Ogni tanto i soldati portavano farina e burro, le caramelle per i bambini e il borotalco per i neonati, qualche medicina. «Sono stati fantastici con noi».

Ma era il buio il tratto dominante della vita nelle viscere della terra. Un buio che «inizialmente fa paura e poi ti obbliga ad arrenderti, a non pensare, a pregare magari», dice Tatiana. «Sono una leader di natura», continua lei che tre anni fa ha lasciato il posto da ingegnere elettrico in Azovstal per cercare un lavoro migliore in una multinazionale dell'high-tech nella regione del Donetsk. «Non sono come gli altri a Mariupol, non mi accontento», sorride sicura: «Durante tutte queste settimane ho cercato di tenere sempre lo spirito alto per tutti, anche quando abbiamo creduto che da lì non saremmo mai usciti, che saremmo morti di fame, pentendoci di non avere tentato la fuga prima, insieme a quei dodici che alla fine di marzo hanno preso coraggio e sono usciti. Non ce la facevano più. Mi guarda. Improvvisamente ha un'idea. «Ho il numero di Olga con me: la chiamiamo per vedere se è ancora viva?» La riunione telefonica è il trionfo della vita. «Olga mi aspetta a occidente dove è più sicuro», dice Tatiana: «È lei che sottoterra aveva disegnato questi tattoo che conservo nella cartellina insieme ai miei diplomi. Ora è il momento di farsene fare uno, qui su queste braccia che stasera saranno finalmente pulite». Per festeggiare la salvezza. Non ancora la vittoria.

I sommersi e i salvati di Mariupol. Report Rai. PUNTATA DEL 02/05/2022 di Manuele Bonaccorsi

Collaborazione di Giulia Sabella

É in questa area che stanno arrivando migliaia di profughi della guerra in Ucraina. E da lì hanno seguito le truppe occupanti a Mariupol, la città martire del conflitto, fino alla prima linea, a poche centinaia di metri dagli stabilimenti dell'Azovstal, dove sono asserragliati gli ultimi uomini del battaglione nazionalista ucraino Azov.

I SOMMERSI E I SALVATI di Manuele Bonaccorsi Collaborazione di Giulia Sabella Immagini di Manuele Bonaccorsi Montaggio di Riccardo Zoffoli

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora una esclusiva di Report, dal nostro inviato, Manuele Bonaccorsi, che è riuscito ad entrare nella Mariupol occupata, a poche centinaia di metri dall’acciaieria, simbolo della resistenza Ucraina.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Siamo andati dall’altro lato del fronte, finora rimasto in un cono d’ombra. Qui dove le auto e i mezzi militari, sono marchiati con la Z di Zavad, ovest in russo. Questa è Mariupol, o ciò che ne resta. Le persone vanno a prendere l’acqua e raccolgono il legno tra le macerie, servirà a fare il fuoco per cucinare o a mettere in sicurezza le proprie case danneggiate. Questo era il teatro di Mariupol. Colpito il 16 marzo nonostante fosse pieno di civili. Davanti a noi un ufficiale militare della Repubblica di Donetsk interroga un presunto testimone, un abitante di Mariupol che si trovava vicino al teatro durante il bombardamento. La scena si consuma davanti a una troupe della televisione russa.

TESTIMONE RUSSO C’è stato un boato ed è crollato tutto. Ma secondo me l’esplosione è avvenuta dall’interno, per una bomba, perché i muri sono caduti verso l’esterno. Inoltre, quando abbiamo cominciato a portare fuori la gente ferita e uccisa, ho visto che una signora anziana aveva numerose ferite causate dalle schegge di una bomba.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo questa ricostruzione, filmata a beneficio dei telespettatori russi, la strage sarebbe stata causata da un attentato, proprio come affermato dalle autorità di Mosca, che hanno incolpato il battaglione nazionalista Azov. Le autorità cittadine e numerose fonti internazionali affermano che a bombardare il teatro sia stato un aereo russo. Nella strage del teatro sono morte oltre 130 persone. Ma è un dato parziale. Fonti ucraine parlano di 300 vittime. I corpi, quando arriviamo noi, a distanza di oltre un mese, sono ancora sotto le macerie. In questo quartiere di Mariupol vive Nina, una anziana signora che ha una figlia in Svizzera. Vuole raggiungerla, mettersi in salvo, e noi le daremo un passaggio a Donetsk. La incontriamo nell’appartamento dove vive con la sua famiglia, sono tutti miracolosamente scampati dalle bombe.

ANZIANO Senza luce, senza acqua, senza cibo. Abbiamo vissuto come i ratti.

GIOVANE I militari ucraini mettevano davanti ai portoni dei barattoli rossi: segnalavano alle truppe dove mettere i punti di fuoco. Noi li abbiamo fatti sparire, e così abbiamo salvato la nostra casa. Altrimenti probabilmente saremmo già morti. Quelli del palazzo vicino non l’hanno fatto, e lì hanno messo un obice sul tetto, da cui sparavano a ripetizione. Ora di quel palazzo non resta niente. È stato completamente distrutto. Il 24 febbraio, Mariupol è stata chiusa, eravamo in gabbia. Non c’è mai stato un corridoio verde per portare via bambini e anziani.

ANZIANA Hanno fatto saltare in aria le rotaie. Era impossibile lasciare Mariupol.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Donetsk, capitale della Repubblica popolare del Donbass russo. Sono le 16 del 19 aprile. Un fiume di persone si dirige verso una struttura della protezione civile locale che ha il compito di fornire documenti e accoglienza ai rifugiati.

PROFUGO Vengo da Mariupol. Siamo stati portati con gli autobus del Ministero delle emergenze della Repubblica di Donetsk.

MANUELE BONACCORSI Ma fanno partire chiunque?

PROFUGO Sì, ma ci sono pochi autobus.

MANUELE BONACCORSI E dove è diretto?

PROFUGO A Rostov, in Russia. E poi raggiungerò mia figlia, a Zurigo.

ANZIANA Ci nascondevamo negli scantinati, dormivamo sul pavimento, nella polvere. Ho 76 anni. Per 50 anni io e mio marito abbiamo risparmiato per arredare l'appartamento. E ora c’è solo cenere ovunque!

DONNA Il battaglione Azov coi carri armati ha sparato su casa mia, potete immaginare?

MANUELE BONACCORSI Siete sicuri che fosse il battaglione Azov? Potrebbero essere state le truppe russe?

DONNA No, no, avevano la bandiera ucraina sulla divisa. Stiamo dicendo la verità.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Da Mariupol a Donetsk sono arrivate finora alcune decine di migliaia di persone. Fonti ucraine hanno parlato di deportazioni. Noi, che ci siamo mossi spesso insieme ai militari, oggi siamo soli. La nostra interprete Kristina spiega a tutti che lavoriamo per la tv pubblica italiana.

DONNA DUE Possediamo solo i vestiti che abbiamo addosso.

MANUELE BONACCORSI L’Ucraina ha affermato che la Russia sta deportando le persone da Mariupol.

DONNA TRE Ma smettetela!

DONNA DUE Nessuno ci ha deportato. Stiamo solo lasciando l'inferno. Abbiamo persone sepolte sotto ogni casa, ci sono croci in tutte le strade. Hanno messo l’artiglieria tra gli edifici residenziali anche se c'era scritto “bambini” sui muri. Ci hanno usato come uno scudo umano.

DONNA QUATTRO C'era un carro armato ucraino, ha sparato sulla casa e poi si è spostato. A quel punto è arrivato un colpo dai russi. La mia casa è stata colpita tre volte, tremava tutto. Ci siamo seduti in una stanzetta senza finestre. Ho messo una coperta sulla testa di mia figlia per attutire il rumore delle esplosioni. Al mattino le case vicine erano completamente bruciate.

GIOVANE Ho due bambini piccoli e una nonna di 90 anni, e ci siamo rifugiati in un locale tecnico, alto un metro e 20. Bevevamo l’acqua che cadeva dai tubi, e quando tutti i negozi sono stati chiusi, andavo a rubare, per mangiare.

MANUELE BONACCORSI Perché non siete scappati subito, prima dell’inizio delle ostilità?

GIOVANE Fin dai primi giorni di guerra, quando ancora avremmo potuto raggiungere l’Ucraina, i militari avevano messo i carri armati in mezzo alla strada. C’era chi offriva loro denaro per passare, ma era inutile. “I ponti sono stati minati”, dicevano. E questo ha messo a rischio la popolazione perché poi è diventato troppo tardi per andarsene. E solo quando la Russia ha conquistato tutta la costa siamo riusciti a fuggire.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Denis ci chiede un passaggio verso casa di sua nonna, che vive proprio a Donetsk. Lungo la strada ci racconta la storia di Bella, una sua amica di Mariupol. È stata portata in città dai militari della Repubblica separatista per essere operata, rischiava di perdere l’uso delle gambe. La scheggia di un proiettile è arrivata a pochi millimetri dalla sua colonna vertebrale.

BELLA I militari ucraini avevano sfondato la porta di casa mia, avevano fatto la loro base lì. Fuggire era impossibile. Io, mio marito e la bambina abbiamo vissuto in un seminterrato dal primo marzo senza mai uscire. Solo il 17 marzo, nel tardo pomeriggio, sono andata dai vicini perché avevo bisogno di tamponi di cotone per mia figlia. Quando stavo tornando ho sentito un'esplosione molto forte e ho visto l'onda d'urto con i miei occhi. Mi sono aggrappata al muro, ma sono scivolata a terra, non sentivo più le mie gambe.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Alcuni giorni dopo torniamo a Mariupol. Seguiamo un convoglio di militari della Repubblica di Donetsk che si reca nei quartieri più colpiti portando ai cittadini pane, carne in scatola e dolci pasquali. Dopo averla conquistata con le armi, i militari mostrano ora la faccia buona, sono qui per restare. Gli abitanti di Mariupol sono in grande maggioranza di lingua russa e nel quartiere in cui veniamo portati, gli occupanti li chiamano liberatori.

UOMO ANZIANO Venite, vi faccio vedere come vive. Siamo stati qui sotto per nove giorni. Facciamo bollire l'acqua sul combustibile secco. Così abbiamo dato da mangiare ai bambini. E preparavamo del tè per gli adulti.

DONNA Il bombardamento è stato spaventoso. Sparavano dall’incrocio.

UOMO ANZIANO Era un carrarmato ucraino a sparare.

DONNA Hanno bruciato l'intero quartiere, bruciato tutto, distrutto tutto.

UOMO ANZIANO Un colpo è arrivato qui, in questo punto, proprio nel seminterrato.

MANUELE BONACCORSI C’è gente che ha perso la vita? Quanti?

UOMO Un ragazzo che era uscito per prendere un bollitore, colpito da un grad. Un altro uomo era al secondo piano ed è rimasto ferito. Aveva una gamba incastrata, non poteva muoversi, è bruciato vivo sul proprio balcone.

MANUELE BONACCORSI Ma voi vi sentite russi o ucraini?

UOMO Russi.

MANUELE BONACCORSI Ma scusate, voi volete stare con il Paese che vi ha bombardato, che ha bombardato le vostre case, la vostra città?

UOMO ANZIANO È stata l’Ucraina ci ha bombardato! L’Ucraina! La Russia non ci ha bombardato!

UOMO Tutto questo l’hanno fatto i neonazisti ucraini dell’Azov. Lavoravamo e vivevamo tranquillamente fino al 2014. Poi ci hanno vietato di parlare in russo, anche la nostra regione è di lingua russa, lo è sempre stato. Siamo sempre stati vicini alla Russia.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il convoglio della Repubblica di Donetsk si sposta in prima linea, in un quartiere che si affaccia sul mare. Sullo sfondo si vedono le ciminiere dell’Azovstal, dove sono asserragliati gli ultimi militari ucraini.

MANUELE BONACCORSI A che distanza stanno gli ucraini asserragliati?

MILITARE DNR Sono a meno di un chilometro da qui. Hai visto quei ragazzi dietro l'angolo? Stanno andando proprio in quella direzione. C’è ancora il rischio che i militari ucraini escano di notte, per attaccarci.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questo è uno dei quartieri dove i combattimenti sono stati più duri. Si è sparato e ucciso casa per casa. Eppure, qualcuno vive ancora qui. E la felicità, quando hai perso tutto, può essere anche il profumo del cibo.

MANUELE BONACCORSI Siete sempre stati qui?

DONNA Sì, dal primo minuto della guerra. Non avevamo nessun posto dove andare. Mia figlia ha provato a scappare, non ho sue notizie da allora. Mia nipote è rimasta con me.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Un ufficiale dell’esercito della Repubblica di Donetsk decide di fornirci la sua versione.

MANUELE BONACCORSI La battaglia di Mariupol è finita o continua ancora?

UFFICIALE DNR La città è completamente sotto il nostro controllo. Le ultime forze nemiche, che sono rimaste qui, si trovano nello stabilimento di Azovstal e sono completamente bloccate.

MANUELE BONACCORSI Da dove provengono allora questi colpi?

UFFICIALE DNR È il fuoco della nostra artiglieria. Sopprimiamo i singoli punti di tiro che si trovano nell'impianto Azovstal.

MANUELE BONACCORSI Quante persone ci sono dentro Azovstal? UFFICIALE DNR È abbastanza difficile saperlo. Centinaia di militari, immagino. Ma l'intera area dell'impianto è bloccata. Da lì non usciranno più, almeno non con le armi in mano. Per quanto riguarda i civili, non ho informazioni precise. È probabile che ce ne siano anche se non dovrebbero essere lì. Per questo apriamo corridoi umanitari abbastanza spesso, cessiamo completamente il fuoco da tutti i tipi di arma e in un posto preannunciato, le persone hanno la possibilità di uscire, e partire verso i punti di incontro e alloggi temporanei. Ma poiché nessuna persona ne è ancora uscita, Azov secondo me le trattiene con la forza, capiscono che questa è la loro unica possibilità di sopravvivere. In caso di assalto, la presenza dei civili ci complicherebbe notevolmente il lavoro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, alla fine i corridoi sono stati aperti e le donne, i bambini e le persone più fragili sono riusciti ad uscire dall’acciaieria. Quello che però c’è ancora là dentro è difficile da capire perché nessuno è riuscito ad entrare, in quello che è stato sino ad oggi una sorta di buco nero di questa guerra. Quello che è certo è che comunque è al centro di una catastrofe umanitaria.

Fuga da Mariupol. Report Rai PUNTATA DEL 25/04/2022 di Luca Bertazzoni e Carlos Dias

Collaborazione di Giulia Sabella  

Gli inviati di Report in Ucraina sono arrivati a Zaporizhzhia, a 200km da Mariupol, la città martire della guerra in Ucraina.

Qui hanno incontrato le persone che sono riuscite a scappare dal centro abitato da mesi assediato e bombardato, ormai nelle mani dei russi. Un audio della Croce Rossa Internazionale e le testimonianze dei profughi raccontano le drammatiche condizioni di quel che resta della città che affaccia sul Mar d’Azov.

IN FUGA DA MARIUPOL Di Luca Bertazzoni Collaborazione Giulia Sabella Immagini Carlos Dias Montaggio Igor Ceselli

LUCA BERTAZZONI Stiamo seguendo questi soldati che ci stanno portando verso Malaya Rohan, un piccolo paesino appena liberato dall’occupazione dei russi. Siamo a soli 20 km da Kharkiv e qui si è combattuto per giorni. Tra i resti dei carri armati e blindati ci sono i corpi abbandonati e quasi mummificati dei soldati russi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La strada principale di Malaya Rohan fa impressione, è deserta. Ma quando ci addentriamo nel paese, oltre ai cadaveri dei civili uccisi mentre provavano a scappare, troviamo queste donne che rivedono la luce del sole dopo settimane passate nel buio degli scantinati. E fanno i conti con quel che resta delle loro vite.

DONNA UNO Questi sono pezzi delle bombe russe, li abbiamo trovati ovunque: solo intorno a casa nostra ne sono cadute tre. Venite, vi faccio vedere dove è caduta la prima bomba. Perché hanno colpito proprio qui? In questo paese non c’erano soldati ucraini, c’eravamo solo noi.

DONNA DUE Ci hanno bombardato per settimane, in continuazione. La mia casa non esiste più, è solo un ammasso di macerie e vetri rotti. Una mattina sono entrati nel nostro rifugio e hanno portato via una ragazza, solo Dio sa cosa le hanno fatto. Non sono esseri umani, sono barbari.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Mentre alcuni paesi nei dintorni di Kharkiv vengono liberati dall’esercito ucraino, la città martire di questa guerra si chiama Mariupol, da mesi assediata e bombardata, ormai quasi completamente rasa al suolo e ora in mano ai russi. In questo audio Sasha Volkov del Comitato Internazionale della Croce Rossa racconta quali sono le condizioni dentro la città di Mariupol.

SASHA VOLKOV – COMITATO INTERNAZIONALE CROCE ROSSA Non ci sono né elettricità né gas. Non c’è modo di riscaldarsi e alcuni sono completamente senza acqua. Molte persone non hanno il cibo per i bambini. Tanti hanno urgente bisogno di medicine, specialmente per curare il cancro ed il diabete: ma non c’è più alcun modo di trovarle in città. Le persone hanno iniziato ad attaccarsi l’un l’altro per il cibo. Noi abbiamo viveri soltanto per pochi giorni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Centomila abitanti sono ancora intrappolati in quel che resta della città. Oggi la Russia ha annunciato un cessate il fuoco e l’apertura di un corridoio umanitario per i civili bloccati nell’acciaieria. Ma fino ad oggi la Croce Rossa è riuscita con fatica ad entrare in città per recuperare i civili. Le persone che riescono a fuggire da Mariupol lo fanno con le proprie macchine o con i pochi autobus che l’esercito russo fa partire dalla città. E dopo 200 km arrivano a Zaporizhzhia.

LUCA BERTAZZONI Questi sono solo alcuni dei 45 autobus fermi qui a Zaporizhzhia, autobus che dovevano andare a Mariupol però non ci sono ancora le condizioni per andare a prendere i rifugiati lì a Mariupol. Non ci sono le condizioni di sicurezza. VOLONTARIA Io lavoravo per l’amministrazione comunale di Mariupol, per fortuna sono riuscita a scappare appena è scoppiata la guerra. Ora faccio la volontaria qui, voglio aiutare queste persone perché so cosa hanno passato.

RAGAZZA Ci abbiamo messo un giorno e mezzo per arrivare qui perché i russi non volevano farci passare. Ci hanno fermato in un villaggio e abbiamo trascorso la notte sul pullman: è stato molto difficile, i miei fratelli piangevano anche perché nostro padre non è riuscito a scappare con noi, è rimasto a Mariupol.

LUCA BERTAZZONI Stiamo entrando in un centro commerciale qui nella periferia di Zaporizhzhia e qui dentro adesso invece registrano i rifugiati che sono arrivati da Mariupol: questa è la situazione.

RESPONSABILE CENTRO ACCOGLIENZA In media accogliamo duemila persone al giorno. Arrivano qui in condizioni molto preoccupanti, hanno bisogno di cibo, di assistenza medica, ma soprattutto di un aiuto psicologico.

LUCA BERTAZZONI Perché ci sono tanti autobus fermi qua fuori?

RESPONSABILE CENTRO ACCOGLIENZA Noi siamo pronti ad andarli a prendere a Mariupol, ma spesso i russi bloccano i corridoi umanitari e i nostri autobus tornano vuoti.

LUCA BERTAZZONI Cosa hai visto in questo mese di guerra? DONNA TRE Noi siamo rimasti chiusi in cantina tutto il tempo, non vedevamo neanche la luce. A un certo punto abbiamo finito le scorte di cibo e di acqua. I russi hanno raso completamente al suolo il nostro quartiere, dopo molti tentativi sono riuscita a scappare con le mie bambine Angelina e Mariana. Ma ho altri quattro figli che sono rimasti bloccati lì, non ho più loro notizie. Spero che i soldati riusciranno a portarli da me.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo l’arrivo al primo centro di accoglienza di Zaporizhzhia, le persone che scappano da Mariupol vengono accompagnate dai volontari nelle scuole della città, dove passeranno qualche notte prima di partire per l’Europa. La guerra è a soli 200 km, ancora troppo vicina per fermarsi. Fuori da una scuola di Zaporizhzhia incontriamo quest’uomo. È appena scappato da Mariupol e le ferite di quel che ha visto fanno ancora troppo male.

UOMO Non voglio essere filmato, i miei fratelli sono ancora dentro quell’inferno e ho paura che avranno ripercussioni. I russi non risparmiano nessuno, sono spietati.

LUCA BERTAZZONI Come sei scappato da Mariupol?

UOMO Sono rimasto intrappolato dentro la cantina per più di un mese, ho provato più volte a scappare ma i bombardamenti erano incessanti, non riuscivo a fare più di cento metri che dovevo tornare indietro. Quando abbiamo finito il cibo e l’acqua, mi sono fatto forza e ho rischiato perché ho capito che sarei comunque morto dentro la cantina. Sono arrivato ad un check point dell’esercito ucraino e ho supplicato i soldati di portarmi via di lì.

LUCA BERTAZZONI Come si comportavano i soldati russi con voi?

UOMO I primi russi che sono arrivati in città erano i cosiddetti gruppi di ricognizione, le truppe speciali, si comportavano da soldati veri. Poi però hanno lasciato a presidiare il territorio i volontari delle Repubbliche separatiste del Donbass e da quel momento è cambiato tutto. Se la prendevano con i civili, loro non sono veri soldati, sono animali. C’era un ragazzino di neanche 18 anni che stava riparando una finestra danneggiata dalle esplosioni, i russi hanno iniziato a sparargli contro, lui si è girato verso di loro chiedendogli perché si accanivano contro di lui. E loro lo hanno ucciso.

LUCA BERTAZZONI Quante persone hai visto morire?

UOMO Tante, troppe per poterle contare. Anche quando sono riuscito a scappare, sono stato costretto a fare zig-zag con la macchina fra corpi e macerie sparpagliati per la strada. Non so descriverti cosa ho provato in quel momento, Mariupol era la mia città, ora è un cumulo di macerie e morti.

ANZIANA Veniamo tutti da Mariupol. Abbiamo lasciato la nostra città distrutta e in fiamme. Ora prendo questo treno per Kiev, poi non so dove andrò, credo in Europa, il più lontano possibile da questo inferno.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Alla stazione di Zaporizhzhia risuona stancamente l’inno ucraino, ma nessuno fra chi parte e chi rimane sembra farci caso. Negli occhi delle persone fuggite dalle bombe di Mariupol c’è solo voglia di andar via.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Immaginiamo che sarà difficile per chi è riuscito a fuggire, tornare a Mariupol. Il 98% degli edifici è distrutto. I satelliti immortalano foto con le immagini tristi delle fosse comuni. Da qualche giorno Mariupol è in mano ai russi. La neo-vicesindaca appena eletta dai russi, nominata dai russi, ha annunciato per il 9 maggio una grande parata militare per celebrare l’anniversario della vittoria della Russia nella Seconda guerra mondiale contro i nazisti.

Gli ultimi di Kiev. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Giulia Sabella 

Gli inviati di Report a Kiev, in Ucraina, per raccontare la guerra in corso, con gli sfollati che vivono sottoterra, negli scantinati dei palazzi della capitale.

Gli inviati di Report sono arrivati a Kiev, in Ucraina, per raccontare la guerra in corso. Nel loro viaggio hanno parlato con gli sfollati che vivono sottoterra, negli scantinati dei palazzi della capitale, per scampare ai bombardamenti, e con coloro che hanno visto le loro case distrutte. Mentre molti scappano, altri arrivano: sono circa 20mila le persone provenienti da 50 Paesi che si sono arruolate tra le fila dell'esercito ucraino per combattere contro i russi. Uno di questi soldati ha deciso di parlare con il nostro giornalista sul campo, per spiegare cosa lo ha spinto a prendere parte a una guerra così geograficamente distante dalla sua terra. 

GLI ULTIMI DI KIEV di Luca Bertazzoni Collaborazione di Giulia Sabella Immagini di Carlos Dias

LUCA BERTAZZONI Siamo nella periferia di Kiev e questo centro commerciale qualche giorno fa è stato bombardato e ridotto in queste condizioni, per fortuna ovviamente non c’era nessuno perché è tutto chiuso a Kiev e lì in fondo, vedete il fumo, si continua a combattere.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Irpin, cittadina di 70 mila abitanti a nord ovest di Kiev la battaglia è stata casa per casa. Gli ucraini sono riusciti a respingere le forze russe che ritirandosi hanno compiuto un massacro fra i civili nella vicina Bucha.

LUCA BERTAZZONI Siamo a pochi chilometri da Irpin, e qui nel punto dove c’è la Croce Rossa, continuano ad arrivare persone che sono scappate perché il corridoio umanitario non c’è più e scappando hanno trovato i volontari che li hanno soccorsi e portati qui.

DONNA Grazie, grazie per averci portati via da quell’inferno. La nostra casa è stata completamente distrutta dalle bombe dei russi. Abbiamo vissuto un mese intero nella cantina, io, mia figlia e i miei due nipoti piccoli, senza acqua, senza elettricità. Abbiamo trovato la forza di scappare solo perché a un certo punto abbiamo capito che saremmo tutti morti di fame. Avevamo finito il cibo, erano giorni ormai che non mangiavamo niente. Quando siamo usciti dalla cantina, ho visto la mia città rasa al suolo. Non c’è più niente, non c’è più niente.

 UOMO Qui siamo nel pieno centro della città vecchia di Kiev, mi fa impressione vederla così. A quest’ora di solito non si riesce a camminare per strada, invece dopo poco più di un mese ci stiamo abituando a questo continuo suono delle sirene: ormai fa parte delle nostre vite. Tantissima gente è andata via da Kiev per paura di questa guerra atroce, il centro si è svuotato quasi completamente. E guarda le poche persone rimaste dove vivono.

LUCA BERTAZZONI Questi sono gli scantinati dove tantissime persone qui a Kiev si sono trasferite dall’inizio dei bombardamenti.

DONNA DUE Abito in un paese a 40 km da Kiev, ma sono scappata con i miei figli e con le mie sorelle appena i russi hanno iniziato a bombardare. E da ormai un mese questa cantina è diventata la mia casa. Guarda, ti faccio vedere la stanza.

LUCA BERTAZZONI In quante persone dormite qui?

DONNA DUE Siamo in dieci, la notte non si respira qui dentro. Ieri mi hanno chiamata per dirmi che i russi hanno completamente distrutto il mio appartamento. Mi sembra di vivere un incubo. Putin sta facendo soffrire un intero popolo, lo odio.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Di notte il centro di Kiev è spettrale ma non solo per il coprifuoco. Nei palazzi attorno a piazza Maidan non c’è una luce accesa. Chi se lo è potuto permettere è scappato dalla città ma se ci si allontana dal centro storico e si arriva nelle periferie la scena cambia completamente. La vita per gli ultimi di Kiev continua a scorrere accompagnata dal suono delle bombe.

LUCA BERTAZZONI Siamo a pochi chilometri da Irpin, dove c’è il fronte più caldo della battaglia, in questo quartiere residenziale alla periferia di Kiev hanno bombardato, vedete, questo è il cratere e hanno distrutto qui, queste macchine e i primi piani di questo palazzo. UOMO DUE Per fortuna quando hanno bombardato stavo cucinando in un’altra stanza, sono vivo per miracolo. Dopo l’esplosione non si vedeva più niente, c’era fumo ovunque, mi mancava l’aria e non riuscivo a respirare. Ho preso mia figlia e sono scappato via. Guarda, ti faccio vedere in che condizioni era ridotta casa mia quando siamo tornati il giorno dopo.

ANZIANO Mi hanno distrutto la casa che ho tirato su con anni di duro lavoro. Vogliono conquistare l’Ucraina? Vengano pure qui con i carri armati, ma devono sapere che noi lotteremo fino alla fine per il nostro paese.

LUCA BERTAZZONI Anche lei è pronto a combattere?

ANZIANO Sono vecchio, ma se i russi vengono qui io li ammazzo uno ad uno.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A combattere questa guerra non ci sono soltanto gli ucraini. Riusciamo ad entrare in un centro di reclutamento di volontari. Fra civili e soldati in un mese ne sono arrivati più di 20mila da oltre 50 Paesi.

CAPO SOLDATI VOLONTARI Questa è la stanza dove si presentano le persone che vogliono arruolarsi. Quei ragazzi stanno compilando la domanda di assunzione, se passano il colloquio entrano a far parte dell’esercito, chi come volontario, chi come combattente, a seconda delle caratteristiche. Io sono un insegnante, ma quando è scoppiata la guerra ho sentito il bisogno di riprendere le armi in mano. Ma come vedi non sono solo: questo ragazzo è arrivato dagli Stati Uniti.

VOLONTARIO AMERICANO Quando ho visto le prime immagini della guerra in Tv ho fatto lo zaino e sono partito con il primo volo. Non conoscevo nessuno, sono arrivato alla frontiera e ho usato il traduttore del cellulare per dire che mi volevo arruolare: mi hanno preso subito perché sono un ex marines.

LUCA BERTAZZONI Perché ha deciso di venire in Ucraina?

VOLONTARIO AMERICANO Questa aggressione mina la libertà non solo degli ucraini, ma di tutto il mondo. Se i governi non fanno nulla per fermare questa guerra, non significa che la gente non sia unita, i confini non sono altro che linee immaginarie.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Lasciamo Kiev e proviamo ad avvicinarci a Stoyanka, uno dei fronti più caldi della battaglia alle porte della città, ma ci troviamo in una terra di nessuno. Anche l’autostrada è stata colpita. Arriviamo in questo quartiere residenziale deserto perché in questa guerra le bombe non risparmiano i civili. Qui incontriamo un gruppo di soldati ucraini: vanno verso il fronte russo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le guerre sono fatte da persone che si uccidono ma non si conoscono tra di loro per tutelare gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono. Alla fine di questo conflitto ci chiederemo chi ha vinto? Probabilmente non avrà vinto nessuno. E chi ha perso? Ha perso sicuramente un popolo, hanno perso i più poveri, ha perso un territorio che rimarrà inquinato forse se va bene per decenni e che sarà comunque distrutto. A oggi si parla di 600 miliardi di dollari di danni, chi ricostruirà l’Ucraina e con quali soldi? Insomma, un conflitto che, come molti altri, non serve a nulla, se non a provocare migliaia di vittime innocenti, e alcune anche giovani creature dell’età di 18 anni che si son trovati a combattere tra di loro senza sapere il perché. Il conflitto è servito anche a provocare un esodo che non ha precedenti nella storia di Europa, se non dalla Seconda guerra mondiale, quattro milioni di profughi si sono rifugiati. Cercheremo, nella nostra serie, in questa serie di Report, di spiegare i motivi di questa guerra, che al di là delle dichiarazioni di facciata non è altro che un conflitto tra un progetto atlantico e uno euroasiatico. E partiremo nel nostro racconto dal confine, quello polacco, dove prima del nostro Danilo Procaccianti, si è recato anche un politico che sperava di trovare solidarietà in un sindaco di una città, un sindaco di un partito di destra, che prima della guerra la pensava come lui sui profughi. E oggi invece…

I resilienti di Mykolaiv. Report Rai PUNTATA DEL 18/04/2022 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Giulia Sabella

Gli inviati di Report in Ucraina sono arrivati Mykolaiv, città nel sud del Paese che ha subìto pesanti attacchi dai russi. ​​​​​​

Qui hanno incontrato gli abitanti del posto: persone che vivono grazie agli aiuti offerti dalla Croce Rossa, italiani che vi si sono trasferiti parecchi anni fa e ucraini che abitavano in Italia ma che sono tornati nella loro terra di origine per accudire i propri cari che non possono scappare. I nostri inviati hanno anche intervistato il sindaco della città, che ha raccontato loro cosa sta accadendo da quando è iniziata la guerra.

I RESILIENTI DI MYKOLAIV Di Luca Bertazzoni – Carlos Dias Immagini di Carlos Dias Collaborazione Giulia Sabella Montaggio Igor Ceselli

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Mentre l’esercito russo sta lentamente mollando la presa nel nord dell’Ucraina, i combattimenti continuano nel sud del Paese. Una delle città più colpite dalle bombe è Mykolaiv, che per la sua posizione strategica è considerata dai russi la porta principale per entrare a Odessa e occupare la costa che affaccia sul Mar Nero. Qui i bombardamenti hanno colpito solo obiettivi civili, come questo centro commerciale centrato poche ore prima del nostro arrivo in città. O come l’ospedale principale di Mykolaiv, ora evacuato dopo le bombe.

LUCA BERTAZZONI Le persone sono qui in fila al freddo e al gelo dalle 6 del mattino, hanno bisogno di cibo e di medicine.

DONNA Io tornata. Arrivata in Ucraina il 30 gennaio perché sapevo che deve già iniziare guerra. Io devo stare con i miei genitori, salvare miei genitori perché sono vecchi e pesante, non possono lasciare sua casa.

LUCA BERTAZZONI È difficile per lei?

DONNA È difficile, io sto adesso, mi è molto difficile di parlare, però Europa deve sapere che qua bisogna un aiuto, che qua guerra. Quando arrivati i russi nel paese dei miei genitori hanno rubato nelle case, hanno preso i vestiti, stanno violenze nelle donne e bambini.

LUCA BERTAZZONI Lei pensa che tornerà in Italia?

DONNA Certo che torno Italia. I miei amici italiani piangono, chiamano ogni giorno: “perché, perché non prendi i genitori”? Come posso io prendere, 86 anni? Loro hanno testa dura perché qua terra nostra.

LUCA BERTAZZONI E vogliono stare nella loro casa.

DONNA Vogliono stare qua. Ai miei amici, chi mi conosce: dovete sapere che io adesso sto, ho portati miei genitori, che mi bombardavano dietro la schiena, due volte andare a prendere, papà e mamma. Pregate per me, pregate per me, per i miei genitori. Vi prego.

 LUCA BERTAZZONI Forza

DONNA È molto difficile. Lo sai che è molto difficile.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Entriamo nella periferia quasi deserta di Mykolaiv. La Croce Rossa ha organizzato un servizio di consegna casa per casa per chi non può raggiungere il punto di distribuzione degli aiuti alimentari.

ANZIANA I soldati russi sono animali perché bombardano giorno e notte noi civili. Ci sono tante persone come me che non potrebbero sopravvivere senza questi aiuti che ci portano ogni giorno i volontari. Grazie, grazie, grazie veramente.

MAX VOLONTARIO Io avevo una società di informatica, ma da quando è scoppiata la guerra ho mollato tutto e sono diventato un volontario.

LUCA BERTAZZONI Perché hai fatto questa scelta?

MAX VOLONTARIO Per me vivere sotto i russi non è un’opzione, lì c’è un imperatore che ha deciso di combattere contro una nazione libera che aveva scelto come casa l’Europa. Noi e i russi non siamo la stessa cosa come dice Putin: noi possiamo andare dove vogliamo e dire quello che pensiamo, in Russia tutti i cittadini sono controllati. Noi siamo un popolo libero, loro no.

LUCA BERTAZZONI Che effetto ti fa vedere la tua città ridotta così?

MAX VOLONTARIO È frustrante, era una città verde, piena di gente e di colori. Ora è grigia, vuota, ferita: fa paura. Ma so che vinceremo e torneremo ad essere felici e liberi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E invece a Mykolaiv non si salvano nemmeno gli ospedali pediatrici. Un missile ha colpito un’ambulanza e un altro è caduto vicino a questa struttura, che nonostante tutto continua a funzionare.

LUCA BERTAZZONI Luca, piacere.

SALVATORE BARONE Le bombe sono arrivate là di fronte, dietro questa casa qua, la settimana scorsa. Io ero in terrazza. Ti faccio vedere giù dove andiamo noi, vedete. Andiamo sotto.

LUCA BERTAZZONI Quando ci sono le sirene?

SALVATORE BARONE Noi ci mettiamo qua sì, che dobbiamo fare? Le sirene ci sono due o tre volte al giorno e noi ci mettiamo qua sotto.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Salvatore Barone è un poliziotto in pensione che vive in Ucraina da quasi vent’anni.

SALVATORE BARONE E quando le bombe sono troppo forti noi andiamo di qua.

LUCA BERTAZZONI Perché non ha le finestre.

SALVATORE BARONE Qua è tutto, tutto cementato, noi ci mettiamo qua, ci mettiamo, qua vedi che mura che ci sono? Qua il muro è 80 centimetri. Ci sentiamo invasi perché la storia…

LUCA BERTAZZONI Lei parla come un ucraino ormai. Si sente ucraino più che italiano ormai?

SALVATORE BARONE Sì, dopo 17 anni siamo più ucraini che italiani. Questa è una vendetta di Putin, noi siamo russi per lui, ma noi neghiamo di essere russi: noi siamo ucraini. Questo fatto di essere additati come fratelli, questo, penso ora non avverrà più.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Come in tutto il Paese, anche a Mykolaiv i negozi sono chiusi. I pochi supermercati aperti sono continuamente presi di mira dalle bombe dell’esercito russo.

