Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2022
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
I Muri.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
Quei razzisti come i cechi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come i serbi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i libici.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come gli ugandesi.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i sudafricani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i singalesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i filippini.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come gli australiani.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.
I LADRI DI NAZIONI.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
I SIMBOLI.
LE PROFEZIE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. PRIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SECONDO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TERZO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUARTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SESTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SETTIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. OTTAVO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. NONO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DECIMO MESE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE MOTIVAZIONI.
NAZISTA…A CHI?
IL DONBASS DELI ALTRI.
L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
TUTTE LE COLPE DI…
LE TRATTATIVE.
ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.
LA RUSSIFICAZIONE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.
IL FREDDO ED IL PANTANO.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE VITTIME.
I PATRIOTI.
LE DONNE.
LE FEMMINISTE.
GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.
LE SPIE.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.
LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.
LA GUERRA ENERGETICA.
LA GUERRA DEL LUSSO.
LA GUERRA FINANZIARIA.
LA GUERRA CIBERNETICA.
LE ARMI.
INDICE NONA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA DETERRENZA NUCLEARE.
DICHIARAZIONI DI STATO.
LE REAZIONI.
MINACCE ALL’ITALIA.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
IL COSTO.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
PSICOSI E SPECULAZIONI.
I CORRIDOI UMANITARI.
I PROFUGHI.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I PACIFISTI.
I GUERRAFONDAI.
RESA O CARNEFICINA?
LO SPORT.
LA MODA.
L’ARTE.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
PATRIA BIELORUSSIA.
PATRIA GEORGIA.
PATRIA UCRAINA.
VOLODYMYR ZELENSKY.
INDICE TREDICESIMA PARTE
La Guerra Calda.
L’ODIO.
I FIGLI DI PUTIN.
INDICE QUATTORDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’INFORMAZIONE.
TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA.
INDICE QUINDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA PROPAGANDA.
LA CENSURA.
LE FAKE NEWS.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
LA RUSSOFOBIA.
LA PATRIA RUSSIA.
IL NAZIONALISMO.
GLI OLIGARCHI.
LE GUERRE RUSSE.
INDICE DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CHI E’ PUTIN.
INDICE DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…le Foibe.
Lo sterminio comunista degli Ucraini.
L’Olocausto.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Il Caso dei Marò.
Che succede in Africa?
Che succede in Libia?
Che succede in Tunisia?
Cosa succede in Siria?
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La guerra ed i contemporanei.
Noi, ieri, abbiamo studiato la storia. Oggi la viviamo.
Per questo non bisogna guardare gli eventi bellici periodici con gli occhi di piccoli menti, ma annotare gli eventi per poterli raccontare in modo imparziale ai posteri.
Di personaggi come Putin è subissata la storia e solo loro sono ricordati.
La malvagia ambizione è insita negli esseri normali e di questo bisogna prenderne atto.
Carlo Buti: Questo per capire il perché della guerra per procura, con un prestanome, in Ucraina...
L' ambasciata cinese ha pubblicato un elenco di stati che sono stati bombardati dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale:
• Corea e Cina 1950-53
• Guatemala 1954
• Indonesia (1958)
• Cuba (1959-1961)
•Guatemala (1960)
•Congo (1964)
• Laos (1964-1973)
•Vietnam (1961-1973)
• Cambogia (1969-1970)
• Guatemala (1967-1969)
• Grenada (1983)
• Libano (1983, 1984) (colpisce obiettivi nei territori del Libano e della Siria)
• Libia (1986)
• Salvatore (1980)
• Nicaragua (1980)
• Iran (1987)
• Panamá (1989)
• Iraq (1991)
• Kuwait (1991)
• Somalia (1993)
• Bosnia (1994, 1995)
• Sudan (1998)
• Afghanistan (1998)
• Jugoslavia (1999)
• Yemen (2002)
• Iraq (1991-2003) (truppe congiunte statunitensi e britanniche)
• Iraq (2003-2015)
• Afghanistan (2001-2015)
• Pakistan (2007-2015)
• Somalia (2007-2008, 2011)
• Yemen (2009, 2011)
• Libia (2011, 2015)
• Siria (2014-2015)
Ci sono più di 20 stati nell'elenco. La Cina ha esortato a "non dimenticare mai chi è la vera minaccia per il mondo". (tramite GENA CHANNEL)
Ingerenze degli Stati Uniti in politica estera. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Mappa delle ingerenze degli Stati Uniti d'America
Azione in colpi di stato e cambi di regime
Interferenza elettorale
Annessioni a seguito di azione in cambi di regime e invasione
Le ingerenze degli Stati Uniti in politica estera hanno compreso azioni sia esplicite sia segrete volte a modificare, sostituire o preservare governi stranieri. Gli Stati Uniti hanno eseguito almeno 81 interventi noti, tra espliciti o sotto copertura, in politica internazionale durante il periodo 1946-2000. Successivamente alla seconda guerra mondiale, il governo degli Stati Uniti ha organizzato operazioni per favorire cambi di regime, nel contesto della guerra fredda, per contendersi l'influenza e la leadership a livello globale con l'Unione Sovietica.
Operazioni significative comprendono il colpo di Stato iraniano del 1953 (operazione Ajax) orchestrato da Stati Uniti e Regno Unito, l'invasione della baia dei Porci del 1961 contro Cuba, il favoreggiamento del genocidio indonesiano e il sostegno alla "guerra sporca" argentina, oltre all'area tradizionale delle operazioni degli Stati Uniti, quali l'America centrale e i Caraibi. Inoltre, gli Stati Uniti hanno interferito nelle elezioni nazionali di molti paesi, tra cui il Giappone negli anni '50 e '60 per mantenere al potere il Partito Liberal Democratico di centro-destra utilizzando fondi segreti, nelle Filippine organizzando la campagna per la presidenza di Ramón Magsaysay nel 1953, in Libano per aiutare i partiti cristiani nelle elezioni del 1957 usando finanziamenti segreti, in Italia per favorire la Democrazia Cristiana in funzione anticomunista durante le elezioni politiche del 1948.
Verso la fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti nel 1945 ratificarono la Carta delle Nazioni Unite, la quale vincolava legalmente il governo degli Stati Uniti alle disposizioni della carta, compreso l'articolo 2 (paragrafo 4), che proibisce la minaccia o l'uso della forza nelle relazioni internazionali, tranne in circostanze molto limitate, pertanto qualsiasi rivendicazione legale avanzata per giustificare il cambio di regime da parte di una potenza straniera comporta un onere particolarmente pesante.
Interventi del XIX secolo
1846: Messico
Territorio ceduto agli Stati Uniti a seguito del trattato di Guadalupe Hidalgo
La guerra messicana-americana fu un conflitto armato tra gli Stati Uniti d'America e il Messico dal 1846 al 1848 sulla scia dell'annessione americana del 1845 del Texas, che il Messico considerava parte del suo territorio nonostante la rivoluzione del Texas del 1836.
Le forze statunitensi occuparono il Nuovo Messico e la California, poi invasero parti del Messico nord-orientale e del Messico nord-occidentale; Un'altra armata statunitense conquistò Città del Messico e la guerra finì con la vittoria degli Stati Uniti. Il trattato di Guadalupe Hidalgo specificò la principale conseguenza della guerra: la forzata cessione messicana dei territori di Alta California e Nuovo Messico agli Stati Uniti in cambio di 18 milioni di dollari. Il Messico accettò la perdita del Texas e in seguito definì il Rio Grande come confine nazionale.
1887-1889: Samoa
La crisi samoana fu uno scontro tra Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna dal 1887 al 1889, con le potenze che sostenevano i rivali al trono delle Isole Samoa durante la guerra civile samoana. La seconda guerra civile di Samoa seguì nel 1898, coinvolgendo gli Stati Uniti (che appoggiarono il re in carica) e la Germania, che si concluse, attraverso la Convenzione tripartita del 1899, con la divisione delle Isole Samoa nelle Samoa Americane e Samoa tedesche.
1893-1917: impero ed espansionismo degli Stati Uniti
1890
1893: Regno delle Hawaii
Elementi anti-monarchici, per lo più statunitensi, progettarono il rovesciamento del Regno delle Hawaii. Il 17 gennaio 1893, la regina nativa Liliuokalani fu deposta. Le Hawaii furono inizialmente ricostituite come repubblica indipendente, ma il fine ultimo dell'azione fu l'annessione delle isole agli Stati Uniti, che fu infine completata nel 1898.
1898: Cuba e Porto Rico
Come parte della guerra ispano-americana, gli Stati Uniti invasero e occuparono la Cuba e Porto Rico nel 1898, entrambe governate dalla Spagna. Cuba fu occupata dagli Stati Uniti dal 1898 al 1902 sotto il governatore militare Leonard Wood, e ancora dal 1906 al 1909, nel 1912 e dal 1917 al 1922; governata dai termini dell'emendamento Platt fino al 1934.
La campagna portoricana fu un'operazione militare e marittima statunitense nell'isola di Porto Rico durante la guerra ispano-americana. La Marina degli Stati Uniti ha attaccato la capitale coloniale dell'arcipelago, San Juan. Sebbene il danno inflitto alla città fosse minimo, gli statunitensi furono in grado di stabilire un blocco nel porto della città, la Baia di San Juan. L'offensiva di terra iniziò il 25 luglio con 1.300 soldati di fanteria. Tutte le azioni militari a Porto Rico sono state sospese il 13 agosto, dopo che il presidente degli Stati Uniti William McKinley e l'ambasciatore francese Jules Cambon, agendo per conto del governo spagnolo, firmarono un armistizio con cui la Spagna rinunciava alla sovranità sui territori di Porto Rico, Cuba, le Filippine e Guam.
1899: Filippine
La guerra filippino-americana faceva parte di una serie di conflitti nella lotta filippina per l'indipendenza contro l'occupazione degli Stati Uniti. I combattimenti scoppiarono tra le forze rivoluzionarie filippine e le truppe statunitensi il 4 febbraio 1899 e rapidamente degenerarono nella battaglia di Manila del 1899. Il 2 giugno 1899, la Prima Repubblica delle Filippine dichiarò ufficialmente guerra agli Stati Uniti. La guerra terminò ufficialmente il 4 luglio 1902. Questo intervento degli Stati Uniti aveva lo scopo di prevenire il cambio di regime e mantenere il controllo degli Stati Uniti sulle Filippine.
1898-1901: Cina
La ribellione dei Boxer fu un movimento proto-nazionalista in Cina tra il 1898 e il 1901, così chiamato perché era guidato da combattenti, definiti "pugili della giustizia e della concordia". Gli Stati Uniti facevano parte dell'Alleanza delle otto nazioni che portò 20.000 soldati armati in Cina, sconfisse l'esercito imperiale cinese e catturò Pechino. L'Alleanza delle otto nazioni era una coalizione militare formata per sconfiggere la ribellione, e le otto nazioni, oltre agli Stati Uniti, erano Giappone, Impero russo, Gran Bretagna, Francia, Germania, Regno d'Italia e Impero austro-ungarico. Il protocollo dei Boxer del 7 settembre 1901 pose fine alla rivolta. Questo intervento non ha comportato un cambio di regime in Cina.
1900
1903: Panama
Nel 1903, gli Stati Uniti aiutarono la secessione di Panama dalla Repubblica di Colombia. La secessione fu progettata da una fazione panamense sostenuta dalla Panama Canal Company, una società franco-americana il cui scopo era la costruzione di un corso d'acqua attraverso l'Istmo di Panama, per collegare così l'Oceano Atlantico e Pacifico. Nel 1903, gli Stati Uniti firmarono il trattato di Hay-Herrán con la Colombia, concedendo agli Stati Uniti l'uso dell'Istmo di Panama in cambio di un compenso economico. tra la guerra dei mille giorni. Il Canale di Panama era già in costruzione e la Zona del Canale di Panama fu scavata e posta sotto la sovranità degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno riconsegnato la zona a Panama solo nel 2000.
1900-1920: Honduras
In quella che divenne nota come "guerre della banana", tra la fine della guerra ispano-americana nel 1898 e l'inizio della politica di buon vicinato nel 1934, gli Stati Uniti organizzarono molte invasioni e interventi militari in America centrale e nei Caraibi. I Marines statunitensi, che più spesso combatterono queste guerre, nel 1921 svilupparono un manuale intitolato "Small Wars Manual" basato sulle sue esperienze. Occasionalmente, la Marina statunitense ha fornito supporto di fuoco e venivano impiegate truppe dell'esercito. La United Fruit Company e la Standard Fruit Company dominavano nel settore dell'esportazione delle banane in Honduras e avevano i maggiori possedimenti di terra e ferrovie associate. Gli Stati Uniti organizzarono invasioni e incursioni di truppe statunitensi nel 1903 (sostenendo un colpo di Stato di Manuel Bonilla), nel 1907 (sostenendo Bonilla contro un colpo di Stato appoggiato dal Nicaragua), nel 1911 e nel 1912 (difendendo il regime di Miguel R. Davila da una rivolta), nel 1919 (per mantenere la pace durante la guerra civile e installare il governo provvisorio di Francisco Bográn), nel 1920 (in difesa del regime di Bográn da uno sciopero generale), nel 1924 (in difesa del regime di Rafael López Gutiérrez da una rivolta) e nel 1925 (in difesa del governo eletto di Miguel Paz Barahona) per difendere gli interessi degli Stati Uniti. Lo scrittore O. Henry coniò l'espressione "repubblica delle banane" nel 1904 per descrivere l'Honduras.
1910
1912-1933: Nicaragua
Il governo degli Stati Uniti ha invaso il Nicaragua nel 1912 dopo atterraggi militari statunitensi e bombardamenti navali nei decenni precedenti. Gli Stati Uniti hanno fornito supporto politico alle forze a guida conservatrice che si ribellavano contro il presidente José Santos Zelaya, di orientamento liberale. I motivi dell'intervento degli Stati Uniti includevano il disaccordo con il progetto del Canale del Nicaragua proposto, dal momento che gli Stati Uniti controllavano la Zona del Canale di Panama, che comprendeva il Canale di Panama, e i tentativi del presidente Zelaya di regolamentare l'accesso degli stranieri alle risorse naturali del Nicaragua. Il 17 novembre 1909, due statunitensi furono giustiziati per ordine di Zelaya dopo che confessarono di aver posato una mina nel fiume San Juan con l'intenzione di far esplodere il Diamante. Gli Stati Uniti hanno giustificato l'intervento sostenendo di voler proteggere vite e le proprietà statunitensi. Zelaya si dimise più tardi quello stesso anno. Gli Stati Uniti occuparono il paese quasi ininterrottamente dal 1912 al 1933.
1914: Messico
Le truppe statunitensi invasero Veracruz in Messico nel 1914 in seguito al caso Tampico. Gli Stati Uniti occuparono la città per sei mesi.
1915-1934: Haiti
L'occupazione statunitense di Haiti si verifica dal 1915 al 1934. Le banche statunitensi avevano prestato denaro ad Haiti e richiesto l'intervento del governo degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti installarono un governo fantoccio nel 1917 e dettarono i termini di una nuova costituzione haitiana nel 1917 che istituì cambiamenti che includevano la fine del divieto precedente di proprietà terriera da parte di non haitiani. I Cacos (gruppo militare) erano originariamente milizie armate di persone precedentemente schiavizzate che si ribellarono e presero il controllo delle aree montuose dopo la rivoluzione haitiana nel 1804. Tali gruppi combatterono una guerriglia contro l'occupazione statunitense in quelle che sono conosciute come le "guerre dei Cacos".
1916-1924: Repubblica Dominicana
I marines statunitensi invasero la Repubblica Dominicana e la occuparono dal 1916 al 1924, e questo fu preceduto da interventi militari statunitensi nel 1903, 1904 e 1914. La Marina degli Stati Uniti installò il suo personale in tutte le posizioni chiave nel governo e controllò l'esercito e la polizia dominicani. Dopo due giorni, il presidente costituzionale, Juan Isidro Jimenes, si dimise.
La prima guerra mondiale e il periodo tra le due guerre
1918: Russia
Dopo la Rivoluzione d'ottobre e il ritiro dalla prima guerra mondiale del nuovo governo bolscevico, l'esercito statunitense insieme alle forze armate dei suoi alleati invase la Russia nel 1918. Circa 250.000 soldati, tra cui truppe dall'Europa, dagli Stati Uniti e dall'Impero giapponese invasero la Russia per aiutare l'Armata Bianca contro l'Armata Rossa del nuovo governo sovietico nella guerra civile russa. Le truppe occuparono parte della Russia del Nord da Arcangelo e occuparono parte della Siberia da Vladivostok. Le forze d'invasione includevano 13.000 truppe statunitensi la cui missione, dopo la fine della prima guerra mondiale, era il rovesciamento del nuovo governo sovietico e il ripristino del precedente regime zarista. Gli Stati Uniti e altre forze occidentali non riuscirono nel loro intento e si ritirarono nel 1920, anche se i militari giapponesi continuarono a occupare parte della Siberia fino al 1922 e la metà settentrionale di Sachalin fino al 1925.
1941: Panama
Il governo degli Stati Uniti utilizzò i propri contatti con la Guardia nazionale di Panama, che gli Stati Uniti avevano precedentemente addestrato, per orchestrare un colpo di Stato contro il governo di Panama nell'ottobre 1941. Gli Stati Uniti avevano chiesto di costruire oltre 130 nuove installazioni militari all'interno e all'esterno della Zona del Canale di Panama, ma il governo di Panama rifiutò questa richiesta al prezzo offerto. Il presidente Arnulfo Arias fuggì dal paese e Ricardo Adolfo de la Guardia Arango, autore del colpo di Stato e amico del governo degli Stati Uniti, divenne presidente.
Periodo della guerra fredda
1940
1945-1950: Corea del Sud
Mentre l'Impero del Giappone si arrese nell'agosto del 1945, sotto la guida dei comitati di Lyuh Woon-Hyung in tutta la Corea si organizzava la transizione per l'indipendenza coreana. Il 28 agosto 1945 questi comitati formarono il governo nazionale provvisorio della Corea, rinominandola Repubblica popolare di Corea (PRK) un paio di settimane più tardi. L'8 settembre 1945, il governo degli Stati Uniti invase la Corea e successivamente stabilì il Governo militare dell'esercito degli Stati Uniti in Corea (USAMGK) per governare la Corea a sud del 38º parallelo Nord. L'USAMGK era un'amministrazione governativa insieme ai governatori giapponesi e molti altri funzionari giapponesi che avevano fatto parte del brutale governo coloniale imperiale giapponese e con i coreani che avevano collaborato con esso (Chinilpa), cosa che rese il governo impopolare e generò una forte resistenza popolare. L'USAMGK rifiutò di riconoscere il governo PRK, che era stato costituito per autogestire il paese, e il governo provvisorio della Repubblica di Corea, che aveva sede in Cina durante la seconda guerra mondiale e aveva combattuto contro i giapponesi, infine l'USAMGK dichiarò fuorilegge il governo della PRK. Nell'ottobre del 1948, il presidente e dittatore della Corea del Sud Syngman Rhee inviò unità militari per attaccare i comunisti o presunti tali che si opponevano alla divisione della Corea, e compì diverse atrocità di massa, tra cui l'uccisione di decine di migliaia di civili coreani sull'Isola di Jeju, sospettati di supportare la resistenza.
Nel 1952, il Joint Chiefs of Staff condussero il generale Mark Clark a formulare un piano per rovesciare il presidente sudcoreano Syngman Rhee, temendo che la crisi politica derivante dal suo comportamento autoritario avrebbe messo a repentaglio gli obiettivi militari. L'operazione Everready, come fu chiamato il piano, fu accantonata una volta che Rhee cedette alle pressioni statunitensi e liberò i leader dell'opposizione arrestati. Il piano fu ripreso in considerazione nel 1953 quando si temeva che Rhee non avrebbe accettato l'Armistizio di Panmunjeom.
1946-1949: Cina
Il governo degli Stati Uniti fornì aiuti militari, logistici e di altro tipo al Kuomintang (KMT), l'armata del partito nazionalista cinese di destra guidata da Chiang Kai-shek, nella guerra civile cinese contro le forze del Partito Comunista Cinese. Gli Stati Uniti trasportarono via aerea molte truppe del KMT dalla Cina centrale alla Manciuria. Circa 50.000 soldati statunitensi furono inviati per proteggere i siti strategici di Hupeh e Shandong. Le truppe del KMT addestrate e equipaggiate negli Stati Uniti trasportano truppe coreane e persino le truppe giapponesi imperiali nemiche per aiutare le forze del KMT ad occupare zone cinesi e contenere l'avanzata dei comunisti. Il presidente Harry Truman spiegò: «Era perfettamente chiaro per noi che se avessimo detto ai giapponesi di deporre le armi immediatamente e marciare verso la costa, l'intero paese sarebbe stato preso dai comunisti. Dovevamo quindi prendere l'insolita mossa di usare il nemico come presidio finché non avremmo potuto trasportare le truppe nazionali cinesi nella Cina meridionale e inviare marines per proteggere i porti marittimi». A meno di due anni dalla guerra sino-giapponese, il KMT aveva ricevuto 4,43 miliardi di dollari dagli Stati Uniti, la maggior parte dei quali erano aiuti militari.
1946-1949: Grecia
I militari britannici insieme alle forze greche sotto il controllo del governo greco combatterono per il controllo del paese nella guerra civile greca contro l'Esercito Democratico Greco (EDC). L'EDC era composto principalmente da partigiani comunisti che, come parte dell'Esercito popolare greco di liberazione (EPGL) nell'estate del 1944, aveva liberato quasi tutto il paese dall'occupazione militare della Germania nazista. All'inizio del 1947, il governo britannico non poteva più permettersi l'enorme costo di finanziare la guerra contro l'EDC e, in base all'accordo delle percentuali dell'ottobre 1944 tra Winston Churchill e Iosif Stalin, la Grecia doveva rimanere parte della sfera d'influenza occidentale. Di conseguenza, gli inglesi chiesero al governo degli Stati Uniti di intervenire e questi ultimi fornirono il paese di attrezzature militari, consiglieri militari e armi. Con l'aumento degli aiuti militari statunitensi, nel settembre del 1949 il governo greco alla fine riuscì a vincere contro i comunisti
1946-1954: Filippine
Gli Stati Uniti aiutarono a sconfiggere la rivolta contadina filocomunista chiamata ribellione Hukbalahap o ribellione Huk.
1952: Egitto
Il progetto FF ("Fat Fucker") fu un programma della Central Intelligence Agency inizialmente progettato per modernizzare il Regno d'Egitto sotto Fārūq I, portando il paese nella sfera anti-sovietica, tuttavia, la riluttanza del re a conformarsi ha portato Kermit Roosevelt Jr. a sostenere gli sforzi per sostituire completamente il regime. Dopo aver sentito voci di malcontento all'interno dell'esercito egiziano, Roosevelt incontrò i leader del movimento nazionalista anticomunista degli Ufficiali Liberi, in particolare il futuro presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, e li informò del sostegno statunitense al loro imminente colpo di Stato. Il 23 luglio 1952, il movimento degli Ufficiali Liberi rovesciò la monarchia con la rivoluzione egiziana e stabilì la Repubblica araba d'Egitto.
1947-1970: Italia
Nel 1947 la Democrazia Cristiana (DC) guidata da Alcide De Gasperi, sostenuta dagli Stati Uniti, perdeva popolarità e il Partito Comunista Italiano (PCI) cresceva con forza grazie al suo sostegno alle lotte dei contadini di Sicilia, Toscana e Umbria, movimenti sostenuti dalle riforme di Fausto Gullo, comunista e ministro dell'Agricoltura. La DC tramò l'espulsione di tutti i ministri comunisti dal governo il 31 maggio: il PCI non avrebbe più avuto rappresentanza nazionale nel governo per almeno vent'anni. De Gasperi agì sotto la pressione del segretario di Stato statunitense George Marshall, che lo avvertì che l'anticomunismo era uno dei requisiti per ricevere aiuti statunitensi, e l'ambasciatore James Clement Dunn chiese direttamente al presidente del Consiglio di sciogliere il parlamento e bandire il PCI.
Alcuni documenti statunitensi declassificati testimoniano come la Central Intelligence Agency (CIA) abbia fornito supporto economico ed equipaggiamento militare ai partiti centristi italiani per le elezioni politiche italiane del 1948, come testimonia anche F. Mark Wyatt, ex agente della CIA. In caso di vittoria dei comunisti alle elezioni, la CIA indicava di impedirgli l'accesso al potere tramite la falsificazione dei risultati elettorali o con la forza. La CIA pubblicò anche lettere false per screditare i leader del Partito Comunista Italiano. Le agenzie degli Stati Uniti intrapresero una campagna di scrittura di almeno dieci milioni di lettere, fecero numerose trasmissioni radiofoniche a onde corte e finanziarono la pubblicazione di libri e articoli, che mettevano in guardia gli italiani dalle conseguenze di una vittoria comunista. La rivista Time sostenne la medesima campagna, ma per il pubblico statunitense, con il leader del Partito della Democrazia Cristiana e primo ministro Alcide De Gasperi in copertina il 19 aprile 1948
Nel frattempo gli Stati Uniti convinsero segretamente il Partito Laburista inglese a fare pressioni sui socialdemocratici per porre fine al loro sostegno al PCI e promuovere una spaccatura devastante nel Partito Socialista Italiano.
La CIA spese almeno 65 milioni di dollari per aiutare a eleggere politici italiani, tra cui ogni politico della DC che abbia mai vinto un'elezione nazionale in Italia. I servizi segreti statunitensi si oppongono alla desecretazione completa di tutti i documenti segreti sull'influenzamento delle elezioni italiane del 1948.
Gli Stati Uniti ebbero un ruolo chiave anche nel corso del cosiddetto golpe Borghese del 1970, durante il quale formazioni di estrema destra facenti capo al Fronte Nazionale programmarono un colpo di Stato che fu tuttavia annullato dallo stesso Junio Valerio Borghese mentre era in corso di esecuzione, per motivi mai chiariti. Borghese in seguitò riparò in Spagna dove morì quattro anni dopo. Analisi successive sostennero che il golpe sarebbe stato ideato come pretesto per consentire al governo democristiano di emanare leggi speciali nel contesto della cosiddetta strategia della tensione.
1949: Siria
Il governo democraticamente eletto di Shukri al-Quwwatli fu rovesciato da una giunta guidata dal capo dello stato maggiore dell'esercito siriano all'epoca, Husni al-Za'im, che divenne presidente della Siria l'11 aprile 1949. La CIA organizzò una campagna per delegittimare il governo e giustificare il colpo di Stato. Quattro giorni dopo il governo siriano ratificò l'accordo per il progetto del gasdotto Trans-Arabian Pipeline
1950
1953: Iran
Il colpo di Stato iraniano del 1953 fu il rovesciamento del governo democraticamente eletto del primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq il 19 agosto 1953, orchestrato dalle agenzie di intelligence del Regno Unito (sotto il nome di "operazione Boot") e dagli Stati Uniti ("operazione Ajax"). Il colpo di Stato vide la transizione di Mohammad Reza Pahlavi da monarca costituzionale ad autoritario che molto si affidò al sostegno degli Stati Uniti per restare al potere fino alla caduta nel febbraio 1979, con la rivoluzione iraniana.
1954: Guatemala
Con l'operazione PBSUCCESS della CIA, il governo statunitense eseguì un colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto del presidente Jacobo Árbenz e installò Carlos Castillo Armas, il primo di una serie di brutali dittatori di destra. Il successo dell'operazione ne fece un modello per le future operazioni della CIA.
1955-1960: Laos
Il governo degli Stati Uniti finanziò il bilancio militare del governo del Royal Lao nella guerra civile contro il movimento comunista Pathet Lao, che aveva preso il controllo di una parte del paese. Gli Stati Uniti pagarono il 100% del bilancio militare del governo e nel 1957 pagarono gli stipendi dell'Armée royale du Laos. Gli Stati Uniti schierarono personale civile statunitense con esperienza militare nonostante avesse firmato un trattato che vietava espressamente l'impiego di consulenti militari statunitensi. Nel luglio 1959, gli Stati Uniti inviarono dei commando vestiti da civili per addestrare l'Armée royale du Laos, questi interventi non comportarono cambiamenti di regime.
1956-1957: Siria
1956 operazione Straggle: fallito colpo di Stato in Siria. La CIA pianificò un colpo di Stato per la fine di ottobre 1956 per rovesciare il governo siriano. Il piano prevedeva l'occupazione da parte dell'esercito siriano di città chiave e valichi di frontiera. Esso fu rinviato quando Israele invase l'Egitto nell'ottobre del 1956 e gli statunitensi pensarono che la loro operazione non avrebbe avuto successo in un momento in cui il mondo arabo stava combattendo Israele. L'operazione fu scoperta e i cospiratori statunitensi dovettero fuggire dal paese.
1957 operazione Wappen: fallito colpo di Stato in Siria. Un secondo tentativo di colpo di Stato, orchestrato l'anno seguente, prevedeva l'assassinio di alti funzionari siriani, la messa in scena di incidenti militari sul confine siriano per incolpare la Siria e poi essere usati come pretesto per l'invasione da parte delle truppe irachene e giordane, un'intensa campagna di propaganda statunitense indirizzata verso la popolazione siriana, sabotaggi e azioni per poi incolpare il governo siriano. Questa operazione fallì quando gli ufficiali militari siriani, collegati col piano, pagarono con milioni di dollari in tangenti per effettuare il colpo di Stato, rivelando così la trama all'intelligence siriana. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America negò l'accusa di aver tramato il tentativo di colpo di Stato e insieme ai media statunitensi accusò la Siria di essere un "satellite" dell'Unione Sovietica.
1957-1959: Indonesia
Come membro fondatore del Movimento dei paesi non allineati e ospite della conferenza di Bandung dell'aprile 1955, l'Indonesia si avviava verso una politica estera indipendente, non impegnata militarmente in nessuna delle due parti nella guerra fredda. A partire dal 1957, la CIA organizzò un golpe da parte di ufficiali militari indonesiani ribelli, fallendo. I piloti della CIA, come Allen Lawrence Pope, guidarono aerei della Civil Air Transport (CAT), una compagnia aerea manovrata segretamente dalla CIA, i quali bombardarono obiettivi civili e militari in Indonesia. La CIA ordinò ai piloti CAT di prendere di mira le navi mercantili al fine di spaventare quelle straniere lontane dalle acque indonesiane, indebolendo così l'economia indonesiana e quindi destabilizzando il governo democraticamente eletto dell'Indonesia. Il bombardamento aereo della CIA provocò l'affondamento di diverse navi commerciali e il bombardamento di un mercato, in cui rimasero uccisi molti civili. Il tentativo di colpo di Stato fallì in quel momento e il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower negò qualsiasi coinvolgimento del suo paese.
1958: Libano
Gli Stati Uniti lanciarono l'operazione Blue Bat nel luglio 1958 per intervenire nella crisi libanese del 1958: fu la prima applicazione della dottrina Eisenhower, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano intervenire per proteggere i regimi considerati minacciati dal comunismo internazionale. L'obiettivo dell'operazione era di impedire il rovesciamento del governo libanese filo-occidentale del presidente Camille Chamoun da parte dell'opposizione comunista. Le forze armate statunitensi furono dispiegate sul territorio e i ribelli cessarono le attività. Chamoun venne comunque deposto e venne eletto il Fu'ad Shihab, alla nomina di un governo di riconciliazione nazionale.
1960
1960: Repubblica Democratica del Congo
Nel gennaio del 1961, il primo primo ministro della Repubblica del Congo Patrice Lumumba, democraticamente eletto e filocomunista, finì nel mirino della CIA, la quale orchestrò un piano per assassinarlo. L'amministrazione Eisenhower si impegnò per l'elezione di forze politiche anticomuniste e fedeli agli Stati Uniti, convogliandogli finanziamenti segreti e organizzando manifestazioni di massa che avrebbero portato alla fine Mobutu Sese Seko a compiere un colpo di Stato nel 1960 per spodestare Lumumba, il quale venne arrestato dalle truppe golpiste, poi fucilato, fatto a pezzi e sciolto nell'acido con il supporto di agenti statunitensi e militari belgi. Nel 1965 la CIA appoggiò anche il successivo colpo di Stato di Mobutu contro il presidente Joseph Kasa-Vubu, il quale instaurò un regime totalitario durato fino al 1997.
1960: Laos
Il 9 agosto 1960, il capitano Kong Le con il suo battaglione paracadutista prese controllo della capitale amministrativa di Vientiane, con l'intento di porre fine alla guerra civile in Laos, alle interferenze straniere nel paese, alla corruzione causata dagli aiuti stranieri e per migliorare trattamento per i soldati. Con il sostegno della CIA, il maresciallo di campo Sarit Thanarat, primo ministro della Thailandia, istituì un gruppo consultivo militare segreto tailandese chiamato Kaw Taw (KT), che insieme alla CIA orchestrò un contro colpo di Stato nel novembre 1960 contro il nuovo governo a Vientiane, fornendo artiglieria, artiglieri e consulenti al generale Phoumi Nosavan, cugino di primo grado di Sarit. Gli Stati Uniti schierarono anche il Police Aerial Reinforcement Unit (PARU), sponsorizzato dalla CIA, durante le operazioni all'interno del Laos. Con gli aiuti militari di vario tipo, trasportati per via aerea dalla CIA, le forze del generale Phoumi Nosavan catturarono Vientiane nel novembre del 1960.
1961: Repubblica Dominicana
Trujillo su un francobollo del 1933
Nel maggio del 1961, il dittatore della Repubblica Dominicana Rafael Leónidas Trujillo fu assassinato con armi fornite dalla Central Intelligence Agency (CIA) degli Stati Uniti. Un memorandum interno della CIA afferma che un'indagine dell'Ufficio generale ispettore del 1973 sull'omicidio rivelò "un ampio coinvolgimento dell'agenzia con i cospiratori". La CIA descrisse il proprio ruolo nel "cambiare" il governo della Repubblica Dominicana come un "successo", in quanto ha contribuito a trasformare la Repubblica Dominicana da una dittatura totalitaria a una democrazia di stampo occidentale". Juan Bosch, uno dei primi beneficiari dei finanziamenti della CIA, fu eletto presidente della Repubblica Dominicana nel 1962 e fu deposto nel 1963.
1961: Cuba, Baia dei Porci
La CIA organizzò e addestrò le forze controrivoluzionarie composte da esuli cubani per invadere Cuba con il sostegno e l'equipaggiamento delle forze armate statunitensi, nel tentativo di rovesciare il governo cubano di Fidel Castro. L'invasione della baia dei Porci fu lanciata nell'aprile del 1961, tre mesi dopo l'insediamento di John Fitzgerald Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti. Le forze armate cubane, addestrate e equipaggiate dalle nazioni del blocco sovietico, sconfissero i combattenti invasori in tre giorni.
1960: Cuba
L'operazione Mongoose fu un programma di lunga durata del governo degli Stati Uniti per rovesciare il governo di Cuba. L'operazione comprendeva la guerra economica, l'embargo, affinché il governo comunista non riuscisse a fornire beni alla popolazione, un'iniziativa diplomatica per isolare Cuba e guerra psicologica "per trasformare il risentimento della popolazione sempre più contro il regime". La guerra economica dell'operazione includeva anche l'infiltrazione di agenti della CIA per compiere atti di sabotaggio contro obiettivi civili, come per esempio ponti ferroviari, un deposito di melassa, una centrale elettrica o il raccolto di zucchero, nonostante le ripetute richieste di Cuba al governo degli Stati Uniti di cessare le sue operazioni armate. Inoltre, la CIA ha orchestrato numerosi tentativi di assassinio contro Fidel Castro, compresi alcuni in collaborazione tra CIA e Cosa nostra statunitense.
1961-1964: Brasile
Alla dimissione del presidente del Brasile nell'agosto 1961, fu succeduto da João Belchior Marques Goulart, il vicepresidente del paese eletto democraticamente, sostenitore dei diritti democratici, della legalizzazione del Partito comunista e a favore delle riforme economiche e agrarie, ma il governo degli Stati Uniti insistette affinché imponesse un programma di austerità economica. Il governo degli Stati Uniti organizzò l'operazione Fratello Sam per la destabilizzazione del Brasile, tagliando gli aiuti al governo brasiliano, fornendo aiuti ai governatori statali del Brasile che si opponevano al nuovo presidente e incoraggiando alti ufficiali militari brasiliani a prendere il potere e sostenere il capo dello stato maggiore generale Humberto de Alencar Castelo Branco. Il generale Branco guidò il rovesciamento del governo costituzionale del presidente João Goulart nell'aprile del 1964 e fu installato come primo presidente del regime militare, dichiarando immediatamente uno stato di assedio e arrestando oltre 50.000 oppositori politici nel primo mese di presa del potere, mentre il governo degli Stati Uniti espresse approvazione verso il nuovo governo e reintrodusse aiuti e investimenti in Brasile.
1963: Iraq
Dopo il colpo di Stato in Iraq del febbraio 1963, che portò alla formazione di un governo baathista gli Stati Uniti offrirono sostegno materiale al nuovo governo, nonostante la sanguinosa epurazione anticomunista e le atrocità irachene contro ribelli e civili curdi. Per questo, afferma Nathan Citino: «Sebbene gli Stati Uniti non abbiano dato il via al colpo di Stato, nel migliore dei casi lo hanno avallato e nel peggiore dei casi ha contribuito alla violenza che ne è seguita». Il governo baathista crollò nel novembre 1963 sulla questione dell'unificazione con la Siria (dove un ramo rivale del partito Baath aveva preso il potere a marzo). Ci fu una grande discussione accademica sulle accuse del re Husayn di Giordania che indicava nella CIA (o altre agenzie statunitensi) chi fornì al governo baathista elenchi di comunisti e di altri esponenti di sinistra, che sono furono poi arrestati o uccisi dai milizia del partito Ba'ath, la guardia nazionale. Citino considera le accuse plausibili perché l'ambasciata USA in Iraq aveva effettivamente compilato tali elenchi e perché i membri della Guardia Nazionale irachena coinvolti nella purga erano stati addestrati negli Stati Uniti.
1963: Vietnam
Sebbene gli Stati Uniti fossero alleati del Vietnam del Sud durante la guerra del Vietnam, l'amministrazione Kennedy tramava contro il presidente Ngô Đình Diệm, alla luce del suo rifiuto di adottare alcune riforme politiche. Gli Stati Uniti ordinarono quindi al proprio ambasciatore nel Vietnam del Sud, Henry Cabot Lodge Jr., di "esaminare le possibili alternative di leadership e fare piani dettagliati su come poter sostituire Diem". Lodge e Lucien Conein, stabilirono contatti con i membri dell'Esercito della Repubblica del Vietnam e li incitarono a rovesciare Diem. Questi sforzi culminarono in un colpo di Stato il 2 novembre 1963, durante il quale Diem e suo fratello furono assassinati.
I Pentagon Papers riportano: «Dall'agosto del 1963 abbiamo autorizzato, sanzionato e incoraggiato in modo diverso gli sforzi per il colpo di Stato dei generali vietnamiti e offerto pieno sostegno a un governo successore. A ottobre abbiamo tagliato gli aiuti a Diem con un rifiuto diretto, dando luce verde ai generali. Abbiamo mantenuto contatti clandestini con loro durante la pianificazione e l'esecuzione del colpo di Stato e abbiamo cercato di rivedere i loro piani operativi e proposto un nuovo governo».
1965-66: Repubblica Dominicana
Nella guerra civile dominicana, una giunta guidata dal presidente Joseph Donald Reid Cabral stava combattendo le forze "costituzionaliste" o "ribelli" che sostenevano il ripristino del potere del primo presidente democraticamente eletto della Repubblica Dominicana, il presidente Juan Bosch, il cui mandato era interrotto da un colpo di Stato. Gli Stati Uniti lanciarono la "Operation Power Pack", un'operazione militare per interporre l'esercito USA tra i ribelli e le forze della giunta in modo da impedire l'avanzata dei ribelli e la loro vittoria. La maggior parte dei consulenti statunitensi aveva sconsigliato l'intervento militare, nella speranza che la giunta potesse porre fine alla guerra civile, ma il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson ritenne di ascoltare il consiglio del suo ambasciatore in Santo Domingo, William Tapley Bennett, il quale suggerì l'intervento statunitense. Il capo di stato maggiore, il generale Wheeler disse ad un subordinato: «La tua missione è impedire che la Repubblica Dominicana diventi comunista». Una flotta di 41 navi statunitensi fu inviata per bloccare l'isola mentre gli Stati Uniti procedevano con l'invasione. Un totale di 42.000 soldati e marines statunitensi occuparono la Repubblica Dominicana.
1965-1967: Indonesia
Diversi ufficiali dell'esercito e il comandante della guardia del palazzo del presidente Sukarno accusarono un capo militare indonesiano di pianificare un colpo di Stato appoggiato dalla CIA contro il presidente Sukarno e uccisero sei generali il 1º ottobre 1965. Il generale Suharto e altri alti ufficiali dell'esercito attaccarono gli ufficiali lo stesso giorno e accusarono il Partito Comunista Indonesiano (PKI) di aver orchestrato l'uccisione dei sei generali. L'esercito lanciò una campagna di propaganda basata su menzogne, scatenando i civili contro coloro che - a loro dire - sostenevano il PKI e altri oppositori politici. Le forze governative indonesiane, con la collaborazione di alcuni civili, hanno perpetrato uccisioni di massa per molti mesi. La CIA ha riconosciuto che "in termini di numero di persone uccise, i massacri anti-PCI in Indonesia sono considerati uno dei peggiori omicidi di massa del XX secolo". Le stime sul numero di civili uccisi vanno da mezzo milione a 1 milione ma stime più recenti riportano la cifra a 2-3 milioni. L'ambasciatore statunitense Marshall Green incoraggiò i leader militari ad agire con forza contro gli oppositori politici. Nel 2017, documenti declassificati dall'ambasciata statunitense a Giacarta hanno confermato che gli Stati Uniti avevano una conoscenza approfondita e dettagliata delle uccisioni di massa e le hanno attivamente facilitate e incoraggiate per i propri interessi nel paese. I diplomatici statunitensi hanno ammesso alla giornalista Kathy Kadane nel 1990 di aver fornito all'esercito indonesiano migliaia di nomi di presunti sostenitori del PKI e di altre persone presunte di sinistra, e che i funzionari degli Stati Uniti hanno quindi spuntato dai loro elenchi coloro che erano stati assassinati. La base di appoggio del presidente Sukarno fu in gran parte annientata, imprigionata e il resto terrorizzata, e così fu costretto a lasciare il potere nel 1967, sostituito da un regime militare autoritario guidato dal generale Suharto. Diversi studiosi definiscono le uccisioni di massa di questo periodo come genocidio indonesiano
1967: Grecia
Il 21 aprile 1967, poche settimane prima delle elezioni programmate, un gruppo di ufficiali dell'esercito di destra guidati dal generale di brigata Stylianos Pattakos e dai colonnelli Geōrgios Papadopoulos e Nikolaos Makarezos presero il potere in un colpo di Stato. I leader del colpo di Stato collocarono carri armati in posizioni strategiche ad Atene, ottenendo il controllo completo della città.
Allo stesso tempo, un gran numero di piccole unità militari sono state inviate per arrestare politici di primo piano, figure di spicco e cittadini comuni sospettati di simpatie di sinistra, secondo elenchi preparati in anticipo. Uno dei primi ad essere arrestato fu il tenente generale Grigorios Spandidakis, comandante in capo dell'esercito greco. I colonnelli convinsero Spandidakis a unirsi a loro, facendolo attivare in un piano d'azione per portare avanti il golpe. Alle prime ore del mattino, tutta la Grecia era nelle mani dei colonnelli. Tutti i principali politici, incluso il primo ministro in carica Panagiōtīs Kanellopoulos, erano stati arrestati dai cospiratori. Alle 6:00, Papadopoulos annunciò che erano stati sospesi undici articoli della costituzione greca.
La sinistra del fondatore del partito centrista Centre Union, Geōrgios Papandreou, fu arrestato dopo un'incursione notturna nella sua villa a Kastri, nell'Attica. Andreas Papandreou fu arrestato all'incirca nello stesso momento, dopo che sette soldati armati di baionette e una mitragliatrice entrarono con la forza nella sua casa. Papandreou fuggì dal tetto di casa sua, ma si arrese dopo che uno dei soldati mise la pistola alla testa del suo figlio quattordicenne George Papandreou. Gust Avrakotos, un ufficiale della CIA di alto rango in Grecia, che era vicino ai colonnelli, avrebbe consigliato loro di sparare "al figlio di puttana".
I critici statunitensi del colpo di Stato accusarono l'amministrazione Johnson di aver fornito aiuto a un "regime militare di collaboratori e simpatizzanti nazisti". Phillips Talbot, ambasciatore degli Stati Uniti ad Atene, disapprovò il colpo di Stato, lamentando che ciò rappresentava "uno stupro della democrazia", al quale John M. Maury, il capo della stazione della CIA ad Atene, rispose: "Come puoi stuprare una puttana?".
1970
1971: Bolivia
Il governo degli Stati Uniti sostenne il golpe del 1971 in Bolivia guidato dal generale Hugo Banzer, il quale rovesciò il presidente Juan José Torres. Torres aveva indispettito gli Stati Uniti d'America per aver convocato una "Asamblea del Pueblo" (Assemblea del Popolo), in cui persone di specifici settori proletari della società erano rappresentati (minatori, insegnanti sindacalizzati, studenti, contadini), e più in generale per aver messo il paese in quella che era percepita come una direzione di sinistra. Il 18 agosto 1971, Banzer con una sanguinosa insurrezione militare riuscì a prendere il controllo del paese il 22 agosto 1971. A quel punto gli Stati Uniti fornirono ampi aiuti, militari e di altro tipo, alla dittatura di Banzer mentre quest'ultimo reprimeva la libertà di dissenso, torturava migliaia di oppositori, uccideva e faceva sparire centinaia di persone, chiudeva sindacati e università. L'ex presidente Torres, che era fuggito dalla Bolivia, fu rapito e assassinato nel 1976 durante l'operazione Condor, la campagna di repressione politica e di terrorismo di stato dei dittatori di destra sudamericani, sostenuta dagli Stati Uniti.
1972-1975: Iraq
Gli Stati Uniti hanno fornito segretamente milioni di dollari per l'insurrezione curda sostenuta dall'Iran contro il governo iracheno. Il ruolo degli Stati Uniti era così segreto che persino il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America e il gruppo NSC 5412/2 degli Stati Uniti, creato per sorvegliare le operazioni segrete, non erano stati informati. Le truppe del Partito Democratico del Kurdistan erano guidate da Mustafa Barzani. In particolare, all'insaputa dei curdi, si trattava di un'azione segreta di cambio di regime che gli Stati Uniti volevano far fallire, intesa solo per logorare le risorse del paese. Gli Stati Uniti cessarono bruscamente il sostegno ai curdi nel 1975 e, nonostante le richieste di aiuto curde, rifiutarono di estendere persino gli aiuti umanitari alle migliaia di rifugiati curdi creati a seguito del crollo dell'insurrezione.
1973: Cile
Il presidente democraticamente eletto Salvador Allende venne rovesciato dalle forze armate cilene e dalla polizia nazionale. A seguito si verificò un lungo periodo di disordini sociali e politici tra il Congresso del Cile - dominato dalla destra - e Allende, così come la guerra economica condotta dal governo degli Stati Uniti. Come preludio al colpo di Stato, il capo dello staff dell'esercito cileno René Schneider, un generale dedito a preservare l'ordine costituzionale, fu assassinato nel 1970 durante un tentativo di rapimento fallito sostenuto dalla CIA. Il regime di Augusto Pinochet, salito al potere con il colpo di Stato, è noto per avere, secondo stime prudenti, fatto sparire almeno 3200 dissidenti politici (desaparecidos), imprigionati 30.000 (molti dei quali torturati) e costretto all'esilio circa 200.000 cileni. La CIA, attraverso il progetto FUBELT (noto anche come Track II), ha lavorato in segreto per progettare il colpo di Stato. Gli Stati Uniti inizialmente negarono qualsiasi coinvolgimento, tuttavia molti documenti rilevanti sono stati declassificati nei decenni successivi.
1979-1989: Afghanistan
Durante l'operazione Cyclone, il governo degli Stati Uniti fornì segretamente armi e finanziamenti a diversi signori della guerra e fazioni di guerriglieri jihadisti conosciuti come i Mujaheddin dell'Afghanistan che combattevano per rovesciare il governo della Repubblica Democratica dell'Afghanistan e le forze militari sovietiche che lo sostenevano. Attraverso l'Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan, gli Stati Uniti hanno addestrameto, armato e finanziato i combattenti afghani, compresi jihadisti che in seguito divennero noti come "talebani", e reclutato almeno 35.000 combattenti stranieri arabi per un costo stimato di 800 milioni di dollari. Anche gli arabi afghani "hanno beneficiato indirettamente dei finanziamenti della CIA, attraverso l'ISI e le organizzazioni della resistenza". Alcuni dei maggiori beneficiari afghani della CIA erano comandanti arabi come Jalaluddin Haqqani e Gulbuddin Hekmatyar che furono alleati chiave di Osama Bin Laden per molti anni. I militanti finanziati dalla CIA probabilmente ingrossarono le fila di Al Qaida in seguito, anche se alcuni giornalisti non ritengono veritiera questa asserzione. L'operazione Cyclone terminò ufficialmente nel 1989 con il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan, il finanziamento per i Mujahideen, da parte del governo degli Stati Uniti, continuò comunque fino al 1992, fino a quando i Mujahideen invasero il governo afgano a Kabul.
1980
1980-1989: Polonia
A differenza dell'amministrazione Carter, la dottrina Reagan sosteneva il sindacato cattolico Solidarność in Polonia e, grazie all'intelligence della CIA, intraprese una campagna di pubbliche relazioni per scoraggiare ciò che l'amministrazione Carter riteneva essere "una mossa imminente da parte delle grandi forze militari sovietiche in Polonia". Il colonnello Ryszard Kukliński, alto funzionario dello stato maggiore polacco inviava segretamente rapporti alla CIA.
La CIA trasferì circa 2 milioni di dollari all'anno in contanti al Solidarność, per un totale di 10 milioni di dollari in cinque anni. Il sostegno della CIA al Solidarnosc comprendeva denaro, attrezzature e addestramento, assistenza tecnica per i giornali clandestini, per le trasmissioni, per la produzione di propaganda, aiuto organizzativo e consulenze. Il Congresso degli Stati Uniti ha autorizzato il National Endowment for Democracy (NED) a stanziare altri 10 milioni di dollari al Solidarnosc.
Con un progressivo incremento dei fondi per le operazioni segrete che miravano al rovesciamento del governo presieduto da comunisti e socialisti, la CIA infiltrò con successo l'opposizione polacca nel 1985.
1980-1992: El Salvador
Il governo di El Salvador ha combattuto una sanguinosa guerra civile contro il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN), un fronte composto da diversi gruppi di sinistra all'opposizione, e contro i leader delle cooperative agricole, leader sindacali e altri sostenitori della riforma agraria e delle condizioni migliori per "campesinos" (contadini senza terra e altri lavoratori agricoli) che sostenevano il FMLN. L'esercito salvadoregno organizzò squadroni della morte militari per terrorizzare la popolazione civile rurale, per spingerli a cessare il loro sostegno al FMLN. Le forze governative hanno ucciso più di 75.000 civili durante la guerra dal 1980-1992. Il governo degli Stati Uniti ha fornito addestramento militare e armi all'esercito salvadoregno. Il Battaglione Atlacatl, un battaglione anti-insurrezione, fu organizzato nel 1980 all'Istituto dell'emisfero occidentale per la cooperazione alla sicurezza ed ebbe un ruolo di primo piano nella strategia militare della "terra bruciata" contro il FLMN e i villaggi rurali che lo sostenevano, ad esempio nel maggio 1980 circa 600 civili furono uccisi nel Rio Sumpul al confine con l'Honduras. I soldati di Atlacatl erano equipaggiati e diretti da consiglieri militari statunitensi che operavano ad El Salvador. Il battaglione Atlacatl partecipò anche al Massacro di El Mozote l'11 dicembre del 1981, nel quale più di 1000 abitanti vennero dapprima rinchiusi nelle case e il giorno dopo assassinati - prima gli uomini poi le donne e infine i bambini - proseguendo poi al vicino villaggio Los Toriles. Nel maggio del 1983, gli ufficiali statunitensi presero posizione fra i livelli più alti delle forze armate salvadoregne, prendendo decisioni critiche e conducendo la guerra. Una commissione d'inchiesta del Congresso degli Stati Uniti ha scoperto che la politica di repressione esercitata dall'esercito salvadoregno comportava l'eliminazione di "interi villaggi dalla mappa, di isolare i guerriglieri e di negare loro qualsiasi base rurale in cui possano nutrirsi". La strategia di "prosciugare l'oceano" o "terra bruciata" era basata su tattiche simili a quelle utilizzate dalle unità anti-insurrezione della giunta nel vicino Guatemala e derivavano principalmente dalla strategia statunitense impiegata durante la guerra del Vietnam e insegnate dai consiglieri militari statunitensi.
1982-1989: Nicaragua
Il governo degli Stati Uniti ha tentato di rovesciare il governo del Nicaragua, armando, addestrando e finanziando segretamente i Contras, un gruppo militare con sede in Honduras creato per destabilizzare il governo del Nicaragua. Come parte dell'addestramento, la CIA distribuì un dettagliato "manuale del terrore" intitolato "Operazioni psicologiche nella guerra di guerriglia", che istruiva i Contras, tra le altre cose, su come far saltare in aria edifici pubblici, assassinare giudici, creare martiri, e ricattare i cittadini. Oltre a manovrare i Contras, il governo degli Stati Uniti ha anche fatto saltare ponti e minato il porto di Corinto, causando morti civili e l'affondamento di navi civili nicaraguensi e straniere. Dopo che l'"Emendamento Boland" rese illegale per il governo degli Stati Uniti il finanziamento delle attività dei Contras, l'amministrazione del presidente Reagan segretamente vendette armi al governo iraniano per finanziare un apparato segreto del governo USA che continuava illegalmente a finanziare i Contras, in quello che divenne noto come "Irangate".Gli Stati Uniti hanno continuato ad armare e addestrare i Contras anche dopo che la vittoria alle elezioni nicaraguensi del 1984 da parte del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale.
1983: Grenada
Durante l'amministrazione Reagan, con l'operazione Urgent Fury, l'esercito statunitense ha invaso la piccola isola di Grenada per rimuovere il governo marxista. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha definito l'invasione degli Stati Uniti "una flagrante violazione del diritto internazionale" ma la risoluzione di condanna, ampiamente sostenuta nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è stata bloccata dal veto degli Stati Uniti.
1989: Panama
Nel dicembre del 1989, in un'operazione militare chiamata Operazione Just Cause, gli Stati Uniti invasero Panama. Il presidente George H. W. Bush lanciò l'aggressione dieci anni dopo la ratifica dei trattati Torrijos-Carter, che sancivano il trasferimento del controllo del Canale di Panama dagli Stati Uniti a Panama entro il 2000. Gli Stati Uniti destituirono il leader panamense, il generale Manuel Noriega e lo portarono negli Stati Uniti. Il presidente eletto Guillermo Endara prestò giuramento e le forze armate panamensi furono sciolte.
Dopo la guerra fredda
1990
1991: Kuwait
Dopo l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq nell'agosto del 1990, il governo degli Stati Uniti fece pressioni sui governi rappresentati nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per sostenere una risoluzione che autorizzava gli stati membri dell'ONU a usare "tutti i mezzi necessari" per rimuovere le forze irachene dal Kuwait. La risoluzione 678 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite fu approvata e gli Stati Uniti riunirono una forza di coalizione di 34 stati per la guerra. L'operazione venne lanciata nel gennaio 1991 e aveva il nome in codice "Operation Desert Storm". La coalizione guidata dagli Stati Uniti respinse le forze irachene dal Kuwait e tornò al potere l'emiro, sceicco Jabir III al-Ahmad al-Jabir Al Sabah.
1991: Haiti
Otto mesi dopo le elezioni ad Haiti, il neoeletto presidente Jean-Bertrand Aristide fu deposto dall'esercito haitiano. Secondo alcuni, la CIA avrebbe "pagato i membri chiave delle forze del colpo di Stato, identificati come trafficanti di droga, per informazioni dalla metà degli anni '80, almeno fino al colpo di Stato". I dirigenti di colpi di stato Cédras e François avevano ricevuto addestramento militare negli Stati Uniti.
1991-2003: Iraq
Dopo la guerra del Golfo nel 1991, il governo degli Stati Uniti volle appesantire le sanzioni prebelliche contro l'Iraq, le quali furono adottate poi dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nell'aprile 1991 con la "Risoluzione 687". Successivamente alle sanzioni più severe, i funzionari statunitensi dichiararono nel maggio 1991 - quando era ampiamente previsto che il governo iracheno di Saddam Hussein sarebbe collassato— che le sanzioni non sarebbero state revocate a meno che Saddam non fosse rovesciato.
1994-2000: Iraq
La CIA lanciò "DBACHILLES", un'operazione che aveva come finalità un colpo di Stato contro il governo iracheno, reclutando Iyad Allawi, il quale era a capo dell'"accordo nazionale iracheno", una rete di iracheni che si opponevano al governo di Saddam Hussein. La rete comprendeva ufficiali militari e figure dell'intelligence irachena, ma era infiltrata da persone fedeli al governo iracheno. Usando anche Ayad Allawi e la sua rete, la CIA diresse una campagna dinamitarda e di sabotaggio a Baghdad tra il 1992 e il 1995, contro obiettivi che, secondo il governo iracheno dell'epoca, uccisero molti civili tra cui persone in un cinema affollato. La campagna dinamitarda della CIA potrebbe essere stata solo una prova della capacità operativa della sua rete sul campo, senza essere essa correlata strettamente al piano del colpo di Stato. Il colpo di Stato non ebbe successo, ma Ayad Allawi fu successivamente installato come primo ministro iracheno dal Consiglio di governo iracheno, che era stato creato dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti dopo l'invasione e l'occupazione dell'Iraq del marzo 2003. Gli Stati Uniti nel 1998 promulgarono l'"Iraq Liberation Act", il quale afferma, in parte, che la politica degli Stati Uniti deve sostenere gli sforzi per rimuovere Saddam Hussein dall'Iraq e deve stanziare fondi per aiutare le organizzazioni dell'opposizione democratica irachena.
1997: Indonesia
L'amministrazione Clinton vide un'opportunità per spodestare il presidente indonesiano Suharto, quando il suo dominio sull'Indonesia era diventato sempre più precario all'indomani della crisi finanziaria asiatica del 1997. I funzionari americani cercarono di inasprire la crisi monetaria dell'Indonesia facendo sì che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) si opponesse agli sforzi di Suharto di istituire un comitato valutario per stabilizzare la rupia, provocando così scontento fra la popolazione. Il direttore del FMI Michel Camdessus affermò che fu proprio il fondo a creare le condizioni per obbligare Suharto ad abbandonare il progetto. L'ex segretario di stato americano Lawrence Eagleburger in seguito confermò il coinvolgimento statunitense nel supportare la manovra del FMI. La crisi economica che ne conseguì fece esplodere una rivolta nella quale morirono più di un migliaio di persone.
Anni 2000
2000: Jugoslavia
Nel periodo che va dal 1998 al 2000, poco più di 100 milioni di dollari sono stati convogliati dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America attraverso i Quangos ai partiti dell'opposizione al fine di determinare un cambio di regime in Jugoslavia. A seguito dei problemi relativi ai risultati delle elezioni presidenziali in Jugoslavia del 2000, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti sostenne i gruppi dell'opposizione come Otpor! attraverso la fornitura di materiale promozionale e anche di servizi di consulenza tramite Quangos. Il coinvolgimento degli Stati Uniti è servito ad allargare e organizzare il dissenso attraverso l'esposizione mediatica, le risorse, l'incoraggiamento morale e materiale, l'aiuto tecnologico e la consulenza professionale. Questa campagna è stata uno dei fattori che hanno contribuito al rovesciamento del presidente Slobodan Milošević il 5 ottobre 2000.
2003: Iraq
2005: Iran
Secondo fonti di intelligence pakistane e statunitensi, a partire dal 2005 il governo degli Stati Uniti ha segretamente incoraggiato e consigliato un gruppo militante pakistano della popolazione Beluci denominato Jundullah, responsabile di una serie di raid di guerriglia mortali in Iran. Jundullah, guidato da Abdolmalek Rigi (a volte scritto come Abd el Malik Regi), noto anche come "Regi", è stato sospettato di essere associato ad Al Qaida, accusa che il gruppo ha negato. ABC News ha appreso da fonti tribali che i soldi per Jundullah sono stati inviati al gruppo attraverso gli esuli iraniani. La CIA sostiene che a manovrare Jundallah ci fosse, in realtà, il Mossad con un'operazione di false flag per far risultare che dietro ci fosse l'intelligence statunitense.
2006-07: Territori palestinesi
Territori palestinesi occupati
Il governo degli Stati Uniti ha fatto pressione sulla fazione Fatah della leadership palestinese per rovesciare il governo di Hamas del primo ministro Ismail Haniyeh. L'amministrazione Bush non scontenta del fatto che la maggioranza del popolo palestinese avesse partecipato alle elezioni legislative in Palestina del 2006. Il governo degli Stati Uniti istituì un programma segreto di addestramento e armamenti che ricevette decine di milioni di dollari dai finanziamenti congressuali, ma anche, come nello scandalo Irangate, da una fonte segreta di finanziamenti per spingere Fatah a avviare una guerra contro il governo di Haniyeh. La guerra fu brutale, con molte vittime. Fatah rapì e torturò i leader civili di Hamas, a volte di fronte alle proprie famiglie, e ha dato fuoco a un'università a Gaza. Quando il governo dell'Arabia Saudita tentò di negoziare una tregua tra le parti in modo da evitare una guerra civile palestinese su larga scala, il governo degli Stati Uniti fece pressione su Fatah per respingere il piano saudita e per continuare lo sforzo nel rovesciare il governo di Haniyeh. Alla fine, al governo di Haniyeh è stato impedito di governare su tutti i territori palestinesi, con Hamas che si ritirava nella striscia di Gaza e Fatah che si ritirava in Cisgiordania.
2005-Oggi: Siria
Dal 2006, il Dipartimento di Stato ha convogliato almeno 6 milioni di dollari per il canale satellitare anti-governativo Barada TV, associato al gruppo in esilio "Movimento per la giustizia e lo sviluppo in Siria". Questo sostegno segreto è continuato sotto l'amministrazione Obama, anche se gli Stati Uniti ricostruivano pubblicamente le relazioni con Bashar al-Assad.
Dopo lo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, il governo degli Stati Uniti ha invitato il presidente siriano Bashar Al Assad a "farsi da parte" e ha imposto un embargo petrolifero contro il governo siriano per metterlo in ginocchio. Dal 2012, con l'avvio dell'operazione Timber Sycamore, un programma segreto di fornitura armi e addestramento gestito dalla CIA e sostenuto da altri servizi di intelligence come quello dell'Arabia Saudita, venne fornito denaro, armi e addestramento alle forze ribelli. Secondo i funzionari statunitensi, il programma ha addestrato migliaia di ribelli
Una conseguenza non voluta del programma è stata la proliferazione di armi nel mercato nero del Medio Oriente, come fucili d'assalto, mortai e lanciatori di granate a propulsione (RPG), dopo esser state rubate dai servizi segreti giordani, e finite perlopiù nelle mani dello Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS) e di diverse formazioni fondamentaliste islamiche come Ahrar al-Sham e Fronte al-Nusra, affiliato con Al Qaida.
Nel luglio 2017, i funzionari statunitensi hanno dichiarato che il Timber Sycamore sarebbe stato eliminato gradualmente, con fondi reindirizzati alla lotta contro l'ISIS, o per offrire capacità difensive alle forze ribelli anti-Assad.
2010
2011: Libia
Gli Stati Uniti facevano parte di una coalizione multinazionale che ha intrapreso l'intervento militare in Libia del 2011 per attuare la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che è stata presa in risposta agli eventi durante la guerra civile libica. Le operazioni militari iniziarono con le forze navali statunitensi e britanniche che spararono su 110 missili BGM-109 Tomahawk, le forze aeree francesi e britanniche colpirono tutta la Libia e un blocco navale venne effettuato da parte delle forze della coalizione.
2013: Ucraina
Dalla dichiarazione di indipendenza dell'Ucraina nel 1991, gli Stati Uniti investirono 5 miliardi di dollari in quello che la diplomatica statunitense Victoria Nuland definisce, "sviluppo di istituzioni democratiche" nel paese. Il 21 novembre il presidente ucraino Viktor Janukovyč sospese un accordo tra Ucraina e Unione europea, che prevedeva la realizzazione di un'Area Approfondita e Globale di Libero Scambio. Nei giorni seguenti cominciarono delle proteste contro il governo, da parte di coloro che chiedevano una integrazione maggiore con l'Unione europea. I manifestanti, accampati per giorni nel centro di Kiev, vennero incitati da personaggi di spicco statunitensi quali il senatore John McCain e la Nuland. I tumulti terminarono con la fuga dal paese del presidente Janukovyč.
La Nuland, intercettata in una discussione con Geoffrey Pyatt, ambasciatore statunitense in Ucraina, discuteva della futura formazione del governo post-Janukovyč, e indicava Arsenij Jacenjuk come l'uomo da mettere a capo del nuovo governo. Il 23 febbraio 2014 Jacenjuk viene effettivamente nominato primo ministro ad interim del governo e a seguito delle elezioni parlamentari in Ucraina del 2014 viene riconfermato primo ministro della Verchovna Rada. A seguito dell'insurrezione e del conseguente cambio di governo, i rapporti con la Federazione russa precipitarono e di li a poco si verificarono la crisi della Crimea del 2014 e la guerra del Donbass.
I governi successivi all'insurrezione si sono adoperati in politiche di stampo nazionalistico. Per quanto riguarda l'ambito culturale, con la legge sull'istruzione del 2017 viene imposto l'uso della sola lingua ucraina nell'insegnamento, nonostante la profonda diversità etnico-culturale della popolazione ucraina. Vengono introdotte riforme di stampo liberista, come la privatizzazione della sanità e di buona parte del settore produttivo. Inoltre vengono approvate leggi anticomuniste che hanno comportato il bando del Partito Comunista dell'Ucraina - il quale alle elezioni politiche del 2012, le ultime prima dell'insurrezione, ottenne il 13,2% dei voti - e la rimozione di tutti i simboli dell'era sovietica come i monumenti e i nomi delle strade.
2015-Oggi: Yemen
Gli Stati Uniti hanno sostenuto l'intervento dell'Arabia Saudita nella guerra civile dello Yemen. La guerra civile yemenita è iniziata nel 2015 tra due fazioni, ciascuna delle quali riteneva di sostenere il governo legittimo dello Yemen: Forze Huthi, che controllano la capitale Sana'a e hanno sostenuto l'ex presidente 'Ali 'Abd Allah Saleh, combattono contro le forze situate ad Aden, fedeli al governo di 'Abd Rabbih Mansur Hadi. L'offensiva guidata dai sauditi ha lo scopo di ripristinare Hadi al potere ed è alleata con varie fazioni locali. L'intervento guidato dall'Arabia Saudita è stato ampiamente condannato a causa dell'uso ampiop di bombardamenti di aree urbane e di altre aree civili, tra cui scuole e ospedali. Le forze armate statunitensi forniscono assistenza per quanto riguarda le informazioni sui siti da colpire e danno supporto logistico per la campagna di bombardamenti a guida saudita, incluso il rifornimento aereo. Gli Stati Uniti forniscono anche armi e bombe, incluse, secondo un rapporto di Human Rights Watch (HRW), bombe a grappolo fuorilegge in gran parte del mondo e usate dall'Arabia Saudita nel conflitto. Gli Stati Uniti sono stati criticati per aver fornito armi e bombe sapendo che i bombardamenti sauditi hanno bersagliato indiscriminatamente civili, violando le leggi del diritto bellico. È stato suggerito che il governo degli Stati Uniti sia legalmente un "co-belligerante" nel conflitto, nel qual caso il personale militare degli Stati Uniti potrebbe essere perseguito per crimini di guerra, e un senatore degli Stati Uniti ha accusato gli Stati Uniti di complicità nella catastrofe umanitaria dello Yemen, con una carestia che coinvolge milioni di persone. A partire da maggio 2018, la guerra civile è in stallo e 13 milioni di civili yemeniti rischiano la fame, secondo l'ONU.
2015-Oggi: Venezuela
Sotto l'amministrazione Obama, il 10 marzo 2015 il Venezuela è stato dichiarato una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha risposto che "il presidente Barack Obama, in rappresentanza dell'élite imperialista degli Stati Uniti, ha personalmente deciso assumere il compito di sconfiggere il mio governo e intervenire in Venezuela per controllarlo". Alcuni giorni prima che il presidente Obama lasciasse l'incarico, ha rinnovato l'emergenza nazionale riguardante il Venezuela il 17 gennaio 2017 e le sanzioni mirate contro il paese.
L'11 agosto 2017, il presidente Donald Trump ha dichiarato che non escluderà un'opzione militare per affrontare il governo di Nicolás Maduro e l'aggravarsi della crisi in Venezuela. I consulenti statunitensi di Trump ritengono che non sia saggio nemmeno discutere di una soluzione militare a causa della lunga storia di interventi impopolari in America Latina da parte degli Stati Uniti. I rappresentanti degli Stati Uniti che erano in contatto con ufficiali militari venezuelani dissidenti durante il 2017 e il 2018, hanno rifiutato di collaborare con loro o di fornire loro assistenza.
L'11 gennaio, l'Assemblea nazionale ha annunciato che Juan Guaidó aveva assunto i poteri e le funzioni del presidente del Venezuela. Guaidó viene riconosciuto nei giorni successivi da alcuni stati dell'America Latina e di altri stati. Il 23 gennaio, Guaidó ha prestato giuramento come presidente ad interim, che è stato immediatamente riconosciuto da diversi stati stranieri. inclusi gli Stati Uniti alcuni minuti dopo. Il 26 gennaio, Elliott Abrams, un diplomatico neoconservatore coinvolto in molteplici operazioni all'estero di destabilizzazione è stato designato come inviato speciale in Venezuela.
Mike Pompeo ha affermato che alcune cellule militanti di Hezbollah sarebbero attive in Venezuela e che gli Stati Uniti d'America hanno l'obbligo di eliminare questo rischio per il proprio paese. Alfred de Zayas, ex funzionario dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, ha anche detto che gli Stati Uniti starebbero violando la legge internazionale tentando un colpo di Stato contro il governo venezuelano.
La storia insegna: chi toglie la libertà è sempre comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2022.
Si può fare una statistica ormai quasi secolare delle libertà violentate nel mondo. E da quella statistica spicca una verità senza rendiconto: vale a dire che quando c'è massacro di libertà, praticamente sempre c'è un comunista che lo compie, o lo nasconde, o lo giustifica. E mai, quando nel mondo le libertà sono state aggredite, mai il comunista si è posto a difenderle. Mai nel mondo il comunista ha combattuto il potere che di volta in volta reprimeva quelle libertà, se non per sostituirvisi impiantando un potere che a sua volta ne faceva sacrificio.
Sul grosso delle libertà sopraffatte nel mondo c'è la grinfia del comunista. C'è la censura del comunista a rendere impunita quella sopraffazione. C'è la propaganda del comunista a giustificarla. Non c'è solo l'aguzzino che a migliaia di chilometri da qui fa rogo di una iurta mongola piena di bambini: c'è anche il comunista di qui che contestualizza. Non ci sono solo i milioni di bambini denutriti nei paradisi del socialismo asiatico: c'è anche il comunista di qui che li oppone ai senzatetto di New York. Non c'è solo l'omosessuale con i testicoli spappolati nel carcere cubano: c'è anche il comunista di qui, con appeso il ritratto del "Che", che si leva a difesa dei diritti civili minacciati dal neoliberismo. Non c'è solo il male assoluto perpetrato in mezzo mondo da decenni di violenza comunista: c'è anche di chi quel male è patrono, procuratore, avvocato.
L'eterno ritorno degli Imperi. Mentre i destini del mondo sono decisi tra Pechino e Washington, quattro potenze continuano la loro politica come se la Storia non fosse mai davvero cambiata. Nel libro "Imperi (in)finiti", Lorenzo Vita descrive questa lotta degli antichi imperi contro il destino. Andrea Muratore il 15 Novembre 2022 su Il Giornale.
Turchia, Russia, Francia, Gran Bretagna: quattro nazioni che nel corso della storia si sono pensate come imperi e che anche oggi non fanno eccezione nella loro condotta. Quattro potenze che dipingono con retorica missionaria, slancio ideale e grandi parole le loro strategie geopolitiche, richiamandosi, in ogni modo, al passato. Proiettarsi nella gloria passata per sognare rilanci futuri e svincolarsi da un presente che le vede soci di minoranza, per quanto depositari di quote tutt'altro che ininfluenti, dei grandi scenari globali. Questo il filo conduttore dell'analisi di Lorenzo Vita nel saggio Imperi (in)finiti, edito da Historica - Giubilei Regnani, che nel sottotitolo già presenta la chiave di lettura interpretativa: "Russia, Turchia, Francia e Regno Unito in lotta contro il destino".
Già, perché è il destino che vuole queste quattro nazioni pensarsi, inevitabilmente, come imperi. Ce ne rendiamo drammaticamente conto quando guardiamo all'aggressione russa all'Ucraina. La Russia, impero a trazione militare, ha usato la retorica dell'era zarista per giustificare l'invasione della nazione-sorella, parlando di una comunità di destino. Ma non solo nell'atto di Vladimir Putin si può percepire la forza del richiamo dell'epopea imperiale del passato verso gli Stati di oggi. Essi "hanno partecipato da sempre ai destini dell'Europa" e "non si sono mai definitivamente disinteressati al conflitto". Vita ricorda Russia, Turchia, Regno Unito e Francia come "potenze sopravvissute allo scorrere dei secoli" e che mai hanno cessato di "disegnare delle aree su cui imporre la propria autorità, stabilire alleanze e ledere altri governi, intessere trame diplomatiche e combattere", più o meno direttamente, "guerre nei diversi angoli del mondo" accomuna le potenze in questione.
Non sembri, in quest'ottica, esagerata la comparazione tra la Russia che ha portato questo concetto alle più estreme conseguenze lanciando con mezzi del XXI secolo una guerra da XX secolo con obiettivi da XIX, ovvero la mera espansione territoriale. Mosca è stata coinvolta anche nel conflitto siriano alimentato dalla Turchia contro Bashar al-Assad e su cui, oltre ovviamente agli Usa, hanno messo le mani anche Francia e Regno Unito, protagoniste nel 2011 dell'avventura libica che fu il ritorno degli imperi europei in Nordafrica dopo lo schiaffo di Suez del 1956.
Il vecchio bipolarismo, quello Usa-Urss, ha messo all'angolo i tre imperi alleati della Nato, Turchia, Regno Unito e Francia; quello nuovo, imperfetto e incompleto, tra Washington e Pechino lascia attorno ai due imperi universali, la talassocrazia a stelle e strisce e la potenza geoeconomica cinese, spazi di manovra importanti. La politica, si sa, ha orrore del vuoto, specie quella internazionale. Nel mondo "multipolare" (ma sarebbe meglio dire "apolare") la Russia, dopo aver giocato a lungo in contropiede, è alla piena offensiva per legittimarsi come potenza imperiale e, con spinta metternichiana, tornare alla pari nella percezione con Cina e Usa. Obiettivo perseguito a fronte di qualsiasi realistica dinamica dettata da peso economico, demografia, sviluppo tecnologico.
La Turchia di Erdogan, invece, usa strumentalmente, a targhe alternate, il richiamo all'Impero ottomano, il panturchismo di cui fu alfiere Mustafa Kemal Ataturk e la spinta sull'Islam politico, visioni del mondo non complementari pienamente tra loro, per legittimare una grand strategy che la vede ovunque. Attiva tra la Libia e il Corno d'Africa, intenta a inserirsi nei Balcani, proiettata nell'Asia centrale, capace di strizzare l'occhio anche all'Afghanistan, importante per la Nato, per le rotte del gas russo e le Vie della Seta cinesi, la Turchia, pur perennemente indebitata e in bolletta, pensa da grande potenza nelle pieghe del disordine globale.
