Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

UNDICESIMA PARTE

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

L’ACCOGLIENZA

UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

Le radici della pace. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente il 12 novembre 2022.

Nelle radici delle parole, nell’origine dei termini linguistici si nasconde una rappresentazione del mondo, una forma di pensiero e perfino un destino. Dalle etimologie si ricava una ricchezza di ragionamenti, un modo di andare prima e oltre i significati correnti, di approfondire i valori delle parole che sono diventati automatici, non più trasparenti.

Prendiamo ad esempio la pace. La sua sorgente remota è almeno in due differenti campi: nella attività diplomatica e nel mestiere del falegname, del costruttore. ‘Pace’ è, ad esempio nell’antico mondo romano (pax) la situazione derivante da un accordo, da un patto che sospende le azioni di guerra da parte del nemico. ‘Pace’ e ‘pagare’ hanno un significato in comune: ‘pacato’, nel senso di tranquillo e ‘pagato’ derivano dalla comune idea di soddisfare e calmare con una distribuzione di denaro. Proprio perché la pace è intesa come uno stato transitorio ottenuto con la soddisfazione delle parti che sospendono tra di loro azioni di guerra e che vanno oltre lo stato di belligeranza grazie a  una conveniente stipula di ordine economico.

Ma ‘pace’ ha anche a fare con il falegname, e più in generale con la concordia, con l’ordine universale, per cui i Greci avevano un altro termine, ‘eirene’, per indicare una pace duratura, uno stato di armonia e accordo illimitato.

Perché il falegname? Si tratta, nella pace, quasi come nella musica, di rendere concorde ciò che è discorde, di rendere compatibili due forze, due entità antagoniste. Allora, nel mondo antico e tradizionale, il falegname è visto come un ‘congiungitore’, colui che adatta delle parti e che, per esempio, può ottenere degli incastri tra diverse porzioni  del legname in lavorazione, che vanno a collimare, si connettono e si incastrano solidamente. 

Ora, in lingua latina, ‘pàngere’, da cui ‘pax’ , pace, significa fissare, piantare e, in senso figurato, stabilire, pattuire, secondo il principio della ‘concordia discors’: rendere concorde ciò che è discorde, senza cancellare le parti in gioco ma rendendole compatibili.

Possiamo dunque capire quanto possono essere varie, e ricche di implicazioni, le considerazioni che ne possono derivare. 

Anche andando oltre. Ad esempio, una guerra in qualche modo va finita. Anche questa è una forma di pace. Come riflette Ernest Hemingway, attraverso le parole del soldato Passini, in Addio alle armi, la guerra non si vince con la vittoria ma quando qualcuno smette di combattere. “Perfino i contadini sanno che non si deve credere in una guerra”.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Autocrazie pacifiste. L’ipocrita confraternita di regimi totalitari che predica la tolleranza e pratica la dittatura. Alessandro Balbo su L’Inkiesta il 26 Novembre 2022.

Il “Gruppo di amici in difesa della Carta delle Nazioni Unite”, nato nel 2021, comprende Paesi come Russia, Corea del Nord e Siria. Si è riunito a Teheran a inizio novembre, chiedendo il rispetto dei diritti umani, dell’integrità territoriale degli Stati e il ritiro delle sanzioni alla Repubblica Islamica

«Chiediamo di raddoppiare gli sforzi verso la democratizzazione delle relazioni internazionali e il rafforzamento del multilateralismo e di un sistema multipolare, basato, tra l’altro, sul rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti gli Stati, nonché sul rispetto del principio della parità di diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, lo stato di diritto, la diplomazia, il dialogo politico, la tolleranza, la convivenza pacifica, il rispetto per la diversità, l’inclusività, una cultura di pace e non violenza e la dovuta considerazione per le differenze esistenti, che sono essenziali per lavorare insieme in modo costruttivo ed efficace su questioni di comune interesse e preoccupazione».

No, non sono parole del Dalai Lama. E nemmeno di Martin Luther King, o di Mohandas Karamchand Gandhi detto Mahatma. A enunciare questi nobili principi, con cui sarebbe oggettivamente impossibile dichiararsi in disaccordo, sono stati i rappresentanti di diciannove nazioni fra cui spiccano, fra le altre, Russia, Corea del Nord, Siria e Iran. Si sono incontrati il 5 novembre proprio a Teheran – in queste settimane al centro del discorso pubblico globale a causa della violenta repressione del regime degli ayatollah nei confronti dei manifestanti per la democrazia – per ribadire la loro contrarietà alle sanzioni imposte al Paese dagli Stati Uniti.

Una convention di amici, quindi, e non è una battuta. Si definiscono proprio “Gruppo di amici in difesa della Carta delle Nazioni Unite”, in virtù dell’unione siglata nel marzo dello scorso anno con l’obiettivo di supportare il trattato fondativo dell’Onu, e che comprende anche Algeria, Angola, Bielorussia, Bolivia, Cambogia, Cina, Cuba, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Nicaragua, Palestina, Saint Vincent e Grenadine, Venezuela e Zimbawe.

La nota rilasciata nel 2021 sosteneva che il multilateralismo fosse «sotto un attacco senza precedenti» che minacciava «la pace e la sicurezza globali». «Il mondo sta assistendo a un crescente ricorso all’unilateralismo, segnato da azioni isolazioniste e arbitrarie, tra cui l’imposizione di misure coercitive unilaterali o il ritiro da accordi storici e istituzioni multilaterali, nonché da tentativi di minare gli sforzi critici per affrontare le sfide comuni e globali» recitava il comunicato.

«I cosiddetti amici», dichiarò anonimamente a Reuters un alto diplomatico europeo, «sono quelli che hanno fatto di più per violare la Carta. Forse dovrebbero iniziare a rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali nei loro Paesi». Il gruppo, formalmente parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, si era incontrato a livello ministeriale a margine della 77° sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu, a New York, il 22 settembre. La riunione di Teheran, questa volta tenutasi a livello vice-ministeriale, ha voluto riaffermare la dichiarazione politica adottata in quella sede.

Nel documento di novembre si legge come gli Amici ribadiscano le loro «serie preoccupazioni sui continui tentativi volti a rimpiazzare i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite […] con un cosiddetto “ordine basato su regole” che rimane non chiaro», non discusso o accettato dai membri Onu, che avrebbe il potenziale di «minare lo stato di diritto a livello internazionale». I doppi standard applicati da qualche Paese, assieme a interpretazioni di comodo della Carta «in disprezzo del bene comune o degli interessi collettivi», rappresentano «una delle maggiori minacce alla prevalenza e alla validità degli strumenti universalmente e legalmente vincolanti» che costituiscono «una conquista eccezionale per il genere umano».

Il cuore della dichiarazione si trova al punto 13, dove il gruppo esprime il proprio «incrollabile supporto a, e in solidarietà con, il popolo e il governo della Repubblica Islamica dell’Iran, soggetta a misure coercitive unilaterali, incluse sanzioni unilaterali imposte da certe nazioni, che violano la Carta delle Nazioni unite e le regole e i principi della legge internazionale, minacciando il pieno godimento dei loro diritti umani e la realizzazione del loro diritto allo sviluppo». Gli Amici chiedono il ritiro di tutte le «misure unilaterali» contro l’Iran, così come contro Cuba, verso cui il sostegno è evidenziato al punto 14. Cuba «ha resistito eroicamente all’impatto negativo del blocco economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti per oltre sessant’anni, che ha rappresentato il maggiore impedimento al suo pieno sviluppo economico e sociale».

Questo particolare consesso di dittature esprime inoltre «preoccupazione per il potenziale impatto delle tensioni geopolitiche in atto sulle attuali […] crisi globali, e, perciò, chiede il rispetto della sovranità e dell’indipendenza degli Stati, rifiutando ogni tentativo di trincerarsi in una mentalità da Guerra Fredda basata sul confronto, sull’allargamento delle divisioni e sull’impostazione di visioni e agende disparate, nel tentativo di dividere il nostro mondo in blocchi». Curioso che a dirlo sia, fra gli altri, la Federazione Russa, colpevole di un’invasione ai danni dell’Ucraina che ha causato decine di migliaia di morti, una catastrofe umanitaria che ha portato milioni di persone a fuggire dalle proprie case e dal Paese e una crisi energetica globale, in quella che è la guerra più importante dalla fine del secondo conflitto mondiale e che ha passato ormai i nove mesi di svolgimento.

Ancora più singolare che la Russia, una nazione nota per aver interferito nei processi elettorali delle democrazie di tutto il mondo anche attraverso interventi di comunicazione falsa e fuorviante nell’opinione pubblica, si dichiari preoccupata «per la continua proliferazione della disinformazione nelle piattaforme digitali, inclusi i social media, creata, disseminata e amplificata da attori sia statali sia non statali per motivazioni politiche, ideologiche o commerciali su una scala che cresce in maniera allarmante”. Tali azioni provocano “manifestazioni di linguaggio d’odio, razzismo, xenofobia, stigmatizzazione, incitando ogni forma di violenza, intolleranza, discriminazione e ostilità». Una finta conversione che ha dell’incredibile.

Il gruppo, di cui come detto fa parte anche la Palestina, tra le altre cose riafferma il proprio sforzo «volto a terminare l’occupazione israeliana, che costituisce un’occupazione coloniale illegale e un regime di apartheid, e a raggiungere l’indipendenza dello Stato della Palestina, con Gerusalemme Est come sua capitale».

Pace senza verità. La storia di Antonio Russo, picchiato dai pacifisti e ucciso dai russi 22 anni fa. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 15 Ottobre 2022.

L’inviato di Radio Radicale fu ucciso vicino a Tbilisi, in circostanze misteriose, nella notte tra il 15 e 16 ottobre del 2000, dopo aver trovato una testimonianza video delle torture delle truppe russe contro la popolazione civile cecena. Nessuna istituzione italiana ha mai chiesto conto a Mosca del suo omicidio

Il suo, chiamiamolo così, editore Marco Pannella diceva di lui che non era un giornalista radicale, ma un «radicale giornalista». In un’Italia in cui l’informazione militante è la comfort zone dei cultori della contraffazione, questo minuziosissimo abusivo della professione (non si iscrisse mai all’Ordine dei giornalisti) era invece un impareggiabile guastatore delle rappresentazioni di comodo. 

Antonio Russo fu ucciso nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2000 e il suo cadavere venne ritrovato vicino a Tbilisi, in Georgia. Le sue inchieste e le sue corrispondenze per Radio Radicale sulla guerra in Cecenia non passavano inosservate. Lo ammazzarono dopo che si seppe che era venuto in possesso di una videocassetta, con le prove delle violenze e torture delle truppe russe contro la popolazione civile cecena. Ne aveva parlato, due giorni prima della morte, al telefono con la madre, disperandosi per l’orrore che le immagini suscitavano.

La sua abitazione, dopo l’omicidio, fu ritrovata ripulita di tutto: computer, telefono, videocamera e qualunque tipo di materiale e documentazione.

Antonio Russo aveva raccontato molte guerre. In Algeria, in Ruanda, a Cipro, in Bosnia e in Kosovo, dove, un anno e mezzo prima di morire, disobbedì all’ordine dell’esercito serbo di abbandonare Pristina sotto assedio e fu l’unico giornalista occidentale presente a documentare le prove generali del massacro, poi scongiurato grazie all’intervento della Nato. 

Ricercato, riuscì a uscire dal paese nascosto in un convoglio di profughi, da cui peraltro era indistinguibile. Come giornalista, in Italia, non passava inosservato, con il codino, gli anelli, l’aria sgualcita e una trasandatezza troppo autentica per essere cool. In uno scenario di guerra, per la stessa ragione, diventava invisibile.

Sulla sua storia è uscito nel 2004 un bel film, Cecenia, che non è mai stato distribuito e che quindi hanno visto in pochissimi, in cui a interpretare Antonio Russo è Gianmarco Tognazzi. Anche in questo non è stato fortunato: per essere riconosciuto aveva dovuto morire – «La sua morte è la sua ultima notizia» disse Pannella al suo funerale, denunciando il coinvolgimento dei servizi russi, di cui nessuna istituzione italiana ha mai chiesto conto a Mosca – e per essere ricordato, a ventidue anni dalla sua morte, non può contare che sulla memoria collettiva del mondo radicale.

In questa ricorrenza, quindi, è a maggior ragione necessario ricordare come la sua figura e la sua attività abbiano avuto una forza profetica che, come è ovvio, non gli vogliono riconoscere da morto quegli stessi che non gli riconoscevano da vivo la pretesa di raccontare la guerra con la storia delle sue vittime e di non soggiacere all’idea, politicamente conformistica e giornalisticamente corriva, che la pace sia uno stato di fatto negativo e non una garanzia di diritto positiva, cioè sia semplicemente il non essere della guerra, l’assenza di un conflitto bellico tra forze armate contrapposte e non l’essere della libertà, della dignità umana, della protezione dalla violenza. 

Allo schema pace versus guerra, coerentemente con la sua impostazione radicale, Russo opponeva la dialettica tra nonviolenza e violenza e il legame inscindibile tra pace e verità, tra pace e giustizia. 

Proprio le guerre nella ex Jugoslavia, che aveva frequentato, raccontato e vissuto molto più profondamente dei corrispondenti e dei commentatori embedded nella cattiva coscienza pacifista, avevano dato drammatica evidenza politica a questa differenza. Srebrenica rimane la colonna infame del neutralismo anti-interventista: la mattanza di una comunità disarmata e affidata alla protezione di un contingente militare Onu, ridotto a fare il portinaio dei massacratori.

Nelle sue corrispondenze dal Kosovo, in cui raccontava la disperazione dei musulmani di etnia albanese condannati a fare la fine dei bosgnacchi e la speranza per un intervento militare della Nato che salvasse loro la vita, Russo era diventato una provocazione vivente nei confronti del movimento pacifista mobilitato contro la guerra, cioè contro il soccorso ai kosovari. E se sfuggì alle truppe di Belgrado, che non riuscirono mai a individuarlo e a catturarlo, non scampò invece all’ira pacifista. 

Era rientrato da una decina di giorni dal Kosovo e alla stazione di Mestre, mentre saliva su un treno per Roma, incontrò un gruppo di pacifisti reduci da una manifestazione alla base Nato di Aviano. Lo riconobbero subito e iniziarono a picchiarlo; fortunatamente intervenne la polizia a salvarlo dal pestaggio e a consigliargli sbrigativamente di prendere un altro treno: «Mica pretenderà che la scortiamo fino a Roma?».

Pensando a ciò che la vita gli avrebbe riservato un anno e mezzo dopo, questo episodio così esemplarmente grottesco da sembrare inventato – lo si può ascoltare raccontato dalla voce del protagonista – è un apologo davvero perfetto sulle miserie del pacifismo.

(ANSA il 23 novembre 2022) - "In Ucraina è il momento di alzare i toni della pace. La risoluzione che verrà messa ai voti oggi porta invece all'opposta direzione. La nostra solidarietà al popolo ucraino è totale e consideriamo la Russia come l'unica responsabile della guerra in corso sul suolo ucraino. Il suo esercito si è inoltre macchiato di crimini atroci, tuttavia dopo più di nove mesi di aperte ostilità che non hanno risparmiato le popolazioni civili bisogna mettere a tacere le armi e far prevalere le diplomazie". Lo sottolinea la delegazione M5S all'Eurocamera spiegando che "non sosterrà" la risoluzione che definisce la Russia uno Stato terrorista.

(ANSA il 23 novembre 2022) - Il Parlamento europeo approva la risoluzione per riconoscere la Russia come "stato sponsor del terrorismo". La risoluzione, adottata con 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni, sottolinea che gli attacchi e le atrocità intenzionali delle forze russe, la distruzione delle infrastrutture civili, e altre gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario sono atti di terrore e crimini di guerra. Il testo è passato a larga maggioranza dopo il sì ad alcuni emendamenti alla risoluzione.

Nel testo il Parlamento invita l'Ue a creare un quadro giuridico adeguato per riconoscere gli stati indicati come sponsor del terrorismo istituendo quindi misure nei confronti di Mosca che comportino serie restrizioni nelle relazioni dell'Ue con la Russia. I deputati invitano inoltre il Consiglio ad aggiungere anche l'organizzazione paramilitare "gruppo Wagner" ed il 141esimo Reggimento speciale motorizzato noto anche come "Kadyroviti" nell'elenco dei soggetti terroristici dell'Ue".

Data l'escalation di atti di terrore del Cremlino contro il popolo ucraino, i Paesi Ue sono esortati a ultimare rapidamente il lavoro del Consiglio sul nono pacchetto di sanzioni contro Mosca. Inoltre, i Paesi Ue dovrebbero prevenire, indagare e perseguire qualsiasi tentativo di aggirare le sanzioni in vigore e, insieme alla Commissione, prendere in considerazione eventuali misure contro i paesi che  cercano di aiutare la Russia ad eludere le misure.

(ANSA il 23 novembre 2022) - "Propongo di riconoscere il Parlamento europeo come sponsor dell'idiozia". Questa la prima reazione della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, alla risoluzione approvata dall'Europarlamento che riconosce la Russia come "sponsor del terrorismo". Lo si legge sul suo canale Telegram

Sono quattro gli italiani che, all'Eurocamera, hanno votato contro la risoluzione che definisce la Russia Stato sponsor del terrorismo. Tra questi tre militano nei Socialisti & Democratici. Nei tabulati risulta infatti che hanno votato contro l'indipendente Francesca Donato e i 3 di S&DPietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio. Astenuta l'intera delegazione del M5S. (ANSA) 

Russia "sponsor del terrorismo": come hanno votato i parlamentari italiani. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 24 Novembre 2022.

Nella giornata di mercoledì i deputati del Parlamento europeo hanno votato una risoluzione che dichiara la Russia "Stato sponsor del terrorismo". A motivare la decisione vi sono "le atrocità commesse dal regime di Vladimir Putin contro il popolo ucraino". La risoluzione si limita ad avere un mero valore simbolico, data l’assenza di un quadro giuridico adeguato, ma potrebbe avere potenzialmente un forte impatto nelle relazioni con la Russia. La mozione ha raccolto la quasi totalità dei consensi tra i deputati (con 494 voti a favore), tranne per quanto riguarda 58 astenuti e 44 deputati contrari. Tutto l’arco politico italiano ha votato compatto a favore della risoluzione, ad esclusione del Movimento 5 Stelle, che si è astenuto. Contrari solo 4 parlamentari italiani appartenenti al PD, che hanno votato contro le indicazioni del proprio partito.

La decisione presa dal Parlamento europeo poggia le proprie basi sulle "atrocità internazionali delle forze russe e dei loro delegati contro i cittadini, la distruzione delle infrastrutture civili, e altre gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario", le quali costituiscono "atti di terrore e crimini di guerra". Vista l’assenza di un quadro giuridico di riferimento, che priva di fatto la mozione di valore legislativo, il Parlamento ha invitato "l’UE e i suoi Paesi a creare un quadro giuridico adeguato e considerare di aggiungere la Russia a tale lista". In questo modo, riferisce il Parlamento, scatterebbero nuove misure contro Mosca, insieme a maggiori restrizioni delle relazioni con l’Unione. Va specificato che le risoluzioni del Parlamento europeo hanno valenza di mera raccomandazione, non rappresentando un’imposizione per i governi nazionali né per la Commissione europea.

I deputati hanno anche invitato il Consiglio ad aggiungere il Gruppo Wagner e altri gruppi armati finanziati dalla Russia all’elenco dei soggetti terroristici UE, di isolare ulteriormente la Russia a livello internazionale rivedendone l’adesione ad organismi internazionali (quali il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite), di limitare i legami diplomatici con Mosca e bandire le istituzioni statali russe che nell’Unione "diffondono propaganda nel mondo". Sono stati poi esortati i Paesi europei a portare a termine i lavori per il nono pacchetto di sanzioni "data l’escalation di atti di terrore del Cremlino contro il popolo ucraino".

L’iniziativa ha riscosso un consenso quasi unanime tra i deputati presenti, venendo approvata con 494 voti favorevoli, 44 astenuti e 58 contrari. Tra gli astenuti si trova il M5S, per il quale "in Ucraina è il momento di alzare i toni della pace mentre la risoluzione messa ai voti porta nell’opposta direzione". Tra i 58 contrari, invece, figurano i nomi di 4 italiani: la deputata ex membro della Lega Francesca Donato (la quale ha dichiarato come con questa risoluzione «il Parlamento europeo ostacola formalmente il percorso di de-escalation pro negoziato voluto dagli USA») e tre deputati membri di Socialists & Democrats (S&D) eletti con il PD: Pietro Bartolo, vicepresidente della Commissione per le libertà civili, Andrea Cozzolino, presidente della delegazione per le relazioni con i Paesi del Maghreb, e Massimiliano Smeriglio, ex vicepresidente della Regione Lazio. Proprio Smeriglio ha dichiarato come questa risoluzione rappresenti «un punto di non ritorno, che allontana invece di avvicinare una soluzione politica: così facendo in campo rimane la sola opzione militare», la quale «colpisce in prima istanza la popolazione civile ucraina, che subisce l’occupazione e i bombardamenti russi». Smeriglio sottolinea di aver votato le risoluzioni a favore dell’Ucraina in precedenza, ma con questa, «voluta dal gruppo dei Conservatori europei, si è fatto un salto di qualità dal mio punto di vista drammatico». Senza dubbio, la posizione assunta dal Parlamento europeo non favorisce la strada del dialogo, trovandosi ben lungi dall’essere traducibile in un atto diplomatico.

Nel frattempo non è tardata la risposta da Mosca, dove la portavoce del ministro degli Esteri russo Maria Zakharova ha proposto di riconoscere il Parlamento europeo "sponsor dell’idiozia". [di Valeria Casolaro]

La Russia sponsor del Terrore, una boutade rifiutata dagli Usa. Piccole Note il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

L’Unione europea ha dichiarato la Russia uno Stato sponsor del terrorismo. Una boutade colossale se si tiene presente, solo per fare un esempio, che senza l’intervento russo in Siria, Damasco e probabilmente anche Bagdad sarebbero diventate un enorme Califfato dell’Isis, le cui fila erano formate per lo più dai combattenti per la libertà addestrati e armati dall’Occidente per attuare i regime-change in Libia e Siria.

Quando la Ue più rigida degli Stati Uniti

La decisione è stata presa nonostante il fatto che l’America avesse rifiutato tale sviluppo, con Biden che aveva rigettato le sollecitazioni in tal senso dei falchi Usa. In tal modo la Ue, in cui i falchi sono pochi – eccetto che in Italia – e hanno gli artigli spuntati, svela la sua condizione sub-coloniale.

Non una mera colonia, infatti, in grado di giovarsi delle controversie interne del dominus per perseguire, pur nelle restrizioni, i suoi interessi, ma una sub-colonia costretta a sottostare alle pulsioni più feroci del potere imperiale, alla stregua di una delle tante repubbliche delle banane dove i fili dei dittatori erano mossi dalle figure più retrive dell’Impero.

Tutto ciò denota anche l’ormai conclamato deficit cognitivo della Politica della Ue, con il potere affidato a persone del tutto incapaci di gestirlo. D’altronde, tale deficit è palesato in maniera incontrovertibile dalla ventilata nomina del signor Luigi di Maio a inviato speciale per il Golfo Persico, mettendo così una figura a dir poco inadeguata e senza alcun supporto politico reale che non il proprio condominio a tutelare gli interessi, economici e di sicurezza, del Vecchio Continente presso una delle ragioni più complesse e più a rischio del mondo.

Il fatto poi che a suggerire la nomina sia stato Draghi conferma non solo la scarsa considerazione che si attaglia al personaggio, ma anche che l’idea propagandistica che i tecnici siano al di sopra delle debolezze clientelari proprie dei politici è a dir poco non credibile (e ritenere che tale debolezza abbia guidato le scelte dei suoi ministri di governo è forse un peccato, ma magari ci si azzecca).

Quanto al personaggio in questione, il povero Di Maio non ha alcuna colpa se non quella di aver compreso prima di altri che la scarsa intelligenza è una dote molto apprezzata dal potere reale.

I prigionieri russi uccisi

Al di là, resta che la scelta di definire la Russia come sponsor del terrorismo ha avuto anche una tempistica sfortunata, cadendo tale decisione in costanza della pubblicizzazione dei filmati dell’eccidio a sangue freddo di una decina di prigionieri di guerra russi, circostanza che Kiev ha tentato invano di negare e rilanciata dal New York Times – sebbene con i dubbi d’obbligo per evitare di andare troppo in contrasto con la propaganda anti-russa (l’eccidio a sangue freddo è incontrovertibile, qui un altro video, ma solo per persone forti: è terribile).

Non vogliamo pensare che tale tempistica sia stata voluta proprio per coprire la notizia dell’eccidio, che stava dilagando sui media, ma certo resta infelice.

Quanto all’eccidio, fa il paio con un’altra analoga strage, documentata da un filmato circolato all’inizio di aprile che immortalava altri soldati ucraini che assassinavano alcuni prigionieri russi (New York Times). Insomma, la pratica sembra qualcosa di alquanto usuale presso alcuni battaglioni ucraini.

Anche allora dall’Occidente non si levò alcuna voce per condannare l’accaduto, che esula dagli usuali orrori della guerra dei quali ucraini e russi si accusano a vicenda. E ciò nonostante il fatto che siamo noi ad armare quelle mani assassine. Si avrebbe il dovere di ricordare a quanti ricevono tali armi i limiti del loro uso e, se tali limiti sono superati, di minacciare di non fornirne più.

Oggi, come allora, l’Ucraina ha aperto un’inchiesta per appurare quanto avvenuto. Un atto dovuto per placare le lamentele e che, come allora, non avrà alcun esito. Allora, i responsabili della strage furono catturati dai russi poco dopo, cosa che hanno promesso di fare anche in questo caso. l’Ucraina avrebbe fatto meglio a sbattere i rei in prigione, ma ovviamente rischia di aprire un vaso di pandora che vuole che resti chiuso.

Il Terrore di ritorno

Non solo, per ironia della sorte, alcuni giorni prima della designazione della Russia come sponsor del Terrore, la Digos di Napoli ha arrestato quattro componenti di una cellula terroristica di marca neonazista affiliata all’Ordine di Hagal, i quali avevano rapporti stretti con il Battaglione Azov. I quattro preparavano attentati.

Il rischio che stiamo armando i terroristi del domani è alto, come aveva allarmato, peraltro, agli inizi della guerra non una quisling qualsiasi, ma Rita Katz, direttrice del Site, sul Washington Post (ora non se può più parlare, si sarebbe accusati di fare il gioco della Russia).

Il pericolo, cioè, è quello di replicare quanto avvenuto per la guerra siriana, con i ribelli di fiducia dell’Occidente, armati e addestrati in funzione del regime-change contro Assad, che hanno iniziato a mietere vittime tra le file dei loro benefattori. Praticamente tutti gli attentati avvenuti in Europa nel decennio della guerra siriana (e dopo) sono stati portati a termine usando tale manovalanza (si potrebbero fare molti esempi).

Per ora il pericolo che il neonazismo di ritorno insanguini le piazze del Vecchio Continente è limitato, sia perché tale manovalanza per ora è usata in guerra sia perché l’intelligence vigila in maniera ferrea su tale possibilità, perché getterebbe un’ombra, forse decisiva, sul supporto occidentale a Kiev.

Ma verrà un tempo, non molto in là, nel quale il movimento neonazista internazionale, rafforzato dalla guerra ucraina, ben armato, addestrato, e soprattutto ormai aduso all’orrore, avendolo attraversato e perpetrato in terra ucraina, farà sentire la sua voce in Europa e altrove, come da allarme della Katz. E non sarà un bel sentire…

Prima dell’Ucraina, l’Afghanistan

È questo un altro motivo per chiudere in fretta il tragico show che si sta consumando in ucraina a spese di quel popolo e dei deboli del mondo.