LUCA BERTAZZONI Siamo nel pieno centro di Mykolaiv e poche ore fa c’è stato un attacco dei russi che ha colpito questa pizzeria, questi negozi, una gioielleria, un alimentari e anche una farmacia.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In questo bombardamento sono rimaste uccise quattro persone che si trovavano davanti alla fermata dell’autobus vicino ai negozi colpiti.

UOMO Guarda cosa mi hanno combinato. Questo è il regalo che ci hanno fatto i russi, hanno bombardato alle cinque del mattino, eravamo tutti in casa, ma per fortuna nessuno dormiva qui sopra.

LUCA BERTAZZONI La sua famiglia è ancora qui?

UOMO No, per fortuna sono riusciti ad andare in Polonia. Voglio ringraziare voi europei che state accogliendo il nostro popolo.

LUCA BERTAZZONI Perché non è andato via anche lei?

UOMO Perché questa è casa mia, anche se è ridotta in queste condizioni non mi sento di abbandonarla.

LUCA BERTAZZONI Siamo nel pieno centro di Mykolaiv, questo è quel che resta del palazzo del governo dove qualche giorno fa i russi hanno bombardato e sono morte 36 persone, più di 20 sono i feriti. Si è salvato per miracolo il governatore Kim ché è arrivato in ritardo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Da quando è scoppiata la guerra Olekandr Senkevych, il sindaco di Mykolaiv, va in giro con il suo kalashnikov.

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV I russi stanno cercando noi sindaci per ucciderci o per rapirci, cerco solo di proteggermi.

LUCA BERTAZZONI È pronto ad usarlo?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Certo, mi sto addestrando con il kalashnikov già dal 2014. I russi ci bombardano ogni giorno, solo ieri hanno ucciso dieci persone e parliamo solo di civili perché nelle aree dove bombardano non c’è nessuna installazione militare. In un paese qui vicino sono entrati all’interno di una scuola, volevano prendere uno scuolabus, il custode si è opposto e loro lo hanno ucciso. Poi hanno colpito una macchina della Croce Rossa: dentro c’erano donne che andavano ad occuparsi dei bambini di un orfanatrofio. Ne hanno uccise tre.

LUCA BERTAZZONI Che tipo di armi stanno usando i russi?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Quando erano vicini alla città ci sparavano con l’artiglieria. Siamo riusciti a spingerli più lontani e ora sparano missili dalla regione di Kherson. Usano le munizioni a grappolo che sono vietate nelle zone urbane perché il missile che esplode in aria lascia ricadere a terra una serie di bombe, sono fatte apposta per uccidere il maggior numero di persone possibile.

LUCA BERTAZZONI Lei ritiene che quello dei russi sia un genocidio?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Sì, senza alcun dubbio è in corso un genocidio del popolo ucraino. Quando Putin parla di combattere il nazismo intende dire che lui utilizzerà metodi nazisti. I suoi soldati entrano nelle case delle zone occupate e rubano telefonini, computer portatili, ma anche sneakers. C’è una telefonata di un soldato russo che chiama tutto contento la moglie a casa dicendole: “ho trovato la tua taglia di sneakers! È incredibile, qui in Ucraina ci sono delle cose pazzesche, sono veramente ricchi”. Loro invece sono barbari.

LUCA BERTAZZONI Che idea si è fatto di questa guerra?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Ci sono solo tre modi per finire questa guerra: il primo è che Putin si uccida; il secondo è che qualcuno attorno a lui lo ammazzi e il terzo è che noi eliminiamo tutti i suoi soldati qui in Ucraina e allora lo costringiamo a fermarsi. Ma in quest’ultimo caso sono sicuro che Putin scatenerebbe una guerra nucleare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il problema di oggi, lo scriveva 70 anni fa Albert Einstein. E non è certo l’energia nucleare, ma il cuore dell'uomo. Mai come stasera vale la pena citare il fisico tedesco che riconosceva alla conoscenza delle qualità, tuttavia anche delle limitazioni e auspicava la liberazione dell’immaginazione perché grazie all’immaginazione che c’è il progresso, l’evoluzione dell’uomo.

I sopravvissuti di Kharkiv. Report Rai PUNTATA DEL 11/04/2022 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Giulia Sabella  

Gli inviati di Report in Ucraina sono arrivati a Kharkiv, la seconda città del paese.

Ad appena 40km dal confine, le bombe dei russi non hanno risparmiato niente e nessuno. Il mercato più grande della città è stato distrutto, così come molti altri obiettivi civili. Le telecamere di Report sono entrate nell'ospedale dove vengono curati i feriti di questa guerra. I nostri inviati hanno poi raggiunto la prima linea di combattimento, raccogliendo un video esclusivo che documenta lo scambio di artiglieria tra i militari ucraini e le batterie russe.

I SOPRAVVISSUTI DI KHARKIV di Luca Bertazzoni Collaborazione di Giulia Sabella Immagini di Carlos Dias

LUCA BERTAZZONI Siamo nella periferia di Kharkiv, la seconda città più importante dell’Ucraina e una delle più colpite perché siamo soltanto a 40 chilometri dalla Russia e ci stanno portando verso la frontline perché qui tantissimi paesini fuori dalla città sono stati presi dai russi. È lì che si combatte la battaglia.

SOLDATO UNO È da più di un mese che tentano di entrare in città ma non riescono a sfondare. Se riescono a prendere un paese, combattiamo per un po’ e poi li spingiamo indietro. Le nostre linee difensive stanno tenendo bene, sono sicuro che prima o poi molleranno la presa e torneranno in Russia.

SOLDATO DUE Putin deve capire che noi non li lasceremo mai entrare a Kharkiv, è la nostra città, la terra in cui siamo nati e in cui siamo disposti a morire combattendo contro il nemico invasore.

SOLDATO TRE Attenzione! Stanno arrivando i russi, si sono mossi i tank... I tank! Andate via subito!

SOLDATO QUATTRO Saliamo in macchina e allontaniamoci da qui, è troppo pericoloso!

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Kharkiv le bombe dei russi non hanno risparmiato niente e nessuno. È stato completamente distrutto il mercato più grande della città. Sono stati colpiti negozi e supermercati. Tutti obiettivi civili. Questa scuola è stata occupata dai russi prima di essere teatro di uno scontro a fuoco durato giorni. Il centro storico è pieno di macerie. Kharkiv è una città da ricostruire completamente.

LUCA BERTAZZONI Qui siamo all’interno del palazzo del governo di Kharkiv che è stato colpito all’inizio del conflitto ed è in queste condizioni. Siamo nella periferia est di Kharkiv e abbiamo sentito due fortissime esplosioni e ci stiamo avvicinando verso quel fumo, lì in fondo.

ANZIANO Hanno distrutto tutto, bombardano ogni giorno!

LUCA BERTAZZONI Con l’aereo?

ANZIANO Sì. LUCA BERTAZZONI Stiamo camminando in una zona piena di palazzi bombardati dai russi e qui, come vedete, l’esercito ucraino ha piazzato i carri armati sia perché i russi sono vicini sia perché in questo quadrato ci si possono nascondere bene. Hanno colpito questo palazzo qui, ci sono ancora le fiamme, e anche laggiù c’è il fumo, c’è un’altra postazione degli ucraini.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Riusciamo a entrare nell’ospedale civile di Kharkiv. Quello militare è inaccessibile per i giornalisti: gli ucraini non vogliono far vedere alla stampa le loro perdite.

PAZIENTE UNO Stavo camminando per strada e ho incrociato un gruppo di soldati russi. Mi sono fermato immediatamente, ero come impietrito, non sapevo cosa fare. Senza dirmi niente mi hanno sparato tre colpi qui, nello stomaco. PAZIENTE DUE Ero in casa con mia moglie. A un certo punto ho sentito un’esplosione fortissima e poi non ricordo più nulla. Mi hanno detto che una bomba ha colpito l’appartamento accanto al mio.

PAZIENTE QUATTRO Ero per strada in bicicletta quando è esplosa una bomba a pochi metri da me. Sono caduto in terra e poi ho visto da lontano dei soldati russi che si avvicinavano, hanno iniziato a sparare. Io sono vivo grazie a quest’ascia. Sono un operaio, la portavo nello zaino e il proiettile si è conficcato qui.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Kirill Parkhomenko è il direttore generale del Kharkiv Regional Hospital. Da quando è iniziata la guerra non è mai tornato a casa. Dorme qui, nella sua stanza all’interno dell’ospedale.

LUCA BERTAZZONI C’è un dettaglio, un’immagine che lei ancora non riesce ancora a levarsi dalla testa?

KIRILL PARKHOMENKO – DIRETTORE GENERALE KHARKIV REGIONAL HOSPITAL Ecco, queste sono le schegge che ogni giorno leviamo dai corpi dei nostri pazienti. Le conservo un po’, poi le butto perché fa male vederle. L’ospedale è pieno, io stesso intervengo con le mie mani per aiutare i miei colleghi nelle operazioni. Ma a volte questo non basta a salvarli, muoiono sotto i nostri occhi e una parte di noi muore assieme a loro.

 LUCA BERTAZZONI Stiamo entrando nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale civile di Kharkiv.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Arriviamo a Pyatykhatky, un piccolo paese fantasma a ridosso della prima linea. L’atmosfera è spettrale. Sembra un posto completamente abbandonato e deserto ma a un certo punto vediamo un uomo entrare dentro un palazzo. Lo seguiamo e scopriamo che qui dentro c’è ancora vita.  

VALENTINE Guarda cosa hanno combinato i russi, ho perso tutto quello che avevo!

LUCA BERTAZZONI Perché non scappa da qui?

VALENTINE Perché questa è la mia casa, sono nato qui e morirò qui. Non ho più paura di niente.

LUCA BERTAZZONI Siamo proprio sottoterra. È assurdo in che condizioni sono.

SOLDATO Tutti pensano che il lavoro del soldato sia sempre sparare, combattere, tirare granate. Ma guarda qual è il vero impiego del soldato. Vedi quella collina in fondo? Lì ci sono i russi, è da tre settimane che combattiamo. Quello laggiù prima degli alberi è un tank russo, in linea d’aria siamo a un chilometro di distanza. Ogni giorno ci bombardano ma ogni tre missili che arrivano qui, ce ne sono sei o sette che colpiscono il villaggio qui sotto. Tutti devono sapere che i russi non sono guerrieri, sono animali che sparano ai civili.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Poco dopo essere andati via, il soldato ucraino Aleg ci invia i video di quello che sta succedendo al fronte. Finiamo poi in un’autostrada alle porte di Kharkiv, un’altra terra di nessuno dove si è combattuto ferocemente. Fra le macchine e i camion incendiati i soldati ucraini mostrano con orgoglio un carro armato preso all’esercito russo.

LUCA BERTAZZONI Si sentono ancora le bombe in lontananza, hanno colpito le macchine e lì ci sono cadaveri.

(ANSA il 3 aprile 2022) - "Manteniamo ancora Mariupol, ma il nemico ha preso piede in città. Siamo assediati, nessuna risorsa arriva qui ma possiamo resistere a lungo grazie alla nostra motivazione. I problemi principali sono le risorse umane e le armi anticarro". Lo ha dichiarato in un'intervista alla televisione polacca il capo di stato maggiore del reggimento Azov, Bogdan Krotevich, in merito all'assedio della città del sud dell'Ucraina.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2022.  

La ragazza si muove veloce, precisa. Riempie il bicchierone di plastica con il brodo, lo mette con gli altri per non lasciare spazi vuoti. Intanto controlla che dal tavolo non manchino mai 5 piattini di riso e gulasch. Ha l'atteggiamento zelante di chi è alla sua prima ora di lavoro e invece è qui da una settimana. Ieri aveva una maglia nera con le braccia scoperte e i jeans grigi.

Chi stava servendo invece indossava minimo tre maglie più cappelli e giacconi. Loro sono i fuggiaschi da Mariupol, i dimenticati dal mondo, gli assediati, i bombardati, gli affamati col freddo nelle ossa. La ragazza si chiama Olga e si è caricata sulle spalle il senso di colpa di tutti noi. Se li guardasse negli occhi scoppierebbe a piangere e allora li serve. Veloce per schivare il magone. Da una settimana. 

Roxana Bogdanova, invece, è pediatra. Sta a pochi metri dalle minestre di Olga in una sorta di minuscolo ambulatorio. È lì per chi vuole una pastiglia, un consiglio. «Il loro corpo non riesce a produrre abbastanza calore. Hanno bronchiti e polmoniti. 

Un'enorme quantità di malattie della pelle. Un mese senza lavarsi lascia il segno. Di denutriti ne ho visti pochi, disidratati di più, ma io posso controllare solo l'involucro.

Hanno bevuto l'acqua dalle pozzanghere o, quando andava bene, dal fiume. Non so cos' è finito nei reni. E gli esplosivi che hanno respirato per settimane? Cosa faranno ai polmoni? E poi, li ha visti? Cos' hanno vissuto? Qui non serve lo psicologo, prima devono realizzare che sono vivi». 

I fuggiaschi di Mariupol sono le «ombre dolenti» di cui scriveva Irène Némirovsky.

Arrivano a Zaporizhzhia con il contagocce. Venerdì ne sono filtrati dal Mare d'Azov 6.200, di cui 3.071 da Mariupol. Sabato forse altrettanti. La Turchia sta proponendo di inviare una nave. Il porto di Mariupol sarebbe agibile ed è molto vicino all'area controllata dagli ucraini. Basterebbe un cessate il fuoco e, senza controlli, chiunque potrebbe imbarcarsi. 

Via terra, invece, il «corridoio umanitario» che la Croce Rossa sta cercando di aprire, per il momento, è solo una crepa nell'assedio russo. Visto che i pullman non arrivano, visto che le automobili funzionanti sono quasi finite, la gente scappa a piedi. «Abbiamo resistito 30 giorni. Nascosti nella botola della cantina, con la casa senza tetto. I vicini morti come la cagna colpita dalle schegge. Avevamo scorte per restare ancora - dice Ivan, padre di Ilona, 15 anni, e Milan 10 -, ma non ce la facevamo più mentalmente. Capivamo dal rumore dove sarebbero cadute le bombe. Mentre cucinavamo all'aperto, avevamo 6 secondi per nasconderci prima dell'esplosione».

Troppo. E allora via, a piedi, in mezzo alla battaglia. Per superare il fiume hanno strisciato sulle condutture del riscaldamento, per passare tra i cecchini hanno solo pregato. «Russi, ucraini, non so». Sulla strada i cadaveri di chi ha avuto un trattamento diverso. Da Mariupol a Berdnyansk sono 40 chilometri con decine di check point russi. Ogni volta Ivan è stato fatto spogliare e, ogni volta, senza tatuaggi sospetti, è sopravvissuto. Nella zona della città già sotto controllo russo, invece, ci sono bus che partono regolarmente verso la Russia. Basta iscriversi e si sale. Cosa succeda a destinazione non è chiaro. Kiev usa la parola «deportazione» e sostiene che agli sfollati vengano sottratti i documenti.

(ANSA il 2 aprile 2022) - Almeno 5.000 persone sono state uccise a Mariupol, città assediata dalle forze armate russe. Lo ha detto in un videomessaggio il presidente dell'Ucraina, Volodymyr Zelensky, citando le autorità locali come riporta il Guardian. Sono in corso trattative per la rimozione dei corpi dalle strade. 

Si stima - ha aggiunto - che "circa 170.000 persone stiano ancora lì ad affrontare la carenza di cibo, acqua e elettricità: la Croce Rossa ha affermato che una squadra diretta in città per un'evacuazione ha dovuto tornare indietro venerdì in quanto le condizioni hanno reso impossibile procedere, un altro tentativo verrà effettuato sabato".

Letizia Tortello per “la Stampa” il 2 aprile 2022.  

«Affinché l'operazione abbia successo, è fondamentale che le parti rispettino gli accordi e forniscano le condizioni e le garanzie di sicurezza necessarie». La Croce Rossa l'ha spiegato così, chiamando all'appello entrambe le parti in conflitto, indistintamente.

Non ci si può schierare a favore di nessuno, quando un corridoio umanitario fallisce. Doveva portare in salvo 2 mila civili dal martirio di Mariupol. Quarantacinque bus, più tre auto e nove membri del personale erano partiti da Berdyansk per svuotare col cucchiaino la città in cenere del Sudest, simbolo del più grande massacro della guerra. Decine di altre auto private dei cittadini avrebbero dovuto seguire il convoglio fuori dal centro portuale, con tutti i rischi di passare i check-point e diventare bersaglio della rappresaglia russa.  

La destinazione sarebbe dovuta essere Zaporizhzhia. I civili si erano radunati prima delle 10 del mattino, le regole erano state fatte filtrare da Mosca, in attesa del treno della salvezza. Una delle ultime opportunità di scappare da un luogo ancora popolato da 100 mila persone, in condizioni disumane: niente acqua, luce, riscaldamento, con le bombe e i colpi di mortaio che danno tregua solo qualche ora.

Ma l'operazione non è mai avvenuta. L'appello personale per un cessate il fuoco temporaneo l'avevano fatto i leader di Francia e Germania al presidente Putin. Non è servito a niente. Da qualche parte, e non ha importanza sapere chi sono stati i responsabili, si sparava. «Per gli abitanti di Mariupol il tempo sta scadendo - ha implorato Ewan Watson, portavoce del Croce Rossa a Ginevra -. Non esiste un piano B. Stiamo finendo gli aggettivi per descrivere gli orrori che hanno subito i residenti. La situazione è orrenda, si sta deteriorando». 

L'imperativo era anche di far arrivare gli aiuti per chi ancora resta. Nulla di fatto. Mancavano le condizioni di sicurezza, senza le quali la Cicr, che aveva avuto l'ok dai massimi livelli di entrambe gli schieramenti ma non sufficienti garanzie sui dettagli, ha preferito indietreggiare. Mentre tremila persone, secondo fonti ucraine, sono riuscite a scappare con bus e auto private.  

«Noi siamo dovuti tornare a Zaporizhzhia - dicono i vertici Cicr -, era impossibile procedere». Da settimane i corridoi umanitari vengono bloccati: annunciati e poi interrotti da minacce o spari, con reciproci scambi di responsabilità tra russi e ucraini. I civili restano ammassati con il fiato sospeso alle porte della città. La paura, il freddo e la fame li tengono in ostaggio da un tempo che sembra infinito. 

Ci si dovrà riprovare oggi, in quello che sembra uno stillicidio. Il governatore ucraino di Donetsk, Pavlo Kyrylenko ha incolpato la Russia di aver infranto le promesse. Ma c'è di più. «Le forze russe hanno confiscato 14 tonnellate di aiuti umanitari, cibo e medicine, dagli autobus diretti a Melitopol», a due ore da Mariupol. A sostenerlo è stata la ministra ucraina Iryna Vereshchuk.

Ha funzionato, invece, la fuga da Melitopol verso Zaporizhzhia, come ha scritto su Facebook il sindaco Ivan Fedorov. 

Cinquecento persone sono riuscite a uscire. Una goccia nel mare, ma la missione è andata in porto. Per Mariupol, per contro, ieri sono stati ancora un giorno e una notte di terrore e disperazione. La città è per il 90% distrutta. Sette ospedali, praticamente tutti, sono stati danneggiati, tre irrimediabilmente. A questi si aggiungono tre strutture sanitarie infantili, sette istituti superiori, 57 scuole e 70 asili nido. E ancora, numerose fabbriche e il porto. Per rimetterla in piedi, «serviranno almeno 10 miliardi di dollari», sentenzia il primo cittadino Vadym Boychenko. 

E assicura: «Una volta finita questa guerra, sarà la Russia a dover pagare. Non solo per la ricostruzione della città, ma per le enormi sofferenze inflitte ai nostri cittadini». «Lasciate uscire la gente! Prima che sia troppo tardi», è la preghiera della Croce Rossa, per oggi e per le prossime settimane. Circa 140.000 persone sono scappate da Mariupol prima che fosse circondata, 150.000 sono riuscite ad andarsene quando i russi stavano entrando, tra 30 mila e 45 mila (secondo Kiev) sono state deportate in Russia. Per chi resta, le speranze di sopravvivere sono sempre più flebili.  

(ANSA l'1 aprile 2022) - Un convoglio della Croce Rossa che trasportava aiuti umanitari e medici a Mariupol è bloccato a Zaporizhzhia perché le garanzie di sicurezza richieste per la squadra non sono ancora state ricevute. 

Lo sostiene l'inviato della Bbc. Altri autobus, più di 40, hanno viaggiato giovedì ma, secondo fonti ucraine, sono stati fermati nella città di Berdyansk, in territorio controllato dai russi. Secondo i rapporti, sostiene ancora Bbc, alcuni degli autobus sono stati depredati dai soldati russi di parte degli aiuti che trasportavano. Un piccolo numero di autobus è stato in grado di tornare autonomamente a Zaporizhzhia con civili a bordo.

(ANSA l'1 aprile 2022) - Ancora più di 100.000 civili intrappolati a Mariupol senza forniture mediche che non si riescono a consegnare da 36 giorni. 

Lo afferma Oleksii Iaremenko, vice ministro del governo ucraino, in un'intervista a Sky News, riportata dal Guardian. "In alcune regione i corridoi umanitari non funzionano. Apprezziamo tutto il sostegno internazionale dei paesi e delle organizzazioni che stanno portando aiuti umanitari. Ma abbiamo bisogno di più a causa del numero di attacchi", afferma.

(ANSA l'1 aprile 2022) - Quattordici tonnellate di cibo e medicinali destinati ai civili di Melitopol, a metà fra Mariupol e la Crimea, sono stati confiscati dalle forze russe. Lo afferma la vice premier ucraina, Iryna Vereshchuk, citata dal Kyiv Independent su Twitter e ripresa anche dalla Cnn. Gli aiuti, scrive Vereshchuck, erano stati trasportati da pullman, messi a disposizione per evacuare i civili verso Zaporizhzhia.

(ANSA l'1 aprile 2022) - Le forze russe si stanno ammassando nei pressi di Mariupol, secondo quanto ha dichiarato stanotte in un nuovo video il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ha parlato di situazione "estremamente difficile".

"Ci saranno battaglie e noi dobbiamo ancora percorrere un sentiero molto difficile per ottenere tutto ciò che vogliamo", ha commentato Zelensky, citato dalla Bbc. La Russia in serata ha dichiarato che domani sarà aperto un corridoio umanitario dalle 10 locali (le 9 italiane) per evacuare i civili dalla città martire.

Letizia Tortello per “La Stampa” l'1 aprile 2022.  

«Mariupol ha un governo, è pronta per l'istituzione di una nuova amministrazione locale». Il messaggio diramato ieri dal presidente dell'autoproclamata repubblica separatista del Donetsk e rimbalzato sull'agenzia russa Tass risuona come l'ultimo sadico colpo di grazia. 

Come la più malvagia delle offese alle migliaia di morti, «almeno 5000 i seppelliti» dicono le autorità, nella città più massacrata dalla guerra. Un cumulo di macerie, cadaveri, rovine e crateri causati dalle bombe avrà un nuovo sindaco. Che sovrintenderà su non si sa bene cosa. 

E chi. Visto che ieri dovevano finalmente partire le operazioni della Croce Rossa per l'evacuazione di altri civili (ne restano circa 100 mila intrappolati) con 45 bus. Mosca aveva annunciato un cessate il fuoco. 

E allora, i mezzi della salvezza sono partiti dalla città di Zaporizhzhia, a 220 chilometri, altri erano in attesa di autorizzazione al check-point russo di Vasylivka, ma sono stati bloccati dai soldati di Putin. La fuga sembrava sbarrata, poi Mosca ha concesso un alito di speranza per oggi. E intanto la Croce Rossa tenta anche di portare rifornimenti minimi - cibo, acqua, medicinali - a chi non se ne è ancora andato. 

«Decine di migliaia», spiega un'addetta dell'organizzazione internazionale in un video su Twitter, mentre su un convoglio cerca di raggiungere Mariupol. «Non condividiamo il numero esatto di volontari che stanno operando nella zona per motivi di sicurezza della squadra», spiegano ancora. Le strutture della Croce Rossa «sono state parzialmente danneggiate e i colleghi sono stati costretti a far uscire la popolazione che le occupava in autonomia».

Donne, bambini e anziani, per lo più. Mentre ieri un'altra informazione è stata diffusa alla Cnn dalla vicepremier ucraina e ministro dei Territori occupati e degli sfollati interni, Iryna Vereschuk, e cioè che «45 mila persone di Mariupol sono state deportate con la forza in Russia», anche se il media americano non ha potuto verificare la cifra.

Oggi si capirà se 1500-2000 persone riusciranno a lasciare il porto sul Mar d'Azov. Ma come, se ieri i bus hanno fatto così fatica a superare i check-point e la situazione si è sbloccata solo in serata. 

Il corridoio umanitario sembrava l'ennesima beffa. Nelle intenzioni del Cremlino, la comunicazione che sta per insediarsi una nuova amministrazione è un modo per rilanciare con spirito positivo l'operazione militare che in molte altre aree è impantanata.

Come dire: Mariupol è nostra. 

È il chiaro segnale della volontà di «russificare» un'area abitata dai russofoni da sempre. La morsa sul centro più massacrato di tutti non verrà, probabilmente, mai allentata finché il Battaglione Azov non dichiarerà la resa. Mariupol continuerà a morire di fame, disidratazione e sfinimento, sotto le bombe. 

Il vicecomandante dei nazionalisti ucraini, soprannome «Kalina», sarebbe stato ucciso ieri dai soldati di Putin mentre viaggiava su un elicottero abbattuto, almeno così riferiscono gli indipendentisti. Kiev non conferma. 

In città si continua a combattere senza sosta. La sponda sinistra del fiume Kalmius è la più devastata, anche in termini di perdite civili. «Mamma, per favore mamma! Voglio vivere! Non voglio morire!», diceva Cyril, il figlio di Nadiia Sukhorukova, giornalista 50enne sfollata il 18 marzo. 

Non aveva più un posto dove dormire e stare al sicuro. «Avevo visto una donna con braccia, gambe e testa dilaniate - racconta al Guardian -. Ero sicura che sarei morta presto. Era questione di giorni. In città, tutti aspettano costantemente la morte. Volevo solo che non fosse così spaventosa». 

I suoi bambini erano così spaventati «che non mangiavano quasi più nulla. Solo dolci e biscotti, regalati un giorno da un passante li hanno convinti a nutrirsi, come se avessero trovato un tesoro. «Continuo a ripetermi che non sono più all'inferno - spiega, ora che è in salvo -, ma sento ancora gli aerei rombare, sussulto a qualsiasi suono forte e chiudo la testa nelle spalle come reazione incondizionata». 

 È la distruzione della gente di Mariupol, che resterà dentro per sempre. Negli adulti, che sono in grado di rendersene conto, come nei bambini. Tra gli ucraini scappati, ci sono i bimbi che sono stati trasportati in un centro divertimenti di Dnipro. 

Li ha intervistati la Cnn, i loro sguardi sono persi nel vuoto, gli occhi spalancati e funerei come se avessero fotografato la morte e la paura della morte ad ogni istante: «La nostra era una città bellissima, con tanti fiori, erba e cascate», dichiara Veronika, 7 anni. Dasha le fa eco: «Voglio dire che un bimbo piccolo capisce tutto». Comprese le bombe in testa. «Anche se non può parlare - conclude la piccola, rannicchiata sulla sedia come se fosse ancora nascosta nel bunker - perché è troppo piccolo». 

Il sindaco di Mariupol Vadym Boichenko: «Resisteremo fino all’ultima goccia di sangue». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

Parla il primo cittadino da un luogo segreto: «Le deportazioni? Ci sono: di notte i russi entrano nei rifugi, promettono l’evacuazione, poi ti trasportano in campi speciali e separano i figli dai genitori». 

Ogni parola è seguita da una piccola eco, segno che Vadym Boichenko, 44 anni, sindaco di Mariupol , è nascosto in un luogo sotterraneo. Dallo schermo vediamo solo una parete color crema con appuntata una bandiera blu e gialla. «Non sono più a Mariupol — racconta — sono a qualche chilometro da lì». È tornato in città un paio di volte ma l’esercito gli ha consigliato di stare lontano: «Dicono che servo più da vivo che da morto». Dal suo bunker segue l’evacuazione degli ultimi 130 mila abitanti rimasti intrappolati nella città simbolo della devastazione russa. Per tutta la giornata si è detto che le operazioni erano già cominciate, ma lui smentisce: «È un gioco molto cinico quello di Putin».

Cioè?

«Nessun autobus ha raggiunto Mariupol. Ci promettono il cessate il fuoco per creare corridoi umanitari ma poi non lo rispettano. Chi ce la fa raggiunge come può Zaporizhzhia, che è a tre ore di macchina. Ma è una scelta pericolosa». 

Chi è rimasto a Mariupol?

«Ci sono ancora molti anziani in trappola ed evacuare la popolazione è la cosa più importante. Spero che la comunità internazionale ci aiuti. La mia gente vive da più di un mese senza corrente, cibo, acqua e medicine. Non ci sono linee telefoniche, non c’è Internet. Mariupol è una gabbia a cielo aperto, bombardata ogni giorno».

Dal Donbass c’è stato l’annuncio che a Mariupol si è insediata una nuova amministrazione filorussa.

«Solo propaganda. Oggi la città è 50% in mano ai russi e 50% sotto il nostro controllo. Noi abbiamo il centro e la zona est». Per quanto tempo riuscirete a resistere? «Resisteremo fino all’ultima goccia di sangue». 

Abbiamo letto che alcuni cittadini di Mariupol sono stati deportati in Russia. Come? «Succede così: di notte i militari vanno nei rifugi e dicono che c’è un’evacuazione. Le persone, stremate, ci credono, salgono sugli autobus e vengono portate nelle zone sotto il loro controllo e in alcuni casi in Russia». 

E poi?

«Prendono le impronte digitali e sequestrano i documenti. Separano le famiglie, portano via i bambini. Sono criminali». 

Quante persone sono morte a Mariupol?

«Le statistiche ufficiali al 21 marzo dicono 5 mila, ma sono molte di più». Che ne è stato della gente nel teatro bombardato? «Trecento i morti, gli altri sono scappati. Tra loro c’erano anche mia madre e mio fratello con la sua famiglia che per fortuna si sono salvati. Non potremo mai perdonare quello che ci hanno fatto». 

I russi considerano Mariupol la base del battaglione Azov, accusato di simpatie naziste.

«Questa è propaganda». 

Però non si possono negare le simbologie naziste e la presenza di esponenti vicini all’estrema destra.

«Non è vero, Azov è solo una delle unità della Guardia nazionale, ed è anche grazie a loro che Mariupol sta resistendo. Il comandante del reggimento ha persino ricevuto un premio dal presidente». 

Parla con Zelensky?

«Poco, è molto impegnato. Parlo con gli altri sindaci». 

Alcuni sono stati rapiti. Teme per la sua incolumità?

«No. I russi mi chiamano “patetico criminale”, mi accusano di aver fatto saltare in aria un asilo nido, due scuole, un teatro e un ospedale dove nascono bambini. Assurdo, avrei distrutto tutto ciò che ho costruito nei miei anni di mandato». 

C’è chi vi chiama eroi, ma davvero lei non ha mai paura?

«Resisto. Ma di notte non dormo e a volte piango. Quando ricevi notizie che i tuoi vicini di casa sono morti, è impossibile chiudere occhio». 

Quanti russofoni vivevano in città?

«A Mariupol il 50 percento ha origini russe. Anche mia nonna lo è. Oggi, l’esercito le ha bombardato casa, lei non si spiega come sia possibile. Molti di loro hanno cambiato idea su Putin». 

Ossia?

«Hanno capito che la sua operazione speciale per liberare il Donbass coincide con la distruzione dell’Ucraina e il genocidio del nostro popolo. Putin ha fatto una cosa buona: con la presa della Crimea ci ha reso una nazione unita». 

Che cosa è rimasto di Mariupol?

«Quasi niente. Il 90 per cento della città è distrutto, e il 40 non potrà più essere ricostruito. Ci vorranno decenni per ricominciare». 

Che città era?

«Sono sindaco dal 2015. Era diventata una moderna città europea, nel 2021 abbiamo anche ricevuto un importante premio nazionale». 

Dove si trova la sua famiglia?

«Mia moglie e mia figlia sono in una località segreta in Ucraina. Mio figlio combatte nel Donbass». 

Che cosa le dicono?

«Mia moglie ha paura per noi. È molto triste perché casa nostra è stata bombardata: non abbiamo più niente».

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2022.

Non bastano gli scantinati. E nemmeno le fogne. Appena fuori Soledar, in via Oktyabrskaya 11, c'è un corridoio stretto scavato nella roccia che va molto più giù. «La miniera di sale è sempre stata la nostra salvezza», racconta il sindaco del villaggio. 

Salvava dagli anni nazisti, ha salvato in quest'ottennio di guerra del Donbass e anche adesso, quando cominciano i mortai russi, i 10 mila abitanti di Soledar sanno il daffarsi: buttarsi nelle viscere della vecchia miniera, 300 metri sotto, dove nessuna termobarica di Putin può arrivare.

Benedetta miniera: sull'ingresso c'è anche uno gnomo portafortuna, fatto di sale, e ai tempi belli della pace gli si dava una leccatina, prima di calarsi giù. Non c'è molto altro per proteggersi, nel Donbass. Più che al «controllo» e alla sua «completa liberazione», come hanno ripetuto sabato, i russi si stanno dedicando con cura alla sua distruzione. 

Spostano dalla Siria e dalla Libia i mercenari Wagner. Deportano più di 400 mila persone: perché se ne andassero, l'autunno scorso Putin aveva donato 700 mila passaporti ai «fratelli» del Donbass, praticamente uno per famiglia, ma evidentemente s' è dovuto convincerli in altro modo.

Il corridoio

L'avanzata sembra procedere e gli stessi ucraini ammettono che il nemico è riuscito a crearsi un piccolo corridoio fra Donetsk e la Crimea. Su Kharkiv si sono contati in un solo giorno 44 tiri d'artiglieria pesante e 140 razzi, fa i conti il sindaco Ihor Terekhov.

I palazzi distrutti sono 1.143: per miracolo, è rimasto in piedi il grattacielo sovietico Derjprom, un pezzo di nostalgia che i generali putiniani non si son sentiti di colpire. Pare non ci sia stato lo stesso riguardo per Ploshcha Krasna, la Piazza Rossa di Chernihiv, che non si chiama così in omaggio al cuore di Mosca (in slavo antico, il significato era Piazza Bella) e ora, dice il governo ucraino, «sta al centro d'una città completamente distrutta». 

Anche Izyum, la dolce cittadina dell'uva passa e delle fragole, raccontano sia rasa al suolo: i suoi 50 mila abitanti, che una volta aprivano la porta del Donbass sulla strada verso Donetsk e Lugansk, sono in gran parte scappati senza il tempo di chiudere l'uscio.

Le mine

Chi rompe, dovrà pagare. E carissimo. Solo nel 2019, praticamente un secolo fa, l'ong inglese Halo trust certificava che poche zone al mondo fossero infestate di mine e residuati bellici come il Donbass: bisognerà aspettare fino al 2080, dissero allora, per bonificare tutto. 

Un gruppo d'economisti austriaci calcolò anche i costi della distruzione: per ricostruire la regione, sarebbero serviti quasi 22 miliardi di dollari, il 16% del pil ucraino prima dell’invasione.

L'uomo più ricco

Oggi? Tutto il bacino del Donec è un concentrato di fumanti colossi industriali e di miniere sotto casa. Ma nessuno sa che fumo s'alzerà, dopo la guerra. L'uomo più ricco della regione e dell'Ucraina, Rinat Ahkmetov, patron calcistico dello Shaktar, in un mese s'è visto dimezzare il patrimonio personale: Donetsk era la sua città, e Ahkmetov ne finanziava i gioielli, la Donbass Arena e la splendente, nuovissima stazione ferroviaria in stile russo…

Altra domanda: che ne sarà della grande risorsa, il carbone? A Donetsk il minerale nero è sempre stato un orgoglio e la furia bellica ha spazzato via perfino i terikony, semplici e romantiche montagnole di scorie in mezzo alla città, attrazione turistica che cambiava colore a seconda dell'ora e della stagione. 

L'industria è in crisi: già prima dell'invasione, il carbone veniva estratto con percentuali troppo alte di zolfo e doveva essere mischiato con quello russo, finendo per esserne un sottoprodotto. 

La culla

Il Donbass che Putin vuole, fortissimamente vuole, non è solo il tesoro delle acciaierie e degli oligarchi legati a Mosca. È anche la culla d'una Chiesa ortodossa fedele alla Russia, dalla quale s' è staccata la Chiesa ucraina. È dove la secessione armata s'è giocata anche sulla lingua, perché qui nessuno ha mai voluto rinunciare al russo (anche se nessuno ora vuole più stare sotto Putin).

