Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

QUATTORDICESIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

Fuga dalle notizie. Tra la guerra e la pandemia gli italiani si fidano sempre meno dell‘informazione. Benedetta Barone  su L'Inkiesta il 16 giugno 2022.

Il report annuale del Reuters Institute evidenzia gli andamenti del giornalismo in tutto il mondo. Nel nostro Paese, di fronte a un flusso di notizie maggiore sono tutti più stanchi e scettici. 

È consultabile da mercoledì 15 giugno il Digital News Report 2022, il report annuale del Reuters Institute di Oxford sull‘andamento dell‘informazione, online e non, in Europa, Asia, America Centrale, America Latina e Africa.

L’analisi ha coinvolto oltre 93mila persone in 46 diversi paesi e chiarisce i nuovi flussi di tendenza nel modo in cui cerchiamo, leggiamo e vogliamo le notizie, ma delinea anche di quali notizie abbiamo più bisogno.

Il dato più rilevante, per quanto riguarda l‘Italia, è l‘evidenziato passaggio al digitale a scapito delle testate giornalistiche cartacee. La rivoluzione in questo senso è stata più lenta che altrove, e per molti anni lo stesso mercato online continuava a essere dominato dai canali nazionali tradizionali. Nel 2022, per la prima volta, un organo di origine digitale, Fanpage, ha ottenuto la più ampia diffusione online tra i media coinvolti nel sondaggio (21%), superando un’agenzia di stampa tradizionale come l‘ANSA.

L’impatto della transizione digitale risulta anche dalla struttura del mercato. I ricavi pubblicitari online rappresentano ormai quasi la metà (49%) dei ricavi pubblicitari complessivi. Si tratta di una svolta in un sistema mediatico tradizionalmente caratterizzato da un settore televisivo particolarmente forte. Al tempo stesso, il calo del 31% del numero totale di copie cartacee e digitali vendute in quattro anni è una spia sempre più eloquente delle perdite dell‘editoria italiana. Millecinquecento edicole italiane (il 10% del totale) hanno chiuso nei primi sei mesi del 2020, mentre molte altre si sono ramificate e differenziate iniziando a fornire l’accesso a servizi pubblici o la vendita di cibi e bevande.

Insomma, l‘informazione si sposta su smartphone e pc. Ma questo, lungi dal rassicurare, è in realtà fonte di disagi e diffidenze, che gli ultimi tre anni di eventi catastrofici e mediaticamente ridondanti – il Covid e la guerra in Ucraina, per esempio – hanno accumulato e acuito.

Secondo il report, in tutto il mondo si registra una news avoidance, una fuga dalle notizie: il 38% della popolazione le evita. Il 43% accusa il sovraccarico di informazioni sull‘andamento della pandemia e questo rende il 36% di loro tristi o umorali ed esausto il restante 29%. Da altri punti di vista, non sono invece abbastanza imparziali (29%).

Nel nostro Paese, in particolare, solo il 13% considera le testate giornalistiche libere da influenze politiche e appena il 15% le considera affrancate da ascendenti di natura economica. La fiducia italiana nei confronti dell‘informazione è scesa del 5%. È un trend piuttosto sorprendente, considerando che durante i mesi più difficili della pandemia da coronavirus la credibilità nei confronti dei media e del loro ruolo sociale era molto cresciuta nella popolazione.

Sembra che il giornale a cui ancora si attribuisce maggior credito sia l‘agenzia ANSA, seguito da Il Sole 24 Ore e da SkyTg24, che pure perdono entrambi una posizione rispetto all‘anno precedente. L‘ultimo posto nella scala della fiducia spetta a Libero, mentre il Corriere della Sera si aggiudica il quarto.

Lo scorso anno, ultimo era Fanpage che pure raggiunge la copertura settimanale più ampia. 

La parola d‘ordine sembra quindi smettere di faticare per ottenere notizie, dato che il paywall è sempre meno popolare e vincono le testate che consentono una registrazione gratuita ai propri contenuti. Ma contemporaneamente, forse proprio a causa dell‘eccessiva fluidità informativa, nessuno sembra davvero contento: oltre ai problemi di fiducia prima citati, emergono anche numerosi crucci a proposito della privacy e del trattamento dei dati personali che accettiamo ogni volta che ci presentano dei cookie. Solo il 33% dice di essere a proprio ago a proposito degli e-commerce e appena il 25% a proposito delle piattaforme social.

Eravamo ucraini: ora la guerra sparisce dai media. La sensazione è che la guerra ci appassioni soltanto di riflesso, cioè nella misura in cui può animare il pollaio, generare polemiche...Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 16 giugno 2022.

Sarà che Sverodonetsk, con quei suoni tutti aguzzi, ha un nome meno suadente di Marioupol, sarà che la resistenza ucraina inizia a scricchiolare e che in fondo il Donbass rimane un’esotica polveriera di milizie e nazionalismi contrapposti che percepiamo (a torto) assai lontana dall’Europa. Sarà per tutti questi motivi ma è innegabile che da diversi giorni la guerra in Ucraina è scivolata in fondo nelle edizioni cartacee dei giornali e nelle timeline dei siti web.

Eppure negli impianti Azot di Sverodonetsk assediate dall’armata russa si sta consumando la stessa tragedia dell’Azovastal con migliaia di civili in trappola mentre nel Lugansk sono state scoperte fosse comuni e crimini contro i civili proprio come a Bucha. Sul fronte si continua a morire l’empatia dei primi tempi però non c’è più. Ma l’invasione di Putin non metteva in gioco la nostra stessa libertà, e gli ucraini non erano forse i “nuovi partigiani” che, come Davide contro Golia, resistevano al tiranno?

Parliamo in particolar modo della stampa “atlantista” che si è sperticata nelle lodi al presidente Zelensky e al coraggio dei suoi compatrioti, la stessa che ci ha mostrato le città ridotte in poltiglia, i corpi straziati sotto le macerie, i video con le esecuzioni dei civili. E che tuonava contro l’assuefazione e l’indifferenza all’orrore perché “je suis Ucraina” e così via. La sensazione, persistente e sgradevole, è che la guerra ci appassioni soltanto di riflesso, cioè nella misura in cui può animare il pollaio, generare polemiche politiche interne con tutto il noto campionario di invettive da talk show o da editoriale indignato che conosciamo.

Ci serve ossia per catalogare alleati e avversari nel giochino del “posizionamento”, «giornalisti con l’elmetto» da una parte, (Mieli, Riotta) loschi «putiniani» dall’altra (Orsini, Santoro). Entrambi a “libro paga”: chi della Cia, chi del Cremlino, a seconda delle narrazioni. I meschini attacchi agli ucraini che non si arrendono e «ci fanno aumentare le bollette del gas» e le vergognose liste di proscrizione del Corriere della sera in fondo sono le due facce della stessa medaglia e riflettono il carattere fazioso e provinciale del nostro dibattito pubblico, la scarsa propensione all’analisi e all’obiettività del nostro giornalismo, la mancanza di una sguardo che a volte riesca a volare oltre il cortile di casa.

Ucraina: le domande del Financial Times e l'attivismo francese. Piccole Note il 31 maggio 2022 su Il Giornale. 

“Le condizioni nel Donbass sono indescrivibilmente difficili” ha affermato Zelensky, uscendo fuori dalla bolla informativa sulla guerra ucraina. Dopo aver celebrato la grande vittoria di Kiev, che avrebbe costretto il nemico a ripiegare nel Donbass, ammettere che la guerra va male non è facile.

Il punto è che dall’inizio dell’invasione si parla di carri armati russi distrutti come giocattoli, di jet abbattuti come mosche, di un esercito falcidiato (sarebbero 30mila i russi morti: cosa impossibile: sarebbero costretti al ritiro), di una catena di comando in confusione…

E ora si scopre che in Donbass le cose non vanno bene, anzi che i russi stanno guadagnando terreno, avanzando con lentezza come già fecero in Siria, e si apprestano a prendere tutta la regione di Lugansk, per poi passare a quella di Donetsk.

In tema di guerre l’Occidente è abituato a convivere con le bolle dell’informazione che ha celebrato come grandi vittorie strategiche quelle conseguite in Afghanistan, Iraq e Libia, quando in realtà era una macelleria consumata contro eserciti di straccioni, che nulla potevano contro i sofisticati e potenti armamenti americani e Nato.

Nel caso ucraino l’invincibile armata ha a che fare con un esercito vero e qui la bolla non poteva reggere. Celebrare i successi della resistenza ucraina ha uno scopo ben preciso: alimentare la prospettiva che la guerra possa portare alla sconfitta della Russia o che l’Ucraina possa conservare la sua integrità territoriale.

Ciò serve a persuadere l’Occidente a inviare tante armi al popolo ucraino, il quale viene così mandato allo sbaraglio per sconfiggere la Russia per contro terzi. Piccolo segnale in tal senso anche il riserbo assoluto sul numero dei soldati ucraini caduti, perché tale numero sarebbe insostenibile e costringerebbe il mondo a pensare in maniera più realistica e a come far finire in fretta questa follia.

Un tema che inizia ad affiorare, tanto che ultimamente è stato affrontato anche da un fondo del Financial Times, che nel titolo chiede: “Qual è la fine del gioco dell’America per la guerra in Ucraina?”.

Dopo aver spiegato gli indiscutibili successi politici dell’America, cioè il distacco della la Russia dal resto dell’Europa, il suo indebolimento economico e la richiesta di adesione alla Nato di Finlandia e Norvegia, FT si chiede però cosa davvero voglia Washington, dal momento che, al di là della “retorica ottimistica”, non si capisce cosa vuol dire conseguire “una vittoria strategica sulla Russia” e su quale “accordo territoriale” si impegnerebbe a “incoraggiare” l’Ucraina a trattare (si noti che si parla di accordi territoriali, cioè che l’Ucraina potrebbe essere costretta a cedere qualcosa…).

Articolo interessante anche laddove spiega che Polonia e Gran Bretagna sono i Paesi più ingaggiati in questa guerra, tanto che Jeremy Shapiro, direttore della ricerca del Consiglio europeo per le relazioni estere, ha dichiarato: “Gli inglesi sono in realtà un passo avanti rispetto agli americani, e continuano a guardarsi alle spalle per accertarsi di essere seguiti”.

Rilievo vero, tanto che Biden ieri ha detto niet all’invio di missili a lungo raggio all’Ucraina, contrapponendosi ai falchi. Tale invio, infatti, avrebbe provocato un’escalation, avendo Mosca avvertito che se tali armi fossero state usate contro il suo territorio, avrebbe risposto oltre i confini ucraini.

Da rilevare anche le dichiarazioni del generale Mark Milley a Fox News, il quale ha detto di non sapere come evolverà la guerra, se vincerà una parte o l’altra o si arriverà ad aprire “trattative di pace”, ma che il quadro sarà “più chiaro tra alcune settimane”.

Sebbene vaghe, tali dichiarazioni sono state sottolineate con enfasi da Ria Novosti, che ha voluto ricordare come il Comandante in capo dell’esercito americano abbia avuto una conversazione telefonica con il suo omologo russo alcuni giorni fa. Evidentemente i due graduati qualcosa si sono detti (l’idea che tra qualche settimane il quadro sarà più chiaro sembrerebbe delineare l’ipotesi di un accordo in stile coreano, sul punto vedi Piccolenote).

Quanto a Germania, Italia e Francia, i Paesi più interessati alle trattative, ci stanno provando a fare qualcosa, ma con ben scarsi risultati. La nazione più attiva in tal senso è indubbiamente la Francia, tanto che il Financial Times, ha voluto ricordare che “Macron ha gettato nella costernazione a Kiev quando ha esortato le capitali occidentali […] a ‘non cedere mai alla tentazione dell’umiliazione né allo spirito di vendetta’ quando si tratta di negoziare con la Russia”.

La reazione delle autorità ucraine, però. non ha bloccato l’attivismo di Macron, come dimostra la conversazione telefonica avuta con Putin tre giorni fa insieme a Scholz e l’intervista di Lavrov alla Tv nazionale francese di due giorni fa, che evidentemente era un’apertura verso Mosca.

Non sappiamo, però, se la Francia ha messo in campo qualche negoziato concreto e se la ministra degli Esteri francese Catherine Colonna, appena nominata da Macron, abbia recato a Kiev qualche messaggio in tal senso.

Nessuna indicazione di sorta, anche perché, peraltro, la visita è stata offuscata dall’uccisione di un giornalista francese inviato a Severodonetsk, dove si sta concentrando l’avanzata russa.

Frédéric Leclerc-Imhoff è morto mentre si trovava su un bus che stava evacuando i civili dalla zona. Secondo le autorità ucraine, alcune bombe russe sarebbero cadute nei pressi del convoglio e “le schegge delle granate hanno perforato la corazza dell’auto, [causando] una ferita mortale al collo” del malcapitato.

Sul profilo ufficiale di twitter di Macron si legge altro: il giornalista era “a bordo di un autobus umanitario, insieme ai civili costretti a fuggire per sottrarsi alle bombe russe ed è stato colpito a morte” lasciando indefinita la causa. Abbiamo notato che la traduzione automatica italiana di Twitter riporta anche “colpi d’arma da fuoco”. 

In Ucraina sono presenti, e tanto, i servizi segreti francesi, che evidentemente hanno passato al presidente tale informazione discordante, che cambia il quadro, La Francia ha aperto un’inchiesta sull’accaduto, ma è difficile che smentiscano le autorità ucraine.

All’attivismo spuntato della Francia, con la  Germania a rimorchio, si affianca quello più confuso, ma efficace, di Erdogan. Ne scriveremo in una nota successiva.

Santoro al lavoro per il pluralismo dell'informazione (e non solo). "È in atto un linciaggio contro i pacifisti". E difende Salvini. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 31 maggio 2022.

Venticinque parlamentari chiedono alla alla Rai di commissionare un sondaggio per chiedere agli italiani se sono soddisfatti di come la tv pubblica sta seguendo il conflitto in Ucraina. In corso c'è il tentativo di creare un contenitore che raccolga il dissenso contro il governo. E sul viaggio a Mosca del leader leghista il giornalista aggiunge: "Non è mai stato attaccato dal sistema come oggi che lavora per la pace".

La scusa è la risoluzione parlamentare in cui si vorrebbe impegnare la Rai a commissionare un sondaggio per chiedere agli italiani se sono soddisfatti o meno di come la tv pubblica sta seguendo il conflitto in Ucraina, in realtà in corso c'è un tentativo sul medio termine di creare un soggetto, un contenitore, che raccolga il dissenso pacifista, contro il governo, contro il 'tradimento' dei 5 Stelle e del Pd.

Farsi riconoscere. Come i giornali stranieri raccontano la propaganda filorussa nei media italiani. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta l'1 Giugno 2022.

Le Figaro, Le Monde, El País, Politico, Guardian, Reuters e altri quotidiani di tutto il mondo hanno scritto della presenza di opinionisti alquanto discutibili nella tv di casa nostra, l’unica che dà spazio ai funzionari del governo di Vladimir Putin.

«Nei salotti televisivi italiani non è raro trovare personalità vicine alle posizioni del Cremlino, determinate a difendere la politica di Vladimir Putin». Un articolo del Figaro di domenica scorsa denuncia le cattive abitudini dei palinsesti italiani, che da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina danno sempre più spazio alla propaganda russa: «Per aumentare l’audience – si legge nell’articolo – gli studi non esitano a chiamare relatori molto vicini al Cremlino».

Il primo nome citato è ovviamente quello di Alessandro Orsini, presentato come ricercatore specializzato in sociologia del terrorismo e docente alla Luiss di Roma, di cui vengono ripresi alcuni dei virgolettati più agghiaccianti – non c’è bisogno di citarli ancora – e dell’eccessiva disponibilità di Bianca Berlinguer nel lasciarlo parlare a ruota libera.

Le Figaro è solo l’ultimo quotidiano straniero, in ordine cronologico, a criticare i salotti televisivi italiani.

«Fino a poco tempo fa, Alessandro Orsini era solo un personaggio secondario, uno di quegli esperti intercambiabili – e più o meno seri – che popolano i set dei talk show politici italiani», scrive il Monde. «Con la sua voce morbida e lo sguardo da eterno studente un po’ sognante, con l’invasione dell’Ucraina Orsini è diventato una star. Come? Andando oltre: ha difeso la politica russa attraverso la denuncia della Nato e di ogni forma di aiuto all’Ucraina, il tutto in nome del non allineamento e del pacifismo. Dall’inizio della guerra, e più volte al giorno, le sue critiche si sono concentrate su Kiev e su coloro che cercano di aiutare l’Ucraina».

Orsini non è l’unico protagonisti filoputiniani delle emittenti italiane: nel mirino dei quotidiani stranieri c’è ovviamente anche l’intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, andato in diretta con traduzione simultanea su Rete 4.

In quell’intervista Lavrov ha avuto l’opportunità di dare forza alla retorica russa sulla guerra in Ucraina, di sostenere le forze armate del suo Paese che «hanno attaccato esclusivamente le infrastrutture militari», di inventare che «gli orrori commessi nella città di Bucha sono stati una messa in scena», e che l’Ucraina è governata da personalità vicine al nazismo. Poi alla domanda se il presidente ucraino Volodymyr Zelensky fosse ebreo, Lavrov ha risposto: «Potrei sbagliarmi, ma anche Hitler aveva origini ebraiche». E nessuno a ribattere da studio.

Rimanendo in Francia, Liberation descrive una «onnipresenza di ospiti pro-Putin» nelle tv italiane. Poi cita il politologo filo-Cremlino Dmitry Kulikov, intervenuto in diretta su La 7: «Voi siete gli unici a invitarci», ha ammesso riferendosi alle tv italiane. E ci mancherebbe.

Il quotidiano francese spiega che i sostenitori di Vladimir Putin hanno un tavolo aperto sui talk show televisivi transalpini – transalpini dalla prospettiva francese – e che i loro commenti spesso oltraggiosi inondano i talk show. A volte anche in modo esasperato e oltraggioso: «Dovremmo inviare a Torino un missile nucleare Satan», aveva detto la giornalista russa Yulia Vityazeva dopo la vittoria dell’Eurovision Song Contest da parte della Kalush Orchestra.

«Da Nadana Friedrichson, giornalista del canale televisivo Zvezda (che dipende dal ministero della Difesa russo) a Piotr Fedorov del Vgtrk, gruppo mediatico statale russo, passando per il popolare presentatore Vladimir Soloviev, il propagandista più famoso del Cremlino, i difensori della causa di Putin hanno spesso una poltrona, via Skype, negli infiniti talk show dei canali pubblici o privati italiani», nota Liberation.

La propaganda del Cremlino nella tv italiana è ormai un tema di discussione che va oltre i confini nazionali. In Spagna El País nota la distanza tra le posizioni dell’Unione europea – con la Commissione che oscura l’agenzia Sputnik e l’emittente Russia Today – e quelle dell’Italia. Mentre El Confidencial dà peso alla condiscendenza con cui Giuseppe Brindisi su Rete 4 ha salutato Lavrov dopo il suo intervento, con quel «Buon lavoro, ministro» che è sembrato un po’ fuori luogo mentre il suo Paese invade la vicina Ucraina con carrarmati, droni e soldati.

«Qualsiasi giornalista vorrebbe intervistare Lavrov o la sua portavoce, Maria Zajarova, ma giornalismo e propaganda dovrebbero essere diversi: qui è stata consentita una grossolana manipolazione della verità, senza contraddittorio», si legge sul quotidiano spagnolo.

Tutti hanno notato che i programmi italiani in prima serata danno regolarmente spazio a ospiti indecenti – consiglieri di Putin, giornalisti della tv di Stato russa, funzionari pubblici – che portano argomentazioni a favore dell’invasione o ripetono le solite fantasie del Cremlino.

E non solo. Quando a metà marzo i missili russi hanno colpito una centrale nucleare ucraina, Marc Innaro, corrispondente da Mosca per la Rai, ha parlato di «incendio scoppiato dopo un sabotaggio», cioè la stessa pista seguita dall’agenzia statale russa Tass. In quegli stessi giorni, su Rete 4 l’idealogo del Cremlino Alexander Dugin spiegava in un buon italiano che l’invasione di Putin è una «guerra di valori, una guerra spirituale».

È per questo che Politico, in un articolo pubblicato a fine maggio diceva che la Russia può considerare l’Italia come il ventre molle della sua macchina propagandistica: «La tendenza attuale va oltre gli storici legami del Partito comunista con l’Unione Sovietica ai tempi della Guerra Fredda, è probabilmente anche il risultato di un modello televisivo ormai marcio, e di un certo tipo cultura del dibattito pubblico che ha dominato il Paese da quando l’ex primo ministro Silvio Berlusconi (per inciso fino ad ora arcirussofilo) ha fondato il suo impero dei media in primi anni ’80», si legge nell’articolo.

Tutti i quotidiani e gli opinionisti, all’estero, evidenziano un grande bias del giornalismo e dei talk show televisivi del nostro Paese: confondere il pluralismo con la parità di trattamento di tutte le opinioni nello spazio pubblico. Il pluralismo e la libertà di parola sono fondamentali per la democrazia, ma la democrazia richiederebbe una verità basata sull’evidenza.

«L’ Italia è vista come un potenziale cavallo di Troia per la disinformazione del Cremlino», scrive Politico. «Anche durante la pandemia l’obiettivo della Russia era di dare l’impressione che le strategie di Pechino e Mosca fossero più efficaci contro il virus rispetto alla democrazia occidentale».

Anche il quotidiano britannico Guardian aveva ripreso l’argomento nella prima metà di maggio, partendo dall’indagine del Copasir, la commissione parlamentare per la sicurezza dell’Italia, scattata dopo le proteste per l’intervista al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov su Rete 4. Lo stesso aveva fatto l’agenzia internazionale Reuters, ricordando che «l’Italia non ha tradizione di interviste televisive aggressive con i politici».

Alcuni esperti e opinionisti dotati di buon senso hanno iniziato a rifiutare le partecipazioni a questi talk show, un piccolo gesto di protesta contro lo spazio dato alla propaganda russa. Nathalie Tocci, numero uno dell’Istituto per gli affari internazionali dell’Italia, aveva rifiutato di partecipare a un programma perché uno degli ospiti era un funzionario dal ministero della Difesa russo: «Non sono disposta a diventare complice della disinformazione», era stata la sua spiegazione. Un segnale di speranza, sorpassato a destra da chi si fa guidare dalla propaganda del Cremlino nel pieno di una guerra voluta da Vladimir Putin.

Bieloitalians. L’informazione italiana oggi è un problema internazionale, ma il putinismo ne è l’effetto, non la causa. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 23 Maggio 2022.

Se giornalisti, politici e intellettuali di altri Paesi vogliono capire per quale ragione proprio qui le bufale più inconsistenti e i propagandisti più screditati trovano una così benevola accoglienza, devono avere la pazienza di risalire un po’ più indietro nel tempo.

Dagli Stati Uniti all’Europa, dalla Cnn a Politico, passando per il canale franco-tedesco Arte, il resto del mondo comincia a interrogarsi con angoscia sulla straordinaria capacità di penetrazione della propaganda russa in Italia, ma rischia di scambiare l’effetto per la causa. Vladimir Putin non è infatti l’artefice della disinformazione così diffusa nel nostro Paese, se non in minima parte. Ne è piuttosto il beneficiario.

Il fatto che prima Giuseppe Conte, poi Matteo Salvini e infine anche Silvio Berlusconi abbiano preso posizione, sebbene con diverse sfumature e ripensamenti, contro il sostegno militare a Kiev, non può non preoccupare i nostri alleati. Tanto più tenendo in conto come la stessa Giorgia Meloni fino a ieri non fosse certo ostile a Putin, e tutt’ora faccia a gara con Salvini nel contendersi l’amicizia di Viktor Orbán, cioè il migliore alleato di Putin in Europa.

Se a tutto questo aggiungiamo pure i numerosi distinguo che si sentono a sinistra, la posizione che nel resto dei Paesi occidentali accomuna circa due terzi del sistema politico e dell’opinione pubblica – vale a dire il semplice sostegno all’Ucraina – appare qui appannaggio di una minoranza nemmeno molto consistente (in pratica il Pd di Enrico Letta e i piccoli partiti di area liberaldemocratica, Più Europa, Azione, Italia viva, con qualche occasionale sbandamento anche lì).

Giusto un mese fa, notavo su queste pagine come, nonostante o forse proprio a causa degli imbarazzanti trascorsi putiniani di tanti politici italiani, i nostri rappresentanti non avessero dato affatto un cattivo spettacolo. Anzi, date quelle premesse, un mese fa pareva di assistere piuttosto a un miracolo di consapevolezza e responsabilità, da parte della politica, cui faceva però da contraltare l’impazzimento del sistema dell’informazione, che dava (e continua a dare) il peggio di sé. La novità dell’ultimo mese è che un bel pezzo del sistema politico, semplicemente, si è accodato.

Ciò nonostante, gli agenti di Putin che probabilmente hanno alimentato questa naturale tendenza dell’informazione e della politica italiana, secondo me, hanno buttato i soldi, pagando per servizi che avrebbero ricevuto comunque gratis.

L’idea che dietro lo spettacolo di certi talk show e di certi giornali che oggi giustamente scandalizza il mondo ci siano operazioni coperte del Cremlino mi persuade tanto poco quanto l’antica teoria secondo cui dietro il comportamento corrivo della stampa ai tempi di Mani Pulite ci fosse una manovra della Cia o della finanza internazionale. Come non ho mai creduto che i direttori di tutti i principali giornali dei primi anni Novanta fossero la longa manus di un governo americano deciso a vendicare l’affronto di Sigonella, così non penso che direttori e conduttori di oggi siano agli ordini di Putin

Intendiamoci, non metto in dubbio l’influenza che servizi segreti o grande finanza possono esercitare sulle vicende politiche. Al contrario, penso che la cultura antipolitica, antiparlamentare, populista del novanta per cento del giornalismo e dell’intellettualità italiana costituisca il terreno ideale per qualsiasi operazione del genere, a un punto tale da renderle persino superflue.

È da qui che bisogna partire se si vuole capire perché negli Stati Uniti, per fare solo un esempio, ci sono oggi la Fox e canali di informazione della destra cospirazionista come Breitbart, ma ci sono anche il New York Times, il Washington Post e la Cnn, e a nessuno potrebbe mai capitare di confonderli, mentre in Italia le stesse parole d’ordine dei populisti, a cominciare dalla campagna contro la «casta», nascono proprio dalle testate più autorevoli e blasonate, come il Corriere della sera (subito seguito da tutti gli altri). È da qui che bisogna partire se si vuole capire perché né in America, né Francia, né in Germania né altrove, all’interno dell’Occidente democratico, si vede nulla di paragonabile a quello che ogni giorno si vede alla televisione italiana.

Se giornalisti, politici e intellettuali di altri Paesi vogliono capire cosa sta succedendo in Italia, per quale ragione proprio qui le bufale più inconsistenti e i propagandisti più screditati trovano una così benevola accoglienza, devono avere la pazienza di risalire un po’ più indietro nel tempo. Il putinismo di oggi, infatti, è semplicemente l’altra faccia del populismo. E il populismo non nasce certo col Movimento 5 stelle.

In verità, bisognerebbe risalire alle origini stesse dello Stato unitario. Il disprezzo per la democrazia parlamentare, i suoi riti e le sue lentezze, è una caratteristica della cultura italiana sin dal 1870, e cioè da quando, come scrisse Benedetto Croce, la «prosa» dell’ordinaria amministrazione prese il posto della «poesia» del Risorgimento, delle guerre d’indipendenza e dei moti rivoluzionari.

Di qui la demonizzazione del «trasformismo». Di qui la pubblica esecrazione di Giovanni Giolitti, contro cui si scagliano poeti, retori e moralisti di destra e di sinistra, il Gaetano Salvemini che gli dà del «ministro della malavita» e il Gabriele D’Annunzio alla guida di quelle «radiose giornate» di maggio che precipiteranno l’Italia nella Prima guerra mondiale, contro il volere di Giolitti e della stessa maggioranza parlamentare, messa sotto scacco da una campagna violentissima, nelle piazze e sui giornali: dal Corriere della sera di Luigi Albertini al Popolo d’Italia di Benito Mussolini

È una tradizione antica, che ha spianato la strada al fascismo, e anche nella Repubblica fondata dai partiti antifascisti ha presto ripreso piede, mescolandosi con il sovversivismo di certi movimenti degli anni Sessanta e Settanta in una miscela esplosiva.

Da questo punto di vista, la forza del Partito comunista italiano e anche della Chiesa cattolica, se da un lato ha contribuito a diffondere una certa diffidenza, diciamo così, nei confronti degli Stati Uniti e dell’atlantismo in generale (diffidenza peraltro non sempre infondata), dall’altro è stata anche un argine e un bersaglio di quei movimenti di contestazione. Alla fine, specialmente nel mondo della cultura e della comunicazione, ha prevalso però quell’impasto di ideologia, sentimenti e risentimenti apparentemente immune a tutte le lezioni della storia, che dalla contestazione della società borghese e del regime democristiano degli anni Settanta lasciava cadere le formule più usurate, ma non la sostanza né il fervore anti-politico e anti-istituzionale, riutilizzandoli tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta contro la «Prima Repubblica» e la «partitocrazia». Fino all’apoteosi di «Tangentopoli».

Si potrebbe poi ulteriormente approfondire come questa lettura della nostra storia e persino del nostro carattere nazionale influenzasse gli osservatori stranieri, e viceversa, in un gioco di azione e reazione tra i rispettivi pregiudizi, in cui avranno un ruolo importante gli storici inglesi, da Denis Mack Smith a Paul Ginsborg, segnando il modo in cui le vicende italiane saranno e sono tutt’ora interpretate anche dalla stampa e dagli osservatori internazionali. Di qui, forse, il loro attuale, comprensibile, ma anche ingiustificato stupore.

Altri bieloitalians. L’informazione italiana è pessima, ma è complice e non causa del declino del Paese. Mario Caligiuri su L'Inkiesta il 24 Maggio 2022.

In risposta a Francesco Cundari, Mario Caligiuri spiega che, a suo avviso, la vera colpa dei media è quella di mantenere in vita, manipolando i cittadini, un sistema politico ormai finito e subordinato al potere economico.

Sono grato a Francesco Cundari che non schiaccia sulla cronaca minuta del presente le analisi sulla gigantesca – e strutturale – disinformazione in atto, particolarmente in questo periodo di guerra.

La sua contestualizzazione storica è molto interessante, spaziando dalla nascita dello stato unitario alle culture politiche che in passato hanno egemonizzato la società italiana, da quella cattolica a quella comunista.

Ineteressante anche l’analisi del trasformismo, che, per esempio, vede Mussolini nell’arco di pochissimi anni passare dall’astensionismo all’interventismo.

Trasformismo che viene inaugurato dalle classi politiche toscane, per le vicende dalla capitale e delle ferrovie, diventando poi una cifra distintiva meridionale e adesso nazionale.

Posto questo indubbio merito della riflessione di Cundari, provo a precisare qualche aspetto del sistema mediatico nazionale dal secondo dopoguerra in poi, purtroppo semplificandolo per ragioni di tempo e di spazio.

Prima di tutto va precisato il ruolo dei partiti, i cui organi di stampa facevano opinione ben al di là degli elettori di riferimento.

In secondo luogo, il ruolo della televisione che, gradatamente, riesce a essere sempre più pervasiva, con conseguenze certamente positive negli anni Cinquanta e Sessanta, quando contribuì ad aumentare il livello linguistico, di istruzione e culturale degli italiani.

Secondo me, il piccolo schermo incide nella profonda trasformazione sociale, oltre al ruolo misconosciuto della riforma scolastica di Giovanni Gentile, che assicura le basi e la visione culturale del Sessantotto, con le indubbie conquiste e le indubbie degenerazioni.

Il sistema mediatico si amplia negli anni Settanta e Ottanta con le radio libere e soprattutto con la televisione commerciale.

Sarà l’epoca dei “giornali partito” (Repubblica) e delle “tv partito” (Mediaset).

Inoltre, il controllo delle fabbriche dell’informazione, soprattutto da tangentopoli in poi, segue la logica che potremmo definire “del termitaio”, dal titolo dell’illuminante libro di Alberto Statera che parla dei signori degli appalti che comandano l’Italia: dal ciclo del cemento, oggi diventato fortemente infiltrato dalla criminalità, si sono accumulate risorse diversificate in precise direzioni per acquistare organi di informazione, squadre di calcio e partecipazioni bancarie. Tre ambiti attraverso i quali si può manipolare il consenso e il comportamento dell’opinione pubblica.

I media sono praticamente tutti schierati, a fronte di una debolezza evidente della politica, fenomeno tipico delle democrazie occidentali del XXI secolo. Circostanza che in Italia si è consolidata attraverso partiti personali e con liste bloccate nelle elezioni politiche che determinano già in partenza il numero prevalente degli eletti. La conseguenza inevitabile è la carica degli incompetenti nel Parlamento e al governo.

Una deriva prevista da Ulrich Beck già prima del crollo del muro di Berlino: la politica non è il più il luogo centrale dove si decide il futuro della società, con i Parlamenti costretti a giustificare decisioni assunte altrove.

Per cui anche incompetenti e sconosciuti possono assurgere al ruolo di massimi rappresentanti di una delle dieci potenze industriali del mondo, confermando il fenomeno della decadenza della sfera pubblica.

Il tema su cui insiste Cundari è quello dell’antipolitica. Occorre necessariamente chiarirlo per evitare di confondere, come spesso succede, le cause con gli effetti.

Secondo me, l’antipolitica prevalente non è quella espressa dal sistema mediatico, che segue precise linee economiche: basti vedere la proprietà delle tv e dei giornali, con la Rai da sempre occupata dai partiti, ascoltando negli ultimi anni l’ipocrita e surreale affermazione – sulla quale incredibilmente nessuno si sofferma – di liberarla da essi.

L’antipolitica è quella che popola da lustri il Parlamento, esprimendo personaggi improbabili in ruoli alta responsabilità.

In tale quadro, il sistema mediatico è il maggiore responsabile di questo storytelling: anziché mettere a nudo le insufficienze del sistema lo rende addirittura credibile.

Nei primi anni Novanta, Jacques Séguéla aveva già chiarito che la dichiarazione di un ministro si poteva assimilare a una pagina di pubblicità, mentre nello stesso periodo la nostra veniva definita “La repubblica delle marchette”, per il ruolo preminente della propaganda commerciale nei contenuti delle varie testate.

Alcuni talk show, da quelli di Santoro e Funari fino a quelli di oggi, sono perfettamente funzionali allo schema, finendo con il rafforzare di fatto il debole sistema politico.

Trasmissioni come “Le iene”, hanno offerto, (castigat ridendo mores), qualche spiraglio, poi subito chiuso, sul grado culturale dei nostri rappresentanti politici (che non incide affatto sulle carriere, poiché i requisiti sono di ben altra natura) e sul loro consumo delle droghe (trasmissione mai mandata in onda).

Gianfranco Sanguinetti osservava che «lo spettacolo quando non viene ucciso rafforza sé stesso».

La realtà è davanti agli occhi di tutti, ma non orienta le maggioranze. Allo stesso modo della verità, che è ampiamente sopravvalutata.

Questo dipende dal sostanziale livello di istruzione dei cittadini, che: per tre quarti non riescono a comprendere una semplice frase nella nostra lingua; per quasi un terzo sono analfabeti funzionali; per una quota rilevante si constata un divario preoccupante tra realtà e percezione della realtà.

Con queste premesse, c’è da interrogarsi seriamente sulla reale natura dei risultati elettorali, e quindi della democrazia, nel nostro Paese.

Il sistema mediatico è il complice principale del sistema politico, a sua volta subordinato a quello economico, sia nella dimensione nazionale che nelle alleanze internazionali.

Analizzare il mondo dell’informazione oggi in Italia significa prendere atto della inadeguatezza del sistema politico, mantenuto in vita e reso credibile principalmente da un sistema mediatico che manipola le deboli competenze alfabetiche della maggioranza degli italiani.

Il resto è una conseguenza.

Porre quindi al centro delle azioni politiche l’educazione e non l’economia rappresenta, al di là di ogni ragionevole dubbio, la priorità politica del nostro Paese. E dato che le ricadute delle riforme scolastiche e universitarie si osservano dopo decenni, temo che il peggio debba ancora arrivare. Come eloquentemente dimostra il recente concorso per accedere alla magistratura.

Buongiorno Bieloitalia. Gli ucraini non combattono per procura, sono i nostri compagni contro il fascismo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.  

Kiev denuncia da anni la pianificazione russa volta a cancellare l’Ucraina e a sterminare un’intera nazione. È arrivato il momento di aiutare sul serio un popolo coraggioso che difende la sua indipendenza sul fronte libero dell’Europa.

C’è un formidabile libro di alcuni anni fa scritto da Philip Gourevitch a proposito dell’atroce genocidio in Ruanda del 1994, quello che fece oltre un milione di vittime in poche settimane e tutto il mondo rimase a guardare. Il titolo del saggio è “Desideriamo informarvi che domani saremo uccisi assieme alle nostre famiglie”.

Quell’annuncio insieme burocratico e agghiacciante, come se la notifica di sterminio imminente fosse l’avviso della prossima fermata della metropolitana, è più o meno quello che sta capitando quotidianamente al popolo ucraino in lotta per la sua sopravvivenza. Ogni maledetto giorno a est e a ovest di Kiev suonano le sirene che avvertono dell’arrivo di missili russi, mentre la sera gli ospiti dei nostri talk show fanno un osceno intrattenimento a spese delle vittime che cercano riparo nei corridoi e negli scantinati assieme ai bambini costretti a convivere con gli incubi, il tutto a maggior gloria degli aggressori nazibolscevichi. 

Inascoltati dal 2016, ma in realtà da molto prima, gli ucraini denunciano da anni la pianificazione russa per cancellare il loro paese e per sterminare fisicamente e culturalmente un’intera nazione. Sono stati ignorati, nonostante i russi ci abbiano provato sistematicamente almeno dai tempi dell’Holodomor, della pianificazione staliniana della carestia, a eliminare gli ucraini in quanto nemici del popolo.

Da tempo, gli ucraini avvertono anche noi europei delle intenzioni imperialiste del Cremlino perché sanno che se Putin dovesse prevalere a Kiev, dopo toccherà a noi combattere. 

La Finlandia, la Polonia, la Svezia e i paesi baltici lo sanno benissimo e infatti si mobilitano e prendono decisioni sofferte e storiche che fanno piangere i guitti da talk show.

Noi che siamo più lontani dal fronte, invece, affidiamo la salvaguardia delle nostre libertà alle mani sicure della televisione spazzatura di Urbano Cairo e ai propagandisti russi e bieloitaliani del Cremlino, illudendoci che un solenne inchino a Putin possa farci schivare il colpo e che pettinare il fascismo russo possa rendere Putin ragionevole e caritatevole.

Nel tentativo in corso dei russi di sterminare gli ucraini c’è un’aggravante, rispetto al genocidio Tutsi perpetrato dagli Hutu in Ruanda: gli aggrediti, questa volta, non devono soltanto trovare riparo dai machete aerei russi ed escogitare nuovi modi per resistere e per respingere l’invasore, ma sono anche costretti ad ascoltare i surreali appelli ad arrendersi a mani alzate o a rinunciare a una fetta della propria indipendenza.

Il paradosso è che non si tratta di appelli alla resa lanciati dai russi, i quali invece continuano imperterriti a bombardare i civili indossando gli usuali guanti bianchi già messi in mostra ad Aleppo e a Grozny, ma sono appelli alla capitolazione a cura dei volenterosi complici di Putin in giro per l’Europa e di stanza nei reggimenti dell’operazione speciale televisiva di La7, Rete4 e un pezzo della Rai.

Sentendo il gelido annuncio ucraino «desideriamo informarvi che saremo uccisi dai russi assieme alle nostre famiglie», la risposta degli appeaser bieloitaliani è del tipo: cari ucraini, arrendetevi, lasciatevi soggiogare, in fondo ve la siete cercata. 

Non siamo tutti così, naturalmente, e dobbiamo ancora rallegrarci che Mario Draghi non sia stato rimosso da Palazzo Chigi per andare a svernare al Quirinale, altrimenti oggi anziché del finto piano di pace di Di Maio discuteremmo di una proposta di adesione italiana alla Federazione russa.

Palazzo Chigi, il Quirinale, la Difesa, la Cisl di Luigi Sbarra tengono la barra dritta dell’Italia, ma, come ha scritto Gourevitch nel libro sul Ruanda, le buone intenzioni non bastano perché denunciare il male è tutt’altra cosa rispetto a fare del bene.

Fare del bene oggi è inequivocabilmente salvare l’Ucraina e proteggere gli ucraini con una grande campagna di solidarietà europea e occidentale, accogliendoli a braccia aperte nell’Unione e nella Nato, con aiuti umanitari e finanziari, ma soprattutto con la fornitura accelerata di tutti i sistemi di difesa possibili affinché Kiev rispedisca i russi nelle loro fogne, perlomeno fino a quando continueremo a finanziare lo stragismo russo acquistando il gas e il petrolio dalla cosca del Cremlino. 

Come ha scritto Garri Kasparov su Twitter: senza le armi che ha chiesto, l’Ucraina oggi sanguina e Putin accelera l’annessione di altri territori ucraini, rilasciando passaporti russi ed emettendo rubli, uccidendo e deportando migliaia di ucraini rimpiazzandoli con i russi, come sta facendo da otto anni con l’occupazione della Crimea e del Donbas.

Ha scritto, infine, Kasparov: «Basta pensare alle concessioni che potrebbe fare l’Ucraina, perché l’Ucraina sta pagando un prezzo orrendo in termini di sangue, peraltro sapendo che serviranno decenni per ricostruire il paese; l’Ucraina sta anche pagando il prezzo di anni di debolezza e corruzione delle nazioni europee che hanno concluso affari e stretto rapporti diplomatici con il suo invasore. L’Ucraina ha bisogno delle armi che chiede senza esitazione, e il modo libero è fortunato ad avere un esercito coraggioso e preparato come quello ucraino in prima linea, al fronte di una guerra che gli ucraini non hanno mai voluto e che l’occidente ha fatto finta non esistesse. Gli ucraini non combattano questa guerra per procura, gli ucraini sono i nostri partner». Sono i nostri compagni nella lotta al fascismo.

La giravolta dei media occidentali sulla guerra in Ucraina non è casuale. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 23 maggio 2022.

Nell’ambiente dell’informazione a stelle e strisce esiste un segreto di Pulcinella: il New York Times è la voce delle divisioni nelle stanze dei bottoni. Quando l’equilibrio bipartisan viene meno, quando il partito al potere è lacerato da rivalità intestine e quando la voglia di golpe morbido è nell’aria, il NYT è la piattaforma che dà sfogo alle gole profonde che parlano su ordine di qualche eminenza grigia.

Il NYT avrebbe avuto più difficoltà a guadagnarsi il titolo di “giornale dei record”, una nomea dovuta alla vittoria di 132 premi Pulitzer, se qualcuno non lo avesse scelto per farne il megafono del malcontento e delle lotte (invisibili al pubblico) che pervadono e plasmano lo Stato profondo. Ed è così che il NYT ha potuto pubblicare i Pentagon Papers ai tempi della guerra in Vietnam e le inchieste sullo scandalo Iran-Contras durante l’era reaganiana, sui crimini commessi dalle truppe americane durante la Guerra al Terrore, sull’emailgate durante le presidenziali del 2016 e, oggi, sulla guerra in Ucraina.

Dopo gli articoli rivelatori sul ruolo giocato dall’intelligence a stelle e strisce nella campagna ucraina di eliminazione sistematica degli alti gradi russi in trincea e di neutralizzazione di obiettivi strategici, come il Moskva, il 19 maggio il NYT ha pubblicato un editoriale che ha fatto discutere sia in patria sia all’estero, What is America’s Strategy in Ukraine?, perché lapidario nella forma e nel contenuto: l’Ucraina non può vincere, gli Stati Uniti devono riconoscere la realtà sul campo e agire di conseguenza.

La domanda è (più che) lecita: perché il NYT è diventato il capofila del (crescente) movimento di opposizione al coinvolgimento attivo degli Stati Uniti nella guerra in Ucraina? Tra pericolose fughe di notizie ed editoriali controcorrente, che per via della trasformazione del mondo in villaggio globale possiedono una eco dirompente e ipersonica, il NYT sta in qualche modo influenzando il dibattito sulla guerra sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo occidentale. E la domanda nella domanda è persino più legittima della prima: la tendenza sdoganata dal NYT è sintomatica di una voglia di pace con la Russia o di una parte dell’establishment in rivolta contro la presidenza Biden?

Pace con la Russia, guerra in casa?

L’editoriale offensivo del NYT ha centrato l’obiettivo: dal 19 maggio, in Occidente, non si parla che del modo in cui trovare una soluzione concordata al conflitto, cioè se pace cartaginese – guerra a oltranza con fine l’umiliazione della Russia – o se pace viennese – riattivazione dei canali diplomatici e compromesso accettabile all’unanimità. Il primo a sfidare tale tabù, a onor del vero, era stato Emmanuel Macron. Ma la differenza è sostanziale se a lanciare l’appello è Parigi o un pezzo di Washington.

La campagna di boicottaggio trainata da NYT, ad ogni modo, potrebbe avere a che fare più con la guerra che con la pace. Perché negli Stati Uniti, a breve, avranno luogo le attesissime elezioni di medio termine e i Democratici rischiano di arrivarvi divisi internamente, causa gli screzi tra il duo Biden-Blinken e il resto dell’amministrazione, e indeboliti da fattori esogeni, in particolare l’infelice congiuntura economica del momento – carenza di beni, caro-energia, inflazione. A fare da sfondo, le divergenze di vedute tra Langley, Pentagono e Casa Bianca su come affrontare la principale minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti di questa epoca: la transizione multipolare.

Il NYT, all’interno di questo contesto bellico al quadrato – con gli Stati Uniti impegnati in una guerra per procura in Ucraina e in una guerra civile in casa –, sta dando spazio e visibilità al dissenso del partito antibideniano, espressione dell’ala più moderata dei Democratici e del vivo e vegeto trumpismo. Una questione di guerra, che, però, ha meno a che fare con la Russia e più con gli Stati Uniti: attaccare la gestione del fascicolo ucraino, diffondendo peraltro notizie compromettenti, per screditare la presidenza Biden in vista dell’appuntamento elettorale di medio termine e con orizzonte temporale l’incerto 2024.

Ma non è solo questione di politica interna

La voglia di pace, o sarebbe meglio scrivere di distensione, è nell’aria. E lo è in modo particolare dal 24 aprile, ovvero dal giorno in cui il teorico dell’autonomia strategica, Emmanuel Macron, è stato rieletto alla guida dell’Eliseo. Un evento che ha fatto sospirare Olaf Scholz, oppresso dai Verdi e da Biden, e che è stato accolto calorosamente in quella parte di Unione Europea che anela all’emancipazione (geo)politica dagli Stati Uniti e nella Federazione russa alla ricerca di una via d’uscita dal pantano ucraino.

A partire da quel giorno, dal 24.4, la narrativa europea sulla guerra è cambiata: no ad un accesso dell’Ucraina nell’Eurofamiglia in tempi brevi, no a sanzioni che danneggino eccessivamente l’economia comunitaria, no ad una pace cartaginese con la Russia che rischi di destabilizzare ulteriormente il Vecchio Continente. Perché la geografia conta. La prima regola della geopolitica recita, non a caso, “ricorda con chi confini”. E questo è il motivo per cui se agli Stati Uniti conviene fare dell’Ucraina un ariete contro la Russia, l’Europa ha tutto da perdere da una periferia orientale devastata da fiamme in grado di raggiungere (e far esplodere) la polveriera balcanica.

La rielezione di Macron, in estrema sintesi, ha avuto delle ripercussioni riguardevoli negli Stati Uniti, dove è stata sfruttata dal partito antibideniano per indebolire l’attuale presidenza. Ma c’è di più: se l’ala moderata dei Democratici e i simil-isolazionisti trumpiani invocano una pace non è soltanto per antipatia politica, o peggio per un desiderio di tradire l’Interesse nazionale, ma perché consapevoli che raggiunti gli obiettivi primari attraverso l’Ucraina, equivalenti al disaccoppiamento eurorusso, al rafforzamento della NATO e alla piantatura di semi della discordia nello spazio postsovietico e nella cerchia putiniana, il prolungamento (eccessivo) del conflitto perde significato e aumenta i rischi di uno scontro frontale tra Stati Uniti e Russia.

L’amministrazione Biden è al corrente del conseguimento degli obiettivi primari, e non casualmente ha cominciato a inviare dei segni di distensione in direzione della Russia, ma non sembra avere intenzione di premere l’acceleratore sul processo di pace. Non ora. Non dopo aver approvato un pacchetto di aiuti a Kiev del valore di 40 miliardi di dollari. Non dopo aver tirato fuori dal cassetto la celebre Legge degli affitti e prestiti della Seconda guerra mondiale. Questione di ritorno economico. Volontà di indebolire ulteriormente la Russia, foraggiandola al tempo stesso, impiegando una tattica modellata sulla guerra Iran-Iraq.

L’ala moderata dei Democratici e il partito trumpiano, utilizzando il sistema mediatico come uno strumento per delegittimare la presidenza Biden e sabotarne l’operato, hanno una visione differente dei fatti. La guerra va fermata il prima possibile per evitare escalation esiziali per gli Stati Uniti, per impedire la castrazione dell’Ucraina – che se ridimensionata oltremisura e privata di sbocco sul mare perderebbe valore strategico nel contenimento della Russia – e, soprattutto, perché il testimone del litigio, che è anche il vero obiettivo di lungo termine di Washington, ossia Pechino, nel silenzio prende appunti e trae indirettamente profitto dal conflitto nella speranza di catalizzare la transizione multipolare.

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Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. 

Teste mozzate e corpi maciullati: la guerra su Instagram. Giuseppe De Lorenzo il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Su Telegram i due eserciti registrano le perdite inflitte al nemico. Così si forma un archivio dell'orrore.

C’è il video di un soldato russo legato come un capretto, con gli occhi bendati e le mani legate dietro la schiena. Un carro colmo di cadaveri ucraini in putrefazione. Teste spappolate. Corpi carbonizzati. Distese di fosse comuni. Cadaveri sbranati dai cani, lasciati lì come costolette d’agnello mezze mangiucchiate. Ossa spolpate. Crani maciullati. Occhi fuori dalle orbite o strappati dagli uccelli. E sangue, sangue ovunque. Se dovessimo sintetizzare questa galleria degli orrori, la chiameremmo una “fossa comune” online. Una sorta di calderone di cadaveri, il luogo virtuale dove stanno confluendo tutti i volti, le storie, gli occhi senza vita dei soldati russi e ucraini caduti sul campo di battaglia.

Le immagini dell'orrore

Si è detto spesso che questa guerra, iniziata il 24 febbraio con l’invasione russa, è uno dei conflitti più “coperti” della storia. Merito dei tanti cronisti al fronte, ovviamente. Ma anche e soprattutto della diffusione dei cellulari: ogni smartphone è un possibile testimone. Registra le carcasse dei tank abbattuti diventati la tomba ardente dei soldati. Oppure può essere utile per farsi un selfie con l’invasore di turno, spedito da Putin a morire nell’anonimato. Il generale Tricarico, vedendo le foto dei cadaveri dei militari russi accatastati nei freezer, ha definito la guerra in corso come un conflitto “primordiale” in cui ci si dimentica anche dei propri caduti. O forse, una guerra dove gli orrori - che sono sempre esistiti - vengono banalmente registrati, diffusi, verificati e infine resi noti al pubblico.

Le "spie" in rete

A muoversi in questo cruda melma sono ovviamente le intelligence di tutto il mondo. Ma ci sono anche i cosiddetti Osint, termine che sta per “Open Source Intelligence”, ovvero smanettoni amatoriali che usano le fonti aperte per raccogliere e diffondere notizie, foto e video dai fronti di guerra. Matthew Moran, professore di sicurezza internazionale al King’s College di Londra, descrive questo fenomeno come il lavoro svolto da chi “raccoglie, monitora e analizza informazioni pubblicamente accessibili utilizzando metodi e strumenti specializzati”. Immagini satellitari, geolocalizzazione, analisi grafica, intercettazioni radio. In pratica, fanno il lavoro delle spie, o dell’intelligence, ma senza essere legati a organizzazioni statali. Basta avere una connessione internet e il gioco è fatto.

Il caso più eclatante è sicuramente quello di Bellingcat, che nella guerra russo-ucraina ha ricostruito le “bugie” della Russia sul massacro di Bucha analizzando video, foto satellitari e notizie. Ma non è l’unico caso. Si pensi ai video su Tik Tok che mostravano i movimenti delle truppe russe al confine con l’Ucraina. Oppure ai video di Telegram e alle foto satellitari che hanno svelato l’avanzata di Mosca sul campo. O ai filmati che proverebbero i crimini di guerra. Qualcuno è addirittura riuscito a intercettare trasmissioni radio non crittografate. Per dirla con Moran, questi analisti o investigatori si muovono “come un cercatore d'oro, che setaccia attentamente il fango informativo di Internet alla ricerca” di informazioni preziose per ricostruire gli eventi. Bellingcat ha anche redatto una “guida” per spiegare come diventare un investigatore open source. Facile.

Il gusto per la violenza

Partiamo da una premessa. Dopo aver visionato migliaia di filmati e fotografie, molte delle quali rivoltanti, in redazione ci siamo chiesti se fosse il caso di pubblicare alcuni dei contenuti. Ma soprattutto se rivelare o meno il nome delle chat Telegram su cui abbiamo focalizzato la nostra inchiesta. Abbiamo scelto alla fine di conservare in archivio le immagini, perché eccessivamente drammatiche (pur sempre di persone uccise si parla). E di non fare pubblicità gratuita a canali che vivono di questi orrori, per non portare loro ulteriore traffico.

Perché il problema è che ogni medaglia ha anche il suo rovescio. In questo caso sono due. Primo: non solo i “buoni” fanno uso di questi strumenti: frotte di account russi si muovono nel mare magnum della Rete allo stesso modo degli ucraini. Secondo, a volte il rischio è che attività nate con lodevoli intenti si trasformino in qualcosa di più. O di peggio. Prendiamo ad esempio due account Telegram sul fronte ucraino: D.r.s. e S. Il primo è un calderone di foto di soldati russi trucidati, in alcuni casi con i passaporti o i documenti di identità, per tenere un elenco dei nemici ammazzati. Anche il ministero della difesa di Kiev sta realizzando un archivio simile, pubblicato addirittura in un sito internet ad uso delle madri russe che volessero cercare notizie dei propri figli. Il secondo, invece, è un caso particolare. E interessante.

Il più macabro dei canali Telegram

Il fondatore di S., che ha accettato di parlare col Giornale.it dietro anonimato, inizia a interessarsi di open source intelligence dopo il caso WikiLeaks nel 2010, quando venne rivelato il filmato di un elicottero americano mentre faceva fuoco sui civili. Poi nel 2014 il salto di qualità: S. si mette a lavorare sulla guerra siriana e sull’invasione russa della Crimea. Alla fine del 2021 intravede i primi spostamenti delle truppe di Putin al confine con l’Ucraina e capisce di “dover dedicare una pagina specifica a questa guerra”. Inizialmente S. si limita a pubblicare su Twitter notizie e geolocalizzazioni, compresi video e foto, con “l’obiettivo di coprire a fondo la guerra”. Poi a un certo punto, dopo la strage di Bucha, decide “che non bastava”. “Non riuscivo a sopportare più di trattare i russi come esseri umani - dice - E così ho iniziato a condividere le foto dei loro soldati morti”. Oggi ha accumulato quasi mille file di immagini e decine di video. Ognuno di essi è la fotografia dell’orrore, che S. condivide con i suoi 3mila follower prendendosi gioco delle vittime. Lo seguono media televisivi, agenzie di intelligence, giornalisti più o meno famosi. Si tratta senza ombra di dubbio di uno dei canali più macabri in circolazione. Nessuna censura, e la scelta di utilizzare Telegram non è casuale: si tratta dell’unico social che, di fatto, non pone quasi alcun limite. “Non copro né offusco i volti dei cadaveri, perché altrimenti tornerebbero ad essere solo una statistica. Voglio invece provocare una vera risposta emotiva nel vedere un gruppo di russi morti”. Del milione di visualizzazioni fatte dal suo canale, il 2% almeno vengono dalla Russia. Qualcuno, è sicuro, lo avrà raggiunto.

"Paralizzare il morale dei russi"

L’obiettivo di S., così come quello di altri Osint, è chiaro. “Voglio mostrare al mondo le perdite che la Russia sta subendo. La mia speranza è che il mio lavoro impedisca ai russi di diventare soldati. Voglio che vedano le conseguenze delle loro azioni. Voglio che si sentano in colpa per i crimini che hanno commesso”. Altri Osint o canali si limitano a condividere i nomi e le foto, da vivi, dei militari uccisi. S. invece lavora coi cadaveri. E anche se è impossibile, per noi, verificare che tutti i contenuti arrivino davvero dall'Ucraina, è di per sé un fatto che facendo leva su queste immagini si stia cercando di combattere una parte della battaglia. “Credo che questo aiuterà la guerra psicologica contro la Russia e aiuterà a paralizzare il morale dei soldati russi”. Mestiere complicato, il suo. “Per verificare le immagini mi baso sulle uniformi, sugli equipaggiamenti e sui luoghi operativi dei russi. Inoltre geo-localizzo i luoghi utilizzando informazioni geo-spaziali e dettagli contenuti nei video”. Una volta raccolto il materiale, lo condivide coi i follower e grazie ad una fonte anonima invia il tutto a VKontakte (il Facebook russo) per raggiungere le famiglie dei soldati caduti.

È giusto "giocare" coi cadaveri?

Al netto del nobile scopo per cui combatte, i contenuti condivisi da S., tuttavia, sono file di cui, in teoria, non dovremmo andare fieri. Un video viene indicato come il “tutorial” per uccidere un russo. In un altro si vede un soldato ucraino giocare con la gamba mozza di un soldato avversario: prima gli fa il “solletico” e poi la usa come stampella. Un altro ancora mostra l’esplosione in diretta di un militare di Putin. Un terzo, impossibile da verificare, riprende un uomo che stacca con una mannaia la testa del nemico e poi la mostra felice verso l'obiettivo dopo avergli infilato una bandiera in bocca. Come se non bastesse, c'è anche chi pianta il proprio coltellino - come fosse Excalibur - nell'orbita oculare di un soldato. Si spera già morto.

In questo gioco all'orrore, ogni cadavere viene indicato come “cold boy”, ragazzo freddo. Se il soldato russo è morto carbonizzato, viene soprannominato “barbecue boy”. Se catturato, “bondage boy”. Perché? Sono invasori e forse criminali di guerra, ma pur sempre di uomini senza vita si tratta. Ha senso prendersi gioco di loro? “Quando compi atti così vili contro l'umanità, allora non hai fatto ciò che credo sia necessario nella tua vita per essere rispettato dopo che sei morto”, dice S. “Alcune persone devono togliersi i guanti e insanguinarsi le mani, ma è tutto in nome della pulizia del mondo. Se ignoriamo le atrocità che si sono verificate, lasceremo semplicemente che accadano di nuovo”.

I canali telegram dei russi

In realtà la convenzione di Ginevra obbliga al rispetto del nemico “in ogni forma”, dunque anche il vilipendio di un cadavere potrebbe diventare un crimine di guerra. Per dire: nemmeno Bucha giustifica quel soldato ucraino che fa pipì sul cadavere di un russo e si riprende festante. E forse neppure i corpi disposti a forma di Z sull'asfalto. Il rischio che tutta questa documentazione possa "portare ad accusare l’Ucraina di violare le leggi sul trattamento dei prigionieri” c'è. S. lo sa. Ma i russi fanno pure di peggio. "Per ogni crimine di guerra ucraino vedo più di 20 crimini di guerra russi. Non è nemmeno paragonabile”, assicura S. I fatti di Bucha parlano chiaro. Le bombe sui civili pure. Ma anche il canale D. u. s., gestito da russi, è pieno di atrocità: cadaveri denudati, nemici bruciati, corpi buttati nei cesti dell’immondizia. E ancora: cataste di cadaveri di Azov esposti al pubblico ludibrio, le foto dei nemici deceduti commentate con un sarcastico “zzz” ed espressioni compiaciute tipo “un altro nazista ucraino liquidato”. Ogni foto di un soldato di Kiev ucciso viene corredato con la emoticon di un maiale. Lo stesso si vede in altri numerosi canali Telegram, come I.s. “Ogni singolo esercito del mondo ha commesso un crimine di guerra a un certo punto - fa notare S. - L'Ucraina potrebbe aver aver fatto lo stesso durante questo conflitto, ma in genere si tratta di situazioni una tantum. La Russia, invece, sta commettendo sistematicamente crimini di guerra in ogni singola città e villaggio in cui entra”.

La domanda è: tutto questo serve? Se lo si osserva dal lato ucraino, forse sì. James Rushton, analista britannico, fa un paragone con i campi di concentramento nazisti: “Se nessuno avesse scattato una foto, la gente ci crederebbe?”. Inoltre c’è anche una questione legale: condividere e ricostruire i dettagli di un filmato o di una foto, a volte, può permettere poi alle autorità di punire eventuali crimini di guerra. Lo stesso vale per i soldati russi morti in combattimento: se non ci fossero le immagini a testimoniarlo, forse oggi Putin potrebbe “rivendicare” di aver perso meno uomini di quanti in realtà ne ha mandati a morire. Osservato dal lato russo, invece, la condivisione dei corpi dei miliziani di Azov uccisi ha in fondo la stessa funzione: sollevare il morale di chi combatte, facendogli credere che non lo sta facendo inutilmente. “I russi avanzano, i nazisti muoiono”.

È macabro, ma è la guerra. In tutta la sua atrocità.

Scuola, la guerra in Ucraina e la lezione di Erodoto sulla storia come «autopsia» dei fatti. Marco Ricucci, professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano, su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

Il grande storico greco raccontava gli eventi visti coi propri occhi, i ragazzi oggi sono bombardati dalle immagini della guerra in Ucraina: come aiutarli a orientarsi? Può servire anche l’etimologia «sbagliata» del nome di un bimbo rimasto orfano

Historia magistra vitae. La storia è maestra di vita, anzi compagna della nostra vita scolastica, perché è una materia che studiamo dalle elementari fino alla soglia della maturità. Il padre della storia, a partire dalla famosa celebrazione ciceroniana, è senza dubbio Erodoto di Alicarnasso, greco vissuto tra il VI e V a.C., il quale fu testimone diretto del primo grande scontro tra Oriente e Occidente, tra mondo greco e il mondo persiano. Senza naturalmente voler cedere a tesi «orientalistiche» a partire dalle suggestioni del famoso saggio di Edward Said, per evitare la tentazione di fare anacronistiche attualizzazioni, è vero tuttavia che si scontrarono, in sostanza, due sistemi di valori: la libertà, la democrazia, il pensiero razionalistico, sebbene ai suoi primordi, da una parte, simboleggiata dalla grecità; e dall’altra, il dispotismo, «l’imperialismo», la religione come instrumentum regni, dall’altra, ovvero l’Impero persiano, crogiuolo di una moltitudine di popoli.

Guardiamo poi l’etimologia: il termine «storia» si collega a una radice greca del verbo «orao», che significa vedere, e genericamente indica la ricerca: Erodoto, grazie alla propria «autopsia» cioè attraverso la vista come mezzo più attendibile per avere informazioni sicure, fedeli alla realtà, perlomeno attendibili, viaggia in lungo e in largo e scrive la sua opera monumentale, appunto Le storie, che è poi il titolo. Se veniamo ai nostri giorni, i nostri alunni stanno «vedendo» due fatti della storia umana di portata epocale: la prima pandemia mondiale del terzo millennio e la guerra russo-ucraina, che crea non solo l’orrore, ma anche apprensione perché – si teme- possibile preludio alla terza guerra mondiale, se qualcosa va storto. Lo vedo in classe, e ne discuto, quando leggiamo e commentiamo qualche notizia sui quotidiani, sottolineando che ciò che oggi è cronaca domani sarà presto storia. Qualcuno propone di leggere il conflitto come lo scontro tra due sistemi di valori e visioni del mondo (Weltanschauung), ovvero tra democrazia e «democratura», tra libertà e autoritarismo, insomma tra la libertà e quanto è a essa contraria. Certamente, viviamo tutti un periodo complesso, come è appunto la storia come campo di indagine e materia scolastica.

Il tema storico alla maturità, come tutti noi ricordiamo, fu abolito ufficialmente tre anni fa, ma fu in certo modo ripristinato a seguito delle giuste rimostranze, tra gli altri, della senatrice Liliana Segre. Scrivere dunque la storia, in un tema di maturità, è un banco di prova importante per un adolescente, ormai sulla via della maggiore età e della presa di consapevolezza del senso della responsabilità civiche intese come insieme di diritti e doveri nella nostra Repubblica. In una vecchia intervista al Corriere della Sera , lo storico Andrea Giardina disse giustamente: «Le tracce per i temi storici della maturità, come sono state formulate negli ultimi dieci anni, sono dissuasive, deterrenti, fuori dal panorama culturale. Sono tracce bizzarre che disorientano. Inviterei gli esperti del ministero ad andare a rileggersi le tracce di storia che sono state date ai maturandi negli ultimi 10 anni. Avrebbero subito la risposta sul perché non sono state scelte. La loro stranezza è l’elemento più forte». Come dunque non riconoscere che il tema storico veniva boicottato da intere generazioni di maturandi, per puro disamore verso la formulazione di tracce poco chiare, a volte austere, complicate? Oggi la situazione è diversa: la storia è ritornata nei temi di maturità, distribuita, per così dire, nelle varie tipologie delle tracce dei temi, che i nostri maturandi si presteranno a fare tra circa due mesi scarsi.

Io ho una prima superiore, certamente non posso spiegare cose troppo «difficili» della guerra in corso nel commentare le notizie con cui ogni giorno, da qualunque media, siamo bombardati, ma le nostre ragazze e i nostri ragazzi non sono indifferenti e vogliono capire in un sottaciuto timore di scenari futuribili. Loro, però, sono, grazie ai media e in particolare a Internet, un po’ come Erodoto con la sua «autopsia» di fronte alla storia che si dipana…Nella mia classe di prima superiore, fatta di alunni-generazione-DAD, ho preso spunto da una tranche de vie ovvero da un fatto che ha commosso il mondo intero: una lettera di un bambino ucraino alla mamma, morta durante la fuga in auto. Ho chiesto alla mia classe di scrivere una lettera a questo bambino, Anatoly, come si sentivano di parlargli, con la massima libertà, raccontando quello che avevano capito di questo conflitto. Scrivere è diventato per loro più significativo, e la scuola- forse- un po’ più «affettuosa», come ebbe a dire una volta il Ministro Bianchi. Poi ho fatto una etimologia, forse errata, un po’ come l’erudito del VI d.C., Isidoro di Siviglia: Anatoly deriva dal greco antico «anatole» che significa alba. Ecco tutti aspettiamo, in un giorno prossimo, il sorgere di un nuovo sole di pace.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 3 maggio 2022.

«Un cronista russo che oggi scrive la parola guerra rischia di farsi quindici anni in galera». Quando Gina Chua denuncia quest'ultima complicazione del giornalismo contemporaneo, senza nemmeno accennare ai colleghi ammazzati o feriti in Ucraina dalle bombe di Putin, l'aula magna della Columbia Journalism School si indigna.

Il vero punto però non è esaltare il coraggio degli inviati, dandosi una compiaciuta pacca sulle spalle, che rischia di diventare patetica davanti all'eroismo di chi la guerra la combatte o la patisce in casa propria: «Il problema è che senza risorse e modelli di business efficaci questo giornalismo non si potrà più fare».

E immaginate il futuro delle nostre società, se non sapessimo nulla di quanto accade a Kiev, o nei crescenti angoli del mondo dove i diritti umani più basilari vengono calpestati da egotismo, ideologia, nazionalismo o semplice tornaconto personale.

Messa così, nessun cittadino responsabile può scrollare le spalle davanti alla crisi dell'informazione e tirare a campare. L'occasione per queste riflessioni viene dal weekend che ogni anno la Facoltà fondata da Joseph Pulitzer dedica agli ex alunni per aggiornarli. 

Stavolta l'ospite d'onore è il direttore del Los Angeles Times, Kevin Merida, ex managing editor al Washington Post con Bezos. E la musica non è piacevole: «Io amo la carta. Mi piace averla in mano, sfogliarla, scegliere la sezione da leggere. Mi piace la cura con cui la stampiamo. Però è inutile prenderci in giro: i giornali di carta spariranno tra uno e massimo cinque anni di tempo. Adesso non prendetemi alla lettera, per il gusto di smentirmi: magari qualcuno farà ancora qualche edizione stampata, tipo noi o il New York Times , ma la grande maggioranza diventerà solo digitale o chiuderà».

Merida scrolla la testa, quando pensa che «un tempo al Washington Post avevamo due redazioni separate per web e carta. Vanno integrate subito. Dovrebbero già esserlo ovunque, perché il prodotto è unico. È ridicolo tenerle divise». 

La crisi è in stato così avanzato che «bisogna porre il problema a livello nazionale come industria, perché servono finanziamenti per far sopravvivere il giornalismo soprattutto locale, anche dopo il passaggio al digitale. Noi forse ce la faremo, ma gli altri chiudono, lasciando intere città senza neanche una fonte attendibile di informazione».

Kevin confessa senza reticenze che «la chiave per noi è il marketing, bisogna provarle tutte per fare abbonamenti. Abbiamo anche lanciato un'offerta da un dollaro per 6 mesi, e in parte ha funzionato, perché diversi lettori hanno poi confermato la sottoscrizione. Vanno provate tutte, senza fare gli schizzinosi, perché in gioco è la sopravvivenza, e non bisogna limitarsi ad una sola strategia. 

Noi puntiamo sui servizi per la comunità ispanica in crescita. Organizziamo feste di quartiere con cibo e musica. Sui contenuti è ovvio che qualità, accuratezza e originalità devono distinguere i media tradizionali dai nuovi, ma non basta. Noi per esempio stiamo trasformando la parte immagini, video e non solo, oltre il giornalismo e verso l'intrattenimento».

Dove naturalmente non guasta essere nella città di Hollywood, a poche ore dalla Silicon Valley: «La misura del successo sarebbe se qualcuno che cancella l'abbonamento a Netflix lo facesse con noi». 

Poi va cercato il ricambio, perché senza non c'è futuro: «Dobbiamo sviluppare non solo il linguaggio, ma anche i contenuti per attirare i giovani. Non basta banalizzare i temi, accorciare i pezzi e togliere le parole difficili». 

Su queste macerie, il preside uscente Steve Coll ospita il suo panel dedicato alla difesa della libertà di stampa, perché è minacciata ovunque e tutto si tiene. Tra gli invitati c'è Gina Chua, già executive editor di Reuters e ora executive editor di Semafor, il nuovo media digitale globale fondato da Ben Smith, ex direttore di Buzzfeed. Qui siamo ad un business model unico.

Hanno tra 20 e 30 milioni di finanziamenti per un media solo digitale in inglese, destinato alle classi più istruite e ricche del Pianeta. Perché questa è l'audience ancora interessata all'informazione di qualità, notizie o analisi che spiegano e fanno capire cosa accade, ed è disposta a pagarla. 

Trasformazioni epocali che avvengono sullo sfondo di minacce mortali per l'informazione: «Da una parte c'è Elon Musk - comincia Coll - che compra Twitter presentandosi come l'ambasciatore della libertà di espressione; dall'altra la Russia, che perseguita chi scrive l'evidenza. I media internazionali la stanno abbandonando, per comprensibile paura, ma immaginate come sarà la qualità del giornalismo che dovrà raccontare Mosca dall'esilio».

Gina non esista a rispondere: «Pessima, la qualità sarà pessima. E non è il solo luogo del modo dove il giornalismo decente è condannato all'esilio. Però se è tragico che noi occidentali non sapremo la verità sulla Russia, pensate a quanto più drammatico è che i russi già non sappiano cosa succede a casa loro». 

Tutto perciò si lega al problema delle risorse e i business model, perché senza media indipendenti che riescono a stare in piedi sparisce l'informazione libera e restano solo propaganda e disinformazione. 

E non sarà un danno solo per i giornalisti che perderanno il posto, ma anche per chi non spendendo il dollaro elemosinato da Merida, perderà quella che il presidente Jefferson considerava l'anima della democrazia: «Allo Stato senza i giornali, preferisco i giornali senza lo Stato».

I corpi straziati della guerra. L’escalation dell’invasione russa in Ucraina di pari passo con la diffusione di immagini sempre più crude. Ci sarebbe il codice penale per fermarle, ma prima ancora ci dovrebbero essere il rispetto della dignità e un sentimento di pietà. Michele Partipilo  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Maggio 2022.

Viviamo nella società dell'informazione e la nostra vita è dominata dai media. Ma dei tanti problemi che generano raramente se ne parla. In questo blog proviamo a farlo.

Da settimane siamo bombardati da immagini di guerra che ogni giorno diventano sempre più forti. All’inizio furono solo i volti dei bambini spaesati, costretti a partire in fretta e furia. In braccio alle madri, nei carrozzini, mano nella mano con la nonna. Raccontavano la fuga verso posti più sicuri, fuori dall’Ucaina. Ma negli occhi tristi e spesso bagnati di lacrime si leggeva anche quella domanda che nessuno aveva il coraggio di farsi: perché? Poi foto e filmati, seguendo l’escalation della guerra, si sono fatti sempre più espliciti e impressionanti: soldati feriti, malati moribondi, partorienti in barella. Fino ad arrivare ai corpi mitragliati per strada: non combattenti, ma inermi civili che tentavano di fuggire verso luoghi più sicuri. A testimoniarlo, i trolley , i peluche dei bambini e il cestino con il gatto. Tutti uccisi all’alba di una livida giornata. In tanti hanno pianto davanti a quelle immagini così crude e violente. Ma non era finita. Sono arrivati filmati e foto di corpi carbonizzati dagli incendi o di resti ripescati dalle fosse comuni. Gli invasori non si sono fermati davanti a niente, ma neppure i reporter e i media che ne hanno diffuso i materiali. «Il dovere della cronaca, abbiamo denunciato l’atrocità della guerra», è stato il leitmotiv giustificativo di qualche direttore messo sotto accusa o di fotografi e cineoperatori criticati.

Il nobile mantello della denuncia e dunque dell’impegno civile ha coperto e legittimato quelle immagini impressionanti e raccapriccianti. Sì, proprio come le definisce la legge, la vecchia legge sulla stampa scritta dagli stessi costituenti, che ne vietarono la diffusione. Quella norma non nasce dal nulla, ma è il prosieguo ideale e tecnico dell’articolo 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di espressione per tutti. Vi è posto un solo limite: il buon costume. Così recita il quinto comma: «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume». E il rispetto del buon costume è proprio il concetto cui rimandano la legge sulla stampa e gli articoli 528 e 529 del codice penale, che in concreto definiscono il reato e ne fissano le sanzioni. Il «buon costume» è una nozione elastica, che si adegua ai tempi e alla storia. In passato era strettamente legata alla morale sessuale. Era il freno che bloccava scene di nudo in tv o parolacce e bestemmie. Oggi il turpiloquio è all’ordine del giorno e francamente non sembra una grande conquista di libertà, piuttosto un impoverimento del linguaggio, ormai appiattito sul genitalese.