La Francia non cessa di pensarsi attore globale, e Vita lo sottolinea. Emmanuel Macron, presidente-filosofo con una malcelata ammirazione per Charles de Gaulle e Napoleone Bonaparte, tratta con Vladimir Putin prima della guerra in Ucraina "da imperatore a imperatore", immagina l'egemonia europea con l'autonomia strategica, proietta Parigi tra l'Africa e l'Indo-Pacifico, punta sull'uso politico del capitalismo transalpino. Mentre, scrive Vita, "il suo impero sta regredendo, dall'Europa al Medio Oriente fino all'Africa" la Francia "ha bisogno di non cedere: non può ammettere di perdere", la France eternelle che ha fatto della missione civilizzatrice e della grandeur la giustificazione della sua strategia. E nonostante picchi di velleitarismo, anche la presidenza Macron è, nei limiti del possibile, imperiale: tra potenziamenti delle forze armate, richiami universalistici e obiettivi ambiziosi per Parigi è di questa visione che la Francia e la sua burocrazia dominante continuano a vivere.
Il Regno Unito vive, nell'era post-Brexit, del richiamo alla strategia della Global Britain come versione contemporanea e in scala ridotta dell'area di influenza mondiale di Londra. Il suo architetto, l'ex premier Boris Johnson, ha ammesso già nel 2016, da Ministro degli Esteri, l'avvenuta traslatio imperii nell'Anglosfera da Roma (Londra) a Costantinopoli (Washington), accelerata dalla decisione di Winston Churchill di firmare, in piena Seconda guerra mondiale, la Carta Atlantica con gli Usa che di fatto apriva la strada alla consegna a Washington delle chiavi dell'egemonia mondiale e alla decolonizzazione in cambio della sconfitta delle potenze dell'Asse. Ma ha anche messo in campo visioni prospettiche degne di nota. Dopo aver vinto le elezioni a valanga nel 2019, Johnson ha rivolto un appello alla nazione e al suo governo per costruire negli anni a venire un Regno Unito “veramente globale nella sua portata e nelle sue ambizioni”.
La pandemia di Covid-19 ha sicuramente scombinato i piani ma non ha frenato l’elaborazione strategica del governo di Sua Maestà che sono stati plasmati dalla guerra in Ucraina. Oggi "impero" per Londra significa accordi commerciali privilegiati con le ex colonie; significa armare l'Ucraina per fermare Mosca in una riedizione del "Grande Gioco" ottocentesco; significa valorizzare Londra come centro finanziario e attrarre le migliori menti per rendere il Regno Unito superpotenza tecnologica e scientifica; significa, in ultima istanza, permettere agli inglesi di plasmare a loro misura l'impero interno a scapito delle volontà centrifughe di nordirlandesi e scozzesi.
Per Londra il vero metro del successo sarà capire se potrà scampare al trend declinista che contraddistingue l'Europa continentale. Per Parigi la capacità di mettere in campo l'autonomia strategica europea sotto l'ombrello atomico francese sganciandola dalle strutture atlantiche. Per la Turchia la conquista di uno spazio d'influenza certo e di un ruolo di crocevia tra Medio Oriente, Asia profonda e Mediterraneo. Per la Russia evitare di morire di consunzione di fronte allo scorrere inesorabile del tempo.
Tutte e quattro le nazioni studiate da Vita, che con la freschezza dell'approccio giornalistico divulga concetti dalla grande profondità storiografica, vivono in bilico sul pericoloso crinale tra realismo e velleitarismo, tra destino e costrizioni del presente. In passato hanno già dovuto rompere ambiguità di questo tipo. Londra e la Turchia scelsero di "tuffarsi" negli Oceani e nel Mediterraneo diventando potenze navali. La Francia giocò due volte, con Luigi XIV e Napoleone, una grande strategia ambiziosa a livello europeo. La Russia si è "europeizzata" con Pietro il Grande e ha provato la carta dell'egemonia europea con lo Zar Alessandro dopo le guerre napoleoniche e con Stalin dopo la Seconda guerra mondiale. A volte questi calcoli sono stati ben ponderati, a volte no. Ma anche di fronte ai fallimenti più grandi gli imperi, oggi diventati repubbliche o monarchie costituzionali, sono rimasti tali. Il saggio di Vita insegna a pensare storicamente il presente. A leggere i grandi trend storici dietro le decisioni politiche cogenti. A ricordarci che l'idea di destino non è assente dai calcoli delle potenze. E spesso finisce, paradossalmente, per non fare il loro vero interesse, specie quando i protagonisti sono gli imperi (in)finiti nelle ambizioni pur essendo finiti, o perlomeno enormemente vincolati, nella potenza e nelle risorse a disposizione.
La storia dei due giganti dell'Asia getta ombre di paura sul mondo. Una crescita vertiginosa e il sogno di tornare alla potenza del passato spingono la politica espansionistica di Cina e India. Con molti rischi. Matteo Sacchi il 2 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Gli equilibri del mondo cambiano e sono cambiati decine di volte nel corso della Storia. I due ombelichi del mondo, se torniamo indietro nel tempo solo di un quarantennio, erano identificabili in Washington e Mosca. Ora le superpotenze sono almeno tre: Stati Uniti d'America, Repubblica popolare cinese e India. Mosca? È scivolata in una posizione molto più complessa che mischia debolezza economica e produttiva a potenza atomica, con i risultati di una pericolosa instabilità che tutti vediamo.
L'enorme forza militare ed economica di Pechino e Nuova Delhi è la novità del XXI secolo che porta verso un mondo tripolare, un mondo il cui centro potrebbe spostarsi dall'Occidente all'Oriente. Un bilanciamento tutto da trovare e dove, anche se Stati Uniti ed Europa pensano fondamentalmente al loro rapporto con le nuove controparti, le tensioni più forti potrebbero essere proprio tra le superpotenze in ascesa. Tensioni che già si misurano sul fronte himalayano.
Che il centro dell'equilibrio planetario si sposti a Oriente, in realtà, non è affatto una novità. Anzi, se ragionassimo sul lunghissimo periodo l'anomalia è lo spostamento del baricentro planetario nel continente più giovane, le Americhe. Per rendersene conto bastano due volumi appena pubblicati: Storia dell'India di Stanley Wolpert e Breve storia della Cina di Linda Jaivin (entrambi pubblicati per i tipi di Bompiani). Arrivano a chiudere una pattuglia di volumi che segnano una (tardiva) presa di coscienza non tanto dell'ascesa indo-cinese, quanto del fatto che India e Cina considerino questo fenomeno come una sorta di necessario ed inevitabile ritorno.
Vediamo allora il Mondo dall'altro lato della geopolitica. Cioè dalla Cina in ascesa. Da Pechino c'è chi guarda il dispiegarsi delle linee di faglia del conflitto di civiltà non con la logica del gioco degli scacchi, ma con quella, molto più avvolgente, del gioco del «go». È questa l'ottica che fornisce al lettore, ad esempio, il saggio pubblicato dalla Leg L'arco dell'impero a firma del generale Qiao Liang. Liang immagina un mondo multipolare dove, dopo il crollo dell'ultimo impero che secondo lui è quello statunitense, ci sarà un equilibrio nuovo in cui la Cina dovrebbe esercitare un potere morbido che non cerchi la supremazia. Ma a Pechino c'è chi, molto più del generale, rimpiange i tempi del Celeste Impero.
Il tutto in questo caso molto ben spiegato in un altro saggio, L'Impero interrotto (Utet) di Michael Schuman. Quale impero sognino i cinesi è difficile dirlo, ma rischia di essere un impero fortemente autoritario ed aggressivo. Negli ultimi anni, del resto, anche la gestione della politica interna è molto cambiata. Come spiega la Jaivin, negli ultimi anni la dirigenza cinese ha cambiato le sue linee guida diventando molto più repressiva. Nelle scuole superiori cinesi, negli anni Sessanta si leggeva la biografia di Chén Shèng scritta da Sima Qian, il ribelle contro l'antica dinastia imperiale Qin. Nel 2019 questa storia è sparita dai libri di testo. Al posto dell'eroe contestatore è comparso il generale Zhou Yafu (199 - 143 a.C.). Il militare della dinastia Han è famoso per la sua osservanza dei precetti e delle regole. È un caso? In Cina a stretto giro di posta è diventato illegale parlare di femminismo, di molestie sessuali... Col Covid sono state silenziate anche le voci dei medici e i lockdown si sono trasformati in strumenti di controllo sociale. Così un Paese che ha un potenziale umano e culturale quasi illimitato si ritrova socialmente bloccato, proprio mentre la crescita economica segna il passo. Se si somma tutto questo alle tensioni con Taiwan, che garantisce ai suoi cittadini libertà molto più ampie, si capisce quanto sia complessa questa partita.
Altrettanto complesso è lo sviluppo dell'altra grande e antica potenza: l'India. Come ha recentemente ben raccontato in Anarchia (Adelphi) lo storico William Dalrymple. A partire da quattrocento anni fa un'audace start-up privata londinese si lanciò, letteralmente, alla conquista del continente indiano. La Compagnia Britannica delle Indie Orientali, una delle prime società per azioni, avviò l'attività con trentacinque dipendenti e una patente regia che le consentiva di «muovere guerra». Duecento anni più tardi, gli immensi profitti del commercio con le Indie - e un uso spregiudicato della forza e della diplomazia - avevano cambiato la storia e spazzato via l'Impero Maratha e le altre entità politiche autoctone.
Tutto questo era stato reso possibile da una miglior tecnologia militare ma, con evidenza, l'India era stata occupata proprio per la sua immensa ricchezza che ne faceva il più grande polo produttivo del mondo. Quel ruolo l'India contemporanea lo sta riacquistando e rivendicando. E a differenza della Cina non si può dire che il Paese non porti avanti istanze democratiche. Ma sono le stesse dinamiche della crescita economica a sviluppare enormi spaccature interne. Un Paese con una storia antichissima che deve demolire una tradizione millenaria legata alle caste, dove 400 milioni di persone possono ormai vivere con standard di benessere pari a quelli occidentali ma 300 milioni sono poverissime.
Quale possa essere il livello di tensione, raccontato ad esempio in un film come La tigre bianca scritto e diretto da Ramin Bahrani, è evidente. Come nel film le tensioni sociali possono portare esiti feroci.
Queste sfide al momento restano nascoste sotto l'esplosione della crisi geopolitica ucraina. Ma sono enormi e dureranno a lungo.
Armi e malattie: ecco cosa decide la storia dei popoli. "Armi, acciaio e malattie" è un sorprendente saggio di Jared Diamond che mostra le determinanti più importanti nell'ascesa e nel declino delle civiltà nella storia umana. Andrea Muratore il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.
L'evoluzione delle civiltà? Viene dettato dagli equilibri politici e militari; si plasma sulla scia della capacità dei popoli di accedere a materie prime e risorse; soprattutto, si informa sulla scia della resistenza dei popoli ai cambiamenti sistemici dettati dalla natura.
La concentrazione dell'influenza delle varie aree del mondo nella storia è, a detta dello studioso, etologo e sociologo Jared Diamond, combinato disposto tra tre fattori: la capacità tecnica di padroneggiare le armi economiche, industriali e militari per creare e preservare lo sviluppo; l'accesso a materie prime funzionali ad alimentare tale tecnica, con i metalli e l'acciaio capaci per molto tempo di fare la differenza; la resistenza ai patogeni e la capacità di utilizzare le malattie, volutamente o meno, per colpire i popoli ostili. Questa la traccia di Armi, acciaio, malattie, saggio vincitore del Premio Pulitzer nel 1998 con cui Diamond ha presentato una teoria evolutiva della specie umana sulla base di queste precise determinanti.
Diamond, nel libro, parte da una domanda ambiziosa. "Tutti sappiamo che i popoli delle varie parti del mondo hanno avuto storie assai diverse. Nei 13.000 anni trascorsi dalla fine dell’ultima glaciazione, in alcuni casi sono sorte società industriali vere e proprie, in altri società agricole prive di cultura scritta, mentre in altri ancora ci si è fermati a tribù di cacciatori-raccoglitori dotate di soli utensili di pietra". "Tali disuguaglianze hanno avuto un’importanza fondamentale nelle vicende del pianeta, per il semplice fatto che i popoli industrializzati in possesso di una cultura scritta hanno conquistato o sterminato tutti gli altri" continua, "queste diversità sono la base più evidente dell’intera storia del mondo, ma le loro cause rimangono tutt'altro che chiare. Come si sono originate, dunque?".
La risposta sta, per l'autore, nel trittico armi-acciaio-malattie a partire dalla prima determinazione storica del progresso umano: la rivoluzione agricola e dell'allevamento che, nelle grandi masse continentali, portò alla fine del Neolitico allo stanziamento progressivo dei popoli nelle aree fertili dell'Anatolia, della Mesopotamia, dell'India, dell'Egitto, della Cina, delle Americhe.
La geografia e l'ambiente hanno plasmato la velocità di diffusione dell'agricoltura e, assieme ad essa, l'avvicinamento tra animali e uomo: "Solo un numero sorprendentemente piccolo di mammiferi erbivori terrestri sono stati addomesticati nella storia dell’uomo", nota Diamond. Per l’esattezza, quattordici: "Cinque si sono diffusi in tutto il mondo (pecore, capre, buoi, maiali, e cavalli) e nove hanno raggiunto una certa importanza solo nella zona d’origine", dai cammelli ai lama. L’era dei grandi mammiferi domestici "iniziò con pecore, capre e maiali 8000 anni fa e terminò con i cammelli 2500 anni fa, poi più nulla. Quasi tutti i successi in questo campo si sono concentrati nel continente eurasiatico, e questo ha rappresentato un fatto di importanza capitale nella storia dell’umanità". L'agricoltura e l'allevamento hanno trainato le prime comunità, hanno aiutato le comunità umane nei secoli a gestire i processi di zoonosi, cioè la trasmissione virale di patogeni dall'animale all'uomo, rendendo i popoli europei mediamente più resistenti rispetto a quelli latinoamericani.
La geografia ha giocato un ruolo determinante anche nella diffusione della conoscenza tecnologica. Va sottolineato che i popoli del mondo possono ricevere le invenzioni dei vicini con maggiore o minore facilità in maniera direttamente proporzionale al loro collegamento terrestre con essi. Le società agricole stanziali diedero origine alle prime comunità organizzate. La complessità degli Stati nacque proprio a partire dalla necessità di organizzare gli output produttivi e si evolse fino a creare istituzioni, obiettivi strategici, prospettive espansionistiche.
Diamond dà alla geografia il ruolo chiave nel determinare i processi storici. "Perché in Australia non si produssero attrezzi di metallo, non arrivò la scrittura e non si giunse a società complesse?", si chiede per esempio nel saggio. "Fondamentalmente perché questi progressi sono riservati a poche popolazioni numerose di agricoltori, mentre gli aborigeni rimasero sempre cacciatori-raccoglitori" non avendo trovato spazio per sviluppare una cultura agricola in una terra ove "l’aridità, la sterilità e l’incertezza climatica limitarono il numero degli abitanti a poche centinaia di migliaia, in contrasto con le decine di milioni presenti ad esempio in Cina". Il caso più estremo fu rappresentato dai tasmaniani che, nota Diamond, furono isolati per 10mila anni dall'innalzamento del Mare di Bass dopo la glaciazione: "Quando arrivarono gli europei nel 1642, i tasmaniani erano in possesso della cultura materiale più elementare del mondo", privi di tecnologia, pressoché inadatti all'uso delle armi e esposti ai patogeni europei. La popolazione si estinse al primo contatto coi morbi dei colonizzatori.
La miscela di armi-acciaio-malattie, ovvero la somma tra superiorità militare, maggiore efficienza tecnologica e massima capacità di resistere ai patogeni fu per Diamond la chiave di volta per l'espansione coloniale degli europei tra XV e XIX secolo. Anzi, a questi tre elementi Diamond dà un'importanza crescente indicando nelle malattie il vero game-changer: "Morbillo, vaiolo, influenza, tifo, peste e altre malattie decimarono i popoli di interi continenti e furono potenti alleati degli europei", spiega l'autore. Non solo nelle Americhe, perché anche i boscimani del Sudafrica subirono le conseguenze terribile di un'epidemia di vaiolo nel Settecento e lo stesso destino toccò ad alcune popolazioni del Pacifico o di isole dell'Oceania.
Questo significa che il determinismo geografico e le sue conseguenze governano il mondo lasciando poco spazio alle mosse politiche? Tutt'altro, dice Diamond. Imperi come quello di Roma seppero gestire al meglio il rapporto tra spazio, dimensione del potere e gestione delle risorse; altre civiltà, come quella cinese, scelsero di condannarsi all'isolamento perdendo, a cavallo tra il XV e il XVII secolo, importanti vantaggi tecnologici.
Diamond non costruisce una teoria che ha la pretesa di valere erga omnes in ogni periodo della storia, ma prova a tracciare delle rotte ideali nel quadro del contesto storico che ha portato l'umanità al suo percorso attuale. Il merito dell'opera sta soprattutto nella scelta di sottolineare la forza dei contatti e dei conflitti umani nell'essere motori di sviluppo e crescita per le collettività in un contesto in cui sfide, progressi e, molto spesso, anche grandi tragedie storiche si possono inquadrare nel contesto di un viaggio agitato della specie umana, unica nella storia del mondo a spingersi in ogni punto del pianeta per colonizzarlo. E diffusasi nella sua diversità e nella sua complessità convivendo e spesso utilizzando come arma di scontro il trittico armi-acciaio-malattie. Senza che alcuno spazio sia lasciato a qualsiasi pretesa di superiorità morale, culturale o etnica da parte di un singolo popolo. A cui nel libro di Diamond è precluso ogni spazio.
Storia da focus.it. Discorso all'Umanità del Grande Dittatore: il testo integrale. Nel Grande dittatore, film del 1940, parodia satirica di una dittatura e un dittatore (all'epoca, Hitler), Charlie Chaplin recita un memorabile Discorso all'Umanità: ecco il testo integrale.
Il testo completo del Discorso all'Umanità pronunciato da Charlie Chaplin nel finale del film Il Grande Dittatore del 1940.
«Mi dispiace, ma io non voglio fare l'imperatore. Non voglio né governare né comandare nessuno. Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l'un l'altro. In questo mondo c'è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l'abbiamo dimenticato. L'avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell'odio, condotti a passo d'oca verso le cose più abiette.
Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell'abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l'abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto. L'aviazione e la radio hanno avvicinato la gente, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell'uomo, reclama la fratellanza universale. L'unione dell'umanità. Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone.
Milioni di uomini, donne, bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di segregare, umiliare e torturare gente innocente. A coloro che ci odiano io dico: non disperate! Perché l'avidità che ci comanda è soltanto un male passeggero, come la pochezza di uomini che temono le meraviglie del progresso umano. L'odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. Il potere che hanno tolto al popolo, al popolo tornerà. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un'anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore.
Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l'amore dell'umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l'amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell'Uomo». Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare si che la vita sia bella e libera.
Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo.
Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l'avidità e l'odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!» 3 marzo 2022
Gli imperi più potenti della storia. Da Focus.it. La storia dei grandi imperi del passato è sempre molto affascinante ed è naturale provare a fare dei confronti. Ci ha provato anche Just The Flight. Abbiamo preso la loro infografica, l'abbiamo controllata, corretta dove necessario, ampliata e rielaborata. Ecco il risultato.
Impero britannico. È stato in assoluto il più vasto impero della storia dell'uomo. Governato dal Regno Unito, comprendeva colonie e territori in tutti e 5 i continenti. È stato anche il penultimo impero a cadere, nel 1997, con la restituzione della colonia di Hong Kong alla Cina.
Impero mongolo. Il più grande impero di tutti i tempi (se lo consideriamo compreso in un unico, lunghissimo, confine) fu creato a colpi di frecce e lance da un’armata di cavalieri nomadi. Gente che ai palazzi sontuosi preferiva le tende e che si inebriava di latte di giumenta fermentato. A guidarli era - inizialmente - Gengis Khan, uno dei più grandi conquistatori di tutti i tempi, diventato uno degli uomini più ricchi della storia. Grazie al suo genio militare riunì diverse tribù e fondò un impero immenso, dalla Cina, alla Russia, fino al Medio Oriente e all’Europa orientale.
Impero persiano. I Persiani, con la dinastia degli Achemenidi, furono la prima superpotenza dell’antichità. Per niente sanguinari - come voleva la leggenda nera voluta dai Greci - hanno basato la loro supremazia su alcuni capisaldi: un esercito organizzato, la libertà religiosa e le infrastrutture, ovvero le strade. L’impero di Alessandro Magno non sarebbe mai diventato tanto vasto se il Macedone non avesse invaso e conquistato il regno persiano, ampliandolo con l'aggiunta della Grecia e della Macedonia, da cui era partito, e da una serie di avamposti nell'Asia più profonda.
Impero romano. Nato con Augusto 2 mila anni fa, dominò l’Occidente per quattro secoli, raggiungendo la sua massima espansione con Traiano.
Califfato omayyade. Grazie alla dinastia omayyade, il califfato si espanse fino alla Spagna a ovest e al Caucaso a est. Al suo interno la libertà religiosa era quasi sempre permessa. Nella penisola iberica il periodo del Califfato lasciò grandi vestigia: come l’Alhambra di Granada, la Grande Moschea di Cordova e l’Alcázar di Siviglia.
Impero carolingio (sacro romano impero). Nato dalle ceneri di quello romano è stato il primo nucleo del Scaro Romano Impero. Fondato da Carlo Magno, incoronato imperatore nella notte di Natale dell’800 a San Pietro, prese a frammentarsi fino a spezzarsi del tutto con la morte di Carlo il Grosso, l’ultimo carolingio, nell’888. Da quel momento Francia, Germania e Italia prenderanno strade diverse. La formula del Sacro romano impero, invece, si ripresenterà sotto altre dinastie come gli Ottoni, gli Hohenstaufen e si protrarrà, con gli Asburgo, fino al 1806. Tuttavia non sarà mai più né per estensione di territori (dal momento che la Francia ne rimarrà sempre separata) né per ambizione politica, paragonabile al progetto di Carlo Magno.
Impero spagnolo. Ha inizio con la scoperta dell'America di Cristoforo Colombo. Inizialmente i regni che finanziarono le spedizioni in America non lo fecero per dominare nuovi mondi, come poi avvenne. Lo scopo era scoprire rotte marittime che permettessero lo scambio commerciale diretto con l’Oriente, senza l’intermediazione di Turchi e Veneziani. Tuttavia con il tempo non mancò da parte dei due maggiori azionisti delle spedizioni esplorative, Spagna e Portogallo, neppure la volontà di insediarsi in nuovi territori. E proprio la necessità di spartirsi l’oceano e le terre li portò a disegnare nel 1494 una linea immaginaria (raya) tra i rispettivi territori di conquista (anche potenziale) con il Trattato di Tordesillas. Al Portogallo (concentrato su Oriente e Africa) andò soltanto l’attuale Brasile.
Impero portoghese. Con il trasferimento della sovranità di Macao alla Cina, nel 1999 l'impero portoghese è stato l'ultimo a cadere. A differenza dell'impero spagnolo che accumulò ingenti ricchezze depredando gli imperi precolombiani, quello portoghese fondò la sua fortuna sulle rotte commerciali verso l'Oriente.
Impero ottomano. È stato uno dei più estesi e duraturi imperi della storia: durò 623 anni e al suo apogeo, sotto il regno di Solimano il Magnifico, era uno dei più potenti Stati del mondo, un impero multietnico, multiculturale e multi linguistico che si estendeva dai confini meridionali del Sacro Romano Impero, alle periferie di Vienna e della Polonia a nord fino allo Yemen e all'Eritrea a sud; dall'Algeria a ovest fino all'Azerbaigian a est. Per 5 secoli ebbe un grande controllo sul Mediterraneo e fu al centro dei rapporti tra Oriente e Occidente.
Impero russo. L'espansione della Russia inizia nel 1462, quando Ivan III sale al trono della Moscovia. Ma è nel ’700, con Pietro il Grande, che la Russia diventa un impero, aprendo la frontiera occidentale. Arginate le ambizioni della Svezia e rosicchiati territori caucasici agli ottomani, la Russia (la cui capitale era diventata San Pietroburgo) prese il controllo della Polonia e dell’Ucraina. Il culmine dell’espansione territoriale si raggiunse nel 1866, l’anno prima della cessione dell’Alaska agli Stati Uniti. Gran parte del territorio dell’impero, nel 1917, passò infine (dopo una sanguinosa guerra civile) all’Urss.
Impero egizio. Non certo il più vasto, sicuramente il più longevo (3.000 anni) impero della storia. Leggi anche: 10 cose che (forse) non sai su Cleopatra.
Impero azteco. Deve soprattutto la sua notorietà ai sacrifici umani ed è una delle tre principali civiltà precolombiane insieme a Maya e Incas.
L'impero di Facebook. Chiudiamo questa rassegna con una provocazione: un confronto con un impero moderno, quello di Facebook, che non chiede tasse, non detta leggi, non esercita la giustizia, ma che pervade l'esistenza di una grandissima fetta del mondo. Non è un caso: il social network più diffuso del mondo è stato spesso paragonato a un enorme Stato, con una popolazione (attiva) enorme, e profitti altissimi, paragonabili al prodotto interno lordo di un Paese reale.
Re e imperatori: i peggiori d'Europa. Da Focus.it. Pigrizia, incompetenza, eccesso di ambizione, dissolutezza: i motivi per cui alcuni regnanti hanno lasciato un pessimo ricordo di sé nella Storia sono molti e dei più disparati. Il principe Giovanni, ad esempio, detto "senza terra" perché alla morte del padre non ereditò alcun feudo, non gode di buona fama. Anche se ad alimentare la sua "leggenda nera" hanno sicuramente contribuito i popolari racconti su Robin Hood, non sempre attendibili storicamente. Luigi XVI, re di Francia, ha invece ha fatto tutto da solo: prima di finire ghigliottinato si rivelò inadatto a gestire una situazione tanto complessa com'era quella francese nei mesi che precedettero la rivoluzione. Lo stesso fu per lo zar Nicola II di Russia. Nessuno raggiunse però il cinismo di Leopoldo II del Belgio, che per creare il suo impero coloniale lasciò morire in Congo milioni di indigeni. Ecco alcuni dei sovrani peggiori della Storia.
Caligola (12-41), eccentrico imperatore di Roma dopo Tiberio, deve il suo nome alla calzatura militare (calǐga) che indossò fin da bambino. Salito al potere instaurò un governo assoluto, entrando in rotta di collisione con il Senato e con le classi dirigenti. Molto amato dal popolo, ebbe una vita privata dissoluta, a tratti sadica, e introdusse nella corte un fasto di tipo orientale. Fece uccidere gli oppositori interni, umiliò più volte i senatori e visse nel lusso sfrenato dando vita a numerosi aneddoti sul suo conto: è diventata proverbiale la leggenda secondo cui avrebbe nominato senatore Incitatus, il suo cavallo. Secondo le fonti avrebbe in realtà voluto dargli la carica di console, ma fu assassinato prima. Guarda anche tutto quello che fece grande l'impero romano. eopoldo II (1835-1909), re del Belgio dal 1865 al 1909, difese con la diplomazia l'integrità del suo Paese contro le mire espansionistiche di Napoleone III di Francia (1866-69). In Africa, in compenso, commise crimini atroci: negli anni dell'espansione coloniale amministrò l'area congolese in modo crudele e assolutamente privatistico. Trasformò interi villaggi in luoghi per la lavorazione della gomma e fece morire quasi 10 milioni di congolesi su un totale di 25 milioni. Vedi altri 12 personaggi spietati della Storia.
L'ultimo zar: Nicola II (1868-1918). Sotto il suo regno finì l'impero russo. Sarebbe potuta andare diversamente la storia? Di certo sappiamo che lo "zar di tutte le Russie" si dimostrò inadeguato e non concesse le riforme democratiche di cui il Paese aveva bisogno. Pur favorendo lo sviluppo industriale e sostenendo alcune riforme economiche, difese il sistema di potere russo e si oppose ai tentativi proposti di riforma agraria. Le sconfitte subite dalla Russia durante la Prima guerra mondiale e l'aumentare dei conflitti sociali fecero così precipitare la situazione, che sfociò nella rivoluzione del febbraio 1917. Nicola abdicò il 4 marzo. Imprigionato, fu trasferito a Ekaterinburg dove venne ucciso dai bolscevichi, insieme con la sua famiglia, il 16 luglio 1918.
Giorgio IV del Regno Unito (1762-1830), alcolista, pigro e probabilmente dipendente dall'oppio, è passato alla storia per essere stato un re egoista, inaffidabile e irresponsabile. Sempre rappresentato come un re "dandy", fu noto soprattutto per le sue disavventure amorose e per il carattere dissoluto della sua corte. Alla sua morte la reputazione della monarchia inglese era arrivata ai minimi storici, tanto nel Regno Unito, quanto all'estero.
Eliogabalo (203-222), di origine siriana, apparteneva alla dinastia dei Severi. Tentò di importare a Roma il culto del Sole sovvertendo le tradizioni religiose romane e sostituendo, a Giove, la divinità solare del Sol Invictus. La sua politica religiosa e i suoi eccessi sessuali (ebbe cinque mogli e due mariti) fecero montare il malumore nei suoi confronti, fino al suo assassinio. Alla morte fu colpito dalla damnatio memoriae: la pena consisteva nella cancellazione di una persona dalla memoria collettiva, eliminando qualsiasi traccia che potesse ricordarla ai posteri.
Giovanni Senza Terra (1166-1216) fu soprannominato così per essere rimasto, ultimo dei fratelli, senza appannaggi, ovvero senza feudi. Quando suo fratello, re Riccardo detto Cuor di Leone, partì per la terza crociata, gli affidò la reggenza. In sua assenza Giovanni cercò di farsi eleggere re d'Inghilterra al suo posto: non ebbe successo e quando il legittimo re tornò fu costretto a farsi da parte. Alla morte del fratello, divenne re ma entrò in lotta con i baroni e fu costretto a firmare nel 1215 la Magna Charta libertatum, in cui si riconoscevano alla nobiltà laica ed ecclesiastica alcuni privilegi. Entrò nella leggenda di Robin Hood come il malvagio principe Giovanni.
Ferdinando VII di Borbone (1785-1833), re di Spagna dal 1808 al 1833, dopo il declino di Napoleone (1814) divenne il campione della Restaurazione: abolì la costituzione di Cadice che era stata promulgata nel 1812 e reintrodusse l'Inquisizione e i privilegi della nobiltà e del clero. Per favorire l'ascesa al trono della figlia Isabella II, unica erede, fece regole ad personam, abrogando la legge salica, che vietava alle figlie di ereditare le terre dei genitori.
Luigi XVI di Borbone (1754-1793), re di Francia. Nonostante volesse proporsi come un "buon re", il pigro e non troppo acuto sovrano portò la Francia a una grave crisi economica: incapace di dare al regno le riforme di cui aveva bisogno, contribuì a creare le premesse della Rivoluzione. Nel pieno della rivolta, il 25 giugno del 1791, non riuscendo a prendere una posizione coraggiosa, optò per la fuga anche nella speranza di agevolare l'ala moderata dei rivoluzionari. Costretto a giurare sulla Costituzione il settembre successivo, riprese le sue funzioni, ma solo nominalmente: finirà ghigliottinato due anni dopo. Vedi anche 11 cose che forse non sai sulla Rivoluzione Francese.
Tito Flavio Domiziano (51-96), ultimo dei Flavi, di costumi viziosi e dissoluti, non si fermò davanti a niente. Salito al trono si rivelò un imperatore spietato, sanguinario, molto temuto. Divenne tristemente famoso per le persecuzioni cristiane, ma anche per la sua discussa gestione del potere: amava farsi chiamare dominus et deus («signore e dio») e governò con il pugno di ferro, escludendo il Senato da qualsiasi decisione. Alla fine del suo regno l'impero si troverà sull'orlo del baratro.
Così l’Urss stroncò la Primavera di Praga. Il titolo eclatante della Gazzetta del Mezzogiorno. «Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno» nel 1968: repressione simile all’invasione nazista. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Agosto 2022.
«Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno». Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici sono entrati nella capitale cecoslovacca e hanno messo fine alla Primavera di Praga. Le truppe del patto di Varsavia, dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria, stroncano il tentativo compiuto da Alexander Dubcek di riformare dall’interno il regime comunista.
«La Cecoslovacchia vive il secondo grande dramma della sua storia. Fu Goebbels che ne annunciò l’invasione nel 1939 quando il nazismo decise di incorporarla nel Terzo Reich di Hitler. Ora è la volta dei Russi che credono di scorgere una nuova minaccia all’ordine in Cecoslovacchia, in un territorio in cui anche essi sono vitalmente interessati», scrive W. Rehaki sul quotidiano.
«Sin da quando Radio Praga, interrompendo la notte scorsa un normale notiziario, ha dato all’intero Paese la drammatica notizia che truppe sovietiche, tedesco orientali, polacche, ungheresi e bulgare avevano, senza alcun preavviso violato le frontiere per occuparlo, da parte responsabile ci si è resi subito conto che l’unica cosa da fare era invitare tutti alla calma ed evitare a qualsiasi costo un confronto violento con le forze di invasione che non avrebbe avuto purtroppo alcun risultato, come a Budapest nel lontano 1956».
Nella notte le truppe sono avanzate in città, infatti, quasi senza incontrare resistenza: la popolazione ha reagito in modo non violento, tuttavia non sono mancati morti e feriti tra i civili. All’alba il primo ministro Dubcek e gli altri membri del governo sono stati arrestati: i sovietici, però, non riescono a dar vita subito a un governo collaborazionista. Salito al potere nel gennaio 1968, Dubcek portava avanti un programma di moderate riforme, basato sul decentramento economico e politico, sulla rinascita dei sindacati e sulla libertà di stampa. I Russi però temono che l’esempio della Cecoslovacchia possa diffondersi nel resto dell’Europa Orientale. In un pezzo di Adam Kennett-Long, corrispondente da Mosca per l’agenzia Reuter, si apprende che la Tass, agenzia di stampa dell’Urss, ha dichiarato che proprio i dirigenti cecoslovacchi avrebbero richiesto l’intervento delle truppe per porre fine alla «contro-rivoluzione».
In pochi mesi le riforme messe in atto dal governo Dubcek saranno annullate. Nel gennaio 1969, il giovanissimo Jan Palach si darà fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, in segno di protesta.
Il racconto. La lezione della storia: il caso Sarajevo nell’Europa dei “sonnambuli”. Corrado Augias La Repubblica il 30 aprile 2022.
L’ arciduca Francesco Ferdinando con la moglie nel momento dell’attentato per mano di Gavrilo Princip in una stampa d’ epoca. L’attentato del 28 giugno 1914, come tutti sappiamo, fu la miccia che generò la Grande guerra. Ma a renderla inevitabile fu la colpevole cecità dei Paesi del continente.
Il 28 giugno 1914 era domenica. L'arciduca Francesco Ferdinando - erede al trono d'Austria-Ungheria - e sua moglie Sofia arrivarono in treno a Sarajevo. Venivano da tre giorni di vacanza in una cittadina termale, l'accoglienza era stata impeccabile. Dalla stazione si diressero in auto al municipio. Ebbero poi il tempo di visitare il pittoresco bazar senza particolari misure di sicurezza.
Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022.
«Il mondo non è più diviso tra destra e sinistra ma tra democrazie e regimi autoritari. Cina e Russia sono il motore del secondo fronte. Putin è da anni al centro di questo network antidemocratico e manda truppe ovunque, dalla Siria al Venezuela. Ora cerca di schiacciare l’Ucraina.
Sono convinto, e lo dico dal 2014, che qui si combatte la battaglia decisiva tra Paesi liberi e regimi autoritari. L’esito è molto più importante dello stesso destino dell’Ucraina perché darà una spinta poderosa alle democrazie o ai totalitarismi, a seconda di chi prevarrà».
Dopo la caduta del muro di Berlino e del regime sovietico, lo storico Francis Fukuyama affascinò e illuse l’Occidente col suo La fine della Storia : un saggio nel quale descriveva la liberaldemocrazia come il «capolinea dell’evoluzione ideologica dell’umanità».
Trent’anni dopo — e dopo diverse correzioni di rotta — Fukuyama rimane convinto del valore assoluto degli ideali liberaldemocratici, ma prende anche atto che per difenderli bisogna salire sulle barricate. Lo intervisto mentre, tornato brevemente a Stanford, in California, dopo una missione nei Balcani, sta ripartendo per Londra dove presenta il suo nuovo libro, Liberalism and Its Discontentents.
Nei suoi interventi più recenti, lei definisce l’attacco di Putin una grande tragedia, una minaccia potenzialmente mortale, ma anche una grande occasione di riscossa delle democrazie liberali che si risvegliano dal loro torpore, ritrovano compattezza e il senso profondo di un’identità comune.
«Putin ha commesso un grave errore di valutazione. Pensava di prendersi l’Ucraina in due giorni e, invece, la fiera resistenza di quel popolo sta mostrando al mondo, e soprattutto ai giovani, poco interessati agli ideali di libertà e democrazia che danno per scontati, l’importanza di questi valori e, soprattutto, l’importanza di difenderli da dittatori pronti a tutto per soffocarli.
Il risveglio dell’Occidente gli costerà caro, ma Putin può ancora ottenere una vittoria, sia pure parziale: se riesce a rovesciare il governo democratico di Zelensky, mostrerà che si possono ottenere grandi risultati politici con la forza militare: un apripista per altri regimi tentati di seguire la stessa strada».
Quanto si può fare affidamento sulla compattezza della Nato, dall’Ungheria di Orbán alla Turchia che dice no alle sanzioni?
«La Nato ha ritrovato un’unità straordinaria, che nessuno si aspettava. È un bene prezioso. Certo non c’è da fidarsi di Orbán, sempre pronto ai giochi più spregiudicati e non mancano altri problemi, ad esempio con la Polonia che stava per essere sanzionata dalla Ue.
Ora che Varsavia è la frontiera avanzata dell’Alleanza e accoglie milioni di profughi quel dossier verrà accantonato. I problemi, però, restano. Ma è lo spirito complessivo dei governi europei che oggi è diverso. Pesa soprattutto il cambiamento radicale e rapidissimo della Germania: il capovolgimento di 40 anni di Ostpolitik, il raddoppio delle spese militari, le armi date all’Ucraina.
Questa guerra può creare le condizioni per rifondare la Nato e l’Europa su nuove basi. Diventano possibili cose fino a ieri impensabili. Se Macron verrà rieletto, Francia e Germania potranno promuovere davvero la cosiddetta Iniziativa europea di difesa indipendente».
Per essere credibile una difesa europea non dovrebbe avere anche un deterrente nucleare? Germania con l’atomica?
«Il deterrente nucleare è importante, ma in Europa già lo hanno due Paesi e può bastare. Poi ci sarà sempre l’ombrello americano della Nato. Non credo che la Germania voglia diventare una potenza nucleare. Quello che conta è dotarsi di una forza militare convenzionale sufficiente per difendersi autonomamente e per missioni come quella nei Balcani».
Non teme che lo sforzo di isolare, anche militarmente ed economicamente, Putin, possa essere vanificato dalla Cina?
«Dopo aver promesso con una certa leggerezza a Putin alleanze senza limiti, la Cina sta avendo ripensamenti. Non vedo prove concrete di una vera risposta positiva alla richiesta russa di assistenza militare.
Saranno cauti: le sanzioni contro la Russia freneranno anche le loro mire su Taiwan e gli insuccessi delle truppe di Mosca faranno riflettere anche loro. La Cina ha investito molto in campo militare, dispone di tecnologie avanzatissime, ma questo non significa che le sue forze armate abbiano capacità operative adeguate».
Non teme nemmeno che attorno a Russia e Cina possa coagularsi, magari solo sul terreno economico, un fronte antioccidentale di Paesi emergenti contrari a sanzioni che hanno un costo per tutti?
«C’è insoddisfazione nei confronti dell’Occidente in molte parti del mondo, ma questo dipende soprattutto da errori come l’invasione dell’Iraq o anche solo frizioni di tipo diplomatico.
Vengo dalla Macedonia del Nord: lì il forte risentimento nei confronti dell’Europa dipende non da un rifiuto dei valori liberaldemocratici, ma dal fatto che Skopje ha chiesto di entrare nella Ue 17 anni fa e da allora si è vista chiudere la porta in faccia più volte. Credo poco alla nascita di un blocco commerciale indipendente da Usa ed Europa: il sistema dei pagamenti è tuttora fatto quasi solo di dollari ed euro. E non è così facile per la Cina sostituire una rete finanziaria planetaria come Swift. Può farlo, ma non in tempi brevi».
La Nato non ha errori da rimproverarsi?
«Aver offerto nel 2008 l’ingresso nell’Alleanza a Georgia e Ucraina fu un grave errore, ma non sono tra quelli, come il politologo John Mearsheimer, che attribuiscono l’aggressione russa all’allargamento Nato. L’origine va cercata nella potente narrativa storica che è stata diffusa da Putin e nella sua volontà di disfare l’ordine europeo formato dopo la Guerra Fredda. Non solo in Ucraina ma in tutto l’Europa orientale».
Timori di escalation fino all’uso dell’atomica?
«Non credo che la minaccia nucleare sia molto credibile. Tutti, compreso Putin, si rendono conto che l’atomica non è un’arma utile per raggiungere obiettivi politici. Temo il ricorso ad armi chimiche come reazione disperata di un Cremlino chiuso in un angolo».
La Turchia è divenuta una potenza regionale grazie anche ai suoi droni usati in vari conflitti. Ora arma l’Ucraina ma negozia con Putin e non lo sanziona. Che gioco fa?
«La Turchia pensa di avere una relazione speciale con Mosca. Relazione speciale ma non buona, da quando la Turchia abbatté un jet russo in Siria. Erdogan è contrariato perché Putin l’ha consultato e poi non ha seguito i suoi consigli lanciando l’attacco. Non credo gli dispiaccia vedere Mosca in difficoltà. Anche grazie ai micidiali droni turchi usati dagli ucraini che adesso tutti vogliono comprare».
Domenico Quirico per “la Stampa” il 25 marzo 2022.
Questa guerra in Europa ci sconvolge per l'impotenza dell'uomo davanti al destino, per quell'ammazzarsi meccanico e tecnologico con il suo gigantesco arsenale di missili artiglieria carri armati, a cui nessuno sembra poter porre rimedio. Questo potere del destino apparenta questo conflitto alla Prima guerra mondiale. La fragilità del corpo umano di fronte al metallo e alla tecnologia, la morte meccanica e l'alto numero di vittime nelle città che assomigliano sempre più alle trincee delle Fiandre legano l'oggi alle atrocità dell'avvio del Novecento.
Questa guerra che è insieme ipermoderna e antica scopre le sue carte e porrà fine, per la seconda volta, alle illusioni progressiste e umanitarie. Nel 1914 andarono in pezzi i sogni ottocenteschi che il destino dell'uomo sarebbe stato obbligatoriamente migliore, oggi uscirà in briciole la propaganda di un mondo aperto e globale, dove merci idee e uomini avrebbero camminato e progredito insieme.
Sappiamo per averlo provato nel Novecento su di noi europei che le civiltà possiedono la stessa fragilità di una vita. Colano a picco con i loro uomini e le loro macchine, con gli dèi e le leggi, le accademie e le scienze. L'abisso della irrilevanza storica è abbastanza grande per tutti. Fino a un mese fa l'Europa era ancora piena di cose, personaggi, progetti, utopie. Adesso è diventata, al di là di una sgonfia retorica consolatoria, qualcosa di astratto, nebbioso, ha solo problemi, paure, dipendenze, sospetti, vive ogni giorno nell'angoscia di diventare un grande campo di battaglia.
Il problema diventa di nuovo: quale ragione ha l'Europa di farsi? Con quale contenuto e diritto? Che cosa rappresenta? È un personaggio con qualcosa che la distingue dagli altri che si fanno così brutalmente sentire sulla scena del mondo? O solo un "collage", fatto di attaccamento e disamore, come si dice in francese, di iscritti all'Alleanza militare atlantica? Prima ancora di unità, che la necessità di sopravvivenza all'istinto di preda putiniano sembra aver frettolosamente abborracciato, un problema di identità.
Come nel 1918 temo che stiamo per assistere, sgomenti, alla seconda morte d'Europa. È quello che ne uscirà, qualunque sia l'esito del conflitto, sia che la furia russa di ridefinire equilibri che non considera più definitivi e che sono eredità imperfetta dalla caduta del Muro abbia successo o sia che venga respinta o contenuta. Il mondo che ne uscirà vedrà consolidarsi gli Stati Uniti da una parte, rimasti al riparo del loro splendido isolamento transoceanico, abili nell'attizzare la guerra affidata alla pena di alleati e famigli che hanno trovato una occasione di mettere un po' di belletto a una inevitabile decadenza imperiale.
Dall'altra parte due potenze asiatiche, la Cina che consoliderà con il suo astuto attendismo il passaggio imperialistico da potenza economica a gigante militare; e la Russia che rinnegherà, nella ferocia dello scontro e per le cicatrici lasciate dall'isolamento e dalle sanzioni, la sua vocazione europea per volgersi dall'altra parte.
A quella tentazione asiatica a cui il forcipe di Pietro il grande l'aveva sottratta costringendola a guardare a ovest restando sotto il marchio autocratico. Sconfitta questa che sarebbe di portata gigantesca per gli europei e l'Occidente. Perché la Russia è sempre stata occidente anche quando la separava il Muro di Paese del socialismo reale e del marxismo burocratico e autoritario. Persino in quello sviluppo restava europea perché parlava una lingua ideologica a noi domestica e nota.
Le tre potenze che sopravviveranno si daranno battaglia nel Terzo mondo. Sempre che approfittando dei nostri errori e delle nostre baruffe fratricide il progetto totalitario dell'islam non trovi linfa e occasioni per sedersi al tavolo come quarto, pericoloso incomodo. Nel 1914 l'Europa che era ancora presidiata da grandi potenze, Inghilterra, Francia con i loro imperi, il blocco continentale delle autocrazie, Germania, Austria-Ungheria e Russia (lo chiamavano il concerto europeo, litigioso gonfio di livori ma con un collaudato meccanismo che garantiva l'uscita di sicurezza diplomatica), corse con cieca indifferenza al fratricidio della guerra civile.
Colpa di una generazione particolarmente feconda di politici molto bravi a metter tutto in subbuglio e repentaglio, attentissimi a non introdurvi ordine, misura, pazienza. Questa abilità di complicare i conflitti fu pari solo alla impotenza, una volta scoppiati, di chiarirli, limitarli risolverli.
Non vi ricorda questa generazione di profeti sovvertitori quella che posta di fronte all'incendio ucraino e agli ultimatum prepotenti di Putin invece di far appello al proprio ruolo di mediatore forte che la geografia e la convenienza loro imponeva si è messa ad attizzare come artificieri pirotecnici fuochi che altri gli gettavano davanti incitandoli a innescarli?
Così che si è assistito allo scandalo di una guerra tra nazioni europee e cristiane in cui chi cerca di bagnare le polveri e strappare un armistizio sono un musulmano dalla fama assai dubbia, un ebreo che ha saggiamente conservato voce nei due campi in lotta, e forse ma, con subdole reticenze, un comunista confuciano.
Noi europei che avevamo appena finito di congratularci con noi stessi per esserci dato appoggio reciproco nella bufera della pandemia, siamo scivolati in questo nuovo problema continuando come ciechi e sordi a confortarci l'un l'altro: una guerra qui tra noi è del tutto irragionevole, quindi impossibile. E non è tutto. La scottante lezione è ancora più completa. L'Europa ha sentito che rischiava di fronte a questo pericolo «impossibile» di non riconoscersi più, che cessava di assomigliare a se stessa, che stava per perdere una coscienza acquisita dopo un lungo periodo di disgrazie sopportabili.
Non si può accettare l'aggressione si è detto. Ed era giusto, anche se molte altre ne ha accettate in altre parti del mondo. Ma poi ha abdicato a quella che l'ha fatta grande ovvero questa sua straordinaria e forse unica capacità di trasmissione unita a una intensa capacità di assorbimento. Forse è la sua vera ricchezza, la forma originale della sua intelligenza, la sua ragione di durare. Qualunque chiusura di gioco le sarebbe funesta rendendola superflua.
Il ritratto di Lenin «piccolo borghese». E il «Margherita» a Bari diventò un cinema. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022.
«Un piccolo borghese dall’aspetto placido, benigno, dalle mani bianche»: così inizia la descrizione di Lenin sulle pagine del «Corriere delle Puglie» del 28 aprile 1922. A comporre il ritratto è Giuseppe Alberto Pugliese, insigne avvocato, nato a Toritto, deputato per diverse legislature.
La vita del leader sovietico è piena di mistero: da molto tempo nessuno lo vede, non firma gli atti del governo, non si sa dove sia. Sospettano persino che si aggiri travestito alla Conferenza di Genova. È un teorico, come lo era Robespierre, un mistico, il dogmatico della rivoluzione che ha voluto sovrapporre un’idea astratta al popolo russo, a qualunque costo. Mite di natura, come tutti i dominatori assoluti, una volta al potere, non ha scrupoli sentimentali, sostiene il giurista: «si è gettato dentro la rivoluzione per soddisfare la sua sete di potenza e di vendetta».
Zarismo e bolscevismo sono due estremi che si toccano: «l’anima russa ignora il giusto mezzo, ha la vertigine degli estremi, non ha paura, le incognite lo attirano come calamita il ferro».
Per Pugliese la rivoluzione teorica di Lenin può dirsi, nell’aprile 1922, fallita: territorialmente la Russia è tornata quella che era prima di Pietro il Grande, il popolo muore di fame e Lenin chiede aiuto all’Europa, la cui civiltà voleva distruggere. E l’occidente deve affrettarsi a salvare la Russia.
Pochi mesi dopo si costituirà, invece, l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss): Lenin, colpito da paralisi nel maggio 1922, continuerà a seguire dal soggiorno di cura a Gorki, nelle vicinanze di Mosca, gli sviluppi dello Stato sovietico, fino alla morte sopraggiunta nel ‘24.
Les Dieux s’en vont. Il Margherita non sarà più né teatro di varietà, né teatro di prosa e di operette e tanto meno per stagione lirica, è trasformato in un grandioso e moderno cinematografo»: questa è una grande novità annunciata sul «Corriere». Lo scenario barese è ormai completo: vi è il Petruzzelli per la stagione lirica, il Piccinni per la prosa e il Margherita potrà essere ora «il cinematografo ideale». Eretto su solide palafitte sul mare, inaugurato nel 1914 con il nome di «Kursaal Margherita», ospita nelle sue sale anche il Museo storico della città. Finalmente gli spettatori non dovranno più accalcarsi in salette anguste: nell’ex teatro potranno prendere comodamente posto ben duemila persone e godere della musica di una vera orchestra. Qui, nel gennaio 1931 i baresi assisteranno alla proiezione del primo film sonoro italiano: «La canzone dell’amore».
Nella storia l’origine delle ossessioni di Mosca. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.
Il nucleo originario dello Stato non aveva un confine geografico preciso e ancora oggi nella Federazione convivono 200 etnie diverse: da questo la convinzione sulla necessità di un accentramento assoluto del potere, il bisogno rassicurante del governo forte.
La Russia è uno Stato formatosi in un modo che in Europa non ha eguali, sicché solo se si conosce questo singolare processo, la sua storia, si può arrivare a capire anche la psicologia e il comportamento dei suoi governanti. A cominciare dalla loro secolare ossessione per la sicurezza con il tipico esito paranoico di sentirsi di continuo accerchiati e minacciati e di conseguenza predisposti alla più risoluta aggressività. Un modello che Putin incarna alla perfezione.
La Russia è innanzi tutto un problema geografico. Collocata per gran parte fuori dal nostro continente, è l’unica statualità europea che si è costituita con operazioni di conquista di tipo coloniale. Infatti, da un lato nel Sei-Settecento ha incorporato una parte enorme (e ricchissima di risorse minerarie) dell’Asia settentrionale allora abitata da sparuti gruppi di popolazioni indigene, la Siberia, e più o meno contemporaneamente ha strappato al dominio tartaro la grande regione che dal basso Volga e dalla Crimea arriva fino al Caucaso; dall’altro lato nell’Ottocento si annetté gli sterminati territori dell’Asia centrale islamica (Kazakistan, Uzbekistan, ecc.) fino alle pendici del Karakorum.
Tutte operazioni bellico-espansionistiche — e di tipo colonialistico, ripeto — favorite da due dati fondamentali: il fatto che il nucleo originario slavo dello Stato russo (costituito dal triangolo Kiew, Mosca, Novgorod) mancava di qualunque confine geografico preciso, e la superiorità militare che le davano gli armamenti moderni di cui era in possesso.
Questo singolarissimo dato storico-geografico ha voluto dire innanzi tutto uno Stato con una formazione per aggregazioni successive di parti tra loro diversissime e multietnico come nessun altro Stato europeo: si pensi che tutt’oggi — vale a dire anche dopo le secessioni seguite alla fine dell’Unione sovietica — nella Federazione russa esistono circa duecento (dicesi duecento) differenti gruppi etnici. Ma proprio perciò ne è venuta fuori una statualità che ha introiettato nel proprio modo d’essere e in quello dei suoi gruppi dirigenti due disposizioni patologiche: da un lato la perenne paura della disintegrazione, del disfacimento dall’interno, il perenne sospetto che qualche potere straniero trami per favorire tale disfacimento; e dall’altro — precisamente al fine di esorcizzare una simile paura — la convinzione ossessiva circa la necessità di un accentramento assoluto del potere, il bisogno rassicurante del governo forte, del pugno di ferro. Insomma: l’autoritarismo come requisito per l’esistenza stessa dello Stato e l’uso della forza come la sua istintiva modalità d’azione.
Tutto pur di scongiurare quello che dopo la fine del comunismo i governanti russi avvertono come il pericolo sospeso sul capo del loro Stato per effetto della sua stessa vicenda originaria: dopo essere stati abbandonati da tutta l’Asia sovietica di un tempo, vedersi abbandonati anche dall’Ucraina e dalla Bielorussia e in questo modo ridotti alla Moscovia del XVI secolo con alle spalle solo l’enorme e spopolata Siberia confinante per oltre 4 mila chilometri con la Cina. Una prospettiva tutt’altro che rassicurante.
È per l’appunto la natura geograficamente e storicamente composita e «dispersa» dello Stato russo di cui ho appena detto, il suo carattere assai più «imperiale» che «nazionale», è questo dato che spiega il fascino che sempre ha esercitato sulla sua società, ma in specie sulle sue classi colte e politiche, il richiamo all’universalità. Il fascino, cioè, di ideologie che affidavano alla Russia missioni mondiali a sfondo di salvezza: vuoi che si trattasse dell’idea di Mosca incarnazione della Terza Roma consacrata dall’ortodossia, vuoi, più vicino a noi, che si trattasse dell’Internazionale comunista incaricata di portare la rivoluzione ai quattro angoli della Terra, vuoi della missione che oggi alcuni circoli intellettuali vicini a Putin assegnano alla Russia di rappresentare la sfida della Tradizione alla Modernità nichilistica nelle cui spire mortali si starebbe dibattendo l’Occidente. È il destino degli imperi (e delle entità che aspirano esserlo): sospesi tra autoreferenzialità e universalismo non riescono a sfuggire alla tentazione di raffigurarsi come portatori elettivi di un’Idea con l’iniziale maiuscola.
Risulta ovvia da quanto fin qui detto la difficoltà strutturale per tutto il resto d’Europa di avere a che fare con la Russia. Per tutto il resto di un’Europa, tra l’altro, agli occhi della quale l’idea di potenza e di dominio da cui Mosca non sa né forse può distaccarsi, rappresenta ormai - almeno nell’ambito del suo continente - un residuo del passato quasi incomprensibile e però un residuo fin troppo presente, incombente. Di fronte al quale non si vede che altra prospettiva politica sia possibile adottare se non quella di un sostanziale contenimento. Che per essere tale, cioè efficace, non può che essere sostenuto, tuttavia, da un adeguato strumento militare. È verosimile però che oggi l’Europa possa attuare un tale contenimento e disporre di un tale strumento militare a prescindere dalla Nato, cioè dagli Stati Uniti? Questa è la domanda chiave. E se amassero ragionare sui dati della realtà invece che sciorinare i loro buoni sentimenti (che peraltro sono anche i nostri, glielo assicuriamo) è a questa domanda che i pacifisti dovrebbero cercare di rispondere.
Così Xi Jinping aveva previsto la guerra russa in Ucraina. BRANKO MILANOVI, Ceconomista, su Il Domani il 18 agosto 2022
Un amico mi ha recentemente mandato una versione abbreviata del discorso del gennaio 2013 di Xi Jinping ai membri del Comitato centrale del Pcc. È piuttosto provvidenziale il fatto che l’abbia letto ora, quasi dieci anni dopo la sua pronuncia, perché getta luce sul problema molto attuale della guerra russa in Ucraina.
Secondo Xi Jinping, quando un partito perde il controllo dell’ideologia cade preda del “nichilismo ideologico”. E se al vuoto creatosi si sostituisce il desiderio cinico di dominio, si apre la strada a politiche pericolose.
Il testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto.
Monito di Putin. "Finito il mondo unipolare. L'islam alleato". Redazione su Il Giornale il 30 agosto 2022.
Il mondo unipolare è ormai «obsoleto» e sarà presto sostituito da un nuovo ordine globale «basato sui principi fondamentali della giustizia e dell'uguaglianza e sul riconoscimento del diritto di ogni Paese o popolo a seguire il suo percorso sovrano di sviluppo». È la visione del presidente russo Vladimir Putin che lo ha affermato in un messaggio inviato ieri, in occasione dell'apertura del Forum sugli investimenti nell'Estremo Oriente russo, a Vladivostok. Secondo Putin: «È nella regione Asia-Pacifico che si stanno formando potenti centri politici ed economici, che fungono da forza trainante di questo processo irreversibile».
Mentre in un saluto inviato ai partecipanti e agli ospiti del Summit mondiale della gioventù di Kazan, il capo del Cremlino ha osservato che l'elezione di Kazan a capitale giovanile dell'Organizzazione per la cooperazione islamica conferma l'alto livello delle relazioni della Russia con questa struttura internazionale. «Centinaia di delegati da decine di Paesi sono arrivati a Kazan, rappresentanti di varie organizzazioni pubbliche e studentesche, di centri di esperti e di dipartimenti governativi responsabili delle politiche giovanili». E ha aggiunto, nel suo messaggio: «Gli stati del mondo islamico sono i nostri partner tradizionali nella risoluzione di molte questioni di attualità dell'agenda regionale e globale, negli sforzi per costruire un ordine mondiale più giusto e democratico. È importante che i giovani siano sempre più coinvolti in tale interazione costruttiva e sfaccettata». Kazan è la capitale della repubblica russa del Tatarstan è la sesta città della Russia per popolazione. Si tratta di un importante centro di commercio, industria e cultura, ed è il più importante sito della cultura tatara. Si trova alla confluenza del Volga con la Kazanka, nella Russia europea centrale. L'11 maggio 2021 la città è stata scenario di una strage. Imbracciando armi da fuoco, un ex studente è entrato in un istituto scolastico coinvolgendo diversi ragazzi e facendo vittime e feriti. In seguito a questo evento, il Cremlino ha deciso di riaprire il confronto politico sull'uso privato delle armi nel Paese.
Putin e il Mediterraneo: perché lo Zar vuole il nostro mare. Il Corriere della Sera il 25 Agosto 2022
È dal tempo dell’Impero che la Russia cerca un passaggio verso le calde acque del Sud. Oggi nel Mare Nostrum concentra mezzi e armi. Rotte pericolose di guerra, traffici e cavi che connettono il mondo di Maria Serena Natale / CorriereTv
Non solo Caspio, Mar Nero e gelidi mari del Nord. Dal tempo degli zar la Russia cerca un passaggio permanente verso le calde acque del Sud, il Mediterraneo piattaforma di confronto con l’Europa e con l’Impero Ottomano, rivale storico che attraverso Bosforo e Dardanelli controlla l’accesso al Mare Nostrum. Oggi la Nato mantiene il predominio nell’area ma l’armata russa concentra mezzi, missili e sistemi antiaerei. La guerra di Siria è stata un’occasione per consolidare le posizioni: è del 2017 l’accordo per ampliare la base navale nel porto di Tartus. Unità della flotta di Mosca si muovono regolarmente nel Mediterraneo e dal lancio delle operazioni in Ucraina le manovre dimostrative si sono intensificate. In Africa la Russia fornisce energia e garantisce sicurezza. Stringe legami, s’inserisce nei vuoti di potere. Nella risoluzione Onu di condanna dell’aggressione all’Ucraina l’Algeria si è astenuta, il Marocco non ha votato. Dall’Algeria come dalla Tunisia passano i cavi sottomarini che portano elettricità e soprattutto Internet all’Italia e all’Europa. Acque frequentate dai sottomarini russi. Rotte pericolose, con il rischio di incidenti tra le reti in fibra che connettono il mondo.
Vladimir Putin e la Russia non riescono ad abbandonare le ambizioni imperiali. Budapest nel’56, Praga nel’68. Ora i carri armati sono in Ucraina. Finito il comunismo sovietico resta la voglia di ricreare la potenza del passato. Bernardo Valli su La Repubblica il 13 giugno 2022.
Comincia così il saggio di Milan Kundera del 1983, adesso ripubblicato da Adelphi con il titolo “Un Occidente prigioniero”. Lo scrittore ceco naturalizzato francese racconta che nel settembre del 1956 il direttore dell’agenzia di stampa ungherese, pochi minuti prima che il suo ufficio venisse distrutto dall’artiglieria sovietica, trasmise al mondo intero per telex un disperato messaggio sull’offensiva che poche ore prima i russi avevano lanciato contro Budapest. Il messaggio finisce con queste parole: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa». Cosa voleva dire? si chiede Kundera. Certamente che i carri armati sovietici mettevano in pericolo l’Ungheria e, insieme, l’Europa. Ma in che senso, si chiede sempre Kundera, l’Europa era in pericolo? I blindati russi erano forse sul punto di varcare le frontiere ungheresi e dirigersi a Ovest? No. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese voleva dire che in Ungheria era l’Europa a essere presa di mira. «Perché l’Ungheria restasse Europa era pronto a morire».
“Morire per l’Europa” non è uno slogan di molti in questi nostri tempi, mentre l’Ucraina si difende dall’invasione ordinata da Putin ed eseguita con grande difficoltà e tra tante incertezze, cento giorni dopo l’inizio dell’aggressione. Ho vissuto l’invasione dell’Ungheria nel ’56, come giovane cronista incaricato di accogliere i profughi che superavano i confini nazionali per rifugiarsi in Occidente. Riassumo il significato di quegli avvenimenti drammatici per il giornalista alle prime armi, trovatosi di fronte a quel che appariva una rivolta contro il comunismo imposto dalla super potenza sovietica vittoriosa della Seconda guerra mondiale. Nei partiti comunisti all’opposizione nell’Europa democratica si accesero crisi e si verificarono defezioni, in particolare tra gli intellettuali. Non furono in pochi, allora, a ripudiare l’affiliazione al Pci. Tra questi Italo Calvino che proveniva dalla Resistenza ligure. Ma oggi non sono in discussione le ideologie. Quel che ci riporta al passato non le riguarda. Le più evidenti tracce di allora sono i miliardari che hanno approfittato della smobilitazione marxista. Sono loro i resti più vistosi di un sistema che predicava, più che rispettare, l’uguaglianza sociale. Prima dell’insurrezione ungherese ci furono a Berlino i moti operai, nel ’53. La strada è stata lunga, con numerose, e spesso sanguinose, tracce.
Ho cominciato dalla mia prima esperienza, vissuta con reazioni intense da un giovane reporter. Poi ne vennero tante altre, sempre in Europa. Anzitutto la Cecoslovacchia, nel ’68. In quell’estate vivevo praticamente ai piedi dei carri armati sovietici che presidiavano piazza Venceslao a Praga. Milan Kundera li ha vissuti quei giorni nella sua Brno natale.
Viene in mente una vecchia sentenza: ha perso il pelo ma non il vizio. È il caso della Russia di Putin, non più sovietica, non più idealmente e formalmente discendente della Rivoluzione d’ottobre, e che, impero in decadenza, è ansioso di recuperare le terre perdute. Quindi il potere che esse comportano. Ho passato mesi nella Polonia insofferente all’imposto pseudo comunismo, conteso nella nazione cattolica, e ho vissuto le tragiche settimane rumene da Bucarest. Più sanguinose di quelle storiche che riunificarono Berlino, e quindi la Germania.
Il secolo passato, che ho in gran parte percorso, mi ha riservato alcuni tra i maggiori eventi della storia: la Seconda guerra mondiale, con la fine del nazismo e del fascismo; la decolonizzazione che ha fatto emergere tante nazioni di quello che un tempo fu chiamato Terzo Mondo; la fine della dittatura marxista e quindi il travolgente fallimento della rivoluzione sovietica. Non pensavo di diventare testimone, a volte diretto, di tanti mutamenti. Il nuovo secolo, anzi millennio, che mi apprestavo a vivere come ultima tappa della già lunga esistenza, ricca di grandi mutamenti, non mi avrebbe riservato sorprese tragiche come il Novecento. Ecco invece che nel paese in cui il comunismo reale (non quello immaginato e mai concretizzato) è stato sepolto senza tanti onori, risorge un regime non più comunista, ma ansioso di recuperare almeno parte delle glorie perdute. Il conflitto in Ucraina ci dirà se la Mosca di Putin ne sarà capace. Se riuscirà sarà un rimbalzo della storia.
Putin e gli zar: ambizioso come Pietro il Grande, disilluso come Alessandro I. Emanuel Pietrobon il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.
Vladimir Putin è universalmente noto, perlomeno a livello giornalistico, come "lo Zar". Un appellativo che cela del vero al suo interno. Perché non si può capire a fondo la Russia contemporanea senza conoscere la Russia dei Romanov e di Alessandro I.
Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto del libro Emanuel Pietrobon, Nella testa dello Zar, edito da Giubilei Regnani all'interno della collana curata da Andrea Indini, I tornanti.
Sulle orme di Pietro il Grande
Quella di Putin sembra una parabola: ha iniziato il suo percorso come Pietro il Grande, cioè come un riformatore conservatore con lo sguardo all'Europa, diffidenza e tradimenti veri o percepiti lo hanno disilluso come Alessandro I, e in seguito autocratizzato come Nicola I e Alessandro III, e una malagestione dell'involuzione autoritaria cominciata nel dopo-Euromaidan e accelerata nel dopo-guerra in Ucraina potrebbe avere come epilogo un tragico destino alla Alessandro II. Non è fantapolitica: la storia della Russia è un ciclo che si ripete all'infinito e che insegna quanto comuni siano le congiure di palazzo e le rese dei conti maturate nell'ambiente dei siloviki, cioè dello stato profondo. La storia darà ragione o torto a Putin e alla sua «guerra personale» in Ucraina.
Ma Putin non è sempre stato un autocrate a metà tra i khan del mondo turco-turanico, gli imperatori divini dell'Estremo Oriente e i despoti illuminati europei del tempo delle monarchie assolutiste. È esistito un tempo, ai primordi della sua carriera politica, in cui Putin era un liberale convinto, un riformatore conservatore con il santino di Pietro il Grande ed un eurofilo entusiasta, seppure pragmatico, che sognava di costruire un asse con l'Unione Europea e di integrare la Russia nell'architettura securitaria euroatlantica.
Pietro, padre fondatore della Russia moderna, fu la stella polare di Putin per un decennio e, in un certo senso, il suo vissuto continua ancora ad influenzarlo. L'ossessione per la cattura del Mar d'Azov, posto sotto il controllo di Mosca durante la guerra in Ucraina del 2022, non è che un pallino ereditato da Pietro, colui che per primo provò a controllarlo per ragioni di calcolo: è la testa di ponte per una forte proiezione navale nel Mar Nero.
Ma non è per la dottrina strategico-militare che Putin guardava a Pietro all'inizio dell'era post-eltsiniana: era per la sua visione del mondo. Come Pietro, rimasto impresso nei libri di storia per la Grande ambasciata (Вели́кое посо́льство) in Europa occidentale, Putin vedeva la Russia come l'appendice estremo-orientale della civiltà europea e credeva che l'Europa, non l'Asia, fosse il suo destino.
Coerentemente con l'ambizione di unire le due Europe, nonché di normalizzare le relazioni tra Russia e Stati Uniti, Putin trascorse il primo decennio del nuovo secolo a siglare accordi di cooperazione con l'Unione Europea, a dialogare con l'Alleanza Atlantica e ad appoggiare la Guerra al Terrore delle due amministrazioni Bush Jr.
Nel 2000 la proposta informale all'uscente Bill Clinton di valutare l'entrata della Russia nell'Alleanza Atlantica. Nel 2001 l'adesione alla Guerra al Terrore, con annessa l'apertura delle basi russe nell'Asia centrale postsovietica al personale militare statunitense. Nel 2002 la creazione del Consiglio Nato-Russia, figlio della Dichiarazione di Roma e del «formato Pratica di Mare» di Silvio Berlusconi. Nel 2003 gli accordi sugli spazi comuni con l'Unione Europea. Nel 2004 la sottoscrizione del Protocollo di Kyoto per accontentare i partner occidentali. Nel 2005 la trilaterale russo-franco-tedesca di Kaliningrad per trovare una posizione comune in vista del G8, apripista di un possibile asse Parigi-Berlino-Mosca. Nel 2010 la proposta di costruire un'area di libero scambio tra Unione Europea e Russia. Nel 2012 l'ingresso della Russia nell'Organizzazione mondiale del commercio reso possibile dalla fine del boicottaggio da parte europea.
La crescente disillusione
Come si suol dire, non è tutto oro quello che luccica. E il negozio della grande distensione aveva una vetrina tanto brillante quanto una bottega piena di orrori. Alla fine, il progetto di costruire la «Grande Eurasia», cioè un'unione politico-economica da Lisbona a Vladivostok, sarebbe crollato sotto il peso delle contraddizioni, dall'allargamento della Nato nell'ex Patto di Varsavia alla pioggia di rivoluzioni colorate nello spazio postsovietico. Nel 2007 il famigerato discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, un vero e proprio manifesto contro la percepita tirannia del «momento unipolare». Nell'agosto 2008 l'invasione della Georgia per impedirne la possibile entrata nell'Alleanza Atlantica, di cui gli alleati euroatlantici avevano discusso al vertice di Bucarest dell'aprile dello stesso anno. Nel 2009 la crisi del gas. Nel 2011-12 la crisi diplomatica tra Russia e Occidente per l'appoggio verbale di quest'ultimo alle massicce proteste antigovernative capitanate da un giovane, e all'epoca semisconosciuto, Aleksei Naval'nyj. E nel 2014, infine, Euromaidan, l'annessione della Crimea e l'inizio della guerra nel Donbas. Il resto è storia. Il resto ha condotto alla guerra in Ucraina del 2022.
Un sovrano con un esercito ha una sola mano, ma colui che ha anche una flotta le ha entrambe.
Pietro il Grande
L'eurofilia di Putin è andata scemando nel tempo, anno dopo anno, e di Pietro il Grande, quell'eroe idolatrato in qualità di «grande riformatore che ha plasmato il Paese», è rimasta soltanto la venerazione per la grandezza che riuscì a dare alla Russia e l'attenta analisi del suo pensiero, mai anacronistico e sempre attuale, in materia di affari militari e geostrategia. La ricostruzione della potenza navale della Federazione, utile per dominare il Mar Nero e in prospettiva il Mediterraneo, è un'idea che Putin ha mutuato da Pietro. La repressione dell'islamismo tataro inaugurata dal FSB nel dopo-2014 sembra modellata sulle campagne antitatare di Pietro. E la stessa corsa all'Artico è un'eredità pietrina, dato che il Grande zar fu il primo teorico (e costruttore) della flotta artica.
Di Pietro, in breve, non sono rimasti gli ideali, che erano comunque quelli di un autocrate interessato a un'occidentalizzazione limitata e parziale della Russia, ma soltanto le ambizioni militari e geopolitiche. E con il venire meno dell'influenza esercitata dal fascino pietrino su Putin, è cresciuta quella di alcuni dei suoi successori, in particolare di Alessandro I, Nicola I e Nicola III.
Il ricordo di Alessandro I
La trasformazione da un riformatore conservatore ispirato da Pietro il Grande ad un monarca illuminato e trasudante messianismo come Nicola I, o come Alessandro III, è avvenuta per tappe. Prima che il liberalismo e l'eurofilia venissero sostituite da un'attualizzazione dell'«Ortodossia, Autocrazia, Nazionalità», Putin ha creduto di vivere la vita di qualcun altro, ha provato un déjà-vu: si è visto tradito come Alessandro I durante l'era napoleonica.
Alessandro I, proprio come Putin, fu un moderato portato dagli eventi ad abdicare al liberalismo in favore del conservatorismo e dell'autocrazia. E come ogni imperatore, o meglio come (quasi) ogni russo, era afflitto dal complesso dell'identità troncata: un patriota che si sentiva inspiegabilmente attratto dall'Europa, una civiltà ritenuta «superiore» alla propria, e che a causa di quel sentimento ambivalente, di quell'ammirazione mista a invidia, provava frustrazione, insicurezza e rabbia. Il complesso di Alessandro I riguardava e riguarda ogni russo, perché è proprio dell'homo russicus, e scriverne è fondamentale: è uno dei motivi alla base della complessità e della conflittualità delle relazioni tra Russia ed Europa.
L'amore per l'Europa e la condivisione dei suoi valori non avrebbe salvato Alessandro I: dopo un tentativo di coesistenza con Napoleone, cominciato con la pace di Tilsit, nel 1812 fu testimone della partenza da Parigi di oltre 600mila soldati diretti a Mosca. Le concessioni non ricambiate avevano dato vita ad un rapporto asimmetrico, a beneficio di Parigi, e l'adesione maldigerita e parziale di Mosca al Blocco continentale avrebbe fatto il resto, determinando il crollo dell'asse tra Alessandro I e Napoleone e lo scoppio della Guerra patriottica (отечественная война).
Putin, similmente ad Alessandro I, ha percepito come un tradimento le rivoluzioni colorate avvenute nello spazio postsovietico dal 2000 al 2014 e l'allargamento dell'Alleanza Atlantica ad est, nonostante quel «not one inch eastward» promesso a Gorbačëv nel 1990, perché negli stessi anni aveva appoggiato l'agenda mondiale dell'Occidente, dal clima al terrorismo, credendo che ciò avrebbe portato ad un paritario equilibrio a tre, Russia-Europa-Stati Uniti, per la gestione degli affari internazionali. Speranza mai divenuta realtà. Illusione uccisa dalla storia. Sconforto seguito dalla rabbia, dalla voglia di «revisionismo».
Il ricordo di Alessandro I, e non soltanto quello di Stalin e dell'Operazione Barbarossa, spiega perché la Russia abbia una vera e propria ossessione per la messa in sicurezza dei suoi confini occidentali attraverso la salda presenza di stati-cuscinetto, come Bielorussia e Ucraina, pensati come ammortizzatori in caso di invasione da ovest. Non esistono barriere naturali che separino Mosca da Berlino, essendo tutta pianura, e la facilità con cui questi confini liquidi sono attraversabili è la ragione dell'esigenza russa di avere e volere degli stati-cuscinetto. Alessandro I ottenne una prima parete divisoria al Congresso di Vienna del 1815, ricevendo porzioni delle attuali Finlandia e Polonia, che Stalin poi amplificò durante la Seconda guerra mondiale, iniziando curiosamente dagli stessi luoghi – Finlandia e Polonia –, e dopo, alla Conferenza di Jalta.
La memoria di Alessandro I vive nelle gesta di Putin, che ha palesato sin dal 2007 la volontà di tornare alla «rassicurante» epoca alessandrina (e staliniana) delle sfere di influenza, e cioè di satelliti e stati-cuscinetto, e che perciò ha approfittato dei disordini bielorussi del 2020 per riportare Aleksandr Lukashenko all'ovile e, più di recente, ha scatenato la guerra in Ucraina. Le cosiddette garanzie di sicurezza avanzate alla Nato tra dicembre 2021 e gennaio 2022, sostanzialmente ambenti ad un indietreggiamento del dispositivo militare euroatlantico ai livelli del 1997, muovono nella stessa direzione.