Non c'è più tempo e forza d'indignarsi, visitando il museo di Poltava, se le didascalie che parlano di Pietro il Grande evitano, accuratamente, di citare la Russia. Il frigorifero È sempre stato un rapporto complicato, quello con la Grande Madre. 

A 50 chilometri dal confine, sull'immensa piazza di Kharkiv che dicono sia seconda solo alla Tienanmen, gli amici di Mosca s'esaltavano per il gigantesco monumento in granito dei cinque eroi sovietici, raffigurati mentre andavano a combattere con un cesto d'armi? I kharkivi ci ridevano sopra, lo chiamavano «i cinque uomini che trasportano un frigorifero». Ma erano altri tempi e s'usavano ancora altre armi, allora: quelle dell'ironia.

Da rainews.it il 25 marzo 2022.

"Alcuni testimoni hanno informazioni secondo le quali circa 300 persone sono morte nel teatro di prosa di Mariupol in seguito al bombardamento dell'aviazione russa" dello scorso 16 marzo. Lo scrive su Telegram il sindaco Vadym Boichenko. "Fino alla fine, non vogliamo credere a questo orrore. Fino alla fine vogliamo credere che tutti siano salvi, Ma le testimonianze di quelli che si trovano all'interno dell'edificio nel momento in cui c'è stato questo atto terroristico dicono il contrario", aggiunge. 

La città portuale sul Mare d'Azov è sotto assedio dai primi giorni di guerra ed è ormai pressoché ridotta in macerie. Migliaia di civili sono ancora intrappolati nelle cantine degli edifici, a corto di cibo, acqua, energia elettrica. “Sempre più morti per fame. Sempre più persone rimangono senza scorte di cibo”, affermano le autorità cittadine. Nella giornata di oggi è previsto un corridoio umanitario verso la città di Zaporizhia, controllata dal governo ucraino: nella maggior parte dei casi tuttavia, finora, i tentativi di evacuazione non sono andati a buon fine.

I combattimenti vedono impiegati sui fronti opposti il battaglione Azov delle forze armate Ucraine, pervaso di ideologia di estrema destra, e la Guardia nazionale cecena: le une e le altre sono probabilmente le unità con maggiore preparazione militare e motivazione attive nel conflitto. Ieri il presidente della Repubblica russa di Cecenia Ramzan Kadyrov ha annunciato la presa del municipio di Mariupol, ma non ci sono conferme, mentre oggi sarebbe stata aperta una sede del partito Russia Unita: "Secondo i residenti di Mariupol che rimangono in città, il quartier generale distribuisce giornali di partito, fa campagna per la Russia ed emette carte dell'operatore mobile Phoenix, che opera nella Donetsk occupata dal 2014", fa sapere il consiglio comunale filo-Kiev. 

Ieri la televisione di Stato russa ha mostrato per la prima volta le immagini della città distrutta, ma ha accusato le “forze nazionaliste ucraine” di aver “cercato di radere tutto al suolo” durante “la loro ritirata”. L'ambasciatore russo in Italia Sergey Razov oggi ha affermato che a Mariupol sarebbero stati colpiti solo obiettivi militari e invitato a “sentire le due parti e non solo i messaggi propagandistici” ucraini.

Il vuoto che lasciano le bombe. Paolo Di Paolo su La Repubblica il 24 marzo 2022.  

Un aspetto dell’ultima guerra mondiale che colpì lo scrittore tedesco W.G. Sebald ha a che fare con le rare e sporadiche testimonianze sui bombardamenti. Una sorta di imprevedibile rimosso, un imbarazzo profondo, quasi un senso di vergogna ha occultato la devastazione delle città europee, e in particolare le oltre cento città tedesche attaccate (con la conseguenza spaventosa di seicentomila morti fra i civili e sette milioni di senzatetto). Sebald la chiama "storia naturale della distruzione", e ne cerca tracce anche in romanzi meno conosciuti. Resta qualcosa come una "malinconia insanabile" di fronte non solo alle storie delle vittime, ma anche alla lacerazione dei luoghi. Stravolti, irriconoscibili, destinati a non tornare mai più come erano. Le rovine restano in qualche modo rovine. L’esistenza urbana - nel modo in cui si è radicata, consolidata, cristallizzata - in questa o quella città è sostanzialmente cancellata. In questa immagine, la carcassa dell’auto in primo piano, i detriti, le lamiere, le pareti sventrate dicono di una distruzione in atto, ma anche della cicatrice immane che sarà visibile nello spazio. Quando si parlerà di ricostruzione, si saprà di partire da un vuoto.

Michela Allegri per il Messaggero il 23 marzo 2022.

Le bombe continuano a cadere, anche se praticamente Mariupol non c'è più. L'ottanta per cento della città è distrutto: palazzi e scuole, ospedali, teatri, piazze. Restano solo macerie incandescenti mentre i carri armati continuano a sparare nelle strade deserte. La conquista è fondamentale per l'avanzata di Mosca, che punta ad avere il controllo della costa del Mar d'Azov e a creare un ponte tra la Crimea e la Russia.

Venti giorni di bombe non hanno piegato chi tra quelle strade raccoglie i ricordi di una vita. In tanti sono fuggiti, ma più di 200mila persone sono intrappolate in quello che descrivono come «un inferno gelido». Non c'è cibo, non c'è elettricità, non c'è il riscaldamento, comunicare con l'esterno è diventato quasi impossibile. I morti sono stati ammassati nelle fosse comuni, oppure sepolti in quello che resta dei giardini, sfidando i missili e le bombe.

«Dima, mamma è caduta il 9 marzo. Veloce, quasi senza accorgersene», si legge in un bigliettino indirizzato a Dimitry e scritto dal fratello, che ha indicato nome e cognome numero di telefono, indirizzo, numero di appartamento. Stava fuggendo dalla città e voleva essere sicuro che le sue parole arrivassero a destinazione: «La casa è stata distrutta, bruciata. Dima, scusami per non aver salvato la mamma! L'ho sepolta nel cortile dell'asilo». Per farlo, ha rischiato, scavando nel terreno gelato - «profondità due metri» - mentre i proiettili attraversavano l'aria. Nel bigliettino è disegnata anche una mappa.

A Mariupol ogni cosa è cambiata, ogni famiglia è distrutta. «Qui c'è la casa dove sono nato, quello che ne rimane. La normalità non tornerà più. Non sento i miei genitori da due settimane e nessuno sa cosa stia succedendo - racconta Oleg Klimenko, che abita vicino a Kharkiv - Mariupol verrà completamente distrutta». Chi è rimasto, è intrappolato «in un Hunger Game», un gioco al massacro, prosegue Klimenko.

Anche la casa di Alevtina Scevtsova, poco distante dal teatro bombardato dai russi, non esiste più. L'intero centro della città portuale sul Mar Nero si è sgretolato sotto le esplosioni. Alevtina è riuscita a scappare e con la sua bambina di 8 anni. Si trova a Kryvyi Rig, non lontano da Dnipro. «Quando è iniziato l'assedio, era il compleanno di mio fratello - racconta - volevamo festeggiare, mio marito ha detto che la Russia aveva attaccato». L'escalation è stata terrificante, «l'8 marzo sono saltate le finestre. Dormivamo nel corridoio, vestiti».

 Poi sono arrivati i razzi, i missili, le bombe sull'ospedale pediatrico, l'attacco aereo al teatro, le esplosioni che hanno distrutto la scuola d'arte dove erano nascosti in 400. Anche Natalia Hayetska è riuscita a fuggire insieme ai genitori, anziani. «Eravamo senza acqua ed elettricità. Le persone coprivano i cadaveri con coperte. Altri scavavano fosse nei cortili, sapendo che nessuno sarebbe andato a dare a quei corpi una vera sepoltura», ricorda.

La madre Halyna Zhelezniak, 84 anni, è sconvolta: «È la prima volta nella mia vita che provo tanto orrore». E il marito Ihor aggiunge: «Non credo riuscirò a rivedere Mariupol com' era. Non vivrò abbastanza». I loro racconti sono simili a quelli di molti altri testimoni scappati dalla guerra, che hanno ancora negli occhi case, strade e palazzi rasi al suolo. Ieri 5.926 persone hanno lasciato la città con i propri mezzi e hanno raggiunto Zaporizhzhia.

«Mariupol non esiste più - commenta Victoria, 27 anni - Tre bambini che conoscevo sono morti per disidratazione. Nella mia città. Nel XXI secolo. La gente sta morendo di fame». Di atrocità in atrocità, i racconti si susseguono. Memorie di roghi in strada, scontri a fuoco, cadaveri esposti nelle vie. Perfino interventi chirurgici eseguiti con coltelli da cucina e oggetti trovati in casa. Viktoria Totsen, 39 anni, fuggita in Polonia, ricorda: «Gli aerei volavano sopra le nostre teste ogni cinque secondi e lanciavano bombe ovunque».

 Il marito Oleksii Kazantsev racconta: «Quando eravamo nel nostro palazzo, nello scantinato, ci sembrava che ci colpissero continuamente e cercavamo di capire perché la nostra casa fosse un obiettivo. Quando siamo usciti, ci siamo resi conto che la stessa cosa era successa in tutta la città. Avevano lanciato bombe su ogni palazzo, senza distinzione».

Domenica il colonnello generale Mikhail Mizintsev, direttore del centro di gestione della difesa nazionale di Mosca, aveva invitato gli abitanti della città portuale ad arrendersi in cambio dell'incolumità. Un'offerta che è stata rifiutata. «Il colonnello Mizintsev, che in precedenza aveva guidato l'operazione militare russa in Siria, è personalmente responsabile dell'assedio», ha detto su Twitter il portavoce dell'amministrazione militare regionale di Odessa, Sergey Bratchuk.

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022.

«Non ci parliamo dal 24 di febbraio. Siete il nemico, mi ha detto, nell'ultimo messaggio». Soffre Odessa e non solo per i colpi che arrivano dal mare. «Che qui sorga una città e un porto», recita la scritta sotto la statua della zarina Caterina II che indica con la mano sinistra verso lo specchio blu del Mar Nero, ora ricoperta dai sacchi di sabbia. 

Correva l'anno 1794 e i russi avanzavano verso occidente. Embrione di quella «grande Russia» che sarebbe stata l'Unione Sovietica. Pochi passi più in là celebre scalinata immortalata da Ejzenstejn ne La corazzata Potemkin è deserta mentre suonano le sirene.

Ha sempre parlato russo Odessa, otto abitanti su dieci. «Oggi però vorrei strapparmi i denti dalla bocca per non doverlo più fare», dice Sergej, davanti all'edicola. Ora è Odesa, con una «s» sola, come la chiamano gli ucraini. 

Tatiana e Piotr camminano vicino all'Opera. Pensionati, si tengono per mano mentre il sole del mattino scalda il metallo dei cavalli di Frisia. «Mia cugina vive a Rostov. Dopo che Putin ci ha invaso ha deciso di interrompere ogni rapporto con noi. Ma non importa. Che siano maledetti tutti quanti loro». Strappi, odi.

La casa dei Sindacati

Ora è tutto tranquillo vicino a quella che fu la Casa dei Sindacati, data alle fiamme nel maggio 2014 dai nazionalisti ucraini. Ma quelle mura che rimasero lì annerite a ricordare il massacro sono una ferita che ancora sanguina in una città solitamente pacifica e dove, fino ad allora, avevano convissuto tutti: russi, ucraini, ebrei, armeni, bulgari, italiani. 

Poi, quando il governo filorusso venne sostituito con uno filoeuropeo, militanti comunisti, filo Putin, e separatisti vari si accamparono nell'edificio per protesta: in 48 trovarono la morte, carbonizzati mentre i gruppi neo-nazisti impedivano l'arrivo dei soccorsi.

Il vento che cambia

Cambia il vento a Odessa. Il sindaco Gennadiy Trukhanov fino al 2017 aveva un passaporto russo ed era visto con sospetto dai filo-ucraini. Nelle scorse settimane i suoi video su Facebook hanno espresso lo sgomento di una città intera. «Odessa è sempre stata una città di pace. Un porto dove fare affari, non un luogo in cui morire».

Barats, 73 anni, è uno dei custodi dell'Odessa World Wide Club. Un circolo culturale fondato nel 1990 che riunisce gli abitanti della città sparsi in tutto il mondo: Mosca, San Pietroburgo, New York, Parigi e giù fino all'Australia, come indica la cartina appesa nella sala conferenze del centro. 

«Mio figlio vive in Russia, è un attore famoso. E in un discorso pubblico ha supplicato i russi, non ammazzate la mia gente. Quando si è trasferito all'estero per studiare ero felice ma chissà ora, forse non potrò vederlo ma più». 

Si spegne il sorriso degli occhi azzurri di Barats mentre racconta. Famiglie divise, dilaniate da una guerra che qui nessuno si aspettava. La tv ora trasmette per lo più in ucraino. Un affronto per i russofoni di Odessa. «Volete entrare nell'Unione Europea e non tutelate noi che siamo la minoranza più forte?», dicevano fino a qualche settimana fa.

Ma ora per le strade della regina del Mar Nero nessuno osa più affrontare l'argomento. Ora è maledetta Russia. «I russi sono sempre venuti a Odessa. Hanno sempre sentito solo calore a Odessa. Solo sincerità. E adesso? Bombe contro Odessa? Artiglieria contro Odessa? Missili contro Odessa?». 

La contraerea romba in cielo mentre dalle navi russe salpate da Sebastopoli partono i colpi. «Lo senti questo rumore? È Putin che si vuole vendicare, dice che ci vuole denazificare, è a noi che si riferisce. Ma sta commettendo un crimine. Qui i russi ci sono sempre venuti. Ma in vacanza».

Le mine in spiaggia

In realtà per lo Zar prendere Odessa vorrebbe dire garantire la contiguità territoriale con la Crimea. Ma il tempo è dalla parte della perla del Mar Nero: in questo mese la resistenza di Mariupol e Mykolayiv, a est, ha permesso alla città di mettere da parte armi, cibo, medicine e di diventare «una fortezza inespugnabile».

Giù alla spiaggia il vento soffia forte e solleva la sabbia delle trincee. Ivan, tenente di Marina, si avvicina alle fortificazioni. Poco più in là, le cabine di legno di quello che era uno stabilimento balneare. «Ora qui ci sono le mine, state attenti dove mettete i piedi». 

La settimana scorsa proprio vicino alle fortificazioni hanno arrestato 12 sabotatori filo russi. «Gente che vive qua, due erano ubriachi, uno lo abbiamo ammazzato perché non aveva risposto all'altolà. Ma gli altri li abbiamo portati al fresco», racconta.

Poi tira fuori il telefono. Mostra delle vecchie foto. «Ho combattuto in Cecenia, io. Ho visto l'orrore. Non dimenticherò. E non servirò mai più al loro fianco. Ora li aspetto qui sulla spiaggia».

Cristiana Mangani per “Il Messaggero” il 22 marzo 2022.

I cadaveri sui balconi, i palazzi anneriti e distrutti, le vie di uscita bloccate. Tutto sa di morte a Mariupol, come Guernica, Aleppo, Leningrado. Nadezda Sukhorukova è riuscita a fuggire dalla città martire, ma nei giorni di bombardamenti e dolore ha scritto il suo diario di guerra, il racconto tragico del suo paese e di una popolazione annientati.

La storia di questa giovane donna ucraina pubblicata sulla sua pagina Facebook, è stata rilanciata su Twitter da Anastasiia Lapatina, giornalista del Kiev Indipendent. Nessuna speranza di salvezza nelle sue parole. «In questa città - scrive - tutti aspettano la morte. Sono sicura che morirò presto, è questione di giorni, ma vorrei solo che la morte non fosse così spaventosa».

Non c'è scampo nella città del sud che ha rifiutato la resa. «Alla polizia - è ancora il racconto di Sukhorukova - abbiamo chiesto cosa fare del corpo senza vita della nonna del nostro amico e ci hanno consigliato di metterlo sul balcone. Quanti cadaveri ci saranno sui balconi di Mariupol?». Nadezda ricorda anche come al papà del piccolo Sasha, Vitya, sia andata peggio, se c'è un peggio all'inferno. 

Il cadavere di Vitya, morto nel bombardamento della sua casa, «giaceva con la testa fracassata sul pavimento del suo appartamento al nono piano, era impossibile recuperarlo: la casa è stata colpita ancora e ancora ed è bruciata assieme a quel corpo». Russia e Ucraina avevano approvato un percorso ad hoc per l'evacuazione dei cittadini da Mariupol verso un territorio controllato da Kiev.

Ma Mosca, due sere fa, ha lanciato un ultimatum alle forze ucraine nella zona: potranno andarsene senza scontri a fuoco, abbandonando però armi e munizioni. Ultimatum rifiutato dal governo ucraino: «Non se ne parla - ha detto il vice primo ministro Iryna Vereshchuk - Non si parla di resa o deposizione delle armi. Ne abbiamo già informato la parte russa».

Con il risultato che degli otto corridoi umanitari concordati per la giornata di ieri, nemmeno uno è potuto partire da Mariupol. E anzi - ha denunciato il governatore della regione di Zaporizhzhia, Olexandr Starukh, «alcuni autobus che stavano evacuando bambini sono stati presi di mira dalle forze russe e alcuni di loro sono stati feriti in modo grave: quattro sono stati portati in ospedale» e due sarebbero in «condizioni gravi». I russi parlano invece di 243 persone che sarebbero riuscite ad allontanarsi dall'assedio.

Ma la conferma di quanto sia ormai impossibile lasciare quell'inferno arriva anche dal presidente della Croce rossa italiana e della Federazione internazionale della società di Croce rossa e della Mezzaluna rossa, Francesco Rocca, che si è recato in Romania e in Ucraina.

«A Mariupol - spiega - non c'è più accesso sia in uscita che in entrata. E chi è ancora lì non ha cibo, acqua, gasolio ed elettricità». Rocca fa anche un appello alla solidarietà internazionale: «I bisogni dell'Ucraina stanno aumentando» e quindi, pur ringraziando tutti, voglio avvisare che «non si tratta di uno sprint ma di una maratona» di solidarietà.

Intanto, cresce il bilancio delle vittime tra i civili e raggiunge oltre 3.000 persone. Ad affermarlo è il comandante del distaccamento di Azov, il maggiore Denys Prokopenko in un commento alla Cnn.

«Il bilancio aumenta ogni giorno - dichiara - ma nessuno può dire il numero esatto dei morti, poiché le persone vengono sepolte in fosse comuni, senza nome. Molti cadaveri restano per le strade. Alcune persone rimangono intrappolate sotto le macerie, sepolte vive».

Per la deputata Solomiya Bobrovska, membro della commissione Affari Esteri del Parlamento ucraino, «le navi da guerra russe hanno iniziato a colpire gli edifici che sono sulla riva» e usano «artiglieria pesante, missili ed aerei per attaccare dal cielo». Lei afferma che sono circa 5mila i morti.

«Sappiamo - aggiunge - che la battaglia si è spostata nel centro per il secondo giorno consecutivo». Ovunque è distruzione. «Spero che nessuno veda mai quello a cui ho assistito io - sono i ricordi drammatici del console greco a Mariupol, Manolis Androulakis, l'ultimo diplomatico europeo a lasciare la città assediata -. Mariupol entrerà a far parte delle città che sono state totalmente distrutte dalla guerra: Guernica, Coventry, Aleppo, Grozny, Leningrado».

La loro resistenza passerà alla storia. Negli ultimi giorni anche i media internazionali hanno lasciato la città. «C'è un silenzio da cimitero - ricorda ancora Nadezda che, solo due giorni fa, è riuscita a uscire attraverso un corridoio umanitario e ora si trova a Mangush -, non ci sono voci, non ci sono bambini e nonne sulle panchine. Anche il vento è morto. E nel giro tra i rifugi per sfuggire alle bombe, la domanda è sempre la stessa: Kiev è ancora ucraina?».

Ucraina, spuntano le foto satellitari del teatro di Mariupol. Mentana: sono la prova che è un crimine di guerra. Il Tempo il 17 marzo 2022.

Una indicazione esplicita ignorata dai russi che hanno bombardato lo stesso. L’azienda statunitense Maxar Technologies ha diffuso nuove immagini satellitari che mostrano come nel cortile del teatro di Mariupol colpito dall'esercito russo ci fosse la scritta "bambini". Il consiglio comunale della città ucraina ha affermato che le forze russe hanno "intenzionalmente e cinicamente distrutto il teatro drammatico nel cuore di Mariupol. L’aereo ha sganciato una bomba su un edificio dove si nascondevano centinaia di pacifici residenti di Mariupol".

A diffondere la foto su Instagram è il direttore del Tg La7, Enrico Mentana. Sui due lati dell'edificio si distinguono le scritte in caratteri cirillici. "È l'immagine che prova un crimine contro l'umanità. Questo era il teatro di Mariupol, fotografato dal cielo poche ore prima del bombardamento che ha provocato la strage. Due evidenze: l'edificio era isolato, e non poteva essere colpito per sbaglio; e soprattutto agli estremi era scritta sull'asfalto e chiaramente leggibile da aerei e droni una parola, "deti". Vuol dire bambini", commenta Mentana. 

Nel teatro obiettivo dell’attacco russo denunciato dalle autorità ucraine, si erano rifugiate più di 1.000 persone. Queste le notizie diffuse su Telegram dal sindaco, Vadim Boichenko, che denuncia "un’altra tragedia". Human Rights Watch ha parlato di "centinaia di civili" che avevano trovato riparo nel teatro mentre la Russia ha negato ogni responsabilità puntando il dito contro il battaglione Azov. 

Da corriere.it il 17 marzo 2022.

L’azienda statunitense di satelliti Maxar Technologies ha distribuito delle immagini satellitari — realizzate il 14 marzo scorso — che mostrano come nel cortile del teatro di Mariupol, bombardato oggi (16 marzo, ndr), fosse stata dipinta la scritta «bambini», con i caratteri in cirillico («????», «deti»). 

La parola di quattro lettere, in maiuscolo e on grandi caratteri di colore bianco, è ben visibile davanti e dietro il teatro. Per far sì che gli eventuali attacchi non prendessero di mira un obiettivo dove c’erano anche bambini e dove oltre mille persone avevano trovato rifugio. 

Eppure nel pomeriggio l’edificio è stato bombardato con ogni probabilità da forze russe (che però hanno negato di essere i responsabili). Il consiglio comunale ha affermato che le forze russe hanno, quindi, «intenzionalmente e cinicamente distrutto il teatro nel cuore di Mariupol». 

L’azienda satellitare ha annunciato la distribuzione di nuove immagini, non appena queste saranno disponibili. Secondo le autorità cittadine di Mariupol, il teatro è stato colpito da una bomba lanciata da un caccia russo.

Mauro Evangelisti per il Messaggero il 17 marzo 2022.

«Un aereo ha sganciato una bomba su un edificio dove si nascondevano centinaia di pacifici residenti di Mariupol» denuncia nel tardo pomeriggio il consiglio comunale della città. Poco dopo cominciano a rimbalzare su Telegram delle immagini terribili, il Teatro Drammatico distrutto, piegato su se stesso, con il fumo che ancora si alza dalle macerie, «dentro c'erano centinaia di civili, non riusciremo a salvare tutti». Sui due lati dell'edificio c'era scritto in grande la parola «bambini». 

Secondo Nexta Tv, un'altra bomba è stata lanciata contro un centro sportivo con una piscina, il Neptun, sempre a Mariupol, dove erano nascosti donne e bimbi. Il capo dell'amministrazione militare regionale, Pavlo Kyrylenko, scrive: «Stanno cercando di distruggere fisicamente i residenti di Mariupol, che sono stati a lungo un simbolo della nostra resistenza. Hanno lanciato un attacco aereo sulla piscina Neptun. 

Donne incinte e donne con bambini sono ora sotto le macerie». La lista delle tragedie e degli attacchi purtroppo è molto più lunga. Ci sono i razzi contro un convoglio di civili che stava fuggendo da Zaporizhzhya, tra i feriti anche un bambino. E ieri si è parlato degli spari sulle persone in fila per il pane, a Chernihiv, a nord di Kiev, dieci i morti, secondo una notizia diffusa dall'Ambasciata americana a Kiev. 

 Il ministero della Difesa russo ha smentito. Non solo: in serata è emerso che sempre a Chernihiv il servizio per le emergenze, dopo aver sgomberato le macerie, di un dormitorio bombardato, ha rinvenuto i corpi di 5 persone tra cui 3 bambini. Segnalati nuovi bombardamenti sui palazzi della periferia di Kiev, mentre di nuovo a Mariupol, città martire a sud-est dell'Ucraina, i militari dell'esercito di Putin continuano a tenere in ostaggio 500 tra infermieri, medici e pazienti. 

TRAPPOLA In totale sono 300mila i cittadini intrappolati in una città assediata dai russi, con bombardamenti costanti, dove non c'è acqua corrente, mancano cibo e riscaldamento, non vengono lasciati passare neppure gli aiuti umanitari. Altro fronte caldo a sud: lancio di missili, nella notte tra martedì e mercoledì, dalle navi della flotta russa contro Odessa, nel tratto che divide la città dal confine romeno: «Ha il sapore quasi una minaccia, un avvertimento per dire alla Romania di non inviare aiuti» osserva Ugo Poletti, editore dell'Odessa Journal. L'esercito di Putin sembra agire con ancora più spietatezza, incurante delle trattative dai tavoli della diplomazia, e ieri sono state numerose le segnalazioni di nuovi attacchi, anche contro i civili, anche contro le colonne di auto che tentavano di fuggire da Mariupol.

Sono proseguiti anche i rapimenti degli amministratori locali delle varie cittadine a Est che i russi stanno tentando di occupare. Secondo il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ieri sono stati sequestrati sindaco e vicesindaco di Skadosk, non lontano da Kherson. Ieri però il capo dell'ufficio presidenziale ucraino Tymoshenko ha annunciato che grazie a un'operazione speciale è stato liberato il sindaco di Melitopol, Ivan Fedorov, rapito nei giorni scorsi e sostituito dai russi con una collaborazionista.

Ma l'attenzione di ieri pomeriggio si è spostata sul bombardamento del teatro di Mariupol. Costruito nel 1960, si trovava nel centro della città, circondato da un bel prato verde, in rete ci sono molte immagini che mostrano la normalità delle feste natalizie, con gli addobbi e la gente che passeggia. Da ieri pomeriggio la sua facciata bianca, i quattro pilastri con capitelli sormontati da una trabeazione e timpano sul modello di un tempi classico, non ci sono più. 

I russi hanno bombardato la struttura, distrutto il cuore pulsante della cultura della cittadina ucraina. Come in altre occasioni, negano o affermano che che dentro vi fossero militari. Ma tutte le testimonianze concordano: all'interno del teatro c'erano i rifugiati, persone che avevano trovato riparo, visto che Mariupol è sempre più una città fantasma, con palazzi distrutti, carenza di cibo, gas ed elettricità. Il vicesindaco Sergei Orlov ha spiegato alla Bbc: «Pensiamo che all'interno vi fossero tra le 1.000 e le 1.200 persone». 

Sempre su Twitter il profilo del parlamento ucraino nel tardo pomeriggio denunciava: «Non si sa quante persone siano morte sotto le macerie. Ci sono feroci battaglie. Nessuno può raggiungere i blocchi, non sappiamo se ci sono sopravvissuti». Oleksandra Matviichuk, responsabile del Centro per le libertà civili dell'Ucraina: «I russi hanno lanciato una bomba sul teatro drammatico di Mariupol, designato come luogo di ritrovo per le persone che hanno perso la casa e i mezzi di sussistenza. Tra coloro che erano in teatro, c'erano molti bambini e pazienti che necessitavano di attenzioni speciali». Secondo il consiglio comunale cittadino «le forze russe hanno intenzionalmente e cinicamente distrutto il Teatro Drammatico, l'aereo ha sganciato una bomba su un edificio dove si nascondevano centinaia di pacifici residenti». Che senso ha colpire un teatro con dei civili dentro?

La spiegazione iniziale dell'esercito invasore è che riteneva che all'interno vi fossero militari del battaglione Azov (formazione di estrema destra ucraina). L'esercito russo ha anche confezionato un'altra spiegazione: «Non abbiamo bombardato noi il teatro», il battaglione Azov avrebbe fatto esplodere il teatro con dentro i civili per fare ricadere la colpa su Mosca. 

Si tratta di una ricostruzione usata già in molti altri episodi, tanto che qualcuno dall'Ucraina ha fatto ironia amara: per i russi quelli dell'Azov sono milioni e ogni luogo che colpiscono. La strategia è collaudata: negare sempre, anche ciò che è evidente (il governo russo continua a sostenere che non c'è stata alcuna invasione). Era stata usata anche dopo il bombardamento dell'ospedale: si erano avvelenati i pozzi, sostenendo, che le donne ferite (purtroppo una è morta) erano attrici. 

REPLICA Dice il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba: «Un altro crimine orrendo a Mariupol. Un massiccio attacco russo sul Drama Theatre, dove si nascondevano centinaia di civili. L'edificio adesso è completamente distrutto, i russi non potevano non sapere che era un rifugio per i civili». D'altra parte, ciò che appare indiscutibile è che l'esercito russo da 21 giorni è entrato in Ucraina, lancia missili e bombarda anche palazzi e obiettivi civili, Mariupol è allo stremo, senza cibo e acqua. Questi sono fatti e non c'è propaganda che possa smentirlo. Sempre nei dintorni Mariupol, secondo gli ucraini, ieri è stato ucciso il quarto generale russo, si chiamava Oleg Mityaev.

La città-martire della Guerra in Ucraina. Le scritte “bambini” sul Teatro bombardato a Mariupol: “Distrutto, c’erano 500 civili”. Vito Califano su Il Riformista il 17 Marzo 2022. 

Il sindaco di Mariupol ha affermato che non perdoneranno mai il bombardamento del Teatro Drammatico: “Oggi c’è stata una terribile tragedia per la nostra Mariupol, di cui non è rimasto praticamente nulla. Il Teatro Drammatico, dove si nascondevano le persone, è stato distrutto da un bombardamento. Un luogo dove hanno trovato rifugio più di mille persone. Questa è una terribile tragedia, non lo perdoneremo mai. Ma non ci arrenderemo”. Vadym Boychenko commenta così, in un video sul canale Telegram del consiglio comunale. Per le autorità locali i russi erano a conoscenza del fatto che nel teatro c’erano civili, soprattutto donne e bambini. E a confermarlo sembrano le immagini scattate dai satelliti Maxar Technologies: sul cortile del teatro si vedono le scritte – due, avanti e indietro – dipinte in alfabeto cirillico che recitano “bambini”.

L’edificio è stato bombardato ieri pomeriggio. Si trova nel cuore di Mariupol, la città da settimane al centro di un assedio senza scampo da parte delle forze russe. La conquista del centro di circa 500mila abitanti (prima della guerra, dei morti e delle evacuazioni) permetterebbe alla Russia di collegare il territorio della penisola della Crimea annesso da Mosca nel 2014 e quelli delle regioni del Donbass dove nello stesso anno separatisti filo-russi hanno auto-proclamato due Repubbliche autonome – in otto anni di guerra circa 14mila morti. Mariupol è la città-martire del conflitto, rappresenta uno snodo cruciale nella guerra. La gente ha usato la neve per bere, per scaldarsi i resti delle macerie in legno. Un “assedio medievale”, come l’avevano definito le autorità locali.

Le stesse avevano affermato già ieri che le forze russe hanno “intenzionalmente e cinicamente distrutto il teatro nel cuore di Mariupol. L’aereo ha lanciato una bomba su un edificio dove centinaia di pacifici residenti di Mariupol si stavano nascondendo”, ha spiegato in una nota il Consiglio comunale. “Si sa che dopo la bomba, la parte centrale del teatro Drama era distrutta e l’ingresso al rifugio anti-bombe nel palazzo era distrutto. È impossibile trovare parole che possano descrivere il livello di crudeltà e cinismo con cui gli occupanti russi stanno distruggendo la popolazione civile della città ucraina dal mare. Donne, bambini e anziani restano nel mirino del nemico. Sono persone del tutto disarmate e pacifiche”. Si parlava ieri di mille persone, morti e feriti, della difficoltà di scavare tra le macerie per portare soccorsi a causa dei continui attacchi.

Il Cremlino ha parlato di nuovo del Battaglione Azov, la brigata neonazista che dopo aver combattuto in Donbass contro i separatisti è entrata a far parte della Guardia Nazionale. Il pretesto per la “denazificazione” propagandata da Vladimir Putin. Ebbene, come con il caso dell’ospedale bombardato, anche dietro l’attacco al teatro, secondo il ministero della Difesa di Mosca, c’è la famigerata brigata. “Il 16 marzo l’aviazione russa non ha colpito nessun obiettivo dentro il perimetro della città”, si legge in una nota del ministero citata dalla Tass. “Secondo dati certi del ministero i militanti del battaglione nazionalista ucraino ‘Azov’ hanno messo in atto un’altra provocazione, facendo saltare in aria il teatro che avevano minato in precedenza. Recentemente gli abitanti di Mariupol in fuga hanno rivelato che nel teatro gli estremisti di Azov avrebbero preso in ostaggio i civili utilizzando i piani superiori come postazioni di fuoco. In questo contesto, visto il pericolo per i civili, il teatro nel centro della città non è mai stato considerato un obiettivo da colpire”.

Secondo le autorità cittadine il Teatro è stato distrutto da una bomba sganciata dall’esercito russo. “Finché non ne sapremo di più, non possiamo escludere la possibilità di un obiettivo militare ucraino nell’area del teatro, ma sappiamo che il teatro ospitava almeno 500 civili“, ha dichiarato invece Belkis Wille, referente di Human Rights Watch. “Ci sono serie preoccupazioni su quale fosse l’obiettivo in una città sotto assedio da giorni e in cui telecomunicazioni, elettricità, acqua e riscaldamento sono stati quasi completamente interrotti”. Il Presidente ucraino Zelensky ha paragonato la situazione di Mariupol all’assedio di Leningrado dei nazisti ai danni dei russi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Gli Anziani. Bombe sull'ospizio, 56 anziani morti. Uccisi 115 bambini. 10 milioni di sfollati. Andrea Cuomo su Il Giornale il 21 marzo 2022.  

Un altro orrore compiuto dall'esercito di Putin è stato l'attacco, denunciato in un posto su Telegram rilanciato dalla Bbc dal governatore della regione di Lugansk Serhiy Hayday, contro un ospizio della città di Kreminna, nell'Ucraina orientale. Lo scorso 11 marzo un carro armato avrebbe aperto al fuoco contro la struttura in modo «cinico e deliberato», provocando la morte di 56 persone e rapendo gli altri 15 ospiti scampati al massacro per trasferirli in un'altra struttura geriatrica nella stessa regione, a Svatove. Naturalmente le circostanze e i numeri dell'assalto non possono essere verificati in modo indipendente, anche perché secondo le forze di polizia è ancora impossibile raggiungere il luogo della tragedia, quindi bisogna dar fede alla denuncia del governatore. 

Quelle contro gli anziani sono tra le infamie peggiori compiute dall'esercito russo in Ucraina. Come denuncia Natalia, trasferitasi da Kiev a Leopoli per dare una mano ai volontari di Mediterranea Saving Humans che assistono chi resta e chi fugge, le persone più vecchie sono le più fragili e le meno protette: «Un signore di 86 anni era rimasto solo al sesto piano di un palazzo senza corrente né acqua. Molti anziani sono rimasti senza niente».

Come gli anziani anche i bambini sono particolarmente colpiti dal conflitto. Secondo l'Ukrainska Pravda, che a sua volta cita l'ufficio del procuratore generalei, in oltre tre settimane sono stati uccisi 115 bambini mentre altri 140 sono rimasti feriti. Il maggior numero si registra nella regione di Kiev dove hanno perso la vita 58 bimbi. Numeri perfino sottostimati secondo quanto riferisce l'Unicef, l'agenzia per l'infanzia delle Nazioni Unite, che parla di 150 bambini uccisi dall'inizio dell'invasione e di 160 feriti. Poi ci sono i numeri spaventosi degli sfollati: «Almeno 1,5 milioni di bambini - dice il portavoce dell'Unicef Joe English - sono stati resi rifugiati dall'invasione non provocata dell'Ucraina da parte della Russia e altri 3,3 milioni di minori sono attualmente sfollati all'interno del Paese. Ognuno di questi è un singolo bambini la cui vita è stata fatta a pezzi, il cui mondo è stato capovolto». Spaventoso queso calcolo: «In media, ogni giorno negli ultimi 20 giorni in Ucraina, più di 70mila bambini sono diventati rifugiati. E ciò equivale a circa 55 ogni minuto, quindi quasi uno al secondo».

La strage dei bambini che nei giorni scorsi ha spinto gli abitanti di Leopoli a inscenare una suggestiva protesta, con centonove passeggini vuoti (corrispondente al numero di bambini uccisi a venerdì scorso) distribuiti su sei file nella centralissima piazza del mercato della città, di fronte al media center che accoglie, nella città dell'Ovest, giornalisti da tutto il mondo.