Infine, va ricordato che la pratica di uccidere i prigionieri di guerra in maniera più o meno sistematica non ha molti precedenti recenti se non in un altro conflitto nel quale rimase impelagata la Russia, quello afghano, nel corso dell’invasione sovietica del Paese.

Anche allora i mujaheddin armati dall’Occidente non facevano prigionieri, assassinando i soldati di leva russi che rimanevano nelle loro mani. Il tutto con l’ovvio tacito placet americano.

Se lo ricordiamo non è tanto per ripercorrere una pagina di cronaca nera del passato, ma solo perché non ci stupisce affatto quanto sta avvenendo in Ucraina. Fa parte del playbook…

E perché, per tornare al tema terrorismo, va ricordato che quei mujaheddin divennero poi i terroristi contro i quali l’Occidente si ritrovò impelagato nella lunga guerra al Terrore… la storia, purtroppo, ha il vizio di ripetersi.

Non solo la Russia. L’Ue deve decidersi a definire terroristi anche i pasdaran iraniani. Carlo Panella su L'Inkiesta il 24 Novembre 2022

I commerci europei con le industrie iraniane impediscono di parlare con una sola voce e sanzionare il regime degli ayatollah, ma occorre un’azione decisa dal Consiglio e dalle Nazioni Unite per non lasciare i manifestanti soli di fronte alle pallottole

«Occidente, il tuo silenzio significa per noi la morte»: questo gridano i ragazzi iraniani nelle strade di Mahbad. E purtroppo hanno ragione. Ma cosa potrebbe fare il mondo libero per aiutare questa rivoluzione che riesce a sopportare una repressione feroce e non dà segno di fermarsi dopo due mesi di mobilitazione, quattrocento morti, sedicimila arresti e sei condanne a morte di manifestanti? Molto, ma non lo fa.

Certo, le sanzioni economiche sono già in atto e non è facile aggiungerne altre efficaci, inoltre l’Iran degli ayatollah le elude in buona parte grazie ai fiorenti commerci con la Russia, con la Cina, con Cuba, con il Venezuela e con la Corea del Nord. Un fronte di dittature non casuale. Il pieno appoggio militare di Teheran a Putin per la sua guerra in Ucraina con la fornitura di micidiali droni (che verranno ora costruiti in Russia grazie a un recente accordo con i Pasdaran che controllano e possiedono l’intera industria militare iraniana) rivela lo spessore politico pieno e anti occidentale della alleanza filo iraniana.

Spuntata la pressione economica già forte, resta però quella diplomatica, l’isolamento internazionale, e su questo l’Occidente incredibilmente non si muove, se non a parole. Nemmeno in sede Onu, che continua a non espellere l’Iran dalla Commissione sullo status delle donne! Una Onu imbelle e silente anche a fronte della ultima gravissima provocazione di Teheran che ha appena annunciato di avere raffinato uranio al sessanta per cento, a un passo dal livello utile per armare la bomba atomica.

Il punto politico è comunque chiaro: il potente e decisivo avversario della rivoluzione iraniana è la compattezza del regime. Non uno spiraglio di mediazione o di trattativa con le piazze in rivolta si è aperto. Anzi, ogni giorno che passa il blocco clericale che detiene il potere politico si subordina sempre più al blocco militare.

Sono i Pasdaran a dettare l’agenda politica a imporre una repressione feroce, nella chiara prospettiva di essere decisivi da qui a poco quando dovrà essere intronato il successore di Ali Khamenei, anziano e molto malato, quale Guida della Rivoluzione. Nessuno nel regime e nel clero osa alzare la voce o prendere le distanze dai Pasdaran, men che meno quei "riformisti" di facciata che sono scomparsi da anni dalla scena politica iraniana (se mai sono esistiti realmente e non a parole).

Dunque, questo è il nucleo di potere che va colpito e sanzionato. Annalena Baerbock, ministro degli Esteri della Germania, tenta da settimane di convincere l’Unione Europea a inserire i Pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche (come già hanno fatto gli Stati Uniti nel 2019 per decisione di Donald Trump, anche se nella primavera scorsa Joe Biden stava per fare marcia indietro in nome di uno sciagurato accordo sul nucleare nella illusione reiterata che col regime degli ayatollah si possa trattare).

Questa scelta è saggia ed urgente. Avrebbe un riflesso sui troppi commerci che ancora fa l’Europa con le industrie e le infrastrutture iraniane che sono sotto il controllo societario dei Pasdaran, sul modello delle SS hitleriane. Ma soprattutto darebbe un segnale politico forte ai manifestanti iraniani che vedrebbero l’Europa trattare da terroristi, quali sono, i Pasdaran che gli sparano contro.

Giorgia Meloni e Antonio Tajani faranno dunque bene a concordare con Annalena Baerbock e col governo tedesco e francese di inserire nel prossimo Consiglio Europeo i Pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche superando una tradizionale morbidezza della nostra diplomazia nei confronti del regime degli ayatollah.

E non sarebbe assolutamente insignificante se ci fosse una forte mobilitazione parlamentare e di opinione pubblica per arrivare a questo obbiettivo.

Crimini di guerra. La Russia è uno Stato sponsor del terrorismo, dice il Parlamento Ue (ma non il M5S). Vincenzo Genovese su L’Inkiesta il 24 Novembre 2022.

La risoluzione che condanna i «mezzi terroristici» del regime di Vladimir Putin ottiene un appoggio trasversale. Si astengono i Cinquestelle filoputiniani, votano contro altri quattro deputati italiani. Il sito dell’Eurocamera vittima di un cyberattacco

Che la risoluzione sarebbe stata approvata c’erano pochi dubbi, ma un risultato così ampio forse non se lo aspettavano nemmeno i suoi promotori, i gruppi del Partito popolare europeo, dei Conservatori e riformisti europei e Renew Europe. Il Parlamento europeo ha definito la Russia uno «Stato sponsor del terrorismo» con 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni. Praticamente tutti i gruppi politici dell’Eurocamera hanno sostenuto il testo, tranne Identità e democrazia, che si è diviso in parti quasi uguali tra favorevoli e contrari.

Adesioni e astensioni

Anche la quasi totalità degli europarlamentari italiani ha votato a favore, appoggiando la condanna dei «mezzi terroristici» utilizzati dalla Russia, i suoi «attacchi intenzionali contro i civili» e le altre «gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario».

Tutti favorevoli i rappresentanti di Fratelli d’Italia (e la cosa non sorprende), ma anche quelli di Lega e Forza Italia, nonostante gli approcci più o meno morbidi dei rispettivi leader nei confronti di Vladimir Putin.

Si sono astenuti i cinque parlamentari del Movimento Cinque Stelle presenti alla votazione, una posizione spiegata prima del voto dalla loro capodelegazione, Tiziana Beghin. «Noi riconosciamo e condanniamo il ruolo della Russia, in ogni sede senza se e senza ma. Tuttavia in questa risoluzione non c’è alcun termine che faccia riferimento al negoziato di pace. Questa è una risoluzione per portare avanti il conflitto: per noi è inammissibile».

All’Eurocamera c’è pure chi ha votato contro. Oltre a Francesca Donato, che ha lasciato la delegazione della Lega nel settembre 2021 e ora appartiene al gruppo misto, tre eurodeputati eletti con il Partito Democratico: Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio.

Quest’ultimo così motiva la sua scelta a Linkiesta: «Ho convintamente votato tutte le risoluzioni a favore del popolo ucraino, contro la violenza e la morte disseminate dall’esercito russo. Con questa però si è fatto un salto di qualità, dal mio punto di vista, drammatico».

L’europarlamentare invita i suoi colleghi a una riflessione sul ruolo «autonomo e indipendente» che il Parlamento dovrebbe assumere nel contesto diplomatico, dato che lo stop alle ostilità deve rimanere l’obiettivo da perseguire.

«Indicare la Russia come Paese terrorista è un punto di non ritorno che allontana invece di avvicinare una soluzione politica. Così facendo in campo rimane la sola opzione militare, che colpisce in prima istanza la popolazione civile ucraina». Francesca Donato, invece, ha definito la risoluzione «assurda e controproducente».

Dalla conta finale, comunque, mancano più di cento deputati, assenti in aula al momento del voto. Tra loro diversi italiani: Fabio Massimo Castaldo del M5S, ex vicepresidente del Parlamento europeo, Fulvio Martusciello di Forza Italia e i tre ex pentastellati ora dentro il gruppo Verdi/Ale, Ignazio Corrao, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini.

Il giallo dell’attacco hacker

Il testo della risoluzione non risparmia critiche pesanti al comportamento della Federazione Russa, responsabile di varie atrocità nella guerra in Ucraina tra cui attacchi in aree residenziali e deportazione di cittadini ucraini.

La designazione di «Stato sponsor del terrorismo» è però piuttosto aleatoria, anche perché l’Unione Europea non ha al momento una cornice legale entro cui inserire questa dichiarazione.

Infatti, nella risoluzione si chiede proprio di «creare un quadro giuridico adeguato» e inserirvi la Russia. Le conseguenze concrete sarebbero ulteriori misure restrittive da imporre al Paese e una riduzione al minimo necessario delle relazioni diplomatiche. Ad esempio, andrebbero bandite tutte le organizzazioni, anche culturali e scientifiche, legate al governo russo e attive nei Paesi dell’Unione.

Come spiegano a Linkiesta fonti parlamentari, l’obiettivo della risoluzione è quello di avvicinare l’Ue al modello statunitense, in cui alcuni Stati (attualmente Cuba, Corea del Nord, Iran e Siria) sono inseriti in una lista di sponsor del terrorismo, e per questo oggetto di una serie specifica di sanzioni finanziarie, commerciali e militari.

Nella lista europea del terrorismo andrebbero inseriti anche l’organizzazione paramilitare Wagner, le unità militari cecene dette «kadyroviti» e altri gruppi armati o milizie finanziati dalla Russia.

Data l’escalation bellica del Cremlino contro il popolo ucraino, il Parlamento europeo vorrebbe pure un’accelerazione sul nono pacchetto di sanzioni alla Russia, che secondo fonti comunitarie sarebbe al momento in preparazione alla Commissione.

Poco dopo l’esito del voto, i sistemi informatici del Parlamento sono stati vittima di un «sofisticato cyberattacco», come ha scritto su Twitter la presidente dell’Eurocamera Roberta Metsola, con il sito internet fuori uso per ore. Si è trattato di un cosiddetto «Ddos», un’interruzione del servizio dovuta a un massiccio invio di richieste indirizzate all’indirizzo web del Parlamento.

A rivendicarlo è stato il gruppo pro-russo di hacking Killnet, che in passato aveva colpito con attacchi simili i siti di diversi governi dopo le loro condanne all’invasione dell’Ucraina.

Piccata, invece, la risposta su Telegram di Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. «Propongo di riconoscere l’Europarlamento come sponsor di idiozia». Tra Mosca e Strasburgo, c’è sempre meno spazio le cordialità.

Da liberoquotidiano.it il 23 novembre 2022. 

Il Movimento 5 stelle si sarà pure astenuto ma quattro europarlamentari italiani, di cui tre del Pd, hanno votato contro la risoluzione che definisce la Russia stato sponsor del terrorismo. Si tratta della ex leghista Francesca Donato e dei dem Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio.

Dunque il partito guidato da Enrico Letta si è spaccato al Parlamento europeo che tuttavia ha poi approvato con 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astenuti una risoluzione non legislativa che chiede di creare un elenco a livello europeo di Paesi che finanziano il terrorismo internazionale che includa la Russia. 

I deputati hanno sottolineato che gli atti atroci compiuti dalla Russia costituiscono crimini di guerra e sollecitano i Paesi membri a isolare Mosca dal punto di vista internazionale, anche nell’ambito di organizzazioni come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il Parlamento invita gli stati a ridurre i contatti diplomatici dell’Ue con i rappresentanti russi e a completare celermente i lavori sul nono pacchetto di sanzioni verso la Russia.

Tra gli eurodeputati italiani vota all’unanimità a favore la delegazione di Fratelli d’Italia. Votano a favore anche Forza Italia e Lega (ma si registrano assenze e defezioni). Mentre nella delegazione del Pd, appunto, Smeriglio, Cozzolino e Bartolo hanno espresso in maniera esplicita il loro voto contrario. La delegazione pentastellata, in modo compatto, non ha votato. Contraria alla risoluzione anche Francesca Donato.

A Sinistra piace tanto Vladimir Putin. Il voto Ue che condanna la Russia è un caso. Christian Campigli su Il Tempo il 24 novembre 2022

Un'attrazione fatale. Che va oltre la logica, il buonsenso e persino la mera convenienza politica. Un amore, quello nei confronti di Vladimir Putin, comprensibile forse prima del conflitto ucraino, oggi difficile, se non impossibile, da giustificare Il Parlamento Europeo ha approvato ieri una risoluzione che riconosce la Russia come «Stato sponsor del terrorismo». Una presa di posizione chiara, netta, che è passata grazie a 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni. Il documento sottolinea che gli attacchi e le atrocità intenzionali, la distruzione delle infrastrutture civili, e altre gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario sono «atti di terrore e crimini di guerra». Il Parlamento invita esplicitamente l'Unione Europea a strutturare un quadro giuridico adeguato «per riconoscere gli stati indicati come sponsor del terrorismo, istituendo quindi misure nei confronti di Mosca che comportino serie restrizioni nelle relazioni dell'Ue con la Russia».

Significativo anche il passaggio nel quale vengono indicate le organizzazioni paramilitare Wagner ed il 141esimo reggimento speciale motorizzato noto anche come Kadyroviti e classificate come soggetti terroristici. Infine, il documento contiene un'esortazione ad ultimare rapidamente il lavoro del Consiglio sul nono pacchetto di sanzioni contro Mosca. In questo scenario, fa scalpore la decisione di quattro italiani che hanno deciso di votare contro la risoluzione in questione. Si tratta, nello specifico, di tre rappresentanti che militano nel gruppo dei Socialisti & Democratici (quello nel quale siede il Partito Democratico) ed una indipendente. Quest'ultima è l'ex leghista Francesca Donato, alla quale si sommano i no dei dem Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio. Non va dimenticato neanche un secondo aspetto dal carattere squisitamente politico. L'intera delegazione del Movimento Cinque Stelle ha deciso di astenersi. Al contrario, gli eurodeputati di Fdi, Lega e Forza Italia hanno tutti votato a favore della risoluzione che dichiara la Russia Stato che sponsorizza il terrorismo.

«In Ucraina è il momento di alzare i toni della pace. Questa risoluzione porta invece all'opposta direzione - si legge in una dichiarazione resa dalla delegazione dei Cinque Stelle - La nostra solidarietà al popolo ucraino è totale e consideriamo la Russia come l'unica responsabile della guerra in corso sul suolo ucraino. Il suo esercito si è inoltre macchiato di crimini atroci, tuttavia dopo più di nove mesi di aperte ostilità che non hanno risparmiato le popolazioni civili bisogna mettere a tacere le armi e far prevalere le diplomazie. Non è più il momento del muro contro muro. Il grande assente del testo della risoluzione del Parlamento europeo è la parola pace e per questa ragione, pur condividendo i paragrafi di sostegno all'Ucraina, non possiamo sostenerla». Una presa di posizione coerente con la politica voluta da Giuseppe Conte, ma assai distante non solo dal centrodestra, ma anche dal Terzo Polo. Una scelta, quella dei pentastellati, bocciata senza appello dall'esponente di Italia Viva, Nicola Danti, che su Twitter non ha lesinato critiche al movimento creato da Beppe Grillo e GianRoberto Casaleggio. «Puntuale arriva la dichiarazione di astensione dei Cinque Stelle. È più forte di loro, ogni volta che c'è da condannare Putin si nascondono dietro mille scuse pur di non farlo. Senza vergogna».

Stasera Italia, "errore gravissimo sulla guerra in Ucraina". Emiliano infilza Italia e Ue. Il Tempo il 30 novembre 2022

Michele Emiliano, governatore della Regione Puglia, è tra gli ospiti in studio della puntata del 30 novembre di Stasera Italia, il programma televisivo pre-serale di Rete4 condotto da Barbara Palombelli, e teme per l’attuale gestione della guerra tra Russia ed Ucraina, soprattutto per l’atteggiamento sbagliato per arrivare alla pace tra Mosca e Kiev: "Giuseppe Conte ha ragione a dire che i tentativi di iniziare un serio negoziato di pace sono inesistenti, questa cosa di lasciare un fuoco accesso a 1200 chilometri dalla Puglia e a qualche chilometro in più da Roma è un errore gravissimo per l’Unione Europea e l’Italia".

Guerra in Ucraina. Giravolta del Pd, dall'elmetto al pacifismo. La sinistra abbandona la linea tenuta con Draghi e ora frena sulle armi. Fausto Biloslavo il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non vendiamo la pelle dell'orso russo prima di averlo accoppato. Un vecchio proverbio che riflette la situazione sul terreno in Ucraina. Le forze di Kiev hanno assestato formidabili smacchi agli invasori costretti prima alla fuga verso il Donbass sul fronte dell'Est e poi alla ritirata da Kherson sulla prima linea all'estremo opposto. Debacle umilianti, ma non sconfitte devastanti che possono ribaltare le sorti del conflitto portando a una vittoria finale senza se e senza ma. Per questo motivo non bisogna tanto traccheggiare nel rinnovo dell'invio delle armi a Kiev il prossimo anno. L'opposizione sembra spaccata in quattro con il Pd che, fino a poco fa con il governo Draghi, si era messo l'elmetto e adesso sembra diviso fra irriducibili e «pacifinti» interessati solo a recuperare consensi in continua erosione.

Il governo, però, deve essere consapevole che le armi non si possono dare a fondo perduto per una guerra senza fine, ma devono servire a raggiungere l'obiettivo di una pace giusta. L'opzione trattativa non ha speranza senza uno straccio di piano da proporre con forza e serietà cogliendo la finestra che sembrava aprirsi fino a febbraio.

I russi già usano abilmente l'arma dell'inverno riducendo al gelo e al buio la popolazione ucraina. Il doppio scopo è evidente: fiaccare il sostegno al presidente Zelensky e aumentare il peso sull'Europa in termini di aiuti extra. Per non parlare dell'arma ibrida dei profughi che potrebbero riversarsi nei paesi limitrofi e da noi per la sopravvivenza.

Sul campo di battaglia, nonostante gli umilianti passi indietro, gli invasori si concentrano soprattutto nel Donbass, nodo del contendere dal 2014. Ieri i filo russi, appoggiati dalle armi pesanti di Mosca, avrebbero conquistato Andrivka, cittadina strategica che segna l'avanzata nel 45% della regione di Donetsk ancora in mano agli ucraini. E la piccola Stalingrado di Bakhmut, tenuta con le unghie e con i denti dalle forze di Kiev, rischia l'accerchiamento dei tagliagole della Wagner. L'ambasciata russa a Roma usa l'arma della propaganda pubblicando la foto di un mezzo italiano ribaltato nel fango della prima linea dopo una cannonata. E pone una domanda provocatoria proprio adesso che il Parlamento dovrà decidere sulle nuove armi a Kiev con i riottosi grillini: Tutti i contribuenti italiani sono felici con la destinazione dei loro soldi?. Non si tratta di un Lince fornito dal governo, ma di un blindato simile che fa parte di un lotto comprato da una società abruzzese dall'ex presidente ucraino Poroshenko per il suo battaglione.

Se Bakhmut cadesse gli invasori avrebbero la strada spianata verso Kramatrosk e Sloviansk, la linea del Piave delle difese ucraine nel Donbass. Stiamo parlando di mesi di ulteriori e sanguinosi combattimenti, che hanno già falcidiato i due eserciti in lotta provocando 17mila morti e feriti fra i civili. Il nuovo zar Putin ha bisogno del trofeo del Donbass per dichiarare una parziale vittoria. Nonostante comincino a scarseggiare i missili di precisione e il munizionamento più preciso ed efficace, il generale «Armageddon», al secolo Sergei Surovikin, che comanda l'invasione sarebbe pronto ad assetare nuovi terribili colpi. I satelliti hanno individuato nella vicina base aerea di Engels su territorio russo preparativi per utilizzare bombardieri strategici Tupolev 95 e 160, che in teoria possono lanciare anche armi nucleari. Motivo in più per non abbandonare gli ucraini, ma puntare solo sullo sforzo bellico affossando qualsiasi spiraglio negoziale è un azzardo, se non un suicidio, per tutti.

Il cardinale Zuppi. La legittima difesa contro un aggressore che distrugge l’Ucraina, come ha fatto in Siria, è fondamentale. Linkiesta il 26 Novembre 2022.

Il presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi ha partecipato alla seconda giornata del Festival de Linkiesta, discutendo con il giornalista Francesco Lepore di pace, del ruolo della religione nella politica, dei diritti degli omosessuali e dei casi di abusi nella Chiesa

«Non c’è pace senza giustizia, e quindi libertà. Dire che si vuole la pace non significa confondere aggressore e aggredito». Il Cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, durante l’evento “Vatikana” al Festival de Linkiesta, si espone in maniera decisa su un tema fondamentale, il pacifismo. Argomento che lo tocca in prima persona, in quanto personalità fondamentale nella conclusione del conflitto in Mozambico dopo decenni di violenza. La pace continua a dividere il mondo sociale, ma anche quello giornalistico e politico, rispetto alla guerra di aggressione messa in atto da Putin il 24 febbraio, di cui ieri è ricorso il nono mese. La parola “pace”, fa notare il moderatore dell’evento Francesco Lepore, giornalista di Linkiesta, viene spesso ripetuta, ma si riduce quasi sempre a slogan.

«Questo è un mondo complesso che chiede delle scelte. Il rischio è che ci si invischi nella complessità. Qual è il rapporto tra pace, giustizia e libertà?» si chiede Zuppi. «Per l’Ucraina, se penso al primum vivere, ovvio che voglio la pace. Dall’altra parte, però, occorre domandarsi: la voglio a qualunque prezzo? Non c’è pace senza giustizia, e quindi libertà. Dire che si vuole la pace non significa confondere aggressore e aggredito. La legittima difesa è fondamentale, perché c’è un aggressore, che distrugge, che ha una tattica di guerra uguale a quella attuata Siria. Quando il Papa chiede al presidente della Russia, proprio per il bene del suo Paese, di dichiarare il cessate il fuoco, e al presidente ucraino di accettare delle giuste condizioni di dialogo, e la parola giuste è importante, io credo sia fondamentale».

Altro tema di grande attualità affrontato dal cardinale Zuppi è quello dei diritti afferenti alle persone Lgbt. Soprattutto a causa della recente esternazione del senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan, che, citando il levitico – uno dei testi biblici più difficili da interpretare – si è riferito ai rapporti tra due uomini come un abominio. «È molto pericoloso far derivare una proposta politica da una lettura di testi religiosi che finisce per essere priva della necessaria interpretazione, portando a una sorta di teocrazia, un neocristianesimo con dei tratti di fondamentalismo» afferma Zuppi, secondo cui le religioni «devono diventare sempre più la garanzia di dialogo, incontro, e quindi anche superare l’utilizzo per altri fini o per giustificare i nazionalismi, evitando di giustificare pregiudizi, odii usando la religione».

Il discorso si sposta inevitabilmente sul riconfermato ministro Matteo Salvini e sul suo massiccio utilizzo di simboli religiosi, che contrasta con tragedie come quelle avvenute nel Mediterraneo a causa delle politiche del nostro Paese. «Per un cristiano fare politica significa cercare il bene comune, termine abusato che spesso coincide con interessi personali. Bisogna mettere al centro la persona, dall’inizio alla fine della vita. C’è bisogno oggi di tanto amore politico, per citare l’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco, nella prospettiva di pensarsi insieme e di saper dialogare e discutere nella ricerca di qualcosa che ci deve unire».

La discussione verte poi su un argomento particolarmente delicato per la Chiesa, ovvero l’abuso di membri del clero su soggetti minori. Su questo, nel corso della sua attività, il cardinale Zuppi è intervenuto pubblicando un report che è stato oggetto di attacchi di alcune associazioni, che vedono in esso una mancanza di considerazione verso la vittima. «Siamo effettivamente arrivati tardi. La consapevolezza, la fermezza nella comprensione dei problemi, nell’individuazione delle responsabilità, è qualcosa che è maturato negli ultimi anni. Non è stata facile questa autocoscienza, ma ora c’è» dice il cardinale. «Dobbiamo crescere, ma mi sembra che la chiesa italiana abbia scelto con chiarezza dei regolamenti molto fermi, pubblicando i dati e rendendosi disponibile a delle analisi su di essi, qualcosa che per la Chiesa era impensabile. Prendere in esame i casi è il primo interesse della Chiesa. Il dolore è quello delle vittime, ed è quello che a maggior ragione spinge la Chiesa a una grande chiarezza e a un grande rigore. Ci va tempo, con l’intenzione di non nascondere niente e non scappare».

(ANSA il 28 novembre 2022) Il Cremlino "accoglie con favore" l'offerta di mediazione del Vaticano, ma è l'Ucraina che non è favorevole. Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. "Sappiamo - ha detto Peskov, citato dall'agenzia Interfax, rispondendo a una domanda sull'offerta di mediazione del Vaticano - che un certo numero di statisti e Paesi stranieri si dichiarano pronti a fornire il loro aiuto e, naturalmente, accogliamo con favore tale volontà politica. Ma nella situazione che abbiamo ora de facto e de jure da parte dell'Ucraina, tali interventi non possono essere richiesti".

(ANSA il 28 novembre 2022) "La posizione della Santa Sede è cercare la pace e cercare una comprensione" tra le parti, "la diplomazia della Santa Sede si sta muovendo in questa direzione e, ovviamente, è sempre disposta a mediare". Lo dice il Papa in un'intervista alla rivista dei gesuiti America. "Ho anche pensato di fare un viaggio, ma ho preso la decisione: se viaggio, vado a Mosca e a Kiev, in entrambe, non solo in un posto". "Perché non nomino Putin? Perché non è necessario", "a volte le persone si attaccano a un dettaglio. Tutti conoscono la mia posizione", ha ribadito il Pontefice.

Da corriere.it il 28 novembre 2022.

Mosca si scaglia contro il Papa che parlando alla rivista dei gesuiti «America» ha denunciato che «forse i più crudeli» nell’esercito russo in Ucraina sono «i ceceni, i buriati e così via». «Non si tratta neppure più di russofobia, ma di perversione della verità di non so neppure quale livello», ha tuonato la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, come riporta l’agenzia Tass. 

«Quando parlo dell’Ucraina, parlo di un popolo martirizzato. Se hai un popolo martirizzato, hai qualcuno che lo martirizza. Quando parlo dell’Ucraina, parlo della crudeltà perché ho molte informazioni sulla crudeltà delle truppe che entrano», ha detto Papa Francesco. «In genere, i più crudeli sono forse quelli che sono della Russia ma non sono della tradizione russa, come i ceceni, i buriati e così via. Certamente, chi invade è lo stato russo. Questo è molto chiaro», ha sottolineato il Pontefice.

«Negli Anni ‘90 e primi 2000 ci è stato detto esattamente il contrario», ha ricordato Zakharova, «che erano i russi, gli slavi a torturare i popoli del Caucaso e ora ci dicono che è la gente del Caucaso a torturare gli slavi. Deve trattarsi di perversione della verità».

Il Papa: "Pace, ma russi crudeli". Mosca: "È una verità perversa". Storia di Matteo Basile su Il Giornale il 29 novembre 2022.