Ultimo, ma non meno importante, è necessario ripercorrere l'era alessandrina anche per comprendere l'appoggio del Cremlino all'internazionale sovranista: il corteggiamento della destra conservatrice di oggi non è che una riedizione della Santa Alleanza del post-Napoleone. Riscoprire Alessandro I, in breve, è uno dei modi migliori per capire cosa si cela nella mente di Putin, dei suoi strateghi, ma anche per prevedere cosa faranno coloro che verranno dopo di lui.
"Ricostruire la grandezza perduta": cosa si cela nella mente dello Zar. Luigi Iannone l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.
Decifrare la Russia, l'immensa nazione che si estende dal Baltico al Pacifico, non è facile. Come non è facile decifrare Vladimir Putin. Ecco da dove arriva e chi ha influenzato il pensiero del capo del Cremlino.
La Russia è una nazione che appare disarticolata in mille anime, percorsa da atavici fattori ansiogeni rispetto a un’eventuale ed ennesima invasione e sempre pervasa da una sorta di missione spirituale che la innalzerebbe a scudo contro le forze apocalittiche del caos.
Nelle ultime settimane il dibattito pubblico si è però privato della comprensione di questa peculiare complessità. La maggior parte degli analisti, pur replicando con una certa insistenza un ottimo repertorio di citazioni, da Henry Kissinger (Per capire Putin si deve leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf) a Winston Churchill (La Russia è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro ad un enigma), non è mai andata oltre la scorza di questo frasario nel timore di passare per collaborazionista.
Di questa gigantesca nazione che si estende dal Baltico al Pacifico, che si struttura su una indecifrabile mistura ideologica alimentata da pensatori poco noti in occidente ma che alla fine riesce a trovare una praticabilità politica grazie a quelle strane figure chiamate “siloviki”, ce ne racconta i viluppi Emanuel Pietrobon nel suo ultimo libro Nella testa dello Zar. I segreti di Vladimir Putin, (Giubilei-Regnani, pp.132).
Pietrobon fa una disamina innanzitutto dei pensatori che hanno esercitato una certa influenza su Putin, almeno a tener conto del numero di citazioni in interventi ufficiali: il sofiologo Vladimir Solov'ëv, il linguista ed eurasista Nikolaj Trubeckoj, il geopolitico Piotr Savitskij, il mistico Konstantin Leont'ev, poi Nikolaj Berdjaev, Ivan Il'in e Nikolaevič Gumilëv (1912–1992), menzionato financo al Forum economico mondiale di Davos.
Gumilëv, padre fondatore di una forma particolare di eurasismo, ha disegnato una morfologia della storia dei popoli basata su un processo di sviluppo lineare e progressivo in cui "le civiltà e i popoli fioriscono quando dominate dai passionari e appassiscono quando, superata la fase dell’acme, si addentrano negli stadi involutivi che le condurranno al decesso". Morfologia di cui Putin ne ha ripreso integralmente gli assunti: "Io credo nella teoria della passionarietà. La Russia non ha ancora raggiunto il suo acme. Stiamo ancora marciando".
Quello russo è un mosaico che va dunque anatomizzato con canoni interpretativi meno epidermici o solo legati alla pur tremenda cronaca di guerra perché, come scrive Fausto Biloslavo nella prefazione al volume, non abbiamo capito nulla di quel mondo:"La triade che ispira l’ex ufficiale del Kgb, “ortodossia, autocrazia, nazionalità”, come gli Zar del passato, spiega le apparenti contraddizioni del presente. Oggi, nelle città occupate, i russi alzano la bandiera sovietica della conquista di Berlino nel 1945. Al loro fianco combattono i ceceni che da tempo sono inquadrati nell’esercito. A Sebastopoli, sede della flotta del Mar Nero, rispuntavano i cosacchi sventolando lo stendardo con il volto dell’ultimo Zar Nicola II Romanov".
Un groviglio concettuale che trova uno sbocco grazie ai “siloviki”, figure capaci di far confluire sulla loro persona le incurvature di questo complesso sistema reticolare che si estende dalla Chiesa ortodossa a tutte le policrome identità che dimorano un territorio sterminato. Uomini del potere come lo stesso Putin o come tutti coloro che si sono succeduti negli ultimi quattro secoli, e capaci di mettere sempre la parola fine a drammatici periodi di interregno.
Eppure, tutto era già noto. Il manifesto politico del 30 dicembre 1999 (La Russia alla svolta del Millennio), che Pietrobon riporta per la prima volta in traduzione integrale, anticipava le strategie di fondo di Putin: ricostruzione della grandezza perduta, ritorno ai fasti imperiali, rinazionalizzazione delle masse attraverso i valori patriottici e tradizionali e realizzazione di una "democrazia dalle caratteristiche russe".
Quello che molti leader europei consideravano un liberal-conservatore che sognava di aderire all’Alleanza Atlantica e di avvicinare la Russia all’Unione europea aveva messo tutto nero su bianco. Bastava leggere!
L'esperto rivela: "Perché lo Zar sta inseguendo Caterina II". Luca Sablone il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'analisi del professor Cella: "Il piano sulla Nuova Russia di Caterina II e quell'idea di creare una zona russa sul limes fra mondo occidentale e steppe eurasiatiche".
Ormai da giorni le dinamiche sul campo di guerra hanno imposto alla Russia di cambiare strategia: ora l'obiettivo principale è il Donbass, considerato un traguardo raggiungibile con minori difficoltà rispetto alla conquista di Kiev. Il cambio del piano russo è dettato anche dalla fretta di ottenere una vittoria entro il 9 maggio: in quel giorno si tiene la Giornata della Vittoria, in cui il popolo russo ricorda la vittoria sui nazisti durante la Seconda guerra mondiale. In quell'occasione Vladimir Putin vorrebbe tenere una celebrazione simbolica per festeggiare il trionfo in Ucraina (se si limiterà solo al Donbass sarà non una vittoria completa ma l'obiettivo minimo).
Sulle orme di Caterina II
A questo punto una domanda sorge spontanea tra gli esperti: la conquista del Donbass sarebbe per il presidente della Federazione Russa un ritorno sulle orme di Caterina II? In un certo senso sì. Cosa accomuna Putin e l'imperatrice di Russia? A spiegarlo è stato il professor Giorgio Cella, studioso esperto dell'Europa orientale, il quale ha ricordato che il Donbass rientrava nel piano imperiale di Caterina II chiamato Novorossiya (Nuova Russia): "Era l'idea di creare una zona russa sul limes fra mondo occidentale e steppe eurasiatiche".
Cella, intervistato da Il Giorno, ha sottolineato che una certa retorica e il precedente della Novorossiya "indubbiamente richiamano la memoria zarista". Allo stesso tempo però ha tenuto a precisare che le operazioni vanno inquadrate anche in vista di eventuali futuri trattati di pace, "quando la situazione militare si sarà stabilizzata".
Il Donbass
Come detto in precedenza, il Donbass rappresenta l'obiettivo cruciale della Russia soprattutto se Putin dovrà esibire delle conquiste territoriali entro il 9 maggio. Cella non ha escluso una seconda offensiva oltre il Donbass: in quel caso il tentativo sarebbe conquistare "delle regioni meridionali sul mar Nero, fino a Odessa e forse alla Transnistria". Sarebbero successi di un certo peso "da spendere sul tavolo dei negoziati".
Va ricordato che nella regione del Donbass si combatte da ormai otto anni. Per Putin questo rappresenta un vero e proprio "ritorno al punto nevralgico del conflitto del 2014". Indubbiamente qui gli abitanti "sono in larga parte russofoni", ma questo non si traduce automaticamente in essere russofili. Non è di certo impossibile, anzi è probabile, ma non si può sostenere una tesi troppo generale.
Un ragionamento comunque appare evidente: se lo fossero, Putin potrebbe giustificare così l'operazione militare "con la necessità di proteggere questa parte di popolazione dagli attacchi ucraini". Ma il professor Cella ha ricordato che la resistenza ucraina ha assunto una forza notevole anche in quelle aree "dove è tradizionalmente forte l'influenza russa" (da Mariupol a Odessa passando per Mykolaiev).
Medvedev, "da Vladivostok a Lisbona". Il messaggio agghiacciante: "Un impero, il vero piano di Putin". Libero Quotidiano il 06 aprile 2022.
Il vero piano di Vladimir Putin? Costruire un impero filo russo i cui confini si estendano "da Vladivostok (che si trova nella parte più orientale della Russia, ndr) a Lisbona". Queste le inquietanti parole di Dmitrij Medvedev, ex presidente russo nonché tra i fedelissimi dello zar. L'obiettivo finale della Russia, Medvedev lo rivela con un messaggio pubblicato su Telegram.
"Cambiare la coscienza sanguinaria e piena di falsi miti di una parte degli ucraini di oggi è l'obiettivo più importante - aggiunge -. L'obiettivo è il bene della pace delle future generazioni di ucraini stessi e l'opportunità di costruire finalmente un'Eurasia aperta, da Lisbona a Vladivostok", scrive l'ex presidente. Parole terrificanti, che spaventano il mondo e che fanno supporre che l'Ucraina possa essere solo l'inizio di un progetto ben più sanguinario.
Dunque, Medevedev nega l'eccidio di Bucha, l'orrore russo contro i civili: "Un fake frutto dell'immaginazione cinica della propaganda ucraina", scrive. E ancora, aggiunge: "Un drone abbattuto con una lattina di cetrioli. Il reparto di maternità dell'ospedale di Mariupol, ora Bucha. Si tratta di falsi che sono maturati nell'immaginazione cinica della propaganda ucraina", ha ribadito Medvedev, oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia. Ma le parole che fanno più rumore, e paura, sono quelle sull'impero che Putin vuole costruire. E che avrebbe già costruito nella sua mente.
Dmitri Medvedev "il più estremista di tutti": voci inquietanti sul super-falco di Putin, "cosa è pronto a fare per lo zar". Libero Quotidiano il 12 aprile 2022.
Chi è davvero Dimitri Medvedev, l'ex presidente della federazione russa, quello che fu di fatto un "prestanome" di Vladimir Putin al Cremlino negli anni in cui non poteva essere rieletto prima del cambio della Costituzione? Per certo, Medvedev è uno dei super-falchi dello zar: fedelissimo, da sempre e per sempre. Tanto da essere, in questi giorni di guerra, tra i più accesi sostenitori della linea dura nella guerra in Ucraina. O meglio, per dirla con le parole dei russi, dell'"operazione militare speciale", una delle più ridicoli perifrasi della storia moderna.
Di Medvedev, Putin si fida ciecamente. E sarebbe rimasto uno dei pochissimi a godere della fiducia quasi incondizionata dello zar. E Medeved, secondo il Corriere della Sera, guida oggi la pattuglia dei falchi, dove la sfida sarebbe quella di mostrarsi più estremisti di tutti, ovviamente per compiacere il capo. Per il quale sarebbe pronto a tutto.
Insomma, Medvedev è uno che fiuta il vento, sempre pronto a cambiare linea e convinzioni in base a come muta le opinioni Putin. E a tal proposito, il Corsera ricorda un caso del 2008, quando Medvedev fu fatto eleggere presidente e rimase al Cremlino per quattro anni. All'epoca sembrava essere il rappresentante di punta dei riformisti e dei democratici. Tanto che diede la sua prima intervista a Novaya Gazeta, il quotidiano di opposizione costretto a chiudere qualche giorno fa, quello in cui lavorava Anna Politkovskaya. "La stabilità e una vita prospera non possono assolutamente prendere il posto dei diritti e delle libertà politiche", disse Medvedev in quell'occasione.
E ancora, solo un anno dopo tenne un discorso durissimo contro le repressioni staliniane, tanto che radio Eco di Mosca lo paragonò a quello che Krusciov tenne nel 1956 e che svelò i crimini del dittatore georgiano. Medvedev riteneva le sanzioni contro l'Iran "inefficaci ma «con un certo senso". Eppure, oggi, attacca ad ogni occasione possibile l'Occidente, bolla le sanzioni come "atto di aggressione internazionale, una forma di guerra ibrida". E ancora, ha sbandierato la minaccia nucleare. E ha parlato di quello che, a suoi dire, sarebbe il vero piano di Putin: "Ricostruire l'impero russo, un impero che vada da Vladivostock a Lisbona".
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” l'11 giugno 2022.
«Ma non parliamo di Medvedev, lo sanno tutti come è conciato...». E con un gesto inequivocabile, lascia capire qual è il male che affligge l'ex presidente della Russia, autore dell'ormai celebre frase sull'odio verso l'Occidente. Tanto estroso quanto acuto, Gleb Pavlovskij si gode il terzo tempo di una vita molto intensa. Dissidente perseguitato dall'Urss, pioniere del web russo, nonché consigliere personale di Vladimir Putin dal 1996 al 2011, oggi uno dei pochi critici del Cremlino ancora su piazza, tollerato in virtù del suo passato. Non c'è nessuna strategia dietro queste continue dichiarazioni ostili al mondo intero. Piuttosto, si tratta del tentativo di riempire un vuoto ideale che esiste ormai da quasi dieci anni, eliminando un occidentalismo liberale del quale le nostre élite sono comunque impregnate».
Per sostituirlo con cosa?
«Questo è il vero problema. Una narrativa diversa al momento è assente, forse ce l'hanno solo alcuni gruppi di potere. Quindi c'è il tentativo di trasformare questa deriva periferica in un racconto mainstream, dietro al quale si nasconde però il nulla».
Fin dove vuole arrivare il Cremlino?
«Si tratta di pura retorica, e in quanto tale non ha limiti. La si può esasperare a piacimento, e Medvedev ne è un buon esempio, con le sue invettive da piccolo commerciante al bazar».
Ieri la speaker della Camera Alta, Valentina Matviyenko, ha replicato sostenendo che la Russia non è antioccidentale. Esiste una spaccatura al vertice?
«Quando parlate di trame o complotti, fate l'errore del degustatore. Trasformate i vostri auspici in certezze, come quando esaltate la fuga di reduci del passato, come accaduto con Anatoly Chubais. Stiamo assistendo a una rappresentazione. Al Cremlino lo sanno tutti che è impossibile riconvertire un Paese che da trecento anni guarda all'Occidente».
Le dichiarazioni sulla creazione di un nuovo ordine mondiale non vanno prese sul serio?
«Questo è un altro discorso. Perché dicendo che il bipolarismo è finito, Putin afferma una verità incontestabile. L'Occidente sorregge l'attuale sistema delle istituzioni mondiali, economiche e politiche. Ma sicuramente non può più rivendicare un monopolio».
Come finirà?
«Sia in Ucraina che in Russia, purtroppo, è stata compromessa la stessa idea di un'intesa. Il crollo degli accordi di Minsk ha distrutto il concetto di diplomazia. Quindi, sarà difficile arrivare alla pace. E poi, più peggiora la situazione degli ucraini sul campo, più si abbassa la disponibilità di Mosca a un compromesso».
Una Russia autarchica e isolata dall'Occidente può sopravvivere?
«Questa utopia della Russia autarchica è la cosa peggiore che Putin sta facendo al suo popolo. Perché non è possibile, semplicemente. La Federazione russa è un progetto ultra-globalizzato, non potrà mai trasformarsi in una economia chiusa. In un regime di crisi, si dovranno cercare vie traverse per sostituire quella globalizzazione di cui la Russia è stata un fattore».
Il potere di Putin è stabile?
«Sembra che comandi solo lui, ma è un errore. Un tempo andavo molto fiero del fatto che eravamo riusciti a creare la sensazione che Putin governasse tutto nel Paese. Era un teatrino politico necessario, perché il Paese era assai nostalgico di una vera leadership. La tesi "Putin decide tutto" è molto comoda perché toglie l'ansia e oscura la visione di quello che succede davvero. Ma è chiaro che ci sono anche forze indipendenti ormai dal governo, grosse corporazioni e banche, centri di potere alternativi. Sono loro a decidere della stabilità di Putin».
Dopo di lui?
«Il fenomeno Putin è stata una eccezione nata in tempi disperati come la Russia di fine anni Novanta. Dopo, verrà un Putin collettivo, sotto forma di una direzione collegiale. Non è detto che sia un male. Periodi del genere, nel nostro Paese, sono stati pochi ma fruttuosi, come fu con Kruscev e Gorbaciov. Perché di solito sono legati a un periodo di rinnovamento».
La verticale del potere sopravviverà a Putin?
«La Federazione russa non rappresenta un sistema formato, stabile e razionale. Con Eltsin è stato abbandonato il processo di Nation building. L'idea di costruire uno Stato nazionale normale era troppo complicata e pericolosa. E di certo Putin non l'ha raccolta».
Quanto valgono i sondaggi sulla sua popolarità?
«Poco. Il potere vorrebbe che fossero indicatori del consenso. Ma non ne terrebbe in quantità industriali se tale consenso esistesse davvero. Il potere sovietico non faceva sondaggi, non gli serviva. È solo un problema di assuefazione. La gente non ha scelta, si dice d'accordo con quel che viene mostrato con messaggi carichi di emozioni, che quasi colpevolizzano chi non si esalta».
È sempre stato così?
«Nel primo decennio del nuovo secolo, io scrivevo messaggi ai vertici per dire che bisognava presentare le notizie e le nostre scelte in un certo modo. Allora la tivù era molto noiosa. Poi è arrivata l'Ucraina, che dal 2014 ha fornito un conflitto reale. Così è nata la propaganda di oggi, che agisce anche su chi governa. Sarà ben difficile cambiare la percezione della gente. Per questo non ci saranno bruschi cambi di potere: occorreranno decenni per avere una Russia diversa».
La pazza idea di rifare l’Impero. Putin non è pazzo, ecco realmente cosa vuole lo Zar. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Aprile 2022.
Non è né malvagio né pazzo. È russo, ammalato di quella sindrome russa che rende (per quanto si può generalizzare) i russi diversi dagli altri. Per loro scelta. Prendiamo proprio il tenente colonnello Vladimir Putin: viene da una scuola che non comprende soltanto lo spionaggio – il Kgb prima e poi l’Fsb – e io ne ebbi in anticipo una descrizione dal “mio agente Sasha” (su cui scrissi un libro dopo la sua morte) ovvero Alexander Litvinenko: quando Sasha andò a bussare alla porta di Putin, suo superiore diretto lamentando che gli era stati chiesto di far parte di una squadra di assassini per ammazzare il magnate Boris Berezovsky, Putin si mostrò annoiato e tagliente: «Che cosa credete di fare qui nel Fsb, chiese. Avete degli ordini, eseguiteli. Non esistono, omicidi, ma esecuzioni di ordini ed eliminazione dei nemici della società».
In seguito, Sir Robert Owen, procuratore speciale di Sua maestà britannica emetterà una sentenza di colpevolezza nei confronti di Putin nell’omicidio dello stesso Litvinenko, morto a Londra nel giorno in cui diventò cittadino britannico col nome di Edward Carter. Tony Blair non la prese bene: «Oggi – annunciò in televisione – un cittadino britannico su suolo britannico è stato ucciso con un’arma nucleare usata da una potenza straniera su suolo britannico». L’arma era un isotopo radioattivo del polonio, la sostanza scoperta da Madame Curie e così chiamata in suo onore perché era polacca. Io fui interrogato per due giorni da Scotland Yard con scrupolo meticoloso che non avrei mai immaginato, ma la notizia fu ignorata in Italia insieme al confronto aereo nei cieli d’Europa fra gli Harrier britannici e vecchi rugginosi Tupolev che Putin fece decollare carico di vecchie bombe atomiche arrugginite.
Tutto il mondo ne parlò ma non in Italia. Putin è un esemplare perfetto di russo incomprensibile perché la caratteristica che costituisce la sindrome è una divisione di personalità: metà occidentale ed europea, e americana. E metà asiatica. Putin ha cercato di affidare lo sporco lavoro di far ammazzare donne e bambini, torturare vecchi e scannare civili ai tagliagole ceceni e a quelli siriani, essendo Siria e Cecenia due territori in cui le tecniche russe si sono fatte apprezzare nel mondo e che non hanno l’eguale in alcuna guerra successiva al 1945: distruggere prima di tutto ospedali e strutture civili, terrorizzare donne e bambini e azzerare così il morale di una nazione. Ma Putin non era così, anche se apprezzava questo genere di comportamenti. Ha conosciuto l’Europa attraverso la Germania, perché coprì a lungo un incarico delicatissimo nella stazione di Dresda, Germania comunista, dove la stazione del Kgb sovietico coordinava sia la Stasi tedesca (Le vite degli altri) che i movimenti terroristici e gruppi nazionalisti armati fra cui l’Ira irlandese, l’Eta basca, Action Directe francese, e rivoluzionari che avevano la loro sede in Ungheria, come il celebre Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos lo Sciacallo il quale, ormai vecchio e stanco, sta scontando due ergastoli a Parigi.
Con Carlos hanno lavorato molti esponenti delle Brigate Rosse, come comunicò formalmente alla Commissione parlamentare Mitrokhin il Procuratore generale di Budapest nel corso di una missione diplomatica. Putin imparò il tedesco in modo accurato e anche letterario. Eletto presidente della Federazione Russa dopo un silenzioso conclave degli alti dirigenti del Kgb (ormai diventato Fsb e Svr) stupì il parlamento tedesco, il Bundestag, con un discorso molto colto in lingua tedesca pronunciato con elegante civetteria e in quel discorso Vladimir Putin si dichiarò cittadino europeo, figlio dell’Europa che aveva dato al mondo oltre a Schiller, Kant e Goethe, anche Tolstoj, Dostoevskij, Puskin e tutta la grande letteratura russa europea. Disse con una convinzione che colpì molto i deputati tedeschi, di essere sicuro che il posto della nuova Russia fosse in Europa e cercò per molto tempo di sviluppare una linea politica – e militare – che era la stessa già accuratamente elaborata in Urss da Yuri Andropov (capo del Kgb e poi Segretario generale del Pcus) e in Europa da De Gaulle, il quale voleva sbattere gli americani fuori dall’Europa che sarebbe stata “dall’Atlantico agli Urali”.
Questa è l’idea fissa, anche se oscillante, della politica russa: catturare l’Europa occidentale capace di produrre progresso tecnologico e organizzazione, unendosi alla Russia che avrebbe provveduto ad assicurare sicurezza con una forza armata di dimensioni planetarie e l’energia fossile e i minerali. Il mio amico recentemente scomparso, Vladimir Bukovskij, scrisse uno scintillante libro intitolato Eurss per spiegare nei minimi dettagli storici il programma di una Unione che fosse insieme sia europea che sovietica o comunque russa. La divisione della personalità di Putin arriverà più tardi, quando la Russia scopre l’Occidente, ma senza mai capire quale ne fosse il motore propulsivo: quello della libera concorrenza delle idee, delle merci, dei modelli, delle cattedre, della produzione industriale ed intellettuale.
Ciò accadde quando sul corpo ormai dissolto della vecchia Unione Sovietica si avventarono gli oligarchi che avevano riciclato il tesoro russo, grandi avventurieri della finanza come Soros, in quella fase convulsa e anche divertente in cui l’Urss era in svendita nei mercatini delle strade di Mosca. Putin fu affascinato dall’Occidente opulento, ma non digerì mai gli Stati Uniti, con una reazione psicologica che lo accomuna sia a Mussolini e che a Hitler. I dittatori fascista e nazista avevano una simpatia cinematografica per gli Stati Uniti, Hitler si faceva proiettare quasi tutte le sere Biancaneve nella versione di Walt Disney, e Mussolini inviava incomprensibili comizi in inglese agli americani chiamando Roosevelt “un fascista americano”, ma ne prese subito le distanze: se guardiamo i footage in televisione vediamo un fasto da Cenerentola di Walt Disney, ori e stucchi, soldatini in costume, parate e manifestazioni militari e patriottiche, sempre sovrabbondanti di canti, inni, sinfonie tristi e piroettanti, turbini di nostalgia e di disprezzo per l’Occidente declassato al rango di un modello decadente, debole.
Il patriottismo russo, e anche sovietico è una cosa serissima e non si capirebbe Putin se non si capisse prima che in quasi ogni russo esiste un conflitto violento fra l’Occidente inteso come seduzione materiale del lusso e degli yacht e la madre Russia che invece è un sentimento unificante e spirituale. Putin è rimasto sconcertato e anzi furioso quando ha dovuto constatare che gli ucraini, che aveva bollato come “inesistenti” avevano invece sviluppato un simmetrico amor di patria, oggetto sconosciuto alle nostre latitudini. Putin non è un pazzo, ma è l’espressione di un processo mentale russo in cui c’entrano pochissimo l’economia e la geopolitica tradizionale. Putin ha sempre detto (io sono un suo follower sul canale YouTube a lui dedicato) che non vuole rifare l’Unione Sovietica, ma l’impero. E lo dice anche il presidente cinese Xi, che rivendica il suo impero cinese che affonda nella storia le sue radici da cinquemila anni e il turco Erdogan che sta ricostituendo l’impero Ottomano. Noi occidentali non abbiamo capito nulla di tutto ciò e seguitiamo a osservare il mondo attraverso le lenti a noi care del nazionalismo, mentre Putin, Xi ed Erdogan appartengono a un mondo nemico della razionalità.
Per quanto suoni ridicolo, e lo sia, siamo tornati agli imperi e a Star Wars. Putin segue ciò che il suo zeitgeist gli ordina e personalmente è vero che gli piaceva Trump perché – disse – ha l’aria di uno sulla cui testa sta bene un cappello da cowboy. Putin ha cominciato a perseguire il suo disegno imperiale dalla sua prima invasione: quella della Georgia per la quale io, personalmente e da solo, feci inutilmente fuoco e fiamme, mentre la tendenza era quella di dire lasciate perdere, sono affari interni e diatribe di confini. Non è così e adesso finalmente tutti cominciano ad accorgersene, ma si rifugiano nelle categorie psichiatriche e shakespeariane del principe pallido e crudele, fuori di testa. Non è così. Putin rappresenta la negazione estrema della democrazia e lo dice come lo dice Xi, il quale dichiara che l’umanità vuole armonia e non democrazia. Putin è pronto a morire e a uccidere per un disegno che considera immanente, divino, coincidente col destino e molto più vicino al mikado giapponese che alle nostre democrazie. Putin è un russo pronto a spararsi senza esitazione, ma che preferisce sparare ad ogni oppositore, rivendica un buon trenta per cento dell’intero pianeta in nome del supremo destino di un Paese che ha dieci fusi orari fra Kaliningrad e le isole Curili davanti al Giappone.
A lui non importa un fico secco dei pacifisti e se li mangerebbe come aperitivo perché considera noi europei una banda di codardi che non hanno voluto spendere nemmeno – lo ha detto un suo collaboratore in televisione – per comperarsi una pistola ad acqua. Infatti, chi è che gli tiene testa? Un popolo come quello ucraino che ha scelto l’Occidente ma che mantiene una linea fermissima e se necessario suicida sui valori, fino a dividersi in due, le donne e i bambini fuori e gli uomini dentro a combattere fino all’ultimo. Noi europei giudichiamo e quando non ci tornano i conti usiamo le categorie psichiatriche. Putin non è un pazzo e avrà sicuramente delle distorsioni mentali non da poco, ma si tratta di distorsioni che fanno parte di una cultura che accetta e infligge la morte senza batter ciglio, un temperamento che somiglia a quello degli spagnoli che inventarono l’uso di chiedere di poter fumare prima di essere fucilati, non per passione per la nicotina, ma per dimostrare arrotolando la cartina col tabacco, di non tremare. Una tradizione che colpì molto Stalin, il quale decise di non usare più i plotoni d’esecuzione per non consentire esibizioni di tale temerarietà, ma di uccidere con un colpo alla nuca, di spalle, o con massacri perpetrati da belve come quelle che Putin ha scagliato contro Grozny, Aleppo, Mariupol e Dio sa in quanti altri disgraziati posti di quel pezzo di mondo su cui comanda e impera.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Anna Zafesova per “la Stampa” il 10 Giugno 2022.
Vladimir Putin non ha mai nascosto di nutrire un'ammirazione speciale per Pietro il Grande, un sentimento comprensibile per chi come lui è nato nella città fondata dallo zar che odiava il Cremlino e Mosca.
Ma finora non aveva mai osato paragonarsi direttamente al fondatore della Russia moderna, dichiarando - con un raro sorriso - che «a noi è toccato in sorte fare quello che faceva Pietro», cioè «riportare indietro le terre russe e consolidarle».
Una interpretazione molto innovativa della storia russa, visto che finora il terzo sovrano della dinastia dei Romanov veniva immortalato in libri e monumenti proprio per aver ampliato i confini russi in guerre di conquista che hanno permesso alla Russia di aprirsi l'accesso al mare e costruire la sua prima flotta, strappando territori nel Baltico. Ma per il presidente russo, «Pietro non ha tolto nulla» agli Stati limitrofi, ma anzi ha «riportato indietro territori storici», dove accanto ai finlandesi «abitavano da sempre tribù slave».
Non sono mancati altri paralleli con l'attualità: la regione dove è stata fondata Pietroburgo «non veniva riconosciuta dall'Europa che la considerava territorio svedese», e Pietro «era pronto a guerre lunghe, incredibile come non sia cambiato niente!», ha detto Putin ai giovani imprenditori.
Diverse persone che avevano avuto modo di dialogare con il presidente russo sostengono che lui sia molto ansioso di iscrivere il suo nome nei manuali di storia. Ma quello che ha lanciato ieri ai festeggiamenti per i 350 anni del fondatore dell'impero russo, è un messaggio esplicito quanto inquietante: Putin si colloca al fianco di Pietro I, promettendo nuove espansioni territoriali della Russia.
Il «riportare indietro le terre russe» era già stato formulato come obiettivo nella teoria putiniana del "mondo russo", in base al quale Mosca rivendicava diritto a intervenire ovunque si parlasse russo. Una equazione lingua-popolo-ideologia che in buona parte ha giustificato anche l'invasione dell'Ucraina, che Putin nel suo saggio "storico" pubblicato un anno fa dichiarava abitata dallo "stesso popolo dei russi".
La "denazificazione" era stata utilizzata come scusa per l'Occidente, il messaggio ai russi era più esplicito: dopo la tragedia della fine dell'Urss si torna a crescere, riprendendosi territori «storicamente russi».
Una visione quantitativa della grandezza di un Paese, che Putin ha ribadito anche ieri, sostenendo che le nazioni possono essere "o potenze, o colonie". Gli Stati che erano stati in diverse epoche sotto l'impero russo sono avvertiti: diversi politici e propagandisti russi avevano già promesso la riconquista della Polonia e della Finlandia, per non parlare delle ex repubbliche sovietiche, e Putin ora fa capire che la Crimea e il Donbass sono soltanto l'inizio.
La storia serve a giustificare il revanscismo imperiale, e anche la proposta circolata due giorni fa alla Duma, di revocare il riconoscimento dell'indipendenza della Lituania, in epoca ancora sovietica, non appare più come pura propaganda. A sostegno delle nuove teorie storiche putiniane, la mostra "Nascita di un impero" che il presidente ha visitato ieri racconta le espansioni territoriali della Russia, con gli storici presenti che facevano l'elenco dei leader russi «fedeli al paradigma della potenza»: nella lista, Ivan il Terribile, Pietro I, Alessandro III, Stalin e Putin.
Una selezione curiosa, che lascia fuori Caterina II che ha conquistato alla fine del Settecento le coste del mar Nero e la Crimea. Ma per entrare tra i sovrani migliori della Russia non basta espandere l'impero, bisogna anche essere nazionalisti e repressivi, mentre Caterina, oltre a essere tedesca di origine, scriveva a Voltaire e sognava l'Europa.
Come del resto la sognava Pietro il Grande, che Pushkin cantava per aver «aperto la finestra sull'Europa», come ha scritto Pushkin, copiandone non solo tecnologia e costumi, ma perfino la lingua, dando alla sua capitale un nome tedesco, Peterburg. Il putinismo aveva semmai riabilitato con la sua pseudostoria ideologica il sanguinario Ivan il Terribile, e il suo modello autoritario. E Putin entrerà nella storia come il leader che la "finestra sull'Europa" l'ha chiusa e murata.
La supremazia militare è il vero scopo. Cosa vuole ottenere la Russia dalla guerra in Ucraina: l’eterno obiettivo del Cremlino. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Giugno 2022.
Non è mai esistita una dura (ma cavalleresca) Guerra Fredda fra due ideologie, il Capitalismo e il Socialismo, a causa delle quali due mondi si sono fronteggiati per mezzo secolo con le armi al piede finché una delle due è implosa– la Russia sovietica – lasciando l’altra, l’America vincitrice unica e padrona del campo. Mai. Ci abbiamo creduto quasi tutti. Ma Enrico Berlinguer, che però non seppe sfruttare in modo vincente la sua intuizione, lo capì al volo. Fu quando gli americani fecero al Cile – in modo traumatizzante ma meno cruento – quel che la Russia oggi fa all’Ucraina.
La situazione allora era simile a quella che seguì la fine delle guerre di religione in Europa. Se sei il Cile, devi stare in campo americano e se sei Ucraina (o Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia) devi stare in campo russo, zitto e Mosca. Berlinguer vide che fine aveva fatto Salvador Allende, analoga a quella di Imre Nagy in Ungheria o di Dubcek a Praga, o dell’angosciato Gomulka a Varsavia, e scrisse una serie di articoloni su Rinascita in cui diceva più o meno così: cari democristiani, noi comunisti sappiamo che voi vorreste fare un governo con noi comunisti lasciando a secco quei maledetti socialisti che abbiamo sempre odiato. Ma gli americani non vogliono comunisti in alcun governo in cui si condividano segreti militari per la sempre imminente guerra con la Russia, e allora io ho avuto un’idea: cerchiamo di aggiustarci fra di noi dando garanzie militari al nostro referente egemonico per evitare che quello, in preda a una crisi di nervi, ci faccia fuori. All’altro referente egemonico, quello di noi comunisti, ci penso io: farò una manovra di lento distacco ideologico ma senza fratture e che dio ce la mando buona. Lo chiameremo “compromesso storico”.
La fine è nota. Il punto è: fra il 1946 e oggi abbiamo sempre vissuto un’unica lunga guerra di preludio a una possibile, imminente e mai scongiurata Terza guerra mondiale, quella che se mai scoppierà si giocherà con missili intercontinentali nucleari. Controprova: lo stesso Berlinguer – fallito il grande disegno di escamotage politico con la micidiale liquidazione del partner Aldo Moro (che per conto degli Occidentali avrebbe dovuto fare da garante dal Quirinale, da cui fu sloggiato il Presidente della Repubblica Giovanni Leone con una campagna di stampa condotta in perfetto stile di “disinformatzija” sovietica – riallineato sul fronte strettamente militare della guerra fra Occidente e Russia, scelse la Russia, che aveva schierato contro l’Europa batterie di missili a medio raggio SS20. E lo fece mobilitando tutte le forze politiche di obbedienza moscovita a fare il diavolo a quattro affinché non fossero schierati, in risposta ai missili russi, i missili americani Pershing e Cruise adatti a riequilibrare il gap strategico.
In Italia vinsero gli euromissili grazie allo schieramento dei socialisti di Craxi e i repubblicani di Spadolini e questo evento politico si trasformò in un atto di guerra politica violentissima di cui abbiamo perso memoria. E qui siamo al dunque: chiunque abbia la curiosità e la pazienza di leggersi i verbali di tutte – tutte – le riunioni annuali dei membri del Patto Di Varsavia – l’Anti-Nato dell’Est – troverà che l’esercitazione era sempre la stessa: “Di fronte ad un vile e proditorio attacco degli eserciti al comando degli Stati Uniti contro le democrazie popolari e dell’Unione Sovietica, le forze del Patto di Varsavia respingono l’attacco e rispondono con una controffensiva che ricaccia gli invasori fino all’Atlantico e li getta in mare”. Tutta la storia della Guerra Fredda è stata un contenuto preludio ad una sempre possibile guerra calda perseguita dal Cremlino, chiunque ci fosse dentro, in vista di una strategia molto semplice che fu studiata ed attuata con particolare cura da Yuri Andropov, il più perfido e geniale capo del Kgb poi diventato segretario del Pcus e sponsor di Michail Gorbaciov. L’operazione era questa: portare l’Europa occidentale in Russia e la Russia in Europa.
Però la Russia sovietica commise l’errore di svenarsi inoltre i limiti della sua possibilità per ottenere la potenza militare utile per una operazione come quelle descritte nei verbali del Patto di Varsavia e quando il Presidente Donald Reagan dette a bere ai russi di poter varare un costosissimo piano di guerre stellari, l’ex pupillo di Andropov, l’allora giovane Michail Gorbaciov si sottomise con un piano di resa che prevedeva lo sganciamento dei Paesi satelliti che costituivano un peso insostenibile e l’accesso a un enorme prestito per salvare l’economia russa. Fu lì che avvenne il baratto fra i confini della Nato e i prestiti occidentali. Sono stato per cinque anni membro della delegazione parlamentare nella Nato e non ho sentito parlare altro a Washington che della inutilità della Nato che gli americani volevano chiudere perché oltre che inutile era ed è molto costosa, mentre gli europei insistevano perché i paesi che come la Polonia avevano assaggiato le delizie di una dominazione sovietica, volevano assolutamente una protezione americana in Europa alla quale i repubblicani – lo abbiamo ben visto con Donald Trump e la sua politica di America First – non volevano aderire.
La politica di Trump verso l’Europa era esplicita: fottetevi, cari europei. Pagatevi i vostri eserciti e difendetevi. I russi vi vogliono mangiare? E fanno bene, perché siete una massa di codardi che si arricchiscono mentre noi paghiamo per la vostra sicurezza e indipendenza. Caro Putin, per quanto mi riguarda, ti puoi prendere quell’Europa di parassiti, Noi americani non spenderemo né un dollaro né una goccia di sangue per loro. Non così la pensano i democratici che, come gli inglesi, hanno un conto eternamente aperto con la Russia per tutte le sue spericolate astuzie fin dai tempi dell’infame alleanza fra Stalin e Hitler a spese dell’Europa e degli Stati Uniti. E qui arriviamo al punto di questi giorni: i putiniani. Chi sono, se ci sono. Molto semplicemente i putiniani, per la mia esperienza giornalistica e politica, “i putiniani” sono semplicemente tutti gli anti-americani ideologici e spesso religiosi – l’America la nuova Mammona adoratrice dello sterco del demonio – che in Italia sono forse la maggioranza. Il signor Kolosov che guidò la “residentura” del Kgb a Roma per molti anni, interrogato dalla Commissione di cui ero presidente disse.
“Tutti gli antiamericani venivano a bussare alla nostra porta e chiedevano di aiutarci contro di loro e di proteggerci, persino, contro di loro. Non erano neppure i comunisti, ma specialmente i democristiani. Parlando a Tripoli con il ministro degli Esteri di Gheddafi, il signor Trekki che si esprimeva in un eloquente francese, costui disse alla delegazione della Commissione Esteri: “Il giorno in cui fu annunciata la fine dell’Unione Sovietica era qui il vostro più grande uomo politico, Giulio Andreotti, il quale pianse e disse: da oggi il mondo è cambiato in peggio: gli americani hanno vinto e saranno padroni del mondo, ci mancherà l’Unione Sovietica”.
Parole non diverse da quelle pronunciate dallo stesso Vladimir Putin quando dice che la più grande calamità della sua vita è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica, cui peraltro si sta laboriosamente dando da fare per poter rimediare l danno fatto, rincollandone i pezzi col ferro e col fuoco e col sangue. Basta accendere il televisore dopo le venti e trenta per trovare sciami di sapienti che di fronte all’invasione armata di un Paese europeo da parte della Russia gridano che è certamente colpa degli americani ed è molto più di un riflesso condizionato: è – questa è la mia opinione – la coincidenza immediata con il puntinismo, che dichiara apertamente la sua vocazione all’imperialismo nazionalista russo, che non ammette giri di valzer, non consente differenze culturali ma ha bisogno di fedeltà pronta cieca e assoluta al Cremlino, come è sempre stato e come sarà per sempre.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
La polvere sotto il tappeto. Mosca, regimi e stato di diritto: il sottile filo rosso che arriva a Kiev. Otello Lupacchini su Il Riformista il 9 Giugno 2022.
Il Novecento è stato un secolo memorabile, denso di contraddizioni, di tragedie, di guerre, di tensioni, di lotte sociali, di scontri ideologici, di conquiste, di devastazioni, di scoperte e di invenzioni tali da provocare profondi cambiamenti dell’esistenza, della mente, dell’anima, del corpo dell’intera umanità delle sue tradizioni, della sua organizzazione socio-politica, del suo modo di pensare, di vivere e persino dei delicati equilibri del pianeta.
Eric Hobsbawm, ne ha parlato come di «secolo breve», una «definizione bella», secondo Loris Facchinetti, espressione di una «sintesi suggestiva», in cui scorge, tuttavia, un «giudizio che rischia di essere fuorviante», un’«analisi che può diventare ingannatrice»: per comprendere il senso della storia e dell’umano cammino, a suo avviso, è «indispensabile considerare il tempo e lo spazio in termini qualitativi e non solo un’alternanza di stagioni, una successione di anni senz’anima, immersi nel divenire e nella materia». Interessanti le ragioni di questa dissenting opinion, rispetto al pensiero dello storico inglese. Hobsbawm considera costitutivi del ventesimo secolo i periodi racchiusi tra l’inizio della prima guerra mondiale, 1914, e la caduta dell’impero sovietico, 1991, e nella sua versione marxiana scandisce quegli anni dividendoli in tre fasi.
La prima, dal 1914 al 1945, l’«età della catastrofe», segna la fine cruenta dei grandi imperi: uno dietro l’altro crollano, con guerre, rivoluzioni e stragi, l’impero russo, quello tedesco, l’ottomano e l’austriaco; nella vecchia Europa vanno al potere ideologie totalitarie, come il nazismo e il comunismo, nascono le aspirazioni egemoniche della Germania, vengono emanate le leggi razziali, applicate nuove strategie belliche e compiuti orrendi genocidi programmati scientificamente, come la Shoah; si scatena la seconda guerra mondiale con le sue distruzioni, con decine e decine di milioni di morti, con le sue torture, con la follia e l’angoscia seminata nella mente e nell’anima degli uomini.
La fase che va dal 1945 al 1991 viene indicata da Hobsbawm come l’«età dell’oro»: i vincitori del conflitto, Stati Uniti, Inghilterra e Unione Sovietica, nel trattato di Yalta, dividono il pianeta in sfere d’influenza; incomincia l’epoca della «guerra fredda» tra l’Oriente, in prevalenza comunista, e l’Occidente, in prevalenza capitalista; gli antagonisti, in una condizione di apparente stabilità mondiale, continuano a combattersi in una partita a scacchi fatta di rivoluzioni, colpi di stato, di guerre locali, di spionaggio, di ricatti, di corsa agli armamenti atomici, di operazioni inconfessabili e sotterranee dei servizi segreti e delle agenzie con licenza di uccidere. La terza fase, definita da Hobsbawm come «la frana», inizia con la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica, la fine del socialismo realizzato e della guerra fredda; e a questo punto esplode la questione islamica.
Considerando, tuttavia, che nel grembo del Novecento è stato concepito il più grande cambiamento che l’umanità abbia mai vissuto, dal crollo dei capisaldi ideologici, religiosi e morali sui quali era stata costruita la storia millenaria dell’uomo, al travolgimento di convinzioni, abitudini, certezze, alla nascita, finalmente di nuove angosce e nuove esaltazioni, insieme a nuove prospettive di vita, nuove possibilità tecnologiche e scientifiche che aprono orizzonti colmi d’incognite, secondo Loris Facchinetti, il Novecento non è stato un «secolo breve», bensì un «secolo immenso», un «secolo immortale», un «secolo senza fine, figlio di un passato lento e conservatore e madre del terzo millennio, madre di un futuro travolgente e rivoluzionario». Di qui il titolo del suo lungo e affascinante saggio: Il secolo madre (i libri del Borghese, Pagine s.r.l., Roma 2022, pp. 160), dal sottotitolo particolarmente esplicativo: TransSovietismo-TransCapitalismo – La guerra continua.
Gli eventi narrati in quelle pagine sono accaduti dopo la fine della seconda guerra mondiale, sino alla primavera del 1980: «Anni sconvolgenti, giorni violenti e turbinosi, che hanno travolto vita e pensieri di milioni e milioni di giovani, in un’epoca bagnata di sangue, marchiata da lotte furiose, ferita da guerre crudeli, nobilitata da mistici ideali e da generosi sacrifici». Non è questa la sede in cui riassumerli: mi rifiuto di far la figura di chi voglia anticipare all’orecchio il film che stai per vedere mentre in sala hanno già spento le luci e il proiettore incomincia a ronzare, per azzittirsi soltanto allo scorrere dei titoli di testa. Condividendo, piuttosto, l’idea di Loris Facchinetti, che «ogni epoca è legata all’altra in modo organico ed indissolubile», che, dunque, «cause e conseguenze si concatenano e si perpetuano influenzate e influenzabili dal loro prima e preparatorie del loro dopo», parlerò d’altro, ma non in modo ozioso.
Non sono mai stato a Mosca, ma ero al Lido di Venezia quando, quattro anni or sono, venne presentato fuori concorso alla Biennale Cinema il film-documentario Process del regista bielorusso, cresciuto tuttavia in Ucraina, Sergei Loznitsa: la Sala grande del Palazzo del cinema, per due ore diventò la Sala delle colonne della Casa del Sindacato di Mosca. Il film di montaggio, basato su uno straordinario materiale d’archivio rimasto fino ad allora inedito, ricostruisce la storia di uno dei primi «processi farsa» architettati da Stalin, quando nell’Urss del 1930 un gruppo di economisti e ingegneri venne accusato di avere organizzato un colpo di Stato contro il governo sovietico attraverso un fantomatico «Partito dell’Industria», mai esistito. È la macchina del Terrore che inizia il suo lavoro: alla sbarra c’è l’«intelligencija tecnica» moscovita, l’élite alla quale viene addossata la colpa di aver boicottato la buona riuscita dei piani economici per distruggere il potere sovietico e restaurare il capitalismo con l’aiuto segreto delle potenze occidentali. Sono loro, quasi muti, remissivi, docili nell’offrire il capo alla sentenza dei giudici, le vittime sacrificali della difficile situazione economica e sociale dell’Unione sovietica. La tragedia era reale, ma il processo falso: Stalin aveva bisogno di dare in pasto al Paese i responsabili della sua sofferenza, quindi allestì una performance perfetta. Gli imputati, sembra che recitino.
I «sabotatori», costretti platealmente a confessare crimini mai commessi, vennero condannati, mentre fuori manifestazioni di piazza chiedevano giustizia, ma non finirono fucilati, né imprigionati, solo «riconvertiti» ad altre mansioni. Il popolo, accecato dallo slogan «La menzogna è verità», poté continuare a dormire tranquillo all’ombra del Partito. Quel processo era pubblico, le riprese mostrate a tutti, e gli atti pubblicati: fu un uso scientifico dei media per nascondere i problemi politici. Meritevole di uno sguardo il punto di vista di Michail Afanas’evič Bulgakov sulla Mosca del 1937, sede di processi politici manovrati, dietro le quinte, dall’Nkvd, precursore del Kgb, nei quali con metodo top-down si decidono le vittime da fucilare; e, al tempo stesso, città in cui si vive in uno stato di esaltazione, tra architetture oniriche, piazze e viali metafisici, futurismo monumentale. Per capire a fondo cosa fosse allora Mosca, basterà leggere in controluce alcune pagine de Il Maestro e Margherita (Einaudi, 1967; Mondadori, 1991), scritte proprio in quell’annus horribilis.
Vi trovano posto tutti i luoghi che fungono da palcoscenico per il dramma di Mosca in quel periodo: la città gloriosa e l’orrore delle abitazioni collettive; i luoghi pubblici e il loro vociare isterico; l’ambientazione dei processi farsa; il luogo delle esecuzioni; ma anche i rifugi in cui le persone cercavano un po’ di felicità, il caos estremo, il dissolversi di qualsiasi distinzione netta, le onde d’urto create dall’irruzione di forze ignote e innominate nella vita della gente comune, la paura e la disperazione; la morte distribuita con disinvoltura, morbosità e piacere. Quanto a coloro che rimangono vivi, non soltanto non lasciano sperare in alcun ravvedimento, ma non ce n’è uno con il quale ci si fermerebbe a scambiare due chiacchiere: tutta gente spregevole, meschina, feroce. Non v’è, forse, in questo un’impressionante similitudine tra il regime sanguinario stalinista, gli anni degli avvenimenti narrati da Loris Facchinetti e, quel ch’è peggio, il nostro traballante stato di diritto?
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
Perché Putin rischia di fare la fine di Stalin. Le mosse del Cremlino ricordano quelle del dittatore comunista con la Finlandia. Stefano Magni su Nicolaporro.it il 15 Aprile 2022.
Russia e Finlandia sono di nuovo ai ferri corti. La causa è l’annunciata adesione della nazione scandinava, neutrale dal 1944, all’Alleanza Atlantica. Il percorso di ingresso nella Nato non è ancora partito, non è ancora stato deciso, ma già Mosca minaccia ritorsioni. La memoria, soprattutto in Finlandia, va al 1939, quando l’Unione Sovietica provò ad invadere la Finlandia, non vi riuscì, ma annesse comunque il 10% del suo territorio. Ricordare quel conflitto, combattuto agli albori della Seconda Guerra Mondiale come una vera e propria guerra nella guerra, è importante per capire anche lo scontro ancora in corso in Ucraina e i suoi possibili esiti. Le due guerre, quella del 1939-40 e quella che si sta combattendo ora, presentano analogie veramente interessanti.
Il precedente di Stalin
Nel 1939, dopo il patto nazi-sovietico del 23 agosto (il Molotov-Ribbentrop) la Finlandia rientrava nella “sfera di influenza” sovietica, assieme alla Polonia orientale e alle Repubbliche Baltiche. Subito dopo la sconfitta e la spartizione della Polonia con la Germania nazista, Stalin impose a Estonia, Lettonia e Lituania di accettare degli accordi capestro, in cui le piccole repubbliche dovevano cedere ai russi basi militari sul loro territorio e il libero passaggio dell’Armata Rossa. Quei patti, nel giro di appena otto mesi, costarono loro l’indipendenza. Stalin fece la stessa “proposta che non si può rifiutare” anche alla Finlandia.
Il governo di Helsinki, che pure era guidato da un moderato, Aimo Cajander, non poté accettare la concessione di basi e di territori, fra cui anche la penisola di Hanko da cui i sovietici avrebbero potuto minacciare direttamente la capitale. La Finlandia aveva appena assistito all’annessione di metà Polonia da parte dell’Urss (e le deportazioni dei polacchi erano iniziate praticamente subito) e all’ingresso, de facto, dei sovietici anche nei Paesi Baltici. Inoltre la Finlandia era memore della guerra civile del 1918, in cui i comunisti miravano, con l’appoggio di Mosca, ad annettere il neo-indipendente Paese alla nascente federazione sovietica.
L’invasione della Finlandia
Dopo due mesi di trattative estenuanti e di mobilitazione alle frontiere, il 30 novembre 1939 l’Urss invase la Finlandia. Qual era l’obiettivo? Due gli indizi principali: era stato già formato, a Mosca, un governo fantoccio finlandese, guidato dal comunista Otto Kuusinen (fuggito in Urss dopo la sconfitta nella guerra civile). In secondo luogo, le direttrici dell’offensiva sovietica coprivano tutto il Paese: l’area maggiormente interessata era la Carelia, oggetto principale delle trattative precedenti, ma in altri quattro punti i sovietici fecero entrare le loro divisioni, a Nord del Lago Ladoga, nella Finlandia centrale puntando verso Oulu e nell’estremo Nord verso il porto artico di Petsamo (ora Pechenega, in Russia).
La resistenza dei finlandesi
L’intento era dunque quello di prendere tutto il Paese e non solo la Carelia rivendicata dai russi come “zona cuscinetto”. Il generale Kliment Voroshilov, al comando del Fronte (gruppo d’armate) settentrionale, avrebbe voluto chiudere la campagna entro il 6 dicembre, compleanno di Stalin, una settimana dopo l’inizio delle ostilità. Andò diversamente, come molti ricordano. I finlandesi e il loro comandante in capo, Gustav Mannerheim, si rivelarono dei nemici formidabili. L’offensiva in Carelia venne fermata sulla “Linea Mannerheim”, quella a Nord del Lago Ladoga si concluse con parte dell’VIII Armata chiusa in una sacca, l’offensiva nella Finlandia centrale finì nel disastro militare di Suomussalmi e persino nell’estremo Nord, dove i finlandesi conducevano la difesa con poche compagnie di fanteria, i sovietici non raggiunsero i loro obiettivi.
Il cambio di strategia dei russi
L’opinione pubblica mondiale si svegliò condannando all’unisono l’invasore. L’Urss venne espulsa dalla Società delle Nazioni (l’Onu di allora) e da tutti i Paesi occidentali partirono aiuti in armi e volontari. Anche dall’Italia furono mandati aerei e batterie anti-aeree, benché, a causa dell’alleanza con la Germania nazista (che allora era alleata dell’Urss) non potessimo mandarle per la rotta europea più diretta. Stalin sconcertato dalle perdite sul campo e nel timore di trovarsi in guerra contro Francia e Regno Unito (che minacciavano un intervento armato diretto), il 7 gennaio 1940 sostituì il maresciallo Voroshilov con il più rodato Timoshenko e cambiò passo.
L’obiettivo non era più l’invasione del Paese intero, ma la conquista della Carelia. Dopo un mese di preparativi e dopo aver raddoppiato gli effettivi presenti in quel settore, Stalin piegò la resistenza finlandese sulla Linea Mannerheim e il 12 marzo impose la pace. Ottenne molti più territori di quanti aveva chiesto prima della guerra, la quasi totalità della Carelia compresa la capitale regionale Vyborg (ora Viipuri, in Russia), terza città finlandese per popolazione e importanza economica. Stalin poté dunque cantare vittoria. Ma fu una vittoria di Pirro, perché il suo obiettivo iniziale, la conquista del Paese era mancato.
Le successive trattative con la Germania nazista, soprattutto il colloquio fra Molotov e Hitler nel novembre 1940, si arenarono e portarono alla rottura fra le due potenze continentali fino a quel momento alleate, proprio perché Stalin voleva completare il lavoro e conquistare la Finlandia, mentre Hitler non era più disposto a concederglielo. Non appena finirono quelle trattative, il dittatore tedesco decise di invadere l’Urss: la performance pessima dell’Armata Rossa in Finlandia lo aveva anche convinto che battere i sovietici sarebbe stato molto facile.
Putin, il nuovo Stalin
Ora, sostituiamo Stalin con Putin e la Finlandia con l’Ucraina di oggi. Lo scenario è simile in modo inquietante. Non c’è una guerra mondiale, d’accordo. Ma una condizione di forte tensione internazionale. Le prime proposte di Putin all’Ucraina potevano apparire ragionevoli, ma Zelensky ha rifiutato perché forte dell’esperienza della guerra civile nel Donbass e dell’annessione della Crimea. Nella prima fase dell’offensiva sovietica (pardon! russa) in Ucraina, l’Armata entrò nel Paese lungo tutto il confine settentrionale, orientale e meridionale, quattro direttrici di offensiva che dimostravano chiaramente come l’intento fosse quello di conquistare il Paese, come traspariva dal discorso alla nazione di Putin del 24 febbraio.
L’intento era quantomeno quello di rovesciare il presidente Zelensky e il governo ucraino. I russi tentarono di prendere Kiev al primo giorno, con l’attacco aviotrasportato di Hostomel, fallito la prima notte di guerra. Poi il 25 febbraio mandarono una colonna fin dentro Kiev. Respinta anche questa manovra iniziarono il lento accerchiamento della capitale, mentre premevano su tutti gli altri fronti, senza riuscire a sfondare. Dopo un mese di guerra e dopo aver subito migliaia di perdite (le cifre sono ancora coperte da censura), Putin ha dunque cambiato passo. Ha cambiato i vertici dell’Armata, nominando al comando il più rodato generale Aleksandr Dvornikov. Ha ritirato le divisioni che accerchiavano Kiev e si sta concentrando sull’obiettivo più sensibile e importante per la Russia: il controllo del Donbass. Come per la Finlandia, l’opinione pubblica occidentale si è svegliata contro l’invasore, la Russia è stata espulsa dal Consiglio per i diritti umani e dalle democrazie occidentali continuano a partire armi e volontari per l’Ucraina.
Ricorda qualcosa? Ovviamente sì, anche se dobbiamo sempre tener presente che la storia non si ripete mai allo stesso modo. E magari stavolta può anche andare peggio. Ma è probabile che Putin, come Stalin prima di lui, possa concentrarsi su un obiettivo territoriale (e rinunciando alla conquista dell’intero Paese) così da poter cantare comunque vittoria e porre fine alla guerra. Ma anche in questo caso non vanno dimenticate le altre due lezioni della guerra finlandese: l’insoddisfazione di Mosca per la vittoria di Pirro ottenuta sul campo, può spingerla a premere di nuovo per la conquista del Paese invitto. E questo comporterebbe delle ripercussioni internazionali molto peggiori, perché gli Usa e gli alleati europei sarebbero ancor meno disposti a scendere a compromessi.
In secondo luogo, la pessima performance militare dell’Armata, benché nascosta dai propagandisti russi e dai loro numerosi amici in Occidente, è ben visibile a chi di dovere. La Nato, adesso, considererà l’esercito russo molto meno temibile di quanto si ritenesse prima della guerra. E per fortuna di Putin, stavolta dall’altra parte non c’è un Hitler che decide di invadere l’Urss. Ma ci sono Paesi di confine che chiederanno di aderire alla Nato senza aver troppa paura di una rappresaglia militare russa. Fra questi, c’è proprio la Finlandia. Stefano Magni, 15 aprile 2022
Così i dittatori finiscono vittime delle proprie illusioni. Paolo Armaroli il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.
La Storia non si ripete mai allo stesso modo. Ma le assonanze tra la campagna di Grecia condotta da Mussolini e la campagna di Ucraina condotta da Putin sono davvero impressionanti.
La Storia non si ripete mai allo stesso modo. Ma le assonanze tra la campagna di Grecia condotta da Mussolini e la campagna di Ucraina condotta da Putin sono davvero impressionanti. E il vecchio Carlo Marx, riflettendo sulle vicende francesi a cavallo tra il Sette e l'Ottocento, non a caso sosteneva che la Storia si manifesta una prima volta in tragedia e una seconda volta in farsa.
Il 30 marzo 1938 Camera e Senato approvano per acclamazione la legge sul primo maresciallo dell'Impero conferito a Vittorio Emanuele III e al Duce. Con vive rimostranze del vecchio re per essere parificato al capo del governo. E quando Mussolini gli mostra il parere del presidente del Consiglio di Stato Santi Romano, una celebrità del giure, che sosteneva la piena legittimità del provvedimento legislativo, Vittorio Emanuele III resta del proprio avviso e ha parole di fuoco nei confronti dei costituzionalisti.
In quello stesso 30 marzo del 1938 Mussolini a Palazzo Madama tra gli applausi scroscianti dei senatori magnifica le nostre forze armate, che giudica tra le più potenti del mondo. Ecco, Putin non è da meno. Sa che il suo popolo ha un reddito pro capite di gran lunga inferiore a quello degli europei e degli americani. Ma in compenso s'illude di disporre di forze armate con i fiocchi. Ma il budino bisogna assaggiarlo per sapere se è buono o no. E, alla prova dei fatti, sia Mussolini sia Putin sono costretti a ricredersi. Il 28 ottobre 1940 Mussolini muove guerra alla Grecia. Ma l'offensiva si rivela presto un disastro. La Grecia va al contrattacco e arriva in Albania. Come al solito volano gli stracci. Occorrerà l'intervento delle forze germaniche per costringere la Grecia alla resa nell'aprile del 1941.
Putin si comporta, né più né meno, come Mussolini. Come a quest'ultimo era stato fatto credere che i greci fossero un popolo di pastori pronti ad arrendersi, così al dittatore russo i suoi servizi segreti e i suoi generali avevano fatto credere che l'Ucraina sarebbe stata spazzata via in quattro e quattr'otto. Insomma, la campagna contro Zelensky sarebbe stata poco più di una passeggiata. Ma così non è stato. E, seguendo le orme del Duce, Putin fa volare gli stracci. Il comandante in capo della spedizione viene rimosso sui due piedi e sostituito da un generale di maggiore esperienza. Con una fama di boia, tanto per esser chiari. E Putin si umilierà al punto di chiedere soccorso militare alla Cina, la Germania di Mussolini.
Nessuno può dire come andrà a finire. Fatto sta che la guerra lampo è clamorosamente fallita. La guerra continua con alterna fortuna. Le truppe ucraine danno filo da torcere e ottengono risultati insperati come l'affondamento della nave ammiraglia russa, il gioiello di Putin. Per il tiranno del Cremlino questa sciagurata campagna sarà l'inizio della fine. Si è messo contro Biden, considerato fino a ieri una colomba o giù di lì. Si è messo contro i Paesi dell'Unione europea, ben lieti fino al 24 febbraio scorso di intrattenere lucrosi scambi commerciali con il novello zar. E adesso la Finlandia e la Svezia, timorose dell'orso russo, si accingono a chiedere l'ombrello della Nato. Mentre l'Ucraina non vede l'ora di aderire all'Unione europea. Un suicidio in diretta, a conti fatti, quello di Putin. Che, memore delle glorie di Stalin, vorrebbe arrivare alla vittoria il 9 maggio. Quando il dittatore georgiano nel 1945 piegò la Germania alla resa. Proprio quel 9 maggio, ma del 1936, quando l'Italia conquistò un effimero impero. Corsi e ricorsi di vichiana memoria
È destino dei dittatori, si sa, rimanere vittime delle proprie illusioni.
Luciferina incoerenza. Tutti gli strafalcioni storici di Putin nel manifesto imperialista che giustifica l’invasione. Antonio Preiti su L'Inkiesta il 23 Marzo 2022.
Analisi dell’articolo con cui il dittatore ha giustificato la sua volontà di annessione di Kiev. Tanta fuffa e nel finale il peccato mortale dell’Ucraina: avere come modello da seguire l’Occidente e non la Russia.
I carri armati sono alimentati dalle idee, sono il seguito di una narrazione, per quanto aberrante, falsa e insostenibile sia. È difficile stabilire un nesso causale tra narrazione e fatti, ma è difficile capire i fatti, se spogliati dalla loro motivazione, così come non è possibile non vedere le conseguenze inevitabili di una narrazione. E talvolta le conseguenze sono un’invasione devastante di un intero paese. Allora si è obbligati a capire da dove arriva l’ideologia, il delirio, appunto la narrazione di ciò che sta succedendo in Ucraina. Allora conviene andare alla fonte della “ragione” dell’invasione dell’Ucraina; e chi meglio può spiegarla se non il suo autore?
Putin il 12 luglio del 2021 ha scritto un lungo articolo (di oltre dieci pagine) proprio sull’Ucraina, che merita di essere letto, perché dentro c’è la costruzione ideologica dell’invasione. Nel testo c’è una teoria, un tentativo di giustificazione storica e, soprattutto, le ragioni profonde di un atto aberrante che sta sconvolgendo il mondo. C’è anche la ragione ultima, se ci potesse essere, della crudeltà dei modi e dei mezzi con cui sta avvenendo.
Il testo di Putin è chiarissimo e spiega in maniera inequivocabile, dal suo punto di vista, il senso di questa guerra. Conviene leggerlo con attenzione e si troveranno tutte le risposte all’invasione. Tutto è reso con grande evidenza, e con luciferina coerenza, perché rivela in maniera limpida la sua concezione del mondo, e in particolare la sua concezione dell’Ucraina. Il testo è in inglese, secondo la traduzione ufficiale (dal russo) dello stesso governo russo. Perciò non ci sono dubbi sull’autenticità delle sue parole. Vediamo cosa dice.
La prima frase chiarisce già l’essenziale, che poi prova a dimostrare con un lungo excursus storico e di prospettive culturali e, diremmo, antropologiche. Scrive Putin che «i Russi e gli Ucraini sono un solo popolo, un singolo tutto» (Russians and Ukrainians were one people – a single Whole). Evitiamo di commentare se questa sia la premessa migliore per devastare le città e annichilire la popolazione. Restiamo sul testo e sul piano storico-culturale.
Aggiunge Putin che i due popoli sono «le parti di ciò che ha essenzialmente la stessa storia e lo stesso spazio spirituale». È importante notare l’uso di questi due termini: la stessa storia (poi vedremo che, secondo quanto da lui stesso scritto, la storia dell’attuale Ucraina ha avuto innumerevoli cambiamenti) e, soprattutto, «lo stesso spirito». In questo, fa riferimento ovviamente a qualcosa di metafisico, a cui vedremo che cercherà di aggiungere riscontri storici. Resta il fatto che l’unione spirituale di un popolo è difficile da definire. Lui scrive più avanti che è data dalla religione, quella ortodossa; ma andiamo con ordine.
Tutta la narrazione di Putin nasce dall’idea che esista un impero russo, che questo impero abbia un suo spirito, che si ritrova nella lingua, nella religione greco-ortodossa e in uno spazio fisico, che lui identifica nelle attuali Russia, Bielorussia e Ucraina. Tutto comincia, a suo parere, dal fatto che in passato ci fosse un «Ancient Rus» (il termine sta a indicare popolazioni che nell’Alto Medioevo vivevano nei tre Paesi citati e con appendici anche in Polonia e Slovacchia). Per Putin si trattava del più grande stato europeo. Qui commette un lapsus (diremmo) perché definisce quell’antica popolazione come europea, perciò sarebbe del tutto ovvio che oggi, a secoli di distanza, l’Ucraina rivendichi la sua appartenenza europea. C’è poi un riferimento al gesto di St. Vladimir, grande principe di Kiev, di farsi battezzare come ortodosso, e così facendo creò quell’appartenenza di fede che costituirebbe lo spirito russo.
Aggiunge che «il trono di Kiev aveva una posizione dominante nella Ancient Rus». Cita Oleg il Profeta che nel IX secolo ha dichiarato che Kiev sarebbe stata la madre di tutte le città russe. Il termine «madre» (motherland) ritorna più volte nella sua narrazione. Ammette che dopo quel tempo vi sia stata una frammentazione di stati e staterelli, dovuta anche alle invasioni dall’esterno («devastating invasions») che fanno pensare piuttosto a quella sua odierna. Aggiunge che una parte dell’attuale Ucraina «referred», faceva riferimento al Gran Ducato di Lituania e Russia.
Fino ad adesso sembra tutta una storia interna all’Ucraina, ma ecco come si inserisce (l’immedesimazione?) la Russia odierna. Scrive che a un certo punto i principi di Mosca, discendenti del Principe Alexander Nevskij, cominciano a riunificare («gathering») la terra russa. Nel frattempo accade qualcosa che lui stesso cita, ma da cui non trae le naturali conseguenze, e cioè che le popolazioni dell’Ucraina legate alla Lituania diventarono cattoliche. A questo punto, non potendo scrivere che oramai quelle popolazioni erano cattoliche e non greco-ortodosse, afferma che nel 1596 parte del clero ortodosso fu sottomesso («submitted») all’autorità del Papa di Roma.
In sostanza, considerando quanto lui stesso scrive, il richiamo allo spirito russo, che coincide con quello religioso ortodosso, già nel 1500 non aveva alcun senso, e probabilmente nessun consenso, visto che l’unica citazione storica avversa che cita si riferisce al 1649, quando lui sostiene che gli abitanti di Zaporizia, l’attuale regione tra il sud dell’Ucraina e della Russia, avevano chiesto al Commonwealth Polacco-Lituano di rispettare i diritti della popolazione russo-ortodossa. (Non pare la stessa cosa di oggi quando parla del Donbass? con le stesse parole?)
Va avanti nella storia e, usando sempre il termine Impero Russo, aggiunge che dopo lo smembramento dello stato polacco-lituano la Russia «regained», ha riguadagnato la parte occidentale delle vecchie province russe. E qui comincia una lunga accusa alla Polonia di aver utilizzato l’Ucraina per ottenerne tutte le risorse economiche, dimenticando quanto scritto da lui stesso in merito all’adesione al cattolicesimo di quella parte d’Europa. Accusa poi l’élite polacca di aver separato l’Ucraina dalla Russia.
In sostanza, l’Ucraina non avrebbe, nel suo pensiero (e l’ha detto a chiare lettere il giorno dell’invasione) una identità perché quella cattolica sarebbe stata frutto di oppressione e di coercizione. Resterebbe la questione della lingua ucraina, che esiste da secoli, a testimonianza dell’identità, ma sostiene che si tratta di un dialetto, con la stessa differenza tra Roma e Bergamo.
E veniamo alla parte sovietica della storia. Qui la vicenda si fa ancora più contorta, perché sostiene che nel 1917 la proclamazione dello stato Ucraino era concepito come uno stato dentro la Russia, anche se formalmente si trattava di una confederazione di stati indipendenti. Sostiene che secondo i principi del comunismo gli stati erano una finzione, perché c’era una concezione universalistica dell’idea comunista, e perciò il riconoscimento degli stati era solo un modo per suscitare simpatie, ma senza un valore statuale.
Dedica poi pagine a sostenere che l’identificazione dell’Ucraina con l’Europa, cresciuta dopo la caduta dell’Unione Sovietica sia frutto della manipolazione dei Polacchi in chiave anti-Russa. Questo sarebbe avvenuto contro la volontà dei popoli russo, bielorusso e, appunto, ucraino che, invece, si sentirebbero come «a triune nation», che potremmo tradurre come una «nazione trinaria», che evoca la trinità cristiana. La reazione eroica e per nulla accondiscendente degli Ucraini di questi giorni dimostra che certo questo non è il pensiero degli Ucraini, e sicuramente anche dei Bielorussi, se avessero la possibilità di dirlo.
Per altro, l’idea che un popolo si fondi su uno spirito, oltre che essere l’ingrediente delle teocrazie, è smentito proprio da altre parti del suo testo, quando afferma che in Ucraina convivono più religioni, più etnie e intrecci molteplici anche al livello familiare. O Addirittura – visto con gli occhi di oggi – afferma che ognuno è libero di determinare la sua nazionalità, particolarmente nelle famiglie miste, perché «every individual is free to make his or her choice». Allora perché l’invasione? Allora perché il richiamo a un’unità di razza, di religione che si vuole anche unità statuale?
La risposta è in quelle parole ripetute a ogni pagina dello scritto: “Impero Russo”. Tutto viene interpretato alla luce dell’esistenza, del mantenimento e dello sviluppo dell’Impero. Tutto il resto dello scritto, dedicato agli anni più recenti, è fondato su quello che chiama il «Piano anti-Russia», che sarebbe perpetrato dagli «autori occidentali», rispetto a cui il governo legittimo, e democraticamente eletto dell’Ucraina sarebbe succube e servitore. Ma il cuore della vicenda attuale Putin la rivela nella sua ultima pagina, quando scrive che all’attuale governo dell’Ucraina piace vedere nell’esperienza dell’Occidente «as a model to follow», un modello da seguire.
Perciò il peccato mortale dell’Ucraina è di vedere come modello non la Russia, ma l’Occidente.
L’ultima riga del testo suona sinistra e beffarda insieme, perché sostiene che la Russia «non è mai stata e mai sarà anti-Ucraina e quello che l’Ucraina sarà è nelle mani dei suoi cittadini deciderlo» (it is up to its citizens to decide). Ecco come la spietata chiarezza del pensiero che sta dietro i carri armati e i bombardamenti cancella i geroglifici di geo-politica, le fantasie giustificazioniste e gli equilibrismi dell’equidistanza.
Congo, il gran pasticcio della decolonizzazione. Marco Valle su Inside Over l'8 aprile 2022.
L’indipendenza congolese ricorda un cortocircuito. Un guasto all’apparenza banale, risolvibile, aggiustabile, ma se l’elettricista è un incapace o un idiota il piccolo incidente domestico può trasformarsi in un incendio. Se poi i pompieri tardano ad arrivare o si rivelano a loro volta degli incendiari, non vi è speranza. Insomma, spiegare un cortocircuito, talvolta, non è cosa semplice. Soprattutto quando non si tratta d’elettricità, di fili, contatori, contatti e altri stupidi e banali aggeggi. Soprattutto quando si tratta di donne e uomini, di popoli e nazioni. Di denaro e sangue. Tanto denaro, troppo sangue. Questo fu il destino del defunto Congo belga.
Agli occhi di molti osservatori l’ultimo decennio del sogno di Leopoldo ancor oggi rimane un enigma. Il tracollo improvviso del sistema coloniale – un regime chiuso, occhiuto ma, apparentemente, solido – sorprese e sgomentò. In quel lontano 1960, nell’arco di pochi mesi, “l’impero del silenzio” (per molti) o la colonie modèle (per pochi) implose rovinosamente. Vergognosamente. Le ragioni, ancora una volta, sono complesse e vanno ricercate non tra Matadi e il Katanga, ma nei palazzi di Bruxelles.
La questione congolese fu in primis una crisi interna al potere metropolitano. Agli inizi degli anni Cinquanta ai segmenti più avvertiti dei circoli politici e finanziari belgi l’inadeguatezza del sistema coloniale, perennemente incardinato sulla Charte coloniale, divenne evidente. Ma non solo. Inevitabilmente, anche a Bruxelles s’iniziò a ragionare sulla fine del Raj britannico nel subcontinente indiano, sulla ritirata olandese in Indonesia e le tragedie della Francia in Indocina e in Africa settentrionale. Poi Suez e il Marocco. Un susseguirsi di sconfitte, tradimenti, disfatte.
Ovunque i fortini del colonialismo franavano sotto i colpi d’ariete dei movimenti nazionalisti. Un’offensiva potente – alimentata dalle incrociate pressioni statunitensi e sovietiche, legittimata dagli intrighi dell’Onu e protetta dalle velleità dei Paesi “non allineati” – costringeva le grandi e piccole potenze europee ad ammainare le bandiere. Il tempo dell’imperialismo europeo stava finendo.
Per quanto il Congo sembrasse tranquillo e pacifico, i settori governativi meno ottusi ritennero urgente creare degli ascensori sociali per formare un primo abbozzo di borghesia locale da cui estrarre, in un non precisato futuro, un personale amministrativo e politico congolese adeguato. Da qui, trasferendo all’Equatore la polemica tutta belga tra l’insegnamento laico contro quello confessionale, l’apertura repentina di scuole superiori e di due università – una cattolica a Léopoldville e l’altra laica ad Elisabethville -. Inoltre fu riconosciuto, come ricorda Bernard Droz, “il diritto sindacale e fu istituito un Fondo per il benessere indigeno, riorganizzata l’amministrazione tramite una riforma comunale. Sostenuta da un’eccezionale crescita economica, almeno fino al 1956, la piccola borghesia nera continuò a svilupparsi e il rapido processo dell’istruzione collocava il tasso di scolarizzazione del Congo Belga tra i primi in Africa”.
Nel 1955 la visita di re Baldovino, un successo pieno. Nel suo primo viaggio africano, il giovane monarca annunciò dinnanzi a moltitudini festanti la progressiva attuazione di una comunità belgo-congolese, un’unione in seno alla quale le responsabilità di governo sarebbero state suddivise tra bianchi e neri soltanto “in base alle qualità e capacità”.
Baldovino fu sincero. La Casa Reale esperì, sino al limite estremo delle sue possibilità, una politica africana autonoma – e spesso conflittuale – dal potere politico nazionale. Per motivi di prestigio e solidi interessi. Ma non solo. Negli anni, l’occhialuto erede dei Saxe Cobourg Gotha dimostrò una visione politica più lucida e profonda dei suoi ministri. Dopo aver invano tentato di trasformare il Congo in un vicereame da affidare al padre, l’ex re Leopoldo, Baldovino cercò d’avviare un processo d’emancipazione “dolce” tramite uomini di sua fiducia – ben più solidi dei messi governativi – e quando la situazione iniziò a traballare chiese, senza successo, un intervento militare.