Nel buon costume i giudici intravedono sempre più il concetto di dignità, di rispetto della persona per quello che è. Guarda caso la dignità è il bene cui dovrebbero far riferimento tutti gli operatori dell’informazione nel loro lavoro. Codici etici e norme deontologiche puntano tutto su questo. La dignità, come l’onore e la privacy, si conserva anche dopo la morte degli interessati. I giornalisti fingono di non saperlo e si accaniscono a riprendere quei corpi già martoriati dalle bombe e dalla ferocia degli uomini. Dimenticano che un conto è informare e un conto è improvvisarsi medici legali, trasformando ogni articolo in un referto necroscopico. Così non si offende solo la dignità di quelle vittime impossibilitate a difendersi e a farsi difendere, ma si uccide anche la pietà. Quel sentimento che ogni uomo o donna dovrebbero provare di fronte alla morte dei loro simili.

Ma la morte l’abbiamo rimossa dal nostro orizzonte culturale e spirituale, ne rimane solo la narrazione, lo spettacolo, la tragedia. Una guerra serve bene a questo, poiché le ragioni della cronaca e della ricerca della verità sembrano un buon motivo per mostrare immagini sempre più violente e impressionanti. Come se la loro diffusione potesse fermare il conflitto. Invece ne fa un film horror, che se fosse tale sarebbe vietato ai minori, invece giornali e tg sono alla portata di tutti. L’importante alla fine è fare audience, se decenni fa bastavano le gambe delle Kessler o l’ombelico della Carrà, oggi funziona meglio un corpo ucciso in un bombardamento.

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" l'8 maggio 2022.

L'indiscrezione sulle informazioni dell'intelligence Usa che hanno consentito agli ucraini di uccidere alcuni generali russi e affondare la nave ammiraglia della flotta nel Mar Nero provoca una tempesta politica a Washington, ma riapre anche l'eterno dibattito sulla responsabilità della stampa che pubblicando certe notizie, spesso di fonte anonima, cambia la storia dell'America (come col Watergate che costò la presidenza a Richard Nixon) e delle sue guerre, a partire dall'effetto sul conflitto del Vietnam della pubblicazione, nel 1971, dei Pentagon Papers.

La logica è sempre la stessa e il New York Times, sul quale sono comparse indiscrezioni che ora fanno temere rappresaglie di Putin, l'ha spiegata più volte ai lettori: se i suoi giornalisti ricevono informazioni rilevanti da fonti attendibili con conoscenza diretta dei fatti, le notizie vengono verificate con altre fonti e poi vengono pubblicate anche se la fonte chiede di restare anonima. In alcune situazioni particolarmente gravi o delicate si può scegliere di non pubblicare o di temporeggiare, ma sono casi rarissimi e la scelta di non dare una notizia spetta ai vertici della testata giornalistica.

È così da oltre mezzo secolo: da quando, proprio nel caso dei Pentagon Papers, la Corte Suprema respinse il tentativo del presidente del tempo (sempre Nixon) di bloccare la pubblicazione sulla base del Primo emendamento della Costituzione Usa: quello che garantisce l'assoluta libertà di espressione. 

Questo spiega perché per adesso non sono emerse forti critiche al Times (abituale bersaglio di media e politici di destra) mentre Biden e gli altri membri del governo che si affannano a smentire se la prendono con le «gole profonde» e non con le ricostruzioni della stampa: magari definite «non accurate», ma senza mettere in dubbio che siano basate su indiscrezioni reali.

Sotto la superficie, comunque, un certo malessere sembra diffondersi anche tra i giornalisti e lo stesso articolo pubblicato ieri da Tom Friedman sul Times sembra portarne qualche traccia. I motivi sono due: intanto i reporter, che vorrebbero evitare questi leak che riducono la credibilità di una stampa già colpita dalle campagne demolitrici di Donald Trump, finiscono, in realtà, per usarli di più spinti dalla concorrenza e dalla velocità del ciclo delle news (quella dell'ammiraglia Moskva l'ha data anche la Nbc che cita uno zampino dell'intelligence Usa pure nell'abbattimento di un aereo da trasporto pieno di soldati russi). 

La guerra in Ucraina, poi, con l'impegno indiretto dell'America e l'imprevedibilità delle reazioni di Putin, pone sfide nuove anche ai media.

Così la guerra sta cambiando l’informazione. C’erano una volta le cronache di guerra di Montanelli, ora dall'Ucraina il racconto è «live» e i telespettatori apprezzano. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.

C’erano una volta le cronache di guerra che arrivavano giorni se non settimane dopo gli eventi. Erano i conflitti raccontati sui quotidiani da Montanelli o Barzini. Al massimo potevano contare su un telegrafo per trasmettere pochi appunti, che in redazione venivano elaborati in articoli veri e propri da giornalisti chiamati «estensori». Poi venne la tv, prima con sgranate immagini in bianconero e poi a colori. Il tempo che intercorre fra il bombardamento e la notizia andò via via accorciandosi. Ci sono sempre più inviati, fotografi e cineoperatori al seguito delle truppe, tanto che dall’altisonante appellativo di inviato o corrispondente di guerra, si passa al meno nobile giornalista embedded, cioè aggregato a uno degli eserciti in lotta e quindi come tale costretto a rispettare ordini e disciplina militare.

Dal 24 febbraio, giorno in cui è esplosa la guerra in Ucraina, abbiamo la versione più moderna di ciò che fu l’inviato di guerra. Giornali, radio, televisioni, siti online non hanno risparmiato risorse per spedire cronisti in ogni angolo della repubblica sotto attacco. Un primo elemento di novità è dato proprio dalla massiccia presenza di giornalisti: mai così tanti in un conflitto, neppure tra i più recenti. In questo esercito di cronisti tante colleghe donne, addirittura in maggioranza se si guarda alle sole televisioni. Secondo elemento è il gran numero di free lance, cioè di giornalisti non legati ad alcuna testata, ma che vendono immagini e servizi al miglior offerente. Di loro se ne servono un po’ tutti, spesso in maniera vile. Perché con un free lance non ti leghi a vita, perché se il «pezzo» non ti piace non lo pubblichi, perché se gli succede qualcosa è un problema suo. E infatti i servizi televisivi dalle zone più a rischio sono quasi tutti opera di questi giornalisti costretti a rischiare più degli altri per avere una chance. Terzo caratteristica mediatica della guerra in corso – è ovvio – il grande ruolo svolto dalla Rete. E questo sotto due aspetti: uno squisitamente tecnologico e l’altro di contenuti. I collegamenti delle redazioni con i giornalisti sul campo avvengono con regolarità e costanza; arrivano corrispondenze, immagini, interviste anche in diretta senza alcun problema. E questo grazie alla serie di opportunità offerte della Rete che ormai consente di superare tutti i limiti delle trasmissioni via cavo o satellitari.

Dal punto di vista dei contenuti siamo ormai abituati a vedere inviati che si riprendono con i telefonini mentre alle loro spalle divampa un incendio, si soccorrono dei feriti, c’è un check point di militari armati fino ai denti. Sì, abbiamo proprio l’impressione - meglio, la convinzione - di vedere la guerra e non una sua rappresentazione. Sono servizi che girano anche sui siti di testate giornalistiche oppure vanno su YouTube o su altri social. E qui le cose si complicano perché non sempre è facile capire il «quando» della notizia. Ma il mix di tecnologia e guerra non ha cambiato solo la figura e il ruolo dell’inviato, ha modificato radicalmente il format dei telegiornali. Fino al 24 febbraio la struttura scimmiottava la piramide informativa tipica dei quotidiani: all’inizio la notizia ritenuta più importante e poi via via con quelle meno rilevanti, per chiudere infine con gli spettacoli e lo sport. Lo schema era rimasto invariato anche durante i due anni di pandemia, durante i quali i telegiornali - a parte sporadiche eccezioni legate a eventi come le Olimpiadi, gli Europei o la ritirata dall’Afghanistan - sono stati praticamente monotematici. Un unico argomento: l’emergenza Covid 19 affrontata in tutte le sfaccettature, dai dati sanitari alle misure del governo, dalle polemiche alle proteste dei ristoratori. In coda, talvolta, qualche residuale notizia di esteri o di sport. Cultura e spettacoli niente, anche perché cinema e teatri erano chiusi. Oggi invece il format è stato rivoluzionato. Forse perché si temeva un calo di ascolti a causa di una nuova serie, prevedibilmente lunga, di telegiornali monotematici. È nato così il tg «a strati»: apertura, notizia sulla guerra e primo collegamento con un inviato; secondo titolo: l’andamento del Covid con servizio dedicato; terzo titolo: altre informazioni sulla guerra e collegamento con altro inviato; quarto titolo: tema politico e relativo servizio o intervista; quinto titolo: ancora notizie dal fronte e nuovi collegamenti, compresi quelli da città in qualche modo coinvolte nel conflitto come Bruxelles, Parigi, Ankara, New York; se non c’è cronaca nera (femminicidio del giorno o morto sul lavoro) servizio di spettacolo o di cultura; ennesimo collegamento con l’Ucraina (a questo punto entrano in scena i free lance) e poi l’immancabile chiusura con lo sport, anzi no: dopo lo sport c’è spesso un ulteriore aggiornamento dal fronte. Così sono confezionati oggi i nostri telegiornali.

Si è passati dal format «panino» che doveva servire a non far scoprire troppo l’orientamento partitico, al modello «pasta al forno» che (forse) non dovrebbe far scappare la gente davanti alle notizie sempre più depressive. È giusto così? I primi dati sugli ascolti dicono di sì. All’ora dei tg davanti allo schermo c’è un numero maggiore di spettatori rispetto al passato. Solo per le due edizioni serali – le principali – Tg1 e Tg2 mettono insieme oltre 10 milioni di utenti e questo nonostante un fisiologico calo di ascolti in questi mesi. È questa l’informazione televisiva che ci piace? Evidentemente sì. È questa l’informazione televisiva che ci fa capire meglio i fatti? Forse no.

L’importanza dei giornalisti di guerra, alla ricerca della verità contro tutte le propagande. La fabbrica dei falsi funziona a pieno regime al servizio della grancassa mediatica di tutte le fazioni coinvolte nel conflitto. L’unico antidoto sono i reporter che rischiano in prima persona. E non si accontentano delle veline. Lorenzo Tondo La Repubblica il 28 Marzo 2022.

Esserci per informare. Andare, restare, guardare, verificare e poi scrivere. In tempo di guerra, come in pace, conta ciò che puoi controllare, anche in condizioni difficili. Riparandosi dall’alto, da dove piovono le bombe, e dai tiri ad altezza uomo, micidiali come un proiettile, devastanti se deflagrano sui media e si propagano a dismisura.

Sofia Gadici per professionereporter.eu il 14 aprile 2022.

Su Instagram ha quasi 350mila followers. Le ultime foto che ha condiviso ritraggono militari, anziani nelle loro case distrutte, armi, bambini, macerie, sfollati, carri armati con una “Z” sulla fiancata. Foto e video che raccontano la guerra in Ucraina. 

Cecilia Sala ha 27 anni, è una reporter che più di altri ha portato sul fronte il “nuovo giornalismo”, multiforme, crossmediale, innovativo. 

Racconta quello che vede sui social, in diretta, lo racconta anche scrivendo articoli per la carta stampata, Il Foglio in particolare, e lo fa attraverso un podcast, il suo Stories.

Il podcast è prodotto da Chora Media, una company italiana fondata nel 2020 da Guido Brera, Mario Gianani, Roberto Zanco e Mario Calabresi, che la dirige. 

In questo contenitore la giovane reporter racconta storie dal mondo con cadenza quotidiana, e ora naturalmente racconta la guerra. 

Si tratta di prodotti audio brevi, 15 minuti al massimo, che sono disponibili gratuitamente sul sito di Chora e sulle principali piattaforme audio (come Spreaker, Spotify, Apple Podcasts). 

Il racconto di Cecilia Sala arriva direttamente dal campo e il risultato è che l’ascoltatore viene trascinato nei fatti grazie a effetti audio reali, pause, una voce che aiuta a comprendere e a calarsi nella realtà.

Il risultato è un successo di pubblico e ottime recensioni degli utenti sulle diverse piattaforme. 

Il suo è il quinto podcast in Italia nella categoria “programmi” di Apple Podcasts, terzo in assoluto su Spotify. 

Per Mario Calabresi Stories è seguito da “più di 100mila persone” e Sala può essere considerata “la prima inviata podcast italiana”. 

Chora Media si è sostituita a tv, radio e giornali: è Chora ad occuparsi di organizzare gli alloggi della sua reporter e i suoi spostamenti, e anche di fornirle un’assicurazione.

Per Sala lo smartphone è lo strumento di lavoro principale. Si informa sui social, filma e registra con il telefonino. Invia i suoi contributi tramite whatsapp, mentre in Italia ricevono il materiale e assemblano il prodotto. Una nuova frontiera del giornalismo.

Prima di raccontare le sue “storie” da Kiev, Sala è andata in Afghanistan quando i talebani hanno riconquistato il potere, ha parlato del Covid in Cina, dell’Iran, di Haiti, di Tonga, Myanmar e Thailandia. 

Oltre al Foglio, in passato, Sala ha pubblicato reportage dall’estero su L’Espresso e Vanity Fair. Ha lavorato anche nella redazione di Otto e mezzo, per SkyTg24, con Rai e Fremantle Media. Con Chiara Lalli è autrice del podcast “Polvere”, che racconta l’omicidio di Marta Russo alla Sapienza ed è diventato un libro Mondadori.

Cecilia Sala è nata a Roma il 25 luglio 1995. Nel 2009, ad appena 14 anni, si è fatta notare pronunciando un discorso pubblico contro la mafia durante la Manifestazione delle Agende rosse. Nel 2013 ha fatto le sue prime apparizioni a Piazzapulita e poi a Announo. 

In seguito ha avuto alcune collaborazioni con Vice Italia e Servizio Pubblico di Michele Santoro. Si è laureata in Economia Internazionale alla Bocconi di Milano nel 2018.

Peggiori dei pm. I giornalisti inquirenti che dubitano delle notizie perché vanno contro le loro opinioni. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

La guerra in Ucraina ha messo in luce un atteggiamento di negazione della realtà che ricorda, nelle sue dinamiche, la caparbietà di certi magistrati attaccati più alle proprie tesi che ai riscontri delle indagini. Quando il fatto non si può più ignorare, passano ad altro con noncuranza.

Il giornalismo impegnato nello scrutinio delle notizie dal fronte ricorda parecchio il pubblico ministero che dà per certo il reato e si incaparbisce nel cercarne la prova.

Non riguarda tutti, ovviamente, ma è abbastanza diffusa la pratica di fare le pulci a una notizia – che so? un ospedale bombardato, una fossa comune, uno stupro di massa – per il solo fatto che è data, e non perché siano manifesti elementi che ne mettono in dubbio la fondatezza. Va avanti dall’inizio di questo macello, e l’andazzo prosegue bellamente, con punte di spudoratezza sempre più imbarazzanti, nel progresso dei resoconti sulla guerra (pardon, sulle operazioni speciali).

Sembra che buona parte del lavoro giornalistico sia meccanicamente e pregiudizialmente orientato a trattare la notizia per destituirne la verosimiglianza, e dunque per rinnegare la verità che essa porta, piuttosto che per fare verità su una notizia che si appalesa discutibile. Con questo, di peggio: che quando poi la notizia trova supporti di conferma (non ricercati, però, da quelli che elevavano equanimi dubbi), allora il rigore del giornalismo che non se la beve dismette il proprio ruolo inquirente.

E passa alla prossima notizia, non per darla ma un’altra volta per contestarla: come il PM che sfoglia il bouquet delle imputazioni quando una sfiorisce per evidente inconsistenza.

Che questo costume esista a me pare abbastanza indiscutibile. Che sia un malcostume è questione di opinioni: ma credo che l’atteggiamento pacifista, certamente legittimo, dovrebbe evitare accuratamente di associarvisi.

Guerra Ucraina, Biloslavo: "verificare l'effettiva strage di civili prima di confermarla, bisogna essere cauti". Da Triestecafe.it il 04 Aprile 2022

In collegamento dalla città ucraina di Kharkiv, il giornalista Fausto Biloslavo ha testimoniato nel programma televisivo 'Controcorrente' quanto sta succedendo nel territorio di guerra, avendo precedentemente detto che teme di essere ad "un punto di non ritorno". "Mi limito a riportare esclusivamente ciò che vedo", inizia così la sua testimonianza, "e bisogna essere cauti. In molti altri conflitti ho visto veri e propri massacri, veri o presunti che fossero, e in questo caso io voglio sapere cosa effettivamente sta succedendo, se si è effettuato un eccidio con vittime legate, chi e come sono state giustiziate, se con un colpo di pistola alla nuca o altro. Quando c'è un conflitto così vasto e devastante bisogna andare molto cauti e attenti ad alzare la bandiera della strage e del massacro prima di avere fonti concrete e indipendenti, anche da giornalisti recati sul posto a verificare", conclude l'inviato. Fonte notizia e foto: servizio 'Controcorrente'

Lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. Paolo Frosina su Il Fatto Quotidiano il 2 aprile 2022.

“Ecco perché sull’Ucraina il giornalismo sbaglia. E spinge i lettori verso la corsa al riarmo”: lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. “Basta con buoni e cattivi, in guerra i dubbi sono preziosi”. 

Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l'allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: "Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin". L'ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: "Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni". Toni Capuozzo (ex TG5): "Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos'è la guerra". 

“Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male”. Inizia così l’appello pubblico di dieci storici inviati di guerra di grandi testate nazionali (Corriere, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore), che lanciano l’allarme sui rischi di una narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto sui media italiani (qui il testo integrale sul quotidiano online Africa ExPress). “Noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro: siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti”, esordiscono Massimo Alberizzi, Remigio Benni, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Cristiano Laruffa, Alberto Negri, Giovanni Porzio, Claudia Svampa, Vanna Vannuccini e Angela Virdò. “Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata. Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi“, notano i firmatari. “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo”.

"L’opinione pubblica spinta verso la corsa al riarmo” – Gli inviati, come ormai d’obbligo, premettono ciò che è persino superfluo: “Qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: è l’unico responsabile? Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandino perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin“. Mentre, notano, “manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo”. Quegli stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il due per cento del Pil. Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione. L’emergenza guerra – concludono – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre”.

Alberizzi: “Non è più informazione, è propaganda” – Parole di assoluto buonsenso, che tuttavia nel clima attuale rischiano fortemente di essere considerate estremiste. “Dato che la penso così, in giro mi danno dell’amico di Putin”, dice al fattoquotidiano.it Massimo Alberizzi, per oltre vent’anni corrispondente del Corriere dall’Africa. “Ma a me non frega nulla di Putin: sono preoccupato da giornalista, perché questa guerra sta distruggendo il giornalismo. Nel 1993 raccontai la battaglia del pastificio di Mogadiscio, in cui tre militari italiani in missione furono uccisi dalle milizie somale: il giorno dopo sono andato a parlare con quei miliziani e mi sono fatto spiegare perché, cosa volevano ottenere. E il Corriere ha pubblicato quell’intervista. Oggi sarebbe impossibile“. La narrazione del conflitto sui media italiani, sostiene si fonda su “informazioni a senso unico fornite da fonti considerate “autorevoli” a prescindere. L’esempio più lampante è l’attacco russo al teatro di Mariupol, in cui la narrazione non verificata di una carneficina ha colpito allo stomaco l’opinione pubblica e indirizzandola verso un sostegno acritico al riarmo. Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni e nemmeno chi si informa leggendo più quotidiani al giorno riesce a capirci qualcosa”.

Negri: “Fare spettacolo interessa di più che informare” – “Questa guerra è l’occasione per molti giovani giornalisti di farsi conoscere, e alcuni di loro producono materiali davvero straordinari“, premette invece Alberto Negri, trentennale corrispondente del Sole da Medio Oriente, Africa, Asia e Balcani. “Poi ci sono i commentatori seduti sul sofà, che sentenziano su tutto lo scibile umano e non aiutano a capire nulla, ma confondono solo le acque. Quelli mi fanno un po’ pena. D’altronde la maggior parte dei media è molto più interessata a fare spettacolo che a informare”. La vede così anche Toni Capuozzo, iconico volto del Tg5, già vicedirettore e inviato di guerra – tra l’altro – in Somalia, ex Jugoslavia e Afghanistan: “L’influenza della politica da talk show è stata nefasta”, dice al fattoquotidiano.it. “I talk seguono una logica binaria: o sì o no. Le zone grigie, i dubbi, le sfumature annoiano. Nel raccontare le guerre questa logica è deleteria. Se ci facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice: Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita. Ma una volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati fin qui: lì verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe esercitare l’intelligenza”.

Capuozzo: “In guerra i dubbi sono preziosi” – “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori”, argomenta Capuozzo. “Invece è proprio in queste circostanze che i dubbi sono preziosi e l’unanimismo pericolosissimo. Credo che questo modo di trattare il tema derivi innanzitutto dalla non conoscenza di cos’è la guerra: la guerra schizza fango dappertutto e nessuno resta innocente, se non i bambini. E ogni guerra è in sè un crimine, come dimostrano la Bosnia, l’Iraq e l’Afghanistan, rassegne di crimini compiute da tutte le parti”. Certo, ci sono le esigenze mediatiche: “È ovvio che non si può fare un telegiornale soltanto con domande senza risposta. Però c’è un minimo sindacale di onestà dovuta agli spettatori: sapere che in guerra tutti fanno propaganda dalla propria parte, e metterlo in chiaro. In situazioni del genere è difficilissimo attenersi ai fatti, perché i fatti non sono quasi mai univoci. Così ad avere la meglio sono simpatie e interpretazioni ideologiche”. Una tendenza che annulla tutte le sfumature anche nel dibattito politico: “La mia sensazione è che una classe dirigente che sente di avere i mesi contati abbia colto l’occasione di scattare sull’attenti nell’ora fatale, tentando di nascondere la propria inadeguatezza. Sentire la parola “eroismo” in bocca a Draghi è straniante, non c’entra niente con il personaggio”, dice. “Siamo diventati tutti tifosi di una parte o dell’altra, mentre dovremmo essere solo tifosi della pace”.

Lo "scoop del secolo": Clare Hollingworth, instancabile reporter. Davide Bartoccini il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.

Dall'invasione della Polonia alla Guerra del Golfo, passando per le spie di Cambridge e i conflitti arabi-isreaelini: Clare Hollingworth è stata una reporter instancabile, eppure non si riteneva una donna "coraggiosa", solo una persona che voleva fare bene il suo lavoro.

Nelle foto in posa che la ritraggono da ragazza, l’aspetto di una delle tante giovani e ribelli flapper d’ispirazione americana: capello tagliato alla ‘Bob’ e lunghi fili di perle portati su abiti eleganti che richiamano i grandi party degli ‘anni ruggenti’ favoleggiati da Fitzgerlad. Sul passaporto che ha esibito per l’ultima volta all’aeroporto internazionale di Hong Kong, accanto a una foto dove spiccano i suoi enormi occhialini da vista in acetato scuro, la data di nascita che riporta al 10 ottobre 1911, Inghilterra. Clare Hollingworth è stata la più grande reporter di guerra britanniche, centenaria avventuriera e ribelle scelse di raccontare su giornali eccellenti come Daily Telegraph, Guardian e Economist i conflitti che scuotevano e hanno scosso il mondo. Suo lo scoop del secolo scorso dal titolo "Mille carri armati ammassati al confine con la Polonia. Dieci divisioni sono pronte per colpire"; era il 29 agosto 1939 e due giorni dopo sarebbe iniziata la più grande guerra che il mondo avrebbe mai visto.

La fortuna di un reporter spesso si riduce all’essere nel posto giusto al momento giusto, ma lei, che per raccontare la ‘questione sudeta’ nella Germania dell’ascesa nazista si era avvalsa di un vecchio visto che la spacciava per una sciatrice straniera in villeggiatura, era già al suo posto nell’estate nel ’39. Sottrasse l’auto di un ex-funzionario britannico che frequentava, con la grande ‘union jack’ inglese dipinta sopra la targa, e passò la frontiera dopo aver acquistato vino bianco e un’aspirina. Aveva saputo da una sua buona fonte che stava per succedere qualcosa. Si sistemò su un'altura e proprio da lì vide la nube di polvere alzata da una lunga colonna di carri armati dello stesso colore dell’antracite che esibivano croci a bracci diritti - le Balkenkreuz - sui fianchi: erano le Panzer-Division di Hitler, inviate a conquistare la Polonia e riprendersi Danzica. Contattò l’ambasciatore britannico presso Varsavia, ma non le diede conto pensando fosse un’assurda invenzione. Senza perdere un istante corse a dettare al Telegraph l’articolo che avrebbe annunciato a tutto il Regno Unito che Hitler aveva fatto il suo ennesimo irrimediabile passo verso la guerra. Il dado ormai era tratto.

Anche per la Holligworth, figlia di un fabbricante di scarpe, nata a Knighton, sobborgo di Leicester, cresciuta con la passione per la scrittura che coltivata fina dalla giovanissima età, e quella insana della ‘guerra, il dado era tratto. Quando si vivono certe emozioni, non le si può più abbandonare; così a 27 anni decise che quello sarebbe diventato il suo mestiere: avrebbe raccontato la guerra all’uomo comune. "Non ero coraggiosa – raccontava – Non ero ingenua. Ero consapevole dei pericoli, ma pensavo che fosse una cosa buona da fare, essere testimone in prima persona e vedere. Di solito mi fermavo e dormivo in macchina, mi bastava un biscotto e un po’ di vino, e poi si proseguiva. Erano quel genere di giorni in cui basta avere una macchina da scrivere e uno spazzolino da denti".

La guerra si ampliò su più fronti, e lei proseguì a raccontarla. Nel 1940 si stabilì a Bucarest, dove era corrispondente per il Daily Express. Scoperta dalla Guardia di Ferro di Codreanu a scrivere articoli ‘inaccettabili’ per il regime, ne venne ordinato l’arresto. Le leggenda vuole che lei si presento nuda e senza malizia alla porta: "Non potete portarvi via così, non vedete che sono nuda". Ma le cose forse andarono diversamente: fatto sta che riuscì a mettersi a sicuro e a lasciare la Romania ‘in sicurezza’. Si spostò in Grecia dove gli italiani - ma più i tedeschi con l’Operazione Marita - si erano stabiliti nella prosecuzione della conquista dell’Europa. Allora andò in Turchia e di lì Nord Africa. Quando nel 1942 il generale inglese Montgomery - che non voleva donne tra i piedi - non permise alle giornalisti britannici di superare l’Egitto per seguire quel susseguirsi di battaglie che avrebbero visto il loro culmine nella prima, grande disfatta delle armate del Terzo Reich - El Alamein - lei corse ad Algeri, dove era appena sbarcato il contingente americano di Eisenhower. Lì si fece assumere protempore dalla rivista americana Time: solo per continuare a raccontare il conflitto che imperversava sul fronte nordafricano e che avrebbe cambiato le sorti della guerra. Come tenne a precisare alla BBC anni dopo: "Non ho mai usato il mio essere donna per ottenere una storia, qualcosa, a cui non potesse arrivare anche un uomo". Seguì gli alleati per il resto del conflitto; pare si lanciò addirittura con il paracadute sulla Sicilia, per sempre essere dove era la guerra, fino all’armistizio con la Germania.

Finita la seconda guerra mondiale, l’evento storico più importante della sua vita, quello che la consacrò come prima reporter di guerra donna della storia, si stabilì in a Tel Aviv per raccontare la guerra arabo-israeliana, l’indipendenza e la creazione dello Stato d’Israele; era il ’46. Nel ’62 era di nuovo in Africa, in Algeria, a raccontare la guerra d’indipendenza della colonia francese; poi l’Iran, il Vietnam per raccontare una delle guerra più sanguinose dell’epoca contemporanea e dove durante il lungo soggiorno imparò il vietnamita - da aggiungere al croato, all’arabo e al cinese. Negli anni ’70 l’India, di nuovo l’Iran, il Pakistan, la Cina dove stava morendo il grande dittatore comunista Mao. Appassionata di "cappa e spada" e immersa negli ambienti dove pasteggiava e dilagava lo spionaggio, a Beirut smascherò la spia comunista doppiogiochista Kim Philby, nome in codice Stanley: uno dei "cinque di Cambridge" che da talpe del Cremlino terrorizzavano l’MI6, la CIA e tutto il Blocco atlantico. Sarebbe stato il secondo scoop della sua vita, ma la notizia era troppo imbarazzante, troppo delicata, troppo assurda per essere pubblicata. Assurda ma vera. Come sono spesso le notizie che cambiano la storia.

A suo agio nell’abitacolo di una caccia della Royal Air Force parcheggiato su una pista in Yemen, posava con il casco e la tuta da volo, la tuta anti-g in dosso, il giubbotto salvagente e tutto il resto; prima del decollo. Un colpetto alla spalla del pilota ed era pronta a provare l’ennesima emozione che una donna ultrasessantenne come lei difficilmente avrebbe voluto provare - lei che non si sarebbe mai accontentata di una vita da neo-suffragetta londinese, lì era nel suo habitat naturale, lì era il suo diritto d’essere donna che non aveva nulla da invidiare a nessun uomo, semmai il contrario. "Devo ammettere che mi piace essere nel mezzo di una guerra ... non sono coraggiosa, mi piace e basta" affermò durante un’intervista rilasciata in quegli anni. Era una donna instancabile, appassionata, sempre china sul suo taccuino, lì in un angolo, a buttare giù l’inizio o la fine del prossimo ‘pezzo’ raccontavano i colleghi. Si sposò due volte, e non strinse mai con altri ‘corrispondenti di guerra’ celebri, tra che con il suo secondo marito, che era corrispondente in Medio Oriente per il Time. Aveva delle abitudini peculiari e gli aneddoti su di lei si sono sempre sprecati: aveva imparato a pilotare gli aerei, alla bisogna; beveva birra anche a colazione; dormiva sempre con le scarpe, nel caso fosse dovuta uscire in gran fretta; fino a pochi anni prima della sua morte - che la coglierà a 105 anni - aveva sempre pronto il passaporto sul comodino e uno zaino fatto, con l’essenziale, nel caso fosse stata inviata da qualche parte. Anche se ormai era in pensione. In Asia. Finalmente tranquilla; con una vita piena di ricordi e traguardi straordinari alle spalle.

Quando nel 1990 Saddam Hussein invase il Kuwait a caccia dell’oro nero e di uno sbocco sul mare, con il conseguente scoppio della prima Guerra del Golfo, lei aveva 79 anni. Si propose immediatamente al Telegraph come inviata "speciale". Quella signora attempata, dai pesanti occhiali da vista che inquadravano uno sguardo gentile ma risoluto, si addestrò per settimane dormendo sul pavimento per 5 giorni di seguito - per vedere se ancora era capace: e lo era. Le risposero di no, e lei ci rimase male come una bambina; lei che quando si rivolgeva ai direttori di cui era al soldo, domandava sempre "Dov’è il posto più pericoloso dove andare? Perché è lì che si trovano buone storie. Nei posti più pericolosi del mondo".

Monica Ricci Sargentini per corriere.it il 22 marzo 2022.

«I russi ci stanno dando la caccia, hanno una lista di nomi, compresi i nostri e si stavano avvicinando. Eravamo gli unici giornalisti internazionali rimasti nella città ucraina e da più di due settimane ne documentavamo l’assedio da parte delle truppe russe». 

Inizia così il racconto drammatico del giornalista dell’Associated Press Mstylav Chernov che, insieme al fotografo Evgeniy Maloletka, è stato l’unico a poter documentare quello che è successo nella città che affaccia sul mar d’Azov, la porta del Mar Nero, nel mirino dei militari russi sin dall’inizio della guerra perché la sua conquista permetterebbe il ricongiungimento via terra della Crimea ai territori occupati del Donbass.

Sono stati loro a scattare le foto delle donne incinte portate via in barella dall’ospedale per la maternità colpito il 9 marzo, a farci vedere le fosse comuni dove le vittime dell’aggressione russa venivano gettate per toglierle dalle strade, a mostrarci con video e immagini una guerra che la propaganda del Cremlino vorrebbe nascondere. 

Due testimoni troppo scomodi per essere tollerati. «Stavamo documentando quello che succedeva all’interno dell’ospedale ma alcuni uomini armati hanno iniziato a perlustrare i corridoi — racconta Chernov —. I chirurghi ci hanno dato dei camici bianchi da indossare per passare inosservati.

Improvvisamente all’alba arrivano una dozzina di soldati: “Dove sono i giornalisti per la miseria?”. Guardai le fasce intorno alle braccia, blu per l’Ucraina, e cercai di capire quante possibilità c’erano che fossero dei russi travestiti. Poi mi sono fatto avanti. “Siamo qui per farti uscire” hanno assicurato loro». 

Segue una fuga rocambolesca: «Siamo corsi in strada, abbandonando i medici che ci avevano ospitato, le donne incinte che erano state ferite e le persone che dormivano nei corridoi perché non avevano altro posto dove andare — è il racconto di Chernov —. Mi sentivo malissimo a lasciarli tutti indietro. Nove minuti, forse dieci, un’eternità attraverso strade e condomini bombardati.

Quando i proiettili cadevano nelle vicinanze, ci buttavamo a terra. Il tempo veniva misurato dai colpi, i nostri corpi tesi e il respiro trattenuto. Un’onda d’urto dopo l’altra mi ha scosso il petto e le mie mani si sono raffreddate. Raggiungemmo un ingresso e delle auto blindate ci portarono in un seminterrato buio.

Solo allora abbiamo appreso da un poliziotto perché gli ucraini avevano rischiato la vita dei loro soldati per portarci fuori dall’ospedale. “Se vi beccano, vi faranno dire che tutto ciò che avete filmato è una bugia”, ci spiegò. “Tutti i vostri sforzi e tutto ciò che avete fatto a Mariupol saranno vani”. Così gli stessi che ci avevano scongiurato di mostrare al mondo la loro città morente ora ci chiedevano di lasciarla. Era il 15 marzo. Non avevamo idea se ne saremmo usciti vivi».

L’intuizione

Chernov e Maloletka arrivano a Mariupol il 24 febbraio, un’ora prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Sanno che la città sarà un obiettivo strategico per Putin e decidono di andarci ben sapendo quali sono i rischi. 

L’attacco è da subito brutale, le forze russe bombardano senza pietà, la gente fugge e gli abitanti rimasti sembrano vicini alla resa. «All’inizio non riuscivo a capire perché Mariupol stesse cadendo così velocemente — spiega il giornalista — . Ora so che era per la mancanza di comunicazione.

Senza immagini di edifici demoliti e bambini morenti, le forze russe potevano fare quello che volevano. Ecco perché abbiamo corso dei grossi rischi per poter inviare al mondo ciò che abbiamo visto, ed è questo che ha fatto arrabbiare la Russia tanto da darci la caccia. Non ho mai, mai sentito che rompere il silenzio fosse così importante». 

I primi morti

L’inferno si scatena in un attimo e gli unici giornalisti rimasti sul posto sono proprio Chernov e Maloletka. In città vengono interrotte le forniture di elettricità, gas e acquai. Secondo le autorità di Mariupol i morti finora sono stati 2.400.

«Il 27 febbraio, abbiamo visto un dottore cercare di salvare una bambina colpita da una scheggia — prosegue il giornalista — È morta. È morto un altro bambino, poi un terzo. Le ambulanze hanno smesso di raccogliere i feriti perché nessuno poteva chiamarle visto che non c’era rete e poi era pericoloso guidare nelle strade bombardate.

I medici ci hanno implorato di filmare le famiglie che portavano dentro morti e feriti e di usare il loro generatore per le nostre telecamere. “Nessuno sa cosa sta succedendo nella nostra città” ci hanno detto. I bombardamenti hanno colpito l’ospedale e le case intorno. A volte correvamo fuori per filmare una casa in fiamme e poi tornavamo indietro tra le esplosioni.

C’era ancora un posto in città per avere una connessione stabile, fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel’nykiv Avenue. Una volta al giorno, andavamo lì e ci accovacciavamo sotto le scale per caricare foto e video da inviare al mondo. Le scale non avrebbero fatto molto per proteggerci, ma sembrava più sicuro che stare all’aperto. Il segnale è scomparso il 3 marzo».

Abbiamo provato a mandare i nostri dalle finestre del settimo piano dell’ospedale. E da lì abbiamo visto disfarsi gli ultimi brandelli della solida città borghese di Mariupol. Per diversi giorni, l’unico collegamento che abbiamo avuto con il mondo esterno è stato tramite un telefono satellitare.

E l’unico punto in cui quel telefono funzionava era all’aperto, proprio accanto a un cratere creato da una bomba. Mi sedevo, mi rendevo piccolo e cercavo di trovare la connessione. Tutti mi chiedevano, per favore dicci quando la guerra sarà finita. Non avevo risposta. Ogni singolo giorno circolava la voce che l’esercito ucraino sarebbe venuto a rompere l’assedio. Ma non è venuto nessuno».

L’ospedale bombardato

«A questo punto avevo visto così tanti morti in ospedale, cadaveri nelle strade, dozzine di corpi spinti in una fossa comune — continua Chernov —. Il 9 marzo, due attacchi aerei hanno distrutto la plastica attaccata ai finestrini del nostro furgone. Ho visto la palla di fuoco solo un momento prima che il dolore perforasse il mio orecchio interno, la mia pelle, il mio viso.

Abbiamo visto salire il fumo da un ospedale dedicato alla maternità. Quando siamo arrivati, i soccorritori stavano ancora tirando fuori dalle rovine donne incinte insanguinate. Le nostre batterie erano quasi scariche e non avevamo alcun collegamento per inviare le immagini.

Tra pochi minuti sarebbe scattato il coprifuoco. Un agente di polizia ci ha sentito discutere su come diffondere la notizia dell’attentato all’ospedale. “Questo cambierà il corso della guerra”, ha detto. Ci ha portato in un posto dove c’era corrente e una connessione a Internet.

Avevamo già dato conto di così tante persone morte, anche bambini. Non capivo perché il poliziotto pensasse che queste morti potessero cambiare qualcosa. Mi sbagliavo. Al buio, abbiamo inviato le immagini allineando tre telefoni cellulari con il file video diviso in tre parti per fare più in fretta.

Ci sono volute ore, ben oltre il coprifuoco. I bombardamenti sono continuati, ma i poliziotti incaricati di scortarci attraverso la città hanno aspettato pazientemente. Poi il nostro legame con il mondo esterno è stato nuovamente interrotto.

Siamo tornati in un seminterrato vuoto di un hotel con un acquario ora pieno di pesci rossi morti. Nel nostro isolamento, non sapevamo nulla di una crescente campagna di disinformazione russa per screditare il nostro lavoro.

L’ambasciata russa a Londra ha pubblicato due tweet definendo false le foto di Ap e affermando che una donna incinta era un’attrice. L’ambasciatore russo ha mostrato copie delle foto durante una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e ha ripetuto le bugie sull’attacco all’ospedale per la maternità.

Nel frattempo, a Mariupol, tantissime persone ci chiedevano le ultime notizie sulla guerra. Venivano da me e mi dicevano, per favore filmami, così la mia famiglia fuori città saprà che sono vivo. In quel momento, a Mariupol non c’era più nessun segnale radiofonico o televisivo ucraino. 

L’unica radio che si poteva ascoltare mandava in onda le bugie russe: che gli ucraini tenevano in ostaggio Mariupol, sparavano agli edifici e stavano mettendo a punto armi chimiche.

La propaganda era così forte che alcune persone con cui abbiamo parlato ci credevano nonostante la verità fosse davanti ai loro occhi. Il messaggio veniva ripetuto continuamente, in stile sovietico: Mariupol è circondata. Consegna le tue armi». 

In salvo

Il reportage di Chernov si conclude così: «Il 15 marzo circa 30.000 persone sono uscite da Mariupol, così tante che i soldati russi non hanno avuto il tempo di guardare da vicino le auto con i finestrini ricoperti da pezzi di plastica che sbattevano. La gente era nervosa. Ogni minuto c’era un aereo che passava o lanciava un attacco. La terra tremava.

Siamo passati attraverso 15 posti di blocco russi. A ciascuno, la madre che guidava la macchina su cui eravamo pregava furiosamente, a voce talmente alta da farsi sentire. Mentre li attraversavamo - il terzo, il decimo, il 15esimo, tutti gestiti da soldati dotati armi pesanti - le mie speranze che Mariupol sarebbe sopravvissuta svanivano. Ho capito che solo per raggiungere la città, l’esercito ucraino avrebbe dovuto passare attraverso questo. E non sarebbe successo. 

Al tramonto, arrivammo a un ponte distrutto dagli ucraini per fermare l’avanzata russa. Un convoglio della Croce Rossa di circa 20 auto era già bloccato lì. Abbiamo svoltato verso i campi e le stradine secondarie.

Le guardie al posto di blocco n. 15 parlavano russo con l’accento rude del Caucaso. Hanno ordinato a tutto il convoglio di spegnere i fari per nascondere le armi e le attrezzature parcheggiate sul ciglio della strada. 

Riuscivo a malapena a distinguere la Z bianca dipinta sui veicoli. Mentre ci fermavamo al sedicesimo posto di blocco, abbiamo sentito delle voci. Voci ucraine. Ho provato un enorme sollievo. La madre alla guida dell’auto è scoppiata a piangere. Eravamo fuori. Eravamo gli ultimi giornalisti a Mariupol. Ora non ce ne sono».

Una questione di decenza nazionale. Guerra e pandemia hanno messo a nudo il grosso guaio dell’informazione italiana. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

Quella che si sta aprendo è una discussione delicatissima sul confine tra libertà e responsabilità. Ma la radice del problema sta in quella cultura populista e anti-istituzionale in cui siamo immersi dalla fine della Prima Repubblica.

La guerra in Ucraina sembra purtroppo destinata a crescere d’intensità, almeno nell’immediato, e così le tensioni internazionali e la minaccia nei confronti dei Paesi occidentali, Italia compresa. Allo stesso tempo, come se non bastasse, organizzazioni internazionali ed esperti continuano a metterci in guardia dalla probabilità di nuove varianti e conseguenti nuove ondate del Covid.

Se appena tre anni fa ci avessero detto che un giorno avremmo preso in considerazione il rischio di ritrovarci contemporaneamente nel pieno di una pandemia e di una guerra mondiale combattuta con armi atomiche, anche solo come ipotesi di scuola, ci saremmo messi a ridere. Oggi abbiamo mille ragioni per pensare che un simile scenario resti comunque inverosimile, ma non viene da ridere a nessuno.

Tutto è cambiato e inevitabilmente cambiano anche i termini di antiche discussioni intorno al ruolo e alla responsabilità dei mezzi di informazione, ora che al centro della discussione stanno minacce di tale portata. Sia la guerra contro il Covid sia la guerra in Ucraina si combattono infatti anche su quel terreno. È dunque naturale che in tanti chiedano conto a direttori di giornale, conduttori televisivi, intellettuali e influencer non solo di quello che dicono e che fanno, ma anche delle idee e delle persone cui scelgono di dare voce. Pensare di cavarsela dicendo che c’è la libertà di stampa e bisogna dare la parola a tutti è un modo di eludere la questione.

Se davvero tutti hanno diritto a esprimersi in tv e sulla stampa, allora non ci resta che prendere righello e cronometro, fare le divisioni e assegnare gli spazi, per ripartire equamente tempi televisivi e pagine di giornale tra sessanta milioni di italiani. Ma se così non è, se ammettiamo cioè che a monte viene sempre fatta una scelta, dobbiamo pure accettare che se ne discutano i criteri.

Rispondere a qualsiasi critica gridando alla censura è un modo troppo facile di mettersi al di sopra di ogni obiezione e di non assumersi la responsabilità delle proprie scelte. È più o meno l’equivalente di quello che fanno i magistrati quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale e gridano all’attacco all’autonomia della magistratura come risposta automatica a qualsiasi contestazione. Non per niente giornalisti e magistrati si spalleggiano da trent’anni per difendere esattamente questo equilibrio.

Il proliferare sui mezzi di informazione italiani di no vax e ni vax ieri, e oggi di grotteschi propagandisti di regime, per di più di un regime a noi ostile, non è dunque frutto di un complotto: si tratta del sistema di incentivi e disincentivi che si è naturalmente sviluppato a partire da quelle premesse.

Non abbiamo insomma troppo pluralismo, semmai ne abbiamo troppo poco. Non essendoci vere alternative a quel genere di narrazione, semplicemente non esistono disincentivi alla rincorsa verso il basso.

Salvo minuscole eccezioni, le uniche differenze sono differenze di grado. Fino a ieri, dal punto di vista politico-culturale, il panorama dell’informazione italiana era insomma straordinariamente uniforme. La pandemia prima e la guerra poi, con la minaccia radicale che comportano per tutti noi, hanno messo però in crisi questo equilibrio. Seguire la deriva populista fino alla propaganda no vax e filoputiniana più estrema è un po’ troppo persino per un mondo che fino a ieri ne ha legittimato praticamente tutte le parole d’ordine e tutti i propalatori.

Quando nel corso della pandemia alcuni giornalisti e conduttori televisivi hanno dichiarato di non avere alcuna intenzione di dare spazio alle tesi no vax hanno fatto una scelta sacrosanta, che però andava contro tutto quello che l’intera categoria ha sempre sostenuto.

La stessa questione si ripropone oggi dinanzi ad alcuni personaggi particolarmente grotteschi, capaci di negare anche fatti accertati e documentati, pur di sostenere la propaganda del governo di un altro Paese: un governo che ha bisogno di un simile sostegno per poter continuare impunemente la sua politica, che comporta lo sterminio di migliaia di innocenti in Ucraina e che minaccia apertamente anche noi.

Quella che si sta aprendo è dunque una discussione difficilissima e delicatissima, come qualsiasi discussione sul confine tra libertà e responsabilità. Una discussione in cui qualunque posizione unilaterale sarebbe sbagliata, perché abbiamo bisogno di entrambe le cose: libertà e responsabilità. Ma è anche una discussione necessaria, e tanto più necessaria se non si fermerà a ciò che sarebbe giusto fare oggi, ma andrà alle radici del problema, che sta in quella cultura populista e anti-istituzionale in cui siamo immersi dalla fine della Prima Repubblica.

Dagonews il 7 marzo 2022.

Questa mattina nel suo spazio su Virgin Radio, uno dei più seguiti nell'emittente, Antonello Piroso ha finito il suo intervento sull'invasione russa dell'Ucraina imprecando e scoppiando a piangere. Molti i messaggi arrivati in redazione durante e dopo le sue parole. Eccone la trascrizione. "Immagino abbiate visto l'immagine, o comunque sentito la notizia, del Cristo Salvatore della cattedrale armena di Leopoli portato in salvo in un bunker, insieme ad altre opere d'arte messe in sicurezza per tutelare a futura memoria il patrimonio artistico della città dalla furia distruttrice dell'invasione russa. 

Ma accanto ad essa c'è l'immagine, ancora più devastante, della morte dei civili ucraini. Più di un giornale ha oggi in prima pagina la foto di questa famiglia, padre madre due figli, sterminata dalle schegge di un colpo di mortaio esploso dai russi su un ponte a Irpin, una località nei pressi di Kiev.

Tra le tante ricostruzioni mi sono affidato a quella di Gianluca Panella su La Stampa, un fotoreporter che era lì, e ha potuto testimoniare questo scempio con i suoi scatti.E racconta di aver raggiunto quel luogo di morte non attraverso la strada, su cui era passato il giorno prima in auto, ma attraverso la boscaglia. E perchè? Lo spiega lui stesso: "Un mortaio i cui colpi arrivano su una superficie dura come l'asfalto è ancora più pericoloso, crea danni maggiori perchè le schegge arrivano più lontano, fino al triplo della distanza alla quale arriverebbero se i colpi atterrassero su un terreno morbido".

Una precauzione che quella famiglia in fuga non immaginava di dover adottare, e quindi è scappata attraverso il ponte e lì è stata abbattuta dalle schegge dell'esplosione. Accanto ai corpi, gli zainetti, un trolley e perfino una sportina in cui, forse, c'era addirittura un animale domestico, un gatto, un cane, vai a sapere. Non sono gli unici scatti dall'Ucraina che levano il fiato. C'è anche quella di una famiglia, madre padre bambino, che arriva all'ospedale di Mariupol, l'ingresso al pronto soccorso con la madre dietro urlante, il padre stravolto che stringe un fagottino, il corpo di suo figlio Kirill di 18 mesi avvolto in una coperta già insanguinata, la mano penzolante di un bambino che sta morendo.  

Sullo sfondo, se vedrete l'immagine, c'è un uomo dei soccorsi vestito di rosso che assiste all'arrivo di questa famiglia tenendo le mani in tasca, con lo sguardo che appare quasi indifferente, quando probabilmente è più che altro rassegnato. I medici fanno del loro meglio, ma non c'è niente da fare, il bambino muore anche perchè in quell'ospedale le condizioni sono quelle che sono, manca perfino l'energia elettrica. Ecco, questa è la guerra per i civili, al di là dei dibattiti sugli equilibri geopolitici e sulla realpolitik. 

E' sempre così, per tutti i civili di un qualunque conflitto, non solo di quello odierno in Ucraina, penso alla Siria, ma penso pure al Ruanda e ai Balcani durante la guerra nella ex Jugoslavia, fino a quelli che sono probabilmente in corso anche adesso, e che sono considerati magari minori, in qualche parte del mondo che neppure sappiamo. Ma quello che fa più male è pensare a coloro che decidono, i potenti della terra, un qualunque potente, in questo caso Putin, al fatto che possa andare a dormire la sera come se niente fosse, senza provare un minimo, un minimo, cazzo!, un minimo di umanità". 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 marzo 2022.

Stuart Ramsay, corrispondente di Sky News inviato in Ucraina, è finito in mezzo a un’imboscata mentre documentava la guerra. Sul Daily Mail, ha raccontato la sua esperienza, da cui per fortuna è uscito vivo. Era in auto. 

«Quando la prima raffica di colpi ha perforato il nostro parabrezza, abbiamo pensato di essere incappati in un posto di blocco presidiato da coscritti ucraini nervosi. Ci siamo accasciati sui nostri posti e abbiamo gridato in inglese: “Media . . . Giornalisti!” Il nostro interprete ha gridato lo stesso in ucraino e russo. Ma è stato chiaro quasi subito che non si trattava di un pasticcio, ma di un'imboscata professionale. 

Avevano AK-47 e una copertura così buona che non li abbiamo mai visti, forse erano a 100 metri di distanza. Un'ondata dopo l'altra, i proiettili si sono schiantati contro l'auto mentre volavano intorno a noi frammenti del parabrezza, pezzi del volante e frammenti del cruscotto.

Il rumore frizzante e scoppiettante era spaventoso. Era come essere intrappolati in una lavatrice, tanto era il senso di disorientamento mentre l'auto oscillava sotto l'assalto. 

Eravamo in cinque in un'auto a noleggio, una berlina Hyundai standard da palude, in missione a circa 30 chilometri a ovest di Kiev lo scorso lunedì. Ero sul sedile posteriore sinistro, con il mio produttore sudafricano Dominique van Heerden al centro, accanto a me. È piccola di statura, ma tosta e simpatica, ed è la miglior produttrice con cui abbia mai lavorato. 

I ragazzi sui sedili anteriori erano i più vulnerabili in quel momento. Il cameraman Richie Mockler si è rannicchiato nel vano piedi del passeggero anteriore, cercando di farsi piccolo. Il produttore Martin Vowles, che stava guidando, sapeva che doveva uscire: i conducenti di solito muoiono per primi in un'imboscata.

Martin e il nostro traduttore assunto in loco Andrii, seduti con noi sul sedile posteriore, si sono precipitati verso il lato dell'autostrada e sono riusciti a scivolare in relativa sicurezza lungo un ripido pendio. 

Sono finito in diverse imboscate nei miei 25 anni di carriera come corrispondente di guerra. Di solito, ti sparano alcuni colpi, la maggior parte dei quali ti manca. Questo era diverso, un attacco assolutamente implacabile e concentrato. 

Penso che ci abbiano sparato un minimo di 500 colpi, forse fino a 1.000. E pochissimi proiettili hanno mancato. Dominique ha stretto la sua minuscola corporatura attraverso una fessura della porta ed è scivolata a terra, muovendosi a pancia in giù verso la barriera dell'autostrada che fiancheggiava la strada prima di tuffarsi lungo l'argine.

Ricordo di aver scrutato il cielo luminoso mentre il tetto dell'auto veniva tirato indietro come una scatola di sardine dallo sbarramento implacabile. Mi sono schiacciato di nuovo sul sedile mentre guardavo con uno strano distacco l'auto che veniva fatta a pezzi tutt'intorno a me. 

L'adrenalina è una droga straordinaria. Ricordo di essermi sentito quasi assurdamente calmo mentre riflettevo su quella che presumevo fosse la mia morte imminente. Ricordo anche di essermi chiesto quanto sarebbe stato davvero doloroso quando sarebbe arrivato il momento. 

Non sono veramente religioso, ma mi sono messo a pregare e a parlare con mia moglie e ai nostri tre figli. Ho mormorato i miei saluti e ho detto che mi dispiaceva per tutto il dolore che il mio lavoro aveva portato loro. 

Poi mi hanno sparato. Indossavamo tutti un'armatura, ma sono stato colpito sotto la tuta protettiva, nella parte bassa della schiena.

È strano come funziona la mente in una situazione del genere. La mia prima risposta è stata di assurda sfida verso i nostri aggressori invisibili: “Vaffanculo, non mi ha nemmeno fatto male”, ho detto sottovoce. Era vero, mi è sembrato più di essere preso a pugni che colpito da un proiettile. L'adrenalina e lo shock stavano proteggendo il mio cervello dal registrare che, in realtà, ero stato gravemente ferito. La ferita d'ingresso era nella parte superiore della gamba e l'uscita - un buco molto più grande - era nella parte bassa della schiena. Il proiettile è uscito molto vicino a un rene ma, per fortuna, ha mancato tutti gli organi vitali. 

Il fuoco non si è mai fermato, ma io e Richie sapevamo che dovevamo uscire.

Per qualche motivo, dopo aver iniziato a uscire dall'auto con facilità, mi sono appoggiato all'indietro con calma per recuperare il mio telefono e l'accredito stampa dalla portiera del passeggero come se avessi appena parcheggiato al supermercato locale. È strano come funziona la tua mente sotto stress estremo. 

Non ho memoria di questo, ma Richie ricorda che ho corso fino al bordo del terrapieno prima di perdere l'equilibrio e cadere sul fondo come un sacco di patate. Lui intanto era rimasto incastrato nel vano piedi del passeggero, e riusciva a proteggersi solo grazie al blocco motore e al suo giubbotto antiproiettile. 

Gli abbiamo urlato di unirsi a noi, abbiamo ottenuto solo silenzio in risposta. Temevamo il peggio. Ma alla fine è arrivato, è saltato giù dall'argine verso di noi, mentre il fuoco aumentava di intensità. I nostri aggressori stavano cercando di ucciderci mentre fuggivamo per trovare un riparo ed eravamo disarmati.

La nostra auto a noleggio era completamente distrutta, con grossi pezzi di carrozzeria che giacevano sulla strada. Mettiamola in questo modo: Sky non riceverà indietro il deposito. 

Richie sarebbe senza dubbio morto senza l'armatura militare che indossavamo tutti. Almeno due proiettili sono rimbalzati sulla sua armatura con tale forza che, anche se nulla è effettivamente penetrato nella sua pelle, ha riportato ferite dolorose alla schiena. 

Anche se eravamo tutti miracolosamente scappati dall'auto, eravamo ancora in pericolo. Usando un muro di cemento come copertura, ci siamo diretti verso un'unità di fabbrica con un cancello aperto. Uno per uno, siamo corsi all'interno, cercando un posto dove nasconderci perché eravamo convinti che i tiratori sarebbero venuti a cercarci nel tentativo di finirci. 

Poi una porta si è aperta e tre custodi ci hanno fatto cenno di entrare nel loro laboratorio. Ci sentivamo un po' più al sicuro adesso, ma sapevamo di essere ancora in una posizione molto precaria. 

Quando Martin e Dominique hanno iniziato a contattare disperatamente i colleghi Sky per telefono per organizzare il nostro salvataggio, è scoppiato un feroce scontro a fuoco sull'autostrada sopra, dove eravamo caduti in un'imboscata. Sapevamo che da un momento all'altro i nostri aggressori avrebbero potuto sfondare le porte del garage per finirci.

Soffrivo, ma per lo più ero sollevato dal fatto di poter camminare, nonostante avessi preso una pallottola alla schiena. Ma non avevamo potuto prendere il nostro kit medico dall'auto, quindi non c'erano medicazioni o antisettico. 

L'adrenalina mi stava ancora proteggendo dai pieni effetti della ferita, ma ero abbastanza vigile da preoccuparmi delle mie condizioni: sapevo che sarebbero rapidamente peggiorate se non avessi pulito e medicato la ferita. 

Il nostro team di sicurezza di Sky News ci ha detto era troppo pericoloso tentare un salvataggio ora che era diventato buio e ci siamo rassegnati a passare almeno la notte in officina. 

Ho cominciato a sonnecchiare su un divano e ricordo vagamente di aver percepito una luce lampeggiante e il suono di stivali pesanti. Potrebbe essere questa, mi chiedevo, la fine? Abbiamo tutti pensato così, finché non abbiamo sentito queste parole semplici e adorabili: «Polizia ucraina, venite presto».

Un'unità di polizia locale aveva sfidato gli avvertimenti ed era venuta a salvarci. Mi hanno portato all'ospedale da campo di fronte alla stazione di polizia dove un medico e un'infermiera hanno curato le mie ferite con antisettico e l'hanno fasciato come meglio potevano. Sorprendentemente, il capo della polizia locale ha insistito per ospitarci a casa sua, dove i suoi uomini potevano proteggerci. 

Anche se non abbiamo mai visto i tiratori, in seguito siamo stati informati che erano russi, che operavano come una squadra d'assalto non ufficiale. In effetti, erano probabilmente parte di un'unità di ricognizione russa ed erano lì a riparare un ponte abbattuto dagli ucraini per fermare l’avanzata russa su Kiev.

“Ci stanno bombardando. Stiamo scappando”. Il drammatico reportage di Biloslavo da Kiev. Romana Fabiani lunedì 7 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

“Ci stanno bombardando. Sono razzi russi. Stiamo scappando”. La voce concitata, spezzata dal rumore delle due granate scoppiate a meno di 40 metri. Sono le immagini drammatiche dell’ultimo reportage alla periferia di Kiev di Fausto Biloslavo. Inviato di guerra del Giornale e di Mediaset, cresciuto insieme a Gian Micalessin all’agenzia Albatross di Almerigo Grilz, ucciso in un attentato a Mogadiscio. 

Biloslavo da Kiev: ci stanno bombardando addosso

Al primo colpo di mortaio – racconta il giornalista raggiunto in serata in collegamento con Zona bianca su Rete 4 –  civili nel panico che scappano da tutte le parti. Militari ucraini che cercano di aiutare i più deboli, donne e bambini in fila verso i pullman gialli per raggiungere la stazione dei treni. “Il primo sibilo – racconta Biloslavo – provoca una scossa elettrica lungo la schiena, che serve a reagire subito. Faccio appena in tempo a buttarmi nel canale in mezzo al fogliame, che la granata o il razzo esplode fragoroso in mezzo alla foresta sulla sinistra. Non più di 40 metri. Ma gli alberi attutiscono la sventagliata di schegge. I civili in fila che sperano nella salvezza vengono presi dal panico. Cominciano a correre anziché appiattirsi sul terreno”.

Due razzi a meno di 40 metri dai civili

“Il secondo colpo arriva proprio davanti a noi, a 30 metri sul posto di blocco dell’esercito ucraino all’ingresso di Irpin. Il sobborgo della capitale caduto nelle mani dei russi. Un secondo sibilo, prima dell’impatto, mi fa appiattire ancora di più a terra”. Biloslavo intravede l’esplosione, 30 metri più in là, che alza una colonna di fumo con un fragore che spacca le orecchie. “È il panico totale: i soldati ucraini si ritirano di corsa e i civili sembrano impazziti. Un militare viene colpito alla spalla, un ucraino in fuga a una gamba. Ma le bombe russe uccidono otto civili, più avanti, compresi due bambini secondo Kiev”.

Civili nel panico che scappano invece di appiattirsi a terra

Doveva essere un corridoio umanitario. Doveva. Attraverso il quale i soldati ucraini avrebbero dovuto far uscire i civili in fuga da Kiev. Bombardata dai colpi di artiglieria fin dalla mattina presto. “Ormai i russi sono a 5 chilometri dalla capitale. Dalle prime case della periferia di Kiev”. È l’ultima notizia data da Biloslavo. Coraggioso di reporter di guerra, una vita in trincea nei principali scenari di conflitto nel mondo. A riprendere la guerra dal vivo, in mezzo alle granate. Non nelle reception degli hotel come tanti blasonati colleghi.

Dall’Agenzia Albatros una vita in trincea

Triestino, all’inizio egli anni ’80 Biloslavo sceglie la strada del giornalismo, dopo avere militato a 17 anni, “quando avevo i pantaloni corti” nel Fronte della Gioventù di Trieste.  Nel 1982 segue la guerra del Libano come fotografo freelance. Nel 1987 viene arrestato in Afghanistan dalle truppe governative filo-sovietiche. Dopo un lungo reportage con i mujaheddin del comandante Massoud. Rimane in carcere per sette mesi, riuscendo a rientrare in Italia solo grazie all’intervento diretto del presidente Cossiga.

Inviato in Jugoslavia, Iraq, Libia

Agli inizi degli anni novanta è inviato in Jugoslavia, Croazia, Bosnia e Kosovo. Prima di affrontare l’assedio di Sarajevo conosce Cinzia, triestina, che poi diventerà sua moglie. È tra i primi giornalisti italiani a entrare a Kabul liberata dai talebani. Nel 2003 segue l’attacco all’Iraq fino alla caduta di Saddam Hussein. Nel 2011 è l’ultimo giornalista italiano a intervistare il colonnello Gheddafi. Biloslavo si occupa a lungo  anche del massacro delle foibe e del capitolo insabbiato dell’esodo dei giuliano-dalmati minacciati dalle truppe.

Andrea Nicastro per video.corriere.it il 3 marzo 2022.

Aggressione o equivoco, di sicuro un risveglio brusco per due troupe della Rai oggi a Dnipro, nel centro dell’Ucraina. Quattro uomini, tra agenti di polizia in divisa blu e soldati in mimetica, sono entrati nelle loro stanze d’albergo. L’inviata Stefania Battistini era in collegamento in diretta con Uno Mattina. 

Pistole e kalashnikov piantati in faccia. Urla in russo, spintoni. I due operatori, Simone Traini e Mauro Folio, obbligati a sdraiarsi a terra con la canna del fucile a due centimetri dalla nuca, la giornalista lasciata in ginocchio. Stesso trattamento per i colleghi della stanza accanto, Cristiano Tinazzi e Andrea Carrubba, trascinati con gli altri ancora scalzi. Nessuno degli italiani riusciva a comunicare in russo e per dieci minuti hanno solo sentito minacce urlate. Gli sono stati tolti i telefoni e impedito di chiamare.

I giornalisti Rai sono riusciti a mantenersi calmi fino a che dopo lunghissimi trenta minuti sotto la minaccia delle armi, è arrivato un ufficiale che parlava un poco di inglese. La domanda era perché siete in Ucraina. L’intervento delle forze di sicurezza potrebbe essere scattato per la segnalazione di qualcuno, magari dallo stesso albergo, sull’attività dei cinque stranieri, sempre fuori con telecamere e automobili sino al momento del coprifuoco. 

E’ la stessa Battistini ad inquadrare la vicenda nel clima di guerra che vive il Paese. «Capisco l’estrema tensione, la paura per agenti russi infiltrati, il rischio che qualcuno organizzi attentati alle spalle della linea del fronte. Qui c’è guerra, metà della popolazione combatte, l’altra metà cerca di aiutare, come ha fatto chi, in buona fede, ha pensato di denunciarci. Alla fine la cosa che conta è che si sia tutto chiarito. Hanno fotografato i documenti e restituito le attrezzature. Si sono anche scusati. Possiamo continuare a lavorare».

La paura in diretta. L’inviata Rai Battistini fermata in diretta dai militari: “Kalashnikov puntato a 2 centimetri dalla testa”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

Sono stati momenti di grande tensione quelli vissuti dalla giornalista Rai Stefania Battistini e i due operatori di ripresa Simone Traini e Mauro Folio, inviati a Dnipro, in Ucraina, per seguire il conflitto in corso scatenato dall’invasione delle truppe russe nel Paese.

Battistini e la sua troupe erano a Zaporizhzhia per un collegamento con la trasmissione di Rai1 ‘Uno Mattina’ quando il collegamento, alle 9:12 di stamattina, viene bruscamente interrotto e dallo studio della tv pubblica si vede chiaramente la giornalista alzare le mani di fronte a dei militari.

La giornalista era sul balcone della stanza d’albergo quando agenti delle forze speciali ucraine sono entrate in stanza e li hanno raggiunti, intimando loro di rientrare. “Mentre eravamo in diretta, sono arrivati quattro agenti delle forze speciali”, ha raccontato Battistini ai colleghi di Rainews. “Hanno spalancato la porta urlando coi fucili spianati. Hanno buttato a terra i due operatori di ripresa Simone Traini e Mauro Folio, con il ginocchio premuto sulla loro schiena e il kalashnikov puntato a 2 cm dalla loro testa. Erano evidentemente molto nervosi, quindi poteva accadere qualunque cosa“.

La situazione si è risolta soltanto dopo circa un quarto d’ora, quando nella stanza dell’hotel è giunto il capo della polizia e”siamo riusciti a spiegare chi eravamo e cosa stavamo facendo“.

Un episodio che, spiega la giornalista, “racconta il livello di tensione che sta vivendo il popolo ucraino, per cui qualsiasi attività considerata fuori dall’ordinario viene considerata un’attività nemica, una possibile minaccia. Quindi qualunque giornalista straniero, soprattutto chi si ferma diversi giorni, è considerato un possibile pericolo, un possibile sabotatore, una possibile spia”.

La situazione poi “è tornata alla normalità, devo dire che alla fine si sono anche scusati, hanno detto ‘sorrry’“, ha spiegato la giornalista.

Sentita dall’AdnKronos, Battistini ha anche spiegato che i militari ucraini sono arrivati all’hotel di Zaporizhzhia probabilmente a seguito di una segnalazione fatta dalla direttrice dell’albergo in cui lei e la sua troupe alloggiavano e organizzavano i collegamenti in diretta con i programmi Rai. “Probabilmente per segnalare un’attività secondo lei sospetta. Qui c’è un livello di paranoia totale, ogni cosa che per loro non è usuale ed è considerata una minaccia. Hanno paura, vivono nel terrore che ci siano spie russe, in parte è comprensibile ma per chi fa il giornalista è un incubo“, ha raccontato la giornalista.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Giacovazzo (RAI): l’uccisione del giornalista americano è stato un messaggio alla stampa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Marzo 2022.

La vita a Kiev, da dove mandava i suoi servizi il giornalista del TG2, è drammatica. Bombardano ovunque, e ora c’è un’escalaltion sulla capitale. E’ bruttissima la situazione anche sul mare, di fronte alla Crimea dove stanno spingendo. Oggi nella capitale si sono svegliati con le bombe nei palazzi, la situazione è tragica. Vince la guerra, è questa la cosa che per noi è difficile da digerire

“Quello che è successo al collega del New York Times non è casuale. Non è stato colpito per caso, ne hanno ucciso uno per educarne cento. E’ un messaggio intimidatorio a tutta la stampa, perché loro sanno benissimo che stiamo raccontando le mostruosità che loro stanno commettendo”. A pensarlo è Piergiorgio Giacovazzo, inviato RAI del TG2 a Kiev in Ucraina per raccontare il conflitto con la Russia, il quale appena atterrato a Fiumicino direttamente da Kiev, ha così commentato l’uccisione del collega statunitense Brent Renaud. 

“Un giornalista gira sempre con la scritta press, che è molto evidente -spiega Giacovazzo– Non escluderei che sapessero che si trattava di un americano. Non credo alle coincidenze, non può essere che un cecchino colpisca per sbaglio. Chi spara ha dodici decimi, sono cecchini, è gente allenata. Questo è stato un omicidio volontario”. A Irpin, il luogo dove è stato colpito il giornalista, ex inviato del New York Times, racconta l’ inviato del TG2 “ci siamo stati diverse volte, è un sobborgo di 40mila persone pesantemente bombardato, e ci siamo stati sempre con la paura di essere anche noi in qualche modo colpiti”. 

La vita a Kiev, da dove mandava i suoi servizi il giornalista del TG2, “è drammatica. Bombardano ovunque, e ora c’è un’escalaltion sulla capitale. E’ bruttissima la situazione anche sul mare, di fronte alla Crimea dove stanno spingendo. Oggi nella capitale si sono svegliati con le bombe nei palazzi, la situazione è tragica. Vince la guerra, è questa la cosa che per noi è difficile da digerire”. Analizzando la situazione attuale del conflitto, Giacovazzo spiega che il problema delle milizie russe ora è che “hanno sbagliato i conti, e si sono trovati senza cibo e rifornimenti nei boschi per giorni. Impossibile fare previsioni, ma il tempo fa la differenza. Il tempo sul campo è fondamentale: se i militari russi restano altri 15 giorni nella situazione attuale, per la Russia si mette male. Hanno delle perdite sul campo notevoli, anche se questo è da parte di entrambi gli schieramenti”. 

“Se tra 15 giorni soprattutto sul fronte di Nikolaev, che è importante – continua Piergiorgio Giacovazzo – perché è l’accesso all’Ovest del paese, non riescono ad avanzare da lì, e rimangono contenuti sul fronte Kiev, i russi devono andare alle trattative con meno pretese”. Il giornalista ha ancora negli occhi alcune immagini del conflitto: “Una è una donna ad Irpin. Noi eravamo lì a fare un reportage sui rifugiati che stavano lasciando la città in un momento in cui si poteva uscire. Ad un certo punto inizia un bombardamento fortissimo, tante esplosioni concentrate in pochi minuti. E lì c’era una signora che stava dando da bere ai profughi nel primo punto di accoglienza. Appena cominciato il bombardamento ha lasciato tutto, si è messa a pregare ad occhi chiusi sa pregare per tutto il tempo, fino alla cessazione delle bombe”. 

Un’altra immagine rimasta fissa nella memoria di Giacovazzo “è quella di un uomo che avrà avuto una quarantina d’anni con una bambina in braccio di circa nove mesi, alla stazione di Kiev. Lui la cullava, e piangeva. Doveva lasciarla con la mamma, metterle entrambe su un treno per la Polonia e tornare in città a combattere. La cullava con la paura di non rivederla più, e piangeva. Muoveva le mani come a darsi dei pugni sulle gambe, alla fine, io e il mio collega l’abbiamo abbracciato e gli abbiamo fatto coraggio, senza intervistarlo. Questa è una guerra che spezza le famiglie, ed è questa la sua infamità”. Redazione CdG 1947

Tg2, Piergiorgio Giacovazzo "ha scelto di restare": Kiev bombardata, fiato sospeso in Rai. Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.

È in prima linea ed è l'ultimo dei cronisti Rai rimasti a Kiev, nel fulcro della guerra. La scelta di Piergiorgio Giacovazzo, giornalista del Tg2 che ha deciso restare nella capitale ucraina, nutre il suo senso del dovere di un valore ulteriore, che riguarda il carattere di "missione" connesso a questo mestiere. Stare al fronte o comunque dove piovono bombe e arrivano gli spari dell'artiglieria dovrebbe essere, in generale, il rischio cui si sottopone un inviato di guerra. Ma spesso prevalgono, e in modo ragionevole, gli interessi di preservare la propria incolumità, di non diventare vittima della guerra, oltre a esserne testimone e narratore in tempo reale.

È più importante la Notizia o la Vita? E fin dove ci si può spingere per documentare il fischiare dei proiettili e il fragore delle bombe in diretta? Giacovazzo non si è posto la domanda, o forse se l'è posta, ma ha scelto di rispondere comunque presente, cercando di tutelarsi senza rinunciare al suo ruolo di volto e voce dal teatro del conflitto. È rimasto lì, solo giornalista della Rai, in compagnia degli inviati della Cnn. Da volontario, avendo lasciato il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano la libertà ai propri cronisti di restare o meno in Ucraina. Ha fatto una scelta simile un altro inviato della testata di RaiDue, Leonardo Zellino, lui di stanza in una città poco a nord di Kiev, Novohrad. Ci vuole fegato per mettere in pericolo la propria pelle, d'accordo. Ma ci vuole anche fiuto e consapevolezza che lì si farà la Storia, o almeno un pezzo di storia contemporanea. Dalle vie devastate della capitale ucraina Giacovazzo, in servizio permanente ormai per tutti i notiziari Rai, compreso il Tg1, racconta la tenacia quotidiano di quegli uomini e quelle donne che scelgono di non lasciare il proprio Paese. E anzi si mettono a disposizione per aiutare civili e forze di sicurezza, come quel ristoratore che, pur col locale chiuso, mette a disposizione 250 pasti al giorno per esercito e polizia, senza farsi pagare nulla, ma accettando solo materie prime per preparare, tra le altre cose, della pasta alla bolognese.

Giacovazzo si aggira tra le macerie, i palazzi sfondati e scavati dopo i raid aerei russi, e raccoglie le testimonianze di chi, in modo disperato oppure per non perdere l'ultima speranza, torna nella propria casa semidistrutta per riprendere gli ultimi pezzi di vita, prima di andare via. E poi si addentra nelle viscere di Kiev, scende nei sotterranei della metropolitana, «la più profonda del mondo», rifugio ideale dai bombardamenti dove si sono radunati già 15mila cittadini ucraini, tra cui tantissime donne, 80 neonati, 600 animali domestici, ma nessun uomo in età matura tra i 20 e i 60 anni, perché «sono tutti al fronte», richiamati dalla coscrizione obbligatoria in tempo di guerra. Scene di dolente umanità che si sommano agli scenari geopolitici e alle indiscrezioni belliche. Giacovazzo l'altro giorno ha raccontato di un'operazione di combattenti ceceni mirata a eliminare il presidente Zelensky, ma bloccata dalle milizie ucraine, grazie a una soffiata dei servizi segreti russi, evidentemente non fedeli a Putin.

Raccontare dal campo è una missione speciale ma non impossibile per Giacovazzo, da un anno al servizio della redazione Esteri del Tg2, dopo essersi occupato per lungo tempo di cronaca, con una rubrica dedicata ai Motori. Un'esperienza che sta facendo fruttare nelle strade di Kiev, dopo la mole di esperienza accumulata in redazione, di cui è parte da 25 anni, e alla conduzione del Tg delle 13. Le nozze d'argento con la sua professione, ora consacrate dalla sua avventura più difficile e più gratificante, sono il prodotto anche di un modello in famiglia. Piergiorgio è figlio di Giuseppe, giornalista pugliese, conduttore del Tg1 e poi direttore indimenticato della Gazzetta del Mezzogiorno. È grazie al papà che Piergiorgio deve avere avuto un esempio su come svolgere al meglio questo mestiere. In cui la dedizione a volte diventa sacrificio e il sacrificio sa tingersi di vene di eroismo.