Ogni volta che si utilizza il termine «dialogo» per cercare di porre fine alla guerra in Ucraina, sistematicamente succede qualcosa che spinge nella direzione opposta. E quasi sempre a spingere è una parte sola. Perché quello che succede in Russia è paradossale. Dalle parti del Cremlino nel giro di pochissime ore riescono a dire una cosa, smentirla e accusare chiunque di essere responsabile del caos. Fare e disfare, praticamente tutto da soli. Prima aprono al dialogo, in un secondo tempo si dicono pronti ad accogliere l'appello del Vaticano, per poi arrivare a definire «perversione della verità» le parole del Papa che si è azzardato a evidenziare le responsabilità russe sulla guerra. Cattivoni tutti, il Papa, gli ucraini e l'Occidente. E l'ipotesi dialogo torna in soffitta. L'ennesimo controsenso nel contesto di un conflitto che di sensato continua ad avere poco.

Succede che dopo l'appello di Monsignor Paul Richard Gallagher, il «ministro degli esteri» del Vaticano, Papa Francesco ribadisca la sua posizione. «La diplomazia della Santa Sede è sempre disposta a mediare. Quando parlo dell'Ucraina parlo di un popolo martirizzato. Se hai un popolo martirizzato, hai qualcuno che lo martirizza», ha detto il Pontefice, citando anche «crudeltà» delle truppe di Mosca e specificando che «certamente, chi invade è lo stato russo. Questo è molto chiaro». E apriti cielo. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov prima apre alla Santa Sede e afferma «Apprezziamo questa iniziativa», non senza attaccare Kiev che a suo dire non sarebbe disposta a trattare. Poi, dopo le parole del Papa, ecco l'attacco frontale e indiscriminato da parte della sempre amorevole portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova. «Non si tratta neppure più di russofobia, ma di perversione della verità di non so neppure quale livello», ha attaccato la più fedele delle yes woman del Cremlino, una che difficilmente parla se non imbeccata da qualcuno sopra di lei. La dimostrazione più palese che il verbo proferito da Mosca vale poco o nulla e che quando si parla di pace e trattative per raggiungerla, le condizioni poste dall'invasore risultano inaccettabili anche per chi è dotato di una benevolenza cristiana non per tutti.

Eppure anche gli Stati Uniti puntano a rimettere insieme i cocci di un dialogo che stenta a decollare ad ogni livello. Elisabeth Rood, incaricata d'affari statunitense in Russia, è netta: «Il presidente Joe Biden è stato molto chiaro sul suo impegno a dialogare e rimaniamo impegnati a raggiungere questo obiettivo» pur ammettendo come sia «difficile immaginare la continuazione del dialogo strategico in questo momento». Per colpa di chi? Ancora una volta del ristretto circolo di fedelissimi di Putin. Un'ulteriore dimostrazione arriva dal rinvio della riunione della commissione russo-statunitense sul trattato New Start, a tema disarmo nucleare. Il vertice non si terrà perché la Russia, in maniera unilaterale, ha deciso che non si presenterà ai colloqui previsti da oggi al Cairo. «La parte russa ha informato gli Stati Uniti che ha rinviato unilateralmente il meeting e ha dichiarato che avrebbe proposto nuove date», fanno sapere dalla Casa Bianca aggiungendo che gli Stati Uniti «sono pronti a riprogrammare il prima possibile». In ballo c'è il limite al numero di armi nucleari a raggio intercontinentale in possesso sia degli Stati Uniti che della Russia. Non esattamente un aspetto secondario in questo momento così delicato. E così da Mosca, si attacca il Papa, si disertano vertici fondamentali mentre si continua a bombardare l'Ucraina, mettendo nel mirino sempre più obiettivi civili. Però loro vogliono il dialogo e gli altri sono tutti brutti e cattivi. Una farsa che non fa ridere nessuno.

Aggressori e aggrediti. L’invasore dell’Ucraina è lo Stato russo, dice il Papa. Linkiesta su L’Inkiesta il 29 Novembre 2022.

Intervistato dal giornale dei gesuiti statunitensi, America, il Pontefice ha spiegato che in questa guerra c’è chiaramente «un popolo martirizzato e qualcuno che li martirizza»

Papa Francesco non nomina direttamente Vladimir Putin, ma non nasconde una posizione chiara e netta a favore dell’Ucraina. «Chi invade è lo Stato russo, questo è molto chiaro», dice Bergoglio. «Quando parlo di Ucraina parlo di un popolo martirizzato, e se c’è un popolo martirizzato c’è qualcuno che li martirizza».

Il Pontefice è stato intervistato dal giornale dei gesuiti statunitensi, America, e ha detto che la Santa Sede è sempre disponibile a una mediazione. «Quando parlo di Ucraina parlo di crudeltà perché ho molte informazioni sulle crudeltà dei soldati che sono entrati. Ma i più crudeli sono forse coloro che sono russi ma non di tradizione russa, come i ceceni e i buriati. Di certo, colui che invade è lo Stato russo. A volte cerco di non specificare per non offendere e piuttosto di condannare in generale, sebbene è ben noto chi sto condannando: non c’è bisogno che metto nome e cognome».

Sabato scorso il presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Zuppi, si era espresso sullo stesso argomento durante il Festival de Linkiesta, intervistato da Francesco Lepore: «Non c’è pace senza giustizia, e quindi libertà. Dire che si vuole la pace non significa confondere aggressore e aggredito», aveva detto il Cardinale. «La legittima difesa è fondamentale, perché c’è un aggressore, che distrugge, che ha una tattica di guerra uguale a quella attuata Siria».

C'è un motivo per far finire la guerra in Ucraina: costa troppo.  Sergio Barlocchetti su Panorama il 28 Novembre 2022.

I costi del conflitto sono ormai insostenibili, da una parte e dall'altra. E anche questo potrebbe essere un buon motivo per far sedere al tavolo delle trattative C'è un motivo per far finire la guerra in Ucraina: costa troppo

L'inchiesta del New York Times secondo la quale un giorno di guerra in Ucraina costerebbe come un mese di guerra in Afghanistan attrae l'attenzione e porta a pensare che una delle ragioni per le quali il conflitto finirà è che cominceranno a mancare armi, rifornimenti e soldi a Kiev ma anche a Mosca. La frase “un giorno di conflitto in Ucraina costa come trenta in Afghanistan” è di Camille Grand, assistente del Segretariato generale della Nato per gli investimenti della Difesa. Una considerazione plausibile, del resto mentre durante le guerre mondiali le industrie erano convertite alla produzione bellica, seppure oggi si tenti di incrementare la costruzione e la consegna di arsenali, in molti casi usando la guerra per rinnovare quelli esistenti e vetusti, come accade nei paesi dell'est Europa, già su questo giornale abbiamo scritto come il livello di consumo di talune munizioni rischi di intaccare le riserve della Nato e quelle della Russia, con Washington e Mosca a ricorrere alle forniture coreane di Seoul e Pyongyang. E se sciaguratamente decidessimo di costruire più armi e munizioni, per vederne gli effetti sul campo servirebbero almeno due anni. La storia insegna, soprattutto pensando agli Usa e agli effetti che ebbe la mobilitazione industriale ordinata da Franklin Delano Roosevelt dopo l'attacco di Pearl Harbor (soltanto di veicoli, dal '41 al '45 ne furono prodotti oltre tre milioni).

Per dare un'idea del consumo attuale di proiettili, in un giorno senza particolari offensive in atto, i russi ne sparano circa 10.000, mentre in caso di avanzate come quella di Luhansk si arriva al doppio. Quanto a distruzione, si calcola che oltre agli oltre centocinquantamila morti, ma è un numero che nella sua drammatica esattezza scopriremo soltanto tra anni, a oggi i danni alle infrastrutture e agli edifici delle principali città abbiano superato abbondantemente i 300 miliardi di dollari, con cittadine completamente rase al suolo come Mariupol, 160.000 edifici danneggiati al punto di non poter essere utilizzati (case, condomini, scuole, ospedali, depositi eccetera), circa 400 ponti fatti saltare in aria, 25.000 km di strade inutilizzabili perché distrutte o minate. Pensiamo poi alle presunte perdite dell'esercito russo. Il quotidiano bollettino fornito dall'Ucraina ha numeri impressionanti, ad esempio: 3.000 carri armati e 280 aerei da guerra. Solo per questi il valore delle perdite si aggira attorno ai 50 mld di dollari. Certo il paragone tra il territorio ucraino e quello afghano è improponibile, ma ad oggi è ancora improbabile che la Corea del Nord e la Cina chiudano del tutto i loro arsenali a Mosca, che la Difesa russa entri in crisi di rifornimenti al punto di accettare una resa, nonostante secondo gli analisti Usa il Cremlino stia già impegnando l'85% delle sue risorse, uomini inclusi. Il governo ucraino dopo sei mesi di conflitto aveva stimato di aver bisogno di 5 miliardi di dollari al mese per mantenere in funzione i servizi essenziali, e aveva calcolato che la cifra avrebbe potuto aumentare fino a rendere necessari 750 miliardi di dollari per poter ricostruire il Paese. Ci sono poi i costi indiretti che si ripercuotono su altre nazioni, legati alle forniture energetiche, nonché quelli sociali e inevitabili per prendersi cura di oltre sei milioni di sfollati e rifugiati. Il conto non è finito: l'Ucraina è il granaio d'Europa e prima di poter tornare a coltivare territori devastati, minati, contaminati dagli effetti delle battaglie, ci vorranno almeno dieci anni, tempi anche ottimistici per recuperare anche i circa 30 miliardi di dollari persi dall'agricoltura ucraina, che esportava grano per 5,2 miliardi ma che finito il conflitto dovrà ricostruire attrezzature, logistica, trasporti, effettuare bonifiche e rimettere in piedi le sue aziende. Così già alla fine di agosto (ovvero dopo otto mesi di guerra), l'Onu stimava che i danni all'economia globale fossero vicini ai 3 trilioni di dollari. Giorno dopo giorno si tende a dimenticare che questo è il più grande conflitto nel nostro continente dalla Seconda guerra mondiale, della quale 77 anni dopo rimangono comunque ancora visibili alcuni segni. Il capo economista dell'Ocse Álvaro Santos Pereira sostiene che la crescita globale dell'economia si ridurrà di una differenza paragonabile alla sparizione del valore generato da una nazione grande ed evoluta come la Francia. Il paragone con Parigi non è casuale, dal momento che i Paesi Nato fino a oggi hanno sborsato aiuti a Kiev per 40 miliardi di dollari, quanto il budget annuale della Difesa francese. Ma, allora, come fa la Russia, e soprattutto come farà, a continuare questo conflitto? Sappiamo che tra il 2018 e il 2021 Mosca aveva già aumentato le spese militari del 3% circa, portandole all'equivalente di 65,9 miliardi di dollari, equivalenti al 4,1% del suo Pil nazionale, ovvero oltre il doppio di quanto ogni Paese Nato dovrebbe spendere per far parte dell'Alleanza, condizione disattesa per anni anche dall'Italia. Dunque le riserve russe possono durare ancora per altrettanti mesi di guerra; i problemi invece nasceranno una volta finito il conflitto, quando Mosca potrebbe ritrovarsi a pagare un conto salato per i danni e i debiti di guerra che, secondo analisti inglesi (dell'istituto Rusi), potrebbero arrivare all'equivalente di 6.000 miliardi di dollari. Debiti dei quali le nazioni difficilmente si dimenticano, ricorderemo infatti i 1.300 miliardi di euro chiesti da Varsavia a Berlino oltre 80 anni dopo l'invasione di Hitler. Quanti sono? A oggi circa tre volte il Pil nazionale italiano. E certamente l'economia russa uscirà dalla guerra in condizioni pessime.Operazione oscena. Secondo i pacifisti putiniani, bisogna essere gente perbene per non essere massacrati. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.

Se l’esercito russo distrugge centrali elettriche, tortura civili e stupra donne e bambini, dopotutto bisogna considerare che Zelensky è un mezzo autocrate reazionario che limita la libertà di stampa e maltratta le opposizioni. Non fa una piega

Ne abbiamo scritto più volte, anche qui: ma occorre proprio un richiamino. Persiste infatti l’idea, chiamiamola così, che nel giudicare la guerra all’Ucraina – che il pacifista medio chiama guerra “in” Ucraina, una cosa sbocciata a mo’ di impreveduto malestro sulle strade di Kyjiv – occorra considerare il tenore democratico del Paese aggredito, la dotazione civile e politica di chi lo governa, la specchiatezza a tutto tondo di ciascuna delle decine di milioni persone che lo popolano.

È un’altra maniera, solo apparentemente più degna, per dire che l’operazione speciale, se proprio non è giustificata, comunque si rivolge oggettivamente contro una società di gente poco di buono comandata da una setta di omosessuali drogati.

E allora sarebbe bene intendersi. È verosimile che i leader Tutsi del Ruanda non fossero dal primo all’ultimo a favore del ddl Zan, non conoscessero proprio tutti ogni nota di Bella Ciao, non fossero unanimemente senza se e senza ma contro la privatizzazione della Rai: tuttavia, c’è caso che queste pur imperdonabili mancanze democratiche non giustificassero il massacro che hanno subito quelle tribù. O no?

Dice: ma in Ucraina ci sono gruppi di neonazisti. Anche in Francia, anche in Croazia, e dunque che cosa facciamo? Bombardiamo gli ospedali di Parigi e deportiamo i bambini di Zagabria?

Dice: ma Zelensky è un mezzo autocrate, un reazionario che limita la libertà di stampa e maltratta le opposizioni. Osservazioni impeccabili: quindi se l’esercito russo incenerisce gli asili, distrugge le centrali elettriche e le linee degli approvvigionamenti di cibo, per prendere per sete e per fame e per freddo la popolazione civile, e tortura, e stupra donne e bambini, dopotutto bisogna considerare che Zelensky è un mezzo autocrate reazionario che limita la libertà di stampa e maltratta le opposizioni. Non fa una piega.

Dice: ma c’è la mafia ucraina. Quindi qualcuno organizza un’operazione speciale a Palermo, e amen se l’esercito antimafia fa bottino di lavatrici dopo aver steso un po’ di gente col colpo alla nuca e le mani legate dietro alla schiena, pazienza qualche cratere nel parco giochi, e pace se le mamme raccomandano ai soldati di non violentare le siciliane senza usare il profilattico. Corretto?

Bisogna essere gente perbene, per non essere massacrati.

Supercazzola a marchio Zeta. I fenomeni che si indignano per il missile in Polonia e dimenticano i cento sull’Ucraina. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 17 Novembre 2022.

Come per il massacro di Bucha e il crollo del ponte tra la Crimea e la Russia, c’è sempre chi non vede l’ora di puntare il dito contro chi si difende anziché prendersela con le atrocità degli invasori

L’altra sera non è che si son dati a investigare la fabbricazione e la provenienza dei missili piovuti in Polonia per tenere bassa la tensione, per spegnere la possibile scintilla nel pagliaio della Nato, insomma per addomesticare il pericolo che si trattasse di un atto di guerra su quel suolo, con le gravi conseguenze che un fatto simile avrebbe potuto comportare. Macché.

Tutta la girandola sulle “schegge”, sul missile che era per forza ucraino e che se anche non era ucraino era in mano agli ucraini (stesso modulo adoperato per quello che devastava una stazione ferroviaria mesi fa), e sul conflitto che vedi come rischia di allargarsi, e sull’escalation che vedi come si aggrava per colpa dei guerristi, in una parola la solita giostra di supercazzole dell’informazione a marchio Zeta ha cominciato a far vento per spazzare via questo fastidioso dettaglio costituito dai cento missili comprensibilmente e per nulla guerrescamente ammollati sulla capa dei renitenti al dovere morale della resa.

Il meccanismo era esattamente quello di Bucha: a priori dovevano essere manichini, perché è vero che i russi sarebbero stati capaci di fare quella strage ma è altrettanto vero che gli ucraini sarebbero stati capaci di inscenarla: e a compromettere il percorso di pace stava l’ipotetica messinscena più che il documentato eccidio.

Così il ponte tra la Crimea e la Russia: è guerrista tirarne giù un pilone, non adoperarlo per portare armi e vettovaglie all’esercito che bombarda gli asili, gli ospedali, gli edifici dei civili, i giardinetti dei bambini.

E così le “schegge” di due giorni fa: la testimonianza che se si va avanti di questo passo (e cioè avanti con la contraerea, mica con i cento missili) si finisce con la guerra che dilaga in Europa. Mentre se è arginata a un metro prima del confine polacco, e sempre premesso che è colpa di chi non si arrende, resta un conflitto tra Joe Biden e la Russia e non c’è rischio che la Nato debba attivarsi per contrastare chi dopotutto voleva solo mettere qualche persona per bene al posto degli omosessuali drogati. E poi chissà quanto salgono ancora le bollette.

Prospettiva cattocomunista. La liberazione di Kherson e lo schiaffo morale degli ucraini ai pacifisti immorali. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Novembre 2022.

La ritirata russa dalla città ucraina dovrebbe suggerire al mondo cattolico-progressista un’autocritica sul massimalismo etico che ha guidato sin qui le loro azioni e che ha subito un colpo dalla Storia. Non accadrà

La bandiera ucraina che sventola a Kherson è il simbolo di una durissima lezione ai pacifisti del 5 novembre – quelli in cattiva fede, precisiamo, che dietro la pace malcelano antiamericanismo, anticapitalismo e quant’altro – in particolare a un certo pacifismo cattolico e al complementare pacifismo della sinistra antioccidentale.

L’altro giorno alla presentazione del libro catto-comunista di Goffredo Bettini (che nella sua rete ideologica rodaniana ha tirato su l’improbabile anticapitalista Giuseppe Conte), il professor Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, ha svolto un articolato discorso sulle ragioni della trattativa non lesinando una sapida critica alla «piazzetta di Milano», dove sempre il 5 novembre si era svolta una manifestazione in cui si poneva al centro la necessità di proseguire con gli aiuti militari alla Resistenza ucraina. 

Una battuta di dubbio gusto, e alla luce di quella bandiera sventolante su Kherson, piuttosto infelice. Perché oggi risulta evidentissimo che le armi sono servite, servono e serviranno fino a che i russi non si saranno ritirati rendendo possibile solo a quel punto i negoziati di pace secondo quanto affermato ancora ieri da Zelensky. 

La storia dunque, ancora una volta, ha sconfitto l’ideologia irenista e imbelle – l’avrebbe definita Emmanuel Mounier – che ha contrassegnato la piattaforma del 5 novembre egemonizzata dell’influenza del mondo cattolico dossettiano che sotto molti aspetti si incrocia e si ripara dietro il terzomondismo di Bergoglio.

C’è da chiedersi, a questo proposito, se e quanto l’azione del Vaticano sia stata e sia rilevante nel conflitto scatenato da Mosca: questione estremamente complessa che non può essere risolta con l’argomento che la Chiesa è sic et simpliciter per la pace, a meno di non voler dire che Giovanni Paolo II fosse un guerrafondaio schierandosi per il primo intervento nel Golfo; ed è comunque significativo che i pacifisti cattolici si dimentichino che il Papa ha comunque sempre parlato dell’integrità dell’Ucraina. 

Il punto è che il pacifismo di Sant’Egidio e delle associazioni pacifiste cattoliche in questa fase ha mostrato i limiti di un pensiero parziale, troppo condizionato da un’avversione culturale, politica e persino morale verso il modello occidentale incarnato dagli Stati Uniti e al protagonismo americani nel mondo (la retorica spesso evocata da Avvenire sull’elmetto o sul gendarme del mondo) e quindi di riflesso anche verso un’Europa che rinsalda il suo legame atlantico. 

Un antiamericanismo che ha condotto persino a non vedere l’essenza di questa guerra che è una guerra fra una democrazia e una dittatura. E che quindi per sua natura obbliga a schierarsi, allontanando come il diavolo anche solo l’impressione di un’equidistanza: ed è qui che il neo-dossettismo non regge. Perché in fondo siamo sempre a Giuseppe Dossetti contro Alcide De Gasperi. All’integralismo equidistante contro la politica che come tale sceglie da che parte stare. E una certa freddezza di questo pezzo di mondo cattolico verso il Partito democratico è dovuta alla linea del sostegno armato a Kyjiv coraggiosamente voluta da Enrico Letta. 

Tuttavia questa posizione, incrinata però dallo stesso Letta con la sua partecipazione alla marcia del 5 novembre, ha difficoltà a orientare le scelte del popolo della sinistra ancora in larga parte ammaliato dalle sirene antiamericane, terzomondiste e catastrofiste proprie dell’ultimo Berlinguer nonché dell’estremismo italiano: non è un caso se i (pochi) contestatori di Letta gli abbiano gridato allo stesso tempo di essere contro la pace e di aver distrutto il Partito (verosimilmente con la P maiuscola). 

La bandiera su Kherson dovrebbe in teoria far interrogare anche quel pezzo della sinistra ancora disposto a ragionare sui fatti e, sempre in teoria, rafforzare la posizione di Letta. Ma di tutto questo finora non v’è segno. Il problema qui non è Orsini. Né Conte. Il problema è di centinaia di migliaia di elettori di sinistra intrappolati nello schema della Guerra fredda, America contro i popoli. 

In conclusione, la ritirata di Putin da Kherson e la concomitante vittoria di Joe Biden alle elezioni di midterm dovrebbero quindi suggerire al professor Riccardi e al mondo catto-comunista una riflessione ulteriore, diremmo autocritica, sul massimalismo etico che ha guidato sin qui le loro azioni e che ha subito un colpo dalla Storia. Ma è improbabile che avverrà.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 6 novembre 2022.

Esiste una distanza, talvolta infinita benché infima, tra ciò che diciamo e ciò che vogliamo dire. Quella separazione la si può definire ambiguità, ipocrisia, bugia. Prendiamo la manifestazione di ieri per la pace a Roma. Manifestare per la pace è in sé lodevole, meravigliosa conferma che non ci rassegniamo alla terra spopolata, alle città vuote e messe a sacco, ai carri armati enormi e senza sportelli, ciechi come pesci degli abissi. Ma il dubbio nasce se la manifestazione si riduce appunto a una ecumenica, inutile manifestazione di ipocrisia: peccato da cui escluderei, ieri, per la sacrosanta innocenza dei fanciulli solo i boy scout.

Grazie a questa ipocrisia vi hanno partecipato tutti, preti e mangiapreti, comunisti e reazionari, liberali e liberisti, le schiere novelle che hanno ormai sostituito da alcuni mesi lo spirito santo con la Nato, filorussi cauti come carbonari e orfani inconsolabili di tutte le terze vie, i multilateralismi, le mondializzazioni salvifiche. 

Tutti presenti: dopo aver opportunamente verificato che la parola pace sarebbe stata scandita, sillabata e scritta all’italiana, ovvero dopo averla preventivamente svuotata di qualsiasi riferimento concreto, diplomatico, reale. Riconducendola cioè alla sua esclamazione metafisica, sacrale e quindi inutile: andate in pace… Invito di cui le vittime della guerra, in divisa e non, quelli per cui ogni speranza sembra spenta, davvero non sanno che farsene.

Che cosa significa la magica parola pace? Non sono riuscito a saperlo: etere, sogno, possibilità in attesa di una forma? Temo sia così che viene evocata in un Paese dove il libro più importante mai scritto è Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto a cui si abbeverarono le classi dirigenti dell’età barocca. Non a caso non viene insegnato a scuola: perché nei secoli è diventato una seconda natura. 

Allora che cosa è la pace in riferimento al problema per cui bruscamente è stata evocata, ovvero la guerra europea in Ucraina, l’unico frammento della terza guerra mondiale a puntate indicata da Papa Francesco che davvero ci interessi? Se intesa come il contrario della guerra, fratellanza, capacità di dimenticare i torti subiti, pentimento di quelli che li hanno commessi, chi mai potrebbe esser contro un così impalpabile sogno?

Ma se la si intende in senso pratico, come un processo diplomatico, l’atto politico e tecnico che pone fine alla guerra allora bisogna specificare, chiarire, aggiungere atti e fatti. Esattamente quello che nelle enunciazioni auto assolutorie, e nelle bugie dei politici che la guerra la vogliono, non si fa mai. 

Per fare la pace bisogna inevitabilmente sedersi al tavolo con l’aggressore, ovvero Putin, discutere con lui, accettarlo come interlocutore, fino ad arrivare, forse, alla definizione di un equilibrio che ponga fine, temporaneamente (la pace perpetua esiste solo nella splendida utopia kantiana) al dominio della morte. Sgradevole necessità, certo, quella di discutere con il colpevole. Ma la pace, ontologicamente, richiede due soggetti.

Altrimenti si chiama resa senza condizioni, vittoria assoluta. Una distinzione che gli Stati Uniti ben conoscono visto che hanno intavolato trattative di pace solo quando hanno perso la guerra, Corea, Vietnam, Afghanistan. Negli altri casi hanno accettato infatti la resa senza condizioni. Allarmante antecedente. 

La pace a cui si pensa ma senza dirlo, è quella che ribadisce Zelensky, costretto a dire la verità: il ritiro totale dei russi, il processo dei responsabili della guerra ovvero Putin e la sua camarilla, il pagamento delle riparazioni. Tutto questo è legittimo vista la evidenza dell’aggressione russa e la affermata certezza che un ordine internazionale è incompatibile con la sua presenza. Ma allora, per favore, sfiliamo non per la pace, ma per esigere la vittoria.

Gli utili idioti di Putin. La retorica dei falsi pacifisti che parlano come se noi non sapessimo. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Dicono che l’Ucraina deve arrendersi, che le stragi sono un caso, che non capiamo la complessità. Ma la realtà dei fatti dice tutt’altro, e abbiamo le prove (da raccontare ai superstiti ucraini)

Ogni orfano ucraino, se riuscirà a sopravvivere, saprà che un pacifista accusò il padre di non essersi arreso. Ogni vedova ucraina saprà che un pacifista accusò il marito di non volere la pace. Ogni donna violentata dall’invasore saprà che un pacifista la caricò sul conto delle brutture di guerra, tutte uguali, tutte senza buoni e cattivi, tutte i torti non stanno da una sola parte, tutte ci sono gli interessi economici, tutte ci sono le lobby delle armi, e c’è anche il ritiro dei ghiacciai.

Ogni bambino ucraino deportato, cresciuto secondo il criterio inclusivo del rapitore, obbligato a parlarne la lingua, punito se parla la sua, saprà che un pacifista accusò i suoi genitori di non capire che anche in dittatura si può essere felici. Ogni madre che ha salutato il figlio arruolato per difendere lei, la sua casa, la sua vita, per proteggerla dai bombardamenti, dai saccheggi, dalla tortura, saprà che un pacifista tenne quel difensore del suo Paese per renitente al dovere morale della resa. Ogni moglie in pena per il proprio uomo al fronte saprà che un pacifista definì criminale, irresponsabile, bellicista la fornitura di armi a quel soldato.

Altri invece non sapranno. Non sapranno i civili ucraini, i vecchi, le donne, i bambini uccisi dai macellai che puntano le armi dell’operazione speciale non sui militari ma su di loro, sui vecchi e sulle donne e sui bambini, non sapranno che un pacifista spiegò che «Putin sta puntando sui suoi obiettivi, e nel frattempo cerca di non spaventare la popolazione».

Non sapranno i cadaveri di Bucha e di Izium che un pacifista li passò per attori di una messinscena, perché non c’erano i bossoli, perché c’è tanta propaganda, perché i satelliti americani sono in mano alla Spectre. Non saprà quella madre gravida, uccisa nell’ospedale incenerito, e non saprà il bambino morto nel suo ventre, che nessun pacifista aprì bocca quando le immagini del loro massacro furono contraffatte dalla storia sul covo di nazisti camuffato e sulle modelle chiamate ai margini dei crateri a fingersi ferite con la faccia pitturata di rosso. Non saprà il bambino esausto di sangue su un marciapiede di Kyjiv che un pacifista definì la sua morte «un caso particolare e basta».

Ucraina: la riconquista della Crimea, un feticcio per prolungare la guerra. Piccole Note il 25 novembre 2022 su Il Giornale.