Al suo ritorno in patria nel ‘55, il sovrano diede nuovo impulso alla creazione della “comunità belgo-congolese” e appoggiò, con reale discrezione e l’appoggio dei centri finanziari e parte del mondo politico, il fatidico Plan de trente ans pour l’émancipation de l’Afrique belge del professor Jef van Bilsen, pubblicato sulla rivista ufficiale del Mouvement Ouvrier Chrétien, il braccio sindacale del partito cattolico. Convinto che “l’emancipazione è ineluttabile e non è necessariamente catastrofica: al contrario, può costituire una fonte di reciproco arricchimento spirituale e materiale. Sarà dolorosa soltanto se ci lasceremo sorprendere e sommergere dagli eventi”, il docente fiammingo proponeva un percorso trentennale e condiviso verso l’indipendenza della regione. Il piano – molto moderato e gradualistico – scatenò furibonde polemiche in patria e in colonia. Sorprendentemente, accanto alle scontate resistenze dei circoli coloniali, ad opporsi ed a indignarsi per le “stravaganze” di van Bilsen, furono gli ambienti progressisti. Il liberale Auguste Buisseret, ministro delle colonie, liquidò l’autore come “uno di quei strateghi irresponsabili che fissano delle date, dimostrando di non sapere niente e di non capire niente dell’Africa”. Del resto, in quegli stessi anni il socialista François Mitterrand e il Pcf erano ancora convinti partigiani dell’Algeria francese…
Nel frattempo, pressato dalle critiche dell’Onu e dalle insistenze di Baldovino, il nuovo governo brussellese – una stramba coalizione liberal-socialista che, per la prima volta nella storia belga, pose i cattolici all’opposizione – approvò l’introduzione in colonia di limitate forme di democrazia rappresentativa. Il 26 marzo 1957 un decreto reale autorizzò la riorganizzazione dei poteri urbani nelle tre principali città congolesi, introducendo i consigli municipali elettivi (con urne, seggi e rappresentanze distinti tra bianchi e neri) e aprendo – riprendendo un dimenticato progetto del 1943 – le fila dell’amministrazione ai nativi. Furono provvedimenti importanti ma tardivi che rivelarono l’imbarazzo e, soprattutto, la debolezza del potere coloniale. Non a caso, il nascente movimento nazionalista congolese accolse con inattesa freddezza le concessioni e iniziò – confusamente ma con determinazione – ad organizzarsi. Il preludio del grande incendio.
Da Clausewitz a Putin: la guerra nel XXI secolo. MATTEO BRESSAN su Il Domani il 20 marzo 2022
Dallo scorso agosto, a partire dal ritiro dell’occidente da Kabul per giungere all’offensiva russa di questi giorni in Ucraina, abbiamo assistito alla fine della guerra al terrore e al ritorno della guerra alle porte dell’Europa.
Se Kabul e Kiev possono rappresentare, con le loro estremità, le variegate sfaccettature della violenza organizzata, gli scenari di crisi che geograficamente si collocano tra le due capitali ci presentano un mondo che mai come in questa fase appare così insicuro.
Il libro “Da Clausewitz a Putin: la guerra nel XXI secolo”, a cura di Bressan e Cuzzelli sarà in libreria a partire dalla fine di marzo.
MATTEO BRESSAN. Analista presso il NATO Defense College Foundation, docente di Studi Strategici presso la SIOI e la LUMSA.
Il canto del cigno nero. Le tre ragioni che porteranno alla sconfitta dei tiranni nel XXI secolo (compreso Putin). Giovanni Cagnoli su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.
Cuba, Corea del Nord e Russia sono esempi plastici dei luoghi dove si vive peggio al mondo. L’avvento di internet e delle comunicazioni planetarie rende impossibile la gestione della propaganda all’infinito. E la capacità repressiva dei regimi totalitari sarà sempre più ridotta.
Quella a cui stiamo assistendo oggi è la coda della lotta durata quasi duecento anni tra una visione del mondo aperta, democratica, meritocratica con la possibilità per tutti i cittadini di scalare l’ascensore sociale, iniziata con la rivoluzione francese nel 1789 e quella americana del 1776, e il totalitarismo che si è realizzato in Europa e nel mondo come difesa del privilegio di pochi rispetto alle opportunità di molti.
Il totalitarismo prima di fine Ottocento era la regola assoluta, con modeste eccezioni (Atene del IV secolo avanti Cristo, Venezia). L’imperatore, il re, la nobiltà o il capo guerriero di turno, affermava con la forza, o con il diritto dinastico, il suo potere indiscusso. Un potere a tutto tondo economico, legislativo, militare. Il contratto sociale con la popolazione si basava sul castello e sulla difesa di cui il re e i nobili si facevano paladini con un pesantissimo tributo di risorse umane e di lavoro da parte dei non nobili.
La rivoluzione industriale e la nozione che la difesa non poteva essere più basata sul castello e sulle mura (i cannoni li smantellano facilmente), cosi come il crescere del commercio tra nazioni e gli equilibri economici che ne derivano, hanno posto fine di fatto al modello monarchico, o nel XIX secolo ne hanno molto limitato i privilegi fino ad azzerarli nel XX secolo, e hanno fatto nascere una nuova categoria di privilegiati, cioè i detentori di capitale che emergevano in ogni società sviluppata, non più sulla base della diritto di nascita ma piuttosto sulla capacità di emergere. Soprattutto le rivoluzioni liberali dell’Ottocento hanno diffuso il pensiero della possibilità dei popoli di autodeterminarsi attraverso una forma di democrazia che rifugge dalla scelta a priori dei leader. Non più il re, il capo guerriero o il dittatore, ma il primo ministro.
Il movimento marxista nato intorno al 1860 e trasformato poi in dottrina di Stato con la rivoluzione sovietica del 1917, non a caso fertile nell’unico Stato residuo dove i privilegi della nobiltà e dello Zar erano ancora ben saldi e quasi invariati rispetto a 150 anni prima, hanno creato il residuo del totalitarismo nel XX secolo, insieme ai movimenti fascisti di Italia e Germania entrambi prosperati sulla base di una diffusa sensazione di ingiustizia per il privilegio economico del capitalismo coloniale anglosassone.
La Seconda guerra mondiale nasce da queste tensioni e in modo del tutto anacronistico, se non per la cartina geografica e le follie razziste di Hitler, vede su fronti contrapposti, i due totalitarismi (tedesco e russo). Inevitabilmente la Germania con dimensioni economiche non paragonabili agli Alleati, e in più con un fronte russo geograficamente immenso, perde rovinosamente la guerra, ma vince in modo altrettanto eclatante la pace diventando la potenza economica dominante in Europa.
Un minuto dopo la fine della guerra appare chiaro che il totalitarismo comunista russo è il vero nemico dell’occidente liberale, Germania inclusa, e per 45 anni fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989, l’Europa dell’est si vede privata di libertà, crescita economica, progresso sotto il tallone del totalitarismo comunista. Budapest nel 1956 e Praga nel 1968 rafforzano le convinzioni da una parte in Russia che l’unica risposta all’avvicinarsi di posizioni liberali sia l’invasione militare e dall’altra in Occidente che il comunismo sia non tanto una visione sociale moderna ma una efferata forma di totalitarismo ammantata e mascherata dal falso mito della filosofia ugualitaria.
Nel XX secolo il crescere dell’importanza della dimensione economica delle società svela anche con una semplice analisi che il comunismo è un totale, incontrovertibile, duraturo fallimento economico e sociale. Polonia, Cechia, paesi baltici dovranno attendere fino al 2030/40 per allinearsi all’occidente a cui appartengono per valori, cultura, istruzione e ogni altro parametro. Un anno di regime comunista ne costa due per riparare ai danni che provoca. Quarantacinque anni di regime ne costano cento per riportare quei territori a uno standard di vita simile alla media europea. Un’enormità e un costo tremendo.
Questa è la motivazione profonda della forza del sentimento anti-comunista in quei paesi davvero estremo. Solo chi ha conosciuto il comunismo sa che è un costo sociale tremendo e lo combatte strenuamente, così come fanno oggi gli ucraini. La democrazia e il liberismo lasciano spazio all’iniziativa individuale soffocata dal comunismo e in una specie di darwinismo sociale, a costo anche di generazioni perse, il mito del comunismo finisce con il crollo del muro di Berlino. In Occidente purtroppo per anni è stata propinata solo per fini elettorali la bufala del buon comunismo, dimenticandosi gli evidenti aspetti del fallimento economico e del totalitarismo che ne erano intrinseci.
Ma il dato di fatto più interessante è un legame di continuità del comunismo o del totalitarismo in senso lato rispetto alla nobiltà del Settecento ante Rivoluzione francese. Allo stesso modo, la nomenklatura comunista gode di privilegi incredibili rispetto alle masse, quanto la nobiltà nel Settecento rispetto alla borghesia e alla plebe. Pochissime persone controllano economia, potere, media e sfruttano la promessa del comunismo o del nazionalismo, solo ed esclusivamente per proteggere in modo strenuo i propri privilegi. Gli oligarchi russi di oggi con l’ostentazione della loro ricchezza, i gerarchi fascisti o nazisti di oggi, non sono altro che piccoli uomini violenti e aggressivi, assurti a un potere enorme, a privilegi di vita altrettanto enormi, che non vogliono per nessun motivo rinunciare a questi privilegi, per loro assolutamente irraggiungibili attraverso lavoro o ingegno.
Una volta acquisiti e “apprezzati” i privilegi, cercano di scovare una motivazione per le masse per evitare la rivolta popolare. Motivazione che alternativamente può essere la mitologia del comunismo, o la difesa della nazione, o i soprusi delle altre nazioni.
Ogni scusa è buona pur di non mollare i privilegi. Soprattutto la minaccia di una rivoluzione liberale di successo come quella di Maidan del 2014 è terrificante. Se l’Ucraina si fosse occidentalizzata con successo come sembrava accedere, come si poteva fermare la stessa evoluzione in Russia? Da qui l’imperativo dell’invasione, non certo la Nato che, alleanza difensiva, non è una minaccia. Ciò che minacciava, e lo minaccia a maggior ragione oggi dopo la sconfitta de facto dell’esercito russo, è l’impossibilità di invadere l’Ucraina in futuro, perché avrebbe definitivamente sancito la solitudine dell’esperimento totalitario di Putin e quindi in ultima analisi il suo fallimento economico, sociale e infine la rivoluzione. Tra l’altro, geograficamente con l’adesione pregressa alla Nato dei paesi baltici, di Polonia e Romania non esiste più, a parte la piccola Moldavia, un territorio contiguo alla Russia dove fermare l’esperimento democratico.
La mia tesi è che nel mondo del XXI secolo la battaglia di questi tiranni privilegiati è senza speranza ed è l’ultimo colpo di coda nella storia.
Questo per 3 motivi fondamentali
L’avvento di internet e delle comunicazioni planetarie rende impossibile la gestione della propaganda all’infinito. Russi e cinesi prima o poi vedranno in innumerevoli video le bombe su Kiev e la catastrofe umanitaria di Mariupol. E la reazione sarà rabbiosa. Un contadino francese nel Settecento aveva molte difficoltà a vedere lo sfarzo inutile di Versailles. Forse lo intuiva, ma di certo non lo vedeva tutti i giorni con infiniti dettagli.
Ugualmente il fallimento economico del totalitarismo è sotto gli occhi di tutti. Cuba, la Corea del Nord, la stessa Russia tra pochissimo, sono esempi plastici dei luoghi dove si vive peggio al mondo e tristemente per i loro governanti anche la loro popolazione lo sa perfettamente, non fosse altro perché vede tutti i giorni quanto si vive meglio nel resto del mondo. Vale anche per la Cina i cui governanti hanno però finora molto abilmente coniugato il più feroce totalitarismo politico con un altrettanto incredibile capitalismo economico selvaggio, e soprattutto non sembrano essersi enormemente arricchiti di privilegi anche attraverso una selezione di classe politica di tutto rispetto e capacità media probabilmente superiore all’occidente.
La capacità repressiva dei regimi totalitari è fortemente ridotta in epoca internet, sempre per effetto delle comunicazioni tra i repressi, e anche per l’impopolarità della repressione. Alla fine Putin potrebbe essere costretto ad arrestare mezzo milione di persone che protestano e nemmeno lui lo può fare. Quelli che non sono arrestati scappano e le migliori energie del paese se ne vanno determinando una spirale di impoverimento drammatico. Succede alla velocità della luce in un modo dove trasporto di persone cose e idee è enormemente più facile che nel Settecento o nell’Ottocento. Cinque milioni di profughi ucraini in tre settimane e code inenarrabili alla frontiera tra Russia e Finlandia ne sono dimostrazione evidente.
Quindi Putin ha già perso, semplicemente perché non può vincere. Non ha le motivazioni popolari, la struttura economica, la possibilità di controllo sociale per vincere. Crollerà tra 1, 2 o 5 anni ma crollerà travolto in modo violento dal suo stesso popolo e dai suoi oligarchi o dai suoi militari stanco di essere vessato, di vivere malissimo, di dovere emigrare. E chi dice che nella Russia profonda Putin è ancora popolare sottovaluta che le rivoluzioni si fanno sempre nelle città, Parigi o Bostonieri, San Pietroburgo o Berlino oggi, mai in campagna.
È altrettanto interessante il parallelismo di questa analisi con le vicende politiche occidentali dove abbiamo assistito alla creazione d un ceto politico fortemente autoreferenziale, con privilegi meno enormi ma certamente marcati rispetto alla massa della popolazione, e con qualità per lo più modeste. È molto vero in Italia, ma anche in svariati paesi occidentali, dove il politico di professione è diventato fortemente impopolare proprio per i privilegi di casta, l’impermeabilità al cambiamento e la sostanziale evidente inversione tra i presunti fini (il bene del popolo) e i mezzi praticati (l’autoconservazione del proprio potere e privilegi).
La dimensione personale dei privilegi dei politici di professione è sottovalutata. Costoro vivono in un universo parallelo, con una serie di agevolazioni e privilegi personali, pagati dai contribuenti a cui, una volta provati, non sono più disposti a rinunciare per nessun motivo. L’immagine di Luigi Di Maio al telefono con autista nell’Audi A8 che mai e poi mai potrebbe nemmeno sognare con il suo lavoro è plastica.
Così abbiamo assistito negli ultimi dieci anni a fenomeni di populismo democratico altrettanto pericolosi rispetto al totalitarismo. Chi si presenta alle elezioni dicendo «sono nuovo e diverso dai vecchi corrotti autoreferenziali» vince. Il claim elettorale è una bufala ovviamente, ma permette un giro di giostra al potere. Donald Trump, i Cinquestelle, Marine le Pen, Matteo Salvini e Boris Johnson (in una certa misura mitigato dalla centenaria tradizione democratica inglese) sono facce della stessa medaglia e cioè la proclamata vicinanza alle masse e alle istanze più becere delle masse, seguita da una gestione dissennata e pericolosa del governo del paese.
L’aspetto sorprendente ma non troppo, considerata la natura umana, è la facilità con cui costoro conquistano le masse. Bastano promesse e slogan ridicoli nella loro pochezza («abbiamo sconfitto la povertà» o «uno vale uno» o «make America great again») per vincere le elezioni spesso con un utilizzo spregiudicato della comunicazione digitale. Le masse vogliono credere alla soluzione magica e soprattutto diffidano delle élite politiche autoreferenziali in cui hanno visto corruzione diffusa, attaccamento pervicace alla poltrona e anche discreta incompetenza.
Ma il gioco per fortuna dura poco. I Cinquestelle spariranno tra meno di un anno dal panorama politico italiano, così come Salvini. Trump proverà a ripresentarsi ma a mio avviso (e su questo sono in minoranza) ha pochissime speranze di vincere e forse nemmeno di essere il candidato repubblicano, nonostante la pochezza culturale del Midwest e delle classi non educate degli Stati Uniti. Per fortuna, in democrazia i populisti spariscono, spesso con rabbiosa reazione, quando le masse si rendono conto che le promesse sono vuote.
Il costo però è molto elevato; ad esempio, in Italia il costo dei Cinquestelle sarà alla fine di cento o duecento miliardi a causa delle scelte scellerate (dai banchi a rotelle, al reddito di cittadinanza, alla guerra al TAP e ai rigassificatori e molto altro), un prezzo enorme per un paese molto indebitato e in crisi demografica. Forse proprio pensando al Midwest americano bisognerebbe riflettere attentamente su un paese (l’Italia) che dedica risorse al welfare pari a cinque volte quelle che dedica all’istruzione, dove peraltro le risorse sono spese per difendere l’assoluto opposto della meritocrazia per chi insegna e l’inutilità per chi impara. L’istruzione e lo spirito critico sono essenziali per la democrazia e noi stiamo facendo pochissimo per difenderla.
Restano però vive e vegete, soprattutto in Italia, le élite politiche che hanno esse stesse fortemente favorito la reazione populista. In Italia la sinistra ha governato per quindici degli ultimi venti anni pur avendo quasi sempre perso le elezioni, ha un personale politico uguale a sé stesso che di professione ha sempre e solo fatto politica, che non ha alcuna prospettiva di lavoro reale fuori dal Parlamento e dai ministeri e prospera adesso solo con lo slogan “mai con Salvini” riuscendo anche a digerire l’impresentabile Giuseppe Conte e i Cinquestelle nella speranza di restare al potere anche dopo le prossime elezioni.
La guerra scompagina però le carte in modo sensibile. I distinguo della sinistra identitaria italiana e dei Cinquestelle saranno indigeribili per un Pd riformista, atlantista ed europeista e quindi il sogno di Goffredo Bettini e Massimo D’Alema (quando non è distratto dalla vendita di armi ai colombiani) del campo largo viene spazzato via dalle bombe dei russi. Le stesse dichiarazioni sulla “pace che non si fa con le armi” stridono con il buonsenso e con la realtà. Andiamolo a dire agli ucraini sotto il fuoco nemico che la pace si fa con il dialogo.
Emmanuel Macron realisticamente vincerà ancora le elezioni francesi specie se al secondo turno andasse Marine Le Pen, Boris Johnson a breve sarà spazzato via dai suoi stessi conservatori, e Olaf Scholz in Germania sta riaffermando la migliore politica europea anche dopo Angela Merkel con un sano pragmatismo calvinista attento alle ragioni del benessere germanico, ma anche lontano dagli estremismi e dal populismo (il gas russo per noi purtroppo è fondamentale e ci vorrà tempo per smarcarsi). Quindi, in sintesi, in Europa (ma anche negli Stati Uniti se la mia previsione sulla fine di Trump è corretta) la stagione del bipopulismo (di destra Le Pen/Salvini/AFD o di sinistra Cinquestelle/Linke) è sostanzialmente terminata, e avremo governi stabilmente di centro con uno spin di destra o di sinistra in funzione delle situazioni locali. Avremo, si spera, anche governi di competenti. Mario Draghi è il meglio che oggi l’Europa propone, un atout incredibilmente potente per l’Italia specie se non sarà condizionato dalla pattuglia di Cinquestelle e Lega che nel prossimo Parlamento sarà irrilevante.
L’esito delle elezioni italiane del 2023 invece è meno evidente e sarà uno spartiacque decisivo, visto che il peso dei bipopulisti (Lega e Cinquestelle) era il più alto in Europa, mentre manca un ancoraggio solido al centro che è maggioranza nel paese, ma allo stato attuale minoranza in Parlamento.
Sarebbe importante offrire alle democrazie occidentali e all’Italia in particolare, un meccanismo efficace per evitare i populismi nel tempo, e forse il modo migliore può essere garantire la capacità a un ceto politico non autoreferenziale di salire al potere. In questo senso la limitazione nel tempo degli incarichi pubblici (la stessa proclamata con enfasi sugli altri ma poi negata su se stessi dai Cinquestelle) a me pare l’antidoto più grande.
Nessuno potrebbe concepire di fare il politico a vita e questo cambierebbe drasticamente la possibilità di invertire fini e mezzi attraverso la politica. Così come la coscienza dei valori dell’occidente di libertà, auto determinazione e espressione individuale che questa guerra provocherà di certo, forse avvicinerà alla politica persone migliori, con maggiore esperienza di gestione amministrativa e senza l’attaccamento al ruolo tipico di chi non ha alcuna prospettiva fuori dalla politica (Di Luigi Di Maio e tutti i Cinquestelle, Salvini e molti nella Lega, ma anche molti nel Pd). Ci sono segnali importanti in tal senso come Giorgio Gori, Beppe Sala, Luca Zaia, Massimiliano Fedriga, Carlo Calenda, Stefano Bonaccini, Giovanni Toti, e in generale una classe di amministratori locali che per vincere deve amministrare e non solo fare promesse ai delegati del partito. Le elezioni del 2023 sono uno spartiacque importante in questo senso.
Di certo l’epilogo dei privilegi del re, del nobile, del gerarca, del politburo comunista, è molto vicino.
Si tratta di non cadere poi nel privilegio del politico di professione che vessa certamente molto meno del dittatore, ma non ha le capacità e le competenze prima di tutto morali, ma anche tecniche e professionali per gestire la complessità dello Stato.
La transizione è in corso e, anche nel mezzo della notte più buia per della democrazia, c’è motivo di essere fiduciosi, perché da sempre la natura umana vuole migliorare la propria condizione per lasciare un mondo migliore ai propri figli. Lo ha fatto con successo per migliaia di anni e non sarà un Putin qualsiasi a cambiare il corso della storia, anzi semmai catalizzerà alcuni processi che avrebbero richiesto più tempo per realizzarsi con successo.
Aspettiamo la sua fine con fiducia e combattiamo al meglio per difendere i nostri valori e per evitare che nuovi piccoli e grandi dittatori autoreferenziali arrivino ancora a propinarci le loro menzogne ammantate di ideali affascinanti e totalmente fasulli, irrealizzabili e costosi. Li abbiamo visti all’opera e basta così.
Il provincialismo dell'impero. Michele Serra su La Repubblica il 20 marzo 2022. L'amaca di Michele Serra di domenica 20 marzo 2022.
L'adunata bellica di Putin, per quanto se ne è capito da quaggiù, sembrava soprattutto molto provinciale: cosa che per una potenza con brame imperiali stona parecchio. Dava un'idea di isolamento e di fatica culturale, con quelle vice-star di un vice-rock di imitazione, quelle presentatrici e vallette televisive di regime che sembravano hostess dell'Aeroflot, con tutto il rispetto per le hostess dell'Aeroflot, molte delle quali, conoscendo il mondo, avrebbero potuto dare qualche utile suggerimento per migliorare di molto la scaletta...
La figlia di due mondi. La storia sconosciuta di com’è nata l’Aida, l’opera che unì Italia ed Egitto. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
Il Museo Egizio celebra fino al 5 giugno 2022 la genesi, il contesto storico e le relazioni che hanno accompagnato la creazione dell’opera lirica, un capolavoro frutto del dialogo fra due giganti: Giuseppe Verdi e Auguste Mariette, padre della moderna egittologia scientifica.
“Questa nazione avrà per capitale Parigi, ma non si chiamerà Francia; si chiamerà Europa. Si chiamerà Europa nel XX secolo ma nei secoli seguenti, più trasfigurata ancora, si chiamerà Umanità”. Era il 1867 e nella Paris-Guide scritta per l’Esposizione Universale ospitata nella Ville Lumière Victor Hugo, dall’esilio di Guernsey, nella Manica, dove era stato costretto da Napoleone III, così vagheggiava il futuro del mondo e di una capitale che avrebbe raccolto e fuso insieme l’eredità di Atene, Roma e Gerusalemme.
È da questo afflato universalistico e pacifista, intriso di fiducia nelle umane sorti e progressive, che bisogna partire per affrontare la nuova mostra del Museo Egizio di Torino, “Aida. Figlia di due mondi”, aperta da ieri al 5 giugno, sapientemente curata da Enrico Ferraris. Una rassegna che è soltanto la punta di un iceberg di conferenze, proiezioni e approfondimenti fruibili online partendo dal sito del museo, e che – come fanno notare Evelina Christillin e Christian Greco, la presidente e il direttore dell’Egizio, nell’eccellente catalogo con contributi internazionali edito da Franco Cosimo Panini – permette di immergersi nella storia di un secolo cruciale nei rapporti tra Europa e Oriente, riflettendo sulla complessità dei nodi che ancora avviluppano il presente.
L’occasione sono i 150 anni del capolavoro verdiano, che stranamente nessun grande ente musicale aveva finora pensato di celebrare. Perché, allora, proprio nel museo che, primo nella storia, da quasi due secoli raccoglie le testimonianze della più antica civiltà del mondo?
Beh, intanto, ovviamente, perché lo sfondo dell’opera è l’Egitto dei faraoni. Poi perché all’origine di tutto – autore del soggetto, del progetto dei costumi e delle scene – è Auguste Mariette, un padre della moderna egittologia scientifica, che, partito come insegnante di francese, latino e (bizzarramente) disegno nella natìa Boulogne-sur-Mer, era asceso al Cairo alle massime responsabilità nella tutela e nell’organizzazione del patrimonio archeologico locale. Ma soprattutto perché l’Aida, mettendo insieme musica, documentazione materiale e iconografica, è la prima compiuta rappresentazione artistica della civiltà dei faraoni per quello che è stata, oltre le tendenziose reminiscenze bibliche e gli esotismi di maniera. Punto d’arrivo di un movimento di idee in circolo già da alcuni decenni lungo l’asse tra il Nilo e Parigi.
Tutto era cominciato con la fallita spedizione militare di Napoleone Bonaparte, tra il 1798 e il 1801, che aveva avuto però la conseguenza di liberare l’Egitto dal secolare dominio dei Mamelucchi e aprire la strada a un nuovo governatore ottomano, il viceré Mohammed Ali, che non faceva il pugile ma a modo suo, su un piano culturale, faceva a pugni con il governo centrale della Sublime Porta, per affermare l’identità del Paese e propiziarne l’ingresso nella modernità guardando all’Europa. E segnatamente alla Francia.
Seguirono anni di fitti scambi, con i futuri funzionari egiziani mandati a studiare a Parigi, mentre una spedizione franco-toscana guidata da Jean-François Champollion, il decifratore delle stele di Rosetta, produceva un rapporto per mettere in guardia il viceré dalle razzie dei collezionisti europei, ponendo per la prima volta la questione della tutela. Tutti questi passaggi sono illustrati nella mostra dalla relativa documentazione testuale, con freccette rosse a evidenziare i passaggi chiave.
E si arriva così alla metà del secolo, quando Mariette, dopo aver riempito fogli su fogli di abili caricature in stile Daumier (ampia selezione su un’intera parete), è finalmente riuscito a entrare al Louvre con un piccolo incarico di catalogatore: fin dal ’42, da quando al museo della sua città era arrivato un sarcofago con tanto di mummia, si è appassionato di antichità egizie, e tanto briga finché nel 1850, a 29 anni, trova il modo di farsi mandare in Egitto con un finanziamento di ottomila franchi per acquistare alcuni papiri copti. La missione fallisce, ma l’intraprendente Auguste si tiene i franchi e senza neppure informare il Louvre, e senza i necessari permessi, assume trenta operai e inizia uno scavo a Saqqara.
La fortuna gli arride: seguendo la traccia di una serie di piccole sfingi affioranti dalla sabbia arriva all’ingresso del Serapeum di Menfi, la necropoli dei sacri tori Api, ricca di oltre settemila reperti tosto spediti in Francia. Per Mariette è la consacrazione. Tre anni dopo si sposta nella piana di Giza, scopre il tempio a valle della piramide di Chefren, il faraone della IV dinastia vissuto 4500 anni fa, e la celebre statua del sovrano che ora è una delle vedettes del museo del Cairo. Rientrato in Francia, nel 1854 viene nominato Conservatore aggiunto del Louvre. Ma ormai le sue mire sono altrove.
Mariette vuole tornare in Egitto e sottopone al nuovo khedivé, il viceré Said Pascià, ultimo figlio di Mohammed Ali, un dettagliato piano per la salvaguardia del patrimonio archeologico. Come conseguenza, nel 1858 viene nominato mamur al-antiqat, direttore delle Antichità, e inizia a lavorare al progetto del museo di Balaq, al Cairo. Per quella che sarà la prima collezione egittologica in terra d’Egitto, inaugurata nel 1863, mette a punto una originale narrazione che mescola i criteri scientifici con l’intrattenimento in una moderna idea di comunicazione verso il pubblico più vasto dei non esperti. «Ho cercato una certa mise en scène», spiegherà, «che la fredda regolarità dei nostri musei d’Europa di solito esclude. È certo che, come archeologo, io sarò abbastanza propenso a criticare queste inutili esibizioni che in nessun modo giovano alla scienza; ma se il museo così organizzato piace a coloro a cui è destinato, se questi vi ritornano spesso e tornandovi si inoculano, senza saperlo, il gusto dello studio e, oserei quasi dire, l’amore per le antichità egizie, il mio scopo sarà raggiunto».
Gli stessi criteri Mariette applicò nell’allestimento del padiglione egiziano all’Expo parigina del ’67, quella che sciolse gli entusiasmi universalistici di Victor Hugo, curando ogni dettaglio dell’edificio, concepito come un pastiche di stili e di epoche differenti della trimillenaria storia egizia finalizzato a valorizzarne l’identità culturale rimarcando nel contempo la differenza rispetto al periclitante impero ottomano. Un’anticipazione in chiave architettonica di quanto avverrà di lì a pochi anni con l’operazione Aida.
Ma, appunto: e l’Aida? Ci arriviamo. Prima però bisogna passare attraverso lo scavo del Canale di Suez, avviato da Said Pascià su sollecitazione (guarda caso) di un ingegnere francese, l’amico Ferdinand de Lesseps, e completato nel 1869 dal suo successore Ismail come ulteriore e decisiva tappa nell’apertura dell’Egitto all’Europa e al mondo moderno, nonché ai primi esperimenti di turismo organizzato. Per l’inaugurazione il viceré, che due anni prima all’Opéra di Parigi aveva applaudito il Don Carlos di Verdi, vorrebbe tanto avere un inno del Maestro italiano, ma l’interessato rifiuta la pur lauta offerta perché refrattario ai componimenti d’occasione. Nondimeno, il 1° novembre di quello stesso anno, sarà un’opera verdiana, il Rigoletto, a aprire la stagione del neonato Teatro Khediviale, il primo tempio lirico del Cairo (che andrà distrutto in un incendio nel 1971).
Le premesse del rapporto sono dunque poste. E si concretizzano nei mesi successivi, quando Ismail Pascià, che non demorde dalla sua aspirazione, incarica Mariette di scrivere un soggetto comprensivo di scene e costumi in stile «strictement égyptien»: avvalendosi all’uopo delle sue competenze maturate sul campo e delle principali fonti iconografiche dell’epoca, dalla fondamentale Déscription de l’Égypte di Denon ai lavori di Lepsius, Rosellini, Prisse d’Avennes, Lefebvre. Un progetto in cui le intenzioni politico-ideologiche si intrecciano, alimentandole, a quelle culturali. Come osserva in un saggio fuori catalogo Stefano Baia Curioni, docente alla Bocconi e studioso dei processi di produzione culturale, «l’opera d’arte prende forma come esperienza individuale e collettiva da aspirazioni, attese, conoscenze, contesti che ne determinano profondamente i modi e le forme» ma nello stesso tempo «impone o suggerisce la creazione di mondi e talvolta, con la sua suggestione narrativa, arriva a restituire ai suoi luoghi di origine imprevedibili energie di mutamento e insperabili possibilità di senso».
Ricevuto l’incarico, Mariette si mette al lavoro di buona lena, consapevole delle difficoltà – «Credetemi, per seguire le istruzioni che il viceré mi ha dato, per fare una messa in scena dotta e pittoresca, bisogna mettere in moto tutto un mondo». Ma il gioco vale la candela. Vale l’Aida. Di fronte alla tragica storia di fantasia della bella principessa etiope finita schiava a Menfi in seguito alla sconfitta militare del re Amonasro, che ama ricambiata il giovane comandante egiziano Radamès conteso anche dalla figlia del faraone, Amneris (tutti nomi attestati nelle fonti antiche, appena un po’ riadattati: per esempio Aida era in origine Aita, musicalmente più ostica), e di fronte anche a un compenso esagerato di 150 mila franchi, questa volta Verdi pronuncia il sospirato sì. È lo stesso compositore, in un documento esposto in mostra, a raccontare come infine si convinse, grazie ai buoni uffici di Camille du Locle, direttore dell’Opéra-Comique di Parigi e già autore del libretto di Don Carlos.
Nel giugno del 1870 Du Locle comincia a scrivere i dialoghi in prosa, ai primi di luglio il Maestro si mette all’opera con il poeta Antonio Ghislanzoni per tradurli in versi. Scrupoloso e professionale come sempre, attento a ogni minimo dettaglio che possa rendere più verisimile il risultato finale, Verdi si informa su come vestivano i sacerdoti di Menfi, sulla distanza esatta tra Menfi e Tebe e sul tempo necessario per percorrerla, sulla forma e il suono di quegli strani strumenti musicali che si intravedono a volte nei papiri. Gli viene proposta la “flute egiziana” fatta fabbricare da un certo Fétis, musicologo belga, che in una lettera a un amico lui liquida così: «Io detesto questo Gran Ciarlatano […] perché m’ha fatto correre un giorno al Museo Egiziano di Firenze per esaminare un Flauto antico su cui pretende nella sua Storia Musicale d’aver trovato il sistema della musica antica Egiziana. […] Figlio d’un cane! Quel famoso Flauto non è che un zuffolo a quattro buchi come hanno i nostri pecoraj! Così si fa l’istoria! E gl’imbecilli credono!». Il Maestro si placa soltanto quando gli viene messa davanti quella specie di tromba lunghissima e esile, con un unico pistone, che compare in gran numero nella Marcia trionfale (esposto un esemplare, dal Conservatorio di Torino).
In cinque mesi di lavoro alacre, e nonostante le difficoltà dovute alla guerra franco-prussiana scoppiata in quello stesso mese di luglio, con Du Locle e Mariette chiusi nella Parigi assediata e costretti a comunicare con l’esterno “par ballon”, il libretto è compiuto. Ma la data del debutto deve slittare. Verdi utilizza l’attesa per rivedere e bulinare fino all’ultimo la sua opera. Nelle vetrinette della mostra, le partiture autografe consentono di apprezzare alcuni cambiamenti dalla versione del 1870 a quella definitiva dell’anno seguente. Tra le più rilevanti, l’assenza nell’originale della celebre romanza di Aida “O cieli azzurri, o dolci aure native” e il ridimensionamento della parte di Amneris nella scena finale, che da sei versi (“Riposa in pace / Alma adorata // E perdonata / Possa morir // Sia perdonata / Chi t’ama ancor”) passa a due soli (“Pace t’imploro – martire santo / Eterno il pianto – sarà per me!”), per riequilibrare un’opera che più della principessa etiope ha per protagonista la complessa figura della figlia del faraone.
Il 24 dicembre 1871, al Teatro Khediviale, l’attesa première, assente il compositore timoroso della traversata in quella «bendèta pocia» (benedetta pozzanghera) che è il Mediterraneo. In ogni caso per lui la vera prima era quella fissata per l’8 febbraio ’72 alla Scala di Milano, davanti al suo pubblico e con un cast più prestigioso. Sciaguratamente spoilerata dal critico musicale Filippo Filippi, che aveva seguito le recite al Cairo dandone puntuale entusiastico riscontro sul quotidiano milanese La Perseveranza, con gran dispitto di Verdi che deprecò la mobilitazione di «Giornalisti, Artisti, Coristi, Direttori, Professori et. et… [sic] . Tutti devono portare la loro pietra all’edifizio della réclame, e formare così una cornice di piccole miserie, che non aggiungono nulla al merito di un’opera, anzi ne offuscano il valore reale (se ne ha)».
Come sono cambiati da allora i tempi! Il tempo perso a causa della guerra aveva consentito a Verdi di portare alla perfezione il suo capolavoro, ma l’altra faccia di quel tempo è una gigantografia che campeggia verso la dirittura d’arrivo della mostra: vi si vede Parigi devastata dalle bombe prussiane, ma il pensiero corre inevitabilmente ad altre immagini di questi giorni. Un secolo e mezzo dopo, la storia contraddice il sogno di Victor Hugo (ma ciò non toglie che avesse ragione di sognarlo).
Parenti sergenti. Gabriele Romagnoli su La Repubblica il 16 Marzo 2022.
La prima cosa bella di mercoledì 16 marzo 2022 è il momento preciso in cui chi sta combattendo una guerra si rende conto dell'assurdità che l'ha scatenata. Quale guerra è "civile" e in quale non si cerca di uccidere un simile? Semplicemente, a volte è più difficile accorgersene. Altre volte invece è lampante.
Prendi la Prima guerra mondiale, combattuta in montagna, al confine tra Italia e Austria, su quei crinali che oggi separano, invece, veneti e trentini. Spari tra gente che parlava la stessa lingua. E non solo. Considera allora questo episodio. Il trombettiere Vittorio Murer, di Laste, un paese alle pendici della Marmolada, trombettiere del battaglione Belluno, rientrò da un servizio di pattuglia sul passo Fedaia tenendo per il bavero un nemico fatto prigioniero durante la spedizione. L'uomo appariva più anziano, dimesso nella divisa che gli andava un po' larga.
Il Murer lo trascinò tra i commilitoni fino a condurlo fieramente al cospetto degli ufficiali. Soltanto a quel punto allentò la stretta e presentò ai superiori la conquista effettuata: "Signori, mio cognato!".
"La guerra è la nostra storia. Ma l'avevamo dimenticato". Eleonora Barbieri il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.
Lo scrittore francese: "Per noi l'Europa è pace, però alle radici abbiamo i conflitti, dall'Iliade in poi".
Solo un anno fa, parlando con Mathias Enard, a proposito della letteratura aveva detto: «Scrivere è un viaggio fra la magia perduta e le nostre miserie». Quante miserie ci sono oggi, sotto i nostri occhi, e quanta magia, che sentiamo perduta, di un grande Paese dalla storia immensa quanto i suoi paesaggi. Un anno fa Enard parlava di Oriente e Occidente, il tema al centro di Parlami di battaglie, di re e di elefanti e di Bussola, il romanzo con cui ha vinto il Goncourt nel 2015. Ora è appena stato ripubblicato Zona (da e/o, suo editore italiano), romanzo che racconta di Francis Servain Mircovic, una spia, prima in Medio oriente e poi nei Balcani in guerra negli anni '90. E anche il rapporto fra Russia e Occidente è un altro dei temi cari al romanziere francese, come ben sa chi ha letto il breve (e bellissimo) L'alcol e la nostalgia. Enard si trova in Italia, a Pordenone, perché quest'anno è il protagonista del Festival Dedica (fino al 12 marzo).
Mathias Enard, il suo Zona, appena tornato in libreria, parla proprio di guerra.
«E di guerre, al plurale. Purtroppo la storia, non solo d'Europa ma di tutto il Mediterraneo, è fatta di guerre, da tremila anni a questa parte. Di guerra, di conflitti, di grande violenza».
Il conflitto in Ucraina però ci sconvolge.
«Il fatto è che, forse, l'Europa si era dimenticata della guerra, negli ultimi cinquant'anni. A parte, appunto, l'esplosione di violenza nell'ex Jugoslavia, proprio nel cuore del continente».
Anche quella guerra è stata un po' dimenticata?
«Forse sì, anche se è stata molto violenta e, soprattutto, non è ancora finita. In Bosnia esiste uno status quo, ma non è stata trovata una soluzione al conflitto. Sono ferite aperte che possono essere di nuovo squarciate».
Come è avvenuto ora in Ucraina?
«Esattamente come adesso. Putin aveva voglia di usare la forza per ottenere quello che voleva, e lui vuole un Impero sovietico, in termini attuali. Lo abbiamo visto in Georgia, in Crimea... Ma gli europei non hanno voluto vedere la possibilità di una nuova guerra».
Perché?
«Perché per noi Europa significa pace e, quindi, non abbiamo voluto vedere che invece c'era una guerra».
Del resto, il primo poema d'Europa, l'Iliade, che tanto risuona in Zona, è un poema di guerra...
«Certo, l'Iliade. Ecco, gli ottimisti vedono l'Odissea come la fonte della letteratura europea; quelli come me, purtroppo, alla sua origine vedono l'Iliade. Questi due lati ci sono sempre, anche nella letteratura europea».
Come vede la storia d'Europa?
«Io sono uno scrittore, e vedo, nella storia della letteratura, che alcuni dei grandi romanzi sono stati scritti in tempo di guerra, e la raccontano, insieme alle vittime e alle distruzioni. In Guerra e pace, Tolstoj descrive la guerra e anche la relazione del romanzo con la storia, cioè si chiede perché uno scrittore debba raccontare la guerra e la storia. Ed è, forse, la parte più importante del libro».
Lei ha raccontato anche la Russia.
«Sono stato un paio di volte, ho una grande passione per la Russia e la sua letteratura. L'alcol e la nostalgia è un piccolo romanzo russo».
Un viaggio nell'immensità del Paese.
«È anche un viaggio reale: l'ho scritto a mano, sul treno, viaggiando da Mosca a Novosibirsk. Ci si ubriaca nel suo paesaggio, fra tutti quegli alberi...».
La libertà è uno dei temi del libro. Che cosa pensa della libertà in Russia?
«Credo che la letteratura russa si possa leggere come la storia della battaglia dell'uomo contro lo Stato: gli scrittori russi e sovietici che amiamo, Dostoevskij, Grossman, sono quelli che hanno combattuto la violenza dello Stato».
Zona è ancora attuale?
«Purtroppo credo che l'esperienza del protagonista ci parli proprio del mondo di oggi: di spie, di come le guerre si combattano su più fronti che non si vedono, di quante vittime ci siano di cui non si parla, di distruzioni dimenticate, di gente abbandonata...»
L'Iliade è sempre in noi?
«Del resto, anche la storia dell'Odissea non potrebbe esistere, senza l'Iliade. Altrimenti Ulisse non uscirebbe di casa, starebbe lì con Penelope e il cane. Anche se poi, tornare a casa per trovare tutto esattamente come prima... per me è un po' triste. Credo che i viaggi come quello di Enea siano più interessanti per noi, perché cambiano le cose, ci portano verso l'altro».
Ma lei si aspettava l'invasione?
«No, sono sotto choc. Anche io, come gli altri europei, dovrò cambiare il mio paradigma».
Domenico Quirico per “la Stampa” il 17 marzo 2022.
E se quella che stiamo vivendo, quella che scuce l'Ucraina filo dopo filo, fosse una guerra coloniale, la Russia che vuole tornare impero e che si riprende una provincia perduta? Se proprio in questo carattere si pigiassero i suoi contorni, la ferocia, le tattiche? La guerra si definisce attraverso la lotta stessa che conduce. La Storia è una invenzione a cui la realtà porta i propri materiali: si tratta dunque di ritrovarne le tracce. Spesso stinte, ingiallite, alterate per nasconderle, perennemente prossime all'oblio.
La rapida disintegrazione dell'ordine Usa non sta determinando la rinascita di altri imperi che vogliono riprendersi quello che considerano storicamente loro, con i sudditi, le materie prime, il territorio che offre spazio e sicurezza? Qualcosa di anacronistico ma che non si può avviare senza ricorrere alla violenza. Alcuni hanno già iniziato, altri seguiranno, la Cina forse, quando la potenza militare si affiancherà alla potenza economica e sentirà il bisogno di controllare le risorse che le sono indispensabili e quindi coloro che le detengono?
Avrà bisogno non di fornitori ma appunto di colonie. Nella primavera del 1989 Kapuscinski, il grande giornalista polacco formato alla scuola della letteratura del reale, si lanciò in un viaggio di 60 mila km attraverso le repubbliche dell'Unione sovietica in via di decomposizione, dalla Polonia al Pacifico, dalla Kolyma al Caucaso. Scoprì pagina dopo pagina l'ultimo processo di decolonizzazione del ventesimo secolo, qualcosa che era famigliare a chi come lui conosceva bene l'Africa e l'America Latina.
Non si fece distrarre dalla narrazione della fine del comunismo che monopolizzava l'attenzione dei suoi colleghi, stregati dall'eclissi del dio che aveva fallito. Descrisse la fiammata del nazionalismo, l'intrico etnico creato dalle emigrazioni forzate sotto lo stivale staliniano, la fuga dei russi dai nuovi Paesi che gli ricordava l'Africa bianca degli Anni 60, l'eredità di governi in mano a gran visir incrostati al potere da anni.
La decolonizzazione russa gli apparve violenta e chiara perfino nel cuore dell'«imperium» sovietico: attraversò Donetsk rudemente russificata, Leopoli dove una vecchia gli raccontò la morte dei sei figli durante «la grande fame» orchestrata da Stalin, Kiev dove abbattevano la statua di Lenin e la gente gli diceva che voleva «uno Stato trasparente, buono, democratico e umanista».
Lo scrittore trasse allora una conclusione pessimistica. Aveva verificato di persona l'attaccamento dei russi al loro impero, la eredità difficilmente cancellabile di uno Stato autoritario e burocratico, la corruzione delle mafie, la catastrofe ecologica. Sperava nel miracolo che poteva compiere la disabitudine alla paura e nella vitalità tolstoiana del popolo russo. Trent' anni dopo la guerra in Ucraina ci offre la prova che il suo modesto ottimismo era ingiustificato.
La Russia putiniana vuole riprendersi la colonia Ucraina, perduta, anzi gettata via nei giorni convulsi della dissoluzione dell'impero sovietico. La Bielorussia tenuta in ordine dall'obbediente Lukashenko è rimasta una colonia fedele; secondo Mosca gli ucraini invece si sono ribellati, perché altri avidi imperi momentaneamente dominanti hanno fatto loro promesse, garantito il sostegno per restare indipendenti. Se le spulciamo con un'ottica coloniale le azioni di Putin che appaiono folli, esasperate, entrano in una logica minuziosa e implacabile.
Il suo ministro degli Esteri Lavrov non ci prende in giro quando dice, sfidando l'evidenza, che «la Russia non ha invaso l'Ucraina». Applica i principi della vecchia scuola imperialistica sovietica, età a cui sembra peraltro appartenere: l'Ucraina non esiste perché è una colonia, non appartiene all'Europa, alla Nato, alle democrazie. Non invadiamo, ci riprendiamo quello che era nostro, perché fate tanto chiasso? E' l'applicazione perfetta della logica (neo coloniale) di Yalta aggiornata alla ridefinizione putiniana dei rapporti di forza.
Un piccolo mondo metterniciano da quattro soldi. Bisognerà poi provvedere, dopo averla domata, a disoccidentarla, uniformarla allo stile del nuovo impero, insediare nuovi dirigenti che la controlleranno in nome di Mosca. Il modello è la Bielorussia, non la Finlandia. Non ci sarà bisogno di mantenere truppe di occupazione, affrontare pestifere guerriglie. Troppo costoso.
Saranno gli stessi ucraini a controllare l'Ucraina. Non è una idea originale: gli inglesi per un secolo hanno controllato l'india usando gli indiani. Il dominio indiretto è più efficace e economico. Anche nel definire i contorni delle tentennanti iniziative diplomatiche si applica la logica coloniale: i dirigenti ucraini non esistono, Mosca esige brutalmente che spariscano, fuggano, si arrendano. Non sono interlocutori sono sudditi ribelli, o peggio al soldo di imperi rivali.
Discuterà ma con l'impero Usa per ridefinire il nuovo equilibrio reciproco di cui l'Ucraina è una trascurabile pedina senza volontà propria. Al congresso di Berlino o a Yalta qualcuno ha mai chiesto cosa ne pensavano gli africani o le popolazioni dell'Europa dell'Est? Secondo questo cinismo coloniale il peso della indignazione internazionale è irrilevante. Per i fuggiaschi, le vittime, i profughi la compassione è esaurita da un pezzo. Diventano subito molesti come termiti e non c'è quasi nessuno che spenderà dopo poco tempo una buona parola per loro.
Putin accetta che ci possano essere delle contese con altri imperi nella ridefinizione delle sfere di controllo delle zone grigie del mondo. E' sempre accaduto: il Grande Gioco in passato tra Russia zarista e Inghilterra sulla Via della seta, tra Francia e Inghilterra nella corsa all'Africa. Erano litigi tra complici nello stesso delitto. Perché incallirsi e affrontarsi in modo così assoluto e rischioso?
Per queste piccole beghe di confine, per cui si possono trovare, come accadeva in tempi meno chiassosi, accomodamenti, compensazioni, scambi reciproci? E' solo con Biden che Putin vuole trattare, come ai bei vecchi tempi della Guerra fredda. Gli europei gridano ma non contano nulla, dal suo punto di vista sono dei sudditi coloniali anche loro.
E' lo stile dei tempi. Il carattere coloniale della guerra è scritto nella sue caratteristiche belliche. Le guerre coloniali sono feroci. Con i ribelli o i primitivi si è sollevati dall'obbligo di rispettare convenzioni, bisogna dar lezioni di forza assoluta per cui sono utilissimi ascari arruolati tra le tribù dipendenti. Abbiamo già sentito il linguaggio di Mosca con gli ucraini: non è forse simile a quello degli inglesi con i Mau Mau o dei francesi con gli algerini?
Le guerre della Russia, dalla caduta dell’Urss a oggi. Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.
Dalla Cecenia alla Georgia, gli interventi militari di Mosca dalla caduta dell’Unione sovietica all’invasione dell’Ucraina.
Trent’anni di storia, diciannove conflitti. Un intervento militare ogni diciotto mesi. Quando si dice che la Guerra Fredda finì con la morte dell’Unione Sovietica, bisogna aggiungere che la nascita della Russia ha comportato decine d’altre guerre congelate o al calor bianco. Dichiarate, segrete, mascherate, per procura. Ufficialmente, tutte mosse dal desiderio di restaurare l’orgoglio imperiale, di sedare scontri fra etnie, di proteggere minoranze russe, d’instaurare governi amici.
«Abbiamo sempre un’adeguata risposta militare a qualsiasi avventurismo«, ricordò Vladimir Putin un giorno del 2015, conversando d’Ucraina con Angela Merkel . E la Cancelliera capì bene a che cosa si riferisse: che stia a simboleggiare la vittoria («Za Pobedy»), la pace («Za Mir») o il popolo («Za Nashikh»), la «Z» bianca dello Zar che oggi i soldati di Putin portano sui blindati e sulle divise è la sintesi – perfetta - delle motivazioni che hanno sempre spinto Mosca a organizzare le sue «operazioni militari speciali». Pura propaganda, naturalmente: in Georgia, i russi andarono per aiutare i fratelli osseti minacciati di genocidio, in Cecenia per difendere la cristianità dall’Islam, in Kazakistan per riportare l’ordine sociale. Ovunque, sono regolarmente corsi a chiarire che (sempre parole del leader) «nessuno deve avere l’illusione di poter ottenere una superiorità militare sulla Russia, di poterci mettere un qualche tipo di pressione».
In principio fu la Georgia. Quando due mesi dopo la dissoluzione dell’Urss, all’alba dell’era Eltsin, comincia a rumoreggiare la regione filorussa dell’Ossezia del Sud. È l’inizio d’una guerra civile che dura tre anni, fra i sostenitori del presidente eletto e di quello imposto, coi separatisti osseti che non accettano il nuovo corso di Tbilisi e nel febbraio 1992 ottengono i primi, sporadici appoggi militari di Mosca: l’Orso s’è svegliato, le cancellerie mondiali prima si stupiscono e poi s’allarmano, e pur d’evitare uno scontro aperto con la Russia suggeriscono alla Georgia d’accettare subito una tregua, sottoscrivendo il «pattugliamento» delle truppe russe. È la prima missione all’estero del nuovo Cremlino de-sovietizzato.
Pochi mesi, ed ecco esplodere anche l’altra regione separatista, l’Abkhazia: è una guerra in cui Eltsin si dichiara neutrale, alternando però proposte di negoziato a un vero sostegno bellico agli abkhazi. «Guerra moldo-russa» è invece il nome che, nel ’92, viene dato allo scontro in Transnistria fra le milizie cosacche armate da Mosca e il governo della neonata Repubblica di Moldova: una fulminea guerra che scoppia quasi in contemporanea con un’altra, nell’Ossezia del Nord-Alania, che farà 700 morti e spingerà la Russia a impegnare il più grande dei suoi contingenti, 1.500 uomini. Sono gli anni turbolentissimi d’un impero in frantumi. Del risveglio delle spaccature etniche, delle divisioni religiose, delle aspirazioni democratiche. E le operazioni militari del Cremlino servono, nella maggior parte dei casi, a tamponare braci d’odio che la repressione sovietica aveva tenuto sotto la cenere per più di settant’anni. Com’è nella guerra civile del Tagikistan, oggi dimenticata, ma che provoca cinque anni di devastazioni, quasi 50mila morti, l’esilio d’un tagiko su cinque: il primo conflitto aperto di Mosca, che sostiene la vecchia guardia post-sovietica, contro movimenti islamici organizzati e ispirati dal vicino Afghanistan.
Il primo Vietnam (o Afghanistan) russo è però la Cecenia. «La vergognosa avventura», com’ebbe a definirla l’ultimo leader sovietico, Mikhail Gorbaciov. «La follia allo stato puro», secondo le parole del cancelliere tedesco Helmut Kohl. Che nel suo primo round (1994-1996) si risolve in una sonora sconfitta e nel secondo (1999-2009) si trasforma in una feroce vittoria. La Prima guerra cecena si presenta come molte altre: in tutta l’ex Urss, c’è un 70 per cento d’etnie russe che deve vedersela con un centinaio d’altre nazionalità e con una miriade di repubblichette indipendenti. In Cecenia, la sfida è alla proclamata Repubblica di Ichkeria, 1.600 chilometri a sud di Mosca, che trascina Eltsin in una campagna militare fra le più sanguinose della sua storia. Centomila civili ammazzati, diecimila guerriglieri morti, e nessuno ha mai saputo quanti soldati russi: 5.500 (fonte ufficiale) o quindicimila? Da Pietro il Grande a Stalin, la Cecenia è sempre stata la spina nel fianco russo e questa guerra non fa eccezione, quando l’ex generale sovietico Dzochar Dadaev butta giù dalla finestra il capo locale del Partito comunista e si proclama primo presidente indipendente. La fronda interna, gli attentati, i tentati avvelenamenti non danno risultati e nemmeno quelli che Eltsin spera siano solo «attacchi chirurgici»: il conflitto degenera in una bolgia di missili, prese d’ostaggi, scudi umani, diserzioni, gas, decapitazioni e crimini di guerra assortiti. I ceceni e i vicini ingusci chiamano a raccolta jihadisti da mezzo mondo, molto più motivati delle reclute russe e di un’opinione pubblica che a Mosca è sempre più contraria alla carneficina: «Sarà un bagno di sangue, un altro Afghanistan», prevede prima di dimettersi un viceministro della Difesa, Boris Gromov, e la sua si rivela una profezia facilissima. Su Grozny s’abbatte, nel 1995, la peggiore pioggia di bombe in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale e di Dresda: 35mila civili uccisi, cinquemila dei quali bambini. Le ferita cecena è l’emorragia di Eltsin.
Mentre la repubblica indipendente precipita in un triennio d’anarchia, razzie, mafie locali, rapimenti e regolamenti di conti, a Mosca comincia il countdown. E quando uno Eltsin azzerato dall’alcol e nei consensi consegna il Cremlino a Putin, nell’estate 1999, il primo pensiero del nuovo Zar è chiudere i conti con la Cecenia, col Dagestan (la prima campagna militare di Mad Vlad, vinta in meno d’un mese), con l’Inguscezia e con quanti hanno minato l’orgoglio imperiale. La Seconda guerra cecena è un deserto che Putin, a tutt’oggi, chiama pace: una tempesta di fuoco martellante e senza sconti; una prima linea sceltissima di Spetsnaz, corpi speciali molto più preparati dei fantaccini di Eltsin; un’impotente resistenza di guerriglieri che ci provano solo con ii kamikaze e gli assassinii mirati; un nuovo attacco a Grozny, così devastante da spingere l’Onu a definirla «la città più devastata del mondo». Oggi in Cecenia c’è una dittatura zitta e Mosca, obbediente e fedele, dove sono stati aboliti sia l’incarico di primo ministro, sia i diritti civili. Qualcuno ricorda ancora che la Seconda guerra cecena cominciò nel ’99 – Putin s’era insediato da un mese - con una strana serie d’attentati a Mosca e nelle città russe. Qualcuno non dimentica che la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex spia Alexander Litvinenko rivelarono come ci fosse l’Fsb, l’ex Kgb, dietro quegli attentati. Anna e Alexander, li ammazzarono: e chi parla più della Cecenia, ormai?
C’è una parola che torna sempre nei discorsi di Putin: Kosovo. L’ha pronunciata per giustificare l’intervento a sostegno delle repubbliche russofile del Donbass, come la pronunciò nel 2008 prima d’entrare in Georgia. In Kosovo, i russi c’erano: furono i primi a entrare a Pristina, più veloci degli americani a piantare bandiera su una vittoria che non era la loro. Ma il Kosovo è sempre stata l’extra-dose di sale sull’orgoglio ferito di Mosca: l’indipendenza strappata a un Paese slavo e fratello, la Serbia, un riconoscimento che l’Occidente concesse senza chiedere troppi pareri in giro, men che meno al Cremlino. «Interveniamo in Georgia a sostegno dei russofoni – dice Putin nell’estate del 2008 –, esattamente come la Nato è intervenuta in Kosovo in aiuto degli albanesi». La prima guerra del XXI secolo è rapidissima, fa seguito al bombardamento di Tbilisi sull’Ossezia del Sud (centinaia di morti) e all’accendersi delle ostilità anche in Abkhazia. Sei giorni, e la mediazione francese di Sarkozy ferma i tank russi a pochi chilometri dalla capitale georgiana. Un mese, e la Russia (unica al mondo) riconosce le repubbliche osseta e abkhaza, quel che già fece per la Transnistria: «Ho copiato la soluzione Kosovo», chiude Putin.
Quante divisioni ha Mad Vlad? Viene da chiederselo, ripercorrendo tutti gl’interventi armati di questi decenni, dalla contesa del Batken fra kirghizi e tagiki (1999), agli scontri etnici nel sud del Kirgizistan (2010). Perché c’è stata anche la guerra all’Isis nel Caucaso settentrionale (209-2017), quasi 4mila morti e lo smantellamento dell’Emirato che voleva portare il jihad anti-russo dall’Azerbaigian alla Cabardino-Balcaria. Per non dire dell’alleanza in Siria al fianco di Assad, prima con gli attacchi aerei e poi con le truppe sul campo. Undici anni di guerra, 400mila morti, undici milioni di profughi: fu grazie a Putin che il dittatore di Damasco, ormai allo stremo, riuscì a ribaltare il fronte e a ricacciare fazioni ribelle e jihadisti. Quante divisioni ha Putin, dunque? La comparsa dei mercenari del Gruppo Wagner ha spiegato molte cose: Mosca li schiera un po’ ovunque, dalla Crimea alla Libia, dal Mali al Centrafrica, consiglieri militari senza bandiere e senza mostrine, «omini verdi» che esonerano il Cremlino dall’onere di dichiarare perdite e sconfitte, ma intanto preparano il terreno a (eventuali) interventi più massicci. Li fece esordire in Ucraina, nel 2014, quando invase Sinferopoli e Sebastopoli senza sparare un colpo, per preparare l’invasione di oggi dei soldati con la Z. Stava per mandarli in Kazakistan a gennaio, quando la folla inferocita ha cacciato il dittatore filorusso Nazarbayev. Poi ci ha ripensato: meglio usare le truppe regolari. In Kazakistan è stato un blitz, una decina di giorni, per chiudere veloci la pratica. Sbrigarsi, fu l’ordine perentorio agli omini con la «Z»: c’era solo un mese di tempo, per invadere l’Ucraina.
L'ideologo di Putin: "La Nato e gli Usa non entrino in campo o useremo l'atomica". Luigi Mascheroni il 14 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il filosofo vicino al Cremlino difende l'attacco russo: "È un'azione militare, non un'invasione. Il presidente malato? Disinformazione, mai stato meglio".
Aleksandr Dugin è un filosofo e politologo russo che ha stretti legami con il Cremlino, considerato «l'ideologo di Putin» e descritto come un suo consigliere e ispiratore. Molto letto dai sovranisti, pubblicato in Italia dalla casa editrice AGA di Maurizio Murelli, è un pensatore non allineato che vede la Russia con occhi completamente diversi dai nostri. La sua è una voce scomoda - non esente da parzialità e propaganda - ma utile da ascoltare.
Dugin, Lei è a Mosca ora. Qual è la situazione lì?
«Tutto molto tranquillo. La popolazione appoggia completamente Putin. Non c'è una vera opposizione. E non tanto perché c'è una censura contro chi critica le operazioni militari in Ucraina, ma perché il popolo russo è davvero solidale con il Presidente. L'opinione pubblica qui ha ben chiari gli scopi di Putin ed è preparata perché comprende che la pressione della Nato conto le nostre frontiere è inaccettabile».
Sui giornali e in tv vediamo arresti e proteste a Mosca.
«Vivo nel centro di Mosca. Non c'è nessuno che protesta, a parte piccolissimi gruppi, o singoli individui, e neppure collegati tra loro. La percezione di una protesta interna è frutto della disinformazione dei media occidentali. Si prendono immagini di manifestazioni del passato, in contesti differenti, e si fanno passare per contestazioni».
Ha avuto modo di parlate con Putin di recente?
«Questa è una domanda personale, a cui non rispondo. Parlo di geopolitica, se vuole».
Cosa sta succedendo in Ucraina?
«Per capirlo occorre risalire alle cause e leggere la dissoluzione dell'Urss dentro un contesto non solo ideologico ma geopolitico. E se la geopolitica è la scienza che considera il mondo come il campo di battaglia tra potere marittimo e potere terrestre, in questo senso la fine dell'Urss è stata la vittoria del potere del mare e il crollo del potere della terra. Dopo il 1989 la Russia ha perso autorità sulle sue zone di controllo a favore dell'occidente e l'occidente ha acquistato influenza in questo vuoto, che era la conseguenza della debolezza del potere terrestre. Si è dissolto il patto di Varsavia e si è rafforzata la Nato».
E l'Ucraina è rimasta nel mezzo.
«Quando l'Ucraina si è separata dalla Russia ed è diventata indipendente a poco a poco si è avvicinata alla Nato, ma ha potuto farlo perché negli anni Novanta quella di Gorbaciov e poi di Eltsin era una Russia debole. Ma quando è tornata forte con Putin, la pressione permanente della Nato contro i nostri confini qualcosa che nessuno può negare non è stata più accettabile. Putin è diventato più forte e con una coscienza geopolitica più sviluppata e così gli equilibri sono cambiati. E si è risposto a una situazione intollerabile: prima in Georgia, poi in Crimea, poi nel Donbass, dove l'esercito ucraino era un pericolo costante: la popolazione veniva bombardata e i civili uccisi. Il resto è venuto da sé: l'appello della Russia a non far entrare l'Ucraina nell'area di influenza dell'Occidente è stato rifiutato, e così ecco la guerra».
È una invasione.
«È un'operazione militare. Putin ha spiegato molto bene gli scopi, che sono due. Primo: denazificare un Paese il cui governo ha non solo tollerato ma appoggiato i gruppi neonazisti per dare forza a una identità nazionalista ucraina basata sull'odio contro i russi. Una identità artificiale creata attraverso una ideologia che l'Occidente ha finto di non vedere perché odiare i russi è più importante che odiare i nazisti. Secondo: cambiare il regime politico a Kiev per fare ritornare l'Ucraina nella sfera politica, militare e strategica russa. Attenzione: l'operazione militare in corso non è una guerra contro la Nato. Ma una operazione per difendere una zona di interesse vitale per la Russia, la quale zona a lungo è stata indirettamente occupata dal potere occidentale durante un momento di debolezza di Mosca».
La guerra non sembra andare bene per Putin.
«Non credo proprio. Putin sapeva che l'Ucraina ha un grande esercito e che prendere il controllo di un Paese con 40 milioni di persone non sarebbe stato semplice. Ecco perché le operazioni sul campo si prolungano. Sconfiggere un esercito di 600mila soldati, che ha dalla propria parte l'appoggio e la propaganda di tutto l'Occidente non è facile. Nessuno qui credeva in una vittoria breve. Intanto la Russia però ha il controllo totale dei cieli. La guerra durerà ancora un mese, o più, ma l'esercito russo vincerà. Non c'è alcun elemento inaspettato in questa guerra per Putin».
Gli analisti dicono che Putin è malato, poco lucido, staccato dalla realtà.
«I modelli della disinformazione in casi del genere sono sempre gli stessi: far passare l'idea che un leader politico sgradito sia pazzo, malato, che non controlla più la situazione. Invece Putin è sano, lucido e molto forte. Mai stato meglio».
Lei nei suoi libri distingue un Putin lunare e un Putin solare. Cioè?
«Il Putin solare è il Putin della Grande Eurasia, il Putin patriota e sovranista, l'uomo che rompe con la postmodernità occidentale, contro la globalizzazione. Il Putin lunare è quello invece che scende a compromessi con l'Occidente, il WTO, Davos, l'élite liberale atlantista».
Quello di oggi, che Putin è?
«Iper-solare».
Tutti abbiamo paura dell'uso dell'atomica.
«Questo è l'unico vero problema, anche per noi. Tutto dipende dagli Stati Uniti. Se Washington si limita alle sanzioni, alle pressioni politiche e agli appoggi economici all'Ucraina, insomma se l'Occidente sosterrà indirettamente Kiev tutte azioni legittime non succederà nulla. Se però ci sarà un attacco diretto della Nato, allora la Russia risponderà con mezzi simmetrici. Se ci sentiremo minacciati sul nostro territorio, useremo le armi nucleari».
Lo storico Medvedev: «Putin vuole fare tornare la Russia ai confini di Pietro il Grande». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 6 marzo 2022.
Cosa vuole davvero Putin? Cosa pensano i russi della guerra in Ucraina? Rispondelo storico Roj Medvedev, esperto di stalinismo, che accusa l’Occidente: «Qualunque cosa succede voi fate paragoni con l’Unione sovietica e tornate in modalità Guerra Fredda».
«Qualunque cosa succede, voi fate paragoni con l’Unione Sovietica e tornate subito in modalità guerra fredda». Più che un’intervista, è un corpo a corpo. A novantacinque anni compiuti, nella sua dacia appena fuori città, circondato dalle betulle e da quattordici gatti, Roj Medvedev, lo storico dello stalinismo, «enfant terrible» durante il regime sovietico, strenuo avversario della «americanizzazione» introdotta da Boris Eltsin, non assapora il privilegio del distacco. L’anziano professore, piglio combattivo e testa ancora lucida, ancorché fornita di idee discutibili, si dichiara «idealmente connesso» con quella Russia profonda che costituisce la base del consenso di Vladimir Putin. «Non c’è nulla di male a voler ricreare una Russia che almeno come territorio si richiami ai confini dello zar Pietro il Grande».
Non le sembra che il progetto si stia rivelando tutt’altro che innocuo?
«Forse ne teme le conseguenze economiche, ma la maggioranza dei russi è d’accordo con quel che sta accadendo. Solo che a voi occidentali non piace ammetterlo. E così definite la Russia come un regime, ignorando che alla Duma le risoluzioni vengono prese all’unanimità, anche da quel poco di opposizione che, se non fosse così, avrebbe ogni convenienza al dissenso».
Anche perché chi dissente sembra avere qualche problema.
«Esistono tanti tipi di democrazia, non una sola. Riconosco che la nostra sia molto controllata. Ma con dieci anni appena di democrazia occidentale, negli anni di Eltsin, il Paese stava saltando per aria. E neppure questo a voi faceva piacere. A parte quel periodo, i russi non hanno mai provato la “vostra” democrazia. Non ci sono abituati».
Nella storia russa, quale sarà il posto di Putin?
«È una figura assolutamente particolare. Lui è ossessionato dal confronto con il passato, vuole essere ricordato, diventare una nostra icona. In questo senso, è spinto anche dall’ambizione personale. L’Ucraina è soprattutto il suo tentativo di riscrivere la Storia, deviandone il corso. Certo non è uno zar, figura che per lui assume connotazioni mitologiche. Di sicuro non somiglia a Lenin, ci mancherebbe. Ma neppure a Stalin, al quale spesso viene paragonato con malignità».
Quel che sta succedendo cambierà il suo giudizio?
«La definiscono come un’operazione speciale. Riconosco che è una definizione vaga, ma non si tratta certo di una guerra totale. I russi non la vivono così».
E le vittime a chi le intestiamo?
«Ce ne sono già tante, purtroppo. La guerra è il più crudele degli eventi storici. Noi russi ci siamo abituati».
Cosa ha davvero in testa Putin?
«In questo caso concordo con l’interpretazione occidentale. Vuole mettere la Russia tra le grandi potenze del mondo, indipendentemente dalle posizioni della Cina e degli Usa. Lui pensa quello che dice, e ci crede davvero. Il problema è sempre il solito. Per l’Europa la Russia sarà sempre troppo grande. Per la stragrande maggioranza dei russi, no».
Cosa sarà dell’Ucraina?
«Come sfera di influenza, tornerà geograficamente ai tempi di Gogol, nostro sommo scrittore che era nato in quello che oggi è territorio ucraino, ma tutti considerano russo. La storia non passa mai invano. Neppure Putin pensa di riprendersi l’intera Ucraina. Solo quella russofona. Quanto alla minaccia nucleare, nessuno ci pensa davvero. Sono solo parole».
Cosa le è successo, professor Medvedev?
«Invecchiando si perde la pazienza. Non ne posso più della retorica occidentale. Esistono modelli di società diversi da quello americano. I primi a capirlo avreste dovuto essere voi europei. Ma vi siete sempre rifiutati di riconoscere questo fatto così evidente. Il mondo non è più bipolare, e sta andando in un’altra direzione. Putin e la Russia vi hanno aspettato a lungo. E poi hanno deciso di fare da soli».
Boni Castellane per “la Verità” il 6 marzo 2022.
Il grottesco zelo di Beppe Sala e Gianni Riotta ci spinge a fare l'esatto opposto: riflettere. Di fronte a una guerra, con tutto il carico di morte e distruzione, non è concesso agli esseri umani pensanti di accodarsi alle narrazioni che da entrambe le parti stiamo sentendo. Quella del «Putin pazzo» serve a chiudere i discorsi, ma non a capire cosa accade. In questi giorni il filosofo Alexander Dugin, uno dei principali intellettuali russi, ha fatto una sorta di rassegna delle motivazioni russe dietro questo intervento.
La prima cosa che notiamo è che il riferimento alla «motivazione ufficiale», e cioè la difesa dei russi del Donbass, non viene particolarmente sottolineata. Al contrario Dugin afferma che la vera motivazione consiste in una «contrapposizione con il globalismo come fenomeno esteso». Visto che la «élite liberale atlantista» ha imposto in tutta Europa dei governi pronti al Grande Reset, la Russia ne spezza l'avamposto orientale, contrastandone così il piano generale.
Anche Putin, che si dice ascolti Dugin, nel discorso che annunciava l'inizio della guerra ha fatto spesso riferimento alle «minacce alla Russia» non soltanto in termini meramente militari. Un secondo elemento consiste nel riferimento che Dugin fa all'«esclusione della Russia dalle reti globaliste», cioè la lettura delle sanzioni come di un'occasione per creare la Grande Asia, idea tipica della dottrina duginiana, vista come una sorta di arca russa separata e indipendente dal mondo influenzato dall'atlantismo.
Pare dunque che la saldatura con la Cina e con l'India non solo non sia momentanea ma sia stata pianificata come obiettivo. Su questo gli analisti hanno visioni differenti: se la Russia può senza dubbio vendere gas alla Cina, la Cina non può limitarsi a vendere manufatti alla Russia. Più complessi i risvolti inerenti gli assetti valutari internazionali: si affaccia un nuovo Gold standard russo-cinese in chiave di contrasto al dollaro?
Il terzo, e più profondo, elemento di interesse avanzato dalle considerazioni di Dugin consiste nella presa di distanza dall'idea di «guerra ai valori dell'Occidente». Per secoli la cultura russa si è pensata in contrapposizione all'Occidente: anche la parentesi sovietica si è nutrita di quest' idea. Dugin fa una netta torsione affermando che «l'Occidente non è più quello della cultura mediterranea romano-greca, né il Medioevo cristiano e nemmeno il Ventesimo secolo violento e contraddittorio. L'Occidente ha tagliato le proprie radici ed oggi rappresenta l'anti-civilizzazione».
Seguendo questa idea Dugin arriva a dire che «anche gli Stati Uniti devono seguire coloro che rifiutano il globalismo», ipotizzando una spaccatura orizzontale tra élite globaliste che detengono il potere e popoli che, nella lettura di Dugin, le subiscono senza averle democraticamente investite. Il riferimento ai «valori d'Occidente» però non scende nel dettaglio.
Ma al di là delle inconciliabilità già evidenziate nel dibattito tra Dugin e Bernard Henri-Levy tenutosi nel 2019, l'elemento di maggior interesse sta proprio nel fatto che un pensatore così radicalmente russo usi l'argomento della dissoluzione dei valori occidentali per fare appello al loro recupero.
La parte più debole delle considerazioni consiste nell'attribuire sbrigativamente all'invasione dell'Ucraina la funzione di necessario momento di costruzione di questo nuovo mondo panasiatico. Tuttavia questo pensiero, nazionalistico e unilaterale, insinua un interrogativo che ci mette a disagio: la libertà, il valore più sacro e fondante dell'Occidente, alla luce di ciò che è successo negli ultimi due anni, è ancora un fondamento o è diventata una funzione del «nuovo mondo»?
FRASI SULL'IMPERO.
Impero
Con tale termine si indica un insieme di paesi o territori posti sotto il controllo di una singola entità; può comunque essere usato anche in senso figurato: "Mia sorella governa il suo impero di cosmetici con una conoscenza perfetta!". Avete mai sentito dire: "Questo è l'Impero dove non tramonta mai il sole?". Con questa frase Carlo V d'Asburgo si riferiva ai suoi possedimenti, in quanto il sacro romano impero era così vasto e radicato che si diceva, appunto, che su di esso non tramontasse mai il sole. Anche se sono esistiti molti altri imperi nel passato, come ad esempio l'impero britannico, forse quello più noto oggi viene dai popolari film di Star Wars, in cui i ribelli combattono Darth Vader e il suo malvagio Impero.
“Il Sacro Romano Impero non era né sacro, né Romano, e nemmeno era un impero...”
VOLTAIRE
Dal libro: IMPERO: VIAGGIO NELL'IMPERO DI ROMA SEGUENDO UNA MONETA
“In tutto l’Impero si pagava con una stessa moneta, c’era una sola lingua ufficiale (unita al greco in Oriente), quasi tutti sapevano leggere, scrivere e far di conto, c’era uno stesso corpo di leggi e c’era una libera circolazione delle merci.”
ALBERTO ANGELA
“Ho conquistato un impero, ma non sono stato in grado di conquistare me stesso.”
ZAR PIETRO IL GRANDE
“Un popolo, un impero, un capo.” motto della Germania Nazista
“Gli imperi si forgiano con le guerre.”
BRENDAN GLEESON - Menelao
“Il re d'Italia mi ha dichiarato la guerra. Un tradimento di cui la storia non conosce l'uguale, è stato commesso dall'Italia ai danni dei suoi alleati.”
“Nessun impero violento durò a lungo: solo quello che è moderato resiste al tempo.”
LUCIO ANNEO SENECA
“Nessun impero, anche se sembra eterno, può durare all’infinito.”
“Missione mia è di difender, aiutante la divina misericordia, e all'esterno colle armi la santa Chiesa di Cristo contro ogni attacco de' pagani ed ogni guasto degli infedeli, e consolidarla nell'interno colla professione della fede cattolica.”
IMPERATORE CARLO MAGNO
“Nell'elogiare Antonio ho disprezzato Cesare.”
“Ci volle un po' di tempo prima che arrivassi a realizzare completamente che gli Stati Uniti ritengono scarsamente necessaria la diplomazia. Il potere è abbastanza. Solo i deboli confidano nella diplomazia... L'Impero Romano non aveva bisogno della diplomazia. E nemmeno gli Stati Uniti.”
BOUTROS BOUTROS-GHALI
“La libertà di culto è un’importante strategia per la stabilità dell’Impero. Lasciando libertà di culto, si evitano pericolose tensioni e rivolte. Ognuno, quindi, può credere in ciò che vuole, ma a una condizione: che faccia anche sacrificio all’imperatore. Cioè tutti devono regolarmente seguire i riti in onore dell’imperatore, riconoscendone il...”
ALBERTO ANGELA
“Il papato non è altro che il fantasma del defunto impero romano, che siede incoronato sulla sua tomba.”
THOMAS HOBBES
“Che cosa sono i regni senza giustizia, se non delle vaste imprese brigantesche?”
SANT'AGOSTINO
“Giurò sulle mie parole tutta l'Italia.”
IMPERATORE AUGUSTO
“Senza l'impero saremmo come un tappo di sughero in balia delle correnti trasversali della politica mondiale. È al tempo stesso la nostra spada e il nostro scudo.”