Secondo l'ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani dell'Onu (Ohchr) dall'inizio del conflitto sono stati uccisi 902 civili e 1.459 sono stati feriti, per lo più vittime dei bombardamenti e degli attacchi missilistici. 

I Bambini. Responsabilità collettiva. I bambini sono le prime vittime di ogni tragedia umanitaria. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.

A Venezia esperti del settore ed europarlamentari discutono le violazioni ai diritti dell’infanzia in tutto il mondo, dall’Ucraina ai conflitti dimenticati. Tra i relatori anche Makeiev Oleksii, vice-ministro degli Affari Esteri ucraino, che ha portato alla conferenza uno spaccato di vita quotidiana nel suo Paese

Il Monastero di San Nicolò al Lido di Venezia come sfondo, le parole sui diritti negati ai bambini in tanti luoghi del pianeta, al centro. La conferenza di alto livello sullo stato globale dei diritti umani, alla sua seconda edizione, ha affrontato un tema di per sé sempre attuale e reso ancora più chiaro dalla guerra in Ucraina. Violenza, abusi, povertà, malnutrizione, lavoro e spostamenti forzati, depressione e matrimoni forzati sono le piaghe principali che affliggono i più piccoli in tutto il mondo, come ha ricordato nel suo discorso d’apertura la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola.

Le sofferenze dei bambini

Al convegno sono intervenuti personaggi di spicco nella lotta per i diritti dell’infanzia: Veronica Gomez, presidente del Global Campus of Human Rights, associazione organizzatrice dell’evento, Ole von Uexküll, direttore esecutivo della Right Livelihood Foundation e Denis Mukwege, medico congolese vincitore del premio Nobel per la pace nel 2018.

Tanti gli esperti, provenienti dalle agenzie delle Nazioni Unite e dal mondo delle Ong: alcune delle loro testimonianze dirette mettono i brividi. Quella di Seif Sanaa, attivista egiziana che riporta la storia incredibile di una ragazza rapita da un membro dell’Isis, riuscita a scappare mentre era incinta e poi intrappolata per mesi nel quartier generale delle forze di sicurezza al Cairo, dove ha dato alla luce un bambino mai registrato ufficialmente dalle autorità.

O quella di Ibrahima Lo, autore del libro autobiografico “Pane e acqua”, che da ragazzo è arrivato in Italia partendo dal Senegal, sopravvivendo ai campi di detenzione libici e a un naufragio nel Mar Mediterraneo. «Non conoscevo il mare, perché nella mia città il mare non c’è», ha spiegato parlando del suo lungo e pericoloso viaggio.

Oppure i racconti strazianti di Essam Daod, psichiatra infantile specializzato in trattare i traumi delle persone migranti: la donna che a Lesbo cercava un modo di abortire per non partorire il frutto di uno stupro, o la ragazza che in Polonia gli parlava del padre, il suo «supereroe» che correva velocissimo inseguito da uomini armati.

Nei due giorni della conferenza sono previste tre sessioni tematiche: «Bambini dietro le sbarre», «Bambini vittime di conflitti armati e violenza» e «I giovani come motori del cambiamento». Il secondo di questi panel si è aperto con un video emozionale realizzato da Alessandro Ienzi, attore teatrale molto impegnato nella rappresentazione di «storie scomode, quelle che ci fanno vergognare»: racconta la vita di un bambino vittima di una guerra troppo difficile per lui da comprendere.

Il fenomeno è diffuso a ogni latitudine e ha assunto dimensioni allarmanti: 450 milioni di bambini nel mondo vivono in zone di conflitto, praticamente uno su sei. Più di 35 milioni sono gli sfollati, sradicati da casa propria, e in questi contesti sono avvenute circa 24mila gravi violazioni solo nel 2021, secondo i dati delle Nazioni Unite.

Violazioni in tutto il mondo

A un quadro dalle tinte fosche si è aggiunto nel 2022 un nuovo epicentro di violenza, proprio alle porte dell’Unione europea, come ha ricordato fra gli altri Benedetto della Vedova, trattenuto a Roma dalla crisi di governo e per questo intervenuto da remoto.

L’aggressione russa dell’Ucraina contribuisce infatti in maniera significativa a mettere a rischio vite e diritti dei minori. Una circostanza confermata anche da Benoit Van Keirsbilck, uno dei 18 membri della commissione dei diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite, secondo cui la situazione nel Paese è molto difficile ancora di più per quei bambini che necessitano di attenzioni speciali.

Ma soprattutto da uno dei relatori più attesi: Makeiev Oleksii, vice-ministro degli Affari Esteri ucraino, che ha portato alla conferenza uno spaccato di vita quotidiana nel suo Paese. «Il giorno dell’attacco, mia figlia mi ha svegliato dicendomi: papà, i russi ci stanno bombardando. E questo è ciò che dicono tutte le notti dei bambini ucraini ai loro genitori».

Suggerendo ai partecipanti di guardare la guerra attraverso i loro occhi, Oleksii ha menzionato la paura, le privazioni, la necessità di correre al riparo al suono di una sirena e l’impossibilità di frequentare la scuola per i figli degli ucraini. Al momento, dice, 215 minori sono morti, 600 sono rimasti feriti e milioni sono dovuti espatriare, lontano dai propri genitori e accolti da famiglie europee a causa del conflitto.

Purtroppo, si tratta solo di uno dei tanti teatri in cui queste ingiustizie avvengono. Secondo l’Onu nel 2021 i Paesi più colpiti da gravi violazioni sono stati Afghanistan, Repubblica democratica del Congo, Palestina, Somalia, Siria e Yemen.

In molti casi i governi e le istituzioni dell’Unione europea non sono esenti da colpe, ha sottolineato la deputata belga Maria Arena, presidente della sottocommissione per i Diritti dell’uomo dell’Eurocamera. Ad esempio quando ai figli dei militanti dell’Isis non viene concessa la protezione che meritano nei nostri Paesi, quando armi europee vengono vendute all’M23, un gruppo militare ribelle autore di stupri di massa nel nord-est del Congo, o quando l’Italia prende accordi con le autorità della Libia, dove anche i bambini vengono imprigionati. «Non dobbiamo fuggire dalle nostre responsabilità né mantenere alcuna complicità con chi viola i diritti umani, altrimenti perderemo ogni credibilità», ha detto.

Di fronte a tanta e così diffusa sofferenza, sono emersi impegni, idee, speranze per il futuro. Ma anche avvertimenti per quello che l’Europa e le organizzazioni internazionali devono e non devono fare. In uno degli ultimi interventi della giornata, l’europarlamentare del Partito democratico Pierfrancesco Majorino ha ribadito la necessità di una «maggiore assunzione di responsabilità collettiva»: gli strumenti per fermare questi orrori ci sono, ma hanno bisogno di una maggiore connessione, una regia condivisa che amplifichi il risultato di ogni sforzo.

E non si deve abbandonare il campo quando una tragedia perde l’attenzione dell’opinione pubblica: un rischio che vale anche per l’Ucraina, visto che si è già concretizzato in altri luoghi del mondo, alle prese con emergenze inizialmente oggetto di grande ascolto da parte della comunità internazionale e poi presto più o meno dimenticate. Ma anche quando telecamere si spengono, le notizie si diradano e l’interesse si affievolisce, la sofferenza dei bambini non scompare.

Oleksandr, il 14enne eroe di Bucha che ha salvato 30 persone. Rosa Scognamiglio il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.

Oleksandr Hutsal ha sfamato per un mese intero 30 persone oltrepassando i check point russi. "Avevo paura", ha raccontato.

Oleksandr Hutsal ha solo 14 anni ed è già un eroe. Mentre le bombe cadevano su Bucha, a pochi metri dalla Capitale ucraina, ha salvato la vita a 30 persone. Lo ha fatto da solo, sfidando i check point russi per procurare acqua e cibo ai rifugiati. "Ero spaventato", ha raccontato. Ma il coraggio e l'altruismo hanno vinto la paura.

La storia

Se la speranza avesse un volto sarebbe quello del giovane Oleksandr: due grandi occhi blu e uno sguardo schietto, genuino. Ma soprattutto un cuore immenso e una impareggiabile generosità d'animo. Sì, perché nonostante la giovane età Oleksandr è già un eroe. Per più di un mese ha sfamato la sua famiglia e altre trenta persone che si erano riparate in un seminterrato alle porte di Bucha durante i giorni del terribile massacro. Lo ha fatto con la consapevolezza di un piccolo, grande uomo e la spontaneità di un bambino. Per 30 giorni la sua unica preoccupazione è stata quella di fare scorte di cibo, acqua e legna. Questo ha significato dover attraversare i check point russi, camminare sulle macerie e schivare gli spari. "Ho avuto paura", ha ammesso.

Il coraggio

Una cantina buia e senza elettricità in cui, di notte, la temperatura scendeva a -8 gradi. Un bugigattolo angusto, gelido che Oleksandr ha cercato di rendere confortevole per la sua famiglia e gli altri rifugiati. Mentre di giorno il papà provvedeva a mettere in sicurezza il rifugio, Oleksandr cercava di fare provviste raccattando qua e là le rimanenze dei supermercati saccheggiati dai russi. Tutte le mattine raccoglieva l'acqua da un pozzo cittadino, l'unica fonte potabile rimasta a Bucha dopo il massacro. Lo ha fatto mentre i missiili cadevano sulla piccola cittadina ucraina, sfidando il pericolo, la paura e la morte.

Le testimonianze

Poco distante dal rifiugio, c'era un presidio di soldati russi. Chi era nascosto nel seminterrato col 14enne considera un miracolo che tutti siano riusciti a sopravvivere. La paura più grande era quella di essere colpiti dalle bombe. Alcuni testimoni ha raccontato a Il Messaggero che "quando un attacco aereo ha distrutto una casa vicina, le finestre del seminterrato sono crollate, ma fortunatamente nessuno è rimasto ferito". Alla sopravvivenza, invece, ci ha pensato il coraggiosissimo Oleksandr. Quando ha saputo che la sua storia era stata raccontata dai media di tutto il mondo ha provato un grande imbarazzo. Lui non si sente un eroe, ha spiegato, ma lo è. Un piccolo, grande eroe.

Anna Zafesova per “La Stampa” l'11 aprile 2022.

«Bambini, perdonateci per il disordine, vivete in pace e studiate bene, dio vi protegga». Firmato «Russi». Il messaggio lasciato sulla lavagna della scuola di Katyuzhanka, nella regione di Kiev, è scritto in una bella calligrafia, senza errori, a differenza di altre scritte sgrammaticate lasciate dagli invasori in molte case saccheggiate delle città ucraine. 

Sembra essere fatto apposta per illustrare le buone intenzioni dei soldati russi, e infatti viene diffuso da Margarita Symonian, capa della propaganda del Cremlino, nello stesso giorno in cui alla stazione di Kramatorsk è stata provocata una strage da un missile russo sulla fiancata del quale c'era scritto «Per i bambini».

La difesa dei più piccoli sembra la nuova linea d'attacco dell'ideologia del Cremlino, riesumando un classico della propaganda sovietica, il cui simbolo è la statua del soldato dell'Armata Rossa che tiene in braccio una bambina, a Berlino. 

Che le scuole ucraine vengono saccheggiate e devastate, distrutte e imbrattate di scritte insultanti verso gli ucraini, non viene mostrato, così come non si parla delle fosse per seppellire civili uccisi, scavate a poche decine di metri.

I telespettatori russi non vedono nemmeno la bambina ucraina alla giacca della quale la mamma ha cucito un'etichetta plastificata, di quelle che si appendono alle valigie, per poterla identificare nel caso finissero sotto un bombardamento.

I bambini sono vittime della guerra: ieri la commissaria per i diritti umani del parlamento ucraino Lyudmila Denisova ha raccontato che 176 minori sono stati uccisi e 324 feriti, in 44 giorni di guerra. 

Ma stanno diventando anche un'arma: almeno 1.937 ragazzini ospitati negli orfanotrofi ucraini sono stati portati in Russia dall'inizio della guerra, e alla Duma circola la proposta di approvare un regolamento di adozione semplificato per i piccoli ucraini.

Secondo Denisova, sono già state avviate 289 pratiche di adozioni: «Sono i nostri figli. Restituiteceli», ha detto alla televisione ucraina. E Maryna Lypovizkaya, della Ong Magnolia, che si dedica ai bambini scomparsi, ha raccontato alla Cnn che dall'inizio della guerra sono almeno due mila i minori che mancano all'appello: alcuni sono forse rimasti uccisi nei bombardamenti, altri si sono persi nella fuga dalle città assediate, ma altri probabilmente sono finiti dall'altra parte.

Allo stato attuale, sono 131 mila i minori ucraini che sono stati portati in Russia, su un totale di 674 mila cittadini sfollati verso il territorio del Paese nemico. Denisova denuncia una «deportazione forzata», e numerosi ucraini fuggiti da Mariupol hanno raccontato ai giornalisti occidentali che i militari russi non gli avevano lasciato alcuna scelta: «Siamo stati recuperati dalle cantine dove ci nascondevamo dalle bombe e caricati su dei pullman». 

Una volta trasferiti nel Sud della Russia, sono stati collocati in tende e palestre, fotografati e schedati con rilevazione delle impronte digitali: «Mi hanno trattato come fossi stata una criminale, una proprietà della Russia», ha raccontato una donna sotto anonimato alla Cnn.

Gli ufficiali dell'Fsb guardano il contenuto dei telefoni dei profughi, li interrogano sulle loro idee politiche, sulle attività svolte dai parenti rimasti in Ucraina e dagli eventuali conoscenti in Russia, li sequestrano i cellulari e i passaporti. 

«Dobbiamo impedire che in Russia si infiltrino i nazisti ucraini», spiegano queste procedure le autorità russe e, secondo molti testimoni, chi non supera i test, soprattutto gli uomini, sparisce. 

Gli altri ricevono 100 euro in rubli, una sim card russa e dei documenti provvisori, e vengono caricati su treni e pullman diretti verso varie regioni della Russia, soprattutto remote e disagiate. Denisova ha denunciato ieri la presenza di centinaia di ucraini - soprattutto donne, ma anche 147 bambini, tra cui diversi neonati - chiusi in un campo recintato a Penza: «Non sanno dove si trovano, né se verranno spostati, non possono uscire e vengono sorvegliati».

Una deportazione che però sembra per ora proseguire in una maniera non sistematica: mentre alcuni gruppi di cittadini ucraini vengono trasferiti in modalità che ricordano un confino, altri sono riusciti a scappare e a raggiungere la frontiera russa, per tornare in Ucraina. 

Una donna di Mariupol ha raccontato di essere riuscita a viaggiare fino a Pietroburgo e a passare il confine con l'Estonia, nonostante l'assenza del passaporto, sequestrato dai russi proprio per impedire l'espatrio dei profughi forzati: «Vogliono deportarci e assimilarci, come avevano fatto ai tempi di Stalin con altri popoli».

A Irpin affiorano i corpi dei bimbi violentati. La superstite: "Stuprata di fianco a mia madre agonizzante".  Brunella Giovara su La Repubblica il 6 Aprile 2022.

Nelle zone liberate intorno a Kiev i corpi delle vittime marchiati da svastiche e "Z". Qualcuno ha urlato? No, perché il più delle volte li hanno imbavagliati. Possiamo immaginare il terrore, e il dolore, sofferto dai bambini di Irpin. Di alcuni si sanno anche i nomi, perché man mano che i loro cadaveri vengono ritrovati e in qualche modo ricomposti, i parenti possono riconoscerli, sempre che siano ancora vivi.

Nuove immagini girate da un drone delle forze ucraine mostrano le forze russe sparare su un ciclista a Bucha, in via Yablunska alle coordinate GPS 50.54148, 30.228898, dove sono stati filmati e fotografati più cadaveri. La veridicità del video è stato confermato da 'Bellingcat', gruppo di giornalismo investigativo con sede nei Paesi Bassi specializzato in verifica dei fatti e intelligence open source, e da VoxCheck, progetto di fact-checking ucraino.

Bambini come scudi umani: l'atrocità della guerra e il triste bollettino dei morti. Il Tempo il 03 aprile 2022.

L’Ucraina accusa le truppe russe di usare i bambini come «scudi umani» per evitare di finire sotto tiro nel corso della loro ritirata da Kiev e dalle zone limitrofe. Questa tecnica - viene spiegato - sarebbe stata usata nella città di Bucha ora nuovamente in mano alle forze militari ucraine. Dall’inizio della guerra in Ucraina 158 bambini sarebbero rimasti uccisi e circa 258 feriti dalle forze russe secondo il procuratore generale ucraino, che lo ha riferito su Telegram. La maggioranza delle vittime sono attribuite alla regione di Kiev (75). Seguono la regione di Donetsk (73), Kharkiv (56), Chernihiv (47), Mykolaiv (32), Luhansk (31), Zaporizhzhia (22), Kherson (29), Sumy (16), Zhytomyr (15), Kiev città (16). I dati relativi ai bambini uccisi e feriti a Mariupol, e in alcune aree di Kiev, Chernihiv e la regione del Luhansk sono in fase di ulteriore aggiornamento.

La strage degli innocenti: "Uccisi da Mosca 128 bimbi". Maria Sorbi su Il Giornale il 25 marzo 2022.

Giocavano. Semplicemente. Ma quello che hanno preso a calci come un pallone era un ordigno rimasto a terra. Ora tre ragazzini di 15, 13 e 12 anni sono ricoverati in gravi condizioni nel villaggio di Obilne, vicino a Zaporizhzhia. Lo riferisce il Servizio di emergenza ucraino. I militari ricordano che i russi usano mine antiuomo, anche quelle cosiddette «a farfalle» che possono essere di vari colori. Un altro pericolo, avvertono sempre i militari, sono gli ordigni inesplosi che «possono sembrare un giocattolo, un telefono cellulare, una penna a sfera: qualsiasi oggetto può essere riempito di esplosivo».

Dopo un mese dall'inizio della guerra, anche giocare è diventato un lusso. I bambini ucraini il 24 febbraio hanno lasciato le loro stanzette dalla sera alla mattina, avevano i vestiti pronti sulla sedia per andare a scuola e invece li hanno indossati in fretta e furia per scappare. Non hanno portato con sè giocattoli. Nelle pause tra una sirena e l'altra, si divertono con niente, con quello che trovano, scivolano sulle scale dei sotterranei come fossero al parco. E si tuffano a curiosare fra tutto ciò che vedono a terra, soprattutto se è colorato. Come possono pensare che un giocattolo sia una trappola studiata apposta per uccidere? Eppure.

Quando la guerra va a colpire l'infanzia sembra ancora più atroce, perchè oltre all'innocenza c'è l'ingenuità, c'è quella semplicità che spinge un qualsiasi ragazzino a toccare un oggetto che luccica. Finora sono 128 i bambini uccisi dal conflitto. Di alcuni conosciamo il volto e il nome, di altri no. Altri ancora sono rimasti o resteranno orfani. E tanti, tantissimi sono in fuga: in base al primo rapporto dell'Unicef, uno su due ha lasciato la sua casa. La priorità del Paese è stata: salvare i bambini, anche a costo di dividere in due la famiglia e lasciare il papà al fronte, anche a costo di metterli su un pullman da soli con in tasca un indirizzo scritto su un foglietto di carta.

A Medyka o a Dorohusk, in qualsiasi città di frontiera tra Polonia e Ucraina, non c'è donna che non attraversi il confine tenendo per mano un bambino o una bambina. Non c'è nonna che non cerchi di tranquillizzare il nipotino.

Una situazione «mai vista prima - ammette il portavoce Unicef James Elder - quasi impossibile da affrontare».

Secondo l'Unicef, 4,3 milioni di bambini (sui 7,5 milioni totali) hanno lasciato le loro case in Ucraina. Più di 1,8 milioni di loro sono diventati rifugiati, mentre altri 2,5 milioni sono sfollati all'interno del loro Paese devastato dalle bombe.

I bambini arrivano alla frontiera spesso senza documenti, spesso senza genitori. «Lì il controllo è poco efficace, e gli autisti dei mezzi diventano in qualche modo i loro tutori» spiega Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro che, insieme con l'Intergruppo del Parlamento europeo sui diritti dell'infanzia, ha fatto parte di un viaggio al confine tra Polonia e Ucraina. Se fuori dai confini la solidarietà è tanta, non si può dire che, una volta lasciata l'Ucraina, i bambini siano in salvo. Il rischio che finiscano in cattive mani è altissimo. «I bambini sono a rischio tratta - è l'allarme dell'Unicef - La guerra sta portando ad una massiccia ondata di rifugiati, condizione che porta ad un picco significativo nella tratta di esseri umani». «C'è una grande volontà di fare bene - conclude Caffo -, ma manca un coordinamento reale. Bisogna capire come affrontare il problema in maniera organica e confrontarsi con esperienze in episodi simili, come quello dell'uragano Katrina negli Stati Uniti». Nel frattempo, ovunque, le famiglie italiane aprono la porta di casa e ospitano.

Ucraina, come è complicato spiegare la guerra ai nostri bimbi: le paure e gli assurdi consigli degli "esperti". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 19 marzo 2022.

Boris è un bimbo biondo come un campo di mais carezzato da aliti di primavera. Vanta un cognome impronunciabile, un fisico da corazziere e un tocco di palla alle pendici dell'area di rigore che, a tratti, lo fa assomigliare a Oleg Blochin, indimenticato centravanti della Dinamo Kiev anni 80. Gioca a calcio nella Nuova Trezzano con mio figlio Tancredi, sette anni, che l'osserva dalla sua porta, lo applaude incrociando i guanti troppo grandi e mi chiede: «Papà, Boris è russo o ucraino?». Non so, amore, ma non è importante. Invece forse un po' lo è. Perché mio figlio è uno dei tanti bambini che sente la guerra, inspiegabilmente rimbombargli dentro. Ha il terrore che ci piovino le bombe addosso, e non ha ancora le idee chiare su chi siano davvero i buoni. Oggi ricorre la Festa del Papà più difficile della mia generazione: siamo qui a dover spiegare ai nostri piccoli l'enormità del conflitto ucraino come fosse un cartone di Peppa Pig. E questo dopo esserci, rotti la testa, ancora prima, a spiegar loro il Covid, mentre a scuola li obbligavano a sorridere dietro la mascherina, inchiodati sui banchi anche durante la ricreazione, tanti piccoli San Sebastiani trafitti dai colori a pastello, distanziati in sala mensa ad aspettare il turno della Cayenna. Se, dopo tutto quello che hanno passato, non avranno un'adolescenza traumatizzante sarà un miracolo.

VADEMECUM CONFUSO

Ora Tancredi mi afferra la gamba all'improvviso, come fa col pallone sulla linea di porta e mi dice: «Papà io ho paura...». E allora eccomi a compulsare libri e smanettare nel web per cercare una metodologia di comunicazione che non me lo faccia diventare né un hippy peace&love né un piccolo oligarca. E inciampo sulle raccomandazioni di Save The Children: «Trova il tempo di ascoltare tuo figlio quando vuole parlare»; «adatta la conversazione al bambino» (ma poi dice «non entrare nei dettagli» e «non fare paralleli con la vita comune», Pompieri ucraini in azione a Kiev dopo un bombardamento russo. La città è sotto i colpi dell'Armata rossa ormai da giorni, anche se l'avanzata dei tank di Putin sembra essersi ormai arrestata. Le immagini delle devastazioni, tuttavia, continuano a fare il giro del mondo. In attesa di una tregua. qualunque cosa significhi); «rassicurali che noi adulti di tutto il mondo stiamo lavorando duramente per risolvere questo problema», ma questa è una balla clamorosa e il ragazzino è tutt' altro che stupido. Infine Save The Children si raccomanda: «Offri un modo pratico per aiutarli», indicando, tra gli altri modi, una raccolta fondi (e qui m' insospettisco). Però, non funziona. Non funziona neanche il consiglio dello psicoterapeuta di turno: «non esponete il minore a immagini di distruzione e morte» (ma per farlo dovrei togliergli Internet e tv), e «spingete la scuola a diffondere il messaggio della Costituzione che vieta la guerra», neanche il mio piccolo fosse Sabino Cassese. Sono ancora più confuso. L'altro figlio, Gregorio Indro, anni dieci, mi preoccupa meno. Ha imparato a leggere sulla biografia di Jimi Hendrix e, ossessionato dal rock, commenta i bombardamenti suonando alla chitarra elettrica Zombies dei Cranberries, Civil War dei Guns 'N Roses e Gimme Shelter dei Rolling Stones allestendo un repertorio antibellico più potente di ogni discorso di Di Maio; si lascia invadere dalla musica, e l'angoscia gli passa subito. Il grande non mi preoccupa. Ma il piccolo è visibilmente agitato.

RAID INCOMPRENSIBILI

Non capisce proprio perché Putin abbia invaso un'altra nazione, né perché i papà degli amichetti ucraini siano costretti a partire perla guerra invece di accompagnarli ai tornei domenicali. Non comprende i raid sugli ospedali e sulla scuole, né perché alla tv -quella poca che guarda di straforo, zampettando tra i talk- ci siano dei signori che danno ragione a chi quegli stessi raid continua a farli indicandoli come un'«operazione speciale». Il problema è che non lo comprendo nemmeno io, che per mestiere dovrei cercare di spiegare bene quello che non so. Finchè il piccolo mi sfodera un sorprendente concetto di fraternità e uguaglianza uscito dall'ora di religione. Mi salva dall'imbarazzo il grande che s' avvicina e mi rassicura «Papi, ora, mentre stiamo così parliamo di Dio». Bene, Greg, questa tua profondità mi commuove. «No, Papi, intendevo Ronnie James Dio, la voce dei Black Sabbath». E attacca con Rainbow In The Dark. Mi hanno fatto intendere che Boris entrerà nella loro band... 

Domenico Quirico per “la Stampa” il 18 marzo 2022.

Quando vedo bambini e adolescenti che impugnano le armi nasce in me un senso di pietà, di compassione, e un sordo rancore verso il mondo per il modo in cui si compiono i destini umani. Anche una buona causa non giustifica usare quelle giovani vite, accostarle all'uccidere, loro che sono così inermi di fronte al tempo e alla storia. Scorro foto di ragazzini che a Leopoli si addestrano nei boschi con armi vere. Solo ieri, nei giorni che hanno preceduto l'aggressione russa, impugnavano buffi kalashnikov di legno per mimare con espressioni serissime i gesti dell'appostarsi, del mirare, dello sparare.

Solo pochi giorni e la finzione è già passata a utilizzare armi vere. Un segno, un altro, del progredire inesorabile della guerra. E poi c'è chi sciaguratamente, per ricordo, fotografa i figli con in mano fucili più grandi di loro. Se la guerra si prolunga il buio inghiottirà un'altra generazione e nel cuore di quella che era, un tempo, l'Europa della pace. È questa una delle eredità più terribili che semina dietro di sé: i ragazzi, i bambini che si abituano alla guerra, la respirano e ne sono intossicati. Che attorno alle armi aggrappano il faticoso percorso della loro condizione umana.

La guerra non li abbandonerà più, li terrà di riserva, pronti ad arruolarli per quella successiva. Che ci sarà perché si alimenterà di loro, perché non avranno masticato il pane soffice della pace. Si stenta a credere fino a che punto, a quell'età, la guerra aderisca alla carne, le resti incollata, ne sia quasi indistinta. Mi angustia il buio che avvolge queste esistenze impossibili da immaginare.

Provo a tirare qualche filo della memoria, in altri luoghi. Il Congo del confuso assalto al potere del dittatore Mobutu: eserciti che assomigliano a feroci bande di briganti e a compagnie di ventura si inseguono nelle foreste risalgono il grande fiume, si trascinano dietro reclute bambine. Incrocio un gruppo di ribelli dell'ambiguo Kabila, contrabbandiere di diamanti e guerrigliero che ha appena catturato un soldato: laidezza, terrore, sangue che scorre, un odio così indifferente, automatico da sembrare banale. 

Convocano un ragazzino, forse 13, 14 anni. Indossa una divisa verde, ma quello che colpisce sono gli stivali di gomma con cui cammina a fatica: perché sono di un numero troppo grande, lo costringono a passi lunghi, goffi per non inciampare. Tiene con le due mani un mitra, lo stringe disperatamente come se fosse la sua cosa più preziosa. E certo lo è. Il prigioniero è a terra, sfigurato dalle botte, dal naso fracassato e dalla bocca da cui cerca di assorbire disperatamente ossigeno esce a fiotti sangue che lo fanno tossire. Il capo dei guerriglieri ridendo ordina al ragazzino di ucciderlo. Lui si concentra.

Toglie la sicura, prende la mira divaricando le gambe per essere ben saldo. Spara una raffica breve. L'uomo si accerta con un calcio che il prigioniero sia morto. Soddisfatto accarezza il capo della piccola recluta con un gesto assurdamente affettuoso, dolce come se volesse premiarlo per un compito svolto bene. A volte mi chiedo quale è stato il destino di quel ragazzino che ormai, se è ancora vivo, è un uomo adulto. Se è ancora vivo... La risposta più probabile è che abbia continuato a combattere, avvolto dalla guerra che in quei luoghi non è mai finita.

Forse quel mitra con cui ha scoperto come si uccide lo ha sostituito con un altro più moderno, più micidiale. Non credo possa mai aver posseduto oggetti più moderni di quella canna di acciaio e di legno con i suoi lucidi proiettili dai bagliori di argento e d'oro. Chi ha assaggiato la guerra da ragazzo, a cui è stato detto che l'importante è non morire così, per niente, senza portarsi dietro un nemico, che ogni mattino ha imparato a dimenticare se stesso e tornare a ieri, che non può confrontare il suo presente con il sogno di giorni che scorrano nella pace e nell'abbondanza, rischia di non abituarsi a un mondo senza violenza data e subita, morti, dolore.

È una espropriazione originaria di sé, non si appartiene più a nessun mondo. In quanti luoghi abbiamo lasciato, disinteressandoci a guerre che consideravamo secondarie e troppo primitive per noi, che venissero educate queste generazioni della guerra? E quante di queste guerre infinite senza tregue e paci possibili sono la conseguenza di queste generazioni guerriere? Il male, ben più intraprendente del bene, ha la tendenza a diffondersi perché ha il privilegio di essere fascinatore e contagioso.

Dalla guerra non ritorna nessuno, nemmeno i vivi, nemmeno i ragazzi. Chi ha vissuto le rovine, i bombardamenti, imbracciato un fucile anche solo per finta, appartiene alla guerra, la sua anima resta là. Lo abbiamo visto in Siria: i ragazzi della rivoluzione, spesso studenti che avevano lasciato i banchi e le aule per imparare a sparare, hanno scelto poi di arruolarsi nei battaglioni jihadisti, nelle katibe di Al Qaida e poi del califfato. Perché quelli erano i guerrieri senza dubbi, i meglio armati, quelli che sapevano fare la guerra e uccidere i nemici con micidiale efficacia. 

È l'attrazione fatale dell'estremo che in guerra funziona sempre. Anche in questa nel centro dell'Europa che è una guerra laica, i miliziani della destra nazionalista che inneggiano al collaborazionista e nazista Bandera, largamente minoritari nella società ucraina quando era in pace, a poco a poco diventeranno i più ammirati, i più ascoltati, quelli con più reclute. In Ucraina per fortuna nessuno ancora arruola bambini. Ma nei due campi la guerra rischia di partorire una generazione fanatica della forza, della violenza, dell'estremo.

Se non la fermiamo subito questo sarebbe il nostro delitto maggiore. Quando finirà aspetteranno che qualcuno spieghi, che qualcuno si avvicini loro e dica: so che hai combattuto, so perché lo hai fatto. Sapere perché sono morti i compagni, perché si è sparato contro il bene, la giustizia, perché le città sono crollate e le donne e i bambini poco più giovani di loro sono stati bombardati. Perché? Nessuno saprà loro rispondere. Bisogna rispondere ora. Impedendo che la guerra li deformi per sempre.

Quei bambini spariti nel nulla sotto le bombe dell'Ucraina: le storie, i volti e le voci dalla guerra. Corrado Zunino La Repubblica il 18 Marzo 2022. 

I casi di quattro bimbi dei quali si sono perse le tracce nel corso del conflitto. Sono 900 quelli scomparsi secondo le Ong. Ci sono 900 bambini e ragazzi ucraini spariti. Lo hanno denunciato le loro madri, i loro padri. Sono svaniti in un bosco, sotto le bombe, durante il viaggio per la salvezza. E anche alla frontiera. Le Ong Magnolia e Telefono azzurro stanno facendo emergere la nuova tragedia del conflitto. Ecco le loro storie.

Dagotraduzione dal Times il 16 marzo 2022.

A Kiev 21 neonati, nati da madri surrogate, sono bloccati in una clinica improvvisata in un seminterrato e accuditi da un gruppo di infermiere perché la guerra ha reso impossibile per i loro genitori raggiungerli. Il personale ha raccontato di non sapere quando potranno venirli a prendere. 

«Non è colpa loro se è successo», ha detto Oksana Martynenko, una delle infermiere. «Non è colpa loro se i genitori non possono venire a prenderli. Quindi rimaniamo qui, li stiamo aiutando con quello che possiamo».

Anche Martynenko ha dei figli, ma sono intrappolati a Sumy, una città a 320 chilometri dalla capitale, che è stata oggetto di pesanti bombardamenti da parte delle forze russe. «Dal 24 febbraio non sono in grado di tornare a casa», ha detto ieri a Reuters.

«Vengo dalla regione di Sumy, ma non posso andarci. Ho dei bambini a casa. . . [I russi] hanno iniziato a bombardare la nostra città ieri. Attendiamo notizie ogni giorno su ciò che sta accadendo lì… Ma non possiamo lasciare questi bambini».

L'Ucraina è un centro internazionale di maternità surrogata, e secondo alcune stime vi nascono ogni anno, da madri surrogate, migliaia di bambini. Il personale della clinica ha raccontato che due coppie, una tedesca e una argentina, sono arrivate a Kiev. 

I bambini della clinica di Kiev sono nati in vari reparti maternità della capitale e sono stati portati lì per la loro sicurezza. Antonina Yefymovych, un'altra infermiera, ha detto che il personale era intrappolato e lavorava 24 ore su 24 per prendersi cura dei bambini. «Non abbiamo tempo per riposarci ora0…. Cerchiamo di fare dei sonnellini, di scambiarci. È dura, dura», ha detto.

Irene Soave per il corriere.it il 12 marzo 2022.

Dalla bambina Kim Phuc colpita dal napalm al ribelle in piazza Tienanmen, fino a Mariana, la blogger incinta di Mariupol: ogni guerra ha le sue foto simbolo, e nell’era dei social ha una sua foto simbolo quasi ogni giorno di questa guerra in Ucraina. Oggi è il giorno della figlia, 9 anni, del fotografo amatoriale Oleksii Kyrychenko: un fucile in braccio, un lecca lecca in bocca, è seduta sul davanzale di una casa dalle pareti annerite dal fumo. 

Il titolo della foto è «Girl with Candy» e in queste ore è molto ripresa sui social; l’ha twittata anche l’ex presidente del Consiglio Europeo, il polacco Donald Tusk, scrivendo: «Ora dite a lei che sanzioni più pesanti sarebbero troppo costose per l’Europa».

La piccola Kyrychenko, con il suo lecca lecca e il fucile (scarico) in braccio, è diventata un simbolo del lato più inaccettabile della guerra, quello contro i bambini. Dal bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol, ai primi colpi su un asilo nel Donbass, fino all’arresto di cinque bambini a Mosca, la guerra ha colpito più volte i più piccoli: sarebbe minorenne, peraltro, uno dei due milioni di rifugiati che hanno già lasciato l’Ucraina dall’inizio del conflitto. 

Il padre della bambina, Oleksii Kyrychenko, spiega la storia della foto sulla sua pagina Facebook. La bambina ha 9 anni ed è stata messa in posa proprio dal papà; il fucile che ha in mano, «naturalmente scarico, è il mio», spiega Kyrychenko nei commenti, dove si moltiplicano le richieste di condividere la foto.

«Prendetela pure, serve a richiamare l’attenzione sull’aggressione della Russia in Ucraina». Non è il solo scatto di questa serie: un’altra foto della bambina, questa volta in piedi, condivide lo stesso titolo, «Girl with Candy», di fronte a un murale con la scritta «Putin khuylo», più o meno «fottuto Putin». Sotto, un account anonimo scrive: «questa foto è falsa, è del 2018». Risponde l’autore: «I russi mentono sempre». La guerra è anche questa.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 marzo 2022.

I chirurghi di Kiev hanno dovuto amputare il braccio di una bambina di 9 anni per salvarle la vita. La piccola, di cui si conosce solo il nome, Sasha, è rimasta ferita mentre fuggiva insieme al padre, alla madre e alla sorella dai combattimenti nel sobborgo di Hostomel la scorsa settimana. 