“Non c’è una soluzione alla guerra in Ucraina senza la liberazione della Crimea. Altre strade sarebbero una perdita di tempo”. Così Zelensky ieri. Tradotto: non si siederà ad alcun tavolo negoziale, se la Russia non accetta preventivamente di cedere la Crimea. Un altro modo per dire che non negozierà affatto con Mosca, dal momento che è dal 2014, anno dell’annessione, che Mosca afferma che l’appartenenza della Crimea alla Russia è fuori discussione.

Nessuna tregua, nessun negoziato, rifiutando così le aperture di Mosca sul tema. Tale la follia del guerrafondaio di Kiev, che peraltro sta cercando in tutti i modi di coinvolgere in maniera aperta la Nato nel conflitto, cioè di dare inizio alla Terza guerra mondiale, com’è stato palese nella vicenda del missile ucraino lanciato o finito per caso in Polonia (sul punto rimandiamo all’articolo dal titolo “Porre fine alle follie di Volodymyr Zelensky” di Philip Giraldi).

Al di là delle implicazioni più generali della decisione di rifiutare le trattative, per poi lamentarsi che i russi continuano a bombardare, aspetto inevitabile della guerra alla quale Zelensky e i suoi sponsor non vogliono porre fine, è molto istruttiva la storia recente della Crimea, raccontata da Nicolai Petro su Responsible Statecraft.

Le aspirazioni della Crimea a la repressione ucraina

“È noto – scrive Petro – che nel 1954 la regione fu trasferita dalla SFSR russa (Repubblica socialista federativa sovietica) alla SSR ucraina (Repubblica socialista sovietica) come ‘dono’ al popolo ucraino in onore del 300° anniversario del Pereyaslavl Rada che unì l’Ucraina alla Russia”.

“Meno noto, invece, è che nel gennaio 1991, mentre l’URSS si stava disintegrando, il governo regionale della Crimea decise di indire un referendum sul ripristino dell’autonomia della Crimea. Quasi l’84% degli elettori registrati partecipò alla votazione e il 93% di essi votò per la sovranità della Crimea“.

“Ciò ha aperto la porta alla potenziale separazione della Crimea sia dall’URSS che dalla SSR ucraina, consentendole così potenzialmente di aderire al nuovo Trattato di Unione, proposto allora da Mikhail Gorbaciov, come membro indipendente”.

“Il 12 febbraio 1991, il Soviet Supremo della SSR ucraina (il suo principale organo legislativo) riconobbe quei risultati. Il 4 settembre 1991, il Soviet Supremo dell’attuale Repubblica Autonoma di Crimea (ACR) proclamò la sovranità della regione, ma aggiunse che intendeva creare uno stato democratico sovrano ma all’interno dell’Ucraina”.

“È in questo contesto di sovranità regionale che il 54% della Crimea votò nel dicembre 1991 a favore dell’indipendenza ucraina [dall’Unione sovietica], con un’affluenza alle urne del 65%, la più bassa di qualsiasi altra regione dell’Ucraina”.

“Fin dall’inizio, però, le due parti avevano interpretazioni diametralmente opposte di ciò che significava ‘sovranità’ della Crimea”, intendendo Kiev dare una certa autonomia alla regione, ma non un effettivo status di indipendenza.

Date le premesse, si andò allo scontro: il 5 maggio 1992, il Soviet Supremo della Repubblica Autonoma di Crimea “dichiarò la totale indipendenza dall’Ucraina, annunciando un nuovo referendum che doveva tenersi nell’agosto 1992. Il parlamento ucraino dichiarò illegale l’indipendenza della Crimea, autorizzando il presidente Kravchuk a utilizzare qualsiasi mezzo necessario per impedirla“.

Lo scontro fu evitato: la Crimea revocò la decisione e trattò per uno status di autonomia all’interno dell’Ucraina.  Fu una soluzione solo “temporanea”, perché “non si era affrontata la questione centrale: il desiderio di gran parte della popolazione della Crimea di far parte della Russia piuttosto che dell’Ucraina”.

La questione riemerse “nel 1994, quando Yuri Meshkov e il suo partito ‘Russia Bloc’ vinse le elezioni per la presidenza della Crimea con una piattaforma che sosteneva la riunificazione con la Russia”.

“Ancora una volta, una crisi fu scongiurata tra il 16 e il 17 marzo 1995, quando il presidente ucraino Leonid Kuchma, dopo essersi consultato con il presidente russo Boris Eltsin e averne ricevuto il sostegno, inviò le forze speciali ucraine per arrestare i membri del governo della Crimea. Meshkov fu deportato in Russia e, quello stesso giorno, la Rada [il parlamento ucraino] abrogò la costituzione della Crimea e abolì la presidenza della Crimea”.

Ma le aspirazioni filo-russe furono solo sopite. “in una intervista del 2018, l’ultimo primo ministro della Crimea nominato dall’Ucraina, Anatoly Mogiloyv, dichiarò che la Crimea è sempre stata ‘una regione russa‘, aggiungendo di aver ripetutamente avvertito Kiev che, se si fosse rifiutata di concedere una maggiore autonomia alla penisola, essa si sarebbe precipitata tra le braccia della Russia”.

L’annessione alla Russia

Non meraviglia, dunque, che quando nel 2014 la Russia inviò il suo esercito in Crimea, non dovette sparare un solo colpo per prenderne il controllo. Nessuna vittima, l’invasione più facile e pacifica della storia dell’umanità (questo non lo ricorda Petro, ma val la pena rammentarlo).

Peraltro, l’invasione avvenne dopo il colpo di Stato di Maidan, quando Kiev, rifiutando di trattare con le regioni del Donbass che chiedevano autonomia, inviò contro di esse il proprio esercito, che venne incenerito dopo mesi di guerra (la Russia allora poteva prendere il controllo di tutta l’Ucraina, ormai disarmata, ma non lo fece).

Dopo l’arrivo dell’esercito russo in Crimea, fu indetto un referendum che sancì l’annessione. Tale referendum non venne ovviamente accettato né da Kiev né dall’Occidente, che li bollò come falsati.

Detto questo, però, Petro ricorda come successivamente, “una serie di sondaggi sponsorizzati dall’Occidente hanno evidenziato un alto livello di sostegno alla riunificazione con la Russia. Un sondaggio Pew dell’aprile 2014 ha rivelato che il 91% degli intervistati della Crimea riteneva che il referendum del 2014 fosse libero ed equo”.

“Un sondaggio del giugno 2014 realizzato da Gallup ha mostrato che quasi l’83% della popolazione della Crimea (94% tra quelli di etnia russa e il 68% tra quelli di etnia ucraina) pensava che il referendum del 2014 riflettesse le opinioni della popolazione. Un sondaggio della primavera 2017 condotto dal Centro per gli studi internazionali e dell’Europa orientale con sede in Germania ha rilevato che, se gli fosse stato chiesto di votare di nuovo, il 79% degli intervistati avrebbe espresso lo stesso voto”.

Peraltro, il duro braccio di ferro avviato da Kiev contro la regione reproba non ha giovato alla sua causa, in particolare la decisione di tagliare l’acqua potabile, con la Russia in seria difficoltà a supplire ai rifornimenti necessari.

Tornando a Petro, egli annota come “la storia della Crimea dal 1991 offre una vivida illustrazione di come il nazionalismo possa portare le élite nazionali all’autoillusione. Conoscendo perfettamente le aspirazioni di autonomia di lunga data della regione, i politici nazionalisti di Kiev hanno scelto di ignorarle o sopprimerle”.

Da cui la decisione non forzata di aderire alla Russia, che invece ha saputo gestire con pragmatismo le diverse anime della penisola, come annota Petro, in particolare l’etnia tatara, sulla quale l’Occidente aveva puntato per dar vita a una resistenza all’invasore (The Atlantic), sbagliando i calcoli.

Insomma, la popolazione della Crimea non sembra avere alcun desiderio di tornare sotto il controllo di Kiev, né tale reintegrazione è presa molto in considerazione dagli alleati dell’Ucraina, che sanno bene come al termine della guerra, quando ci si arriverà, il compromesso tra le parti non riporterà la penisola tra le braccia di Kiev. Così, più che un obiettivo da perseguire, la riconquista della Crimea appare un feticcio da brandire perché la macelleria prosegua.

E la Turchia sta per invadere la Siria con beneplacito della Nato. La fascia One Love, l’inchino della Fifa al Qatar che finanzia il terrorismo: ma il problema è solo Putin. Paolo Liguori su Il Riformista il 23 Novembre 2022

Ho messo la fascia d’ordinanza, “One Love”, quella proibita dal Qatar. Ma io non tengo conto delle proibizioni del Qatar, perché l’Italia vota per la “Russia Stato terrorista”, ma il Qatar è Stato terrorista da molti anni, finanzia terroristi in tutto il mondo. E adesso permettono che si facciano delle leggi su come devono presentarsi in campo i capitani delle squadre di tutto il mondo e se non rispettano gli ordini vengono squalificati.

E la Fifa? La Fifa si subordina, la Fifa acconsente. Ogni tanto viene fuori un americano che dice “noi però non siamo d’accordo nel privare le persone della libertà di opinione”. Tutto falso, tutto fasullo. Il Qatar è uno stato autoritario che ha finanziato i terroristi, ma tanto che gli importa, noi ce l’abbiamo solo con la Russia e non ci accorgiamo che la Turchia sta per invadere la Siria con la scusa dei curdi e con il beneplacito della Nato.

La Nato, sapete, è un’organizzazione di difesa, ma quando viene usata dalla Turchia è un’organizzazione militare aggressiva. Ci sono due pesi due misure: ma chi ci crede più a questo diritto internazionale? A questa patria dei valori mondiali, chi ci crede a questo campionato mondiale del Qatar, che è stato fatto a suon di dollari nel mondo imbrigliando l’intera rete dei campionati nazionali.

Abbiamo distrutto il calcio per un anno. Perché prima c’erano i finti infortuni, ora ci sarà una ripresa con i veri infortuni e con la ripresa di tutti i campionati dopo i mondiali. Ebbene, chi ci crede più che tutto funziona secondo le regole quando queste sono fatte da persone che non le rispettano in primis? Inutile sottolineare il fatto che il Qatar è uno dei più grandi giacimenti di gas del mondo e che gli americani hanno chiesto al Qatar di rinunciare a quello russo e di darne un po’ di più all’Europa.

Quindi c’è uno scambio, di energie, di gas, di petrolio e quindi si fanno le guerre. E qui si parla ancora di aggredito o aggressore! E ora in Siria con i curdi, chi è l’aggredito e chi l’aggressore? Forse Erdogan che continua a farsi i fatti suoi con l’ombrello Nato che lo protegge. Ma di questo non parla nessuno. L’unica cosa che voglio ricordare è One Love. Questo sì che è importante.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Il vero pericolo per il prossimo futuro. Zelensky come Saddam Hussein, con le armi arrivate dall’Occidente il dopoguerra resta una incognita. Paolo Liguori su Il Riformista il 18 Novembre 2022

Noi non sappiamo quando e come finirà questa guerra in Ucraina. Quello che è certo è che finché non finirà non si troverà un equilibrio in Europa e nel mondo, l’hanno capito perfino i cinesi. C’è però una situazione strana e che riguarda già il dopoguerra e che vi posso già raccontare. Il fatto che lo testimonia è che nessuno ha intenzione di dire a Zelensky “guarda che noi al G20, i 20 Paesi più importanti del mondo ci siamo messi d’accordo, di tornare al Minsk 2 ma bisogna finire questa terribile guerra”.

Nessuno ha avuto il coraggio di dirlo e lui si muove senza controllo. Allora mi è venuta in mente un altro personaggio, che fece esattamente la stessa cosa: penso a Saddam Hussein. Che faceva Saddam? Poco e nulla finché gli americani non l’hanno riempito di armi e gli hanno detto “fai la guerra all’Iran”, una guerra terribile con milioni di morti, iraniani e iracheni, una guerra dove si usavano i gas. Una guerra con milioni di morti. Con queste armi Saddam costruì un esercito potentissimo che diventò un pericolo vero per tutto il Medio Oriente.

Furono gli stessi Paesi Arabi a dire “questo lo avete costruito voi, ora ce lo dovete levate di torno”. Saddam fece un esercito, armato fino ai denti, la famosa Brigata repubblicana di Saddam, entrò nel Kuwait con l’intenzione di entrare anche negli altri Emirati. A questo punto i paesi arabi dissero agli Stati Uniti di fermarlo e depotenziarlo.

Ora, quello che voglio dire, Zelensky con tutte le armi che ha avuto – perché quello è il problema fin dall’inizio, ossia che abbiamo messo delle armi in un punto dell’Europa che può terrorizzare anche i vicini, anche i polacchi, gli ungheresi, si forma una truppa d’élite senza il controllo né della Nato né nostra, né degli americani (Biden è dovuto intervenire tre volte per ricordargli che vogliamo fare la pace).

Questo è il vero problema del dopoguerra, questa forza armata importante, micidiale, che ha Zelensky, è una forza che potrà essere riportata a casa al mondo civile anche dopo un accordo internazionale oppure no? Perché questo è il vero pericolo per il prossimo futuro.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

"Ora fermatevi". La vittoria sui russi non ci sarà mai, bisogna smettere con la guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 7 Novembre 2022

Il Papa ha riguadagnato le prime pagine di giornali italiani. E come ha fatto? Ha parlato di migranti. Ha detto che sì, dobbiamo accogliere i migranti, ma anche l’Europa deve dare una mano all’Italia, non si può pensare che il nostro Paese faccia da solo l’accoglienza ai migranti. Questa cosa piace agli editori dei giornali italiani, piace la forza del Papa che spiega ai paesi europei che bisogna essere più generosi.

Ma quando diceva che se continuiamo a dare armi all’Ucraina ci saranno milioni di morti lo tacitavano, lo mettevano in seconda pagina. Quando parlava di cose sgradite, fastidiose, allora il Papa diventava un personaggio secondario, anzi un po’ fastidioso. Questa cosa è tipica dell’Europa. L’Europa ha una guerra in corso. Noi stiamo parlando di ricucire gli strappi sull’economia. Ma quali strappi vogliamo ricucire se siamo a brandelli perché c’è una guerra? Il primo strappo da ricucire è fare la pace.

Come si può uscire dalla guerra? Ci sono solo due modi. C’è chi pensa che si possa uscire dalla guerra solo con la vittoria. Queste persone si devono curare. E noi come Europa le dovremmo curare. E’ una concezione arcaica che si possa uscire dalla guerra con la vittoria. Dalla seconda guerra mondiale in poi, le guerre non le vince più nessuno. Perdono tutti. Solo noi sui giornali diciamo “noi dobbiamo vincere contro Putin“. La guerra finisce solo interrompendo la guerra. Come si fa a far smettere l’aggressore? Senza buttare benzina sul fuoco della guerra (che non stiamo facendo noi).

Se tornassero i morti a casa italiani, piangeremo tutti i giorni. Siccome a casa tornano i profughi ucraini noi quei profughi lì li consideriamo un male necessario, mentre quelli che arrivano con le barche sono il male assoluto e vanno respinti, oppure devono prenderli gli altri paesi d’Europa. Questa è una farsa assoluta, un’idea sbagliatissima. Cosa stiamo insegnando? Che la guerra finisce quando si ottiene la vittoria sui russi? Ma la vittoria sui russi non ci sarà mai, come non ci sarò mai la vittoria sui cinesi o sugli Stati Uniti. Questi paesi non devono essere sconfitti ma devono smettere di combattere. E noi dovremmo dire fermatevi.

Invece adesso fanno le manifestazioni per la pace non per fermare la guerra, ma per candidare un’assessora di Milano che forse può diventare candidata del Terzo Polo alle prossime regionali. Queste sono soluzioni beffa, che prendono in giro chi crede davvero che la guerra debba finire con la pace, che ci si debba fermare. Già, ma fermare su quali confini? Ma sui confini più accettabili possibili, com’è sempre stato quando bisogna smetterla. E ora bisogna smetterla, anzi, è già troppo tardi. Paolo Liguori

Da open.online il 26 novembre 2022.

L’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto di aver cercato di convincere gli alleati europei della necessità di trovare un formato per dialogare con il presidente russo Vladimir Putin sull’Ucraina. Ma poi si è accorta di non avere la necessaria influenza. Merkel ha parlato in un’intervista pubblicata dal settimanale Der Spiegel. 

E ha spiegato che aver provato a convincere l’Europa perché pensava che il Protocollo di Minsk fosse diventato «obsoleto». Il riferimento è agli accordi firmati nel 2014 da Russia, Ucraina, Donetsk e Lugansk con la benedizione dell’Osce. «L’accordo di Minsk era stato lasciato vuoto. Nell’estate del 2021, dopo che i presidenti Biden e Putin si erano incontrati, cercai di creare un nuovo formato di dibattito europeo indipendente con Putin e con Emmanuel Macron nel Consiglio dell’Ue».

Ma alcuni «si opposero e non ebbi più la forza di impormi perché tutti sapevano che me ne sarei andata in autunno». L’ex cancelliera ha anche chiesto agli altri leader europei di intervenire ma senza esito: «Uno mi rispose: “È troppo grande per me”; un altro si limitò ad alzare le spalle: “questo è quello che devono fare i grandi’». Infine, Merkel ha rivelato l’atmosfera nel giorno dell’ultimo incontro con Putin al Cremlino: «La sensazione era molto chiara: “In termini di potere sei finita”. Per Putin conta solo il potere».

Le rivelazioni di Merkel: “Ho cercato di evitare la guerra, ma per Putin non contavo più”. Tonia Mastrobuoni su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

Due interviste da copertina a distanza di pochi giorni, la prima sullo Stern con un curioso formato senza virgolettati, la seconda sullo Spiegel, con citazioni copiose sul conflitto in Ucraina e un ricco contorno di dettagli sulla sua vita attuale. Angela Merkel ha scelto i settimanali tedeschi più prestigiosi per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, e in un momento delicatissimo per la guerra d'aggressione russa.

Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 26 novembre 2022.

Due interviste da copertina a distanza di pochi giorni, la prima sullo Stern con un curioso formato senza virgolettati, la seconda sullo Spiegel, con citazioni copiose sul conflitto in Ucraina e un ricco contorno di dettagli sulla sua vita attuale. Angela Merkel ha scelto i settimanali tedeschi più prestigiosi per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, e in un momento delicatissimo per la guerra d'aggressione russa. 

Ma qualche passaggio è destinato a suscitare nuove polemiche sui suoi rapporti con Vladimir Putin e l'eredità politica del suo lungo regno. «Avrei desiderato un tempo più pacifico dopo il mio addio», rivela la cancelliera allo Spiegel, ma la guerra «non è stata una sorpresa».

Per Merkel, architetta dell'intesa di Minsk del 2014, sottoscritta dopo l'annessione della Crimea per scongiurare un'ulteriore espansione russa, gli accordi «erano ormai diventati un guscio vuoto». Così, nell'estate del 2021, «cercai di ristabilire insieme a Emmanuel Macron un colloquio autonomo tra il Consiglio Ue e Putin». 

Alcuni, ammette, si opposero, e «io non avevo più la forza di impormi perché tutti sapevano: in autunno non ci sarà più». Peggio ancora: quando la cancelleria volò a Mosca per incontrare per Putin per l'ultima volta nella veste di cancelliera, «la mia sensazione fu chiarissima: "dal punto di vista della politica di potenza, non conti più". Per Putin conta solo il potere».

Nel 2021, azzoppata dall'imminente addio, Merkel non fu più in grado né di imporre un dialogo tra Ue e Mosca, né di contenere Putin. Sarebbe dovuta restare, forse, ricandidarsi anche nel 2021 per un quinto mandato, azzarda il giornalista? Merkel è convinta di no, e ammette che «c'era bisogno di un approccio nuovo». 

Sulla Transnistria e la Moldavia, sulla Georgia, sulla Siria e sulla Libia «non sono più riuscita ad avanzare neanche di un millimetro », ammette. Sullo Stern, nella strana intervista senza virgolettati, si capisce anche che l'altro clamoroso errore di Merkel, l'ostinazione a portare avanti Nord Stream 2, fu il risultato della sua convinzione che si potesse usare come una leva per contenere Putin.

A proposito di contenimento, è Spiegel invece a stanarla davvero sul suo ruolo nei rapporti europei con Putin. E l'interpretazione che la cancelliera dà indirettamente di sé stessa è imbarazzante. Merkel, da sempre lettrice avida, cita più volte la monumentale biografia di Sebastian Haffner su Churchill, la sua frase a Roosevelt sulla "guerra sbagliata" e ammette di aver apprezzato Jeremy Irons nel ruolo di Chamberlain nella serie Netflix "Monaco". 

Secondo l'intervistatore Alexander Osang, l'ex cancelliera avrebbe «apprezzato che il predecessore di Churchill» noto soprattutto per il suo appeasement verso Adolf Hitler, «sia stato mostrato in una luce diversa. Non come timoroso fiancheggiatore di Hitler ma come stratega che garantì al proprio Paese i margini per prepararsi all'aggressione tedesca ».

Insomma, «Monaco 1938 suona come Bucarest 2008», commenta Osang, la Conferenza in cui i Paesi occidentali dimostrarono di non aver capito la pericolosità e la "resistibile ascesa" di Hitler, come la bollò Bert Brecht, è paragonabile con il vertice Nato di Bucarest del 2008, quando Merkel si mise contro il presidente americano George W. Bush per impedire l'adesione di Ucraina e Georgia alla Nato? Agli storici l'ardua sentenza. Ma è auspicabile che rigettino quel paragone. Soprattutto per Merkel.

Gli inganni della pace con i russi. Mosca pone condizioni inaccettabili. Storia di Roberto Fabbri su Il Giornale il 27 novembre 2022.

Arriva il Generale Inverno, accompagnato a vantaggio dei russi da ampia falange di droni made in Iran sì, proprio il beato Paese dove la polizia ammazza le donne che non portano il velo come si deve: chi si somiglia si piglia e torna di attualità il tema del negoziato per porre fine alla guerra in Ucraina. Per un bel pezzo nessuno potrà vincerla, sostengono osservatori occidentali benintenzionati e anche un po' cinici, tanto vale che gli ucraini colgano l'occasione offerta dal gelo incombente per cercare di portare a casa con la diplomazia almeno i territori riconquistati.

Ora, è noto che il presidente ucraino non è disposto a rinunciare a un metro quadrato di territorio nazionale, Crimea compresa. Il che complica parecchio le prospettive, visto che si negozia in due. Ma quello che ci si dimentica anche più volentieri è che l'idea che in Russia hanno delle trattative non somiglia alla nostra. Sul tema, specialmente qui in Italia, coltiviamo nobilissime illusioni. Si discetta di surreali pressioni cinesi su Putin per «costringerlo» a fermare l'invasione; dell'urgenza che Biden e i leader europei «facciano ragionare» Zelensky, ovvero lo ricattino disarmandolo per «costringerlo» a trattare con Putin; ma soprattutto di quanto sarebbe «conveniente per entrambe le parti» venire finalmente a patti in nome della sospirata pace.

Peccato che le citate pressioni non porterebbero, semmai allontanerebbero, una pace che appare «conveniente» e «sospirata» forse a noi, stanchi come siamo di bollette in impennata e di inflazione al galoppo, ma certo non a chi sta combattendo a seconda dei casi per la libertà o per la riconquista di una colonia: entrambe le parti in confitto avrebbero solo da perdere se si fermassero per davvero adesso. Putin gradirebbe una tregua invernale per rappezzare le sue disastrate forze armate, ma una tregua non va confusa con la pace: il suo obiettivo è andare fino in fondo e prendersi tutta l'Ucraina, non solo qualche pezzetto gentilmente concessogli dal nemico. Chi scommette sulla diplomazia glissa su due punti essenziali: Mosca ripete che il negoziato deve aver luogo alle sue condizioni e che «gli obiettivi dell'operazione speciale militare saranno tutti conseguiti». I realisti à la Kissinger bollano come estremisti irrilevanti quei personaggi che in Russia (ultimo, due giorni fa, il deputato putiniano Piotr Tolstoi) minacciano di ridurre l'Ucraina in macerie e i suoi abitanti al gelo permanente, e ci assicurano che a Putin conviene trattare e a noi gettargli qualche osso (ucraino) per tenerlo buono. Poi però arriva (ieri) il ministro russo degli Esteri Sergei Lavrov e spazza via gli equivoci sui famosi obiettivi da conseguire: «Liberare l'Ucraina dai suoi attuali governanti neonazisti», cioè avanti con le cannonate.

Come la mettiamo? Ingannare noi stessi non è una buona politica. I russi con cui si crede di discutere non sono solo questi inventori di giustificazioni grottesche per fare la guerra, ma soprattutto sono coloro che pongono condizioni inaccettabili per farla finire: ciò che è nostro (e che legalmente tra l'altro non lo è) non si discute, ciò che è degli ucraini invece si discute con la nostra pistola alla tempia dei «neonazisti». È il metodo Hitler, cui nel 1938-39 l'Occidente concesse di tutto in cambio della pace ottenendo in cambio l'invasione della Polonia e la seconda guerra mondiale. Lavrov abbaia ai neonazisti ma parla come Ribbentrop e ci conviene prenderne atto.

Putin stay home. La tristezza inconsolabile degli influencer del pacifismo per i successi della resistenza ucraina. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 10 Novembre 2022

Gli esperti che prevedevano un trionfo russo rimangono basiti di fronte all’avanzata di Kyjiv. Invece di esultare mugugnano di possibili ritorsioni del Cremlino. Sarà mica maleducazione festeggiare chi lotta per la libertà?

Quando la resistenza ucraina riconquista città e territori strappandoli al giogo sanguinario dell’invasore, l’atteggiamento del pacifista è diciamo così variabile: a volte, infatti, chi invoca il dovere morale della resa si limita al disappunto, mannaggia io avevo detto che li sventravano in ventiquattr’ore e mortacci loro guarda che roba; altre volte, invece, quello stratega della pace via raduno sindacal-arcobaleno (ma così, en touriste, tra amici che disegnano Zelensky col naso adunco e accademici del fronte “Nato go home”, mica Putin), altre volte, stavamo a ddì, il pacifista che assiste a un avanzamento dei criminali nazisti drogati omosessuali ucraini che si difendono rimugina – e in profundo si augura, così l’analisi geopolitica da prime time trova conferma – che quegli altri, siccome han preso una botta, sicuramente faranno rappresaglia: che arriva, di solito, sui civili, sulle centrali elettriche, sui depositi di cibo, dettagli che però non impensieriscono il pacifista comunista sindacalista collaborazionista che anzi spiega che ecco, vedi?, guarda cosa succede, eppure io ti avevo avvisato che se tu ti opponi agli stupri di massa e alle torture quelli poi bombardano il parco giochi. 

E non sto disegnando una macchietta, purtroppo, perché è da nove mesi che l’andazzo è questo (testuale, e lascio in bianco l’autore della delizia): «Putin aveva avvertito: mandare uomini e armi Nato a Zelensky è un atto di aggressione. Il bombardamento di Yavoriv è la risposta. Vincerà l’Ucraina con un po’ più di lanciamissili?». Firmato, appunto, lasciamo perdere. Tipo che se lo sgherro ti chiede il pizzo e tu non lo paghi, e chiedi l’intervento della polizia, e allora quello ti fa saltare il negozio, vuol dire che te la sei andata a cercare.

Di fatto, c’è quest’altra curiosità nel ricasco in Italia delle notizie dal fronte: che non c’è uno (e non soltanto tra gli influencer del pacifismo di cui sopra, ma pure tra quelli che più o meno obtorto collo e dimolto a denti stretti riescono ancora a dire che l’Ucraina va sostenuta), ma proprio manco uno, a compiacersi pubblicamente se la resistenza sottrae un pezzo della propria terra alla grinfia dei denazificatori. 