BILLY HUGHES
“Invece di indagare sul perché l'Impero Romano venne distrutto, dovremmo piuttosto essere sorpresi perché ha resistito così a lungo.”
EDWARD GIBBON
“In Cesare ci sono molti Gaio Mario!”
LUCIO CORNELIO SILLA
“Bisogna che i Lombardi dimentichino di essere italiani; le mie province d'Italia non debbono essere unite fra loro che dal vincolo dell'ubbidienza all'imperatore.”
IMPERATORE FRANCESCO GIUSEPPE I D'AUSTRIA
“Un imperatore deve morire in piedi.”
IMPERATORE VESPASIANO
“Se guardiamo alla storia degli Stati Uniti, vediamo che sono stati un impero ben prima che una nazione.”
ROBERT D. KAPLAN
“Un impero è un immenso egoismo.”
RALPH WALDO EMERSON
“La provincia che fu rovinata dalla bigotteria di Giustiniano, fu la stessa attraverso la quale i Musulmani penetrarono nell'impero.”
EDWARD GIBBON
“Il suo atto di decesso fu segnato non dalla deposizione di Romolo Augustolo, ma dalla adozione del Cristianesimo come religione ufficiale dello stato.”
INDRO MONTANELLI
“Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile.”
PLUTARCO
“I milanesi stanno alzando troppo la testa, sire. E' giunto il momento di ricordare loro quanto è affilata la spada dell'Imperatore Federico Barbarossa: Bloccheremo le entrate e tutti gli accessi, li affameremo e se non si arrenderanno l'intera città diventerà una tomba.”
“Qual è il fine della spinta ad allargare l’impero? Serve ad ampliare le entrate, ad avere più risorse per alimentare il dèmo. Ecco il nesso tra consenso e politica imperialistica.”
LUCIANO CANFORA
“L'antica repubblica romana è un miracolo, mai più ripetuto, operato da una dirigenza politica di altissimo livello che ha saputo coniugare consenso e potere e dedicare la sua grande capacità di sacrificio al bene dello Stato.”
GIUSEPPE ANTONELLI
“Un impero fondato sulla guerra deve conservare sé stesso con la guerra.”
MONTESQUIEU
“Non è certo al momento della loro creazione che gli Imperi mancano di uno scopo. Quando, invece, si sono fermamente consolidati, gli scopi si smarriscono e vengono sostituiti da vaghi rituali.”
FRANK HERBERT
“Gli iniqui regni mai durano in eterno.”
LUCIO ANNEO SENECA
“D'acquistare e governare e mantenere gli Imperi sono strumenti 1° la lingua, 2° la spada, 3° il tesoro.”
TOMMASO CAMPANELLA
“Il declino di Roma fu l'effetto naturale ed inevitabile della grandezza smisurata. La prosperità fece maturare il principio di decadenza; le cause di distruzione si moltiplicarono con l'estendersi delle conquiste; e non appena il tempo o gli incidenti ebbero rimosso i supporti artificiali, il tessuto stupendo cedette sotto la pressione del...”
EDWARD GIBBON
“Ho la consolazione di lasciare il vostro regno nel livello più alto di gloria e di reputazione.”
In una lettera scritta a Luigi XIII qualche giorno prima di morire
CARDINALE RICHELIEU
“Un vasto impero deve essere sostenuto da un raffinato sistema di oppressione politica e, al centro, da un potere assoluto, pronto all'azione e ricco di risorse; una rapida e facile comunicazione con le regioni estreme; fortificazioni per controllare il primo tentativo di ribellione, una regolare amministrazione che protegga e punisca, e un...”
EDWARD GIBBON
“Tutti gli imperi non sono altro che potere in azione.”
DAVID HERBERT LAWRENCE
“Tale era l'infelice condizione degli imperatori romani, che, qualunque fosse il loro comportamento, il loro destino era comunemente lo stesso. Una vita di piacere o di virtù, di gravità o di mitezza, di pigrizia o di gloria, portavano comunque ad una tomba precoce, e quasi ogni regno si è chiuso con la stessa disgustosa ripetizione di tradimenti...”
EDWARD GIBBON
“Tale era l'infelice condizione degli imperatori romani, che, qualunque fosse il loro comportamento, il loro destino era comunemente lo stesso. Una vita di piacere o di virtù, di gravità o di mitezza, di pigrizia o di gloria, portavano comunque ad una tomba precoce, e quasi ogni regno si è chiuso con la stessa disgustosa ripetizione di tradimenti e omicidi.”
EDWARD GIBBON
DUE MILLENNI DI GUERRE TRA LA “VIA DELLA SETA” E L’AFGHANISTAN DEI GIORNI NOSTRI. 30 Giugno 2016 di Gabriele Porro su cultweek.com.
“Dragon Blade” di Daniel Lee è un racconto di troni di spade al servizio del grande vecchio Jackie Chan, che con Adrien Brody e John Cusack mette in scena lo scontro fra buoni e cattivi del Celeste Impero e di quello Romano. In “Passo falso” di Yannick Saillet un sergente francese, immobilizzato con un piede su una mina che sta per esplodere, vive la sua personale versione del conflitto di civiltà
Due millenni separano due guerre lontanissime appena approdate sugli schermi. I loro autori hanno modi opposti di raccontarle, in chiave kolossal e psicologica, collettiva e individuale, da show-business e autoriale. Non due capolavori, ma di certo prodotti abbastanza riusciti, tipici nel loro genere.
Costato 65 milioni di dollari, molti dei quali li ha messi Ali Baba, gigante cinese del commercio elettronico (170 miliardi dollari di vendite già nel 2012, più di Amazon e eBay messi insieme), Dragon Blade – La battaglia degli imperi del regista di Hong Kong Daniel Lee, anche sceneggiatore, colloca più o meno nell’anno 48 dopo Cristo, lungo la via della seta, storica arteria commerciale e culturale che univa Asia ed Europa, Occidente e Oriente, un immane conflitto tra due fazioni interne al giovanissimo impero romano: quella guidata dal crudele Tiberius (Adrien Brody, francamente inespressivo) e l’altra capitanata dal leale Lucius (John Cusack, un po’ più convinto), alleata dell’opposto esercito del celeste impero, a sua volta collegato a una serie di variegate sub-truppe locali, coloratissime e irruente. La principale delle quali combatte sotto l’illuminato comando del generale Jackie Chan, superstar del cinema cinese, qui pure produttore esecutivo, e, almeno dal punto di vista del carisma, vera ragione spettacolare del film, oltre alle scene belliche di massa e ai panorami davvero sontuosi. Più in generale, un passo importante per l’industria cinematografica cinese nell’affermarsi come importante polo mondiale dell’entertainment.
Nella città fortezza protetta dal Cancello dell’Oca Selvaggia (citazione?) il generale Huo An, di idee pacifiste, per un po’ sembra in grado, grazie all’aiuto di Lucius, di garantire una certa armonia tra le 36 nazioni ed etnie della zona. Ma l’esercito di Tiberius, in marcia da tempo, è alle porte, e non ha intenzione di fare prigionieri. Tra masse di figuranti orientali (il computer ci avrà anche messo la sua parte, ma sono tanti davvero) e qualche star hollywoodiana, Il wuxia cinese incontra il buon vecchio peplum in un progetto ambizioso, ambientato nell’affascinante deserto del Gobi dove ci sono voluti sette anni per realizzarlo. Se la verosimiglianza storica dell’insieme è tutta da dimostrare (tanto che nei titoli di testa si legge: film ricostruito su personaggi veri, e in quelli di coda appare la frase canonica: ogni riferimento a fatti e personaggi reali è del tutto casuale), è meticolosa la ricostruzione di costumi e tecniche militari. Certo, l’inno alla gloria di Roma, scritto da un musicista di Hong Kong, è cantato in latino da romani che poi parlano in inglese e chissà che ne capiscono i cinesi…, ma i valori fondanti del Jackie-Chan pensiero, sono intatti per i fan: vincono il vigore marziale, il valore dell’amicizia, l’astuzia e l’umiltà dell’uomo comune.
Duemila anni dopo, eccoci a Passo falso, film d’esordio del francese Yannick Saillet, che in passato ha diretto costosi videoclip e spot e qui esordisce nel lungometraggio, riuscendo a trasmettere quel senso di solitudine, paura e inutilità che il soldato massa sul fronte mediorientale incarna. Scampato a un’imboscata, un sergente dell’esercito francese in missione in Afghanistan mette un piede su una mina inesplosa: un altro passo e l’assenza del suo peso sull’ordigno lo farà deflagrare. Distruggendo ogni cosa si trovi nei pressi. Morti tutti gli altri commilitoni, per lui è impossibile muoversi e difficilissimo, nonostante una radio portatile, chiamare aiuto. E di fronte a lui un furgoncino carico di droga su cui giace una donna-ostaggio delle milizie talebane attirano civili e soldati, non proprio benintenzionati nei suoi riguardi. Salvo, forse, un ragazzino…
Non è il primo film recente sull’immobilità a rischio del soldato (dal balcanico No Man’s Land al danese Land of Mine), che è individuale ma anche simbolica, dell’Occidente verso un’insieme di guerre che da anni non riesce a vincere, anzi che non sa da che parte prendere e lo inchioda a una rischiosissima presenza di terra, statica e visibile. Dal punto di vista filmico Saillet gestisce bene l’inevitabile unità di spazio, e tutto sommato anche di tempo della vicenda, in una quasi soggettiva continua del soldato che spazia su panorami anche qui bellissimi (in verità non afghani, ma marocchini). Scritto insieme a Jeremie Galan, che è anche il protagonista, Passo falso non ama le sfumature, i dettagli e i personaggi minori, concentrandosi con una certa efficacia sul suo carattere principale, con non è neanche molto empatico ma trasmette bene un senso di paura e impotente resa. Se il nemico, più che mai indifferente, spietato e “altro da noi”, è quello classico dei film bellici occidentali di oggi, che non una domanda si pongono su come si è arrivati fin qui, di certo non si sfiorano entusiasmi o giustificazioni della guerra di civiltà: che resta, per chi combatte davvero, un terrore sempre subito, francamente incomprensibile, certamente indigeribile.
La battaglia degli imperi va in scena nel 48 avanti Cristo. Roberto Nepoti La Repubblica
Oggi, col genere lottizzato dai supereroi, è sempre più difficile vedere un "epic" ambientato nel passato. Una carenza cui vuol mettere rimedio questa produzione cinese, esempio paradigmatico dei rapporti sempre più stretti tra Cina e Hollywood. Dopo un prologo al presente, La battaglia degli imperi si sposta al 48 avanti Cristo e al deserto di Gobi, dove Huo An (Jackie Chan) comanda una pattuglia a guardia della Via della Seta. Vi arriva anche il generale romano Lucius (John Cusack), inseguìto dall'usurpatore dell'impero Tiberius (Adrien Brody). L'incontro tra la star cinese e i due colleghi americani è bipolare: Huo e Lucius diventano amici; mentre Tiberio si rivela il più spietato degli avversari. Diretto con perizia strategica da Daniel Lee, il film è una via di mezzo tra un peplum e un blockbuster; contiene due canzoni e non si nega neppure qualche spunto umoristico (incongruo) in stile Jackie Chan. Le sequenze sono belle e maestose; peccato che un montaggio incasinato renda il tutto piuttosto confuso. Da La Repubblica, 30 giugno 2016
La Battaglia degli Imperi – Dragon Blade. 2015. Valeria Brunori il 28/06/2016
Recensione su ecodelcinema.com.
"La Battaglia degli Imperi - Dragon Blade" - Recensione: azione, dramma e omosessualità latente.
È sempre un dolore vedere grandi attori in parti ridicole e umilianti, all'interno di film altrettanto ridicoli e umilianti. La sofferenza più grande è certamente la presenza di Adrien Brody, vincitore di un meritatissimo Oscar e noto per la sua innegabile profondità di artista in qualsiasi ruolo intraprenda; anche qui poveretto tenta di offrire una performance forte e coinvolgente, ma viene ostacolato dalla mancanza di coerenza e logica del suo personaggio, Tiberio. Spietato assassino senza scrupoli, Tiberio pronuncia durante il film alcune frasi che, dette da chiunque altro, si sarebbero potute definire tranquillamente 'da checca isterica'; così, invece, messe sulla bocca di Adrien Brody, la sua bravura è tale che ti ci fa quasi credere, alle follie che dice.
Altro caso eclatante è John Cusack, relegato ad un'interpretazione fatta esclusivamente di frasi e sguardi malinconicamente drammatici al cui confronto una qualunque Consuelo delle telenovelas spagnole sembra un'allegra e spensierata casalinga. Il dolore regna sovrano in lui (e anche nello spettatore) e gli bastano cinque minuti di conoscenza per spiattellare tutta la sua anima ad un Jackie Chan comprensivo e zuccheroso come una nonna con la passione per il merletto. Altri personaggi casuali si susseguono - molti dei quali messi nella storia appositamente per farli morire nella battaglia finale - tutti senza un senso, senza una coerenza e senza rispetto alcuno per la dignità. Cambi di idee e di fazione avvengono in pochi minuti e senza ragioni sufficienti per giustificarli, amicizie profonde come il Grand Canyon nascono dopo due parole scambiate in un inglese stentato e il tutto è condito da una patina di omosessualità (neanche troppo) latente.
La Battaglia degli Imperi - Dragon Blade: Jackie Chan predica la pace con una mano e con l'altra fa fuori i nemici
Viene da rimpiangere fortemente i bei tempi in cui Jackie Chan poteva dare sfoggio delle sua abilità al fianco di Owen Wilson, strappando risate spassionate allo spettatore; su "La Battaglia degli Imperi - Dragon Blade" ritroviamo il celebre atleta in perfetta forma fisica, ma con gravi segni di decadenza mentale visto il continuo professare la pace, l'armonia e l'amore, tanto che al confronto Padre Pio sembra un dilettante, mentre fa fuori tutti quelli che si mettono sulla sua strada.
Scene di profonda pietà intersecano i momenti d'azione, raffazzonati e un po' patetici: pietà per gli attori che sono stati costretti a rinunciare in modo così drammatico alla loro dignità e, diciamocelo, alla loro mascolinità. Memorabile la scena in cui romani e cinesi mettono su una specie di Cina's Got Talent con i loro allenamenti di gruppo simili a balletti, che fanno rimpiangere le coreografie di "Step Up".
C'è una storia in tutto questo? Sì: i romani arrivano in Cina e creano problemi, ma i cinesi gli vogliono bene lo stesso perchè hanno passato due settimane insieme a ricostruire un muro.
C'è una morale in tutto questo? Sì: la vita dell'attore dev'essere veramente una schifezza.
Valeria Brunori 28/06/2016
Dragon Blade - La battaglia degli imperi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Trama
Anno 48 a.C.. Una compagnia di sicurezza in Cina (governata dalla dinastia Han), chiamata Squadra di Protezione della Via della Seta, è incaricata di promuovere la pace impedendo le guerre nel miglior modo possibile. Huo An, un generale della dinastia, riesce con successo ad impedire una battaglia tra Indiani e Unni. Il gruppo ritorna nella loro città natale senza nome, dove Xin Qing, la moglie di Huo An (di discendenza uigura) lavora come insegnante per orfani. Il governo, però, scopre che qualcuno del gruppo è stato corrotto, e tutti i membri della squadra vengono mandati ai lavori di ricostruzione di una fortezza in rovina, chiamata Porta delle Oche Selvatiche. Il gruppo, arrivato lì, renderà omaggio ad un generale cinese caduto, lo stesso che li aveva salvati dalla schiavitù, essendo essi schiavi di discendenza unnica.
Poco dopo, la fortezza viene minacciata da un'armata nemica, che si rivelerà essere una legione romana, in cerca di cibo e acqua, e dopo un duello tra Huo An e il generale nemico Lucius, duello terminato in parità, quest'ultimo promette di non attaccare la fortezza in cambio di ospitalità. L'incredibile capacità ingegneristica dei legionari manda avanti i lavori di costruzione ad una velocità tale da rendere contenti gli abitanti della fortezza, divisi in etnie tra cui Cinesi, Unni, Uiguri e Turchi. Huo An ricambia il favore inviando uomini ad assistere gli inviati diplomatici di Lucius che hanno intenzione di dirigersi verso l'Impero partico. Viene tenuta una celebrazione, e Huo An viene nominato centurione ad honorem (cioè onorario).
Lucio rivela che lui e Publio sono in fuga da Tiberio, fratello di Publio, un soldato corrotto che in passato assassinò loro padre, un console romano, e accecò Publio in modo che Tiberio potesse diventare console. Mentre Tiberio si avvicina, alla testa di 100'000 soldati, Huo An insiste ad aiutare Lucio, precisando che Tiberio sta minacciando la Via della Seta ad ogni modo. Poco dopo, mentre Huo An si allontana per trovare dei rinforzi, il membro del gruppo corrotto manda dei soldati cinesi per assassinare Xin Qing e attaccare la Porta delle Oche Selvatiche. La legione è imprigionata nella città commerciale di Kroran (non cinese), dove Tiberio ha scelto di accamparsi. Lo stesso Tiberio riesce ad assassinare Publio, che già era caduto in disgrazia.
Huo An e i pochi soldati cinesi rimasti fedeli s'incamminano verso Kroran; lì, dopo aver finto una resa, si infiltrano e distruggono le gabbie dove sono imprigionati i legionari romani. Huo An in persona irrompe nella cella speciale d'isolamento dove si trova Lucio, ma mentre tenta inutilmente di liberarlo, scoppia un incendio, costringendo Lucio a chiedere a Huo An di "portarlo a casa", e Huo An lo uccide con una freccia, risparmiandogli l'agonia di venire arso vivo. Huo An comanda così i suoi soldati a cui si affiancano i legionari romani per combattere quelli di Tiberio, e, durante la battaglia, le armate di molte altre nazioni arrivano a fianco di Huo An, inclusi indiani, Han, uiguri e turchi, tutti determinati a proteggere la Via della Seta, ma neanche questi rinforzi bastano a distruggere il nemico. A dare il colpo di grazia intervengono i parti, che, avendo in precedenza segnato un trattato speciale con il padre di Publio e volendo quindi vendicare la sua memoria, arrivano in soccorso di Huo An con un enorme esercito. Ben presto, i soldati di Tiberio perdono la loro volontà di combattere e vengono decimati, e Huo An uccide Tiberio in combattimento.
Saputo del coraggio della legione di Lucio, l'imperatore della Cina gli dà il diritto di stabilirsi in una città tutto loro, che verrà nominata Regum dai legionari, che scelgono Huo An come loro comandante; da parte sua Huo An onora il generale cinese Huo Qibing, morto in battaglia, riportando nella città l'altare rubato. Col passare dei secoli, la città di Regum scompare dalla memoria della gente; nel presente, però, si vede una squadra di archeologi asioamericani che scoprono il sito della città, trovandovi delle iscrizioni scritte in cinese e in latino.
Incassi
Dragon Blade è stato un successo al botteghino in Cina, con un incasso di $18.7 milioni nel suo giorno d'esordio e arrivando a $33 milioni il 22 febbraio (arrivando a un totale di $54.8 milioni), il tutto da 132,874 volte d'ingresso in tutti i cinema tutti i giorni e 8.14 milioni di spettatori. Nella sua settimana d'esordio, il film è arrivato a $72 milioni. Nel fine settimana successivo, il film ha perso il 19% dei suoi incassi, arrivando a $45.9 milioni e finendo al terzo posto nella classifica del botteghino, preceduto da From Vegas to Macau II e L'ultimo lupo. Il 15 marzo 2015, Dragon Blade ha raggiunto un totale di $120 milioni nella sola Cina.
Critica
Dragon Blade ha ricevuto un'accoglienza mista, tuttavia favorita da sequenze di battaglie su larga scala ben fatte, dal design di produzione, e dall'insieme di stili di Hollywood e del cinema asiatico orientale. Sul sito web Rotten Tomatoes, il film detiene un indice di gradimento del 34% e un voto medio di 4.3/10. Stando al consenso del sito "Dragon Blade possiede ambientazioni e coreografie davvero belle, ma il cast, pieno di talento, è superato da una storia fragile e da una sceneggiatura maldestra.".
Maggie Lee della rivista Variety ha apprezzato il film per i suoi dettagli tecnici, e lo ha considerato "un film d'intrattenimento colossale con una tecnica solida e punti intelligenti di storia". Clarence Tsui di The Hollywood Reporter ha complimentato il film per la sua qualità nella sceneggiatura per una produzione nata in Cina.
IGN lo ha votato con un 6/ 10, dichiarando: "la storia è scarna, ma Dragon Blade ha delle ottime scene di battaglia grazie alla regia d'azione di Jackie Chan." Gabriel Chong di MovieXclusive.com ha invece considerato il film "veramente orribile sotto ogni aspetto", criticando le prestazioni nel cast e l'inconsistente cambio di tono, dichiarando: "Di fatto, Dragon Blade è un disastro spettacolare, non solo dalla sua stella ma anche dal suo regista, e semmai conferma ulteriormente che le carriere un tempo promettenti delle star di Hollywood John Cusack e Adrien Brody stanno andando alla maniera di Nicolas Cage".
Anche i media indiani sono stati negativi nei confronti del film. Venky Vembu di The Hindu lo ha considerato "un film propagandistico cinese", criticandone i messaggi subliminali e disapprovandone le caratterizzazioni, scrivendo: "Ho visto il film in 3D, ma data la natura bidimensionale dei personaggi, non penso che la terza D avrebbe ulteriormente migliorato la mia esperienza visiva." IANS lo ha persino considerato come "una tortura cinese", ma l'ha apprezzato per la sua coreografica dinamica e le prestazioni di Jackie Chan nei panni del generale cinese Huo An: "Con ampi filmati in azione e scene emotive, [Huo An] è uno dei migliori personaggi che Chan ha interpretato negli ultimi anni."
Dragon Blade – La battaglia degli imperi: la storia vera del film.
Alla base di Dragon Blade c'è una storia tutta italiana antica di secoli, che ha per protagonista una legione romana. Scopritela con noi. Concetta Suriana il 22 Gennaio 2019 su cinematographe.it
Dragon Blade – La battaglia degli imperi può sembrare l’ennesimo film focalizzato sulla storia della Cina e del mondo orientale, ma non è così. La pellicola, che vede tra i protagonisti Jackie Chan, John Cusack ed Adrien Brody, nei panni rispettivamente di Huo An, Lucius e Tiberius, è infatti il risultato di una sapiente produzione cinematografica capitanata da Daniel Lee, ambientazioni da urlo ed una storia vera che proprio in questo momento sta spopolando sul web: quella della legione romana che avrebbe fondato una città in Cina.
Ebbene sì, avete capito bene. Ad ispirare la storia di Dragon Blade – La battaglia degli imperi c’è un fatto storico realmente accaduto, raccontatoci da Plinio e che adesso sta tornando alla luce. La notizia della legione fantasma ormai è conosciuta da tempo, ma rimane avvolta ancora nel mistero che forse solo nei prossimi anni sarà completamente svelato. Intanto scopriamo qualcosa di più su questa legione, che sarebbe arrivata in Cina molto prima di Marco Polo.
Dragon Blade – La battaglia degli imperi: la storia vera che ha ispirato il film
La storia vera che ha ispirato Dragon Blade – La battaglia degli Imperi inizia proprio a Roma, durante il primo Triumvirato. In quel periodo Roma era occupata a combattere i Parti e così Marco Licinio Crasso partì per una spedizione verso la Turchia.
Qui, in seguito alla sanguinosa battaglia di Carre, Crasso perse la vita e la legione di cui era il comandante venne fatta prigioniera e condotta in una zona a nord dell’attuale Afghanistan: era il 53 a.C. Qui la legione vi rimase per un tempo che oggi non sappiamo quantificare. L’unica cosa che sappiamo è che nel 20 a.C., quando venne firmata la pace tra Romani e Parti e Roma prese accordi per la restituzione dei soldati fatti prigionieri durante la battaglia di Carre, si scoprì che la legione era sparita.
Cosa sia successo alla legione fantasma comandata da Crasso durante la battaglia di Carre è un mistero, che forse è riuscito a risolvere Bau Gau, cronista vissuto durante l’impero Han, tra il 206 ed il 220 a.C. Secondo le sue testimonianze, proprio quegli stessi soldati vennero sconfitti da un condottiero cinese nel 36 a.C. e deportati in Cina con lo scopo di difendere la provincia orientale di Gansu. Proprio qui quei soldati sarebbero rimasti fino alla fine dei loro giorni e fondando la città di Liquian, termine che ancora oggi in lingua cinese indica l’essere romani.
Quella della legione fantasma che arriva in Cina e fonda una città sembra una teoria a dir poco strana, se non fosse che gli abitanti di Liquian presentano ancora oggi tratti caucasici: stiamo parlando di capelli biondi, occhi verdi e tratti del viso decisamente più europei, decisamente diversi dal resto della popolazione cinese. Come se questo non bastasse, sembra che da ricerche fatte sul DNA degli abitanti di Liquian il 58% del loro patrimonio genetico sia di origine caucasica.
Una bella storia quella della legione romana fantasma, tanto da poter essere usata come base per un film.
I LADRI DI NAZIONI.
Paraguay, la tragedia di una guerra dimenticata. Quando tra il 1864 e il 1870 il Paraguay combattè da solo Argentina, Brasile e Uruguay la guerra più sanguinosa della storia latinoamericana di fatto annientò ogni prospettiva di potenza storica del Paese. Andrea Muratore il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.
La guerra più sanguinosa d'America si concluse con un solo colpo di pistola sparato sulle rive solitarie dell'Aquidabán Niguí – un ruscello che scorre attraverso una fitta foresta subtropicale in quello che oggi è il parco nazionale Cerro Corá nel nord-est del Paraguay. Dopo un inseguimento attraverso il paese durato mesi, le truppe brasiliane avevano finalmente raggiunto il presidente e comandante militare del Paraguay, il maresciallo Francisco Solano López, che morì in un conflitto a fuoco con loro il primo giorno di marzo del 1870.
"Muoio con la mia patria!" disse il figlio di Carlos Antonio Lopez, ritenuto leader illuminato e costruttore dello Stato a partire dalla capitale Asuncion, e non era un'esagerazione. Sei anni di guerra con cui il Paraguay aveva dovuto affrontare le forze congiunte di Brasile, Argentina e Uruguay avevano letteralmente distrutto lo Stato, causando danni apocalittici portando alla morte circa la metà degli abitanti e alla perdita complessiva, includendo quelle dei territori ceduti, di due terzi della popolazione del Paraguay.
Lopez morì dopo che durante il conflitto circa il 90% dei suoi uomini erano morti in azione, per le ferite riportate o per malattie e fame, in quella che può essere ritenuta una vera e propria guerra totale. Una delle poche tra quelle combattute nel periodo compreso tra la fine delle Guerre Napoleoniche nel 1815 e lo scoppio della Grande Guerra nel 1914. In assoluto la più importante e sanguinosa tra le guerre mai combattute in America Latina dopo la fine del colonialismo spagnolo e portoghese.
Se lo consideriamo in termini proporzionali, non ci sono molti casi come questi nella storia moderna. Forse solo le terribili guerre balcaniche che hanno preceduto la prima guerra mondiale hanno portato in alcuni Paesi a tributi di sangue lontanamente paragonabili. E sul Novecento in complessivo viene spesso citato come esempio di mortalità catastrofica quello che la Russia ha sofferto nella seconda guerra mondiale, con circa 20 milioni di morti. Per fare un paragone, essi rappresentavano non più del 12% della popolazione russa dell'epoca.
Per il Paraguay, che contava 450mila abitanti nel 1864, la scelta del minore della famiglia Lopez di deviare dalla politica modernizzatrice del padre in senso maggiormente assertivo risultò rovinosa. Il Paraguay poteva vantare uno sbocco all'Oceano Atlantico, il controllo di diversi fiumi, reti ferroviarie e telegrafiche e un'industria moderna, ma Lopez attaccò per volontà di egemonia regionale il governo liberale uruguaiano entrando nella locale guerra civile per sostenere l'opposizione conservatrice e, tra il 1864 e il 1865, compì l'errore tragico di invadere sia il Brasile che l'Argentina.
Forte di un esercito pienamente mobilitato, il Paraguay di Lopez occupò la città di Corrientes, in Argentina, e il Mato Grosso brasiliano prima che i governi di Rio de Janeiro e Buenos Aires, alleati con l'Uruguay, formando la Triplice Alleanza gettarono nel conflitto il peso crescente della loro demografia e forza militare. Tra il 1866 e il 1869 la guerra si spostò nei confini del Paraguay e sulla formidabile linea difensiva paraguaiana dislocata nel sud del Paese, incentrata in una serie di forti sui fiumi Paraná e Paraguay, tra i quali primeggiava la fortezza di Humaitá, che resistette fino all'agosto 1868 in una partita bellica sanguinosa che costò la vita a 60mila uomini per parte. Il 5 gennaio 1869 a cadere fu la stessa capitale paraguayana, Asuncion. La sconfitta segnò tracollo e rovina di un Paese che ancora oggi nella sua minorità nell'America del Sud moderna sconta la sconfitta di allora e i successivi sei anni di occupazione militare brasiliana. Nulla più esisteva della fiorente struttura sociale e economica del Paraguay, ridotto a poco più di 150mila abitanti e spopolato della sua popolazione maschile adulta. Si stima che nel 1870 degli abitanti paraguayani solo 28.000 erano uomini adulti e il rapporto tra donne e uomini nelle città era generalmente di circa 4 a 1, ma c'erano posti in cui raggiungeva 20 a 1 e più.
La guerra ha anche lasciato un impatto duraturo fuori terra. Dopo il conflitto, tratti di terra pubblica sono stati venduti a società straniere per pagare il debito di guerra imposto al Paraguay, ha detto Ernesto Benítez, leader del movimento dei piccoli agricoltori."Dal 1870 in poi, il sistema economico dominante è stato quello delle grandi proprietà", ha detto, "questo ha fortemente escluso i piccoli agricoltori e le popolazioni indigene. È un problema storico che ci riguarda ancora".
Il Paraguay ha ancora la più alta disuguaglianza di proprietà terriera nel mondo – circa l'85% dei terreni agricoli è detenuto dal 2,5% dei proprietari – e i piccoli agricoltori e gruppi indigeni affrontano una diffusa mancanza di terra. Almeno il 14% della terra paraguaiana è nelle mani degli agricoltori brasiliani, un gruppo che esercita potere economico e politico. "La guerra ha influenzato notevolmente le nostre relazioni diplomatiche; non siamo quasi mai stati in grado di resistere ai brasiliani", ha detto al Guardian Jorge Rubiani, architetto e storico.
Un'ulteriore prova di questo squilibrio si vede nella proprietà congiunta paraguaiano-brasiliana della diga di Itaipú, l'impianto idroelettrico più produttivo del mondo. La diga, in teoria, dovrebbe fornire uguali benefici ai due paesi, ma uno studio recente ha rilevato che a causa di termini distorti nel Trattato di Itaipú, il Paraguay ha perso 75,4 miliardi di dollari a favore del Brasile dal 1985 al 2018 tra royalties e pagamenti per le forniture a causa delle condizioni dettate dalla minorità politica. Figlia di una sconfitta di 150 anni fa da cui lo Stato non si è più ripreso.
Davide Brullo per “il Giornale” il 28 agosto 2022.
L'acme dello spettacolo accadeva quando afferrava la lancia, esplodeva in un rigoglio di urla. Un tempo lo guardavano con timore, ora, ormai, lo deridevano, per via del cappello con le piume, delle smorfie, della gonnella artefatta. Anche i tatuaggi, che lo ricoprivano dalle palpebre alle caviglie, sembravano stinti, insignificanti. Il 22 settembre del 1822, a Valenciennes, il tempo prometteva pioggia.
Joseph Kabris pareva il nome di un illusionista, ma sopra il piccolo palco un'insegna, dipinta senza gioia, annunciava Le Prince Sauvage, il principe selvaggio. Era diventato un freak, un mostro', come la donna cannone o i gemelli siamesi. Raccoglieva soldi per tornare nella sua isola, perduta nei recessi del Pacifico, diceva, su cui vantava possedimenti e una regalità per lignaggio indiretto.
Non riuscì a realizzare i suoi sogni. Quel giorno terminò lo spettacolo con poco entusiasmo: c'era più gente del solito. Si intrattenne con un giornalista e un bibliotecario, ingolositi dalla sua storia. Diceva di aver lasciato moglie e figli laggiù, alle Marchesi: Amabile sposa, tenera amica,/ Come è possibile? Mi strappano via da te!/ A cosa mi costringe la vita!
Non si sentiva bene, congedò i curiosi, era un po' sovrappeso: un tempo, la sua fisicità, australe, leonina, aveva stupefatto i re. Fu chiamato un medico. Joseph Kabris morì il 23 settembre, alle 5 del mattino, a 42 anni.
Era nato a Bordeuax, nel 1780 si era dimenticato il giorno, il mese, Kabris, icona della vita totale e belluina, degno personaggio di un cupo romanzo di Joseph Conrad, eroe di un tempo in cui l'ignoto era dietro l'angolo di casa, a un morso da qui. Kabris si imbarca, quattordicenne, sulla Dumouriez, che assalta una nave spagnola ed è tratta in arresto da un bastimento inglese.
Da Portsmouth, l'8 maggio del 1795, si aggrega all'equipaggio del London, una baleniera che fa rotta verso il Pacifico. Dopo aver cacciato nella Terra del Fuoco e in Perù, la nave va alla deriva, alle Marchesi, straziata da una tempesta, venne sbattuta con violenza contro una scogliera che si trovava a pelo d'acqua, si infranse e affondò, senza darci il tempo di metterci in salvo nelle scialuppe. Mi buttai in mare e nuotai verso alcuni resti del ponte, sui quali si era già aggrappato un inglese di nome Robert. La versione dell'inglese il cui vero nome risponde a Edward Robarts è un po' diversa: pare che Kabris sia un disertore.
Scoperta dall'esploratore americano Joseph Ingraham nel 1791, Nuku Hiva è una specie di Eden: la vasta baia fungeva da porto naturale per i bastimenti giunti da Occidente. Nessuno osava sfidarne le vaste foreste, bituminose di nebbie. Si mormorava che i nativi, ricoperti da tatuaggi sacri, aggressivi, praticassero il cannibalismo. Anche Kabris e l'inglese, più vecchio di lui di dieci anni, rischiano di diventare il pasto della tribù che abita Nuku Hiva: "Avevamo di fronte ai nostri occhi la clava con cui avrebbero messo fine alla nostra misera esistenza...."
Mossa a pietà, colpita dall'audace avvenenza di Kabris, la figlia del re implora il padre di risparmiare la vita agli stranieri. Messo alla prova, Kabris si dimostra guerriero capace; pressoché analfabeta, impara la lingua degli indigeni; naturalmente, convola a nozze con la figlia del re. La corazza tatuata sul pettorale destro testimonia il pregio del marinaio francese, ormai vice re di quest' isola, e capo delle milizie regali; il sole inciso sulle palpebre ne sancisce il rango di giudice.
L'idillio di Kabris termina nella primavera del 1804: una nave russa guidata da Adam Johann von Krusenstern, ammiraglio della Marina Imperiale Russa in esplorazione nel Pacifico, fa scalo a Nuku Hiva. Kabris viene assunto come intermediario con gli indigeni, poi imbarcato con l'inganno così dice lui verso Petropavlovsk, l'Estremo Oriente russo.
Comincia qui l'ennesima vita di Kabris, che dopo aver attraversato la Siberia approda a Mosca e a San Pietroburgo, nel 1807, al cospetto dello zar Alessandro I. Kabris diventa l'attrazione della corte russa, viene studiato, disegnato, interrogato. Il ritratto più affascinante lo vede in posa marziale, mentre maneggia una lunga fionda, i tatuaggi riprodotti con accuratezza: Cabri français naturalisé à Noukhaïwa entra nei libri dell'epoca, ad esempio ne L'Océanie en estampes di Jules e Édouard Verreaux, edito a Parigi e a Londra nel 1832.
Al pubblico, Kabris descriveva la sua vita tra i selvaggi, dove la superstizione governa ogni cosa, si ricorre alla stregoneria per uccidere il nemico, ci si impegna in guerre memorabili e spaventose, il cui esito garantisce la sovranità di una tribù. Intorno al 1817 non memorizzava mai le date cominciò l'esistenza raminga dell'uomo di spettacolo, di fiera in fiera, rivivendo la sua vita passata, scrive Christophe Granger in Joseph Kabris ou les possibilités d'une vie, studio biografico pubblicato da Flammarion.
Nuku Hiva, nel frattempo, era diventata terra di conquista statunitense, poi francese: l'Eden si era infranto. Vent' anni dopo la morte di Kabris, attracca nell'isola Herman Melville. Poco più che ventenne, Melville diserta dall'Acushnet insieme a un altro marinaio, Toby Greene.
Resterà nella foresta per un mese, è l'estate del 1842, prima di impiegarsi su una baleniera australiana, la Lucy Ann. L'uomo che riemerge dalla selva è un altro: Nuku Hiva farà da sfondo ai primi romanzi polinesiani di Melville, Typee (1846), Omoo (1847), Mardi (1849). Le edizioni Magog hanno raccolto in unico libro, specie di esotica fratellanza, la breve autobiografia di Kabris, stampata a Ginevra nel 1820, e un'antologia di passi esemplari, ritradotti, da Typee.
Neppure Melville farà ritorno a Nuku Hiva. Dimenticato da tutti, restava ancorato a quelle isole. Così testimonia la nipote, Eleanor Melville Metcalf: Nell'angolo c'era una grande poltrona dove lui si sedeva sempre quando lasciava i recessi del suo oscuro mondo privato. Gli salivo sulle ginocchia, mi raccontava delle storie fantastiche di cannibali e isole tropicali. Sarebbe morto poco dopo, soltanto un giornale ne ha riportato il necrologio, eppure quarant' anni fa la comparsa di un suo libro era un evento letterario, appunta un giornalista del New York Times, il 2 ottobre del 1891.
Ognuno ha il proprio segreto, la propria vita gemella, incompiuta, sognata a stento: quella di Melville è sepolta a Nuku Hiva.
Da “il Giornale” il 28 agosto 2022. - Il testo è tratto da: Joseph Kabris-Herman Melville, Nuku Hiva, Magog, 2022; la traduzione è di Luca Orlandini.
Il clamore del nostro arrivo attirò quasi subito l'intera popolazione di queste terre. I più curiosi furono gli uomini, che continuavano a pizzicarci la pelle, per stimare l'adeguatezza del nostro peso e capire se potessimo essere di loro gusto.
Da lì a poco si presentò il loro cuoco, che, dopo altre vessazioni, ci fece trasferire a Nuku Hiva, dove risiedeva il Re, per essere messi a sua disposizione.
Arrivati al Palazzo di questo sovrano, che era edificato su un telaio di legno di bambù, canne secche e foglie di banano che lo ricoprivano, vi soggiornammo per quattro giorni. Allora venne deciso che saremmo stati sacrificati alla montagna delle Palissades. Il quinto giorno fummo condotti lì, preceduti da una folla di nukuhivani che danzavano di fronte a noi, in segno di giubilo. Giunti sul luogo, fummo legati con trecce di corteccia d'albero.
Attendavamo che giungesse il sovrano. E infine arrivò, accompagnato dal figlio e dalla figlia, per la prima volta testimone di un simile supplizio. Questa si mostrò sensibile alle nostre suppliche, e prese a cuore il nostro terribile destino. Così volle intercedere per noi presso il padre. Fummo ricondotti al Palazzo di Nuku Hiva, con gran rammarico della folla che ci circondava, la quale vide disilluso il proposito di farci servire a un atroce banchetto.
Due mesi dopo il nostro naufragio, Robert, l'inglese, il mio compagno di sventura, sposò una nativa del luogo; io stesso, più felice, mi sposai due mesi dopo. Mi guadagnai, senza riserve, la benevolenza di Walmaiki, la figlia del Re. Lei stessa mi confessò candidamente la passione che nutriva per me, e ne parlò al padre. Qualche tempo dopo ebbi la fortuna di diventare suo consorte.
La cerimonia del nostro matrimonio si tenne in alta montagna. Walmaiki fu adornata da una piccola corona composta dalle più preziose conchiglie dell'Isola, da un braccialetto prodotto dal pelame della corteccia di cocco e una veste creata con la corteccia d'albero, su cui avevano fissato, con la gommaresina, delle scaglie di pesce dorate.
Il sacerdote del Sole ci seguiva, e la processione si concluse con i capi tribù e la guardia reale. La guardia reale era composta da cinquecento uomini armati di clave rivestite da denti di squalo e ossa di pesci.
Compagnia delle Indie. Navi, cannoni... ed esattori per "rubare" un continente. Eleonora Barbieri il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.
William Dalrymple ci racconta affari, truffe e successi della prima mega corporation (armata) nella Storia. "Una società con soli 35 impiegati riuscì a piegare un impero".
William Dalrymple è nel giardino di casa sua, una fattoria nei pressi di Delhi, tra le frasche, le sdraio e la cagnolina che gli salta in braccio ogni tanto. Da anni vive in India, il Paese che studia dai tempi di Cambridge e che, da storico, ha raccontato in un «quartetto» a cui ha iniziato a lavorare nel 1999 e che ha terminato in vent'anni: dopo Nella terra dei Moghul bianchi (Rizzoli, 2002), L'assedio di Delhi (Rizzoli, 2007) e Il ritorno di un re (Adelphi, 2015), ora arriva in italiano Anarchia (Adelphi, pagg. 634, euro 34, traduzione di Svevo D'Onofrio). In realtà, come spiega, si tratta «del primo libro da leggere», dal punto di vista cronologico: in esso, infatti, Dalrymple tratteggia, anche con fonti inedite (cronache Moghul e scritti persiani tradotti per la prima volta da Bruce Wannell, «morto di cancro alla fine del libro») «L'inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie Orientali», ovvero di una delle prime Società per azioni della storia che, dal 1599 (anno della fondazione, con successiva «patente regia» di Elisabetta I di muovere guerra...) cresce fino a diventare «una potente multinazionale» alla quale, nella seconda metà del Settecento, riesce «un colpo di Stato aziendale senza precedenti: la conquista militare, l'assoggettamento e il saccheggio di vaste aree dell'Asia meridionale». In cinquant'anni.
William Dalrymple, come è nato il suo amore per l'India?
«Sono venuto qui per la prima volta a 19 anni e poi mi sono trasferito. Ormai vivo qui, è meraviglioso, anche se non ho mai tagliato i ponti del tutto con Londra e la Scozia: torno sempre in estate, quando ci sono i monsoni».
I Dalrymple citati in varie parti del libro sono suoi antenati?
«Sì, tutti. La mia famiglia apparteneva all'aristocrazia non di alto rango: aveva aspirazioni sociali molto superiori al proprio budget... Così i figli venivano spediti in India, generazione dopo generazione, a cercare fortuna. E poi, grazie allo sfruttamento avvenuto in India, con quelle ricchezze i miei antenati si sono trasferiti in Scozia. Anche Calasso amava molto l'India: mi manca, questo è il mio primo libro pubblicato da Adelphi senza di lui».
È dall'India che proviene anche una sua antenata, che la imparenta alla lontana a Virginia Woolf?
«Una mia bis-bis-bisnonna e la sua erano sorelle, indiane entrambe. Molti impiegati della Compagnia sposavano donne indiane».
Una delle parole chiave del libro l'ha citata poco fa: «sfruttamento». Però questa è una storia particolare di sfruttamento...
«È una storia molto bizzarra, perché lo sfruttamento non è stato portato avanti da uno Stato nazionale: la colonizzazione non è avvenuta tramite il governo, l'esercito o la marina, bensì è partita da un piccolo ufficio di broker di Londra».
Piccolo quanto?
«La Compagnia delle Indie Orientali era una società con 35 dipendenti, con sede in un edificio modesto di Londra. Nel Seicento la Gran Bretagna non era una potenza economica. Ma, attraverso l'avidità e la crudeltà, e una strategia militare efficace, in cinquant'anni, dal 1756 al 1803, quella società conquista uno stato indiano dopo l'altro e, infine, tutto l'Impero Moghul. Che all'epoca era il più ricco del mondo».
In cifre?
«Il 40 per cento del Pil mondiale proveniva dall'India e, in particolare, dal Bengala, che aveva un'industria specializzata e di altissima qualità».
La Compagnia che cosa faceva?
«Gli inglesi erano i marinai dei Moghul: trasportavano il cotone, la seta, i broccati, le spezie, la polvere da sparo... E poi l'oppio in Cina, e il tè a Boston. Ed è così che, da piccolo giro d'affari, la Compagnia divenne una gigantesca corporation globale».
Con potere militare.
«Erano così furbi che non conquistarono l'India con dei soldati inglesi, bensì con soldati locali, pagati coi soldi presi in prestito dai banchieri locali. Nel 1803, la Compagnia aveva un esercito di duecentomila uomini, il doppio di quello britannico. Una storia bizzarra, appunto».
Che legame c'era con la politica?
«Le relazioni con la politica c'erano ma, nelle sue conquiste, la Compagnia agiva da sola. Poi, nel 1770, ci fu una carestia in tutta l'India, con tre milioni di morti. A quel punto, la Compagnia iniziò ad andare male».
E che cosa accadde?
«Il governo inglese la salvò, con una operazione di bailout: come Lehman Brothers, era semplicemente too big to fail. E così, nel 1774, da privata la Compagnia diventò semi-pubblica. Fino ad allora era stata come Tesla, o Microsoft, dopo diventò al cinquanta per cento dello Stato, fino a che poi fu nazionalizzata».
Quanto è attuale questa storia?
«Molto. È interessante per noi, che siamo preoccupati dalle multinazionali e dal loro potere, perché è la storia di una società che ha più soldati di una nazione: immaginate che Musk abbia i missili, o Google i tank, o Microsoft i sottomarini... Ecco, la Compagnia era una corporation con le armi».
Era all'avanguardia anche nell'attività di lobbying.
«Nel 1693 dei membri furono scoperti a offrire soldi ai parlamentari, per corromperli; ci fu uno scandalo, e i vertici furono arrestati. Così diventarono più sottili nel fare lobby...».
Come?
«Chi tornava dall'India pieno di ricchezze si comprava un rotten burrough, uno dei borghi putridi, per essere eletto in Parlamento: così si formò una specie di partito, un po' come la lobby delle armi negli Stati Uniti oggi. Inoltre, metà dei parlamentari possedeva azioni della Compagnia, quindi essa era doppiamente protetta. Ha anticipato tutto ciò che più temiamo delle multinazionali».
Che altro?
«Nell'anno della carestia in India, mentre le persone morivano, anziché spedire cibo la Compagnia mandava soldati a raccogliere le tasse nei villaggi. E a Londra, all'assemblea annuale, i soci si aumentarono i dividendi. Ricorda qualcosa?».
Anarchia racconta questa storia come un dramma, con eroi e antieroi...
«Soprattutto con moltissimi villain...».
Robert Clive, l'uomo delle conquiste militari, è il peggiore?
«Clive è il più crudele, il più maligno e il più astuto di tutti. Vince ogni battaglia, terrorizza i nemici, è furbissimo. L'immagine che si contrappone alla sua è quella di Shah Alam, il principe Moghul, bello, affascinante, che scrive poesie in quattro lingue, ma perde ogni battaglia che combatte. Clive è ignorante, ma è uno stratega brillante. Shah Alam è il suo opposto: è l'unico eroe della vicenda, ma perde, e muore cieco. Una storia tragica».
L'India era ricchissima, ma gli inglesi vi entrarono per caso...
«Sì, perché gli olandesi avevano sconfitto gli inglesi ed erano arrivati per primi nelle isole delle spezie, in Indonesia. Così, nel 1640, come una start up la Compagnia cambiò commercio, e si rivolse ai tessuti in India, che si rivelarono poi una fonte di guadagno assai migliore, sebbene non per gli indiani».
L'anarchia del titolo ha fatto nascere anche un genere letterario, gli 'Ibrat Nama, che cita ampiamente nel libro. Di che si tratta?
«Sono i cosiddetti libri di ammonimento, nati dopo la caduta dell'Impero Moghul, che fu dovuta alle sue divisioni e alle guerre civili, e che fu vissuta dalla popolazione un po' come la fine dell'Impero Romano, un'era di anarchia appunto, di rovina, di battaglie. Tutti pensavano che il mondo fosse giunto alla fine e nacquero molti di questi libri apocalittici. Finora non erano mai stati utilizzati come fonte dagli studiosi; Bruce Wannell, un uomo dal talento straordinario, li ha tradotti per la prima volta dal persiano e ora possiamo leggerli anche noi».
Sono testi bellissimi.
«Sì. E, finalmente, la storia della colonizzazione britannica in India non viene raccontata solo da fonti britanniche, bensì dalla voce delle persone sfruttate e saccheggiate. Credo che i memoriali, le lettere e i resoconti di parte indiana siano uno dei contributi più importanti del libro».
Dice che loot, bottino, è una delle prime parole inglesi mutuate dall'hindi.
«Per dare l'idea del bottino: quando gli inglesi entrarono in India, essa rappresentava il 40 per cento del Pil mondiale, e la Gran Bretagna il 7; quando ne sono usciti, nel '47, i britannici controllavano circa il 40 per cento del commercio mondiale, e l'India una quota a una sola cifra... Questo è stato l'Impero britannico».
C'è stato solo del male?
«No. Sono state fondate città come Bombay, Madras e Calcutta; il Paese, da disunito e diviso in pezzi, ne è uscito riunito e modernizzato. Ma tutto questo non è avvenuto per amore dell'India: strade, porti e città sono stati fatti dall'Impero per sfruttare. Ogni Impero è così. E oggi anche gli inglesi si stanno accorgendo dei costi subìti e del male compiuto nel nome di esso».
Quando Cavour portò i piemontesi a combattere in Crimea. Giorgio Enrico Cavallo su Il Corriere della Sera il 15 aprile 2022.
C’è un pezzo di Piemonte nella storia della Crimea, il territorio conteso nel sanguinoso conflitto fra l’Ucraina e la Russia di Vladimir Putin. L’obelisco di corso Fiume, a Torino, ci ricorda che nel 1855 l’esercito di Vittorio Emanuele II finì a combattere proprio in Crimea, sul lontano Mar Nero, spinto dalle ambizioni internazionali del conte di Cavour. Sono celebri le illustrazioni che ritraggono i nostri Bersaglieri sul campo di battaglia in riva al fiume Cernaia, un piccolo corso d’acqua della Crimea, di cui fa memoria l’omonima via Cernaia nel centro di Torino. I soldati piemontesi si spinsero fin là, alleati di Francia e Inghilterra contro la Russia per il possesso della penisola di Crimea, piccolo ma strategico fazzoletto di terra sul mare.
Dal tempo del matrimonio dello Zar Ivan III (1440-1505) con Sofia Paleologa, la Russia riteneva di essere investita di una grande «missione»: difendere i cristiani d’Oriente dalla minaccia musulmana. Era ovviamente un’affermazione politica, più che religiosa, ma veniva tirata fuori dal cilindro di tanto in tanto per ribadire la supremazia della Russia sul Medio Oriente. Possedere la Crimea, sul crocevia fra oriente e occidente, era un’ossessione degli Zar russi, che l’avevano annessa nel 1783.
A metà dell’Ottocento gli interessi della Russia andarono a scontrarsi con le strategie geopolitiche della Francia e dell’Inghilterra. La questione dei cristiani orientali divenne oggetto di scontro diplomatico con la Francia di Napoleone III, perché anche Parigi intendeva farsi portavoce delle istanze degli armeni e dei cristiani ortodossi nell’impero turco. Il fatto è che i turchi, tra la vicina Russia e la lontana Francia, scelsero di schierarsi con la Francia. E la Russia si irritò.
Fallita la fase diplomatica, lo Zar Nicola I di Russia ordinò al suo esercito di occupare i deboli principati danubiani (nelle attuali Romania e Moldavia), che erano vassalli dei turchi. Ieri come oggi, l’iniziativa della Russia mise in allarme gli europei: fin dove si sarebbe spinto Nicola? E quanto era potente il suo esercito, considerata la sterminata vastità e le immense risorse dell’impero russo? I turchi, spalleggiati da Francia e Inghilterra, dichiararono guerra ai Russi nell’ottobre 1853. E fu così che nel conflitto entrarono anche le potenze occidentali inviando soldati nelle regioni del Danubio e in Crimea.
La forza militare dei turchi, degli inglesi e dei francesi era superiore al pur numeroso esercito zarista. La guerra, si diceva nelle capitali d’Europa, sarebbe durata poco: giusto il tempo di dare una bastonata allo Zar. Si pensava che le armi sarebbero state deposte in fretta e che sarebbe stata convocata presto una «conferenza di pace», per ridefinire gli equilibri politici e i giochi di forza fra Europa e Medio Oriente.
Il conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, pensava che la conferenza di pace avrebbe offerto una buona occasione per ragionare, non solo sul Medio Oriente, ma sul futuro dell’Europa e dell’Italia, la penisola divisa, che i Savoia volevano unificare. Il problema era trovare il modo di sedersi al tavolo delle trattative. Si poteva fare? Sì, bastava partecipare alla guerra dalla parte dei vincitori. Cavour non aveva dubbi: i russi sarebbero stati sconfitti. Bisognava mettere in conto qualche morto e Cavour decise che ne valeva la pena: un pugno di morti fra i soldati piemontesi era il prezzo da pagare per sedersi al tavolo dei vincitori.
Prima dell’avventura in Crimea, i russi e i piemontesi si erano già incrociati su altri campi di battaglia. Nel 1799 il generale Aleksandr Vasil’evic Suvorov, grande ufficiale dell’esercito zarista, aveva cacciato i francesi dal Piemonte. Poi tanti giovani piemontesi avevano servito Napoleone, loro malgrado, partecipando alla disastrosa campagna di Russia nel 1812-1813.
Nel 1853, allo scoppio della guerra di Crimea, il ricordo della Russia in Piemonte era piuttosto fresco. A un certo punto sembrò imminente l’ingresso in guerra dell’Austria e fu allora che Cavour scese in campo. Riteneva pericolosissima una eventuale iniziativa dell’acerrima nemica: se si fosse alleata con la Francia, al piccolo Piemonte, stretto in mezzo alle due potenze, sarebbero state tarpate le ali e i sogni di una espansione sabauda nel Nord Italia sarebbero stati vanificati.
Nel gennaio 1855 Vittorio Emanuele II firmò l’accordo per inviare in Oriente un corpo di spedizione piemontese, che partì nel mese di aprile, prevalentemente su navi britanniche. Sulla pirofregata Governolo salpò il protagonista della missione sabauda, il generale Alessandro La Marmora. Si rivolse ai soldati con parole diffuse a mezzo stampa, parlando di «guerra nobile e generosa».
La partenza del contingente sabaudo avvenne in piena crisi politica. Il ministro degli Esteri Giuseppe Dabormida era contrario a un’azione militare senza garanzie per il Regno di Sardegna e si dimise in quello stesso gennaio 1855. Mentre i soldati salpavano da Genova, anche Cavour rassegnò le dimissioni da primo ministro per via della cosiddetta crisi Calabiana (un durissimo scontro tra progressisti e cattolici), ma nel giro di pochi giorni tornò al potere guidando il suo terzo Governo.
Fuori dalla retorica risorgimentale, occorre osservare che il contingente militare spedito da Cavour in Crimea era molto limitato e la spedizione venne funestata da avvenimenti luttuosi e ingloriosi. Degno di nota fu il contingente dei bersaglieri piemontesi, che si segnalò nelle poche azioni belliche: poche perché l’esercito dei Savoia si dimostrò inadeguato e per lo più i 18 mila uomini (3 mila in più di quanti richiesti dall’accordo con gli alleati) inviati da Cavour rimasero «in panchina». I subalpini non furono impiegati nemmeno nel lungo e sanguinoso assedio di Sebastopoli. Dunque, una spedizione poco dolorosa? Macché: alla fine il bilancio in termini di vite umane fu elevato, in rapporto al continente spedito al fronte. I piemontesi piansero oltre 2 mila caduti, quasi tutti per il colera.
Al tavolo delle trattative di pace, apertosi a Parigi il 25 febbraio 1856, sedettero le potenze vincitrici e la Russia sconfitta. Tra i vincitori, anche il piccolo Piemonte sabaudo, rappresentato dal conte di Cavour. Re Vittorio Emanuele, galvanizzato per la vittoria, reclamava delle acquisizioni territoriali. Napoleone III sembrava favorevole a ricompensare il Piemonte con il Ducato di Parma, ma non se ne fece nulla, anche perché, per non spiacere all’Austria, il piccolo Regno di Sardegna finì in un angolo anche nelle trattative.
Sulla guerra in Crimea, Cavour si era giocato la reputazione: doveva per forza portare a casa qualcosa dal congresso di Parigi. Qualsiasi cosa. A Parigi venne messo in discussione l’ordine europeo stabilito con il Congresso di Vienna e Cavour ebbe la soddisfazione di mettere sul tavolo anche l’Italia. Una «tornata» venne dedicata proprio al «caso Italia»: si discusse di come stabilire un nuovo equilibrio nella nostra penisola. Il Piemonte si legava sempre più alla Francia e alla Gran Bretagna gettando le basi per gli avvenimenti bellici degli anni a venire: le guerre che avrebbero portato all’unificazione nazionale.
A Torino, la partecipazione alla guerra della lontana Crimea fu celebrata con intitolazioni e monumenti, come quello di piazza Crimea al fondo di corso Fiume, l’obelisco eretto nel 1892 in gusto umbertino su disegno di Luigi Belli. L’intero quartiere attorno all’obelisco ricorda la guerra del 1855: è il Borgo Crimea, nel quale la toponomastica celebra un gran numero di battaglie risorgimentali. Corso Sebastopoli celebra la città-simbolo del conflitto, assediata per un anno dall’ottobre 1854 al settembre 1855. Ma c’è soprattutto via Cernaia, una delle vie più importanti del centro storico: ricorda la battaglia combattuta su un fiumiciattolo della Crimea, lungo 34 chilometri. Un piccolo fiume passato alla storia.
Basta con le bugie sul colonialismo italiano in Africa! Di Emanuele Beluffi il 4 Maggio 2022 su Cultutaidentita.it.
Alberto Alpozzi è un fotografo-giornalista freelance specializzato in reportage in aree di crisi e fotografia per l’architettura. E’ stato in Afghanistan come fotografo embedded per documentare la missione Isaf, in Kosovo al seguito della K-FOR, in Libano e sulla nave Zeffiro della Marina Militare Italiana nell’ambito della missione Atalanta per l’antipirateria e ha fatto parte, unico italiano, della troupe tedesca della Bilderfest per la realizzazione del documentario Ustica. Tragedia nei cieli. Ha scritto il libro di ricerca storica Il faro di Mussolini. L’Opera coloniale più controversa e il sogno dell’Impero nella Somalia Italiana. 1889-1941 e insegna Fotografia al Politecnico di Torino, oltre ad aver tenuto vari corsi sull’argomento presso altri istituti fra cui l’Ufficio Comunicazione della Regione Militare Nord e istituzioni come la Marina Militare. Insomma, Alberto Alpozzi è un ricercatore, visivo e storico, che sa il fatto suo.
Eclettica Edizioni ha appena pubblicato Bugie coloniali 2. Il colonialismo italiano tra cancel culture, censure e falsi miti (Collana Secolo Breve, 2022, 187 pagine, 17 euro, secondo capitolo di una precedente opera sull’argomento) ed è un libro che tutti dovrebbero leggere, perché molti ne avrebbero bisogno, sia coloro che pensano di sapere già (cioè la vulgata storica unica), sia coloro che non ne sanno nulla (cioè quelli che si basano sulla vulgata storica unica).
Renzo De Felice diceva che «la storia si scrive cercando di capire le ragioni del tempo. Se no, si fa moralismo»: con questa citazione nell’introduzione al saggio di Alpozzi siamo già in medias res, perché sull’argomento colonialismo occorrerebbe fare chiarezza una vota per tutte. Già, “chiarezza”…dici facile, quando la guerra si combatte prima sui giornali (dice niente l’argomento di cronaca NATO/Russia/Ucraina?) e le informazioni sugli scenari bellici o sono scarse o sono filtrate dalle rispettive propagande.
Niente di nuovo sotto il sole: se non che, quando vai a toccare certi argomenti storici e osi fare il mestiere dello storico e del giornalista (cioè dubitare, verificare, controllare) rischi il bavaglio o il ruolo del reietto. Perché, come scrive l’autore, “La Storia non si basa più sulla ricerca, sulle fonti, sugli archivi, sull’analisi critica e comparativa ma è divenuta banale marketing tesa a diffondere preconcetti consolidati dai pregiudizi […]. La Storia è stata trasformata in pettegolezzo oltre ogni decenza e serietà pur di completare un’opera integrale di denigrazione che non trova eguali in nessuna altra nazione”.
Alpozzi non usa a caso il termine “marketing” applicato alla ricerca e alla divulgazione storica, perché dimostra, dati alla mano, come sul colonialismo italiano in Africa, i cittadini e i lettori siano ormai da decenni abituati ad associare, come il cane di Pavlov, immagini di malessere, infelicità, brutture, vuoto, a un determinato periodo storico, dipinto con parole truculente votata all’immaginifico dell’ultraviolenza, cioè occupazione, invasione, aggressione, violenza, massacri, sfruttamento, razzismo. Come un film horror, il lettore-cittadino ha uno schema mentale autoindotto dall’Ufficio Sinistri (questa è sottile!) per leggere e interpretare un fatto storico, nello specifico il colonialismo italiano in Africa appunto. Ma qual è la vera verità?
Ebbene, fonti alla mano, lo sapete che non è stato affatto il fascismo ad inventare le guerre e il razzismo? Che il cosiddetto “destino africano” lo inventano Crispi, Cavour, Bixio nell’800? Che gli italiani non hanno affatto schiavizzato i somali e che anzi attraverso leggi, interventi e controlli lo Stato vigilava affinché non vi fossero abusi e le leggi emanate venissero applicate? E che l’Italia fascista in Somalia ha proceduto con l’alfabetizzazione della popolazione e la costruzione di infrastrutture, costruito ospedali e luoghi di culto per tutte le confessioni religiose, cose che nessuno prima ha fatto? Altro che schiavitù inventata dai fascisti, altro che razzismo: come scrive l’Autore, “è sufficiente non essere totalmente a digiuno di basilari nozioni storiche per sapere come in Africa la tratta degli schiavi fosse il commercio più lucrativo che ci fosse e che per secoli aveva scoraggiato qualunque altra forma di commercio”.
Alla base del colonialismo italiano in Africa, al contrario, c’è un pensiero filosofico e umanistico preconizzato da pensatori in Europa come il giurista (nato e vissuto nell’800, giova specificare) Rudolph von Jhering, alla cui base è l’idea di una solidale cooperazione di forze tutte armonicamente convergenti al benessere collettivo, sia dei colonizzatori che degli indigeni. Scrive infatti Alpozzi: “Esistono ancora oggi profonde divergenze sulla legittimità o meno del colonialismo. Ma questa incongruenza deriva da una domanda anacronistica (e tendenziosa) che non tiene per nulla conto del concetto di civiltà e della sua esatta determinazione nell’epoca delle colonizzazioni. Tuttavia ancora c’è chi si ostina a giudicare e moraleggiare con l’attuale visione del mondo eventi e azioni delle quali non si conosce, o si fa finta di non conoscere, le motivazioni culturali, sociali ed economiche in seno alla quali maturò il loro svolgersi”.
Infatti la reductio ad hitlerum di idee che si discostano dal pensiero unico è la norma, oggi come allora. Dar di “fascista” e “razzista” è la reazione che tende a mettere la mordacchia a chiunque si ponga delle domande o presenti dubbi, con l’obiettivo di mantenere il lettore/cittadino nell’ignoranza, perché “le menti istruite non si possono controllare”.
Un problema che dalle parole passa ai fatti e non solo: si ripercuote anche sulle immagini. E nel libro di Eclettica, di foto, ce ne sono tante (88 per la precisione), compresa quella di copertina, una foto colorizzata che raffigura la prima adunata delle Truppe Coloniali per il Primo Annuale dell’Impero, con i Meharisti che sfilano davanti al Vittoriano di Piazza Venezia il 9 Maggio 1937: sì, perché la cancel culture di oggi, la censura dei social (mai nella storia dell’umanità, ad esempio, è accaduto che un gruppo editoriale decidesse di togliere per sempre la parola a un Presidente degli Stati Uniti, come hanno fatto con Trump) e di giornali e tv si trasforma nell’autodafè involontario di tutti noi, cioè nell’autocensura preventiva che ci fa dubitare se mettere o no quella foto, se usare o no quella parola, se indagare o no su quel fatto storico per capire se è davvero andata come ce la raccontano. Come suggerisce l’Autore del libro, questa situazione “è la figlia illegittima di un preoccupante programma, non troppo occulto, del controllo dei pensieri delle persone”.
Chiudono il volume un’interessante sezione sulla grafia e i significati dei termini coloniali (ad esempio, si dice ascaro o ascari? E il termine indigeno è veramente dispregiativo o non lo è affatto? [spoileriamo: non lo è affatto e mai lo fu]) e una sezione conclusiva su quel pogrom dimenticato della Libia, un drammatico evento che nessuno ricorda, o vuole ricordare, quando il 4 novembre 1945 i musulmani (a proposito, si dirà musulmani o mussulmani? Lo chiarisce la succitata sezione sulla grafia e i significati dei termini coloniali) attaccarono gli ebrei di Libia, che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente per secoli con gli arabi. Anche sotto l’Italia.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
L’Onu chiede a Putin di pagare i danni in Ucraina, la Russia: “Usa e Nato paghino quelli in Jugoslavia e Vietnam”. Cia e spie di Mosca a colloquio. Redazione su Il Riformista il 14 Novembre 2022.
Da una parte i colloqui tra la Cia e l’intelligence russa in Turchia, dall’altra lo schiaffo dello Onu che chiede a Mosca di riparare i danni provocati ‘grazie’ all’invasione in Ucraina. In mezzo le parole del presidente Volodymyr Zelensky secondo cui il ritiro delle truppe russe da Kherson è “l’inizio della fine della guerra”, “siamo pronti per la pace, la pace in tutto il nostro Paese”.
Dopo nove mesi dall’inizio del conflitto, qualcosa forse inizia a muoversi per trovare un accordo tra le potenze mondiali in campo anche se l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a favore di una risoluzione che chiede la creazione di un meccanismo di rimpatrio e riparazione dei danni creato dalla Russia durante l’aggressione militare in Ucraina. La bozza di risoluzione, presentata dagli Stati appartenenti al cosiddetto “Occidente collettivo”, invita anche a condannare la Russia per le sue azioni in Ucraina. Novantaquattro paesi hanno votato a favore della risoluzione, 14 hanno votato contro e 73 si sono astenuti.
Tra i contrari, oltre alla Russia, figurano anche Cina, Cuba, Mali ed Etiopia, mentre la maggior parte dei Paesi astenuti appartengono al continente africano, ma anche Brasile, Israele o India. Questa risoluzione chiede che la Russia sia “ritenuta responsabile di qualsiasi violazione” del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite in Ucraina, e che “si assuma le conseguenze legali di tutti i suoi atti illegali a livello internazionale, in particolare riparando i danni” materiali e umani.
La risoluzione stabilisce inoltre “la necessità” di creare, “in collaborazione con l’Ucraina, un meccanismo di riparazione” e “un registro internazionale dei danni per elencare (…) le prove e le informazioni relative alle richieste di risarcimento” di persone fisiche, giuridiche e statali dell’Ucraina.
“L’Ucraina avrà il pesante compito di ricostruire il Paese e riprendersi dopo la guerra. Ma questa ripresa non sarà mai completa senza un sentimento di giustizia per le vittime della guerra della Russia”, ha precisato l’ambasciatore ucraino all’Onu, Sergiy Kyslytsya.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accolto con favore la decisione presa alle Nazioni Unite. “Dalla liberazione di Kherson alla vittoria diplomatica a New York – l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha appena dato il via libera alla creazione di un meccanismo di riparazione da parte della Russia per i crimini commessi in Ucraina”, ha affermato su Twitter. “L’aggressore pagherà per quello che ha fatto!”, ha aggiunto.
Nella sede delle Nazioni Unite a New York, il rappresentante russo ha invece denunciato la volontà dei Paesi occidentali di legittimare preventivamente l’utilizzo di “miliardi di dollari” di beni russi congelati per sanzionare Mosca, anche per l’acquisto di armi da cedere all’Ucraina.
Dure anche le parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, che su Telegram, oltre a confermare la tesi del rappresentate russo all’Onu (“gli anglosassoni stanno chiaramente cercando di mettere insieme una base giuridica per il furto di beni russi sequestrati illegalmente”), invita gli Usa ad accettare “la stessa raccomandazione per il pieno risarcimento dei danni causati a Corea, Vietnam, Iraq, Jugoslavia e altre numerose vittime degli americani e della Nato”.
Intanto ad Ankara il direttore della Cia, Bill Burns, ha incontrato la controparte dell’intelligence russa, Sergey Naryshkin, per sottolineare le conseguenze nell’eventualità in cui Mosca dovesse usare armi nucleari in Ucraina, ha riferito un funzionario del Consiglio Usa di sicurezza nazionale, sottolineando che l’incontro in Turchia non aveva come obiettivo negoziare o discutere una possibile soluzione del conflitto in Ucraina e che le autorità ucraine erano state avvertite anticipatamente del viaggio di Burns in Turchia.
Il Cremlino – da canto suo – ha confermato che i colloqui tra responsabili statunitensi e russi si sono svolti oggi ad Ankara. Lo ha riferito l’agenzia di stampa statale russa Tass, citando il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Il Consiglio di sicurezza nazionale Usa ha dichiarato in precedenza alla Cnn che il direttore della Cia, Bill Burns, si era incontrato ad Ankara con il suo omologo dell’intelligence russa, Sergey Naryshkin, nell’ambito di uno sforzo in corso da parte degli Stati Uniti di “comunicare con la Russia sulla gestione del rischio” e per discutere i casi di “cittadini statunitensi detenuti ingiustamente”.
Quando i cattivi siamo noi. Inchiesta choc sui soldati Uk: “Uccidevano afghani disarmati”. La Bbc lancia la bomba: in Afghanistan, le forze speciali britanniche sono state protagoniste di omicidi efferati contro disarmati. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 12 Luglio 2022
Si tratta di una vera e propria bomba, quella lanciata dall’emittente televisiva britannica, Bbc, sul più importante corpo speciale militare del Regno Unito: lo Special Air Service (Sas). Dopo aver esaminato centinaia di pagine dei rapporti e dei resoconti dell’organizzazione, relativi alla guerra in Afghanistan nel biennio 2010-11, le forze britanniche avrebbero ucciso decine di prigionieri, detenuti e uomini disarmati nel corso del conflitto.
Secondo quanto riportato dallo scoop di Bbc Panorama, un solo squadrone sarebbe stato autore di ben 54 omicidi, contrari al diritto bellico, nell’arco di soli sei mesi. Addirittura, con la conoscenza dei fatti da parte anche dei più alti vertici dell’organizzazione. L’ex capo della Sas, il generale Sir Mark Carleton-Smith, infatti, sarebbe stato al corrente, sin da subito, di queste uccisioni illegali. Eppure, avrebbe deciso di lasciare impuniti i responsabili e di non inviare le relative prove alla Royal Military Police, così come stabilito da protocollo.
Lo scoop della Bbc
Le clamorose omissioni dolose del generale e dei membri di punta della Sas fanno discutere anche sotto un altro aspetto rilevante: si trattava di crimini di guerra deliberati, compiuti in modo autonomo ed indipendenti dai soldati della Regina, oppure di veri e propri comandi derivanti dall’alto? Le prime indiscrezioni sembrano indirizzarsi verso la prima strada. Non è un caso che la Bbc abbia certificato la presenza di mail interne che mostrerebbero come “gli ufficiali, ai più alti livelli delle Forze speciali, fossero consapevoli della preoccupazione per possibili uccisioni illegali”. Nonostante tutto, a distanza di oltre un decennio, le prove non sono mai state trasmesse alla polizia, anche dopo l’inizio delle indagini di quest’ultima.
Secondo il racconto di numerosi testimoni, che operavano in Afghanistan in quel biennio, le Forze Speciali agivano soprattutto attraverso raid notturni. Molti di essi facevano gara a chi ne uccidesse di più, per poi mascherare il luogo del delitto, facendo credere che si fosse trattato di uno scontro a fuoco con forze militari nemiche. La Sas, sempre secondo le testimonianze riportate, avrebbe agito attraverso la tecnica del “drop weapons”, letteralmente “armi lasciate cadere”, ovvero piazzate vicino ai corpi dei cadaveri proprio per inscenare un conflitto mai avvenuto, e quindi riuscendo a insabbiare il crimine di guerra.
Se lo scenario dovesse essere confermato definitivamente, si tratterebbe di uno dei più grandi scandali dell’organizzazione speciale. Anche se la fiducia dei vertici del governo britannico continua a rimanere immutata.
I tragici anni in Afghanistan
Le annate 2010 e 2011 sono state, forse, le più drammatiche del conflitto afghano. Nel stesso arco temporale, infatti, l’amministrazione Obama portava a compimento l’operazione di ricerca del terrorista più ricercato al mondo, Osama Bin Laden, uccidendolo in Pakistan, dopo un breve combattimento con le guardie della dimora. L’obiettivo raggiunto venne seguito anche da un polverone circa le responsabilità dello Stato ospitante del leader di Al-Qaeda, residente in un lussuosissimo edificio a più piani.
Negli stessi mesi, le forze alleate occidentali portarono avanti l’operazione “Colpo di Spada”, tra le più importanti offensive dai tempi della guerra in Vietnam. L’obiettivo fu quello di sconfiggere le forze talebane nella zona di Helmand, attacco che costò la morte di un’ottantina di soldati d’Occidente e di quasi mezzo migliaio di talebani. Matteo Milanesi, 12 luglio 2022
Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2022.
Centinaia di esecuzioni sommarie condotte in Afghanistan dai Sas, le forze speciali britanniche: è quanto emerge da un'indagine realizzata dalla Bbc, che ha portato alla luce quelli che si configurano come veri e propri crimini di guerra.
Le uccisioni di talebani - o presunti tali - dopo la cattura erano parte di missioni notturne il cui obiettivo era «kill or capture», uccidere o catturare: ma un solo squadrone dei Sas, nel corso di sei mesi, si sarebbe reso responsabile di ben 54 esecuzioni sommarie.
Fra i soldati britannici c'era la gara a chi ammazzava più nemici e la stessa competizione aveva luogo fra i diversi squadroni delle forze speciali.
Ciò che ha insospettito la Bbc - che si è focalizzata su fatti accaduti nella provincia afghana di Helmand fra il 2010 e il 2011 - era la frequenza anomala di uno scenario che vedeva un prigioniero tirare fuori all'improvviso una granata o un mitra da sotto un tavolo o da dietro una tenda, cosa che ne giustificava l'uccisione sul posto: una circostanza che appare poco probabile, soprattutto se si ripete troppo spesso. L'analisi dei fori di proiettile sul terreno o nei muri, successiva ai raid dei Sas, suggeriva piuttosto delle vere e proprie fucilazioni.
Un alto ufficiale che lavorava al quartier generale delle forze speciali ha ammesso con la Bbc che «troppe persone venivano uccise durante i raid notturni e le spiegazioni non avevano senso. Una volta che qualcuno è detenuto, non dovrebbe finire ammazzato.
Era chiaro che c'era qualcosa di storto».
Un altro alto ufficiale scrisse un memorandum segreto in cui esprimeva preoccupazione per quella che appariva come una «politica deliberata» di uccisione sommarie.
Venne avviata una inchiesta interna, che però si risolse nel nulla.
I Sas hanno potuto contare finora sull'omertà dei loro comandi: secondo la Bbc, il generale Sir Mark Carleton-Smith, ex comandante delle forze speciali, era stato messo al corrente delle uccisioni illegali, ma non aveva trasmesso le informazioni alla polizia militare.
Anche la scelta degli obiettivi da catturare avveniva in modo sommario, senza un vero approfondimento delle informazioni di intelligence, col rischio di dare la caccia a civili innocenti.
Il ministero della Difesa britannico ha reagito accusando la Bbc di «mettere a rischio le nostre coraggiose Forze Armate» sia sul campo che sul piano della reputazione: il programma, ha detto un portavoce, «salta a conclusioni ingiustificate sulla base di accuse che sono state già pienamente investigate».