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo. Giornalisti bersaglio in Ucraina, agguato contro la troupe a Kiev: “Erano sabotatori russi”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Marzo 2022. 

Gli spari, l’auto che si ferma, gli inviati che provano a mettersi in salvo, il cameraman che riesce a riprendere la scena. A Kiev una troupe di Sky News britannica è stata bersaglio di un agguato alle porte della capitale. Le accuse sono rivolte a un gruppo di “sabotatori russi”. Il Premier Boris Johnson ha condannato l’episodio lodando il coraggio degli inviati. “La stampa libera non si lascerà intimidire o condizionare da barbari quanto indiscriminati atti di violenza”. Le immagini sono diventate virali sui social in pochissimo tempo.

Le accuse arrivano dalla ricostruzione degli stessi protagonisti, che riprendono le forze ucraine, bersagliati dai proiettili. Decine di colpi. Il filmato mostra in soggettiva l’agguato, con la camera puntata a terra all’interno dell’auto, mentre gli inviati urlano di essere giornalisti e si accertano tra di loro delle condizioni dei colleghi. Gli spari e i proiettili vanno a segno sull’automobile. La scia rossa di un proiettile tracciante rimbalza sull’asfalto. I quattro alla fine sono usciti dall’auto con i giubbotti e gli elmetti e si mettono al sicuro dopo aver attraversato di corsa la strada. Tratti in salvo dalle forza di polizia locale.

Non sono preoccupanti le condizioni dell’inviato Stuart Ramsay chief correspondent di Sky News in Ucraina, colpito di striscio al sedere nell’agguato, né quelle del suo cameraman Richie Mockler: centrato a sua volta da due spari e salvato solo dal giubbotto antiproiettile. A completare la troupe anche i producer inviati da Londra Dominique van Heerden e Martin Vowles e dal fixer locale Andrii Lytvynenko. “Siamo stati fortunati, migliaia di ucraini non lo sono”.

“Il coraggio di questi giornalisti, espostisi a situazioni terribili e pericolose” pur di testimoniare la guerra, “è strabiliante da guardare”, ha aggiunto Johnson. “Essi hanno messo a rischio la vita per dire la verità”, ha aggiunto. La notizia arriva nel giorno in cui Mosca ha praticamente spento i media, compresi quelli occidentali: chi diffonde quelle che il Cremlino definisce fake news sulla guerra e l’invasione dell’Ucraina rischia fino a 15 anni di detenzione dai precedenti tre.

La gravissima decisione della Duma ha colpito anche i social network. La stretta era stata annunciata una settimana fa dal Comitato statale per l’editoria e i mezzi di comunicazione aveva intimato a dieci testate indipendenti di cancellare dai loro siti le notizie prese da “fonti nemiche o erronee”, proibendo “con effetto immediato” l’utilizzo della parola guerra. La nuova legislazione è entrata in vigore da oggi. Anche la Rai ha deciso di non trasmettere più dalla Russia per salvaguardare la sicurezza dei suoi corrispondenti e inviati.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

La guerra Russia-Ucraina. Da invasori ad aggrediti, la guerra come non l’abbiamo mai vista solo ora ci indigna. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

L’informazione sulla guerra di Ucraina è di ottimo livello. Perché? Perché è realizzata dalla parte degli aggrediti, di quelli che subiscono l’invasione e i bombardamenti. È la prima volta che succede. Per noi italiani è una assoluta novità. Mi ricordo la guerra in Serbia, alla quale partecipò anche la nostra aviazione e poi il nostro esercito. Gli invasori eravamo noi. L’informazione non si soffermò molto sugli effetti devastanti della guerra sulle popolazioni civili. Ero a Belgrado, ma spesso al mio giornale non piacevano gli articoli che proponevo, o che inviavo.

Preferivano una informazione più ufficiale. Volevano sapere il numero dei raid, gli obiettivi colpiti e magari qualcosa sulle difficoltà del governo di Belgrado. Di bombe a grappolo era meglio tacere. Eppure c’erano. Molti bambini ne restavano vittime. Le bombe a grappolo sono un’arma atroce e vigliacca. Oggi, finalmente, lo sappiamo, perché anche gli americani si indignano per quelle russe. Loro però ne gettavano tante, in silenzio. Poi ci fu l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Precedute da bombardamenti a tappeto. Furono usate anche le bombe al fosforo, quelle che gli inglesi, 60 anni prima, avevano usato per bruciare Dresda, senza motivo. La nostra informazione era molto sobria, anche in quell’occasione. Gran parte dei giornalisti erano “embedded”, termine inglese che vuol dire incorporati. Cioè, viaggiavano con l’esercito invasore, quello degli americani e dei loro alleati. Chiaro che se sei un giornalista embedded non puoi occuparti molto dei nemici. Dei perdenti.

Stavolta le parti sono invertite. Invadono i russi. Bombardano i russi. I nostri sono gli ucraini, che provano a difendersi a fucilate, o con le molotov o con i cavalli di frisia. L’altro giorno ho sentito che stavano piazzando i cavalli di frisia nelle strade per fermare i carri armati. Sapete cosa sono i cavalli di Frisia? Filo spinato arrotolato a grandi cerchi. Fermano facilmente una manifestazione di studenti. Un carro armato li appallottola in un paio di minuti. Finalmente vediamo le cose che non ci hanno fatto mai vedere. Siamo dalla parte dei perdenti. Anche i profughi che partono, piangendo, soffrendo, gridando. Scappano dalla morte e non sanno dove andranno. E i bambini piangono anche loro, tristi, sperduti, e hanno paura. Oppure piangono e hanno paura mentre le mamme li trascinano nei rifugi anti-aerei e anti-missile.  Hanno perso gli amichetti, la scuola, il papà. Non capiscono che succede, vorrebbero giocare. Ma la casa è crollata, e la Tv, finalmente, ce lo fa vedere. Le bombe quando cadono non fanno politica, distruggono e fanno morte.

È una grande novità. Sono cose che non erano mai entrate nella nostra immaginazione. Anche il pacifismo, in gran parte, da noi è stato solo ideologico o di buonsenso. Non partiva dalle emozioni, dall’empatia. Ora si sono rovesciati i valori e i giudizi. A me importa poco che in tutto questo ci sia molta ipocrisia. Che ci si dimentichi di quel che siamo stati noi, di quel che abbiamo fatto noi, della arroganza con la quale pretendevamo di avere la ragione e la civiltà dalla nostra parte mentre sterminavamo popolazioni civili inermi. Mi interessa il rovesciamento. Soprattutto perché ho l’impressione che non potremo più tornare indietro. Far finta di non sapere. Scordarci il pianto. La guerra, amici miei, è così come ce la stanno facendo vedere. I profughi non sono lestofanti, sono povere persone da aiutare. Ucraini, Afghani, Siriani, è la stessa cosa. Ce lo ricorderemo tra un anno? Speriamo di sì.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La tv e l’inganno della guerra. Antonio Scurati su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

Dalle bombe su Bagdad all’11 settembre fino alla guerra in Ucraina, siamo diventati telespettatori di conflitti e sofferenze. E ogni volta ci riscopriamo sgomenti e indifferenti. 

Un uomo cammina in una via nel centro di Kiev. Dietro di lui la scritta «io amo l’Ucraina» e, sull’asfalto, barriere anticarro composte da filo spinato e travi metalliche (Epa)

Da un lato Polina, soltanto dieci anni, e la sua ciocca di capelli rosa; Sasha, la pensionata dilaniata da un razzo perché non aveva voluto abbandonare il suo cane; Oleg, Irina, e i loro due bimbi sterminati mentre fuggivano in auto. Dall’altro lato, tutti noi, al sicuro sul versante incruento del conflitto, noi che ogni mattina sfogliamo l’album delle vittime innocenti mentre sorseggiamo il nostro cappuccino con panna montata e polvere di cacao. È davvero pietà la nostra? L’interrogativo è disturbante ma non deve essere aggirato. E non soltanto per ragioni morali. Dura oramai da troppo tempo questo stridente, agghiacciante contrasto tra «noi» e «loro», questa condizione paradossale che ci consente e, al tempo stesso, ci obbliga a consumare, restando inerti, il dolore degli altri.

Da troppo tempo noi siamo gli spettatori della guerra. L’Ucraina, come abbiamo scoperto solo al momento della sua invasione, è vicina. L’Ucraina è in Europa, come ci viene ripetuto da qualche giorno a questa parte in un tardivo sussulto di coscienza storica. I mass media, vecchi e nuovi, possono, dunque, agevolmente, riversare nelle nostre case linde e sicure immagini di condomini sventrati dai missili russi lanciati su Kiev o su Karkhin. La prossimità tecnologica, la breve distanza geografica facilità il flusso di informazioni quotidiane. Si tratta, invero, di una distanza abissale. Soltanto uno schermo separa oramai la guerra dai suoi spettatori eppure in quel diaframma sempre più sottile, addirittura «ultrapiatto», si spalanca un abisso. Sì, perché da un lato di quello schermo si assiste mollemente a uno spettacolo televisivo, dall’altro lato, nel medesimo istante, si uccide e si muore. Il paradosso è straziante ma non si creda che sia privo di conseguenze anche sul versante privilegiato dello schermo, il nostro versante. La differenza di condizione umana tra noi, spettatori della guerra, e loro, vittime o carnefici di essa, è abissale ma non ci si autoassolva pensando che non via sia relazione, rapporto e responsabilità tra queste due sfere comunicanti, eppure separate, dell’esperienza contemporanea.

Telespettatori totali della guerra, questo siamo diventati da almeno tre decenni noi popoli del privilegiato occidente europeo e questa trasformazione ci ha profondamente segnati – «scavati» oserei dire – nella nostra identità morale, culturale e politica (ma sarebbe più esatto scrivere «impolitica»). La guerra, purtroppo, è un fenomeno antropologico integrale, accompagna cioè l’umanità lungo l’intero corso della sua vicenda terrestre e in ogni aspetto della sua esistenza. La storia che fa di noi gli spettatori della guerra comincia, però, nella notte del 17 gennaio 1991, data d’inizio della Prima guerra del golfo con il primo bombardamento su Baghdad e della prima diretta televisiva mondiale da un fronte di guerra della storia umana. La ricordiamo tutti quella memorabile trasmissione televisiva della CNN, i cui inviati, capitanati da Peter Arnett, si trovavano in un albergo della capitale irachena allorché cominciarono i primi massicci bombardamenti e loro furono in grado di documentarli in diretta grazie a una nuova tecnologia. Tutti noi ricordiamo le immagini del cielo notturno solcato dai traccianti luminosi della contraerea perché quella notte, emozionati e turbati davanti allo spettacolo tragico della guerra, avemmo l’impressione che cominciasse una nuova era della coscienza morale, della compassione tra gli umani e della condivisione dell’altrui sofferenza. Una nuova era per una politica planetaria di prossimità umanitaria in un mondo che la globalizzazione aveva reso piccolo e interdipendente.

Ma ci sbagliavamo: ciò che cominciava quella notte era soltanto un’altra fase della storia della visione in Occidente, una fase in cui la compassione e la coscienza morale si sarebbero progressivamente atrofizzate. Anche prima di allora avevamo potuto osservare a distanza immagini di guerra e distruzione ma mai come dopo di allora le occasioni di assistere in perfetta sicurezza e indifferenza allo spettacolo della sofferenza altrui sarebbero state tanto numerose, quotidiane, immediate. Poi, esattamente dieci anni più tardi, venne l’undici settembre. L’arma micidiale della guerra-spettacolo venne rivolta contro l’Occidente con conseguenze catastrofiche. Se la guerra televisiva a Saddam Hussein era stato un grande successo politico in quanto successo mediatico (la CNN, lavorando in sinergia con il pentagono, era riuscita a trasformare la guerra in un avvincente spettacolo per famiglie), il genio malvagio del terrorismo islamico riuscì a sferrare una formidabile offensiva politica servendosi delle medesime strategie mediatiche. Anche allora noi ci dicemmo che niente sarebbe più stato come prima, che quel fungo di fuoco partorito dai simboli della prosperità occidentale in una tersa mattina di settembre avrebbe segnato uno spartiacque nella storia. Anche allora ci illudemmo.

Se la Prima guerra del golfo era riuscita a riabilitare il ricorso alle armi per la risoluzione dei conflitti internazionali, l’undici settembre ebbe l’effetto perverso di investire nuovamente la guerra di un significato salvifico. Le headline delle televisioni all news titolarono unanimemente war vs. terror (guerra contro terrore). Gli attentati alle torri gemelle non inaugurarono una nuova stagione nelle relazioni internazionali, un’era votata al pacifismo evoluto e intraprendente. Al contrario, riconsacrarono la guerra quale versante virtuoso, trasparente, glorioso della violenza in quanto contrapposto al versante oscuro, vigliacco e maligno rappresentato dal terrorismo. La guerra, demistificata e screditata negli anni ’60 e ’70, tornò ad essere la formidabile macchina mitografica che per millenni, fin dai tempi di Omero, la civiltà occidentale ha celebrato come il più grande spettacolo che sia dato di vedere.

Seguirono altri conflitti armati, altre carneficine in diretta televisiva, percepiti da noi come sempre più distanti, anche quando vicinissimi. Nel frattempo, infatti, noi privilegiati dell’Europa occidentale avevamo subito una mutazione, ci eravamo trasformati in animali anfibi, capaci di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del nostro mondo pacifico e protetto ma anche immersi nella palude insanguinata da vittime di deflagrazioni lontane. Era nato il telespettatore totale: proprio l’informazione capillare dai fronti di guerra, proprio quella marea di immagini terribili in cui nuotavamo quotidianamente senza mai bagnarci avevano tenuto a battesimo una nuova modalità di incomprensione del mondo modellata sull’incapacità cognitiva e pratica dello spettatore televisivo. La televisione aveva canonizzato se stessa elevando a norma di comportamento sociale, civile e politico la passività del proprio pubblico. Eravamo scivolati lungo una china che ci aveva resi telespettatori anche delle nostre stesse vite.

Non c’è, dunque, da stupirsi se allo scoppio di ogni nuovo conflitto armato noi ci riscopriamo sgomenti, impotenti, ignoranti e, in fondo in fondo, indifferenti. Il piano imperialistico di Putin è manifesto da decenni; il suo dispotismo neo-zarista, fondato sulla violenza, sulla sopraffazione e su una cerchia di oligarchi corrotti è palesemente in conflitto con i valori democratici. Già nell’agosto del 2008 le immagini strazianti della popolazione civile georgiana bombardata dai russi fecero il giro del mondo – ricordate la vecchia urlante di Gori? — ma, per l’appunto, erano soltanto immagini. Già nel 2014 i tank del tiranno invasero la Crimea – ed è da allora che si combatte nel Donbass – ma nemmeno questo impedì all’Europa di continuare a fare affari con lui, all’Italia di vendergli autoblindo Iveco, ai politici populisti di indossare magliette con il suo volto (Salvini), di definirlo difensore «dei valori europei e dell’identità cristiana» (Meloni) e a milioni di italiani di continuare a votarli senza problemi.

Ora mi si obietterà che l’Europa sta finalmente reagendo con determinazione al sopruso di Mosca. E’ vero ma io sottolineo il «finalmente». Mi si obietterà che l’album delle vittime innocenti non ci lascia indifferenti. Io temo, invece, che in molti, troppi casi anche l’odierno consumo mediatico di immagini della sofferenza ucraina appartenga al dominio dell’osceno, non del tragico, prolunghi cioè la nostra decennale incapacità di una rappresentazione partecipe e catartica della sofferenza umana. Se così non fosse, non ci troveremmo a questo punto. Abbiamo alle spalle un lungo apprendistato all’irrealtà televisiva, alla passività spettatoriale e al cieco cinismo politico che l’accompagna. Ci attende un compito di rieducazione non meno lungo.

Pensiero unico e videogame: la guerra in tv - La Verità l'1 marzo 2022.

Tra bufale, esagerazioni e manie di protagonismo i primi giorni del conflitto in Ucraina sono stati una débâcle, soprattutto per i tg Rai.

Tra bufale, esagerazioni e manie di protagonismo i primi giorni del conflitto in Ucraina sono stati una débâcle, soprattutto per i tg Rai. E in tutti i talk show regna il conformismo: basta un distinguo sulla Nato per finire in Vigilanza come Marc Innaro.

Rai, scoppia un nuovo caso Innaro: "È troppo filo-Putin, lasci Mosca". Giovanna Vitale su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Il corrispondente della Tv pubblica confeziona un servizio sull'assalto alla centrale nucleare dell'Ucraina basandosi solo sui dispacci della Tass, l'agenza di stampa del Cremlino. Il Pd sulle barricate: "Accredita la propaganda russa".

Ci risiamo, Marc Innaro ci è cascato un'altra volta. Dopo aver sostenuto, sabato scorso al Tg2 Post, la tesi putiniana dell'allargamento a Est della Nato come causa scatenante dell'invasione in Ucraina, il corrispondente Rai da Mosca ha costruito l'intero servizio sull'assedio russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia - trasmesso nel corso dello speciale Tg2 Italia - basandosi unicamente sui dispacci della Tass, l'agenzia di stampa ufficiale dell'ex Urss.

Da iltempo.it il 4 marzo 2022.

È diventata un caso la corrispondenza di Marc Innaro da Mosca. Il giornalista Rai, "sparito" dal Tg1 ufficialmente per l'invio di un inviato del telegiornale della rete ammiraglia del servizio pubblico a Mosca, è accusato da più parti di essere filorusso e di raccontare una realtà che fa comodo al presidente Vladimir Putin. 

Il caso è scoppiato dopo le parole del corrispondente, che è capo della sede Rai a Mosca, al Tg2 Post dove aveva illustrato le "ragioni" della Russia nella guerra in Ucraina, ossia l'innegabile, sostiene Innaro, espansione della Nato a Est.

Il giornalista ha continuato a intervenire nelle altre reti del servizio pubblico, a partire da Rainews24, dove anche oggi venerdì 4 marzo ha dato una lettura da molti giudicata di parte dell'attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia e del presunto ruolo, riferito da Mosca, di sabotatori ucraini nell'incendio dell'impianto ucraino, tra i più grandi se non il maggiore d'Europa.

"Basta con Marc Innaro, il corrispondente filorusso della Rai da Mosca. Basta! Fermatelo" attacca il senatore Francesco Giro con doppia tessera Lega-FI. "Al Tg2 Post ha riferito -senza proferire dubbio- sulle accuse del capo dei servizi segreti verso l’Occidente e il Regno Unito, che giustificherebbero secondo l’ineffabile Innaro la scelta dei russi di attaccare l’Ucraina. Incredibile! 

Un ringraziamento - prosegue Giro - va invece all’ottimo direttore del Tg 2 Sangiuliano che ha bloccato subito le azzardate parole di Innaro ricordandogli che il capo dei servizi russi è la stessa persona (un fantoccio) bastonata da Putin in diretta TV, chiosando che quelle di Innaro erano cavolate. Bravo Sangiuliano! 

E un grazie al direttore del Corriere della Sera, Fontana, che ha fatto altrettanta chiarezza dicendo che i russi sono gli aggressori e gli ucraini gli aggrediti. Pietoso infine il segretario della Cgil Landini che ironizzava su Ungheria e Polonia colpevoli di accogliere solo ora i profughi, come se - conclude Giro - non ci fosse a due passi da noi una guerra vera ed europea".

"Incredibile che Marc Innaro rilanci senza commenti la versione dei militari di Putin sulla mancata catastrofe alla centrale nucleare di Zaporozhye, secondo cui sarebbe stata una responsabilità di ’un gruppo di sabotatori ucrainì mentre ’l’allarme in Occidente sarebbe del tutto ingiustificato, essendo la situazione sotto controllo'", scrive Andrea Romano, deputato PD e membro della Commissione di Vigilanza che si rivolge alla Rai: "Per rilanciare la propaganda di Putin basta e avanza la Tass. Dal servizio pubblico radiotelevisivo ci aspettiamo di più". 

A difendere Innaro scende in campo il vignettista Vauro: "Siamo in un quadro di informazione sempre più militarizzata, sempre più simile alla propaganda. Credo sia ormai un problema della nostra democrazia. L’informazione è totalmente militarizzata. Addirittura Marc Innaro, il corrispondente Rai da Mosca, è stato attaccato dal segretario del Pd Enrico Letta perché fa il suo lavoro, mentre un giornalista ucraino ha attaccato il Corriere della Sera e il suo inviato a Mariupol, Andrea Nicastro, dicendo che è filorusso e che le cose che racconta sono oscenità. A Mariupol c’è il battaglione Azov, composto da nazisti. Attaccare l’inviato di un giornale, in questo caso Nicastro, che sta lì, significa trasformare quel giornalista in un target".

Da open.online il 5 luglio 2022.  

Marc Innaro lascia Mosca. Il corrispondente dalla Russia dei Tg Rai se ne andrà dalla Russia dopo otto anni per tornare in Egitto: ha prestato servizio al Cairo tra 2004 e 2014. 

Il trasferimento sarà effettivo tra qualche settimana ma lui ha confermato lo spostamento al Fatto Quotidiano: «Sono qui da otto anni, non bisogna essere abbarbicati alla poltrona», dice.

Innaro è finito nelle polemiche in questi mesi durante la guerra tra Russia e Ucraina. Durante un collegamento con Tg2 Post alla fine del febbraio scorso aveva detto che «dopo il crollo dell’Unione Sovietica chi si è allargato non è stata la Russia. È stata la Nato». 

Da quel momento il Tg1 ha smesso di utilizzare i suoi servizi e la sua firma da Mosca. Lui ha continuato ad andare in video su Tg2, Tg3, RaiNews e Giornale Radio. 

Successivamente il suo nome è uscito nel famoso (famigerato?) report sui filorussi che infilò persino Corrado Augias tra i putiniani. 

«Mi sarebbe spiaciuto non esserci visto che in quella lista sono finiti colleghi che stimo molto. E anche Oliver Stone, il mio regista preferito», dice lui oggi al Fatto. 

Il quotidiano ricorda che i corrispondenti esteri dipendono direttamente dall’amministratore delegato Carlo Fuortes. Che decide gli spostamenti con l’accordo (facoltativo) dei direttori di testata. 

Innaro andrà a sostituire Giuseppe Bonavolontà, che andrà in pensione. Al suo posto a Mosca potrebbe finire l’inviato del Tg1 Alessandro Cassieri. Con un dettaglio curioso: anche il suo nome era finito nella lista dei putiniani.

Sturmtruppen va alla guerra: i media mondiali tra ridicoli elmetti e immagini di videogames. Da visionetv.it il 25 Febbraio 2022.

Quando pensiamo di aver visto tutto, il mainstream riesce sempre a sorprenderci con brillantissimi effetti speciali. L’ultimo artificio, ma solo in ordine di tempo, è un servizio andato in onda ieri sera al Tg2: il bombardamento di Kiev. Peccato fosse solo un videogioco.

Come hanno scoperto i gamers più esperti, infatti, la tv pubblica nazionale ha mandato in onda immagini tratte dal videogame War Thunder, spacciandole per guerra vera. I professionisti dell’informazione si saranno accorti dell’errore? O forse non è davvero un errore? Perché dopo questi due anni si ha l’impressione che i media abbiano letteralmente fatto a gara nel cercare i modi peggiori per impressionare il loro pubblico.

Puntuali ad ogni guerra riecco le inviate Rai con l’elmetto, che si prodigano nel raccontare scenari terribili di imminenti bombardamenti mentre sullo sfondo c’è gente che passeggia tranquillamente, coppie abbracciate o addirittura bambini che giocano. Poche ore fa sono state diffuse foto di aerei russi abbattuti, ma l’immagine, vecchia di anni, risale probabilmente all’abbattimento di un aereo saudita.

E se commettiamo l’errore di pensare che solo gli italiani utilizzino queste strategie da quattro soldi per intrattenere gli spettatori, dovremo farcene una ragione. Il podio include anche altre nazionalità. Si distinguono per inventiva reporter tedeschi (dotati di elmetto anche loro) che raccontano di gente che si nasconde nei sotterranei a prova di bomba, mentre i cittadini alle loro spalle stanno serenamente entrando nella stazione metro per recarsi al lavoro. O altri che, probabilmente d’accordo con  le giornaliste di Rai2, riproducono la scena in assetto da guerra circondati da gente che fotografa il panorama. 

Sul podio anche gli spagnoli che riprendono la strategia italiana del videogioco con mega bombardamenti, per la precisione utilizzano ArmA3, un gioiello di grafica ed esplosioni, particolarmente adatto alla situazione “allarme in Ucraina”.

Ancora sorpresi? Non dovreste. Ma cosa ci possiamo aspettare dai soliti noti professionisti dell’informazione che ci hanno raccontato la vicenda (o piuttosto il copione)  Covid negli ultimi due anni?  Oppure, ci siamo già dimenticati di Enrico Mentana che manda in onda immagini tratte da Project X?

Era il 7 gennaio del 2021 e si discuteva animatamente su come la democrazia internazionale fosse in grave pericolo a causa dell’insurrezione del giorno precedente a Washington DC. Ecco che arriva in studio su La7 un filmato dove si vede un tipo super palestrato, muscoli lucidissimi,  con tanto di lanciafiamme ed esplosioni alle spalle, che secondo Mentana si sta avvicinando per colpire il Campidoglio a Washington DC.

L’ospite in onda con lui rincara la dose e sconfessa anche quelli che all’epoca si chiesero se le immagini non fossero state altro che  un semplice  errore, una svista “si, Enrico, confermo che i social americani rilanciano la notizia che scene simili stiano avvenendo davanti ad altri Campidogli locali”. Ha confermato, possiamo stare tranquilli.

Più indietro ricordiamo sicuramente le fosse comuni al Central Park di New York, oppure le bare di Lampedusa, che ad agosto 2021 hanno causato problemi anche a  Simona Ventura che in un suo film aveva provato a riutilizzare le stesse immagini del 2013, o ancora i manichini per riempire le terapie intensive Covid, o molto molto altro ancora.

La domanda a questo punto è perché accade. Perché i media sentono il bisogno di propinare materiale falso, visto ormai la truffa è davvero troppo estesa e troppo sistematica per essere un banale errore? Beh, se guardiamo agli ultimi due anni, la risposta sembra chiara. Si vuole costruire una narrativa interamente pilotata, per imporre cosa è bene e cosa è male secondo il sistema. E per un certo periodo ci sono anche riusciti, dobbiamo riconoscerlo. La gente si è affidata solo a loro e hanno incamerato quanto proposto.

Tuttavia, chi ormai è uscito dalla imposizione dei MSM e ha legittimamente cercato altre fonti a cui attingere, si pone un’altra gravosa domanda. Ma chi ci ha mentito in maniera così spudorata adesso, su quanto altro ci ha mentito in passato? MARTINA GIUNTOLI

Il ruolo dei media. Il pressappochismo del dibattito sull’Ue e il bisogno di europeismo critico. Alexander Damiano Ricci su L'Inkiesta il 2 Marzo 2022.

Come scrive Alexander Damiano Ricci nel libro “Propaganda Europa” (Edizioni Gruppo Abele), il dibattito sull’Ue soffre di un livello di approssimazione abbastanza grave, quando in realtà il panorama mediatico italiano avrebbe bisogno di un approccio critico-costruttivo.

Alla mancata problematizzazione delle strategie della Commissione europea, alla forzatura di un dibattito sul futuro dell’Unione presentato alla stregua di Guerre Stellari con tanto di Jedi (integrazionisti) e Sith (sovranisti), all’esistenza di tabù narrativi forti, si aggiunge infine un problema di linguaggi e vocabolario.

In primis, il dibattito sull’Europa soffre di un livello di approssimazione abbastanza grave: basti pensare alle formule vuote «Serve l’Europa», «Ce lo chiede l’Europa», «I soldi dell’Europa» che, di fatto, hanno trasformato l’«Europa» stessa in un feticcio, utile, al massimo, a condurre qualche programma televisivo. Fuor di metafora, dietro alla parola Europa si celano perlomeno tre istituzioni differenti: Commissione, Consiglio e Parlamento.

Probabilmente si potrebbe andare ben più in là, specificando sempre, esattamente, chi si stia chiamando in causa o a chi ci si stia rivolgendo – pensiamo alla Cgue, alle agenzie (Frontex), alla Bce o alle altre istituzioni consultative dell’Ue. 

Può sembrare un problema marginale, ma chi userebbe lo stesso grado di approssimazione in Italia, parlando delle varie componenti dello Stato italiano, nel contesto della cronaca politica? Nessuno. Eppure, una proporzione considerevole delle leggi approvate nei Parlamenti nazionali deriva, in un modo o in un altro – e al netto dei ritardi –, da quanto viene deciso a Bruxelles e Strasburgo.

Detto ciò, nel corso degli ultimi anni sono nate esperienze significative di giornalismo europeo in Italia, anche grazie al finanziamento da parte di alcune istituzioni europee, come il Parlamento europeo. Sebbene alcune di queste non facciano ampio ricorso alla dicotomia sovranista-europeista, vale comunque la pena citarne gli sforzi in termini di offerta di informazione sulle questioni europee.

La testata online Linkiesta.it ha lanciato una piattaforma interna al proprio sito: Linkiesta Europea. Lo spazio si configura come un “sito nel sito” e una homepage composta, da un lato, di articoli informativi circa le questioni di attualità che caratterizzano il lavoro delle istituzioni di Bruxelles e, dall’altro, di pezzi di opinione. In maniera simile, la sezione e newsletter Konrad – L’Europa spiegata bene a cura de il Post offre regolarmente contenuti di approfondimento sulle dinamiche istituzionali di Bruxelles e Strasburgo, come anche dei fatti politici più rilevanti occorsi negli altri Paesi dell’Unione. 

Allo stesso modo, il Foglio ha lanciato la newsletter Europa ore 7. Infine, il quotidiano cartaceo e digitale Domani può vantare, rispetto alla concorrenza, una copertura assidua e regolare dell’attualità politica continentale. Il giornalismo europeo di Domani e probabilmente quello che si avvicina di più allo stile critico-costruttivo di cui avrebbe bisogno il panorama mediatico italiano.

Lo sviluppo di un giornalismo europeo di qualità che passi attraverso canali media tradizionali e mainstream ricopre un ruolo fondamentale nel contesto dello sviluppo di un europeismo critico.

Sebbene gli ultimi due decenni passeranno probabilmente alla storia come l’epoca della nascita dei social media, i media tradizionali rimangono saldamente al timone di quella che potrebbe essere definita come capacita di plasmare e indirizzare il dibattito pubblico nazionale, nonché l’opinione pubblica stessa. Ciò vale in particolare, nel breve periodo, per il media televisivo. 

Oltre a giocare un ruolo chiave nel determinare la strutturazione del dibattito sul futuro dell’Unione europea e la capacità da parte dei cittadini di comprendere correttamente e criticamente la posta in gioco nei processi legislativi europei, i media tradizionali possono avere anche una funzione di veicolazione di messaggi critici portati da attori del cambiamento come Ong e movimenti sociali.

E, quindi, stimolare un processo di trasformazione.

Eppure, nel corso degli ultimi quindici anni, ciò è avvenuto probabilmente soltanto in un’occasione: durante la crisi della potenziale Grexit del 2015. Ed è anche a partire da quell’esperienza che si è cominciata a fare largo, a sinistra, la discussione sull’opportunità di continuare a scommettere su un’evoluzione dell’Unione europea.

Da “Propaganda Europa”, di Alexander Damiano Ricci, Edizioni Gruppo Abele, 160 pagine, 14 euro

"Rischiamo di diventare cinici". Guerra e Covid, lo psicologo: “Bombardati da slogan idioti, la gestione del dolore è un tabù”. Francesca Sabella su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

«Non siamo più in grado di gestire dolore e angoscia, rischiamo di diventare cinici. Bisogna prestare attenzione alla comunicazione dei media, troppo semplicistica e banale e che non ci rassicura affatto, anzi». Parla lo psicologo e docente universitario Oscar Nicolaus.

Professore, dopo due anni di pandemia siamo piombati in una nuova emergenza: una guerra che ha sconvolto il mondo. Da accademico e da esperto a contatto con molti pazienti, com’è messa la nostra mente di fronte a tutte queste prove da superare?

«Credo che se il Covid ha messo a dura prova la capacità di resistere mentalmente, questa guerra unita alla pandemia amplifica ancora di più quello che potremmo definire un sentimento di angoscia e di morte. Bisogna tener conto che la nostra società, le società occidentali in generale, sono poco attrezzate a gestire il dolore. Il dolore è diventato quasi un tabù, basta vedere come si facevano una volta i funerali e come invece li facciamo oggi. In America ma anche qui durano cinque minuti, forse al Sud un po’ di più ma resta che l’elaborazione del dolore è diventata un optional e questo rende ancora più forte e preoccupante questa dimensione che ho definito di angoscia e di morte».

Lei dice che il dolore è diventato un tabù, non è che invece ci siamo abituati al dolore, a vedere immagini strazianti che arrivano dall’Ucraina e in generale un po’ a tutto? Inizialmente anche il Covid e il lockdown ci sembravano situazioni non solo nuove, ma anche insostenibili e invece alla fine ci siamo abituati anche a quello.…

«I rischi, come in tutti i fenomeni complessi che ci riguardano, chiaramente ci sono. C’è il rischio di un’assuefazione che diventa una forma di difesa. Come succede a chi è impegnato sempre con la vita e con la morte delle persone, alla fine si diventa cinici. È una forma di difesa da un dolore, e questo è il vero punto, per il quale non abbiamo strumenti o meglio abbiamo meno strumenti rispetto al passato. Oggi facciamo più fatica a contenerlo e a elaborarlo, anche sul piano sociale. Non è solo un problema mentale, ovviamente, perché la guerra, le distruzioni e la crisi sono problemi concreti. E poi bisognerebbe anche chiedersi come siamo arrivati a tutto ciò e se anche l’Occidente dovrebbe e potrebbe comportarsi in maniera diversa».

Rispetto al passato cosa è cambiato nella gestione del dolore e dell’angoscia?

«Il dolore è stato in qualche modo “cancellato” e uso un’espressione forte. Mi spiego, c’è una sorta di negazione del dolore che porta a considerare superflui certi riti (e ritorniamo ai funerali di una volta). Oggi è un tabù parlare della capacità di soffrire e questo ci ha privato di strumenti mentali per affrontarlo. Durante la pandemia, per esempio, ci siamo accorti di essere impreparati di fronte a tante cose. A partire dalla considerazione che avevamo della scienza. Pensavamo che la scienza fosse un punto di vista perfetto, invece la scienza è un cantiere aperto e non un dogma, e questo ha confuso ulteriormente chi partiva dall’idea di scienza come qualcosa di infallibile. E chiaramente la comunicazione, anzi la mala comunicazione, ha avuto il suo peso in questa confusione generale. Un paziente recentemente mi ha detto: se sto male, vedo che gli altri si allontanano e hanno quasi paura del mio dolore. Questa frase dice bene quello che ci sta succedendo: siamo spaventati dal dolore altrui».

Questa paura del dolore, rischia di farci diventare cinici e freddi di fronte ai drammi di un virus o di una guerra?

«Sì, o cinici o sempre più angosciati perché se il dolore si condivide si sopporta meglio».

Poco fa abbiamo parlato di una cattiva comunicazione dei media durante il Covid, crede che ora con la guerra in Ucraina stia avvenendo la medesima cosa?

«Mi sembra che ci sia da una parte un giusto appello alla solidarietà verso un popolo invaso e massacrato dalla politica imperialistica di Putin, dall’altra parte bisognerebbe anche rendersi conto e ragionare su come siamo arrivati a questo, come abbiamo permesso che tutto ciò accadesse. Forse qualche responsabilità ce l’abbiamo anche noi, e questo lo dico non per depotenziare la critica alla politica guerrafondaia di Putin. Poi, sono passati dieci giorni dall’inizio della guerra, non ho ancora elementi sufficienti per dire se la comunicazione sarà sbagliata, anche questa volta, oppure no».

Sono passati “solo” dieci giorni dall’inizio della guerra ma c’è già stata, da parte di alcuni, una corsa all’acquisto dei bunker mentre molti stanno facendo scorte di cibo. È già piscosi?

«Se davvero c’è un’invasione dei supermercati e la corsa all’acquisto dei bunker è certamente il sintomo di un’angoscia, di una psicosi ancora non a livelli preoccupanti ma sicuramente è l’inizio».

Crede che dopo questi due anni e il prossimo che ci apprestiamo a vivere nel segno di guerre e crisi, siamo sempre più dipendenti dalla tv e dai social, a discapito delle relazioni umane?

«Il Covid ci ha chiuso dentro casa e inevitabilmente ci siamo legati a quegli strumenti che ci raccontavano cosa accadeva fuori. Però, c’è stata una reazione a un certo punto e la gente ha deciso di selezionare le notizie. Per esempio quel bollettino con il numero dei contagi e dei morti diffuso in maniera ossessiva non serviva a nulla, generava solo confusione ed è sicuramente un esempio della cattiva comunicazione. Sarebbe stato più utile capire la reazione psicologica dei cittadini a quelle notizie e dare informazioni utili a capire la pandemia e i punti di vista, a volte contraddittori, degli esperti».

Quindi, troppi errori nella comunicazione?

«Sì. Dovremmo sicuramente capire che gli appelli ottimistici, un po’ banali e fin troppo semplici, alla fine non ottengono il risultato che vogliono anzi peggiorano la situazione. E quindi dobbiamo mostrare i rischi e i pericoli e fare appello alla solidarietà non solo con il popolo ucraino ma anche tra di noi. Basta con questi appelli: andrà tutto bene. Depotenziano l’apparato psichico umano. Serve l’incoraggiamento ma non i consigli idioti. Si ricorda la frase di De Filippo “ha da passà ‘a nuttata”?. Ecco, deve passare ma dipende anche cosa facciamo durante quella nottata. E questo il senso di una comunicazione più seria, quindi meno slogan semplicistici e più messaggi che tengano conto della complessità della natura umana, che ha sempre a che fare con l’improbabile e l’imprevisto».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Simona Siri per “la Stampa” l'8 giugno 2022.

«Sono cresciuta nel piccolo villaggio di Trang Bang nel Vietnam del Sud. Mia madre racconta che da ragazzina ridevo molto. Conducevamo una vita semplice con abbondanza di cibo, dal momento che la mia famiglia aveva una fattoria e mia madre gestiva il miglior ristorante della città. Ricordo che amavo la scuola e giocavo con i miei cugini e gli altri bambini del villaggio, saltavamo la corda, correvamo e ci rincorrevamo con gioia. Fino a quando tutto è cambiato l'8 giugno 1972».

Si apre così l'editoriale pubblicato dal New York Times firmato da Kim Phuc Phan Thi, diventata famosa come «la bambina del Napalm». È lei quella che corre nuda, circondata da altri bambini vestiti, dietro di loro i soldati in divisa, in quella che è forse la fotografia di guerra più famosa della storia, opera dal fotografo Nick Ut. Uno scatto che è diventato il simbolo stesso degli orrori della guerra del Vietnam, la prova davanti alla quale il mondo non si è più potuto nascondere. Un'immagine che è Storia con la S maiuscola, momento universale, ma che racconta anche una vicenda privata, un dramma personale del quale forse ci siamo dimenticati, sopraffatti dal ricordo. 

«Il napalm si attacca a te, non importa quanto velocemente corri, provoca orribili ustioni e dolore che durano una vita», prosegue Kim Phuc Phan Thi. "Non ricordo di aver corso e urlato: "Nóng quá, nóng quá!" (troppo caldo, troppo caldo!) ma i filmati e i ricordi degli altri mostrano che l'ho fatto". E poi più avanti: "Nick ha cambiato la mia vita per sempre con quella fotografia straordinaria. E me l'ha anche salvata. Dopo aver scattato la foto, mise giù la macchina fotografica, mi avvolse in una coperta e mi portò via perché avessi cure mediche. Gli sono per sempre grata. Eppure ricordo anche di averlo odiato, a volte.

Sono cresciuta detestando quella foto. Tra me e me pensavo: "Sono una bambina. Sono nuda. Perché ha fatto quella foto? Perché i miei genitori non mi hanno protetto? Perché ha stampato quella foto? Perché ero l'unica bambina nuda mentre i miei fratelli e cugini nella foto sono vestiti?" Mi sono sentita brutta e mi sono vergognata. Crescendo, a volte ho desiderato scomparire non solo a causa delle mie ferite - le ustioni hanno segnato un terzo del mio corpo e causato un dolore cronico intenso - ma anche a causa della vergogna e dell'imbarazzo della mia deturpazione. Ho cercato di nascondere le mie cicatrici sotto i vestiti. Ho avuto un'ansia e una depressione orribili. I bambini a scuola mi evitavano. I vicini e in una certa misura i miei genitori avevano pietà di me. Crescendo, temevo che nessuno mi avrebbe mai amata". 

Bambina di nove anni all'epoca della foto, oggi Kim Phuc Phan Thi è una donna che si batte per quello in cui crede. Dopo essersi rifugiata in Canada ha dato vita alla Kim Foundation International, un'associazione che offre aiuto ai bambini vittime di guerra. Nel suo editoriale sul New York Times, racconta di aver capito la sua missione solo da adulta, dopo anni trascorsi a rilasciare interviste su quella foto che ha reso e lei i cuginetti "dei simboli, mentre noi siamo esseri umani" e per questo desiderosi di andare avanti, in un processo opposto a quello che fa la fotografia che per sua definizione fissa nel tempo. 

 È anche per questo che oggi "la bambina del Napalm" è un'adulta che pensa che pubblicare le foto degli orrori dell'Ucraina così come quelle delle vittime delle stragi americane da fucili AR-15 - una questione su cui in Usa c'è molto dibattito- sia non solo doveroso, ma necessario. «Il pensiero di condividere le immagini della carneficina, in particolare di bambini, può sembrare insopportabile, ma dobbiamo affrontarlo», dice in conclusione. «È più facile nascondersi dalla realtà della guerra se non ne vediamo le conseguenze».

Perché le foto dell'orrore vanno mostrate. Francesco Maria Del Vigo l'8 Marzo 2022 su Il Giornale.

No. Non possiamo girarci dall'altra parte. Spostare lo sguardo come se "quei corpi a terra senza più calore" fossero un incidente visivo.

No. Non possiamo girarci dall'altra parte. Spostare lo sguardo come se «quei corpi a terra senza più calore» fossero un incidente visivo. Non nascondiamoci - per paura di spaventarci -, dietro le carte deontologiche, gli avvisi per chi è sensibile e i disclaimer di Facebook e Instagram che oscurano le foto delle vittime di un massacro perché potrebbero urtare la nostra sensibilità. Ecco, in questo momento la nostra sensibilità deve essere urtata, strattonata, schiaffeggiata, tirata fuori a forza dalla comfort zone degli algoritmi che tutto ottundono. Dobbiamo spaventarci perché ogni tanto serve anche avere paura, per capire quello che sta accadendo intorno a noi.

La guerra è una realtà che non solo non si può, ma non si deve edulcorare, camuffare, imbellettare dietro una spazzolata di buonismo.

Le immagini e i filmati che arrivano dall'Ucraina sono devastanti e osceni. Sono un pugno in faccia e un calcio nello stomaco. Sono i peggiori incubi che ritornano a pochi passi da casa nostra. Quelli che abbiamo sempre cercato di esorcizzare come qualcosa che, dopo il grande orrore dei conflitti mondiali, non potesse mai più presentarsi in Occidente.

Palazzi distrutti, abitazioni in fiamme, urla strazianti e disumane, corpi escoriati e mutilati, cadaveri ancora in fiamme. Vite stroncate da una morte bastarda mentre cercavano di mettersi al riparo. Questo è quello che arriva dall'Ucraina.

Una mostruosità che dobbiamo avere la forza di vedere. Il giornalismo che chiude gli occhi dei suoi lettori di fronte alla barbarie dei conflitti, non fa un buon servizio all'informazione. È seguendo questa linea di pensiero che il New York Times - nonostante le critiche - ha deciso di pubblicare la foto di una famiglia sterminata mentre cercava di scappare da Irpin per sfuggire alle forze russe. Se, nell'ultimo mezzo secolo, si è presa coscienza della disumanità della guerra è anche grazie alle immagini che ci hanno portato in casa gli effetti di quelle bombe così lontane dalle nostre patinate vite quotidiane.

Le istantanee dei campi di concentramento, dei corpi deformati dalle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki, l'immagine simbolo della guerra in Vietnam con la bambina nuda che fugge da un bombardamento al napalm e, ancora più recenti, i filmati dell'11 settembre con gli uomini che per scappare alle fiamme si lanciano giù dal World Trade Center, le decapitazioni islamiche, il corpo di Aylan senza vita sulla spiaggia turca. È una lista degli orrori, ma anche un monito che non dobbiamo dimenticare.

Sarebbe stato meglio non vedere tutte quelle immagini? Avremmo fatto un servizio migliore alla nostra società e alla storia? No. Purtroppo la vita reale non può essere sottoposta a un parental advisory, non può essere bollinata come i film in tv, non può essere preceduta - come una serie televisiva - dall'avviso «ci saranno scene di morte e distruzione». Quelle scene, purtroppo, ci sono. La morte e la distruzione esistono. Non spariscono se smettiamo di vederle. Spariscono, semmai, se iniziamo a combatterle. Tacerle, normalizzarle, pixellarle, photoshopparle per riportarle a una decente normalità, è un lavoro da struzzo, non da giornalista. Perché la storia è il lungo intreccio di piccoli frammenti di cronaca quotidiana, tasselli che tutti insieme costituiscono l'affresco delle nostre vite. Ed è ancora più importante farlo oggi, nell'era delle fake news e della manipolazione di massa dell'opinione pubblica.

Vietato abituarsi a questo orrore in diretta tv. Giacomo Susca su Il Giornale il 3 marzo 2022.  

Mai come in guerra il racconto della realtà non può prescindere dalla sua rappresentazione. L'invasione dell'Ucraina ha stravolto il palinsesto della quotidianità, deborda dagli spazi informativi tradizionali e invade gli schermi dei telefonini, mettendoci sotto gli occhi in ogni momento l'atrocità della strage alle porte dell'Europa. Il ritorno di scene che sembravano confinate nello sgabuzzino della storia porta con sé il tragico corollario di qualsiasi conflitto, da sempre: le bombe, i cadaveri per le strade, le città ridotte a cumuli di macerie, la disperazione dei profughi costretti a mollare tutto e fuggire. Ciò che rende questa guerra diversa da tutte le altre, però, è la sua visibilità assoluta e immediata. Lontana anni luce dalla Guerra del Golfo, la prima davvero «in diretta», pur nelle primitive immagini ad infrarosso che turbarono le notti dell'Occidente. E molto distante anche dall'ultimo teatro di instabilità del pianeta, in Afghanistan lo scorso agosto, laddove i social network avevano già svolto un ruolo decisivo nel riportare ciò che stava accadendo. Di quel mosaico narrativo sono rimasti nell'immaginario collettivo soprattutto due scatti: gli oltre 600 cittadini afghani accalcati nel cargo Usa che li salvava dall'inferno; e i talebani in posa, armati fino ai denti, nel palazzo presidenziale di Kabul.

Nella settimana che ha messo l'Ucraina al centro delle attenzioni globali le «copertine» che non potremo dimenticare sono già fin troppe. A cominciare dalle ultime 48 ore: il municipio di Kharkiv sotto la pioggia di missili, la torre della tv di Stato in fumo, l'interminabile colonna di mezzi militari russi in marcia verso Kiev, il coraggio dei civili che si oppongono ai carri armati sventolando una bandiera gialloblù... L'album dei simboli si aggiorna in tempo reale, ogni sera i talk show aprono «finestre live» per documentare come la frontiera del tollerabile si stia spostando ancora più in là. Teorizzava Roland Barthes a proposito del potere delle immagini: «La fotografia è violenta, non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista, e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi». Quanto abbiamo di più vicino alla verità, perfino nel campo minato della propaganda bellica. Giusto mostrare l'orrore per smuovere le coscienze, ma alla lunga il paradosso è ottenere l'assuefazione all'inaccettabile. Anche per questo il tempo gioca a favore di chi ha innescato la spirale di morte. «Questo non è un film», ha detto il presidente ucraino Zelensky nel suo appello agli Usa. Nell'era dello streaming l'umana indignazione non può essere «on demand». Dopo due anni di pandemia in lotta contro un nemico invisibile, stavolta è impossibile abituarsi. Vietato restare indifferenti, vietato cambiare canale di fronte all'orrore.

I ragazzi ci giudicano: la guerra vista dagli adolescenti. I giovani a caccia di notizie sui social navigando nel difficile mare delle fake news. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud l'1 Marzo 2022.

Jacopo è rimasto colpito dall’immagine del bambino che piange dietro i vetri della finestra di casa, mentre sotto di lui passano, con il loro rumore di odio e disperazione, i cingolati di quella che una volta si chiamava Armata Rossa, quando i comunisti mangiavano i bambini. Sara esplora qualsiasi social, compreso TikTok, l’ultima moda tra i modi della Generazione Z. Nicolò si affida di più a Instagram. Aurelio va a cercare i post sui social: non è difficile per i nativi digitali, basta guardare tra le tendenze del momento. L’Ucraina, la Russia, Zelensky, Putin, Biden sono tutti nell’empireo dei topic trend.

A CACCIA DI NOTIZIE

Lorenzo dà anche un’occhiata ai giornali e legge qualche articolo perché vuole capire di più, e il post non basta per capire, ma può servire giusto per una spolverata di informazione. O forse di disinformazione: difficile navigare nell’oceano delle fake news, dove l’onda anomala fa gigantesca schiuma.

Federica guarda le città e quelle strade che fino a qualche giorno fa erano probabilmente abitate da automobili e da vita e che adesso sono una piazza d’armi. Roberto segue i missili che squarciano il cielo di Kiev e dell’Ucraina tutta. Leonardo pensa a quel che vede: i banconi dei supermercati vuoti, piene le strade che portano verso un altrove che forse gli automobilisti che le percorrono non sanno neppure dov’è e dove sarà.

Jacopo, Sara, Nicolò, Aurelio, Federica, Leonardo, Roberto, sono alcuni tra le ragazze e i ragazzi della 5ª I del liceo scientifico “Primo Levi”, scuola romana che sta “verso l’Eur” o “verso la Laurentina”, questione di punti di vista.

Hanno vissuto, come tutti quelli dell’età loro, l’esperienza straniante della vita ai tempi del virus: la didattica a distanza, la socialità negata, i molti accadimenti che ne hanno condizionato il loro accesso al mondo e la loro crescita in questi disgraziatissimi anni.

Si preparano alla maturità (la loro è una lunghissima notte prima degli esami, altro che i romanzetti di Moccia e il fontanone del Gianicolo), si preparano alla “nuova normalità” che, come usa dire con frase abusata, “nulla sarà più come prima”.

IL PUTIN VERO COME L’IMITAZIONE DI CROZZA

A qualcuno di loro i discorsi di Putin sono sembrati i discorsi di un imitatore che gli facesse il verso, un Crozza sotto il Cremlino, sulla Piazza Rossa, verso il Teatro Bolshoi o la Basilica di San Basilio. Ma questo Putin non faceva sorridere.

Qualcun altro non giustifica il nuovo zar, ma cerca di comprendere, e «la colpa è della Nato, degli americani» e sa tutto dei missili a Cuba, dell’epoca castrista, di Kennedy che gli bastò minacciare perché i sovietici se ne tornassero a casa, la coda fra le gambe e i missili nel container. E c’è anche chi (ma sì, sono ragazzi, e parlano da rapper e trapper) dice che gli pare di assistere, «scusi la parola, a una gara su chi ce l’ha più lungo».

Sono sportivi i ragazzi della 5ª I del “Primo Levi” che non vivono sulla luna dei videogiochi, ma hanno anche letto “Se questo è un uomo”, come sarebbe bene facessero tanti dei nostri teenager, che se alcuni (molti?) non leggono probabilmente non è colpa loro: la scuola, la famiglia eccetera eccetera in spicciola sociologia.

Sono ragazzi di tutti i giorni: spazieranno un domani dall’ingegneria spaziale alla fisioterapia; qualcuno di loro è un’ipotesi di campione, come Maia, che ha già nel cassetto qualche medaglia internazionale nella disciplina dei tuffi, che è sport aperto alla discussione se si tratti di sport d’acqua per lo splash o d’aria per il volo che propone; qualcuno sfida certi pregiudizi duri a morire, come quello che ti vorrebbe un gigante per giocare a basket, come quello che magari può andare contro il bullismo di chi pensa che la ginnastica artistica non sia proprio il timbro della virilità.

Ma di questi tempi fluidi ancora queste baggianate? “Rappiamoci sopra”. Stanno imboccando il loro futuro in uno di quegli incontri di “avviamento all’università” (quello cui partecipano è organizzato dalla Link Campus University), si entusiasmano per la produzione di un podcast, la prova di organizzazione di un evento, la stesura di un post. Ascoltano, chiedono, commentano: l’Ucraina non è lontana come si potrebbe credere.

L’Europa e BigTech bloccano i media legati alla Russia. Martina Pennisi su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

Gli interventi di Facebook, Google, TikTok e Microsoft dopo l’annuncio della presidente della Commissione europea Ursula von der Layen. 

Europa e BigTech unite contro la Russia. È il quadro che sta emergendo, quantomeno in termini di annunci, nelle drammatiche ore dell’invasione dell’Ucraina. 

Domenica scorsa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato che l’Europa vuole vietare «la macchina dei media del Cremlino. Russia Today e Sputnik, di proprietà dello Stato, e le loro sussidiarie non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin. Stiamo sviluppando strumenti per vietare la loro disinformazione tossica in Europa». 

Nella reazione di ieri del sempre più potente Nick Clegg, da poco promosso alla presidenza degli affari globali di Meta, è evidente la volontà di sottolineare che le misure adottate dalle sue piattaforme arrivano in seguito a un lavoro «a stretto contatto con i governi». Non sono quindi solo frutto di scelte autonome del colosso californiano, che è così meno esposto a dubbi e critiche. «Data la natura eccezionale della situazione attuale, in questo momento limiteremo l’accesso a RT e Sputnik in tutta l’Ue» ha spiegato Clegg. 

Oggi è stato Google a rispondere alla richiesta comunitaria annunciando il blocco dei «canali YouTube collegati a RT e Sputnik in tutta Europa, con effetto immediato. Ci vorrà del tempo prima che i nostri sistemi si attivino completamente». Anche in questo caso la limitazione riguarda solo il Vecchio Continente, con un ritorno del cosiddettosplinternet , termine diventato noto nel 2020 che indica quel fenomeno per cui le leggi dei singoli Paesi o le decisioni delle aziende in nome di privacy o sicurezza — non necessariamente inutili o repressive — stanno spezzettando la Rete in tante parti non collegate fra loro. Tornando ai media russi, anche la cinese TikTok si è allineata alle aziende americane, mentre Twitter si è limitato a dichiarare che etichetterà i tweet che condividono link a siti affiliati al Cremlino. 

Fra le altre mosse: Microsoft ha bloccato i download dell’app Rt sullo store di Windows in tutto il mondo, Google ha sospeso alcune funzionalità delle Mappe in Ucraina, per evitare di fornire informazioni agli attaccanti. E ancora: Elon Musk — rispondendo a una sollecitazione su Twitter del vice premier e ministro per la Trasformazione digitale ucraino, Mykhailo Fedorov — si è attivato per garantire la connessione alla Rete tramite i satelliti Starlink di SpaceX in Ucraina. E Google e Apple hanno inibito i loro sistemi di pagamento Google Pay e Apple Pay ad alcune banche russe.

Tv, dal virologo si è passati all’esperto di geopolitica: ma la cosa peggiore sono i professionisti della rissa. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

L’inevitabile cambiamento di priorità si riflette anche sul piccolo schermo: ma la guerra è una cosa seria e non possiamo permetterci la stupidità dei litiganti per partito preso. 

Lo so, la constatazione rischia di essere banale e fin troppo scontata: «Tutti quelli che fino a ieri facevano gli esperti di Covid adesso sono diventati esperti di geopolitica». Ma ancora una volta è successo, e questa è una delle grandi leggi dei talk: quello che conta è il personaggio, non quello che si dice, quello che conta è la capacità di interpretare un ruolo, non di ragionare. Il ricambio è stato rapido. Da un giorno all’altro siamo passati da virologi, infettivologi, epidemiologi a strateghi militari, esperti di geopolitica, analisti economici. Volti nuovi, mai visti prima. Dal Coronavirus al Putinvirus, a spiegare come il “mostro” sia cresciuto poco alla volta, immerso in una marinatura di dispotismo assoluto, aggressività imperiale, odio per la democrazia occidentale.

Abbiamo il vaccino per fermarlo? L’informazione ha le sue esigenze ma in questi due anni abbiamo imparato come un ingestibile eccesso di informazioni trasformi l’allarme in allarmismo e ci allontani definitivamente dalla comprensione. In più, la tv facilita quei processi di narcisismo, di presenzialismo che finiscono poi per ritorcersi contro la cognizione del fenomeno. Ora bisogna aver grade stima di chi ci aiuta a capire gli obiettivi di Putin, la sua strategia bellica, le sue mire. Esattamente come avevamo stima degli scienziati. La cosa peggiore che possa capitare è che i personaggi che venivano invitati nei talk per svolgere il ruolo della controparte (più correttamente: per suscitare la rissa) vengano ora invitati per parlare dell’invasione della Russia. Abbiamo già visto Francesca Donato passare dal ruolo di no vax a quello di no pax. Era ospite di “Non è l’Arena” e sulle repressioni di San Pietroburgo non ha resistito: «Anche Stefano Puzzer è stato arrestato a Roma. Se dobbiamo parlare della libertà di espressione, non è che diamo dei grandi esempi anche in Italia». Attenzione: dalla competenza alla stupidità il passo è breve.

  Daniele Dell'Orco per “Libero Quotidiano” il 3 marzo 2022.

Sembra quasi un grido d'aiuto quello di Matteo Bassetti, una delle virostar che da due anni spadroneggiano nei piccoli schermi di tutte le case d'Italia per spiegarci le evoluzioni della pandemia da Covid-19.

Nonostante qualche scivolone qua e là, Bassetti, infettivologo del Policlinico San Martino di Genova, è comunque uno dei professionisti più titolati per spiegare le implicazioni dell'epidemia ma pure uno di quelli che non ha mai negato un certo "feeling" con i riflettori.

Ora, però, vista la tragedia della guerra in Ucraina quelle luci si sono spostate altrove, e lui, parlando all'AdnKronos, pare non averla presa bene: «Trovo assurdo oggi non parlare completamente più di Covid come se il problema fosse solo la guerra in Ucraina, che è una tragedia davanti la quale siamo attoniti. Ma non considerare più i rischi legati al virus la trovo un'idea cervellotica e non la comprendo». 

Magari perché, a differenza dell'infettivologia, il giornalismo non è il suo mestiere e forse non sapeva di poter essere sottoposto anche lui un giorno alle leggi della notiziabilità. Quelle stesse leggi che oggi premiano altri profili, molti dei quali magari sconosciuti ai più fino a ieri l'altro, ma professionisti di livello che ora vengono anche ricoperti dalla dolce patina della notorietà grazie al (o sarebbe meglio dire a causa del) conflitto nell'Europa orientale.

Come Dario Fabbri, analista geopolitico nonché saggista e firma del quotidiano Domani per cui cura anche il mensile Scenari. Uno che di equilibri politici internazionali se ne intende e che ora, soprattutto sui programmi di La7, fa sempre più spesso compagnia al pubblico italiano.

Così come Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, prodotto eccellente anche se non molto divulgativo e apprezzato soprattutto dagli addetti ai lavori o dagli appassionati del tema. Ora invece la sua platea grazie alle ospitate da Lilli Gruber, sarà destinata ad ampliarsi parecchio.

Gli sarà d'aiuto anche Germano Dottori, che oltre ad insegnare Studi strategici all'Università Luiss-Guido Carli di Roma, è anche consigliere redazionale proprio di Limes. Lui a Quarta Repubblica è un ospite quasi fisso.

Altro profilo apprezzato dagli autori tv è quello di Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) oltre che già Consigliere Strategico del Ministero della Difesa dal marzo 2012 al febbraio 2014. 

Soprattutto, è membro del Comitato Consultivo della Commissione Internazionale sulla "Non Proliferazione e il Disarmo Nucleare". Un tema di cui si parla sempre più spesso visti i tanti riferimenti agli ordigni atomici fatti dai vari capi di Stato.

Tra i docenti anche Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo dell'ISPI e con la cattedra di Relazioni Internazionali all'Università Bocconi. In rampa di lancio invece Alessandro Marrone, Responsabile Programma Difesa dell'Istituto Affari Internazionali e concentrato anche nel ritrarre il quadro organizzativo pre e post crisi in Ucraina da parte della NATO.

Profilo anche governativo quello di Marta Dassù, che è stata sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri nei Governi Monti e Letta, ma è apprezzata saggista e membro della Commissione Trilaterale e del comitato esecutivo dell'Aspen Institute, oltre che direttrice della rivista Aspenia.

Poi ci sono i sempiterni, che però alle volte rischiano di sembrare off topic. Una lista sarebbe troppo lunga. Si vede sempre più spesso l'economista e politologo Edward Luttwak, che torna di moda quando ci sono (ciclicamente) grandi crisi internazionali come quella recente in Afghanistan, ma che comunque qualche apparizione anche per parlare di politica interna italiana, politica economica o restrizioni pandemiche non si tira indietro. 

O come il filosofo Andrea Zhok, che ha iniziato a brillare in tv da ospite ricorrente di diMartedì in qualità di voce dissenziente sul green pass ma che ora, sebbene l'agenda informativa sia cambiata, nel talk di Floris qualche analisi sul conflitto tra blocco occidentale e mondo post-sovietico la concede comunque.

Dimartedì, "a nome di chi parli?" Veleni e sospetti, botte da orbi su Putin tra Foa e Damilano. Il Tempo l'01 marzo 2022.

Scontro al fulmicotone tra l'ex presidente della Rai, Marcello Foa, e il direttore de L'Espresso Marco Damilano mentre infiamma la guerra in Ucraina. Martedì 1 marzo nel salotto di Giovanni Floris a Dimartedì, su La7, si parla di Russia e di Vladimir Putin. Per Foia l'invasione dell'Ucraina "è un episodio che segna una doppia sconfitta perché in termini strategici chi ricorre all'uso delle armi è il perdente", dice Foa. Per l'ex capo della Rai Putin "hai già perso" ma "ha perso anche l'Occidente perché un tema sensibile come quello dell'Ucraina e i rapporti con la Russia andava gestito in un'ottica di prevenzione e di prospettiva strategica diversa rispetto a quella che è stata scelta negli ultimi anni" dall'Europa e dall'Italia. 

L'incubo peggiore, l'invio di armi può trascinarci in guerra: "Se la Russia attacca i nostri convogli..."

Per Foa "non siamo riusciti a impedire una guerra che forse poteva essere evitata, e in questo momento c'è un sentimento di grande smarrimento. Putin non potrà vincere facilmente perché per farlo l'unico modo è bombardare le città tappeto e secondo me questo, se accadesse, sarebbe veramente la sconfitta definitiva di immagine" del presidente russo. Senza contare che "non credo che i russi accetterebbero che loro fratelli ucraini civili possano essere bombardati impunemente", conclude. 

La parola passa a Damilano che dopo un preambolo sulla repressione dei dissidenti in Russia parte con l'affondo a Foa: "Faceva il commentatore per agenzie come Sputnik e Russia Today, diceva frasi tipo: in 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. Diceva che le rivolte in Ucraina erano pianificate e  guidate dall'Occidente. E oggi in Parlamento vota all'unanimità..." è l'affondo di Damilano secondo cui "il partito di Putin e in questa legislatura, e lo dico anche ad Alessandro Di Battista (presente in studio, ndr) ha avuto per anni la maggioranza. E infatti ha nominato Marcello Foa presidente della RAI proprio perché aveva quel curriculum". 

Dopo l'affondo scatta il botta e risposta con Foa che ribatte: "Non posso accettare in nessun modo questo tipo di critica, io sono venuto qui per parlare di strategie di problemi della Russia non per essere messa sotto accusa con accuse infamanti". Il giornalista controreplica "A nome di chi parla? Per Sputnik o Russia Today?" E Foa: "Mi ha chiesto interventi anche la Cnn. Sono affermazioni scandalose e vergognose", conclude. 

Il sistema-Italia succube di un fornitore dominante: la Russia. Gas, Italia a secco per colpa dei populisti, ma il Fatto Quotidiano lancia una fake: “Eni ha prosciugato l’Adriatico”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

Anche le fake news vanno a tutto gas. Sul Fatto: “Il gas italiano è finito perché Eni ha prosciugato l’Adriatico”. Al contrario, chi si occupa di estrazione gassosa riferisce l’opposto: di giacimenti saremmo ricchi, ma le ricerche sono state fermate. «La vulnerabilità italiana, oggi che il gas russo potrebbe saltare, si rivela a nudo: abbiamo ceduto troppo sul terreno della dipendenza energetica», dice Paolo Scaroni. Il manager, uscito da Eni ormai da anni, può intervenire nel dibattito apertis verbis.

Elenca, intervistato da La7, le occasioni sprecate: prima il referendum sulle trivelle e poi il movimento no-Tap, l’opposizione ai rigassificatori e la rinuncia agli esperimenti sul nucleare di quarta generazione. Errori che, inanellati con sapienza in una sequenza dissennata, hanno portato il sistema-Italia ad essere succube di un fornitore dominante, la Russia, davanti al quale sono stati eliminati uno a uno tutti gli elementi di disturbo. Tutte le battaglie di bandiera del M5s, a ben guardare. Se ne ricorda bene Teresa Bellanova, che proprio per difendere la Tap ricevette, era il 2018, tante di quelle minacce da essere sconsigliata dai funzionari di polizia nel proseguire la sua campagna elettorale in certe località. L’operazione che è stata compiuta negli ultimi anni è da manuale del guastatore.

Si pensi che nel 2020 il gas naturale estratto in Italia era di soli quattro miliardi e 417 milioni di metri cubi in un anno, stando al Piano per la transizione energetica delle aree idonee (Pitesai) del ministero per la Transizione ecologica. Mentre è di 76,1 miliardi di metri cubi il fabbisogno nazionale. Ora da più parti si grida allo scandalo: trent’anni fa ne estraevamo 30 miliardi di metri cubi l’anno. E siamo il Paese che – come ebbe la sventura di far notare per primo Enrico Mattei – avrebbe giacimenti valutati attorno ai 350 miliardi di metri cubi. Si è preferito far finta di niente e importarlo: per il 37,8 per cento quel gas arriva dalla Russia. Ed è un gas politicamente velenoso. Il governo ha intrapreso il percorso del ravvedimento operoso e iniziato il potenziamento nell’estrazione di gas italiano.

Ora è al lavoro «per aumentare le forniture alternative»: il gas naturale liquefatto importato dagli Stati Uniti (su cui Biden ha già dato disponibilità) che però sconta in Italia un limitato numero di rigassificatori in funzione. «Per il futuro, è quanto mai opportuna una riflessione anche su queste infrastrutture» ha auspicato il premier. Il governo intende lavorare «per incrementare i flussi da gasdotti che lavorano non a pieno carico» come il Tap dall’Azerbaijan, il TransMed dall’Algeria e dalla Tunisia, il GreenStream dalla Libia.

Quest’ultimo non va sottovalutato. Ha una portata potenziale di 30 miliardi di metri cubi, un terzo dei nostri consumi, l’attuale è meno di 8 miliardi a causa del caos in cui è precipitato il Paese dal 2011 con l’attacco a Gheddafi di Francia, Usa e Gran Bretagna che poi hanno lasciato la Tripolitania alla Turchia e la Cirenaica a egiziani e russi. E anche il governo di Tokyo sarebbe a lavoro con i partner europei per aumentare la quantità di gas naturale liquefatto (Gnl) destinata all’Europa. Come il Qatar che potrebbe raddoppiare le esportazioni verso Italia, Austria e Germania in pochi giorni. Si pone un problema nell’immediato: compensare quanti nel tessuto produttivo – dalle Pmi alle grandi aziende – vanno incontro a criticità gravi, almeno in una prima fase dello “Switch” al nuovo gas-mix.

Matteo Renzi ha provato a formulare una proposta: stabilire un aiuto europeo di portata perfino superiore a quello per il Covid. «Servono almeno dieci miliardi per le aziende italiane che saranno colpite dalle sanzioni», avvisa il leader di Italia Viva. Silvio Berlusconi sullo stesso tema aveva rilanciato «l’urgenza della riforma del Patto di Stabilità». «La nostra proposta – dice il leader di Azione, Carlo Calenda, al Riformista – è la seguente: vanno riattivate, provvisoriamente, le centrali a carbone sia quelle che sono state messe in stato di conservazione, proprio per tenerle pronte nel caso ci fosse un’emergenza, in modo tale da ridurre la dipendenza dal gas, in generale, di circa il 50% per tutto il periodo della crisi». Matteo Salvini si adegua: «In questa fase sosteniamo il governo su tutto, oggi non è possibile dividersi». Dalla Farnesina, Luigi Di Maio guarda alla sponda sud del Mediterraneo: «Dall’Algeria sono possibili arrivi di quantità di gas importanti».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Ucraina, l'ambasciata russa elogia Marco Travaglio: "Guerra nata dalla troppe bugie". Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.

"Un’analisi delle ragioni del conflitto. Da leggere." Così si legge nel sorprendente tweet dell'Ambasciata russa in Italia che elogia - e rilancia - l'articolo de Il Fatto quotidiano firmato da Barbara Spinelli, giornalista ed ex eurodeputata, intitolato: "Una guerra nata dalle troppe bugie". Una lettura "filo-russa" del conflitto in Ucraina scoppiato dopo l'invasione ordinata da Vladimir Putin alle forze armate di Mosca.

In quel pezzo, osserva Hoara Borselli su Il Tempo, la giornalista se la prendeva con gli Stati Uniti e con l'Europa, colpevoli entrambi di non essere riusciti a prevedere e prevenire l'aggressione della Russia in Ucraina nonostante Putin avesse "già mostrato tutti i sintomi di un'insofferenza evidentemente sottovalutata. L'Europa - scriveva la Spinelli - riconosca i suoi errori e le bugie come responsabili del massacro che sta avvenendo in Ucraina. L'articolo spiega per filo e per segno tutte le ragioni di Putin, anche se poi le definisce 'smisurate'".

E con questo elogio a Travaglio e Spinelli, la Russia, conclude la Borselli, "usando un linguaggio travagliano, fa una bella leccata al Fatto Quotidiano, indicandolo come la vera fonte dell'informazione giusta, in alternativa a quelli che Travaglio (e forse anche Putin) chiama i giornaloni. Ma questa leccata, è chiaro, è la conseguenza della leccata precedente, quella del Fatto verso Santa Madre Russia". Da notare, infine "il voltafaccia. Ma Marco non era il giornalista più filoamericano di tutt'Italia? Una volta dicevano addirittura che fosse l'allievo di Montanelli".  

La «Controinformazione» di Toninelli: l’Ucraina è già nell’Ue. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

L’ex ministro M5S su Facebook nel tentativo di proporre un’informazione alternativa incappa in uno sfondone e include l’Ucraina tra i paesi dell’Ue. 

«L’espansione della Nato a est c’è stata, è stata enorme. E l’Ucraina, facendo parte dell’Unione europea, capite bene che poteva ambire a entrare nella Nato e rompere l’ultimo stato di confine tra la Russia e i paesi della Nato». Così parlò Danilo Toninelli, indimenticato ministro per le Infrastrutture del primo governo Conte, nel suo appuntamento con la «Controinformazione» che conduce su Facebook. L’esponente del Movimento 5 Stelle, non nuovo a clamorose gaffe, dà per scontato e già avvenuto quello che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha appena chiesto per il suo paese vittima dell’invasione russa decretata da Vladimir Putin: l’ingresso nell’Unione europea.

Toninelli da tempo si è dedicato ad un «mestiere», quello della controinformazione, che non maneggia particolarmente bene non essendo mai stato, in nessuna forma, un esperto di comunicazione. E lo ha dimostrato diverse volte, con uscite che hanno scandito la sua ancora breve carriera politica. La gaffe più famosa riguarda il tunnel del Brennero. A margine di un incontro con la commissaria Ue Violeta Bulc disse: «Sapete quante delle merci italiane, quanti degli imprenditori italiani utilizzano con il trasporto principalmente ancora su gomma il tunnel del Brennero?». Peccato che l’opera non sia ancora stata completata e che comunque sarà una infrastruttura esclusivamente ferroviaria...

Nei giorni e nei mesi successivi alla tragedia del crollo del Ponte Morandi l’allora ministro fu protagonista di gesti discutibili. Come l’esultanza, con pugno alzato, per l’approvazione del decreto Genova, o come la proposta di trasformare un viadotto a 45 metri d’altezza un luogo vivibile, in cui «le persone possono vivere, possono giocare, possono mangiare». Tra gli altri exploit si ricorda di quella che volta che chiamato in tv a parlare di veicoli a diversa fonte di alimentazione (con lo slogan «Avanti con l’elettrico») Toninelli ammise di aver acquistato una Jeep Compass diesel, un veicolo di quelli sui quali il governo di cui lui era esponente aveva appena introdotto l’ecotassa per l’inquinamento atmosferico.

L’Ue blocca le tv del Cremlino: stop alle bugie russe sull’ Ucraina. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Febbraio 2022.

“Russia Today e Sputnik, controllate dal governo, e le testate a loro legate non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin e creare divisioni nell’Unione” ha chiosato la presidente della Commissione Ue “Stiamo sviluppando gli strumenti per vietare questa disinformazione tossica e dannosa in Europa”.

L’Unione Europea si schiera contro anche le emittenti russe, emanazione di Mosca, applicando non solo sanzioni economiche. “Con una mossa senza precedenti vieteremo la presenza in Ue della macchina mediatica del Cremlino”, ha annunciato Ursula von der Leyen, presentando altre decisioni prese dall’Ue sul conflitto. 

“Russia Today e Sputnik, controllate dal governo, e le testate a loro legate non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin e creare divisioni nell’Unione” ha chiosato la presidente della Commissione Ue “Stiamo sviluppando gli strumenti per vietare questa disinformazione tossica e dannosa in Europa”.

Nei giorni scorsi Lituania ed Estonia, due ex repubbliche sovietiche oggi membri Ue e Nato, con importanti minoranza russofone, hanno bloccato le trasmissioni sul loro territorio di una serie di emittenti in lingua russa, dopo la diffusione del discorso di Vladimir Putin che annunciava l’invasione. Tra loro ci sono Rtr Planeta, Ntv Mir, Rossija 24, TV Centre International e la bielorussa Belarus 24.

Nessuna tregua per le emittenti nemmeno sui social e in rete. Instagram e Facebook hanno iniziato a identificare, i profili che sono considerati di propaganda, con apposite segnalazioni. Provando, per esempio, a consultare la pagina dell’agenzia di stampa russa Tass, compare un messaggio che avverte l’utente: “Contenuti multimediali controllati dal seguente stati: Russia”.