A questo Enrico Letta, per esempio, il dimissionario a differimento semestrale, pagarlo oro se gli scappa un tweet non si dice sulla ripresa di Kherson, che è di ieri (d’altra parte c’è da scrivere sul carattere “divisivo” della norma anti-rave) ma niente, nisba, nada manco per sbaglio durante tutto il conflitto e nemmeno in un caso, tra i parecchi nel tempo, di obiettivo raggiunto dalla controffensiva ucraina. Divisiva anche questa, non si dubita.

E si ammetterà che c’è qualcosa che non fila per il verso giusto se il partito che fa mostra di non vergognarsi proprio del tutto delle scelte pregresse (un po’ sì, ma con giudizio, quel che basta) ritiene di non spendere una parola per salutare i successi della parte che afferma di sostenere. Sarà per via del Lodo Cuperlo, quello secondo cui a questo punto la strategia degli aiuti militari va ripensata perché c’è rischio che le armi servano a respingere gli invasori. O sarà che è maleducazione festeggiare?

PiaZZa pulita. Il pacifismo due punto zeta di Cuperlo che non distingue tra aggressori e aggrediti. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 12 Novembre 2022

Il deputato dem ha accusato Calenda di aver organizzato una manifestazione sbagliata pro-Ucraina. Intanto difendeva l’evento di Roma, quello contro la Nato, contro la resistenza, e con bandiere pro Hamas

Gianni Cuperlo che ventiquattrore prima di Kherson rumina la strategia del disarmo degli aggrediti e qualche giorno dopo, erubescente davanti a Carlo Calenda che gli ricorda le manifestazioni anti-imperialiste (ma verso Ovest) della Fgci, si esercita nella sbianchettatura della piazza romana, la distesa democratica fiorita di bandiere pro Hamas e affollata di partigiani della pace due punto zero consorziati a reclamare l’adempimento del dovere morale della resa, ecco, quella è l’immagine perfetta dell’attualità comunista dietro il biondo incanutito di questa presunta evoluzione progressista.

I due, Cuperlo e Calenda, erano l’altra sera a LaZ (la sigla esatta è La7, ma non la conosce nessuno), in quel circo postribolare che fa piazza pulita di ogni residua decenza italiana, a dire ciascuno la propria sulle due manifestazioni, quella di Milano a favore dell’Ucraina, e per l’esigenza di sostenerla anche militarmente, e quella della capitale contro la Nato, contro gli Stati Uniti, contro la resistenza ucraina, e per il trionfo della pace pacifista ottenuta riaffermando il diritto dell’aggressore di incenerire scuole e ospedali senza correre il rischio di incontrare fastidiose resistenze organizzate dagli omosessuali drogati di Kyjiv.

E mi pare che sia sfuggito anche al diretto interlocutore, Carlo Calenda, la svirgolata serpentina uscita di bocca al parlamentare mitteleuropeo quando l’altro evocava le somiglianze di certi più antichi girotondi comunisti (dove si manifestava per l’Afghanistan non dicendo che i russi dovevano andarsene, ma dicendo che l’Italia doveva andarsene dalla Nato) rispetto alla cosa pacifista dei Santoro e dei Vauro e di Mister Graduidamende: «Secondo me», ha detto Cuperlo, «sbagliavi corteo anche allora».

Calenda, appunto, non se ne è accorto, o non ha voluto o potuto rispondere, ed è stato un peccato perché sarebbe stato efficace rimpallare all’arrotatore di erre questa semplice domanda: «Corteo sbagliato? Scusa, Gianni, lasciamo perdere quelli della Fgci, dove tu, unico in tutto il sistema solare, sentivi slogan “Russi go home”: ma quella di Milano, che ho fatto io con gli ucraini, non con l’Anpi e il sindacato Rai, che cosa aveva di sbagliato?

Sarebbe stato impagabile assistere ai tentativi di replica di quel beneducato e inconsapevole fiancheggiatore del pacifismo che indugia sui difetti probatori della strage di Bucha, che si affretta a prendere e a spacciare la velina moscovita sui depositi di armi tra i cavolfiori e le zucchine dei centri commerciali bombardati, che si esercita nel giornalismo d’inchiesta sulle puerpere assoldate da Volodymyr Zelensky per mettere in scena l’ospedale raso al suolo (perché c’era questa roba nella piazza grillo-comunista che lui ha ritenuto di dover omaggiare).

Impagabile sarebbe stato vederlo costretto a esplicitare le ragioni di quel suo sibilo rivelatore, e cioè che la manifestazione di Milano a sostegno dell’Ucraina era «sbagliata» perché lì si reclamava il dovere di aiutare gli ucraini anche con le armi. E che quella «giusta» era l’altra, quella che solo con qualche penoso sforzo contraffattorio Gianni Cuperlo mondava dei suoi tratti maggioritari e caratteristici, la guerra per procura, né con le stuprate né con la Nato, l’apartheid in Israele e negli Stati Uniti c’è la diseguaglianza dei redditi.

Smascherati. Il Pd partecipa alla marcia a Roma per la pace in Ucraina ma al contempo sostiene l'invio delle armi a Kiev: è la sinistra dei finti pacifisti. Michel Dessì l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Questa settimana ci spostiamo. Dalle lussuose stanze del Palazzo (dove non è accaduto nulla degno di nota) fino alla piazza dove è andata in scena l’ipocrisia del Partito Democratico. A Roma, nel weekend appena trascorso, in migliaia hanno sfilato per la pace in Ucraina sotto lo slogan “no alle armi”. In marcia con i pacifisti anche i colonnelli del Pd. Gli stessi che hanno sostenuto con forza (e sostengono) l’invio di armi a Kiev. Che faccia, vero? Una cosa bisogna ammetterla: sono coraggiosi. Molto. Soprattutto chi nega l’evidenza come Stefano Bonaccini, il governatore in salsa rosé dell’Emilia Romagna. Lo abbiamo intercettato nel corteo. - ASCOLTA IL PODCAST CON L’INTERVISTA A STEFANO BONACCINI -

Sfuggente e, soprattutto, irritato quando gli facciamo notare la sua incoerenza. Come può un fermo sostenitore dell’invio di armi all’Ucraina scendere in piazza al fianco di chi dice no? Come si può sventolare la bandiera del pacifismo quando si sposa in pieno la linea dura dell’Europa che continua ad inviare armi pesanti. Cannoni, cingolati, lanciarazzi e chi più ne ha più ne metta. Non ha senso. Ma il governatore quando glielo facciamo notare va su tutte le furie. Paonazzo sbotta e ci manda quasi al quel paese. Proprio come hanno fatto alcuni manifestanti pacifisti con Enrico Letta. Il segretario Dem è riuscito a far perdere la pazienza anche ai pacifisti. Strano ma vero. “Guerrafondaio, buffone” - e ancora - “via, via da qui. Non è la vostra piazza.” Come dargli torto?

Avrebbero fatto bene Letta e Bonaccini ad andare a Milano a fare il coro stonato di Carlo Calenda che, sulle note di "Bella ciao” si è sfogato dalla piazza unità per sostenere (armi comprese) la battaglia degli ucraini, dell’Europa. Almeno il leader di ItaliaViva in Azione è coerente. Lui ha espressamente sostenuto l’invio di armi a Kiev. Ma si sa, se la sinistra non si divide non è la sinistra. E così il Pd rischia di spaccarsi tra chi è a favore e chi è contro agli aiuti militari. Peccato, però, che tutti (sottolineiamo) tutti abbiano votato a favore dell’invio di armi. Forse ora, con l’arrivo di Giorgia Meloni al governo le cose potrebbero cambiare. Pur di mettere il bastone tra le ruote del governo sono pronti a tutto. Anche a rinunciare alle proprie battaglie. Quelle di “giustizia e civiltà”, così le ha definite Enrico Letta.

Quando Conte (da premier) vendeva al Cairo armi e navi da guerra: sui casi Regeni e Zaki il silenzio del leader M5S. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Il record dell’ex capo del governo, che incrementò al massimo i fondi per la Difesa e ora scende in piazza con i pacifisti. Mentre dal Pd criticano Meloni per l’incontro con Al Sisi, ma al governo appoggiarono le scelte di Conte

Il colloquio tra la premier italiana e il presidente egiziano è stato criticato da quasi tutte le forze di opposizione, che hanno contestato a Meloni una forma di appeasement con Al Sisi nonostante pesino nei rapporti tra i due Paesi l’omicidio Regeni e il caso Zaki. L’altro ieri il leader di Sinistra italiana Fratoianni e il portavoce di Europa Verde Bonelli hanno additato «l’indecente incontro» di Sharm el Sheik. E ieri il Pd ha attaccato con alcuni suoi dirigenti l’inquilina di Palazzo Chigi: la capogruppo del Senato Malpezzi, l’ex presidente della Camera Boldrini, il coordinatore dei sindaci Ricci e l’europarlamentare Moretti le hanno chiesto polemicamente «che fine ha fatto la dignità della nazione» e l’hanno accusata di aver «barattato i diritti umani con la ragion di Stato». La tesi comune è che, in nome degli approvvigionamenti energetici e delle commesse militari, sia stata archiviata la drammatica fine del giovane ricercatore italiano.

Il punto è che quella vicenda era stata di fatto messa tra parentesi già dai governi Conte. Il primo — alleato della Lega — aveva deciso di vendere armamenti per quattro miliardi di euro ad Al Sisi. Il secondo — alleato del Pd — aveva completato il passaggio all’Egitto di due delle sei fregate Fremm, che facevano parte di una commessa in cui erano compresi 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter, 20 velivoli di addestramento e un satellite. Non è un caso quindi se nella girandola di dichiarazioni contro Meloni sia mancata la voce del leader grillino, che oggi veste i panni del pacifista e avvisa la premier di non «azzardarsi» a inviare altre armi a Kiev «senza passare dal Parlamento». Ma che due anni fa venne contestato dalle organizzazioni pacifiste per aver ceduto le navi da guerra all’Egitto «con una decisione che non è mai stata sottoposta all’esame del Parlamento».

Il Pd avrebbe dovuto rammentare la compartecipazione alla scelta, se è vero che in Consiglio dei ministri nessuno dei suoi rappresentanti mosse obiezione. Dunque è un po’ contraddittorio il ricordo di Malpezzi, secondo la quale «i nostri governi si erano battuti per ottenere trasparenza e chiarezza» sui casi Regeni e Zaki. E cadde nel vuoto l’appello attuale di Boldrini di «fermare il commercio di armi» con il Cairo. Forse perché a quei tempi — per usare le parole odierne di Moretti — «gli interessi commerciali» pesarono «più del rispetto dei diritti umani». E chissà se anche allora a Ricci fece «male vedere un esecutivo freddo» come quello retto da Meloni.

Prudentemente Conte e i dirigenti del Movimento non hanno preso parte alla polemica sul vertice di Sharm el Sheik. Hanno preferito sfilare alla marcia per la pace, magari anche per sbianchettare il passato dell’ex premier, che ai tempi del gabinetto giallorosso decise — dopo le sollecitazioni di Trump — il maggior incremento di investimenti della storia repubblicana nel settore della Difesa. Se così stanno le cose, non si capisce come mai il dem Bettini — che di Conte è un sostenitore — nell’intervista di ieri al Corriere abbia detto: «Bisogna ridefinire la nostra identità. Dobbiamo stare con l’elmetto della Nato?». Una stilettata, non si sa quanto involontaria, contro la linea di Letta (e Guerini) coerentemente filo-atlantica e a sostegno di Kiev.

Insomma della tragica sorte di Regeni e delle vicissitudini giudiziarie di Zaki non c’è finora traccia tra le dichiarazioni dei grillini. Eppure da presidente della Camera Fico aveva addirittura sospeso le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano, in segno di protesta verso il regime del Cairo. Era il novembre 2018. «Su Regeni saremo inflessibili fino alla verità», commentò Conte. Che un anno e mezzo dopo annunciò in Consiglio dei ministri la vendita delle fregate Fremm ad Al Sisi. «La vendita non è stata ancora autorizzata», ribattè per tamponare le polemiche. Poi firmò però la fattura. In fondo, piazzare navi da guerra in giro per il mondo è una propensione che lo accomuna ad alcuni suoi amici di sinistra, diciamo.

Dalla Russia con disonore. Gli antipartigiani della pace e gli utili idioti di Putin. Christian Rocca su L’Inkiesta il 7 Novembre 2022.

L’internazionale bipopulista, da Conte a Salvini a Trump a Le Pen, si mobilita per disarmare l’Ucraina e consegnarla a Mosca. Ma c’è un’Italia che canta Bella Ciao ed è solidale con un popolo che una mattina si è svegliato e ha trovato l’invasor

Negli anni Cinquanta, Stalin creò i “Partigiani della Pace”, un movimento internazionale che in Europa occidentale protestava contro la Nato e contro l’America seguendo precise direttive del Cremlino (in Italia fatte eseguire dal capo comunista Pietro Secchia).

I Partigiani della Pace erano uno strumento della propaganda russa e dei partiti comunisti occidentali che nel mondo libero facevano da avamposto di Mosca. Erano un movimento di opinione teleguidato dal Cremlino, una versione in carne e ossa delle fabbriche dei troll di San Pietroburgo, ma pur sempre capace di coinvolgere milioni di “utili idioti” occidentali, utili al regime sovietico e idioti malgrado fossero in gran parte intellettuali.

I capi dei Partigiani della Pace non erano pacifisti, al contrario sostenevano attivamente le ragioni di uno dei due blocchi della Guerra Fredda, quello illiberale e totalitario che, dopo aver fatto alcune decine di milioni di morti, il mondo libero è riuscito finalmente ad archiviare nella spazzatura della storia.

In un’epoca in cui le ideologie erano una cosa seria e il principio di realtà, almeno in Occidente, era rispettato, i Partigiani della Pace avevano perlomeno un obiettivo coerente con il loro (finto) pacifismo, ovvero chiedevano la fine delle guerre coloniali allora in corso.

La grande differenza tra gli utili idioti di Stalin e gli utili idioti di Putin è che l’attuale movimento pacifista italiano guidato da Giuseppe Conte, un tizio che fece orgogliosamente sfilare sulle nostre strade l’esercito di Mosca inviato da Putin “dalla Russia con amore” (malimorté), non chiede la fine della guerra coloniale, o meglio: imperialista, di Putin all’Ucraina, ma chiede la fine degli aiuti al popolo aggredito e sottoposto ogni giorno a bombardamenti di obiettivi civili come le stazioni, i quartieri residenziali, i centri commerciali, i parchi giochi, le scuole, gli ospedali e le fermate degli autobus.

Cioè questo movimento pacifista italiano chiede la fine dell’eroica resistenza ucraina, la fine della solidarietà occidentale a un paese che si difende dal genocidio e il riconoscimento delle razzie russe il più presto possibile anche perché i russi stanno perdendo sul campo la guerra e più passa il tempo più le rivendicazioni illegali di Putin rischiano di indebolirsi. Una posizione oscena e miserabile che ha sfilato a Roma sabato scorso (con rare eccezioni come il gruppo Micromega e, in linea di principio, del Pd).

Va aggiunto che il partito guidato da Giuseppe Conte non è la prima volta che mostra una certa affinità con Mosca. In passato ha   partecipato allegramente ai congressi del partito più unico che raro di Vladimir Putin e si è presentato alle elezioni italiane del 2018 con un programma di politica estera – dal no alla Nato al no all’Europa – che sembrava una fedele traduzione della politica estera di Mosca.

I leaderini Cinquestelle di allora applaudivano l’invasione russa della Crimea e del Donbas e avevano un’idea di politica energetica di totale dipendenza dalla Russia, mentre Conte medesimo ha governato d’amore e d’accordo non solo con Putin ma anche con Donald Trump, aprendo agli sgherri di Mar-a-Lago le porte dei nostri apparati di sicurezza per rintracciare le improbabili prove di un fantomatico complotto ucraino contro Trump, e ordito da Biden e Renzi, che in realtà era una gigantesca bufala creata ad arte dal Cremlino per distogliere l’attenzione dall’ingerenza russa nel processo democratico americano.

Per non farsi mancare niente, il governo Conte ha anche siglato un memorandum con la Cina per consegnare le infrastrutture portuali italiane ai cinesi. Insomma, sotto la luminosa guida dell’avvocato populista, sovranista, progressista, e ora anche pacifista, l’Italia è stato il primo paese del G7 ad aderire alla Belt and Road Initiative (imperialismo cinese) e il primo paese occidentale a far sfilare nelle proprie strade l’Armata rossa (imperialismo russo).

Nonostante ciò, Conte pontifica. Nonostante ciò, fa il capopopolo pacifista. Nonostante ciò, il Partito democratico lo ha scelto anno fa come leader fortissimo di tutti i progressisti e continua a inseguirlo incurante delle continue umiliazioni subite, compresa quella nei confronti di Enrico Letta alla manifestazione di Roma.

I propagandisti italiani di Putin, a differenza di quelli di Stalin, quindi è più esatto definirli “antipartigiani della pace”, perché non chiedono più la fine della guerra coloniale come i loro predecessori, ma il disarmo dell’Ucraina che resiste alla guerra imperialista russa.

E quindi benissimo ha fatto Carlo Calenda, sabato sera, a chiudere la manifestazione antifascista di Milano a sostegno del popolo ucraino aggredito dai russi intonando “Bella Ciao”, il canto universale della resistenza popolare all’invasore imperialista.

A Milano con Calenda c’erano i sostenitori dei partigiani ucraini, a Roma con Conte c’erano gli antipartigiani della pace.

La cosa interessante è che sulla posizione di Conte – no agli aiuti militari all’Ucraina e no alle sanzioni alla Russia, sì al cessate il fuoco che consegni parte dell’Ucraina libera e indipendente ai guappi di Putin – oltre alle frange estreme di destra e di sinistra ci sono anche la Lega di Matteo Salvini e un certo Silvio Berlusconi. Mentre, in Europa, c’è Marine Le Pen. E in America Donald Trump.

L’Ucraina, l’Europa e il mondo libero si sono salvati finora grazie alla vittoria di Macron su Le Pen alle presidenziali francesi. Il giudizio sull’Italia è ancora sospeso con due partiti su tre, per fortuna quelli minori, apertamente pro Putin, mentre in America le elezioni di metà mandato ci diranno se la setta filo putiniana di Trump riuscirà a modificare, o anche solo attenuare, la politica pro Ucraina di Washington.

Questa cosa che la peggior destra della storia contemporanea, da Le Pen a Trump a Salvini a Orbán, sia unita intorno all’imperialismo russo e in Italia abbia come leader un avvocato appulo-venezuelano (copyright Iuri Maria Prado) sembra non scuotere la sinistra democratica che invece continua a tributargli onori e, di conseguenza, a meritarsi l’estinzione.

Come ha scritto la giornalista ucraina Olga Tokariuk, fellow del Reuters Institute a Oxford e il 26 novembre prossimo ospite di Linkiesta Festival, la manifestazione contiana di Roma sembra la continuazione dell’operazione mediatica russa per indebolire il sostegno italiano all’Ucraina, un’operazione di disinformazione cominciata con la presenza massiccia di propagandisti del Cremlino nei talk show italiani e con gli sproloqui di fantomatici esperti che prima hanno spiegato (di fronte alle evidenze contrarie) che la Russia non avrebbe mai invaso l’Ucraina, dopo hanno previsto con la medesima spocchia che Mosca sarebbe arrivata a Kyjiv in pochi giorni tra gli applausi degli stessi ucraini che in fondo sono filo russi, poi hanno negato i crimini di guerra russi e le fosse comuni a Bucha come è d’uso tra i colleghi negazionisti dell’Olocausto e, infine, hanno dato la colpa della guerra russa all’Ucraina agli americani e agli ucraini medesimi, oltraggiando la loro già nauseabonda reputazione con iniziative politiche e mediatiche volte a imporre la pace alle vittime dell’aggressione, non ai carnefici del Cremlino.

Quelli che cambiano bandiera e opinione a seconda del corteo: Pd, che miseria. Libero Quotidiano il  7 Novembre 2022.

Si può essere disinvolti quando di mezzo c'è l'ordinaria gestione della cosa pubblica: metti oggi il tributo che ieri dicevi ingiusto, e vabbè; dici no alla legge sulle rastrelliere per le biciclette, quella che l'altro giorno avevi proposto tu stesso, e amen; introduci la riforma sulla misura dei pollai, quella che fino a oggi avversavi, e pazienza.

Ma quando si tratta di civili massacrati, di stupri di massa, di fosse comuni, di bambini rapiti e deportati a centinaia di migliaia, allora no, allora hai almeno il dovere di dirla chiara e di non cambiarla, hai il dovere di stare da una parte e di restarci.

Stai dalla parte dell'obbligo morale della resa? Benissimo (si fa per dire): ma, stando da quella parte, non puoi far finta di non essere da quella di chi vuole imporre la resa, e cioè l'aggressore. Stai dalla parte di quelli secondo cui la pace è pregiudicata dalla resistenza? Benissimo (si fa sempre per dire): ma, se stai lì, non puoi raccontare e raccontarti che "c'è un aggressore e un aggredito", perché la tua chiacchiera ridonda in favore del primo. Se sfili in corteo con quelli che si fanno ripetitori della propaganda russa e poi, come fa Enrico Letta con un bel pezzo del suo partito, dici che da quella manifestazione non viene nulla di incompatibile con la tua militanza, allora ti rendi responsabile anche più gravemente dello stesso collaborazionismo, e bestemmi la causa che hai sostenuto non perché ci credevi, ma perché provvisoriamente, e solo facendo finta di crederci, ti conveniva. 

Se fai l'untuoso collezionista delle dichiarazioni del presidente della Repubblica, ma guarda caso ti dimentichi di quella che riafferma la necessità di aiutare anche con le armi il popolo aggredito, resti il modesto burocrate che veste di presentabilità e altezza democratica la tarantella per tenerti buoni i compagni in piega equidistante e i rapporti con lo statista apulo-venezuelano. Non sei disinvolto. Sei paraculo.

Manifestazioni per la pace, a Roma Conte si allarga a sinistra. E Letta (contestato) si allontana. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.

Fischi e «vattene» al segretario del Pd. Il leader del Movimento si prende la scena. Tra i partecipanti anche cori d’altri tempi: «Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia»

Uno ammonisce, pontifica e si concede ai selfie, che manco il Salvini degli anni ruggenti. L’altro resiste come può agli ululati, agli insulti, all’imbarazzo, finché non esce dal corteo e forse da un pezzo della propria storia. Ci sono momenti così, quando due destini s’incrociano: questo sabato romano è una porta girevole per Conte e Letta.

Fra vent’anni pochi forse s’interesseranno al fatto che la guerra di Putin, oltre a sconvolgere il mondo, ha mutato perfino le sorti della sinistra italiana, vera o sedicente che sia. Eppure, nelle noticine a piè di pagina ci sarà anche questa manifestazione per la pace a piazza San Giovanni, ottanta o centomila in corteo, 600 sigle, pochissime bandiere gialloblu dell’Ucraina, tanto rosso antico Cgil, spruzzate di Potere al Popolo, tanti vessilli di Sant’Egidio e Acli, tanti cartelli contro la Nato. E loro due. Conte e Letta, «Giuseppi» ed «Enrico-stai-sereno». Distanti ma avvinti in un cambio della guardia quasi plastico. L’autodafé del Pd atlantista con slittamento verso il canone classico del pacifismo cattocomunista (ora in salsa neo-grillina) si celebra tutto quanto in due scene.

All’una di pomeriggio il corteo non s’è ancora mosso, tira aria da remake, Berkeley anni Sessanta, Fragole e sangue per noi più grigi sulle note tambureggianti di Give Peace a Chance. Museo della contestazione, età media 55 anni. Eppure, sul lato di piazza della Repubblica c’è una specie di vortice modernista di telefonini, telecamere, microfoni. E un uomo solo in mezzo, forse al comando: l’avvocato di Volturara Appula senza più pochette, in girocollo nero esistenzialista, la Taverna e la Castellone come angeli custodi, uno striscione «Dalla parte della pace» davanti. «Bello come il sole», mormora una pantera pentastellata in ordinata fila per la photo-op. Sì, c’è il servizio d’ordine che tiene a bada il suo popolo, tante signore, «due metri indietro, per favore, non spingete». Un popolo che invece adesso spinge perché s’è allargato d’un bel po’: lo dicono i sondaggi, del quasi incredibile aggancio al Pd. Lo certifica il colpo d’occhio. Ci sono le partigiane, per dire. Gabriella Collaveri, Anpi di Livorno, sospira con mirabile sintesi politica alla domanda se Conte sia di sinistra o meno: «… ‘Un lo so! Ma è l’unico che dice qualcosa per quelli bassi come noi». E accidenti se dice: ha appena ammonito il ministro Crosetto di «non azzardarsi a mandare altre armi all’Ucraina senza passare per il Parlamento». Sicché da dietro, pressano al grido di «Con-te, Con-te!». Il dilettante che doveva celebrare le esequie Cinque Stelle s’è preso il cuore di questa gente con due mosse facili e populiste: prima il reddito, poi la pace.

Il resto è contorno per la seconda scena rivelatrice. Dopo essere stato fantasma per un paio d’ore («Verrà o no?»), Letta si materializza a metà corteo, dalle parti di via Merulana. Militanti del Pd e pentastellati stanno a distanza di circa un chilometro, col cuscinetto dei cattolici tra loro. Il segretario dovrebbe entrare tra i cordoni di Acli e Sant’Egidio. Finora è andato tutto liscio. Il popolo del corteo s’è digerito pure Fassino, che certo non è un appeaser. Una signora vestita in arcobaleno lo approccia: «La smettano di alimentare questa guerra». Lui, strenuo difensore dell’Ucraina libera e armata, non fa un plissé e risponde con un «va bene». Ci sono Bonaccini e la De Micheli (vagamente situazionista: «Ho troppo rispetto di queste persone per parlare di politica»). Ci sono Nardella e Provenzano e nessuno se n’adonta. Zingaretti, figurarsi, già ponte verso Giuseppi «fortissimo punto di riferimento dei progressisti», è quasi un ircocervo ormai.

Con Letta va diversamente e si sapeva. Partono i mugugni, le parole forti, gli danno del «guerrafondaio». Allora lui, mal consigliato, decide di tagliare per il marciapiede di via Merulana accelerando verso piazza San Giovanni. Lo vedono. Fotografi, telecamere e grillini lo inseguono. Fischi. Ululati. Un surreale corteo nel corteo. Lui accelera, mette la mascherina forse per rendersi meno riconoscibile. Poiché è un uomo cortese, col fiatone dice che non c’è «nessun disagio, sto benissimo». Dalla strada gli urlano «vattene», «cambia rotta». Lui: «Dove c’è la pace c’è il Pd». È una scena triste che si conclude solo davanti alle transenne della piazza che fu di Togliatti e di Berlinguer e adesso vede il segretario dem sgattaiolare al riparo mentre un ragazzo con una bandiera della Cgil in spalla gli grida «fascista».

Regna confusione nelle parole e nei pensieri, il sabato romano è una macedonia di buone intenzioni, speranze ingenue e falsità. Angelo Moretti del Mean coglie il punto onestamente: «Siamo tanti perché la manifestazione è ambigua, non si sono sciolti i nodi». Non a caso il primo striscione del corteo è per Assange, martire o demonio, punti di vista. Ci sono i ragazzini delle scuole (pochi in verità) che cantano le canzoni dei nonni (molto gettonata «Comunisti della Capitale»): convinti che l’unico modo per uscirne sia disarmare Zelensky, ignorando la storia di Monaco 1938. È l’umore prevalente, checché ne pensi ciò che resta del Pd lettiano.