La Bbc ha replicato che «questo è il culmine di una indagine durata quattro anni, che include nuove prove e racconti di testimoni, ed è fermamente nell'interesse pubblico. La posizione del Ministero della Difesa è pienamente ri-specchiata nel documentario». Ed è notevole da sottolineare che la Bbc è un'emittente pubblica, che non si è fatta scrupoli a mettere sotto accusa governo e Forze Armate.
Alice Zago: «Non sono magistrata ma indago sui crimini contro l’umanità». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022.
È l’unica italiana a svolgere funzioni da pm nella Corte penale internazionale dell’Aia: «Putin? Non si può processarlo in contumacia» «Ho pianto con i bambini soldato del Congo» «La giustizia? È fatta di sfumature»
Alice Zago, unica italiana alla Corte Penale Internazionale dell’Aia
Mai lamentarsi dei tempi della giustizia italiana. La prima richiesta d’intervista ad Alice Zago, unica italiana head unified team (capo della squadra unificata) presso la Corte penale internazionale dell’Aia, risale al 28 aprile. Solo il 18 settembre le hanno concesso il nullaosta per conferire con il Corriere della Sera.
Al lavoro su dossier scomodi
Trascorsa qualche altra settimana, ha accettato di parlare, a condizione che venisse premessa la seguente formula di rito: «Qualunque opinione esprimerò è puramente personale e non riflette in alcun modo la posizione dell’International criminal court». Oltre cinque mesi di prudenza forse non guastano, essendoci di mezzo il tribunale sovranazionale che indaga sui genocidi, sui crimini di guerra e su quelli contro l’umanità. Nel frattempo, Paul Gicheru, il principale imputato perseguito da Zag o, accusato di aver corrotto e intimidito testimoni che avrebbero potuto inguaiare l’attuale presidente del Kenya, William Ruto, ha tirato le cuoia proprio il giorno prima del nostro colloquio: «Il processo era terminato a maggio. Stavo aspettando la sentenza. Dopodiché, se dichiarato colpevole, avrei formulato la richiesta della pena, come avviene nella procedura anglosassone». Quanti anni di galera? «Non mi sento di poterle rispondere. È morto. Quindi adesso è innocente».
Un ruolo equivalente a quello italiano del Pm
Abituati alla loquacità delle Procure italiche, si resta basiti di fronte al riserbo di questa donna che ha appena compiuto 48 anni e che non vuole essere chiamata magistrata, pur rivestendo nell’Icc il ruolo svolto nel nostro Paese dal pubblico ministero e, quando va in udienza, del sostituto procuratore. Eppure da lei dipendono una decina fra magistrati, investigatori, analisti ed esperti in rogatorie internazionali. Alice Zago è cresciuta a Venezia e a Mostaganem, città algerina dove i genitori Carlo e Daniela hanno lavorato come architetti. Dopo la loro separazione, ha vissuto a New York e a Santiago del Cile con la madre, per lungo tempo funzionaria dell’Onu.
Poteva diventare una toga in Italia.
«Infatti m’iscrissi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. La facoltà migliore. Lo feci per ribellarmi ai miei, simpatizzanti dell’estrema sinistra».
Lo sono ancora?
«Le etichette sbiadiscono».
Era già attratta dalla magistratura?
«Da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino. E dal processo Enimont. Ero in aula quando Antonio Di Pietro interrogò Arnaldo Forlani. Dopo un anno di studi, passai alla Statale e mi laureai in diritto greco antico con Eva Cantarella. Fui conquistata dalla professoressa sentendola parlare dello scudo di Achille. La tesi verteva su un’orazione di Demostene contro la prostituta Neera».
Un cambio di rotta mica da poco.
«Poi avrei voluto sostenere il concorso per la magistratura. Ma tre anni di attesa mi sembravano un’eternità. Così prevalse il mio desiderio di fuga dall’Italia».
Meta?
«Belgio, con l’Ong “Non c’è pace senza giustizia”. Stage a Bruxelles accanto a Emma Bonino, Marco Cappato e altri radicali del Parlamento europeo. Nel contempo, master in diritto a Lovanio».
E poi?
«In missione con le Nazioni Unite in Guatemala. Quasi tre anni fra massacri dei militari e rivolte degli indios affamati, che linciavano i latifondisti».
All’Onu la raccomandò sua madre?
«No, vinsi un concorso. In seguito raggiunsi il mio compagno a New York e tornai a lavorare da lì per l’Ong. Fornivamo assistenza giuridica e legale a Timor Est, resosi indipendente dall’Indonesia».
Quando è stata ammessa nella Corte penale internazionale?
«Nel 2004, con un bando per titoli ed esami. Fra i requisiti richiesti c’erano capacità analitiche e perfetta conoscenza dell’inglese. Entrai come investigatrice».
Che esperienza vantava in materia?
«Avevo indagato sulle violazioni dei diritti umani in Guatemala».
Quali grandi criminali ha scovato?
«Più sono grandi e meno sono noti».
Il suo primo incarico all’Aia quale fu?
«Mi spedirono in Congo, provincia di Ituri, dove la lotta fra Hema e Lendu era fomentata per il controllo delle miniere di oro e cobalto. Io mi occupavo di stupri e arruolamento di bambini soldato, altri tre colleghi di stragi etniche, omicidi, torture e mutilazioni. Alloggiavamo in un container dell’Onu. Portammo alla sbarra Thomas Lubanga Dyilo, leader dell’Union des patriotes congolais. Fu condannato a 14 anni di reclusione».
Che faceva di brutto Lubanga Dyilo?
«Reclutava i dodicenni e li drogava. Una combattente di 14 anni era incinta, quando la interrogai. Sono le situazioni in cui il mio lavoro diventa difficile».
In quei frangenti che fa?
«Eh, ogni tanto si piange. Non si dovrebbe, ma l’emozione è troppo forte».
Fu l’esperienza più drammatica?
«Sì, insieme con quella di human right officer dell’Onu nella giungla del Guatemala, dopo gli accordi di pace che avevano posto fine alla guerra civile. Avevo appena 24 anni. Con me c’erano un poliziotto, un medico forense, un genetista, un antropologo e un interprete. Il nostro compito era di scoprire le fosse comuni e dissotterrare le salme. Il lezzo della morte c’impregnava i vestiti».
Aprite i fascicoli d’ufficio o vi deve arrivare una segnalazione?
«Entrambe le eventualità. Le denunce però non possono arrivare dai privati: solo dagli Stati o dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite».
L’Icc è riconosciuta da tutti gli Stati?
«No, solo da 123. Non aderiscono 42 Paesi, fra cui Stati Uniti, Cina, Russia, India, Israele, Egitto, Iraq, Libia».
Quindi, se si ripresentasse un caso Eichmann, Israele non potrebbe chiedervi di processare il criminale nazista.
«No, finirebbe a giudizio in Germania, dove ebbero luogo i misfatti. La Corte penale internazionale interviene quando uno Stato non può o non vuole perseguire un crimine contro l’umanità».
Avete ricevuto denunce a carico di Vladimir Putin per le barbarie commesse dagli invasori russi in Ucraina?
«Non sono autorizzata a rispondere».
Non potete procedere d’ufficio?
«C’è un’indagine condotta da un nostro procuratore, aperta a marzo».
Potreste processare e condannare in contumacia il presidente russo?
«No. L’imputato dev’essere in aula».
Quale aula?
«Qui all’Aia, nella sede dell’Icc, ne abbiamo tre per celebrare i processi».
Che durano quanto?
«Compresa l’istruttoria? Dipende dalla complessità del caso e dal numero di crimini. Con Gicheru siamo arrivati a conclusione in tre-quattro mesi. Quando va per le lunghe, due anni al massimo».
Com’è possibile che fra tribunale, appello e Cassazione in Italia occorrano 1.545 giorni, cioè circa 4 anni e 3 mesi?
«Non mi faccia parlare di fatti sui quali non sono informata».
Non ha la cittadinanza italiana?
«Ce l’ho, ma non appartengo alla magistratura del mio Paese di origine. Immagino che vi siano molteplici ragioni a spiegare i ritardi, che vanno dal volume di attività alle carenze di organico».
La pena più severa inflitta dall’Icc?
«Trent’anni di reclusione. Non irroghiamo l’ergastolo».
Il condannato dove la sconta?
«Nel centro di detenzione qui all’Aia oppure nel Paese di appartenenza. Abbiamo accordi bilaterali in tal senso con molti Stati, soprattutto scandinavi».
Ha mai ricevuto minacce di morte?
«Di morte e di violenza, in Congo, da parte dell’esponente di un gruppo armato. Ma non le ho mai prese sul serio. Non mi reputo una persona importante».
Non ha mai rischiato la pelle?
«Solo una volta, in Guatemala, ma per tutt’altri motivi. Con il cibo o con l’acqua mi entrò in circolo un’ameba, che stava distruggendomi l’intestino. Fui salvata dai medici cubani. Sono molto preparati. In America Latina ne trovi sempre qualcuno nei luoghi più sperduti, quelli di cui persino Dio sembra essersi dimenticato. Fui trasportata a Città del Messico e da lì a New York, dove i sanitari dell’Onu mi tennero in cura per tre anni».
Non ha la scorta?
«No, nessuno di noi ce l’ha. Solo il procuratore capo».
C’è un magistrato al quale s’è ispirata?
«Sì, ma è poco noto. Si chiama Ben Gumpert, britannico. Era avvocato della Corte penale internazionale. Ora è giudice alla Crown Court a Londra, la Corte della Corona. Ha una capacità di controllo e un’eloquenza che soggiogano».
Da similpubblico ministero quale carriera la attende?
«Da grande mi piacerebbe diventare la direttrice di Vogue al posto di Anna Wintour. Per divertirmi un po’». (Ride).
Il diavolo veste Prada.
«Confesso di avere una smodata passione per la moda e per l’interior design, insomma per tutto ciò che è frivolo ma assolutamente necessario nella vita».
Crede che esista la giustizia terrena?
«Io credo che esista soltanto la giustizia terrena».
Quella divina no?
«Soggettivamente non penso che ci sia. Posso solo occuparmi di ciò che conosco. Anche se vorrei che esistesse una giustizia ultraterrena».
E in nome di chi va amministrata?
«Di tutti noi».
«Occhio per occhio e dente per dente», come detta l’«Esodo», è giustizia?
(Ci pensa). «No, non sempre. Anzi, direi proprio di no. Ho imparato che non esistono mai solo bianco e nero. Ci sono unicamente moltissime sfumature. La capacità di coglierle si chiama giustizia»
(ANSA-AFP il 23 settembre 2022) - In Ucraina "sono stati commessi crimini di guerra", tra cui bombardamenti di aree civili, numerose esecuzioni, torture e orribili violenze sessuali. Lo hanno stabilito gli investigatori dell'Onu. "Sulla base delle prove raccolte dalla Commissione, essa ha concluso che crimini di guerra sono stati commessi in Ucraina", ha detto il capo di una commissione d'inchiesta Onu istituita a maggio per indagare sui crimini di guerra russi in Ucraina.
Gli investigatori dell'Onu in Ucraina hanno documentato una vasta gamma di crimini contro i minori, inclusi casi di bambini "stuprati, torturati e confinati illegalmente", ha detto il capo della Commissione d'inchiesta Erik Mose al Consiglio dei diritti umani a Ginevra. "Nei casi su cui abbiamo indagato, l'età delle vittime di violenza sessuale e di genere va dai 4 agli 82 anni. Ci sono stati episodi in cui i parenti sono stati obbligati ad assistere ai crimini" commessi sui loro cari, ha aggiunto, precisando che in diversi casi è stato stabilito che gli autori erano soldati russi.
Francesco Semprini per “la Stampa” il 24 settembre 2022.
Come un velo di Maya, pian piano che la controffensiva libera territori e persone, si alza il sipario sulle atrocità dell'operazione militare speciale ordinata da Vladimir Putin. Stupri, esecuzioni, torture e violenze di ogni genere di cui abbiamo avuto modo di riferire in questi sette mesi di conflitto, e che ora sono certificate dagli osservatori delle Nazioni Unite.
La stessa organizzazione internazionale che ha sede a New York e nella quale la Federazione Russa è membro permanente con diritto di veto del suo organo esecutivo, il Consiglio di Sicurezza. Azioni sistematiche perpetrate col fine ultimo di «liberare il popolo dal regime nazista», ma che vengono classificate dal Consiglio dei diritti umani come «crimini di guerra».
Le prove raccolte sul campo dalla Commissione d'inchiesta creata lo scorso marzo non lasciano ombra a dubbi. «Sono stati commessi crimini di guerra in Ucraina», ha denunciato il presidente della squadra d'inchiesta, il norvegese Erik Mose, in un primo resoconto verbale. Un cambio di passo inusuale perché in genere le accuse vengono formalizzate nelle aule dei tribunali. Questa volta però i tre esperti indipendenti hanno sentito il senso di urgenza della situazione, sottolineando come le atrocità commesse siano «su vasta scala e hanno evidenze chiare».
Mose, che ha guidato in passato il Tribunale internazionale per i crimini in Ruanda, ha riferito come lui e gli altri due componenti del team di indagine, la bosniaca Jasminka Dumhur e il colombiano Pablo de Greiff, sono rimasti «colpiti» dal gran numero di esecuzioni e dai frequenti «segni visibili sui cadaveri» di violenze «come le mani legate dietro la schiena, le ferite da arma da fuoco alla testa e financo le gole tagliate». Elemento questo che riporterebbe tremendamente alle mattanze dello Stato islamico.
Altrettanto brutale e tragico il quadro delle violenze sessuali, con le vittime di età compresa tra «i 4 e gli 82 anni»: in alcuni casi «sono già stati individuati i responsabili, i soldati russi». Sollevare il velo di Maya è atroce. «Abbiamo documentato un gran numero di crimini contro i bambini, alcuni sono stati stuprati, torturati e detenuti illegalmente». Alle violenze e agli abusi dei russi «talvolta erano costretti ad assistere i familiari» delle vittime.
Come se non bastasse, la Commissione ha trovato le prove dell'uso di ordigni esplosivi «da parte dei russi in zone altamente popolate», che hanno provocato stragi tra i civili. E potrebbe non essere finita qui visto che l'inchiesta è limitata solo ai crimini e agli abusi commessi nelle regioni di Kiev, Chernihiv, Kharkiv e Sumy. In tutto 27 le città e i villaggi ispezionati, 150 i testimoni intervistati, in un lavoro che ha portato gli ispettori sui luoghi delle stragi e nei centri di detenzione.
Due i casi di abusi attribuiti ai soldati ucraini ai danni di quelli russi: «C'è una enorme di differenza tra crimini di guerra su vasta scala da un lato e due casi dall'altro di cui siamo a conoscenza», ha sottolineato de Greiff. Mose ha assicurato che l'inchiesta andrà avanti, in primis con l'analisi delle fosse a Izyum scoperte dopo la riconquista della città da parte della controffensiva di Kiev. Ieri il governatore regionale ha annunciato che sono stati esumati 436 corpi, trenta dei quali «con segni di tortura».
Il rappresentante ucraino a Ginevra, Anton Korynevych, ha definito le conclusioni preliminari «un importante pietra miliare» nel percorso per incriminare la Russia e il suo leader. Il rappresentante di Mosca non ha partecipato all'incontro, né ha commentato il rapporto della Commissione. Mose ha riferito alcuni dettagli delle atrocità: «I bambini sono anche stati uccisi e feriti in attacchi indiscriminati con armi esplosive».
Dalle testimonianze raccolte, il capo della Commissione ha detto che «gli interlocutori hanno descritto percosse, scosse elettriche e nudità forzata, oltre ad altri tipi di violazioni in questi luoghi di detenzione». Dopo essere stati trasferiti in carcere in Russia, alcune vittime sarebbero scomparse, ha aggiunto.
A questo si aggiunge il dramma dei desaparecidos, persone scomparse e forse deportate. Tra questi i minori portati in Crimea, ragazzini dai 13 anni in su, trasferiti più o meno coattamente alla metà di agosto, con la garanzia che sarebbero tornati per l'inizio della scuola, «ai primi di settembre». Il velo di Maya nasconde ancora atrocità da scoprire.
Il dossier dell'Onu sulle atrocità del conflitto: "Bimbi stuprati e uccisi, esecuzioni e torture". I primi risultati della commissione d'inchiesta: "Crimini su vasta scala". Andrea Cuomo il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.
Bombardamenti su civili, torture, violenze sessuali, esecuzioni. «Sulla base delle prove raccolte dalla Commissione d'inchiesta, questa ha concluso che sono stati commessi crimini di guerra in Ucraina». Lo ha dichiarato ieri, in un primo resoconto al Consiglio del Consiglio dei diritti umani dell'Onu, Erik Mose, presidente della commissione istituita a maggio per investigare sui crimini di guerra commessi in Ucraina dall'inizio dell'invasione russa lo scorso 24 febbraio.
La mossa di Mose è abbastanza irrituale. Di solito le accuse vengono formalizzate in tribunale, ma la dimensione clamorosa delle malefatte russe in Ucraina hanno spinto il presidente della commissione a uno spoiler eclatante dei risultati, che non sembrerebbero dare adito a dubbi: le atrocità commesse sono «su vasta scala e chiare». E l'elenco è incompleto, per il momento l'inchiesta si occupa dei soli abusi commessi nelle regioni di Kiev, Chernihiv, Kharkiv e Sumy. Le città e i villaggi ispezionati sono stati solo 27 e 150 i testimoni intervistati nei luoghi delle stragi e nei centri di detenzione. Mose ha annunciato l'intenzione di andare avanti con l'inchiesta, a partire dall'analisi delle fosse comuni a Izyum scoperte dopo la riconquista della città da parte delle forze ucraine e dalle quali finora sono stati esumati 436 corpi, 30 dei quali «con segni di tortura».
Mose, il norvegese che ha guidato in passato il Tribunale internazionale per i crimini in Ruanda, ha riferito che lui e gli atri due componenti del team di indagine, la bosniaca Jasminka Dumhur e il colombiano Pablo de Greiff, sono rimasti «colpiti» dal gran numero di esecuzioni e dai frequenti «segni visibili sui cadaveri, come le mani legate dietro la schiena, le ferite da arma da fuoco alla testa e le gole tagliate».
Per quanto riguarda gli abusi sessuali, ne sono stati documentati moltissimi, con vittime di età compresa tra «i 4 e gli 82 anni». In alcuni casi «sono già stati individuati i responsabili, i soldati russi». Sotto attacco anche l'infanzia. «Abbiamo documentato un gran numero di crimini contro i bambini, alcuni sono stati stuprati, torturati e detenuti illegalmente», riferisce la commissione. Alle violenze e gli abusi dei russi «talvolta erano costretti ad assistere i familiari» delle vittime. Poi ci sono i bombardamenti indiscriminati, con prove evidenti dell'uso di ordigni esplosivi «da parte dei russi in zone altamente popolate», che hanno provocato stragi tra i civili.
Naturalmente la commissione si è occupata anche dei crimini di segno opposto, quelli cioè commessi dagli ucraini ai danni dei russi. Ebbene, sono solo due al momento i casi di abusi attribuiti ai soldati ucraini ai danni di quelli russi. E ieri in rete sono circolate le foto di Mykhailo Dianov, un soldato ucraino che è uscito vivo dalla prigionia russa: il primo mostra un militare sano e in piena forma, il dopo un corpo scheletrico come nelle foto scattate nel 1945 ai reduci dai campi di concentramento tedeschi. La convenzione di Ginevra? Carta straccia.
Criminali di guerra. La Russia sta deportando un gran numero di ucraini (nel silenzio generale). Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.
Attraverso i campi di filtraggio creati nei territori occupati, il Cremlino ha detenuto o portato fuori dal Paese donne, uomini e bambini accusati di aver collaborato con la resistenza di Kyjiv. Secondo le stime più affidabili, ad aver subito questa violazione dei diritti umani sono state finora tra 900mila e 1,6 milioni di persone.
«Le autorità russe devono rilasciare le persone detenute e consentire ai cittadini ucraini deportati con la forza, o costretti a lasciare il loro Paese, la possibilità di tornare a casa il più presto possibile e in sicurezza. Chiediamo alla Russia di fornire a osservatori indipendenti esterni l’accesso alle cosiddette strutture di filtraggio e alle aree di trasferimento forzato in Russia». Il messaggio è firmato dal segretario di Stato americano Antony J. Blinken, in una dichiarazione che si può leggere sul sito del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
Secondo stime provenienti da diverse fonti, compreso lo stesso governo russo, le autorità di Mosca hanno interrogato, detenuto o espulso con la forza un gran numero di cittadini ucraini, si pensa tra i 900mila e gli 1,6 milioni. Tra loro ci sarebbero anche 260mila bambini. Persone estromesse dalle loro case e deportate in Russia, spesso in regioni isolate dell’Estremo Oriente.
Le deportazioni della popolazione ucraina sarebbero operazioni premeditate, studiate e già testate, paragonabili ad altre già messe in atto dal Cremlino in Cecenia e in altre regioni, secondo il Dipartimento di Stato americano, che dice di aver identificato 18 campi di filtraggio allestiti lungo il confine.
«Le decisioni del presidente Putin stanno separando famiglie, confiscando passaporti ucraini e rilasciando passaporti russi nell’apparente sforzo di cambiare la composizione demografica di parti dell’Ucraina», scrive Blinken.
Il Segretario di Stato americano ha descritto i trasferimenti come «una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili» e «un crimine di guerra». Ma la stessa Russia ha riconosciuto che 1,5 milioni di ucraini si trovano ora sul suo territorio, dicendo però che sono stati evacuati per questioni di sicurezza. Mosca nega di aver costretto gli ucraini a lasciare le loro case e dice di fornire assistenza umanitaria e passaggio sicuro alle persone che vogliono lasciare il Paese: li avrebbero allontanati di migliaia di chilometri dalle loro case, nella nazione che ha attaccato la loro, per salvarli.
Già lo scorso marzo, il ministro degli Esteri britannico Liz Truss aveva denunciato il «rapimento e la deportazione» di ucraini dalla città assediata di Mariupol, paragonando le operazioni dell’armata russa a quelle della Germania nazista.
Ad aprile, la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno aveva fatto lo stesso: «Le notizie che giungono dall’inferno ucraino riportano di centinaia di cittadini deportati in territorio russo, mentre la lista dei crimini contro l’umanità si allunga giorno dopo giorno. Scene di distruzione e termini orribili che pensavamo di aver rimosso dal nostro linguaggio e rilegato nelle pagine più buie della Storia».
L’Economist ha offerto una prospettiva su questa vicenda partendo dal caso di un fornaio di Bucha di nome Matviy. «Quando lo scorso marzo è iniziato l’assalto al sobborgo poco distante da Kyjiv, in cui è stato perpetrato un massacro, Matviy è rimasto ad aiutare i suoi vicini. Il 18 marzo i soldati russi hanno fatto irruzione nella sua casa e lo hanno portato via. La polizia, i pubblici ministeri e le organizzazioni per i diritti umani dell’Ucraina non sono stati in grado di aiutare», scrive l’Economist.
Ma Bucha è solo la punta dell’iceberg. I numeri delle deportazioni sono altissimi e comprendono attivisti, giornalisti e operatori umanitari. I giornalisti Serhey Tsyhipa e Oleh Baturin, ad esempio, sono stati sequestrati il 12 marzo mentre riferivano di atrocità commesse dalle forze russe. E Tsyhipa dopo giorni è apparso sulla tv di Stato russa con un aspetto malmesso e in cattive condizioni di salute, ripetendo qualcosa impostagli dalla propaganda del Cremlino.
Il 21 aprile scorso 308 rifugiati provenienti da Mariupol sono arrivati a Nachodka, una città dell’estremo oriente russo, poco distante da Vladivostok, di fronte al Giappone. Come riportava Meduza in quei giorni, prima del loro arrivo, il governo regionale ha riferito che c’erano più di 1.700 posti di lavoro vacanti per i rifugiati di Mariupol in più di 200 organizzazioni. Una settimana prima dell’arrivo dei rifugiati, l’ufficio stampa del ministero per lo Sviluppo dell’estremo oriente e dell’artico russo aveva annunciato che c’erano ben 62mila posti vacanti elencati nel database del Servizio per l’impiego di Primorsky e che gli specialisti stavano già offrendo lavoro ai rifugiati. Ma una fonte a conoscenza della situazione aveva detto che la maggior parte dei rifugiati provenienti da Mariupol non è riuscita a trovare lavoro.
«Le sparizioni in Ucraina non sono una storia nuova», si legge sull’Economist, facendo riferimento a operazioni codificate ben prima dell’invasione del 24 febbraio. «Tra il 2014 e il 2021 sono scomparse oltre 2mila persone: erano implicate sia le forze filo-russe che i servizi di sicurezza ucraini. La Russia ha dispiegato queste tattiche terroristiche per decenni. Dopo aver annesso la Crimea nel 2014, attivisti tartari di Crimea e leader della comunità sono scomparsi a frotte. Durante le due guerre russe in Cecenia negli anni ’90, le sparizioni erano così diffuse che Human Rights Watch le aveva denunciate come crimine contro l’umanità».
Alcuni deportati fuggiti da questi cosiddetti “campi di filtraggio” hanno parlato con il New York Times e altri organi di stampa fornendo descrizioni e resoconti di interrogatori, percosse e torture riservate agli ucraini, specialmente a chi ha legami con le forze armate del Paese: chi ha combattuto con l’Ucraina o ha legami con il reggimento Azov viene separato dagli altri e spesso scompare per sempre.
Diversi funzionari europei hanno denunciato l’allestimento di questi luoghi in scuole, centri sportivi e istituzioni culturali disseminati in quei territori dell’Ucraina recentemente conquistati dalle forze russe. Michael Carpenter, l’ambasciatore degli Stati Uniti all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), lo scorso maggio aveva parlato di «interrogatori brutali» e denunciato deportazioni nell’ordine di almeno decine di migliaia di persone.
Le famiglie spezzate dalla brutalità dei metodi russi stanno facendo di tutto per riavere indietro i propri cari. Kyjiv riesce a far molto poco in merito, le istituzioni internazionali ancora non hanno trovato il modo di fermare le operazioni. La denuncia di Blinken della settimana scorsa non era la prima né sarà l’ultima su questo tema. Ma al momento la risposta occidentale a questa forma di offensiva criminale è ancora troppo debole.
Dalla Cecenia all’Ucraina, venti anni di crimini impuniti. I Radicali italiani appoggiano l’iniziativa dei ceceni di Zakayev per l’incriminazione di Putin alla Corte dell’Aja. MASSIMILIANO IERVOLINO E SILVJA MANZI, SEGRETARIO E MEMBRO DIREZIONE DI RADICALI ITALIANI, su Il Dubbio il 13 luglio 2022.
La guerra nel cuore dell’Europa che da oltre 4 mesi occupa i nostri discorsi, le trasmissioni tv, le pagine dei giornali, i post sui social, per molti – analisti compresi – è stato un fulmine a ciel sereno. Non si poteva credere che Vladimir Putin avrebbe sferrato un attacco così clamoroso e feroce. Incredibile, perché, al contrario, ogni passo del tiranno russo portava esattamente dove siamo. Sarebbe bastato leggere le sue azioni senza le lenti della realpolitik e leggerle avrebbe, anche, significato poterla evitare questa guerra. Era, infatti, tutto scritto.
Oggi i libri di Anna Politkovskaja sono in cima alle classifiche di vendita. Forse leggerli all’epoca in cui furono scritti sarebbe stata una scelta saggia. Parlava, Politkovskaja, di Cecenia, della guerra che l’aveva distrutta e di come Putin, grazie a quella guerra, aveva costruito la sua fortuna politica. Parlava, Politkovskaja, di come Putin stava parallelamente costruendo un regime letteralmente fascista. Lo denunciava, inascoltata ( salvo radicali eccezioni). E per questo venne uccisa. Guarda caso nel giorno del compleanno di Putin. E siccome l’occidente democratico non voleva vedere, l’unico politico occidentale a recarsi al suo funerale fu Marco Pannella che, con i radicali, aveva visto e previsto.
La Cecenia è la chiave per capire come Putin ragiona e si muove, lo scopo delle sue azioni – per rafforzare il suo potere tanto all’interno quanto sulla scena internazionale – e il metodo con cui le ha portate avanti. Come si sa, nel 2001 l’attacco alle Torri Gemelle aveva portato a una lotta internazionale contro il terrorismo, e Putin aveva immediatamente colto la palla al balzo. I ceceni erano tutti terroristi e per questo andavano distrutti. In un ribaltamento della realtà analogo a quello che oggi dipinge gli ucraini come nazisti. Nella sua personale campagna contro i “terroristi” ceceni, Putin aveva ottenuto il sostegno dei Paesi “civili”, che si era tradotto nel silenzio. Il silenzio rispetto alle sue azioni palesemente criminali. «Perseguiteremo dappertutto terroristi, e quando li troveremo… li butteremo dritti nella tazza del cesso».
Questo diceva Putin e questo ha pervicacemente perseguito. La Cecenia è stata il suo banco di prova. Tutto quello che ha fatto allora l’ha riproposto, esattamente negli stessi termini criminali, in Georgia, in Siria, nel Donbass prima e ora in tutta l’Ucraina. Sempre la stessa strategia, sempre le stesse modalità. Stupri, fosse comuni, uccisioni a bruciapelo, obiettivi civili, distruzione totale di città. La Cecenia è stato un Paese raso al suolo e la sua leadership – l’ultima riconosciuta dalla comunità internazionale – sostituita da un governo fantoccio e tirannico. Noi radicali abbiamo, in quegli anni, imbastito una lunga e solitaria campagna per sostenere il piano di pace elaborato dal governo ceceno in esilio, che chiedeva un’amministrazione controllata delle Nazioni Unite; dicevamo che se si fosse lasciata la Cecenia al destino impostole da Putin il problema del terrorismo sarebbe esploso e non risolto. Abbiamo, allora, sollecitato tutte le cancellerie europee; organizzato conferenze di membri del governo in esilio ( in particolare Umar Khanbiev, iscritto e dirigente del Partito Radicale); fatto intervenire alla Commissione Onu Diritti umani il parlamentare ceceno Akhyad Idigov, che portava testimonianze precise dei crimini perpetrati dai russi (e per questo la Russia chiese, perdendo, l’espulsione del Partito Radicale dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite); organizzato manifestazioni, scioperi della fame iniziative parlamentari… ma i ceceni erano “terroristi” e se Putin li avesse schiacciati sarebbe stato un prezzo giusto da pagare. Il prezzo di quel cinismo sono stati 100.000 morti e la creazione di un vero e proprio laboratorio di un terrorismo da esportazione.
Di quell’ultimo gruppo dirigente ceceno democratico oggi è ancora attivo – e naturalmente sempre in esilio – Akhmed Zakayev, primo ministro della non riconosciuta Repubblica Cecena di Ichkeria, e in questa veste è stato invitato in Italia da Radicali Italiani. Intervistato anche dal Dubbio, Zakayev ha incontrato alla Farnesina il sottosegretario agli Affari Esteri Benedetto Della Vedova, ha partecipato a una conferenza alla Camera, ha incontrato numerosi giornalisti. Zakayev ha oggi ricevuto un’attenzione a cui venti anni fa non siamo mai riusciti nemmeno lontanamente ad arrivare. È stato possibile per via della guerra sferrata da Putin all’Ucraina. Perché oggi non è più possibile voltarsi dall’altra parte e anche i ceceni sono diventati degli interlocutori credibili.
Per sostenere la lotta di liberazione ucraina i ceceni di Zakayev stanno portando avanti un’iniziativa per l’incriminazione di Putin alla Corte Penale internazionale anche per i crimini commessi in Cecenia. Il nostro appello “Putin all’Aja” ( che si può firmare su www. radicali.it) va in questa direzione: Putin va al più presto incriminato e giudicato per i crimini commessi in ogni luogo dove ha portato terrore e morte. Non può esserci nessuna soluzione del conflitto senza riconoscerne giuridicamente le responsabilità. La pace per l’Ucraina arriva necessariamente da questo passaggio. E con la pace dell’Ucraina può, finalmente, arrivare pace anche per la Cecenia.
Gli italiani, la pace e i silenzi sui crimini di Mosca. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.
Decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze russe, della deportazione di 300.000 bambini
Ma si troverà prima o poi qualcuno in Italia disposto a spendere il proprio nome chiamando certe cose con il loro nome? Si troverà pure prima o poi qualche pensoso intellettuale, qualche celebre attore o accademico, qualche eminente prelato noto alle cronache o almeno qualche conduttore di talk show, disposto a parlare chiaro e a dire che quello che le autorità russe stanno facendo in Ucraina è qualcosa che prima di oggi solo Hitler e Stalin avevano osato fare? Magari auspicando anche un tribunale per giudicare le loro colpe? Non parlo della guerra che Putin ha scatenato il 24 febbraio. La guerra, si sa, è una sporca faccenda in cui non si va per il sottile. Sono sacrosanti i tentativi di darle qualche regola, naturalmente, ma bisogna rassegnarsi al fatto che il più delle volte queste regole lascino il tempo che trovano. Nulla e nessuno, ad esempio, riuscirà mai ad impedire ad un belligerante l’uso di un’arma cosiddetta «proibita» (tipo le bombe a grappolo che i russi infatti impiegano con la massima disinvoltura) se non il timore che pure l’avversario impieghi la medesima arma contro di lui.
Ma qui si tratta di cose diverse, di cose che con la guerra, con lo scontro tra i combattenti non c’entrano nulla. Qui si tratta di decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla (quindi di presumibili soppressioni) di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze di Mosca.
Di un feroce e radicale tentativo di snazionalizzazione di tutti i territori occupati, a base di libri in lingua ucraina proibiti e distrutti, del divieto di istruzione nelle scuole secondo i programmi fin qui adottati, di soppressione di tutti i mezzi di comunicazione (radio, tv, telefonia) e di connessione che non siano quelli russi. E si tratta infine — fatto di una crudeltà inimmaginabile, repugnante ad ogni animo umano — della deportazione in Russia non si capisce a qual fine (semplicemente per privare di forze future il nemico? Per «rieducarli»? Per darli in adozione?) di migliaia e migliaia (c’è chi dice trecentomila!) bambini ucraini. Si badi: di ognuna di queste azioni compiute dalle autorità russe vi sono troppe notizie circostanziate, troppe prove raccolte sul campo, troppe testimonianze dirette, perché si possa nutrire un ragionevole dubbio su quello che è il dato centrale: nei territori dell’Ucraina che occupa, Mosca sta mettendo in atto una vera e propria politica di tipo genocidiario mirante alla cancellazione di fatto dell’identità nazionale di quel popolo. Una politica del tutto analoga a quella che la Germania nazista mise in atto, ad esempio, durante la Seconda Guerra mondiale nella parte di Polonia occupata che intendeva annettere. Non si prefigge del resto oggi il medesimo scopo Putin?
Ebbene, ma se questo è vero bisogna allora dire alto e forte che è inutile, addirittura grottesco, che un Paese coltivi in tutte le occasioni la sua memoria antifascista, celebri ogni anno la «giornata della memoria» e la «giornata del ricordo», non cessi di evocare ad ogni occasione le colpe di chi contro le infamie del totalitarismo ottanta anni fa «doveva parlare ma non parlò», per poi oggi osservare, invece, un sostanziale silenzio su quanto sta accadendo dalle parti del Donbass e dintorni.
Sì, come avete capito, quel Paese è l’Italia. Siamo noi. Come è possibile che il nostro discorso pubblico ma anche quello culturale e religioso (certo, anche quello culturale e religioso) avvezzi così tanto a frequentare i diritti umani, la legalità, la solidarietà, la giustizia, preferiscano però discettare magari sulla «pace» ma di fatto continuino da settimane a non dire nulla circa i crimini su grande scala che la Russia sta commettendo in Ucraina? L’unica speranza di fermare i quali è invece che se ne parli, che se ne parli molto (in modo tra l’altro che Sua Eccellenza l’ambasciatore Razov informi adeguatamente il suo governo) e forse che non ci si limiti a parlare. Ma magari anche per auspicare che gli organi di giustizia internazionale si attivino maggiormente per raccogliere prove e nomi di sospetti criminali russi, di responsabili russi, da trascinare domani in giudizio come si fece ottanta anni fa in una città tedesca che tutti sappiamo come si chiamava.
Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.
Che cos'è un genocidio? Quante persone devono essere uccise perché sia considerato tale? Il termine nasce dall'unione del prefisso geno-, dal greco razza o tribù, con il suffisso -cidio, dal latino uccidere.
A coniare la parola fu l'avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin che nel 1944 cercava di descrivere le politiche naziste di sterminio sistematico degli ebrei. Nel 1945 il termine fu inserito per la prima volta nell'atto d'accusa del Tribunale di Norimberga contro i crimini commessi dai nazisti ma senza un autentico valore legale.
Il 9 dicembre del 1948, poi, le Nazioni Unite approvarono la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, introducendo il reato che viene così descritto: «Atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale».
Sin dagli anni '50 sono state presentate numerose proposte di modifica della definizione che viene considerata da molti insufficiente perché, per esempio, non include i gruppi politici e sociali perseguitati. Il reato, tra l'altro, è anche difficile da provare perché serve «una motivazione mentale» a commettere l'eccidio.
Francesca Mannocchi per “La Stampa” il 14 aprile 2022.
L'aveva definito un uomo brutale, poi un criminale di guerra, infine due giorni fa il presidente Joe Biden, in quella che la CNN ha definito «una drammatica escalation retorica nella visione degli Stati Uniti di ciò che sta accadendo in Ucraina» ha definito gli atti compiuti da Putin in Ucraina un genocidio.
Durante il comizio in una fabbrica di etanolo in Iowa, dopo aver incolpato Putin dell'aumento del prezzo del carburante, ha detto: «Il budget familiare, la capacità dei cittadini di riempire i loro serbatoi, non dovrebbero dipendere dal fatto che un dittatore dichiari guerra e commetta un genocidio dall'altra parte del mondo» ribadendo che nelle ultime settimane sia diventato sempre più chiaro che Putin sta cercando di spazzare via l'idea di poter essere ucraino.
Si riferiva alle immagini di Bucha, ai crimini che emergono ad ogni città e villaggio liberati dalle forze ucraine. Dichiarazioni, quelle di Biden, particolarmente significative perché gli Stati Uniti sono storicamente riluttanti a usare la parola genocidio, e come ha recentemente sottolineato il segretario di Stato Antony Blinken in riferimento al massacro di civili da parte delle forze militari in Myanmar, era solo l'ottava volta nella storia che gli Stati Uniti stabilivano che si fosse verificato un genocidio.
Delle dichiarazioni di Biden si è immediatamente rallegrato il presidente Volodymyr Zelensky, «chiamare le cose col loro nome è fondamentale per resistere al male», ha scritto. Ha invece preso le distanze, ieri, Macron che ha invitato alla prudenza rifiutando quella che ha definito una «escalation delle parole».
Erano stati cauti anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il segretario di Stato americano Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan compatti sull'idea che stiamo assistendo ad atrocità e crimini di guerra ma - per dirla nelle parole di Sullivan - «non abbiamo ancora visto un livello di privazione sistematica della vita del popolo ucraino salire al livello di genocidio».
Lo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte penale internazionale (CPI) nel 2002, definisce genocidio gli «atti commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», in quanto tale, il genocidio è uno specifico crimine di guerra che è più grande dell'uccisione illegale di civili, la legge richiede la prova dell'intento di distruggere il gruppo e molti giuristi sono scettici sulla effettiva capacità di poter provare la responsabilità del genocidio.
È cauto anche Jonathan Leader Maynard, docente di politica internazionale al King' s College di Londra, dove si occupa di genocidio e dinamiche ideologiche della violenza politica.
Maynard è cauto nell'esprimere giudizi sulla violenza mentre è ancora in corso: «Sappiamo che le forze russe hanno commesso atrocità ma non possiamo stimare in modo affidabile la loro portata esatta.
Abbiamo segnali allarmanti di una possibile pianificazione per i massacri di civili, compresi i primi rapporti dell'esercito russo che trasferisce crematori mobili in Ucraina, ma molti dettagli rimangono non confermati.
Non sappiamo praticamente nulla degli effettivi ordini dietro le uccisioni specifiche di civili e stiamo solo iniziando a capire quanto sia stata organizzata e sistematica la violenza. Non è un caso che le principali Ong responsabili del monitoraggio dell'occorrenza e dei rischi di genocidio - come GenocideWatch o Early Warning Project of the United States Holocaust Memorial Museum - non abbiano ancora emesso un avviso di rischio di genocidio per l'Ucraina» scrive su Just Security, centro per l'analisi della sicurezza nazionale, della politica estera e dei diritti presso la New York University School of Law.
È vero - in sintesi - che siano stati commessi dei crimini di guerra da parte dell'esercito russo, che è necessario trovare i responsabili e fare sì che paghino, ma per parlare di genocidio sarebbe troppo presto. I cauti - politici e giuristi - sanno che l'escalation delle parole non serve alla causa della negoziazione, che accuse di questo tipo a conflitto in corso hanno storicamente dimostrato di prolungare e esacerbare la battaglia anziché aiutare la pace, soprattutto sanno che è difficile, se non impossibile, provare l'intento genocidario in Ucraina.
Inoltre, riconoscere una campagna di genocidio in Europa, significherebbe per la comunità internazionale un obbligo di azione. Ecco forse la ragione della cautela.
Diversa la posizione di Bohdan Vitvitsky, che ha servito come consulente legale presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Kiev e ha lavorato come procuratore federale negli Stati Uniti - ha meno dubbi e meno cautela, e ritiene che i crimini dell'esercito russo in Ucraina rispecchino chiaramente e senza ambiguità il linguaggio genocida di Putin e dei suoi propagandisti.
In un intervento sull'Atlantic Council di pochi giorni fa ha sottolineato come da anni Putin metta in dubbio la legittimità della statualità ucraina, insistendo sul fatto che gli ucraini siano davvero russi, e sostenendo che l'intera nozione di un'Ucraina separata dalla Russia sia stata creata artificialmente da potenze straniere.
Vitvisky ripercorre le affermazioni di Putin a partire dal saggio del 2021 "Sull'unità storica di russi e ucraini", il cui il presidente russo nega l'esistenza della nazione ucraina. Il saggio, non casualmente, è stato reso lettura obbligatoria per tutti i membri dell'esercito. «Il messaggio all'esercito invasore - scrive Vitvisky - non avrebbe potuto essere più chiaro: l'Ucraina è uno stato illegittimo e tutti gli ucraini che insistono diversamente sono traditori e nemici della Russia che dovrebbero essere trattati in modo appropriato».
Vitvisky analizza i discorsi di Putin del 2022, pensati per giustificare l’invasione. Putin passa a definire gli ucraini neo-nazisti e tossicodipendenti e promette di denazificare il paese. I media russi lo seguono e cominciano a predicare il genocidio.
Quando emergono le immagini dell'eccidio di Bucha l'agenzia statale russa Ria Novosti pubblica un articolo titolato "Cosa la Russia dovrebbe fare con l'Ucraina", articolo che spiega in sostanza che de-nazificare significhi de-ucrainizzare, la stessa indipendenza del paese viene denunciata come un atto criminale e nazista.
«Denazificazione», scrive Ria Novosti, «è inevitabilmente anche deucrainizzazione». Questa è la classica ideologia genocida: corrisponde ai tipi di giustificazioni che si trovano nell'Olocausto, nel genocidio ruandese, nel genocidio armeno e in tutti gli altri casi principali.
Nonostante questa campagna mediatica massiccia e sempre più spregiudicata, molti funzionari e diplomatici rimangono prudenti, ma, scrive ancora Bohdan Vitvitsky, «credo che sia un genocidio così sfacciato che gli autori ne hanno effettivamente pubblicizzato le intenzioni in anticipo. Se milioni di ucraini ora muoiono a causa dell'inazione internazionale, nessuno può affermare di non saperlo».
Crimini di guerra e genocidio, qual è la differenza? Il Dubbio il 13 aprile 2022. Biden accusa Putin di genocidio, Macron invita alla prudenza. Intanto la Corte penale internazionale è a lavoro: ecco come si classificano queste categorie di crimini. La scheda
Per il presidente Usa Joe Biden, in Ucraina le truppe russe stanno commettendo un genocidio e la stessa accusa nei confronti di Vladimir Putin è stata mossa dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha invitato alla prudenza, perché ritiene che una «escalation delle parole» non contribuisca all’obiettivo di fermare la guerra e cercare la pace, ma ha insistito sul fatto che l’esercito russo ha commesso «crimini di guerra». Il tutto mentre l’Ue fa sapere che contribuirà alle indagini e farà di tutto «per punire i responsabili dei crimini di guerra in Ucraina».
L’organismo competente per giudicare queste categorie di crimini è la Corte internazionale di giustizia (Icc/Cpi), con sedeall’Aja. Né la Russia né l’Ucraina ne fanno parte, tuttavia Kiev ha accettato la giurisdizione della Corte per i crimini commessi sul suo territorio a partire dall’invasione russa della Crimea, nel 2014. È sulla base di questo “via libera” che lo scorso 3 marzo la Cpi ha aperto un’indagine su sospetti crimini di guerra compiuti in Ucraina. Ecco qual è la differenza tra le varie categorie che rientrano nelle competenze della Cpi, ovvero crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Di recente è stata inoltre istituita una nuova categoria, il crimine di aggressione.
Crimini di guerra
I crimini di guerra sono gravi violazioni del diritto internazionale contro civili e combattenti durante i conflitti armati. I parametri per individuare ciò che costituisce un crimine di guerra sono individuati dall’articolo 8 dello Statuto di Roma del 1998, che ha istituito la Cpi: si tratta di «gravi violazioni» delle Convenzioni di Ginevra del 1949, ovvero oltre 50 ipotesi di reato, tra le quali uccisioni, torture, stupri e presa di ostaggi, nonché attacchi a missioni umanitarie. L’articolo 8 riguarda anche gli attacchi deliberati contro civili o «città, villaggi, abitazioni, edifici che sono indifesi e che non sono obiettivi militari» nonché la «deportazione o trasferimento di tutta o parte della popolazione» di un territorio occupato. Le autorità ucraine affermano di aver finora ricevuto 5.600 denunce di presunti crimini di guerra da parte delle forze russe dall’inizio dell’invasione il 24 febbraio.
Crimini contro l’umanità
La nozione di tale reato è stata formulata per la prima volta l’8 agosto 1945 e codificata nell’articolo 7 dello Statuto di Roma. Implica «un attacco diffuso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile», inclusi «omicidio» e «sterminio», nonché la «riduzione in schiavitù» e la «deportazione o il trasferimento forzato». I crimini contro l’umanità possono verificarsi in tempo di pace e includono torture, stupri e discriminazioni, siano esse razziali, etniche, culturali, religiose o di genere.
Genocidio
Il genocidio come concetto legale risale ai processi di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti. Il termine è stato coniato dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin per descrivere lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei. Il reato di genocidio è stato formalmente creato nella Convenzione sul genocidio del 1948 per descrivere «atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il genocidio è un «crimine internazionale molto specifico» che è difficile da provare, ha precisato Cecily Rose, professoressa di diritto internazionale all’Università di Leiden nei Paesi Bassi, perché richiede la prova della «motivazione mentale» dietro di esso. Tra i crimini riconosciuti come genocidio c’è quello commesso nel 1994 in Ruanda ai danni dei tutsi e degli hutu moderati.
Crimine di aggressione
Nel 2017 la Cpi ha aggiunto il crimine di aggressione al suo mandato che riguarda gli attacchi alla «sovranità, integrità territoriale o indipendenza politica» di un altro Paese. Il reato mira a garantire che i leader politici e militari siano ritenuti responsabili delle invasioni, ma non può essere utilizzato contro le decine di membri della Cpi che non hanno riconosciuto la giurisdizione del tribunale, né contro i non membri. I giuristi ritengono che invocare questo crimine nei confronti del presidente russo potrebbe richiedere l’istituzione di un tribunale speciale per l’Ucraina.
CRIMINI DEGLI UCRAINI. GLI SCUDI UMANI.
“In Ucraina civili come scudi umani”. E in Amnesty scoppia il caos. Bianca Leonardi su Nicolaporro.it il 7 Agosto 2022.
Quando i buoni diventano cattivi all’occorrenza: così potrebbe essere descritta l’apocalisse che sta vivendo Amnesty International a seguito dell’ultimo report che denuncia le forze ucraine di aver infranto il diritto umanitario internazionale. Nello specifico, l’Ong fin dall’inizio si è sempre mostrata incline all’Ucraina e ha, addirittura, qualche mese fa, presentato un’inchiesta – frutto di mesi di lavoro sul posto – che riportava le prove dei crimini di guerra commessi nella città ucraine dai russi.
L’invito, immediatamente accolto dal presidente Zelensky, era quello di incalzare la Corte Penale Internazionale avviando così le indagini e, successivamente, i processi. Ad oggi, Amnesty International è firmataria di un altro report: non diverso da quelli che ha sempre realizzato in tutte le zone di conflitto nel mondo, ma pericolosamente diverso per l’Ucraina. Il quadro che viene riportato indica infatti come l’esercito ucraino avrebbe utilizzato i civili come scudi umani, mettendo in pericolo la popolazione civile in quanto i soldati avrebbero posizionato le armi in luoghi come scuole, abitazioni ed ospedali. I soldati di Kiev, quindi, hanno trasformato obiettivi civili in obiettivi militari, violando il diritto internazionale, massacrando volutamente il proprio popolo – aggiungiamo noi, ammessa la veridicità del dossier.
E se sui crimini di guerra dei russi non si è aperta nessuna voragine, la denuncia nei confronti di Kiev ha portato a un vero e proprio terremoto politico. In primis da parte di Zelensky che non ha fatto segreto della sua rabbia, fino all’indignazione dei vertici ucraini che hanno affermato che “il gruppo per i diritti umani ha cercato di spostare la responsabilità dall’aggressore alla vittima”. Ed è così che Amnesty International è diventata improvvisamente filoputin, motivo per cui il dirigente ucraino della Ong, Oksana Pokalchunk ha deciso (spontaneamente?) di dimettersi, accusando la sua ormai ex organizzazione di fare il gioco della propaganda del Cremlino.
Inoltre, Pokalchunk ha dichiarato anche che Amnesty “ha diffuso una dichiarazione che suona come un sostegno alla narrativa russa”, aggiungendo: “Ho cercato di avvertire l’alta dirigenza di Amnesty che il rapporto era unilaterale e non aveva tenuto adeguatamente conto della posizione ucraina ma è stata ignorata”. Dichiarazioni che sembrerebbero dimostrare le pressioni di Kiev sui funzionari, in modo da tenere tutto in equilibrio per non “sporcarsi mai le mani”, nonostante in una guerra sia impossibile non farlo. Il tentativo di avvertire preventivamente i piani alti di Amnesty e la richiesta di Pokalchuk di “tenere in considerazione la posizione ucraina” fanno ben pensare al controllo smisurato in cui Kiev si impegna per far vedere al mondo la bontà, l’altruismo e il coraggio: i lasciapassare di cui – probabilmente – il miope occidente ha bisogno per giustificare le scelte che giornalmente intraprende.
Ed è così che la dittatura dei buoni fa breccia, e non è la prima volta. Lo scorso anno si era presentata la stessa dinamica dopo che Amnesty aveva deciso di smettere di definire Navalny come “prigioniero di coscienza”. Agli ucraini questa scelta non era piaciuta, essendo Navalny il più celebre oppositore del Cremlino, tanto che, dopo infinite pressioni, la Ong è dovuta tornare sui propri passi. Questa volta Amnesty dichiara, però, che “essere in una posizione difensiva non esonera l’esercito ucraino dal rispetto del diritto umanitario internazionale”, andando contro a testa alta al governo di Kiev che ha duramente respinto il rapporto definendolo addirittura “una perversione”.
A prescindere dalle idee sullo scontro bellico sembrerebbe palese – e pericoloso – la strategia messa in atto dalle forze di Zelensky, fatta di un oscurantismo più totale su tutto ciò che non premia l’operato di Kiev, di intimidazioni presentate come “pressioni” e di controllo totale su quell’immagine che, da una parte dalla stessa Ucraina per non deludere i partner, dall’altra dall’Occidente, sembra essere stata costruita ad hoc. Se già c’erano dubbi sull’atteggiamento di un’Ucraina solo vittima e mai colpevole – nella visione, oggettivamente utopica, che viene promossa per cui in una guerra c’è un solo innocente e un solo colpevole – questa vicenda non può che confermare, almeno in questo caso, una dubbia gestione della tanta sbandierata democrazia. Una democrazia che vale solo per i prescelti e che, quindi, sembrerebbe tendere inevitabilmente a prendere le sembianze di un’azione totalitaria a tutti gli effetti. Non si dice, ci hanno insegnato, ma i fatti questa volta parlano chiaro. Bianca Leonardi, 7 agosto 2022
Mirko Molteni per “Libero Quotidiano” il 5 agosto 2022.
Da mesi i russi ripetono che gli ucraini dispongono truppe e armi presso case, scuole, ospedali, usando i civili come "scudi umani", ma col risultato d'aumentare le "vittime collaterali" dei raid. Ora si schiera con la versione di Mosca anche Amnesty International, che ha pubblicato ieri un'inchiesta, condotta da aprile a luglio fra Kharkiv, Donbass e Mykolaiv e corroborata da foto satellitari.
Vi si legge: «Le forze ucraine hanno messo in pericolo i civili collocando basi e usando armi in centri abitati, anche in scuole e ospedali. Violano il diritto internazionale perché trasformano obiettivi civili in obiettivi militari».
Numerosi i casi, rilevati in 19 città. Per citare solo due episodi, a Mykolaiv una madre ha perso il figlio, ucciso nel cortile di casa da un attacco russo perché soldati ucraini erano appostati nella casa di fianco alla loro, mentre a Kharkiv due impiegati di un ospedale sono morti nel raid che ha colpito l'edificio perché vi erano installati soldati di Kiev.
In 22 scuole su 29 da essi visitate, i ricercatori di Amnesty hanno trovato soldati ucraini o indizi della loro attività: divise, casse di munizioni, veicoli militari. Amnesty ha inoltrato fin dal 29 luglio il rapporto a Kiev, che ha taciuto imbarazzata.
Solo ieri il consigliere presidenziale Mikhail Podolyak ha rotto il silenzio sostenendo che sarebbe «un'operazione d'informazione per screditare le forze ucraine e minare la fornitura di armi dai partner occidentali».
Intanto, l'Onu s' appresta, stando al Guardian, a un'inchiesta sull'uccisione di 53 prigionieri ucraini nel carcere di Olenivka. Sia la Russia, sia l'Ucraina hanno chiesto l'indagine perché si accusano a vicenda del misfatto. E mentre l'accordo sul grano pare funzionare, oggi è previsto l'incontro fra i presidenti russo e turco Vladimir Putin e Recep Erdogan a Sochi, sul Mar Nero, a riconoscimento del ruolo mediatore di Ankara.
Sul campo, i russi tentano di sfondare le difese sull'asse Sloviansk-Kramatorsk e nel crocevia di Bakhmut, mentre gli ucraini hanno ripreso i villaggi di Mazanivka e Dmytrivka. Il sindaco di Donetsk, Alexey Kulemzin, denuncia che 6 civili sono stati uccisi da tiri d'artiglieria ucraina in città, ma 8 altri civili sono stati uccisi da una cannonata russa su una fermata d'autobus. I russi hanno inoltre colpito con 60 razzi Gradi distretti di Nikopol e Kryvorizky, nella regione di Dnipropetrovsk.
Diritti umani in Ucraina, Noury (Amnesty): «Anche la guerra ha delle regole e i civili vanno sempre protetti». Il portavoce dopo le polemiche dei giorni scorsi: «L'unico obiettivo delle nostre azioni è di tutelare la popolazione dai crimini di guerra. Senza diritti vince il modello Erdogan». Carlo Gubitosa su L'Espresso l'8 Agosto 2022
Il 4 agosto scorso Amnesty International ha rilasciato un comunicato su alcuni casi di violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dell'esercito ucraino, legate all’uso di strutture come scuole e ospedali col rischio di mettere in pericolo i civili nell’area.
Informazioni verificate e dello stesso tenore di precedenti rapporti dell’ONU, ma bollate come contributo alla propaganda militare del regime di Putin, anche con toni molto violenti, nonostante le persecuzioni subite in Russia dall’organizzazione.
Ad aprile infatti Amnesty ha visto chiudere d’autorità i suoi uffici di Mosca proprio per aver denunciato le violazioni dei diritti umani di quel regime. Ma per il presidente ucraino Zelensky si è trattato di “un rapporto che purtroppo cerca di amnistiare lo Stato terrorista e di spostare la responsabilità dall’aggressore alla vittima”, come ha dichiarato in un videomessaggio. Abbiamo chiesto a Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International, alcune informazioni di contesto per capire meglio il processo che ha portato a questa analisi delle attività di un esercito aggredito mentre è ancora in corso la campagna militare dell’aggressore.
Con quali finalità Amnesty ha rilasciato il suo comunicato?
«Gli obiettivi sono almeno tre: fornire informazioni imparziali al pubblico e alla stampa sulle violazioni del diritto internazionale umanitario; pretendere dalle parti in conflitto di porre fine a tali violazioni; favorire, mettendo a disposizione le prove raccolte, le indagini della giustizia internazionale, in particolare del procuratore del Tribunale penale internazionale. Il 29 luglio abbiamo inviato le nostre conclusioni al ministero della Difesa ucraino, chiedendo commenti, lasciando cinque giorni di tempo dopo i quali avremmo diffuso la ricerca. E' una procedura standard, che seguiamo ogni volta che esce un contenuto importante. Non abbiamo ricevuto risposta».
Come si può pensare di applicare il diritto internazionale umanitario in un contesto di totale abuso e arbitrio come una zona di guerra?
«Può sembrare paradossale ma anche una guerra ha delle regole che devono essere rispettate: le prescrive il diritto internazionale umanitario, che ha come architrave le quattro Convenzioni di Ginevra. L'obbligo più chiaro è che, durante un conflitto, le popolazioni civili vanno protette. Altri obblighi riguardano il trattamento dei prigionieri di guerra, il comportamento della potenza occupante nei confronti della popolazione occupata e così via. Per quello che riguarda il comunicato stampa del 4 agosto, abbiamo rilevato, attraverso una ricerca in tre regioni dell'Ucraina, tra cui il Donbass, che la condotta militare dell'esercito ucraino ha posto a rischio la popolazione civile. In che modo? Stazionando in centri abitati, case e palazzi, scuole e ospedali e da lì a volte aprendo il fuoco. In questo modo, le forze ucraine hanno trasformato un obiettivo civile in un obiettivo militare. Questo, lo abbiamo scritto e detto ripetutamente, non fornisce alcuna giustificazione alle forze russe, che quando hanno attaccato quei bersagli hanno comunque commesso crimini di guerra, uccidendo civili. Nondimeno, le forze ucraine hanno portato avanti una tattica contraria al diritto internazionale umanitario».
Quali sono le accortezze che vengono adottate da Amnesty per marcare la distanza dalla propaganda bellica e ridurre il rischio di strumentalizzazioni?
«Restare zitti per evitare strumentalizzazioni sarebbe dannoso per la nostra imparzialità e la nostra credibilità. Normalmente adottiamo una strategia di comunicazione reattiva, per prepararci a possibili reazioni ostili e alle modalità per contrastarle, anche se in questo caso, devo dirlo, questa strategia non è stata pianificata in modo ottimale, e si è arrivati alla data di pubblicazione riponendo eccessiva fiducia nel fatto che la risposta ucraina sarebbe stata diversa da quella della propaganda russa. Ovviamente, la narrazione della guerra della Russia contro l'Ucraina in Italia risente del fatto che il nostro paese è impegnato al fianco del paese aggredito, un impegno portato avanti anche attraverso forniture militari. Per questo, la narrazione ucraina (che ci ha accusato di equidistanza, confusione tra aggressore e vittima, aiuto ai terroristi russi ecc) è stata ripresa in modo pressoché integrale, anche con toni veementi e con insulti».
Vi è stato contestato il mancato coinvolgimento della sezione ucraina di Amnesty International nella stesura del comunicato, al punto che la direttrice ha presentato successivamente le sue dimissioni. Cosa ne pensi?
«A fare ricerca sulle tattiche militari delle forze ucraine è stato lo stesso team che per cinque mesi aveva fatto ricerche sui crimini di guerra russi in Ucraina: un team che ha seguito le peggiori crisi (Siria, Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana tra le altre) di questo inizio di secolo. Quando si è trattato delle ricerche sui crimini di guerra russi in Ucraina, il problema dello "scavalcamento" di Amnesty Ucraina non è stato sollevato».
A suo parere questa polemica contro Amnesty rischia di alimentare la propaganda contro i diritti umani di teocrazie, regimi autoritari e stati canaglia già apertamente ostili all'operato di Amnesty?
«Questa guerra sta scompaginando tutto, dando spazio a "mediatori" come Erdogan che ne approfittano per porre ricatti sui diritti umani (nel caso specifico, ai danni dei curdi) e concedendo ulteriore potere a stati autoritari che si offrono come fonti alternative di idrocarburi (Algeria, Egitto, Mozambico, stati del Golfo e così via). Russia e Cina si ripropongono come modelli di antioccidentalismo e antiamericanismo. E molta gente ci casca, come ci è cascata per oltre un decennio idolatrando Bashar el-Assad, il presidente siriano che negli anni della "guerra al terrore" collaborava con la Cia torturando i presunti terroristi che i servizi statunitensi gli portavano a casa per "interrogatori". In tutto questo, non è tanto Amnesty International che rischia di essere schiacciata ma lo sono i temi e i movimenti per i diritti umani relativi a quei paesi. Non abbiamo mai contato sull'appoggio di poteri politici o militari per affermare i diritti umani, ma è indubbio che stanno sempre più emergendo leadership ostili al rispetto dei diritti umani. Ribadisco, Erdogan è il modello purtroppo vincente.
Al comunicato che documentava le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dell’esercito ucraino ha fatto seguito un successivo comunicato di scuse affidato alla Reuters. Qual è il senso, lo scopo e la motivazione di queste scuse?
«Pur ribadendo le conclusioni della nostra ricerca, abbiamo ritenuto doveroso esprimere rammarico e dispiacere per gli stati d'animo di tante persone che, in Ucraina, hanno aiutato e accompagnato, per molti anni e non solo dal 24 febbraio, le nostre azioni in favore dei diritti umani. Comprendiamo il senso di delusione e quasi di "tradimento" che sia stato provato e vorremmo che, a mente fredda, si riconoscesse il fatto che l'unico obiettivo delle nostre azioni è di proteggere i civili ucraini dai crimini di guerra russi e, quando accade, da comportamenti delle forze ucraine che possono metterli a rischio. Vorremmo anche che si comprendesse la differenza tra un comunicato stampa di quattro pagine prodotto a quasi sei mesi dall'inizio dell'invasione russa e oltre una ventina di denunce contro le forze russe (tra cui lunghi rapporti) rese pubbliche a partire dal 24 febbraio».
Estratto dell'articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 20 aprile 2022.
A inizio marzo uno sperduto villaggio di meno di 600 abitanti, Husarivka, nella parte orientale dell'Ucraina, è stato colpito da bombe a grappolo, chiamate anche "munizioni a grappolo", armi messe al bando dall'Onu perché doppiamente vigliacche: esplodono una prima volta in mezzo all'aria, seminando frammenti a loro volta esplosivi. Il punto è che non sarebbero state lanciate dai russi, ma dagli ucraini.
Lo riporta il New York Times, secondo il quale le "cluster munitions" sarebbero state lanciate in un tentativo di riprendere il controllo del territorio. È il primo caso verificato che coinvolge gli ucraini.
Nessuno è rimasto ucciso, anche perché Husarivka è un villaggio rurale, semideserto, fatto per lo più di campi coltivati e condotte di gas. Il villaggio, che si trova a 150 chilometri da Karkiv, è stato ripreso dagli ucraini, ma il ricorso a "munizioni a grappolo" sarebbe in violazione della Convenzione Onu che dal 2010 vieta l'utilizzo di armi che possono colpire, in modo indiscriminato, i civili.
Secondo gruppi umanitari, i frammenti arrivati a terra e non esplosi potrebbero farlo in un secondo momento se presi in mano. Più di cento nazioni hanno aderito alla messa al bando, ma non Ucraina, Russia, Stati Uniti, Cina e Israele. Per la comunità internazionale l'uso delle "cluster munitions" si configura come "crimine di guerra".
Cosa sappiamo sulle bombe a grappolo usate dall’esercito ucraino. Federico Giuliani su Inside Over il 19 aprile 2022.
Da quando ha preso il via il conflitto ucraino l’esercito russo ha ripetutamente usato le temibili bombe a grappolo per conquistare villaggi e città. L’utilizzo di queste armi è teoricamente vietato da un accordo internazionale anche se alcuni Paesi – tra cui Russia e Ucraina – non lo hanno sottoscritto. Abbiamo parlato anche dell’Ucraina perché, oltre ad essere la parte lesa, Kiev avrebbe a sua volta impiegato le bombe a grappolo. Secondo quanto riportato dal New York Times, e in base alle prove esaminate dal quotidiano statunitense, è altamente probabile che le suddette munizioni siano state lanciate dalle truppe ucraine che stavano cercando di riconquistare l’area dalle forze di Mosca. Il luogo del misfatto coincide con Husarivka, un villaggio agricolo circondato da campi di grano e linee di gas naturale. A quanto pare, gli ucraini avrebbero bombardato il villaggio per la maggior parte del mese con l’intenzione di prendere di mira i nemici. La decisione di Kiev di colpire Hsarivka con bombe a grappolo in grado di uccidere persone innocenti sottolineerebbe (il condizionale è d’obbligo) il calcolo strategico dell’Ucraina di riconquistare i territori del loro Paese a qualunque costo.
Cosa sono le bombe a grappolo
Le bombe a grappolo sono una classe di armi che comprende razzi, missili, mortai, proiettili di artiglieria e bombe che, una volta lanciate, si dividono a mezz’aria facendo piovere bombe più piccole su un’ampia area.
In generale, stiamo parlando di bombe pensate per contrastare concentramenti di forze. Il loro funzionamento, come anticipato, è tanto semplice quanto letale. L’ordigno – sparato da elicotteri, artiglierie o aerei – rilascia sopra l’obiettivo varie sub-munizioni pensate per esplodere con l’impatto, anche se talvolta queste sono rallentate da appositi paracaduti oppure possono esplodere in un secondo momento trasformandosi, di fatto, in mine.
La Convenzione sulle munizioni a grappolo, entrata in vigore nel 2010, vieta il loro utilizzo per i danni indiscriminati che possono causare ai civili.
Stupri degli ucraini, ora lo ammette pure l’Onu. Redazione su Nicolaporro.it il 6 Giugno 2022.
Ormai siamo alle liste di proscrizione. Alle presunte (e smentite) indagini del Copasir su influencer, opinionisti e giornalisti accusati di “putinismo”. Al punto in cui il Corriere pubblica foto segnaletiche dei colpevoli come manco nei peggiori bar de Caracas. Come la pensiamo, lo sapete: non si possono combattere Putin e la sua autocrazia comportandosi peggio di lui. La grande differenza tra “noi” democratici liberali e “loro” è proprio la capacità di sopportare, difendere e al massimo criticare il dissenso. L’opinione delle minoranze va tutelata. Anche quelle che avanzano le più strampalate delle teorie.
Ci siamo sempre opposti alla denigrazione dei “no vax” e dei “no pass” e lo facevamo, in netta minoranza, per difendere il principio secondo cui in ambito sanitario, sociale e politico non esiste un dogma unico e indivisibile. Il dibattito è il sale delle democrazie. Allo stesso modo, difendiamo pure il diritto dei presunti “putiniani” di criticare Di Maio, di redarguire Mario Draghi, di opporsi all’invio di armi in Ucraina. Ma soprattutto, ribadiamo da tempo la necessità di non trasformare questa guerra in un atto di fede incrollabile. Non c’è bisogno di spiegarvi chi è l’aggredito e chi l’aggressore. Però da qui a buttare tutto in una tifoseria ce ne passa. Le domande vanno poste, come ha fatto Toni Capuozzo su Bucha. Occorre interrogarsi sul ruolo della Nato, sugli errori di Kiev, su quanto avremmo potuto fare per evitare l’inizio della cosiddetta “operazione speciale”. E cosa stiamo facendo (o non facendo) per arrivare alla pace.
Si chiama spirito critico. Quello che permette ad un essere pensante di porsi delle domande sull’utilità o meno delle sanzioni, sulla logica di definire “animale” il presidente russo, sull’opportunità di cercare a tutti i costi un “regime change” a Mosca o “l’umiliazione” di Putin. Quello spirito critico, insomma, che ogni tanto bisognerebbe attivare per leggere tra le righe delle notizie che arrivano non solo dal Cremlino (campione di disinformatia) ma anche da Kiev, che ha fatto sin dall’inizio uso sapiente della propaganda.
Ecco perché non ci piacciono le liste di proscrizione. Perché a forza di affibbiare l’etichetta di “putinisti” a chiunque non segua il tracciato della narrazione “corretta” sul conflitto, si rischia di accusare di intelligenza col nemico la qualunque. A sprezzo del ridicolo. Ci è successo un mesetto abbondante fa. Un istituto americano ci aveva inserito all’interno di un report sulla disinformazione putiniana accusandoci di mettere “in dubbio la narrativa mainstream sulle atrocità di Bucha”. Peccato avessimo solo riportato una notizia fresca fresca – ignorata da molti altri -, ovvero la dichiarazione da parte di Rosemary DiCarlo, sottosegretario generale delle Nazioni Unite, il quale riferiva di “denunce di violenza sessuale da parte delle forze ucraine”. Era una fake news? No. Eppure è bastato mettere in dubbio la moralità dei soldati ucraini per finire in quella sorta di elenco dei cattivoni.
Bene. Il tempo è galantuomo. E infatti oggi dall’Onu è arrivata la conferma di quelle voci. “Abbiamo ricevuto denunce di violenze sessuali avvenute tra le fila delle forze ucraine – ha detto alla Stampa Pamila Pattern, rappresentante speciale di Antonio Guterres – Si tratta di casi che ho portato all’attenzione dei funzionari governativi di Kiev quando sono stata lì e devo dire che da parte loro non c’è stata un atteggiamento negazionista ostruzionista. E loro stessi si sono impegnati a cooperare migliorando i meccanismi di controllo e lavorando a stretto contatto col personale Onu. In realtà si tratta di episodi che erano già avvenuti nella guerra del 2014 e di cui noi abbiamo dato ampia documentazione in un rapporto del 2018″. Questo cancella gli orrori dei russi? No, ovviamente. Ma conferma che non tutto quel che luccica di ucraino è oro. E che discuterne non significa essere dei fan dello Zar.
L’Onu rivela: “Denunce di stupri commessi da soldati ucraini”. Le Nazioni Unite indagano sui crimini di guerra commessi in Ucraina. Accuse a Mosca e Kiev. Redazione su Nicolaporro.it il 6 Aprile 2022.
C’è una notizia, passata in sordina o quasi del nulla riportata dai media, che ieri ha plasticamente disegnato l’orrore della guerra in tutta la sua crudeltà. Rosemary DiCarlo, sottosegretario generale delle Nazioni Unite, parlando al Consiglio di Sicurezza nello stesso giorno in cui Zelensky chiedeva un “tribunale di Norimberga” per i russi, ha spiegato che la missione di monitoraggio dell’Onu in Ucraina sta verificando anche altre accuse, oltre a quelle ascritte ai militari russi a Bucha: “Ci sono denunce di violenza sessuale da parte delle forze ucraine – ha detto – e da parte delle milizie della protezione civile di Kiev”.
Le accuse ai soldati di Zelensky
Esatto: soldati ucraini che commettono abusi sessuali. Possibile? Credibile? Sì, allo stesso modo in cui sono credibili le accuse rivolte ai militari di Putin che ritirandosi fanno una strage o compiono “stupri di gruppo di fronte a bambini“, sevizie e altri orrori. Il motivo è semplice: la guerra è guerra. E dall’alba dei secoli tira fuori il peggio dell’uomo, sia che si tratti di un aggredito che di un aggressore. Sono pochi gli eserciti al mondo che possono vantare di non aver mai avuto tra le loro fila uomini in armi che si sono macchiati di simili crimini.
La situazione sul campo
Non è ovviamente una gara a chi ha la coscienza meno sporca. A tutti è evidente chi ha iniziato la guerra e chi l’ha subita. Ci penserà l’Onu, o una qualche corte internazionale, a stabilire cosa è successo in questo abbondante mese di scontri. Sempre che il conflitto si chiuda nel breve periodo. Epilogo non scontato, visto come stanno andando le manovre sul campo. La Russia si è ritirata dalla regione di Kiev, ha lasciato Irpin e arretra sul fronte Nord. Batte in ritirata? Non è detto: la storia insegna che le offensive si possono sempre riprendere, magari riorganizzando la logistica. È a Sud ed Est che però si concentrano adesso gli sforzi militari di Putin: lo Zar vuole la caduta di Mariupol, si stanno intensificando i bombardamenti su Odessa, gli scontri nella regione del Donbass sono sempre più aspri.
Lo stallo dei negoziati
Sul fronte diplomatico, invece, dopo giorni di trattative, adesso i negoziati sembrano in stallo. Le parti avrebbero raggiunto un accordo sulla neutralità dell’Ucraina, sulla sua demilitarizzazione e l’assenza di basi straniere nel Paese: più o meno lo stesso accordo proposto da Scholz a Zelensky cinque giorni prima dell’invasione, proposta che il presidente ucraino ha respinto. Ritrovandosi ugualmente a rinunciare al sogno Nato dopo oltre 1.500 civili uccisi.
“Crimini di guerra”
La partita adesso si gioca a livello internazionale. Il conflitto pare ormai diventato uno scontro tra l’Alleanza Atlantica e Putin, combattuto per interposto ucraino. Biden insiste nell’inviare aiuti umanitari e nell’innalzare il livello dello scontro, con la ricerca di un difficile (e rischioso) regime change in Russia. L’Europa è divisa, ma in maggioranza si adegua ormai alla linea americana anche grazie alle immagini arrivate da Bucha. Non è un caso se ieri Zelensky, intervenendo all’Onu, ha calcato la mano sul fatto che “i russi vogliono ridurci in schiavitù”, ha evocato una “nuova Norimberga” per i crimini di guerra, ha chiesto di rimuovere la Russia dal Consiglio di Sicurezza e di toglierle il diritto di veto.
Gli alleati occidentali concordano. Antony Blinken è convinto che quanto accaduto a Bucha “non sia un atto isolato ma parte di una campagna deliberata per uccidere, torturare e stuprare civili”. Mezza Europa, Italia compresa, espelle i diplomatici russi, allontanando la possibilità di un accordo. L’Ue è pronta a varare un nuovo pacchetto di sanzioni, che dopo il petrolio potrebbero includere di nuovo il settore energetico (gas escluso). E la pace sembra sempre più lontana.
Intanto, sul campo, restano le atrocità. Da entrambi i lati dello schieramento. Rosemary DiCarlo ha riferito di “accuse credibili” sull’uso della Russia di “munizioni a grappolo in aree popolate”, bombe vietate dalle convenzioni internazionali se fatte cadere in aree civili. Tuttavia l’Onu ha precisato che “anche le forze ucraine hanno usato tali armi” e “sono oggetto di indagine”.
I costi umani della guerra in Ucraina. Piccole Note il 31 marzo 2022 su Il Giornale.
“L’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato domenica che sono stati uccisi finora 1.119 civili e 1.790 sono rimasti feriti da quando la Russia ha iniziato il suo attacco all’Ucraina”. Così la Reuters il 27 marzo.
Numeri terribili, ovviamente, ma è il tragico dinamismo delle guerre. E però se si fa un raffronto tra questi numeri e quelli della guerra irachena, l’unica comparabile a questa – tra quelle recenti – per scala, appaiono alquanto ridotti.
Peraltro, le vittime civili sembra non siano dovute solo alla brutalità degli attacchi, ma anche alle tattiche difensive degli ucraini. Lo scrivono Claire Parker e Volodymyr Petrov, quest’ultimo inviato a Kiev, sul Washington Post in un articolo dal titolo: “La Russia ha ucciso dei civili in Ucraina. Le tattiche di difesa di Kiev aumentano il pericolo“.