La famiglia stava scappando in auto quando il mezzo è stato colpito da una raffica di proiettili che ha ucciso il padre. La piccola, insieme alla mamma e alla sorella, sono riuscite a mettersi in salvo scappando in strada e poi rifugiandosi in una cantina. 

Per due giorni Sasha è rimasta priva di conoscenza, finché non è stata portata su una barella improvvisata in un vicino ospedale che sventolava bandiera bianca. Parlando dal suo letto in ospedale, la piccola ha detto: «Non so perché i russi mi hanno sparato. Spero sia stato un incidente e che non intendessero farmi del male».

«Mi hanno sparato al braccio. Sono corsa dietro a mia sorella. Mia madre è caduta. Ho pensato che fosse la fine. Ma non era morta, si stava solo riparando dagli spari. Si stava nascondendo. Poi ho perso conoscenza. Qualcuno mi ha portato in cantina. Mi hanno curato come potevano. E poi alcune persone mi hanno portato in ospedale su un asciugamano». 

Al Central Irpin Hospital a Bucha il chirurgo vascolare Vladislav Gorbocev ha scoperto che il braccio della piccola stava andando in cancrena e ha deciso di amputarle il braccio sinistro sopra il gomito, altrimenti sarebbe morta. 

Il dottor Gennadiy Druzenko, del First Volunteer Mobile Hospital, ha detto che Sasha è uno dei tanti bambini che hanno subito terribili ferite nella battaglia per Kiev. «Questa ragazza è stata portata al Central Irpin Hospital con ferite terribili. Le avevano sparato mentre stava evacuando da Hostomel con i suoi genitori. Suo padre è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre li allontanava dai combattimenti nella sua macchina».

«È stata gravemente ferita, ha perso conoscenza ed ha iniziato a delirare. I soldati russi hanno cercato di entrare nella cantina in cui aveva trovato rifugio. Hanno sparato alla porta e hanno urlato alla gente di uscire. Finalmente la ragazza è stata portata in ospedale da civili che sventolavano una bandiera bianca mentre correvano attraverso la zona di battaglia». 

I sobborghi nord-occidentali di Gostomel, Irpin e Bucha sono in prima linea nella battaglia per Kiev. Lì l’esercito russo ha lanciato un massiccio assalto alle città satellite della capitale, nella speranza di sfondare la difesa ucraina e catturare Kiev. 

LA STORIA. In fuga a soli 12 anni arriva a piedi in Romania: secondo l’Unicef oltre un milione di bambini ha lasciato l’Ucraina. I genitori di Bogdan hanno invece deciso di restare a combattere. Dorella Cianci su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Marzo 2022.  

Quando una guerra finisce – e tutte finiscono perdenti – c’è un Paese intero da ricostruire, un tessuto sociale da riorganizzare, morti da seppellire oltre le fosse comuni, idee politiche da scegliere, ospedali da rimettere in piedi…Ma non è tutto. Ci sono i bambini. I bambini da riportare in patria, insieme a occhi da ripulire. È un film già visto e soprattutto è un film che si vede in molte zone del pianeta. Tutto questo l’abbiamo già raccontato anche a Est.

A distanza di oltre un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, il pedagogista Canevaro realizzò un progetto di cooperazione internazionale in contesti di guerra. Nel difficile passaggio dal regime comunista della Jugoslavia alla nascita della Bosnia-Erzegovina, l’azione pedagogica, partendo dall’emergenza immediata, definì, in quei contesti così fragili, un modello formativo finalizzato all’inclusione  dei bambini con difficoltà di apprendimento a causa della guerra. Tuttavia, qui, non siamo certamente a quella fase né possiamo cantare, coi Baustelle, «La guerra è finita», ma c’è anche chi ha deciso di farla finire a prescindere dalla geopolitica o dalla storia.  Bogdan ha 12 anni. I suoi genitori sono di Sumy ed entrambi hanno deciso di organizzarsi per la resistenza. Hanno fatto questa scelta per loro stessi e per l’Ucraina – condivisibile o meno non è il tema che ci compete - ma non per il loro bambino. Così gli hanno messo addosso un giaccone pesante, guanti e berretto di lana, scarponcini da montagna, come quelli dei tempi in cui andavano a sciare, e l’hanno fatto salire su un bus diretto a Dnipro. Qualcosa però è andato storto, perché dalla città arrivavano terribili notizie, e i punti di controllo russi erano fin troppo pericolosi, nonostante la possibilità di transito lasciata alla Croce Rossa.

Non si riescono a interpretare bene i fatti accaduti a Bogdan. Non si sa se gli è stato consigliato di fuggire o se è scappato da quel bus troppo lento per la salvezza: è stanco e spaventato per raccontarlo, ma intanto è giunto – oseremmo dire miracolosamente – al confine con la Romania, questo pezzo di terra oggi accogliente, ma anche in una posizione complicata. È il secondo bambino, di cui si ha notizia, che eroicamente raggiunge i confini a piedi! Non c’è da aspettarsi sorrisi e foto d’occasione, ma soprattutto l’accoglienza dei volontari, essi stessi increduli dinanzi a tanto cammino.

Secondo le fonti ufficiali dell’UNICEF, oltre 1 milione di bambini ha lasciato l’Ucraina. Molti sono scappati soprattutto con le loro madri in Polonia, Ungheria, Slovacchia, Moldavia e Romania.  «Il numero di bambini che si stanno spostando è impressionante, un’indicazione di quanto disperata sia diventata la loro situazione», ha dichiarato  Afshan Khan, direttore regionale UNICEF per l’Europa e l’Asia Centrale.  «I bambini si stanno lasciando dietro tutto ciò che conoscono alla ricerca della sicurezza. È straziante». Finora sono arrivati circa 70 tonnellate di aiuti, che comprendono dispositivi di protezione individuale e kit medici, chirurgici e ostetrici. Lavorando con i partner,  i team dell’UNICEF stanno distribuendo aiuti a 22 ospedali in cinque aree differenti dell’Ucraina, a supporto di 20mila bambini e madri. 

Questo non basterà per dimenticare l’orrore dei racconti dell’ospedale di Mariupol, ma è certamente un segnale importante. L’UNICEF, in queste ore, sta rinnovando il suo appello per un accesso umanitario sicuro, rapido e senza impedimenti per raggiungere davvero le popolazioni che hanno bisogno di aiuto e di un passaggio sicuro. Tre camion sono partiti dal magazzino di Copenaghen  - il più grande hub umanitario al mondo - per trasportare, lungo i diversi confini, aiuti di base, come kit per lo sviluppo della prima infanzia, ma anche materiale ricreativo, per cercare di ridare un po’ di fantasia nella desolazione.  Come disse il fisico e Nobel per la pace, Andrej Sacharov: «La strategia della coesistenza pacifica e della collaborazione deve essere approfondita in tutti i modi». Era un uomo russo.

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.

L'esplosione avviene di fronte alla chiesa, domenica alle nove di mattina. Sul selciato quattro corpi. Due fratelli, Alisa di 9 anni e Miketa di 18, assieme alla mamma, Tatiana di 43 anni. Poco distante quello di un giovane uomo, Anatoly di 27 anni. Così in un secondo è stata spazzata via un'intera famiglia da un mortaio russo. 

A riprendere per primo la scena è Andriy Dubchak, fotografo ucraino che collabora con il New York Times . Ed è lui a raccontare: «Stavo camminando per le vie di Irpin, il villaggio attaccato dai russi a nord-ovest di Kiev. C'erano profughi che cercavano di scappare. Stavo facendo foto e film. Poco prima avevo sentito colpi di mitragliatrice, stavo muovendomi con altri colleghi. 

Ad un certo punto è stato chiaro che i russi da distanza avevano visto i profughi che tentavano di scappare. Gli sfollati erano centinaia: donne, bambini, anziani, malati erano aiutati dai volontari. Allora è arrivata la bomba». 

Dal suo video si vede lo scoppio. Per caso lui stava filmando e lui stesso è rimasto leggermente ferito ad una caviglia da una scheggia. C'è la polvere, le schegge, un volontario rimane colpito. Appena la polvere si dirada Andriy riprende la scena, ruota la telecamera ed è allora che si odono grida, richieste di aiuto. I corpi sono sull'asfalto. «I due fratelli sono morti subito.

Quando sono corso sul posto già non respiravano più. La mamma era incosciente, ma aveva il polso. È deceduta poco dopo». Vittime tra le vittime. Secondo i profughi, le strade di Irpin e del vicino villaggio di Bucha sono insanguinate di cadaveri abbandonati. I civili si muovono piano, intimoriti dagli scoppi, spaventati dalle fiamme, procedere tra i detriti con i bagagli si rivela difficile. 

 Molti sono a loro volta fuggiti da altre zone, non conoscono le strade, spesso non sanno neppure dove andare per raggiungere le zone protette di Kiev. «I russi giocano come il gatto col topo. A lunghi momenti di calma seguono secondi di fuoco», dicono i testimoni. Andriy non è riuscito sul posto a capire chi fossero i morti. Nessuno li conosceva e nel caos tutti cercavano di scappare.

Racconta ancora: «Ho postato le immagini delle vittime sui social locali e dopo poche ore la madrina dei bambini mi ha contattato. Ho scoperto che sono una famiglia di Donetsk venuta a vivere a Irpin al tempo dell'invasione russa nel 2014. 

Lei ha chiesto come sono morti. Voleva sapere se avessero sofferto, piangeva molto. Tutti loro sono chiusi nei bunker. Tatiana e i due figli avrebbero dovuto raggiungerla. Ora la madrina dovrà recuperare i corpi che si trovano nell'obitorio centrale di Kiev. Tra loro faranno il funerale. A Kiev adesso risiede una comunità di sfollati da Donetsk».

Lui ha impressa l'immagine dei due fratelli. Miketa aveva il viso insanguinato. Entrambi erano molto coperti, fa freddo e la gente si muove con i vestiti pesanti. Anche l'uomo che era con loro è morto velocemente, aveva le arterie inguinali recise. Dai racconti raccolti sul posto sappiamo che ci sono ancora tanti feriti abbandonati nelle strade dei villaggi colpiti. Molti muoiono di freddo, senza alcuna assistenza. Non sappiamo se i profughi vengono curati dai russi.

«La gente fa di tutto per scappare dai russi. E nessuno ci dice che le truppe russe aiutano o curano i feriti. Al meglio lasciano che la gente fugga», dice Andriy. Tra i profughi gira voce che i soldati russi a Bucha siano d'origine cecena, famosi per la loro crudeltà. Un dato che contribuisce a fomentare la paura. Lui stesso parla di quella quarantina di minuti come un vero inferno. «Dopo il mortaio i colpi sono continuati a cadere fitti. Tornando ho dovuto gettarmi a terra almeno sette volte e mi sono riparato due volte nelle case abbandonate».

"Per la prima volta dai tempi della seconda guerra mondiale, un piccolo è morto disidratato". Bimbo muore di sete a Mariupol, il dramma della guerra: “Torture russe, hanno tagliato rifornimenti”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2022.

Un bambino è morto di sete a Mariupol dopo che i russi hanno “deliberatamente tagliato i rifornimenti di acqua e cibo oltre all’elettricità“. E’ l’accusa pesantissima rivolta dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un video pubblicato sul canale Telegram in cui denuncia le “torture” delle truppe militari di Mosca nonostante la tregua annunciata per “scopi umanitari”.

“Per la prima volta dai tempi della seconda guerra mondiale, un bambino è morto disidratato” a Mariupol – che conta circa 300mila abitanti – dove la popolazione “è stata circondata e bloccata” dalle forze armate russe sottolinea Zelensky.  Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha accusato l’esercito russo di aver violato il cessate il fuoco a Mariupol, bombardando il corridoio umanitario di Zaporizhzhia che dovrebbe permettere ai civili di lasciare in sicurezza la città meridionale che affaccia sul mar Nero. Bombardamenti, prima della tregua annunciata, anche a Sumy con un bilancio di 21 civili, tra cui 2 bambini, secondo quanto riporta il Kyiv Independent.

Dall’inizio del conflitto sarebbero almeno 41 i minori che hanno perso la vita, stando a quanto riferisce il governo di Kiev.  E’ il dramma della guerra e delle vittime civili, il cui numero aumenta giorno dopo giorno anche se il dato ufficiale, riportato dall’Onu, è assai approssimativo. Secondo le Nazioni Unite infatti le vittime collaterali del conflitto provocato dall’invasione russa il 24 febbraio scorso sono almeno 474, tra cui 29 bambini. I civili feriti sono 861 civili. Secondo l’Onu, tuttavia, le cifre reali potrebbero essere molto piu’ alte, in particolare nei territori controllati dal governo in cui il numero delle vittime non è stato ancora confermato ufficialmente.

“Questo – si legge in una nota dell’Onu- riguarda per esempio le città di Volnovakha, Volnovakha e Izium, dove vi sono notizie che parlano di centinaia di civili uccisi non sono stati inclusi nelle statistiche ufficiali”. Nelle regioni separatiste filo-russe di Donetsk e Luhansk le Nazioni Unite hanno registrato finora 96 persone uccise e 449 ferite. “La maggior parte delle vittime civili sono state provocate dall’uso di armi esplosive, in particolare da bombardamenti con artiglieria pesante, razzi, missili e attacchi aerei”, conclude il comunicato.

In Ucraina ci sono circa 100mila bambini orfani che vivono in 600 istituti sparsi in tutto il paese. Sono rimasti senza mamma e senza papà, perché magari sono morti in un paese dove già da 8 anni in alcune regioni c’è la guerra, o sono stati abbandonati perché magari erano troppo poveri per poterli mantenere. Un dramma nel dramma.

Piazzapulita, lo studio del prof Orsini (Luiss): "L'unica sanzione che ferma le bombe in Ucraina". Giada Oricchio su Il Tempo il 10 marzo 2022.

Alessandro Orsini, professore di sociologia internazionale alla Luiss di Roma, è finito nell’occhio del ciclone e ha sfiorato la censura da parte dell’Università per aver sì condannato l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, ma specificando che la responsabilità politica, a suo dire, è dell’Unione Europea.

Di nuovo ospite di “Piazza Pulita”, l’approfondimento politico condotto da Corrado Formigli su LA7, giovedì 10 marzo, Orsini ha toccato un altro tema caldo: le sanzioni contro la Russia. “Basandomi sui miei studi della guerra civile in Yemen, dico che noi stiamo usando male le sanzioni, dovremmo vincolarle a un dato preciso: i bambini morti. Nel 2016 l’Arabia Saudita ha fatto morire tantissimi bambini sotto le bombe e l’Onu ha sanzionato il Paese inserendolo in una lista nera e dicendo che se ne avesse uccisi altri avrebbe inasprito le sanzioni. L’Arabia Saudita ha costituito un comitato e sottoposto a provvedimenti disciplinari i piloti che nei bombardamenti colpiscono i bambini. La conseguenza è stata che nel 2020 l’Onu ha tolto il Paese dalla lista nera perché il numero è drasticamente diminuito”.

Ed ecco l’errore che secondo il professore stanno commettendo i leader europei: “Stanno facendo morire più persone perché hanno legato le sanzioni al conflitto complessivo, più sanzioni non lo fermeranno, ma se cerchiamo di perseguire un solo obiettivo che è salvare i bambini, forse possiamo avere un’attenuazione di tutto il conflitto. Se Putin vorrà uccidere meno bambini inevitabilmente colpirà meno civili perché sono sempre in famiglia. Siccome questa è una guerra di lungo periodo, dobbiamo prendere in considerazione un uso strategico delle sanzioni”.

Quel business che va avanti anche sotto le bombe: il bunker delle surrogate a Kiev. Alessandra Benignetti l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

Decine di bimbi nati da madri surrogate parcheggiati in un bunker a Kiev in attesa di essere consegnati ai genitori: è il business dell'utero in affitto che va avanti nonostante la guerra.

A Kiev ci sono donne e bambini di serie "B", che non possono mettersi in viaggio sui treni in partenza per l’Ovest, presi d’assalto da centinaia di migliaia di profughi in cerca di salvezza. Sono le madri surrogate costrette a restare in Ucraina per portare a termine la gravidanza su commissione. Una settantina, al momento, soltanto quelle contrattualizzate dalla Biotexcom, secondo quanto rivela all’Huffington Post Irina Isaenko, manager della stessa clinica, una delle più rinomate nel campo dell’utero in affitto.

Portare mamme e bambini al sicuro fuori dal Paese è sembrata sin dall'inizio un'ipotesi fuori discussione. La pratica, infatti, è vietata nella maggior parte degli Stati europei e si andrebbe incontro ad una serie di problemi dal punto di vista legale. In poche parole, al momento del parto, la surrogata verrebbe considerata per quello che è, e cioè la madre naturale del bambino che porta in grembo. Così la clinica, già prima che piovessero i primi missili russi in territorio ucraino, ha allestito un bunker sotterraneo poco distante da Kiev per ospitare i neonati e i genitori acquisiti attesi nella capitale per prelevare il proprio bebè.

Le immagini pubblicate sul sito web della Biotexcom fanno impressione. I neonati vengono presi dall’ospedale e scortati da uomini armati all’interno di un sotterraneo, dove saranno accuditi da alcune infermiere. Il rifugio, viene spiegato in un secondo filmato da una delle addette della clinica, può contenere oltre duecento persone. All’interno c’è tutto il necessario per sopravvivere anche diversi giorni in caso di attacco. Dalle maschere antigas alle scorte di pannolini, salviettine e latte in polvere, fino ai kit di primo soccorso. "La clinica internazionale Biotexcom non ferma il suo lavoro e assicura la sicurezza dei bimbi nati durante la guerra", assicura la società.

"Il capo dei medici della clinica – spiegano ancora dall’azienda - preleva personalmente i bambini dai reparti di maternità degli ospedali di Kiev e assieme ai colleghi, accompagnati dai volontari del battaglione Karpatska Sich, li porta in un luogo sicuro". "I bambini nati in questi giorni non hanno nessun bisogno e sono al sicuro, di loro si prendono cura le baby sitter e sono in attesa che migliori la situazione e finalmente potranno stare con i loro genitori", assicura all’Huffington Post la manager. La procedura è la stessa per tutti: le mamme vengono trasferite a Kiev una volta raggiunto il settimo mese di gravidanza e dopo il parto i bimbi vengono spostati nel bunker. Isaenko rivela al sito di informazione che tra gli ultimi nati ci sarebbero anche due bimbi commissionati da coppie italiane.

Insomma, neppure la guerra riesce a fermare il business che in Ucraina coinvolge una trentina di cliniche private e cinque statali. Nessuno, evidentemente, ha intenzione di rinunciare ai soldi che i clienti hanno già versato. I pacchetti vanno dai 39mila ai 65mila euro. Alle surrogate ne spettano circa 10mila. Secondo quanto si legge sul settimanale Tempi, nei prossimi tre mesi soltanto dalle madri surrogate assunte dalla Biotexcom dovranno nascere circa 200 bambini.

Piccoli con un futuro incerto, perché se è vero che per ora nessuno ha rinunciato al proprio bebè, anche correndo il rischio di avventurarsi in un Paese in guerra, sono ancora vive nella memoria le immagini delle decine di bebè parcheggiati per mesi nell’Hotel Venezia di Kiev durante il lockdown della primavera del 2020, o la vicenda della bimba di 16 mesi abbandonata a Kiev dai genitori che non la volevano più. Solo che adesso fuori dal bunker ci sono i carri armati, una città assediata e una battaglia che si preannuncia senza quartiere.

Parla il Garante per l’Infanzia e l’adolescenza della Campania. Bambini ucraini in Italia, come funziona l’accoglienza e l’affido temporaneo: “Vigiliamo con massima attenzione”. Rossella Grasso su Il Riformista il 10 Marzo 2022. 

Il conflitto in Ucraina continua a creare drammi e traumi soprattutto tra i più piccoli. Oltre un milione di bambini ha già lasciato l’Ucraina in 14 giorni di conflitto e sono 100mila gli orfani costretti a trovare riparo in altri paesi. Tutti minori costretti a lasciare tutto ciò che conoscono e che amano alla ricerca di sicurezza. Alcuni viaggiano con le loro mamme, altri sono affidati a conoscenti e altri ancora sono completamente soli. Una tragedia umanitaria enorme.

“In Italia sono già arrivati 6mila bambini e altri ancora arriveranno nei prossimi giorni. Per la loro tutela, accoglienza e protezione la nostra attenzione è altissima”, spiega Giuseppe Scialla, Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Campania. Il garante spiega che tutti i bambini che arrivano in Italia, siano essi accompagnati o soli, vengono accolti dalle istituzioni, registrati e vaccinati. “Tutto avviene nell’assoluto rispetto dei loro diritti ed esigenze, sono bambini, non pacchi. Stanno vivendo una situazione particolarmente difficile e a loro è dovuta tutta l’attenzione e l’assistenza speciale possibile”.

Nel caso dei minori non accompagnati poi l’attenzione è ancora più grande. Una volta arrivati in Italia, con il contributo istituzionale della Protezione Civile, delle prefetture e delle questure vengono divisi in centri di prima accoglienza e case famiglia. “Il mio massimo impegno insieme alle istituzioni è quello di vigilare affinchè a questi bambini sia dato sostegno e affetto per una crescita sana. Bisogna stare attenti anche alle situazioni in cui i bambini sono ‘affidati’ ad amici o parenti per arrivare in Italia. Non devono finire assolutamente in situazioni sommerse. Per questo registrarli è fondamentale: se non lo sono rischiano di diventare invisibili e possono essere reclutati facilmente in brutte situazioni. Ma la macchina dello Stato è attiva e vigile”.

La tremenda situazione che stanno subendo i bambini ucraini ha scosso tanti cittadini italiani che subito si sono chiesti come fare a mettersi a disposizione per ospitare a casa bambini in fuga dall’orrore. Il garante spiega che soprattutto trattandosi di bambini è importante seguire le procedure con grande attenzione. Nessun bambino sarà ospitato a casa di volontari senza il vaglio del tribunale dei minorenni, assistenti sociali e dalle istituzioni preposte. E le procedure per l’affidamento non hanno tempi brevi. “Il rischio che un bambino possa finire in mani sbagliate è troppo grande, per questo parlare di affido temporaneo dei bambini in fuga dall’Ucraina è troppo presto”.

Il Garante spiega infatti che l’affido temporaneo è previsto dall’ stato d’emergenza e consiste nell’avere in affidamento un minore anche solo per un certo periodo di tempo. “Questo è previsto in caso di emergenza e in questi giorni stiamo elaborando un piano d’azione compatto insieme a prefetture, questure e servizi sociali su come gestirlo nel futuro. Per il momento i prefetti stanno facendo un’attenta ricognizione di strutture già preposte all’accoglienza dei bambini su tutto il territorio nazionale e su strutture offerte da privati per questo scopo. Lo stato c’è, non lasceremo mai soli i bambini”.

Dunque i cittadini possono proporre la loro disponibilità all’affido temporaneo ai servizi sociali, prefetture e questure. Il Garante spiega che ci sono anche alcune Onlus che hanno avviato la raccolta di disponibilità “ma deve essere chiaro che tutto passa per le istituzioni che passo passo vigileranno sulle procedure di affidamento e nel garantire al bambino che la famiglia affidataria sia davvero all’altezza di potergli offrire tutto il meglio. Ho invitato i prefetti a vigilare anche sulle onlus”. L’immagine dell’offrire la disponibilità e avere a casa un bambino poco dopo è molto lontana dalla realtà. La procedura non è immediata proprio per tutelare tutti i diritti del bambino. Non basta segnalare la propria disponibilità: bisogna che le famiglie affidatarie siano valutate, conosciute e soprattutto formate per questo grande compito che decidono volontariamente di assumersi.

La legge 47/2017 stabilisce infatti che per i minori stranieri non accompagnati ci sia la figura del tutore: un cittadino che volontariamente si offre per dare voce al bambino che magari è accolto in casa famiglia e per firmare il consenso informato e altre attività e tutelarne i diritti e la persona. “Per svolgere questa funzione è necessario essere nominati dal Tribunale per i minorenni e svolgere corsi di formazione gestiti dal Garante dell’infanzia. Sono bambini, vanno maneggiati con grandissima cura, questo non bisogna dimenticarlo mai”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

L’allarme umanitario di Save the Children: "troppi bimbi soli". Ucraina, un milione di bambini in fuga dalla guerra: “Negli occhi l’orrore, nei disegni solo bombe e razzi”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

L’intera popolazione ucraina è stremata dalla guerra. Al tredicesimo giorno dall’inizio dell’invasione russa si stima che dall’Ucraina siano riuscite a scappare circa 2 milioni di persone. Tra queste si stima che i bambini siano tra gli 800mila e un milione circa. Una cifra che non ha precedenti nella storia delle crisi umanitarie.

Un numero sempre più alto di bambini arriva alla frontiera da solo, senza il sostegno della famiglia: è una vera e propria emergenza per la loro protezione. È il grave allarme lanciato da Save the Children, che sottolinea come i suoi operatori impegnati al confine riportino dell’arrivo di alcuni bambini soli, mandati verso altri paesi da familiari costretti a rimanere in Ucraina, che hanno cercato di metterli al sicuro da attacchi e bombardamenti. Altri hanno perso le loro famiglie nella concitazione della fuga dalle loro case, molti hanno meno di 14 anni e manifestano segni di disagio psicologico.

Come riportato dall’Ansa due studentesse fotografe hanno messo su un progetto realizzato alla stazione di Varsavia, una delle stazioni in cui in questi giorni si stanno riversando centinaia di profughi ucraini. Paulina Byczek e Klaudia Kopczynska hanno fotografato i bambini in arrivo e chiesto loro di disegnare quello che provavano. Il progetto si chiama “Piccoli soli”. Molti dei bambini che hanno coinvolto nel progetto viaggiavano con le loro mamme, altri magari con parenti.

Le due fotografe hanno chiesto ai piccoli di esprimere le loro emozioni con dei disegni. Sono venuti fuori cuoricini, arcobaleni, bandiere ucraine. Ma pure carri armati e bombe. Poi ci sono i commenti. Quelli di ogni bambino: “Voglio diventare un medico”; “voglio avere una Lamborghini”. E quelli che invece i bambini non dovrebbero conoscere: “Voglio che mio papà sia accanto a me”; “voglio la pace”. Umid, 6 anni, ha disegnato la casa e la scuola. Poi ha scritto: “Voglio diventare un soldato. Non mi uccidere. Io non voglio morire”.

Paulina ha detto che l’ha colpita soprattutto il disegno di Evelina, 8 anni. “Ha disegnato due smile che sarebbero il viso di Putin e la bandiera Ucraina: poi è andata a sostenere la mamma che piangeva tantissimo. È stata lei ad abbracciarla e ad asciugarle le lacrime”. Ogni bambino ha reagito in maniera diversa. “Molti sembravano chiaramente traumatizzati, altri solo timidi, altri ancora si tenevano la testa tra le mani come se cercassero di non sentire, altri correvano come se niente fosse”. Su Instragram Paulina ha messo i disegni e scritto una cosa molto vera. In questo momento “possono essere quelli che ci indicano la strada. I bambini mettono la luce dove noi non guardiamo, perché abbiamo paura o ci dimentichiamo. Allora lasciamoli parlare”. E soprattutto, portiamoli lontano dalla guerra.

Save the Children “sta lavorando senza sosta con altre organizzazioni, per stabilire procedure per rintracciare i parenti dei bambini arrivati soli e facilitare il ricongiungimento familiare o per mettere in bambini in contatto con la famiglia allargata e i conoscenti in Polonia o nei paesi limitrofi. Inoltre, l’organizzazione è attiva per stabilire sistemi di protezione e meccanismi di segnalazione per i minori”, fa sapere.

“I genitori stanno ricorrendo alle misure più disperate e dolorose per proteggere i propri figli, incluso l’allontanarli da sé e mandarli via con vicini e amici, per cercare sicurezza fuori dall’Ucraina, mentre loro rimangono in patria per proteggere le loro case”, ha dichiarato Irina Saghoyan, direttrice di Save the Children per l’Europa orientale. “Per i bambini, la separazione dai propri cari può tradursi in un profondo stress psicologico dovuto all’insicurezza, alla paura per le sorti dei membri della propria famiglia e all’ansia da separazione.

Aumentano anche i rischi di violenza, sfruttamento, tratta e abusi. Molti di loro viaggiano con i loro fratelli maggiori o con famiglie allargate, vicini o altri adulti di riferimento. Hanno bisogno di protezione e supporto e sono ancora incredibilmente vulnerabili”, ha proseguito Saghoyan.

Devono essere compiuti tutti gli sforzi per prevenire la separazione dei bambini dai loro caregiver e per garantire il tracciamento immediato della famiglia e il ricongiungimento laddove si verifichi la separazione. Sappiamo che più velocemente agiamo, più è probabile riuscire a riunire con successo i bambini ai loro caregiver. Continueremo a rispondere dove c’è più bisogno e dove i bambini necessita si urgente protezione”, ha concluso. L’organizzazione chiede alle autorità “di frontiera e alle organizzazioni umanitarie di mettere in atto misure per cercare di far rimanere i bambini con i loro caregiver di riferimento, di fornire supporto psicosociale incentrato sui bambini e attuare programmi per prevenire la separazione dalle famiglie. Questi servizi devono includere spazi e informazioni a misura di bambino, ricerca e ricongiungimento familiare e supporto alla salute materno-infantile”.

Save the Children opera in Ucraina dal 2014, fornendo aiuti umanitari essenziali ai bambini e alle loro famiglie, sostenendo il loro accesso all’istruzione, supportandoli a livello psicosociale, distribuendo kit invernali e kit per l’igiene, e fornendo denaro alle famiglie in modo che possano soddisfare le esigenze di base come il cibo, l’affitto e le medicine, o in modo che possano investire in nuove attività.

Il personale e i volontari di Save the Children stanno distribuendo cibo, acqua e prodotti igienici ai rifugiati che arrivano al confine tra Romania e Ucraina e nei centri di accoglienza, afferma l’organizzazione; in Polonia e Romania, stanno fornendo servizi di protezione dell’infanzia, come il supporto mirato per i minori non accompagnati e separati, il supporto psicosociale e l’accesso ai servizi legali. Anche in Italia l’organizzazione è attiva al valico Fernetti dove, in collaborazione con Unicef, distribuisce bene di prima necessità, informazioni e dispositivi sanitari ai bambini profughi in arrivo nel nostro Paese.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 marzo 2022.

Le affermazioni di Putin, che ha sostenuto di non prendere di mira i civili, sono state messe a nudo definitivamente la scorsa notte quando è stato pubblicato il video qui sopra: un’auto familiare viene mitragliata dai carri armati su una tranquilla strada di campagna fuori Kiev. 

Il presidente russo ieri ha pronunciato un discorso dichiarando che erano i leader ucraini «gangster» ad usare i civili come «scudi umani» e questa era la ragione dell’alto numero di vittime. 

Ma nel giro di poche ore è emerso questo filmato che mostra un padre e suo figlio fermati da un convoglio russo e crivellati di colpi. A filmare la scena è stato il figlio, che accompagnava il padre a Kiev per mettere in salvo i loro tre cani. La loro auto viene costretta ad accostare sul ciglio della strada da un convoglio russo. A quel punto, mentre i russi sono a notevole distanza, l’auto viene martoriati di proiettili. «Esci e sdraiati» grida il figlio al padre, «riesci a sentimi? Torna indietro e abbassati a destra».

Pochi secondi dopo altri colpi si schiantano contro l'auto e si sentono i cani gemere per la paura e il dolore. 

Il figlio riesce a mettersi in salvo uscendo dall’auto e rifugiandosi nel sottobosco, ma il padre è costretto a uscire in strada. Altre dozzine di spari risuonano prima che il figlio, strisciando dietro l'auto, riesca a raggiungere il padre sdraiato in strada. 

«Papà! Papà!» grida angosciato. «Sei ancora lì? Tieni duro!». Poi gli dice di stare giù mentre l'uomo cerca di sedersi per guardare le sue ferite.  «Papà, cazzo! Come mai?» chiede lamentosamente il figlio. Quando la sparatoria si placa, il figlio striscia di nuovo dal retro dell'auto.

«Mi è stato strappato il piede» ringhia il padre agonizzante mentre giace in una pozza di sangue. Il figlio a quel punto trascina il padre nel sottobosco. «Per favore, non morire, ti sto implorando» gli dice disperato. Ma l’uomo non ce la fa e spira nel fosso dove l’ha portato il figlio. 

Si ritiene che il filmato, scoperto e verificato da Radio Free Europe, sia stato girato venerdì scorso. La famiglia era fuggita dalla propria casa a Ivankiv, nella regione di Kiev, dopo gli attacchi iniziali della Russia, ma è tornata per prendere i propri animali domestici. I giornalisti locali hanno sostenuto che nessuna truppa ucraina si trovava nell'area dell'attacco, e secondo testimoni si trattava di veicoli militari russi. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 marzo 2022.

Iliya stava giocando a calcio per le strade di Mariupol con i suoi due amici. Pochi secondi dopo, era morto. A sedici anni. L’immagine del padre Serhii piegato sul cadavere del figlio, nascosto sotto a un lenzuolo macchiato di sangue, sta facendo il giro del mondo. L’uomo ha a lungo cullato il corpo, singhiozzando ininterrottamente e gridando «figlio mio». 

È solo l'ultima di una serie di immagini scioccanti emerse dalla sanguinosa zona di guerra in Ucraina, dove la selvaggia invasione di Vladimir Putin è costata la vita a centinaia di civili innocenti.

Iliya è stato colpito giovedì mentre giocava su un campo da calcio vicino alla sua scuola nella città di Mariupol, sul Mar d'Azov. I suoi due compagni sono stati trovati con le gambe crivellate di schegge e ora affrontano la prospettiva di amputazioni. Il trio è stato portato d'urgenza all'ospedale più vicino nel retro dell'auto, ma Iliya è stato dichiarato morto all'arrivo. 

Evgeniy Maloletka, il fotografo dell'Associated Press che ha scattato la tragica immagine, ha dichiarato al Telegraph: «L'auto si è fermata in ospedale. Hanno aperto il retro e c'erano due adolescenti. Uno aveva le gambe crivellate di proiettili, sembravano carne cruda. Era Iliya. Era già morto. Artyom era seduto dietro di lui. Era cosciente. Sono stati portati d'urgenza in terapia intensiva. Iliya era già morto all'arrivo». 

Ha aggiunto: «Artyom e David avevano le gambe crivellate di proiettili. Alle persone con quelle ferite vengono amputate le gambe. Non sono sicuro di cosa accadrà loro».

«L'ospedale in cui sono stati portati è stato bombardato da un sistema multi-razzo Grad. Le case vicine sono state bombardate. Le persone in quell'ospedale spesso devono sdraiarsi per terra».

Orrore in Russia, bambini arrestati e portati in cella per una notte. In Russia la polizia ha arrestato anche i bambini accusati di aver manifestato in favore dell'Ucraina. Portati in cella, ci sono rimasti per una notte. Il Dubbio il 3 marzo 2022.

«Putin è in guerra con i bambini. In Ucraina, dove i suoi missili hanno colpito asili e orfanotrofi, e anche in Russia». Lo ha scritto in un tweet il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. «David e Sofia, di sette anni, Matvey di nove, Gosha e Liza di 11 hanno passato la notte dietro le sbarre a Mosca per i loro slogan “No ALLA GUERRA” (NO TO WAR) – ha aggiunto con alcune foto – Ecco quanto è spaventato».

Secondo quanto ricostruito, la notizia sarebbe stata diffusa dalla ricercatrice Alexandra Arkhipova, la quale aveva postato le foto su Facebook. I bambini arrestati in Russia avevano lasciato dei fiori davanti all’ambasciata ucraina. Poi sono stati portati insieme ai loro genitori all’OVD di Presnenskoye, rimanendo in stato di fermo per una notte. 

Ucraina, «cento bambini uccisi a Kharkiv», mentre Kiev resiste. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

L’attacco russo è ormai talmente diffuso e profondo che nessuno può dirsi al sicuro. Non c’è città o villaggio che ne sarà risparmiato, nulla lascia credere che Putin intenda fermarsi

 Quanto tempo potranno resistere? 

Uno dei beni più venduto adesso in tutta l’Ucraina è il nastro adesivo da attaccare alle finestre per evitare che le schegge dei vetri infranti causati dagli spostamenti d’aria delle bombe, divengano proiettili letali. L’attacco russo è ormai talmente diffuso e profondo che nessuno può dirsi al sicuro. Non c’è città o villaggio che ne sarà risparmiato. Lo sanno bene anche il presidente Zelensky e i suoi consiglieri: invitano i cittadini ad avere fiducia nei militari — «noi resistiamo, combattiamo, vinceremo», dicono — ma intanto invitano tutti a ripararsi nei bunker e organizzarsi in luoghi protetti. 