Giorgio Cremaschi, sindacalista d’antan, ci va duro: «Se vedo Enrico gli dico: fai pace con te stesso, non puoi chiedere il cessate il fuoco e mandare le armi a Kiev». Mentre partono cori d’altri tempi («Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia») si capisce che la prossima spedizione di materiale bellico non sarà un pranzo di gala. Nel backstage soloni del pacifismo peloso invocano la tregua «adesso che c’è lo stallo tra russi e ucraini» omettendo che senza le nostre armi a Zelensky non ci sarebbe adesso e non ci sarà poi nessuno stallo ma solo sottomissione. Tra brani di De Gregori, eskimo e kefiah sparsi, camminare accanto a Mimmo De Masi, amabile sociologo ultraottantenne, è come marciare con il Che. Lo venerano. A San Giovanni, si stringono la mano Conte e Landini. Il segretario Cgil vuole «disarmare la guerra», il nuovo padrone della piazza gli dice «non molliamo». Letta è già via. Gli chiedono: non parli? Lui sorride solo increspando le labbra, scuote la testa. Di colpo s’è alzata tramontana.

La piazza della pace non difende l’aggredito dall’aggressore. NICOLETTA PIROZZI su Il Domani il 05 novembre 2022

Un “cessate il fuoco” immediato equivarrebbe a congelare l’attuale situazione sul terreno, lasciando in mano russa la Crimea, le repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lughansk e le regioni di Kherson e Zaporizhia, il cui status finale sarebbe poi demandato ad un negoziato successivo.

 Ma quante speranze ci sono di una soluzione su queste basi?

 Non molte. Con l’aggressione dell’Ucraina, Putin ha infatti perseguito l’obiettivo di ridurne la sovranità facendola rientrare nell’orbita russa.

NICOLETTA PIROZZI. Responsabile del programma “Ue, politica e istituzioni” e responsabile delle relazioni istituzionali dello IAI, Nicoletta Pirozzi si occupa principalmente di governance dell’Unione europea, aspetti politici e istituzionali della Pesc/Psdc, gestione civile delle crisi, rapporti tra Ue e Nazioni Unite e relazioni Ue-Africa. È la coordinatrice scientifica del progetto Horizon 2020 EU IDEA – Integration and Differentiation for Effectiveness and Accountability. È Associate dello European Governance and Politics Programme presso lo European University Institute (EUI) di Fiesole. Dal 2013 al 2019 è stata professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli studi Roma Tre. Nel 2018 è stata Marshall Memorial Fellow e Associate Analyst presso l’EU Institute for Security Studies (EU-ISS) di Parigi. 

La vicepremier ucraina Vereshchuk: «Nessuna soluzione politica perché Mosca non la vuole». Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 06 novembre 2022

«L’unico modo per raggiungere la pace in questa fase è continuare a combattere», dice la 42enne vicepremier e ministra per i Territori occupati Iryna Vereshchuk . L’abbiamo intervistata nel suo ufficio per quasi un’ora.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Qual è il suo messaggio alle manifestazioni dei pacifisti italiani?

«La pace non c’è perché i russi non la vogliono. Se noi smettiamo di batterci spariremo come popolo e come nazione. Il nostro movimento di resistenza difende anche le democrazie europee. Mi auguro che i pacifisti non interrompano il sostegno all’Ucraina e non allentino le sanzioni contro Mosca. Se l’Europa dovesse tradire il suo sostegno al mio Paese, l’intero mondo Occidentale sarebbe a rischio».

Il nuovo governo italiano ha appena approvato il sesto invio di armi all’Ucraina dall’inizio della guerra. Cosa serve con urgenza?

«Ringraziamo per gli aiuti. Le armi sono vitali. Grazie anche per il sostegno ai nostri profughi. Dall’Italia abbiamo già ricevuto artiglieria pesante a lunga gittata, cannoni semoventi, cingolati M113, sistemi missilistici, proiettili di vario calibro. Adesso ci servono in particolare sistemi antiaerei per salvare le città dai bombardamenti terroristici russi che mettono in ginocchio le infrastrutture civili».

Il capo di Stato Maggiore italiano, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ha dichiarato al «Corriere» che per porre fine al conflitto non esiste una soluzione militare, anche perché i due eserciti sarebbero impantanati in una guerra d’attrito.

«Sono il ministro responsabile dei territori invasi dai russi e di quelli liberati, me ne occupo quotidianamente: stiamo avanzando. Nelle ultime ore abbiamo liberato almeno quattro villaggi nella regione del Kherson. A Dragone voglio dire che per ora è impossibile una soluzione politica, esiste solo il campo di battaglia. La forza delle armi rimpiazza la diplomazia per il fatto che è l’unico linguaggio che Putin e il Cremlino sono disposti a capire».

Quando inizierà la diplomazia?

«Il cambio di passo potrà avvenire soltanto quando la Russia abbandonerà le terre che ha invaso».

In alcuni settori politici occidentali cresce la pressione affinché l’Ucraina rinunci alle regioni occupate dai russi nel 2014 e Putin, in cambio, accetti di tornare alle frontiere del 23 febbraio 2022. Siete disposti a rinunciare alla Crimea in cambio di una vera pace?

«Gli ucraini sono chiari e unanimi su questo: non scambieremo la nostra gente e una parte delle nostre regioni, sia in Crimea che nel Donbass. Putin non mira solo alla terra, non illudetevi sia possibile un compromesso. Putin intende cancellarci come Stato. Per noi è questione di vita o di morte».

Non eravate più flessibili tra fine febbraio e metà maggio?

«Allora abbiamo scoperto gli orrori degli abusi russi, il loro terrorismo sistematico su città e villaggi. Zelensky aveva avvisato che se Putin avesse imposto il falso referendum nelle zone occupate non ci sarebbe stata più possibilità di dialogo: lo ha fatto egualmente, noi agiamo di conseguenza».

Quando prevede l’arrivo di Giorgia Meloni a Kiev?

«Dipende dalla sua agenda, l’attendiamo a braccia aperte. Vorremmo mostrarle cosa sta avvenendo nel Paese, che veda di persona i crimini russi».

Crede che Putin potrebbe davvero sparare l’atomica o una bomba sporca? Potrebbe tirarla su Kherson?

«Invito a riflettere: pensate che la Russia è membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, secondo il memorandum di Budapest firmato nel 1994 avrebbe dovuto garantire i nostri confini dopo che noi avevamo accettato di rinunciare alle bombe atomiche che stavano sul nostro territorio. Invece, Putin terrorizza e ricatta, minaccia la Terza guerra mondiale e persino l’olocausto nucleare. La verità è che il suo regime è allo stadio terminale della sua folle degenerazione, può fare qualunque cosa. L’unica salvezza viene dalla fermezza della comunità internazionale. Ho molto apprezzato le ultime dichiarazioni del G7 in Germania, dove si ribadisce che per la Russia sarebbe una catastrofe se ricorresse ad armi non convenzionali. Più il mondo reagirà unito e meno Putin potrà usare l’atomica. Non dimenticate che dittature nucleari come la Corea del Nord stanno a guardare, la risposta contro Putin determina ciò che avverrà nel futuro».

Quando prenderete Kherson?

«È uno scenario complesso. Con il freddo e la pioggia l’artiglieria affonda nel fango. Però i nostri soldati sono motivati, avanzano. Noi cerchiamo di risparmiare vite umane, a costo di procedere lentamente. Credo che riusciremo a liberare la regione a ovest del Dnepr entro fine anno. Per quanto riguarda i civili, abbiamo visto che i russi hanno chiuso l’unico passaggio di fuga verso Zaporizhzhia: nell’ultima settimana sono arrivate meno di 200 persone nelle aree controllate dal nostro esercito. E da due giorni hanno bloccato l’accesso sul fiume verso la riva orientale. Sulla riva occidentale restano circa 100.000 civili».

E se la vittoria dei Repubblicani alle elezioni di midterm portasse alla diminuzione degli aiuti Usa?

«Non crediamo che avverranno grandi cambiamenti. Il sostegno americano per l’Ucraina resterà immutato».

Pensa ancora che i profughi ucraini all’estero debbano restare sino a primavera?

«Sì, continuerò a chiedere a quelli che possono di restare dove sono, specie donne e bambini. I bombardamenti russi hanno danneggiato le infrastrutture civili, l’inverno senza elettricità al freddo sarà difficile. Chiediamo anche all’Italia di continuare ad ospitarli per l’inverno».

Francesca Mannocchi per “La Stampa” il 5 novembre 2022.

Quando si parla di pace nel contesto di questa sanguinosa e drammatica guerra istigata dalla Russia, alcune persone non vogliono riconoscere un semplice fatto: non esiste pace senza giustizia (dal discorso di accettazione del Peace Prize of the German Booktrade dello scrittore ucraino Serhiy Zhadan il 23 ottobre). Ho trascorso le ultime settimane in Ucraina, spinta lì dagli attacchi che il 10 ottobre hanno riportato il terrore nelle strade di Kyiv, che hanno colpito ancora Dnipro e Zaporizhzhia uccidendo venti persone e ferendone più di cento.

Il mondo ha guardato a quegli attacchi come a una fase nuova del conflitto, la strategia del terrore, si dice. Ed è vero, funziona così. Si colpisce la vita quotidiana, si condannano i civili a uno stato di tensione e privazione permanente sperando che, alla lunga, persino il più solido degli animi ceda e chieda a chi è chiamato a prendere decisioni, di fare un passo indietro, concedere qualcosa all’avversario, consegnare all’invasore ciò che chiede. 

La strategia del terrore, si è detto. Come fosse un dato inedito e invece, semplicemente, ci eravamo distratti, perché inchiodati alla cronaca del presente, abbiamo perso di vista i disegni imperiali del regime di Putin che seguivano un calendario dilatato.

«O la resa o la morte» è il metodo putiniano della guerra. L’aveva detto durante l’assedio dell’Azovstal, a marzo. «Che non entri e non esca nemmeno una mosca» è stata la regola che Putin ha imposto sull’ultima battaglia di Mariupol: l’arma era l’assedio, la conseguenza la fame, l’effetto la resa. La guerra allora era iniziata da otto settimane e già c’erano tutti gli elementi per capire che circondare e affamare le persone fossero i tasselli di una strategia precisa. 

Le truppe russe avevano già devastato terreni agricoli, distrutto attrezzature, minato i terreni fertili, danneggiato le rotte di rifornimento, bloccato i porti, tagliato l’elettricità e distrutto le centrali elettriche, interrotto le forniture di acqua e di gas, distrutto magazzini di cibo, e depositi alimentari. Colpito consapevolmente i mezzi dei corridoi umanitari e le code dove le persone aspettavano la distribuzione di pane e aiuti alimentari, ucciso volontari, massacrato civili.

Nelle settimane successive, era aprile, ero a Bucha. Ho visto i cadaveri in strada, ascoltato i racconti dei civili torturati, ho ascoltato le vedove di uomini giustiziati sulla porta di casa, visitato anziani colpiti alle gambe e lasciati marcire di dolore nelle cantine, anziani rimasti senza gambe, amputate perché non c'era più niente da fare. Li ascoltavo mentre qui, in Italia, alcuni di quelli che invocavano la pace, negavano le stragi di Bucha, negavano le evidenze della strage del teatro di Mariupol. 

Sono passati i mesi, a quei cadaveri in strada, che erano lì, lo so perché ci ho camminato in mezzo, ha reso giustizia l'indagine giornalistica, ha reso giustizia la Commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite i cui esperti hanno concluso che in Ucraina siano stati «senza dubbio» commessi crimini di guerra. I tifosi della pace-come-resa dell'Ucraina che avevano negato la responsabilità russa su quegli eccidi, però, non si sono mai scusati. Oggi, probabilmente, saranno in piazza con la bandiera arcobaleno.

Ho osservato l’Ucraina per settimane nella maestosa luce che ha la città quando la bella stagione staffetta con l’autunno, ho cercato di cogliere negli sguardi dei passanti cosa sia abitudine al conflitto, come la consuetudine alla paura modifichi la ritualità del quotidiano e insieme i connotati dei volti, ho scoperto che la guerra fa al viso di un uomo quello che il mare e il vento fanno agli scogli, li consuma e insieme li definisce. 

Sono salita sui tetti degli edifici colpiti, incidentalmente si direbbe, così come si direbbe che i morti siano collaterali. Ho guardato le città dall'alto, e lì mi è stato chiaro cosa provochi un missile quando colpisce una centrale elettrica e un ponte, cosa produca quando danneggia una scuola, e quando i vetri di una finestra si frantumano sul corpo di un'anziana mentre cuce a maglia con gli aghi e i gomitoli, dritto rovescio, dritto rovescio e poi, improvvisamente, è colpita da una scheggia e muore.

Dopo aver incontrato gli occhi sfiniti dei sopravvissuti mi sono domandata quale fosse - se c'era - un modo rispettoso di chiedere agli ucraini cosa sia per loro la parola pace, oggi, mentre qui, in Italia, imbizzarrisce il dibattito tra pacifisti storici (e improvvisati) e i difensori del sostegno armato al popolo ucraino. 

La prima cosa che ho capito, tessendo le risposte che ho ricevuto da nord a sud, da est a ovest, da soldati e civili, da attivisti e bambini è che pace, lì, sia una parola imperfetta. 

Lo è per Stanislav, che è un soldato, e mentre sistemava le munizioni dell’obice di cui era responsabile mi ha detto che pace per lui è sposare la sua fidanzata, fare dei figli, comprare un barbecue e invitare i suoi amici a vedere la partita, in tv, la domenica. Ma che non c’è pace senza libertà.

Pace è una parola imperfetta anche per Liljia, che ha sessant’anni ed è tornata a vivere a Irpin. Di madre e padre russi, vive a Kyiv da sempre, suo padre è sepolto in Crimea e lei non può andare a piangerlo sulla tomba perché la Crimea è occupata da altri russi. Quando le ho chiesto cosa significasse per lei la parola «pace» mi ha detto che sta imparando a vivere dentro la guerra. Ha risposto così, dopo una pausa che è servita a disegnarle sul volto il sorriso di chi ha capito che non finirà presto, che niente sarà - comunque - più come prima, anche se le armi tacessero domani. 

È la saggezza dell’esperienza delle vittime che dovrebbe indicare la via e dare le parole d'ordine a chi scenderà in piazza, oggi. Le parole come quelle di Liljia, che qui consegno testuali: «Noi voltiamo le spalle ai russi perché loro hanno voltato le spalle a noi. Dobbiamo solo imparare a viverci dentro. I tempi in cui eravamo sangue dello stesso sangue sono passati e non torneranno mai più. Nessuno vuole tornare a quello che esisteva prima del 1991, pace per noi è andare da qualche parte nel futuro, ma i russi invasori che volevano un unico grande Paese hanno costruito un'unica grande prigione».

In questi otto mesi di invasione russa in Ucraina il valore delle parole dei testimoni è stato progressivamente indebolito, fino ad essere quasi del tutto ignorato, perché la portata delle evidenze di cui ci rendevano consapevoli non poteva che richiamare a una responsabilità collettiva, cioè solidarizzare con gli invasi, aiutare le vittime a difendersi, e cioè a liberarsi dall’invasore e chiedere giustizia. Per i giustiziati, i torturati, le donne stuprate, gli anziani lasciati morire di dolore, e risarcimenti per i ponti distrutti, le strade danneggiate, le scuole rase al suolo, le fosse comuni, le condotte idriche frantumate.

Perché, in una guerra di invasione, val la pena ricordarlo a chi scende in piazza, funziona così. Sono gli invasi che vivono nei bunker, scendono in metropolitana con i sacchi a pelo per paura di morire schiacciati dal tetto di casa, solo da un lato del confine si vive con le sirene antiaeree nelle orecchie dal 24 febbraio, è per questo che da un lato del confine non può esserci pace senza giustizia. 

La demarcazione tra pace e giustizia attraversa l’opinione pubblica da mesi, come se i due campi anziché essere necessari l’uno all'altro fossero di segno opposto. Il conflitto in Ucraina si sta trasformando in una lunga guerra di logoramento, e rischia di diventare anche la linea di demarcazione tra una idea di Europa che rischia di frantumarsi sotto il peso di questa spaccatura dell'opinione pubblica, Putin lo sa. È la condotta di ogni fanatismo, creare divisioni nel campo avversario e riempire il vuoto che si è creato seminando odio.

Ecco perché la strategia del terrore di Putin, riguarda anche chi scenderà in piazza oggi. La manifestazione di oggi chiama al negoziato, alla pace, sacrosanto. Attenzione però a non confondere la pace con la debolezza di aver ceduto al ricatto di un dittatore. 

Alcuni sostenitori dello stop all'invio di armi ritengono che sfilandosi dalla guerra diminuiranno i combattimenti e si morirà di meno. Anche questo è sacrosanto. Invito, però, i partecipanti - soprattutto i tanti che spinti da nobili intenzioni riempiranno strade e piazze - a chiedersi quanto siano diventati strumenti di una parola così pura ma usata, oggi, sul ring di leader perdenti e in crisi di identità politica che provano a raschiare un magro consenso, scendendo in piazza con le bandiere arcobaleno.

 Viene da pensare, con un realismo dettato dall'esperienza e non dal pregiudizio, che sfilandosi dalla guerra, oggi, diminuirebbero la spinta dei rifugiati sui nostri confini (leggasi sul nostro welfare) e poi, certamente, le bollette del gas. Diminuirebbe la paura dei cittadini del costo economico di questa guerra di liberazione. Ma verrebbero meno anche tutti i valori che fino ad oggi hanno sostenuto la nostra idea di democrazia, autodeterminazione e libertà. La nostra idea di mondo giusto, l’unico nel quale una vera pace è possibile.

Vogliono la pace ma si fanno la guerra: la sinistra è divisa pure sull'Ucraina. Dario Martini su Il Tempo il 06 novembre 2022

Il Terzo polo che scippa "Bella ciao" al Pd rende bene l'idea del caos che regna a sinistra. È Carlo Calenda a dare il via dal palco, al termine del suo intervento, alla canzone simbolo della resistenza partigiana. In questo caso la resistenza è quella dell'Ucraina contro l'invasione russa. Il leader di Azione gongola: «Adesso siamo noi titolati a cantarla». E tutta la piazza all'Arco della Pace a Milano lo segue intonando le parole tanto care ad Enrico Letta e compagni. Il senso della manifestazione è sicuramente quello di dimostrare vicinanza e sostegno al Paese guidato da Volodymyr Zelensky, ma è anche l'occasione per sottolineare quanto siano distanti dalle posizioni espresse dai 5 Stelle di Giuseppe Conte. Ma anche dal Partito democratico, che insegue i pentastellati cercando di non contraddirsi, dal momento che si è sempre dichiarato fortemente atlantista. A differenza del corteo di Roma, dove sfilano sia Conte che Letta, a Milano le uniche bandiere presenti sono quelle gialle e blu dell'Ucraina. Lo slogan dice tutto: «Slava Ukraina», saluto nazionale che significa «Gloria all'Ucraina», in genere accompagnato dalla risposta «Gloria agli eroi». Insomma, non c'è spazio a dubbi: bisogna continuare a sostenere l'esercito ucraino senza se e senza ma. Perché «se la Russia smette di combattere, non ci sarà più guerra, mentre se l'Ucraina smette di combattere, non ci sarà più l'Ucraina». Quindi, netto rifiuto ad interrompere le forniture di armi a Kiev come chiede la piazza di Roma capeggiata dal leader del M5S.

Ettore Rosato, presidente di Italia Viva lo attacca frontalmente: «A Conte che come sempre specula dico che siamo tutti contro la guerra, a nessuno piace mandare armi. Lo facciamo perché il popolo ucraino è vittima di un'aggressione ingiustificabile. Solo gli amici di Putin, i codardi e gli opportunisti si voltano dall'altra parte». Tra i politici in piazza si segnalano, oltre quelli del Terzo polo, anche l'ex assessore al Welfare della Regione Lombardia, Letizia Moratti, che il Terzo polo vuole candidare governatore, e Pierferdinando Casini. Ma anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori del Pd. Ad alimentare la polemica a distanza con il M5S è soprattutto Calenda: «Conte è stato con Salvini quando era putinista, è filo trumpiano, ha firmato la via della seta con i cinesi e poi ha deciso che è progressista. Adesso ha deciso che è pacifista, domani deciderà che è comunista e tra quattro giorni diventerà nazionalista. C'è una definizione per Giuseppe Conte: si chiama qualunquismo, e nella cultura italiana il qualunquismo è di destra, non c'entra niente con la sinistra». Poi un messaggio indirizzato a Letta, che ha preferito sfilare al corteo di Roma: «Qui a Milano sarebbe stato applaudito e nessuno lo avrebbe contestato, perché se c'è una cosa che va riconosciuta a Enrico Letta è la totale linearità sulla questione ucraina». Mentre Matteo Renzi preferisce smorzare i toni: «Credo che si debba sempre rispettare le idee di tutti, ma è stata una bella scelta quella di Calenda di convocarci qui, un dovere per tutti di combattere per una pace giusta. Non voglio polemizzare con le altre piazze, è assurdo farlo come ha fatto questa mattina Conte. Penso di dover dire che non c'è pace senza giustizia». 

In trentamila hanno partecipato alla manifestazione di Roma organizzata dalla piattaforma "Europe for peace". Ad indirla sono stati i sindacati Cgil, Cisl e Uil, l'Arci, l'Acli, l'Anp, la comunità di Sant'Egidio, l'associazione Libera, Emergency, Sbilanciamoci e l'Aoi. Lo slogan ufficiale era: «Cessate il fuoco subito, negoziato per la pace». Non poteva passare sottotraccia la presenza dei politici. Soprattutto quella del capo grillino Giuseppe Conte, che è riuscito ad intestarsi la "paternità" di una piazza che chiedeva a gran voce lo stop all'invio delle armi a Kiev. Saltava subito all'occhio, infatti, la quasi totale assenza di bandiere ucraine. Le uniche a sventolare erano quelle arcobaleno della pace. Il contemporaneo corteo organizzato dal Terzo polo a Milano ha fatto sì che risaltasse in tutta evidenza la netta contrapposizione tra le due manifestazioni. Una dichiaratamente contraria al riarmo ucraino, l'altra apertamente a favore. Non a caso ad andare in grande difficoltà è stato Enrico Letta, da sempre convinto sostenitore dell'appoggio militare a Zelensky. Il segretario del Pd ha provato a spiegare la sua linea: «Sono qui in silenzio, marciando, come credo sia giusto fare in questo momento. Per la pace, per l'Ucraina, perché finisca questa guerra, perché finisca l'invasione della Russia». I fischi e gli insulti sono arrivati lo stesso. Alcuni manifestanti gli hanno gridato «assassino», «guerrafondaio». E ancora: «Via il Partito democratico dal corteo». Il segretario dem ha cercato di ammorbidire la sua posizione per farsi accettare anche da chi non lo voleva: «Quando arriverà il decreto del governo in Parlamento sull'invio delle armi a Kiev vaglieremo la proposta e se ne parlerà. Abbiamo sempre detto che lavoreremo in continuità con quello che si è fatto e in linea con le alleanze europee e internazionali di cui facciamo parte». Una mezza giravolta, dal momento che mai con il governo Draghi il leader del Pd si è azzardato ad insinuare il minimo dubbio ogni volta che andava votato il «decreto armi». 

Molti di coloro che hanno sfilato da piazza della Repubblica a San Giovanni non erano affatto per la «continuità con le alleanze internazionali» ricordata da Letta. Tra i vari cartelli si potevano leggere slogan di questo tipo: «Né con Putin né con la Nato», «I fascisti sono atlantisti, ora e sempre servi della Nato», «Noi non vogliamo la guerra, no alle armi, no alle sanzioni, dove è finita la diplomazia». Non passava inosservato neanche il manifesto con il volto di Mattarella e la scritta: «Presidente l'Italia ripudia la guerra, cosa è che non capisce di queste parole?». Insomma, il luogo ideale per l'opposizione di Conte. «Nel caso di un nuovo invio di armi a Kiev il governo deve venire in parlamento e metterci la faccia - ha detto il leader del M5S - deve spiegare perché vuole perseguire una strategia che non ha vie d'uscita». Poi la stoccata a Calenda e agli altri che hanno manifestato a Milano: «Non ho capito se quella piazza è per la pace o per la guerra». Unico deputato renziano presente era Roberto Giachetti: «Non lascio la pace in mano a Conte e ai "pacifisti equidistanti". Due settimane fa sono andato a portare solidarietà all'ambasciata ucraina, poi sono andato alla manifestazione a favore di Kiev sotto l'ambasciata russa e per questo oggi sono qui, avendo così chiarito che per me c'è un invasore, la Russia, e delle vittime, gli ucraini. E che non c'è pace senza il ritiro dei russi».

La sinistra scende in piazza divisa e senza Pace. Federico Novella su Panorama il 5 Novembre 2022.

Tra Milano e Roma dal Pd al M5S per finire con Azione oggi è il giorno delle manifestazioni con diverse visioni e contraddizioni sulla pace 

Una, cento, mille piazze. Per una, cento, mille sinistre. Gli oppositori al governo ricadono in ordine sparso tra Milano e Roma, in un coro in cui le parole d’ordine si confondono, i distinguo sul nemico sfumano i contorni della protesta, e dove in buona sostanza la manifestazione di oggi per la Pace diviene l’ennesimo palcoscenico dei protagonismi, il teatro mediatico da cui lanciare messaggi politici che poco hanno a che vedere con il conflitto in Ucraina. In linea di massima ci sono due tipi di Pace proclamati oggi. Quella di Roma, e quella di Milano. Quella anti-armi, e quella pro-armi. La pace rivendicata nella capitale anche dal Partito Democratico è quella dal concetto più inafferrabile. Una definizione appositamente ritagliata dagli organizzatori in maniera vaga per consentire a tutti di starci dentro. “Cessate il fuoco subito” e “negoziamo per la pace” può voler dire tutto e nulla. E infatti sui sampietrini romani sfilano Enrico Letta e i sindacati, De Magistris e Potere al Popolo, antiamericani e comunistoidi, l’associazionismo cattolico e ovviamente Giuseppe Conte, cui il Pd non può consentire di prendersi da solo la scena. Così Enrico e Giuseppe sfilano senza bandiere da separati in casa, anzi separati in corteo, gareggiano per avere un rapporto privilegiato con i pacifisti. E si lanciano occhiate a distanza, sapendo che una parte dei rispettivi partiti non disdegnerebbe una liason politica nell’immediato futuro. L’altro pezzo di opposizione intende la Pace in maniera decisamente più filo Nato, e manifesta a Milano sotto le bandiere del Terzo Polo (con qualche aggiunta dem, come il sindaco di Bergamo Gori). In un sostegno senza riserve a Kiev che probabilmente da Roma suonerà come una posizione guerrafondaia (come se la guerra l’avesse scatenata la Nato e non Putin). Ma anche nella piazza milanese, dietro i proclami contro l’invasione russa, si muovono le pedine della politica: sul selciato con Calenda e Renzi scenderà anche Letizia Moratti, appena dimessa dalla vicepresidenza della Regione Lombardia e subito arruolata dai centristi come possibile candidato nella corsa alle regionali. Sotto le bandiere ucraine, che saranno sventolate a Milano senza remore, accorreranno le intellighenzie centriste, da Casini a Cottarelli, per immaginarsi insieme nei prossimi appuntamenti politici. In definitiva, la Pace sarà declinata oggi in modi molto diversi. Troppo diversi per partiti che pretenderebbero di stare uniti per costituire un’alternativa al centrodestra. Dietro l’appuntamento pacifista, però, si nasconde l’occasione per strizzare l’occhio al proprio elettorato (più o meno pacifista, più o meno atlantista). In questa commedia, vale la pena di notare come i due nuovi santini del centrosinistra che verranno in qualche modo portati in processione, i due volti “nuovi” , sono Conte e Moratti. L’uno ex avvocato del Popolo, fino a ieri accusato di aver fatto esplodere il governo Draghi. L’altra, ex ministra di centrodestra, fino a ieri inchiodata al suo passato berlusconiano. Ancora una volta, riemerge a sinistra la sindrome del Papa straniero. Osannato, sotto le bandiere della pace, in una coalizione sfiancata dalle guerre interne.  