“Sempre più spesso – si legge nell’articolo – gli ucraini si trovano ad affrontare una scomoda verità: il comprensibile impulso dei militari a difendersi dagli attacchi russi potrebbe mettere nel mirino i civili. Praticamente ogni quartiere nella maggior parte delle città è stato militarizzato, alcuni più di altri, rendendoli potenziali bersagli per le forze russe che cercano di eliminare le difese ucraine”.
“Sono molto riluttante a suggerire che l’Ucraina sia responsabile delle vittime civili, perché l’Ucraina sta combattendo per difendere il suo paese da un aggressore”, ha affermato William Schabas, professore di diritto internazionale alla Middlesex University di Londra. “Ma nella misura in cui l’Ucraina porta il campo di battaglia nei quartieri civili, aumenta il pericolo per gli stessi”.
E ancora: “La strategia dell’Ucraina di posizionare pesanti equipaggiamenti militari e altre fortificazioni nelle zone civili potrebbe indebolire gli sforzi occidentali e ucraini di ritenere la Russia legalmente colpevole di possibili crimini di guerra, hanno affermato alcuni attivisti per i diritti umani e alcuni esperti di diritto umanitario internazionale”.
Uno degli esperti interpellato dal Wp è Richard Weir, ricercatore del settore crisi e conflitti di Human Rights Watch, che sta lavorando in Ucraina, il quale ha dichiarato che l’esercito ucraino ha “la responsabilità, secondo il diritto internazionale,” di rimuovere le proprie forze e gli equipaggiamenti dalle aree popolate da civili e, se ciò non è possibile, di spostare i civili fuori da quelle aree”.
“Se non lo fanno, è una violazione delle leggi di guerra”, ha aggiunto. “Perché quello che stanno facendo è mettere a rischio i civili. Perché tutto quell’equipaggiamento militare è un obiettivo legittimo”.
“il confine tra un crimine di guerra e ciò che non è tale diventa più sfumato se i quartieri residenziali vengono militarizzati e diventano campi di battaglia in cui le morti di civili sono inevitabili”, scrivono i cronisti, che dettagliano cose viste in loco.
“L’Ucraina non può usare i quartieri civili come ‘scudi umani'”, ha detto Schabas, anche se ha precisato che non gli sembrava che ciò stesse avvenendo. Precisazione che suona un po’ come obbligata, dovendo parlare a un media come il WP.
Insomma, nella nebbia che circonda la guerra ucraina, tante le circostanze che andrebbero chiarite, ma che per ovvie ragioni rimangono sfumate. Di certo, l’Ucraina, come spiega l’articolo, ha scelto di difendersi attestandosi nelle città, evitando lo scontro aperto con i russi. E ciò aumenta i rischi.
I russi hanno proposto più volte di aprire corridoi umanitari per far defluire la popolazione civile dai centri abitati, come già aveva fatto in Siria, spiegava un indignato articolo di Molinari, che la definiva appunto una strategia bellica di Mosca.
In effetti, sembra proprio una strategia russa, dal momento che non abbiamo visto analoghe iniziative durante le guerre infinite, quando ad attaccare erano le forze Nato. Ma alla luce di quanto scrive il Wp non sembra ci sia molto da indignarsi, dal momento che tale strategia sta riducendo la portata di questa tragedia, che potrebbe essere ben più grave.
Il punto è che non sempre i corridoi umanitari funzionano. Spesso come accadeva anche in Siria, i civili in fuga sono stati presi di mira da bombe e proiettili, con conseguente fallimento dell’evacuazione.
Non si sa bene di chi sia la responsabilità di questi crimini. In Siria a bombardare erano i jihadisti assediati, che non volevano perdere i loro scudi umani (vedi Piccolenote).
Appare alquanto strano che in Ucraina a sparare siano i russi, come hanno scritto alcuni media. I russi, infatti, avrebbero tutto l’interesse a far defluire i civili per poter attaccare più liberamente, come fa capire l’accenno di Molinari. Così resta il mistero, o forse no.
Dal momento che si è in tema, ci hanno segnalato un video che gira su YouTube, filmato di un cronista di al Jazeera, che documenta uno spostamento di alcuni militari ucraini per mezzo di un’ambulanza.
Lo segnaliamo ai lettori (almeno finché non sarà bannato anche questo) così come ci è stato indicato a noi, perché in effetti è alquanto sconcertante, dal momento che è contrario alle Convenzioni di Ginevra: potrebbe, infatti, rendere anche le ambulanze un obiettivo militare.
Forse è un caso isolato, forse no. Se fosse pratica diffusa e articolata, come sembrerebbe dalla disinvoltura con cui si muovono i militari in questione, interpella non poco.
I decessi del conflitto sono responsabilità dei russi, dal momento che sono loro gli aggressori, cosa che non va dimenticata. E, però, come documenta l’articolo del Wp, il quadro di questa tragedia è più complesso e articolato di quanto sembra.
Ucraina. Scudi umani e missili sui quartieri; “i civili messi in pericolo”. Contropiano.org il 6 aprile 2022.
Nei media di regime italiani un articolo del genere sarebbe stato rifiutato dal caporedattore e dal direttore, senza alcuna esitazione. E invece un quotidiano un po’ più serio, come il Washington Post – filo-democratico, ultra-patriottico, sinceramente imperialista – lo ha pubblicato come un servizio decisamente importante. Senza alcuna concessione per i russi, ma senza bendarsi gli occhi sui presunti “eroi”…
Cosa dice di così sconvolgente? Che l’esercito ucraino e le sue milizie di contorno (compresi i battaglioni dichiaratamente nazisti) adottano una tattica di combattimento che mette in grave pericolo la propria popolazione stessa.
Detto semplicemente: piazzano le loro batterie missilistiche e contraeree in mezzo ai palazzi residenziali, in modo da rendere più problematico l’attacco per l’artiglieria, i missili e gli aerei russi.
Non è che i dirigenti ucraini non ne siano pienamente consapevoli. Alexei Arestovich, consigliere del capo dell’ufficio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha detto che la dottrina militare del paese, approvata dal parlamento, prevede il principio della “difesa totale“.
Detto con altre parole, scorrendo le varie dichiarazioni dei comandanti sul terreno, “le leggi umanitarie internazionali o le leggi della guerra non si applicano in questo conflitto“. O anche: “tutti capiamo i rischi. Non possiamo difendere la città senza rischiare o ferire i civili, purtroppo“.
Ma il cosiddetto principio della “guerra totale” – che era applicato dall’esercito nazista, non a caso, quando invadeva territori altrui – implica necessariamente che non c’è più possibilità operativa di distinguere tra militari (obiettivo legittimo di ogni azione di guerra) e civili (obiettivo vietato, che giustifica l’accusa di crimini di guerra).
Se ne sei consapevole, e lo applichi in una guerra, anche difensiva, il discorso non cambia. E arrivi ad usare i civili non come “l’acqua entro cui nuota l’avanguardia politica e/o militare” (principio maoista – o guerrigliero – che implica un’organizzazione capillare delle strutture popolari per renderle adatte a quel tipo di guerra, imposta, in quel caso, dai giapponesi), ma come “il bosco entro cui si nascondono i combattenti” (che usano le piante come “materiale”, a proprio esclusivo vantaggio e senza alcun vincolo).
E’ – quest’ultima – una pratica vietata in qualsiasi tipo di guerra, perché significa usare i civili come “scudi umani”. Non proprio una tattica da “eroi”, diciamo così…
Buona lettura (si fa per dire…)
La Russia ha ucciso dei civili in Ucraina. Le tattiche di difesa di Kiev accrescono il pericolo. Sudarsan Raghavan – Washington Post il 28 marzo 2022.
Il sospetto missile russo ha colpito l’alto condominio, inondandolo di fiamme e fumo. Ha ucciso almeno quattro persone, compresi i residenti anziani, e ha sconvolto la vita di una comunità molto unita. Per il parlamentare Oleksii Goncharenko, la tragedia è un altro esempio di potenziali crimini di guerra russi.
“Stanno colpendo solo edifici residenziali in queste zone“, ha detto il membro del parlamento ucraino, che è arrivato sulla scena poco dopo l’esplosione di due settimane fa. “Puoi camminare in giro, non troverai nessun obiettivo militare, o nessun militare. Questo è solo terrore“.
Eppure, pochi minuti dopo, il suono frusciante dei razzi ucraini sparati da un lanciarazzi multiplo ha fatto trasalire i residenti che fissavano bianchi in faccia le loro case distrutte. Poi, un’altra raffica in uscita. Le armi sembravano essere vicine, forse a poche strade di distanza, certamente ben dentro la capitale.
Sempre più spesso, gli ucraini si stanno confrontando con una scomoda verità: il comprensibile impulso dell’esercito a difendersi dagli attacchi russi potrebbe mettere i civili nel mirino.
Praticamente ogni quartiere nella maggior parte delle città è stato militarizzato, alcuni più di altri, rendendoli potenziali obiettivi per le forze russe che cercano di eliminare le difese ucraine.
“Sono molto riluttante a suggerire che l’Ucraina sia responsabile delle vittime civili, perché l’Ucraina sta combattendo per difendere il suo paese da un aggressore“, ha detto William Schabas, un professore di diritto internazionale alla Middlesex University di Londra. “Ma nella misura in cui l’Ucraina porta il campo di battaglia nei quartieri civili, aumenta il pericolo per i civili“.
Le città dell’Ucraina – e le aree civili – sono diventate il crogiolo della guerra, dove un’intensa lotta si sta svolgendo tra i russi che vogliono prendere o controllare queste aree e gli ucraini che resistono con sfida.
Questo ha trasformato il conflitto in una guerra in gran parte urbana, forgiata più dalle armi aeree e dai bombardamenti che dai tradizionali combattimenti strada per strada in molte aree. Con le forze russe che prendono di mira le città, gli ucraini hanno risposto fortificando le aree civili per difendere Kiev, schierando sistemi di difesa aerea, armi pesanti, soldati e volontari per pattugliare le enclavi. Le vittime civili stanno aumentando.
Non c’è dubbio che le forze russe sono dietro gli atti più orribili della guerra che continua per un secondo mese. Hanno colpito scuole, cliniche, ambulanze, centri commerciali, impianti elettrici e idrici e autovetture, tra i numerosi attacchi indiscriminati contro i civili, secondo gli attivisti dei diritti umani. Nella città meridionale di Mariupol, un sospetto attacco aereo russo ha ucciso molte persone che si erano rifugiate in un teatro. Era chiaramente segnato, con la parola russa per “bambini” in lettere enormi visibili dal cielo. Giorni prima era stato colpito un ospedale di maternità.
Ma la strategia dell’Ucraina di collocare attrezzature militari pesanti e altre fortificazioni in zone civili potrebbe indebolire gli sforzi occidentali e ucraini per ritenere la Russia legalmente colpevole di possibili crimini di guerra, hanno detto gli attivisti dei diritti umani e gli esperti di diritto internazionale umanitario. La settimana scorsa, l’amministrazione Biden ha formalmente dichiarato che Mosca ha commesso crimini contro l’umanità.
“Se c’è un equipaggiamento militare lì e [i russi] dicono che stiamo lanciando contro questo equipaggiamento militare, questo mina l’affermazione che stanno attaccando intenzionalmente oggetti e civili“, ha detto Richard Weir, un ricercatore della divisione crisi e conflitti di Human Rights Watch, che sta lavorando in Ucraina.
Nell’ultimo mese, i giornalisti del Washington Post sono stati testimoni di razzi anticarro ucraini, cannoni antiaerei e veicoli corazzati per il trasporto di personale posizionati vicino a edifici di appartamenti. In un lotto libero, i giornalisti del Post hanno visto un camion che trasportava un lanciarazzi multiplo Grad.
Posti di blocco con uomini armati, barricate di sacchi di sabbia e pneumatici, e scatole di molotov sono onnipresenti sulle autostrade della città e nelle strade residenziali. Il suono dei razzi e dell’artiglieria in uscita si sente costantemente a Kiev, la capitale, le scie bianche dei missili visibili nel cielo.
“Ogni giorno è così“, ha detto Lubov Bura, 73 anni, in piedi fuori dal palazzo dove viveva che è stato distrutto due settimane fa. Pochi istanti dopo, mentre l’edificio stava ancora bruciando, si è sentito di nuovo il suono dei razzi ucraini in uscita. “A volte sembra più vicino, a volte sembra lontano. Ci pensiamo e, naturalmente, siamo preoccupati, soprattutto di notte“.
L’esercito ucraino ha “la responsabilità secondo il diritto internazionale” di rimuovere le sue forze e le attrezzature dalle aree popolate da civili, e se questo non è possibile, di spostare i civili da quelle aree, ha detto Weir.
“Se non lo fanno, questa è una violazione delle leggi di guerra“, ha aggiunto. “Perché quello che stanno facendo è mettere a rischio i civili. Perché tutto quell’equipaggiamento militare è un obiettivo legittimo“.
Andriy Kovalyov, un portavoce militare della 112a Brigata di difesa territoriale dell’Ucraina, le cui forze e attrezzature sono posizionate nella capitale, si è fatto beffe di questo ragionamento. “Se seguiamo la tua logica, allora non dovremmo difendere la nostra città“, ha detto.
In risposta alle domande scritte dal Post, Alexei Arestovich, consigliere del capo dell’ufficio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha detto che la dottrina militare del paese, approvata dal parlamento, prevede il principio della “difesa totale“.
Ciò significa che i volontari nelle Forze di difesa territoriale o in altre unità di autodifesa hanno l’autorità legale di proteggere le loro case, che sono per lo più in aree urbane. Inoltre, ha sostenuto che le leggi umanitarie internazionali o le leggi della guerra non si applicano in questo conflitto perché “il compito principale della campagna militare di Putin è la distruzione della nazione ucraina”. Ha detto che il presidente russo Vladimir Putin ha ripetutamente negato l’esistenza dell’Ucraina come nazione indipendente.
“Pertanto, ciò che sta accadendo qui non è una competizione degli eserciti europei secondo le regole stabilite, ma una lotta del popolo per la sopravvivenza di fronte a una minaccia esistenziale“, ha detto Arestovich. “Non possiamo impedire ai nostri cittadini di difendere le loro case, le loro libertà, i loro valori e le loro identità come li intendono“.
Lunedì, le forze ucraine hanno mostrato a un gruppo di giornalisti una fortificazione militare in un quartiere residenziale settentrionale della capitale, vicino ad alti condomini, una stazione della metropolitana e negozi. La strada era barricata con linee di pneumatici, blocchi di cemento, mucchi di sacchi di sabbia, oggetti metallici appuntiti per fermare i veicoli e grandi trappole metalliche per carri armati note come “ricci”.
C’erano anche due linee di mine anticarro sulla strada. Su un lato, una lussureggiante macchia di verde, un luogo ideale per i picnic, era sigillata con un cartello di avvertimento: Mine.
“Se si vuole proteggere la città, bisogna essere pronti a combattere dentro la città“, ha detto Pavlo Kazarin, un volontario dell’unità di difesa territoriale e portavoce del suo battaglione. “Purtroppo, non possiamo evacuare tutta la città perché ci sono ancora 2 milioni di persone. Tuttavia, possiamo fermare l’esercito russo fuori dalla città. Ma tutti capiamo i rischi. Non possiamo difendere la città senza rischiare o ferire i civili, purtroppo“.
Alla domanda se c’era la preoccupazione che le forze russe potessero vedere gli appartamenti residenziali come un obiettivo militare a causa delle fortificazioni di fronte, Kazarin ha concordato. “Ma ripeto: ci sono sempre dei rischi quando si cerca di proteggere la città“.
Ha detto che le forze ucraine stanno cercando “tutto per evitare” che Kyiv diventi un’altra Mariupol o Kharkiv, città che sono state pesantemente bombardate e assediate dalle forze russe. “C’è una logica molto crudele nella guerra quando stiamo cercando di proteggere i civili“, ha detto Kazarin.
Anche se l’Ucraina viola le sue responsabilità secondo il diritto internazionale, “questo non significa che la Russia ottiene un lasciapassare per fare quello che vuole“, ha detto Weir. Se i civili vengono uccisi vicino a una posizione militare o un equipaggiamento, la Russia può ancora essere ritenuta responsabile di un possibile crimine di guerra se il suo attacco è stato indiscriminato e sproporzionato contro la popolazione civile.
Molto dipende dalle dimensioni e dall’importanza dell’obiettivo militare, dal tipo di armi usate, se i civili sono stati consapevolmente presi di mira e se il danno a loro è stato eccessivo. Per esempio, il lancio da parte della Russia di munizioni a grappolo vietate il mese scorso in tre quartieri residenziali di Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina, è stato un possibile crimine di guerra, anche se i russi sostengono che stavano prendendo di mira attrezzature militari ucraine o posizioni, hanno detto gli attivisti.
“Quando un attacco a un obiettivo militare può provocare vittime civili, il danno ai civili deve essere bilanciato contro il vantaggio militare“, ha detto Schabas, il professore di diritto internazionale. “Se non c’è alcun vantaggio militare, allora la violenza non è giustificata, ed è ragionevole parlare di crimini di guerra“.
Ma la linea tra ciò che costituisce un crimine di guerra diventa più sfocata se i quartieri residenziali sono militarizzati e diventano campi di battaglia dove le morti civili sono inevitabili.
“L’Ucraina non può usare i quartieri civili come ‘scudi umani‘”, ha detto Schabas, aggiungendo che non stava suggerendo che questo è ciò che sta accadendo.
Dopo ogni sospetto attacco aereo russo nella capitale e altrove, gli ucraini hanno inviato squadre per raccogliere video e altre prove da utilizzare in un potenziale caso di crimini di guerra contro la Russia presso la Corte penale internazionale dell’Aia, ma molti di questi siti potrebbero essere motivi deboli per l’accusa di crimini di guerra.
“Se ci sono obiettivi militari nella zona, allora potrebbe minare la loro affermazione che un colpo specifico è stato un crimine di guerra“, ha detto Weir di Human Rights Watch.
Ci sono molti posti a Kiev dove le forze militari coesistono all’interno di enclavi civili. Uffici, case o anche ristoranti in molti quartieri residenziali sono stati trasformati in basi per le Forze di difesa territoriale dell’Ucraina, milizie armate composte per lo più da volontari che hanno firmato per combattere i russi.
All’interno di edifici comunali e in scantinati, tra cui uno sotto una caffetteria, gli ucraini preparano molotov da usare contro le forze russe se entrano nella capitale. All’interno di un grande complesso industriale, annidato di fronte a una vivace autostrada principale con negozi e condomini nelle vicinanze, una forza paramilitare addestra le reclute prima di schierarle in prima linea.
Gli esperti di sicurezza per le organizzazioni dei media occidentali hanno notato che le difese aeree ucraine sono così interne nella città che quando colpiscono razzi, missili o droni russi in arrivo, i detriti a volte hanno colpito o sono caduti in complessi residenziali.
I soldati ucraini e i volontari avvertono i giornalisti di non scattare foto o video di posti di blocco militari, attrezzature, fortificazioni o basi improvvisate all’interno della città per evitare di allertare i russi sulle loro posizioni.
Un blogger ucraino ha caricato un post su TikTok di un carro armato ucraino e altri veicoli militari posizionati in un centro commerciale. Il centro commerciale è stato poi distrutto il 20 marzo in un attacco russo che ha ucciso otto persone.
Non ci sono prove che il post di TikTok abbia portato all’attacco. Su Facebook, una persona che sostiene l’esercito ucraino ha esortato a dare la caccia all’uomo per aver rivelato le posizioni militari ucraine “per il bene dei like” sui social media. “Pago 500 dollari per qualsiasi informazione su questo autore su TikTok. ID, indirizzo di residenza, dettagli di contatto“. Il servizio di sicurezza dell’Ucraina ha poi detto di aver arrestato il blogger.
In altri quartieri militarizzati, i residenti hanno anche espresso la preoccupazione di sentire razzi e artiglieria in uscita. “È spaventoso“, ha detto Ludmila Kramerenko. “Succede tre o quattro volte al giorno“.
Quando le è stato chiesto se era preoccupata di avere armi militari e combattenti così vicino a dove vive, ha risposto dopo una lunga pausa: “Non so cosa dire. Speriamo solo che tutto vada bene e che questo finisca presto“.
Come la maggior parte dei residenti intervistati, ha espresso stoicismo e lealtà alle forze militari dell’Ucraina. Ha detto che non le piace come la capitale è stata trasformata in una zona militare simile a una fortezza, ma capisce. Valeva la pena di sentire il suono dei razzi in uscita o di vivere alla vista dei cannoni pesanti per impedire ai russi di entrare nella capitale, ha detto.
“Ci sentiamo male e rattristati per come la nostra città è cambiata“, ha detto Kramerenko. “Ma capiamo la situazione e crediamo nei nostri soldati ucraini. Noi ucraini dobbiamo reagire“.
Claire Parker a Washington e Volodymyr Petrov a Kiev hanno contribuito a questo servizio.
I 4 soldati russi giustiziati a terra. Un nuovo video mostra l'orrore di questa guerra. Gian Micalessin l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il filmato è stato girato a Dmytrivka a pochi km da Bucha il 30 marzo. La lezione: non basta stare dalla parte giusta per agire da "buoni".
«L'orrore... l'orrore ha un volto... e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore e il terrore morale ci sono amici. In caso contrario diventano nemici da temere». Marlon Brando, protagonista nelle vesti del colonnello Kurtz del monologo finale di Apocalypse Now, spiega così la terribile e nefasta comunanza che ogni conflitto crea tra i combattenti e l'orrore. Le stragi di My Lai in Vietnam, di Sabra e Chatila in Libano, ma anche quelle attribuite alle forze speciali statunitensi in Siria e Irak da un'inchiesta del New York Times dello scorso dicembre, avrebbero dovuto farci comprendere da tempo la brutalità nascosta in ogni conflitto. Una brutalità che non sta mai da una parte sola. Perché la guerra, a differenza di quanto raccontano i film, non prevede buoni sentimenti. E a dimostrarcelo, a pochi giorni dalla scoperta dei morti di Bucha, arriva un altro film dell'orrore.
Un film andato in scena a Dmytrivka, un villaggio distante solo dodici chilometri in direzione Sud dalla stessa Bucha. Con una differenza. Qui le vittime sono i russi mentre gli spietati aguzzini sono i soldati ucraini. Il video è così crudele e sanguinario da rendere difficile la pubblicazione di foto o spezzoni capaci di restituirne la disumana ferocia. Al lato di una strada si vede un Bmd-2 , un blindato usato dalle truppe aviotrasportate russe. Il mezzo, intatto, ci fa capire che l'equipaggio si è arreso senza combattere. Anche perché, duecento metri più avanti, vi sono le carcasse di altri mezzi appena colpiti e distrutti. Sull'asfalto, invece, ci sono quattro corpi. Vestono le divise dell'esercito russo e non hanno accanto alcuna arma. Giacciono tra lunghe scie di sangue. Uno ha le mani legate dietro la schiena e la gola tagliata. Quello che gli sta accanto è disteso a braccia aperte freddato da una raffica al ventre. Altri due corpi sono sul lato opposto della strada. Uno è stato ucciso con un colpo alla nuca. L'altro, con il volto nascosto da una giacca militare tirata su fino a coprirgli il volto, è scosso dai tremiti dell'agonia. Sussulta, muove un braccio, mormora versi incomprensibili. Tutt'intorno si sentono delle voci in ucraino.
«Filma questi bastardi. Guarda questo... è ancora vivo... sta rantolando» ulula una voce senza volto. Poi s'intravvede la canna di una pistola. Apre il fuoco due volte. Il soldato in agonia sussulta, si muove ancora. Un terzo colpo lo finisce. Ora tutt'intorno compaiono soldati ucraini riconoscibili da uniformi e distintivi. Quello che ha sparato mostra il suo volto. Ha il volto incorniciato da una fitta barba. Grida: «Gloria all'Ucraina». Un altro si fa fotografare accanto ai corpi. «Questi - sbraita una voce fuori campo - non sono neanche esseri umani». A confermare il tutto ci pensa un tweet del ministero della difesa ucraino che definisce un «lavoro preciso» l'imboscata ai danni di un convoglio russo in ritirata da Kiev messa a segno il 30 marzo scorso. Segnalazione confermata dal video-reporter Oz Katerji che il 2 aprile gira le immagini dei blindati distrutti e, citando i soldati ucraini, parla di una battaglia svoltasi 48 ore prima.
Ma quella battaglia e la brutale eliminazione di quei quattro prigionieri dovrebbero insegnarci un paio di cose. La prima è che in guerra non basta stare dalla parte giusta per comportarsi da «buoni». La seconda è che la guerra è sempre abietta, crudele e feroce. E l'unico modo per sconfiggerne mostri e perversioni è uscirne in fretta.
Così militari ucraini hanno ucciso dei prigionieri russi. Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.
L'esecuzione ripresa in un video. Rivendica l'orrore come frutto dei suoi ordini Mamuka Mamulashvili ufficiale in capo della «Legione nazionale georgiana» che combatte in Ucraina a fianco di Kiev. Il ministro Kuleba: «I colpevoli dovranno essere individuati e puniti».
Quattro soldati sono a terra. Un blindato è pochi metri più avanti. Ha una valigia comune appesa sull’armatura più altri oggetti che stonano con l’aspetto bellicoso del mezzo. Paiono il frutto di saccheggi. Sulla scena si muovono altri 6 soldati. Per le bande bianche che hanno sulle braccia, quelli a terra sembrano russi. Uno ha le mani legate dietro la schiena. Invece quelli in piedi, i vincitori, appaiono e parlano da ucraini. Non hanno remore a mostrarsi in video. Sembrano gli attimi successivi ad una imboscata. I russi a terra sono immobili, solo uno si muove ancora e si lamenta debolmente. Un ucraino dice «lascialo stare», l’altro ribatte «no, non voglio lasciarlo stare». E spara. Più volte. Fino a finirlo.
Un’esecuzione barbara di prigionieri che circola da ieri sui canali Telegram e che si conclude con «slava Ukraine» gloria all’Ucraina. Il Corriere ha individuato il sedicente comandante del reparto di assassini. Si chiama Mamuka Mamulashvili e rivendica l’orrore come frutto dei suoi ordini. Mamulashvili si presenta come l’ufficiale in capo della «Legione nazionale georgiana» che combatte in Ucraina a fianco del governo di Kiev. In effetti, almeno uno del reparto che ha sparato ai prigionieri russi, parla russo con accento georgiano. E, in ogni caso, è lo stesso ufficiale Mamulashvili a riconoscere proprio quella pattuglia come ai suoi ordini. «L’abbiamo detto sin dal principio, noi non facciamo prigionieri» è l’allucinante spiegazione del comandante.
La Bbc ha esaminato il video dell’esecuzione con tecniche di riconoscimento satellitare e incrociando i dati a disposizione. Dall’indagine risulta che l’eccidio sarebbe avvenuto durante il ritiro dei militari russi dalle aree a nord di Kiev. In particolare, sulla strada tra Dmytrivka e le zone di Irpin e Bucha. Già nei giorni scorsi erano state segnalate alcune unità russe rimaste isolate, forse dimenticate dai comandi durante un ritiro non particolarmente ordinato. Oppure i russi di quella particolare unità si erano attardati per riempire il loro blindato di oggetti rubati nelle case ucraine. In ogni caso l’imboscata dei miliziani georgiani ha avuto successo e si è conclusa in quel modo disgustoso.
Non è la prima volta che emergono prove di violenze gratuite da parte ucraina . Ci sono immagini di violenze barbare nei confronti di presunti saccheggiatori o di possibili infiltrati. Calci in faccia, a persone già a terra, file di uomini al muro, terrorizzati, maltrattati e umiliati. Uno lasciato senza mutande davanti alle minacce con i kalashnikov. Episodi al cui confronto i maltrattamenti del G8 di Genova sembrano azioni controllate.
Un altro video mostra dei prigionieri russi, già inoffensivi, che vengono gambizzati a freddo, uno dopo l’altro, in mezzo a soldati ucraini. Senza che nessuno intervenga per fermare il responsabile. In quell’occasione si disse poi che il soldato ucraino autore del gesto fosse appena tornato in reparto dopo aver visitato moglie e figlio colpiti da un bombardamento russo nelle retrovie.
Il presidente Zelensky aveva dichiarato come inammissibile quel comportamento e aveva annunciato un’inchiesta. Non se ne sa ancora nulla. Ieri era toccato al ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, assumere lo stesso atteggiamento nei confronti del nuovo video sui quattro russi freddati a terra. «Bisognerà esaminare le prove e i colpevoli dovranno essere individuati e puniti».
La posizione ufficiale dell’Ucraina, in sostanza, è di non negare ogni responsabilità com’è invece la strategia comunicativa russa. Kiev si mantiene ferma sull’idea che simili comportamenti siano inaccettabili. Non riesce però ad impedirli e, al momento, a guerra in corso, a perseguirli.
Monica Perosino per “la Stampa” l'8 aprile 2022.
Con gli occhi ancora pieni dell'orrore di Bucha, del prigioniero di guerra russo giustiziato in mezzo a una strada, delle donne ucraine stuprate e prima ancora di precipitare in quel buco nero che sarà Mariupol, un altro atroce crimine di guerra si aggiunge alla lista.
A Obukhovychi, un villaggio nel Nord dell'Ucraina nelle vicinanze della zona di esclusione di Chernobyl, le truppe russe hanno usato i civili come scudi umani per proteggersi dal contrattacco delle forze ucraine.
L'ha scoperto e verificato Bbc, che ha raccolto le testimonianze degli abitanti del villaggio. L'episodio sarebbe avvenuto la notte del 14 marzo, quando le forze russe si trovavano in difficoltà sotto il fuoco di quelle ucraine. I militari russi, secondo i testimoni, sarebbero andare di porta in porta e avrebbero raccolto, sotto la minaccia delle armi, circa 150 abitanti del villaggio, la maggior parte persone anziane e bambini. I civili sarebbero poi stati ammassati nella palestra di una scuola, usata come scudo di protezione per le forze russe.
Ancora una volta, come già riferito da altri testimoni in altre città liberate, i soldati «erano ubriachi», «sparavano alle persone solo per divertirsi, senza motivo».
Un 25enne, a cui i russi hanno sparato a una gamba, ha detto alla Bbc di essere stato tenuto prigioniero per 15 giorni all'aperto a temperature sotto lo zero, legato e imbavagliato.
Human Rights Watch dice di aver documentato crimini di guerra commessi dalle forze russe nelle aree di Kiev, Kharkiv e Chernihiv, nell'Ucraina settentrionale, tra cui un caso di stupro ripetuto e due casi di esecuzione sommaria. Amnesty International ha pubblicato ulteriori testimonianze, raccolte sul campo, su esecuzioni extragiudiziali di civili ucraini da parte dell'esercito russo che fanno pensare a crimini di guerra.
«Nelle ultime settimane abbiamo raccolto prove di esecuzioni extragiudiziali e altre uccisioni illegali da parte delle forze russe. Molte di queste prove devono essere indagate come probabili crimini di guerra. Stiamo parlando di atti di inspiegabile violenza e di sconvolgente brutalità, come le uccisioni di civili privi di armi nelle loro case o in strada», ha detto Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
«L'uccisione intenzionale di civili è una violazione dei diritti umani e un crimine di guerra». Finora Amnesty International ha ottenuto prove di uccisioni di civili in attacchi indiscriminati a Kharkiv e nella regione di Sumy, di un attacco aereo che ha ucciso civili in coda per il cibo a Chernihiv e della situazione delle popolazioni civili sotto assedio a Kharkiv, Izium e Mariupol. Le persone intervistate hanno raccontato ad Amnesty International di essere rimaste prive di elettricità, acqua e riscaldamento sin dai primi giorni dell'invasione e di aver avuto scarse quantità di cibo a disposizione.
Due abitanti di Bucha hanno detto che i cecchini aprivano regolarmente il fuoco contro chi andava a recuperare cibo da un negozio che era stato distrutto. La versione di Mosca, senza sorpresa, è che «Le autorità ucraine stanno intensificando una campagna per diffondere accuse deliberatamente false contro i militari russi», ha detto l'ambasciatore russo negli Stati Uniti Anatoly Antonov , che si dice sicuro che «il regime di Kiev sta preparando un altro contenuto provocatorio sulla morte di civili nella regione di Kharkiv». Le persone - afferma - «vengono pagate 25 dollari per partecipare alle riprese inscenate».
DAGONEWS il 7 aprile 2022.
Un video che sta circolando in rete mostra un gruppo di soldati ucraini che uccide militari russi dopo averli legati con le mani dietro la schiena. Una scena horror che ricorda quella dei civili massacrati a Bucha.
Il filmato, verificato mercoledì dal “New York Times”, mostra le truppe ucraine che commettono gli omicidi dopo un’imboscata su una strada appena a nord di Dmytrivka, a circa 11 chilometri a sud-ovest di Bucha.
«È ancora vivo – dice uno degli ucraini - Filma questi predoni. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando». Uno dei soldati ucraini a quel punto spara tre colpi di pistola: dopo il secondo il russo continua a muoversi, ma poi smette di respirare dopo il terzo colpo. Sembra che almeno altri tre soldati russi siano stati uccisi nella stessa imboscata.
Da fanpage.it il 7 aprile 2022.
Non ci sono solo i crimini di guerra commessi dalle forze armate russe. Sempre più spesso, infatti, stanno emergendo episodi inquietanti imputabili anche all'esercito ucraino, come quello documentato con un video risalente molto probabilmente al 30 marzo.
Nel filmato, che sta circolando su Telegram ed è stato verificato in modo indipendente anche dal New York Times, si possono vedere degli uomini agli ordini di Kiev uccidere dei prigionieri russi in un villaggio a ovest della capitale.
Le telecamere indugiano sui due soldati a terra e una voce dice: «Quello è ancora vivo. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando». Altri replicano: «Questi non sono nemmeno umani». Sull'asfalto si vede un militare russo con una giacca tirata sulla testa, apparentemente ferito; pochi secondi dopo l'ucraino gli spara ripetutamente, uccidendolo.
Accanto all'uomo giustiziato il video mostra almeno altri tre soldati russi morti, uno dei quali con una ferita alla testa e le mani legate dietro alla schiena con dei bracciali bianchi comunemente indossati dalle truppe russe.
Il video sarebbe stato girato lungo una strada nei pressi del villaggio di Dmytrivka, a una quindicina di chilometri a sud-ovest di Bucha, teatro di una mattanza attribuita alle truppe di Mosca. Stando a quanto riferisce il NYT i soldati russi viaggiavano a bordo di un BMD-2, un mezzo da combattimento impiegato dalle truppe aviotrasportate. La colonna sarebbe caduta in un'imboscata intorno al 30 marzo, mentre i militari si stavano ritirando dalle piccole città a ovest di Kiev.
Il filmato con le atroci esecuzioni è stato pubblicato su Twitter il 2 aprile dal giornalista freelance Oz Katerji, specificando che fonti dell'esercito gli avevano riferito che i russi erano caduti in una trappola 48 ore prima nell'ambito di un'operazione lodata dal Ministero della Difesa ucraino: «Un lavoro preciso».
Quello di Dmytrivka è uno degli episodi che, sempre più spesso, dimostrano come presunti crimini di guerra vengano commessi non solo dai russi, ma anche dagli ucraini.
CRIMINI DEI RUSSI. TIRO AL BERSAGLIO.
Erri De Luca: "I russi a Bucha come i nazisti a Napoli nel 1943: rappresaglie di un esercito che sta perdendo la guerra". Concetto Vecchio su La Repubblica il 7 aprile 2022.
Lo scrittore: "Giusto dare le armi agli ucraini, non le usano certo per attaccare il suolo russo. Le accuse di maccartismo sono improprie e inadeguate".
Erri De Luca, qual è stato il suo primo pensiero di fronte alle immagini di Bucha?
"I miei pensieri rimbalzano all'indietro, alle stragi commesse da altri eserciti in ritirata. Vinti sul campo, scaricano la loro frustrazione sugli inermi che capitano loro a tiro. Sono rappresaglie. L'esercito tedesco cacciato da Napoli dopo quattro giorni d'insurrezione, nel 1943, nascose una bomba ad alto potenziale nella Posta centrale, con il timer a 48 ore: l'esplosione fu una strage di pura ritorsione.
Nel grande libro di Vasilij Grossman dove l’ideologia si dissolve. CLAUDIO PIERSANTI su Il Domani il 07 aprile 2022.
Fa uno strano effetto leggere Stalingrado di Vasilij Grossman questi giorni. Se per distrarti accendi la televisione ti sembra di vedere un film al contrario. Gli stessi luoghi. Il bombardamento e la distruzione di Kiev, le stragi di innocenti, il Donbass, Odessa.
Ma allora erano i nazisti ad attaccare. Con una potenza di fuoco impressionante. Hitler non ha invaso la Russia con leggerezza, ma con una macchina militare spaventosa.
Non ha senso leggere Stalingrado senza leggere a seguire Vita e destino: sarebbe come leggere soltanto metà di Guerra e pace. In questo unico grande libro avviene un fenomeno straordinario: l’ideologia si dissolve.
CLAUDIO PIERSANTI. Scrittore e sceneggiatore. Il suo primo romanzo, Casa di nessuno, è uscito nel 1981. Alcuni, più volte ristampati in Italia, hanno ottenuto premi (Viareggio, Vittorini ecc) e sono stati tradotti in molti paesi. Tra questi: L’amore degli adulti, Luisa e il silenzio, L’appeso, Stigmate (un libro a fumetti realizzato con Lorenzo Mattotti) e La forza di gravità (2018). È stato a lungo anche sceneggiatore lavorando per il cinema e la televisione. Ha diretto La rivista dei Libri (ediz. Italiana della New York Review of Books).
Domenico Quirico per “la Stampa” il 7 aprile 2022.
Nel 1944 le uniche pagine di giornale che i soldati russi non usavano per arrotolarsi le sigarette erano quelle in cui erano pubblicati gli articoli scritti da Il'ja Erenburg. Quelle erano parole sacre: «Se hai ammazzato un tedesco ammazzane un altro...non c'è niente di più allegro dei cadaveri tedeschi... Germania, tu puoi ora rotolarti su te stessa e ululare nella tua agonia mortale... l'ora della vendetta è suonata».
Chissà se alcuni di loro avevano letto anche il Deuteronomio: «Quando il Signore ti avrà dato la città del nemico nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici».
Alle spalle di quei soldati c'erano tre anni e mezzo di lutti e di violenza. Indimenticabili. Immortali. La guerra non rende la gente più tenera. Al contrario la rende volgare e molto crudele. Adesso per i soldati russi era arrivato il momento di rovesciare le parti. I «politruk» che affiancavano le unità della Armata rossa, i commissari politici che vegliavano sull'umore della truppa e sulla reverenza al verbo del padre Stalin, incitarono: «Voi state per diventare esecutori di giustizia, dovete essere l'incarnazione del tribunale della giustizia del vostro popolo».
Quando superavano la frontiera prussiana i soldati piantavano una piccola bandiera rossa e si radunavano per una ultima riunione di coscienza politica. Gli ufficiali ricordavano i crimini che erano venuti a vendicare, le violenze perpetrate sulle donne russe, i villaggi e le città bruciate, le lacrime delle madri. Ora era arrivato il momento di spogliare il cadavere tedesco.
Mi è venuto in mente tutto questo leggendo le denunce di saccheggi nelle zone del nord dell'Ucraina attorno a Kiev occupate dall'esercito russo per un mese prima del ritiro oltre la frontiera bielorussa. A cui si aggiunge una sequenza di immagini che, secondo molti, sarebbe la prova di questi saccheggi.
Soldati che spediscono a casa, nella allegra confusione di una marachella ben riuscita, nelle scatole di uno spedizioniere bielorusso il bottino, come all'uscita di un centro commerciale: televisori telefonini, computer. I potenti invasori sembrano dunque più poveri di coloro che hanno aggredito. Negli occhi dei saccheggiatori aleggia il piacere: lusso, confort, tecnologia, parole straniere nella Russia, eterna pezzente ma con i missili e la Bomba.
Nelle buie settimane di Bucha gli uomini furono scritti sulla lavagna nera come numeri a più cifre, un colpo di spugna sopra, ecco, cancellati. La roba, quella no, quella è importante. Bisogna portarla a casa. Anche così quello che è accaduto si fa palese. Parla. Gli oggetti rubati sono scorie del consumismo povero. In poco tempo si sfasceranno, saranno gettati via. Non diventeranno, temo, un passato che non dà pace.
Il saccheggio è la vergogna della guerra, da sempre: il vincitore esige il diritto di prendere tutto al vinto, la vita, le donne, i beni. Quello che non può portar via deve essere distrutto per cancellarne la memoria. È la spogliazione del cadavere. In mezzo ai resti fumanti, ai morti abbandonati, dalle porte e dalle finestre divelte dai saccheggiatori rinasce il miserabile commercio delle cose rubate. La guerra è quello che i barbari furono per le società antiche, agenti convulsi di distruzione e dissoluzione.
Oltre che l'omicidio anche il furto diventa lecito, autorizzato, in fondo giusto compenso alla fatica spesa per cacciare il nemico. Un tempo i generali lo promettevano ai soldati per motivarli o renderli pazienti: poi vi rifarete nella città conquistata... Oggi la differenza è che nessuno lo dice esplicitamente.
Nel 1945 i nonni dei soldati russi che hanno assediato Kiev vissero una campagna militare spietata per entrare in Germania, con decine di migliaia di morti. Ma quello fu anche per loro un periodo di strana abbondanza. La Germania era ricca. Nonostante cinque anni di guerra era ancora molto più ricca delle terre in cui erano stati arruolati.
Si presero le donne tedesche, a migliaia, ma anche rubarono. E tutto venne fatto su scala russa, monumentale. Avevano sofferto e perduto più di qualunque altro e ora volevano una ricompensa. Stalin pretendeva dal Reich un risarcimento di almeno dieci miliardi di dollari. Una parte spettava a loro e bisognava impadronirsene subito, fino a che si era in tempo.
Dal 1944 era stato emanato un previdente ordine di servizio in cui si specificava in dettaglio la procedura da seguire per i «trofei». E la loro spedizione in Russia. Qualsiasi cosa conquistata o abbandonata diventava proprietà dell'Armata rossa. Una volta si era più sfacciati, non si temevano certo tribunali incaricati di perseguire i reati di guerra.
Mentre squadre specializzate provvedevano a smontare pezzo dopo pezzo le fabbriche tedesche, i soldati facevano da soli. E spesso saccheggiare era l'unico modo per mangiare perché le linee di rifornimento della Armata rossa, come pare quella di Putin, erano rudimentali e sempre in ritardo.
In Russia non c'era niente da comprare. Gli ufficiali furono i primi ad approfittare imballando porcellane. Biancheria, pellicce, confiscando automobili per portare in patria le meraviglie tedesche. Un saccheggio di alto bordo per cui si arrivò perfino a organizzare, visti i volumi, treni del bottino. Alla vigilia del capodanno russo del 1944 il ministro della Difesa autorizzò tutto l'esercito a mandare «pacchi» a casa, cinque chili per i soldati, quindici per gli ufficiali. Ma si era indulgenti, si largheggiava nel peso.
Gli oggetti rubati dicono molto di coloro che ne approfittarono: era l'immagine di un popolo che il comunismo aveva immerso nella miseria mobilitandola con la missione del comunismo. I soldati di Stalin come i coscritti di Putin erano ragazzi arrivati al fronte spesso direttamente dalla scuola, che non avevano imparato niente se non a sparare, a strisciare, a lanciare bombe, a uccidere e odiare il nemico.
C'era chi spediva macchine da scrivere che non avrebbe mai usato perché non utilizzavano caratteri cirillici, o metteva da parte una bella radio tedesca ma si rammaricava che nella sua isba non ci fosse la corrente elettrica. Oppure spedivano scarpe, panni di lana per confezionare finalmente cappotti caldi, cuoio per confezionare alte scarpe. Ricercatissimi erano gli orologi da polso. E le biciclette, pochi sapevano usarle, facevano tentativi malaccorti e ruzzolavano fragorosamente tra le risate dei commilitoni. Qualcuno, forse, a Vladivostok o a Jakutsk sta aprendo pacchi con la stessa meraviglia.
La Russia chiede il disarmo globale. Sulla «Gazzetta» del 19 aprile 1922: Mussolini spinge per la libertà di stampa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.
Sul «Corriere delle Puglie» del 19 aprile 1922 in primo piano c’è la partecipazione della giovanissima Repubblica Federativa Socialista Sovietica di Russia alla Conferenza di Genova, l’incontro internazionale per pianificare la ricostruzione dell'Europa centrale ed orientale dopo gli orrori della Grande guerra. Il capo della delegazione Čičerin ha annunciato l’intenzione del suo Paese di convivere pacificamente con gli stati con diverso ordinamento sociale e ha presentato un ampio programma pacifista di disarmo globale. L’obiettivo principale è, naturalmente, da parte del Paese nato dalla rivoluzione bolscevica, quello di riprendere gli scambi commerciali con l’Europa.
Sulla questione si è espresso anche Trotsky, commissario del popolo per la difesa nazionale: la Russia, egli ha affermato, desidera la pace ed è pronta a disarmare a condizione che lo facciano anche le potenze che l’hanno assalita. All’offerta sovietica si è fermamente opposta la Francia, convinta di esser di fronte ad un mero atto propagandistico. «Il rifiuto della Francia vuol semplicemente dire che gli stati capitalisti desiderano conservare un esercito potente per opprimere e sopprimere i deboli e gli inermi» è il cuore del messaggio di Trotsky riportato dal «Corriere».
Mussolini per la… libertà di stampa!
Nelle ultime pagine appare un articolo di Benito Mussolini, pubblicato il giorno prima sul giornale da lui diretto, «Il Popolo d’Italia». Il leader fascista si scaglia contro la decisione della Federazione della Stampa di esser disposta a ripristinare in pieno la libertà di stampa solo dopo «una profonda revisione dei sistemi di lotta politica e di una concezione più serena dei diritti di ogni corrente di idee»: in sostanza, essa non deve diventare un alibi per calunniare e diffamare gli avversari. Per Mussolini tutto questo è inconcepibile: non c’è confronto tra l’atteggiamento del suo giornale e quello dell’«Avanti!», il quotidiano socialista, che si accanisce da tempo ormai contro i fascisti, i quali invece, si sarebbero impegnati a smorzare i toni. Il futuro duce fa riferimento a quel patto di pacificazione sottoscritto, nell’agosto precedente, al culmine di una escalation estrema di violenze tra le due forze in campo, rivelatosi però del tutto inefficace. Per la libertà di stampa, dunque, si batte quello stesso Mussolini che poco più di un anno dopo, nel luglio 1923, ormai a capo del governo, metterà sotto controllo il mondo del giornalismo, arrivando infine ad imbavagliare del tutto la libera informazione e la diffusione del libero pensiero.
Stalin seppe che per noi era «zio Giuseppe». Minacciò di lasciare Yalta, poi capì lo scherzo. Wiston Churchill su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.
In un articolo pubblicato il 19 novembre 1953, Churchill scriveva: «Ricordo che a un pranzo nei giorni della Conferenza fu Roosevelt a rivelarglielo. Io gli avevo suggerito di farglielo sapere in privato ma lui preferì dirlo davanti a tutti in tono giocoso».
Cena a Palazzo Livadia per la Conferenza di Yalta (1945): in primo piano a sinistra il Segretario di Stato Usa Edward R. Stettinius, a destra il ministro degli Esteri sovietico Vjaceslav Molotov.Dopo di lui, da destra, i tre leader: nell’ordine Winston Churchill (Gb), Franklin Delano Roosevelt (Usa) e Iosif Stalin (Urss)
Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. E il giornale ha ospitato nella sua storia gli interventi di capi di stato e statisti, come questo articolo di Winston Churchill che vi proponiamo dal numero di «7» uscito il 15 aprile. Buona lettura
19 novembre 1953
La sera del 10 febbraio a Yalta si svolse nella mia residenza l’ultimo pranzo di cerimonia della conferenza. Molte ore prima che Stalin arrivasse, comparvero a villa Vorontzov numerosi soldati russi. Essi chiusero le porte che si trovavano sui due lati minori della sala da pranzo e si misero di fazione in vari punti. Fu compiuta una accuratissima perquisizione; i russi frugarono sotto i tavoli e negli angoli più strani. I miei collaboratori furono fatti uscire dalla villa e indotti a ritirarsi nei loro alloggiamenti privati. Quando tutto fu trovato in ordine giunse il Maresciallo, di ottimo umore, seguito poco dopo dal Presidente Roosevelt. Al pranzo svoltosi alla villa Yusupov Stalin aveva brindato alla salute del re in una forma che, pur volendo essere amichevole e rispettosa, non mi era per niente andata a genio. Infatti il Maresciallo aveva detto che egli era sempre stato contrario a tutti i re, che egli era dalla parte del popolo e non già dalla parte di alcun re, ma in questa guerra egli aveva imparato a onorare e stimare il popolo britannico, che amava e rispettava il suo re, e perciò egli proponeva un brindisi alla salute del re d’Inghilterra. Io non ero rimasto per nulla soddisfatto di quel brindisi e perciò dissi a Molotov che gli scrupoli di Stalin avrebbero potuto essere evitati in futuro brindando alla salute dei «tre Capi di Stato». E poiché così fu convenuto, quella stessa sera misi in pratica la nuova norma d’etichetta proponendo il seguente brindisi: «Brindo alla salute di sua maestà il re, del Presidente degli Stati Uniti e del Presidente dell’Unione Sovietica Kalinin, i tre Capi di Stato».
Roosevelt, che appariva molto stanco, così rispose: «Il brindisi del Primo ministro fa risorgere un ricordo. Nel 1933, mia moglie si recò a visitare una scuola del nostro Paese. Sulla parete di un’aula vide una carta geografica dove spiccava un grande spazio in bianco. Domandò allora cosa significasse quello strano fatto; le fu risposto che si trattava di un Paese che non era lecito nominare; cioè l’Unione Sovietica. Questo piccolo incidente fu uno dei motivi che mi indussero a scrivere al Presidente Kalinin per chiedergli di mandare a Washington un suo rappresentante per discutere la possibilità di stabilire relazioni diplomatiche tra i nostri due Paesi. Questa è la storia del riconoscimento dell’Unione Sovietica da parte nostra».
Mi alzai allora io per brindare alla salute di Stalin: «Già varie volte ho fatto questo brindisi; ma in questa occasione lo faccio con maggior calore, non già perché il Maresciallo abbia conquistato maggiori trionfi ma perché le grandi vittorie e la gloria dell’Armata rossa lo hanno reso più gentile di quanto egli non fosse nei periodi difficili che abbiamo passati. Io sento che, quali che siano le divergenze su alcuni argomenti, egli ha un buon amico nella Gran Bretagna....». «Vi è stato un tempo in cui il Maresciallo non era così gentile verso di noi; ed io ricordo di aver fatto qualche duro rimarco sul suo conto, ma i comuni pericoli e la reciproca lealtà hanno spazzato tutti questi malintesi; il fuoco della guerra ha bruciato tutte le incomprensioni del passato. «Noi sentiamo che abbiamo un amico del quale ci possiamo fidare e io spero che egli continui a nutrire gli stessi sentimenti nei nostri confronti. Io prego che egli possa vivere tanto a lungo da poter vedere la sua amata Russia non soltanto vittoriosa in guerra ma anche felice in pace».
Il capo migliore è quello che ha vinto una guerra
A quel pranzo, compresi gli interpreti, eravamo non più di una dozzina di persone e, una volta esaurita la parte protocollare, si intavolarono amichevoli discussioni a piccoli gruppi di due o tre. Io avevo detto fra l’altro che, dopo la sconfitta di Hitler, si sarebbero svolte in Inghilterra le elezioni generali. Stalin riteneva che un mio successo fosse garantito «poiché - egli disse - il popolo vuole avere un capo e quale miglior capo potrebbe scegliere di colui che ha vinto la guerra?». Gli spiegai che in Inghilterra vi erano due partiti e che, io, ero semplicemente un membro di uno di essi. «È molto meglio avere un partito unico», osservò Stalin con tono di profonda convinzione. Stalin raccontò poi un episodio personale per illustrare quello che lui chiamava «l’insensato spirito di disciplina della Germania del Kaiser». Da giovane, una volta, Stalin si era recato a Lipsia con circa duecento comunisti tedeschi per partecipare a una conferenza internazionale che si svolgeva in quella città. Il treno era arrivato puntualmente in stazione ma mancava l’usciere che doveva raccogliere i biglietti. Così i duecento comunisti germanici attesero docilmente per due ore prima di poter uscire dalla stazione; e giunsero troppo tardi al convegno per partecipare al quale avevano fatto un lunghissimo viaggio. La serata trascorse in maniera piacevole. Ma in un’altra occasione, sempre durante la nostra permanenza a Yalta, le cose non erano andate tanto lisce.
Una confidenza pericolosa
Durante una colazione offerta da Roosevelt, questi rivelò che spesso lui e io, nei nostri rapporti privati, indicavamo Stalin con l’appellativo di «zio Giuseppe». Io avevo suggerito a Roosevelt di rivelare quel particolare a Stalin in privato, ma il Presidente invece lo disse in tono scherzoso in presenza di tutti. Ci fu un momento di imbarazzo penoso. Stalin si offese: «Quando potrò lasciare questa tavola?» domandò in tono adirato. Fu Byrnes a salvare la situazione con una frase felice. «Dopo tutto - disse - voi non vi fate scrupolo di usare il termine zio Sam per indicare l’America, e allora cosa c’è di male nel dire zio Giuseppe?». Allora il Maresciallo si placò e più tardi Molotov mi assicurò che Stalin aveva perfettamente compreso lo scherzo. Egli sapeva già che molta gente all’estero lo chiamava zio Giuseppe e si era reso conto che il soprannome gli era stato affibbiato in senso amichevole e affettuoso. Il giorno successivo chiuse il periodo della nostra permanenza in Crimea. Come sempre accade in simili conferenze, molte gravi questioni rimasero insolute. Il Presidente era ansioso di rientrare in patria e di fare una sosta in Egitto durante il viaggio per discutere le questioni del Medio Oriente. A mezzogiorno dell’ll febbraio Stalin e io facemmo una colazione con Roosevelt a palazzo Livadia, in quella che era stata un tempo la sala da biliardo dello zar. Durante il pranzo, firmammo i documenti conclusivi e i comunicati ufficiali. Tutto ora dipendeva dallo spirito con cui quei documenti sarebbero stati messi in atto.
Visita sul campo di battaglia
Quello stesso pomeriggio partii in automobile con mia figlia Sarah verso Sebastopoli, dove era ancorato il transatlantico Franconia, che era servito come base logistica principale della nostra delegazione. Io desideravo visitare il campo di battaglia di Balaclava e perciò chiesi al generale Peake di prepararsi a farci da cicerone e a illustrarci tutti i particolari della famosa azione svoltasi durante la guerra di Crimea. Il pomeriggio del 13 febbraio mi recai nella zona; mi accompagnava l’ammiraglio russo che comandava la flotta del Mar Nero e che mi era stato assegnato come scorta personale dal Governo di Mosca. Noi eravamo un poco timidi e usavamo molto tatto nei riguardi del nostro ospite. Ma non avremmo dovuto preoccuparci tanto. A un certo momento, il generale Peake ci indicò la posizione sulla quale si era schierata la Brigata Leggera; l’ammiraglio russo intervenne indicando quasi lo stesso punto ed esclamò: «I carri armati tedeschi piombarono su di noi da quella posizione». Poco dopo, Peake ci stava illustrando lo schieramento dei russi e indicava le colline sulle quali era piazzata la loro fanteria quando intervenne nuovamente l’ammiraglio sovietico e con evidente orgoglio esclamò: «In quel punto una batteria russa combattè fino a che l’ultimo servente fu ucciso». A questo punto ritenni giusto spiegare al nostro ospite che noi stavamo studiando un’altra guerra: «una guerra di dinastie e non di popoli». Il nostro amico ammiraglio non diede cenno di aver compreso ma si mostrò completamente soddisfatto. E cosi tutto si svolse nel migliore dei modi.
Ad Atene e in Egitto, sempre con i figli
Nelle prime ore del 14 febbraio partimmo in automobile verso l’aeroporto di Saki e di qui in volo per Atene dove fui accolto da una grande dimostrazione popolare. La mattina del giorno 15 partii in aereo per Alessandria d’Egitto; qui presi quartiere a bordo dell’incrociatore Aurora. Le conversazioni tra il Presidente Roosevelt e Ibn Saud. Faruk e Hailé Selassié si erano svolte nei giorni precedenti a bordo dell’incrociatore americano Quincy, che aveva calato le ancore nel Lago Amaro. Poco dopo il mio arrivo il Quincy entrò nel porto di Alessandria e verso mezzogiorno io salivo a bordo. Erano con me i miei figli Sarah e Randolph, e Roosevelt aveva accanto sua figlia Anna (allora sposata Boettiger); ci riunimmo tutti nella cabina del Presidente per una cena amichevole, alla quale presero parte anche Hopkins e Winant. Il Presidente appariva tranquillo e fragile; io ebbi la sensazione che egli si sentisse già un poco distaccato dalle cose di questo mondo. Non lo dovevo vedere mai più. Ci salutammo affettuosamente e nel pomeriggio la nave di Roosevelt levava le ancore per tornare in America.
Scelta obbligata la vicinanza con la Russia
Esattamente a mezzogiorno del 27 febbraio io chiedevo alla Camera dei Comuni di approvare i risultati della conferenza di Yalta. In generale i deputati appoggiavano completamente l’atteggiamento da noi assunto; ma era anche fortemente sentito l’obbligo morale che noi avevamo verso la Polonia che tanto aveva sofferto ad opera dei tedeschi e per la quale avevamo preso le armi. Un gruppo di circa trenta deputati sentiva tanto profondamente la questione che parlò apertamente contro la mozione da me proposta. È molto facile, dopo la sconfitta della Germania, criticare coloro che fecero del loro meglio per rincuorare i russi, aiutare il loro sforzo bellico e mantenersi in armonioso contatto con il nostro grande alleato. Cosa sarebbe accaduto se ci fossimo messi in urto con la Russia quando i tedeschi disponevano ancora di tre o quattrocento divisioni sui vari fronti? Le nostre speranze dovevano ben presto essere deluse; eppure a quel tempo non v’era altro atteggiamento da prendere.
LA BIOGRAFIA DELL’AUTORE - WINSTON CHURCHILL
Winston Churchill fu primo ministro britannico conservatore nella seconda guerra mondiale (1940-1945) e ancora tra il 1951 e il 1955. nacque a Woodstock nel 1874 e morì 90enne a Londra nel 1965. Di famiglia aristocratica, sposò la nobildonna Clementine Hozier nel 1908. Con lei ebbe 5 figli. L’opera monumentale La seconda guerra mondiale (1948-1953) che fu pubblicata anche a puntate sul Corriere in esclusiva per l’Italia e da cui è tratto questo articolo, gli valse il premio Nobel per la Letteratura nel 1953.
La storia del processo ai nazisti. Come è nato il processo di Norimberga, voluto da Stalin contro Churchill e Roosvelt. David Romoli su Il Riformista il 7 Aprile 2022.
A differenza di quel che si potrebbe credere in base alla visione dei processi di Norimberga offerta soprattutto dal cinema, la strada che portò a quei processi e in particolare al primo, che vide alla sbarra i principali gerarchi superstiti del Terzo Reich dal 20 novembre 1945 al primo ottobre 1946, fu lunga, contrastata, segnata dal rapporto di forze e dalle diverse esigenze dei Paesi in guerra contro l’Asse. E fu molto più decisivo di quanto non sia apparso in seguito il ruolo dell’Unione sovietica.
A parlare per la prima volta di una punizione legale per i nazisti e i loro alleati erano stati nel gennaio 1942 i rappresentanti di nove Paesi invasi dalle forze dell’Asse, riuniti a Londra. L’idea di un tribunale internazionale non aveva convinto nemmeno un po’ Usa e Uk, anche perché l’esperienza si era dimostrata fallimentare e controproducente dopo la prima guerra mondiale.
In giugno, a Washington, il premier inglese Churchill e il presidente Roosevelt avevano concordato sull’opportunità di dar vita a una commissione d’inchiesta sui crimini di guerra, priva però di poteri sanzionatori. Nella visione dei due leader si trattava di una commissione con scopi essenzialmente propagandistici. L’ipotesi di allestire un vero processo era ancora del tutto esclusa. La situazione nell’Unione sovietica era opposta. Stalin e il suo ministro degli Esteri Molotov volevano assolutamente che i leader della Germania nazista fossero portati alla sbarra, anche e forse soprattutto perché, per quanto la situazione dell’Urss fosse ancora difficilissima e la guerra tutt’altro che vinta, già miravano a riparazioni tali da permettere la ricostruzione di un Paese devastato e distrutto dalla “guerra assoluta” di Hitler. Quello che avevano in mente non era un processo che implicasse equilibrio tra accusa e difesa, esibizione di prove o dubbi sul verdetto. Il modello erano i grandi processi staliniani del 1937 e infatti Stalin incaricò proprio Andrej Vyshinsky, il grande inquisitore di quei processi, di preparare quelli del dopoguerra.
Vyshinsky, a sua volta, coinvolse Aron Trainin, il giurista sovietico che più di ogni altro aveva dato forma legale ai processi di Mosca. Fu Trainin, nei tre anni successivi, a definire l’impianto legale che sarebbe poi stato adoperato a Norimberga, smantellando la giustificazione adoperata più spesso, quella di aver “obbedito agli ordini” e soprattutto aggiungendo all’accusa di “crimini contro l’umanità” quella sino a quel momento inesistente di “crimini contro la pace”. Il fatto stesso di aver deciso di muovere guerra con scopi di razzia o genocidio diventava così delitto in sé. Nell’estate del ‘42 le prove dei massacri sul fronte orientale erano però tali e tante da imporre a Usa e Uk di prendere una posizione più decisa. Roosevelt promise in agosto che i responsabili sarebbero stati processati nei Paesi nei quali si erano macchiati dei crimini. Churchill, sentendosi scavalcato, rilanciò l’8 settembre con l’annuncio pubblico della costituzione di una commissione speciale d’inchiesta sulle atrocità commesse dai tedeschi. Stavolta furono i sovietici a prendere malissimo l’annuncio, del quale non erano stati avvertiti preventivamente. Dopo settimane di schermaglie e gelo, bollarono la proposta come “troppo timida” e diedero vita a una propria Commissione straordinaria di Stato incaricata di raccogliere prove sui crimini tedeschi.
La distanza tra il progetto di Stalin e quello del Regno Unito era abissale e rispecchiava la opposta cultura giuridica dei due Paesi. L’Urss mirava a processi-spettacolo in cui la regia fosse decisa a priori sin nei particolari e nei quali dunque non ci fosse nulla da temere. Gli inglesi erano invece consapevoli dell’obbligo, una volta scelta la strada del tribunale internazionale, di rispettare le regole del rituale e non vedevano per quale ragione si dovesse correre i rischi inevitabili un processo reale. Suggerivano di risolvere la faccenda sbrigativamente, con un decreto che condannasse all’impiccagione i gerarchi del Terzo Reich a partire da Hitler. L’eventuale processo per crimini contro l’umanità presentava una difficoltà in più. L’accusa poteva essere rivolta anche contro i sovietici. Nel 1940 l’Nkvd (Commissariato del popolo per gli affari interni, erede della Gpu e predecessore del Kgb) aveva massacrato 22mila esponenti dell’élite polacca alle Fosse di Katyn. Nell’aprile 1943 la Germania diede notizia del massacro. Stalin risolse il problema a modo suo: attribuì l’eccidio ai nazisti e gli alleati finsero di credergli. Anche per stornare l’attenzione da Katyn, nel luglio 1943 i sovietici organizzarono il primo processo pubblico contro 11 persone, tutte russe o ucraine, accusate di aver collaborato con gli Einsetzgruppen nell’uccisione di 7mila civili, per lo più ebrei.
In dicembre, subito dopo la conferenza di Teheran fra “i tre grandi” i sovietici allestirono a Kharkov il primo processo in assoluto per crimini di guerra che vedesse militari tedeschi come imputati per lo sterminio di 14mila vittime, per la maggior parte ebree. Gli imputati, tre tedeschi della Gestapo e un collaborazionista ucraino, furono condannati e impiccati dopo un dibattimento nel quale fu per la prima volta smontata la tesi difensiva dell’aver obbedito a ordini superiori. Quando si svolse il processo di Kharkov, al quale Stalin diede massima pubblicità, si era già svolta tra ottobre e novembre la terza conferenza di Mosca, nella quale i ministri degli Esteri dei tre Paesi, il russo Molotov, l’inglese Eden e l’americano Hull concordarono per la prima volta ufficialmente l’intenzione di punire tutti i responsabili dei massacri nazisti, senza specificare però se passando o meno per processi formali. L’interrogativo non fu evaso neppure nella successiva conferenza di Teheran, dal 28 novembre al primo dicembre ‘43, nella quale Stalin illustrò tuttavia il progetto di eliminare tra i 50mila e i 100mila ufficiali tedeschi. Churchill e Roosevelt pensarono, a torto, che stesse scherzando.
Quando i tre leader si incontrarono di nuovo a Yalta, dal 4 all’11 febbraio 1945, la decisione sul come punire i capi della Germania nazista e i responsabili delle stragi non era ancora stata presa. Gli inglesi insistevano sulla condanna a morte per decreto ma nel corso del 1944 lo staff della Casa Bianca si era spostato sempre più vicino alle posizioni sovietiche. I consiglieri di Roosevelt ritenevano che la condanna a morte senza processo avrebbe potuto fare dei nazisti dei martiri e suggerivano una dinamica molto simile a quella poi effettivamente adottata: un primo processo contro i principali gerarchi e poi processi contro gli imputati di rango minore che avrebbero potuto svolgersi o nei Paesi colpiti oppure, di nuovo, di fronte a corti internazionali. Mentre la fine della guerra si avvicinava, il nodo non era ancora stato sciolto. Gli inglesi erano fermi sull’idea di un processo a porte chiuse alla fine del quale le condanne avrebbero dovuto essere emanate per decreto e non tramite formale sentenza. I sovietici reclamavano il processo pubblico secondo il rito spettacolare del 1937 a Mosca.
In aprile Harry Truman, diventato presidente dopo la morte di Roosevelt, ruppe gli indugi, bocciò la proposta inglese, in realtà condivisa da molti anche a Washington, perché “antidemocratica”, assicurò ai sovietici che anche con un processo formale e “garantista” i gerarchi sarebbero stati puniti. Il 2 maggio 1945, proprio mentre i sovietici issavano la bandiera sovietica sul Reichstag a Berlino, Truman, senza avvertire inglesi e sovietici, annunciò l’istituzione di un tribunale militare internazionale che avrebbe giudicato i responsabili del terrore nazista.
David Romoli
Le foto dei corpi di Bucha sono punto di non ritorno. Ma la Russia tenta di offuscare la verità e parla di fake news. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 4 aprile 2022.
Il ministero della Difesa di Mosca sul massacro di Bucha: «I cadaveri ad almeno quattro giorni dalla morte non sono rigidi e non hanno macchie» Lo speaker tv filo-Putin: «È una montatura, muovono le mani».
In un mondo normale, i racconti e le immagini che provengono da Bucha dovrebbero rappresentare uno spartiacque definitivo. Quell’orrore così ripetuto da sembrare invece un metodo, una tecnica di guerriglia in un conflitto che non avrebbe mai dovuto cominciare, dovrebbe essere il punto di non ritorno. Per i molti ancora alle prese con troppi distinguo, per i politici renitenti a pronunciare il nome di chi ha voluto ad ogni costo l’invasione dell’Ucraina. Per chi è convinto che anche quei corpi abbandonati sul ciglio di una strada alla periferia di Kiev vadano messi in conto al malconcio Occidente. Ma è da tanto tempo che invece abbiamo accettato l’idea di non vivere più in un mondo normale, dove contano solo i fatti e in base a quelli si deve ragionare. Ci stiamo ormai abituando a una realtà dove tutto può essere capovolto, letto e riletto al contrario, per vanità televisiva o accademica, per odio strisciante verso gli Stati Uniti, l’Europa o tutti e due. Non è un caso che la Russia, in evidente imbarazzo per la crudezza di quelle testimonianze, fotografiche o raccolte sul campo dai colleghi delle testate internazionali, abbia reagito più in fretta del solito, mettendo subito in campo il suo armamentario di propaganda. Ad uso e consumo interno, ma non solo. Come al solito, si tratta di uno schema a spirale. Il ministero della Difesa, nelle ultime settimane così silente da destare sospetti sulla sorte dei suoi maggiorenti, emette un comunicato lungo e articolato, nel quale all’inizio sostiene che durante il periodo in cui il sobborgo di Bucha è stato sotto il controllo dell’esercito russo, non un singolo residente ha dovuto soffrire a causa di azioni violente.
Quello che segue è un esercizio autoptico che rende la misura della difficoltà in cui si trova il Cremlino a causa di quelle immagini. «Tutti i corpi delle persone i cui fotogrammi sono stati pubblicati dal regime di Kiev, ad almeno quattro giorni dalla morte non sono diventati rigidi, non hanno le caratteristiche macchie del cadavere, e appare evidente come il sangue non sia ben coagulato nelle ferite». Inoltre, aggiunge il ministero della Difesa russo, intorno ai corpi le case risultano intatte, senza alcun danno. Queste frasi possono anche apparire come una autodifesa tanto tempestiva quanto improbabile. Ma il loro vero significato è quello di un fischio d’inizio, che dà il via alla vera opera di mistificazione, pronta ad attecchire anche sui social, anche a casa nostra. Così, i canali Telegram filorussi cominciano a sostenere che quei corpi appartengono a cittadini ucraini uccisi dal loro esercito in quanto sospettati di collaborazionismo. E in diretta su Rossiya-1, il presentatore Vladimir Soloviov, un neo-oligarca con villa sul lago di Como che ha costruito una carriera sulla sistematica negazione dei fatti, riesce a dire che il massacro di Bucha è una messinscena fatta dall’Ucraina per ottenere ancora più armi dall’Occidente, con i corpi disposti ad arte, e cadaveri falsi, dato che secondo lui alcuni muovono le mani e sono in posizione seduta. Sono teorie della cospirazione indotte dall’alto, e attuate da sostenitori tanto interessati quanto zelanti, che dovrebbero suscitare altrettanto orrore. Ma non è detto che lo facciano. È più probabile che trovino qualche appiglio anche fuori dai confini della Russia. Se tutto è confutabile, anche le immagini di quei poveri corpi, allora non esiste più una sola verità. Il gioco praticato dalla comunicazione del Cremlino in questi anni è così scoperto che non dovrebbe essere necessario parlarne ancora. Invece bisogna farlo.
Nel momento in cui l’Unione Europea annuncia l’adozione di nuove sanzioni, stabilendo così che con l’uccisione dei civili di Bucha è stato oltrepassato un altro limite, saranno molti quelli che si aggrapperanno a versioni alternative dei fatti, a dubbi pelosi, per negare una maggiore incisività a quei provvedimenti, e per impedire che una semplice questione di principio diventi veramente tale, senza dover essere sempre misurata sull’eventuale importo della bolletta del gas. Facendo così, passeranno senza conseguenze l’emozione del momento, il cordoglio, e quelle vittime civili. Che invece dovrebbero se non altro rappresentare il confine tra l’umano e il disumano. E restare in mezzo, non si può.
Guerra Ucraina, a Bucha massacro di civili. Indignazione in Europa: "Nuove sanzioni". Da tg24.sky.it.
A denunciare le esecuzioni da parte dei soldati di Mosca è il governo ucraino che ha anche diffuso la foto di alcuni cittadini uccisi in strada. Secondo Human Rights Watch nella cittadina a nordovest di Kiev liberata dagli ucraini ci sono "prove di crimini di guerra” commessi dai russi. Bucha "solleva serie domande su eventuali crimini di guerra", dice anche l''Onu. Draghi: “Le immagini lasciano attoniti”. Scholz: “Nuove sanzioni nei prossimi giorni”. Usa: “Responsabili pagheranno”. Mosca nega: "Foto sono fake".
Arriva dal governo ucraino la denuncia di esecuzioni di civili da parte dei soldati russi a Bucha, a nordovest di Kiev, a lungo occupata dalle forze armate russe. "Bucha, regione di Kiev. I corpi di persone con le mani legate, uccise a colpi di arma da fuoco da soldati russi, giacciono per le strade. Queste persone non erano nell'esercito. Non avevano armi. Non rappresentavano una minaccia. Quanti altri casi simili stanno accadendo in questo momento nei territori occupati?", scrive su Twitter il consigliere del presidente ucraino Mykhaylo Podolyak, postando una foto. Secondo Human Rights Watch ci sono "prove di crimini di guerra commessi a Bucha”. La notizia è riportata dal Wall Street Journal. In dettaglio il gruppo per i diritti umani ha affermato di aver intervistato una donna che ha visto le truppe russe radunare cinque uomini e sparare a uno di loro alla nuca, uccidendolo. "Abbiamo documentato un evidente caso di esecuzione sommaria da parte delle forze armate della Federazione Russa a Bucha lo scorso 4 marzo", ha affermato una portavoce di Human Rights Watch. Ora le foto diffuse sui social dal governo ucraino rafforzerebbe le accuse dei crimini di guerra commessi dalle truppe di Mosca. Nella giornata del 3 aprile sono stati trovati altri 57 corpi in una fossa comune nella città. Lo denuncia il capo dei soccorritori Serhii Kaplytchny. Una dozzina di corpi erano visibili, altri solo parzialmente sepolti. I corpi scoperti a Bucha "sollevano serie domande su eventuali crimini di guerra", ha fatto sapere l''Onu. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato nuove sanzioni contro la Russia dopo i "crimini di guerra" commessi a Bucha, aggiungendo che le misure saranno decise con i partner nei prossimi giorni.
L’immagine dei tre civili uccisi in strada a Bucha, uno di loro con le mani legate, ha subito scatenato un’ondata di indignazione. "Le immagini dei crimini commessi a Bucha e nelle altre aree liberate dall'esercito ucraino lasciano attoniti”, ha dichiarato il presidente del Consiglio Mario Draghi. “La crudeltà dei massacri di civili inermi è spaventosa e insopportabile. Le autorità russe devono cessare subito le ostilità, interrompere le violenze contro i civili, e dovranno rendere conto di quanto accaduto. L'Italia condanna con assoluta fermezza questi orrori, ed esprime piena vicinanza e solidarietà all'Ucraina e ai suoi cittadini", ha ribadito Draghi. “Noi stiamo col popolo ucraino. Noi stiamo contro la barbarie della guerra di Putin", ha scritto il segretario del Pd, Enrico Letta postando la foto. "Da Bucha immagini agghiaccianti. Corpi di civili ucraini a terra, uccisi, con le mani legate. Crudeltà, morte, orrore. Accertare il prima possibile l'esistenza di crimini di guerra. Queste atrocità non possono restare impunite", ha scritto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Con il popolo ucraino, la guerra russa va fermata", continua il capo della Farnesina. "L'orrore delle immagini che giungono da Bucha ricorda i tempi più cupi della nostra storia. Non dobbiamo rassegnarci all'ineluttabilità della guerra, non possiamo accettare questa carneficina. Non dobbiamo tacere di fronte a queste violenze", scrive sui social il leadere del M5s Giuseppe Conte. "Da Bucha notizie e immagini di terribili crimini di guerra. Strazio per le vittime. Vergogna e disonore per i responsabili", commenta il commissario Ue Paolo Gentiloni.
"Dobbiamo essere coscienti di che cosa sta accadendo" in Ucraina. Per questo "devono essere imposte sanzioni ancora più dure" alla Russia. È quanto scrive la presidente dell'Europarlamento Roberta Metsola su Twitter dicendosi anche "sconvolta dalle atrocità dell'esercito russo" commesse" a Bucha e in altre aree ora liberate" dalle forze ucraine. "I responsabili" di queste atrocità "e i loro comandanti devono essere portati davanti alla giustizia". Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha accusato l'armata russa di avere commesso "atrocità" nella regione di Kiev, invocando maggiori sanzioni nei confronti di Mosca. "Scioccato dalle immagini ossessionanti delle atrocità commesse dall'armata russa nella regione liberata di Kiev", ha twittato. "L'Ue aiuta l'Ucraina e le Ong a raccogliere le prove necessarie per i procedimenti dinanzi alle corti internazionali".