“Facebook ha contrassegnato questo editore perché ritiene che possa essere totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale di uno stato”, ha spiegato il social. “Questo è stabilito in base a una serie di fattori tra cui, a titolo esemplificativo, il finanziamento, la struttura e gli standard giornalistici”.

In più, Meta ha anche vietato ai media statali russi di pubblicare inserzioni pubblicitarie o trarre profitto dai suoi annunci sulla propria piattaforma in qualsiasi parte del mondo. 

Analoga scelta quella di YouTube. La piattaforma video americana ha sospeso diversi canali russi, tra cui quello del canale di stato RT, impedendo loro di guadagnare dalla presenza sul sito. La decisione è stata motivata da “circostanze straordinarie” ha spiegato Farshad Shadloo, portavoce del sito. RT, ha aggiunto, ed altri canali non saranno accessibili in Ucraina dopo “una richiesta del governo”.  

Nelle ultime 48 ore la società proprietaria di Facebook ha anche rimosso una rete di 40 account, gruppi e pagine che operavano dalla Russia e dall’Ucraina. La società Meta sostiene che un gruppo di hacker ha usato Facebook per attaccare personaggi pubblici ucraini, tra cui funzionari militari, politici e un giornalista. Nelle ultime 48 ore la società proprietaria di Facebook ha anche rimosso una rete di 40 account, gruppi e pagine che operavano dalla Russia e dall’Ucraina. E un portavoce di Twitter ha fatto sapere di aver sospeso una dozzina di account che violavano le regole contro la manipolazione della piattaforma. L’agenzia di stampa Reuters afferma che Meta ha accusato Ghostwriter, un gruppo di hacker che ha tentato di pubblicare video che ritraggono le truppe ucraine come in difficoltà e pronti alla resa, con tanto di bandiera bianca. Il team security di Meta ha adottato misure per proteggere gli account nel mirino ma ha rifiutato di fornire i nomi degli obiettivi, anche se ha fatto sapere di averli avvertiti. E ha trovato collegamenti tra questa rete e un’operazione del 2020 che riguardava il Donbass.

La reazione del Governo Russo

Arriva all’alba di ieri l’annuncio del Roskomnadzor, il “servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa”, che – come segnala Adnkronos – ha chiesto a Meta di eliminare qualsiasi tipo di restrizione, compreso il controllo della veridicità dei contenuti, per i post social degli organi ufficiali di informazioni dello stato. La Russia afferma che Meta non abbia mai risposto, e nel comunicato accusa Facebook di “violare fondamentali diritti umani di libertà”. Inoltre, il socialnetwork di Zuckerberg è accusato di aver censurato i media statali 23 volte dall’ottobre 2020.

Come risultato, l’utilizzo di Facebook verrà limitato a partire da subito all’interno della Russia, anche se non è ancora chiaro in quale modo.

“I cittadini russi usano le nostre app per esprimere le loro opinioni e organizzarsi ad agire”, ha dichiarato Nick Clegg, President of Global Affairs di Meta. “Vogliamo che possano continuare a far sentire la propria voce, condividere che cosa sta accadendo, e organizzarsi tramite Instagram, WhatsApp e Messenger”.

Il Regno Unito chiede l’intervento di Ofcom

Anche da Londra arrivano aperte critiche ai media filo Putin. Dopo che in settimana Nadine Dorries, segretario alla Cultura, aveva scritto all’Ofcom, l’autorità inglese che vigila sui media, accusando RT UK fare “disinformazione dannosa”, ora a prendere posizione contro l’emittente è Boris Johnson.

“Spaccia materiale che fa molto danno alla verità”, ha detto il primo ministro sollecitando Ofcom a riesaminare la posizione di RT UK per verificare se la sua copertura dell’invasione russa “violi le regole vigenti in questo Paese”. Redazione CdG 1947

La battaglia delle parole. Putin sta perdendo la guerra (anche) sul fronte della propaganda. Luigi Daniele su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022

Il Cremlino si aspettava sostegno in patria e la resa della popolazione ucraina, ma i calcoli si sono rivelati sbagliati. Soprattutto ha sottovalutato le capacità mediatiche di Volodmyr Zelensky, che ha mantenuto la comunicazione con i cittadini e con la comunità internazionale, rilasciando frequenti dichiarazioni con toni franchi ma appassionati ed esortando alla resistenza.

«Abbiamo catturato circa 200 soldati russi, molti dei quali hanno sui 19 anni. Sono mal equipaggiati e con un addestramento inesistente: abbiamo loro permesso di telefonare a casa, le famiglie appaiono completamente sorprese»: le parole pronunciate domenica di Borys Kremenetskyla, generale maggiore dell’esercito ucraino, sulla scelta di permettere ai prigionieri russi di chiamare a casa sono solo un esempio di una serie di mosse con cui l’Ucraina, e in particolar modo il suo presidente Volodymyr Zelensky, stanno riuscendo a battere Putin sul piano mediatico.

L’avanzata delle truppe russe, nel primo giorno di conflitto, è sembrata inarrestabile. Per ogni persona che osservava gli eventi da lontano, Kiev era destinata a cadere in poche ore, Zelensky un uomo il cui destinato era segnato. Nel momento in cui scrivo, però, nella capitale si continua a resistere e nonostante i bombardamenti aerei e il fuoco d’artiglieria, l’avanzata russa in Ucraina sembra procedere molto lentamente. Una situazione che rivela una dinamica altrettanto inattesa: nel corso di questa guerra, Putin sta soffrendo lì dove è tradizionalmente forte: nella propaganda.

Come ha affermato il Segretario alla Difesa britannica Ben Wallace, basandosi su rapporti della sua intelligence, l’offensiva decisa da Mosca si basava su due valutazioni: che il supporto al governo da parte degli ucraini sarebbe crollato con l’avanzare delle truppe di Mosca, e che la popolazione russa avrebbe condiviso l’operazione. In quest’ottica, nelle speranze di Putin la superiorità tecnica e numerica dei russi avrebbe garantito un conflitto rapido, con una transizione di potere in tempi brevi. Le cose, però, non stanno andando così.

Prima di tutto, la popolazione ucraina si è dimostrata molto più coriacea di quanto Putin si aspettasse. Soprattutto, già dai momenti iniziali dell’invasione, quelli più incerti e privi di punti di riferimento, si è mostrata fedele al presidente Zelensky. In questo clima, una scelta forte come quella di indire la mobilitazione generale non ha incontrato resistenze da parte della popolazione, anzi negli scorsi giorni migliaia di civili si sono arruolati volontari per provare a difendere le proprie città. Diversi media, inoltre, hanno mostrato come per le strade di Kiev molte persone comuni stiano seguendo le indicazioni del governo, preparando molotov e paracarri per rallentare l’avanzata di Mosca.

Anche in Russia le cose non vanno come sperato da Putin: nonostante la durissima repressione delle manifestazioni e il divieto per i media di chiamare «guerra» il conflitto in corso, decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro l’intervento militare deciso da Putin, e a oggi gli arresti sono circa duemila. Se non bisogna fare l’errore di sovrastimare questa parte della popolazione, confondendola con la “Russia profonda”, non si può d’altra parte sottostimarla, non vedendola come la dimostrazione di un errore di calcolo di Putin che, alla lunga, può intaccare il supporto alla guerra oltre che trasformarsi in problema di ordine pubblico, che il governo russo si troverebbe a gestire in una fase già delicata.

A dimostrazione di queste difficoltà, nel pomeriggio di venerdì Mosca ha compiuto due mosse che stridono fra loro, ma che hanno rivelato come le cose non stessero andando come previsto. Il Cremlino infatti ha dapprima invitato il governo ucraino a Minsk per trattare (segno che la rapida vittoria, forse, non era più vista come certa), e qualche ora dopo Putin ha esortato le forze armate ucraine al colpo di Stato contro quei «neonazisti e drogati» che governano il Paese. Il fatto che a questo invito non sia seguita nessuna reazione dell’apparato militare ucraino, dimostra quanto l’assunto iniziale di Putin fosse errato, e al tempo stesso quanto per i russi l’invasione si stesse rivelando più difficile ed esosa di quanto preventivato.

Ma se l’Ucraina si è scoperta un Paese così unito e pronto al sacrificio è anche merito del suo presidente Volodymyr Zelensky, e delle sue scelte comunicative e mediatiche. Fin dalle primissime fasi dell’invasione, Zelensky ha mantenuto molto attiva la linea di comunicazione con il proprio Paese e con la comunità intenzionale, rilasciando frequentemente dichiarazioni stampa. I toni, da subito, sono stati franchi ma appassionati: il presidente non ha mai nascosto che la difesa ucraina non era in grado di tenere testa a lungo all’esercito di Mosca, ma il governo e la popolazione avrebbero fatto di tutto per difendere il Paese, facendo spesso riferimento al diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Una linea comunicativa che ha dato motivazione alla popolazione ucraina, facendo si che si stringesse attorno al proprio presidente, e che ha presentato al mondo l’Ucraina come Davide contro Golia, stimolando subito accese simpatie e moti di sostegno nell’opinione pubblica di molti Paesi (sostegno che sarà fondamentale nel supporto politico alle sanzioni).

Con l’arrivo dei russi alle porte di Kyiv, Zelesnky ha moltiplicato le comunicazioni informali, pubblicando video e brevi dichiarazioni sui social, formati che rendevano evidenti le difficoltà che lui stesso stava vivendo, definendosi «l’obiettivo numero uno» dell’offensiva russa e affermando in un colloquio con il cancelliere austriaco di «non sapere fin quando sarà in vita», rinforzando così il legame di empatia della popolazione e dell’opinione pubblica internazionale verso di lui e l’Ucraina. Soprattutto, Zelensky è stato da subito chiarissimo nelle sue intenzioni di non abbandonare il Paese e la capitale, e di voler rimanere a fianco delle truppe e della popolazione impegnate a combattere, e lanciando appelli alla popolazione a resistere attivamente e sottolineando l’eroismo dell’esercito.

Due video, in particolare, hanno consacrato quest’immagine: quello pubblicato sabato sera, in compagnia dei suoi ministri nel quartiere governativo di Kyiv, per smentire la notizia secondo la quale era scappato dal Paese, e quello diffuso il giorno dopo, in cui mostrandosi ancora per le strade della capitale rifiuta l’offerta degli Usa, che si erano proposti di aiutarlo a fuggire, affermando «non mi serve un passaggio, mi servono munizioni»; una frase ad effetto, che comprensibilmente nelle ore seguenti è girata molto sui media e sui social e che ha confermato la sua immagine di combattente al fianco del suo popolo, rinforzata anche dalla scelta di apparire, con l’intensificarsi dell’offensiva, sempre in divisa o in abbigliamento tecnico.

Grazie alle sue scelte comunicative, Volodymyr Zelesnky, che nelle intenzioni di Putin doveva essere deposto poco dopo l’inizio dell’invasione, è apparso intransigente, irriducibile, pronto a morire a Kyiv, se necessario, al fianco del suo popolo. Non è un caso, del resto, che sulla stampa e sui social molti lo abbiano paragonato a Salvador Allende, il presidente democraticamente eletto del Cile, che nel 1973 fu deposto dal golpe di Pinochet supportato dagli USA, che rimase a combattere nel palazzo del governo contro le forze golpiste, finendo ucciso.

Zelensky, inoltre, nelle sue dichiarazioni ha sempre tenuto separati Putin e il popolo russo, e la scelta di permettere ai prigionieri di chiamare a casa, così come quella di creare un numero verde per le famiglie russe che hanno soldati al fronte, potrebbero avere un forte effetto psicologico, riuscendo ad ampliare il movimento d’opinione contro l’offensiva presente attualmente in Russia, coinvolgendo anche chi ha i propri cari direttamente impegnati nel conflitto.

L’esito dell’invasione è incerto, così come il destino personale di Zelensky. Nonostante la superiorità tattica russa, le scelte del presidente ucraino hanno avuto un ruolo centrale nel tenere in piedi la resistenza ucraina, facilitando una coesione nazionale e una solidità motivazionale che potrebbero rendere le cose molto difficili all’esercito di Mosca nel lungo periodo. La guerra si combatte anche sul fronte mediatico e propagandistico, e in questo sembra che l’ex comico diventato presidente stia davvero vincendo sull’ex agente del KGB.

Perché l’Ucraina sta vincendo la social media war contro la Russia. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022. 

È come se la fabbrica russa di falsità e disinformazione si fosse inceppata. Mentre in Ucraina si stanno sfruttando al meglio le armi social: sfidano e ridicolizzano i nemici, mostrano al mondo la determinazione di un intero popolo.

Il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov incita i cittadini a postare su Facebook e sulle altre reti sociali le immagini dell’invasione russa con un enfatico «V oi siete le nostre armi!». Volodymyr Zelensky, l’attore considerato fino a ieri un «presidente per caso» diventa in pochi giorni un eroe planetario già consegnato alla storia grazie al suo coraggio, ma anche alla tempestività e alla perizia con le quali ha usato i social media. Pronto a smentire l’insinuazione di una sua fuga e le voci di resa dei suoi soldati, determinato nell’incitare gli ucraini alla resistenza, capace di toccare, coi suoi appelli, il cuore della gente in tutto il mondo.

Il leader ha sfidato gli aggressori di Putin con video diurni e notturni per le strade della capitale postati su Telegram, con raffiche di messaggi su Twitter dove i suoi follower sono passati da 500 mila a quasi 5 milioni in meno di una settimana. Ieri, anche l’invito del presidente ai giovani a mobilitarsi su TikTok: la rete sociale per teenager zeppa di video modaioli, di fitness e di danza, improvvisamente diventata il veicolo che ha meglio documentato nelle settimane scorse i preparativi militari della Russia e sulla quale ora gli influencer ucraini sono passati dalla promozione dei prodotti e dai racconti di viaggio in località esotiche, agli inviti alla resistenza e agli appelli ai loro coetanei russi.

Parlare della guerra in Ucraina come della prima social media war può sembrare banale o fuorviante: in ogni conflitto è importante vincere, oltre a quella del campo, la battaglia della comunicazione per galvanizzare la propria gente, demoralizzare l’avversario e conquistare consenso internazionale da spendere al tavolo dei negoziati. Google e Facebook, poi, sono armi importanti da tempo: centrali, ad esempio, nella rivoluzione della primavera araba di 11 anni fa che non finì bene. Magari fra qualche giorno i russi schiacceranno la resistenza ucraina e metteranno anche qui il lucchetto alle reti sociali, come cercano di fare in patria.

Ma quello che sta succedendo in questi giorni è davvero straordinario e senza precedenti. Un intero popolo, coraggioso e abile nell’uso degli smartphone, inonda l’Ucraina e il mondo di messaggi che colpiscono su vari fronti: sfidano gli aggressori russi (i soldati ucraini che danzano impugnando bazooka e missili anticarro, altri che accolgono il nemico con un “benvenuti all’inferno”), li ridicolizzano (il trattore che si porta via il carro armato in avaria, i cittadini che sfottono i soldati dei tank rimasti senza benzina: “serve una spinta?”), mostrano al mondo la determinazione di un intero popolo (le piazze affollate di gente che riempie migliaia di bottiglie trasformate in bombe Molotov). Molti video diventano manuali di istruzioni: spiegano alla popolazione come difendersi dai cecchini, come preparare ordigni rudimentali, come ostacolare l’avanzata dei russi cambiando la segnaletica stradale, costruendo barricate, incendiando pneumatici. E poi le testimonianze visive dei bombardamenti, dei massacri, delle sofferenze dei civili, dei bimbi. E le immagini – umilianti per Putin – dei prigionieri russi: spesso ragazzi non ancora ventenni, poco addestrati, ripresi mentre, spaventati, parlano al telefono coi loro genitori.

Dalla tribuna dell’assemblea generale dell’Onu, l’ambasciatore ucraino Sergiy Kyslytsya legge uno screenshot preso dal telefonino di un soldato russo morto in battaglia: «Bombardiamo, attacchiamo anche i civili. Eppure ci avevano detto che qui saremmo stati accolti bene dalla gente». Messaggio autentico? Un post manipolato col quale lanciare un’accusa mascherata da autocritica? Nella guerra digitale, si sa, circola di tutto: anche disinformazione e leggende metropolitane.

Come quella del ghost of Kiev: il pilota fantasma che col suo vecchio Mig 29 degli anni Settanta sarebbe riuscito ad abbattere, sbucando dal nulla, almeno sei modernissimi caccia russi. Solo una urban legend, certo: come quella degli eroi dell’Isola dei Serpenti, catturati dai russi e non uccisi come aveva detto lo stesso Zelensky.

Ma abbiamo ormai imparato che in rete è facile confondere i confini tra fatti e suggestioni. Ancor più in tempo di guerra: magari la storia dell’asso dei cieli, ormai virale, diventerà un film e un videogame. Ma - a cavallo tra cronache raggelanti, emozioni, storie di eroismo – non c’è dubbio che per adesso gli ucraini stiano battendo con un punteggio tennistico i russi in quello che sembrava il campo nel quale si erano maggiormente specializzati negli ultimi anni: la guerra ibrida fatta di disinformazione, propaganda, attacchi cibernetici.

È come se la fabbrica russa delle falsità - i giovani softwaristi di San Pietroburgo arruolati dai servizi segreti - fosse improvvisamente entrata in sciopero. Forse Putin dal suo bunker stavolta si è preoccupato soprattutto dell’offensiva militare. Forse l’intelligence Usa ha imparato a contrastare la disinformazione (ad esempio con le denunce che hanno impedito ai russi di costruire un incidente a tavolino per giustificare l’aggressione). O forse tra qualche giorno gli ucraini saranno travolti: fine della loro resistenza, fisica e digitale. Ma le immagini di questi giorni sono ormai nella storia, almeno quanto quelle della rivolta di Budapest del 1956 e della Primavera di Praga soffocata dai tank sovietici nel 1968. Un marchio indelebile che segnerà le nostre coscienze. Anche quelle di chi, qui in America, ha liquidato la guerra come l’affare di un Paese remoto, immerso in una cultura sconosciuta e dagli stili di vita lontani dai nostri. Web e televisioni vanificano questi tentativi di creare una distanza tra noi e loro: ci bombardano di immagini di gente come noi, vestita come noi, con strade e negozi come i nostri. Gente che muore uccisa da armi che l’Europa si era illusa di aver sepolto tra le memorie del Novecento.

Russia, i piani di Putin svelati in un articolo sulla vittoria in Ucraina (pubblicato per errore). Marco Imarisio su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

Nel testo, comparso il 26 febbraio sull’agenzia di stampa Ria Novosti, si legge: «L’Ucraina è tornata in Russia, l’epoca della diaspora del mondo russo sta volgendo al termine». E ancora: «Il dominio occidentale è finito».

L’ora è tutt’altro che incerta. Alle otto del mattino in punto. E forse doveva valere per tutti. La mattina del 26 febbraio è stato pubblicato sul sito della Ria Novosti, l’agenzia di stampa statale, distillatrice dell’ufficialità governativa, una curiosa analisi scritta da uno dei più esperti commentatori della testata. «L’Ucraina è tornata in Russia, l’epoca della diaspora del mondo russo sta volgendo al termine».

L’autore ha un altro nome, ma sembra il riassunto delle personali interpretazioni della storia fatte dal presidente russo in queste ultime settimane.

D’accordo, è un errore. Capita che nella fretta venga pubblicato un articolo che dà per fatto qualcosa che non lo è ancora.

Ma adesso si scopre che anche sul canale televisivo Sputnik e sul suo sito, e su quello di un’altra testata governativa, alla stessa ora dello stesso giorno, era apparso lo stesso articolo che celebrava la vittoria russa dopo due soli giorni di combattimento in Ucraina. E quindi l’ipotesi di un commento trionfale che spiegasse le intenzioni del Cremlino, da trasmettere a reti unificate, prende corpo.

Nel documento, l’Europa e l’Unione europea vengono definite «ingrate e irriconoscenti», soprattutto smemorate, «perché la loro nascita è stata possibile soltanto grazie ai nostri sforzi». «La Russia sta ricreando la sua storica unità: la tragedia del 1991, questa terribile catastrofe della nostra storia, è stata finalmente superata». Non c’era altra scelta, secondo l’entusiasta editorialista. «Con la decisione di non lasciare la soluzione della questione ucraina alle generazioni future, possiamo dire senza un minimo di esagerazione che Vladimir Putin si è messo sulle spalle una responsabilità enorme». Ma per fortuna, è andato tutto bene. «Il nostro problema era il complesso di essere una nazione divisa e umiliata, cominciato quando Madre Russia cominciò a perdere pezzi del suo territorio e poi venne obbligata a riconciliarsi con l’idea di essere divisa in due Stati e in due popoli. Adesso il problema non esiste più: l’Ucraina è ritornata a essere Russia. Questo non significa che le sue istituzioni verranno cancellate, ma saranno ricostruite e torneranno alla loro condizione originaria, essere parte del mondo russo».

In questo scenario di vittoria schiacciante e di fiato alle trombe, l’Occidente è una comparsa balbettante, capace solo di sottovalutare la forza di Putin. «Ma davvero qualcuno a Parigi e Berlino ha potuto credere che Mosca avrebbe rinunciato a Kiev? L’America e l’Europa non hanno avuto la forza di conservare l’Ucraina all’interno della loro sfera di influenza. Più precisamente, avevano una sola strategia: scommettere sul collasso della Russia. Ma era chiaro da quasi vent’anni, dal discorso di Putin a Monaco del 2007, che le pressioni dell’occidente non avrebbero prodotto alcun risultato, perché la Russia è da sempre pronta a fronteggiarli, moralmente e a livello geopolitico».

Ma la grande vittoria ucraina, di preciso dove dovrebbe portarci? L’autore ci offre per interposta persona la risposta di Putin. «Alla costruzione di un nuovo ordine mondiale, che sta accelerando e al tempo stesso sta colpendo l’edificio della globalizzazione anglo sassone. Un mondo multipolare sta finalmente diventando realtà».

Le ultime righe dell’articolo sono le più importanti, perché rivelano la visione e gli obiettivi di Putin. «Questo è un conflitto tra la Russia e l’Occidente, una risposta all’avanzata dell’atlantismo… la Russia non ha solo lanciato una sfida, ha dimostrato che il dominio occidentale è ormai finito. Cina, India, il mondo islamico e l’Africa, il sud est asiatico, tutti hanno capito grazie a noi che ormai l’epoca della dominazione globale dell’Occidente è terminata».

C’è quasi tutto il pensiero di Vladimir Putin. Mancano solo alcuni dettagli.

La guerra non è durata due giorni appena. E poi, un pensiero, uno solo, per il popolo ucraino, avrebbe fatto la sua bella figura.

A corredo dell’articolo era stata scelta una foto della piazza Maidan di Kiev. Se non altro rivela fin dall’inizio quali fossero le intenzioni del Cremlino.

"Disinformazione nel dna di Mosca. Agenti e volontari seminano il caos". Orlando Sacchelli il 28 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il docente di tecniche di comunicazione Dario Fertilio: nessun Paese ha un sistema così esteso per imporre all'avversario il proprio linguaggio.

«La disinformazione è innata, fa parte del dna della potenza sovietica». Non ha dubbi Dario Fertilio, docente di Teoria e tecniche della comunicazione giornalistica all'Università Statale di Milano e autore di diversi saggi dedicati alla disinformazione.

In questi giorni stanno uscendo parecchie fake news sulla guerra in Ucraina. Cosa ne pensa?

«La disinformazione fa parte del dna della potenza sovietica. Gli altri stati hanno messo in atto un sistema di disinformazione concorrente, certamente abile ed efficace ma lontana dall'estensione e dalla tradizione messa in campo dai sovietici e poi dai loro odierni eredi putiniani».

Che differenze ci sono tra la disinformazione occidentale e quella russa?

«In generale la disinformazione militare occidentale punta sulla denuncia dei fatti, quella russa, invece, utilizza un sistema più allargato, chiamato dead hand (mano morta), o in russo sistema perimetrale. Il regime attraverso una rete ad hoc prende in esame tutte le informazioni e ad ognuna di esse applica le tecniche di disinformazione. Poi c'è una rete perimetrale, più estesa, formata da volontari che entrano in azione quando vi è necessità».

Si può parlare anche di due strategie diverse?

«La Russia punta sulla confusione e il disordine. Lo scopo è confondere il nemico, affermando cose diverse e creando panico. Gli Usa invece stavolta hanno puntato tutte le carte sulla pubblicazione delle notizie in loro possesso, provando a disinnescare le minacce».

Cosa si può dire delle parole utilizzate da Putin nel suo famoso discorso di entrata in guerra?

«Si può parlare di una regressione verbale e psicologica, tornando a un linguaggio sovietico. Ha fatto riferimento ad un governo (quello ucraino, ndr) di corrotti, drogati e nazisti, secondo una tecnica tipica del leninismo. Non sappiamo quanto questa scelta sia voluta o meno. Potrebbe anche essere funzionale al desiderio di galvanizzare i nostalgici della vecchia Urss oppure i Naz-Bol (nazisti-bolscevichi) che si riconoscono nel totalitarismo, con il culto del populismo russo. Un altro aspetto sottile della disinformazione è la logomachia, imporre all'avversario il proprio linguaggio».

Ci fa un esempio?

«Si continua a parlare di crisi ucraina, ma è un'invasione vera e propria».

Come si fa ad arginare il rischio di pubblicare l'eventuale disinformazione dei russi e quella degli ucraini?

«Si potrebbero mettere in atto le tre griglie fondamentali, distinguendo la propaganda bianca, quella nera e quella grigia. Con quella bianca si affermano apertamente i propri scopi: ad esempio, i russi intervengono per difendere la propria integrità. La propaganda nera dice una cosa per farne credere un'altra, dirigendo altrove il pubblico. Esempio: la guerra è fatta per liberare l'Ucraina dai nazisti. Infine c'è la propaganda grigia, di cui non si capisce la matrice, come ad esempio la presenza di armi ibride sul campo».

I social network hanno aumentato a dismisura il propagarsi delle fake news. Cosa ne pensa?

«I social non sono altro che una piazza in cui tutti si ritrovano e discutono. Purtroppo chi frequenta la piazza, specie se non ha un'adeguata preparazione, può essere influenzato. Ma è sufficiente andare sui vari siti per toccare con mano quanta disinformazione filorussa viene messa in circolo».

Quale può essere l'antidoto alle fake news?

La stampa libera, consultare diversi giornali e libri, questa rimane la difesa migliore della libertà, attivando gli anticorpi in grado di combattere i tanti virus totalitari che sono in circolazione».

Carri armati, bombe, hacker e fake news. Così si combattono le nuove guerre. Oltre il sangue, il fango e le trincee i conflitti di oggi un ibrido di forza e assedio cognitivo. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 27 febbraio 2022.

Quando gli aerei si schiantarono contro le Torri gemelle, l’ 11 settembre del 2001 – in molti pensarono al manuale che due colonnelli cinesi, Qiao Liang e Wang Xiangsui, avevano scritto nel 1999 e che in Italia era arrivato giusto in quel gennaio: Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione. Qiao Liang e Wang Xiangsui erano vice direttore dell’Ufficio produzione del Dipartimento politico dell’aeronautica militare, l’uno, e colonnello nell’Unità politica dell’aviazione militare della regione di Guangzhou, l’altro – insomma, non proprio strateghi di prima linea ma dentro una lunga tradizione di riflessione sull’arte della guerra. In quel libro, Qiao Liang e Wang Xiangsui definiscono le guerre che abbiamo conosciuto sinora di tipo simmetrico e lineare, in corrispondenza all’approccio razionale tipico dell’Occidente e che l’Occidente ha sempre imposto nei suoi confronti armati, anche con l’Oriente. La rivoluzione copernicana dell’arte della guerra si concentrerebbe nella parola chiave “tecnologia”. Che entra nella guerra e ne cambia silenziosamente l’essenza, dilatandone i confini. Il nuovo modello di conflitto non sarà più puramente militare, ma utilizzerà ogni forma di attacco finanziario, telematico o di tipo terroristico, privando la guerra delle sue caratteristiche di simmetria e linearità. Nel libro si dice anche che tutti abbiamo paura senza che ci sia un contenuto preciso di riferimento: l’Occidente ha paura del terrorismo, che è dappertutto e in nessun luogo, l’Oriente teme un intervento bellico Usa, che potrebbe accendersi contro uno qualunque dei suoi Stati. Tra lo scenario della guerra nucleare, che tutti temevamo e tutti provavamo a esorcizzare, e la guerra convenzionale, quella nel fango e nelle trincee, che ci sembrava appartenere al passato e non più ripetibile – si inframmezzava adesso la guerra asimmetrica. L’attacco terroristico dell’ 11 settembre, al Qaeda prima, l’Afghanistan, l’Isis poi con il Daesh – ci sembrava corrispondessero perfettamente a questa lettura. Di sicuro funzionava meglio della “guerra umanitaria” – quell’ipocrita ossimoro con cui si era giustificato l’intervento contro la Serbia. Però, forse la guerra in Ucraina riapre la riflessione sul significato dell’asimmetria, che non è solo dell’uso della tecnologia, quella degli hacker di guerra e dei trolls, dell’information warfare e nella multidimensionalità militare, cyber e informativa che si sostanzia anche in una sorta di “assedio cognitivo”, con la disseminazione di campagne disinformative d’intensità e profondità variabile. Cosa sta succedendo in Ucraina? Una guerra convenzionale – quella con i carri armati, il fango e le trincee, una estensione “spaziale” e di intensità in uomini e mezzi degli otto anni di guerra “a bassa intensità” nel Donbass – e un conflitto di “narrazioni”: una guerra ibrida, insomma. Che però, a quanto pare, noi occidentali non ci pensiamo minimamente a affrontare nella sua complessità. Di mettere gli scarponi sul campo, proprio non ne vogliamo sapere. Siamo appena andati via dall’Afghanistan, in fretta e furia tale da avere ricordato la fuga da Saigon e aperto mille interrogativi sulla bontà dell’operazione, che facciamo – ritorniamo a combattere? Va bene pilotare i droni da una base militare da Fort Bragg, Carolina del nord, o da Quantico, Virginia, e persino da Sigonella, Sicilia, purché rimanga una guerra “da remoto”. Biden, Johnson e gli europei minacciano, più o meno, sfracelli finanziari contro i russi – ma sono sanzioni che hanno efficacia nel lungo periodo, mentre intanto si combatte nel fango e nella neve, e è lì nelle trincee, nelle pianure, nei porti, nelle strade delle città che si decide la partita, al momento.

Perché l’Occidente è così riottoso a affrontare la guerra? Si potrebbe dire – e meno male. Che l’opzione militare scompaia dall’orizzonte delle “pratiche” delle relazioni internazionali dell’Occidente non può che essere un bene – chi vuol vedere le bare dei propri figli portate a spalla dai commilitoni? Troppe guerre l’Occidente ha fatto, e imposto al mondo, pagando e facendone pagare un prezzo salato.

Nel 2010, a Astana, Kazakistan, alla riunione dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, i capi di stato e di governo di 56 nazioni dissero: «We recommit ourselves to the vision of a free, democratic, common and indivisible Euro- Atlantic and Eurasian security community stretching from Vancouver to Vladivostok». Certo, mancano nell’Osce i sud del mondo e la Cina, da Shangai a Capo Horn, passando per il Capo di Buona Speranza – ma come sarebbe bello, oggi, intanto, un mondo libero, democratico, comune e indivisibile da Vancouver a Vladivostock. E invece.

E invece, la deterrenza nucleare, il terrore e la consapevolezza che una guerra nucleare non ha vincitori e vinti ma solo distruzione di massa, che quindi dovrebbe avere funzionato da spinta alla ricerca di soluzioni politiche – non funziona in Ucraina. E non funziona perché al suo posto subentra una guerra convenzionale. E asimmetrica, perché non c’è alcuna simmetria tra l’esercito russo e quello ucraino, per quante armi, mezzi e istruttori abbia potuto dare l’Occidente. La più antica delle guerre – il più grosso contro quello più piccolo – ritorna e nel cuore dell’Europa. Quell’Europa che ha tra i suoi fondamenti proprio il ripudio della guerra – dopo la distruzione dell’ultima – e che ha faticosamente costruito un percorso di continua giuridicizzazione dei conflitti e degli interessi, si ritrova debole e impacciata.

L’Europa non vuole la guerra, e neanche l’America vuole la guerra – non perché siano sopiti gli istinti predatori o, se si vuole metterla storicamente, quelli di colonizzazione: ma perché nessuno vuole andare a morire in guerra. Le motivazioni “morali” – esportare la democrazia, civilizzare popoli “barbari” – non sembra che riescano poi a reclutare. Va bene “giocare” alla guerra su uno schermo, come fosse una playstation, ma nel fango e nelle trincee, ma che davvero? Morire per gli ucraini?

La guerra non è neppure un volano per l’economia – quella sorta di keynesismo con l’elmetto che aveva come elementi un enorme debito, grandi investimenti produttivi dello Stato, occupazione di massa, buoni salari – come fu per l’America di Roosevelt che difatti venne fuori come la prima potenza dopo la Seconda guerra mondiale proprio per lo sforzo bellico imponente. Troppa tecnologia adesso – le cui ricadute non sono le stesse dell’economia fordista di guerra – poca occupazione. e non sempre la guerra assicura una vittoria elettorale.

Ma – e questa è la domanda cruciale – la Cina e la Russia, che sono le altre potenze mondiali, economiche e militari, la pensano come l’Occidente? Perché, forse, sta tutta qui l’asimmetria.

Russia vs Rep. Il Cremlino smentisce Molinari (ma gli dà ragione). Di Francesco Bechis | 18/11/2021.  

Duro attacco del ministero degli Esteri russo contro il direttore di Repubblica Maurizio Molinari (e la libertà di stampa). Per un editoriale sulle manovre di Putin in Europa riceve in cambio un fiume di insulti. Ma il Cremlino, per negare, conferma tutta la linea, dall’Ucraina al gas. E sui social fa il boom fra gli account sovranisti. 

Libertà di stampa, questione di prospettive. Il governo russo torna a scagliarsi contro Maurizio Molinari. A detta di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, un recente editoriale del direttore di Repubblica sarebbe “un’assurdità deliziosa”. Risale a cinque giorni fa, e si intitola “La morsa di Putin sull’Unione europea”. 

Molinari mette in fila i fronti di tensione fra Europa e Russia: la crisi dei migranti in Bielorussia, usata dal dittatore Alexander Lukashenko come mezzo di pressione contro l’Ue; le manovre di 90.000 militari russi vicino al confine ucraino; la partita del gas, con il gasdotto di Gazprom Nord Stream II ormai ultimato. Quella di Vladimir Putin, spiega il giornalista, è “una minaccia ibrida” e ha l’intento di “generare crisi parallele per stringere in una morsa l’Unione europea”. 

A Mosca non hanno gradito l’analisi, neanche un po’. E infatti non capita tutti i giorni che la potente portavoce di Sergei Lavrov riversi un fiume di inchiostro per “smentire” l’editoriale di un giornale straniero. Nella lunga giaculatoria Zakharova alterna lezioni di giornalismo a durissime stoccate contro Molinari e Repubblica.

Una selezione: per il Cremlino l’articolo del direttore di Rep non sarebbe altro che una “vergognosa missione”, uno “sproloquio”, “calunnie nauseanti”, “bugie sfacciate”, “un’illusione” costruita per “entrare nelle grazie di politici russofobi”.

Fra un insulto e un altro, la portavoce stende un vero e proprio manifesto della politica estera di Putin. Che non sembra smentire affatto la ricostruzione. Così, quando Molinari sottolinea come l’ammassamento di truppe russe a Yelna, a 260 chilometri dal confine ucraino, ripresenti una situazione non dissimile da quella che nel 2014 ha preceduto l’invasione della Crimea, Zakharova non nega, anzi, rivendica. “Mi è piaciuta molto l’espressione ‘tenerlo sotto scacco’ che Lei usa in riferimento alla politica russa in Ucraina e personalmente a Vladimir Zelensky. Prima di tutto è un’espressione bellissima. In secondo luogo, non mi pare che gli scacchi siano vietati, vero? O solo se i russi non vincono?”.

O ancora, quando Molinari ricorda l’ovvio, cioè che il Nord Stream II “aumenterà la dipendenza dell’Europa dalle importazioni di gas russo”, la portavoce irrompe in un’invettiva: “Dottor Molinari, non ama il gas russo? Molto bene. Ho una grande idea: Maurizio per protesta riscaldi la sua casa con copie de La Repubblica”. 

Sono toni duri, fin troppo per chi conosce il galateo della diplomazia russa. In tutto simili a quelli che, poco più di un anno fa, usò il ministero della Difesa russo contro uno speciale de La Stampa – allora diretta da Molinari – sulla spedizione di militari-virologi a Bergamo, la colonna di carri militari in marcia sulla Pontina, gli ufficiali dei Servizi segreti russi presenti nella delegazione. Era il 3 aprile del 2020, in mezzo alla pandemia, e un furibondo Igor Konashenkov, generale della Difesa, chiudeva un profluvio di insulti con un monito eloquente, Qui fodit foveam, incidet in eam, “chi scava una fossa al prossimo ci finirà prima”.

La risposta di Zakharova ha riscosso un notevole successo nella bolla social. Il tweet dell’Ambasciata russa a Roma ha ottenuto quasi 800 retweet in meno di un giorno, buona parte dei quali da contatti anonimi – cosiddetti troll – che si scagliano contro Molinari. Ma l’articolo ha avuto un rimbalzo fuori dal comune: secondo Crowdtangle – programma di analisi social – solo su Facebook ha raggiunto una platea di un milione di persone.

Una costellazione di pagine russe ­– compreso il ministero – e una serie di pagine filo-sovraniste, come “Noi stiamo con la Russia di Putin” e “Amici di Matteo Salvini in Spagna”. Non mancano endorsement istituzionali all’attacco del governo russo. È il caso di Vito Petrocelli, presidente della Commissione Esteri del Senato del Movimento 5 Stelle, convinto che il direttore di Repubblica voglia “incrinare i rapporti tra Italia e Russia”.

Striscia la Notizia, disastro a Mattino 5: "Ecco i bombardamenti in Ucraina". Ma sbagliano video: cosa va in onda. su Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Striscia la notizia, nella puntata del 24 febbraio, smaschera un video fake  mandato in onda durante la puntata di Mattino Cinque. Ecco infatti Francesco Vecchi che trasmette delle immagini impressionanti presentate ai telespettatori come resoconto dei bombardamenti in Ucraina da parte della Russia. Mostra quindi l'attacco di notte che si conclude con una grande esplosione. Si sentono delle persone che urlano. Francesco Vecchi a un certo punto dice pure: "Devo andare in pausa, su quelle immagini ritorneremo".

Peccato che in realtà si tratti di un video che circola in rete già dal 2015 e che nulla abbia a che vedere con il conflitto in corso in Ucraina. Si tratta infatti di una esplosione avvenuta in Cina. Dove peraltro la guerra non c'entrava nulla. Si tratta proprio delle stesse immagini e dello stesso audio come fa vedere il tg satirico di Canale 5.  

Insomma a Mattino 5, "di Vecchi non 'è solo il conduttore ma anche i filmati", commenta ironico Ezio Greggio. E il servizio non si può che concludere con la celebre frase di Emilio Fede: "Che figura di me***"

Cameriere, badanti e amanti: il fuorionda choc sull'Ucraina al Tg3. La gaffe di Lucia Annunziata. Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022.

Enrico Letta parla e Lucia Annunziata fa una gaffe clamorosa. Nello Speciale Tg3 della Rai sull’Ucraina, intorno alle 16.15, va in onda l’intervista al segretario del Partito Democratico davanti all’ambasciata russa a Roma. Letta esprime solidarietà alla comunità ucraina presente in Italia e scatta il commento da studio della giornalista, che si sente però in diretta visto che il microfono non è stato spento durante il collegamento. “Migliaia e migliaia di cameriere e badanti” le parole dell’Annunziata sugli ucraini in Italia, ma non è tutto. Si sente pure un altro ospite aggiungere “amanti”. Una caduta di stile che ha fatto il giro dei social.

Striscia la Notizia, clamorosa gaffe al TgLa7: Putin e il Cremlino? Non proprio, cosa va in onda: e Mentana...Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Scivoloni clamorosi intercettati da Striscia la Notizia. Il tutto nella puntata in onda su Canale 5 giovedì 24 febbraio, puntata del tg satirico di Canale 5 condotta dall'inedita e scoppiettante coppia composta da Silvia Toffanin ed Ezio Greggio. 

La rubrica in questione è un grande classico, uno dei cavalli di battaglia di Striscia, ossia "Striscia lo striscione", curata da Cristiano Militello. E in quest'occasione, oltre ai consueti striscioni, la rubrica si concede una digressione che arriva dritta dritta fino ad Enrico Mentana, o meglio al TgL7a che dirige.

Già, perché nel corso dei titoli di testa di un'edizione del tg, ecco che si è consumato un irresistibile strafalcione. Presentando un servizio sulla crisi russa, ecco la scritta in sovrimpressione, la quale recitava: "Mosca fa precipitare la crisi: sì del Cremino ai separatisti filorussi dell'est Ucraina, con la Crimea un territorio che separi dall'ovest". Già, non "Cremlino", bensì "Cremino". Come il celebre gelato. E chissà la sfuriata di Mentana...

Enrico Mentana? Ecco perché ha chiuso la maratona sulla guerra: ora si capisce tutto...Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 05 giugno 2022

Quella in Ucraina è la guerra ad alta resa mediatica. Dei post, dei tweet, dei video dal fronte sui social nei primi giorni dell'attacco russo, dei protagonisti che si prestano assai bene allo scontro manicheo tra bene e male. Il leader di Kyev, Volodymyr Zelensky, forte di una costruzione d'immagine molto americana è l'eroe buono. Dall'altro lato, il Capo del Cremlino Putin incarna il "cattivo" perfetto di questo canovaccio della storia, con una mimica che marca l'efferatezza delle sue scelte.

È la guerra, insomma, il cui impatto pubblico si intreccia con le logiche della società dei consumi. E per questo esposta all'implacabile legge dell'opinione pubblica che passa oltre. Perché l'attualità è fatta anche di altro, tutto ad alta portata mediatica, per quanto di diversa natura. È il meccanismo che fa vorticare notizie e fenomeni collettivi.

IL CALO

Il sito americano di news Axios ha pubblicato, proprio alla vigilia dei 100 giorni di guerra, alcune cifre fornite dalla società di tracciamento Newswhip, e segnala un calo vertiginoso delle interazioni web riguardanti la guerra tra la prima settimana di invasione e quella più recente: da 109 milioni a 4,8 milioni. Per quanto riguarda le interazioni relative alle "stories" sui social dedicate all'Ucraina - ad esempio i video su Instagram - si è scesi da circa 19 milioni a 345mila (vedi tabella in prima pagina).

Lo studio, inoltre, sottolinea che nel giro di sei settimane, tra aprile e maggio, l'interesse degli utenti verso la vicenda di Johnny Depp e Amber Heard (nel processo che ha tenuto banco sulle testate di tutto il mondo) è stato sei volte maggiore rispetto alla guerra nel cuore dell'Europa. Il calo dell'attenzione per il conflitto è confermato anche da un report dell'italiana Socialcom. Realizzato con l'analisi sulle parole chiave, tra cui "Ucraina", "Putin", Donbass, "invasione", "guerra", in una forbice di tempo dal 24 febbraio (giorno dell'invasione) al 31 maggio. Ebbene, soltanto nei quattro giorni rimanenti nel mese di febbraio le "mentions" furono ben 794mila.

Il mese di marzo ne ha fatte contare 3,27milioni, e giù ad aprile con 2,06 milioni e ancora a maggio con 1,4 milioni. Trend discendente anche per le interazioni. Esplosero negli ultimi quattro giorni di febbraio (oltre 133 milioni), andarono a 200 milioni a marzo per poi scendere vertiginosamente ai 73 milioni di aprile e ai 50,37 milioni di maggio.

ALTRI INTERESSI

Questi numeri, secondo il fondatore della società Luca Ferlaino, «confermano che ormai gli utenti per quanto possa sembrare incredibile si sono assuefatti alla guerra e iniziano a seguire diversi trend». All'ora di cena di ieri, per esempio, i "trend topic" di twitter riguardavano il torneo di tennis parigino del Roland Garros. Questa dinamica, peraltro non riguarda soltanto i social. Anche in campo giornalistico si va superando il monopolio sostanziale che la guerra in Ucraina ha rappresentano in questi tre mesi nella trattazione.

E dunque è una notizia significativa il fatto che il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana abbia deciso di sospendere gli speciali che andavano in onda senza interruzione dal giorno in cui le truppe russe superarono il confine. Una diretta quotidiana di tre ore, dalle 17 allle 20, sabato e domenica compresi. L'annuncio è stato dato con una grafica sul suo profilo social. «Oggi (ieri n.d.r), nel centesimo giorno di guerra completiamo, almeno per ora, i nostri appuntamenti quotidiani delle 17. È giusto così, ora che il conflitto si fa scontro di logoramento. Di fronte a notizie importanti saremo pronti a riaprire lo speciale». 

Una scelta di cui ha ampiamente illustrato le ragioni intervenendo alla trasmissione radiofonica Un giorno da Pecora in onda su Radio1: «Ci sono tante altre cose che accadono» ha detto Mentana, «da vedere, da capire, da raccontare. Di tutto questo ci dobbiamo un po' riappropriare». Ha notato, poi, che la reazione dell'opinione pubblica va mutando, portando a supporto gli ultimi numeri di Open, giornale online di cui è il fondatore: «Le dieci notizie più lette non riguardano la guerra», ha affermato, osservando che molte persone, dopo aver accettato una sorta di «flusso passivo» nella fase iniziale della guerra, «cominciano a dire: "ora mi informo io, quando voglio io". Vuol dire non essere più ancorati al "minuto per minuto" nell'evoluzione del conflitto scoppiato in Ucraina».

Giletti: "Ho avuto un mancamento". Il giornalista interrompe il collegamento da Mosca. Duro confronto con Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo. E Sallusti lascia la trasmissione in polemica con il conduttore. La Repubblica il 5 Giugno 2022.

Prima la tensione, poi la preoccupazione. La trasmissione "Non e' l'arena" con Massimo Giletti in collegamento da Mosca subito dopo l'intervista con Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, ha mostrato una serie di colpi di scena. Prima Alessandro Sallusti, direttore di Libero, apre una polemica durissima sui contenuti dell'intervista a Zakharova, poi improvvisamente Giletti sparisce dal video e la conduzione passa in diretta a Myrta Merlino, giornalista de La 7, che era ospite nello studio di Roma. "Cerchiamo di capire cosa è successo a Massimo", dice Merlino.

Il dibattito prosegue, su Twitter fan e critici della trasmissione si chiedono cosa sia successo a Giletti. Passano i minuti, proseguono i commenti, vengono mandati in onda servizi da Mariupol. La Merlino annuncia: "Eccolo, è ricomparso". E Giletti spiega: "Ho avuto un mancamento, forse gli zuccheri".

E' stato un duro botta e risposta l'intervista di Massimo Giletti alla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che lo ha criticato più volte sulle sue conoscenze del dossier ucraino e dell'impegno della Russia in altri teatri di guerra. E la puntata di "Non e' l'arena" che, come anticipato da Repubblica, andava in onda con il conduttore collegato da Mosca, sullo sfondo della Piazza Rossa, è stata movimentata anche dalla dura presa di posizione di Alessandro Sallusti.

Il direttore di Libero, dopo l'intervista alla portavoce di Lavrov - in cui sono state ribadite le "ragioni russe" della guerra e le accuse all'Occidente di doppi standard - ha deciso di rinunciare al collegamento attaccando il conduttore per essersi, a suo dire, prestato alla propaganda russa. "Mi alzo e me ne vado", ha detto Sallusti, "non farò la foglia di fico", ha concluso il giornalista dopo aver usato dure parole contro il Cremlino e gli ospiti di Giletti a Mosca, tra cui il celebre conduttore russo filo-Putin, Vladimir Soloviev.

"Lei non è mai stato in Donbass, non sta capendo cosa succede lì, non sa a quali bombardamenti è stato sottoposto dal regime di Kiev, lei non capisce cosa significano le persone morte", ha attaccato Zakharova rispondendo a Giletti che le chiedeva a che condizioni Mosca fosse disposta a terminare le ostilità. "I bambini parlano in questo modo!", ha tuonato la portavoce di Lavrov in un passaggio della lunga intervista di una cinquantina di minuti, in cui era collegata via Skype da quello che sembrava un ambiente domestico. "Andiamo insieme in Siria, ad Aleppo", ha proposto in modo sarcastico Zakharova quando Giletti le ha ricordato le azioni delle Forze russe in quel Paese, a sostegno del regime di Bashar al-Assad.

Non è l'Arena, bomba di Myrta Merlino dopo la diretta: "Inquietante. Massimo Giletti..." Libero Quotidiano il 06 giugno 2022

Myrta Merlino ha cominciato la puntata de L'aria che tira ripercorrendo i momenti difficili vissuti ieri sera 5 giugno a Non è l'Arena , su La7, con il malore avuto in diretta da Massimo Giletti: "Quello con Maria Zacharova è stato davvero un incontro inquietante. Chi mi conosce bene, chi lavora con me sa quanto cerco di capire gli altri, ebbene è del tutto inutile con personaggi come quello". E ancora: "ieri sera sono stata travolta da tante stupidaggini. Un tantino troppo. Grande paura per il mio amico Massimo. Mi sono onestamente molto, molto preoccupata per Massimo Giletti, con cui sono amica da una vita. E credo che tutte le ironie sui social siano di cattivo gusto". 

Giletti, nel corso dell'ultima puntata di Non è l'Arena condotta da Mosca, si è infatti sentito male, un mancamento che lo ha costretto ad abbandonare la conduzione per qualche minuto. All'improvviso a dare l'allarme è stata proprio la Merlino, che era tra gli ospiti in studio a Roma. Myrta a un tratto ha esclamato: "Oddio aiutate Massimo". Poi la stessa Merlino ha preso in mano la conduzione del programma per qualche minuto e ha annunciato: "Massimo Giletti ha avuto un mancamento, speriamo di avere notizie presto". Dopo qualche istante, sempre la Merlino ha affermato: "Vedo che Massimo è in piedi, ora ci ricolleghiamo con lui appena sarà in condizioni di parlare". Giletti, una volta tornato in conduzione, ha voluto spiegare cosa è successo: "C'era molto freddo, forse ho avuto un calo di zuccheri".

Non è l'Arena, Alessandro Sallusti lascia la diretta: "Cremlino palazzo di m... basta sceneggiate". Libero Quotidiano il 06 giugno 2022

A Non è l'Arena, il talk show condotto dalla Piazza Rossa di Mosca, da Massimo Giletti su La7, è accaduto di tutto. L'ultima puntata era stata preceduta da fortissime polemiche per la richiesta da parte del conduttore di condurre il programma dalla Russia con un'intervista a Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri del Cremlino, Sergej Lavrov. Tra gli ospiti in collegamento dell'Italia c'era anche il direttore di Libero, Alessandro Sallusti.

E proprio Sallusti nel corso della trasmissione ha deciso di abbandonare la diretta. Dopo che la Zakharova aveva parlato quasi un'ora, il direttore di Libero, rivolgendosi a Giletti, ha affermato: "A questa sceneggiata io non voglio più partecipare, grazie".

E ancora: "Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo. Mi trovo davanti ad un asservimento totale di fronte alla peggiore propaganda che ci possa essere. Il Cremlino è un palazzo di merda, lì il comunismo ha fatto i più grossi crimini". Poi l'affondo: "Rinuncio al compenso pattuito ma non ci sto a fare la foglia di fico a quei due coglioni che hai lì di fianco, me ne vado". Sallusti si riferiva ai due ospiti russi accanto a Giletti, tra cui anche il conduttore televisivo russo Vladimir Soloviev, una delle voci più vicine al presidente Putin e uno degli anchorman più critici nei confronti dell'Italia e del governo Draghi impegnato nella mediazione tra Russia e Ucraina.  

Maria Pia Mazza per open.online il 6 giugno 2022.

Caos e polemiche per l’ultima puntata di Non è l’Arena su La7, andata in onda dalla Piazza Rossa di Mosca. Durante la puntata, Massimo Giletti ha intervistato la portavoce del ministero degli Esteri Russo, Maria Zacharova che, nell’esporre le sue posizioni, ha rimproverato Giletti per le sue osservazioni e domande, ritenute fin troppo semplicistiche e puerili, dicendo: «Mi pare che lei parli per un bambino».

Un’intervista che ha però mandato su tutte le furie il direttore di Libero, Alessandro Sallusti, che ha abbandonato la trasmissione criticando duramente Giletti, descrivendo l’intervista come un «asservimento totale alla peggiore propaganda che ci possa essere, utilizzando anche gli utili idioti che non mancano mai, tra cui Cacciari, che hanno usato la forza evocativa del Cremlino e del suo fascino». 

Sallusti abbandona lo studio: «Noi sappiamo cos’è la libertà e la difendiamo»

«Ma in quel palazzo alle tue spalle, e faresti bene a ricordarlo a chi ti sta di fianco – ha proseguito Sallusti – sono stati organizzati, decisi e messi in pratica i peggiori crimini contro l’umanità del secolo scorso e di questo secolo: quello è un palazzo di merda, perché lì il comunismo ha fatto le più grandi tragedie del secolo scorso e di questo secolo».

Sallusti, prima di abbandonare la trasmissione, ha spiegato al conduttore di Non è l’Arena di essere dapprima «molto orgoglioso di conoscerti e di aver un buon rapporto con te, quando ho saputo che tu andavi a Mosca. Immaginavo avresti parlato al popolo russo, non a quello italiano. 

«Immaginavo – ha proseguito Sallusti – che tu facessi qualcosa, intervistando Putin o un ministro, un qualcosa per cui noi dovevamo andare fieri della nostra libertà di informazione, e invece mi ritrovo qui, in un asservimento totale alla peggiore propaganda che possa esserci».

Il direttore di Libero ha poi aggiunto: «A me fa tristezza vedere un giornalista che stimo venir chiamato “bambino” e “incompetente” da una cretina (la portavoce del ministero degli Esteri Russo, Maria Zacharova, ndr) che non sa nemmeno di che cosa sta parlando, perché noi la libertà ce l’abbiamo e sappiamo che cos’è e ce la difendiamo, io di fare la foglia di fico a quegli altri due coglioni che hai di fianco non ci sto e quindi rinuncio al compenso pattuito, ma a questa sceneggiata non voglio più partecipare, grazie».

Giletti sviene e Myrta Merlino prende le redini della conduzione

Dopo l’intervento di Sallusti, Massimo Giletti ha avuto un mancamento. A prendere temporaneamente le redini della conduzione del talk show è intervenuta Myrta Merlino, che era presente tra gli ospiti della puntata. 

Merlino, dopo essersi accorta che Giletti stava per accasciarsi a terra, ha chiesto aiuto per il collega e ha poi proseguito la conduzione del programma con gli ospiti rimasti in studio, tra cui il deputato Pd, Emanuele Fiano. Giletti si è poi ripreso ed è tornato nuovamente in video, ma non più in collegamento dalla Piazza Rossa, ma seduto e al chiuso. Il giornalista ha voluto rassicurare il pubblico e gli ospiti presenti in studio: «È stata una mancanza di zuccheri, il freddo e ho avuto un mancamento, sto bene, può capitare».

DANDOLO NEWS l'11 giugno 2022 - TUTTI CONTRO “GILETTI DI BACCALA” CON LA BASSA PRESSIONE E IL CREMLINO DIETRO, MA NESSUNO RICORDA CHE LA POTENTISSIMA DIRETTORA DEL TG1 MONICA MAGGIONI SI GENUFLESSE PER BEN DUE VOLTE AL COSPETTO DELLO SPIETATO DITTATORE SIRIANO BASHAR AL ASSAD. IL TUTTO GRAZIE, DICONO LE MALELINGUE, A UNA IN-CONDIZIONATA MEDIAZIONE DI MOSCA…

Alberto_Dandolo: Sto leggendo di tutto su @mgilettifanclubofficial e il suo svenimento durante il collegamento da Mosca e il suo presunto asservimento al regime di Putin. Per carità, certo non è stato un momento epico per il giornalismo d'inchiesta!

Mi domando però anche perché nessuno si ricordi più delle inginocchiatissime interviste (pagate da noi contribuenti!) dell'attuale potentissima direttrice del tg1 Monica Maggioni ad uno dei più spietati dittatori della storia mediorientale, tal Bashar al Assad. Interviste che all'epoca "probabilmente" () ebbero vita anche e soprattutto grazie all' ok "IN - CONDIZIONATO" di MOSCA! "Probabilmente" ...

Ah, non saperlo...

Da liberoquotidiano.it il 10 Giugno 2022.

"Non posso parlare della storia della Russia e del Cremlino, abbia pazienza...": Massimo Cacciari, ospite di Giovanni Floris a Otto e mezzo su La7, ha replicato così alle dichiarazioni di Alessandro Sallusti, che ha definito il Cremlino "un palazzo di mer**". Quando il conduttore gli ha chiesto: "Cosa intende?", il filosofo ha subito perso la pazienza: "Cosa intendo? Quello che sto dicendo, cosa vuole che intenda?". Floris, allora, ha insistito: "La storia del Cremlino è più ampia?".

A quel punto Cacciari ha lanciato una frecciatina: "Una persona poco più che analfabeta dovrebbe conoscere la storia del Cremlino". "C'è stato Stalin", è intervenuto il direttore di Libero. Ma il filosofo ha controbattuto: "Si, così come a Berlino c'è stato Hitler e a Roma Mussolini. Montecitorio però non diventa un palazzo di mer** perché c'è stato Mussolini!". "Vabbè però elogiarlo in quel contesto...", ha continuato Sallusti.

Di fronte a quella interruzione, però, Cacciari ha perso le staffe: "Allora parli lei Sallusti! Non posso discutere!". Il direttore di Libero allora ha preso la parola e ha spiegato: "La tesi del professor Cacciari a un convegno di storia non avrebbe fatto una grinza, ma lì eravamo in un collegamento in diretta con Mosca a parlare di guerra con due propagandisti che dicevano che noi siamo dei criminali. Quindi quella cosa va contestualizzata".

Da liberoquotidiano.it il 10 Giugno 2022.

"E' stata la mia risposta dopo aver sentito più volte come venivano esaltati ed elogiati l'architettura e l'aspetto del Cremlino". Alessandro Sallusti, ospite di Giovanni Floris a Otto e mezzo su La7, ha spiegato perché ha definito il Cremlino un "palazzo di mer**" durante un collegamento con Non è l'Arena domenica scorsa.

"Quello è il luogo dove sono state decise le più grandi purghe, le più grandi pulizie etniche che il mondo forse ha mai conosciuto. Parliamo di decine di milioni di persone trucidate, fatte sparire. Insomma, è il luogo dove sono state decise le più grandi tragedie dell'umanità. Non potevo più sentire certe affermazioni".

L'ultima puntata del talk di La7, infatti, è stata condotta da Massimo Giletti in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca. Accanto a lui il politologo ucraino Vasilj Vakarov e Vladimir Solovyev, il famoso conduttore tv russo. A creare polemica è stata soprattutto l'intervista alla portavoce del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, Maria Zakharova che non solo ha difeso la posizione del Cremlino, attaccando l'Europa e i giornalisti italiani, ma ha anche accusato Giletti di fare ragionamenti infantili, di fronte al suo tentativo di favorire un negoziato.

La situazione ha fatto infuriare il direttore di Libero, che domenica scorsa era ospite della trasmissione di Giletti. "Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo - ha detto Sallusti a Giletti -. Mi trovo davanti a un asservimento totale di fronte alla peggiore propaganda che ci possa essere. Il Cremlino è un palazzo di mer**, lì il comunismo ha fatto i più grossi crimini". E ancora: "Rinuncio al compenso pattuito ma non ci sto a fare la foglia di fico a quei due cog**oni che hai lì di fianco, me ne vado".

Dagospia il 10 Giugno 2022.DA R101

Nel programma radiofonico che ogni giorno conduce insieme a Carlotta Quadri – dal titolo “Facciamo finta che” – Maurizio Costanzo, nell’ambito di un discorso con il professor Raffaele Morelli a proposito dell’ io sociale, ha commentato con poche parole la vicenda di Massimo Giletti in Russia.

All’analisi di Raffaele Morelli “Perché un bravo giornalista per cercare l'audience deve entrare in rapporto con gente così banale, così distruttiva che lo insulta anche?”, Costanzo ha ribattuto “Perché va a rompere le balle al Cremlino. Stesse in uno studio di Roma oppure vai a fare l’inviato con scritto Press e combatti in Ucraina. Quelli lì chi li ha invitati? Li avrà invitati Giletti e la sua redazione, qualcuno li ha chiamati”.

A proposito del malore di Giletti, Morelli: “Io vedo il suo malessere come una ferita che lui ha sentito, ha sentito di essere nel posto sbagliato. Credo che abbia sentito una ferita perché ha visto veramente come è stato trattato”.

Costanzo: “Una cosa psicologica, la penso anche io così”.

Non è l'Arena, Massimo Giletti avvelenato? "A Mosca era da solo...", il sospetto di Myrta Merlino. Gianluca Veneziani Libero Quotidiano l'8 giugno 2022

Myrta Merlino è la persona più autorizzata a commentare quanto accaduto due giorni fa a Non è l'Arena: era ospite in studio a Roma, mentre Giletti era in diretta da Mosca; ed è stata lei la prima ad accorgersi del malore del conduttore e la prima a prendere le distanze dalle parole pronunciate dalla portavoce di Lavrov, Maria Zakharova, nell'intervista.

Merlino, perché ha accettato di essere ospite del programma, nonostante sapesse dell'intervista?

«C'è un elemento di squadra. Sono un volto di rete. Se c'è una puntata complicata con un collega nonché amico che conduce da Mosca e mi viene chiesto da lui, dal direttore di rete e dall'azienda di partecipare, do una mano. Sapevo che avermi in studio sarebbe stato per tutti una garanzia in più».

L'intervista alla Zakharova si poteva evitare?

«Penso che sentire che voci che non ci piacciono sia un pezzo del nostro mestiere. Deve essere un imperativo categorico per noi dare voce a tutti ed essere strumenti affinché gli spettatori si facciano con la loro testa l'idea di quanto sta accadendo. Per questo ero interessata a ciò che avrebbe detto una donna così potente in Russia: volevo capire quale visione del mondo avesse e quali spiegazioni avrebbe dato sulla guerra».

Ma non c'era da aspettarsi che avrebbe dato solo fiato alla propaganda russa?

«In realtà mi ha molto deluso che abbia eluso le domande, non rispondendo nel merito. Pensavo che avrebbe parlato della guerra cominciata con l'invasione della Russia del 24 febbraio. Invece ha parlato solo di ciò che è accaduto prima, della guerra in Donbass nel 2014, di Serbia, Siria. E poi l'ha buttata in caciara, riempiendoci di insulti, e accusando Giletti di essere un bambino. È stata solo un'attività di propaganda violenta. Ieri ho avuto la conferma che lo sforzo di avere un dialogo con persone del Cremlino è inutile».

Non accetterebbe, quindi, più di essere ospite in una puntata in cui è intervistato anche un esponente del governo russo?

«Sì, non ho alcuna voglia di rincontrare la Zakharova. E, in generale, credo non valga la pena parlare con una voce dell'esecutivo di Mosca se questi sono i presupposti, e cioè se non c'è alcuna volontà di capirsi e si negano alle radici le cause di questa guerra».

Il direttore Sallusti ha lasciato il programma definendo l'intervista «un asservimento totale alla peggiore propaganda».

«Io rispetto molto Sallusti, non ha i paraocchi. Ma mi spiace che abbia abbandonato la puntata. Il semplice fatto che fossero ospiti persone libere come lui o Fiano dovevano rassicurarlo che non ci saremmo asserviti alle parole della Zakharova».

Almeno la puntata ha avuto un merito, cioè mostrare a che punto possa arrivare l'aggressività comunicativa russa?

«Credo che abbia messo in luce i trucchi retorici, le furbizie e l'arroganza dei portavoce della propaganda russa. E, solo se conosciamo cosa sia la propaganda di Mosca, possiamo sviluppare gli anticorpi per reagire».

Come giudica il modo in cui Giletti ha condotto l'intervista?

«Non sono abituata a dare patenti sull'operato dei colleghi. Credo semmai che Giletti sia stato fin troppo educato di fronte all'aggressività sgradevole della Zakharova, però le domande le ha fatte tutte».

Nei talk non dovremmo però dare più spazio ai dissidenti russi?

«Dobbiamo dare spazio a tutte le voci. Io a L'aria che tira ho invitato due giornalisti della Novaja Gazeta, oppositori di Putin, e un russo che lavora col Santo Padre per portare il messaggio di pace in Russia. L'importante per noi è verificare sempre e rifiutarsi di prendere per buone a cose che sono il ribaltamento della realtà».

Il Corriere ha pubblicato un elenco di filo-putiniani, sulla base di un'indagine conoscitiva del Copasir (che però ha negato di aver fornito l'elenco). Sono liste di proscrizione?

«Non mi è piaciuto quando il Copasir ha messo bocca nella composizione degli ospiti dei talk show. L'ho considerata un'ingerenza ridicola Dopodiché il Corriere in questo caso ha avuto una notizia: che doveva fare, non pubblicarla?».

Ha sentito Giletti dopo la puntata? Come sta?

«Fortunatamente si è già ripreso. Quando ho visto Massimo svenire, ho avuto la sensazione che le due persone accanto a lui non lo sorreggessero. Non dico che ho pensato che fosse stato avvelenato, ma non si sa mai, era in Russia, da solo...». 

Da adnkronos.com il 6 giugno 2022. 

"Ho l'impressione che lei sia arrivato una settimana fa sulla Terra". Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri della Russia, si rivolge così a Massimo Giletti nella lunghissima intervista sulla guerra con l'Ucraina durante 'Non è l'arena', trasmissione di La7 in onda eccezionalmente da Mosca.

"L'Italia, il suo paese che è membro della Nato, è entrata sul territorio dell'Iraq ed è entrata a Baghdad distruggendo e uccidendo. Mi sta raccontando che non si può entrare con le armi sul territorio degli altri paesi?", dice Zakharova in un passaggio. 

"Ho detto più volte che l'Occidente ha commesso errori e per questo sono stato criticato. Le chiedo di uscire da discorsi storici, siamo nel 2022: ho visto una guerra fatta di stupri, omicidi, bambini ammazzati. Lei che ha una storia importante nella diplomazia deve fare in modo che la parola conti. Non si può continuare a fare la guerra. Io conosco la storia, non vengo da Marte", dice Giletti.

"Siete voi che non vi voltate indietro e non guardate la vostra storia -replica Zakharova-. Senza riconoscere i propri errori del passato non si può parlare del futuro. Vi chiedo di analizzare tutti i passi intrapresi dall'Occidente: l'unica cosa che vogliono ottenere gli Stati Uniti è l'isolamento e la distruzione della Russia. Non capite che con l'interruzione dei rapporti tra Russia e Europa", gli Stati Uniti "creano un danno a voi. Quando lo capirete?". 

Da liberoquotidiano.it il 6 giugno 2022.

Non si placa la polemica sulla conduzione di Non è l'Arena da Mosca. Massimo Giletti ha presentato la puntata di domenica 5 giugno direttamente dalla Piazza Rossa, scatenando la bufera. A lanciare una frecciata prima dell'arrivo di Giletti, Concita De Gregorio. La conduttrice di In Onda in tandem con David Parenzo ha introdotto la trasmissione e lo ha fatto con parole assolutamente taglienti.

Parenzo ha infatti dato la linea a Non è l’Arena: "Subito dopo di noi c’è una puntata evento di Massimo Giletti. Eccezionalmente trasmette in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca. Quindi un grande evento televisivo". A intervenire la De Gregorio che lo ha interrotto: "Come naturale corollario di tutto quello che abbiamo detto finora".

Una vera e propria stoccata, visto che poco prima si parlava dell'indagine del Copasir sulla rete italiana vicina a Vladimir Putin. Lo stesso Parenzo ha notato la battuta al vetriolo, tanto da costringerlo a smentire: "Beh no, anzi è un bel colpo giornalistico trasmettere da Mosca". Insomma, Non è l'Arena in Russia non ha sollevato parecchio clamore solo fuori dalla rete, visto che su La7, tra colleghi, è andato in onda di molto peggio. La reazione di Giletti? Nessuna: il giornalista, anche di fronte agli ospiti più critici, ha difeso la sua scelta. 

Luca Bottura per “la Stampa” il 7 giugno 2022.

In una nota molto amichevole, l'ambasciata russa ringrazia Massimo Giletti per essere stato ospite, l'altra sera su La7, della trasmissione condotta da Maria Zakharova.

Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 7 giugno 2022.  

«Senza promozione succede qualcosa di terribile: niente!». Questa massima di P.T.

Barnum deve proprio essere una delle stelle polari di Massimo Giletti, mattatore senza pari di un modo di fare tv che non va tanto per il sottile. 

Difatti, preceduta da un intenso battage promozionale, l'ultima puntata stagionale di Non è l'Arena è andata in onda da Mosca. Dopo le polemiche su quella in collegamento da Odessa, sarebbe stato opportuno un sovrappiù di cautela; e, peraltro, da nessuna parte tranne che da noi si sente l'esigenza di una specie di par condicio tra gli invasori russi e gli aggrediti ucraini, ma tant' è. E, così, è stata apparecchiata una serata di quelle da far leccare i baffi a rossobruni e putitaliani (e, più in generale, al vasto popolo nazionale dei «Putin-comprensivi»). 

Anche perché, come noto, dai vaccini alla politica interna, a Giletti interessano assai le cosiddette «verità alternative», in un mix di spirito antisistema, (malinteso) pluralismo e instancabile inseguimento di tutto quello che può far impennare l'audience. Al prezzo di farsi (spesso) prendere la mano dal sensazionalismo e dalla ricerca ossessiva dello scoop, appunto come ieri, con il risultato di averci fatto assistere a una trasmissione che, decisamente, «Non è stata un'Arena», ma un Circo Barnum all'ennesima potenza. Una pagina di televisione che resterà agli annali per l'autentica insurrezione sollevata in quei settori dell'opinione pubblica che vorrebbero informazione documentata anziché uno zibaldone, variamente miscelato, di disinformazione-disordine informativo-spettacolarizzazione sfrenata.

E che verrà ricordata per "effetti collaterali" come l'indignazione di un insorgente Alessandro Sallusti che, disgustato dalle continue finestre di opportunità regalate alla peggiore propaganda del Cremlino, se n'è andato in diretta, diventando repentinamente l'idolo (pure a sinistra) di tutti coloro che hanno a cuore la libertà e sono sgomenti di fronte alla brutalità russa. 

A farlo (giustamente) sbottare è stato il lunghissimo soliloquio di Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov e teorica delle fake news come strumento di governo, collegata - chissà perché - via Skype, che si è prodotta nel consueto repertorio di falsità, improperi e minacce contro le democrazie occidentali.E, non paga dell'allucinante quasi monologo di un'ora, si è messa pure a insolentire il malcapitato (a Mosca) Giletti, affiancata - perché gli agit-prop del putinismo sono come le ciliege per certi programmi televisivi, una tira l'altra - dal «megafono dello zar» Vladimir Solovyev (e, sorta di "ufficiale di complemento", dal «politologo ucraino» duramente anti-Zelensky Vasilj Vakarov).

Insomma, la missione pacifista - che qualcuno, magari, con una punta di sarcasmo, ribattezzerebbe "pacifinta" - si è risolta in una Caporetto mediatica. Con tanto di mancamento, dal quale, per fortuna, il conduttore si è ripreso, anche se è stato comprensibilmente costretto a spostarsi dalla Piazza Rossa a una location al coperto. Di sicuro, un lenitivo all'accaduto sarà per lui il tweet solidale di Matteo Salvini (che avrebbe gradito molto farlo eleggere sindaco di Roma), a cui è unito da una visione politica incline (diciamo...) al populismo. Insomma, Giletti è andato nella tana dell'orso per suonare lo spartito del dialogo, ma è ritornato suonato dai putiniani. E, dunque, ci sarebbe tanta materia per riflettere...

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 7 giugno 2022.  

Era facile profetizzare che sarebbe stata una pagliacciata acchiappa- audience, la missione moscovita di Massimo Giletti. Ma che la trasferta russa di "Non è l'Arena" si trasformasse in una débâcle giornalistica di dimensioni planetarie, onestamente non l'aveva previsto nessuno. 

E ora è impossibile non provare tenerezza per il povero Giletti, baldanzosamente partito per Mosca con l'aria di uno che non ha paura di andare nella tana del lupo con la francescana speranza che le parole dolci di un seduttore televisivo avrebbero convinto la furbissima portavoce di Lavrov a rivelargli la segreta via per la pace, e poi infilzato come un pupazzo dalla feroce bionda del Cremlino. 

Perché purtroppo quello che doveva essere il pezzo forte della puntatona moscovita, l'intervista di quasi un'ora a Maria Zakharova, è diventato con impressionante progressione una scena sadomaso in cui l'intervistata si divertiva a schiaffeggiare l'intervistator cortese venuto da lontano. Lui la definiva, con tono ammirato, «la donna che ha rivoluzionato il modo di comunicare », la presentava come «una delle figure più importanti del sistema politico russo», e lei lo liquidava sprezzante: «Lei semplifica troppo: i bambini parlano così». 

Lui si cospargeva il capo di cenere, chiedendo perdono per l'Italia, per l'Europa e per l'Occidente tutto («Anche noi siamo ipocriti», «Non abbiamo voluto vedere», «Abbiamo sicuramente le nostre colpe») e lei lo ripagava con il sarcasmo: «Lei parla come se fosse arrivato una settimana fa sul pianeta Terra». E più lui insisteva a cercare di prenderla con le buone («Lei ha ragione», «Faremo il mea culpa», «Io non le sto dando torto»), più lei calcava la punta del tacco sulla sua schiena: «Quello che dice mi fa ridere», «La sua frase dimostra che lei non ha capito nulla del Donbass », «Dovete vergognarvi».

Il malcapitato è andato avanti per quasi un'ora, come se quella stesse perculando un altro, senza purtroppo riuscire a strapparle non diciamo una notizia ma una sola parola sui massacri di Bucha e di Mariupol. Per fortuna sono arrivati i due interventi dallo studio italiano. Quello di Myrta Merlino, che ha avvertito i telespettatori che avevano appena assistito «all'opera di una perfetta esponente della propaganda russa, che è stata capace di tirare in ballo perfino Johnny Depp senza mai rispondere a una sola domanda». E quello - da applausi - di Alessandro Sallusti, che accortosi di essere davanti a «un asservimento totale alla peggiore propaganda», s' è alzato e se n'è andato «per non fare la foglia di fico in questa sceneggiata ».

Due mazzate - meritatissime - alla trasmissione che hanno fatto passare in secondo piano persino lo svenimento in diretta del conduttore in trasferta («Oddio Massimo! »), poi liquidato come «un mancamento dovuto al calo degli zuccheri » dall'interessato, rientrato in studio per completare l'opera intervistando il più putiniano dei conduttori russi, Vladimir Solovyev, e un politologo ucraino nel ruolo dell'altra campana. Dopo tre ore abbondanti, la sigla finale lasciava in piedi solo una domanda: si poteva fare peggio? No, non si poteva.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 7 giugno 2022.