Kiev guarda con preoccupazione in particolare alla regione di Kharkiv, la seconda città del Paese situata proprio a ridosso del Donbass occupato dai filorussi sin dal 2014. Le colonne di profughi, che da là sono fortunosamente riuscite a raggiungere le pensiline della stazione ferroviaria della capitale e adesso attendono ansiose di saltare sul primo treno diretto a Ovest, sono trattate con particolare riguardo. 

Tanti tra loro hanno storie d’orrore da raccontare. «I russi bombardavano senza alcun rispetto per nessuno e senza fare alcuna differenza tra civili e militari. Hanno colpito il Palazzo dell’Opera in Piazza della Libertà, devastato i begli edifici antichi della municipalità», ci raccontava ieri Caterina, una maestra di scuola, che con l’anziana madre cerca di arrivare dal resto della famiglia già rifugiata a Varsavia.

I combattenti

Difficile avere idee precise sul numero delle vittime. Le colonne blindate russe ormai controllano le regioni circostanti. Sappiamo che nel centro alcune cellule combattenti ancora sparano, ma sono pochi nidi di resistenza. 

Ieri Sergey Chernov, che è presidente del Consiglio regionale di Kharkiv, collegandosi via telefonica durante i lavori del Summit europeo delle regioni riunito a Marsiglia, ha dichiarato che le vittime civili ucraine «sono ormai migliaia» e che in particolare nel distretto di Kharkiv, «i morti civili sono oltre duemila, tra loro oltre cento bambini». 

A suo dire, la tecnica russa della «terra bruciata» qui sta funzionando al massimo: «Tirano su scuole, centri culturali e università». Oggi a Roma si tiene una manifestazione di protesta per denunciare i massacri a cui parteciperà anche l’Organizzazione umanitaria Save the Children. 

Ma nulla lascia credere che Putin intenda fermarsi . «Le nostre operazioni militari proseguono come programmato», continua a ripetere. E infatti, a guardare le mappe del conflitto, si evince l’intenzione di occupare tutto il Paese stringendo Kiev nella tenaglia di tre armate, che avanzano progressivamente da sud, da est e dal nord. Con l’emergere dei dettagli dell’offensiva sin dalle prime ore la mattina dello scorso 24 febbraio, appare adesso evidente che in un primo momento i generali russi avevano ideato una sorta di guerra lampo per catturare subito la capitale. 

Le truppe speciali a bordo di una trentina di elicotteri, restando a bassa quota per non essere identificate dai radar, erano arrivate sul cielo dell’aeroporto di Hostomel, situato 26 chilometri a nord di Kiev. Il piano russo era di conquistare la piazza e da qui lanciare l’attacco finale sulla capitale: presa la testa, sarebbe stato più semplice sbaragliare il resto del corpo del Paese. Ma la reazione rabbiosa degli ucraini ha bloccato l’azione e Putin ha allora puntato sulla gigantesca colonna di uomini e mezzi (in realtà un vero corpo d’armata), che sta lentamente avanzando dal confine russo verso sud e da tre giorni è ferma a circa una ventina di chilometri dai quartieri settentrionali di Kiev.

La sorpresa dei russi

Molto lascia credere che la resistenza ucraina iniziale abbia sorpreso i russi. Però Putin ha ancora molte carte da giocare: è lui che decide i tempi dell’offensiva e sceglie le strategie adattandole alla situazione sul terreno. Chiunque abbia per esempio seguito da vicino la battaglia di Debaltsevo, nel Donbass tra il gennaio e febbraio 2015, sa bene che le sue truppe speciali e specialmente i battaglioni di teste di cuoio cecene e delle province asiatiche russe sono tra i più efficienti e determinati al mondo. I loro uomini hanno pochi scrupoli umanitari, uccidono e rischiano senza problema, tra loro ci sono cecchini scelti e sono splendidamente addestrati. Furono loro a chiudere l’accesso all’aeroporto di Donetsk e ad allargare i confini della zona russa verso Lugansk.

La fortezza zarista

I difensori di Kiev ne sono consapevoli e cercano di adeguarsi. Ogni giorno che passa la città si fortifica. Ancora ieri abbiamo potuto osservare nuove barricate rispetto al giorno prima. Nel bunker della scuola numero 281 nelle zone meridionali circa 200 tra donne e bambini stavano accumulando riserve d’acqua e cibo. Poco lontano, presso l’ospedale militare, una trentina di volontari accovacciati nel cortile di una vecchia fortezza zarista stavano preparando migliaia di bottiglie molotov da distribuire ai volontari. E le sirene hanno suonato più volte durante la giornata. Almeno quattro forti esplosioni hanno scosso il centro. La guerra è sempre più vicina.

La sorella di 13 anni Sofia ricoverata in gravi condizioni. Polina e Semyon, i fratellini di 10 e 5 anni uccisi in Ucraina mentre fuggivano dalla guerra. Vito Califano su Il Riformista il 4 Marzo 2022. 

Polina e Semyon avevano 10 e 5 anni. Erano fratelli. Sono morti entrambi nella guerra in Ucraina, con la madre e il padre, mentre tentavano di scappare con la famiglia dal Paese invaso dalla Russia. Il piccolo era stato ricoverato insieme con l’altra sorella Sofia, 13 anni, ancora in ospedale in gravi condizioni. La notizia della sua morte è stata confermata ieri sera dal quotidiano britannico Telegraph.

L’auto sulla quale viaggia la famiglia era stata bersagliata dal fuoco di un “gruppo di sabotatori russi” secondo quanto reso noto dal vice sindaco di Kiev Volodymyr Bondarenko. I genitori Anton Kudrin e Svetlana Zapadynskaya erano morti in quell’attacco. Il veicolo si sarebbe ritrovato con la loro automobile nel mezzo di uno dei tanti blitz delle forze speciali russe nella capitale ucraina. La fotografia di Polina, la bimba dalla ciocca di capelli rosa che frequentava l’ultimo anno della scuola elementare, con le pepite turchesi in mano aveva fatto il giro del mondo. Era stata pubblicata sui social da Bondarenko.

La notizia della sua morte era stata data sabato scorso, a poche ore dall’inizio dell’operazione per “smilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina annunciata in televisione dal Presidente russo Vladimir Putin. Il fratellino Semyon era stato ricoverato nella terapia intensiva dell’ospedale pediatrico di Okhmatdyt. È sopravvissuto solo pochi giorni. Le prime notizie avevano parlato di un bombardamento poi smentito dalla ong italiana Soleterre. La famiglia è stata colpita nei combattimenti in strada.

La guerra colpisce anche i bambini. Lunedì scorso. Il Presidente Volodymyr Zelensky aveva parlato di 16 bambini rimasti vittime del conflitto – i bollettini del conflitto di Kiev e Mosca non combaciano, in questa fase caotica del conflitto i dati sono parziali e alterati dalla propaganda. L’ospedale Okhmatdyt, nel centro di Kiev – dove arrivavano pazienti da tutta l’Ucraina -, aveva trasferito tutti i pazienti negli scantinati. E proprio nei sotterranei sono nati dei bambini. “I nostri medici sono incredibilmente orgogliosi! Nessun ospedale ha chiuso, tutti lavorano e forniscono assistenza medica. Nessuno aveva paura e tutti guardiamo coraggiosamente negli occhi del nemico. Siamo sulla nostra terra! Proteggiamo le nostre famiglie. Ognuno è al suo posto come meglio può”, aveva dichiarato il ministro della sanità ucraino, Viktor Lyashko al canale telegram Ukrain Now.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Morto anche il fratellino di Polina: aveva solo 5 anni. Il dramma dei bambini in Ucraina, vittime innocenti della guerra e nati nei bunker sotto le bombe. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 3 Marzo 2022.  

Polina aveva solo 11 anni. La sua immagine, capelli biondi e una mèche rosa, ha fatto il giro del mondo. Alisa invece di anni ne aveva 7, ne avrebbe compiuti 8 tra tre mesi, e viveva nel Donbass. Sono morte entrambe: due giovanissime vite spezzate dalla guerra, che sta facendo pagare ai più piccoli un prezzo terribile.

Sarebbero almeno 17 i bambini e gli adolescenti morti in 8 giorni di conflitto: ma queste sono solo le segnalazioni che le Nazioni Unite hanno potuto verificare, il vero numero delle vittime è probabilmente molto più alto. Mentre gli appelli di Save The Children si moltiplicano: secondo l’organizzazione sarebbero ‘decine’ le vittime tra i bambini e già 400mila quelli che hanno lasciato il Paese in cerca di salvezza, molti dei quali non hanno nulla se non i vestiti che indossano.

L’ultimo, tremendo bilancio parla di circa 2mila morti tra i civili.

Polina, morta insieme ai suoi genitori

Polina frequentava l’ultimo anno della scuola primaria. Nella foto che la ritrae sorride mostrando delle pietre, probabilmente per lei preziosissime. Lunedì scorso era in auto con i genitori, il fratello e la sorella in una strada a nord-ovest di Kiev, dove si è verificato uno scontro tra le forze speciali russe e l’esercito ucraino. Lei è morta insieme alla mamma e al papà. Oggi, secondo il Telegraph, è deceduto anche il fratellino Semyon di 5 anni mentre la sorella maggiore Sofia, di 13, è ancora ricoverata in gravi condizioni, senza sapere che il resto della sua famiglia non c’è più.

Sofia e Ivan avevano rispettivamente sei anni e poche settimane: sono morti in un attacco a Cherson, a Sud del Paese, stando a quanto riportato da Yevhen Zhukov, capo della polizia di pattuglia ucraina. La famiglia stava provando a fuggire in automobile: con loro colpiti anche i nonni.

Alisa e gli altri di cui non conosciamo il nome

Alisa si era rifugiata con la mamma in un asilo di Ochtyrka durante un bombardamento russo, nel secondo giorno di guerra. È stata raggiunta da una scheggia ed è morta il giorno dopo in ospedale, come ha denunciato la procuratrice generale Irina Venediktova. Un secondo bambino è stato invece ricoverato in terapia intensiva. 

A Mariupol, città sul Mare d’Azov, la bambina dal pigiamino con gli unicorni e i capelli castani è morta in sala operatoria: i medici non sono riusciti a salvarle la vita. Il palazzo in cui viveva è stato sventrato, racconta Repubblica. La madre l’ha attesa invano fuori dall’ospedale, con in mano le sue pantofole rosa e la sua sciarpa con un pon pon.

Appena tre giorni prima un altro bambino di 6 anni era rimasto vittima del bombardamento nel suo condominio di Chuhuiv, cittadina alle porte di Kharkiv.

Via dall’Ucraina i bimbi malati di cancro

Bimbi che muoiono, altri che rischiano di morire senza le cure adeguate. Sono atterrati a Linate oggi 3 marzo i primi 12 piccoli pazienti oncologici, insieme ai loro familiari: in Italia potranno continuare le terapie salvavita. Il volo umanitario è stato organizzato dalla Regione Lombardia a supporto del lavoro che Soleterre, Ong che opera da oltre 20 anni in Ucraina, porta avanti per garantire i trattamenti ai bimbi malati di tumore.  “Questi piccoli pazienti – ha raccontato il presidente di Fondazione Soleterre, Damiano Rizzi – hanno percorso 2.255 chilometri. Abbiamo creato un corridoio umanitario per farli uscire dalla capitale Ucraina e toglierli dalle bombe. Tutti i pazienti sono stati evacuati con il personale sanitario e i loro genitori. Un viaggio stremante, in treno, bus e persino a piedi, durante il quale sono state sempre garantite le cure.”

Una vera e propria ‘operazione lampo’. Ora tutti i pazienti provenienti dai centri oncologici di Kiev si trovano presso l’Ospedale pediatrico di Leopoli: “Da lì verranno afferiti alle diverse strutture europee che hanno offerto disponibilità all’accoglienza, in primis la Polonia” ha sottolineato Rizzi.

I bimbi che nascono nei bunker

E poi c’è la vita. Quella che continua nonostante la guerra e rappresenta la speranza, nelle cantine e nei rifugi sotterranei dove i civili che non possono o non riescono a fuggire dal Paese trovano riparo. Ed è proprio qui che i bimbi ora nascono.

L’immagine di Mia, la bambina nata in rifugio antiaereo a Kiev, ha commosso il mondo. La sua storia è stata raccontata dalla presidente della conferenza ‘Democracy in Action’ Hannah Hopko: “Mia è nata in un rifugio questa notte in un ambiente stressante, durante il bombardamento di Kiev. Sua madre è felice dopo questo parto difficile. Difendiamo la vita e l’umanità”. Ma non è stata l’unica a venire al mondo nei giorni più difficili e cupi dell’Ucraina.

Un altro bimbo, di cui non si conosce il nome, è nato sempre il 25 febbraio nel seminterrato di un ospedale della capitale, dato che la sala parto era stata distrutta dalle bombe. Come loro Fedor, che sua madre Viktoria ha partorito in bunker freddo e fatiscente, nel secondo giorno di conflitto, mentre fuori si sentivano le sirene e le bombe russe. “Mentre lo tenevo stretto nel bunker, gli ho detto: sei fortunato, sei unico, sei nato in Ucraina, sei la nuova Ucraina” ha raccontato la donna al Guardian. Mariangela Celiberti 

"Sembrava un incubo e volevamo svegliarci". Guida per 27 ore per salvare donne e bambini ucraini, la storia di Alina: “Appena superato il confine abbiamo pianto”. Rossella Grasso su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

È partita da Leopoli venerdì, a poche ore dallo scoppio della guerra, ha guidato per 27 ore di seguito a bordo di un furgone carico di donne e bambini. Alina, ucraina, vive a Napoli da 22 anni. Era andata a trovare la sua famiglia a Leopoli quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina. Un rapido giro di telefonate e in poche ore era in partenza di ritorno verso Napoli insieme a un gruppo di donne e bambini.

“Abbiamo passato 18 ore alla frontiera – racconta Alina – Ci abbiamo messo tre giorni per arrivare in Italia. Ho guidato da sola per 27 ore, la paura era tanta. I bambini hanno paura delle sirene. Quando siamo entrati in Europa i bambini hanno sentito un aereo che passava sulle nostre teste sono scoppiati a piangere perché avevano paura che potessero cadere delle bombe. Noi gli abbiamo detto: ‘guardate, qui non c’è la guerra’. Ma è una cosa difficile per i bambini da capire. Come mai a soli 2mila chilometri c’è la guerra e qui no?”.

“Eravamo tutti disorientati, sembrava che stavamo vivendo un incubo e volevamo svegliarci da quell’incubo. Non conoscevo i miei compagni di viaggio. Erano amici di amici che mi hanno chiamata, chi mi ha chiesto come poteva fare ad attraversare la frontiera, donne spaventate che volevano venire con me perché gli uomini non possono uscire dall’Ucraina. E così ci siamo organizzati per partire insieme”.

Una volta partiti il viaggio è durato 3 giorni. “Alla frontiera c’erano decine e decine di chilometri di coda. Avevamo con noi una bambina piccola che ha solo il certificato di nascita ucraino. Ma ci hanno fatti passare. Sono riuscita a rimanere sveglia per 27 ore, guidando da sola. Poi siamo arrivati a Budapest e le donne e i bambini sono scesi un po’ dal camion perché non ce la facevano più. Arrivati a Udine ci stava aspettando un ragazzo che ci avrebbe aiutati a scendere a Napoli e così sono riuscita a riposare un po’”.

“Ero a casa mia in Ucraina per le feste, mai mi sarei aspettata di trovare la guerra – continua il racconto Alina –  Per fortuna però che ero lì così sono riuscita a portare con me alcune persone. A casa mia si sono rifugiate persone da Kiev, dal centro dell’Ucraina. La situazione lì era tragica già prima che partissimo. Avevamo paura perché anche nelle città all’ovest hanno bombardato i militari e tu non lo sai. Puoi vivere vicino ai militari e la bomba può finire chissà dove”.

Alina racconta che i camion e gli autobus vanno e vengono da Napoli all’Ucraina. “Ieri sono arrivati qui altri 15 persone, un’altra macchina è partita per l’ucraina poche ore fa, abbiamo già caricato alcuni tir con i beni di prima necessità da mandare in Ucraina. Stiamo raccogliendo medicine, vestiti, alimenti a lunga conservazione da mandare ai nostri concittadini. In primis mandiamo medicine e cibo, poi vestiti, torce, batterie e tutto quello che può essere utile anche a chi vive nelle campagne, per guardarsi intorno di notte e difendersi”.

I primi camion sono partiti, Alina vigila su consegne e smistamento nei pacchi nel punto di raccolta di via pagano 33, nel cuore del Rione Sanità di Napoli. Insieme a un gruppo di connazionali sta raccogliendo tutto ciò che può servire in Ucraina a chi sta combattendo. “Per ora sta andando tutto bene – ha concluso Alina – Ma ci hanno detto che stanno sparando e quindi chi porta i beni ha paura di entrare là nei posti dove ci sono i russi. C’è chi non ha paura e va lo stesso e rischia la propria vita per portare da mangiare a questi bambini che sono rimasti negli scantinati”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

L’impresa di Zazo: l’ambasciatore italiano in Ucraina ha salvato 20 minori. Il Quotidiano del Sud il 2 Marzo 2022.

Nel trasferimento dell’ambasciata d’Italia da Kiev a Leopoli l’ambasciatore Pierfrancesco Zazo è riuscito a portare in salvo anche circa 20 minori, tra cui 6 neonati, che aveva accolto in ambasciata in questi giorni perché privi di un posto sicuro dove stare.

L’ambasciatore Zazo è stato l’ultimo rappresentante diplomatico europeo, in ordine di tempo, a trasferire l’ambasciata a Leopoli, una decisione dettata dalla necessità di assicurare la piena operatività della sede diplomatica a sostegno dei connazionali.

“Sono ore drammatiche, abbiamo vissuto momenti difficilissimi, in cui abbiamo avuto paura anche di perdere la vita – racconta uno degli italiani rientrato da Kiev insieme alla famiglia nelle scorse ore –. Vorrei ringraziare l’Ambasciatore Zazo e tutto il suo staff per l’aiuto che ha dato agli italiani bloccati in Ucraina. Ci ha aperto le porte dell’Ambasciata, insieme a decine di altre persone, fra cui moltissimi bambini. Siamo stati accolti nell’abitazione dell’Ambasciatore che ci ha messo a disposizione cibo e un rifugio. Ora sono al sicuro in Italia, ma sento dagli amici ucraini che la situazione a Kiev è molto peggiorata e i rischi di un attacco sulla città sono concreti. Spero davvero riescano a mettersi in salvo, e che questa guerra disumana e senza senso finisca al più presto”.

“È stata una brutta avventura: ero a Kiev, l’attacco delle 5.02 della notte mi ha svegliato, avevo paura. I missili avevano colpito l’aeroporto di Boryspil. Ho provato a scappare in Polonia ma dopo dieci chilometri il traffico era paralizzato, così sono andato all’ambasciata. E lì ho trovato una persona che mi ha salvato, l’ambasciatore italiano a Kiev Pier Francesco Zazo: ha messo a disposizione la sua residenza, tre piani, a 105 persone”. È pieno di emozione il racconto di Luciano Luci, 72 anni, ex arbitro di calcio (con 100 presenze in serie A) che era a Kiev come designatore per la serie A e B ucraina.

Luci è atterrato oggi alle 13.40 all’aeroporto fiorentino di Peretola, con un volo diretto da Francoforte dopo essere partito con un pullman da Kiev verso la Moldavia. “Abbiamo vissuto notti con continui allarmi. Alla fine ce l’abbiamo fatta”, racconta ancora Luci che aveva aperto il suo racconto precisando: “La prima cosa che voglio dire è gloria all’Ucraina, gloria agli eroi ucraini”.

All’arrivo a Firenze Luci è stato accolto dalla moglie Gianna e da uno dei figli, Stefano. Raggiungerà la sua abitazione a Barberino di Mugello (Firenze) dove sarà accolto, con una piccola festa, dai suoi concittadini.

“Grande orgoglio l’ambasciatore italiano in Ucraina Pier Francesco Zazo, che nel trasferimento dell’ambasciata da Kiev a Leopoli ha portato in salvo un gruppo di minori e neonati. L’ennesima riprova del lavoro straordinario del corpo diplomatico e delle forze armate. Grazie”. Lo scrive in un tweet il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola.

Il ministro della difesa ucraino: "Nostre città avamposti dell'Europa". Civili uccisi, esercito russo “codardo e terrorista”. Reznikov: “Sangue e lacrime, 168 ore di resistenza”. Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

Non sono soldati ma “codardi e terroristi” perché “stanno bombardando ospedali, uccidendo donne e bambini”. Parole del ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov secondo il quale gli invasori, temendo la sconfitta, avrebbero cominciato a commettere crimini contro l’umanità.

“Non sono più un esercito, sono comuni codardi e terroristi. Ci sono ancora molte prove da affrontare. Ci saranno sangue, lacrime, dolore. Ma ora più che mai abbiamo tutte le ragioni avere fiducia” perché “le capacità delle nostre forze armate stanno crescendo, gli aiuti stanno arrivando” ha sottolineato Reznikov, attraverso i propri canali social.

“Prima che tutto questo accadesse, in pochi avrebbero immaginato che avremmo potuto resistere alla Russia per 168 ore. Per un’intera settimana. Ma è così: l’Ucraina – chiosa – ha respinto gli occupanti russi. Ma nessuno, lo ripeto, né la Russia né l’Occidente credeva che saremmo durati una settimana. Gli unici che lo credevano eravamo noi” ovvero la maggioranza degli ucraini.

Il ministro della Difesa che “Chernihiv, Sumy, Konotop, Kharkiv, Mariupol, Kherson, Mykolayiv sono gli avamposti dell’Europa” e lancia un ulteriore invito alla “resistenza totale” contro le truppe russe: “E’ arrivato il momento di aumentare la pressione sul nemico, che ha perso l’iniziativa. E’ il momento di passare alla resistenza totale”. Reznikov si è rivolto soprattutto ai cittadini dei territori temporaneamente occupati dalle truppe russe. Con il vostro aiuto il nostro esercito vincerà e scaccerà più velocemente gli occupanti. Le truppe russe devono essere private del supporto della retroguardia”, ha sottolineato.

Poi l’invito ad attaccare le colonne di rifornimento che seguono le quelle corazzate. “Se il nemico rimane senza carburante, rifornimenti, cibo, supporto tecnico, non sarà in grado di fare nulla”.

I Feriti. Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 23 maggio 2022.

C'è un'altra emergenza nei territori dell'Ucraina orientale, già martoriata dal conflitto iniziato il 24 febbraio con l'invasione della Russia. E riguarda gli ospedali, dove mancano medici, infermieri, medicinali e attrezzature per curare i feriti e salvare chi arriva in pericolo di vita. Molti hanno abbandonato il Donbass già allo scoppio dei primi missili, altri se ne sono andati dopo, incapaci di reggere una situazione insostenibile. Non è quello che ha fatto Yaroslav Bohak, chirurgo cardiovascolare che ha ricevuto una telefonata la notte dell'invasione.

Come racconta in un reportage il New York Times, si trovava a casa sua, al sicuro, nell'ucraina occidentale, quando un collega lo ha chiamato rivolgendogli un appello disperato: a Kramatorsk c'era bisogno di aiuto, i chirurghi rimasti erano costretti ad amputare gli arti invece che tentare di salvarli. «Mi ha telefonato ha raccontato e mi ha detto che non riusciva più a tagliare le braccia a ragazzi così giovani».

E così il dottor Bohak ha deciso di partire e ancora oggi continua a operare tra le bombe e i missili chiunque varchi la soglia dell'ospedale, siano questi civili, militari o nemici. Come quando a richiedere assistenza è stato un soldato russo, trasportato d'urgenza e curato «con umanità», mentre degli addetti alla sicurezza piantonavano la sua stanza per evitare ritorsioni.

L'ospedale più vicino in grado di trattare i casi più disperati è a Dnipro e dista a 280 chilometri e arrivarci per la maggior parte dei feriti è un'impresa troppo pericolosa. «Questo è il motivo per cui il mio arrivo è stato così importante», ha spiegato. Da quando è arrivato in corsia come volontario le amputazioni sono state ridotte quasi a zero.

Dei dieci medici ne sono rimasti solo due e i sei infermieri lavorano a turni di 24 ore, senza sosta.

Sono quasi tutti volontari perché le persone, ha raccontato la caposala, «hanno paura» e qui restano solo «gli stoici». E lo stesso sta accadendo nelle altre cittadine che si trovano loro malgrado in prima linea. Ad Avdiivka l'unico chirurgo in corsia ha trascorso mesi nelle sale del pronto soccorso, uscendo solo per qualche corsa veloce al supermercato, tra i bombardamenti. A Sloviansk è rimasto un terzo dello staff.

Non è solo il personale a scarseggiare: un altro chirurgo, Pavlo Baiul, ha lanciato un appello all'American Society of Plastic Surgeons di cui è membro affinché inviino forniture mediche. «Anche se molto ci viene inviato ha raccontato - non tutto arriva a destinazione, c'è bisogno di molto altro». «Nessuno ti prepara per la guerra», ha aggiunto Svitlana Druzenko, che coordina l'evacuazione dei feriti dalle zone di combattimento. A maggior ragione in una zona così densamente popolata che non era abituata a dover gestire un numero così elevato di feriti.

Nonostante gli avvertimenti dell'Occidente e in particolare dalla Casa Bianca sulle intenzioni belliche della Russia, in molti in Ucraina si erano rifiutati di credere che un'invasione potesse avvenire davvero. E quando l'attacco è cominciato gli ospedali non erano pronti ad affrontare una simile emergenza, con un aumento vertiginoso di pazienti e soprattutto di ferite da guerra.

 Come ha testimoniato un altro chirurgo volontario nell'ospedale militare di Zaporizhzhia, Maksim Kozhemyaka, gli ospedali si sono ritrovati all'improvviso «inondati da 30 o 40 pazienti al giorno» e non avevano «abbastanza materiale per curare ferite inflitte da arma da fuoco o altre ancora più gravi». «Non credevamo potesse accadere», ha concluso.

I Prigionieri. Lo scambio che umilia Mosca. Liberati i "nazisti" dell'Azov. L'accordo: tornano a Kiev 205 soldati del battaglione. In Russia l'oligarca Medvedchuk, amico di Putin e Trump. Angelo Allegri il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Per il presidente della Duma Vyacheslav Volodin gli uomini del battaglione ucraino Azov erano semplici «criminali nazisti» che meritavano un processo immediato ed esemplare. E ai tempi della loro cattura, alla caduta di Mariupol, i politici russi avevano fatto a gara nel chiedere pene severe fino alla morte. Sono passati pochi mesi e i «nazisti» dell'Azov sono già tutti casa. Tutti salvo cinque, i capi, che in base all'accordo mediato dal presidente Recep Tayyp Erdogan, dovranno rimanere in Turchia (in libertà e con ogni possibilità di frequentare le famiglie) fino alla fine della guerra. Tra loro due nomi ormai leggendari in Ucraina, il comandante Denys Prokopenko (nome di battaglia Redis) e il vice Svaytoslav Palamar (Kalyna).

È il frutto dello scambio di prigionieri più clamoroso mai avvenuto tra Mosca e Kiev. Da una parte 215 soldati di reparti ucraini (ci sono anche 10 foreign fighters, tra cui 5 britannici e 2 americani); dall'altra 55 militari russi, anche loro già arrivati in patria. Questi almeno sono i termini dello scambio secondo il comunicato ufficiale del Ministero della difesa russo. Che ha dimenticato di citare solo un nome (reso noto nella notte di ieri dal governo di Kiev), quello, però più importante, il perno intorno a cui ha girato tutta la trattativa: Viktor Medvedchuk, oligarca ucraino, amico personale di Vladimir Putin, arrestato dal governo di Volodymyr Zelensky poche settimane dopo l'inizio della guerra.

La dimenticanza è il segnale dell'imbarazzo con cui le autorità di Mosca hanno dovuto gestire un accordo che agli occhi dei nazionalisti russi è impresentabile. Ieri i canali Telegram locali ribollivano di indignazione. «Che cosa ci avevano detto due mesi fa? Che non li avrebbero mai liberati» scriveva Grey Zone, considerato vicino al Gruppo di mercenari Wagner. Igor Girkin, ex colonnello del Fsb ed ex capo delle milizie del Donbass era ancora più chiaro: «È peggio di un crimine e di un errore, è stupidità pura». Altri blogger parlavano di sabotaggio, mentre Denis Pushilin, leader della Repubblica di Donetsk, ha detto di capire chi considerava l'intesa «ambigua».

Liberare i «nazisti», contro i quali la guerra è iniziata, appare già difficilmente giustificabile agli occhi dell'opinione pubblica. Se poi la liberazione avviene in cambio del miliardario amico di Putin si rischia davvero il corto-circuito propagandistico. Ma con tuta evidenza, almeno a giudicare dal prezzo pagato per liberarlo Medvedchuck è una pedina per Putin troppo importante. Non solo per i rapporti personali (il leader russo è stato padrino di sua figlia) ma soprattutto per i suoi legami politici e affaristici. Per anni è stato il pro-console del Cremlino in terra ucraina, ma soprattutto ha accumulato una fortuna facendo da mediatore in campo energetico nelle compravendite di gas verso l'Ucraina e l'Europa, uno dei pilastri dell'economia clientelare su cui Putin ha costruoto il suo potere. Non solo. L'oligarca è stato coinvolto anche nelle inchieste americane sulle ingerenze del Cremlino nelle elezioni del 2016. Il businessman era tra i clienti di Paul Manafort, che aveva fatto da consulente ad alcuni politici locali, prima di diventare responsabile della campagna elettorale di Donald Trump. Negli atti dell'Fbi, segnala la stampa Usa, figurano molte telefonate tra uomini vicini a Trump e lo stesso Medvedchuck.

Insomma, il miliardario è con tutta probabilità depositario di molte verità e di molti segreti. E anche per questo Andrij Yermack , uno degli uomni più vicini a Zelensky, ha sentito il bisogno di giustificarsi: «Era uno scambio che valeva la pena fare». E Medvedchuck «ha già detto tutto quello che sapeva».

Chi è Medvedchuk l'alleato di Putin scambiato per 200 prigionieri ucraini. Enrico Franceschini su La Repubblica il 22 settembre 2022.

L’uomo scambiato con duecento militari di Kiev è il più stretto alleato di Putin all’interno dell’Ucraina. Secondo fonti dell’intelligence americana, Viktor Medvedchuk sarebbe stato messo dal Cremlino a capo di un governo fantoccio a Kiev, se l’invasione russa lanciata il 24 febbraio scorso si fosse conclusa rapidamente come sperava Putin rovesciando il governo legittimamente eletto di Volodymyr Zelensky. Le cose per il 67enne oligarca ucraino sono andate diversamente, ma alla fine ha potuto ricongiungersi con il suo padrino politico russo. Se Putin è stato pronto a consegnare all’Ucraina più di duecento prigionieri, inclusi cinque volontari britannici, in cambio della sua liberazione, significa che Medvedchuk è molto caro al leader supremo di Mosca. Non è escluso che sappia cose che Putin preferisce tenere nascoste e anche per questo ha fatto di tutto per averlo in Russia, piuttosto di lasciarlo in mano all’Ucraina e, potenzialmente, all’Occidente che la sostiene.

Di professione avvocato, Viktor Medvedchuk si è rapidamente arricchito durante la privatizzazione selvaggia dell’economia che ha fatto seguito anche in Ucraina al crollo dell’Unione Sovietica. Capo dello staff del presidente ucraino Leonid Kuchma dal 2002 al 2005, è poi stato eletto deputato alla guida del principale partito filo-russo dell’Ucraina. Putin lo ha definito un suo “amico personale”. I due sono stati fotografati spesso insieme a eventi sportivi e manifestazioni. Il presidente russo è addirittura il padrino della figlia di Medvedchuk. Come molti alti esponenti della nomenklatura di Mosca, quest’ultimo ha abilmente mescolato affari e politica, mettendosi al servizio degli interessi del Cremlino.

Nel 2021 è stato arrestato dalle autorità di Kiev con l’accusa di terrorismo e attività contro gli interessi nazionali ucraini. Nel febbraio 2022 è riuscito a evadere dagli arresti domiciliari. Ma due mesi dopo è stato catturato e arrestato dalle forze ucraine. Indossava un’uniforme mimetica ucraina, non è chiaro a quale scopo. Ieri è stato liberato, insieme a 55 soldati russi, in cambio di 215 prigionieri di guerra ucraini catturati dalle forze di Mosca principalmente durante l’assedio di Mariupol. Medvedchuk aveva ospitato di frequente Putin nella sua villa in Crimea. Il suo yacht è stato sequestrato in Croazia dopo che gli Stati Uniti e l’Unione Europea lo hanno messo nella lista di individui legati al Cremlino colpiti dalle sanzioni.  

Mykhailo Dianov, il combattente dell’Azovstal dopo 4 mesi di prigionia russa. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.

«Guardate come lo hanno ridotto» dice al Corriere Katherina Prokopenko, moglie del comandante dell’Azov. «Felice che mio marito sia ora in Turchia ma sono preoccupata per le migliaia di difensori ancora in mano russa». 

Mykhailo Dianov è uno dei combattenti ucraini liberati nello scambio i prigionieri di mercoledì. Aveva fatto il giro del mondo la foto di lui che regge una tazza con un braccio ferito appeso al collo e l’altra mano che fa la «V» in segno di vittoria, un sorriso accennato nel buio dell’Azovstal della Mariupol accerchiata dai russi. Uno scatto di Dmytro «Orest» Kozatsky, fotografo di Azovstal, pure lui ora libero. 

Una delle immagini simbolo della resistenza di questi combattenti piegati da mesi di assedio dentro l’acciaieria ma indomiti. A guardarlo ora, però, questo marine è irriconoscibile. A guardare come lo hanno ridotto quattro mesi di prigionia russa, l’entusiasmo per il suo rilascio, a dir poco, si smorza. L’immagine diffusa sui social da una giornalista ucraina mostra le sue costole in evidenza, il braccio deformato come se fosse stato compresso a lungo, le borse enormi sotto gli occhi, di uno deprivato del sonno. Segni di cicatrici fisiche e morali che non hanno comunque spento del tutto il suo sorriso, anche qui, accennato.

«Guardate come lo hanno ridotto, questa foto è un pugno nello stomaco, penso a quello che stanno vivendo ancora gli altri difensori ucraini finiti in mano russa» dice al «Corriere» Katherina Prokopenko, moglie del super comandante del reggimento Azov. 

«Provo emozioni contrastanti: sono felicissima che Dennis sia vivo, che sia stato estradato in Turchia, ma sono molto preoccupata per gli altri prigionieri, sono migliaia, la nostra battaglia non è finita» dice da Washington dove si trova da giorni per sensibilizzare alla causa anche senatori e deputati del Congresso. «Non vedo l’ora di poter riabbracciare Dennis, ma non mi hanno comunicato ancora dove e quando posso raggiungerlo. Mi ha chiamato dalla Turchia, una telefonata brevissima, di nemmeno un minuto: mi ha detto che si trova in un posto sicuro, che sta facendo dei controlli medici, che mi ama».

Azovstal, le foto che hanno colpito il mondo in un libro rivelazione. Foto crude e verità da raccontare. Gli scatti del fotografo di guerra del Battaglione Azov Dmitry Kozatsky - caduto prigioniero dei russi - vincono il prestigioso concorso fotografico francese e diventano libro rivelazione Italia. Davide Bartoccini il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Le ormai note foto di Dmitry “Orest” Kozatsky, il fotografo di guerra del Battaglione “Azov” che è rimasto asserragliato con i suoi compagni nell’acciaieria Azovstal posta d’assedio da russi, hanno colpito non solo il mondo, ma la giuria del prestigioso concorso fotografico Px3 che ha scelto di premiarle nella categoria “Stampa”.

Mentre il reporter di guerra autore degli scatti che hanno raccontato al mondo cosa è stato vivere asserragliati nelle viscere di cemento della fabbrica di Mariupol era prigioniero degli stessi russi che hanno espugnato la fortezza scelta dal Battaglione Azov come la propria “Fort Alamo”, a Parigi le foto dei feriti, sporchi e sorridenti tra le macerie dell’ex acciaieria d’epoca sovietica raccoglievano un plauso unanime. In Italia uscirà un libro per celebrarlo e parte del ricavato sarà donato per la riabilitazione dei feriti e mutilati ucraini. Contenente tutti gli scatti che Kozatsky - poco prima di consegnarsi ai russi come ordinato ai difensori di Azovstal dal Governo ucraino - è riuscito a caricare su Twitter. Insieme a due contenuti "inediti" per l'America e l'Europa. Le foto, una ventina su almeno un centinaio di scatti immortalati nel corso dei combattimenti per difendere la città di Mariupol, seguirono questo ultimo messaggio: "Beh, questo è tutto. Grazie per il rifugio, Azovstal è stato il luogo della mia morte e della mia vita. Mentre sono prigioniero vi lascio le mie foto in alta qualità, mandatele a tutti i premi giornalistici e concorsi fotografici. Sarà molto bello se vinco qualcosa, dopo essere uscito. Grazie a tutti per il vostro sostegno, ci vediamo”.