Il grido di Conte: in questa piazza sfila la maggioranza silenziosa. Domenico Pecile su L'Identità il 5 Novembre 2022 

“Siamo la maggioranza silenziosa”. Così Giusepe Conte ammaina la bandiera ma si mette alla testa del corteo della pace. “Da tempo – dice – auspicavamo una grande mobilitazione di quella maggioranza silenziosa del Paese che non condivide la strategia e la postura bellicista che l’Italia ha assunto, prima con il Governo Draghi e ora con quello di Meloni, rispetto al conflitto”.

Guerra e pace. Ieri, due parole a significare uno dei capolavori di Lev Tolstoi. Oggi, in una contemporaneità paradossalmente più confusa, due termini fatti propri dalla politica. Due parole che dividono, dunque. Nella fattispecie, il comun denominatore è la guerra in Ucraina. L’approccio, invece, è antitetico. Due parole, appunto, per due piazze divise, due schieramenti, due modi di blandire l’elettorato, due modalità acchiappa-voti. Due maniere, anche, per conquistare la leadership di un Centrosinistra anche oggi diviso: da una parte Roma, con i pacifisti cattolici e no; dall’altra Milano, con quanti ritengono che la realpolitik in questo conflitto debba avere il sopravvento rispetto al buonismo. Un braccio di ferro a distanza che fa soltanto la gioia del Centrodestra. A Roma sfileranno associazioni cattoliche, ambientaliste, sindacali (Acli, Arci, Anpi, Agesci, Altromercato, Beati i costruttori di pace, Legambiente, Wwf, Greenpeace, Comunità di Sant’Egidio, tanto per citare le più conosciute) chiamate a raccolta da Europe For Peace e che contano sull’appoggio del Vaticano e sulla “sponsorizzazione” dello stesso Papa Francesco. Non a caso, nel corso della manifestazione che comincerà con il raduno alle 12, in piazza della Repubblica, è attesa la lettura della lettera del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei. Ma, oltre al disco verde papale ci sarà pure la “benedizione” del leader dei 5Stelle, da sempre in prima linea per una soluzione pacifica del conflitto e contrario alla politica del governo Draghi perché ritenuta guerrafondaia. Ma, soprattutto, ci sarà anche il segretario del Pd, Enrico Letta, che inizialmente aveva osteggiato l’iniziativa visto che era il socio di maggioranza del governo e delle politiche di Draghi. E tra i partecipanti sono in molti a contestare la presenza del Pd ritenuta tardiva e strumentale. Letta replica che l’adesione è inevitabile perché il partito ha sempre aderito a tutte le manifestazioni per la pace ” e “questa ha parole compatibili con le nostre”. Ma il sospetto che i dem non vogliano lasciare la piazza a Conte è più che verosimile. Da parte sua, il leader 5S chiarisce: “ Leggiamo in questi giorni critiche e commenti scettici su questa manifestazione per la pace, ma nelle democrazie mature l’opinione pubblica partecipa al dibattito su un tema tanto importante ed esprime il proprio dissenso o anche soltanto i propri dubbi rispetto alla linea del Governo. Ci sarebbe piaciuto che questo dibattito fosse avvenuto prioritariamente in Parlamento. Purtroppo così non è stato”. Per Conte, che ha ribadito la ferma condanna dell’aggressione russa, cheide una partecipazione senza “nessun cappello politico”, auspicando la partecipazione “anche di quei cittadi ni che hanno votato le attuali forze di governo”. A Milano, invece, sfileranno i centristi ringalluzziti dall’uscita della Moratti dalla Giunta Fontana. L’ex ministra guarda con molto interesse a Calenda e Renzi, anche perché ritroverebbe “vecchie” amiche di viaggio come la Gelmini e la Garfagna. E oggi, appunto, l’ex assessore al Welfare della Regione Lombardia parteciperà alla manifestazione di Milano, che gli autori – precisano – hanno definito “Contro manifestazione” rispetto a quella di Roma. Immediata la replica stizzita della Lega che ha ritratto sui social il volto della Moratti con la falce e il martello in fronte. Con i centristi ci saranno anche associazioni di cittadini ucraini (Giovani per l’Ucraina, Comunità ucraina di Milano, Associazione cristiana degli ucraini in Italia, la Federazione italiana associazioni partigiane, Fiap, e i ragazzi del movimento “Rivoluzioniamo la Scuola”). Ma è data anche per molto probabile se non addirittura certa la presenza di diversi esponenti di Più Europa (che dunque sceglie la piazza dei centristi e non quella del Pd) e di esponenti della maggioranza di Centrodestra e di Fratelli d’Italia. E assieme alla Gelmini ci saranno anche Enrico Costa, Pierferdinando Casini e il senatore Carlo Cottarelli. La parola d’ordine del raduno è antitetico a quello della capitale. Per Calenda e Renzi, infatti, “la pace non può essere la resa perché non vi può essere pace senza libertà. E la pace va difesa senza arrendersi”, In altre parole: “Tutti in piazza per sostenere il popolo ucraino e la sua resistenza”. Previsto anche un collegamento video con il sindaco di Leopoli, Andrij Sadovyi e con i primini cittadini di altre città ucraine. Roma e Milano parleranno di guerra pace, ma soprattutto si contenderanno la capacità di attrazione di un elettorato alla ricerca di una bussola e di un condottiero.

La pace sia di tutti. Ma bravi 5S a evocarla La sinistra? È morta. Edoardo Sirignano su L'Identità il 5 Novembre 2022 

“La sinistra politica è morta da tempo. L’unico protagonista della piazza è il popolo, ma va dato il merito a Conte di aver anticipato gli altri sull’esigenza di una manifestazione per la pace”. A dirlo Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera dei Deputati e storico segretario di Rifondazione Comunista.

Una grande iniziativa per dire no alla guerra invade le strade della capitale. La politica, a suo parere, ha cercato di trovare una vera soluzione al conflitto?

Sia nell’esecutivo Draghi che in quello appena costituito, non solo non si è intrapresa una via di pace, ma c’è stato un arruolamento nelle culture di guerra. Le parole del pontefice, infatti, consentono di misurare il divario abissale tra il cattolicesimo e chi ha avuto e ha la guida del Paese. Questo modo di fare, purtroppo, è stato condiviso dall’intera Europa.

Come si sta comportando Bruxelles di fronte a tutto ciò?

L’Europa ha fatto una scelta drasticamente atlantica. Si è messa nella scia degli Stati Uniti, pur avendo interessi geopolitici e materiali assai diversi da quelli nordamericani. Questi ultimi sono stati alienati in nome di una pregiudiziale alleanza o peggio ancora di una subalternità verso la guida Usa. Non stiamo, comunque, parlando di una storia nuova. L’Europa reale, purtroppo, non ha mai costituito una politica autonoma, un modo proprio di stare nel mondo. Basti vedere la sua incapacità nel Mediterraneo, che dovrebbe essere il “mare nostrum” e invece non lo è.

Considerando le difficoltà che vivono tante famiglie italiane a causa del caro bollette, qualcuno già parla di autunno caldo…

No! L’autunno caldo è stato una combinazione straordinaria, un fenomeno mondiale. È stato il punto più alto del biennio rosso (1968-69), segnato da una rivolta di una generazione operaia e studentesca che ha investito tutto il pianeta. In Italia questa riscossa, che ha messo in discussione radicalmente i rapporti di potere, ha avuto genesi nel movimento operaio del Novecento. Quest’ultimo, però, è stato sconfitto. Bisognerebbe, quindi, ricostruirlo per battersi, come si faceva allora. Ritengo, invece, che quello attuale sia il tempo della rivolta, che è sempre possibile e che si può innescare, come abbiamo visto in diverse parti del continente, nell’America Latina, nel Nord Africa, su elementi imprevedibili.

Nella piazza di oggi è protagonista il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. I grillini sono la sinistra 2.0?

Il vero protagonista della piazza sarà il popolo che la riempirà. La pace non può nascere come prerogativa di una particolare forza politica. Va dato, però, merito a Conte di aver anticipato gli altri sull’esigenza di una manifestazione. Detto ciò, bisogna guardare ai movimenti, non alle istituzioni. È il momento della possibilità di costruzione di soggettività pacifiste nella società civile. Esempi sono quanto accaduto ad Assisi, il fenomeno del dialogo interreligioso, le manifestazioni di Napoli e del Colosseo. Questa rete, ancora incompiuta e informale, è quella a cui bisogna volgere lo sguardo.

La sinistra politica, intanto, dove è?

Non esiste. È morta. Con questo termine intendo la sua rappresentazione politica, la presenza nelle istituzioni, le varie forze in campo. La vera sinistra nascerà fuori da questi confini.

Quando era presidente della Camera dei Deputati, però, non c’erano i problemi attuali. Cosa è successo dopo?

Eravamo già in una fase di transizione. La sinistra sociale e politica è stata grande in Italia negli anni 70, quando ha conquistato quasi tutto, dallo statuto dei diritti dei lavoratori fino alle battaglie sull’aborto e sul divorzio. Quella era la stagione d’oro, tanto che si parlava in Europa di caso italiano per definire una trasformazione straordinaria su cui poi è piombata la rivincita delle classi possidenti.

Se il Cda di un’azienda commette un errore si dimette. Ciò non accade in politica. Perché quell’accozzaglia voluta da Enrico Letta, pur avendo perso le elezioni, ripropone sempre le stesse facce e chiude ai giovani?

Non riesco a partecipare a questa discussione perché si poggia su soggetti irriformabili. La rinascita della sinistra comincerà altrove, come è già successo fuori dall’Italia. Esempi sono Mélenchon, Podemos, il movimento femminista americano.

Tutte queste debolezze, intanto, hanno consentito a Giorgia Meloni di arrivare a Palazzo Chigi. Che idea ha del nuovo premier e del suo governo?

Stiamo parlando di un governo organicamente, strutturalmente e sistematicamente di destra. Bisognerà fare i conti con quest’esperienza. La destra in Italia, dal dopoguerra in poi, quando ha vinto si è sempre messa vestiti che non erano i suoi. Il berlusconismo le dà un connotato diverso. Questa, invece, è la destra contemporanea o meglio ancora a tre teste: la prima conservatrice in economia, con l’assunzione piena del liberismo, del primato del mercato, distante anni luce dalla storia populista originale; la seconda reazionaria, come dimostrano le repressioni delle manifestazioni e una terza corporativa.

Se la sinistra, manteneva l’abito originale, quindi, l’avrebbe spuntata?

La sinistra non può pensare di sorgere senza pensare a cosa ereditare, ovvero un’idea alta di società, di critica radicale al capitalismo. Serve, però, un qualcosa che sia realmente nuovo, che sia attuale nel ventunesimo secolo. Occorre dimenticare quel centrosinistra di governo, che ha portato alla fine di una storia. La bandiera della governabilità ha distrutto la sinistra italiana.

C'è la bandiera russa, non quella ucraina: la sinistra in piazza toglie la maschera. Cori contro la Nato, attacchi al governo Meloni e addirittura la richiesta di sospendere le sanzioni alla Russia: da Roma è tutto. E Letta viene contestato: "Guerrafondaio, vai a casa". Massimo Balsamo su Il Giornale il 05 novembre 2022

Qualche segnale era già arrivato, ora la maschera della sinistra è caduta. La manifestazione per la pace in corso a Roma conferma tutte le ipotesi delle ultime settimane: è pacifismo da salotto, senza proposte e senza idee, ma con tante contraddizioni. Giuseppe Conte presente e accolto da una star dai suoi ammiratori, tanti esponenti Pd e della sinistra più o meno estrema: le parole sono sempre le stesse, cessate il fuoco. Ma i colori gialloblu dell’Ucraina non si vedono granché, anzi, non sono mancati gli stendardi dedicati a Mosca.

Cori contro la Nato e bandiere russe

I pacifisti – o pacifinti – hanno sfoggiato bandiere, striscioni e cori di ogni tipo. Come già evidenziato in precedenza, non c’è traccia di bandiere ucraine. Gli stendardi russi invece non sono mancati. Così come non sono risultati assenti i soliti cori contro la Nato e dunque contro gli Stati Uniti. C’è chi ha colto l’occasione per attaccare il governo, a partire dal premier Meloni: “Non sono Fratelli d’Italia, sono servi della Nato! Cacciamo il governo Meloni”, uno dei cartelli esposti con tanto di falce e martello comunista. C’è anche chi è andato oltre, invocando lo stop alle sanzioni contro il Cremlino in nome della pace. Anche in questo caso, un compagno. Finita qui? Assolutamente no: la ciliegina sulla torta è una bella bandiera dell'Iran.

La sinistra getta la maschera

La sinistra propone la pace, ma non dà soluzioni. Una proposta che ricorda molto i desiderata delle vincitrici di Miss Italia, frasi di rito messe lì senza sforzarsi troppo. Una delle poche idee è quella del Movimento 5 Stelle, con Giuseppi tranchant: basta armi all’Ucraina. Kiev deve fare i conti da quasi nove mesi con gli assalti russi, ma è già armata abbastanza. Anche in questo caso, senza entrare troppo nel dettaglio. Al massimo gli ucraini possono ricorrere alle fionde o ai gessetti colorati.

Come dicevamo, in piazza è presente anche il Pd. Letta ha ribadito il suo unico pensiero: “Sono qui perché la pace è la cosa più importante di tutte. Siamo qui per dire la nostra, in silenzio, marciando, come credo sia giusto fare in questo momento per la pace, per l'Ucraina, perché finisca questa guerra e perché finisca l'invasione della Russia”. Da casa dem, comunque, almeno arrivano attestati di sostegno e vicinanza al Paese di Zelensky. Dito puntato contro la Russia, senza se e senza ma. Tra i tanti commenti, ecco quello di Laura Boldrini: “Hanno parlato le armi, troppo. Ha parlato la diplomazia, troppo poco. Oggi con una grande manifestazione a Roma parla il popolo della pace: no alla guerra in Ucraina. Mettiamo Putin con le spalle al muro. Grazie infinite alle associazioni per questa bella iniziativa". Resta il fatto che i vertici piddì hanno provato a mettere il cappello sull’iniziativa, finendo per condividere la piazza con politici/manifestanti dalle idee diametralmente opposte.

Come da tradizione, però, non mancano le frizioni all’interno della sinistra. Lo stesso Letta è finito nel mirino di Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista: “Noi siamo in piazza nonostante questa ipocrisia perché ora l'importante è far crescere il movimento per la pace e fermare l'isteria bellicista che ci sta portando sull'orlo della guerra nucleare. Il Letta a due piazze è un guerrafondaio infiltrato tra i pacifisti”. Il futuro ex segretario dem è stato inoltre contestato da alcuni partecipanti. “Guerrafondaio, filo americano, vai a casa”, le urla nei suoi confronti. Un bel clima, non ci sono dubbi.

Terzo polo all'attacco

In piazza a Milano per ribadire sostegno all’Ucraina senza troppi distinguo, il Terzo polo non lesina critiche alla sinistra. Carlo Calenda senza mezzi termini: "A Roma una manifestazione contro 'il bellicismo europeo’ e il diritto dell'Ucraina di difendersi; a Milano una piazza contro l'aggressione Russa, per il sostegno all'Ucraina e la libertà di chi resiste. Resistenza vs Resa. Difficile rimanere nel mezzo invocando il 'ma anche’”. Durissimo l’attacco a Conte firmato dal presidente di Iv Ettore Rosato: "A Conte, che come sempre specula, dico che siamo tutti contro la guerra, a nessuno piace mandare armi. Lo facciamo perché il popolo ucraino è vittima di un'aggressione ingiustificabile. Solo gli amici di Putin, i codardi e gli opportunisti si voltano dall'altra parte".

Conte tra "Bella ciao" e pacifismo: "No all'invio di armi all'Ucraina". Il monito di Giuseppi al governo Meloni: "Non si azzardi a procedere senza aver interpellato il Parlamento". Secondo l'autoproclamato avvocato del popolo, Kiev è "già armata di tutto punto". Massimo Balsamo su Il Giornale il 05 novembre 2022

Tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, sinistra in campo per mettere il cappello sulle sfilate pacifiste. Con le sue solite capriole, Giuseppe Conte ha preso una posizione netta sulla guerra in Ucraina: stop all’invio di armi, Kiev è già abbastanza attrezzata per resistere agli attacchi russi. Il leader pentastellato è sceso in campo in prima persona alla mobilitazione di Roma e non sono mancati gli attacchi al governo guidato da Giorgia Meloni.

Una manifestazione senza bandiere politiche secondo gli organizzatori, ma con una evidente impronta di parte. Tante la bandiere della pace – una lunga cinquanta metri è sorretta in piazza della Repubblica da centinaia di persone – ma non sono mancati cartelli e cori militanti. Tra vignette di Putin e appelli antifascisti, con diverse bandiere dell’Anpi, sono spuntati anche striscioni (poco in tema) per sensibilizzare sul cambiamento climatico. Insomma, c’è un po’ di tutto in piazza nella Capitale e non poteva mancare “Bella ciao”, intonata da decine di manifestanti. 

Conte avvisa il governo

“Ho sentito dire al ministro Crosetto che il governo si appresta a fare il sesto invio di armi all'Ucraina”, ha esordito Giuseppi ai microfoni dei cronisti presenti alla manifestazione di pace capitolina:“Il governo non si azzardi a procedere senza aver interpellato il Parlamento, tanto più trattandosi di un governo che non è più di unità nazionale”.

I cinque paletti al pacifismo militante per evitare che i cortei diventino un autogol

Stanco dell’escalation militare, Conte ha invocato un negoziato per la pace serio e concreto. “Kiev è armata di tutto punto”, la precisazione dell’autoproclamato avvocato del popolo, accolto calorosamente in piazza dai suoi ammiratori: “I cittadini sono arrivati oggi in piazza per far sentire la loro voce , stanchi di una strategia che sta portando a un'escalation militare”. Il capo politico grillino, inoltre, ha chiesto una svolta targata Ue, con“i Paesi belligeranti protagonisti ma in una cornice internazionale”.

“Ascoltiamo i cittadini”

Nel corso del suo intervento, Conte ha ribadito che i cittadini scesi in piazza devono essere ascoltati: “Ora devono parlare le opinioni pubbliche, visto che i governanti hanno elaborato una strategia che non ci porta ad una via d’uscita”. Le solite polemiche strumentali, la solita fuffa: nulla di nuovo all’orizzonte. 

Già venerdì, ospite dell’iniziativa "Pace e politica" al Tempio di Adriano a Roma, il presidente M5s aveva rilanciato la proposta piuttosto fumosa di una conferenza internazionale: “Il nostro obiettivo è un negoziato di pace, e poi nel medio e lungo termine una conferenza internazionale. Noi siamo per un approccio multilaterale, la Ue non deve restare all'interno di una strategia costrittiva, con il coinvolgimento della Santa Sede che può dare un ampio contributo”.

Ucraina, Crosetto smaschera Conte: da fornitore di armi a pacifista per i sondaggi. Il Tempo il 02 dicembre 2022

Il ministro della Difesa Guido Crosetto risponde agli attacchi di Giuseppe Conte che ha parlato di un "governo guerrafondaio che ingrassa la lobby delle armi". In una intervista al Corriere della sera l'esponente dell'esecutivo di Giorgia Meloni sottolinea come il leaderel Movimento 5 stelle fomenti l'odio e faccia attacchi strumentali con un occhio ai sindaggi. 

"Tutto quello che questo governo sta facendo nei confronti dell'Ucraina è implementare le decisioni dell'esecutivo Draghi, della cui coalizione Conte guidava il partito maggiore", ricorda Crosetto. Gli aiuti sono stati deliberati sulla base di cinque decreti quando il M5s era nella maggioranza. "Se inviare armi all'Ucraina significa essere guerrafondai, chi può fregiarsi di quel titolo" è Conte e il suo partito. Ma, sottolinea il ministro, "io non la penso così, l'aiuto a una nazione attaccata è cosa diversa dall'essere guerrafondai". L’Italia rispetta gli impegni: "Non siamo dei quaquaraqua", anche se la maggioranza dei cittadini non è d'accordo con le armi a Kiev, ma "I governi hanno la responsabilità e l'onere di prendere decisioni anche non popolari".

Su Conte, Crosetto è durissimo. "Manifesta totale incoerenza tra quello che diceva e faceva e quel che dice ora". Passa "da fornitore di armi a pacifista convinto". Tuttavia è "legittimo che guardi i sondaggi per decidere di cambiare idea. Ma non che usi epiteti violenti nei confronti di persone fisiche che hanno la sola colpa di rappresentare lo Stato. È come indicare a una parte di società violenta e antagonista nomi e cognomi di obiettivi da colpire". Il leader trillino fomenta l'idio, accusa Crosetto, ed è "molto grave il modo in cui lui personifica i suoi attacchi, rientra in una sfera inquietante. Conte è troppo intelligente per non capire che sta alimentando l'odio verso persone fisiche, che ha identificato per contrapposizione politica. Io sono un galantuomo e non merito che un mio avversario politico, che avrebbe il dovere di essere istituzionale, mi conduca in una sfera di violenza verbale, mistificando la realtà e identificandomi come guerrafondaio".

Crosetto inoltre respinge tensioni con i partiti di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. "Nessuno ha voglia di mandare armi, tutti vogliamo che la guerra finisca. Chi ha mandato armi in questi mesi lo ha fatto e lo farà per forzare chi dei due ha iniziato la guerra a sedersi a un tavolo. L'obiettivo della pace è di tutti, la strategia per raggiungerla differenzia il giudizio" afferma il ministro. 

"Lucra sul pacifismo". Crosetto inchioda Conte. Il leader grillino aveva invitato il ministro della Difesa a “non azzardarsi a un nuovo invio di armi all’Ucraina senza passare dal Parlamento”. La replica è perentoria. Massimo Balsamo su Il Giornale il 05 novembre 2022 

“Può stare sereno”: netto, categorico Guido Crosetto nei confronti di Giuseppe Conte. Tra i protagonisti della manifestazione pacifista di Roma, il leader del Movimento 5 Stelle aveva lanciato un messaggio al ministro della Difesa: “l governo non si azzardi a procedere senza aver interpellato il Parlamento, tanto più trattandosi di un governo che non è più di unità nazionale”. L’ennesima presa di posizione per tracciare un solco e tentare di racimolare qualche voto, ma l’esponente di Fratelli d’Italia non ha lasciato correre.

Conte tra "Bella ciao" e pacifismo: "No all'invio di armi all'Ucraina"

“Conte stia sereno”

Il titolare della Difesa ha spiegato che il suo ministero seguirà le leggi che ha sempre fatto dalla sua istituzione in età Repubblicana, ma non solo. “Per quanto riguarda l'invio di armi all'Ucraina, il ministero sta dando attuazione e darà attuazione a quanto previsto dai 5 decreti già approvati in base all'autorizzazione data dal Governo precedente, il governo Draghi, sostenuto da una maggioranza di cui Conte ed il suo partito, i 5Stelle, erano il principale gruppo e sostegno in Parlamento”, l’analisi di Crosetto, che non ha lesinato frecciatine nei confronti del capo politico pentastellato.

Crosetto smaschera Giuseppi

Crosetto ha ricordato che il M5s di Conte ha già detto sì a cinque invii di armi a Kiev, dettaglio spesso dimenticato dalla comunicazione grillina: “Evidentemente, i 5Stelle e Conte oggi hanno cambiato idea, ma solo a partire da oggi. Arriva giusto in tempo, questo cambio ‘radicale’, per strumentalizzare le ragioni e il corteo delle associazioni pacifiste che, come ho detto in una intervista rilasciata ieri ad Avvenire, rispetto e comprendo e con cui sono e sarò sempre disponibile a interloquire”. Discorso diverso per Conte, impegnato a “lucrare sul pacifismo e sugli ideali dei pacifisti”, dimenticando volutamente che “le armi di cui critica l'invio oggi sono state autorizzate dal suo partito e dal governo che sosteneva”.

Il dialogo è francamente complesso con politici come Conte, ha ammesso il braccio destro del premier Meloni. In chiusura, Crosetto ha posto l’accento sulla frase “minacciosa e intimidatoria” di Conte, quel “non si azzardi” di dubbio gusto: “Ha evidentemente come presupposto culturale un approccio alle istituzioni privatistico e autoritario: non mi azzardo a fare nulla, ma agisco in nome e per conto dello Stato, ottemperandone tutte le leggi. Ma forse chi ha vissuto la 'compressione democratica’ creatasi a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza e dell'utilizzo dei Dpcm, durante la pandemia, ha maturato un'idea sbagliata sulle istituzioni ed il loro potere”. Colpito e affondato.

La sinistra in piazza sfrutta la pace per fare la guerra a governo e Ucraina. Contestato Letta. Nella manifestazione di Roma, i 5S attaccano l’esecutivo della Meloni sulle armi a Zelensky. Urla contro il segretario del Pd: "Guerrafondaio". E spuntano pure bandiere della Russia. La solita Anpi: "Né con la Nato né con Putin". Francesco De Remigis su Il Giornale il 06 novembre 2022

Roma. Lo striscione con la parola pace in dieci lingue. Le bandiere di Emergency. I leader e le sigle sindacali. Nel corteo che vede Pd e Cinque Stelle sfilare a Roma senza vessilli di partito spuntano drappi della Russia e cori contro l'Alleanza Atlantica: «Basta armi a Kiev» «Fuo-ri-l'Ita-lia-dal-la-Na-to». Il presidio della coalizione associativa «Europe for Peace-Cessate il fuoco» diventa quindi il pretesto per dichiarare guerra al nuovo governo. Con richieste di riposizionamenti dell'Italia in campo internazionale. E inviti a cambiare linea, compresa quella espressa ieri dai dem: «Saremo coerenti con gli alleati europei, siamo a favore del fatto che la resistenza ucraina vada aiutata, siamo a nostro agio con una piazza che chiede pace, che per noi vuol dire la fine dell'invasione della Russia», annuncia Enrico Letta.

La piazza è però spaccata. E nel tragitto che porta a San Giovanni in Laterano la prima contestazione se la becca proprio il segretario dem: «Guerrafondaio! filoamericano! Basta armi, buuuu!», gli grida un gruppo, accusando la pattuglia Pd di essere «allo sbando». Alla spicciolata, europarlamentari dem, deputati e presidenti di regione: e c'è chi tenta di usare la manifestazione per oliare l'ingranaggio inceppato Pd-M5S (con sguardo al voto in Lazio). È Nicola Zingaretti, che chiede responsabilità ai 5S: «Le opposizioni devono dialogare, chi punta a dividere dovrà spiegarlo agli elettori». Il governatore ce l'ha con Giuseppe Conte, alle prese con un soliloquio acchiappaconsensi in favore di telecamere. Dopo aver già strappato la corona di primo partito di opposizione (nei sondaggi), Conte ruba infatti al Pd anche la scena arcobaleno, attaccando l'esecutivo Meloni sul sesto pacchetto di aiuti a Kiev: «Crosetto non si azzardi a un ulteriore invio di armi senza confrontarsi in Parlamento, Kiev è armata di tutto punto, ora serve il negoziato».

Sulle note di «Bella Ciao» sfilano pure Sinistra Italiana e Verdi. La galassia disobbediente si accoda. Ma sembra di assistere a due, tre, quattro diversi cortei. Maurizio Landini, segretario Cgil, dal palco dice che «bisogna eliminare le armi nucleari»; chiede uno stop «alla spesa militare» e usa la piazza per sfaldare ciò che il governo sta provando a costruire: una politica dei flussi diversa dai porti aperti a prescindere. «Inaccettabile che non si aiutino i migranti». Poi stringe la mano a Conte: «Sulla pace non molliamo». L'ex premier amplifica il messaggio. I dem sembrano dissociarsi dal disarmo tout-court. E nel tragitto che attraversa la capitale i leader fanno a cazzotti dalla distanza.