Che ci sia un problema di permeabilità alla propaganda russa, è sotto gli occhi di tutti. Dice un membro del Copasir, lo speciale comitato parlamentare di controllo sulla sicurezza, che preferisce non essere citato: «Scusate, ma c'era bisogno dei servizi segreti o del Copasir per sapere quello che viene trasmesso in televisione stasera?».

E basta scorrere i social per vedere con quanta foga una schiera di soggetti, spesso anonimi, si scaglia nella pugna quotidiana. «Guarda caso - dice ancora il parlamentare - sono gli stessi che si erano fatti portavoce di bufale sul Covid e sui vaccini, ora in prima linea sulla guerra. Sempre a favore della Russia». 

Epperò l'indagine che il Copasir ha avviato sulla disinformazione che viene dal Cremlino, è cosa ben più seria dell'elenco di alcuni semisconosciuti blogger o influencer che fa capolino su alcuni giornali.

La rete dei simpatizzanti per Putin ovviamente c'è, ma il presidente del Comitato, il senatore Adolfo Urso, FdI, premesso di «aver ricevuto solo questa mattina (ieri, ndr) un report specifico che per quanto ci riguarda, come sempre, resta classificato», ci tiene a mantenere fuori il Copasir da eventuali operazioni opache: «Il Comitato auspica, soprattutto su questa vicenda, che vi sia sempre una corretta attribuzione e riconoscibilità delle fonti». E se ci fossero altre fughe di notizie, non si guardi a loro. L'aria si sta facendo caldissima, insomma. Il presidente Urso perciò insiste: «Mai condotto indagini su presunti influencer».

Nel mirino del Copasir ci sono le operazioni di Mosca, ben note alla Commissione europea, al Parlamento europeo, a Washington. Sono quelle che un altro membro del Comitato, Enrico Borghi, Pd, definisce la «cosiddetta dottrina Gerasimov sulla guerra ibrida. È questo che sta combattendo e cerca di disvelare il Parlamento: disinformazione, propaganda, fake news, tentativi di manipolazione dell'opinione pubblica in Italia e nelle democrazie liberali. Come quella vista nella trasmissione di Giletti, per dire. Ma senza liste di proscrizione: noi diremo come si muove Mosca, ognuno farà poi le sue scelte».

Questa è la linea condivisa dentro il Copasir. Dice Federica Dieni, M5S: «Noi siamo i primi a voler tutelare la libertà di informazione, ma per poterlo fare ci vuole informazione seria e non fatta da soggetti coartati in maniera più o meno lecita o consapevole». 

E anche Raffaele Volpi, Lega: «Il Comitato a non ha avuto, non ha visto né tantomeno redatto liste di nomi di influencer e opinionisti ascrivibili a vicinanze con la Russia». Il punto è che questa indagine ha portato il Copasir su un terreno pericoloso. Ci vuol poco a scivolare in un nuovo maccartismo. Gli ex grillini del gruppo Alt sono già lì strillare: «Metodo infame e pericoloso». Oppure l'ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris: «Non diventi strumento di criminalizzazione del dissenso».

Perfino Giuseppe Conte non si trattiene: «Indegno che si mettano immagini di alcune persone, estraendo opinioni che hanno espresso. Il nostro Paese è bello perché siamo in democrazia, teniamocela stretta». Insorge la Fnsi, perché, come dice il segretario Raffaele Lorusso, «un conto è se si fosse in possesso di prove inoppugnabili su giornalisti a libro paga o organici alla macchina della propaganda filorussa; ben diverso sarebbe se tali elenchi fossero stati compilati sulla base di opinioni che, per quanto considerate sgradite, sarebbero comunque legittime».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.

Se Massimo Giletti mi avesse chiesto un consiglio (la gente dà buoni consigli quando ecc. ecc .) gli avrei sconsigliato il viaggio in Russia. Per un motivo tecnico, innanzitutto. Prima, da Mosca, ha avuto un lungo colloquio con Massimo Cacciari (o con Mauro Corona?) che era in Calabria e poi ha tentato di instaurare un dialogo con Maria Zakharova, ma via Skype. Ovviamente, la portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov era a Mosca.

Se un'intervista, che già si preannunciava piena di insidie, è anche costellata dai fatidici «Lei mi sente? La vedo ma non la sento. Chiedo alla regia di», significa che forse non era il caso. Maria Zakharova, definita una grande esperta di comunicazione, non ha fatto altro che insultare Giletti, dall'inizio alla fine, mettendolo in grande difficoltà. Più il conduttore cercava di instaurare una discussione, più la portavoce usava il sarcasmo nei suoi confronti, senza vergogna. Soprattutto nei confronti dell'Italia. Come se Putin non avesse già da tempo avviato una campagna di disinformazione, soprattutto nel nostro Paese, considerato l'anello debole dell'Ue.

Poi Giletti ha avuto un mancamento, forse dovuto alla tensione nervosa, forse (come poi ha precisato lui) per un calo di zuccheri. Ad annunciarlo, dopo una improvvisa interruzione della trasmissione, è stata Myrta Merlino che era in studio a Roma e ha continuato a condurre il programma per alcuni minuti. 

Poi c'è stata l'uscita non prevista di Alessandro Sallusti che ha abbandonato la postazione: «Mi alzo e me ne vado, non farò la foglia di fico», ha concluso il giornalista dopo aver usato pesanti parole contro il Cremlino e un altro ospite seduto al fianco di Giletti, il conduttore russo Vladimir Solovev (altro campione della propaganda). Viaggio inutile: l'assurdità è che noi italiani dovremmo giustificarci con i russi, che stanno massacrando l'Ucraina, di vivere in un Paese democratico.

Non è l’Arena, è la regola. Il comizio della portavoce di Lavrov dimostra che l’appeasement è più pericoloso della fermezza. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 Giugno 2022.

Dobbiamo essere onesti: lo spettacolo andato in onda domenica non è molto diverso da quello che vediamo abitualmente nei talk show e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.

Per quanto possa apparire bizzarra un’intervista televisiva alla portavoce del ministero degli Esteri russo, via Skype, in cui a essere collegato dalla piazza Rossa è il conduttore italiano, dobbiamo essere onesti: non è che faccia una gran differenza con quello che vediamo abitualmente in tv e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.

Che differenza c’è, infatti, tra intervistare Maria Zakharova, via Skype, da Mosca, e intervistare Alessandro Orsini in studio a Roma, a parte il fatto che nel secondo caso si evitano problemi di connessione? Che differenza c’è tra l’ultima puntata di «Non è l’Arena» e l’ultima puntata di altri cento talk show abitualmente in onda su La7, Mediaset e Rai? Che differenza fa ascoltare le veline del Cremlino – sulla guerra che non sarebbe affatto cominciata il 24 febbraio, cioè con l’invasione russa, ma sarebbe in corso «da otto anni»; sulla «russofobia» dell’Occidente; sui «nazisti ucraini» – direttamente dalla portavoce ufficiale del ministero degli Esteri russo, anziché da giornalisti, generali e geopolitologi italiani?

Il problema non è quanto e come Massimo Giletti abbia saputo tenere testa a Zakharova (pochino, in verità), il problema è il gran numero di cose su cui Zakharova e Giletti erano proprio d’accordo, e con loro una larghissima parte dei giornalisti e degli opinionisti italiani.

Nel corso dell’intervista, infatti, il conduttore si è detto d’accordo su ognuno dei più controversi presupposti della posizione russa, dichiarando in sostanza che la sua interlocutrice aveva ragione su tutto, dagli accordi di Minsk non rispettati, solo dall’Ucraina, par di capire («Io non le sto dando torto, i patti di Minsk non sono stati rispettati, su questo le do ragione…»), alle persecuzioni subite dai russofoni nel Donbass (che quindi, implicitamente, pareva quasi che i russi avessero il diritto di invadere) e perfino sulle colpe e la cecità dell’Occidente, che non avrebbe voluto vedere le malefatte del regime ucraino (e qui almeno Giletti, bontà sua, ha avuto il buon gusto di aggiungere che in compenso non aveva voluto vedere nemmeno i massacri compiuti dai russi in Cecenia).

Concesso tutto questo, cioè quasi tutto, il conduttore si limitava dunque a pregare la sua interlocutrice di far parlare la diplomazia e spiegare al pubblico, ora che il Donbass era in larga parte conquistato, cos’altro volessero per far tacere le armi. Che è sostanzialmente la posizione di un bel pezzo non solo del giornalismo, ma anche della politica italiana (da Giuseppe Conte a Matteo Salvini, per citare solo i più espliciti), e che si può riassumere nel vecchio motto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci il passato. Basta che la guerra finisca subito e che noi si possa stare tranquilli, senza preoccupazioni, senza inflazione e possibilmente col condizionatore acceso. E se adesso pensate che stia esagerando, andate a rivedere l’intervista sul sito di La7 e ascoltate con le vostre orecchie quante volte Giletti ripete alla portavoce di Sergej Lavrov che ha ragione su quanto accaduto in passato, sui torti dell’Ucraina e sulle colpe dell’Occidente, ma che ora, insomma, bisogna guardare avanti («Oggi chi ha sbagliato ha sbagliato, ma non possiamo continuare a fare la guerra, date forza alla parola»).

Il bello, si fa per dire, è che davanti a una simile offerta, decisamente generosa, la reazione della portavoce russa è stata una sequela di offese all’indirizzo del conduttore, del quale non ha esitato a dire che ragionava come un bambino o come uno appena arrivato da Marte, mentre ribadiva che la Russia non aveva pianificato nessuna invasione, che era stata costretta a intervenire dai crimini del regime nazista di Kiev e che non si sarebbe fermata fino a quando non avesse portato a termine l’opera di denazificazione del paese. Altro che cessate il fuoco e trattative di pace.

Tra tanta reciproca comprensione per le dubbie ragioni di Mosca, ben poco è stato detto invece nell’intervista sulle migliaia di civili uccisi, stuprati e torturati (se si eccettua un riferimento volante a Bucha, peraltro nel mezzo di una frase raggelante come «se lei si vuol prendere il Donbass, che c’entra Kiev, che c’entra Bucha…»), sulle deportazioni, sui campi di concentramento – pardon, sui campi di «filtrazione» – o sulle tonnellate di grano rubate agli ucraini e rivendute all’estero sotto il ricatto della carestia, o sul fatto che otto anni fa, quando secondo Mosca sarebbe cominciata davvero la guerra, sono stati i russi a occupare e annettere militarmente la Crimea, cioè un pezzo dell’Ucraina, per poi cominciare a inviare soldati e agenti senza divisa a destabilizzare il Donbass, e da lì ricominciare lo stesso gioco. Che è esattamente quello che faranno domani con quel poco o tanto di Ucraina rimasto ancora libero, se i numerosi fautori dell’appeasement, non solo in Italia, riusciranno a raggiungere il loro obiettivo: riconoscere a Mosca tutto o quasi tutto quello che è riuscita a conquistarsi con la violenza, disarmare gli ucraini e siglare l’ennesimo finto accordo di pace, o di tregua, in attesa del prossimo attacco.

Sarebbe una vergogna. Ma il bello, si fa per dire, è che per Vladimir Putin non sarebbe nemmeno abbastanza, almeno a giudicare dal modo rabbioso e insultante con cui la portavoce del ministero degli Esteri russo ha reagito a un simile assist. A dimostrazione – una volta di più – di come non si possa ragionare con una tigre mentre si tiene la testa tra le sue fauci. Un’antica lezione che non avremmo dovuto dimenticare.

Bufera contro Massimo Giletti: “Colleghi in rivolta”. Alice Coppa il 07/06/2022 su Notizie.it.

Dopo la diretta a shock a Non è l'Arena sarebbe scoppiata una vera e propria bufera a La7 contro Massimo Giletti. 

Secondo indiscrezioni il clima a La7 sarebbe alquanto teso contro il conduttore Massimo Giletti, e molti non avrebbero gradito quanto accaduto nella sua ultima diretta a Non è l’Arena.

Massimo Giletti: La7 in rivolta

Secondo alcuni rumor riportati da Dagospia l’ultima diretta di Non è l’Arena avrebbe suscitato un clima alquanto teso all’interno della rete di Urbano Cairo e per questo è possibile che per il programma tv di Giletti ci siano problemi in futuro.

In molti non hanno gradito in particolare lo scontro avuto dal conduttore e Sallusti, che prima di lasciare lo studio lo ha accusato di “asservimento totale alla peggiore propaganda che ci possa essere” durante l’intervista del portavoce del ministro degli esteri russo Lavrov. Poco dopo Giletti è svenuto, e per alcuni istanti la conduttrice Myrta Merlino si è visibilmente spaventata. A seguire il conduttore è riapparso affermando di aver avuto un semplice calo di zuccheri.

Secondo Dagospia anche i colleghi del conduttore non avrebbero gradito quanto accaduto durante la puntata. La vicenda avrà conseguenze per Massimo Giletti e il suo programma tv?

Polemiche social contro Giletti

Le polemiche contro il conduttore ovviamente hanno preso piede anche sul web e in molti lo hanno accusato di “fare il gioco dei russi”. Chi invece ha mostrato solidarietà a Giletti è stato Matteo Salvini, che attraverso un twett ha scritto: “Un affettuoso abbraccio a Massimo Giletti, giornalista e uomo libero”.

La vicenda avrà ulteriori sviluppi? In tanti tra i telespettatori sono impazienti di saperne di più e le polemiche non sembrano placarsi. 

TUTTI I TWEET SULL’IMBARAZZANTE PUNTATA DI “NON È L’ARENA” IN DIRETTA DA MOSCA!

DAGOSELEZIONE il 6 giugno 2022.

LALLERO@see_lallero

Prima la tensione con Alessandro Sallusti, poi il panico per un improvviso malore per Giletti: puntata di #nonelarena tra polemiche e momenti di apprensione. 

Selvaggia Lucarelli@stanzaselvaggia

L’inviato di guerra Massimo Giletti, in diretta lontano 1000 km dalla prima trincea, ha un calo di zuccheri come una sposina all’altare.

Michele D'Alterio@MikeleDalterio

Giletti come me quando l’interrogazione prendeva una brutta piega

Giuseppe Candela@GiusCandela

Puntata pessima. Senza se e senza ma. E senza scusanti. #nonelarena 

Caciottaro@Caustica_mente

“Se ci troviamo qui a Mosca vuol dire che libertà c’è in Russia” esordisce così la propaganda russa direttamente da Mosca #Nonelarena

Yoda@PoliticaPerJedi

Giletti è quel tipo di giornalista che per raccontare l’invasione dell’Ucraina non va in Ucraina ma in Russia. 

ApocaFede@DrApocalypse

#Giletti è riuscito a trovare l’unico politologo ucraino filorusso che vive a Mosca. Fenomeno #NonelArena 

Gabriele Parpiglia@Parpiglia

#livenonelarena ormai la trasformazione è completata . Ma arrivati a questo punto preferivo l ‘originale. Almeno mi divertivo e non sputtanavo argomenti seri 

Gabriele Parpiglia@Parpiglia

Onestamente a #Nonelarena anzi a #livenonelarena stasera avrebbe potuto dire la sua anche #federicofashionstyle 

ApocaFede@DrApocalypse

mi chiedo come Enrico Mentana possa serenamente continuare ad essere il volto giornalistico di una rete in cui ogni domenica va in onda Giletti con programma impresentabile come #NonelArena

Mario Manca@MarioManca

Mi piacerebbe tanto sapere cosa pensa Lilli Gruber sul condividere lo stesso canale con un uomo che, pur di spettacolarizzare la guerra, si è impuntato sul condurre una puntata di un talk dalla Piazza Rossa. #Giletti 

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Il pattume televisivo che propone Giletti - ancor prima di fare un pessimo servizio di informazione - è un problema per l’editore e per la testata giornalistica. #NonelArena mina la credibilità di ore ed ore di prodotti di daytime realizzate dalla redazione del #TgLa7. #AscoltiTv 

Claudio Cerasa@claudiocerasa

Il problema però è anche chi si stupisce che Giletti faccia il Giletti #mancavasoloilbracciodisilicone

Lorenzo Pregliasco@lorepregliasco

Giletti dice a Zakharova che i media italiani sono gli unici a far parlare i propagandisti di Putin. Come se fosse una cosa di cui vantarsi. Spengo e mi metto a leggere un libro: fatelo anche voi

Giovanni Rodriquez@GiovaQuez

Intervista di #Giletti in sintesi.

Giletti: "Perché non volete la pace?"

Zakharova: "Perché siete delle merde"

Giletti: "Non le do torto, ma possiamo fare pace?"

Zakharova: "No, siete delle merde"

Giletti: "Ha ragione ma facciamo pace?"

Zakharova: "Siete delle merde"

#NonelArena 

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Tra l’altro la tizia del governo di #Putin sta tirando degli schiaffoni (verbali) fortissimi a Giletti dandogli sostanzialmente dell’incompetente. Il fastidio per quello che #NonelArena rappresenta è parzialmente compensato da questa umiliazione di G. nel suo stesso programma.  

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86 

Massimo Galanto@GalantoMassimo

"Il Cremlino è un palazzo di merda. Massimo, dovresti avere il coraggio di dirlo ai tuoi interlocutori lì, sono due coglioni. Non voglio più partecipare a questa sceneggiata, rinuncio al compenso pattuito e me ne vado".

Sallusti choc a #NonelArena 

Dietro la politica@dietrolapolitic

#Sallusti ha praticamente dato a #Giletti del tappetino e a #Cacciari dell'utile idiota e della cretina a #Zakharona e dei coglioni agli altri ospiti di #NonelArena Poi se ne è andato. Un gigante. 

nonleggerlo@nonleggerlo

Momenti drammatici a #nonelarena, quando si è scoperto che La7 paga un gettone di presenza a Sallusti. 

Luca Bottura@bravimabasta

Sallusti a Giletti: "Aiutami a dire che hai fatto una figura di melma senza dirti che hai fatto una figura di melma". #NonelArena 

Luca Bottura@bravimabasta

Merlino a Giletti: "Aiutami a dire che hai fatto un'intervista del menga senza dirti che hai fatto un'intervista del menga". #NonelArena 

nonleggerlo@nonleggerlo

Myrta Merlino: “Massimo ha avuto un mancamento, siamo tutti umani, può succedere. Stiamo cercando di capire. Spero si ricolleghi presto con noi. Ora rimettiamo i piedi nella realtà… questa signora ci ha portati in una realtà parallela" (Myrta in autogestione) #nonelarena

ApocaFede@DrApocalypse

 “Massimo ha avuto un malore al termine di una puntata complicata”. Voluta, pensata, insensatamente realizzata, cavalcata, senza pudore alcuno. “Complicata” per volontà di editore e conduttore #nonelarena #giletti

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Al netto del momento drama del malore di Giletti, il giudizio sulla puntata di #Nonelarena è ignobile. Trasferta inutile a fini giornalistici ma necessaria solo per solleticare l’ego del conduttore, solita propaganda filo Russa in nome di un pluralismo che è solo foglia di fico.

Luca Dondi@lucadondi94

La cosa che trovo più squallida, vomitevole e da radiazione dall’albo sono le risate che Giletti fa con i suoi ospiti rappresentanti della propaganda. Risate e sorrisi mentre si perdono vite e si sparge sangue. Una pagina raccapricciante del giornalismo italiano. #nonelarena 

Caciottaro@Caustica_mente

#Giletti in diretta dalla piazza Rossa di Mosca è il punto più basso del giornalismo televisivo #NonèLArena 

Il Grande Flagello@grande_flagello

Giletti vola fino a Mosca per avere la Piazza Rossa sullo sfondo. Bastava un po' di green screen. #NonelArena

Gabriele Parpiglia@Parpiglia

MARIA ZAKHAROVA 1

#giletti a #mosca per fare interviste via #skype l’evoluzione del non giornalismo. Alla fine il titolo era ‘ #giletti va a #mosca ‘ . Il resto… paga #Cairo contento lui 

Giuseppe Candela@GiusCandela

Giletti da Mosca intervista Cacciari in collegamento dalla Calabria. #NonelArena 

Matteo Alboni (a.k.a. reese)@reese_86

Cairo che taglia il tagliabile dovrebbe chiedersi l’utilità di mandare Giletti a Mosca che intervista Cacciari in Calabria e una tizia russa che sta in Russia ma collegata su Skype e tutto questo accendendo a Roma uno studio di 700 mq che rimane vuoto #NonelArena #La7

Marco Ferraglioni@MFerraglioni

Mi chiedo perché #MassimoGiletti sia andato a #Mosca per intervistare via #Skype la portavoce del Ministro degli Esteri #Lavrov, ha i soldi da buttare #UrbanoCairo?? Intervista che poteva essere fatta anche da #Roma in remoto #NonelArena

Massimo Falcioni@falcions85

Una diretta così la puoi fare pure col chroma key da casa. Trasferta oggettivamente inutile. Santoro a Belgrado si collegò da un ponte, con la popolazione inferocita. Qui siamo passati dal bunker coi sacchi alla piazza Rossa. Utile a malapena per qualche polemica. Resa? Zero.

nonleggerlo@nonleggerlo

Grandi momenti di televisione, Giletti è live da Mosca e non riesce a collegarsi con gli ospiti da Mosca. “So che possiamo andare in pubblicità, ma vorrei risolvere: per ora vi offro la bellezza del Cremlino” #nonelarena

nonleggerlo@nonleggerlo

Massimo Giletti live da Mosca: “Mi date a schermo pieno il Cremlino, qui dietro alle mie spalle… Cacciari, che impressione le dà vedere il Cremlino?” “L’ho visto altre volte… è la grande Russia” #nonelarena

Luca Bottura@bravimabasta

Solovyev spiega che i giornalisti russi sono dotati di senso dell'umorismo. Anna Politkovskaja probabilmente l'hanno ammazzata per quello: non capiva le battute. #giletti #nonelarena

marco taradash@mrctrdsh

Giletti: “stupri omicidi bambini ammazzati sia da una parte che dall’altra”. Ma che figura meschina. 

jean- jacques r@janavel7

E c'è andato fino a Mosca per fare quella figura di merda giornalistica? #Giletti

Davide Aldieri@Lazzaro1969

Alla fine a Mosca abbiamo mandato il generico di Salvini: Giletti. #NonelArena

@nonelarena 

Luca Bottura@bravimabasta

C'è di buono per i russi che se vedono 'sta roba a Washington, ci cacciano dalla Nato entro 15" #giletti #nonelarena 

Il Grande Flagello@grande_flagello

Giletti in chiusura dissente da Sallusti: "il Cremlino non è un palazzo di merda perchè è bello dal punto di vista artistico" Sipario #NonelArena

Francesco Canino@fraversion

nonostante il battage per il live di Giletti da Mosca, Non è l’Arena ha registrato ieri 888 mila spettatori con il 7.1%. Cifre che ha toccato altre volte e con una concorrenza molto più forte di quella di ieri. #NonelArena #AscoltiTv

Non è l’Arena, è la regola. Il comizio della portavoce di Lavrov dimostra che l’appeasement è più pericoloso della fermezza. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 Giugno 2022.

Dobbiamo essere onesti: lo spettacolo andato in onda domenica non è molto diverso da quello che vediamo abitualmente nei talk show e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.  

Per quanto possa apparire bizzarra un’intervista televisiva alla portavoce del ministero degli Esteri russo, via Skype, in cui a essere collegato dalla piazza Rossa è il conduttore italiano, dobbiamo essere onesti: non è che faccia una gran differenza con quello che vediamo abitualmente in tv e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.

Che differenza c’è, infatti, tra intervistare Maria Zakharova, via Skype, da Mosca, e intervistare Alessandro Orsini in studio a Roma, a parte il fatto che nel secondo caso si evitano problemi di connessione? Che differenza c’è tra l’ultima puntata di «Non è l’Arena» e l’ultima puntata di altri cento talk show abitualmente in onda su La7, Mediaset e Rai? Che differenza fa ascoltare le veline del Cremlino – sulla guerra che non sarebbe affatto cominciata il 24 febbraio, cioè con l’invasione russa, ma sarebbe in corso «da otto anni»; sulla «russofobia» dell’Occidente; sui «nazisti ucraini» – direttamente dalla portavoce ufficiale del ministero degli Esteri russo, anziché da giornalisti, generali e geopolitologi italiani?

Il problema non è quanto e come Massimo Giletti abbia saputo tenere testa a Zakharova (pochino, in verità), il problema è il gran numero di cose su cui Zakharova e Giletti erano proprio d’accordo, e con loro una larghissima parte dei giornalisti e degli opinionisti italiani.

Nel corso dell’intervista, infatti, il conduttore si è detto d’accordo su ognuno dei più controversi presupposti della posizione russa, dichiarando in sostanza che la sua interlocutrice aveva ragione su tutto, dagli accordi di Minsk non rispettati, solo dall’Ucraina, par di capire («Io non le sto dando torto, i patti di Minsk non sono stati rispettati, su questo le do ragione…»), alle persecuzioni subite dai russofoni nel Donbass (che quindi, implicitamente, pareva quasi che i russi avessero il diritto di invadere) e perfino sulle colpe e la cecità dell’Occidente, che non avrebbe voluto vedere le malefatte del regime ucraino (e qui almeno Giletti, bontà sua, ha avuto il buon gusto di aggiungere che in compenso non aveva voluto vedere nemmeno i massacri compiuti dai russi in Cecenia).

Concesso tutto questo, cioè quasi tutto, il conduttore si limitava dunque a pregare la sua interlocutrice di far parlare la diplomazia e spiegare al pubblico, ora che il Donbass era in larga parte conquistato, cos’altro volessero per far tacere le armi. Che è sostanzialmente la posizione di un bel pezzo non solo del giornalismo, ma anche della politica italiana (da Giuseppe Conte a Matteo Salvini, per citare solo i più espliciti), e che si può riassumere nel vecchio motto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci il passato. Basta che la guerra finisca subito e che noi si possa stare tranquilli, senza preoccupazioni, senza inflazione e possibilmente col condizionatore acceso. E se adesso pensate che stia esagerando, andate a rivedere l’intervista sul sito di La7 e ascoltate con le vostre orecchie quante volte Giletti ripete alla portavoce di Sergej Lavrov che ha ragione su quanto accaduto in passato, sui torti dell’Ucraina e sulle colpe dell’Occidente, ma che ora, insomma, bisogna guardare avanti («Oggi chi ha sbagliato ha sbagliato, ma non possiamo continuare a fare la guerra, date forza alla parola»).

Il bello, si fa per dire, è che davanti a una simile offerta, decisamente generosa, la reazione della portavoce russa è stata una sequela di offese all’indirizzo del conduttore, del quale non ha esitato a dire che ragionava come un bambino o come uno appena arrivato da Marte, mentre ribadiva che la Russia non aveva pianificato nessuna invasione, che era stata costretta a intervenire dai crimini del regime nazista di Kiev e che non si sarebbe fermata fino a quando non avesse portato a termine l’opera di denazificazione del paese. Altro che cessate il fuoco e trattative di pace.

Tra tanta reciproca comprensione per le dubbie ragioni di Mosca, ben poco è stato detto invece nell’intervista sulle migliaia di civili uccisi, stuprati e torturati (se si eccettua un riferimento volante a Bucha, peraltro nel mezzo di una frase raggelante come «se lei si vuol prendere il Donbass, che c’entra Kiev, che c’entra Bucha…»), sulle deportazioni, sui campi di concentramento – pardon, sui campi di «filtrazione» – o sulle tonnellate di grano rubate agli ucraini e rivendute all’estero sotto il ricatto della carestia, o sul fatto che otto anni fa, quando secondo Mosca sarebbe cominciata davvero la guerra, sono stati i russi a occupare e annettere militarmente la Crimea, cioè un pezzo dell’Ucraina, per poi cominciare a inviare soldati e agenti senza divisa a destabilizzare il Donbass, e da lì ricominciare lo stesso gioco. Che è esattamente quello che faranno domani con quel poco o tanto di Ucraina rimasto ancora libero, se i numerosi fautori dell’appeasement, non solo in Italia, riusciranno a raggiungere il loro obiettivo: riconoscere a Mosca tutto o quasi tutto quello che è riuscita a conquistarsi con la violenza, disarmare gli ucraini e siglare l’ennesimo finto accordo di pace, o di tregua, in attesa del prossimo attacco.

Sarebbe una vergogna. Ma il bello, si fa per dire, è che per Vladimir Putin non sarebbe nemmeno abbastanza, almeno a giudicare dal modo rabbioso e insultante con cui la portavoce del ministero degli Esteri russo ha reagito a un simile assist. A dimostrazione – una volta di più – di come non si possa ragionare con una tigre mentre si tiene la testa tra le sue fauci. Un’antica lezione che non avremmo dovuto dimenticare.

Gli insulti di Zakharova a Giletti e le lezioni di democrazia. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.  

Più il conduttore cercava di instaurare una discussione, più la portavoce usava il sarcasmo nei suoi confronti, senza vergogna. Soprattutto nei confronti dell’Italia. 

Se Massimo Giletti mi avesse chiesto un consiglio (la gente dà buoni consigli quando ecc ecc) gli avrei sconsigliato il viaggio in Russia. Per un motivo tecnico, innanzitutto. Prima, da Mosca, ha avuto un lungo colloquio con Massimo Cacciari (o con Mauro Corona?) che era in Calabria e poi ha tentato di instaurare un dialogo con Maria Zakharova, ma via Skype. Ovviamente, la portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov era a Mosca. Se un’intervista, che già si preannunciava piena di insidie, è anche costellata dai fatidici «Lei mi sente? La vedo ma non la sento. Chiedo alla regia di…», significa che forse non era il caso. Maria Zakharova, definita una grande esperta di comunicazione, non ha fatto altro che insultare Giletti, dall’inizio alla fine, mettendolo in grande difficoltà. Più il conduttore cercava di instaurare una discussione, più la portavoce usava il sarcasmo nei suoi confronti, senza vergogna. Soprattutto nei confronti dell’Italia. Come se Putin non avesse già da tempo avviato una campagna di disinformazione, soprattutto nel nostro paese, considerato l’anello debole dell’UE.

Poi Giletti ha avuto un mancamento, forse dovuto alla tensione nervosa, forse (come poi ha precisato lui) per un calo di zuccheri. Ad annunciarlo, dopo una improvvisa interruzione della trasmissione, è stata Myrta Merlino che era in studio a Roma e ha continuato a condurre il programma per alcuni minuti. Poi c’è stata l’uscita non prevista di Alessandro Sallusti che ha abbandonato la postazione: «Mi alzo e me ne vado, non farò la foglia di fico», ha concluso il giornalista dopo aver usato pesanti parole contro il Cremlino e un altro ospite seduto al fianco di Giletti, il conduttore russo Vladimir Solovev (altro campione della propaganda). Viaggio inutile: l’assurdità è che noi italiani dovremmo giustificarci con i russi, che stanno massacrando l’Ucraina, di vivere in un paese democratico.

Nota ufficiale di La7 il 23 marzo 2022. 

Massimo Giletti ha condotto per La7 una puntata straordinaria da Odessa in un contesto difficile. Lui, videomaker, operatori e tecnici hanno lavorato al meglio e in una situazione di grande rischio per offrire al pubblico un racconto inedito e originale.

Le critiche che ha ricevuto sono del tutto ingenerose, l’oggettività di quanto è stato fatto è un dato incontrovertibile che il pubblico ha riconosciuto e apprezzato.

R.d'A. per “Avvenire” il 7 giugno 2022.

Un nuovo fronte polemico si aggiunge a quello sulle liste di personalità filorusse, che in tv starebbero sostenendo le tesi di Mosca. Nel calderone finisce Massimo Giletti per la puntata di Non è l'arena, la trasmissione di La7 andata in onda domenica da Mosca, nella quale tra l'altro il giornalista ha avuto un mancamento, mentre il direttore di Libero Alessandro Sallusti abbandonava la scena in aperta polemica per la modalità con cui il conduttore aveva intervistato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

Il giorno dopo, durissime sono le critiche del deputato Pd Andrea Romano: «Ormai siamo un caso internazionale, diamo tribuna ai pifferai di Putin». E parla di «vergognosa propaganda» a La7 Maria Saeli, tesoriere di +Europa. Alla fine, a difendere Giletti resta solo Matteo Salvini con un «affettuoso abbraccio a un giornalista e uomo libero ». Mentre il dem Enrico Borghi, membro del Copasir, vede un «tentativo di manipolazione» con i due propagandisti filo-Putin ad avere spazio in trasmissione. «Disinformazione, propaganda, fake news, tentativi di manipolazione dell'opinione pubblica in Italia e nelle democrazie liberali... È la cosiddetta dottrina Gerasimov sulla guerra ibrida, sulla guerra non convenzionale - spiega Borghi - . È questo che sta combattendo e cerca di disvelare il Parlamento italiano attraverso il Copasir».

La trasmissione ha visto Giletti sulla piazza Rossa, mentre da studio Myrta Merlino conduceva gli interventi. Nulla di grave, comunque, per Giletti, che è riapparso in video dopo qualche minuto di concitazione. Ma restano le sue domande, considerate troppo accondiscendenti nei confronti dell'ospite, collaboratrice dello 'zar'.

Zakharova difende strenuamente la posizione del Cremlino, attaccando l'Europa e i giornalisti italiani che si sono disinteressati del conflitto in Donbass negli ultimi otto anni. La giornalista se la prende anche con Giletti, per i suoi ragionamenti 'infantili', di fronte al tentativo di quest' ultimo di perorare la causa del negoziato.

L'interessato non dà sufficiente prova di forza, secondo Sallusti, che lascia la trasmissione. «Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo - lo accusa - . Mi trovo davanti ad un asservimento totale di fronte alla peggiore propaganda che ci possa essere».

Perciò, taglia corto, «rinuncio al compenso pattuito, ma non ci sto a fare la foglia di fico» agli ospiti russi, due politologi, uno dei quali - il famoso conduttore Vladimir Solovyev - viene subito invitato da Bruno Vespa: «Lo ospiterò a 'Porta a porta' se lui sarà cortese a ospitarmi nel suo programma di Russia1. Così i nostri pubblici potranno confrontare le diverse posizioni sulla crisi ucraina in un sereno dibattito tra persone civili». Insomma, le polemiche sulla gestione dell'informazione nei talk sembrano destinate a proseguire, con gli ascolti che crescono.

Massimo Giletti, "com'è arrivato a Mosca?": Salvini e l'ambasciata russa, cosa non torna sul viaggio. su Libero Quotidiano il 12 giugno 2022.

Continua a tenere banco il caso del viaggio mancato di Matteo Salvini a Mosca. L’ambasciata russa ha diffuso una nota per fare chiarezza, affermando di aver aiutato il segretario della Lega nell’acquisto dei biglietti aerei in rubli: una volta abortita la missione di pace a Mosca, i biglietti sono stati prontamente rimborsati. Giovanni Rodriquez ha però alimentato la polemica, gettando nella “mischia” anche Massimo Giletti, che domenica scorsa ha condotto Non è l’Arena dal Cremlino.

“Se risulta davvero impossibile acquistare il volo per Mosca senza l’intervento diretto dell’ambasciata, Giletti e compagnia davanti al Cremlino come ci sono arrivati, via terra?”, è l’interrogativo avanzato dal giornalista. In merito al caso Salvini, l’ambasciata russa ha spiegato che, a causa delle sanzioni imposte dall’Ue, i voli diretti Roma-Mosca sono stati sospesi e quindi si era reso necessario acquistare biglietti aerei per un volo Aeroflot con partenza da Istanbul, in Turchia. 

“L’ambasciata ha assistito Salvini e le persone che lo accompagnavano - si legge nella nota - nell’acquisto dei biglietti aerei di cui avevano bisogno in rubli tramite un’agenzia di viaggi russa. In quanto il viaggio di Salvini a Mosca non è avvenuto per motivi ben noti, alla fine ci è stato restituito l’equivalente della cifra spesa per l’acquisto dei biglietti aerei in euro. Non vediamo nulla di illegale in queste azioni”.

Benedetta Vitetta per “Libero quotidiano” il 13 giugno 2022.

Dopo l'abbandono dello studio della scorsa settimana, ieri sera- sempre in diretta su La7 - è andato in onda un nuovo confronto tra Massimo Giletti, giornalista e conduttore di Non è l'Arena, e il direttore di Libero, Alessandro Sallusti. E così, in attesa dei risultati di referendum e amministrative, i telespettatori hanno assistito a un altro faccia a faccia di fuoco.

Giletti (ieri sera non più a Mosca ma in Italia, ndr) è subito ritornato alla frase choc urlata per ben due volte da Sallusti domenica scorsa chiedendogli se voleva ribadire che il Cremlino è "un palazzo di m...".

«Sì, assolutamente» ha confermato serenamente il direttore «perché in quel luogo oggi si sta decidendo di sparare su civili, donne e bambini, di affamare popolazioni, ma in un recente passato si sono architettate purghe e pulizie etniche. Quindi sì, non è un bel posto, è un posto sporco e che trasuda sangue da tutte le pietre».

Il confronto tra Giletti e Sallusti è poi proseguito tornando esattamente sulle polemiche della passata trasmissione che, tra l'altro, ha portato bene agli ascolti della rete.

IL GIUDIZIO SU PUTIN «Putin ha ammazzato da sempre, purtroppo, forse noi occidentali abbiamo chiuso gli occhi davanti a quello che hanno sempre fatto» ha proseguito Giletti stuzzicando il collega Sallusti che non ha avuto tentennamenti: «Negli ultimi anni ho pensato che Putin stesse cercando di raddrizzare un po' le cose, ma oggi prendo atto che è in scia coi personaggi che l'hanno preceduto e che, quindi, continua, la maledizione di quel palazzo. Ma alla terza volta che ammazza, ora gli dico che è uno stronzo». E a questo punto è Sallusti a partire all'attacco nei confronti del conduttore: «Continuare a far quello che stai facendo tu stasera, dicendo, siccome noi abbiamo fatto una porcata in Iraq...». Ma Giletti lo interrompe subito e in modo anche parecchio seccato: «Ma questo lo dici tu, io non lo penso, come faccio a pensare una cosa così grave...».

E qui, approfittando della pausa dell'avversario-giornalista, Sallusti affonda il colpo e gli chiede di scegliere da che parte stare: «Tu, Massimo, stasera stai dicendo le stesse cose che ci ha detto lei (Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov, intervistata domenica per oltre un'ora da Giletti, ndr) la volta scorsa: voi occidentali avete fatto guerra sporca e allora perché rompete le palle a noi? Ogni volta bisogna scegliere da che parte stare. Qui non siamo a Ballando con le stelle, in questa trasmissione si parla di cose molto serie» ha proseguito Sallusti accusando l'interlucore di assolvere la propaganda russa.

«Starò sempre dalla parte dell'Ucraina invasa, ma detto ciò non accetto il pensiero unico americano. Le Borse di venerdì sono crollate e la fatica di arrivare a fine mese si sta avvertendo. Se questa guerra non finisce, finisce male» replica stizzito Giletti.

Davanti a cui il direttore di Libero quasi si indigna parlando di «pura e semplice demagogia» quella utilizzata dal noto anchorman de La7.

«Non puoi dire di aver avuto con confronto con la Zakharova, perchè quello che è andato in onda la passata settimana è stato semplicemente un monologo. Era solo propaganda russa che, per di più, colpevolizzava l'Occidente e l'Italia in primis».

L'ultimo appunto del direttore arriva sul proprio sul finale quando fa notare che i russi definiscono quello di Kiev, un regime. «Non lo è affatto e da anni non lo è». Se mai la Russia non è una democrazia. «Ma una democratura» spiega.

Non è l'Arena, Massimo Giletti ad Odessa: "Fare 60 anni sotto un allarme aereo, chi l'avrebbe amai detto..." Libero Quotidiano il 20 marzo 2022.

Massimo Giletti è in Ucraina per raccontare in prima persona la guerra e gli effetti dell'attacco della Russia. Il conduttore di Non è l'Arena, in onda la domenica su La7, ha trasmesso il programma dal centro di Odessa mentre in studio a Roma c'erano gli ospiti tra gli altri come il direttore di Libero Alessandro Sallusti e l'esponente di Leu Nicola Fratoianni. "Oggi c'è qualcosa di strano, abbiamo visto auto crivellate di colpi con feriti a bordo. Il fatto è insolito perché qui è ancora una zona tranquilla", dice Gilletti. Che ricorda di aver compiuto 60 anni proprio nella settimana che l'ha portato in Ucraina: "Fare 60 anni sotto un allarme aereo ad Odessa, chi l'avrebbe amai detto", Giletti parla di pulmini carichi di feriti, mostra i cavalli di Frisia nelle strade della città. Giletti parla anche della caparbietà e dello spirito della resistenza ucraina sempre o più determinata a difendere il proprio Paese: "Chi sa se anche nell'esercito russo c'è questo spirito"; si chiede. 

Giletti, anche per aggirare il problema dell'energia e quello del coprifuoco, ha individuato un rifugio della Croce rossa da dove andrà in onda Non è l'Arena. "Sono venuto qui perché credo che se vuoi parlare di guerra devi vedere" in prima persona, spiega il giornalista che ha poi mandato in onda delle immagini impressionanti, che hanno documentato il volto più drammatico sulla guerra. 

 Da liberoquotidiano.it il 21 marzo 2022.

Scontro a distanza tra Selvaggia Lucarelli e Massimo Giletti sulla diretta della puntata di ieri sera 2o marzo di Non è L'Arena su La7 trasmessa da Odessa, la città assediata dai russi in Ucraina. "La prima parte del collegamento con Giletti in cui lui sembrava in diretta tra spari e missili era registrata alle 18,45 circa, poco prima del coprifuoco. Ovviamente si è ben guardato dal dirlo per non togliere il brivido agli spettatori", ha attaccato la giornalista su Twitter.

Poche ore prima, sempre la Lucarelli aveva criticato il collega sollevando alcuni sospetti: "Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade". E ancora: "A Odessa c’è il coprifuoco dalle 20,00 (lì sono 1 ora avanti). Come faceva Giletti a stare per strada? O lo ha violato o l’inizio era registrato. La cosa più inquietante è che vedi Giletti a Odessa che dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie B". 

Accuse che il diretto interessato respinge alla mittente: "Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento", ha ribattuto Giletti raggiunto a Odessa da Adnkronos. Parole grosse quelle del conduttore che evidentemente è rimasto molto offeso dai tweet di Selvaggia, con la quale, notoriamente, non c'è grande stima.

Da iltempo.it il 21 marzo 2022.

Massimo Giletti ha portato la sua trasmissione Non è l'Arena in Ucraina. Il conduttore domenica 20 marzo ha iniziato la diretta da Odessa mentre partivano i razzi della contraerea ucraina contro un attacco russo. In molti hanno manifestato stima e vicinanza al giornalista per la scelta di raccontare in prima persona la guerra, ma non sono mancate le critiche e le accuse di protagonismo. 

Mentre andavano in onda le prime immagini di Non è l'Arena, Selvaggia Lucarelli ha criticato con una punta di velenosa ironia la "trasferta" del conduttore di La7: "La cosa più inquietante è che vedi Giletti a Odessa che dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie b".

La giornalista su Twitter lancia anche dei sospetti sulla genuinità di quanto visto in tv: "A Odessa c’è il coprifuoco dalle 20,00 (lì sono 1 ora avanti). Come faceva Giletti a stare per strada? O lo ha violato o l’inizio era registrato", è il dubbio della Lucarelli. "Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade" è  l'ultimo affondo all'indirizzo del giornalista.

Da ilfattoquotidiano.it il 21 marzo 2022.  

“Spero che mi sentiate, si sentono i colpi nell’aria e la situazione è molto tesa“. Inizia così il collegamento di Massimo Giletti in diretta da Odessa nella puntata di Non è L’Arena andata in onda nella serata di domenica 20 marzo. Il giornalista è inviato sul fronte di guerra in Ucraina, in particolare nella città portuale epicentro dei combattimenti degli ultimi giorni. 

Proprio mentre era collegato dalla piazza principale è iniziato a sorpresa un attacco aereo e in sottofondo si sono sentiti nitidamente gli spari in corso. “C’è un attacco russo in corso a sorpresa. Questa è la contraerea, forse è in corso un attacco con i droni. Non sappiamo cosa sta succedendo ma questa è la situazione”, ha spiegato Giletti.

E ancora: “Non so per quanto tempo possiamo stare ancora fuori, qui sta succedendo qualcosa“, ha aggiunto mentre il rumore degli spari si faceva sempre più forte. Quindi la telecamera ha inquadrato prima il cielo dove si vedevano nitidamente i “traccianti in aria” dei droni e poi un gruppo di soldati che attraversava la piazza a pochi metri da loro. “Non è scattato l’allarme aereo ma ci stanno facendo cenno che dobbiamo rientrare nel rifugio.

Stiamo vivendo in diretta un attacco che non è stato neanche annunciato”, ha detto ancora Giletti mentre in cielo si vedevano sempre più luci. Quindi, ha salutato il pubblico e chiuso il collegamento per continuare poi la trasmissione nel bunker dove era stato allestito una sorta di “studio”.

 Non è l'Arena, Massimo Giletti umilia Selvaggia Lucarelli: "Quando dà il meglio di sé. E non aggiungo altro". Libero Quotidiano il 21 marzo 2022

Scontro a distanza tra Selvaggia Lucarelli e Massimo Giletti sulla diretta della puntata di ieri sera 2o marzo di Non è L'Arena su La7 trasmessa da Odessa, la città assediata dai russi in Ucraina. "La prima parte del collegamento con Giletti in cui lui sembrava in diretta tra spari e missili era registrata alle 18,45 circa, poco prima del coprifuoco. Ovviamente si è ben guardato dal dirlo per non togliere il brivido agli spettatori", ha attaccato la giornalista su Twitter.

Poche ore prima, sempre la Lucarelli aveva criticato il collega sollevando alcuni sospetti: "Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade". E ancora: "A Odessa c’è il coprifuoco dalle 20,00 (lì sono 1 ora avanti). Come faceva Giletti a stare per strada? O lo ha violato o l’inizio era registrato. La cosa più inquietante è che vedi Giletti a Odessa che dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie B".

Accuse che il diretto interessato respinge alla mittente: "Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento", ha ribattuto Giletti raggiunto a Odessa da Adnkronos. Parole grosse quelle del conduttore che evidentemente è rimasto molto offeso dai tweet di Selvaggia, con la quale, notoriamente, non c'è grande stima. 

Ucraina, il conflitto irrisolto di Massimo Giletti con il giornalismo di guerra. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 04 aprile 2022.

 Per chi si fosse distratto, questa settimana Massimo Giletti è tornato in Ucraina, a Odessa, per documentare sul fronte la Zeta dell’esercito di Putin con la Acca delle Hogan ai suoi piedi. Roba che uno si chiede cosa abbia fatto il popolo ucraino di male per subire l’invasione di Giletti dopo quello dei russi. Il prossimo sarà Godzilla dal Mar Nero, di questo passo. 

Quando si parla di conflitti irrisolti andrebbe analizzato quello di Giletti col giornalismo di guerra perché c’è una balcanizzazione mai risolta dentro di lui tra trash e sensazionalismo di cui l’Unione europea o la Nato o un bravo specialista prima o poi si dovranno occupare.

Per chi si fosse distratto, questa settimana Massimo Giletti è tornato in Ucraina, a Odessa, per documentare sul fronte la Zeta dell’esercito di Putin con la Acca delle Hogan ai suoi piedi. Roba che uno si chiede cosa abbia fatto il popolo ucraino di male per subire l’invasione di Giletti dopo quella dei russi. Il prossimo sarà Godzilla dal Mar Nero, di questo passo.

Fatto sta che anche ieri sera Massimo Giletti detto ormai “Massimo Gilet” da quando si collega con l’Italia solo se sui sacchi di sabbia che lo circondano viene adagiato anche un gilet con la scritta press per aggiungere pathos al mestiere, era lì a fare il duro lavoro dell’inviato di guerra. Che però conduce anche la puntata, coordina lo studio, lancia suoi servizi, lancia la pubblicità, ci aggiorna sugli sviluppi sul posto.

Gli sviluppi sul posto raccontati da Gilet, per la cronaca, sono “S’è sentito un botto”, “Un altro botto”, “Due botti”, roba  che io a un certo punto mi sono chiesta se fosse la guerra o il carico di droga arrivato nel quartiere di qualche boss di Odessa, boh. Ma proseguiamo.

Parte il servizio esclusivo in cui Gilet mostra gli obiettivi sensibili colpiti dai russi a Odessa, nonostante il governo ucraino abbia vietato ai giornalisti di farlo entro le 24 ore dal bombardamento. Le immagini girate all’alba sono impressionanti. Sto parlando delle occhiaie di Giletti alle sei del mattino.

Poi arriva l’ospite d’eccezione, Walter Veltroni, il cui ruolo pattuito col conduttore è stato chiaro fin dall’inizio: «Massimo, io ti dico quanto sei figo a stare lì sotto le bombe, anzi, tra i botti, se tu mi dici quanto è figo il mio libro». «Ok, andata Walter».

Il conduttore Gilet lancia un altro servizio dell’inviato Giletti, questa volta è il tour delle trincee abbandonate con ricerca di souvenir tipo gita sul vulcano con ricerca di pietre laviche per farsi il braccialetto.

I RITROVAMENTI

Non so bene chi abbia convinto Gilet che fare il reporter di guerra sia mostrare quello che trova per terra con la musica horror in sottofondo, fatto sta che ci mostra, nell’ordine: un foglio di giornale russo (ma tu guarda, pensavo che i russi leggessero DiPiù), una scarpa che butta subito per terra perché ha appena scoperto che questi pezzenti di russi non combattono con le Hogan, dei “pezzi tagliati di erba” che non si sa cosa voglia dire.

Soprattutto, molto stupito, continua a mostrare avanzi di cibo. Questa cosa che i soldati mangino lo ha sconvolto parecchio, forse pensava che i russi si ricaricassero alle colonnine della Tesla. 

Poi torna in studio dove Alessandro Sallusti dà della gallina starnazzante a Fabiola D’Aliselio che sembra un’attrice di Forum, una di quelle che vanno da Barbara Palombelli e dicono che si sono separate dal marito e ora litigano su chi dei due debba tenere il coniglietto nano che avevano comprato insieme a una fiera agricola nell’Oltrepò.

Gilet la interrompe bruscamente e annuncia una servizio in cui si parlerà dei FOSSI COMUNI. Forse intendeva l’utilizzo del congiuntivo imperfetto nell’uso comune, non si è capito.

Torna in studio e mette a confronto l’ormai noto giornalista ucraino Valdislav Maistrouk  che presenta come “MAISMAK”. Saranno stati i botti che lo hanno confuso. Maistrouk ascolta le parole di un giornalista russo in collegamento che nega con sorrisetto cinico la strage di civili a Bucha.

Maistrouk dice serafico: «Messaggio per i mandanti e propagandisti: dovete avere paura, devi avere paura fino all’ultimo giorno della tua esistenza, tu ridi ma noi ti troveremo, troveremo tutti e come ha fatto Israele quando vi troveremo, vi puniremo». Una minaccia di morte in diretta tv.

FOSSI COMUNI

Gilet o non sente o sente un altro botto, fatto sta che non batte ciglio e annuncia un altro servizio sui FOSSI COMUNI. Poi lancia un altro suo servizio sul posto in cui mostra che dentro una vecchia stalla ci sono “RESTI DI RUSSI”. Ha detto così eh, non sto inventando.

Dentro la stalla, per la cronaca ci sono solo mattoni e paglia, dunque i russi forse sono tipo i guerrieri di terracotta, una pioggerellina a tradimento li ha sciolti.

Da una certa ora in poi, la confusione si trasforma in delirio. Gilet inizia a innervosirsi per i botti, dice lui, e quindi litiga a caso con gente in studio, toglie la parola a ospiti inermi, maltrattati gratuitamente, ripete che per lui è complicato e devono capirlo, poi “veniteci voi qui sotto le bombe!” perché Massimo Gilet deve ricordarci ogni tre per due quanto è pericoloso stare lì con le sole Hogan a fargli da scudo.

Infine, la deriva più esilarante: da metà puntata in poi comincia a litigare con personaggi immaginari, che noi non vediamo mai e che nella sua testa forse sono quelli della sicurezza ucraina, una cosa tipo tipo “ Beautiful mind, e quindi “tuenti minuts end ai stop!!!”, “tuentifaiv second!”, “Iz ok!”, ma soprattutto “Don’t worry, be happy”. Giuro, l’ha detto. Ha detto “dont uorri bi eppi" a un soldato o a un soldato immaginario, non lo sapremo mai.

Così come non sapremo mai dove sono andati quei botti che verso la fine lui commenta così: «Si sentono dei botti, speriamo che vadano da un’altra parte!».

Insomma, speriamo che cadano in testa a qualcun altro.

E da Massimo Gilet è tutto. 

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Gli insulti choc di Gabriele Muccino a Massimo Giletti: “Truffatore, mediocre, miserabile e ominide”. Il Tempo il 22 marzo 2022.

Senza fine la polemica a distanza tra Selvaggia Lucarelli e Massimo Giletti in cui si è inserito anche il registra cinematografico Gabriele Muccino. La giornalista aveva criticato il collega per la sua diretta di Non è l’Arena da Odessa, accusandolo di aver registrato la prima parte del programma, perché nella città ucraina dalle 20 era in vigore il coprifuoco, e di aver trasformato la guerra «in set di un film di serie B». Giletti aveva replicato netto: «Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a ’Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento». La risposta di Selvaggia Lucarelli non s’è fatta attendere: «La povertà intellettuale di Giletti sta anche nel non saper rispondere nel merito (la spettacolarizzazione della guerra), ma di fare la battuta dal retrogusto maschilista della serie ‘occupati di cose frivole’. Che non racconta nulla di me, ma molto di lui, ancora una volta», ha scritto su twitter la giornalista.

Sotto al post della Lucarelli è apparsa anche una risposta al veleno di Muccino, che ci è andato giù pesante: «Massimo Giletti è un truffatore. Un uomo mediocre con cui io stesso ho avuto indirettamente a che fare. È la miseria di un uomo che si incarna in un ominide». Risponderà ancora e continuerà il botta e risposta?

Dagospia il 23 marzo 2022.Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, è un peccato che Andrea Scanzi, nella sua perla di eleganza stilistica non dimostri lo stesso coraggio che attribuisce a Giletti. Scrive: "...nello scegliere come opinioniste  fisse delle carneadi che nemmeno Tele Fagiolo Morto avrebbe il coraggio di pagare” senza fare i loro nomi, o meglio il suo nome. Grazie per l’ospitalità. Sandra Amurri 

Dall’account facebook di Sandra Amurri 

A proposito del post di Scanzi,una perla di eleganza stilistica che , prescinde, anzi nega la forza delle opinioni e della sacrosanta, libertà di esprimerle (io credo di esserne , umilmente, un esempio) ma che altro non sono che un insieme di parole così grevi da far vergognare qualsiasi essere umano. Scanzi fra l altro , scrive :”Coraggioso mai, se non nello scegliere come opioniste fisse delle carneadi che nemmeno Tele Fagiolo Morto avrebbe il coraggio di pagare.”

Mi chiedo come mai non dimostri lo stesso coraggio  ,che attribuisce a Giletti, nel fare i loro nomi , o meglio il nome, visto che si tratta di me? Timore di essere querelato? Inutile,  il riferimento è così chiaro ,sono la sola giornalista possibile, come lui sa bene. Quanto basta per essere querelato. Alla quale si aggiungerà anche quella di Giletti. 

Aggiungo solo all elegante e rispettoso , per prima cosa  del buon gusto e dell educazione, Scanzi che io mi sono sempre assunta e, continuo ad assumermi, la responsabilità delle mie opinioni senza mai piegarle alla convenienza. Certo, non posso vantare la sua stessa fama in termini di followers ma nella vita si sceglie “come” vivere ed è proprio quel “come” che , per dirla con Vitaliano Brancati “distingue i barbari dagli uomini civili, i santi dai delinquenti”Come dire: meno followers e più rispetto per se stessi e per gli altri,  sempre senza rinunciare  ad esprimere le proprie opinioni e a prendere posizione di fronte ad un’ ingiustizia subita , anche da chi ti è accanto. 

Attendo di avere prova del suo coraggio nello scrivere il mio nome , a meno che non assomigli al “galletto” descritto da Leic che “ in cima  al campanile quando non tira vento manifesta del carattere” . Io , ad esempio non sarei mai capace,come fa lui,  di postare una foto tagliata per “salvare” Conte e Di Maio dal mio giudizio. 

Dal profilo Facebook di Andrea Scanzi il 22 marzo 2022.

“L’ipocrisia è un compito ventiquattr’ore su ventiquattro”, scriveva William Somerset Maugham, e certo non sapeva di riassumere in una frase (anche) la carriera di Massimo Giletti. La sua spettacolarizzazione della guerra in Ucraina, andata in onda domenica sera nella puntata in diretta di “Non è Salvini ma la Meloni” su La7, rappresenta per distacco uno dei momenti più bassi, finti, mesti, caricaturali, cinici e imbarazzanti nella storia del “giornalismo” italiano. E più in generale nella storia dell’uomo. Giletti ha deliberatamente toccato un nuovo livello di sputtanamento giornalistico, esasperando quella sua continua voglia di inabissare etica e morale.

Anchor-man cinico e calcolatore come nessuno, disposto a tutto pur di fare ascolti e generare polemiche, Giletti – tornato con la coda tra le gambe alla consueta domenica sera dopo il mezzo flop di inizio stagione al mercoledì – è sempre stato questa roba giornalistica qua. Molti lo chiamano “Barbaro D’Urso”, che peraltro per lui è pure un complimento (se non altro estetico). “Riccioli di Truciolo” è da anni un obiettivo facile della satira. Qualche battuta tratta da Lercio: “Ricoverato per overdose di luoghi comuni: grave Massimo Giletti”. “Richiesta di Giletti a La7: “Serve uno studio più ampio per contenere tutte le cazzate che spariamo”. “”Non è l’Arena”, Massimo Giletti si commuove per essersi commosso”. “Giletti vince il Pulitzer per lo sguardo da vero giornalista”. “Non è l’Arena: Massimo Giletti si finge prostituta minorenne e si autointervista”. E via così. La decenza non lo ha mai intaccato: volutamente! 

Bravissimo ad avere torto anche quando ha ragione (per esempio quando perorava l’importanza del vaccino invitando dei casi umani novax, e ad osservare lo scontro veniva quasi voglia di tifare per i secondi). Furbissimo nel fingere di sclerare quando sa di essere nel giusto e ha appena portato all’esasperazione dialettica il solito imbecille di turno (che invita per metterlo poi facilmente alla berlina). Scaltro nel trattare i potenti con riverenza e i deboli (o gli scomodi) con la falce fienaia. Coraggioso mai, se non nello scegliere come opioniste fisse delle carneadi che nemmeno Tele Fagiolo Morto avrebbe il coraggio di pagare. 

Giletti – che nel suo genere è un maestro con 12 lauree – è un abilissimo interprete del trash travestito da quasi-giornalismo, e il fatto che sia ancora a piede libero dopo avere invitato Povia in veste di esperto di geo-politica la dice lunga sullo stato terminale del sistema giudiziario italico.

La sua presenza ad Odessa, che certo denota un ardimento fisico non comune, è (per ora) l’ultimo step della sua orgogliosa discesa negli Inferi della morale. Convinto d’essere un po’ la Fallaci e un po’ Santoro, e dunque ignaro di apparire al massimo come un malinconico Scaramacai in trincea, Giletti è andato in Ucraina con sadismo raro, perché in tutta onestà pareva - e pare - che il popolo ucraino abbia già i suoi guai. “Accordo tra Putin e Zelensky sull’inutilità di Giletti in Ucraina”, ha genialmente chiosato la pagina Sinapsi Satiriche.

Giornalisticamente, e anche questa non è una novità, l’Uomo che Sussurrava ai Potenti non ha aggiunto nulla alla narrazione della tragedia ucraina (peraltro già ben raccontata, 24 ore su 24 o quasi, da La7). In compenso, nell’evidente “speranza” di poter commentare in diretta un dramma bellico in piena regola (e il rischio c’è stato, quando sono pericolosamente aumentati gli spari in lontananza), Giletti ha intinto il microfono nel morboso più spinto.

Prima il giornalista preferito da (quel che resta di) Salvini ha teatralmente raccolto una bandiera ucraina tra le macerie di un palazzo, chiedendo al suo cameraman di stringere l’inquadratura per mostrare “la polvere proveniente dal campo di battaglia”. Poi ha colpevolmente mostrato il corpo dilaniato di una ragazza soldatessa uccisa, sottolineando pure “l’odore acre della morte”.

Due commenti tra i mille possibili. “Non aveva nemmeno avvisato sulle immagini forti. È raccapricciante, a dir poco, l'uso che fa di un tale dramma. Il suo sciacallaggio è rinomato…” (Marianna Massa). “Una vergogna inutile, nessun approfondimento, nessuna inchiesta, solo lo scoop della morte in diretta per fomentare contrapposizioni sterili e imbarazzanti in studio...un pessimo gioco stile Giletti,in onda su La7 con lo psicodramma autocelebrativo di Massimo Giletti” (Enrico Balletto). Nient’altro da aggiungere.

Che pena, che imbarazzo, che tristezza.

Massimo Giletti in onda dal fronte e bombardato dall'Italia dei salotti. Il conduttore sfida Putin e conduce il talk da Odessa sotto le bombe. E gli arrivano le critiche: "Spettacolarizza i cadaveri". Ma provate a farlo voi...Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Massimo Giletti maneggia la sua innegabile professionalità televisiva con un paraculismo che lo rende un Jeckill e Hyde dei palinsesti. La settimana scorsa aveva attribuito a un Povia prima antivaccino e ora filoPutin la credibilità di Adenauer; l’altra sera ha condotto la puntata di Non è l’Arena sotto le bombe, da Odessa. Un bipolarismo psicotelevisivo che meriterebbe un’analisi, anche freudiana. Ma non ora.

Concentriamoci, invece, su Odessa. E su Massimo col giubbotto nero, antiproiettile, con la scritta “Press” dei veri inviati nel teatro di guerra, mentre cammina tra i cadaveri dell’Ucraina. E poi su Massimo che si commuove per una donna in lacrime; e documenta gli spari in diretta tirando per la collottola il cameraman; e accarezza un gattino «simbolo della vita che vuole andare avanti». Sarà forse per rompere «la monotonia delle narrazioni di guerra» come dicono i detrattori; o forse per ricordarsi dei suoi trascorsi da inviato ai tempi di Giovanni Minoli; o forse per dedicarsi a un doveroso lavacro penitenziale che lo depuri dalle puntate più trash (Fabrizio Corona e i negazionisti del Coronavirus, il falso matrimonio di Pamela Prati ecc…) di Non è l’Arena. Sarà tutto questo. Ma, insomma, fatto sta che Giletti ha qui compiuto un atto forte e inedito. Ha condotto il suo programma da un rifugio della Croce Rossa nell’Odessa assediata dai russi, appunto. 

Magari l’uomo è stato teatrale (lo è stato). Magari un po’ compiaciuto nel rammentarci che compie gli anni mentre, nella temperie di lacrime e dolore, suona la sirena dell’attacco aereo, come gli ha battuteggiato Mentana, che pure ha ben accolto il suo reportage. Ma, diavolo, condurre un talk sotto le bombe e i razzi delle contraerea non è da tutti. Provate a farlo voi.

In Italia, dacché ho memoria, è un gesto nuovo. Ricordo, tra l’altro, che non è la prima volta che a Massimo parte l’embolo da Peter Arnett; e si ricorda di essere stato un cronistaccio sul campo di battaglia. Nel 2015, per dire, raccontò, in bandana e telecamera, il conflitto dell’Isis da Kurdistan iracheno, nel 2011 si spostò in Afghanistan a documentare la missione italiana dalla trincea. Non pochi anchormen di razza – penso a Corrado Formigli, ma anche all’ultimo Andrea Vianello da Leopoli - si lasciano invadere dalla voglia del racconto in presa diretta sotto i bombardamenti, si mettono l’elmetto e, per una volta, tornano a fare il mestiere vero. La differenza con gli altri colleghi è che Giletti più che raccontare la cronaca fa intrattenimento. Può piacere o no, ma lo fa bene.

Ed è unicamente per questo che suscita sentimenti contrastanti. Prendete Selvaggia Lucarelli: ha twittato sul conduttore parole di fuoco; ha ricordato l'esistenza del coprifuoco in Ucraina alle ore 20 e perciò ha chiesto spiegazioni sulla presenza di Giletti per strada, avanzando due ipotesi: «O lo ha violato o l'inizio era registrato». Poi senza mezzi termini ha parlato di un ulteriore aspetto, che lo ha definito il «più inquietante»: il conduttore a Odessa, «dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra tutto il set di un film di serie b». Infine Selvaggia ha chiosato: «Mai come stasera dobbiamo rispettare chi va a documentare la guerra senza personalismi, senza spettacolarizzazione, senza retorica, senza usare i cadaveri per fare show, senza il suo faccione davanti a quello che accade». Senza polemiche, possibilmente. Giletti ha risposto affermando di apprezzare la Lucarelli solo quando alza la paletta da giurata a Ballando con le stelle. 

Poi c’è stato anche il regista Gabriele Muccino, ad aver preso malissimo la trasferta bellica del conduttore: «Truffatore, mediocre, miserabile ominide», un’opinione che mi pare, onestamente, un tantino esagerata. A Muccino controbatte Rita Dalla Chiesa: «Pochi hanno le palle di andare dove si sta combattendo una guerra odiosa, inaccettabile».

Non fa rischiare solo gli inviati. Rischia in prima persona». La Rita è così: sempre tranchat sulla critica da salotto. E, in effetti, Massimo sotto le bombe si gasa, s’accalora, cede al suo racconto sfiorando l’eventizzazione («Sono venuto qui perché credo che se vuoi parlare di guerra devi vedere» esplicitando quest’idea narrativa dell’ostentazione “corpo dell’inviato”, talora dell’invidiato), rende il reportage quasi una pièce. Giletti è in parte registrato? Probabile, anzi quasi certo. Ma non è importante ai fini della trama. Comunque sia, Giletti sa come fare televisione. Da domenica –ne sono convinto- tornerà a dar voce ai terribili terrapiattisti di ogni latitudine, e alternerà il racconto pruriginoso delle Olgettine e quello fantastico dei nostri ricercatori in fuga come Mattia Barbarossa al Mit. Accosterà pure le denunce dei comuni sciolti per mafia alla storia della pornostar Malena la Pugliese mentre ricorda il suo passato da agente immobiliare. Gilletti è Jeckill e Hyde. Ma quando è Jeckill, resta tra i migliori...

Lo "show" del conduttore tv non è piaciuto ai leoni da tastiera. Massimo Giletti a Odessa, le critiche e lo scontro con Scanzi e Lucarelli: “Ha avuto le palle”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 21 Marzo 2022. 

Tutti, o quasi, contro Massimo Giletti. Leoni e influencer da tastiera, colleghi invidiosi, haters seriali. Il popolo delle rete si scaglia contro il giornalista e conduttore di “Non è l’Arena“, volato a Odessa, nel sud dell’Ucraina, per documentare in prima persona quanto sta accadendo dal 24 febbraio scorso, ovvero dopo l’invasione dell’esercito russo di Vladimir Putin. “Perché credo che se vuoi parlare di guerra devi vedere” ha spiegato Giletti nel corso del suo collegamento di domenica 20 marzo, avvenuto pochi minuti prima che iniziasse il coprifuoco.

Giletti è stato accusato di sciacallaggio. Di voler cavalcare il momento, la drammaticità della guerra in corso da quasi un mese. In effetti uno che vuole approfittare della situazione mette a repentaglio la propria vita e quella dell’operatore, viaggiando in un territorio di guerra e sfidando gli attacchi russi nel bel mezzo di una diretta. O andando in giro in territorio dove in poche settimane sono stati uccisi almeno tre giornalisti oltre a migliaia di civili.

Noi del Riformista abbiamo spesso criticato il modo di fare giornalismo del conduttore di “Non è l’Arena“. Lo abbiamo spesso attaccato dopo alcuni servizi “con effetti speciali” (come dimenticare il Vesuvio che erutta covid) o per essersi spesso fatto telecomandare da indagini della magistratura che poi si sono rivelate un buco nell’acqua. Ma vedere Selvaggia Lucarelli e Andrea Scanzi, due giustizieri (e provocatori) cronici, incollati ai social e sempre pronti a massacrare chiunque osi mettersi di traverso (con “l’attore” sempre pronto a sfornare nuovi libri), attaccare Giletti con parole ignobili è raccapricciante.

Il conduttore di “Non è l’Arena” domenica sera ha raccontato quanto visto in quelle ore ad Odessa, per poi collegarsi poco prima del coprifuoco mentre nei cieli Russia e Ucraina stavano combattendo. Un breve video di pochi minuti per far respirare al suo vasto pubblico (eh si, l’audience delle sue trasmissioni non è basso) il terrore che si vive dal 24 febbraio in quelle zone di guerra. Protetto da un giubbotto antiproiettile con la scritta “press”, e con il caschetto in mano, Giletti ha prima indicato al suo operatore di seguire quanto stava accadendo poco distante, poi c’ha ripensato e l’ha rimproverato in diretta (“Devi stare vicino a me”). Anche Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, ha mandato in onda un servizio dello stesso Giletti. Poi la diretta all’interno di un rifugio della Croce rossa perché in strada era in vigore il coprifuoco.

Durissimi gli attacchi arrivati nelle ore successive alla trasmissione. Per Selvaggia Lucarelli, Giletti ha registrato la prima parte del programma, perché nella città ucraina dalle 20 era in vigore il coprifuoco, accusandolo poi di aver trasformato la guerra ”in set di un film di serie B’‘. Giletti, contattato dall’Adnkronos, ha replicato netto: ”Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a ‘Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento”.

Scandalose le parole di Scanzi, che per un pugno di like e per seguire i trend del momento farebbe di tutto. Secondo l’influencer “Giletti ha deliberatamente toccato un nuovo livello di sputtanamento giornalistico, esasperando quella sua continua voglia di inabissare etica e morale.

Anchor-man cinico e calcolatore come nessuno, disposto a tutto pur di fare ascolti e generare polemiche, Giletti – tornato con la coda tra le gambe alla consueta domenica sera dopo il mezzo flop di inizio stagione al mercoledì – è sempre stato questa roba giornalistica qua. Molti lo chiamano “Barbaro D’Urso”, che peraltro per lui è pure un complimento (se non altro estetico)”.

Non contento, Scanzi prova a infierire senza badare, ovviamente, alle offese: “Giletti – che nel suo genere è un maestro con 12 lauree – è un abilissimo interprete del trash travestito da quasi-giornalismo, e il fatto che sia ancora a piede libero dopo avere invitato Povia in veste di esperto di geo-politica la dice lunga sullo stato terminale del sistema giudiziario italico”.

Duro anche l’attacco di Anna Rita Leonardi (Italia Viva): “Imbarazzante. Ridicolo. Vergognoso.

Per rispetto dei veri giornalisti che, nel silenzio e senza show, raccontano l’orrore della guerra”.

A schierarsi dalla parte di Giletti, Rita Dalla Chiesa: “Pochi hanno le palle di andare dove si sta combattendo una guerra odiosa, inaccettabile. Non fa rischiare solo gli inviati. Rischia in prima persona”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Non è l'Arena, "Giletti sta mostrando tutto": aggirato il divieto ucraino? Cosa manda in onda. Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Massimo Giletti ha deciso di condurre per la seconda volta consecutiva la sua trasmissione di La7 in diretta dall’Ucraina. Un atto coraggioso, una testimonianza preziosa che è stata riconosciuta al giornalista dal primo ospite di serata, ovvero Walter Veltroni. E così la puntata di Non è l’Arena di domenica 3 aprile è iniziata con il racconto di Giletti e le immagini girate in Ucraina.

Selvaggia Lucarelli è però subito partita all’attacco del giornalista di La7: “Per ragioni di sicurezza e strategia il governo ucraino ha vietato la pubblicazione di immagini dei bombardamenti alle infrastrutture, lo ha spiegato molto bene la giornalista prima ospite di In Onda. Alcuni giornalisti sono stati espulsi. Giletti ovviamente sta mostrando tutto”. La Lucarelli si era già scontrata con il giornalista di La7 la scorsa settimana: “C’è il coprifuoco e lui era in strada durante la puntata. O lo ha violato o l’inizio era registrato. L’aspetto più inquietante è che Giletti dovrebbe raccontare la guerra e improvvisamente sembra il set di un film di serie B”.

“Credo che la Lucarelli esprima il suo meglio quando alza le palette a Ballando con le Stelle. Non merita nessun altro tipo di commento”, era stata la replica di Giletti a cui la Lucarelli aveva ribattuto: “La povertà intellettuale di Giletti sta anche nel non saper rispondere nel merito (la spettacolarizzazione della guerra), ma nel fare la battuta dal retrogusto maschilista della serie ‘occupati di cose frivole’. Che non racconta nulla di me, ma molto di lui, ancora una volta”. 

"Stia zitta", "Dice...". Altissima tensione in studio. Luca Sablone il 4 Aprile 2022 su Il Giornale.

Fabiola D'Aliesio si sfoga con la giornalista ucraina: "La pagano bene per piangere in televisione". La replica di Kateryna Nesterenko: "Nel mio Paese c'è la guerra e lei sta sparando favolette russe".

Le terribili immagini che arrivano dall'Ucraina restano oggetto di divisioni e accesi dibattiti nei programmi televisivi, che provano a offrire diversi spunti di riflessione e chiavi di lettura con ospiti che puntualmente non si trovano d'accordo sulle interpretazioni e i ragionamenti del conflitto militare. L'ultima puntata di Non è l'arena, trasmissione in onda la domenica sera su La7, si è occupata di quanto sta accadendo tra Ucraina e Russia: le differenti tesi degli ospiti hanno finito per innescare un acceso dibattito in studio, complicando il lavoro di conduzione di Massimo Giletti che era in diretta da Odessa.

Un duro attacco è stato sferrato da Fabiola D'Aliesio della segreteria federale campana del P.CARC (Comitato di appoggio alla resistenza per il comunismo) nei confronti della giornalista ucraina Kateryna Nesterenko che aveva messo nel mirino la propaganda russa. Le due non hanno trovato un punto d'incontro nelle loro analisi e così lo scontro verbale non è stato altro che la naturale conseguenza. La D'Aliesio ha puntato il dito contro la giornalista ucraina, accusandola di esprimersi con eccessiva enfasi e l'ha accusata di ricevere una serie di compensi economici.

"In Ucraina sono scomparsi 50 giornalisti, desaparecidos del governo Zelensky", è stata la frecciatina della D'Aliesio. Non si è fatta attendere la replica della Nesterenko, che senza pensarci ha risposto all'attacco ricevuto: "La prego di stare un po' più zitta. Per favore, possiamo parlare o dobbiamo urlare come al mercato?". La D'Aliesio ha rimarcato le proprie posizioni e ha fatto notare alla giornalista ucraina di non trovarsi in un luogo pronto ad applaudire ogni sua dichiarazione: "A me paga la volontà di trovare la pace per i miei figli, per i figli di tutti gli italiani e di tutti gli ucraini. Mi paga la necessità di un futuro migliore".