Un messaggio che è stato raccolto, e contiene un certo timore per la propria incolumità che il proseguire degli eventi sembra aver scongiurato. Ce ne ha parlato Andrea Lombardi, direttore di Italia Storica: "Dopo aver pubblicato per la prima volta in Italia il libro Valhalla Express. La storia di un nazionalista, rivoluzionario e volontario ucraino nel Battaglione “Azov”, una testimonianza scomoda - sfatante numerosi miti sia degli “atlantisti” che dei “filo russi” italiani - e in presa diretta degli scontri di Maidan e dell’inizio della guerra in Donbass nel 2014, abbiamo deciso di portare all’attenzione dei nostri lettori e del pubblico italiano le eccezionali fotografie di Dmitry Kozatsky, di grandissimo valore artistico e di documentazione storica" spiega Lombardi, che come editore ha sempre improntato il suo lavoro minuzioso nella pubblicazione di testi che vanno a colmare diverse "lacune", rispolverando inediti di mostri sacri come Céline, Limonov, e dell'ex Ss De la Mazière (del quale ha pubblicato per la prima volta in Italia "Il Sognatore con l'elmetto") .

Gli scatti del fotografo-combattente del temuto e controverso Battaglione Azov - molti dei quali completamente inediti - si concentrano sui momenti di combattimento e sull'attesa, vissuta dai combattenti come dai molti civili ucraini, che sono rimasti asserragliati nei sotterranei dell'acciaieria. Tutte le fotografie sono accompagnate dalle "trascrizioni dei comunicati del Comando dei difensori ucraini di Azovstal", spiega Lombardi, che tiene a precisare come grazie al contributo di Monica Mainardi il testo sia integrato di una "necessaria" cronologia dei combattimenti. Un vademecum contro la disinformazione che si è diffusa e est ed ovest del fronte e di quella che era diventata l'ultima sacca di resistenza dell'importante città portuale del Mar d'Azov.

La volontà di fare chiarezza

Non solo spirito di divulgazione, che attraverso le immagini raccogliere l'appello del fotografo già premiato il Polonia e Francia, ma anche la necessità, come voce esperta nel settore storico-militare, di fare chiarezza quando se ne presenta l'occasione. Facendo una ricostruzione doverosa di cosa è stato l'inferno dell'Azovstal, e di tutto ciò di cui invece non è stata trovata traccia sebbene se ne sia a lungo scritto e discusso: "necessaria perché, tra le tante imprecisioni di più o meno disinformati o disinformanti commentatori italiani filorussi o acriticamente antiamericani - una su tutte quella dei pretesi “laboratori biologici e ufficiali Nato sotto Azovstal” - questa fase del conflitto è ridotta alla sola difesa del complesso di Azovstal, mentre le aliquote del Reggimento “Azov”, la Fanteria di Marina e gli altri reparti ucraini sono riusciti a difendere prima i confini e poi la città di Mariupol per mesi, impegnando forze corazzate e di fanteria russe e milizie separatiste di gran lunga superiori in numero".

Questa resistenza estrema, che non può essere paragonata alla fantasioso stoicismo dei "Leoni Morti" di Saint-Paulien, ma che in qualche modo trovo nell'immaginario comune di molti un facile paragone con le SS della Charlemagne, ha impedito all'alto comando russo di di concentrare forze e mezzi su altri fronti. Smentendo più volte le aspettative di Mosca, come quelle dei molti analisti militari occidentali.

Un epilogo diverso da raccontare

"Anche la resa dei superstiti e dei civili ucraini è stata oggetto di accuse tanto infamanti quanto disinformate, mentre è invece avvenuta dietro un preciso ordine superiore delle massime autorità politiche e militari ucraine, e quando ormai da un punto di vista operazionale militare il proseguire quel sacrificio di militari e civili – dopo ben tre mesi di resistenza – aveva un impatto ormai marginale sul corso delle operazioni offensive russe", spiega Lombardi. Che torna a concentrasi sul paragone fatto più e più volte - in virtù delle fascinazioni e para-ideologie neonaziste nutrite dal battaglione Azov - e cerca di fare un po' di chiarezza nell'epilogo delle "difesa a tutti i costi" dal passato recente, e non meno di quello remoto ormai entrato nell'immaginario comune.

"Basti pensare che nella Battaglia di Berlino, la più citata a sproposito a paragone, a parte alcuni singoli casi, le unità della Wehrmacht e Waffen-SS assieme alle ben più numerose forze raccogliticce paramilitari della Volkssturm e Hitlerjugend... esaurite le possibilità di difesa e raggiunti i propri limiti di umana resistenza, una volta ricevuta notizia della morte di Hitler e della fine dei combattimenti, cercarono in massa di sfondare verso ovest per raggiungere gli Alleati, o si arresero all’Armata Rossa, al contrario della pretesa “resistenza sino all’ultimo uomo” di una certa vulgata, comprensibile sulla base di un certo immaginario, ma quantomeno discutibile dal punto di vista storico-militare". Questa realtà oggettiva sfata quindi il mito della resistenza fino all'estremo sacrifico da mito dell'Assedio di Masada (73 d.c.). Solo una cosa può a dire il vero tornare come consuetudine: l'attenta diesamina che i soldati di Mosca hanno effettuato sugli arresi, per separare in base ad interrogatori e addirittura cercandone i tatuaggi, i soldati del battaglione Azov dai fanti di marina ucraini e dagli sbandati degli altri reggimenti che erano rimasti intrappolati nella due "sacche di resistenza" di Mariupol. Allora si pensava per riservare loro un trattamento inumano, o peggio per abbandonarsi alla vendetta. Ma l'epilogo sembra essere stato diverso.

Fino a pochi giorni fa Dmitry Kozatsky si trovava in una “in una prigione nel territorio occupato di Donetsk” sotto il controllo di personale militare filo-russo. Questo era lo stato delle cose, quando il 2 agosto ha ricevuto il permesso di telefonare ai suoi parenti e rassicurarli di essere rimasto in vita dopo la cattura. A riportarlo fu la sorella Daria Yurchenko.

Completamente inattesa la notizia di uno scambio di prigionieri andato a buon fine tra tra Mosca e Kiev. Scambio che ha visto nel "pacchetto" anche il fotografo-reporter Kozatsky. Il capo della Sbu (servizio segreto ucraino, ndr) Vasyl Malyuk ha rivelato i dettagli di questo delicato scambio mediato dalla Turchia, rivelando che 215 soldati catturati nell'Azovstal - di cui 108 inquadrati nel battaglione Azov, compreso il comandante Denys "Redis" Prokopenko - sono stati restituiti a Kiev in cambio della libertà di Viktor Medvedchuk, l’oligarca ucraino amico di Putin, e di altri 51 prigionieri. Un'opzione che era stata definita inaccettabile in precedenza. Adesso Kozatsky scoprirà quanto i suoi scatti abbiano inciso nell'epica di questa battaglia moderna.

Anna Zafesova per “La Stampa” il 24 agosto 2022.

«Tenere un uomo la cui colpa non è ancora stata dimostrata in gabbia di fronte al giudice è assolutamente inammissibile». Mentre nella sala della filarmonica di Mariupol operai inviati da Pietroburgo stanno saldando le gabbie che dovranno ospitare gli imputati del maxi processo ai militari ucraini, un esponente importante del potere di Mosca, il senatore Andrey Klishas, chiede al parlamento di abolire la pratica delle gabbie nelle aule dei tribunali. 

Il senatore è un membro importante dell'establishment putiniano, autore di alcune delle più repressive iniziative legislative del Cremlino, molto vicino secondo alcuni esperti alle fazioni più dure del regime putiniano. La sua svolta "garantista", anche se non lo dice chiaramente, è molto probabilmente il segnale di uno scontro in atto nelle ultime settimane a Mosca, non più tra falchi e colombe (il Cremlino ultimamente non è un habitat favorevole ai messaggeri di pace), ma tra i fautori della linea dura e i pragmatici.

E una delle linee di scontro, soprattutto dopo l'attentato che ha ucciso la figlia dell'ideologo degli oltranzisti Aleksandr Dughin, passa sulla necessità o meno di processare i prigionieri di guerra ucraini. Una linea rossa che Volodymyr Zelensky ha tracciato senza mezzi termini: «Se la Russia terrà il processo potrà scordarsi qualunque negoziato». Una minaccia che il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ieri ha respinto, invocando un «processo pubblico che tutti aspettano».

Il "premier" dei separatisti di Donetsk Denis Pushilin ha annunciato che «tutti i criminali di guerra, soprattutto i neonazisti di Azov, devono venire puniti», e che il tribunale si aprirà a settembre con i primi 80 imputati. Nelle "repubbliche popolari" di Donetsk e Luhansk non vige il diritto russo, e quindi i prigionieri ucraini rischiano la pena di morte. Donetsk ha già condannato alla fucilazione tre volontari stranieri che combattevano per l'Ucraina, e il giornalista russo in esilio Aleksandr Nevzorov non dubita che le sentenze ai membri di Azov saranno capitali: «Ma prima di ucciderli si godranno la loro umiliazione».

Almeno duemila militari del battaglione Azov si sono arresi a Mariupol dopo aver difeso per più di due mesi la città martoriata dai russi. La resa era stata negoziata tra Kyiv e Mosca con le garanzie dell'Onu e della Croce Rossa, ma 50 prigionieri sono morti un mese fa nel carcere di Olenivka, vicino a Donetsk, in quello che i russi sostengono essere stato un bombardamento ucraino e che Kyiv denuncia essere stata una strage per occultare le torture e le uccisioni dei detenuti. 

I militari di Azov liberati in seguito agli scambi di prigionieri raccontano di essere stati spogliati e umiliati dai carcerieri: «Ci infilavano aghi nelle ferite aperte, ci facevano la tortura dell'acqua», ha raccontato in una conferenza stampa a Kyiv Vladislav Zhaivoronok, che è finito nelle mani dei russi dopo aver perso una gamba e dice che gli avevano negato gli antibiotici per costringerlo a testimoniare contro i suoi comandanti e «confessare uccisioni di civili».

I falchi di Mosca vogliono un "processo di Norimberga" che dovrebbe confermare la narrazione russa di una "guerra contro il nazismo", e legittimare l'invasione, almeno agli occhi dell'opinione pubblica interna. Quella internazionale difficilmente potrà credere a un processo-spettacolo con "confessioni" di imputati torturati, sul modello dei grandi tribunali contro i "nemici del popolo" voluti da Stalin negli anni Trenta, e l'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani ha dichiarato ieri che un processo ai prigionieri tutelati dalla convenzione di Ginevra sarebbe «un crimine di guerra commesso dalla Russia».

 Secondo Mosca però il battaglione Azov è una "organizzazione terrorista", e non a caso i servizi segreti Fsb hanno accusato dell'omicidio di Darya Dugina una agente ucraina che ne farebbe parte. Un crimine «barbaro, i cui autori non meritano alcuna pietà», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri Sergey Lavrov. 

Allo schieramento di quelli che bramano il sangue si è aggiunto anche il capo del Comitato per la cooperazione estera Evgeny Primakov, che ha dichiarato in pubblico di sognare l'ex deputato russo Ilya Ponomaryov, fuggito a Kyiv, che «striscia sulle gambe rotte sputando i denti».

Un ideale estetico e politico che perfino gli estimatori del Gulag staliniano finora hanno esitato a elogiare in pubblico. Ieri, mentre molti propagandisti televisivi invocavano bombardamenti del centro di Kyiv per vendicare Daria Dugina, il presidente del comitato Esteri della Duma Leonid Slutsky ha lanciato ai suoi funerali un nuovo slogan: «Un Paese, un presidente, una vittoria». 

Un parallelo imbarazzante con il culto di Hitler, e la frase è stata censurata dalle tv. Nessuno dei rappresentanti altolocati del governo si è presentato al funerale, animato soprattutto da esponenti dell'estrema destra nazionalista, in un altro segnale di una lotta interna al Cremlino: qualcuno nella cerchia di Putin spera ancora di fermare il montaggio delle gabbie a Mariupol.

Domenico Quirico per "La Stampa" il 27 agosto 2022.

Nella lenta agonia di questa guerra ecco avanzare un'altra danza macabra. Niente che abbia a che fare con la strategia o la tattica. Semplicemente una mossa psicologica, propaganda cinica e volgare. Se non fosse che uomini rischiano la pena di morte non avrebbe neppure la densità o lo splendore del dramma, solo l'aria sudicia dell'impostura.

Nel teatro di Mariupol sono in corso lavori di bassa lega, si montano gabbie di ferro dove troveranno posto gli imputati, i falegnami allestiscono panche per il pubblico e scranni per i giudici. Perchè qui andrà in scena il processo pubblico imbandito dai secessionisti del Donbass ai "nazisti" dell'Azovstal, i combattenti ucraini che dopo un lungo assedio si sono arresi ai russi. Nelle foto le gabbie appaiono enormi come se dovessero ospitare non uomini ma lo zoo per esseri giganteschi e pericolosi di qualche razza perduta.

Inutile attendere i capi di accusa, le risultanze della istruttoria, l'elenco dei testimoni a carico. Parlar di codici, leggi internazionali e leggi nazionali (materia ancor più viscida in una repubblica che è riconosciuta solo dai russi che la tengono in piedi a furia di cannonate). Questo è un processo che assomiglia ai lugubri riti del castello di Verona, quando la Repubblica sociale mussoliniana saldò i conti con i traditori del Gran Consiglio e del 25 luglio. 

Qui siamo nel territorio oscuro e violento non del diritto ma della vendetta. Questo processo, che immagino della volontà di coloro che lo hanno organizzato vuole essere la risposta alla condanna a Kiev di un giovane soldato russo accusato di aver ucciso un civile, esattamente come l'altro sul piano assoluto della giustizia non ha fondamento. Appartiene a un altro territorio inaccettabile, ovvero quello dell'uso strumentale del diritto continuamente smentito per segnare linee di sangue nella storia e per proporre feroci catarsi collettive.

È fin troppo facile enumerare le ragioni per cui come nel caso dei frettolosi ucraini non può essere un processo regolare. La impossibilità visto che si svolge mentre la guerra infuria per gli accusati di citare liberamente testimoni a difesa. Nessuno avrebbe il coraggio di venire a portare prove a discarico degli accusati rischiando a sua volta vendette.

E poi il diritto alla difesa: impossibile per i soldati della Azovstal scegliere difensori che dovrebbero attraversare la linea del fronte per assistere al processo. Ci saranno come nel caso ucraino reticenti avvocati d'ufficio evidentemente di parte.

Senza dimenticare il problema del clima in cui si svolgerà il processo che viene immaginato come una gigantesca operazione di propaganda: addirittura una Norimberga ucraina che dovrebbe portare elementi a sostegno della tesi russa secondo cui i difensori della acciaieria e le milizie a cui appartengono sono nazisti impegnati nella pulizia etnica di tutto ciò che era russofilo nelle province dell'Est del Paese.

In una guerra come quella ucraina si concepisce un odio furioso, un odio che raggiunge proporzioni puniche ed è questo, se volete, a essere la sua unica grandezza. Un odio selvaggio per il nemico, una esecrazione endemica e disperata che affila i coltelli, avvelena il passato, aggredisce i civili e i combattenti per poi ammucchiarli ai bordi di tutti i sentieri della ragione e della storia umana. 

Si somministrano da una parte e dall'altra terribili veleni. Si giudicano dunque in base a questo odio anche gli eroi ambigui e sfruttati dell'Azovstal. La propaganda ha bisogno di un nuovo spettacolo tragico e lo reclama con possente e unanime clamore. La condanna scontata, lo sanno gli stessi organizzatori, sarà ben poca cosa e non cambierà il corso della guerra. In fondo tutte le possibilità propagandistiche di quel gruppo di soldati maceri e stracciati sono già state efficacemente raschiate nelle sequenze della resa, della spogliazione, della esibizione dei tatuaggi.

Riutilizzarli per un processo per crimini di guerra appartiene solo al sibaritismo della vendetta. 

Ai soldati dell'Azovstal toccherà comunque il tragico destino, un'altra volta, essere usati per scopi che forse non hanno scelto consapevolmente. Dopo aver recitato l'eroismo sono incastrati nel ruolo degli assassini, dei sanguinari responsabili con i loro capi di Kiev di aver scatenato la tragedia; che appartiene semmai ai disegni imperialisti e totalitari di Putin e dei suoi squisling donbassiani.

A meno che non abbiano il coraggio, con vindice stoicismo, di rovesciare il copione, la recita da quattro soldi, che gli accusatori e i giudici hanno imbastito per loro, non sappiano cioè costruire lo scenario, difficile e doppiamente e pericoloso per chi sa di rischiare la pena di morte, del processo rivoluzionario. In questo caso la operazione propagandistica si ritorcerebbe contro coloro che l'hanno immaginata. Offrirebbe agli ucraini, che negli ultimi tempi per arroganza e sicumera nella vittoria sembrano aver smarrito il talento e la fantasia della comunicazione, uno straordinario palcoscenico per mettere sotto accusa i veri colpevoli della guerra.

Per questo occorre che gli imputati di Azovstal rifiutino alla radice la logica processuale scelta dai loro inquisitori e quindi di difendersi all'interno dell'artificiale sistema giuridico che viene loro imposto: ad esempio contestando le testimonianze o negando i delitti che vengono loro imputati.

Facciano cioè scivolare il processo su un altro piano: voi non avete il diritto di giudicarci perché non esistete, siete una finzione statuale, territoriale, giuridica! Dovrebbero così rompere le reni al pedantismo giuridico della vendetta e, con improvvisazione sacrilega, demolire il diritto stesso dei finti giudici dell'autoproclamato Donbass libero. Che sanguinosa presa in giro sarebbe per i trasibulo filorussi se le loro vittime designate dichiarassero subito davanti al pubblico e alle telecamere: le vostre toghe da ciarlatani non rappresentano nulla, non siete che assassini su commissione, offrite la più incontrovertibile prova antropologica che le ragioni di questa guerra accampate dai vostri padroni di Mosca non sono che bugie. Potete giustiziarci ma solo in nome del potere che nasce dall'averci sconfitto, non in nome di un diritto che non esiste.

La moglie del capo di Azov: «A Olenivka strage pianificata, dov’erano i garanti internazionali?» Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 31 luglio 2022 

«Guardi queste foto». Katerina Prokopenko mostra immagini scaricate sul suo cellulare. «Sono scatti aerei della Maxar tecnology ed è l’ultimo aggiornamento che abbiamo sul massacro dei prigionieri di guerra a Olenivka». Dalle foto si vedono due cose. Delle buche vicino alla struttura, scavate fra il 18 e il 21 luglio, e il capannone dov’erano i 53 prigionieri uccisi e gli oltre 70 feriti: è distrutto senza che nient’altro attorno sia danneggiato. «È la conferma che questa strage era stata pianificata», è convinta lei, che parla a nome di tutte le mogli dei soldati dell’acciaieria Azovstal e che è la moglie del comandante del reggimento Azov, il prigioniero di guerra più simbolico nelle mani dei russi.

Ha notizie recenti di suo marito? «No. L’ultima volta che l’ho visto è stato 10 giorni prima che la guerra cominciasse e l’ultima che ho sentito la sua voce - soltanto qualche parola - è stato il 23 di maggio. I russi dicono che è a Mosca ma non so se è vero».

Che cosa sapete della «Non sappiamo niente sulle identità dei morti e dei feriti, se è questo che vuole sapere. Abbiamo raccolto immagini e testimonianze dai canali telegram dei soldati e della propaganda russa, abbiamo mostrato le foto a medici legali esperti in questo genere di indagini e loro ci confermano: alcuni dei prigionieri di guerra erano stati torturati e uccisi prima del massacro. Il tipo di ferite che hanno, le condizioni dei loro corpi non sembrano compatibili con le esplosioni».

I russi ora invitano le Nazioni Unite e la Croce Rossa a visitare la prigione. «Io vorrei chiedere: dove sono stati finora la Croce Rossa e L’Onu? Un giorno prima i nostri soldati sono stati spostati in quel posto che è diventato la loro tomba. Perché la Croce Rossa e l’Onu non erano lì a monitorare queste operazioni? Noi credevamo che loro fossero istituzioni garanti della sicurezza. Se fossero stati lì avrebbero visto quantomeno le buche appena scavate, per esempio...Che la Russia voglia disfarsi dei nostri soldati, del resto, non è un segreto. Basta leggere cosa scrive la loro ambasciata nel Regno Unito...». 

Si riferisce al tweet sui militari di Azov che “meritano l’esecuzione per impiccagione”, perché “non sono veri soldati e quella è una morte umiliante?" «Esatto. Quel tweet per me è una conferma in più della responsabilità russa a Olenivka. Non ha nessun senso l’ipotesi che siano stati gli ucraini, come dicono loro, per non far testimoniare i soldati sui crimini di guerra commessi. Se l’Ucraina avesse voluto morti i soldati di Azov li avrebbe lasciati morire nelle viscere di Azovstal».

Qual è l’appello che vorrebbe fare al mondo? «Vorrei che il mondo non si voltasse dall’altra parte perché le dirò la verità: siamo delusi. La situazione è tragica, non soltanto per noi mogli dei prigionieri di guerra ma per tutti. E più passa il tempo più vediamo scomparire le notizie e l’attenzione. È frustrante. Noi ci sentiamo sole, nessuno si preoccupa di noi e ci sentiamo sole con il nostro dolore, la nostra tragedia,la nostra guerra. Questo ci spaventa».

«Azovstal è caduta»: i soldati sfilano davanti ai russi. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Il Cremlino: «Il complesso è sotto il nostro controllo, il leader Prokopenko portato via con un veicolo blindato speciale». Gli ucraini perquisiti a uno a uno, controllati anche i tatuaggi.

Azovstal è caduta. L’acciaieria simbolo della resistenza del battaglione d’Azov e della città martire di Mariupol è «totalmente sotto il controllo delle forze armate russe», ha annunciato in serata la Difesa di Mosca, dopo che il ministro Sergej Shoigu ha comunicato al presidente Vladimir Putin «la fine dell’operazione e la completa liberazione» della fonderia. L’evacuazione — come hanno fin qui preferito chiamarla a Kiev — è durata quattro giorni, durante i quali 2.439 militari — il dato però è ancora una volta russo e non confermato dagli ucraini — si sono arresi, come ordinato dallo Stato maggiore di Kiev.

Le immagini video diffuse da Mosca ieri sera mostrano i militari russi mentre, fascia bianca al braccio e volto coperto, conducono accurate perquisizioni degli effetti personali degli ucraini in divisa disarmati, disposti in fila in un luogo aperto mentre vengono fatti sfilare e spogliare anche per controllare i loro tatuaggi. «Sono le Termopili del XXI secolo» aveva detto già nei giorni scorsi il capo delegazione dei negoziati Mykhailo Podolyak. Una soluzione cui si è arrivati visto che era «impossibile sbloccare» lo stallo «con mezzi militari», ha spiegato ieri ai media ucraini il presidente Volodymyr Zelensky. E una resa che evidentemente i comandanti dell’Azov hanno cercato di rimandare fino all’ultimo. «Il comando militare superiore ha dato l’ordine di salvare la vita dei soldati e di smettere di difendere la città di Mariupol», aveva detto nel suo ultimo video il comandante di Azov, Denis Prokopenko. Poi anche lui e gli altri comandanti, in testa il suo vice Sviatoslav Kalina Palamar e il comandante della 36esima brigata dei marines, il maggiore Serhiy Volyna, hanno dovuto deporre le armi.

Mosca, in serata, ha comunicato come lo stesso Prokopenko sia stato portato via «con un veicolo blindato speciale» verso i territori controllati dalla Russia. Adesso, per Kiev sarà l’ora delle trattative per tentare uno scambio di prigionieri, da condurre anche con la mediazione internazionale. Possibilità che però fin qui non ha trovato alcuna conferma, dopo che da Mosca nei giorni scorsi è arrivata la minaccia di un processo ai militari del battaglione come criminali di guerra. E che Zelensky ha spiegato con queste parole: «Quando abbiamo visto che era impossibile sbloccare la situazione con mezzi militari, ho negoziato con Turchia, Svizzera, Israele, e prima con la Francia per via dei rapporti dei suoi leader con la Federazione Russa». Trattative che però lo stesso Podolyak ha definito «molto difficili e molto fragili». In questo quadro di incertezza sulla sorte dei prigionieri aumenta dunque l’angoscia dei familiari e dei sostenitori dei militari. «L’ultimo messaggio che mi ha mandato su Telegram era di due giorni fa. Mio marito è sulla strada da un inferno all’altro, dall’acciaieria Azovstal verso la prigione», ha spiegato ieri a Istanbul Natalia Zarytska, moglie di un combattente dell’Azovstal. Migliaia di commenti sono arrivati poi al post di addio di Dmytro Kozatskiy, alias Orest che ieri, in un messaggio su Twitter, ha scritto: «È fatta. Grazie di tutto dal rifugio di Azovstal. Luogo della mia morte, e della mia vita». Militare e fotografo, noto per le sue idee di estrema destra, ha documentato la resistenza del reggimento. Poi dopo essersi consegnato ai russi ha concluso: «Vi lascio le mie foto. Inviatele a tutti i premi giornalistici e concorsi fotografici». Allegato, un link per scaricare le immagini di tre mesi nei tunnel.

Mariupol che soffre ancora e non resiste più. Fuori dall’acciaieria, e dai suoi 11 mila metri quadrati fatti di cunicoli costruiti nel 1930, i russi avrebbero sgomberato le macerie del teatro di Mariupol rimuovendo i corpi. «E ora — ha denunciato il consigliere del sindaco Petro Andryushchenko — non sapremo mai quanti civili di Mariupol siano stati effettivamente uccisi dai russi». 

Colonia 52, un lager nel cuore dell'Europa: "Cosa stanno subendo quelli del Battaglione Azov". Libero Quotidiano il 21 maggio 2022.

Ecco spiegato dove vanno a finire i combattenti evacuati dall'acciaieria Azovstal. Chi in questi giorni si è arreso ai russi dopo estenuanti giorni è stato portato direttamente a Olenivka, un villaggio a pochi chilometri da Donetsk. Qui c'è, tra le altre prigioni, la Colonia penale numero 52. Il vecchio istituto correttivo è per gli ucraini un vero e proprio "lager nel cuore dell'Europa". A denunciare la grave situazione contro chi già deve subire i bombardamenti è Lyudmila Denisova, la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino: "Ci sono almeno tremila civili in ostaggio nella colonia, tra cui poliziotti, attivisti e trenta volontari che sono stati rapiti mentre portavano aiuti a Mariupol".

La stessa Colonia, le foto confermano, per la Denisova deve essere considerata un crimine di guerra: "I civili vengono interrogati per ore, sono torturati con scariche elettriche. Sono atti di terrorismo, secondo la convenzione del Consiglio d'Europa". A farle eco il sindaco di Mariupol Vadym Boychenko. Stando ai suoi racconti nell'istituto tengono dieci persone in celle due metri per tre, senza possibilità di sdraiarsi, con poca acqua e cibo, e con il permesso di usare il bagno una volta al giorno.

Quanto basta a Petro Andriushchenko, consigliere del primo cittadino a definirlo "un vero campo di concentramento costruito dalla Russia nel cuore dell'Europa". Eppure su quel che accade all'interno della Colonia si sa ben poco. Girano giusto alcuni video e il silenzio imposto da Volodymyr Zelensky sulla "resa" degli ucraini non aiuta. A informare ci pensa il Cremlino che rivendica il successo, a detta dei russi, contro i combattenti.  

Battaglione Azov, che fine ha fatto il comandante Prokopenko: umiliato con un blindato. Libero Quotidiano il 21 maggio 2022

Che fine ha fatto il comandante del battaglione Azov? Dopo l'evacuazione e la resa dall'acciaieria Azovstal, Denis Prokopenko sarebbe stato portato via dalla fonderia con un veicolo "blindato speciale". Il comandante, finito nelle mani dei russi, sarebbe stato condotto via verso i territori controllati dalla Russia. Il motivo del trasporto su un blindato speciale sarebbe dovuto, secondo quanto riportano i russi, alle proteste e alla rivolta innescata dai russofoni presnti a Mariupol. Secondo quanto dichiarato dal portavoce del ministero della Difesa russo, il generale maggiore Igor Konashenkov alla Tass, "i residenti odiavano Prokopenko e volevano ucciderlo per le numerose atrocità commesse".

Nella gerarchia dei "wanted" da parte di Mosca, il comandante del battaglione Azov è in cima alla lista. Il suo destino comunque al momento non è chiaro. In Russia crescono le voci per riconoscere l'Azov come una organizzazione terroristica e di fatto viene chiesto un processo (con probabile condanna a morte) per tutti coloro che sono stati catturati nella fonderia. Intanto l'esercito ucraino deve fare i conti con il fatto che Mariupol ormai è persa. 

L'ordine di resa è arrivato direttamente dall'alto comando militare ucraino per volere di Zelensky. Insomma la guerra entra nella sua fase più atroce dove si fanno prigionieri e i militari vengono di fatto abbandonati al loro destino. Una atrocità in una guerra senza quartiere che va avanti da più di due mesi. 

Il soldato-fotografo dell'Azovstal è stato catturato dai russi (e ha lasciato tutte le sue foto in Rete). Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Dmytro Kozatskiy, conosciuto come Orest, si congeda con due tweet dalle acciaierie di Mariupol dopo quasi tre mesi di resistenza: «Questo è tutto, Azovstal è il luogo della mia morte e della mia vita». E lascia su Google tutti i suoi scatti. 

Su Twitter: «È fatta. Grazie di tutto dal rifugio di Azovstal. Luogo della mia morte, e della mia vita». Mentre da Zelensky arriva l’ordine di deporre le armi e mettere fine alla resistenza di Mariupol, il soldato-fotografo Dmytro Kozatskiy, che si fa chiamare Orest e che fuori dai bui sotterranei delle acciaierie viene già soprannominato «gli occhi di Azovstal», usa Twitter per congedarsi dal mondo. 

Parole, quelle di Kozatskiy, condivise da migliaia di utenti. Il fotografo in passato aveva postato immagini che testimoniano la sua vicinanza ad ambienti della destra estrema, una tra tutte quella di una pizza con una svastica. Negli ultimi tre mesi ha documentato la resistenza del reggimento Azov nei tunnel più bombardati d’Ucraina.

Questa volta, sotto il suo post di addio, scrive: «A proposito, mentre sono prigioniero, vi lascio le mie foto in alta qualità. Inviatele a tutti i premi giornalistici e concorsi fotografici. Sarà molto bello se vinco qualcosa, dopo l’uscita . Grazie a tutti per il vostro sostegno. Ci vediamo». Poi il link al suo drive dove tutti possono scaricare le immagini. 

A stupire — oltre al fatto che ad Azovstal ci sia ancora una connessione internet così potente — è il gesto di Kozatskiy di lasciare il suo bene più prezioso, i suoi scatti. 

Non ci sono ancora informazioni precise su quanti siano i soldati rimasti sotto i tunnel delle acciaierie. 

Il 15 maggio, Orest aveva postato un video in cui cantava la canzone della Kalush Orchestra, vincitrice dell’Eurovision di Torino. 

Era solo qualche giorno prima che da combattente-fotografo diventasse un prigioniero dei russi.

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 7 aprile 2022.

Ci vuole la migliore mano ferma del chirurgo per operare un paziente che è venuto a casa tua per ammazzarti. E che, dal letto della degenza, farnetica frasi del tipo «vi dobbiamo uccidere», «siete tutti nazisti», «i vostri figli e le vostre donne meritano la morte». Ma tra Putin e Zelensky vince comunque Ippocrate, e un dottore è sempre un dottore. Ha giurato di salvare ogni essere umano, qualsiasi sia il lato del fronte da cui spara. All'ospedale militare di Zaporizhzhia curano i soldati russi insieme ai soldati ucraini. E ci sono giorni che ne arrivano talmente tanti che gli infermieri sono costretti a scrivergli il nome sulla fronte per non confonderli nella concitazione del momento.

Dal 24 febbraio ad oggi, nella clinica sulla riva sinistra del Dnepr sono stati portati 600 feriti. Quando sono più di venti alla volta, prendono il pennarello nero e usano la pelle della fronte come bozza di cartella clinica. La guerra costringe ad arrangiarsi, fanno così sia con gli ucraini (il 90 per cento dei ricoverati) che coi russi. 

I pazienti sono reduci della linea del sud. Combattevano a Mariupol, nei villaggi nella regione di Zaporizhzhia, a Cherson, a Mykolaiv, poi sono stati fermati da una granata, un mortaio, una fucilata o uno degli altri mille modi in cui si può morire da queste parti. Il tenente colonnello Viktor Pysanko, 38 anni, scorre sul telefonino le foto di corpi aperti, arti mozzati e membra carbonizzate.

«Arrivano così, è orribile». Pysanko, direttore sanitario e traumatologo, ha già visto l'orrore, era in missione in Kosovo e in Congo. Non è uno che si impressiona facilmente. Tuttavia, ancora non si è abituato a ciò che i militari russi più giovani, appena ricuciti e rammendati, ripetono con cieca convinzione sul letto della degenza. «Non provano rimorso, non sanno cosa sia la pietà. Solo un ufficiale quarantenne era dispiaciuto e a disagio per essere stato mandato da Mosca a invadere un Paese senza sapere neanche il motivo. Gli altri, invece, duri e impassibili» I feriti dell'armata di Putin li tengono tutti in un reparto protetto, che chiamano "la stanza dei russi". 

Le finestre non hanno le inferriate, ma ci sono delle guardie che li controllano. «Ci occupiamo di curarli e stabilizzarli, poi li affidiamo al ministero della Difesa e ai servizi segreti».

Sono già prigionieri di guerra a tutti gli effetti, però, appena estratti dal campo di battaglia, ricoverati e non ancora sottoposti a interrogatori, carcere e quel che di altro può capitare a un nemico catturato, si trovano in uno stato emotivo di sincerità assoluta che di lì a poco perderanno. Dicono quello che pensano. E pensano cose terribili. 

Lipatov è un diciottenne russo trasportato su una barella dalla zona di Huljajpole. È un coscritto, aveva la gamba sinistra squarciata. La volontaria Oksana Korchynska, che prima faceva l'amministratrice delegata di una società di produzione, lo ha seguito durante la convalescenza post-operatoria. «Dove stava combattendo lui, alcune donne coi figli che stavano cercando di fuggire sono state colpite a morte. Mi ha detto, con sufficienza: "E allora? Qual è il problema?". Ho chiesto a quell'uomo così giovane di spiegarmi perché avessero sparato a civili inermi.

Ha risposto: "Anche i bambini sono nazisti. Siamo venuti qui perché siete il male e vi dobbiamo eliminare tutti". Ho insistito, volevo sapere che cosa è per lui il nazismo e quali caratteristiche definiscono un nazista. È stato zitto. Il nostro chirurgo gli aveva salvato la gamba e lui balbettava concetti atroci come uno zombie. Ho pensato che era sotto l'effetto di droghe, non riuscivo a credere a ciò che stavo sentendo». Le analisi del sangue non hanno rilevato tracce di droghe né di alcool. 

Il sottotenente Pysanko si è confrontato con un ventiduenne proveniente dalla Russia orientale che pensava di aver trovato l'America in Ucraina. «Mi ha spiegato che l'obiettivo datogli dai suoi superiori è distruggere gli Stati Uniti. Al che sono sbottato e gli ho chiesto: "Dove lì hai visti i militari americani in Ucraina?". Risposta: "Sono qui per annientare gli Stati Uniti". Poi me l'ha fatta lui una domanda: "Sono sorpreso, perché mi avete salvato?"». La maggior parte dei chirurghi e degli anestesisti dell'ospedale militare di Zaporizhzhia ha un parente o un amico morto in guerra. «Nessuno ha mai esitato a curare un soldato russo », sostiene con orgoglio il tenente colonnello Viktor Pysanko. «Ma se avessero dubitato, avrei compreso».

Da ansa.it il 7 aprile 2022.  

Il governo ucraino ha promesso una "inchiesta immediata" su un video in cui soldati ucraini sparano ai prigionieri russi, colpendoli alle ginocchia, durante un'operazione nella regione di Kharkiv: lo riporta la Cnn. 

Nel video di quasi sei minuti, che l'emittente Usa non pubblica limitandosi a descriverlo, i soldati ucraini affermano di aver catturato un gruppo di ricognizione russo basato a Olkhovka, una cittadina a una trentina di chilometri dal confine russo. 

"Il governo sta prendendo (questo video, ndr) molto seriamente e ci sarà un'indagine immediata. Siamo un esercito europeo e non prendiamo in giro i nostri prigionieri. Se questo fosse vero, sarebbe un comportamento assolutamente inaccettabile", ha detto un alto consigliere del presidente ucraino, Oleksiy Arestovych. 