Scholz: “Accertare gli spaventosi crimini a Bucha”
Più tardi il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha confermato nuove sanzioni contro la Russia, aggiungendo che le misure saranno decise con i partner nei prossimi giorni. "Dobbiamo fare chiarezza senza mezzi termini su questi crimini dei militari russi", ha detto Scholz, commentando le "spaventose" immagini del massacro dei civili di Bucha, in un comunicato diffuso dalla cancelleria. "Io rivendico che organizzazioni internazionali come il comitato internazionale della Croce Rossa abbiano accesso a questa area, per documentare in modo indipendente queste atrocità. I carnefici e i loro mandanti devono essere assicurati alla giustizia", ha aggiunto. "Le immagini dei civili uccisi a Bucha sono insopportabili", ha scritto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock. Anche Baerbock ha definito queste azioni come "crimini di guerra", come anche il vicecancelliere tedesco Robert Habeck: "Questi spaventosi crimini di guerra non possono rimanere senza risposta. Ritengo adeguato un inasprimento delle sanzioni. Questo stiamo preparando con i nostri partner in Ue".
Di fronte alle "atrocità" contro i civili nelle città ucraine di Irpin e Bucha di cui sono accusate le truppe di Vladimir Putin, Londra afferma la necessità di una inchiesta per crimini di guerra. Lo ha dichiarato in una nota la ministra degli Esteri britannica, Liz Truss, secondo cui siamo di fronte ad "attacchi indiscriminati delle truppe russe contro civili innocenti durante l'invasione illegale e ingiustificata dell'Ucraina" e per questo il Regno Unito "sostiene pienamente qualsiasi indagine della Corte penale internazionale". Alle parole di Truss, che ha anche chiesto sanzioni più severe contro Mosca, si sono aggiunte quelle del premier Boris Jonhnson: nel corso di una telefonata col presidente Volodymyr Zelensky si è congratulato per la resistenza mostrata dalle forze ucraine e ha riconosciuto "l'immensa sofferenza inflitta ai civili".
"Le immagini che ci giungono da Bucha, una città liberata vicino a Kiev, sono insopportabili. Per le strade, centinaia di civili assassinati vigliaccamente", ha scritto su Twitter il presidente francese Emmanuel Macron. "La mia compassione per le vittime, la mia solidarietà agli ucraini. Le autorità russe dovranno rispondere di questi crimini", ha affermato. La Francia condanna "con la più grande fermezza" i crimini commessi dall'armata russa contro i civili a Bucha e afferma che i suoi responsabili dovranno essere "giudicati e condannati", si legge in una nota del ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian. "Lavoriamo in raccordo con i nostri partner, le autorità ucraine e le giurisdizioni internazionali competenti affinché' questi crimini non restino impuniti" si legge nella nota.
Nato: “Atto di crudeltà”. Usa: “Responsabili dovranno rendere conto”
In un’intervista alla Cnn il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha definito “la barbara uccisione dei civili” a Bucha da parte delle forze russe “un atto di crudeltà”. Le notizie che arrivano dalla città a nordovest di Kiev "sono orribili e inaccettabili". "Si tratta di un atto di brutalità mai vista in Europa da decenni”. Stoltenberg ha quindi ribadito di appoggiare con forza un'indagine su quanto accaduto a Bucha da parte della Corte penale internazionale, organismo che ha già aperto un'inchiesta sui crimini di guerra in Ucraina. Le violenze imputate alle forze russe a Bucha, nella regione di Kiev, "sono un pugno nello stomaco", ha affermato il segretario di Stato Usa Anthony Blinken su Cnn. "È la realtà di ogni giorno fino a quando proseguirà la brutalità della Russia contro l'Ucraina". Gli Stati Uniti, ha aggiunto, continueranno a "documentare" eventuali "crimini di guerra di cui i responsabili dovranno rendere conto".
Mosca ha respinto le accuse di aver ucciso civili a Bucha. Lo ha detto il ministero della Difesa russo, secondo quanto riporta la Tass, bollando le foto ed i video sui morti di Bucha come “fake” prodotti da Kiev e dai media occidentali. Mosca ha aggiunto che la cittadina è stata bombardata dagli ucraini quando era ancora controllata dai russi. "Tutte le fotografie e i materiali video pubblicati dal regime di Kiev, che presumibilmente testimoniano una sorta di 'crimini' del personale militare russo sono un'altra provocazione", ha dichiarato il dipartimento in una nota pubblicata da Ria Novosti, in cui si sottolinea che i filmati di Bucha sono "una produzione di Kiev per i media occidentali". La nota precisa che "le Forze armate colpiscono solo le infrastrutture militari e le truppe ucraine. Entro il 25 marzo, hanno completato i compiti principali della prima fase: hanno ridotto significativamente il potenziale di combattimento dell'Ucraina. L'obiettivo principale del dipartimento militare russo era la liberazione del Donbass".
Esecuzioni con le mani legate, stupri e fosse comuni: gli orrori di Bucha. Patricia Tagliaferri su Il Giornale il 3 aprile 2022.
Scene che si sperava di non dover più rivedere e che invece il conflitto in Ucraina sbatte in faccia al mondo, giorno dopo giorno sempre più violente: civili disarmati giustiziati in mezzo alla strada, bambini usati come scudi umani, stupri, donne uccise e calpestate dai carri armati, fosse comuni. Ritirandosi da Kiev i russi si sono lasciati alle spalle ogni genere di atrocità.
Ci sono immagini e video terribili che documentano i massacri avvenuti a Bucha, a 30 chilometri dalla capitale, e nella vicina Irpin. Agghiaccianti i racconti del sindaco di Bucha, Anatoly Fedoruk, le testimonianze degli abitanti e delle truppe ucraine che hanno ripreso il controllo della zona. A Bucha i soldati hanno trovato abbandonati, in fila, su un'unica strada, la Yabluska, i cadaveri di almeno 20 uomini, alcuni con le mani legate dietro la schiena con degli stracci. Uccisi con colpo d'arma da fuoco sulla nuca, come un'esecuzione. Il sindaco ha denunciato che i civili sono stati trattati dai russi in modo disumano e la presenza di almeno 280 corpi in fosse comuni, «perché era impossibile seppellirli nei tre cimiteri della zona, tutti nel raggio di tiro dei soldati russi». Il capo dei soccorritori, Serhii Kaplychny, ha mostrato alla France Press un sito dove sono sepolte 57 persone. «Non erano militari, non avevano armi, non ponevano una minaccia. Quanti casi come questi ci sono nei territori occupati?», ha scritto il consigliere del presidente, Mykhailo Podolyak. In una delle fosse comuni, vicino a Motyzhyn, è stato trovato il cadavere di Oleksandr Sukhenko, ex calciatore del club Seagull Second League. Fino a ieri, ha fatto sapere l'ufficio della procura generale ucraina che indaga sui possibili crimini di guerra commessi dalla Russia, erano stati trovati 410 cadaveri nelle città alla periferia settentrionale di Kiev.
Davanti all'orrore dei civili uccisi il presidente Zelensky accusa Mosca di compiere «un genocidio» con l'obiettivo «di eliminare tutta la nazione». Commentando le foto degli ucraini giustiziati, il leader ucraino si rivolge alle madri dei soldati russi: «Guardate che bastardi avete cresciuto: assassini, saccheggiatori, macellai». E in un discorso alla nazione indica la leadership russa come «responsabile» delle torture a Bucha annunciando la creazione di «un meccanismo speciale» per indagare sui crimini di guerra. Nonostante Mosca neghi, le immagini - molte già verificate dai media internazionali - raccontano un'altra storia. L'Associated Press ne ha pubblicate alcune che mostrano cadaveri in abiti civili che sembrano essere stati uccisi a distanza ravvicinata, due con le mani legate e due avvolti nella plastica e buttati in una fossa. Alla Bbc il consigliere di Zelensky, Sergey Nikiforov, ha raccontato di cittadini colpiti da proiettili in testa, da dietro. Secondo un altro consigliere del presidente, Oleksiy Arestovych, ci sono anche notizie di avvenuti stupri. E l'ambasciatrice britannica in Ucraina, Melinda Simmons, ha accusato l'esercito russo di usare lo stupro come arma militare. Ci sono prove sufficienti, dice, per parlare di azioni deliberate e approvate dai militari, non di singoli crimini: «Le donne sono state violentate davanti ai loro figli, le ragazze davanti alle loro famiglie, come atto di riduzione in schiavitù». Anche Human Rights Watch ha documentato almeno una violenza sessuale ripetuta su una giovane che aveva trovato rifugio in una scuola nella regione di Kharkiv, oltre ad una serie di esecuzioni sommarie e violenze illecite contro i civili. L'organizzazione non governativa ha intervistato una donna che ha visto le truppe russe radunare cinque uomini e sparare a uno di loro alla nuca, uccidendolo.
Altre drammatiche testimonianze di chi ha vissuto i giorni dell'occupazione prima del ritiro delle truppe, vengono riportate dal Guardian: i soldati russi avrebbero usato i bambini come «scudi umani» sui mezzi per proteggere i loro spostamenti. Si narra di passeggini piazzati davanti ai carri armati nel villaggio di Novyi Bykiv, vicino a Chernihiv, a nord di Kiev, e di altri piccoli presi come ostaggi in una serie di punti caldi del conflitto in tutto il Paese per garantire che la gente del posto non fornisse le coordinate dei movimenti del nemico alle forze ucraine. Analoghe atrocità sarebbero state commesse ad Irpin, a pochi chilometri da Bucha. Il sindaco Alexander Markushin ha raccontato di donne e ragazze uccise e poi calpestate dai carri armati.
Da Dresda a Srebrenica, i massacri che la Storia non potrà cancellare. Gianni Riotta La Repubblica il 4 aprile 2022.
La Seconda guerra mondiale, ma anche i Balcani o la guerra civile americana. Con un copione che si ripete: stragi, occultamento e propaganda.
"Un rintocco di campane fu il primo segnale, acuto come il grido di un gufo. Afferrai mio figlio Inaki, aveva 17 mesi, presi a correre, senza fermarmi. Un aereo nazista, un Heinkel 51S imparai dopo, prese a inseguire me e il bambino, sul fiume, intorno a un pino, gridavo: perché me, perché me?", ricordava Maria Aguirre che, a 27 anni, viveva a Guernica, la città basca che il gerarca nazista Hermann Göring, scelse il 26 aprile del 1937, come laboratorio "per la mia giovane Luftwaffe", impiegando per la prima volta la strategia del terrore aereo ideata dal generale italiano Giulio Douhet nel trattato "Il dominio dell'aria".
Michele Farina per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2022.
Cinquemila e seicento crimini di guerra dal 24 febbraio a oggi: cinquemila e passa azioni, cinquemila patimenti, cinquemila «file» di immagini e testimonianze. Questo archivio dell'orrore, e di giustizia in costruzione, è curato e aggiornato da Iryna Venediktova, 43 anni, originaria di Kharkiv.
È lei, prima donna a ricoprire il ruolo di Procuratrice Generale dell'Ucraina, a coordinare le indagini e vagliare il materiale. Un archivio di fatti e di prove che il governo di Kiev ha voluto mettere subito online ( war.ukraine.ua/russia-war-crimes/ ), quasi in tempo reale. È stato il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba a lanciarlo via Twitter: «Le prove delle atrocità commesse dall'esercito russo serviranno ad assicurare che i criminali di guerra non sfuggano alla giustizia».
Certo, ci vorrebbe anche una sezione che segnali i crimini attribuiti ai militari ucraini, ci vorrebbe anche una certa freddezza nella presentazione dei casi. Ma il distacco non è facile, quando ogni giorno porta la sua pena. Quando la paura è non riuscire a dare conto di tutto. La procuratrice Venediktova ha detto che per quei quasi seimila crimini sono già stati individuati 500 sospetti.
Molti segugi. A Dnipro la Molfar, società che in tempo di pace si occupava di aziende, ha recuperato finora i nominativi di 80 dei 1.060 soldati russi che avrebbero gestito l'occupazione di Bucha e dei suoi 40 mila martoriati abitanti. Anche la Corte Penale Internazionale ha lanciato un portale per chi voglia fornire testimonianze.
Il bilancio della Cpi dà la misura delle difficoltà e delle frustrazioni: da quando è nata nel 2002, sono state messe sotto accusa per crimini di guerra o crimini contro l'umanità «soltanto» 46 persone (quasi tutte africane): soltanto due stanno scontando una pena, sei hanno pagato già il loro conto con la giustizia internazionale.
Che per altri è rimasto in sospeso. Nel 2020 la Cpi concluse la sua inchiesta sui crimini commessi in Ucraina nel 2014-2015, durante l'annessione della Crimea e il conflitto fomentato dai separatisti del Donbass. L'esito fu che crimini di guerra erano stati commessi anche allora. Ma la Cpi non andò avanti, adducendo una mancanza di risorse e «le difficoltà» dovute al Covid.
Scorrendo l'archivio messo online dal governo ucraino - un catalogo che comincia con il suono lugubre di una sirena - sembra impossibile che questa volta cinquemila e passa crimini di guerra possano essere archiviati così, per mancanza di fondi. Questa volta dovrebbe essere un'altra storia. Mille missili lanciati sulle città, 6.800 infrastrutture civili colpite, 21 ospedali, 18 scuole, almeno 1.563 civili uccisi (167 bambini), 2.213 feriti.
Grandi massacri (il teatro e l'ospedale di Mariupol, la stazione di Kramatorsk) accanto a tragedie più nascoste. Due anziani uccisi da un colpo di mortaio mentre mangiavano qualcosa su una panchina di un quartiere residenziale di Kharkiv. Oppure Olga di Irpin, che racconta gli ultimi minuti dell'amica Marina Met: «Ha chiamato un taxi per fuggire, lei e il figlio Vanya hanno raccolto quattro cose e sono usciti. In quel momento un carro armato russo gli ha sparato addosso. Li hanno sepolti nel cortile del loro palazzo».
Jake Sullivan, consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca, ieri ha detto che il piano «per terrorizzare e brutalizzare» i civili in Ucraina arriva dai «più alti livelli» del Cremlino, fino a Vladimir Putin. Provarlo non sarà facile.
Ma per condannare Karadzic ci sono voluti vent' anni, ricorda all'Observer Alex Whiting, oggi docente a Harvard e ieri procuratore al Tribunale Onu per l'ex Jugoslavia. E in Bosnia non c'erano gli smartphone a documentare le atrocità. «Il grande elemento facilitatore è proprio questo: open source intelligence ». Il primo passo è ora: raccogliere le prove, con la cura che la gente di Bucha ha dimostrato nel raccogliere i corpi trovati nelle fosse comuni. Archiviare tutto, tranne la necessità di fare giustizia.
Bucha, ma non solo: ecco il lungo catalogo degli orrori contro i civili documentati da Human Rights Watch. Alberto Flores D'Arcais La Repubblica il 3 aprile 2022.
La Ong sta raccogliendo prove di massacri, stupri, giustizia sommaria nel conflitto ucraino: potranno essere usate per portare davanti ai tribunali internazionali mandanti ed esecutori. Tra i crimini circostanziati l'eccidio consumato nella cittadina a 30 chilometri da Kiev.
Bucha come Srebrenica, come le stragi naziste in Europa. Sui social network le terribili immagini dei civili (anche bimbi) assassinati, delle donne stuprate e bruciate dalla barbarie dei soldati russi, suscitano inevitabili paragoni con i crimini di guerra che l’Europa ha già visto nel secolo scorso. In ogni angolo dell’Ucraina martoriata dai bombardamenti, dalle deportazioni e da saccheggi e ruberie, operatori umanitari e reporter raccolgono con l’aiuto della popolazione locale una documentazione che - quando la guerra sarà finita - diventerà una prova: quella che serve per incriminare al tribunale dell’Aja Putin e chi sul terreno ha violato ogni legge dell’umanità, diventando autore (la responsabilità è individuale) di crimini di guerra.
Andrea Cuomo per "il Giornale" il 10 aprile 2022.
Il catalogo (dell'orrore) è questo. Lo ha messo in rete il governo di Kiev, può consultarlo chiunque sul sito war.ukraine.ua. È in inglese, ma non c'è bisogno di parlarlo per comprendere le abiezioni compiute dai russi nell'ex repubblica sovietica che guarda all'Europa. Basta avere il fegato per guardare le fotografie. Basta e avanza.
Il catalogo è questo. Destinato a finire sul tavolo della Corte penale internazionale dell'Aja, come si legge nella sezione «Ci sarà giustizia?», con quell'angosciato punto interrogativo. Le cifre, aggiornate al 6 aprile, sono queste: 1.563 civili uccisi, di cui 167 bambini (ieri erano già 176), 2.213 civili feriti, 6.800 edifici civili distrutti, 4.820 crimini di guerra.
«Dopo Bucha e Kramatorsk nemmeno piango più», dice il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Che aggiunge: «Davanti a certe immagini provo odio verso la Russia». E la commissaria europea Ursula von der Leyen, tornando dalla visita dei giorni scorsi in Ucraina, si è chiesta: «Se questi non sono un crimine di guerra, cos'è un crimine di guerra?».
Bucha è la città di uno dei massacri più ciechi e insensati, che ieri ha dovuto aggiornare il pallottolierie: «Risultano al momento complessivamente 360 civili uccisi, compresi almeno 10 bambini», scrive la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino Lyudmyla Denisova su Telegram.
A Bucha c'era il quartier generale del macellaio ceceno Ramzan Kadyrov, che aveva allestito una vera stanza delle torture. «I russi hanno sparato in faccia alle persone, bruciato i loro occhi, tagliato parti del corpo e torturato a morte adulti e bambini», garantisce Denisova.
Ma peggio dovrebbe essere andata a Mariupol. «La portata dei crimini russi è dieci volte peggio del genocidio di Bucha», scrive su Telegram il comune della città ucraina, che racconta di un sottopassaggio nel distretto periferico di Sadkiv in cui gli occupanti russi hanno allestito un punto di raccolta per i corpi dei residenti uccisi, che arrivano a centinaia ogni giorno».
Di ieri anche il ritrovamento a Makariv, città della regione di Kiev abbandonata dai russi qualche giorno fa semidistrutta, di 132 corpi di persone torturate e uccise. Le testimonianze che arrivano dal sobborgo di Kiev sono agghiaccianti. Parlano di «spari alle auto in strada dagli elicotteri dell'esercito russo», di «militari russi che hanno lanciato le granate nei rifugi, perché non volevano ci nascondessimo».
Il sindaco Vadano Tokar racconta di «cadaveri trovati con le mani legate» e di «almeno due casi di donne stuprate e poi uccise: una di queste è stata sgozzata». Agghiaccianti i dettagli della morte del regista lituano Mantas Kvedaravicius, trucidato a Mariupol. «È stato fatto prigioniero dai razzisti, che poi gli hanno sparato - racconta Denisova -. Gli occupanti hanno gettato il corpo del regista nella strada. La moglie, rischiando la propria vita, ha portato il suo corpo fuori dalla città bloccata e portato in Lituania».
Questa la cronaca di ieri. Ma nell'archivio online del governo di Kiev c'è la storia di 45 giorni di turpitudini, caso per caso, abiezione per abiezione. C'è la storia di Iryna, la donna di 53 anni uccisa mentre, sulla sua bicicletta, tornava dal suo lavoro in un magazzino nel villaggio di Mykhailivka-Rubezhivka, vicino a Bucha, riconosciuta dai figli grazie allo smalto sulle unghie.
C'è la storia di una delle prime vittime innocenti della guerra, una bambina di sei anni ferita gravemente durante un bombardamento il 27 febbraio a Mariupol, e morta tra lo strazio dei medici che lottarono ore per salvarle la vita.
E c'è la storia di Lyuba, una ventinovenne rimasta in Ucraina per assistere la madre malata e sequestrata per una settimana da un soldato russo che si era infilato nella sua casa, violentata in continuazione e infine uccisa davanti agli occhi dell'anziana quando si è ribellata agli abusi.
Che i russi abbiano compiuto orrori lo ammettono loro stessi. Nelle intercettazioni rese note ieri dai servizi segreti ucraini, i militari al servizio di Putin in Ucraina lamentano frustrazione e stanchezza e raccontano di essere stati costretti dai superiori a bombardare villaggi «fino a raderli al suolo» o a uccidere tutti i civili in maniera indiscriminata e di stupri contro le ragazze. Orrori, sempre orrori, giorno dopo giorno.
"Esplosivi in auto e lavatrici". La tattica dei russi che terrorizza gli ucraini. Edoardo Sirignano su Il Giornale il 10 aprile 2022.
Lasciare esplosivi nelle auto e nelle lavatrici. È la strategia dei soldati russi per seminare terrore, ma soprattutto per non far tornare i civili ucraini nelle proprie abitazioni. A rivelarlo è il ministro dell’Interno Denis Monastyrskyi. L’esponente del governo Zelensky, in un articolo pubblicato dal quotidiano Ukrinform, ha avvertito le persone che rientravano nelle aree liberate della possibile minaccia.
Secondo fonti locali, un uomo addirittura avrebbe perso la vita dopo aver aperto il bagagliaio della macchina, lasciata parcheggiata e incustodita davanti al proprio cancello. Diverse le persone che in queste ore starebbero trovando mine nel rientrare laddove avevano vissuto prima del conflitto.
“Gli occupanti – dichiara il ministro – hanno installato cavi elettrici nelle case dove passavano la notte, sia sulla soglia che vicino alle recinzioni. La nostra gente ora trova esplosivi negli appartamenti di agenti di polizia, soccorritori e militari ucraini”. Un pericolo, quindi, da non sottovalutare per chiunque. Le bombe, infatti, si attiverebbero al semplice passaggio o toccando qualsiasi oggetto potrebbe sembrare innocuo.
Lo stesso governo, pertanto, sarebbe al lavoro giorno e notte per rendere al sicuro quei territori lasciati dalle truppe dello zar, adesso ritirate in Bielorussia. Artificieri, nelle ultime ore, starebbero controllando frigoriferi, lavatrici e ogni genere di elettrodomestico, nonché cancelli, inferriate e porte per fare in modo che la vita degli abitanti di quei paesi, teatri di orrori, possa tornare presto a una quasi normalità. Soltanto allora potrà partire anche la tanto auspicata ricostruzione.
Per velocizzare i tempi delle operazioni di sminamento sarebbero arrivati addirittura esperti da fuori Europa. Lo sforzo è quello di recuperare giorni preziosi e rendere sicure nel più breve tempo possibile le città invase, semidistrutte e come rivelano le ultime denunce anche minate.
Il rischio sarebbe stato confermato pure dall’intelligence britannica. “Le truppe russe – dichiara una nota del ministero della Difesa del Regno Unito - continuano a usare ordigni esplosivi improvvisati (Ied) per causare vittime, abbassare il morale e limitare la libertà di movimento degli ucraini”. Il piano di Mosca consisterebbe proprio nel creare danni collaterali ai civili per demotivare così coloro che si ritrovano in quella resistenza, che tanto sta facendo penare le truppe di Putin.
Questa è la nuova Srebrenica, è un genocidio. Roberto Fabbri su Il Giornale il 4 aprile 2022.
Cadaveri di civili seminudi abbandonati per le strade di Bucha e Hostomel dopo esecuzioni sommarie, fosse comuni con centinaia di corpi mutilati tra i quali non pochi bambini, disgraziati senza vita trovati con le mani legate, segni di tortura e un foro di proiettile alla nuca, segno classico fin dai tempi di Stalin della tradizione russo-sovietica. Con tante scuse alla sensibilità al contrario delle anime belle rosso-brune (o semplicemente in stolida malafede) che mentre in Ucraina i russi massacrano e violentano si turbano per Dostoevskij o per l'irrinunciabile due per cento fin qui assicurato al bilancio del nostro turismo dai ricchi visitatori moscoviti, ce n'è più che a sufficienza per rievocare gli orrori di Srebrenica. E per invocare a carico di Vladimir Putin, mandante di queste infamie, un processo al Tribunale dell'Aia.
Per chi è troppo giovane o troppo distratto per ricordare: Srebrenica è una cittadina della Bosnia di popolazione musulmana, passata alla Storia per uno spaventoso massacro di civili inermi, il peggiore avvenuto su suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Accadde nel luglio del 1995 per mano dei bravacci del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic, specialisti in «pulizia etnica» nel nome della Grande Serbia. Una volta penetrati a Srebrenica dopo aver vinto la men che simbolica resistenza di un contingente di caschi blu dell'Onu che quei civili avrebbe dovuto proteggere, i miliziani agli ordini di Mladic non persero tempo a radunare l'intera popolazione (disarmata), a separare gli uomini e i ragazzi sopra i dodici anni da donne e bambini. Condussero poi, con il pretesto di interrogatori, quegli oltre ottomila sciagurati considerati nemici abili al combattimento in una zona boscosa a breve distanza dalla cittadina e li fucilarono in massa nell'arco di diversi giorni, gettandone poi i corpi in enormi fosse comuni.
I mandanti di questo crimine mostruoso Mladic ma anche l'allora presidente della serbo-Bosnia Radovan Karadzic furono catturati solo dopo anni di latitanza, processati e condannati all'Aia. L'accusa fu di genocidio, considerata l'evidente intenzione di sterminare un'etnia (quella dei cosiddetti bosgnacchi, i musulmani di Bosnia per lo più di origine turca) su base razzistica. Non mancò anche allora, qui in Italia, chi non si vergognò di cercare giustificazioni per quei macellai in divisa malati di nazionalismo sanguinario, arrivando perfino a lodarli perché, in fondo, stavano facendo il lavoro sporco anche per noi occidentali minacciati dall'islam.
A rischio, mi ripeto, di urtare la raffinata intellettualità di chi riscontra anche negli odierni crimini di guerra russi in Ucraina profonde motivazioni storiche, non pare che vi sia gran differenza tra gli orrori del 1995 e quelli di oggi. Anzi, a dirla tutta, oggi è peggio. Perché almeno Mladic e Karadzic, così come il loro boss belgradese Slobodan Milosevic, rivendicavano con orgoglio le loro bestialità. I vertici del Cremlino, invece, si divertono non solo a far trucidare civili ucraini in quanto ucraini, ma anche a prenderci in giro. Così, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, un distinto signore poliglotta diplomatico di lungo corso, senza vergogna ripete che il suo Paese non ha attaccato nessuno, e che meno che mai si macchia di attacchi a bersagli civili. Criminali di guerra? Genocidi all'opera in Ucraina? Ma come ci permettiamo! Il vero genocidio giurano a Mosca e purtroppo spesso anche dalle nostre parti - è semmai in atto da anni nel Donbass per mano dei nazisti ucraini, e le immagini di condomini sventrati e di morti ammazzati in mezzo alla strada sono fake news architettate dai medesimi diabolici nazisti per infangare il buon nome dell'esercito russo.
Un confine tra guerra e barbarie esiste, e a Bucha è stato ampiamente varcato. Joe Biden può piacere o non piacere, ma aver definito dittatore, macellaio e criminale di guerra Vladimir Putin può al più essergli rinfacciato quanto a opportunità politica, certo non per sostanza. Se il mandante di questi orrori fosse un Karadzic o un Milosevic qualsiasi, il suo posto sarebbe in una cella in Olanda.
Lo sdegno mondiale provocato dalla tragedia dell'Olocausto, però, non ha impedito che nel Dopoguerra venissero compiuti nuovi massacri indiscriminati ai danni della popolazione inerme. Dal massacro di My Lai ad opera dei soldati americani in Vietnam a quello di Srebrenica commesso dalle truppe serbo-bosniache, ecco alcuni degli episodi più drammatici. Gianni Rosini su Tempo il 6 aprile 2022.
La storia europea è costellata di massacri commessi da eserciti o milizie paramilitari ai danni di civili. Solo in Italia, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si ricordano tra gli altri l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema o quello delle Fosse Ardeatine, nel Vecchio Continente quelli nel ghetto di Varsavia o la Notte dei Cristalli in tutta la Germania nazista. Lo sdegno mondiale provocato dalla tragedia dell’Olocausto, però, non ha impedito che nel Dopoguerra venissero compiuti nuovi massacri indiscriminati ai danni della popolazione inerme. Eccidi che assomigliano tutti a quello di Bucha, ma che, nonostante siano rimasti vividi nell’immaginario collettivo, non sempre sono riusciti a imprimere un cambio di rotta ai conflitti o a favorire un cessate il fuoco. Dal massacro di My Lai ad opera dei soldati americani in Vietnam a quello di Srebrenica commesso dalle truppe serbo-bosniache, ecco alcuni degli episodi più drammatici che hanno fatto la storia delle guerre dal Dopoguerra ad oggi.
MASSACRO DI MY LAI (VIETNAM, 1968) – La Guerra del Vietnam era ormai agli sgoccioli, gli Stati Uniti e i suoi alleati l’avevano persa. E già lo sapevano. Il 16 marzo 1968 i soldati americani si resero protagonisti di uno dei massacri ai danni della popolazione civile inerme più sanguinosi della loro storia recente. A My Lai, una frazione del villaggio di Son My, nel Vietnam centro-meridionale, i militari di Washington, in seguito a uno scontro a fuoco con truppe di Viet Cong, si scagliarono contro la popolazione rendendosi protagonisti di torture e uccisioni di massa indiscriminate nei confronti di uomini, donne, anziani e bambini. Nessuno venne risparmiato, fino a quando a intervenire fu proprio l’equipaggio di un elicottero americano in ricognizione che si mise tra i carnefici e le loro vittime, puntando i mitra contro i compagni in armi e minacciandoli di aprire il fuoco se non avessero messo fine al massacro. Secondo quanto ricostruito, con questo intervento i membri dell’esercito Usa riuscirono a salvare la vita a 11 persone, ma sul terreno rimasero 504 vittime innocenti.
Le indagini sull’eccidio di My Lai vennero condotte da un giovane Colin Powell, poi diventato noto al mondo da Segretario di Stato americano quando mostrò all’Onu le false prove del possesso di armi chimiche da parte di Saddam Hussein, ma non portarono a nessun risultato concreto. Anzi, tornando in patria sostenne che non esisteva alcun problema nelle relazioni tra i militari americani e i civili vietnamiti. Una versione che sarà poi sconfessata da una successiva inchiesta del giornalista premio Pulitzer, Seymour Hersh, che svelò al mondo la verità su quel genocidio.
MASSACRO DI SABRA E SHATILA (LIBANO, 1982) – La notte del 16 settembre 1982, il cielo di Beirut sopra i campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila vennero illuminati a giorno dai bengala dell’esercito israeliano che circondava le enormi tendopoli. Stavano aprendo la strada alle milizie falangiste affamate di vendetta dopo l’attentato al presidente del Libano e loro leader, Bashir Gemayel, compiuto dai servizi segreti siriani in collaborazione con le milizie palestinesi. Da giorni il ministro della Difesa di Tel Aviv, Ariel Sharon, denunciava la presenza di 2mila combattenti fedeli a Yasser Arafat rimasti nel Paese dopo il ritiro definitivo annunciato all’inizio di settembre, in piena guerra civile libanese. Le truppe israeliane, così, accerchiarono i campi profughi poco dopo la partenza degli eserciti occidentali, mentre le Falangi si stabilirono nelle aree immediatamente adiacenti. L’uccisione di Gemayel fece esplodere la furia dei suoi seguaci, in una situazione già ad altissima tensione.
La sera del 16 settembre le milizie entrarono nei campi profughi palestinesi e ne uscirono solo al mattino del 18. In mezzo ci furono le donne violentate, i ventri squarciati di quelle incinte, i bambini seviziati a morte e centinaia di giovani e anziani giustiziati, con i loro corpi accatastati in montagne di carne umana o sparsi per le vie dei due campi. Sul terreno rimase un numero imprecisato di vittime palestinesi innocenti: alcune stime parlano di 700, altre arrivano addirittura a 3.500. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite definì il massacro “un atto di genocidio”. La successiva commissione Kahan riconobbe la diretta responsabilità delle Falangi libanesi e quella indiretta, elemento che provocò non poche critiche, dell’esercito israeliano, del primo ministro Menachem Begin, del ministro della Difesa Sharon e del Capo di Stato Maggiore Rafael Eitan.
MASSACRO DI MURAMBI (RWANDA, 1994) – Quello del Rwanda perpetrato dai gruppi armati di etnia Hutu ai danni dei Tutsi rimane uno dei genocidi più sanguinosi ed efferati della storia recente. Tanto da richiedere l’istituzione di un Tribunale speciale che indaghi sui crimini commessi in quei tre mesi tra la primavera e l’estate del 1994. Il numero di morti è praticamente incalcolabile, si stima siano tra i 500mila e oltre 1 milione, e la furia della violenza etnica non ha risparmiato nessuno: uomini, donne, anziani e bambini sono stati torturati, stuprati e trucidati senza pietà. Se in un evento così grave si può ritrovare un fatto emblematico, quello è il massacro alla scuola di Murambi, il 21 aprile 1994. Un episodio così grave che sul posto è stato anche costruito, in occasione del primo anniversario, un Memoriale che ricorda le circa 65mila vittime dell’eccidio.
Mentre le operazioni di pulizia etnica in corso dall’aprile dello stesso anno si stavano spostando verso l’area meridionale del Rwanda, 65mila civili di etnia Tutsi cercarono riparo nella chiesa locale. Ma furono il vescovo e il sindaco in persona ad attirarli in una trappola: dissero loro che il posto più sicuro dove recarsi era l’istituto che sorgeva poco lontano da lì. Mandarono 65mila persone al massacro. Una volta arrivati, infatti, i civili non trovarono acqua e cibo proprio per limitare le loro forze e impedirne la resistenza. Per qualche giorno fronteggiarono le milizie hutu, ben armate, solo con bastoni e pietre, ma il 21 aprile dovettero arrendersi alla superiorità militare degli avversari. In 20mila furono uccisi in quell’occasione, mentre altri, che riuscirono a fuggire, vennero sterminati nei giorni seguenti. Un numero talmente elevato di morti in un’area così ristretta e in così poco tempo che, secondo la ricostruzione del Memoriale, i soldati francesi scomparsi dall’area per qualche giorno dovettero utilizzare dei bulldozer per scavare fosse comuni dove gettare i corpi. Su 65mila persone, solo 34 sono sopravvissute al massacro di Murambi.
MASSACRO DI SREBRENICA (BOSNIA-ERZEGOVINA, 1995) – Uno dei massacri più sanguinosi della storia recente è certamente quello di Srebrenica, avvenuto nel luglio del 1995. In quelle settimane durante le quali si stava assistendo alla dissoluzione della Jugoslavia, l’allora esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina guidato dal Macellaio Ratko Mladic fece irruzione nella piccola cittadina bosniaca, dichiarata zona protetta dai Caschi Blu dell’Onu come le città di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde e Bihać. Nonostante l’impegno delle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite, in quell’occasione in mano a un contingente di 600 militari olandesi che decisero di non intervenire di fronte all’avanzata degli uomini di Mladic perché “scarsamente equipaggiati”, le truppe serbe riuscirono a entrare in pochi giorni nella cittadina bosniaca e a giustiziare migliaia di civili innocenti. Sono oltre 8.300 le persone che risultano scomparse, ma oggi, a 27 anni di distanza, solo 6.900 sono state ritrovate.
Quella di Srebrenica è una strage che non è rimasta totalmente impunita. Il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia ha condannato Mladic, in carcere dal 2011, all’ergastolo in quanto responsabile dell’assedio di Sarajevo e di quello che è il più grande genocidio commesso in Europa dal Dopoguerra. Come lui, i giudici internazionali condannarono anche l’allora presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, Radovan Karadzic, per genocidio. I tribunali nazionali olandesi, inoltre, hanno condannato lo Stato per responsabilità indirette nei fatti di Srebrenica, anche se una serie di sentenze al ribasso hanno portato a un riconoscimento solo parziale delle colpe. Gianni Rosini
Cronache da Sarajevo, trent'anni dopo la guerra. Raffaele Oriani su La Repubblica l'1 Aprile 2022.
Il 5 aprile fu il primo dei 1.425 giorni di assedio della città. A raccontarli ci pensò il giornale diretto da Zlatko Dizdarevic. Siamo andati a trovarlo con in testa Kiev e Mariupol. Reportage.
Sarajevo. Quella volta non c'era nessun rischio nucleare. L'Occidente aveva appena vinto la Guerra fredda, la Russia era un colosso in frantumi, un miliardo di cinesi si salutavano ancora con apprensione chiedendosi "Hai mangiato?". Eppure il 5 aprile 1992, esattamente trent'anni fa, a Sarajevo iniziava un assedio che sarebbe durato 1.425 giorni di fame, sete e cecchini che fecero almeno 11.000
Ritorno all'inferno, Toni Capuozzo ricorda l'assedio di Sarajevo. Da mediasetplay.mediaset.it il 9 aprile 2022.
Il commosso ricordo di Toni Capuozzo dell'assedio di Sarajevo, documentate sul campo, a 30 anni di distanza.
1992-2022 - Ritorno all’Inferno è il documentario sul campo di Toni Capuozzo e del suo cameraman Igor Vucic - con la regia di Roberto Burchielli - che tornano a Sarajevo a 30 anni di distanza dall'inizio dell'assedio durante il conflitto dei Balcani. Il reportage, andato in onda sul canale tematico Focus, è disponibile in streaming on demand su Mediaset Infinity e qui sopra. Il viaggio riporta Capuozzo e Vucic a ritrovare persone e luoghi legati a quel drammatico periodo, evocati dalle immagini girate allora.
1992-2022 - Ritorno all’Inferno: l'assedio di Sarajevo
Uno dei momenti più cruenti della Guerra in Bosnia ed Erzegovina e il più lungo blocco nella storia bellica della fine del XX secolo. Vede scontrarsi le forze del governo bosniaco, che aveva dichiarato l'indipendenza dalla Jugoslavia, contro l'Armata Popolare Jugoslava (JNA) e le forze serbo-bosniache (VRS), che volevano annientare il neo-indipendente stato della Bosnia ed Erzegovina, per creare la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina.
Nei mesi che precedono la guerra, le forze della JNA iniziano a schierare artiglieria e altri equipaggiamenti sulle colline che circondano la città. Nell'aprile 1992, il governo bosniaco chiede al governo della Jugoslavia di ritirare il contingente, ma Milošević acconsente solo per i soldati non bosniaci. Il 5 aprile 1992 i paramilitari serbi attaccano l'Accademia di Polizia di Sarajevo.
Il 2 maggio 1992, Sarajevo viene completamente isolata dalle forze serbo-bosniache. Le principali strade che conducono alla città vengono bloccate, così come i rifornimenti di viveri e medicine. I servizi come l'acqua, l'elettricità e il riscaldamento sono tagliati. Anche se inferiori di numero ai difensori bosniaci in città, i soldati serbi intorno a Sarajevo sono meglio armati. Dopo il fallimento dei tentativi iniziali di assaltare la città con le colonne corazzate della JNA, le forze di assedio cannoneggiarono Sarajevo dai 200 bunker sulle montagne.
Nella seconda metà del 1992 e nella prima del 1993 l'assedio raggiunge l’apice della violenza dei combattimenti. Vengono commesse gravi atrocità, con i bombardamenti di artiglieria che continuavano a colpire i difensori. Gran parte delle principali posizioni militari e le riserve di armi all'interno della città sono sotto il controllo dei serbi, che impediscono i rifornimenti ai difensori.
Ma è solo l'inizio: l'assedio prosegue per quattro anni, con indicibili sofferenze per la popolazione. L'isolamento, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, registra più di 12mila vittime, oltre 50mila feriti, l'85 per cento dei quali tra i civili. Al termine, la popolazione è ridotta a 334.664 persone, il 64 per cento della pre-bellica.
Capuozzo a Sarajevo 30 anni dopo: il dolore dei sopravvissuti. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.
Il giornalista è tornato sul luogo simbolo del conflitto dei Balcani per dare vita al documentario«1992-2022 - Ritorno all'Inferno».
Mentre assistiamo all’invasione della Russia in Ucraina, Toni Capuozzo è tornato a Sarajevo, a trent’anni da quel tragico assedio di cui fu testimone e narratore: «1992-2022 - Ritorno all’Inferno» (Rete4). È un reportage da groppo in gola: Capuozzo incontra il suo vecchio cameraman Igor e insieme fanno «un piccolo, lungo giro nell’inferno», come se quelle stragi non avessero insegnato nulla, come se la guerra seguisse sempre lo stesso copione, come se la rassegnazione fosse l’unica consolazione dei sopravvissuti. Lo sconforto è tale che a un certo punto Capuozzo mette in discussione il ruolo stesso del giornalismo (cos’è servito informare?) e il solo gesto sensato che gli pare di aver compiuto è di aver portato di nascosto in Italia (aiutato da Anna Cataldi) il piccolo Kemal, vittima dei bombardamenti serbi, la cui madre era morta mentre il bimbo aveva perso una gambina.
"1992-2022 Ritorno all'inferno" Stasera, su Retequattro, alle 22.35 il documentario che racconta la guerra di trent'anni fa, mentre sullo schermo scorrono le immagini della guerra di oggi. pic.twitter.com/yYd85krREX
— toni capuozzo (attonicapuozzo1) April 9, 2022
Capuozzo oggi è ancora il suo secondo papà: tra i due perdura un legame fortissimo, mai spezzato dalla distanza fisica. Il 5 aprile 1992 le forze serbo-bosniache circondarono la città di Sarajevo, in quello che resta l’assedio più lungo della storia moderna, le cui stime parlano di 12mila morti e oltre 50mila feriti. Il 2 maggio l’esercito federale e le milizie serbe bloccarono tutti gli accessi a Sarajevo, ponendo la capitale sotto un assedio destinato a durare ben 43 mesi, fino al 29 febbraio 1996. Stragi, stupri e deportazioni proseguirono per tutta la durata della guerra, in uno scenario di pulizia etnica culminato nel massacro di Srebrenica, costato la vita a circa 8.000 civili mussulmani bosniaci. Nascosti nelle colline dei dintorni, i cecchini serbi sparavano ai civili che uscivano per la strada. P.S. Spiace che un grande come Capuozzo abbia firmato quella lettera aperta degli ex inviati sui rischi della narrazione semplicistica della guerra. Non è nel suo stile: il ritorno all’inferno è il suo vero insegnamento.
Maurizio Stefanini per “Libero Quotidiano” il 10 aprile 2022.
Importante promessa: dagli italiani di Graziani a Addis Abeba agli americani a Sand Creek e Mi Lai passando per i francesi in Algeria o gli inglesi in India, la gran parte degli eserciti del mondo hanno fatto cose simili a quelle di cui sono ora accusati i russi a Bucha.
Ma la Russia rispetto ad altri Paesi ha avuto un'incapacità storica a riconoscere colpe del genere molto maggiore: sia relativamente all'epoca zarista che a quella sovietica e post-sovietica. Anche per questo, la quantità di eccidi sembra maggiore.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, in particolare, l'Armata Rossa commesse una gran quantità di crimini di guerra che non furono mai giudicati. Uno degli esempi più noti fu il massacro di 22.000 tra ufficiali, politici, giornalisti, professori e industriali polacchi che avvenne nella foresta di Katyn tra il 3 aprile e il 19 maggio 1940. Ma quello fu uno scenario che si ripeté prima in tutti i territori occupati in base al patto Molotiv-Ribbentrop, e poi in quelli occupati dopo la sconfitta nazista.
Anche gli ufficiali dell'esercito estone, ad esempio, furono tutti giustiziati o deportati. Ma furono in tutto più di 300.000 cittadini estoni che durante la Seconda Guerra Mondiale furono colpiti da deportazioni, arresti, esecuzioni e altri atti di repressione.
Quasi un terzo della popolazione, mentre le 200.000 vittime furono un estone su cinque. Una Bucha estone fu ad esempio Viru-Kabala: un villaggio in cui nell'agosto del 1941 fu uccisa tutta la popolazione. Anche un bambino di due anni e un neonato di sei giorni.
Pure in Lettonia il 14 giugno 1941 ci fu una deportazione in massa verso la Siberia. E la Lituania perse 780.000 cittadini, cui seguì una sanguinosa coda nel gennaio 1991, con le 13 persone uccise durante le manifestazioni indipendentiste. In Romania ci fu il primo aprile 1941 il massacro di Fantana Alba.
L'Urss ammetterà 44 vittime, ma varie stime arrivano a 3000. Dalla Moldavia ci furono almeno 46.000 deportati. Katyn a parte, in Polonia gli storici parlano di prigionieri scottati con acqua bollente a Bobrka; di altri a cui a Przemyslany furono tagliati naso, orecchie e dita e cavati gli occhi; di detenute col seno tagliato a Czortków.
Secondo gli studi di Tadeusz Piotrowski, negli anni dal 1939 al 1941 quasi 1,5 milioni di persone furono deportati dalle aree controllate dai sovietici dell'ex Polonia orientale.
Secondo lo storio Carroll Quigley, almeno un terzo dei 320.000 prigionieri di guerra polacchi catturati dall'Armata Rossa nel 1939 furono assassinati. I soldati dell'Armata Rossa iniziarono in Polonia la politica di stupri di massa poi portata avanti in Germania, al punto da provocare nel 1945 una pandemia di malattie sessuali.
Gli archivi di Stato polacchi stimano almeno 100.000 vittime. Il governo tedesco nel 1974 stimò in almeno 600.000 i civili morti durante le espulsioni di massa tra 1945 e 1948. E sono stimate in almeno 2 milioni le tedesche vittime di stupri.
Ma stupri furono documentati non solo in un altri Paese occupato come l'Ungheria, ma perfino in Cecoslovacchia e Jugoslavia. In Jugoslavia almeno 121 casi, da cui proteste di Tito che forse ebbero un ruolo nella rottura con Stalin.
Violenze contro i civili ci furono anche durante la Rivoluzione Ungherese del 1956 e l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968, per non parlare dell'Afghanistan. Almeno 500 civili furono per esempio uccisi durante il massacro di Laghman nell'aprile 1985, e 360 durante il massacro di Kulchabat, Bala Karz e Mushkizi.
Nel 1992 l'Urss cessò di esistere, ma episodi del genere hanno continuato a essere denunciati anche nelle successive guerre russe. Nell massacro di Samashki dell'aprile '95 oltre 100 civili ceceni furono uccisi dalla polizia antisommossa, e il rapporto Onu del 26 marzo '96, accusò i russi di aver sparato e ucciso civili ai posti di blocco e di aver giustiziato sommariamente ceceni catturati, sia civili che combattenti.
Polveriera balcani. Report Rai PUNTATA DEL 25/04/2022 di Walter Molino
Collaborazione di Federico Marconi
A trent’anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, il conflitto in Ucraina alimenta la tensione nell’area balcanica.
L’integrità statale della Bosnia Erzegovina è minacciata dalle mire secessioniste di Milorad Dodik, leader della Repubblica Srpska spalleggiato da Vladimir Putin. In Serbia il conservatore Aleksandar Vučić è stato appena rieletto Presidente della Repubblica con quasi il 60% delle preferenze e in Parlamento sono entrate nuove formazioni della destra radicale. Adesso è chiamato a sciogliere l’equivoco che ha attraversato la campagna elettorale e riguarda il futuro del Paese: da un lato gli interessi commerciali e la richiesta pendente di entrare nell’UE, dall’altro il tradizionale legame con la Russia e il revanscismo nazionalista. Nessuno però ha dimenticato i bombardamenti NATO del 1999 e la condanna unanime di un intero popolo che sente di avere ancora molti conti aperti con il passato.
POLVERIERA BALCANICA di Walter Molino collaborazione Federico Marconi immagini Alessandro Spinnato montaggio Giorgio Vallati - Riccardo Zoffoli
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, chi è che invece non le ha proprio contemplate queste sanzioni è la Repubblica serba, che è legata ai russi da un forte legame storico, dal ricordo dei bombardamenti di Belgrado, della Nato, del 1999. Ora, questo sentimento ha reso complicato l’adesione all’Unione Europea, è dal 2009 che pende una richiesta di adesione, diciamo che nella forma di resistenza ha anche pesato la dipendenza dal gas russo. Poche settimane fa ha vinto le elezioni il presidente Alexander Vucic, al governo dal 2014, ha messo su un governo muscolare, autoritario, ha consentito che in Parlamento entrassero anche le forze più nazionaliste, quelle dell’estrema destra. Ora, dopo l’intervento in Ucraina deve decidere, scegliere, se stare dalla parte dell’Europa o guardare a Est, a Russia e Cina. Il nostro Walter Molino.
WALTER MOLINO – FUORI CAMPO La Serbia ha deciso di non aderire alle sanzioni economiche contro il regime di Putin e di lasciare aperto lo spazio aereo con Mosca ma ha votato a favore dell’espulsione della Russia dal Consiglio dei diritti umani all’ONU. A Belgrado la chiamano la politica delle due sedie - un po’ con l’Europa e un po’ con la Russia. E l’attore protagonista è Alexander Vucic, rieletto Presidente della Repubblica lo scorso 4 aprile con oltre due milioni voti in una campagna elettorale senza storia.
ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI SERBIA Ma quando qualcuno dice mai dire mai, forse entreremo a far parte della NATO, la mia risposta è che non entreremo nella NATO! Proteggeremo da soli il nostro paese, il nostro cielo e la nostra libertà e ne siamo capaci, abbiamo costruito un esercito che è incomparabilmente più forte e che non minaccia nessuno ma funge da deterrente.
SOSTENITRICE DI VUCIC Noi amiamo Vucic. Finché vivremo lo voteremo, perché non abbiamo uno migliore. Anche Putin è un buon presidente del suo paese, la Russia ci ha aiutato mentre ci bombardavano.
WALTER MOLINO Siete stati pagati per venire qui?
SOSTENITORE DI VUCIC No, non, no… ma questo capisce tutto! Io spero che andrà tutto meglio.
SOSTENITRICE DI VUCIC È il migliore perché è il migliore. E anche perché è l’amico di Putin. Putin non ci fa paura, per noi lui è un grande amico.
WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Le opposizioni, che alle precedenti elezioni non avevano partecipato al voto per protesta, si accontentano di tornare a sedere in Parlamento e in campagna elettorale si parla poco di Serbia e molto di politica internazionale.
UOMO La Serbia non può entrare nella Nato, perché la Nato ci ha bombardati, è stato il nostro grande nemico, io portavo i miei figli nei rifugi mentre cadevano le bombe.
WALTER MOLINO Vucic dice: il Kosovo è serbo e deve tornare alla Serbia.
UOMO È la nostra terra.
WALTER MOLINO Quindi su questo la pensate come Vucic.
UOMO Penso che il Kosovo è la nostra terra da secoli. Ma l’abbiamo persa. Le tensioni ci sono e ho paura che questi non lasceranno il potere tanto facilmente, anche se perdono le elezioni.
WALTER MOLINO Ma tanto non le possono perdere.
UOMO Possono, per quello che siamo qua.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dveri formazione di ispirazione religiosa, monarchica e nazionalista. La guida a Bosko Obradovic, tra i maggiori sostenitori della propaganda filorussa in Serbia.
BOSKO OBRADOVIC – LEADER DVERI Lo stato russo è stato fondato a Kiev e non a Mosca, la Crimea è il luogo del battesimo del popolo russo, sono territori russi da secoli. La Russia non è intervenuta in un altro paese, come facevano gli Stati Uniti in tutto il mondo.
WALTER MOLINO Lei ha usato le stesse parole di Putin.
BOSKO OBRADOVIC – LEADER DVERI Io uso le mie parole e penso solo con la testa serba, e guardo esclusivamente gli interessi del popolo serbo. La Russia sta vivendo ciò che abbiamo vissuto noi serbi negli anni '90, quando la macchina mediatica dell’occidente ci ha definito un popolo di criminali, la causa di tutte le guerre nella ex Jugoslavia. La Nato dovrebbe pagare i danni di guerra alla Serbia per tutto quello che è stato fatto nel 1999 durante i bombardamenti.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO I venti di guerra attraversano la campagna elettorale, il movimento pacifista prova a far sentire la sua voce ma è minoritario. Stasja Zajovic ha fondato trent’anni fa Le donne in nero, una ONG di Belgrado femminista e antimilitarista che si batte per i diritti civili nell’ex Jugoslavia. Subiscono da sempre aggressioni e minacce, l’ultima è questa: puttane in nero, simboli nazionalisti e il nome di Ratko Mladic, il generale serbo condannato all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica.
WALTER MOLINO Cosa ha pensato quando è tornata qui quella mattina e ha trovato tutte quelle scritte dietro la porta?
STASJA ZAJOVIC – DONNE IN NERO BELGRADO Io devo prendermi cura sempre degli altri, come si sentono gli altri, dare loro una sicurezza, ma io sono di una famiglia che ha lottato molto nella seconda guerra mondiale, tutta la mia famiglia è stata nei partigiani. Il Presidente della Serbia è uno che ha fatto le chiamate pubbliche in Parlamento il 20 giugno 1995, venti giorni prima del genocidio di Srebrenica. Lui ha detto: per un serbo ucciso dai musulmani noi uccideremo cento musulmani. Questo dittatore fascista Vucic fa la guerra continuamente. Perché lui è un guerrafondaio. Lui ha i paramilitari, parapoliziesche. Questo gli serve per alimentare la propaganda di guerra e poi lui dire: sapete, io sono il vostro salvatore.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Leader di SNS partito progressista di nome, ma conservatore e nazionalista nei fatti, Alexander Vucic è al governo dal 2014. Ha costruito un sistema di potere autoritario e filorusso, riducendo al minimo lo spazio per il dissenso. Tuttavia rimane il punto di equilibrio più affidabile per l’occidente e la sua immagine appare rassicurante al popolo serbo. Nell’ultima campagna elettorale è entrato in casa delle persone passando dal frigorifero. Domenica 3 aprile è il giorno delle elezioni. L’opposizione denuncia brogli e aggressioni. Nel pomeriggio l’affluenza ai seggi è bassa, il partito di Vucic teme un brutto risultato a Belgrado e la tensione sale. Una fonte ci informa che il governo avrebbe pronti squadroni di ultras per creare disordini di cui incolpare le opposizioni ma tutto rimane apparentemente tranquillo. Ad urne appena chiuse, nella sede di SNS c’è già aria di festa. Un ricco buffet per la stampa in attesa di un risultato che appare scontato. I maggiorenti del partito sfilano uno dietro l’altro.
ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI SERBIA Io ho vinto con il 59,9% dei voti.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO È la prima comunicazione ufficiale dei risultati e non arriva da una commissione elettorale, ma dalla viva voce del presidente in carica. E a chi prova a chiedere spiegazioni, Vucic risponde così…
ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SERBIA Noi abbiamo osservatori in ogni seggio elettorale e possiamo informarvi sui risultati. Si rallegri, sorrida, una mano sicura la guida attraverso la storia.
ZAKLINA TATALOVIC – GIORNALISTA Il Presidente della Serbia non vuole rispondere alle domande non concordate e non vuole parlare con i giornalisti critici verso il potere. WALTER MOLINO È difficile oggi in Serbia essere un giornalista critico con il potere.
ZAKLINA TATALOVIC – GIORNALISTA Sì, molto. Ed è una cosa rara oggi in Serbia. Il Presidente Vucic è circondato dai giornalisti che gli pongono le domande che ordina lui stesso e così è da anni.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il controllo del potere sull’informazione arriva perfino dentro le librerie. Nel centro di Belgrado preferiscono non esporre libri come questo. Pòbuna in serbo significa Ribellione. Lo ha scritto Srdan Skoro, un giornalista dissidente che da anni denuncia la corruzione del sistema di potere di Vucic. Incontriamo Skoro in un luogo simbolo di Belgrado, davanti alla sede della televisione di Stato bombardata dalla NATO nella notte del 23 aprile 1999. Morirono 16 persone.
SRDAN SKORO – GIORNALISTA Questo è un luogo orribile e agghiacciante. Quelle vittime non erano colpevoli di nulla, nessuno è mai stato ritenuto responsabile. Soprattutto non la Nato che ha preso di mira la televisione e sapeva che c'erano le persone dentro.
WALTER MOLINO Vucic era ministro dell’informazione con Milosevic. Ci sono delle analogie tra i due?
SRDAN SKORO – GIORNALISTA Vucic è stato il peggior ministro nella storia dell'informazione serba e ha approvato la legge più brutale contro i media e contro la libertà di parola. Le redazioni e i giornalisti venivano puniti e le redazioni venivano chiuse solo perché scrivevano qualcosa che non gli piaceva. Vucic è stato più estremo di Milosevic. La differenza è che Milosevic non ha goduto dello stesso sostegno dell'Occidente mentre a Vucic tutto è permesso, almeno fino a quando non interferirà con gli interessi di Europa e Stati Uniti.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo la netta affermazione elettorale Vucic ha ricevuto i rallegramenti di Putin e pochi giorni dopo i cieli di Belgrado sono stati attraversati da sei aerei cargo militari cinesi che hanno consegnato alla Serbia una fornitura di missili antiaereo. Ma quando Vuk Cvjijc, un coraggioso giornalista del settimanale NIN, ha pubblicato la prima puntata della sua ultima inchiesta, Putin sarà stato poco allegro di sapere che migliaia di colpi di mortaio sparati contro i russi sono stati prodotti in Serbia e venduti all’Ucraina.
WALTER MOLINO Che tipo di armi sono?
VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Si tratta di colpi da 60 mm sparati da mortai prodotti nello stabilimento statale Krusik di Valjevo, in Serbia. Vucic ha ammesso di essere a conoscenza di una vecchia fornitura di 23 mila munizioni, ma i documenti che abbiamo trovato dimostrano che sono almeno il doppio.
WALTER MOLINO Come hai trovate le prove?
VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Oltre ai documenti sulle esportazioni c’è un video ufficiale dell’esercito ucraino sul fronte di Kiev ed esperti militari che abbiamo consultato hanno riconosciuto le marcature delle munizioni prodotte a Krusik nel 2018.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO È il 13 marzo scorso. Le forze speciali ucraine combattono alla periferia del villaggio di Mosku, nei pressi di Kiev. Le marcature gialle sui proiettili dei mortai indicano la provenienza dalla fabbrica serba di Krusik.
WALTER MOLINO Il Presidente Vucic ha negato, quindi ha mentito?
VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Sì, ha mentito. Inoltre dai documenti risulta che un alto funzionario del suo partito è andato a Krusik e ha negoziato questa fornitura per l'Ucraina. Il secondo livello di questa storia è la corruzione, grazie alla mediazione di questo funzionario di partito il prezzo finale della vendita all’Ucraina è stato di quasi 2,5 milioni di dollari, mentre alla fabbrica di Krusik sono arrivati solo 1,2 milioni di dollari. Bisogna capire dove sono finiti tutti quei soldi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A Belgrado la chiamano la politica delle due sedie: un po’ con l’Europa e un po’ con la Russia. Ora la scoperta del collega serbo rischia di avvelenare un contesto che è già complesso: cosa penserà, cosa pensa Putin del fatto che un esponente del partito del suo amico Vucic ha armato l’Ucraina in cambio, forse, di una stecca per il suo partito? Ma su questo dovrà indagare la magistratura. Ora il rischio è che si alimentino venti di guerra, anche perché ci sono ferite mai rimarginate e che colpevolmente l’Europa non ha mai cercato di curare con attenzione.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica, è una distesa di lapidi bianche. L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco ai comandi di Ratko Mladic, sterminò più di 8000 bosgnacchi di sesso maschile. Il più atroce genocidio della guerra nell’ex Jugoslavia, perpetrato di fronte al contingente olandese dei caschi blu dell’ONU che decisero di non intervenire.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora, il conflitto in Ucraina rischia di riaprire delle vecchie ferite che l’Europa ha colpevolmente lasciato incancrenire. Parliamo del conflitto nella ex Jugoslavia: sono passati trent’anni dall’assedio di Sarajevo, ha contato quel conflitto 140 mila morti. I trattati di pace non hanno contribuito a sanare questa vecchia questione. Ora, che cosa è successo? Che ci sono tante questioni ancora non risolte, a partire dalla Repubblica del Kosovo. Aveva chiesto l’indipendenza nel 2008 dalla Serbia, la Serbia non aveva gradito un’indipendenza che è stata accettata solo da 98 Paesi sui 193 membri dell’Onu e adesso, con il conflitto in Ucraina si sono riaccese quelle ambizioni nazionaliste della destra serba: in Bosnia Erzegovina si respira un’aria di secessione. Gli accordi di Dayton di 27 anni fa hanno lasciato uno stato ibrido: serbi, bosniaci e croati. Insomma, e adesso nella Federazione di Bosnia Erzegovina la Repubblica Srpska, la parte serba, vuole staccarsi con decisione da quella bosniaca. Chi è che sta soffiando e alimentando i venti di secessione, chi è che ha interesse ad alimentare la tensione nei Blacani che sono una polveriera?
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica, è una distesa di lapidi bianche. L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco ai comandi di Ratko Mladic, sterminò più di 8000 bosgnacchi di sesso maschile. Il più atroce genocidio della guerra nell’ex Jugoslavia, perpetrato di fronte al contingente olandese dei caschi blu dell’ONU, che decisero di non intervenire.
SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA La prima notte ho capito che si trattava di una specie di campo di concentramento. I militari olandesi ci buttavano qualche bottiglia d’acqua dalle finestre.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Shida Abdurahmanovic quel giorno era dentro la fabbrica abbandonata presidiata dai caschi blu dell’ONU, i bosgnacchi di Srebrenica e dei villaggi vicini pensavano di essere al sicuro.
SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA Guardavamo dalla finestra mentre portavano via tutti i maschi. Allora non sapevamo perché, solo dopo abbiamo saputo che erano stati uccisi. È stato come vivere un film dell’orrore.
WALTER MOLINO Adesso che c’è la guerra lei ha di nuovo paura?
SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA Abbiamo paura. La situazione in Ucraina per me è identica alla nostra. Ieri sera ho visto le immagini delle fosse comuni. Se in Ucraina non finisce come vuole la Russia, in Bosnia potrebbe succedere di nuovo qualcosa.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Quella di Srebrenica è una pagina di storia scritta dalle sentenze del Tribunale internazionale dell’Aja. Nel 2015, il presidente serbo Alexander Vucic fu accolto così al Memoriale di Potocari in occasione del ventennale del massacro. Ma i serbi non hanno mai accettato la storia scritta dai vincitori. Anche perché a meno di 10 chilometri da Srebrenica c’è il villaggio di Kravica, teatro di un’altra terribile strage, opera questa delle milizie bosniache musulmane e rimasta impunita.
RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA L’attacco è iniziato alle 5 del mattino, erano 5-6 mila musulmani. Hanno ucciso civili, anziani, bambini.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il giorno del Natale ortodosso del 1993, le milizie musulmane assaltarono il villaggio abitato dai serbi.
RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA Era la nostra festa di Natale, e ci stavamo preparando per andare in chiesa quando si sono presentati con granate e proiettili che sparavano alle finestre. Tutti quelli che hanno trovato li hanno massacrati. Con i coltelli, sgozzavano bambini e persino i gatti. Gli alberi della frutta sono stati bruciati, le case sono state rase al suolo.
DONNA ANZIANA Un bambino non aveva nemmeno quattro mesi quando è stato ucciso.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO 49 civili massacrati, stupri e torture, centinaia di case bruciate. Al comando dell’Armata bosniaca c’era Naser Oric. Assolto per questi e altri massacri dal Tribunale dell’Aja, il bosgnacco Oric è stato il più acerrimo nemico del serbo Ratko Mladic e alle sue unità militari i serbi attribuiscono gran parte delle oltre 3mila vittime nella regione.
WALTER MOLINO Lei adesso ha paura che tutto questo possa ricominciare?
RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA La paura c’è. Noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle di tutto. E abbiamo paura. Questi crimini possono essere commessi solo dai musilmani.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Trent’anni fa l’assedio di Sarajevo, il più lungo di tutte le guerre del ventesimo secolo. 1425 giorni di terrore. Oggi Sarajevo è abitata in maggioranza da musulmani. La Bosnia è uno Stato federale con due entità politico-amministrative: la federazione bosniaca e la Repubblica Srpska. Ma dalla firma degli accordi di Dayton del 1995 la costituzione è ancora solo un trattato di pace scritto in lingua inglese. Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza, ha avviato nei fatti la secessione e ha impegnato il Parlamento di Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska, a costituire un esercito indipendente. Sonja Biserko, è un ex diplomatica jugoslava, fondatrice del “Comitato per i diritti umani” di Belgrado.
WALTER MOLINO Che interesse ha Putin a scatenare il caos nei Balcani?
SONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO La Russia ha riempito il vuoto strategico lasciato dall’Europa e dagli Stati Uniti, forte anche dei legami della Serbia e con la Chiesa ortodossa. La Russia ha contaminato lo spazio informativo, ha sostenuto la Serbia sulla questione del Kosovo, si è espressa contro l’intervento della NATO. I servizi segreti russi hanno infiltrato Montenegro, Macedonia, Croazia.
WALTER MOLINO In Bosnia la situazione è sempre più tesa e il presidente della Repubblica Srpska minaccia la secessione.
SONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO Il presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, sin da quando nel 2008 il Kosovo si è proclamato indipendente, ha iniziato a radicalizzare la situazione in Bosnia con questo argomento: se il Kosovo ha diritto all’autodeterminazione, ce l’ha anche la Repubblica Srpska.
WALTER MOLINO Perché negare il genocidio di Srebrenica in Bosnia è un reato e in Repubblica Srpska no, eppure è un’unica federazione? S
ONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO La Serbia non ha riconosciuto il genocidio né l’aggressione alla Bosnia: ufficialmente è stata la guerra di liberazione dei serbi. Ma il genocidio è stato provato dal Tribunale dell’Aja. Gli accordi di Dayton avevano lo scopo di fermare la guerra, ma poi non c’è stata alcuna revisione. È impossibile che la Bosnia funzioni davvero come uno Stato.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO A vigilare sul rispetto degli accordi di Dayton è l’Ufficio dell’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina, con sede a Sarajevo. Sostenuto dall’Unione Europea e osteggiato dal Presidente Dodik. E anche il presidente russo Vladimir Putin ne ha chiesto l’abolizione.
WALTER MOLINO Putin vorrebbe che lei se ne andasse via da qui.
CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Il problema del signor Putin è che probabilmente alcune persone al Cremlino lo stanno seguendo, ma non la comunità internazionale. Io sono ben posizionato in accordo con la comunità internazionale e rimarrò qui.
WALTER MOLINO La Costituzione della Bosnia è un trattato di pace scritto in inglese. Come pensate che questi tre popoli possano sentirsi un unico stato se non hanno neppure una Costituzione scritta nella loro lingua?
CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Dayton è la base per una pace che dura da 27 anni, ma non è una risposta a tutte le sfide nella convivenza di tre popoli. Quindi ho davvero preferito avere una traduzione della costituzione che è accettata da tutti, altrimenti ognuno l’avrebbe modellata a modo suo.
WALTER MOLINO La spinta separatista imposta dal Presidente Dodik della Repubblica Srpska Dodik può aumentare ancora questa tensione?
CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Dodik non ha preso le distanze dalla guerra aggressiva in Ucraina e ha relazioni con la Federazione Russa, con Putin e Lavrov. Le persone sono preoccupate che ci sarà di nuovo una guerra.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dall’inizio del conflitto in Ucraina, la missione EUFOR ALTHEA, coordinata dall’Unione Europea, ha aumentato di fino a 1500 uomini il contingente multinazionale nell’ex base NATO di Butmir, nei pressi di Sarajevo.
GIOVANNI MONTELLI – COMANDANTE CONTINGENTE ITALIANO EUFOR ALTHEA C’è stato un incremento di circa 500 elementi che sono una forza intermediata di reazione, di risposta e questa forza semplicemente è stata attivata per motivi precauzionali. La fortuna di avere il contingente qua è proprio la garanzia che vedendoci la popolazione è già rassicurata.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO A Belgrado e Banja Luka i nazionalisti serbi manifestano a favore della Russia. In queste foto pubblicate nel 2018 dal sito bosniaco Zurnal.info, due importanti esponenti di “Onore Serbo”, sono in prima fila nell’assemblea nazionale di Banja Luka. Il primo è il pregiudicato Igor Bilbija. Il secondo è Bojan Stojkovic, leader di “Onore Serbo”, qui a fianco del Presidente Dodik. Stojkovic si è addestrato nel campo della 63° Brigata dei Paracadusti a Nis, 250 km a sud di Belgrado, dove è attivo un centro di assistenza umanitaria serbo-russo. Secondo l’intelligence di Sarajevo ci sarebbe dietro il Cremlino con l’intento di formare milizie paramilitari pronte a scatenare il caos in Bosnia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, se il Kosovo ha ottenuto la sua indipendenza, dicono quelli della Repubblica Srpska, lo stesso diritto deve essere riconosciuto anche a noi. Insomma, gli accordi di Dayton risalgono ormai al 1995 e la Costituzione della Bosnia Erzegovina non è nient’altro che un trattato di pace scritto in inglese. Il custode di questa Costituzione è l’Alto Rappresentante della comunità internazionale, Schmidt, che dice: ho preferito lasciare questo trattato di pace, questa Costituzione in inglese, per evitare che ciascuno la interpretasse a proprio piacimento. Ora però se tra bosniaci, croati e serbi non si è trovato un accordo di pace, una forma di convivenza, insomma, qualche problema ci deve essere e l’Europa deve essere pronto ad affrontarlo immediatamente perché tutto era cominciato nel 1991 con la guerra per la secessione della Slovenia, poi il conflitto per l’indipendenza della Croazia, poi ha continuato in Bosnia, poi in Kosovo, poi l’insurrezione nella Valle del Presevo e infine quella in Macedonia. Dieci anni di guerre perché c’era chi soffiava e alimentava il nazionalismo, c’erano problemi economici ma si alimentava quella differenza culturale, religiosa, e anche perché poi c’erano le ambizioni di leader, diciamolo, esaltati. Comunque erano tutti conflitti prevedibili ampiamente e l’Europa adesso non deve perdere tempo, è inutile rimuginare sui propri errori, bisogna invece preoccuparsi di evitare di commetterne altri anche perché, come abbiamo sentito l’intelligence bosniaca, parla di gruppi paramilitari addestrati dai russi pronti a scatenare l’inferno.
L'orrore di Mariupol. Civili uccisi per gioco e torturati pure in chiesa. Luigi Guelpa l'11 Aprile 2022 su Il Giornale.
"I soldati combattono per una causa, giusta o sbagliata che sia. I criminali uccidono per gioco. La differenza è tutta qui".
«I soldati combattono per una causa, giusta o sbagliata che sia. I criminali uccidono per gioco. La differenza è tutta qui». Mikhail Vershinin è il comandante di uno dei distretti di polizia di Mariupol. Nel 2014 è stato soldato nel Donbass, ma lo scenario di guerra dell'epoca non è paragonabile alle atrocità perpetrate dai russi nella città portuale. Mikhail non avrebbe mai voluto essere il testimone di un episodio che ha segnato la sua vita. Lo scorso 15 marzo le truppe di Mosca presero in ostaggio pazienti e personale dell'Ospedale Regionale di Terapia Intensiva per servirsene come scudi umani. «Poi però è successo anche di peggio. Obbligavano i civili a salire all'ultimo piano dell'edificio e li lanciavano dalle finestre. Poi scommettevano denaro tra chi era morto sul colpo o gravemente ferito».
Il racconto di Mikhail è l'ennesima dimostrazione che gli orrori documentati con foto e video a Bucha si sono ripetuti in tutte le aree dell'Ucraina. Territori in cui da settimane si replicano a ritmo incessante stupri, torture e uccisioni, come segnalato dal commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino, Lyudmila Denisova. Proprio ieri, su Telegram, la Denisova ha segnalato che non solo le donne sono state vittime di violenza sessuale, ma è emerso che anche molti «bambini di meno di 10 anni uccisi presentano segni di tortura e stupro». A raccontare scene e situazioni da girone dantesco sono anche i civili attraverso i social. Ragazze come Nadezda, Alena e Karina che su Facebook compilano l'agghiacciante diario quotidiano delle mostruosità. Secondo l'arcivescovo maggiore di Kiev, mons. Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, anche la chiesa ortodossa dell'Ascensione del Signore sarebbe stata profanata, con persone interrogate e torturate.
A Buzova, località a 20 km a ovest della capitale, il sindaco Taras Didich ha documentato su Telegram il ritrovamento di una cinquantina di corpi lungo un tratto di 6 chilometri della strada principale che porta a Kiev. «Sessanta persone al momento non si trovano. Temiamo l'esistenza di fosse comuni». Altri cadaveri sono all'obitorio, prelevati per strada dai parenti delle vittime. «I corpi hanno i segni di colpi di fucile e sono rimasti all'aperto per una decina di giorni». A Mariupol è tutt'ora in corso una caccia all'uomo. Lo racconta il consigliere del sindaco Petr Andryushchenko. «I russi non esitano a uccidere i civili per strada. Poi scattano foto e si vantano della vittoria, come se si trovassero in un safari». Frammenti di follia, come a Irpin, dove due soldati hanno violentato una ragazza incinta di 20 anni che ha perso il figlio, oppure a Makarov, dove hanno tagliato le mani a un uomo di 80 anni, morto dissanguato, davanti alla figlia.
Secondo il procuratore generale ucraino, Irina Venediktova, la Russia ha commesso atti aberranti contro la popolazione in tutta l'Ucraina. «Complessivamente si contano 1.222 morti solo nella regione di Kiev. Naturalmente, ciò che abbiamo visto sul campo in tutte le regioni sono crimini di guerra, crimini contro l'umanità e faremo di tutto per perseguirli». La Venediktova è anche tornata sulla strage alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, rivelando che le autorità hanno prove che a compiere l'eccidio sia stato un missile di Mosca. A rafforzare le tesi della procura di Kiev è il rapporto dell'MI6 britannico, illustrato domenica dal ministro della Difesa Ben Wallace. «La partenza russa dal nord dell'Ucraina lascia le prove di una sproporzionata presa di mira dei non combattenti, inclusa la presenza di fosse comuni, l'uso di ostaggi come scudi umani, il fatto che siano state minate infrastrutture civili». Senza dimenticare la fabbricazione di esplosivi improvvisati per provocare vittime e restringere la libertà di movimento degli abitanti. «Il piano di terrorizzare e brutalizzare i civili arriva direttamente da Putin», ha detto il consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan.
Oltre agli eccidi ci sono anche le deportazioni: più di 400 abitanti di Mariupol vengono tenuti in una struttura nella regione di Penza, a sud-est di Mosca. Altri 20mila (di cui almeno 2.500 bambini) si troverebbero nell'isola di Sakhalin, nell'estremo oriente della Russia. Lo riferisce il ministro degli Esteri Kuleba.
Mariupol è la nuova Auschwitz. La denuncia: campo di sterminio, forni crematori mobili per bruciare i corpi. Il Tempo il 06 aprile 2022.
“Mariupol è diventata la nuova Auschwitz”. Parola del sindaco della città portuale nel sud dell’Ucraina, Vadym Boychenko, che su Facebook ha scritto un post durissimo: “I razzisti hanno trasformato l’intera città in un campo di sterminio. Sfortunatamente l’inquietante analogia sta ottenendo sempre più conferme”. Boychenko ha aggiunto che “questa non è più la Cecenia o Aleppo. Questa è la nuova Auschwitz e Majdanek”. Il sindaco parla di “decine di migliaia” di vittime civili, ricordando che una settimana fa stime in difetto parlavano di cinquemila persone uccise a Mariupol. Nella città vivevano circa 400mila persone, ma alcune erano fuggite prima dell’invasione russa.
Inoltre i soldati russi stanno usando crematori mobili nella città di Mariupol per “distruggere qualsiasi prova dei loro crimini”. Lo denuncia su Telegram il consiglio comunale della città. “Assassini che coprono le loro tracce. Dopo l’ampia copertura internazionale del genocidio di Bucha, i vertici della Federazione Russa hanno ordinato di eliminare qualsiasi prova di crimini del suo esercito a Mariupol”, si legge nel post.
Il consiglio comunale di Mariupol ha ricordato che una settimana fa stime prudenti indicavano circa cinquemila morti in città, ma date le dimensioni dell’area urbana, la distruzione, la durata del blocco e la feroce resistenza, decine di migliaia di abitanti della città potrebbero essere caduti vittime degli occupanti. “Il mondo non assisteva a una tragedia come quella che sta affrontando Mariupol dai tempi dei campi di concentramento nazisti. I russi hanno trasformato la nostra intera città in un campo di sterminio. Sfortunatamente, l’analogia raccapricciante si sta facendo sempre più calzante” le parole del primo cittadino della città ucraina.
Niente di nuovo sotto il sole, la guerra è un crimine. Paolo De Angelis su La-Notizia.net il 7 aprile 2022.
Nulla di nuovo sotto il so