A quel punto la D'Aliesio ha punzecchiato ancora una volta la sua interlocutrice, senza usare mezzi termini per muovere un'accusa sul piano personale: "A lei chi la paga? Signora, stia zitta perché a lei la pagano bene per stare là, per raccontarci le cose e per piangere in televisione". Pure in questa occasione la Nesterenko ha voluto difendere la propria posizione e controbattere: "Non posso stare zitta perché nel mio Paese c'è la guerra e lei sta sparando le favolette russe. Lasciate stare queste fesserie". Il riferimento era alle tesi sulla presenza di realtà neo-naziste tra la popolazione ucraina, per cui il Reggimento Azov è stato accusato.

Fabiola D'Aliesio, la capetta pro Putin dei Carc: "Fan delle Br, quando ci minacciava..." Renato Farina su Libero Quotidiano il 06 aprile 2022.

Domenica sera da Giletti, su La7, c'è stato uno scontro tra un gruppo para brigatista chiamato Carc, rappresentato dalla dirigente nazionale Fabiola D'Aliesio, e il direttore di Libero Alessandro Sallusti. Il tema era la guerra in Ucraina. La signora era nettamente schierata con gli invasori, che sarebbero i veri portatori della pace contro il guerrafondaio occidente. Pacifisti i Carc? Una capessa del Carc che pretende di dare lezioni di democrazia? Sallusti a questo punto ha giocato sulla natura di questa strana entità: Carc (o partito dei Carc) sta per «Comitati d'appoggio alla resistenza per il comunismo». Appoggiano oggi, dopo un letargo di alcuni anni, la gloriosa "resistenza per il comunismo" rappresentata da Vladimir Putin e dai suoi missili iperbarici. E ha svelato l'altarino della signora: «Fa parte dei Carc, un'organizzazione indagata per atti violenti. Non venga qui a fare la santarellina e parlarci di pace». Sia chiaro. Non siamo oscurantisti. Chiunque ha il diritto di parola. Ma qualche volta esiste il diritto di parolaccia quando la spudoratezza arriva a glissare sul "fiume di sangue" versato dagli aggressori.

CAMPAGNA D'ODIO - Noi i Carc li conosciamo bene. Libero non aveva ancora compiuto un mese di vita, che i Carc si fecero sentire. Non dovevamo esistere, noi eravamo escrementi. La nostra colpa era stata l'aver condotto un'inchiesta sul permanere e il riorganizzarsi del terrorismo rosso. Le Brigate Rosse non erano affatto morte. La loro presenza e la loro capacità di semina ideologica e di arruolamento passava da internet. E si serviva di una serie di gruppi e gruppetti a metà tra il sostegno ideologico della rivoluzione, che non è reato, e la tentazione di dar corpo a questa "resistenza" dalla clandestinità.

Dopo due anni le nostre ricerche considerate insulse dalla concorrenza mostrarono di aver visto giusto: l'assassinio di Marco Biagi è ancora lì a gridare l'omertà colpevole dell'opinione pubblica dominante. I giornaloni in quel periodo agostano dedicavano la prima pagina a un fantomatico «Processo ai Tir» (il vero pericolo pubblico secondo Il Corriere della Sera) e ignoravano o trattavano come simpatico folclore i raduni paraterroristici di Assisi con guerriglieri colombiani a indottrinare giovanotti e ragazzette invasate dal mito delle Farce di Che Guevara.

I Carc si fecero vivi con me, che avevo firmato l'inchiesta, ma soprattutto con Feltri. Inviarono vignette spiritose come l'acido muriatico, in una un forbicione tagliava la lingua a Vittorio Feltri. I Carc erano già stati studiati dalla Commissione stragi, come simpatizzanti per l'ambiente della lotta armata, ci chiamò la Digos, con una certa preoccupazione, finì lì.

Essi tornarono nella nostra vita - di Libero intendo - nel 2007. Il ministro dell'Interno Giuliano Amato informò che, grazie all'inchiesta della Digos e al lavoro soprattutto di Ilda Boccassini, erano stati individuati risorgenti gruppi di Brigate Rosse, con una fisionomia diversa dal passato, non più gruppi chiusi e militarizzati, ma un coacervo di vecchi militanti e nuovi antagonisti sensibili al richiamo della foresta rossa. Ne furono arrestati 19.

Che c'entra Libero? Amato disse testualmente: «La redazione del quotidiano Libero era stata presa in seria considerazione... c'era l'intenzione di compiere, entro il prossimo aprile, un attentato incendiario con benzina e acido, da versare all'interno della sede di Libero».

È a questo punto che i Carc si erigono a portavoce dei 19 giovani brigatisti piromani. Sono la loro body gard ideologica. Diffusero perciò comunicati di geometrica impotenza dove si denunciavano «le forze della repressione» e si esigeva «la libertà per i compagni». Stilarono, raccogliendo adesioni tra gli intellettuali firmaioli, tra i quali svettavano i compianti Dario Fo con l'astrofisica Margherita Hack. un manifesto intitolato «No alla persecuzione dei comunisti!». Che è un po' la stessa tesi della signora Fabiana.

RIVOLUZIONARI - E che tipo di comunisti essi siano e che cosa ci si possa aspettare da loro lo si capisce leggendo i loro testi e considerano le loro azioni, almeno quelle che si intestano espressamente. È ancora lì, esposta come un giglio di purezza rivoluzionaria, la loro diffamazione impunita rintracciabile sul loro sito web, e datata 5 settembre 2017. Titolo: «Carlo Alberto Dalla Chiesa, un criminale». È il 35° anniversario del suo assassinio, e loro festeggiano la fine dell'autore dei «crimini perpetrati dallo Stato contro le Brigate Rosse. Pensava di salvarsi dai suoi padrini, come prima di lui Calvi, Sindona e molti altri. Ma ci rimise le penne». Si domandano: «Ma chi era veramente? È stato probabilmente uno dei più riusciti criminali di genio allevati da quell'apparato controrivoluzionario, di lunga tradizione ed esperienza che è l'Arma dei Carabinieri».

Nel 2020 passano all'azione, con un coraggiosissimo episodio di scrittura murale. In pieno Covid, sfidando audacemente le multe da coprifuoco, spennellano Milano con lo slogan «Fontana assassino». Putin buono, Fontana e Dalla Chiesa criminali. Il capolavoro però dei compagni di Fabiola D'Aliesio è il saggio apparso nel febbraio del 2021 dove i Carc si propongono come vendicatori dei brigatisti sconfitti. Qualche frase? Tra le tante perle le più seducenti sono queste tre. 1)«Approfittiamo delle celebrazioni del centenario della fondazione del PCd'I per ritornare su un capitolo luminoso di questa nostra storia: il tentativo di assalto al cielo degli anni '70, la pratica della lotta armata portata avanti dalle Organizzazioni Comuniste Combattenti (che vedevano le loro file composte da migliaia e migliaia di uomini e donne) e in particolare l'esperienza delle Brigate Rosse (Br)» 2) «Le Br hanno lasciato un segno profondo nella lotta di classe presente e passata e a questa molti compagni, giovani e meno giovani, guardano con ammirazione stante il ruolo principalmente positivo che esse hanno avuto nel ridare fiducia nelle possibilità di vincere e di fare la rivoluzione socialista nel nostro Paese». 3) «Le Br furono un'organizzazione rivoluzionaria realmente innovatrice: con la propaganda armata imposero che la rivoluzione socialista è anche un fatto d'armi dimostrando, per la terza volta in Italia dopo il Biennio Rosso e la Resistenza al nazifascismo, la possibilità concreta di dirigere le masse popolari nel passaggio dalla prima (la difensiva strategica) alla seconda fase (l'equilibrio strategico) della Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata». Fabiola dovrebbe passare questo appunto a Putin.

Da video.repubblica.it il 4 aprile 2022.

"Stiamo qui, siamo in diretta e non rientro in hotel. Don't worry, be happy". Durante il collegamento in diretta da Odessa per la trasmissione 'Non è l'Arena', in onda su La7, Massimo Giletti è stato invitato più volte dagli addetti alla sicurezza a rientrare nell'albergo a causa delle sirene. Raccomandazione più volte però rifiutata dal conduttore. Probabilmente ignaro di essere in onda con il microfono acceso, Giletti si è anche lasciato andare a un "non rompere i c...".

Da fanpage.it il 4 aprile 2022.

Momenti di tensione a Non è l'Arena, con Massimo Giletti che è tornato a condurre il programma in diretta da Odessa, dove si era già recato due settimane prima, non senza polemiche. Il giornalista ha condotto nuovamente dal fronte, alternando le immagini realizzate negli ultimi giorni sul campo e il dibattito in studio, dove lo assisteva Tommaso Cerno, ospite abituale della trasmissione.

Le esplosioni in diretta

Nel bel mezzo del dibattito, quando in Italia erano le 23 circa, Giletti ha interrotto a più riprese gli interventi da studio a causa di alcune esplosioni avvertite dal luogo del collegamento: "Ci dicono che ci sono state esplosioni molto vicini a noi, nella zona del porto di Odessa, a circa 700 metri in linea d'area da dove siamo. Ci sono le sirene, noi abbiamo sentito i vetri tremare", ha detto il conduttore mentre operatori e giornalisti presenti si recavano all'esterno per capire cosa stesse accadendo, mentre Giletti spiegava:

Quello che vi possiamo dire è che i botti si sono sentiti molto forti anche in questo posto dove, grazie alla Croce Rossa. Lo dico perché a differenza di quanto scritto da qualcuno con molta ironia non siamo al Grand Hotel. 

Giletti si rifiuta di interrompere la trasmissione

Il conduttore ha quindi iniziato a discutere con alcune persone dietro le telecamere, che evidentemente provavano a convincerlo a stoppare la diretta e andare nei rifugi. Ma Giletti ha tentato di spiegare in inglese come non avesse alcuna intenzione di fermare la diretta per andare a ripararsi altrove: "Le guardie dietro le telecamere mi dicono che devo smettere, ma noi stiamo qui e continuiamo". Un momento di televisione disarticolato ed estremamente confuso per ovvie ragioni, con Massimo Giletti che si è scusato più volte con il pubblico e i suoi ospiti in studio per le molteplici interruzioni dovute ai varii movimenti davanti alla camera.

Giletti ad Odessa ha fatto giornalismo, chi lo critica vuol solo stare nell'arena. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 4 Aprile 2022.

Ho spesso polemizzato a distanza con Massimo Giletti per l’impostazione del suo programma “Non è l’arena” su La7, soprattutto per una sua ritualizzazione della Calabria negativa.

Massimo Giletti ad Odessa

In queste ore si dibatte molto e male sui social sul fatto che il popolare conduttore sia andato sul fronte di guerra ad Odessa a documentare quello che accade conducendo il suo programma da una postazione davanti alla sede della Croce Rossa.

Con pregiudizio e avversione opinionisti di grido e semplici commentatori urlano alla scandalo, qualcuno anche mettendo alla berlina le scarpe griffate di Gilletti indossate sul campo di battaglia. Non si capisce quale sia il problema. Forse quello di restare nell’audience di “Non è l’arena” di cui non fa più parte.

In molti abbiamo visto la guerra documentata. Il racconto in presa diretta, il fumo nero delle incursioni, materiale che consente di potersi fare un’opinione.

Giletti viene accusato di far spettacolo su un dramma. Il racconto della guerra per un giornalista è vedere con i suoi occhi e trasmettere con i mezzi a propria disposizione informazioni verificate.

E’ dai tempi di Plinio il vecchio che conosciamo in questo modo quello che accade nel mondo. Ancora oggi disquisiamo se Indro Montanelli nelle sue celeberrime corrispondenze dalla Finlandia invasa dai russi da un hotel della capitale abbia magistralmente inventato le battaglie incappando in svarioni.

Stiano calmi i critici di queste ore. Massimo Giletti è andato su fronte di guerra ad Odessa a far il suo mestiere. L’abbiamo visto tutti. Se non vi piace fatevene una ragione.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

La banalità del canale. Quelli che su La7 dicono che i russi si impegnano «a non spaventare la gente». Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.

Enormità in diretta televisiva che, più del negazionismo e della contraffazione storica, dimostrano come i danni maggiori arrivino dalle chiacchiere da bar televisivo. 

Il fatto che certe cose si dicano in un programma di intrattenimento popolare, in favore di un’audience in bigodini nell’incombenza del soffritto, anziché dal palco di un convegno accademicamente impettito, non solo non scrimina ma semmai aggrava lo sproposito.

E così se a Tele5Stelle (La7 è dicitura ormai decettiva), in faccia a un’impassibile conduttora, l’influencer Andrea Purgatori dicesse che in Ucraina i russi si stanno impegnando «a non spaventare la gente», gravemente sbaglierebbe chi facesse spallucce pensando che dopotutto è soltanto roba da trivio, modestamente oscena ma incapace di male duraturo come lo scaracchio nell’acquasantiera.

La raffinata contraffazione storica, l’articolato esperimento negazionista, il sapiente bianchetto sul reportage altrimenti impresentabile, sono gli strumenti invalsi con cui si cancellano le colpe e si offende la verità: ma non sono nulla, per efficacia, rispetto alla rimasticatura da bar, nulla rispetto alla potenza consensuale della proverbialità plebea, nulla rispetto alla pensosa balordaggine trasfigurata in realtà per via di reiterazione presso i ranghi più sprovveduti, giusto come certe delicatezze novecentesche si accreditarono tra i rutti di una birreria bavarese più che grazie agli slogan propagandistici di un letterato zoppo.

Vista l’aria che tira, sarebbe troppo facile e insieme sovradimensionato giustapporre all’immagine delle premurosità russe, vagheggiate durante una chiacchiera tra un blocco pubblicitario e l’altro, quella del corpo del bambino esausto di sangue in una via di Kiev, un soggetto probabilmente inetto a comprendere appieno gli intendimenti in realtà moderati degli aggressori.

E infatti non stiamo discutendo di queste miserie – ciò che a sua volta sarebbe troppo semplice e inutilmente sproporzionato – per addebitarle alla responsabilità di chi, con ogni evidenza, non si rende conto di quel che dice: ma per non essere guardati dall’abisso in cui esse sprofondano alla rinfusa con tutte le parole sbagliate e quelle mancate, con tutte le leggerezze che hanno aggravato il conto di tante tragedie, con tutte le bellurie di cui si è incipriato il profilo identico degli aguzzini di tutti i colori, con tutto il sofisticato bene adibito a dissimulare la semplicità del male.

Il commento sulle parole del dem Enrico Letta. Ucraini popolo di “camerieri, badanti e amanti”, Lucia Annunziata e le polemiche sul fuorionda al Tg3. Redazione su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.  

Ucraini popolo di “camerieri, badanti e amanti”. E’ quanto emerge in un fuorionda nel corso di un collegamento del Tg3 all’esterno dell’ambasciata russa a Roma. Molti hanno studiato, si sono laureati e hanno raggiunto nel corso degli anni l’Italia alla ricerca di un futuro migliore, adattandosi e svolgendo anche lavori più umili. Però stando alle parole pronunciate da Lucia Annunziata, conduttrice di “Mezz’ora in più”, quando si parla di cittadini di nazionalità ucraina il riferimento corre alle “centinaia di migliaia di camerieri e badanti“. Il commento della giornalista emerge nel corso dello speciale del Tg3 sulla guerra in corso tra la Russia e l’Ucraina, esplosa nel cuore della notte di giovedì 24 febbraio dopo l’ordine del presidente Vladimir Putin.

Sono circa le 16.15 e mentre l’inviato intervista il segretario del Pd Enrico Letta nel corso del presidio organizzato all’esterno dell’ambasciata russa a Roma, Annunziata si lascia andare a parole che lasciano sgomenti. Parole che coprono parzialmente il discorso del segretario Dem: “Qui in Italia in questo momento il pensiero va alla comunità ucraina fatta di centinaia di migliaia di persone che si sono integrate nel nostro Paese, che sono in questo momento tutte in una condizione terribile di legame con i loro cari che lì stanno rischiando la morte”.

Il fuori onda non è sfuggito al popolo della rete. Sui social, soprattutto su Twitter, sono decine i commenti di indignazione alle parole della giornalista. C’è chi fa notare anche un terzo commento, proveniente dallo studio, e relativo alla parola, in aggiunta a “badanti e camerieri”, “e amanti…“. Espressione che sarebbe stata pronunciata dal giornalista Antonio Di Bella.

E la “sinistra” RAI scivola nello squallore dell’ Annunziata e Di Bella: “”Ucraine cameriere e badanti”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Febbraio 2022.

Il video in questione è diventato virale sui social, ed aspramente criticate le parole dei due giornalisti notoriamente esponenti della sinistra. I due giornalisti oggi si sono scusati per le proprie parole ignobili pronunciate fuorionda. 

“Cameriere, badanti” e “amanti” questi i commenti ‘fuori onda’ nello Speciale Tg3 sulla crisi Ucraina-Russia, pronunciati da Lucia Annunziata e Antonio Di Bella mentre in collegamento parlava Enrico Letta e i due giornalisti del servizio pubblico televisivo, erano convinti di avere i microfoni chiusi. Il video in questione è diventato virale sui social, ed aspramente criticate le parole dei due giornalisti notoriamente esponenti della sinistra. “Uno scivolone inqualificabile, sgradevole, nelle prime ore drammatiche di una guerra che causerà morte distruzione e dolore”, hanno criticato e scritto in precedenza in una nota l’Esecutivo e il Cpo dell’ Usigrai, augurandosi “che i diretti interessati, Antonio Di Bella, neodirettore dell’intrattenimento daytime, Lucia Annunziata tra le giornaliste più autorevoli della nostra azienda, trovino le parole giuste per scusarsi con le donne e gli uomini ucraini e che l’azienda faccia le opportune valutazioni”. 

I due giornalisti oggi si sono scusati per le proprie parole ignobili pronunciate fuorionda. In una lettera aperta, Lucia Annunziata afferma che “ieri, nel corso dello speciale Tg3, ho criticato una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo ‘migliaia di camerieri, cameriere e badanti’. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità“.

Per Lucia Annunziata si è trattato di “un inciampo che un conduttore dovrebbe sempre saper evitare. Me ne scuso, sinceramente. Il lavoro che come trasmissione stiamo facendo da tempo con cura e precisione sulla crisi spero dimostri quanto il nostro impegno nei confronti dell’Ucraina e dei suoi cittadini sia senza alcuna ambiguità al loro fianco”.

Anche Antonio DI Bella con una propria lettera aperta ha fatto pubblica ammenda delle proprie esternazioni imbarazzanti: “Rilevo dai social che alcuni miei commenti in studio ‘fuori onda’ nello Speciale Tg3 sulla guerra possono avere offeso la comunità ucraina in Italia e in particolare la sua componente femminile. Erano frasi da non pronunciare. Me ne rammarico e chiedo scusa alle donne e agli uomini della comunità ucraina in Italia”.

Quel fuorionda dell'Annunziata sugli ucraini che non indigna. Francesca Galici il 28 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nessun particolare clamore, al di là della bolla social, per le parole di Lucia Annunziata e Antonio Di Bella sugli ucraini in Italia: ma non è una novità.

Partiamo dal presupposto che sbagliare è umano. Detto questo, ci sono errori che, da un certo punto di vista, sono più sbagliati di altri. La voce fuori campo di Lucia Annunziata che, durante il Tg3, parlava degli ucraini come di "camerieri e badanti" con Antonio Di Bella che aggiungeva "e amanti" è senz'altro uno degli errori più antipatici da fare in questo preciso momento storico.

Per carità, a onor del vero va sottolineato che, dopo le feroci polemiche che si sono scatenate online su queste parole, Lucia Annunziata ha provveduto a una celere retromarcia, spiegando che la sua altro non era che una critica a "una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo 'migliaia di camerieri, cameriere e badanti'. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità". Bene, giusto.

Ma poi, durante l'ultima puntata di Mezz'ora in più, Lucia Annunziata si è nuovamente incartata. "La comunità ucraina in Italia è molto larga, è una comunità che, tuttavia, non ha il miglior trattamento, è una comunità che fa i lavori più umili, per noi molto utili, soprattutto per i nostri vecchi e le nostre case, una comunità sicuramente non trattata benissimo, insomma, no?!", ha detto l'ex presidente Rai. Una narrazione goffa, quella di Lucia Annunziata, che ha lasciato basito anche Matteo Salvini, in quel momento in collegamento: "Mi scusi, ma da chi non è trattata benissimo?".

Ovviamente, ma è anche superfluo sottolinearlo, al netto di qualche dichiarazione di circostanza, gli intellò non si sono sicuramente sperticati nel criticare le battutine di Lucia Annunziata e Di Bella sugli ucraini e sulle ucraine. Eppure, solo qualche anno fa (era il 2017) il programma Parliamone sabato di Paola Perego era stato brutalmente attaccato dall'intellighenzia rossa e buonista per un cartello nel quale venivano elencati i motivi per i quali gli uomini si sarebbero dovuti fidanzare con le donne dell'Est. Per quelle critiche il programma era stato cancellato, mandando a spasso numerose maestranze.

Ah, i soliti due pesi e due misure dell'ideologia dei buoni. Per il futuro, per evitare altri scivoloni, consigliamo una massima che si impara da piccoli guardando il cartone animato Bambi. C'è una scena in cui il coniglio Tamburino dice: "Quando non sai che cosa dire, è meglio che non dici nulla". Segnatevela, può sempre tornare utile.

“Gli ucraini? Cameriere, badanti e amanti”. Nella frase di Annunziata e Di Bella c’è la sinistra italiana. Luisa Perri il 25 febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

«Cameriere, camerieri, badanti … amanti». Queste le parole usate ieri da Lucia Annunziata e Antonio Di Bella durante la diretta del Tg3 sulla guerra in Ucraina. Parole pronunciate mentre in collegamento parla Enrico Letta e i due sono convinti di avere i microfoni chiusi.

E proprio quel fuori onda dei due giornalisti, volti storici della sinistra televisiva, dice molto di più di una gaffe o di una battuta da bar sport. «Non capisco che cosa ci sia da stupirsi delle frasi della Annunziata e di Di Bella – commenta su Twitter Alessandro V. – La vera sinistra è questa qui. Quella delle campagne manifesto. Dai migranti, all’ambiente ai temi sociali. Il migrante è bello solo in foto, ma lontano da loro». Proprio il fatto che il fuori onda sia arrivato mentre parlava il segretario dem che solidarizzava con la comunità ucraina nel nostro Paese, la dice lunga sul modo di pensare privato di molti giornalisti radical chic. «Ecco a voi la sinistra italiana», cinguetta un altro utente su Twitter.  Mentre la domanda che regna in queste ore è un’altra:  «Ci saranno strascichi o spiegazioni plausibili dell’accaduto?», chiede il sito Vigilanzatv.  

Oggi anche l’Usigrai, sindacato interno dei giornalisti di viale Mazzini, interviene per stigmatizzare l”episodio. Uno scivolone inqualificabile, sgradevole, nelle prime ore drammatiche di una guerra che causerà morte distruzione e dolore”. Lo scrive in una nota l’Esecutivo e il Cpo Usigrai, augurandosi “che i diretti interessati, Antonio Di Bella, neodirettore dell’intrattenimento daytime, Lucia Annunziata tra le giornaliste più autorevoli della nostra azienda, trovino le parole giuste per scusarsi con le donne e gli uomini ucraini e che l’azienda faccia le opportune valutazioni”. Come finirà? Dato che i responsabili della frase sono due big del giornalismo legati al Partito democratico, non avranno alcuna conseguenza. A viale Mazzini funziona così.

Da adnkronos.com il 25 febbraio 2022.

"Cameriere, badanti" e "amanti". Lucia Annunziata e Antonio Di Bella si scusano per le parole pronunciate fuorionda ieri durante uno speciale del Tg3 sulla crisi Ucraina-Russia. Il video in questione è diventato virale sui social, con le parole dei due giornalisti aspramente criticate.

In una lettera aperta, Annunziata afferma che "ieri, nel corso dello speciale Tg3, ho criticato una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo 'migliaia di camerieri, cameriere e badanti'. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità".

Per Annunziata si tratta di "un inciampo che un conduttore dovrebbe sempre saper evitare. Me ne scuso, sinceramente. Il lavoro che come trasmissione stiamo facendo da tempo con cura e precisione sulla crisi spero dimostri quanto il nostro impegno nei confronti dell'Ucraina e dei suoi cittadini sia senza alcuna ambiguità al loro fianco". 

"Rilevo dai social che alcuni miei commenti in studio 'fuori onda' nello Speciale Tg3 sulla guerra possono avere offeso la comunità ucraina in Italia e in particolare la sua componente femminile. Erano frasi da non pronunciare. Me ne rammarico e chiedo scusa alle donne e agli uomini della comunità ucraina in Italia", afferma Di Bella in una lettera aperta.

"'Cameriere, camerieri, badanti ... amanti'. Queste le parole usate ieri da Lucia Annunziata e Antonio Di Bella durante la diretta del Tg3 sulla guerra in Ucraina. Parole pronunciate mentre in collegamento parla Enrico Letta e i due sono convinti di avere i microfoni chiusi. Uno scivolone inqualificabile, sgradevole, nelle prime ore drammatiche di una guerra che causerà morte distruzione e dolore", ha scritto in precedenza in una nota l'Esecutivo e il Cpo Usigrai, augurandosi -come poi avvenuto- "che i diretti interessati, Antonio Di Bella, neodirettore dell'intrattenimento daytime, Lucia Annunziata tra le giornaliste più autorevoli della nostra azienda, trovino le parole giuste per scusarsi con le donne e gli uomini ucraini e che l'azienda faccia le opportune valutazioni". 

Chi può offendere le donne ucraine. Valeria Braghieri il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

C' è chi può dirlo, e chi non può nemmeno pensarlo. Ucraine «cameriere, badanti»... e «amanti». Se lo stereotipo fosse uscito dalle labbra traboccanti testosterone di qualche esponente politico (di destra, ovviamente) noto per l'animo misogino e grossier, la vicenda avrebbe preso più spazio mediatico del conflitto Russia-Ucraina. Ma inaspettatamente la definizione si è fatta largo sulle bocche intellettuali del politicamente corretto. Se le sono scambiate Lucia Annunziata (nella foto) e Antonio Di Bella in un fuori onda dello Speciale Tg3 sulla crisi Russia-Ucraina, mentre veniva intervistato il segretario Pd, Enrico Letta.

Un po' di bufera social, poi i due giornalisti si sono scusati spiegando che non ce l'avevano affatto con le signore ucraine in Italia bensì con un certo modo di vedere le signore ucraine che vengono in Italia. Ed è esattamente quel cliché che stavano stigmatizzando durante lo scambio fuori onda. Peccato che a parlare, nel servizio, non ci fosse «il solito» Salvini della Lega (portatore insano, secondo alcuni, di simili preconcetti e di molto altro), bensì appunto, il moderato, pacatissimo Enrico Letta del Pd. Perciò non si comprende bene l'esigenza dei due conduttori di «difendere» le signore dell'Ucraina dall'intollerabile sentire comune. Ma tant'è... È esattamente questo che intendevano, a quanto pare, Annunziata e Di Bella in quella gaffe non gaffe a microfoni non spenti. Quindi: loro lo hanno detto perché non lo pensano, sono gli altri che non lo dicono a pensarlo... Non sono Annunziata e Di Bella a descrivere le donne dell'Ucraina che arrivano qui da noi. Loro parlano di come tutti gli altri, tranne loro, le vivono. «Cameriere, badanti, amanti». Ecco chi sono: negli occhi una speranza che rasenta l'ingordigia, i capelli di un qualunquissimo castano, una determinazione «bellica» a prendere di mira le categorie deboli, siano anziani dimenticati dai parenti o uomini soli ma con un reddito aggredibile. Ma non lo dicono Annunziata e Di Bella, lo dicono tutti gli altri. E anche se non lo dicono, comunque lo pensano. E Annunziata e Di Bella lo sanno. Non è la prima volta che il primato intellettuale raggiunge vette divinatorie. E non è la prima volta che la gaffe della padrona va in conto alla cameriera... Valeria Braghieri

Lucia Annunziata e Antonio Di Bella chiedono scusa: "Estrema stupidità". Ma c'è chi invoca le dimissioni. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Sta facendo ancora discutere il fuorionda dello speciale del Tg3 dedicato all'invasione russa dell'Ucraina. Mentre il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, parlava, Lucia Annunziata e Antonio Di Bella si sono lasciati andare a commenti tutt'altro che decorosi. "Centinaia di migliaia di cameriere, badanti", è stato quanto affermato dalla Annunziata mentre Di Bella aggiungeva: "E amanti". Da qui la lettera di scuse. 

"Ieri nel corso dello speciale Tg3 ho criticato una certa retorica consolatoria che circola in merito a un supposto successo della integrazione della comunità ucraina in Italia, dicendo ‘migliaia di camerieri, cameriere e badanti’ - scrive in una lunga lettera -. Frasi che al di là del contesto e delle intenzioni sono suonate inopportune, offensive, e soprattutto un atto di estrema stupidità. Un inciampo che un conduttore dovrebbe sempre saper evitare. Me ne scuso, sinceramente. Il lavoro che come trasmissione stiamo facendo da tempo con cura e precisione sulla crisi spero dimostri quanto il nostro impegno nei confronti dell’Ucraina e dei suoi cittadini sia senza alcuna ambiguità al loro fianco".

A farle eco anche il direttore di Rai Day Time: "Rilevo dai social che alcuni miei commenti in studio ‘fuori onda’ nello speciale Tg3 sulla guerra possono avere offeso la comunità ucraina in Italia e in particolare la sua componente femminile. Erano frasi da non pronunciare. Me ne rammarico e chiedo scusa alle donne e agli uomini della comunità ucraina in Italia". Ma questo pare non bastare ai telespettatori, che ora si riversano indignati sui social chiedendo le dimissioni dei due giornalisti.

Giorgio Gandola per “La Verità” il 26 febbraio 2022.

C'è più realismo in un cartone animato che nella guerra raccontata dalla Rai. Dopo 24 ore di dirette siamo già tramortiti, circondati da missili che piovono in tinello, depistati dalle cronache epifaniche di Monica Maggioni (in onda h24 ma protagonista del buco sul discorso di Joe Biden), travolti da fake news in volo radente. 

E quando ci assopiamo sfiniti davanti all'ennesima cartina con le frecce che indicano Kiev, ecco il brusco risveglio: è in collegamento Stefania Battistini, con un'enorme scritta «press» sull'elmetto e nessuna notizia. Non per colpa sua; chi è sul campo con una telecamera può solo contare le esplosioni e riprendere i sinistri bagliori della tempesta d'acciaio all'orizzonte.

Come ovviare allo stallo mediatico e tenere sveglio il teledipendente? Ci sarebbero i videogame. Come quello mandato in onda giovedì ad Anni 20 Notte di Rai2 per testimoniare una battaglia aerea. Un errore imbarazzante, invece del frammento bellico stava scorrendo sui teleschermi il videogioco ArmA3 prodotto dalla Bohemia interactive studios e uscito nel 2013, costruito con perizia per rappresentare le strategie d'attacco in un conflitto moderno.

Il conduttore Daniele Piervincenzi commentava così il video: «Questa è la contraerea ucraina che cerca di abbattere uno degli aerei da combattimento di Putin. Lo abbiamo trovato in rete, perché questa è una guerra tradizionale ma ha anche una narrazione social, moderna, contemporanea». Soprattutto falsa; nella trappola sono cadute anche alcune emittenti straniere.Se la fonte principale è il Web, i rischi di uscirne a pezzi sono altissimi.

La Rai non ha temuto di correrli e di collezionare gaffe in un numero mai così alto nella storia della televisione: 24 ore da incubo. «Ecco il bombardamento russo dell'Ucraina», annunciava Rainews 24 diretta da Andrea Vianello, che solo qualche giorno fa aveva partecipato a un corso di «Politica e comunicazione» con i big del Pd sul palco. Era l'esplosione di Tianjin in Cina sei anni fa. Molto bene. Ma l'assalto distopico interattivo non è finito.

Quando il Tg2 ha lanciato il servizio «Pioggia di missili su Kiev», i meno giovani saranno andati con il pensiero a Peter Arnett sul terrazzo dell'hotel Rasheed di Bagdad durante la Guerra del Golfo. Errore: quelle immagini appartenevano a un altro videogame, War Thunder. Domanda retorica del segretario della commissione di vigilanza, Michele Anzaldi: «Possibile che un'azienda con 1.700 giornalisti e decine di direttori e vice esibisca un simile, imbarazzante disservizio pubblico? In questo modo viene usato il canone degli italiani?». 

Silente la sbandierata task force sulle fake news, travolta a sua volta dalle fake news. La collezione di immagini fasulle è proseguita ieri con una perla trasmessa sia dal Tg1 che dal Tg2: il sorvolo di una formazione di caccia russi su Kiev, a conferma che lo spazio aereo è in mano all'aviazione putiniana. In realtà si trattava del video di una parata militare del 2020. L'errore è stato commesso anche da Bbc history Italia, ma in questi casi essere in cattiva compagnia non solleva il morale.

 A peggiorare lo scenario c'è lo svarione di Lucia Annunziata e Antonio Di Bella, che a microfono aperto hanno definito gli ucraini «cameriere, camerieri, badanti, amanti». Travolte da una pioggia di critiche e incalzate anche dal sindacato Usigrai, le due firme della Rai hanno dovuto scusarsi. 

Annunziata: «Al di là del contesto e delle intenzioni, quelle frasi sono suonate inopportune, offensive, un atto di estrema stupidità». Per la Rai di Carlo Fuortes e Marinella Soldi una prova del fuoco da brividi e numeri perdenti dei principali tg. I telespettatori sono adulti, quindi in grado di decidere da soli se farsi informare o giocare alla guerra.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 17 marzo 2022.

L'USIGRai, potente sindacato dei giornalisti della Tv di Stato, ha posto la questione qualche giorno fa: "Perché la Rai continua a ricorrere a risorse esterne in Ucraina? Ha forse ritirato le inviate e gli inviati?". Il riferimento è soprattutto al Tg1 diretto da Monica Maggioni, finito varie volte nel mirino dopo il ricorso massiccio a freelance come Valerio Nicolosi di Micromega a Kiev, e altri esterni come in questi giorni Daniele Piervincenzi dal fronte, per citare solo due nomi dei tanti che - pur non essendo dipendenti Rai né tantomeno in forza al Telegiornale - vengono impiegati comunque dal notiziario della Prima rete per raccontare il conflitto russo-ucraino.

Ed ecco che ieri, mercoledì 16 marzo 2022, al Tg1 è comparso - sia nell'edizione delle 13.30 sia in quella delle 20.00 - in collegamento dalla città di Henishek nell'Ucraina meridionale anche Gian Micalessin del Giornale (ma nel sottopancia non vi era alcun riferimento alla testata come accade quando si tratta di giornalisti esterni in collegamento con il notiziario, lasciando quasi intendere che egli fosse un inviato del Tg1).

Quel Gian Micalessin che è un valente giornalista di guerra ma anche ex fidanzato di Monica Maggioni, che lo coinvolge in ogni suo progetto come il regista David Lynch si tira dietro in ogni film surreale il suo "attore feticcio" Kyle MacLachlan. Per citare un solo esempio recente, Micalessin ha collaborato anche con Sette Storie, il programma settimanale della Monica nazionale andato in onda su Rai1 nella seconda serata del lunedì sera con ascolti non entusiasmanti.

Malgrado la fine della loro relazione, tra Micalessin e Maggioni regna a tutt'oggi un sodalizio mirabilmente indissolubile, dimostrato per esempio ai tempi in cui il giornalista la difese a spada tratta quando la Rai non trasmise la sua discussa intervista al Presidente siriano Bashar Assad (vicenda spinosa di cui più nessuno parla...), scrivendo un j'accuse in cui tacciava di "cialtronaggine" e "piccineria" la Tv di Stato, "dove, grazie ai sindacati, beghe, odii e ripicche interne contano molto di più di scoop e notizie esclusive". Collaborando oggi di fatto con la stessa azienda, deve aver cambiato idea.

Il bravo Micalessin fu anche esposto al pubblico ludibrio da Daria Bignardi nel 2007, allorché, intervistando la Maggioni, la conduttrice apostrofò il giornalista con l'epiteto "bel fascistone", rivangando la sua iscrizione al Fronte della Gioventù. Al punto che egli poi scrisse una lettera al Giornale, redigendo una sorta di coming out in cui rispondeva a tono alla Bignardi ammettendo il proprio passato e snocciolando tutto il proprio curriculum professionale - "ho raccontato una quarantina di guerre" - e sottolineando così che, oltre all'Fdg che l'aveva visto militante dai 17 ai 20 anni di età e all'Msi di cui aveva pagato la tessera, c'era molto di più.

Ovviamente non poteva passare inosservata la sua apparizione in quel "Grand Hotel" che è diventato il Tg1 di Monica Maggioni durante la crisi ucraina, con gente che va e gente che viene e si è perso il conto di quanti sono gli interni e quanti soprattutto gli esterni dispiegati nelle varie zone di guerra. E in rete ieri già molti hanno sottolineato il legame fra Micalessin e la Direttorissima, qualcuno sottolineando che la Maggioni ha "sistemato" anche l'ex fidanzato.

A questo punto torniamo al punto di partenza e ci accodiamo alle questioni poste dall'USIGRai. Qual è il trattamento economico riservato agli "inviati esterni"? Oltre alle risorse interne che già paghiamo con il canone, in che modo i freelance incidono sul budget delle testate (che come ben sappiamo, è anch'esso a carico dei cittadini)? Quanto ci costa tutto questo? La Rai deve fare chiarezza.

DAGONEWS il 26 febbraio 2022.

Sono passate da poco le 9.30 quando Monica Maggioni entra nel bar di Saxa Rubra, seguita da un consistente codazzo di giornalisti del Tg1, che l’hanno appena assistita nell’ennesimo speciale di questa mattina sulla guerra in Ucraina. 

“Non si può entrare senza la mascherina anti Covid - le fa notare con  tono deciso una ragazza in fila alla cassa. 

“Non vede che sto bevendo un cappuccino? - risponde stizzita la Maggioni, alzando la voce con aria visibilmente infastidita, mimando il gesto senza avere nulla in mano.

A quel punto tutto il bar si ferma per vedere come va a finire e interviene una giovane vigilante della Rai, che sembra non riconoscere la direttrice: “Signora, le regole sono uguali per tutti. Deve indossare la mascherina, altrimenti deve uscire dal locale”.

Maggioni prova a resistere, insiste nel dire che sta consumando un cappuccino che non c’è ma alla fine capitola. 

Livida, mette la FFP2 ed è anche costretta, su invito dell’agente, a sfoltire parte della sua corte. 

Un assembramento intorno alla cassa è vietato, come è scritto a caratteri cubitali nei cartelli ben visibili all’interno del bar.

Mauro Suttora per huffingtonpost.it il 27 Febbraio 2022.

Ieri sera ho visto un incredibile programma di Rai2 in cui un (finora ottimo) corrispondente da Mosca giustificava Vladimir Putin, accusando il mondo libero di avere umiliato la Russia dopo il crollo del comunismo, e perciò di avergli provocato la frustrazione che ora gli ha fatto invadere l’Ucraina.

Pure io a questo punto sono frustrato: davvero dobbiamo pagare il servizio pubblico per ricevere propaganda putiniana? Inconsapevole, probabilmente. Perché se a un giornalista si chiede non cronaca ma analisi, e poiché ogni misfatto ha il suo antefatto, è possibile che egli si sbizzarrisca andando a ritroso di trent'anni per "capire" e "spiegare" l'invasione dell'Ucraina (anzi dell'Ucrania, secondo la senatrice ex grillina Nugnes).

Un po' come certi ineffabili sociologi tv che commentano i crimini dando la colpa alla società o alla opprimente architettura del Corviale, invece che ai criminali. 

Lo speciale Tg2 ha illustrato la versione di Putin, accusando gli Usa di avere depredato la Russia negli anni '90. Abbiamo altri ricordi. Se  gli oligarchi (vero nome: mafiosi) russi hanno approfittato delle privatizzazioni, che c'entrano gli Stati Uniti?

Sono stati i vari Berezovsky e Abramovich ad arricchirsi, non miliardari o  società americane. I dirigenti di Mosca si sono fatti corrompere da loro concittadini. In ogni caso, è arduo trovare un rapporto causa-effetto fra accadimenti di un terzo di secolo fa e l'aggressione dell'Ucraina, se non nelle personali paranoie di Putin.

Che si comporta da psicolabile fuori controllo: il botulino gli avrà dato alla testa. Insulta perfino il capo dei suoi servizi segreti in diretta tv, una scena da Fantozzi. Dà dei "tossicodipendenti" e "nazisti" ai dirigenti ucraini liberamente eletti (diversamente da lui, che incarcera o avvelena i suoi avversari).

Sono tanti i figli di Putin in Italia: oltre al corrispondente Rai di ieri sera si stanno esprimendo al meglio Travaglio, Salvini, Lerner, Meloni, Grillo, populisti, complottisti, nostalgici fascisti e comunisti. Tutti quelli che "sì, però anche gli Usa, l'Europa, la Nato".

Immagino che nel settembre 1939, dopo che Hitler e Stalin invasero la Polonia, avrebbero opinato "sì, però anche Francia e Inghilterra". Insomma: se un bandito internazionale invade l'Ucraina, è pure colpa nostra.

Lo storico inglese A.J.P. Taylor fece risalire le cause della Seconda guerra mondiale alle angherie subìte dalla Germania col trattato di Versailles. Ma il suo libro uscì nel 1961. Se lo avesse pubblicato nel 1940, mentre le famiglie della Londra bombardata si rifugiavano in metrò così come oggi quelle di Kiev, sarebbe finito linciato dai suoi connazionali. Cari analisti, l'unico Master of war dylaniano in azione adesso è il Ras Putin. Non cercate peli nell'uovo.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 27 Febbraio 2022.

Dopo i vari scempi avvenuti in questi giorni di copertura informativa Rai sulla guerra russo-ucraina, ecco che la questione diventa politica. Ed è il Partito Democratico per tramite del Deputato Andrea Romano, esponente della Commissione di Vigilanza Rai, a diramare di fatto un ultimatum alla Tv di Stato: "La Rai sta svolgendo una preziosa opera di informazione sull'aggressione russa contro l'Ucraina" scrive su Twitter in una iniziale captatio benevolentiae. 

Ma che serve solo a introdurre la batosta: "Ed è ancora più prezioso che la Rai eviti di dare spazio a falsità palesi e interpretazioni compiacenti verso i crimini di Putin. Attiveremo anche la Vigilanza".

Andrea Romano si riferisce al tweet della vicepresidente della Federazione Italiana Diritti Umani, Eleonora Mongelli, che critica una intervista di RaiNews24 in quota Fratelli d'Italia in cui si rilanciavano gli argomenti della propaganda Russa a proposito del Donbass.

Ci arriva notizia che numerosi deputati del Pd starebbero incalzando la segreteria riguardo ai giornalisti Rai tacciati di fare propaganda russa. Nel mirino Alessandro Cassieri e Marc Innaro, corrispondente Rai da Mosca.

Il tutto dopo le gravi accuse della corrispondente freelance da Kiev, Olga Tokariuk, che in un Tweet ha puntato il dito sulla Rai, rea a suo dire di diffondere notizie false su "mitici nazisti ucraini" e di "giustificare Putin".

Frattanto, la Direttrice del Tg1 Monica Maggioni - ieri finita nel mirino di Dagospia per non aver indossato la mascherina nel bar di Saxa Rubra - viene bacchettata sempre su Twitter dal giornalista Michele Arnese per aver "sfumato - diciamo - il vaticanista Ignazio Ingrao che ricordava la visita del Papa all'ambasciatore russo". La Maggioni, secondo Arnese, avrebbe anche "diplomaticamente - diciamo - criticato il Papa per questa mossa".

Stando alle nostre fonti, il Pd sarebbe molto irritato e preoccupato nelle sue proteste contro la Rai, nella quale però nessuno sembra controllare alcunché. "Dov'è l'Ad Fuortes?" è l'interrogativo che circola in queste ore nelle varie sedi della Tv di Stato. 

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 28 febbraio 2022.  

La guerra russo-ucraina crea mostri. E crea soprattutto fake, che nella copertura informativa Rai in questi giorni stanno dilagando, con spezzoni di videogiochi spacciati per immagini dell'attuale conflitto, esplosioni di sei anni fa in Cina tacciati per bombardamenti e così via. 

L'ultima bufala della Tv di Stato pagata dal canone è stata trasmessa su Rai1, ormai trasformata in TeleMaggioni, visto che la Direttrice del Tg1 è praticamente in onda 24 ore su 24.

Monica Maggioni ha mostrato nello speciale Tg1 di questa mattina, 28 febbraio 2022, una copertina di Time sulla quale Vladimir Putin è ritratto come Adolf Hitler, corredata dalla didascalia How Putin shattered Europe's Dream, "Come Putin ha infranto i sogni dell'Europa".

Maggioni ha quindi preso spunto dalla copertina shock per chiedere al corrispondente da Berlino Rino Pellino cosa ne pensasse, dando via quindi a un inane dibattito, visto che la copertina è un falso (la vera copertina è quella pubblicata qui). 

Al Tg1 si sono poi accorti dell'errore e Maggioni ha commentato in diretta che si trattava di un fake chiedendo scusa. Sarà forse il segnale che le occorre un po' di riposo dalle maratone simil-Mentana, estenuanti non solo per lei ma anche per i telespettatori? 

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 28 febbraio 2022.

A Marc Innaro, corrispondente Rai da Mosca, non manca il coraggio. Perché ne serve tanto per provare a giustificare le mosse di Putin mentre cadono le bombe in Ucraina. «Basta guardare la cartina geografica per capire che, negli ultimi 30 anni, chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato», ha sostenuto durante uno Speciale Tg2.

Il fatto che l'espansione Nato non avvenga coi carri armati ma per libera adesione è un dettaglio. Lo stesso direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, presente in studio, ha preso le distanze. Non è bastato a evitare le polemiche social e la protesta del Pd, che vuole un approfondimento in Vigilanza Rai. Forse non avevano mai seguito un servizio di Innaro, sempre piuttosto ossequioso col Cremlino. C'è da capirlo, per fare il giornalista a Mosca di questi tempi serve prudenza.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 6 marzo 2022.

"Ah... anche poeta!", ironizza la signorina Silvani di Anna Mazzamauro nel film Fantozzi del 1975, commentando i versi che lo sventurato ragioniere interpretato da Paolo Villaggio declama rubandoli a Lorenzo de' Medici e spacciandoli per propri. 

"Ah... anche inviato!" si potrebbe commentare dopo aver visto nello speciale mattutino del Tg1 sull'Ucraina il direttore del Giornale Radio Rai Andrea Vianello in collegamento da Leopoli con la direttrice e conduttrice Monica Maggioni, che neanche il settimo giorno si riposa come fece qualcuno più in alto di lei.

Direttori che fanno i conduttori e che ora fanno anche gli inviati, in una gara di ultrapresenzialismo che non si era mai vista nella Storia della Tv pubblica. Ah, come sembra remoto quel marzo 2013 in cui l'USIGRai attaccava a suon di comunicati sindacali Bianca Berlinguer perché da direttrice del Tg3 qual era osava anche condurre il notiziario della Terza Rete, come ha ricordato qualche giorno fa Pinuccio di Striscia la Notizia. Dobbiamo forse aspettarceli anche a Ballando con le Stelle o sul palco dell'Ariston a cantare con La Rappresentante di Lista o con Orietta Berti? Di questo passo, è alquanto probabile.

Vogliamo poi parlare, sempre nello stesso speciale, del raggelante siparietto fra la Maggioni e Andrea Nicastro, inviato del Corriere della Sera (sempre agli esterni la Rai è costretta a rivolgersi, malgrado oltre 1700 giornalisti interni...)? La direttrice del Tg1 chiede al giornalista se ha già pensato a quale argomento tratterà nelle prossime ore per il Corriere, e quello ovviamente le risponde di no. 

La Maggioni a quel punto, ridendo, confessa in diretta che quella è una domanda che non doveva porgli perché ovviamente Nicastro non anticiperà certo a lei che cosa tratterà per il suo giornale in concorrenza con la Rai. La stessa direttrice del Tg1 è costretta ad ammettere che sembra un "discorso tra matti". Il tutto potrebbe ricordare una parodia dei fratelli Marx, e invece - ahinoi - è il racconto della guerra russo-ucraina da parte della principale testata giornalistica d'Italia.

Domenica In, il crollo di Monica Maggioni: "Oggi Andrea Vianello...", il dramma in diretta tv. Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.

Il Tg1 diretto da Monica Maggioni sta profondendo un grande sforzo per offrire vero servizio pubblico con la copertura della guerra in Ucraina. La situazione è difficile così come lo sforzo è immenso, soprattutto da parte di chi sta raccontando il conflitto sul campo. La direttrice del Tg1 ha fatto fatica a trattenere le lacrime durante un collegamento con Andrea Vianello, inviato da Leopoli.

A un certo punto la Maggioni si è infatti rivolta a lui visibilmente commossa: “Lasciami dire non da collega ma da amica: l’idea che tu sia voluto andare lì è molto importante, continua a raccontarci Leopoli un secondo, per favore, per darmi una mano, grazie”. Più tardi collegandosi con Mara Venier a Domenica In la direttrice del Tg1 ha spiegato perché si è commossa: “Faticavo a trattenere le lacrime per due motivi ben diversi tra loro. Il primo è ovviamente il racconto dei profughi ucraini, di cui testimoniamo il dramma da oltre una settimana”. 

Il secondo motivo è invece più personale: “Andrea Vianello è un amico oltre che un collega e mi sono commossa per la sua decisione di andare a fare quello che tutti noi giornalisti vorremmo fare, cioè raccontare ciò che accade direttamente sul campo. E considerando la sua vicenda umana, lo trovo qualcosa di incredibile”. 

Domenica In, lo sfregio di Monica Maggioni alla destra italiana: "Vladimir Putin? In tutti questi anni..." Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.

Negli ultimi giorni, Monica Maggioni è chiacchieratissima: l'ex presidente della Rai è infatti un po' ovunque, prezzemolina televisiva. E per questo è finita anche nel mirino di Striscia la Notizia.

E così oggi, domenica 6 marzo, ecco che la ritroviamo anche a Domenica In, nel regno di Mara Venier, la trasmissione di Rai 1 che per la prima volta da tanto tempo a questa parte non apre parlando dell'emergenza coronavirus. Già, c'è in atto un'emergenza ben peggiore: la terrificante invasione dell'Ucraina scatenata da Vladimir Putin, il presidente di una Russia che sta facendo strage di civili.

Monica Maggioni, insomma, in studio per fare il punto sul conflitto, per un'analisi. La giornalista punta il dito contro Vladimir Putin, affermando che la guerra "è soltanto una sua responsabilità". Dunque, un discorso un poco peloso: "In questi anni ci siamo fatti affascinare dagli uomini forti al potere. E ora vediamo la differenza tra il potere nelle mani di pochi e la democrazia", afferma. Nessun riferimento esplicito, eppure non è difficile cogliere in queste parole un attacco alla destra, ai "sovranisti". Ma, così, è troppo facile: questo Vladimir Putin, questa versione dello zar, questo orrore, francamente fino a pochi giorni fa sembrava del tutto inimmaginabile. E nessuno, in Italia, si sarebbe mai fatto "affascinare" dall'uomo forte al potere che veste i panni del guerrafondaio sanguinario.

Gio.Vi. per "la Repubblica" il 28 febbraio 2022.

Prima ha dato la colpa all'Alleanza atlantica. «Basta guardare la cartina geografica per capire che negli ultimi trent' anni chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato». Poi ha accreditato la tesi putiniana della fuga del presidente ucraino a Leopoli. Il tutto nel giro di 24 ore, quelle cruciali dell'invasione. 

Due servizi trasmessi non dalla Tv pubblica di Mosca, bensì dalla Rai. Firmati dal corrispondente Marc Innaro per il Tg2 Post e il Tg1, hanno fatto saltare sulla sedia Enrico Letta. Irritato, il segretario del Pd, per un'informazione che dovrebbe smontare le fake news del Cremlino, non amplificarle.

Come avrebbe invece fatto RaiNews24 intervistando una sedicente documentarista che ha parlato di «presunte invasioni » e definito il cambio di governo in Ucraina a fine 2013 come «un golpe operato da una manovalanza neofascista ». Parole che hanno subito suscitato la rivolta social. «Quanto detto è di una falsità gravissima, vergognoso per il servizio pubblico», tuona Elena Mongelli, vicepresidente della Fondazione diritti umani. La Rai «disinforma sui nazisti ucraini» e «giustifica Putin», accusa la freelance russa Olga Tokariut. 

Al Nazareno c'è allarme. «In un momento in cui la propaganda russa agisce in modo pervasivo, è inammissibile che vi siano spazi di cedimento nel servizio pubblico. Un conto è la libertà di espressione dei giornalisti, un altro farsi megafono di una parte». Tant' è che la questione, già discussa coi vertici aziendali, verrà ora portata in Vigilanza. Per chiedere, come già si è fatto con gli opinionisti no-vax, di non offrire sponde a quelli filorussi. 

«La Rai sta svolgendo un gran lavoro di informazione sull'Ucraina», premette il commissario dem Andrea Romano. «Proprio per questo deve fare massima attenzione a non diffondere notizie false (come quella di Marc Innaro sabato sera al Tg2 Post, secondo cui la Russia sarebbe stata provocata dall'espansione a Est della Nato) e a non ospitare commentatori compiacenti verso i crimini di Putin come è accaduto a RaiNews24». 

Un intervento, quello nel talk della rete cadetta, per la verità confutato in diretta dal direttore Gennaro Sangiuliano. Il quale ha subito precisato che «una cosa dev' essere chiara: qui c'è un aggressore, cioè Putin, e una vittima, Zelensky e il popolo ucraino», per poi denunciare «la violazione dei trattati internazionali» e stigmatizzare l'uso della forza. «Per me», dice, «parla il mio telegiornale», uno dei pochi ad aver «dato voce agli oppositori del presidente russo».

Ora tocca all'ad Fuortes decidere cosa fare. I corrispondenti, com' è noto, non dipendono dalle testate ma sono nominati dall'azienda. E Innaro sta a Mosca da almeno tre lustri. Forse - si dice in Rai - è arrivato il momento di cambiare.

Marc Innaro silurato dalla Rai? "Cosa è arrivato a dire su Putin e la Russia": rivolta nel servizio pubblico.  Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.

Marc Innaro è il corrispondente Rai che si trova a Mosca ormai da tre lustri e che nelle prime ore dell’invasione russa in Ucraina si è reso protagonista di due interventi che hanno sollevato parecchie polemiche, soprattutto a livello politico. In uno Speciale del Tg2, Innaro ha infatti sostenuto che “basta guardare la cartina geografica per capire che, negli ultimi 30 anni, chi si è allargato non è stata la Russia, ma la Nato”.

Affermazione parziale, che trascura un “dettaglio” decisivo, ovvero che l’espansione della Nato è avvenuta per libera adesione e non con la guerra. Lo stesso direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, ha preso le distanze ma non è bastato per evitare le polemiche e soprattutto un approfondimento in Vigilanza Rai. Poi Innaro al Tg1 ha però accreditato la tesi di Vladimir Putin della fuga del presidente ucraino Zelensky a Leopoli, rivelatasi una fake news. 

Anche in questo caso le reazioni politiche non sono tardate ad arrivare, soprattutto dalle parti del Pd: “In un momento in cui la propaganda russa agisce in modo pervasivo - sono intervenuti dal Nazareno - è inammissibile che vi siano spazi di cedimento nel servizio pubblico. Un conto è la libertà di espressione dei giornalisti, un altro farsi megafono di una parte”. Toccherà all’ad Fuortes decidere cosa fare: i corrispondenti dipendono dall’azienda e non dalle testate.

Diego Fusaro si schiera con Putin: "Sciagurato espansionismo della Nato". E pubblica questa foto. Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.

Diego Fusaro, controcorrente per definizione, prima sui vaccini e sul Green pass e ora sulla guerra in Ucraina, sostiene in un tweet sostanzialmente che non è tutta colpa di Vladimir Putin. E pubblica sul suo profilo Twitter una mappa dell'Europa con l'"espansione" della Nato dal 1998 al 2022. Come si vede dalla cartina, da allora a oggi, hanno aderito Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Estonia, Albania, Macedonia, Ungheria, Romania e Bulgaria. 

Quindi, commenta il filosofo: "La ripropongo, perché è tutto qui il cuore del problema. La guerra, che certo condanniamo, è l'esito ultimo di questo sciagurato espansionismo atlantista". Insomma, sembra dire Fusaro, è colpa della Nato se Vladimir Putin si è "innervosito" e ha attaccato l'Ucraina. 

In un tweet precedente aveva scritto: "Putin chiede come condizione fondamentale che Kiev resti neutrale, cioè che non entri né nella Nato né nella Ue. È una condizione ragionevolissima, sta ora alla Ue e alla civiltà del dollaro porre fine al conflitto rispettando questa condizione". 

Massimo Galanto per tvblog.it il 27 Febbraio 2022.

“La comunità ucraina in Italia è molto larga, è una comunità che, tuttavia, non ha il miglior trattamento, è una comunità che fa i lavori più umili, per noi molto utili, soprattutto per i nostri vecchi e le nostre case, una comunità sicuramente non trattata benissimo, insomma, no?!“. 

Così Lucia Annunziata oggi è riuscita nell’impresa di ripetere la gaffe commessa pochi giorni fa, quando, durante lo speciale del Tg3 dedicato alla guerra provocata dalla Russia, credendo di avere il microfono spento, si era fatta sfuggire, a proposito della comunità ucraina in Italia, la certamente sgradevole frase “centinaia di migliaia di cameriere e badanti”.

Un’uscita per la quale poche ore dopo aveva fatto ammenda pubblicamente (ma non in televisione), insieme ad Antonio Di Bella, che aveva completato la frase aggiungendo un sarcastico ed evitabilissimo “e amanti“. 

Nella puntata odierna di Mezz’ora in più, la giornalista, nel porre una domanda a Matteo Salvini, ospite in collegamento, è sembrata incartarsi ed è scivolata nuovamente su una descrizione apparentemente discriminatoria (soprattutto per il modo in cui è stata espressa, più che per i contenuti) della comunità ucraina che vive nel nostro Paese, ma anche dei “vecchi” italiani.

Per la cronaca, anche oggi accanto a Lucia Annunziata in studio era presente Antonio Di Bella, ma stavolta il direttore del daytime Rai ha evitato battute (i più maliziosi aggiungerebbero: o il suo microfono a ‘sto giro era spento). 

Arriveranno le scuse/precisazioni della Annunziata anche stavolta oppure la giornalista ex Presidente Rai deciderà di soprassedere? E, soprattutto, nei prossimi giorni tornerà ad esprimersi in maniera così goffa sulle donne e sugli uomini ucraini che vivono in Italia? 

Tagadà, Andrea Purgatori sorprende tutti: “Vladimir Putin non ha tutti i torti”. Le pesanti accuse ad Europa e Nato. Il Tempo il 24 febbraio 2022

Andrea Purgatori e la situazione di crisi tra Russia e Ucraina. Il conduttore di Atlantide è ospite della puntata del 24 febbraio di Tagadà, programma di La7 condotto da Tiziana Panella, e si sofferma sulla guerra nell’Europa dell’est: “Non si può fare un’analisi corretta di quanto sta succedendo se la facciamo da tifosi, bisogna fare un'analisi fredda e cinica, sennò non ne usciamo. Davvero pensiamo che Vladimir Putin non abbia calcolato le ripercussioni finanziarie su Borse e mercati dopo aver programmato una campagna militare così? Se vogliamo essere tifosi diciamo di no… L’analisi sui mercati si può fare solo tra una settimana. Ma davvero pensiamo che il capo maggiore dell’aeronautica russa si sia messo a piangere perché non può avere il visto per l’Europa dopo le sanzioni? Ma sai quanto gliene frega?”.  

“Il problema - va avanti Purgatori - è sulla distanza. Putin aveva messo in conto persino la manifestazione del Pd davanti all’ambasciata russa, non gliene può fregare di meno. Lui sapeva benissimo che l'Ucraina non sarebbe stata difesa da nessuno, perché la NATO non ha predisposto alcun tipo di contromisura rispetto al fatto che lui da due settimane ha ammassato 200 mila uomini, mezzi militari e aerei ai confini del Paese. Abbiamo visto come si è mossa l’Europa… Non gliene frega niente! Io penso che nel giro di due settimane tutti i Paesi europei andranno a contrattare individualmente con la Russia ciò che gli serve, e penso anche che Putin non interromperà mai il flusso del gas che sta dando sia all’Italia che alla Germania e agli altri Paesi, perché non gli conviene. Si prende le sanzioni su cui si è costruito un paracadute con la Cina dieci giorni fa. L'obiettivo di Putin - conclude il giornalista - è prendersi l'Ucraina perché sostiene, e non ha tutti i torti, che la NATO ha messo i piedi e le mani sull'Ucraina creando un problema di sicurezza alla Russia. Abbiamo vissuto altri momenti complicati e di tensione e le reazioni sono state misurate sul medio-lungo periodo”. 

L'aria che tira, Cecchi Paone a valanga: Putin come Hitler, dittatore nazista. Friedman: e Zelensky è ebreo... Il Tempo il 24 febbraio 2022

"Tutti parlano di Vladimir Putin come di un autocrate perché hanno scheletri nell'armadio, la verità è che è un dittatore". Alessandro Cecchi Paone dipinge così il presidente russo nel giorno dell'invasione militare dell'Ucraina che ha portato la guerra in Euopa. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, il giornalista riprende il ragionamento fatto poco prima da Alan Friedman. 

Ucraina, scatta la grande fuga da Kiev. Il mondo prepara la reazione a Putin

"Ha usato delle parole che nessuno usava, cioè che Putin è un dittatore che non rispetta la democrazia e la libertà" dice Cecchi Paone nella puntata di giovedì 24 febbraio. Il commentatore rincara la dose: "Putin somiglia molto a un nazista, a Hitler, che sta facendo quello che il Fuhrer ha fatto nei Sudeti, con l'Austria e con la Polonia". Friedman a riguardo ricorda che "il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky è un ebreo". Il presidente russo per Cecchi Paone "è un dittatore nazista post-comunista". 

Meloni al fianco di Kiev: "Attacco inaccettabile". Salvini azzera il Pd, l'attacco assurdo su Putin

"Putin andrà avanti con la sua operazione di violenza contro l'Ucraina. La guerra c'è ma l'Europa non entrerà nella guerra, non c'è il rischio di una guerra mondiale ma noi non siamo in grado di fare un bel niente", ribadisce Friedman. 

Gennaro Sangiuliano su Vladimir Putin: "Perché non si fermerà all'Ucraina", i prossimi obiettivi dello zar. Gianluca Veneziani Il Tempo il 25 febbraio 2022.

Per ben comprendere le strategie geopolitiche di Putin sarebbe opportuno leggere il libro del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar (Mondadori), pubblicato per la prima volta nel 2015 e quanto mai profetico e perciò attualissimo.

Sangiuliano, se vogliamo capire Putin dobbiamo tornare a 10 anni prima della sua nascita, quando il padre restò ferito e la madre rischiò di morire per denutrizione durante l’assedio di Leningrado (dal 1941 al 1944)?

«Sì, lui è un figlio dell’Urss e dell’assedio di Leningrado, dove i russi persero 700mila vite umane e Putin subì danni diretti a livello familiare. Tra l’altro in quell’occasione morì il fratello di soli 7 anni, Viktor, che lui non conobbe mai. Tutta la sua psicologia è generata dalla sindrome dell’assedio, ossia dall’idea che la Russia venga assediata e abbia necessità di difendersi dalle minacce esterne. A questo trauma si somma quello della dissoluzione dell’Unione Sovietica: a quell’epoca Putin era il capostazione del Kgb a Dresda. Dopo il crollo dell’Urss lui tornò a vivere a Leningrado. Il suo unico bene era un’automobile Volga, a un certo punto ipotizzò addirittura di mettersi a fare il tassista, non sapendo più come poter sostentare se stesso e la sua famiglia. Tutta questa sua psicologia contorta non giustifica quello che sta facendo ora ma ci aiuta a capirlo». 

Quanto la sua esperienza nel Kgb gli ha permesso di maturare abilità strategiche e diplomatiche che ha messo a frutto in questi giorni?

«Quando crollò l’Urss, il Kgb fu l’unico apparato che restò in piedi e funzionante, essendo un’élite della società russa, uno Stato nello Stato. Il Putin di oggi è ancora il tenente colonnello del Kgb. Lo si era visto già anni fa, con l’intervento in Cecenia, prova generale dell’Ucraina. Putin fu di un’estrema durezza ai limiti della forza bruta»,

Nel suo mito di una Grande Russia, Putin si rifà più all’Impero zarista o all’Unione Sovietica?

«Quando cadde l’Urss, e tutti quanti toglievano i quadri di Marx, Lenin e Stalin dalla stanze, Putin li sostituì con il quadro di Pietro Il Grande, una chiara evocazione della Russia zarista. Il presidente russo ha anche detto però che non si può non rimpiangere l’Unione Sovietica. È singolare a proposito ciò che accade nella parata di maggio per celebrare la vittoria sul nazifascismo: vedi sfilare le unità della Marina cui è stato ridato il simbolo di falce e martello, e altre unità che portano invece il nastrino giallo e nero, i colori dello zar. I riferimenti di Putin sono un miscuglio tra zarismo e comunismo, forze antitetiche sul piano della storia: lui ha cercato di sintetizzare nello spirito russo questi due tratti». 

Il Putin di oggi è più uno strenuo nazionalista o un imperialista?

«È un imperialista che utilizza contro l’Ucraina l’armamentario antinazista, visto che una parte degli ucraini durante la Seconda Guerra Mondiale si schierò con Hitler. La sua filosofia geopolitica di riferimento è il panslavismo: lui desidera un’area di influenza geopolitica che coincida con la vecchia Urss, e quindi comprenda le repubbliche baltiche, la Moldova e le repubbliche dell’Asia centrale e del Caucaso».

Quanto conta in questa missione putiniana il tema dell’identità nazionale?

«Indubbiamente Putin ha ridato orgoglio al suo popolo. Ma, secondo un sondaggio di ieri, “solo” il 53 per cento dei russi condivide la sua iniziativa militare. È sì una maggioranza, ma non schiacciante. La verità è che la società russa si è evoluta, i russi hanno cominciato a viaggiare e ad apprezzare i valori di libertà e democrazia. E in questo momento storico Putin è un personaggio isolato, che vive all’interno della sua cerchia, chiuso nel suo castello, circondato da persone che gli danno una falsa rappresentazione della realtà. Questo isolamento alla lunga può portare alla paranoia».

Questa guerra di Putin si spiega più con l’economia, la geopolitica o l’ideologia? 

«Il fattore prevalente è quello geopolitico. Ma le sue mosse si spiegano anche con una sorta di logoramento del potere. Sono passati più di vent’anni da quando Putin è diventato per la prima volta premier e poi presidente. Il suo potere si è via via logorato, e ora lui prova a ridargli smalto lanciando una guerra patriottica».

L’azione di Putin può essere paragonata alla “guerra di Stalin” all’Ucraina di 90 anni fa che causò la Grande Carestia?

«In questa vicenda ci sono tutte le stigmate della storia. Da una parte gli ucraini ricordano lo sterminio che Stalin fece ai loro danni con la Grande Carestia. A loro volta i russi ricordano come gli ucraini diedero uomini e forze alle Waffen SS».

C’è chi sui giornali italiani ha scritto di “fascismo rosso” a proposito di Putin e c’è chi paragona la sua invasione dell’Ucraina a quella di Hitler della Polonia. Sono paragoni destituiti di senso?

«Sì, non dimentichiamo che Putin era un membro del Partito comunista dell’Urss». 

"Putin? Sta giocando una roulette russa". Caracciolo svela l'impensabile: "C'è il rischio che qualcuno lo...". Zar sostituito? 

Hanno sbagliato i sovranisti europei a elevarlo a loro punto di riferimento?

«Non parlerei di errore. Sbaglia chi esalta Putin, dimenticandosi che noi dobbiamo essere atlantisti. Ma sbagliano anche i liberal che non vogliono comprendere la profondità di certi processi storici. Anche Solzenicyn sosteneva che la Russia non sarebbe mai potuta diventare come gli Usa. E lo stesso Sergej Brin, russo cofondatore di Google, nota come la Russia vada rispettata nella sua peculiarità storica».

Quanto al sogno putiniano di una grande Russia contribuisce la  debolezza di Europa e Usa, private di figure di spessore Trump e Merkel?

«Innanzitutto dobbiamo ricordare che Putin preparava questa mossa da mesi. Non organizzi un’invasione su così larga scala in poche settimane. L’Occidente da 3-4 anni è distratto rispetto alle vicende ucraine, mostrando la sua fragilità. Biden poi non è all’altezza di Obama, Clinton o George W. Bush, non è un leader di statura. Mancano infine figure come Berlusconi, che fece un grande lavoro a Pratica di Mare, consentendo di evitare scene come quelle a cui stiamo assistendo oggi».

Nel suo saggio lei cita il libro Lo scudo e la spada, avidamente letto da Putin, e i libri di spionaggio di John le Carrè, come utili strumenti per comprendere la psicologia del presidente russo. Putin è un personaggio letterario?

«Lui dà l’impressione di confondere letteratura e realtà. Una certa megalomania del personaggio va letta indubbiamente in questa direzione».

Marco Zonetti per vigilanzatv.it l'1 marzo 2022. 

Chi si sintonizzasse sulla Rai per seguire il dipanarsi del conflitto russo-ucraino, si sarà accorto che i collegamenti da Kiev nel notiziario del Tg1 sono gestiti dal giornalista Valerio Nicolosi di Micromega, di fatto una risorsa esterna al Servizio Pubblico.

Questo malgrado per la crisi tra Russia e Ucraina il notiziario della Prima Rete Rai abbia dispiegato ben sette inviati - come ha fatto notare il Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi - senza contare i quattro del Tg2 e quello del Tg3. Per un totale di dodici, ovviamente tutti a spese nostre. Inutile dispiego di mezzi che si sarebbe risparmiato se fosse stato implementato il piano Newsroom, la cui necessità si fa sempre più impellente nel momento in cui tramite le nuove tecnologie l'informazione cambia alla velocità della luce.

Tornando alla stretta attualità, il problema è che i suddetti inviati non si trovano a Kiev e quindi le uniche informazioni riguardanti il luogo attualmente cruciale nel conflitto vengono desunte dai resoconti di Valerio Nicolosi. A questo punto, ci sfugge il senso di aver mobilitato così tante persone, viste anche le continue gaffe che hanno costellato la copertura informativa Rai del conflitto, come più volte segnalato anche da Dagospia.

Per giunta, come mai il buon Nicolosi si trova a Kiev, quando invece gli altri inviati Rai non ci sono? Semplice, perché il giornalista di Micromega ha avuto la lungimiranza di organizzarsi preventivamente, cosa che invece a quanto pare con oltre 1700 giornalisti su cui può contare la tv pubblica, quest'ultima non è riuscita a fare. Tanto, ribadiamo, paghiamo noi. 

Rai, sprechi in Ucraina: chi è l'uomo in collegamento col Tg1, l'ultima follia coi nostri soldi. Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.

Stanno suscitando diverse polemiche i collegamenti da Kiev di Valerio Nicolosi all’interno del Tg1. Il giornalista di Micromega è una risorsa esterna del servizio pubblico, e ciò fa storcere il naso ad alcuni membri della Commissione di Vigilanza Rai, dato che il notiziario può avvalersi di ben sette inviati per raccontare la guerra scatenata in Ucraina da Vladimir Putin. 

In particolare Michele Anzaldi, segretario della Commissione, ha sollevato la questione, che è stata ripresa da Marco Zonetti su vigilanzatv.it: “Il problema è che gli inviati non si trovano a Kiev e quindi le uniche informazioni riguardanti il luogo attualmente cruciale nel conflitto vengono desunte dai resoconti di Valerio Nicolosi. A questo punto, ci sfugge il senso di aver mobilitato così tante persone, viste anche le continue gaffe che hanno costellato la copertura informativa Rai del conflitto, come più volte segnalato anche da Dagospia”.

Inoltre vigilanzatv.it ha spiegato come mai Nicolosi si trovi a Kiev e gli inviati della Rai invece no: “Il giornalista di Micromega ha avuto la lungimiranza di organizzarsi preventivamente, cosa che invece a quanto pare con oltre 1700 giornalisti su cui può contare la tv pubblica, quest’ultima non è riuscita a fare. Tanto, ribadiamo, paghiamo noi”.

"Le tv un bersaglio dai Balcani a Gaza. Ora rischiamo una nuova Sarajevo". Massimo Malpica il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il generale Camporini: "Il cambio di tattica fa parte delle strategie belliche. Per raggiungere i suoi obiettivi Mosca farà più danni e vittime".

È una giornata in cui l'attacco russo all'Ucraina si fa più violento quella che precede il secondo round dei negoziati. E anche il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica militare e della Difesa, ex presidente del Centro Alti Studi della Difesa e oggi responsabile sicurezza e difesa di Azione, vede da parte russa «un cambio di tattica». «Sembra che siamo passati a una fase più muscolare, mettendo sotto tiro tra l'altro elementi classici delle strategie belliche da sempre», esordisce.

Si riferisce alla torre della tv di Kiev?

«La torre delle comunicazioni è da sempre un obiettivo, è stato così durante le campagne dei Balcani e anche a Gaza. Si tratta di obbiettivi molto paganti perché consentono di rendere difficoltose le comunicazioni e la circolazione delle informazioni, qualcosa che a un attaccante fa molto comodo».

Resta il dato di fatto di una guerra che non è stata affatto «lampo». Non c'è il rischio che tra lentezza russa e resistenza ucraina Kiev diventi una nuova Sarajevo?

«Il rischio esiste, perché un generale che ha un obiettivo e non riesce a raggiungerlo con l'uso minimo della forza, tenderà a usare un livello accelerato di forza, con conseguenti maggiori danni e maggiori vittime. Ma questa operazione è partita con un bagaglio di intelligence molto modesto, perché abbiamo ormai l'evidenza che nessuno a Mosca si sarebbe aspettato una reazione così vivace da parte ucraina e una capacità politica di resistere da parte di Zelensky: tutti si aspettavano anzi che la questione si sarebbe chiusa nell'arco di 48 ore e d'altronde Putin lo aveva detto apertis verbis anche a Xi Jinping. Non è andata così, e il tutto presuppone una cattiva base informativa che è arrivata fino a Putin. Questo è gravissimo. Evidentemente il servizio di intelligence russo non ha fornito al capo in testa le informazioni che gli erano indispensabili per prendere le sue decisioni».

Il rischio forse più grande per i russi ora è la guerriglia...

«Secondo me è la disponibilità che sembra essere stata incrementata dalle decisioni occidentali di disporre di armi anticarro che possono essere utilizzate con esiti mortali contro le colonne corazzate. Perché la possibilità di fare agguati diventa di semplicità elementare. I russi potrebbero contrastare questo pericolo solo utilizzando in modo sinergico la fanteria e i mezzi corazzati, con i fanti a terra che prevengono i rischi di imboscate e permettono l'avanzata. Ma questo presuppone degli automatismi tra i vari componenti delle squadre, che però non si acquisiscono in poche settimane, e da quanto ho letto una parte significativa delle truppe russe è formata da ragazzi di leva, poco adatti a mettere in campo queste tattiche sofisticate».