Sarebbe tutta una montatura però secondo il capo delle forze armate ucraine Valerii Zaluzhnyi: "Al fine di screditare le forze di difesa - afferma -, il nemico filma e distribuisce video di scena che mostrano il trattamento disumano da parte di presunti 'soldati ucraini' nei confronti dei 'prigionieri russi'. Sottolineo che i militari delle forze armate ucraine e di altre legittime formazioni militari aderiscono rigorosamente alle norme del diritto umanitario internazionale".

I 4 soldati russi giustiziati a terra. Un nuovo video mostra l'orrore di questa guerra. Gian Micalessin l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il filmato è stato girato a Dmytrivka a pochi km da Bucha il 30 marzo. La lezione: non basta stare dalla parte giusta per agire da "buoni".

«L'orrore... l'orrore ha un volto... e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore e il terrore morale ci sono amici. In caso contrario diventano nemici da temere». Marlon Brando, protagonista nelle vesti del colonnello Kurtz del monologo finale di Apocalypse Now, spiega così la terribile e nefasta comunanza che ogni conflitto crea tra i combattenti e l'orrore. Le stragi di My Lai in Vietnam, di Sabra e Chatila in Libano, ma anche quelle attribuite alle forze speciali statunitensi in Siria e Irak da un'inchiesta del New York Times dello scorso dicembre, avrebbero dovuto farci comprendere da tempo la brutalità nascosta in ogni conflitto. Una brutalità che non sta mai da una parte sola. Perché la guerra, a differenza di quanto raccontano i film, non prevede buoni sentimenti. E a dimostrarcelo, a pochi giorni dalla scoperta dei morti di Bucha, arriva un altro film dell'orrore.

Un film andato in scena a Dmytrivka, un villaggio distante solo dodici chilometri in direzione Sud dalla stessa Bucha. Con una differenza. Qui le vittime sono i russi mentre gli spietati aguzzini sono i soldati ucraini. Il video è così crudele e sanguinario da rendere difficile la pubblicazione di foto o spezzoni capaci di restituirne la disumana ferocia. Al lato di una strada si vede un Bmd-2 , un blindato usato dalle truppe aviotrasportate russe. Il mezzo, intatto, ci fa capire che l'equipaggio si è arreso senza combattere. Anche perché, duecento metri più avanti, vi sono le carcasse di altri mezzi appena colpiti e distrutti. Sull'asfalto, invece, ci sono quattro corpi. Vestono le divise dell'esercito russo e non hanno accanto alcuna arma. Giacciono tra lunghe scie di sangue. Uno ha le mani legate dietro la schiena e la gola tagliata. Quello che gli sta accanto è disteso a braccia aperte freddato da una raffica al ventre. Altri due corpi sono sul lato opposto della strada. Uno è stato ucciso con un colpo alla nuca. L'altro, con il volto nascosto da una giacca militare tirata su fino a coprirgli il volto, è scosso dai tremiti dell'agonia. Sussulta, muove un braccio, mormora versi incomprensibili. Tutt'intorno si sentono delle voci in ucraino.

«Filma questi bastardi. Guarda questo... è ancora vivo... sta rantolando» ulula una voce senza volto. Poi s'intravvede la canna di una pistola. Apre il fuoco due volte. Il soldato in agonia sussulta, si muove ancora. Un terzo colpo lo finisce. Ora tutt'intorno compaiono soldati ucraini riconoscibili da uniformi e distintivi. Quello che ha sparato mostra il suo volto. Ha il volto incorniciato da una fitta barba. Grida: «Gloria all'Ucraina». Un altro si fa fotografare accanto ai corpi. «Questi - sbraita una voce fuori campo - non sono neanche esseri umani». A confermare il tutto ci pensa un tweet del ministero della difesa ucraino che definisce un «lavoro preciso» l'imboscata ai danni di un convoglio russo in ritirata da Kiev messa a segno il 30 marzo scorso. Segnalazione confermata dal video-reporter Oz Katerji che il 2 aprile gira le immagini dei blindati distrutti e, citando i soldati ucraini, parla di una battaglia svoltasi 48 ore prima.

Ma quella battaglia e la brutale eliminazione di quei quattro prigionieri dovrebbero insegnarci un paio di cose. La prima è che in guerra non basta stare dalla parte giusta per comportarsi da «buoni». La seconda è che la guerra è sempre abietta, crudele e feroce. E l'unico modo per sconfiggerne mostri e perversioni è uscirne in fretta.

DAGONEWS il 7 aprile 2022.

Un video che sta circolando in rete mostra un gruppo di soldati ucraini che uccide militari russi dopo averli legati con le mani dietro la schiena. Una scena horror che ricorda quella dei civili massacrati a Bucha.  

Il filmato, verificato mercoledì dal “New York Times”, mostra le truppe ucraine che commettono gli omicidi dopo un’imboscata su una strada appena a nord di Dmytrivka, a circa 11 chilometri a sud-ovest di Bucha. 

«È ancora vivo – dice uno degli ucraini - Filma questi predoni. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando».  Uno dei soldati ucraini a quel punto spara tre colpi di pistola: dopo il secondo il russo continua a muoversi, ma poi smette di respirare dopo il terzo colpo. Sembra che almeno altri tre soldati russi siano stati uccisi nella stessa imboscata.

Da fanpage.it il 7 aprile 2022.

Non ci sono solo i crimini di guerra commessi dalle forze armate russe. Sempre più spesso, infatti, stanno emergendo episodi inquietanti imputabili anche all'esercito ucraino, come quello documentato con un video risalente molto probabilmente al 30 marzo. 

Nel filmato, che sta circolando su Telegram ed è stato verificato in modo indipendente anche dal New York Times, si possono vedere degli uomini agli ordini di Kiev uccidere dei prigionieri russi in un villaggio a ovest della capitale. 

Le telecamere indugiano sui due soldati a terra e una voce dice: «Quello è ancora vivo. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando». Altri replicano: «Questi non sono nemmeno umani». Sull'asfalto si vede un militare russo con una giacca tirata sulla testa, apparentemente ferito; pochi secondi dopo l'ucraino gli spara ripetutamente, uccidendolo.

Accanto all'uomo giustiziato il video mostra almeno altri tre soldati russi morti, uno dei quali con una ferita alla testa e le mani legate dietro alla schiena con dei bracciali bianchi comunemente indossati dalle truppe russe. 

Il video sarebbe stato girato lungo una strada nei pressi del villaggio di Dmytrivka, a una quindicina di chilometri a sud-ovest di Bucha, teatro di una mattanza attribuita alle truppe di Mosca. Stando a quanto riferisce il NYT i soldati russi viaggiavano a bordo di un BMD-2, un mezzo da combattimento impiegato dalle truppe aviotrasportate. La colonna sarebbe caduta in un'imboscata intorno al 30 marzo, mentre i militari si stavano ritirando dalle piccole città a ovest di Kiev.

Il filmato con le atroci esecuzioni è stato pubblicato su Twitter il 2 aprile dal giornalista freelance Oz Katerji, specificando che fonti dell'esercito gli avevano riferito che i russi erano caduti in una trappola 48 ore prima nell'ambito di un'operazione lodata dal Ministero della Difesa ucraino: «Un lavoro preciso». 

Quello di Dmytrivka è uno degli episodi che, sempre più spesso, dimostrano come presunti crimini di guerra vengano commessi non solo dai russi, ma anche dagli ucraini.

“Legati e picchiati come bestie”: i racconti dell’orrore dell’occupazione russa. Fausto Biloslavo su Inside Over il 6 aprile 2022.

Il piazzale davanti alla stazione ferroviaria non esiste più. Devastato e trasformato in un campo di battaglia dove le carcasse dei mezzi russi si mescolano alle casse ancora intatte dei missili Grad. Sasha è nervoso, ma ci fa strada nel fango passando davanti ad un carro armato fuori combattimento che non sembra neanche scalfito dai combattimenti. L’ingresso della stazione è stato trasformato dai russi in una postazione trincerata con casse di munizioni vuote usate come barricata e sacchetti di sabbia. Trostianets è stata liberata da pochi giorni. Le ultime truppe di Mosca nella regione nord orientale di Sumy si sono ritirate il 3 aprile.

Sasha è un sopravvissuto. “Non sono un militare, ma tre soldati russi sono venuti a prendermi a casa. Mi hanno tenuto prigioniero per 12 giorni”, racconta con un velo di tristezza negli occhi. L’ucraino con baffetti e pizzetto è stato subito bendato e gli hanno legato le mani con un cappio d’acciaio flessibile usato per le costruzioni. “È insopportabile perché ti sega i polsi – racconta mostrando la brutale manetta -. E poi giù botte. Mi hanno anche frustato e sottoposto a finte fucilazioni”. I russi lo portavano all’aperto e gli sparavano vicino alla testa con il kalashnikov. “Venite. Vi porto a vedere dove ci tenevano come bestie assieme ad altri prigionieri, sia civili che soldati. È stato un incubo”, sottolinea Sasha superando i resti di una porta sfondata dell’edificio all’ingresso della stazione.

A sinistra si infila verso una scala che ci porta sottoterra. Alla fine si apre un’angusta stanzetta senza luce. Dentro ci sono ancora le buste delle razioni di combattimento russe che i prigionieri usavano per i bisogni. E degli stracci per terra utilizzati come giacigli. “In questa cella con gli altri prigionieri c’era anche un mio amico, Micola – racconta -. I russi lo hanno riempito di calci perché protestava fino a quando non è morto”. Poi gira la luce del telefonino e illumina l’orrore: le strisce rosse di sangue sulla parete più larga della cella. “Sbattevano contro il muro la testa dei prigionieri – denuncia Sasha -. Sono stato più fortunato. Mi facevano inginocchiare legandomi mani e piedi per picchiarmi”. Almeno sei prigionieri sono stati uccisi dalle forze di occupazione. Gli altri sono riusciti a fuggire quando è scoppiata la battaglia che ha espugnato i russi dalla stazione ferroviaria. Le sbarre nere dell’ingresso della cella sono ancora intatte. Sasha non si stacca mai dal cappio d’acciaio usato come manette. E non resiste a lungo nel buio e nel tanfo della cella sotterranea. Gli manca l’aria e gli sale un groppo alla gola. 

“La città è stata occupata per 28 giorni – spiega Miroslav Shylo, giovane capo dei volontari -. All’inizio non ci sono stati grossi problemi con le truppe regolari russe. Poi hanno mandato soldati dal Daghestan ed i separatisti di Donetsk. Sono cominciati i saccheggi, le detenzioni arbitrarie, torture e sparavano senza problemi per strada se qualcuno non gli andava a genio”. Gli invasori hanno dipinto la Z, rossa, anche su un’ambulanza che ha il parabrezza sforacchiato dai proiettili. Un cannone semovente russo, diventato bianco per il calore delle esplosioni che lo hanno messo fuori uso, è il monumento alla sconfitta davanti alla stazione ferroviaria.

Per arrivare a Trostianets i genieri hanno messo in piedi un passaggio di fortuna a fianco del ponte accartocciato su se stesso. All’entrata della cittadina di 17mila abitanti c’è un cimitero di mezzi russi inceneriti. Il responsabile dei volontari lancia accuse di stupri ed esecuzioni, ma senza alcuna prova concreta. Dmytro Zhyvytskyi, capo dell’amministrazione militare di Sumy, rivela su Telegram che “tre civili torturati sono stati trovati nel distretto di Konotop, nelle aree appena lasciate dalle truppe russe”.

A Trostianets, il prigioniero sopravvissuto, fuma nervosamente una sigaretta davanti a tre vagoni carbonizzati di un treno. E tira fuori dal giaccone il cappio d’acciaio che gli stringeva i polsi in cella. “Maledetti russi – sbotta – non uscirà più da quest’incubo”.

Torture e privazioni nelle carceri illegali dei separatisti filorussi del Donbass. Ai funzionari Onu sono state negate le visite e nel documento redatto nel 2021 hanno riportato solo le testimonianze delle vittime delle violenze. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 aprile 2022.

Percosse, scosse elettriche, asfissia, violenza sessuale, rimozione di parti del corpo (unghie e denti), privazione di acqua, cibo, sonno o accesso a servizi igienici. Sono alcuni metodi di tortura che avvengono nelle carceri illegali create dalle autoproclamate repubbliche popolari filorusse di Donetsk e Luhansk, nella regione ucraina del Donbass.

Nelle carceri del Donbass modalità simili al sistema penitenziario russo

Non parliamo della propaganda della Nato o degli Usa, ma è un documento ufficiale dell’Onu redatto nel 2021. Le modalità sono del tutto simili al sistema penitenziario della federazione Russa. Una violazione sistematica dei diritti umani compiuta sotto la supervisione occulta di Mosca, che fornisce anche denaro e armi attraverso gruppi privati russi come il Wagner, il vero braccio armato del ministero della Difesa russo.

In Ucraina hanno consentito ai funzionari Onu di visitare le carceri

Premettiamo che l’Onu ha potuto monitorare anche le carceri controllate dal governo ucraino e ha potuto riscontrare alcuni maltrattamenti e abusi, tanto che – ad esempio – l’ufficio del procuratore regionale di Kharkiv ha avviato le indagini. Ma, ed è questo il punto cruciale, a differenza delle autoproclamate repubbliche popolari, il governo ucraino ha permesso ai funzionari dell’Onu di visitare le carceri così come avviene in tutti i Paesi democratici, compreso il nostro dove non di rado vengono riscontrate delle violazioni.

Nel Donbass le torture verificate attraverso l’ascolto delle vittime

L’Onu ha potuto verificare le torture avvenute nelle carceri del territorio separatista esclusivamente attraverso l’ascolto delle vittime, visto che gli è stato negato l’accesso alle strutture. Le persone sentite erano state arrestate da uomini armati in passamontagna e senza nessun segno distintivo. Nella maggior parte dei casi, non è stato detto loro il motivo della detenzione. All’arresto o durante il trasporto al loro primo luogo di detenzione, molti sono stati bendati.

Tenuti in isolamento senza avere la possibilità di avere un colloquio con un avvocato

Alcuni, nel momento dell’arresto, sono stati picchiati o minacciati di violenza. Il primo luogo di detenzione erano solitamente i locali del “ministero della Sicurezza dello Stato” (a Donetsk o Luhansk) o la struttura di detenzione “Izolyatsia” (a Donetsk). Sempre dal documento dell’Onu si apprende che la maggior parte di loro sono stati inizialmente detenuti in “arresto amministrativo” (nella “Repubblica popolare di Donetsk”) o “arresto preventivo” (nella “Repubblica popolare di Luhansk”) e tenuti in isolamento senza avere la possibilità di avere un colloquio con un avvocato.

Alcuni non sono stati informati dei motivi della detenzione o delle “accuse” a loro carico per un periodo prolungato. Ai parenti non è stata fornita alcuna informazione, oltre alla conferma, in alcuni casi, che la persona fosse effettivamente detenuta. Nella maggior parte dei casi, le “azioni investigative” sono iniziate immediatamente dopo l’arresto, con poche eccezioni quando i detenuti hanno trascorso giorni o settimane in custodia prima che venisse intrapresa qualsiasi azione.

Secondo alcuni testimoni i servizi segreti russi hanno preso parte agli interrogatori

Le “azioni investigative” comprendevano principalmente interrogatori presso il “ministero della sicurezza dello Stato” o nel centro di detenzione ” Izolyatsia” oppure presso il “ministero della sicurezza dello Stato” (a Luhansk) da parte di individui che nella maggior parte dei casi nemmeno si sono identificati. Diversi detenuti testimoniano che i servizi segreti russi hanno preso parte agli interrogatori dando la percezione che fossero in una posizione di autorità. L’Onu ha riscontrato che la tortura e i maltrattamenti dei detenuti erano sistematici durante la fase iniziale della detenzione (che poteva durare fino a un anno), per poi diminuirli dopo la “confessione” e soprattutto dopo il completamento delle “indagini preliminari”.

Gli interrogatori iniziati con violenze e stupri

Nella maggior parte dei casi documentati, gli interrogatori sono iniziati con violenze o stupri e minacciando anche le loro famiglie se si fossero rifiutati di confessare o di collaborare con le “indagini”. La maggior parte delle persone sentite dai funzionari dell’Onu hanno riferito di essere state sottoposte a tortura o maltrattamenti, a volte anche a violenza sessuale, per lo più durante gli interrogatori, al fine di estorcere confessioni o informazioni, nella maggior parte dei casi, sul lavoro riguardante il servizio di sicurezza ucraino (Sbu).

Le torture continuavano fino a quando un detenuto non accettava di confessare

La frequenza, l’intensità e la durata delle torture e dei maltrattamenti variavano considerevolmente, tuttavia di solito continuavano fino a quando un detenuto non accettava di confessare (oralmente, per iscritto o in video) o di fornire informazioni. I metodi di tortura e maltrattamenti – come detto – includevano percosse, scosse elettriche, asfissia (bagnata e secca), violenza sessuale, tortura posizionale, rimozione di parti del corpo (unghie e denti), privazione di acqua, cibo, sonno o accesso a servizi igienici. Non solo. Le torture eseguite dai separatisti filorussi includevano anche simulazioni di esecuzioni, minacce di violenza o di morte e di danni alla famiglia.

Una delle famigerate prigioni dei separatisti filorussi è quella di Izolyatsia

Per l’Onu, le testimonianze dei detenuti rilasciati indicano che torture e maltrattamenti sono stati effettuati non solo per fini punitivi, ma anche per umiliare e intimidire. Una delle famigerate prigioni dei separatisti filorussi è quello di Izolyatsia, nella autoproclamata repubblica popolare di Donetsk. Prima della rivolta del Donbass finanziata da Putin, quel carcere era una ex fabbrica diventata un centro artistico. L’associazione che si occupava del centro si è spostata a Kiev. Izolyatsia, dal 2014 è stata trasformata in una prigione, tra le più dure della regione.

Il giornalista Stanislav Asseyev in prigione per avere scritto “Repubblica popolare di Donetsk” tra virgolette

Stanislav Asseyev è un giornalista ucraino che fu imprigionato in quel carcere, reo di aver scritto in un articolo “Repubblica popolare di Donetsk” tra virgolette. Come ha riportato Il Foglio nel 2021, grazie alla penna di Micol Flammini, il giornalista ucraino ha testimoniato con il suo libro “Donbass”, che durante la detenzione riusciva oramai a distinguere il tipo della tortura dalle urla dei detenuti: quando si trattava di percosse, si sentiva una successione di urla, ma quando venivano torturate con l’elettricità, era un grido costante. Durante le torture era sempre presente un medico, perché dovevano fermarsi prima dell’irreparabile.

Il giornalista racconta di Izolyatsia trasformata in un luogo di tortura e anche in manicomio

Asseyev descrive anche il capo della prigione, detto Palych: un alcolizzato, un sadico che costringeva i detenuti a cantare a squarciagola canzoni sovietiche per non sentire le urla di chi veniva torturato e a violentarsi a vicenda. Il giornalista racconta di Izolyatsia trasformata in un luogo di tortura e anche in manicomio. Dopo la sua scarcerazione – avvenuta grazie a uno scambio di prigionieri -, Asseyev ha iniziato a raccontare di Izolyatsia. Dopo di lui sono state interrogate altre vittime, identificati alcuni responsabili e arrestato Palych mentre era a Kiev.

Già nel 2021 per l’Onu rileva queste violazioni sono sistematiche e possono costituire crimini di guerra

Ritornando al documento dell’Onu, si evince che le carceri dei separatisti filorussi rispecchiano fedelmente le modalità dei penitenziari della federazione russa. Il carcere, si sa, è un indicatore fedele del grado di civiltà di un Paese. Oltre a ciò, l’Onu ha potuto verificare l’inesistenza di garanzie per un giusto processo. Sia il sistema penale che giudiziario è completamente privo di qualsiasi garanzie basilare nel territorio controllato dalle autoproclamate “repubbliche”. L’Onu rileva che queste violazioni, assieme a quelle registrate dal conflitto, sono sistematiche e possono costituire crimini di guerra. Ma parliamo del 2021. A tutto ciò, oggi, si aggiunge come aggravante anche la guerra scaturita dall’invasione russa. Le atrocità, quindi, si sommano a quelle già preesistenti.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 29 marzo 2022.

Ho visto troppe morti violente. Ho conosciuto molto bene il sapore che ha la crudeltà. Ho ricordi dolorosi che cerco di non tenere sepolti perché sentirli solo come una assenza immobile e irrimediabile impedisce di ascoltare il grido dei morti. Per questo non mi stupisco quando vedo scorrere le sequenze di quello che viene indicato già come lo scandalo della crudeltà anche dei buoni, delle vittime, di chi si difende. 

Sono le immagini di alcuni soldati indicati come ucraini che sparano alle gambe di prigionieri russi, li azzoppano, li sciancano. E quelle del soldato che chiama la moglie di un russo ucciso con il telefonino che ha trovato frugando nel cadavere e le racconta sghignazzando come è ridotto per i colpi che ha subito.

Kiev «indaga», garantisce una inchiesta pur smentendo che i propri combattenti violino le norme, ed è già un merito, perché sarebbe più semplice negare tutto, annegandolo nelle ovvie bugie del nemico. Se fossero confermate come autentiche non sarebbe per me che la conferma della malvagità perversa della guerra che non risparmia nessuno, mitizza i guerrieri e giustifica i loro eccessi anche con il pretesto della autodifesa. 

La guerra è una divinità crudele e piena di pretese, per farsi adorare e assicurare forse la vittoria esige sacrifici umani, di più: pretende che i giovani che mandiamo a combattere trasformino le stragi e gli atti che devono compiere in un rito di iniziazione. La guerra fatta secondo le regole non esiste.

Che cosa vi aspettavate? La pianificazione dell'assassinio e della violenza è organizzata con la massima efficienza da tutti gli eserciti, quelli che aggrediscono e quelli che difendono. Ma coloro che nel fragore della battaglia emergono, quelli che hanno più potere dalle due parti sono coloro che hanno una vera propensione alla crudeltà, che non si fanno scrupoli. In ogni esercito ci sono sempre tanti piccoli criminali che diventano improvvisamente eroi. Quando si ha bisogno di uomini, di carne da cannone non si può andare tanto per il sottile. Arrivano i volontari, i mercenari, i «foreign fighters»: idealisti? Fanatici? Esteti della bella morte? Imbecilli? Accomodatevi. Abbiamo bisogno di gente che voglia morire.

Tra loro è gente violenta da prima, che crede nella ragione della forza, che esalta la forza, talvolta sono davvero piccoli criminali. Scoppia la guerra e continuano a fare quello che facevano prima. 

Solo che adesso è tutto vero, hanno un fucile in mano, rubano, saccheggiano, torturano, uccidono. Alcuni eserciti li arruolano astutamente i criminali, sono ottimi soldati.

Le brigare Azov ci sono sempre, da tutte le parti, filmano le proprie imprese fosche ne conservano la testimonianza sul telefonino si vantano e le condividono con parenti e amici rimasti a casa: guarda cosa so fare... qui è pazzesco!

I prepotenti che vengono emarginati in tempo di pace diventano i salvatori della patria, i modelli, il simbolo degli ideali più nobili. Il giudizio sui loro vizi viene sospeso, le regole non contano più, c'è la guerra bisogna vincere prima di tutto, a qualsiasi prezzo. L'abdicazione pregiudiziale alla pietà e al diritto offre una sicurezza estrema. Si può fare tutto perché si è protetti da tutti i lati dal senso di colpa, dal provare rimorso. E questo accade anche nelle guerre delle democrazie, dal Vietnam all'Iraq. Il dato terribile è che non è un problema di ideologia.

Chiunque si arruola nella crociata della guerra, ogni volta che crediamo di essere dalla parte della luce, del bene (e tutti pensano di esserlo) in realtà stiamo solo scegliendo i modi in cui compieremo le esecuzioni. In guerra le torture, le distruzioni trasmettono messaggi: chi viola le regole, le convenzioni internazionali che in taluni casi non hanno nemmeno firmato (ma non sono forse una astrazione, un diritto che esiste solo per chi è in pace?), fa ricorso a una violenza sproporzionata sui civili inermi, su una città crocefissa, su prigionieri che si sono arresi, in realtà fa una dichiarazione. Lascia un biglietto da visita, «ci avete attaccato, non tornerete a casa con le vostre gambe...». Oppure «ci avete traditi, vi faremo pagare il conto...».

La guerra mette a nudo il potenziale di malvagità che si annida appena sotto la superficie in ciascuno di noi. Non illudetevi. In guerra anche le persone miti ne vengono modellate. Quando ne assumono la droga anche quelli che ne sono costretti dalla violenza dell'altro, quelli che resistono, prima o poi provano esattamente ciò che provano i loro nemici compresi quelli che definiscono barbari e incivili. 

È un meccanismo davvero infernale. Il nemico rappresenta sempre il Male assoluto. E quali regole volete che si debbano rispettare quando si ha a che fare con il Male? Il patriottismo spesso è una forma appena velata di esaltazione collettiva, serve a maledire la perfidia di chi ci odia e attacca, non certo a rafforzare la necessità della nostra clemenza e umanità.

E se fosse vero che i confini della personalità umana in guerra diventano così fluidi da impedirci di sapere chi siamo in realtà? Ma allora dove è la differenza, l'abisso indispensabile che deve separare le guerre delle democrazie da quelle delle tirannidi? In quello che accade dopo: aver fiducia nella giustizia che è il nostro privilegio di uomini liberi, giustizia che è stata annichilita e resa incerta dalla guerra. Le dittature premiano chi si è abbandonato alla malvagità della guerra perché vi riconoscono il suddito perfetto e coprono i suoi delitti sotto il panno della vittoria che dovrebbe cancellare tutto. 

Le democrazie non dimenticano, indagano, accusano, puniscono i colpevoli. Molti hanno presentato questa guerra tra nazioni, l'eterno duello tra prepotenti e aggrediti, come una sfida tra le democrazie e l'autoritarismo. Ecco: anche dall'investigare e punire, se vere, le violenze dei propri soldati sapremo giudicare in quale delle due parti Ucraina e Russia militavano. 

Gli orrori senza bandiera del conflitto. Soldati russi gambizzati dagli ucraini. Gian Micalessin il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

«Le rivoluzioni - ricordava sempre Mao Tze Tung - non sono mai un pranzo di gala». E le guerre tantomeno. Per capirlo basta guardare il video, pubblicato in Europa dal quotidiano tedesco Bild. In quel filmato si vedono prima una decina di soldati russi a terra sanguinanti e doloranti e poi gli spari di kalashnikov alle gambe di tre loro compagni appena tirati giù da un pullmino. Insomma una gambizzazione di gruppo intesa come punizione sommaria di un'unità di ricognizione russa catturata sul campo di battaglia e sospettata di volersi infiltrare dietro le linee.

Il video, girato nei dintorni di Kharkiv, la città a soli 30 chilometri dal confine russo assediata da oltre un mese, è un vero pugno nello stomaco. Ma quel video terribile ha, seppure nella sua brutalità, un aspetto istruttivo. Aiuta infatti a comprendere l'orrore della guerra. E, soprattutto, gli orrori di un conflitto come quello dell'Ucraina su cui aleggia una vasta nebbia propagandistica capace di coprire, confondere o cancellare i comportamenti dell'una o dell'altra parte. Ridimensiona soprattutto le convinzioni o le illusioni di chi è convinto che in quella guerra i cattivi siano sempre e solo i soldati russi contrapposti ad una forza militare ucraina rappresentata come un'esemplare forza del bene. In termini politici forse è così, ma sul campo di battaglia la verità non è mai cosi lineare. La guerra, come insegnano i terribili bombardamenti di Dresda della Seconda Guerra Mondiale, si vincono anche incutendo paura e terrore negli avversari. E questo in Ucraina avviene probabilmente da entrambe le parti. Ovviamente la massiccia dose di propaganda, generata anche con l'appoggio degli esperti di «psy ops» (operazioni psicologiche) della Nato, spinge a percepire il governo di Volodymyr Zelensky come la parte più debole trasformandolo, nell'immaginario collettivo, in una sorta di piccolo Davide in lotta contro un cattivo e prepotente Golia. Ma queste certezze hanno ben poco a vedere con gli orrori di un conflitto che contrappone due popoli convissuti, fino al 1991, nello spazio comune dell'Unione Sovietica. E non ci fanno percepire l'odio reciproco creatosi dopo il 2014 quando la popolazione di origine ucraina e quella di lingua russa hanno incominciato a immaginarsi come fazioni contrapposte e nemiche. Ma la realtà del campo di battaglia contrasta anche con l'abitudine, diffusasi nell'ultimo mese, di contrapporre all'autoritarismo di Vladimir Putin un regime di Kiev descritto come esempio di democrazia e libertà. In questo corretto, ma assai euforico, sostegno al più debole molti ignorano, o sottovalutano, le restrizioni alla libertà di espressione imposte da Kiev dopo l'inizio della guerra. Il 20 marzo scorso, ad esempio, il «Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa dell'Ucraina» ha inasprito le regole già stringenti della legge marziale in vigore vietando qualsiasi attività ad 11 partiti politici accusati di sostenere la minoranza russofona. E ad annunciare la decisione ci ha pensato lo stesso Zelensky spiegando che «le attività di chi punta alla divisione o alla collusione» riceveranno «una dura risposta». «Oggi a Kiev e nelle altre città la nostra gente vive nel terrore o in prigionia - dichiara a il Giornale Mikola Azarov, ultimo premier filo russo dell'Ucraina durante il mandato di Viktor Yanukovych». «La legge marziale viene usata per sbattere in galera giornalisti, rappresentanti dei diritti umani e chiunque si opponga a Zelensky - continua Azarov - Elena Berezhnaya, una nostra storica rappresentante dei diritti umani accreditata presso Onu e Osce è in carcere dal 16 marzo senza neppure il diritto ad un avvocato di fiducia. E lo stesso succede a giornalisti come Dmitry Dzhangirov e Anna German. In Europa vi siete scordati che la giustizia non sta mai da una parte sola».

Soldato russo prigioniero in Ucraina, lo sfogo: «Perdonatemi, qui da voi ho avuto cibo buono e umanità». Irene Soave Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.

In una conferenza stampa indetta dall’esercito di Kiev il soldato racconta: «Pensavamo fosse un’esercitazione, fino all’ultimo». Sempre più soldati russi sono portati in conferenza stampa dagli ucraini. 

«Vi chiedo perdono: a tutta l’Ucraina. Perdonatemi per essere venuto qui, mi vergogno profondamente». Il soldato russo china il capo. «Putin», continua, «ha detto solo menzogne, ci hanno costretto a venire qui. Voglio chiedere perdono a tutta l’Ucraina per essere venuto qui».

La richiesta di perdono del soldato russo prigioniero in Ucraina è avvenuta, ieri, in una conferenza stampa organizzata dall’esercito di Kiev a Sumy, città nel Nordest che è crocevia per chi lascia il Paese, cosa che il soldato russo, al momento dell’arresto, stava tentando di fare: il prigioniero di guerra, portato di fronte ai giornalisti, ha ripetuto più volte «mi vergogno» e «scusatemi», e aggiunto che «i soldati ucraini hanno trattato bene me e i miei commilitoni, ci hanno dato da mangiare cose buone... il nostro esercito russo ci dava cibo scaduto da tempo». E ancora: «Mi sono arruolato il 23 giugno 2021, il 24 febbraio 2022 abbiamo invaso l’Ucraina. Fino all’ultimo ci dicevano che era solo un’esercitazione sul territorio russo».

La testimonianza del soldato — rimasto anonimo — ha fatto il giro dei media internazionali. Si aggiunge a una serie di testimonianze simili, rese nella maniera più pubblica possibile e usate dall’esercito ucraino per comunicare, soprattutto agli alleati occidentali, quelli che sembrano inquietanti «retroscena» della preparazione militare dei soldati nemici, a cui viene tolto il cellulare «perché non cerchiamo su internet notizie del conflitto» e che — così emerge in gran parte delle testimonianze di prigionieri russi nei giorni scorsi — spesso sono arrivati in Ucraina credendo di fare parte di un’esercitazione, e di essere su suolo russo.

Così emerge, ad esempio, dal discorso di un anonimo carrista, giovedì, a Kiev: ancora in una conferenza stampa dell’esercito ucraino la sua testimonianza è stata «esibita» come documento. «In Russia ci considerano già morti», ha detto il soldato. «Ho potuto chiamare i miei genitori, non a tutti lo permettono. I miei dicono che mi hanno già organizzato il funerale. Se rientriamo come prigionieri scambiati, a spararci saranno i nostri connazionali, per la vergogna».

Con lui, giovedì, in conferenza stampa, c’erano altri dieci commilitoni. Uno di loro ha parlato di «compagni uccisi dal nostro fuoco, perché scambiati per civili, sotto i miei occhi».

In una conferenza stampa venerdì, trasmessa in diretta dall’agenzia russa Interfax, un tenente colonnello dell’aeronautica militare, 47esimo reggimento, si è identificato come Maxim Krishtop e ha raccontato degli ordini ricevuti — ed eseguiti — di «bombardare consapevolmente obiettivi civili. Riconosco l’enormità dei crimini che ho commesso e chiedo perdono a tutta l’Ucraina», ha concluso. Krishtop è stato fatto prigioniero il 6 marzo.

Le conferenze stampa di soldati catturati sono sempre più numerose, e mirano a mostrare l’impreparazione dei russi. Ma anche la malafede dei loro capi. Un anonimo comandante catturato il 10 marzo ha detto in video che «L’ordine di prendere Kharkiv in tre giorni è venuto direttamente da Putin» e che per eseguirlo «ci era stato ordinato di bombardare civili».

I Malati. Antonello Guerrera per repubblica.it il 18 maggio 2022.

“Ho ricevuto continue minacce di morte: 'Ti verremo a prendere', 'ti uccideremo', 'faremo a pezzi il tuo bambino'". Su Internet il governo di Mosca e i filorussi l’hanno insultata, infangata, accusata di essere un’attricetta “comprata dai nazisti di Kiev”. 

Mentre lei, Marianna Vyshemirsky, scappava dall’ospedale di Mariupol bombardato da Putin, incinta del suo bambino. Un’altra mamma come lei, anche lei ritratta in quelle tragiche e storiche foto in barella, purtroppo non ce l’ha fatta ed è morta pochi giorni dopo quel drammatico 9 marzo 2022. 

Ma ora silenzio: parla proprio lei, Marianna Vyshemirsky o Podgurskaya (cognome da nubile), alla Bbc, nella sua prima intervista a un media occidentale dopo quelle immagini virali di lei incinta in fuga dalle macerie dell’ospedale pediatrico. “La mia bambina Veronika è nata - rivela la donna - ha deciso di venire alla luce in giorni molto complicati, ma meglio così, no?”. Ventinove anni, influencer di prodotti di bellezza prima della guerra in Ucraina, marito operaio Yuri proprio nella campale acciaieria Azvostal di Mariupol, ora si trova in un’area del Donbass occupata dai russi e accetta di parlare con a fianco un blogger separatista.

Vyshemirsky ricorda ovviamente quel 9 marzo: “Eravamo nell’ospedale e a un certo punto abbiamo udito un forte botto, poi una seconda esplosione, è volato di tutto nell’ospedale”. 

La donna viene lievemente ferita, poi si rifugia negli scantinati della struttura con altri civili. Infine, chiede ai soccorritori di tornare a prendere la sua roba nell’ospedale bombardato: “Lì avevo tutto per la mia bambina”.

Poi un tweet dell’ambasciata russa nel Regno Unito l’accusa di essere un fake al soldo degli ucraini e di millantare tutto, messaggio poi rimosso da Twitter. Subito dopo le minacce, una valanga di tremende minacce di utenti e troll filorussi, soprattutto sul suo profilo Instagram. “È stato davvero offensivo per me, dopo tutto quello che avevo passato. La mia immagine è stata usata per diffondere bugie sulla guerra in Ucraina”. Marianna ha poi partorito Veronika in un altro ospedale, diversi giorni dopo il bombardamento. 

La donna però, come racconta la Bbc, si rifiuta di accusare direttamente le autorità russe. Piuttosto, è irritata con il giornalista della Associated Press che per primo, sul posto, ha riportato la notizia: “Mi sono sentita offesa da quei reporter che hanno postato le mie foto sui social media ma che non hanno intervistato altre donne incinte che erano con me quel giorno e che avrebbero potuto confermare come quell’attacco fosse avvenuto davvero. Così, invece, a qualcuno è sembrato che fosse una messinscena”.

Secondo il resoconto della tv pubblica britannica, Marianna e Yuri hanno provato a scappare da Mariupol. Poi, dopo settimane di silenzio, sono ricomparsi in una imprecisata città del Donbass occupato dai russi. La prima intervista concessa è stata qualche settimana fa a un blogger separatista filorusso, Denis Seleznev, che ha organizzato anche questa intervista con la Bbc, cui lui stesso ha presenziato “pur senza interrompere mai la conversazione”.  In ogni caso, familiari e amici di Marianna hanno assicurato che ora starebbe “bene ed è al sicuro”.