L’Informazione. Gary Shteyngart: «Per sette giorni ho guardato la tv russa. Nel Putin-show i tank arrivano fino a Berlino». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.

Lo scrittore nato a San Pietroburgo, emigrato in America a 7 anni: «Mio nonno, ebreo e ucraino, morì difendendo Leningrado e la Russia dall’avanzata dei fascisti nella Seconda Guerra Mondiale. Dieci anni dopo la sua morte, il fascista Putin è nato nella città che mio nonno difendeva». 

Dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014, Gary Shteyngart si chiuse in un hotel di Manhattan per sottoporsi a un esperimento di cui scrisse sul New York Times: 7 giorni davanti a tre schermi che trasmettevano ininterrottamente i tre canali della tv di Stato russa. Lo scrittore nato a San Pietroburgo, emigrato in America a 7 anni — vero nome Igor, vero cognome Steinhorn, traslitterato male dai sovietici, come racconta nell’autobiografia «Mi chiamavano piccolo fallimento» (Guanda) — si chiedeva come sarebbe emerso da quei 7 giorni. Avrebbe amato Putin? Sarebbe impazzito? Tra un balletto e un film, i notiziari rappresentano l’Ucraina come un Paese in mano ai nazi-fascisti mentre Putin, Salvatore della Nazione, dona caramelle e libri di storia ai bambini profughi del Donbass. «Ed è questa la genialità della tv russa e il motivo per cui guardarla è così doloroso. A meno che tu sia un vero credente, il suo continuo frastuono ti ricorda che sei solo, all’interno dei progetti di un altro uomo: Vladimir Vladimirovich Putin. Questi sono i suoi canali, i suoi show, i suoi sogni, la sua fede. Quando guardi il Putin Show, vivi in una superpotenza. Sei un ribelle in Ucraina che rade al suolo l’aeroporto Donetsk con armi russe. Sei la nonna russofona sulle macerie della sua casa di Lugansk, che grida contro i nazi-fascisti come fece sua madre quando i tedeschi invasero oltre 70 anni fa. Soffrire e sopravvivere: essere russo deve significare questo. Era così nel passato e lo sarà per sempre».

La tv è la principale fonte di notizie per i russi— specialmente di mezza età o anziani fuori da Mosca e San Pietroburgo — ma riesce a condizionare la percezione di questa guerra e a far credere che Putin voglia «denazificare» l’Ucraina?

«Ho parenti che non si sono vaccinati perché ascoltano la propaganda russa e credono che Pfizer e Moderna non siano sicuri. Le loro intere vite sono cambiate per via di questa propaganda. Ora queste imagini dovrebbero giustificare la guerra, ma tutti in Russia sanno che l’Ucraina non è l’aggressore. Solo chi ha subito un totale lavaggio del cervello può pensare che ciò che sta accadendo sia stato causato dagli ucraini. Se la Russia si inventasse che il nemico è la Mongolia e che i mongoli sono fascisti, la gente potrebbe crederci più facilmente ma ci sono 20 milioni di russi che hanno parenti in Ucraina, come fai a convincerli che questa guerra è necessaria? Penso che ci sia una differenza generazionale, i giovani usano molto più internet per informarsi. In Russia c’erano dei meravigliosi giornali, ma quel che era stato costruito dopo il collasso dell’Unione sovietica è stato demolito da Putin per una ragione molto pratica: non può permettersi che si vedano cose come i video di Zelensky in tv».

In solidarietà con gli ucraini ha pubblicato la foto di un piatto di holubtsi, cavolo ripieno, scattata nel celebre ristorante ucraino Veselka a Manhattan: è il suo piatto preferito tra quelli che cucinava sua nonna Polina. «Babuskha Poya» come la chiamava da bambino, era nata in Ucraina che andò a Leningrado (oggi San Pietroburgo) per sfuggire alla fame sotto Stalin.

«La gente andava e veniva, ci sono tante persone di origini ucraine in Russia, incluso uno dei miei migliori amici, che guardano con orrore ciò che sta accadendo. Qualcuno mi ha scritto via email: “Mi vergogno di appartenere ad un Paese che sta infliggendo dolore a quelli che chiama fratelli e sorelle”. Mio nonno Isaac, ebreo e ucraino, morì difendendo Leningrado e la Russia dall’avanzata dei fascisti nella Seconda Guerra Mondiale. Dieci anni dopo la sua morte, il fascista Putin è nato nella città che mio nonno difendeva. E ora questo fascista attacca un presidente ebreo legittimamente eletto in Ucraina, tenta di smembrare il Paese e uccide la sua gente. C’è una strana circolarità nella Storia».

Putin si presenta — anche in tv — come un uomo di profonda fede: a messa, circondato da donne con fazzoletti sul capo e preti barbuti bardati d’oro.

«Tra i consiglieri di Putin ci sono preti ortodossi di destra che lo orientano a pensare che Kiev è il centro e la fonte della civiltà russa e dell’ortodossia orientale e che conquistare quel Paese è un modo non solo di ripristinare un potere imperiale ma anche un potere spirituale».

Fino a dove vuole arrivare Putin?

«In quei sette giorni di tv russa ricordo di aver visto un grafico di pessima qualità che mostrava i tank russi alla Porta di Brandeburgo, come a dire “possiamo conquistare Berlino, possiamo arrivare fino a Londra se vogliamo”. So che non succederà ma è nella mente di quest’uomo e dei preti neofascisti e dei cosiddetti intellettuali che ascolta».

Le proteste in Russia possono avere un impatto?

«Sono piccole proteste. Quando Navalny fu messo in carcere le manifestazioni furono soppresse con inimmaginabile brutalità: c’è un video girato nella mia San Pietroburgo che mostra una Babuskha colpita allo stomaco da un agente antisommossa. Ora guardo queste persone coraggiose: possono perdere il lavoro, la libertà, i mezzi di sostentamento, eppure protestano lo stesso. Ma c’è bisogno che lo faccia l’intera popolazione. Persino in Bielorussia, nonostante le manifestazioni di massa, non sono riusciti a farcela, soprattutto a causa di Putin».

L’altra sua nonna, Galya, che da bambino le dava un pezzo di formaggio per ogni pagina che scriveva (così completò il suo primo romanzo su un’oca magica che guida la rivoluzione socialista in Finlandia), era nata nell’attuale Bielorussia. Quindi ha due nonne originarie di Paesi nelle mire di Putin.

«Uno è caduto, l’altro è sotto parziale occupazione. Ma gli ucraini si sono ribellati all’autocrazia, mentre i russi restano per la maggior parte al fianco di un pazzo. Certo, le elezioni sono fraudolente, ma probabilmente più del 50% della popolazione voterebbe per Putin. Mi dispiace, ma i culti non si formano da soli, ci devono essere persone che vogliono esserne parte. E penso che questo sia succedendo alla Russia. Ma l’Ucraina è la linea del fronte di una battaglia che tutti dobbiamo combattere, anche voi in Italia e noi in America. Quando Trump va in tv e dice che Putin è un genio e altri repubblicani lo seguono, viene meno l’unità necessaria per combattere questa guerra».

 La guerra della Russia in Ucraina e la ricerca della verità sulle orme di Tolstoj. Fernando Gentilini su La Repubblica il 28 febbraio 2022.

Durante la guerra di Crimea i reportage da Sebastopoli dello scrittore Conquistarono il grande pubblico russo, perché erano veri, in un tempo in cui gli altri scrivevano di sciabole luccicanti per autoingannarsi e ingannare. Anche a questo punto della "guerra di Putin" si sente forte il bisogno di evitare la menzogna.  

Mi consolo a immaginare che tra i soldati russi che in questi giorni hanno invaso l'Ucraina, vi sia un ventisettenne in cerca di verità com'era Tolstoj nel 1855, quando combatteva nella guerra di Crimea, pochi chilometri più a sud dell'attuale linea del fuoco. I suoi reportage da Sebastopoli conquistarono immediatamente il grande pubblico russo, perché erano veri.

Diario da Kiev: Svegliato dalle bombe come in un episodio del “Trono di Spade”. Markijan Kamys su La Repubblica il 28 febbraio 2022.

Lo scrittore ucraino, autore di Una passeggiata nella Zona, pubblicato in Italia da Keller, comincia con queste parole il suo racconto dalla capitale ucraina assediata

Prima dell’invasione

Molti ucraini erano convinti che ci sarebbe stata una grande guerra. Molti si stavano preparando. Che diamine, la guerra andava avanti da otto anni, solo che era lontana da Kiev, così lontana che molti nemmeno ne sentivano l’odore. 

Nella sua mente Putin vince sempre. Viktor Erofeev su La Repubblica il 28 febbraio 2022.

Nella mente del leader, tutto è finalizzato alla vittoria e tutto spinge a vendicarsi della Guerra fredda persa.  E c'è un altro aspetto principale da considerare: solo una piccola minoranza della popolazione russa ritiene che la colpa della tensione esistente nelle relazioni russo-ucraine sia della Russia. La stragrande maggioranza l’attribuisce a Kiev, all’America, alla Nato. 

E visto che ci siamo tutti ritrovati all’inferno e che tutti, evidentemente, ci meritiamo questo orrore bellico, le emozioni lasciamole al passato di pace. Adesso guardiamo con realismo la situazione che abbiamo davanti.

C’è un aspetto principale da considerare: appena il 4 per cento della popolazione russa ritiene che la colpa della tensione esistente nelle relazioni russo-ucraine sia della Russia.

«Shock e vergogna», la società russa condanna la guerra di Putin. E scatta la censura.  Il Dubbio il 26 febbraio 2022.

Dagli accademici ai giovani, passando per star della Tv e figlie dell’èlite, le reazioni all'attacco in Ucraina. Il conduttore della Tv pubblica Ivan Urgant ha scritto un semplice «No alla guerra» su Instagram, postando un quadrato nero in segno di lutto. Il giorno dopo, il suo programma è stato sospeso.

Dagli accademici ai giovani, passando per star della Tv e figlie dell’èlite: «shock» e «vergogna» sono le due parole che più di tutte si sentono e leggono sui social tra i russi, tre giorni dopo l’inizio dell’attacco delle truppe di Mosca all’Ucraina. La guerra nel Paese considerato fratello ha travolto la società russa, soprattutto nelle grandi città, scatenando non solo le proteste di piazza di venerdì – chiuse con oltre 1.800 arresti giovedì – ma anche la reazione di dissenso di figure interne al sistema.

Il conduttore della Tv pubblica Ivan Urgant, famoso tra l’altro per i suoi show canori di Capodanno tutti in italiano, ha scritto un semplice «No alla guerra» su Instagram, postando un quadrato nero in segno di lutto. Il giorno dopo, il suo programma è stato sospeso anche se la rete Rossiya24 ha garantito che continuerà a lavorare per l’emittente. Defezioni si sono registrate tra il personale straniero dell’emittente Russia Today, megafono del Cremlino, mentre «in segno di protesta» si è dimessa dalla carica di direttore del teatro statale Meyerhol di Mosca, Elena Kovalskaya. «Non puoi lavorare per un assassino e ricevere da lui lo stipendio», ha scritto su Facebook.

Elena Chernenko, la più celebre giornalista russa di politica estera che lavora al quotidiano Kommersant (di proprietà di uno degli oligarchi vicini a Vladimir Putin, Alisher Usmanov) è stata espulsa dal pool del ministero degli Esteri, dopo aver lanciato una petizione contro la guerra che ha raccolto centinaia di firme in poche ore. Le petizioni per dire no al conflitto si moltiplicano: quella promossa dall’attivista per i diritti umani Lev Ponomarev sul sito Change.org, che chiede la fine dell’invasione russa, ha ottenuto oltre mezzo milione di firme in poco più di 24 ore. Il giorno dopo l’invasione, un gruppo di ricercatori e giornalisti scientifici russi ha scritto un lettera aperta di condanna dell’aggressione militare. «Si tratta di una decisione fatale che causerà enormi perdite umane e minerà le basi del sistema di sicurezza collettiva», recita il testo firmato da oltre 2mila studiosi, «la responsabilità per aver scatenato una nuova guerra in Europa ricade interamente sulla Russia».

Non è una dichiarazione da poco se si calcola che molti dei firmatari è membro d’istituzioni statali come l’Accademia delle Scienze russa. Tra chi ha aderito figurano anche Andrei Geim e Konstantin Novoselov, vincitori del premio Nobel nel 2010, per gli studi sul grafene. A condannare su Instagram l’invasione dell’Ucraina anche le figlie di uomini dell’èlite russa: Lisa Peskova, primogenita del portavoce del Cremlino Dmitri Peskov e Sofia Abramovich, figlia di uno degli oligarchi della prima ora, Roman Abramovich. «La Russia vuole la guerra con l’Ucraina», con la parola “Russia” barrata e sostituita da “Putin”, ha scritto Sofia Abramovich, aggiungendo che «la più grande e più efficace bugia della propaganda del Cremlino è che la maggior parte dei russi sono con Putin».

Già due settimane fa, i sondaggi indipendenti del Levada registravano un fatto inedito: la guerra era la seconda paura più grande dei russi. Sempre il Levada ha rilevato, pochi giorni fa, che solo il 45% dei russi è in favore del riconoscimento delle due repubbliche separatiste del Donbass, a cui poi è seguito l’intervento militare.

 Anna Zafesova per “il Foglio” il 26 febbraio 2022. 

(…) Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov dice che la Russia “non ha intenzione di invadere” mentre i carri armati russi sono alla periferia di Kyiv. (…) E Vladimir Putin insiste che il governo ucraino è una “banda di drogati neonazisti” assistiti da “consulenti americani”, mentre gli ucraini si preparano in massa a difendere le loro città.

(…)  Sono le stesse bugie che raccontano i media (…), per convincere i russi che a) non si tratta di una guerra, b) anche se fosse una guerra, è giusta e preventiva, c) magari non si chiama guerra, ma è un trionfo: gli ucraini si stanno arrendendo a battaglioni.

È la stessa narrazione usata da sempre dall’Unione sovietica, per tutte le sue guerre di invasione (…) Una fede quasi magica nelle parole, e l’insistenza della propaganda putiniana sulla sua terminologia diventa a sua volta un ulteriore motivo di scontro con l’occidente che si rifiuta di riconoscere che i bombardamenti di Kyiv e Kharkiv abbiano come obiettivo la “liberazione” dell’Ucraina dalla “oppressione del governo nazista”. 

Ed è proprio questa dissociazione cognitiva orwelliana a spezzare, all’improvviso, la pazienza rassegnata di molti russi. Il silenzio, la paura, il talento di guardare altrove ed evadere nella vita privata affinati ancora sotto il totalitarismo sovietico e rispolverati negli ultimi mesi di arresti e censure del dissenso, non resistono di fronte a quella che appare la madre di tutte le bugie.

Tra l’altro, proprio la retorica dei “popoli fratelli” va a ritorcersi contro il regime, perché molti russi condividono con Putin l’incapacità di credere in una Ucraina indipendente dalla Russia, ma proprio per questo non riescono a capacitarsi di una Russia che bombarda l’Ucraina. 

I post “No alla guerra” si moltiplicano, alla protesta social si uniscono anche la figlia dell’oligarca Roman Abramovich, del portavoce di Putin Dmitri Peskov, e tanti altri insospettabili. (…) Un risveglio improvviso, che spinge le autorità russe a prendere, per la prima volta, provvedimenti per limitare la diffusione di Facebook.

Zelensky vs. Putin: la guerra della comunicazione si mette male per la Russia. Luca Poma su Affari Italiani Sabato, 26 febbraio 2022.

Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin: la guerra in Ucraina mette a nudo due diversi stili di comunicazione, analizziamo le differenze.

“Buongiorno a tutti gli Ucraini. Circolano informazioni false su internet che dicono che io starei chiedendo al nostro esercito di deporre le armi e che è in corso un’evacuazione. Bene, io sono qui, a Kiev. Non deporremo le armi, e difenderemo il nostro Stato, perché la nostra arma è la verità, e la verità è che questa è la nostra terra, il nostro Paese, i nostri figli, e noi difenderemo tutto questo. Questo è ciò che volevo dirvi, gloria all’Ucraina.”

Questa è la trascrizione letterale di un video registrato e diffuso oggi di prima mattina dal Presidente della Repubblica di Ucraina Volodymyr Zelensky, da Kiev, dove guida la resistenza nelle città sotto attacco delle forze della Federazione Russa, che hanno invaso l’Ucraina 3 giorni fa.

In un precedente video registrato ieri a tarda sera, sempre a Kiev, con indosso un maglione in stile militare, aveva detto: “Siamo qui, siamo a Kiev, stiamo difendendo l’Ucraina. Sono io l’obiettivo di Putin, e la mia famiglia è l’obiettivo numero due”, scandendo lentamente e convintamente le parole, e indicando poi – uno per uno – i quattro fedelissimi del Governo accanto a lui. La moglie e i due figli sarebbero infatti ancora nel Paese, e secondo i servizi di intelligence la famiglia Zelen’sky sarebbe il primo target di Mosca: Putin avrebbe dato ordine di eliminare il Presidente a qualunque costo.

Volodymyr Zelenskyi: da attore a presidente sotto assedio

44 anni, Volodymyr Zelenskyi è a capo della repubblica semipresidenziale dell’Ucraina da pochi anni. Nato nel gennaio del 1978, da padre docente e madre ingegnere, si laurea in giurisprudenza, e diventa poi nel 1997 un attore comico, senza alcuna contiguità con il mondo della politica. Gli ucraini lo conoscono bene per il personaggio che interpreta nella trasmissione “Servitore del popolo”: un professore di storia onesto che decide di diventare presidente sfidando gli oligarchi ucraini. Il passo dalla fiction alla realtà è sorprendentemente breve: sulla scia del successo del programma TV, insignito anche di diversi premi internazionali, Zelenskyi fonda l’omonimo partito, Servitore del popolo, si candida alle elezioni e il 20 maggio 2019 vince le presidenziali con il 73,22% dei voti. Il suo partito vince inoltre le elezioni politiche indette subito dopo la sua elezione, conquistando la maggioranza in Parlamento.

Filoeuropeista, Zelen’sky, ha spinto fin da subito per l’ingresso dell’Ucraina nell’UE (anche se nessun dossier per l’ingresso ne nell’Unione ne tanto meno nella NATO è stato fin qui formalizzato), scatenando così le ire del Cremlino. Ha voluto senza esitazione prendere le distanze dalla Russia di Putin, che considererebbe l’Ucraina ancora come una sua appendice, con il sogno di restaurare il dominio territoriale dell’ex URSS. Le dichiarazioni del neo Presidente Ucraino furono inequivoche: “Vogliamo un’Ucraina forte, potente e libera, che non sia la sorella minore della Russia, che non sia un partner corrotto dell’Europa, ma che sia solo la nostra Ucraina indipendente”.

Ora la crisi è al suo apice, con l’esercito Russo che è penetrato da più fronti in Ucraina e preme sulla capitale. Per certo si sa che gli americani avevano già messo a disposizione un elicottero militare con adeguata scorta, destinazione Leopoli, due giorni prima che cominciasse l’invasione, ma niente da fare: il Presidente non è scappato. Il Corriere della Sera riporta quanto segue: “’Giovedì sera ci ha impressionati’, racconta uno sherpa UE che ha sentito una sua telefonata dal nascondiglio segreto preparato per tempo, a prova d’intercettazioni: ‘Eravamo in videoconferenza e a un certo punto Zelensky ha detto: Questa potrebbe essere l’ultima volta che mi vedete vivo…. E si vedeva che non recitava, l’angoscia del momento c’era tutta’”.

Ucraina, l'ex comico Zelensky: il successo del suo nuovo personaggio

L’ex comico, Presidente apparentemente forse un po’ improvvisato, in queste ore buie per l’intera Europa, e tragiche per l’Ucraina, sapientemente e del tutto inaspettatamente sta dipingendo con successo il contorno del suo nuovo personaggio, poggiato su pilastri robusti e di prim’ordine: coraggio, coerenza, sprezzo del pericolo, attaccamento ai valori della sua Patria, resistenza a costo della vita.

Russia, Putin: stile in TV serio, leggermente sovrappeso

Lo “stile” di Vladimir Putin per contro appare in TV serio, leggermente sovrappeso dopo i quasi due anni di totale isolamento per il Covid, che pare avergli generato molta ansia: nella Sua Dacia ha fatto predisporre un sofisticato sistema di sterilizzazione anti-virus, con quarantena obbligatoria di 7 giorni per chiunque lo volesse vedere, tanto che recentemente il Segretario Generale dell’ONU, in viaggio in Russia per incontri istituzionali, non è riuscito a combinare un incontro. Chiuso in sé stesso, i bene informati osservano come non ascolti più con attenzione neppure le voci dei Suoi più stretti Consiglieri. Al Cremlino si respira un’aria pesante, come quando in una riunione ieri l’altro ha convocato i vertici delle Forze Armate e dell’Intelligence chiedendo a margine di una conferenza stampa a reti unificate: “Siamo tutti d’accordo sulla strategia di gestione della questione Ucraina?”. Calato il gelo, nessuno ha fiatato, tutti hanno fatto cenno di si con la testa, un’immagine che ha ricordato Hitler quando interrogava, a scopo meramente formale, i suoi generali.

Zelensky vs. Putin: il successo del presidente ucraino su quello russo nella guerra della coomunicazione

A fronte di uno Zelenskyi in mimetica, che entra ed esce dal bunker, e si muove agilmente in Kiev dando ordini alle truppe e tenendo viva la resistenza – inaspettata – del popolo Ucraino, Putin fa poi un altro scivolone dal punto di vista reputazionale: sollecita i generali Ucraini a “tradire il Presidente”, chiedendo alle alte gerarchie dell’esercito di Kiev di destituirlo: “Se volete salvare Kiev, prendete il potere nelle vostre mani, sarà più facile per me negoziare con voi, piuttosto che con questa banda di drogati e neonazisti che si è stabilita a Kiev”, spiega Putin con il volto livido.

Alle accuse di contaminazioni naziste in Ucraina mosse da Putin, Zelensky aveva già risposto con un video diventato virale, girato durante il primo giorno dell’invasione, dicendo: “La Russia ci ha attaccato a tradimento questa mattina, come ha fatto la Germania nazista negli anni della Seconda guerra mondiale. Vi hanno detto che siamo nazisti, ma come fa un popolo a essere nazista quando ha perso oltre 8 milioni di vite nella vittoria contro il nazismo? Come posso essere io accusato di essere un nazista? Chiedetelo a mio nonno, che ha combattuto tutta la Seconda guerra mondiale nella fanteria dell’Armata Rossa ed è morto con i gradi di colonnello dell’Ucraina indipendente”.

Putin: Rolex e colpi bassi

In ogni caso, un appello “al golpe” viscido e poco onorevole, quello lanciato dallo “zar” Putin, che vorrebbe ricostruire la grande Russia ma deve anche fare i conti con significativi problemi economici che mettono a rischio la tenuta sociale nel suo Paese: stipendi medi di 300 dollari o poco più, in larga parte ai limiti della sussistenza, un PIL inferiore a quello della sola Italia, all’orizzonte mesi se non anni di lacrime e sangue per le nuove sanzioni – durissime – decise da UE e USA, e il pugno duro non solo più contro dissidenti politici e giornalisti, ma ora anche contro la popolazione civile; solo ieri, 1.500 arresti tra manifestanti pacifici che nelle città più importanti della Russia imbracciavano cartelli con scritto “Questa non è la guerra della Russia, è la guerra di Putin”.

Mentre l’occidente blocca il suo (assai ingente) patrimonio personale all’estero, Forbes fa il conto del valore degli orologi da polso del Presidente Putin come sono apparsi nelle foto ufficiali: oltre 550.000 euro. In molti si chiedono: sarebbe questo il “padre della nazione” che mette sempre al primo posto gli interessi dei suoi cittadini? Lo storytelling farlocco orchestrato dal Cremlino, e che ha tenuto banco per 20 anni, inizia a mostrare le prime – vistose – crepe.

Opposta la narrazione di Volodymyr Zelens’kyi: da sempre nemico di oligarchi e della casta corrotta e arricchita, che spadroneggia in Ucraina come in Russia e fin dai primi giorni nel mirino del suo mandato presidenziale, è ora in “trincea” per il suo popolo. Nonostante gli USA abbiano nuovamente rinnovato ieri le offerte per un corridoio di fuga da Kiev adeguatamente protetto, ha detto: “Ho bisogno di munizioni anticarro, non di un passaggio”. Passaggio che i Russi sostengono però alla fine abbia accettato, riparando questa mattina a Leopoli, a pochi chilometri dal confine con la Polonia: nessuna replica per ora dal Presidente Ucraino, la battaglia della propaganda quindi continua.

Zelensky Vs. Putin: per concludere

Come ben sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operare. Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, capacità di gestire scenari di crisi e propensione ad assumersi le proprie responsabilità, tono deciso ma caldo, da comandante in capo responsabile per il proprio popolo: ecco i pilastri sui quali Volodymyr Zelen’skyi sta efficacemente costruendo la propria rinnovata immagine, a rischio della vita.

Putin è isolato e “paria” per pressoché tutte le nazioni del mondo, con la Russia schiacciata dalla sua arroganza e macchiata dal crimine dell’invasione di uno Stato sovrano in Europa. Forse vincerà sul terreno, e porterà a casa il successo della sua “operazione militare speciale”, ma dal punto di vista della gestione della reputazione e del nation branding, a dispetto degli enormi mezzi dedicati alla propaganda, specie on-line, il Presidente Russo, in realtà, ha già perso questa guerra della comunicazione.

AGGIORNAMENTO del 26/02/22 h 19:23: a proposito di ecosistemi digitali, il noto collettivo internazionale di cyberattivisti “Anonymous” si è schierato contro le attività militari di Mosca. Dopo la TV di Stato russa “RT News”, sono stati messi off-line il sito del Ministero della Difesa, del colosso del gas Gazprom, dell’azienda statale di armamenti Tetraedr, e infine – clamorosamente – mentre scriviamo anche il sito della Presidenza Russa Kremlin.ru è irraggiungibile. «Vogliamo mandare messaggi al popolo russo perché possa essere libero dalla macchina della censura statale». Chi di cyberwar colpisce… dal blog creatoridifuturo.it

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” il 25 giugno 2022.  

Vien da chiedersi cosa avrebbero fatto o detto a Bianca Berlinguer se il suo programma andasse male in ascolti. No, davvero, perché nonostante il successo di pubblico la nostra è ormai puntualmente massacrata. Persino adesso che #Cartabianca è finito, c'è chi continua a polemizzare. L'ultimo della (lunghissima) lista è Aldo Grasso: il noto giornalista del Corriere della Sera ha scritto un piccato articolo sui talk show, esordendo così: «È finita Cartabianca e, in tutta onestà, spero non torni più».

Secondo Grasso ci sarebbe un problema alla base di tutti i talk show Rai che, a suo avviso, ormai «inquinano il dibattito pubblico, creano mostri e diffondono menzogne e malafede» mentre andrebbero guidati da «persone che sappiano affrontare la complessità» della realtà. Il pregresso di cotanto astio è noto: Berlinguer è diventata invisa al mondo intero nel momento in cui ha dato spazio a Alessandro Orsini, le cui posizioni sono considerate filo-russe.

Da allora, i rossi compagni della Berlinguer le hanno voltato le spalle. Come è noto, si è provato persino a fare chiudere il programma, salvato da Carlo Fuortes. Non fosse stata per l'entrata a gamba tesa dell'ad Rai, #Cartabianca sarebbe già diventata #Cartastraccia.

Il programma è stato quindi confermato per l'autunno eppure c'è chi, come Grasso, ne invoca la chiusura. Berlinguer ha fatto l'unica cosa che al momento le è consentita: difendersi. Da sola. Inutile sperare in alleati. 

Così, ha pubblicato un post di fuoco su Facebook iniziando con il sottolineare il conflitto di interessi alla base dello stigma di Aldo Grasso. Il ragionamento è semplice: per chi scrive Grasso? Per il Corriere. E chi è l'editore? Cairo. E cosa fa Cairo in tv? DiMartedì su La7, che è diretto concorrente della Rai.

«Ma vi sembra normale che il critico televisivo del gruppo editoriale al quale appartiene la trasmissione mia diretta concorrente, Dimartedì, si auguri la chiusura d'autorità di Cartabianca?», esordisce su Facebook Berlinguer. «E dico "d'autorità" dal momento che gli ascolti ci hanno costantemente premiato, ma per Aldo Grasso la risposta positiva del pubblico sarebbe un criterio valido solo per le tv commerciali perché i loro bilanci dipendono dagli ascolti, non per il servizio pubblico. La Rai, finanziata in parte dal canone, cioè dai soldi dei cittadini, dovrebbe invece disinteressarsi del consenso degli ascoltatori».

A questo punto la Berlinguer sfata il falso mito degli ascolti che non contano: «Ma chi altri dovrebbe giudicare, se non quegli stessi cittadini che pagano il canone e gestiscono il telecomando, della qualità e del gradimento di una trasmissione? O a decidere del destino di un programma devono essere, in singolare sintonia, il critico televisivo del gruppo editoriale concorrente e una parte della classe politica?». L'obiezione non fa una piega.

Vediamo cosa risponderà Grasso o uno dei tanti franchi tiratori di Berlinguer che, a quanto pare, non hanno nessuna voglia di prendersi una vacanza.

Gli italiani, la pace e i silenzi sui crimini di Mosca. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.  

Decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze russe, della deportazione di 300.000 bambini 

Ma si troverà prima o poi qualcuno in Italia disposto a spendere il proprio nome chiamando certe cose con il loro nome? Si troverà pure prima o poi qualche pensoso intellettuale, qualche celebre attore o accademico, qualche eminente prelato noto alle cronache o almeno qualche conduttore di talk show, disposto a parlare chiaro e a dire che quello che le autorità russe stanno facendo in Ucraina è qualcosa che prima di oggi solo Hitler e Stalin avevano osato fare? Magari auspicando anche un tribunale per giudicare le loro colpe? Non parlo della guerra che Putin ha scatenato il 24 febbraio. La guerra, si sa, è una sporca faccenda in cui non si va per il sottile. Sono sacrosanti i tentativi di darle qualche regola, naturalmente, ma bisogna rassegnarsi al fatto che il più delle volte queste regole lascino il tempo che trovano. Nulla e nessuno, ad esempio, riuscirà mai ad impedire ad un belligerante l’uso di un’arma cosiddetta «proibita» (tipo le bombe a grappolo che i russi infatti impiegano con la massima disinvoltura) se non il timore che pure l’avversario impieghi la medesima arma contro di lui.

Ma qui si tratta di cose diverse, di cose che con la guerra, con lo scontro tra i combattenti non c’entrano nulla. Qui si tratta di decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla (quindi di presumibili soppressioni) di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze di Mosca.

Di un feroce e radicale tentativo di snazionalizzazione di tutti i territori occupati, a base di libri in lingua ucraina proibiti e distrutti, del divieto di istruzione nelle scuole secondo i programmi fin qui adottati, di soppressione di tutti i mezzi di comunicazione (radio, tv, telefonia) e di connessione che non siano quelli russi. E si tratta infine — fatto di una crudeltà inimmaginabile, repugnante ad ogni animo umano — della deportazione in Russia non si capisce a qual fine (semplicemente per privare di forze future il nemico? Per «rieducarli»? Per darli in adozione?) di migliaia e migliaia (c’è chi dice trecentomila!) bambini ucraini. Si badi: di ognuna di queste azioni compiute dalle autorità russe vi sono troppe notizie circostanziate, troppe prove raccolte sul campo, troppe testimonianze dirette, perché si possa nutrire un ragionevole dubbio su quello che è il dato centrale: nei territori dell’Ucraina che occupa, Mosca sta mettendo in atto una vera e propria politica di tipo genocidiario mirante alla cancellazione di fatto dell’identità nazionale di quel popolo. Una politica del tutto analoga a quella che la Germania nazista mise in atto, ad esempio, durante la Seconda Guerra mondiale nella parte di Polonia occupata che intendeva annettere. Non si prefigge del resto oggi il medesimo scopo Putin?

Ebbene, ma se questo è vero bisogna allora dire alto e forte che è inutile, addirittura grottesco, che un Paese coltivi in tutte le occasioni la sua memoria antifascista, celebri ogni anno la «giornata della memoria» e la «giornata del ricordo», non cessi di evocare ad ogni occasione le colpe di chi contro le infamie del totalitarismo ottanta anni fa «doveva parlare ma non parlò», per poi oggi osservare, invece, un sostanziale silenzio su quanto sta accadendo dalle parti del Donbass e dintorni.

Sì, come avete capito, quel Paese è l’Italia. Siamo noi. Come è possibile che il nostro discorso pubblico ma anche quello culturale e religioso (certo, anche quello culturale e religioso) avvezzi così tanto a frequentare i diritti umani, la legalità, la solidarietà, la giustizia, preferiscano però discettare magari sulla «pace» ma di fatto continuino da settimane a non dire nulla circa i crimini su grande scala che la Russia sta commettendo in Ucraina? L’unica speranza di fermare i quali è invece che se ne parli, che se ne parli molto (in modo tra l’altro che Sua Eccellenza l’ambasciatore Razov informi adeguatamente il suo governo) e forse che non ci si limiti a parlare. Ma magari anche per auspicare che gli organi di giustizia internazionale si attivino maggiormente per raccogliere prove e nomi di sospetti criminali russi, di responsabili russi, da trascinare domani in giudizio come si fece ottanta anni fa in una città tedesca che tutti sappiamo come si chiamava.

I talk, la contrapposizione e la ricerca dell’ospite «scomodo». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.  

Se si invitano persone normali, anche preparate, c’è il rischio della prevedibilità, della monotonia. La rottura sta solo nella rissa. 

È finita #cartabianca e, in tutta sincerità, spero non torni più. Non mi riferisco alla trasmissione in sé, né alla conduttrice (per me Bianca Berlinguer potrebbe anche presentare Sanremo), ma al modello di talk show del servizio pubblico. Ogni volta che il reale appare nella sua drammaticità, dobbiamo registrare come i talk inquinino il dibattito pubblico, creino «mostri», diffondano menzogne e malafede, favoriscano l’indistinguibilità. Per questo, l’ospite più ricercato è quello considerato «scomodo», l’intellettuale dai toni wagneriani, costantemente in dissenso. La negazione, si sa, è lo «scomodo» di ogni cultura e avere a disposizione uno spazio di alterità cui delegare le nostre inquietudini torna sempre utile. Così il conduttore può affermare: «Il mio è un programma che fa parlare tutti». Se si invitano persone normali, anche preparate, c’è il rischio della prevedibilità, della monotonia (come il talk di Gianrico Carofiglio).

La rottura sta solo nella rissa: per questo, nella scelta degli ospiti, bisogna considerare la contrapposizione, il tafferuglio, il parapiglia. Anche in termini linguistici, il talk è un esercizio intrinsecamente populista (ragion per cui i più bravi non li frequentano, non è il loro ambiente). Normale che ciò succeda nelle tv commerciali perché i loro bilanci dipendono dagli ascolti, dalla pubblicità. Ma la Rai può fare qualcosa di diverso? O si limiterà ancora, stancamente, a sventolare le bandiere del pluralismo, dell’obiettività, della completezza dell’informazione (inganni atroci)? Lo spazio dell’opinione televisiva è quello di una negoziazione continua tra nobili aspirazioni a informare e logiche «volgari» del mezzo, compresi gli ascolti; questo vale anche per il servizio pubblico. A maggior ragione, i talk in Rai vanno guidati da persone che sappiano affrontare la complessità, sia pure senza rinunciare a una linea dichiarata, a una passione ironica e disincantata.

Il mondo capovolto e la nuova diplomazia. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2022. 

Il mondo alla rovescia. Il tema del mondo capovolto, dove i ruoli di preda e cacciatore, ricco e povero, forte e debole vengono invertiti con un effetto comico, è un tema antichissimo. Nelle feste di Carnevale, i giullari incoraggiavano il popolo a esprimere, attraverso la parodia, il rovesciamento dei valori.

Qui è Carnevale tutto l’anno, qui tutti vanno in tv a fare i giullari. Il combattivo Michele Santoro difende l’agguerrito Matteo Salvini, «attaccato perché è per la pace». Marco Rizzo, segretario di un Partito comunista, appoggia l’ex leghista Francesca Donato, no vax, no euro, sì Putin, candidata sindaca a Palermo. Angelo Guglielmi, il mitico ex direttore di Rai3, stigmatizza la decadenza dei talk show ma salva Bianca Berlinguer: «#Cartabianca è la più scanzonata, le sue sveltezze sono stimolanti».

L’inadeguatezza, alla rovescia, si chiama scanzonatezza. La Nazionale continua a collezionare brutte figure (salvo ieri sera) ma il ct Roberto Mancini ribadisce di avere «entusiasmo da vendere», come se le scelte dei giocatori e dei moduli di gioco dipendessero da altri. «Mi manda Capuano» è la nuova parola d’ordine della diplomazia. Potremmo andare avanti così, di rovescio in rovescio.

A furia di giravolte, il mondo alla rovescia non riesce più a farsi beffe di un mondo perennemente rovesciato. 

Il richiamo della foresta rossa. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2022.

Dobbiamo condannare l’aggressore e sostenere l’aggredito. L’equidistanza, davanti all’orrore che vediamo, è una forma di astensione. Un errore che abbiamo già commesso, nel XX secolo, e l’abbiamo pagato caro.  

Ascolto e leggo - ogni giorno, da più di tre mesi - affermazioni strabilianti sull’invasione dell’Ucraina. L’infamia - come vogliamo chiamarla? - viene taciuta; le responsabilità, sfumate; l’orrore, addolcito. Poiché quelle opinioni arrivano anche da persone intelligenti, mi domando: c’è qualcosa che mi sfugge? La guerra è una grandine che distrugge i pensieri. Forse sta accadendo anche a me, e non me ne rendo conto.

Qualche esempio del mio stupore. Carlo Rovelli, fisico: «Bisogna uscire da questa logica per cui bisogna stare da una parte o dall’altra». Mi perdoni, professore, ma questa logica appare invece rigorosa. Dobbiamo condannare l’aggressore e sostenere l’aggredito. L’equidistanza, davanti all’orrore che vediamo, è una forma di astensione. Un errore che abbiamo già commesso, nel XX secolo, e l’abbiamo pagato caro.

Ginevra Bompiani, editrice e scrittrice: «Fino all’anno scorso prendevo come unità di misura il Covid, ma era più facile perché nessuno aveva una posizione ragionevole (...) Ora con la guerra è diverso, perché la metà del Paese è contro il governo sull’invio delle armi» e «Draghi se ne frega». Mi scusi, ma esiste un parlamento, e sostiene la posizione del governo. E poi: se non aiutiamogli ucraini a resistere, dovranno arrendersi, con le conseguenze del caso. Oppressione per loro, nuovi rischi per noi.

Michele Santoro, giornalista televisivo: «Putin non è il nostro peggior nemico, il nemico più mostruoso è la guerra». Mi perdoni, il decorato collega, ma davvero non capisco. Chi l’ha scatenata, questa guerra? Io? Lei? Il Grande Puffo? Questa guerra insensata - città distrutte, civili uccisi, bambini deportati, rischi globali - l’ha voluta, preparata (negandolo) e scatenata una persona, e si chiama Vladimir Putin. E lui potrebbe farla smettere: anche oggi. Vogliamo dirlo?

Ho scelto tre persone, ma potrei elencarne trenta o trecento, anche tra amici e conoscenti. Esiste un comun denominatore? Forse sì, ed è biografico. Ho la sensazione che quanti, in gioventù, hanno guardato con fastidio all’America e con speranza al comunismo oggi fatichino a giudicare un regime che dice d’ispirarsi all’Unione Sovietica. Sanno che Putin è un tiranno, certo. Ma il richiamo della foresta rossa agita i pensieri.

Il consenso per Putin? Figlio di una "propaganda aggressiva come in epoca sovietica". Euronews Italiano il 4 giugno 2022.

La retorica della grande Russia, del genocidio perpetrato da Kiev nel Donbass, l'idea che la NAto voglia espandersi ancora ed ancora ad est. C'è tutto questo nelle emissioni della propaganda del Cremlino e per la gran parte dei russi che si informano solo con la TV, è verità. Ma se due mesi fa secondo il Levada Center il consenso per l'attacco militare contro l'Ucraina era ad oltre l'80 per cento, oggi, secondo un sondaggio dello stesso centro sociologico, l'unico indipendente in Russia classificato dalle autorità come agente straniero, il consenso scende al 73 %. Comunque numeri bulgari che il direttore del centro, il sociologo Lev Gudkov, spiega così: "In pratica c'è un blocco totale delle informazioni e la censura. Un'enorme massa della popolazione riceve notizie solo in TV. E dalla TV arriva una demagogia così aggressiva dritta verso il pubblico, bugie e propaganda, manipolazione delle immagini e suggestioni davvero molto forti. "

La propaganda ha alzato i livelli che si erano sviluppati, ed erano caratteristici, dell'era sovietica: questa è la psicologia di una fortezza assediata Lev Gudkov Direttore del Levada Center 

"Non stiamo parlando solo dell'effettivo impatto improvviso della propaganda, - continua Gudkov - la questione è molto più seria, la propaganda ha alzato i livelli che si erano sviluppati, ed erano caratteristici, dell'era sovietica: questa è la psicologia di una fortezza assediata, della lotta con l'Occidente, questo è consolidamento attorno alla leadership del Paese, in generale sembra che l'intero contesto sia tornato all'epoca sovietica: contrapporsi all'Occidente, due potenze, combattere il nemico e fare affidamento sul capitale morale acquisito con la vittoria sul nazismo".

La lettera Z usata come propaganda pro Putin: reato penale in Germania

 "La retorica della lotta al nazismo, a prescindere da chi verrà dichiarato nazista oggi. C'è appoggio alla guerra, c'è approvazione per le azioni di Putin, il suo rating rimane ad un livello molto alto, come è sempre accaduto durante le campagne militari, durante la seconda guerra in Cecenia, la guerra in Georgia o l'annessione della Crimea. Ora il consenso si avvicina al suo picco più alto".  

La rete di Putin in Italia: chi sono influencer e opinionisti che fanno propaganda per Mosca. Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2022.

Il materiale raccolto dal Copasir individua i canali usati per la propaganda e ricostruisce i contatti. Così la «macchina» fa partire la controinformazione nei momenti chiave attaccando i politici pro Kiev e sostenendo quelli dalla parte dei russi. 

La rete è complessa e variegata. Coinvolge i social network, le tv, i giornali e ha come obiettivo principale il condizionamento dell’opinione pubblica. Si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia. La rete filo-Putin è ormai una realtà ben radicata in Italia, che allarma gli apparati di sicurezza perché tenta di orientare, o peggio boicottare, le scelte del governo. E lo fa potendo contare su parlamentari e manager, lobbisti e giornalisti.

L’indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall’intelligence individua i canali usati per la propaganda, ricostruisce i contatti tra gruppi e singoli personaggi e soprattutto la scelta dei momenti in cui la rete, usando più piattaforme sociali insieme — da quelle più conosciute come Telegram, Twitter, Facebook, Tik Tok, Vk, Instagram, a quelle di nicchia come Gab, Parler, Bitchute, ExitNews — fa partire la controinformazione.

L’invio delle armi

Agli inizi di maggio, quando l’esercito russo appare in difficoltà sul campo, l’argomento privilegiato è l’invio delle armi italiane all’Ucraina. La campagna di strumentalizzazione via social si concentra sull’immagine delle bolle di spedizione dei dispositivi militari, sottolineando la data dell’11 marzo: una settimana prima dell’approvazione del decreto in Parlamento che avverrà il 18 marzo. A condurre gli attacchi è Maria Dubovikova, giornalista russa che vive a Mosca e ha oltre 40mila followers su Twitter con l’account @politblogme. Nel mirino finisce Pietro Benassi, rappresentante diplomatico italiano presso l’Ue nonché ex consigliere diplomatico di Conte a Palazzo Chigi. Ma il vero bersaglio delle imboscate via social è Draghi, la cui maggioranza ha ben tre leader, Salvini, Berlusconi e Conte, che non si sono schierati senza se e senza ma con l’Ucraina, il Paese aggredito da Putin.

«Non in mio nome» è il motto rilanciato su decine di profili filorussi dell’estrema destra, che spesso si incrociano con negazionisti del Covid e no vax, per contestare a Palazzo Chigi di aver spedito le armi «senza il consenso del popolo italiano». Le accuse ricorrenti a Draghi vanno dal «mandarci in guerra» mettendo a rischio la sicurezza della nazione «per l’ambizione di diventare segretario generale della Nato», all’«aver causato l’aumento del costo dei generi alimentari ed energetici e la chiusura di numerose aziende».

Il 3 maggio, quando Draghi critica duramente in conferenza stampa l’intervista rilasciata dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov a Rete4, su Twitter — che secondo il report fa spesso da «cassa di risonanza delle fake news» — si scatenano i post. «Non tutela gli interessi italiani e ha un’impostazione dittatoriale», è l’accusa contro il premier, che rimbalza sui social in sintonia con la portavoce di Lavrov, Maria Zakharova, la quale accusa «i politici italiani di ingannare il loro pubblico».

Il bombardamento di messaggi anti governativi e filo-putiniani aumenta in corrispondenza dei passaggi politicamente decisivi. Così è stato quando si è votato la prima volta sull’invio di armi e così sarà il 21 giugno, quando si voterà la risoluzione sulla guerra invocata dal M5S di Conte. In questa scia si fa notare Giorgio Bianchi, definito dai report periodici che gli apparati di sicurezza inviano al governo «noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso». Bianchi gestisce il canale Telegram Giubbe Rosse (@rossobruni), che conta almeno 100 mila appartenenti e ha preso di mira più volte il presidente del Copasir, Adolfo Urso.

Ucraini neonazisti

Quello degli ucraini bollati come «neonazisti» è un filone molto battuto dai sostenitori di Putin e spesso rilanciato da Alberto Fazolo. È un economista e pubblicista che in tv e su Facebook ha sostenuto che «i giornalisti uccisi in Ucraina negli ultimi 8 anni sono 80 e questo numero elevato è correlato alla presenza di formazioni paramilitari di matrice neonazista». In realtà, evidenziano gli analisti, «i giornalisti uccisi a partire dal 2014 sono circa la metà, ma il post di Fazolo ha registrato moltissime condivisioni sia su profili Facebook filorussi, sia su canali Telegram».

Il piano del 2019

Manlio Dinucci ha 84 anni, è un geografo e scrittore promotore del comitato «No Guerra No Nato». Un suo articolo che sostiene come «l’attacco anglo-americano a Russia e Ucraina era stato pianificato nel 2019» è diventato una sorta di manifesto «di mezzi di informazione statali russi e utenze che sostengono l’invasione dell’Ucraina». Passaggi del suo libro La guerra - È in gioco la nostra vita, pubblicato dalla ByoBlu Edizioni — editrice di un canale digitale e tv più volte tacciato di «disinformazione» — sono stati citati da Putin nel discorso del 9 maggio per le celebrazioni del Giorno della vittoria. Le tesi di Dinucci sono state riprese dallo stesso Bianchi, Alessandro Orsini — il docente licenziato dall’Università Luiss dopo il clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive — e Maurizio Vezzosi: 32 anni, è un reporter freelance che racconta il conflitto dall’Ucraina e invita lettori e telespettatori «a informarsi non rimanendo alle notizie in superficie perché molti ucraini pensano che Zelensky sia responsabile della situazione, molti lo ritengono un “traditore”».

La resa di Petrocelli

La rete si muove in pubblico, ma anche riservatamente. Agli inizi di maggio, quando il grillino anti governativo Vito Petrocelli si rifiuta di lasciare la presidenza della commissione Esteri nonostante gli ultimatum espliciti di Conte, gli attivisti filo Putin si mobilitano per una campagna di mail bombing verso indirizzi di posta elettronica del Senato. In prima linea ci sono canali Telegram no vax e pro Russia come @robertonuzzocanale, @G4m3OV3R e @lantidiplomatico, un sito che raccoglie documentazione per sostenere la scelta di Petrocelli di restare inchiodato alla poltrona, contro le indicazioni del partito.

Su Antidiplomatico, che negli anni in cui Grillo guardava con simpatia a Putin era vicino alle posizioni di Manlio Di Stefano e Alessandro Di Battista, è attiva anche la freelance Laura Ru. Si chiama Laura Ruggeri vive a Honk Kong e scrive su Strategic Culture Foundation, ritenuta dagli analisti «rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr» e che, assieme a Russia Today, è artefice di una campagna massiccia contro le sanzioni. La tesi della portavoce Zakharova — «l’Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia» — viene periodicamente rilanciata dal «noto giornalista e diffusore di disinformazione» Cesare Sacchetti, che sul suo canale Telegram conta oltre 60mila iscritti: «L’Ue è costretta a tornare sui propri passi e a pagare il gas in rubli».

Su questi temi si muovono, sottotraccia, anche personaggi vicini a quei partiti che si smarcano dalla linea di Draghi. Il putiniano di ferro Claudio Giordanengo, che nel 2019 si candidò per la Lega al comune di Saluzzo, sui social attacca Draghi, Speranza, Biden. Questo il suo messaggio via chat del 2 giugno: «AVVISO AI TERRORISTI - Si informa che l’Ucraina sta vendendo vari stock di armi di ogni genere. Visitate i siti!! (Dark Net). Sottocosto missili anticarro Javelin originali Usa a 30 mila euro al pezzo. Ottimo affare, il prezzo originale è 250 mila dollari cadauno. Ma a loro che importa? Gli imbecilli occidentali glieli regalano». E poiché la rete dei putiniani d’Italia va oltre i confini di partito e schieramento, Giordanengo rilancia gli attacchi a Draghi del fondatore di Italexit: «Gianluigi Paragone inchioda il premier sulla guerra: “Si muove come un socio di Biden”. Italia sottomessa sulla guerra”». Per ingrossare l’esercito dei filo-putiniani d’Italia, ci sono movimenti che agiscono attraverso i siti in lingua russa. Su VKontakte (VK) troviamo la Rete dei Patrioti, che posta (in italiano) messaggi contro Salvini, forse con l’obiettivo di «rubare» proseliti alla Lega.

La rete di Putin in Italia: ecco chi sono gli opinionisti ed influencer che sostengono Mosca. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Giugno 2022.  

Il materiale raccolto dal Copasir individua i canali usati per la propaganda e ricostruisce i contatti. Così la «macchina» fa partire la controinformazione nei momenti chiave attaccando i politici pro Kiev e sostenendo quelli dalla parte dei russi

La rete pro Putin è variegata e diffusa fra i social network, i salotti televisivi tv, ed i giornali, attaccando i politici schierati con l’ Ucraina e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia, molto attiva nei momenti chiave del conflitto con un unico scopo principale: il condizionamento dell’opinione pubblica.

La cordata filo-Putin che tenta di orientare, o ancora peggio boicottare, le scelte del governo Draghi  è ormai ben radicata in Italia potendo contare su manager, lobbisti, giornalisti e parlamentari, circostanza questa che allarma non poco i nostri servizi . L’indagine avviata dal Copasir attraverso i “servizi” italiani è arrivata ormai nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall’intelligence italiana ha messo a fuoco i canali dei sostenitori filorussi usati per la propaganda, ricostruendo le connessioni tra i singoli personaggi ed i gruppi, ma soprattutto la strategia nella scelta dei momenti in cui , usando più piattaforme sociali insieme da quelle più conosciute come Facebook, Twitter, Instagram, Telegram, Tik Tok, al russo Vk, a quelle di nicchia come ExitNews ed altre minori, la “rete” attiva la controinformazione filorussa.

il presidente russo Vladimir Putin

L’ argomento privilegiato agli inizi di maggio, quando l’esercito russo era in difficoltà sul campo di battaglia, è l’invio delle armi italiane all’Ucraina. La campagna di strumentalizzazione avviata via social si focalizza sull’immagine delle bolle di spedizione dei dispositivi militari, evidenziando la data dell’11 marzo, cioè una settimana prima dell’approvazione del decreto in Parlamento che avviene una settimana dopo e cioè il 18 marzo.

A condurre gli attacchi è Maria Dubovikova, una giornalista russa che vive a Mosca e su Twitter utilizzando l’account @politblogme annovera oltre 40mila followers . A finire nel mirino delle polemiche ed attacchi strumentali è l’ambasciatore Pietro Benassi, rappresentante diplomatico italiano presso l’Ue nonché ex consigliere diplomatico di Conte a Palazzo Chigi. Il vero bersaglio degli attacchi via social in realtà è il premier Mario Draghi, la cui maggioranza ha ben tre leader di partito e cioè Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giuseppe Conte, i quali non si sono mai schierati “senza se e senza” in favore dell’Ucraina, il Paese aggredito da Vladimir Putin.

Maria Dubovikova

Su decine di profili filorussi dell’estrema destra italiana, che spesso viaggiano insieme ai “negazionisti” del Covid e dei no vax rilanciano il motto “Non in mio nome” contestando a Palazzo Chigi di aver spedito le armi «senza il consenso del popolo italiano». Le accuse continue al premier Draghi spaziano dal «mandarci in guerra» così mettendo a rischio la sicurezza della nazione «per l’ambizione di diventare segretario generale della Nato», all’«aver causato l’aumento del costo dei generi alimentari ed energetici e la chiusura di numerose aziende». 

Lo scorso 3 maggio, allorquando il premier Draghi critica duramente in una conferenza stampa  l’intervista rilasciata a Rete4 dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov , si scatenano i post filtrassi su Twitter che spesso funge da «cassa di risonanza delle fake news». L’accusa contro il premier italiano, che rimbalza sui social è «Non tutela gli interessi italiani e ha un’impostazione dittatoriale», in perfetta sintonia con Maria Zakharova la portavoce del ministro Lavrov, che a sua volta accusa «i politici italiani di ingannare il loro pubblico». 

Vladimir Putin premia Maria Zakharova

Un vero e proprio bombardamento di messaggi anti governativi e filo-russi aumenta esponenzialmente in concomitanza dei passaggi politicamente decisivi, come avviene quando si è votato la prima volta sull’invio di armi e così accadrà il prossimo 21 giugno, quando si voterà la risoluzione sulla guerra invocata dal M5S di Conte, che rischia di essere spuntata dal pressoché sicuro “flop” elettorale del M5S in caduta libera di consensi dell’elettorato. In questa scia si fa notare tale Giorgio Bianchi, che viene indicato dai report periodici che gli apparati dei servizi inviano Palazzo Chigi, come un «noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso» il quale gestisce il canale Telegram Giubbe Rosse (@rossobruni), che conta almeno 100 mila appartenenti e più volte ha attaccato con critiche aspre il senatore Adolfo Urso presidente del Copasir.

Gli ucraini bollati vengono sovente indicati ed accusati come «neonazisti» sulla scia di una teoria mediatica molto usata dai sostenitori di Putin e che viene spesso rilanciato da Alberto Fazolo un economista e pubblicista che in tv e su Facebook, sostenendo che «i giornalisti uccisi in Ucraina negli ultimi 8 anni sono 80 e questo numero elevato è correlato alla presenza di formazioni paramilitari di matrice neonazista». Gli analisti dell’intelligence, evidenziano che in realtà, «i giornalisti uccisi a partire dal 2014 sono circa la metà, ma il post di Fazolo ha registrato moltissime condivisioni sia su profili Facebook filorussi, sia su canali Telegram».  

Manlio Dinucci è un geografo e scrittore che ha 84 anni, promotore del comitato «No Guerra No Nato». in quale sostiene in suo articolo che «l’attacco anglo-americano a Russia e Ucraina era stato pianificato nel 2019» teoria diventata una sorta di manifesto «di mezzi di informazione statali russi e utenze che sostengono l’invasione dell’Ucraina». Ne ipassaggi del suo libro “La guerra – È in gioco la nostra vita“, pubblicato dalla semiclandestina ByoBlu Edizioni società editrice di un canale digitale e tv più volte tacciato di «disinformazione» a cui Google ha tolto ogni introito pubblicitario, guarda caso sono stati utilizzati e ripresi da Vladimir Putin nel suo discorso del 9 maggio in occasione delle celebrazioni annuali a Mosca, per il Giorno della vittoria. Le tesi di Dinucci guarda caso sono state riprese da  Alessandro Orsini  il docente licenziato dall’Università Luiss a seguito del clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive, e reporter freelance Maurizio Vezzosi 32 anni, che racconta il conflitto dall’Ucraina e invita lettori e telespettatori «a informarsi non rimanendo alle notizie in superficie perché molti ucraini pensano che Zelensky sia responsabile della situazione, molti lo ritengono un “traditore”».

La rete filoputiniana si muove in pubblico, ma anche dietro le quinte. Agli inizi di maggio, quando il senatore grillino Vito Petrocelli noto per le sue posizioni anti governative si rifiuta di lasciare la presidenza della commissione Esteri nonostante gli “ultimatum” anche di Conte, ecco che gli attivisti filorussi si attivano per mettere in piedi una campagna di mail bombing rivolta agli indirizzi di posta elettronica del Senato. Fra i più attivi compaiono i canali Telegram “no vax” e “pro Russia” come @robertonuzzocanale, @G4m3OV3R e @lantidiplomatico, che raccoglie documentazione per sostenere la decisione di Petrocelli di restare inchiodato alla poltrona, contro le indicazioni del partito. 

La sede del DIS, centrale di coordinamento dei “servizi” italiani

Su Antidiplomatico che negli anni in cui Grillo guardava con simpatia a Putin era vicino alle posizioni di Manlio Di Stefano e Alessandro Di Battista, è molto attiva anche la freelance Laura Ru, la quale in realtà si chiama Laura Ruggeri vive a Honk Kong e scrive su “Strategic Culture Foundation“, che viene ritenuta dagli analisti dell’ intelligente una «rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr» e che, unitamente a Russia Today, è artefice di una campagna massiccia contro le sanzioni nei confronti di Mosca. La tesi della Zakharova portavoce di Lavrov, che «l’Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia» — viene periodicamente rilanciata dal «noto giornalista e diffusore di disinformazione» Cesare Sacchetti, il quale conta oltre 60mila iscritti sul suo canale Telegram sostiene che «L’Ue è costretta a tornare sui propri passi e a pagare il gas in rubli». 

Sottotraccia su questi temi si muovono anche personaggi “vicini” a quei partiti che si smarcano dal Governo Draghi. Come Claudio Giordanengo “putiniano” di ferro , il quale nel 2019 si candidò per la Lega al comune di Saluzzo, ed attacca Biden, Draghi e Speranz sui social . Questo il suo incredibile messaggio via chat del 2 giugno: «AVVISO AI TERRORISTI – Si informa che l’Ucraina sta vendendo vari stock di armi di ogni genere. Visitate i siti!! (Dark Net). Sottocosto missili anticarro Javelin originali Usa a 30 mila euro al pezzo. Ottimo affare, il prezzo originale è 250 mila dollari cadauno. Ma a loro che importa? Gli imbecilli occidentali glieli regalano».

La rete dei “putiniani d’Italia” oltrepassa i confini di partito . Giordanengo rilancia gli attacchi del fondatore di Italexit al premier Draghi : «Gianluigi Paragone inchioda il premier sulla guerra: “Si muove come un socio di Biden”. Italia sottomessa sulla guerra”». Per aumentare il numero di “filoputiniani” italiani, si muovono movimenti che utilizzano i socialnetwork in lingua russa. Su VKontakte (VK) si trovano la Rete dei Patrioti, che scrive e pubblica post (in italiano) con messaggi contro Salvini, con l’obiettivo di provare a «rubare» sostenitori alla Lega.

Le polemiche dopo gli articoli del Corriere. Lista di proscrizione dei ‘filoputiniani’ d’Italia, il Copasir nega tutto: “Nessuna indagine su presunti influencer pro-Russia”. Redazione su Il Riformista il 6 Giugno 2022. 

Ma da dove è sbucata fuori la lista di nomi di giornalisti, politici e opinionisti vari associati alla propaganda del Cremlino che il Corriere della Sera da domenica ha sparato in prima pagina? La ‘lista di proscrizione’ è stata attribuita dal quotidiano di via Solferino al Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che però oggi tramite il suo presidente, il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso, nega tutto.

Nessuna lista dei filoputiniani è stata stilata dal Copasir, dice Urso al mattino intervenendo su RaiNews 24: “La lista l’ho letta su giornale, io non la conoscevo prima”, assicura il senatore meloniano, che sul tema ricorda comunque l’esistenza di una indagine conoscitiva “per quanto riguarda la disinformazione e la propaganda che avviene anche, ma non solo, attraverso la rete cibernetica. E laddove lo riterremo opportuno, alla fine di questa indagine faremo una specifica relazione al Parlamento”.

Tesi confermata dal leghista Raffaele Volpi, già Presidente del Copasir ed ex Sottosegretario di Stato alla Difesa, secondo cui il comitato “non ha avuto, non ha visto né tantomeno redatto liste di nomi di influencer e opinionisti ascrivibili a vicinanze con la Russia”.

A fare ulteriore chiarezza è quindi una nota ufficiale del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che assicura di “non aver mai condotto proprie indagini su presunti influencer e di aver ricevuto solo questa mattina un report specifico che per quanto ci riguarda, come sempre, resta classificato. Peraltro, il Comitato si attiene sempre scrupolosamente a quanto previsto dalla legge 124/2007: non e’ una commissione di inchiesta, ma organo di controllo e garanzia; non ha poteri di indagine, ma ottiene informazioni dagli organi preposti, nel corso di audizioni o sulla base di specifiche richieste, anche al fine di realizzare, ove lo ritenga, relazioni tematiche al Parlamento”.

Nell’elenco dei profili dei presunti filoputiniani pubblicato dal Corriere della Sera c’erano volti noti e non: tra i primi Vito Petrocelli, senatore espulso dal Movimento 5 Stelle ed ex presidente della Commissione Esteri del Senato, oltre a Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo, spesso ospite di trasmissioni televisive e dibattiti politici.

Proprio quest’ultimo ha annunciato che farà causa per diffamazione al quotidiano dopo gli articoli a firma Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni. Rivolgendosi al direttore Luciano Fontana, il professore di sociologia del terrorismo sottolinea che “chiunque legga il contenuto di questo articolo si rende conto immediatamente che la mia foto è stata inserita a caso, immotivatamente, senza alcun senso. Il Copasir ha indagato su di me e non ha trovato assolutamente niente. Caro Luciano Fontana, so che il suo desiderio è di vedermi dietro le sbarre, ma sarà frustrato. Nessuno mi arresterà ed io continuerò a parlare contro le politiche inumane del governo Draghi in Ucraina volte a sirianizzare quella guerra dietro richiesta della Casa Bianca”. 

Altri presunti influencer del Cremlino sarebbero, secondo il Corriere della Sera, Manlio Dinucci, 84enne geografo e scrittore promotore del comitato “No Guerra No Nato”. Con lui Maurizio Vezzosi, reporter freelance; Giorgio Bianchi, gestore del canale Telegram Giubbe Rosse; Alberto Fazolo, economista e pubblicista spesso ospite in tv.

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.

Il dossier sui «putiniani» d'Italia è destinato ad ingrossarsi. Dopo l'articolo del Corriere di ieri, è la vicepresidente del Copasir Federica Dieni (M5S) a confermare il lavoro che il comitato sta portando avanti per mettere a punto la rete degli italiani filo Putin composta di politici, economisti, freelance, opinionisti: «Stiamo facendo gli approfondimenti sulle forme di disinformazione e di ingerenza straniere. Siamo in attesa di alcune risposte».

Un lavoro complesso quello del Copasir, un'indagine su tv, giornali, social network per fare chiarezza su un'eventuale minaccia «ibrida» russa che tenterebbe di influenzare il dibattito nei Paesi occidentali con propaganda, disinformazione, fake news. 

L'indagine, avviata nei primi giorni del mese scorso, fa seguito all'approfondimento già avviato sul tema, anche con le audizioni del direttore dell'Aise Giovanni Caravelli, del direttore dell'Aisi Mario Parente, del presidente dell'Agcom Giacomo Lasorella e dell'ad della Rai Carlo Fuortes. Fuortes avrebbe ragionato sulla necessità di rivedere il format dei talk, soprattutto su temi complessi come quello della guerra, evitando le contrapposizioni urlate per lasciare più spazio agli approfondimenti.

Si verificano le attività di chi avrebbe veicolato notizie false ai fini della propaganda filo russa. Il 25 aprile il senatore M5S Vito Petrocelli venne espulso dal Movimento 5 Stelle per un post su Twitter dove augurava con un'ironia sprezzante buona festa della Liberazione mettendo al posto della «zeta» normale la «Z» grande, simbolo delle armate di Putin. Era presidente della commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli e non voleva saperne di dimettersi, nonostante gli ultimatum espliciti di Conte.

Secondo quanto risulta al Copasir in quell'occasione gli attivisti filo Putin si sono mobilitati per una campagna di «mail-bombing» verso indirizzi di posta elettronica del Senato. Una campagna che il senatore Petrocelli non smentisce, ma la ridimensiona: «Erano mail contrarie alla mia rimozione dalla presidenza della commissione. Ma erano tutte mail con nome e cognome, qualcuna anche con la città», dice. Poi aggiunge: «Io non sono putiniano. Ormai nel nostro Paese c'è un neo maccartismo dilagante che continua a crescere e non si fermerà». 

È cominciato il 4 maggio il lavoro del Copasir e ulteriori elementi potrebbero essere acquisiti nella missione che il comitato farà prima a Washington il 12 giugno e poi a Bruxelles. Tra i personaggi che avrebbero fatto parte della «rete» secondo gli apparati di sicurezza c'è Manlio Ducci, 84 anni, che ha scritto un libro sulla guerra che lo stesso Putin ha citato il 9 maggio per le celebrazioni del giorno della Vittoria. Anche Alessandro Orsini ha sposato le sue tesi e con lui Giorgio Bianchi un freelance che risulta essere «stato presente in territorio ucraino con finalità politiche di attivismo politico-propagandistico filorusso».

Bianchi non smentisce la sua presenza in Ucraina, ma respinge al mittente l'accusa di essere putiniano: «Oggi fare il proprio lavoro con onestà intellettuale e dire delle cose che non sono allineate ti fa finire in questa sorta di "lista di proscrizione"». Tra gli attivisti è citato anche l'economista Alberto Fazolo e lui dice di provare «compassione per i servizi d'intelligence costretti a fare certe cialtronate». C'è poi Maurizio Vezzosi per il quale il dossier è «un goffo tentativo di delegittimazione a ogni costo».

La lista dei putiniani un “avvertimento” dei servizi segreti a leghisti e grillini? Il Corriere della Sera ha ricevuto i report prima del Copasir ma così l’intelligence scavalca il Parlamento. Paolo Delgado su Il Dubbio l'8 giugno 2022.

Tenuta a freno per ovvie esigenze diplomatiche, l’irritazione del Copasir e del suo presidente Adolfo Urso è stata negli ultimi giorni comunque palese. Di buone ragioni per essere imbufaliti i parlamentari del Comitato di controllo sui servizi segreti ne hanno sin troppe. Prima di tutto il fatto che il report dei servizi sulla disinformazione filorussa nei media e sui social italiani sia finita nella redazione del Corriere della Sera 48 prima di arrivare alla sua corretta destinazione, il Copasir stesso, secondo una delle più inveterate ma anche peggiori abitudini italiane. Poi il fatto che proprio il Copasir sia stato adoperato come paravento e in ultima analisi anche capro espiatorio. La versione cartacea del quotidiano di via Solferino lasciava capire nel titolo che la fonte erano i servizi di intelligence.

Nella versione online, però, al posto dei servizi figurava il Copasir stesso, che infatti è diventato subito il bersaglio di critiche e polemiche a partire dall’attacco durissimo di Giuseppe Conte contro le “liste di proscrizione”. Ma soprattutto il combinato tra la fuga di notizie di un’indagine appena agli inizi e la forma con la quale è stata poi diffusa dal quotidiano milanese falsa completamente l’impostazione del Comitato, che punta a un’indagine conoscitiva e non alla diffusione alla cieca di nomi, in un pastone nel quale chi esprime opinioni critiche ma pienamente legittime finisce accostato a giornalisti russi stipendiati e sospettato di essere a libro paga. Per il Copasir, infine, l’elemento saliente è individuare i metodi sui quali si basa la strategia di disinformazione e condizionamento più che additare colpevoli.

L’incidente però pone quesiti irrisolti: perché una parte dell’apparato di sicurezza ha deciso, dribblando il Copasir, di far uscire una lista con l’inevitabile conseguenza di esercitare un condizionamento sul dissenso, omologato senza mezzi termini a una losca militanza ‘ putiniana’? E ancora, quanto va messa in relazione la fuga pilotata di notizie con la convocazione dell’ambasciatore russo Razov alla Farnesina. L’ipotesi secondo cui la convocazione sarebbe stata una sorta di “ultimo avvertimento” prima della cacciata di Razov dall’Italia sembra a dir poco improbabile. Non si capisce bene quale sarebbe l’interesse dell’Italia nel diventare il Paese più falco e più impegnato in uno scontro diretto e frontale con la Russia, anche senza contare i rischi di ritorsione sul piano della fornitura di gas. D’altra parte la convocazione aveva certamente il valore di segnale, rincarato dalla scelta inusuale di specificare che la convocazione è stata decisa dal ministro degli Esteri Di Maio “di concerto con palazzo Chigi”, cioè con il beneplacito e forse anzi con la spinta diretta di Mario Draghi.

In parte il segnale è certamente destinato a essere recepito dagli alleati occidentali. Sull’Italia grava sin dall’inizio della guerra il sospetto della possibile cedevolezza, derivato in parte da precedenti storici ormai degenerati in pregiudizio, in parte dalle oggettive difficoltà che la crisi internazionale determina in Italia più che in quasi tutti gli altri Paesi occidentali, in parte dal fatto che i primi due partiti della maggioranza siano stati qui molto vicini a Putin. Più o meno obtorto collo l’Italia è dunque destinata ad alzare i toni più degli altri Paesi europei per dimostrare di essere come gli altri Paesi europei, in particolare sul fronte dei media.

Ma il segnale è anche rivolto al fronte interno in particolare, ma non solo, in vista del dibattito parlamentare del 21 giugno. Le forze politiche meno schierate, in particolare Lega e M5S, difficilmente potrebbero non prestare orecchio alle sirene di un’opinione pubblica tiepida verso la politica del governo nella crisi internazionale e contraria all’invio delle armi. La situazione non è ancora a rischio ma se l’ostilità nei confronti dell’impegno italiano crescesse e si radicalizzasse i riflessi sulla tenuta di quelli che a conti fatti sono il primo e il secondo partito della maggioranza sarebbero inevitabili. L’avvertimento è dunque indirizzato a quell’area molto composita, non sempre limpida ma di certo neppure sempre torbida, che soffia sul fuoco del dissenso.

Ma se questo fosse vero e se la fuga di notizie rispondesse a un calcolo strategico, come è possibile e forse probabile, si tratterebbe di una parte dello Stato che si muove all’insaputa di un’altra parte dello Stato stesso, e segnatamente del Parlamento di cui il Copasir, che in questa vicenda è stato ignorato e quasi usato come paravento, è espressione diretta.

DAGOREPORT l'8 giugno 2022.

Ecco come è andata. Due giorni prima che il Corriere pubblicasse la presunta "lista dei Putiniani" affibbiata dalle due giornaliste al Copasir, si è tenuto un incontro allargato sulla "disinfornazione" in Italia. Presenti i vertici del Dis e della Cybersicurezza più altri funzionari di vari ministeri (Viminale, Farnesina).

Lì è circolato un report di poco conto, fatto dall'intelligence e dei reparti cybersicurezza usando fonti aperte come se ne fanno di continuo (‘’Domani’’ ne aveva pubblicato uno a marzo, ma senza parlare di lista, dove si indicava una senatrice ex M5S e profili di Qanon). Un dossier che qualcuno degli astanti ha passato al Corriere prima ancora che arrivasse al Copasir.

Per fare un po’ di casino, il Corriere ha sparato un titolo esagerato (nessuno dei nomi è attenzionato dai servizi, non esistono liste su cui lavora l'intelligence, e ci mancherebbe pure) tirando in ballo il povero Copasir. Che però non ha alcun potere di investigare chicchessia. Ora che il pasticcio ha sollevato un polverone gigantesco (sul nulla), però, qualcuno nei servizi rischia di pagare davvero il conto.

Putinopoli. L’assurda commedia sulle «liste di proscrizione» nel paese della libertà di sputtanamento. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 9 Giugno 2022.

In Italia, in nome del diritto all’informazione, i giornali pubblicano continuamente liste di presunti corrotti, mafiosi, pedofili e molestatori, sulla base del nulla. Ma guai a definire «putiniano» chi passa le sue giornate a difendere le ragioni di Putin

di Kelly Sikkema, da Unsplash

In Italia è possibile pubblicare sui giornali liste di presunti corrotti e presunti mafiosi alla vigilia delle elezioni (ma anche durante e dopo, a dire il vero). È possibile dare del mafioso, del corrotto o dell’eversore a ministri, presidenti del Consiglio e presidenti della Repubblica sulla base di testimonianze di terza o quarta mano, sulla base di accuse crollate in tribunale o prima ancora di arrivarci, sulla base di intercettazioni telefoniche di cui è stata manipolata la registrazione o la trascrizione.

In Italia, infatti, è possibile pubblicare sui giornali, corredate di foto, le private telefonate di chiunque, su chiunque, comunque siano state intercettate, anche illegalmente (è successo), persino se tecnicamente manipolate (è successo anche questo), quale che sia il contenuto della conversazione e anche nel caso in cui la persona che parla o di cui si parla non abbia commesso alcun reato, anche nel caso in cui non sia stata mai nemmeno accusata né sospettata di averlo fatto, persino nel caso in cui l’intera vicenda non abbia, come si suol dire, alcuna rilevanza penale.

In Italia giornali, telegiornali e talk show, sulla base di simili dossier, hanno stilato ogni sorta di lista, e ogni qual volta qualcuno ha provato a dire che non era un modo di fare da Paese civile, e ha proposto di mettere un freno a questo schifo, l’intera stampa italiana, con rare eccezioni, è insorta gridando alla «censura» e al «bavaglio», in nome della libertà di informazione.

Fior di politici, registi, attori, soubrette, maestri d’asilo e professoresse di liceo sono finiti sui giornali, sotto titoli infamanti, sempre con tanto di foto, additati come pedofili, prostitute, molestatori, per il semplice fatto di essere stati accusati, sospettati o anche solo nominati da terze e quarte persone nel corso di un interrogatorio o di una telefonata o persino per un sms, esposti a qualunque calunnia e millanteria. E anche questo andazzo è stato difeso come libertà di stampa, come dovere giornalistico di dare tutte le notizie, come trasparenza.

L’unica cosa che proprio non si può dire di nessuno, a quanto pare, è di essere un sostenitore di Putin. L’unica definizione che proprio non è accettabile mettere per iscritto, se non si vuole suscitare un’ondata di indignazione per le infami «liste di proscrizione» e il vergognoso assalto ai diritti costituzionali del cittadino, è quella di «putiniano». Non conta il fatto che le persone in questione siano arrivate persino a insinuare che i massacri di Bucha gli ucraini se li fossero fatti da soli, che l’intenzione di invadere l’Ucraina da parte di Putin fosse una «fake news americana», che non bisognasse aiutare gli ucraini perché tanto Putin avrebbe vinto lo stesso in pochi giorni e che non bisognasse aiutarli perché un Putin in difficoltà era troppo pericoloso (insomma, che occorresse dargliela vinta, come avrebbe detto Totò, a prescindere). Macché. Il fatto non conta mai niente.

L’unica notizia di cui i giornali non possono dare conto è il fatto che nel pieno di una guerra, sulla base di segnalazioni dei nostri servizi segreti e dei servizi alleati, il comitato parlamentare preposto ha lanciato un allarme sull’attività di infiltrazione e disinformazione russa in Italia. Questo no, questo per i nostri neo-garantisti non è tollerabile. Tanto meno si può sopportare che qualche giornale arrivi al punto da insinuare che chi passa l’intera giornata in tv a difendere le ragioni di Putin stia facendo, per un motivo o per l’altro, il gioco di Putin.

Che dire? Lo spettacolo è talmente ridicolo che non vale la pena nemmeno discuterne oltre, perché manca con ogni evidenza il presupposto della buona fede. Perché si può discutere di tutto e con tutti, anche con chi neghi la sfericità della Terra, ma non si può discutere con un terrapiattista dentro una stazione orbitale: al massimo, per un po’, puoi provare a gesti, puoi sforzarti di indicare quel grande pallone colorato che ti gira di fronte, ma quale argomentazione puoi sviluppare?

Le cose, sull’Ucraina e sull’Italia, non potrebbero essere più chiare di così. Ed è una chiarezza che illumina implacabilmente ciascuno di noi.

Spesso in questi giorni ripenso a quella frasetta da cioccolatino che capita continuamente sotto gli occhi sui social network, quella che invita a essere sempre gentili con gli sconosciuti perché ognuno di loro sta combattendo una guerra di cui tu non sai niente (o qualcosa del genere). Ebbene, ultimamente mi è venuto da pensare che non è solo stucchevole, è anche infondatamente ottimista. Da mesi, infatti, siamo circondati da persone che stanno combattendo una guerra atroce di cui sappiamo tutto, e ci comportiamo da grandissimi stronzi lo stesso.

La lista dei "putiniani d'Italia" del Corsera si tinge di giallo. Daniele Dell'Orco l'8 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il Copasir costretto a smentire di aver stilato un indice con professionisti, reporter e influencer accusati dal giornale di via Solferino di appartenere ad una rete guidata da Mosca. E Travaglio si inalbera.

Il Copasir ha sconfessato il Corriere della Sera riguardo la lista di proscrizione dei "putiniani d'Italia" stilata dal principale quotidiano nostrano. A fornirla non sarebbero stati gli 007 come invece scritto nel pezzo firmato da Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini.

Un fatto che merita di essere approfondito e che ha scatenato una feroce bagarre anche sulle emittenti tv, col direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio che si è sentito chiamato indirettamente in causa visto che alcuni dei nomi indicizzati dal Corsera, come il prof. Alessandro Orsini, scrivono sul giornale di Travaglio (e dell'accademico a cui la Nato piace davvero poco pubblica anche il libro).

"Questa lista dei filoputiniani pubblicata dal Corriere è una cosa vergognosa. Una volta i giornali i dossieraggi li svelavano e li denunciavano, non facevano da buca delle lettere e da ventilatore per spargere lo sterco in giro per la rete e per le edicole", ha detto a "Dimartedì" (La7) in risposta a Beppe Severgnini che, invece, nelle vesti di avvocato della testata che lo ospita, ha rigettato nel modo più assoluto le accuse di gogna contro la testata di via Solferino.

E tuttavia, la gogna il Corsera ha provato a crearla, mettendo alla berlina professionisti, giornalisti, influencer che sarebbero così legati al Cremlino da "influenzare il dibattito nei Paesi occidentali con propaganda, disinformazione, fake news". Una fitta rete di personalità che, si legge ancora nel pezzo, "si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia", e "tenta di orientare, o peggio boicottare, le scelte del governo".

Oltre a sembrare piuttosto inverosimile o quantomeno non provata una capacità penetrativa del genere, il grande fallo del Corriere è stato quello di essersi fatto scudo dietro al Copasir, il cui presidente Adolfo Urso (FdI) ha dovuto provvedere a smentire che i nomi pubblicati siano mai stati sottoposti all’attenzione dell’organo: "La lista - ha detto Urso - l’ho letta sul giornale, io non la conoscevo prima. Noi abbiamo attivato un’indagine alla fine della quale, ove lo ritenessimo, produrremo una specifica relazione al Parlamento".

Poi la parziale rettifica, con un documento che sarebbe in effetti arrivato sulla sua scrivania, ma solo ieri mattina e comunque dal contenuto classificato. Dunque, o il Corriere aveva a disposizione una lista secretata frutto di un'indagine svolta dal Copasir su personalità italiane che diffondono informazioni gradite alla Russia (e sarebbe grave solo pensarlo), oppure ha bluffato.

La semplice volontà di smascherare i "disinformatori" non può essere sufficiente per spiegare un metodo così poco etico. Anche perché, e lo ricordava anche Nicola Porro su questa testata, "se un giornalista, che dobbiamo ammettere non conosciamo, scrive sui suoi social: 'La Ue costretta a tornare sui suoi passi e pagare il gas in rubli', come riporta il Corrierone, può forse dire una sciocchezza (peraltro non superiore a chi dichiarava che non avremmo mai pagato neanche indirettamente il gas in rubli), ma non per questo deve essere una spia al soldo di Putin".

La guerra in Ucraina è caratterizzata come mai prima da gigantesche campagne di propaganda e disinformazione. Reciproche. Il ruolo dei media liberi, soprattutto se di Paesi non implicati direttamente nel conflitto, dovrebbe essere quello di aiutare le persone a smascherare la propaganda, a distinguere le notizie vere da quelle false e ad indirizzarli per poterle contestualizzare. A prescindere dalla narrazione che l'una o l'altra notizia possano rischiare di sostenere.

Perché il rischio di tacciare per disinformatore al soldo di Putin chiunque possa anche solo vagamente rappresentare una voce di dissenso, oltre che infangare la reputazione di costoro, è quello di produrre un effetto ben più pericoloso della propaganda: l'ininformazione.

Ossia creare un circolo pericoloso per cui qualsiasi notizia, anche vera, diffusa da qualche canale "demonizzato", possa essere considerata in automatico fake.

L'Occidente non può sostenere le proprie ragioni, e quelle del popolo ucraino, basandole sulla superiorità morale e sulle caratteristiche liberali che lo differenziano dalla Russia, utilizzando metodi del genere e introducendo la "presunzione di verità", con dei media che rivendicano per sé e solo per sé la capacità di diffondere notizie vere fino a prova contraria e allo stesso tempo demonizzano o silenziano chiunque possa rischiare di fornirla, una prova contraria.

Anche perché si tratta di un meccanismo applicabile a moltissimi argomenti e non solo alla guerra. Il grande equivoco in cui si sta inciampando in questo Paese è quello di pensare che dipingendo un quadro più chiaro, completo e indipendente possibile della situazione si possa fomentare un pensiero antiatlantista, antieuropeo e filorusso. Invece è tutto l'opposto: la censura e la demonizzazione creano le fascinazioni. La verità, anche se a volte fa male, no.

Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022. 

L'attacco del ministero degli Esteri di Mosca all'Italia per la «violazione dei diritti dei cittadini russi» era stato pianificato già dagli inizi di marzo, pochi giorni dopo l'invasione dell'Ucraina. Una campagna di disinformazione che ha due obiettivi: denunciare la «russofobia» e dimostrare che «le sanzioni contro la Russia danneggiano soprattutto i Paesi che le applicano». 

È uno dei temi su cui più si mobilita la rete dei sostenitori di Putin - politici, influencer, giornalisti freelance - con interviste tv, post sui social network e petizioni, rilanciati dai siti web filorussi. Su questa attività, che punta a diffondere notizie false per scopi di propaganda, l'indagine del Copasir è in fase avanzata. 

Gli analisti e gli esponenti del Comitato parlamentare di controllo sull'attività dei servizi segreti prevedono che la pressione aumenterà nei prossimi giorni, come sempre avviene in corrispondenza di scadenze politiche e parlamentari cruciali: il 21 giugno il premier Mario Draghi riferirà alle Camere in vista del Consiglio europeo e poi si voterà la risoluzione di maggioranza sulla guerra.

Un appuntamento decisivo per chi ha come obiettivo il boicottaggio dell'azione del governo e contesta, oltre alla scelta dell'Italia di aderire convintamente alle sanzioni contro Mosca, l'invio di armi e apparecchiature militari alle autorità ucraine. Come si è visto sin dalle prime settimane del conflitto, la propaganda si attiva per screditare l'azione dell'esecutivo guidato da Draghi e per dimostrare che le sanzioni «danneggiano soprattutto chi le decreta».

La «russofobia»

Il 5 marzo l'ambasciata russa in Italia posta sulla sua pagina Facebook un annuncio esplicito: «A causa dell'aggravata situazione internazionale e della campagna di disinformazione anti russa dei media, il numero di casi di discriminazione nei confronti dei cittadini russi all'estero è aumentato vertiginosamente». 

Sui canali Telegram viene rilanciato il messaggio per giorni, l'Italia è accusata di essere in prima linea nella «russofobia» e il 28 marzo si avvia la petizione su Change.org «contro la disumanizzazione del popolo russo da parte dei nostri media».

Esattamente quanto denunciato dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov due giorni fa, nel suo ennesimo attacco al nostro Paese. Le sanzioni Negli ultimi giorni la tesi più accreditata dalla rete filorussa è che «la colpa del taglio delle forniture di gas verso l'Europa è dell'Ucraina» e soprattutto che «l'Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia». 

È il cavallo di battaglia della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova: «Per la mancanza di materie prime russe molti produttori di carta, vetro, cosmetici, potrebbero dover chiudere». 

Messaggio rilanciato da Cesare Sacchetti, gestore di un canale Telegram con oltre 60 mila iscritti, ritenuto uno degli appartenenti al circuito della disinformazione: «L'Ue è costretta a tornare sui propri passi e pagare il gas in rubli». 

Alle sanzioni come boomerang per chi le applica attinge anche il freelance Giorgio Bianchi. Intervenendo il 2 aprile in collegamento dall'Ucraina al convegno della «Commissione dubbio e precauzione», il giornalista definì le sanzioni «la pistola che spara direttamente nelle mutande del contribuente e delle imprese europee». I gruppi filorussi si scatenano su Twitter e Telegram, prendendo di mira il governo italiano anche su aspetti apparentemente minori: «Si è esportato il 20% in meno del vino friulano.

Una cosa è certa: le sanzioni all'Italia stanno funzionando». 

I documenti riservati

Ci sono diverse influencer russe attive, secondo gli apparati di sicurezza, nel lavoro di disinformazione e propaganda. Una è Ekaterina Sinitsyna, residente da tempo nel nostro Paese, la quale ha pubblicato un video mostrando documenti riservati che avrebbe ricevuto dall'ambasciata ucraina in Italia in cui viene «accusata di attività volte all'incitamento all'odio, alla violenza, alla discriminazione e alla propaganda di guerra» e ha raccontato di aver «inoltrato il messaggio all'ambasciata russa», marcando così la propria posizione. 

Il post di Maria Dubovikova, che invece risiede a Mosca - «L'Osce ha armato sottobanco gli ucraini contro i russi» - è stato condiviso dal blog maurizioblondet.it . Ieri sera Maurizio Blondet, criticando il servizio del Corriere , rivendicava la libertà di chi «ha e difende opinioni contrarie a quelle prescritte dal potere del Draghistan».

Da liberoquotidiano.it il 6 giugno 2022.

Orsini pronto a rispondere al Corriere della Sera. Il professore di Sociologia del terrorismo, da mesi al centro della polemica, avrebbe querelato il quotidiano diretto da Luciano Fontana.

A svelarlo Il Fatto Quotidiano, che spiega le motivazioni. Nella giornata di domenica 5 giugno il Corsera pubblicava foto e nomi dei personaggi oggetto di indagini da parte del Copasir. Loro, Orsini compreso, venivano descritti come la rete italiana di Vladimir Putin.

Più nello specifico le accuse al sociologo erano legate alla tesi da lui ripreso di Manlio Dinucci, geografo e promotore del comitato "No guerra no Nato". Ma non solo, perché il quotidiano definiva il professore un "docente licenziato dall’Università Luiss dopo il clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive".

Peccato però che Orsini sia stato rimosso dalla direzione dell’Osservatorio Internazionale dell’università di Confindustria, ma rimane comunque professore associato presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’ateneo. 

"Chiunque legga il contenuto di questo articolo - ha perso le staffe su Facebook dopo il pezzo a firma di Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni - si rende conto immediatamente che la mia foto è stata inserita a caso, immotivatamente, senza alcun senso. 

Il Copasir ha indagato su di me e non ha trovato assolutamente niente. Caro Luciano Fontana, so che il suo desiderio è di vedermi dietro le sbarre, ma sarà frustrato. Nessuno mi arresterà ed io continuerò a parlare contro le politiche inumane del governo Draghi in Ucraina volte a sirianizzare quella guerra dietro richiesta della Casa Bianca". Da qui la controrisposta

Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 13 giugno 2022.

Di presentazioni non ha bisogno. Per il professor Alessandro Orsini c'è - di fatto - un «prima» e un «dopo» la guerra. Prima, lo invitavano a svolgere analisi sulla sicurezza internazionale nei ministeri e alla presidenza del Consiglio. Uno dei suoi numerosi libri, Anatomia delle Brigate rosse, è stato ben recensito anche sulle riviste di Harvard. I suoi studi sono pubblicati tutt'oggi su siti del governo italiano. Da quando è iniziato il conflitto tra Russia e Ucraina, però, è diventato qualcosa più che un accademico. E più che un protagonista. 

Per tanti è un nemico. Accetta di andare in tv solo da Bianca Berlinguer e da Massimo Giletti, ma sulla sua persona e sulle sue idee si è scatenato il putiferio. Prima di questa, non ha mai rilasciato interviste sulla carta stampata. Domani uscirà un suo nuovo libro.

Nei giorni scorsi è stato incluso nella lista dei «putiniani» d'Italia pubblicata dal Corriere della Sera. 

Persone che con una rete usata in modo strumentale farebbero propaganda per la Russia.

«La mia foto e il mio nome sono stati inclusi in quella lista in modo del tutto immotivato. A ogni modo, Franco Gabrielli ha smentito e sbugiardato il Corriere. L'articolo è condito tra l'altro da due fake news».

Quali?

«Non è vero che io sia stato licenziato per le mie analisi sull'Ucraina e non è vero nemmeno che la Luiss mi abbia rimosso dal mio incarico di direttore dell'Osservatorio sulla sicurezza internazionale. L'unica cosa vera è che la Luiss ha lanciato un comunicato stampa per attaccarmi». 

Solidarietà dai suoi colleghi della Luiss per quel comunicato?

«L'ho ricevuta da un solo professore, ma in privato». 

Era Sergio Fabbrini?

«Figuriamoci, mi detesta, è un mio acerrimo nemico, il tipico accademico italiano che lavora con il curaro».

È vero che ha deciso di fare causa al Corriere?

«Il Corriere della Sera ha deciso di criminalizzare il dissenso politico. Una causa è il minimo di ciò che merita. Qualcuno ha detto che devo smentire le accuse, ma non ci sono accuse contro di me e quindi non posso smentire niente. Accade nelle dittature: gli oppositori politici vengono criminalizzati senza prove affinché non possano difendersi». 

Sul suo Osservatorio molto si è scritto. Secondo la Stampa, ad esempio, non avrebbe prodotto niente.

«È falso. Ho fondato e diretto l'Osservatorio sulla sicurezza internazionale della Luiss dal 2016 al 2022. Seguiva la politica in 149 Stati. L'Osservatorio ha lavorato sette giorni su sette per sei anni: un fondo speciale consentiva di pagare le analiste anche nei giorni di festa». 

Con quali risultati?

«L'Osservatorio ha pubblicato 31.184 articoli sul sito "Sicurezza internazionale". E ha prodotto 6 monografie e 5 articoli su riviste scientifiche ritenute "eccellenti" dal ministero dell'Università secondo la classificazione Anvur. La sola coordinatrice, Sofia Cecinini, ha pubblicato due monografie accademiche: Le sanguinarie. Storie di donne e di terrore (Luiss UP 2018, ndr) e La guerra civile in Libia (Carocci 2021, ndr)». 

Parliamo di lei? A quale cultura politica appartiene?

«Sono un riformista e un moderato». 

Moderato?

«Esatto. Credo nei cambiamenti progressivi e graduali. I grandi sconvolgimenti creano squilibri e talvolta disastri. Il mondo non va distrutto e ricreato, ma va cambiato gradualmente con l'aiuto della conoscenza. La tolleranza e il rispetto verso il prossimo possono albergare soltanto nella moderazione».

Cosa si sente di prevedere sulla guerra? Una pace è possibile?

«Prevedo che, una volta conquistato il Donbass, Putin cercherà di capire se l'Occidente vuole dargli le garanzie che richiede. Se prevale la linea Biden-Johnson, credo che marcerà su Kiev per abbattere Zelensky». 

Lei si è schierato per lo stop alle armi.

«È inutile che l'Italia dia armi pesanti agli ucraini se poi vengono massacrati uno per uno. Se Biden non vuole combattere contro la Russia, non spinga gli ucraini a farlo al posto suo e tratti con Putin. Biden aveva assicurato che le armi avrebbero ucciso un sacco di soldati russi spingendo Putin alla pace». 

Così è andata?

«È accaduto il contrario, come avevo previsto sin dal primo giorno dell'invasione: gli ucraini hanno ucciso migliaia di soldati russi e Putin ha devastato tutto. Questa è una guerra in cui la Russia è disposta all'escalation nucleare. A me interessa proteggere i civili ucraini e non la Nato». 

Lei è anti americano?

«Non sono anti americano. Gli Stati Uniti mi hanno dato molto e ripropongo in Italia ciò che ho imparato in quel Paese: la difesa del territorio e della vita degli europei viene prima di tutto».

Ma è critico su Biden.

«Critico le politiche di Biden in Ucraina perché calpestano questi due assunti che le ho detto. Sono sempre pronto a difendere gli Usa. Se però la Casa Bianca mette a repentaglio la vita degli europei per dissanguare la Russia, mi ribello». 

Di come si sta comportando l'Europa che dice? Hanno scritto di lei anche che è anti europeo.

«È falso, sono un sostenitore dell'Unione europea, anche se la guerra in Ucraina ha reso evidente il suo fallimento politico. La Ue era nata per promuovere la pace. Oggi è soggetta alle direttive della Nato che, dopo il bombardamento illegale della Serbia e della Libia, si è trasformata in alleanza offensiva». 

Le sanzioni? Servono?

«Le sanzioni possono essere utili come merce di scambio al tavolo delle trattative, ma non fermano la guerra». 

Orsini è anti Nato?

«Non sono anti Nato. Nel mio libro Viva gli immigrati (Rizzoli, ndr) ho proposto un progetto di sviluppo della Nato alternativo a quello della Casa Bianca. Ho spiegato che la Nato avrebbe dovuto svilupparsi in Nord Africa e non ai confini della Russia. La mia riforma era nell'interesse nazionale dell'Italia e pure dell'Ucraina». 

Questo dell'«interesse nazionale» dell'Italia è un po' un suo pallino. Ne parla spesso.

«L'interesse nazionale è al centro di tutti i miei ragionamenti geopolitici. Amare lo Stato italiano significa conoscere i suoi interessi e difenderli». 

Come si spiega il suo successo di questi mesi?

«Una delle ragioni è che le persone non ne possono più di sentirsi dire bugie. Troppi esperti italiani di politica internazionale, prima di parlare, aspettano di capire quale sia la posizione del governo in carica. La gente non è stupida». 

Come vive questa fama improvvisa?

«La vivo come se non esistesse. La mia vita non è cambiata. Sono rimasto una persona molto semplice con una vita altrettanto semplice e appartata. Amo la montagna, dove cerco di trascorrere tutto il tempo possibile tra il verde e gli animali». 

Che cosa farà quando la televisione non si occuperà più di lei?

«Starò benissimo perché trascorrerò più tempo in famiglia da cui dipende per intero la mia felicità».

Non è che il suo obiettivo è la politica? Si candiderà al Parlamento?

«Se volessi prendere voti direi che il mio pubblico preferito sono i disoccupati o magari gli operai». 

E invece?

«Il mio pubblico preferito sono gli studenti delle scuole superiori. Che non votano». 

Che messaggio vorrebbe inviare agli studenti?

«Il primo messaggio è l'amore per lo Stato: i problemi dell'Italia possono essere risolti soltanto se lo Stato diventa più forte. Per combattere contro la mafia, aiutare i poveri e difendere le imprese, serve uno Stato ricco e potente».

Secondo?

«La lotta contro tutte le forme di razzismo e discriminazione. E il terzo messaggio è l'amore per la società libera che coincide con l'amore per la pace: le società libere, in guerra, finiscono per chiudersi. Guardi che cosa sta accadendo con le liste di proscrizione nostrane». 

E Furio Colombo che abbandona il Fatto per colpa sua?

«Furio Colombo ha tartassato Travaglio perché mi cacciasse dal Fatto e poi ha avuto l'impudenza di dire che è stato censurato».

Pensa di essere frainteso?

«Non mi è mai capitato che un mio critico mi abbia attribuito un'idea mia. Quando sento i miei critici attaccarmi, mi domando di chi diavolo stiano parlando». 

La cosa che le pesa di più?

«Che la pagina Wikipedia a me dedicata sia caduta sotto il controllo di un gruppo di "haters"».

Una battaglia a cui tiene particolarmente?

«Prima di morire, Antonio Iosa, una vittima delle Brigate rosse, mi fece promettere che avrei raccontato la sua storia, oggi disponibile nel docufilm Il gambizzato. La memoria di Iosa va tenuta viva per proteggere i nostri giovani dai brigatisti irriducibili che vanno in giro a rivendicare con orgoglio i loro omicidi. Nel mio libro Anatomia delle Brigate rosse (Rubbettino, ndr), ho spiegato come i brigatisti rossi riducevano i loro nemici a una categoria inferiore a quella dell'uomo attraverso un'ideologia disumanizzante, che spogliava le vittime della loro umanità. I brigatisti irriducibili mi odiano e questo vuol dire che la mia collaborazione con l'associazione delle vittime del terrorismo ha dato buoni frutti».

Domani per Paper First esce il libro Ucraina. Critica della politica internazionale. Di che cosa parla?

«Il libro è innanzitutto il tentativo di mettere la cultura scientifica al centro del dibattito sulla guerra in Ucraina. L'idea che l'invasione russa sia priva di cause esprime una cultura antiscientifica. Tutti i fenomeni sociali hanno una o più cause. Weber diceva che una spiegazione non è davvero scientifica se non è anche una spiegazione causale. Ricostruisco le relazioni conflittuali tra la Russia e la Nato per far emergere le cause ignorate nel dibattito nostrano. Introduco molte informazioni che non hanno circolazione a casa nostra».

“Tra schifosi ci si intende”. Massimo Gramellini umilia Alessandro Orsini: perché il prof è terrorizzato da Putin. Il Tempo il 20 marzo 2022

Il professor Alessandro Orsini da quando è scoppiata la guerra tra Russia ed Ucraina è diventato uno dei volti più noti dei talk show italiani che approfondiscono il tema del conflitto. Nel suo Caffè sul Corriere della Sera Massimo Gramellini ha voluto proprio mandare alcuni messaggi ad Orsini: “Ogni giovedì sera mi sintonizzo con la piazza del bravissimo Formigli per assumere la mia dose settimanale di professor Orsini. Spiace per gli altri aspiranti al titolo, ma la vera star del Pacinarcisismo è lui, grazie alla faccia sofferta e a quel tono di voce tra l’assertivo e il piagnucoloso con cui ricostruisce le cause della guerra ucraina dai tempi di Gengis Khan. Stavolta ci ha spiegato che tra l’Occidente e Putin non c’è differenza. Schifoso lo zar, schifosi noi: e tra schifosi ci si intende”.

Gramellini, dopo la frecciata neanche tanto criptica, continua il suo discorso: “Orsini sembra posseduto da una sorta di timor panico nei confronti di Putin, lo nomina il meno possibile e quasi mai per parlare delle sue malefatte, che comunque non considera peggiori delle nostre. La sconfitta dell’invasore, che rallegra i poveri di spirito, è ciò che egli più teme, perché a quel punto, dice, Putin potrebbe arrabbiarsi sul serio. Quanto alla caduta del satrapo slavo, non fa parte delle opzioni di Orsini e forse neppure delle sue speranze. La mia rimane che un giorno a Mosca un omologo del professore possa dire in un talk show che i russi fanno schifo come gli occidentali. Significherebbe che anche lì è arrivata la libertà”. Messaggio forte e chiaro.

Otto e mezzo, Tomaso Montanari a valanga. Minacce contro le liste dei putiniani. Valentina Bertoli su Il Tempo il 06 giugno 2022.

All’alba di una nuova crisi diplomatica tra l’Italia e la Russia, Tomaso Montanari, storico dell’arte e accademico, ospite a “Otto e mezzo”, assume una postura rigida rispetto all’indagine del Copasir sulla presunta propaganda filorussa dei media italiani: “Le liste di proscrizione sono un pessimo segnale. Se mi avessero inserito tra i putiniani, li avrei querelati”.

Dopo 103 giorni di un conflitto logorante tanto sul campo di combattimento quanto su quello propagandistico (la guerra portata avanti dal Cremlino in territorio ucraino), Giovanni Floris, temporaneamente alla conduzione del programma quotidiano di LA7, propone una ricostruzione chiara e sintetica delle vicende che stanno mettendo in discussione uno dei valori fondanti della democrazia italiana: la libertà di espressione. Il Comitato per la Sicurezza della Repubblica ha infatti fatto chiarezza sull’attiva propaganda pro-Putin che giornalisti e politici italiani avrebbero messo in piedi per condizionare l’opinione pubblica, individuando i nomi di chi avrebbe corrotto la libera circolazione delle idee. “Le liste di proscrizione sono un pessimo segnale. Abbiamo bisogno di informazioni, di analisi approfondite. Individuare i putiniani rappresenta  i valori occidentali di cui ci sciacquiamo la bocca? C’è un grande polverone, c’è tanta ambiguità e non fa onore alla democrazia italiana” è stato netto Montanari, chiamato ad esprimersi sul tema nel corso della puntata del 6 giugno. Dopo aver citato George Orwell, ha aggiunto: “Quando la retorica del nemico  inizia a prendere la nostra democrazia, è allarmante”. Il saggista ha allora fatto il punto sulla possibilità, per i giornalisti occidentali, di intervistare la controparte russa: “È un bene poter ascoltare diverse prospettive, ma bisogna fare attenzione. La Russia non conosce la libertà, è vero. Non è bene cadere in una superiorità sistemica, però. Nessuno ci assicura i valori democratici”. Il professore Montanari non ha usato eufemismi sulla mossa del Copasir e sulla pretesa di preservare l’autonomia editoriale e informativa: “Se mi avessero inserito nella lista, li avrei querelati”.

Il Corriere stila liste di proscrizione: combattono Putin facendo peggio di lui. Polemiche per l’articolo contro influencer, giornalisti e opinionisti definiti “putiniani”. Ma è sbagliato agire come nelle dittature. Nicolaporro.it il 6 Giugno 2022.

La differenza, riteniamo, che ancora esiste tra una democrazia liberale come l’Italia e un regime pseudodemocratico come la Russia, è che dalle nostre parti il dissenso dovrebbe essere non solo permesso, ma tutelato. Esiste forse una democrazia senza una minoranza? È ancora legittimo essere contrari alla spedizione di armi in Russia? Si può criticare Mario Draghi per le sue posizioni filo-atlantiche?

Vedete, questo Giornale ha poco da farsi perdonare. Era filo-atlantico quando la sinistra sfilava per le strade bruciando le bandiere americane. Era filo-Nato quando i missili in Europa piacevano solo a pochi tra gli intellettuali che oggi ci danno lezione di americanismo. È lo è tutt’ora. Senza se e senza ma, e soprattutto senza un passato da far dimenticare. Non abbiamo scheletri nell’armadio e per noi non c’è una lotta che continua.

Ecco perché quando leggiamo, come è successo ieri, sul Corriere della Sera il seguente pezzo: «Influencer e opinionisti. Ecco i putiniani d’Italia», corredato da nove fotine segnaletiche, saltiamo sulla sedia. Così come quando leggiamo, nella titolazione, la suggestione di una «rete che fa partire la controinformazione» e di una «macchina che si attiva nei momenti chiave». Probabilmente è colpa nostra, lo ammettiamo. È passata solo una settimana dall’anniversario della morte del commissario Calabresi, costruita anche da liste di proscrizione simili, da appelli giornalistici decisamente di tutt’altro tenore, ma altrettanto superficiali e complottisti.

Noi non siamo la Russia e non siamo più l’Italia degli anni di piombo, e non possiamo confondere il dissenso, anche quello più urticante e peloso, con la listarella dei venduti. Se un giornalista, che dobbiamo ammettere non conosciamo, scrive sui suoi social: «La Ue costretta a tornare sui suoi passi e pagare il gas in rubli», come riporta il Corrierone, può forse dire una sciocchezza (peraltro non superiore a chi dichiarava che non avremmo mai pagato neanche indirettamente il gas in rubli), ma non per questo deve essere una spia al soldo di Putin. E se lo fosse, converrebbe averne qualche prova in più.

È il tono che dà la misura della musica. E la musica, pur essendo in difesa della nostra causa, che resta quella di essere saldamente ancorati all’Occidente, ha il tono inquietante che usavano gli invasati di sinistra contro i nemici del popolo. Oggi succede che i nemici del popolo siano i loro compagni di ieri, e cioè i filorussi. Ma il sapore amaro in bocca resta il medesimo.

Se pensiamo di vincere la guerra tappando la bocca agli Orsini di turno e facendo liste di proscrizione degli influencer che criticano Draghi, sbagliamo due volte. La prima è perché rendiamo eroico e affascinante il dissenso anche quando esso è semplicemente nonsenso. La seconda è perché la forza dell’Occidente, oltre alle armi che servono eccome, è la sua predisposizione alla libertà: nel mercato, nelle opinioni e negli usi. Nicola Porro, Il Giornale 6 giugno 2022

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 giugno 2022.

Caro Dago, premesso che io mi vergogno a parlare delle tragedie ucraine dal comodo di un divano e senza mai avere visto nella mia vita una sola pietra di quella regione, e dunque che leggo avidamente quanti ne scrivono con cognizione di causa, Lucio Caracciolo come Domenico Quirico come il generale Fabio Mini, il cui articolo sul “Fatto” non me lo perdo mai.

Detto questo ho un certo imbarazzo a vedere di giornalisti che mettono in una lista di proscrizione altri giornalisti e mi sto riferendo agli elenchi di “filoputiniani” di cui il tuo sito si è occupato e si occupa ripetutamente. Per antica esperienza disdegno le classificazioni facili e essenzialmente polemiche, classificazioni di cui ho esperienza in prima persona. In un libro dov’erano indicati spregiativamente i nomi degli adulatori di Silvio Berlusconi trovai una volta il mio di nome, e questo perché in vista di una partita di Champions del Milan mi ero augurato che la squadra italiana vincesse.

Trovare il nome di Alessandro Orsini in una lista di “filoputiniani” è una baggianata, un insulto all’intelligenza. Orsini ha tutto il diritto di dire quello che pensa senza essere insultato. Dubito che uno come il da me stimatissimo Lucio Caracciolo gli darebbe la qualifica di ”filoputiniano”. 

La tragedia ucraina è di tali proporzioni, oltre che risalire a cause che risalgono molto indietro nel tempo, da non ammettere semplificazioni polemiche distribuite a destra e a manca come fossero colpi di scimitarra. Non servono a niente, non attenuano la tragedia rappresentata dai colpi di fuoco che si susseguono a decine e decine di migliaia, non risparmiano la vita di un solo combattente o di un solo civile.

Tutto è intricatissimo. Ci sono molte e buone ragioni per mandare armi micidiali agli ucraini, c’è qualche ragione per chiedersi se a questo modo non si protrae lo stallo fra i due eserciti combattenti e dunque il prosieguo della distruzione di un’intera nazione. Non lo so non lo so non lo so. Voglio leggere e poi ragionarci sopra. Voglio sentire tutti gli strumenti dell’orchestra intellettuale. Ne voglio sapere di più di più di più. Da qualsiasi parte venga questo di più.

"Liste di proscrizione? Non si ragiona più". "Io filo Mosca? Non parlo con i mentecatti". Massimo Malpica il 6 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il filosofo: "I servizi fanno il loro mestiere, abbiamo scoperto l'acqua calda? Vanno a individuare quelli che secondo loro danno una mano al nemico".

Un elenco di influencer, giornalisti, opinionisti considerati di fatto un veicolo della propaganda putiniana, un ingranaggio nella macchina della disinformazione di Mosca.

La «lista di proscrizione» dei filo-Putin italiani, stilata dal Copasir e pubblicata ieri dal Corriere della Sera, ha acceso le polemiche. Va bene che i torti e le ragioni di questo conflitto sono evidenti, ma il clima è un po' da caccia alle streghe. Non basta cambiare canale se parla un ministro russo o un esperto che invita l'Ucraina alla resa?

Sul rischio che il vento che soffia intorno al conflitto in Italia e in Europa odori di maccartismo e che ci sia uno sbilanciamento sul pensiero unico Massimo Cacciari, come sempre, dice la sua senza giri di parole. «Non è questione di sbilanciamento, è questione che non emerge alcuna volontà di ragionare sulle cose», spiega il filosofo al Giornale, «ma d'altra parte era così già col Covid, ormai è un costume italiano, non c'entra nulla con la Russia».

Italiano e non solo, se pensiamo al Cern che vuol cacciare gli scienziati russi dai suoi laboratori o a Wimbledon che ha chiuso le porte ai tennisti russi, ma certo in Italia la messa all'indice è molto forte, come dimostra il caso Orsini.

«Quando c'è una guerra, e noi abbiamo di fatto dichiarato guerra alla Russia, è evidente che non collabori con il nemico in nessun campo».

Ma qual è il confine tra la libertà di pensiero e di opinione e l'intelligenza con il nemico, restando all'ipotesi dello stato di guerra di fatto? Non è più possibile esprimere il proprio parere?

«Ma io non esprimo pareri, esprimo dei dati di fatto. Conoscendo le ragioni di questo conflitto non faccio altro che richiamare a queste ragioni la situazione del rapporto tra Ucraina e Russia, la sua storia. E una persona ragionevole non fa altro che richiamare le cause che hanno condotto a questa tragedia. Perché se non si affrontano e non si comprendono le cause, come per una malattia, non si potrà neanche mai trovare la terapia. Tutto qua, un discorso di pura razionalità occidentale. Se poi le regole fondamentali della nostra razionalità europeo-occidentale sono andate a ramengo, non c'è modo di intendersi, è evidente. Non c'è modo di intendersi né io intendo discutere con chi ormai ha portato il cervello all'ammasso: non me ne frega niente».

Non c'è possibilità di dialogo tra i due «fronti», quindi?

«È evidente che non c'è nessuna possibilità di dialogo con chi lo rifiuta. Come faccio a dialogare con lei se lei lo rifiuta, o se dice che due più due fa cinque, e sbaglio io se dico che fa quattro? Non è che c'è una diversità di opinioni, non è che io dica opinioni. Io dico ragioniamo sulle cause, vediamo se ragionando sulle cause si può anche intravedere una prospettiva di un accordo di pace. La guerra, insegnano a Scienze politiche, è l'extrema ratio della politica. Qui c'è stato Putin che evidentemente non ha tenuto in nessun conto questa aurea regola e ha combinato un disastro. Ma al disastro combinato da Putin si è risposto come si sta rispondendo...»

Cioè?

«Sembrerebbe - io mi auguro che non sia così - senza la volontà di cercare una soluzione di trattativa e di accordo, che so benissimo essere molto difficile. Quanto a queste liste di proscrizione, sappiamo bene che i servizi fanno il loro mestiere, scopriamo l'acqua calda. In situazioni delicate come queste, i servizi fanno il loro lavoro, vanno a individuare quelli che - secondo loro, con qualche fondamento, con nessun fondamento - danno una mano al nemico. Dovremmo saperne qualcosa della storia dei servizi segreti italiani. Però fanno il loro mestiere».

Anche la Commissione di vigilanza e le polemiche sul contenimento delle ospitate «non allineate» nei talk show sono esercizio di mestiere?

È tutta una logica da Paese in guerra. Se un Paese è in guerra funziona così. Funziona che i servizi segreti cercano, a torto o a ragione, ogni possibile anche involontario collaboratore. Funziona che non trasmetti nessuna informazione che provenga dal nemico. Funziona che scappano censure di un tipo o di un altro, anche non attraverso diktat dei governi, ma con comportamenti adottati dai direttori dei giornali, dal suo direttore, dagli altri. Non lo devo insegnare a lei che è giornalista».

Anche lei, che pure si è detto favorevole all'invio di armi a Kiev, è stato tacciato di «filoputinismo».

«Non mi confronto con i mentecatti. Non ho nessun interesse a farlo. Sono troppo vecchio ormai per perdere tempo a discutere con i deficienti». 

DAGOREPORT il 7 giugno 2022.

Ecco come è andata. Due giorni prima che il Corriere pubblicasse la presunta "lista dei Putiniani" affibbiata dalle due giornaliste al Copasir, si è tenuto un incontro allargato sulla "disinformazione" in Italia. Presenti i vertici del Dis e della Cybersicurezza più altri funzionari di vari ministeri (Viminale, Farnesina).

Lì è circolato un report di poco conto, fatto dall'intelligence e dei reparti cybersicurezza usando fonti aperte come se ne fanno di continuo (‘’Domani’’ ne aveva pubblicato uno a marzo, ma senza parlare di lista, dove si indicava una senatrice ex M5S e profili di Qanon). Un dossier che qualcuno degli astanti ha passato al Corriere prima ancora che arrivasse al Copasir.

Per fare un po’ di casino, il Corriere ha sparato un titolo esagerato (nessuno dei nomi è attenzionato dai servizi, non esistono liste su cui lavora l'intelligence, e ci mancherebbe pure) tirando in ballo il povero Copasir. Che però non ha alcun potere di investigare chicchessia. Ora che il pasticcio ha sollevato un polverone gigantesco (sul nulla), però, qualcuno nei servizi rischia di pagare davvero il conto.

Estratto dell’articolo di Renato Farina per “Libero quotidiano” il 7 giugno 2022.

Il Corriere della Sera domenica ha pubblicato foto segnaletiche, nomi e dati sensibili di nove cittadini, i quali non risultano condannati da nessuna parte, e neppure indagati, ma che intanto sono stati marchiati a fuoco sulla pubblica piazza come traditori della patria.

Questo elenco, che aspetta solo di essere appeso sui piloni della luce con scritto Wanted o Achtung Banditen e un cappio quale monito, non è stato compilato dopo una faticosa e scrupolosa ricerca sul campo, ma è la pura e acritica trascrizione di una soffiata, si presume d'alto livello. Da parte di chi? Del controspionaggio italiano o del Copasir?

Non si scappa. O è stata l'Aisi, agenzia dei servizi interni, che avrebbe individuato le quinte colonne del Cremlino su ordine del Copasir a sua volta terminale della ricerca e quindi anch' esso sospettabile di aver passato le carte. 

Quello del primo quotidiano italiano per diffusione e fama nel mondo, sia chiaro, non è stato un incidente, ma una precisa scelta di giornalismo bellico. A dare il sigillo di sacralità al pacco sono state infatti le firme della vicedirettrice Fiorenza Sarzanini (versante servizi segreti e ministero dell'Interno) e della parlamentarista Monica Guerzoni (agganci al Copasir). Sono prime penne, si muovono sempre su terreni solidi. La serietà nei secoli delle due giornaliste fa escludere che abbiano raccolto una patacca. Ma non credo sia legale appendere la gente per i piedi.

Beh, diciamolo. Tutto ciò è abbastanza schifoso, ma sarebbe almeno plausibile in un Paese che abbia sospeso la libertà di parola e di pensiero (art. 21 della Costituzione), avendo dichiarato lo stato di guerra e la legge marziale. Le tre cose non ci risultano, ma forse ci hanno nascosto qualcosa. […] 

Scrivono Sarzanini & Guerzoni: «L'indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall'intelligence individua ecc». Trattasi insomma di retata commissionata dal Copasir ai servizi i quali pescano nove presunti merluzzi-spia e li passano al Copasir e da lì (o dall'Aisi o dal Dis) finiscono in via Solferino.

[…] La frase dove casca l'asino/a è la prima: «L'indagine avviata dal Copasir». […] Il Copasir non può permettersi di avviare alcunché. Qui ci interessa il comma 2 del citato art.30: «Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l'attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell'esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni». Verifica, vigila, controlla.

Arretriamo dall'art. 30 all'art. 8, che perentoriamente afferma: «Le funzioni attribuite dalla presente legge al Dis (organo di coordinamento), all'Aise (servizio estero) e all'Aisi (servizi interni) non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio». Né dal Copasir né dal Corriere.

Il Copasir è un arbitro, non tira calci al pallone. Indagini competono solo ai servizi che hanno per leader Elisabetta Belloni, la quale risponde al sottosegretario della presidenza del Consiglio delegato all'intelligence, Franco Gabrielli. Se hanno notizie di reato informano la polizia giudiziaria. Nessun altro può archiviare informazioni personali, esito di indagini su chicchessia, e specialmente su parlamentari, anche se si chiamano Petrocelli, o come Salvini varcano il portone di un'ambasciata persino di Paesi ostili. 

[…] «Attività conoscitiva» non schedatura da affidare ai servizi e poi diffondere tramite Corriere della Sera. Troppo zelo patriottico? O qualcuno al Copasir e/o alla testa dei servizi e/o in via Solferino punta a un coinvolgimento irreversibile nel conflitto che la Russia sta conducendo in Ucraina? Come disse qualcuno è il caso che il Parlamento «controlli i controllori». […]

F. Bor. per “la Verità” il 7 giugno 2022.

Due giorni, tre pagine. Domenica mattina, a pagina 6, il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo a firma Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini con un titolo suggestivo e diretto: «I putiniani d'Italia». Sommario: «Il materiale raccolto dai servizi individua i canali usati per la propaganda e ricostruisce i contatti. Così la Rete fa partire la controinformazione». Ieri il ritorno di fiamma: il giornale di via Solferino ha insistito con la pubblicazione della lista di proscrizione dei presunti putiniani italiani. Una «rete», così la definiscono gli augusti colleghi, di «politici, economisti, freelance, opinionisti», i quali incarnerebbero la «minaccia ibrida russa». Che cosa farebbero questi agenti nemici?

Semplice: tenterebbero di «influenzare il dibattito nei Paesi occidentali con propaganda, disinformazione, fake news». Si potrebbe obiettare che è esattamente ciò che fa la gran parte della stampa cosiddetta mainstream, solo in un'altra direzione. In ogni caso, il Corriere procede tetragono e coglie l'occasione per ribadire nomi e cognomi dei sospettati di tradimento.

Giornalisti come Giorgio Bianchi e Maurizio Vezzosi, analisti come l'ottantaquattrenne Manlio Dinucci e vari altri. Persone che in molti casi non si conoscono fra loro e le cui posizioni sono sempre state espresse alla luce del sole. In pratica, a costoro si rimprovera di avere idee diverse da quelle del nostro governo. Il punto è: chi li rimprovera? 

E di che cosa lì accusa nello specifico? Ecco, questo passaggio non è molto chiaro. Secondo il Corriere a occuparsi delle quinte colonne moscovite in Italia sarebbe stato il Copasir, e a tal proposito il giornale esibisce le dichiarazioni del vicepresidente Federica Dieni dei 5 stelle. «Stiamo facendo approfondimenti sulle forme di disinformazione e di ingerenze straniere», dice la signora, «siamo in attesa di alcune risposte». Quindi non solo il comitato avrebbe elaborato il catalogo di nemici del popolo, ma starebbe addirittura allargando l'indagine, in cerca di altri pericolosi sabotatori.

Piccolo problema. Adolfo Urso, senatore di Fratelli d'Italia e presidente del Copasir, fornisce una versione decisamente diversa. «In merito a quanto riportato da alcuni organi di stampa», dice Urso in una nota stampa, «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica rileva di non aver mai condotto proprie indagini su presunti influencer e di aver ricevuto solo questa mattina un report specifico che per quanto ci riguarda, come sempre, resta classificato. Peraltro», continua il senatore, «il Comitato si attiene sempre scrupolosamente a quanto previsto dalla legge 124/2007, non è una Commissione di inchiesta ma organo di controllo e garanzia; non ha poteri di indagine ma ottiene informazioni dagli organi preposti, nel corso di audizioni o sulla base di specifiche richieste, anche al fine di realizzare, ove lo ritenga, relazioni tematiche al Parlamento». 

Insomma, Urso, presidente del Copasir, smentisce ciò che il Corriere della Sera ha affermato per ben due giorni di fila. E cioè che sia stato il suo comitato a mettere in piedi il bailamme sui putiniani. Non solo.

Urso conclude il suo comunicato stampa con una sorta di ammonimento, auspicando «soprattutto su questa vicenda, che vi sia sempre una corretta attribuzione e riconoscibilità delle fonti proprio al fine di garantire quella libera e corretta informazione che è alla base della nostra democrazia, e che ciascuno si attenga alle proprie responsabilità, nella piena e leale collaborazione tra gli organi dello Stato». 

Capite bene che qui qualcosa non torna. Se non è stato il Copasir a indagare sui putiniani immaginari, chi è stato? Secondo quanto risulta alla Verità, esiste effettivamente un report sull'attività online a favore di Mosca ed evidentemente è stato realizzato dal Dis o direttamente dall'Aisi secondo il metodo che in gergo si chiama «da fonti aperte». In pratica si setaccia il Web e si passano in rassegna i social secondo parole chiave. Questo report (che contiene anche informazioni sulle minacce rivolte allo stesso Urso) è stato sì consegnato al Copasir, ma soltanto ieri mattina (lunedì) intorno alle 10. Quindi 24 ore dopo l'uscita dell'articolo sul Corriere. Curioso, no? 

Se le cose stanno così, per quale motivo il Corriere ha sentito l'esigenza di tirare in mezzo il Copasir anche se non c'entrava direttamente? Il comitato guidato da Urso si sta occupando di monitorare l'attività dei talk show italiani, specialmente quelli della Tv di Stato in relazione a possibili infiltrazioni russe. Ma non si è mai dedicato alla compilazione di liste di proscrizione di giornalisti, opinionisti o influencer. La sensazione, dunque, è che qualcuno stia cercando di rimescolare le carte, attribuendo al Copasir una attività di indagine che in realtà è stata svolta dai servizi, e come tale non dovrebbe avere natura politica.

È un modo per lanciare messaggi o per intimidire qualche esponente politico a mezzo stampa? Oppure è un tentativo di gettare fango sulle voci critiche attribuendo la responsabilità a un organo istituzionale? Non lo sappiamo, e forse dovrebbe essere il Corriere a chiarirlo, spiegando da dove provengano certe informazioni: sono veline? 

Oppure davvero il Copasir ha prodotto un elenco di putiniani e Urso mente (improbabile, ma chissà)? Comunque sia, ormai la frittata è fatta. I nomi dei reprobi sono finiti in prima pagina, le accuse a mezzo stampa sono state formulate, il fango è stato sparso in abbondanza. In fondo non stupisce, non è la prima volta che accade. Sconforta un po' che il più blasonato quotidiano italiano si presti a certe operazioni. Dopo tutto, però, i giornali sono lo specchio della nazione.  

Alessandro Orsini & Co, il sospetto sulle liste dei "filo-Putin" del Corriere: ciò che i servizi tacciono. Renato Farina Libero Quotidiano il 07 giugno 2022

Il Corriere della Sera domenica ha pubblicato foto segnaletiche, nomi e dati sensibili di nove cittadini, i quali non risultano condannati da nessuna parte, e neppure indagati, ma che intanto sono stati marchiati a fuoco sulla pubblica piazza come traditori della patria. Questo elenco, che aspetta solo di essere appeso sui piloni della luce con scritto Wanted o Achtung Banditen e un cappio quale monito, non è stato compilato dopo una faticosa e scrupolosa ricerca sul campo, ma è la pura e acritica trascrizione di una soffiata, si presume d'alto livello. Da parte di chi? Del controspionaggio italiano o del Copasir? Non si scappa. O è stata l'Aisi, agenzia dei servizi interni, che avrebbe individuato le quinte colonne del Cremlino su ordine del Copasir a sua volta terminale della ricerca e quindi anch' esso sospettabile di aver passato le carte. Quello del primo quotidiano italiano per diffusione e fama nel mondo, sia chiaro, non è stato un incidente, ma una precisa scelta di giornalismo bellico. A dare il sigillo di sacralità al pacco sono state infatti le firme della vicedirettrice Fiorenza Sarzanini (versante servizi segreti e ministero dell'Interno) e della parlamentarista Monica Guerzoni (agganci al Copasir). Sono prime penne, si muovono sempre su terreni solidi. La serietà nei secoli delle due giornaliste fa escludere che abbiano raccolto una patacca. Ma non credo sia legale appendere la gente per i piedi.

CONFLITTO DICHIARATO?

Beh, diciamolo. Tutto ciò è abbastanza schifoso, ma sarebbe almeno plausibile in un Paese che abbia sospeso la libertà di parola e di pensiero (art. 21 della Costituzione), avendo dichiarato lo stato di guerra e la legge marziale. Le tre cose non ci risultano, ma forse ci hanno nascosto qualcosa. In realtà il Governo convintamente sostiene che il nostro Paese non sia entrato in guerra, ma con sanzioni e invio di armi si limiti a sostenere il diritto alla legittima difesa di un Paese amico invaso da un potenza imperiale. Non è scattato l'art. 78 della nostra Magna Carta: «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari». Dopo questo episodio da stato di guerra latente ci aspettiamo però che qualcuno alla Camera e al Senato si alzi dal suo scranno e tiri le conseguenze del sasso tirato nello stagno dal Corriere e dai servizi segreti perché sia ufficializzata la belligeranza. Per parecchi parlamentari periclitanti potrebbe essere un'idea salvifica: è l'unico caso che la nostra Costituzione (art. 60, comma 2) prevede come giustificazione per congelare per legge il Parlamento così com' è ed evitare elezioni sine die. Guerra lunga, vita lunga. Ma non è questo il tempo dell'ironia. E allora osserviamo con un po' di apprensione quel che è successo di illegale. Scrivono Sarzanini & Guerzoni: «L'indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall'intelligence individua ecc». Trattasi insomma di retata commissionata dal Copasir ai servizi i quali pescano nove presunti merluzzi-spia e li passano al Copasir e da lì (o dall'Aisi o dal Dis) finiscono in via Solferino.

Chi scrive detesta farsi eco di una schedatura, per cui niente nomi. Ma - prima di essere pescato pure lui- dichiara di essere lontano dalle loro posizioni, anche se ammetto che certi servizi dal Donbass di uno di loro, comunista, sono istruttivi. La frase dove casca l'asino/a è la prima: «L'indagine avviata dal Copasir». Copasir è l'acronimo di Comitato Parlamentare perla Sicurezza della Repubblica, istituito con l'art. 30 della legge che riforma i servizi segreti (n.124 del 2007). Il Copasir non può permettersi di avviare alcunché. Qui ci interessa il comma 2 del citato art.30: «Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l'attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell'esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni». Verifica, vigila, controlla. Arretriamo dall'art. 30 all'art. 8, che perentoriamente afferma: «Le funzioni attribuite dalla presente legge al Dis (organo di coordinamento), all'Aise (servizio estero) e all'Aisi (servizi interni) non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio». Né dal Copasir né dal Corriere. 

MA QUALE INDAGINE

Il Copasir è un arbitro, non tira calci al pallone. Indagini competono solo ai servizi che hanno per leader Elisabetta Belloni, la quale risponde al sottosegretario della presidenza del Consiglio delegato all'intelligence, Franco Gabrielli. Se hanno notizie di reato informano la polizia giudiziaria. Nessun altro può archiviare informazioni personali, esito di indagini su chicchessia, especialmente su parlamentari, anche se si chiamano Petrocelli, o come Salvini varcano il portone di un'ambasciata persino di Paesi ostili. L'unica attività nota del Copasir, riconducibile alle informazioni sulla guerra in Ucraina, è stata la seduta del 1° giugno, nell'ambito dell'«Indagine conoscitiva sulle forme di disinformazione e di ingerenza straniere, anche con riferimento alle minacce ibride e di natura cibernetica».

Quel giorno si è svolta l'«Audizione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio in materia di informazione e di editoria, senatore Rocco Giuseppe Moles». «Attività conoscitiva» non schedatura da affidare ai servizi e poi diffondere tramite Corriere della Sera. Troppo zelo patriottico? O qualcuno al Copasir e/o alla testa dei servizi e/o in via Solferino punta a un coinvolgimento irreversibile nel conflitto che la Russia sta conducendo in Ucraina? Come disse qualcuno è il caso che il Parlamento «controlli i controllori». Caso mai ci fosse qualche dubbio sulla liceità dei comportamenti di Orsini e compagnia, fatto salvo il diritto di contrastarne le idee e di mettere in guardia chi se le beve come oro colato, a tagliare la testa al toro è l'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu), vincolante per il nostro Paese: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere odi comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera». Amen. 

È un imbarbarimento anche questo o è politica? Medvedev e le parole sull’Occidente strumentalizzate per coprire gaffe Corriere e debacle Johnson, salvato da Biden. Paolo Liguori su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

La guerra è barbarie. Naturalmente il vero crimine è la guerra. Non ci sono crimini di guerra peggiori di altri. Ormai queste frasi vengono prese come una banalità quotidiana perfino da voi che ci state ad ascoltare. E invece queste frasi hanno un senso ed un significato, perché è dal primo giorno di questa guerra che noi dal Riformista Tv, dal giornale e da interventi in qualsiasi sede abbiamo sempre sostenuto: “Deve finire subito, a qualsiasi costo!”

Ma naturalmente non è l’interesse prevalente. L’interesse prevalente è farla durare molto. Farla durare a scapito dell’Europa, non dell’Ucraina, non contro la Russia. Ma a scapito dell’Europa, dei paesi della loro economia e della loro libertà.

Il fatto che questa barbarie della guerra duri da oltre 100 giorni – siamo quasi a un terzo dell’anno – sta provocando un imbarbarimento di tutti i rapporti, di cui neppure ci accorgiamo. Tre giorni fa, è stata fatta una cosa incredibile, indicibile: la Macedonia e la Bulgaria hanno deciso di chiudere lo spazio aereo al volo con il quale il ministro degli esteri russo, che comunque resta il ministro degli esteri russo in carica, voleva recarsi in Serbia, un paese comunque simpatizzante, alleato della Russia.

Non doveva passare. Pena: essere abbattuto. Non si può minacciare un aereo di uno Stato di abbattimento senza rischiare rappresaglie che potrebbero estendersi in tutto il mondo, a navi, aerei, trasporti. Questi sono passi in avanti verso la barbarie che non dovrebbero essere mai concessi. È inutile che si dice “noi siamo dalla parte giusta. Siamo dalla parte dell’Ucraina. Siamo dalla parte di Zelensky”. Impedire gli spazi aerei è una cosa barbarica. Una cosa che non ha fatto neppure la Nato quando gli è stato chiesto dall’Ucraina, perché le conseguenze sono inimmaginabili e micidiali. Questa è la situazione ma nessuno ha aperto bocca.

Invece, c’è stata una grande levata di scudi per quello che ha detto Medvedev, il numero due della Russia. Anche qui siamo alla propaganda. Cosa ha detto? “L’Occidente ci vuole distruggere. E io odio gli occidentali che ci vogliono distruggere. Li vorrei distruggere io”. Avulsa dal contesto, la frase ‘l’Occidente ci attacca’ – che si pone in una situazione difensiva dai punti di vista culturale, politico e storico – diventa agghiacciante: “Vogliamo distruggere e cancellare gli occidentali”. Perché è stata caricata così tanto in questo senso dai giornali e dai mezzi d’informazione dell’Occidente? Perché contemporaneamente in Italia avveniva un fatto che non aveva precedenti: ovvero, la lista di proscrizione con le foto sul principale giornale Il Corriere della Sera, attribuita al Copasir.

Ma il Copasir ha subito smentito. Noi stessi abbiamo detto: “Copasir, sei un organismo che controlla i servizi o fai dello spionaggio, o fai le liste di proscrizione?” Il Copasir ha risposto di non fare niente di tutto questo. È venuto fuori che è il DiS – Dipartimento per la Sicurezza – quello famoso, presieduto dalla Belloni, che aveva questo tipo di liste, poi date alla giornalista del Corriere della Sera.

Perché e perché le hanno pubblicate in quel modo? È stata una gaffe terribile. In altri tempi, il Corriere della Sera avrebbe pagato dazio per questa cosa. Tuttavia, il discorso di Medvedev ha tamponato, facendo scomparire questa notizia. D’altra parte, anche la notizia che Johnson ha avuto una mazzata terribile dai suoi deputati conservatori in Inghilterra – quasi la metà gli si sono rivoltati contro – è stata molto sottovalutata. Hanno detto: “Si, una vittoria triste. Una vittoria con una forte ferita”. Alcuni hanno poi detto che finirà come la May: “Tra qualche mese cucineranno Johnson”. Nessuno ha detto che Johnson è rimasto in piedi stavolta solo perché l’appoggio dell’amministrazione Biden è stato formidabile.

È un imbarbarimento anche questo o è politica? È politica imbarbarita. Perché Biden rappresenta un’amministrazione della sinistra americana del partito democratico che dà un appoggio strumentale ai conservatori inglesi per far continuare la guerra. Si può dire: quelli che furono i Kennedy, i Bob Kennedy, la sinistra americana ora in Europa sono diventati sostenitori dei conservatori inglesi. Certo è successo in tempo di guerra che l’amministrazione repubblicana americana ebbe una collaborazione stretta con Chuchill e i conservatori inglesi ma era una guerra mondiale. Questa volta è una guerra europea, fomentata prima di tutto dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti, che vogliono far durare chissà fino a quando. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Io, pannelliano e amerikano, finirò in una black list? I putiniani d’Italia e la caccia alle streghe lanciata dal Copasir: sembra di essere su Scherzi a parte. Valter Vecellio su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

Scrivo dagli Stati Uniti, e da qui tutte le cose italiane e italiote mi sembrano più ovattate e chissà se è il modo giusto per valutarle: la distanza aiuta a volte, altre inganna.

Questa storia del Copasir, per esempio. Se prima era un sospetto espresso con un sorriso tra le labbra, ora comincia a essere una quasi certezza, sorrido molto meno. Premetto che considero Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni due tra le più brave giornaliste su “piazza”. Hanno buone fonti, sanno quello che scrivono, scrivono quello che sanno. Se dunque sul Corriere della Sera viene pubblicato un articolo dal titolo “La mappa ricostruita dagli 007. I putiniani d’Italia tra social, tv e stampa”, non si può che correre a leggere cosa scrivono. Sarzanini, che del Corriere è vice-direttrice e avrà senza dubbio anche curato il titolo.

L’incipit è quanto di più intrigante: “La rete è complessa e variegata. Coinvolge i social network, le tv, i giornali e ha come obiettivo principale il condizionamento dell’opinione pubblica. Si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia. La rete filo Putin è ormai una realtà ben radicata in Italia, che allarma gli apparati di sicurezza perché tenta di orientare, o peggio boicottare, le scelte del governo. E lo fa potendo contare su parlamentari e manager, lobbisti e giornalisti…”. Perbacco! Una cosa più che seria: inquietante. Una piovra putiniana ci avvolge e soffoca. Ancora: “L’indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall’intelligence individua i canali usati per la propaganda, ricostruisce i contatti tra gruppi e singoli personaggi e soprattutto la scelta dei momenti in cui la rete, usando più piattaforme sociali insieme fa partire la controinformazione”.

Doppio perbacco! I nomi, fuori i nomi di questa rete malefica ordita dal Cremlino, chi sono gli artefici, i protagonisti di questo diabolico progetto destabilizzante?

Il primo nome è quello di Maria Dubovikova, giornalista russa che vive a Mosca, si dà da fare con Twitter e i social; le sue filippiche rimbalzano “su decine di profili filorussi dell’estrema destra, che spesso si incrociano con negazionisti del Covid e no vax, per contestare a Palazzo Chigi di aver spedito le armi senza il consenso del popolo italiano”. Una blogger, insomma. Portatrice di messaggi sgradevoli e falsi; depistanti. È una costante, per quel che riguarda quel paese. Ricordate la bufala dell’Aids risultato di esperimenti innominabili e oscuri da parte dell’esercito Usa? Era tutta farina del sacco Kgb, si scopri’: attraverso un giornale indiano filo-sovietico, la notizia approda prima in Brasile, rilanciata da Mosca e poi in tutto il mondo. Jean-Francois Revel nel suo “La conoscenza inutile” già quarant’anni fa aveva raccontato tutto, per filo e per segno.

C’è poi Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov; accusa “i politici italiani di ingannare il loro pubblico”. Chissà cos’altro ci si attende dalla portavoce di Lavrov? Finalmente gli italiani: “Si fa notare Giorgio Bianchi, definito dai report periodici che gli apparati di sicurezza inviano al governo noto freelance italiano presente in territorio ucraino con finalità di attivismo politico-propagandistico filorusso”; l’economista e pubblicista Alberto Fazolo; Manlio Dinucci 84 anni, geografo e scrittore promotore del comitato «No Guerra No Nato». E dire che li avevamo considerati dei Carneade qualunque. Pericolosissimo Dinucci: “Le sue tesi sono state riprese dallo stesso Bianchi, Alessandro Orsini – il docente licenziato dall’Università Luiss dopo il clamore suscitato dalle sue apparizioni televisive – e Maurizio Vezzosi: reporter freelance che racconta il conflitto dall’Ucraina e invita lettori e telespettatori a informarsi non rimanendo alle notizie in superficie perché molti ucraini pensano che Zelensky sia responsabile della situazione, molti lo ritengono un “traditore””.

Però si parla anche di politici, di parlamentari. Chi sono le quinte colonne putiniane? Si fanno i nomi dell’ex presidente della commissione esteri, il Vito Petrocelli; e di Claudio Giordanengo definito putiniano di ferro e candidato per la Lega a Saluzzo; “Attenti a quei due”, insomma; e in effetti, c’è di che preoccuparsi. Poi si ritorna a chi inquina i pozzi via social. Si distingue la freelance Laura Ruggeri: vive a Hong Kong e scrive su “Strategie Culture Foundation”, ritenuta dagli analisti «rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr» e che, assieme a “Russia Today”, è artefice di una campagna massiccia contro le sanzioni. Ora lo capisco da dove attingono Vauro, Michele Santoro, Moni Ovada e compagnia. Con rispetto parlando, sembra che il dossier elaborato dai servizi di sicurezza sia una sorta di assemblaggio di una quantità di articoli, inchieste, interviste pubblicate su giornali e riviste; per un lettore un attimo attento, nulla di nuovo.

Che qualcuno dei “servizi”, pressato forse dalle petulanti richieste del Copasir, abbia messo insieme in fretta e furia questo bignamino, così da far contenti i suoi membri che vogliono giocare a Mata Hari, e potersi dedicare come è giusto a indagini vere, discrete e riservate, da eventualmente consegnare al presidente del Consiglio, lo si può capire. Che all’interno del Copasir nessuno obietti a questo inutile dire e fare, e che pensino addirittura di andare in missione a Washington a far perdere tempo anche agli americani, ecco: questo lo si capisce molto meno. Poi viene in mente che il presidente della commissione antimafia Nicola Morra giorni fa, molto seriamente, ha chiesto di sollevare un giornalista del “Tg1” colpevole di eccesso di scoreggia e d’aver chiesto una raccomandazione.

Tutto si tiene, insomma: questa è l’attuale classe politica quella che è. È augurabile che si riesca prima o poi a mandarli a casa; nel frattempo attendiamoci altre puntate in quella che sembra una variante di “Scherzi a parte”. E mi chiedo se io pure, nonostante il mio essere “amerikano” radicale, dai tempi di Marco Pannella e pannellato tuttora, occidentale e anti Putin 24 carati, per questi dubbi non sarò inserito qualche lista di proscrizione. Quanto al Copasir sono formidabili davvero, a partire dal suo presidente Adolfo Urso: prima scagliano la pietra e di fatto promuovono una specie di caccia alle streghe; poi ritirano la mano dicendo che non si deve fare la caccia alle streghe. Le sciabole stanno a terra e le fodere combattono; oppure altra più colorita e volgare espressione in uso a Napoli. Valter Vecellio

 Bye Bye Furioll narcisismo dal volto disumano di quelli per cui pure la guerra è un pretesto per parlare di sé. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 10 Giugno 2022.

Possono cambiare i governi, le guerre e le alleanze internazionali, ma mai apparirà nella storia una crisi umanitaria o un conflitto planetario tanto drammatico da non poter fare degnamente da sfondo alle nostre rievocazioni compiaciute e alle nostre rivendicazioni stizzite.

Quali che siano le loro posizioni sulla guerra, non si può dire che i grandi nomi del giornalismo italiano perdano mai di vista la scala delle priorità. Che siano infatti fermamente schierati in favore dell’Ucraina, come Furio Colombo, o invece quotidianamente impegnati dalla parte opposta, come Michele Santoro, o anche capaci di svariare su entrambe le fasce, come Massimo Giannini, è rassicurante verificare ogni giorno come vi sia ancora qualcosa che li unisca tutti, al di sopra di ogni divisione di parte.

Prendete Santoro, che in un’intervista alla Stampa ieri si è mostrato indignato perché i telegiornali «vedono le cose come le vede il governo ucraino». Forse perché parlano di «guerra» invece che di «operazione speciale» (chissà qual è l’altro modo di «vedere» i bombardamenti, le deportazioni dei civili, le torture e le esecuzioni sommarie).

Santoro glissa peraltro sul fatto che nove decimi dei talk show italiani sono pieni a tutte le ore del giorno e della notte proprio del punto di vista del Cremlino, spesso rappresentato da propagandisti russi regolarmente stipendiati dal governo o da società controllate. Lo dimostra banalmente il fatto che giornali e televisioni di ogni angolo del pianeta, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Germania alla Finlandia, guarda un po’, da settimane s’interrogano sull’incredibile capacità di penetrazione della propaganda russa nelle tv italiane. Articoli e servizi sulla Cnn o le Monde a proposito del problema dei telegiornali troppo filo-ucraini denunciato da Santoro, invece, non se ne sono visti. Chissà perché.

In compenso, alla domanda «lei come racconterebbe la guerra?», il padre di Samarcanda risponde testualmente: «È significativo che io non abbia una trasmissione, nonostante migliaia di persone scrivano sui social che mi vorrebbero in tv». E così siamo finalmente arrivati al punto.

No, non mi riferisco al fatto che questi troll russi stanno cominciando a giocare pesante con la disinformazione online (deduzione lecita, dalle parole del conduttore, ma non decisiva); mi riferisco all’unica cosa che evidentemente sta davvero a cuore all’intervistato, all’unica passione così accecante da spiegare l’incredibile sequela di non sequitur di cui è costellata la sua intervista (tipo «senza le armi americane gli ucraini avrebbero scelto altri modi di combattere e non saremmo arrivati alla distruzione dell’Ucraina», subito dopo essersi detto contrario a inviare armi perché «ci sono già gli americani a farlo»). Quale sia quest’unica passione, che del resto lo accomuna a tanti illustri colleghi, anche di idee diverse, non credo ci sia bisogno di dirlo. Lo dicono fin troppo chiaramente loro.

Naturalmente ognuno ha il suo stile e le sue ragioni. La citazione delle parole «semplici e perfette» pronunciate due mesi prima da Mario Draghi con cui ieri il direttore della Stampa cominciava il suo editoriale – «Esprimo la mia solidarietà a tutti i giornalisti de La Stampa e al suo direttore» – si poteva giustificare comunque con un dato di cronaca: la singolarissima vicenda dell’attacco al giornale da parte dell’ambasciatore russo, in particolare per un articolo di Domenico Quirico, invero tutt’altro che ostile, culminata in una surreale denuncia per «apologia di reato e istigazione a delinquere» che la procura di Torino ha ovviamente archiviato (questa la notizia, diciamo così).

Ben altro livello raggiungeva invece l’articolo di Furio Colombo su Repubblica. Impropriamente titolato sulla realpolitik, Kissinger e la guerra in Ucraina, il commento era in pratica un soliloquio di 5253 caratteri spazi inclusi dedicato per nove decimi ai personali ricordi dell’estensore. Un articolo in cui le parole «Ucraina» e «ucraini» comparivano una sola volta, al terzultimo capoverso (fondamentalmente per formulare la non rivoluzionaria tesi che Henry Kissinger sia un realista e non sia «arruolabile» da nessuno).

Tutto il resto era una nostalgica rievocazione di un «Harvard International Seminar» cui parteciparono, pensate un po’, solo tre italiani: Alberto Arbasino, Raffaele La Capria e Colombo medesimo. E giù venti e passa righe su quanto Kissinger tenesse alla qualifica di «Doctor», per arrivare finalmente al cuore del discorso.

Questo: «Kissinger è orgoglioso ma non vanesio. Quando per esempio è accaduto che, nel mezzo di una conversazione lui mi chiamasse “Furio” (con buona pronuncia italianizzata, a differenza di quasi tutti i nuovi amici americani) subito dopo, quando è toccato a me dire “Doctor Kissinger”, lui mi ha fermato ingiungendomi No, please, call me Henry. E da allora, per decenni – anche quando dissentiva con forza da tutto ciò che scrivevo sulla guerra nel Vietnam – siamo rimasti a quel rito amichevole (molto importante nella vita sociale americana) del primo nome».

Se penso a quante ironie si sono fatte a suo tempo su Massimo D’Alema, dopo che in un’intervista aveva raccontato di salutare al telefono la segretaria di Stato americana Condoleezza Rice con un confidenziale «bye bye Condy», direi che questi quindici anni non sono passati invano. Com’era prevedibile, la gara dell’egolatria tra politici e giornalisti è stata stravinta dai nostri colleghi.

Possono cambiare i governi, le guerre e le alleanze internazionali, ma mai apparirà nella storia una crisi umanitaria o un conflitto planetario tanto drammatico da non poter fare degnamente da sfondo alle nostre rievocazioni compiaciute e alle nostre rivendicazioni stizzite, per ricordare al mondo chi siamo e cosa vogliamo, si tratti di un trattato di pace o di una trasmissione televisiva.

Antonio Bravetti per “La Stampa” il 9 giugno 2022.

«C’è Draghi dietro la lista dei filorussi? ». Michele Santoro chiama in causa il presidente del Consiglio: la democrazia in Italia «non è in buona salute» e il premier «ha il dovere di dirci la verità. 

Cosa pensa della lista?

«È un abuso di potere. Una lista di opinionisti, tra cui un parlamentare, indagati dai servizi segreti per aver semplicemente espresso critiche sull’invio di armi. E un giornale pubblica le loro foto come fossero dei ricercati. Da chi ha avuto queste informazioni il Corriere della sera? Se non gliele ha date il Copasir, allora da dove sono uscite? Dai Servizi? Dal governo? Da Draghi? Il premier ha il dovere di dirci la verità». 

Le è piaciuta la diretta di Giletti da Mosca?

«Non ho ancora avuto modo di vederla, ma ognuno fa le trasmissioni come sa e chi le vede le critica». 

Il direttore di Libero, Sallusti, se n’è andato indignato.

«Sapeva come si sarebbe svolta la trasmissione, poteva non andarci. È grave che non si critichi Sallusti per quello che ha detto sul Cremlino: espressioni insopportabili, ha ricoperto la storia di parolacce». 

Lei come racconterebbe la guerra?

«È significativo che io non abbia una trasmissione, nonostante migliaia di persone scrivano sui social che mi vorrebbero in tv. Ho lottato tanto contro le censure di Berlusconi e mi trovo a subire la censura di chi di fatto controlla la Rai da anni, il Pd. Non ha più sezioni sul territorio, le ha in Rai». 

Cosa le piace in tv?

«Report è un ottimo programma. I tg sono desolanti: tutti con le telecamere piantate nello stesso modo, vedono le cose come le vede il governo ucraino. Da mattina a sera abbiamo una rappresentazione del dolore, che va fatta, ma andrebbe completata con analisi e punti di osservazione diversi». 

Tipo?

«L’Ucraina non è una democrazia compiuta. Prima dell’invasione c’era un altissimo tasso di corruzione, oligarchi che dominavano la politica, partiti e giornali sciolti di forza, giornalisti uccisi». 

Non è propaganda putiniana questa?

«Chi dice la verità è putiniano? Non ci faccio più caso, mi hanno chiamato giullare, fascista. Quello che dico sull’Ucraina sono fatti che nessuno può mettere in discussione».

Sempre contrario all’invio delle armi?

«Certo, ci sono già gli americani a farlo, sono otto anni che armano gli ucraini. Davvero pensate che senza le nostre armi non si sarebbero difesi? I Paesi piccoli, senza scatenare guerre mondiali, hanno sempre vinto contro i Paesi grandi. L’Afghanistan ha buttato fuori i russi, il Vietnam gli Usa».

Dovremmo abbandonare gli ucraini?

«Senza le armi americane gli ucraini avrebbero scelto altri modi di combattere e non saremmo arrivati alla distruzione dell’Ucraina. Kiev e Mosca sparano e i cannoni, di una parte e dell’altra, seminano distruzione in una guerra infinita. Con la guerriglia non ci sarebbe stata». 

Ma quale guerriglia se Mosca ha bombardato Kiev?

«Se resisti in un certo modo chi aggredisce alza il tiro e i morti aumentano. Ripetiamo pure mille volte che il responsabile è Putin, non li faremo resuscitare».

Non la spaventano le parole di Medvedev?

«Sono parole di guerra, che peso possono avere? Servono a chi le pronuncia per presentarsi come un combattente indomito». 

Scenderebbe in piazza contro Putin?

«No, perché sarei allineato col 99% dei telegiornali, il 97% delle forze politiche e il 90% della informazione e della stampa. Sarebbero come le manifestazioni della camicie nere a favore dell’intervento in Africa di Mussolini».

Siamo in un regime fascista?

«Certamente no, ma nemmeno in una democrazia in buona salute».

Fonderà un partito?

«Se dovessi decidere di farlo convocherò una conferenza stampa, prima di allora mi rifiuto di rispondere a questa domanda: lede i miei diritti di cittadino. O mettiamo in discussione anche questa libertà?». 

Cosa pensa del viaggio di Salvini in Russia?

«È un po’ come la trasmissione di Giletti: male non fa, bisogna vedere se può far del bene. Se tornasse dalla Russia con un ramoscello di pace, perché dovremmo essere contrari?».