Letta, in ritirata, si fa via via più cauto sul sostegno militare: «Quando arriverà il decreto se ne parlerà, vaglieremo la proposta». «La Federazione Russa è responsabile del massacro», dice secco il presidente dell'Anpi, Gianfranco Pagliarulo. Intorno risuonano i cori «Né con Putin, né con la Nato». E gli slogan contro l'Alleanza Atlantica vengono applauditi. Sul palco né Letta né Conte. C'è invece il fondatore di Libera Don Luigi Ciotti, che riassume così i tormenti della sinistra: «Il nostro Paese non sa bene da che parte andare». Il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi denuncia «una diplomazia affetta da nanismo» parlando nettamente di Ucraina aggredita che «deve continuare a combattere per difendere l'integrità del suo territorio». Si marcia a singhiozzi, in una piazza in cui le diverse anime non si amalgamano, anzi battibeccano. Circa 500 sigle, tra bandiere arcobaleno e striscioni. C'è persino Roberto Giachetti, «perché non si può lasciare la pace in mano a Conte e ai pacifisti equidistanti», dice l'unico presente del gruppo Italia Viva/Azione (che ieri sfilava invece a Milano). La bandiera arcobaleno di 40 metri proveniente da Assisi, di una manifestazione che doveva essere apolitica, diventa un Luna Park per raccogliere i cocci di una sinistra allo sbando. Conte prova a riunirla attorno a se stesso cavalcando l'onda di Manu Chao: «Si leva forte questo grido dalla maggioranza silenziosa del Paese». Ma si attendevano oltre 100mila adesioni. Invece, per la questura, si contano poco più di trentamila persone. 

Marcia della pace, "codardi che voltano le spalle": caos a sinistra. Libero Quotidiano il 05 novembre 2022

"Solo gli amici di Putin, i codardi e gli opportunisti si voltano dall'altra parte": Ettore Rosato, presidente di Italia Viva, lancia una frecciatina a Giuseppe Conte. Le opposizioni oggi hanno partecipato a due manifestazioni diverse per la pace in Ucraina. Il M5s e il Pd hanno preso parte alla manifestazione di Roma, mentre il Terzo Polo di Renzi e Calenda ha organizzato un corteo a Milano. Prima dell'inizio dei due eventi, Rosato aveva anticipato su Twitter: "A Conte, che come sempre specula, dico che siamo tutti contro la guerra, a nessuno piace mandare armi. Lo facciamo perché il popolo ucraino è vittima di un'aggressione ingiustificabile".

Poi, arrivato in piazza, Rosato ha aggiunto: "A Roma qualcuno fa molta confusione. Come Giuseppe Conte che pensa che gli ucraini si debbano arrendere, mi sembra dica le stesse cose di Putin. Avremmo voluto tutti qui con noi compatti rispetto a un'aggressione ingiustificata. Ma il Pd deve correre sempre dove sta Conte".

Anche Renzi ha lanciato delle stoccate al leader del M5s: "Non voglio polemizzare con le altre piazze, è assurdo farlo come ha fatto questa mattina Giuseppe Conte. Ma penso di dover dire che non c'è pace senza giustizia". E ancora: "Credo che si debba sempre rispettare le idee di tutti, ma è stata una bella scelta quella di Calenda di convocarci qui, un dovere per tutti combattere per una pace giusta". 

Pd, marcia per la Pace? Ma... la foto che travolge la sinistra. Libero Quotidiano il 05 novembre 2022

Una grande marcia per la pace a Roma, una manifestazione con migliaia di persone e altrettanti pensieri diversi su come perseguirla, questa pace. C’è infatti chi ritiene che debba passare dalla fine dell’invasione russa e chi invece dalla resa degli ucraini: insomma, la piazza è spaccata più che mai, ed emergono anche dettagli che la dicono lunga su molti dei partecipanti. Si fa infatti fatica a scorgere una bandiera dell’Ucraina.

A notarlo sono stati soprattutto i militanti del Pd, che hanno commentato le foto postate sui social dai sindaci Matteo Ricci e Roberto Gualtieri. “In piazza per la pace a difesa del popolo ucraino”, ha twittato il primo cittadino di Pesaro. “Che schifo - la critica di un utente - nemmeno una bandiera dell’Ucraina”. Lo stesso è accaduto a Gualtieri: “In tantissimi a Roma - ha scritto - per manifestare al fianco del popolo ucraino, contro la guerra di Putin, per far prevalere la pace e il diritto”. “Giustissima manifestazione di pace - si legge tra le risposte - ma perché nessuna bandiera dell’Ucraina? Sarebbe stato logico e normale sventolare solo quelle”.

In compenso un bandierone della pace lungo 50 metri è stato sorretto in piazza della Repubblica da centinaia di persone. C’è anche chi giura di aver visto almeno una bandiera russa, ma non ci sono ancora conferme in tal senso. Di certo c’è che la manifestazione è alimentata da più anime: quella Pd, che è per la pace tramite la fine dell’invasione russa e il supporto totale alla resistenza ucraina, e quella del M5s, che invece parla di una pace “generica”, molto filo-putiniana anche nella richiesta di alcuni di rimuovere le sanzioni.

Il Cremlino è vicino. Il pacifismo orwelliano di Conte contro la «spinta bellicista» dell’Europa (mica di Putin). Francesco Cundari su L’Inkiesta il 5 Novembre 2022

Il leader dei Cinquestelle invita a manifestare per «dare un segnale» alla Nato e all’Unione. È ora che i democratici escano dal doppio gioco: non si può stare contemporaneamente con l’Ucraina e con chi vuole disarmarla

Giovedì sera, ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, Giuseppe Conte ha detto molto chiaramente a cosa serve e che senso ha – a suo giudizio – la manifestazione per la pace che si terrà oggi a Roma. A fermare chi ha scatenato la guerra, cioè Vladimir Putin? No. A fermare perlomeno entrambe le parti in conflitto, come spesso si dice con lingua biforcuta, equiparando aggressore ed aggredito? Neanche.

La mobilitazione, secondo Conte, serve a mandare un segnale alla Nato, al governo italiano e all’Unione europea. Serve a fermare la «spinta bellicista» non di chi ha invaso l’Ucraina, ma di chi aiuta gli ucraini a difendersi.

Queste le testuali parole del leader del Movimento 5 stelle, a proposito della manifestazione di oggi: «Io mi auguro che ci siano anche cittadini che hanno votato le forze di centrodestra, anche cittadini che hanno votato Fratelli d’Italia, che però non condividono questa spinta bellicista perché non hanno assunto nessun impegno con Washington, non hanno sottoscritto questa strategia della Nato, e allora quanti più cittadini, anche con diverse sensibilità politiche, ci saranno, significherà che noi daremo un segnale ai nostri governi, non solo in Italia, ma nell’Unione europea e a livello di Alleanza atlantica». Chiaro?

Se non fosse abbastanza chiaro, Conte ha anche approfondito il modo in cui secondo lui bisogna costruire la pace. Testualmente: «La pace non cade dal cielo, si costruisce. Come si costruisce? Innanzi tutto con manifestazioni come quella di sabato, dovrebbero esserci poi in tutte le capitali europee. Bisogna convincere i governanti dell’Alleanza atlantica, a partire dall’Unione europea, che questa strategia non è fruttuosa. Dobbiamo quindi lavorare tutti e convincerci che la via d’uscita è il negoziato di pace, quando ci saremo noi convinti potremo poi convincere altri attori internazionali».

Ricapitolando, il problema è la «spinta bellicista» dei governi occidentali, mica della Russia, e le manifestazioni, oggi a Roma e domani, auspicabilmente, in tutte le capitali europee, servono proprio a far cambiare linea a quei governi. Ecco qual è, secondo Conte, la strada per la pace.

Come si può qualificare un simile discorso, che accusa i governi europei di sostenere l’Ucraina per puro servilismo nei confronti di Washington? C’è qualcuno, anche tra i partecipanti alla manifestazione romana, cui per fortuna hanno aderito anche partiti, movimenti e intellettuali schierati su posizioni ben diverse, che possa in buona fede negare il carattere smaccatamente putiniano di una simile propaganda? Dire che per ottenere la pace occorre far cambiare strategia alla Nato, all’Unione europea e a tutti i governi impegnati nel sostegno all’Ucraina, invocare una mobilitazione popolare in tutte le capitali europee per spingere i governi a rivedere la propria posizione, che cos’è, come si chiama, come bisognerebbe definirlo se non come lo sforzo di boicottare il sostegno alla resistenza, a tutto vantaggio dell’invasore?

È ora che il Partito democratico e i tanti che continuano a lavorare per consegnare a Conte quel che resta del centrosinistra dicano una parola chiara su tutto questo. Il doppio gioco – con Draghi ma anche con Conte, con l’Ucraina ma anche con chi propone di disarmarla – è durato fin troppo.

I libri di storia non daranno conto solo delle atrocità di Bucha, delle deportazioni, delle stragi e delle torture compiute ogni giorno dagli occupanti. Daranno conto anche delle nostre parole e delle nostre scelte di oggi. Vale per i politici, vale per i giornalisti, vale per gli intellettuali. Può anche darsi che certe ambiguità paghino nell’immediato, nei sondaggi e negli indici di ascolto. Certo è che la storia sarà assai meno generosa.

La parola pace. I falsi pacifisti se la prendono con noi che cerchiamo di proteggerci dai russi. Serhiy Zhadan su L’Inkiesta il 5 Novembre 2022

In occasione della manifestazione per l’Ucraina di Milano, oggi alle ore 16, pubblichiamo un testo del più importante scrittore ucraino contemporaneo (la versione integrale si troverà sul prossimo numero di Linkiesta Magazine in edicola a fine novembre)

Prendiamo la parola “pace” (capisco quanto questo concetto possa essere effimero e astratto): che cosa intende il mondo parlando della pace? Sembrerebbe che si parli di far finire la guerra, di far finire il conflitto militare, di arrivare al punto in cui tace l’artiglieria e arriva il silenzio.

Sembrerebbe proprio che questo concetto debba metterci tutti d’accordo. Perché, alla fine, noi ucraini che cosa vogliamo più di tutto? Ovviamente vogliamo la fine della guerra. Ovviamente vogliamo la pace. Ovviamente vogliamo la fine dei bombardamenti.

Io, la persona che vive al diciottesimo piano nel centro di Kharkiv da dove posso vedere il lancio dei missili dalla vicina Belgorod, vorrei con tutto il mio ardore che finissero i bombardamenti, che finisse la guerra, che si tornasse alla normalità e al suo scorrere naturale. Quindi perché la parola “pace” pronunciata da certi leader europei spaventa gli ucraini? Non perché quelli che la pronunciano stiano negando la pace all’Ucraina, ma perché gli ucraini sentono che essi stanno chiedendo a loro, alle vittime di deporre le armi.

I cittadini pacifici di Bucha, Hostomel’ e Irpin’ non avevano armi, ma questo non li ha salvati da una morte terribile. Anche gli abitanti di Kharkiv che ogni giorno si trovano sotto le bombe russe non hanno le armi in mano. Quindi che cosa dovrebbero fare quelle persone secondo i simpatizzanti della pace veloce a qualsiasi costo? Dove, secondo loro, passa la linea tra sostenere la pace e non sostenere la resistenza ucraina? Secondo me, c’è qualcuno che, quando parla di pace nel contesto di questa guerra sanguinosa e drammatica iniziata dalla Russia, non vuole notare una cosa semplice: non c’è pace senza giustizia.

Ci sono varie forme di conflitto congelato, ci sono i territori temporaneamente occupati, ci sono le mine a rilascio di pressione camuffate da compromesso politico, ma la pace, una vera pace che dia un senso di sicurezza e di prospettiva non può esistere senza una giustizia.

Quella parte di europei (che non è la parte maggioritaria, ma è una parte che esiste) cerca di colpevolizzare gli ucraini per la loro voglia di non arrendersi e dà loro di guerrafondai e di radicali per rimanere nella propria comfort zone. Ma con una tale proposta oltrepassano qualsiasi limite etico. E questo non è un problema degli ucraini, questo è un problema del mondo intero e del suo dimostrarsi pronto (o non pronto) a ingoiare l’ennesimo male, totale e incontrollabile per soddisfare un falso e dubbio pacifismo.

Questo falso pacifismo che si appella a gente che cerca di proteggere le proprie vite e questo incolpare le vittime, questo cambiare gli accenti, questo manipolare servendosi dei vecchi e buoni slogan pacifisti per alcuni si sono rivelati dei modi molto convenienti di scaricare le proprie responsabilità. Invece tutto è molto più chiaro: noi stiamo aiutando il nostro esercito non perché vogliamo la guerra, ma proprio perché vogliamo tanto la pace. Quelli che invocano una pace immediata ci propongono, però, una maniera gentile, quasi non invadente, di capitolare. Però la capitolazione non è la strada per tornare alla nostra vita pacifica e per ricostruire le nostre città.

Probabilmente la capitolazione degli ucraini aiuterà gli europei a pagare un prezzo più basso nelle bollette. Ma come si sentiranno quegli europei quando capiranno (perché sarà impossibile non capirlo) che il caldo delle loro case è stato pagato dalle vite e dalle case distrutte di persone che come loro volevano vivere in pace nel proprio Paese?

Pacifisti in piazza per l’Ucraina: lo strano caso dei cortei di sabato. Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022

Il 5 novembre si terranno, a Roma e a Milano, due manifestazioni per la pace nel Paese invaso dall’esercito russo mandato da Vladimir Putin. Si tratta di iniziative diverse tra loro, come racconta Monica Guerzoni analizzando le linee adottate dalle principali forze di opposizione, con i M5S interessati a occupare gli spazi lasciati vuoti dal Pd. Lo studioso Giovanni Cominelli, invece, spiega in che momento del movimento pacifista è arrivato il conflitto

Sabato 5 novembre, a Roma e a Milano, si terranno due manifestazioni per la pace in Ucraina. Due iniziative però molto diverse fra loro, come spiega Monica Guerzoni in questo episodio del podcast «Corriere Daily», descrivendo anche il sofferto percorso attraverso il quale il Partito democratico ha dato la sua adesione, dopo che il Movimento 5 Stelle lo ha sfidato su questo terreno (come altri su cui le forze d’opposizione si sono finora presentate divise). Le manifestazioni di sabato sono le prime a svolgersi in Italia dal 24 febbraio, giorno in cui è iniziata l’invasione voluta dal presidente russo Vladimir Putin: lo studioso Giovanni Cominelli ci spiegherà in che momento della storia del movimento pacifista è arrivato il conflitto ucraino.

A Roma la sinistra “pacifista” getta la maschera: striscioni filo russi al presidio antifascista. Giorgia Castelli su Il Secolo d’Italia il 29 Ottobre 2022

Eccoli i soliti sinistri, convocano manifestazioni e presìdi contro il fascismo e finiscono per praticare una democrazia a senso unico, dove solo loro possono parlare, e un pacifismo unilaterale, con striscioni filo Russia. A Roma in piazza Venezia il presidio antifascista getta la maschera. L’obiettivo non è solo il governo Meloni ma anche quello di Kiev, visto che gli slogan sono diretti anche a colpire i “nazisti” di Zelensky, con il sostegno al massacratore Putin, anche grazie a una simpatia ideologica comunista che i manifestanti evidentemente non rinnegano.

Presidio antifascista, esposti striscioni filo Russia

“Odessa 2 maggio 2014. I Nazisti con la bandiera dell’Ucraina in mano, cantando l’inno ucraino, massacravano gli abitanti di Odessa”. È quanto si legge su uno striscione esposto da alcune persone provenienti dal collettivo La Comune di Ravenna che stanno manifestando

«Russia la liberatrice dell’Ucraina»

Su un altro stendardo si legge “La Russia la liberatrice dell’Ucraina dal terrore ucro-nazista da 8 anni!”. Altri manifestanti sventolano bandiere del Donbass. Presenti alla manifestazione, tra gli altri, il sindacato Cobas compagni di Walter Rossi, l’associazione Cortocircuito, la Città Futura, la Rivista Internazionale Companis, Interstampa e Radio Onda Rossa.

Le solite lagne: «Al governo ci sono i nipotini del fascismo»

E sul palco va in scena la solita demagogia e le solite inconsistenti accuse strumentali. «Al governo ci sono i nipotini del fascismo». Lo sottolinea un attivista dal palco del presidio antifascista facendo riferimento a quanto avvenuto la settimana scorsa alla Sapienza. «Il 28 ottobre è una data che rivendichiamo come 100 anni di lotta antifascista», dicono i militanti dal microfono. Dal palco le voci degli attivisti si susseguono, ricordando i “martiri del fascismo”: «Siamo qui per ricordare le vittime del fascismo ma anche per condannare la logica della guerra permanente». E poi la solita ridicola accusa che non sta né in cielo né in terra. Per i militanti si tratta di una manifestazione importante e fondamentale a maggior ragione oggi che «si è insediato un governo di una esponente post fascista. La destra più reazionaria che guarda alla Polonia».

Presidio antifascista, sempre lo stesso cliché

A corto di idee e di contenuti tirano fuori sempre le stesse parole e lo stesso cliché. Eppure in questi giorni esperti, costituzionalisti, giuristi e storici hanno affermato che il pericolo fascista non esiste. Basta citare, uno per tutti,  il costituzionalista Sabino Cassese. All’indomani del discorso di Giorgia Meloni alla Camera per la fiducia, ha detto chiaramente che nelle parole del presidente del Consiglio ci sono state «non soltanto la distanza dal fascismo, ma anche le chiare indicazioni relative a libertà e democrazia». Quindi, ha concluso: «Sarebbe bene che l’opposizione si liberasse del punto di vista fascismo-antifascismo, giudicando il governo per quello che propone e per quello che fa».

Bandiere russe e cori contro Roma. Ecco il corteo pacifista di De Luca. Critiche contro la manifestazione, costata circa 300mila euro e simile a una "gita scolastica" utile solo al presidente campano. Massimo Malpica il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

I pacifisti sventolano la bandiera italiana, quella ucraina e per non fare torto a nessuno c'è, con rigore istituzionale, anche quella russa. Questa è la scelta degli adulti. I ragazzi invece cantano cori contro Roma e mentre marciano gridano: «Vi bruceremo tutti». È insomma grande la confusione sotto il cielo.

Una manifestazione ipocrita, sbagliata, fatta a tavolino, inutile, costosa e pagata con soldi pubblici. Sul day after della piazza per la Pace voluta da Vincenzo De Luca piovono più polemiche che complimenti per il governatore campano. A cui non è servito «accorpare» al focus pacifista quello della memoria contro la marcia su Roma e la solidarietà con chi manifesta sul serio e rischiando la pelle in Iran da settimane perché il pacchetto-piazza sembrasse più coerente, o almeno più conveniente. Ad aprire le danze, subito, erano stati proprio alcuni degli studenti delle scuole campane, cooptate dal diktat del Governatore che a spese dei contribuenti aveva stanziato 300mila euro per i pullman che hanno portato i ragazzi fino a Piazza Plebiscito. Tra loro, anche quelli dei collettivi scolastici, schierati contro la guerra con meno delicatezza verso l'Ucraina, ma da più tempo di De Luca e dei Dem. E infatti non hanno mancato di sottolineare la «postura particolarmente ipocrita» di De Luca e del Pd, che «da febbraio a oggi non hanno fatto altro che parlare di armi, bollando come putiniano chi poneva quella diplomatica come unica soluzione possibile del conflitto in corso», e che oggi invece «scalpitano parlando di pace».

E facendo storcere il naso a chi ha visto la manifestazione come una svolta ambigua rispetto alla posizione rispetto alle due nazioni belligeranti, come testimonia la vistosissima assenza del console ucraino a Napoli, ma anche quella della Cisl, che ha parlato di «strumentalizzazione». Ma il nostro è sicuro: «Nessun opportunismo», ha spiegato De Luca a margine della manifestazione per la quale ha dettato persino indicazioni su quali bandiere sventolare, rimanendo giù dal palco, off limit per i politici per sua volontà, ma negli immediati paraggi, per distribuire il proprio verbo ai cronisti. «La Russia è colpevole di aggressione, ma dopo 8 mesi dobbiamo chiederci qual è la via di uscita». Dal conflitto. Perché per uscire da scuola è bastato aderire alla manifestazione. Un punto sul quale il capogruppo del Carroccio in consiglio regionale, Severino Nappi, non ci è andato giù leggero. Ironizzando sulle «circolari di stampo sovietico» indirizzate da De Luca ai dirigenti scolastici, che sono riuscire nell'impresa di «svuotare le scuole della Campania». E in una regione con una dispersione scolastica tra le più alte del Paese, era proprio necessario far saltare un giorno di lezione per una parata? Insomma, più che una marcia per la pace, quella di Napoli insiste Nappi è diventata una «gita scolastica». Sulla questione-spese, poi, il coordinatore di Fi in Campania, Fulvio Martusciello, invoca l'intervento della Corte dei Conti. Insomma, «la sensazione - osserva l'ex Psi Giulio Di Donato parlando al Riformista - a prescindere dai fini che la manifestazione si prefigge, è che sia stata una prova di forza di De Luca in vista del Congresso del Pd». Che lo stesso Governatore non ha escluso, ricordando (alla Stampa) che non bisogna «mai mettere limiti alla provvidenza».

Con Kyjiv o contro Kyjiv. Il 5 novembre in piazza a Milano ci sarà l’Italia che non accetta l’aggressione putiniana. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 29 Ottobre 2022.

Sabato prossimo, alle 16 all’Arco della Pace, si riuniranno tutte le forze democratiche (non solo Azione e Italia Viva) con la comunità ucraina, il terzo settore e il mondo della cultura

Sabato prossimo nelle piazze di Milano e Roma ci saranno due manifestazioni numerose e opposte. A Roma andrà in scena la baracconata pro-Putin, cui parteciperanno tante persone in buona fede, lanciata dal leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, per chiedere l’avvio di un negoziato che vuol dire la resa dell’Ucraina alle condizioni della Russia. A Milano invece ci sarà l’Italia che riconosce l’impossibilità di passare dal tavolo delle trattative con Vladimir Putin, e capisce che non c’è soluzione che passi dalla caduta di Kyjiv.

L’evento all’Arco della Pace (ore 16) è stato organizzato dal Terzo Polo (Azione e Italia Viva), ma «sarà una manifestazione senza bandiere di partito», come ha scritto Carlo Calenda sui suoi profili social, chiedendo «la partecipazione di tutte le forze democratiche del Paese».

Ci sarà ovviamente Carlo Calenda, mentre è ancora incerta la partecipazione di Matteo Renzi. E dalle segreterie dei due partiti confermano la presenza di quasi tutti i parlamentari eletti il 25 settembre scorso.«Sabato prossimo» – dice a Linkiesta il senatore Ivan Scalfarotto, di Italia Viva – «esprimeremo un sostegno senza tentennamenti a uno Stato democratico che da mesi viene attaccato da uno Stato autoritario e imperialista».

Le motivazioni che muovono gli esponenti del Terzo Polo sul dossier ucraino sono ormai chiare da tempo. Dopotutto, sono le stesse che avevano spinto il governo di Mario Draghi a condannare la Russia fin dal primo giorno di invasione, lo scorso 24 febbraio.

«Lasciare mano libera a Putin, non sostenendo l’Ucraina con tutti i mezzi possibili, significherebbe avvallare la possibilità da parte del più forte di violare ogni regola di convivenza fra i Paesi», dice Gianmaria Radice, coordinatore di Italia Viva sul territorio di Milano e provincia. «Se Putin ferma le armi si può aprire un negoziato, se Zelensky rimane senza armi sparisce l’Ucraina. Solo un forte sostegno politico, economico e anche militare può quindi aprire la strada a un negoziato serio».

È lo stesso Radice ad anticipare l’idea di organizzare, durante la manifestazione della settimana prossima, un collegamento video con il sindaco di Leopoli, Andrij Sadovyj, e con i primi cittadini di altre città ucraine. Non c’è ancora l’ufficialità, però l’idea è quella di creare un ponte con loro in diretta video.

La manifestazione è soprattutto un modo per ribadire che l’Italia non è quella che chiede la pace senza se e senza ma, che «tacciano le armi», come dice e ripeterà a Roma Giuseppe Conte. «L’approccio dei Cinquestelle non è una via percorribile», dice a Linkiesta Giulia Pastorella, vicepresidente di Azione e deputata alla Camera. «Mentre a Roma si manifesterà di fatto per chiedere il disarmo e la resa dell’Ucraina, noi scenderemo in piazza a Milano per ribadire il sostegno agli ucraini contro l’invasore russo».

Proprio per questo l’evento non avrà bandiere di partito, non è un appuntamento targato Azione e Italia Viva, ma è aperto a tutti. Giulia Pastorella conferma di aver già ricevuto l’adesione da parte della divisione di Milano e Provincia del Partito democratico. E ci sarà anche Più Europa.

«I gruppi milanesi e lombardi di Più Europa si stanno attrezzando per esserci», dice a Linkiesta Benedetto Della Vedova, segretario nazionale del partito. «Sulla questione ucraina – aggiunge –siamo schierati, su queste posizioni, dal 24 febbraio. Per questo per me non è una contromanifestazione, ma l’unica manifestazione possibile, quella giusta».

Anche dal Partito democratico sono arrivate conferme importanti. Subito dopo l’annuncio di Calenda era arrivata la risposta di Carlo Cottarelli, senatore dem, su Twitter; ci sarà anche il senatore Alessandro Alfieri, ex segretario regionale del Partito democratico.

In generale, è probabile che molti sceglieranno se aderire o meno solo nelle ultime 24 ore. Non è esclusa la partecipazione di alcuni esponenti della maggioranza di destra, forse da Fratelli d’Italia, che sta assumendo una postura atlantista e pro Ucraina.

La giunta comunale di Milano, invece, per il momento procede in ordine sparso. Il sindaco Beppe Sala ha parlato delle due manifestazioni dicendo «non vado né da una parte né dall’altra». Dovrebbe partecipare invece Alessia Cappello, assessora allo Sviluppo Economico e Politiche del Lavoro (Italia Viva), e l’assessore alla Casa e Piano Quartieri, Pierfrancesco Maran (Pd), che ha già motivato la sua partecipazione la settimana scorsa.

Ha risposto presente soprattutto la comunità ucraina. «Saremo almeno un centinaio, ma spero di arrivare a duecento», dice a Linkiesta Lesya Tsybak, attivista ucraina che vive a Milano. È stata contattata direttamente dagli uffici di Azione: «Ci piace quel che dice Calenda, la sua linea non è solo di sostegno a Kyjiv, ma è soprattutto aiuto militare: questo per noi è molto importante, se non possiamo difenderci, domani non esisteremo più come Stato».

Il post che Lesya Tsybak ha pubblicato su Facebook recita: «Cari ucraini! Ancora una volta, ci riuniamo a Milano per non dimenticare la guerra scatenata dallo Stato terrorista – la Russia – contro il nostro Paese. Sempre più politici e partiti italiani si uniscono alle nostre manifestazioni per condividere la nostra lotta e mostrare sostegno».

La manifestazione, come detto, non ha bandiere di partito, anzi è aperta anche a organizzazioni politiche, associazioni culturali e a chiunque si schieri dalla parte della democrazia e della libertà.

«La piattaforma di questa manifestazione – dice Sergio Scalpelli, presidente di Linkiesta Club – identifica un aggressore e un aggredito: l’aggressore si muove sul terreno dell’ideologia, ricerca la grandezza imperiale russa in continuità tra zarismo e comunismo. Ancora una volta in Italia c’è un movimento pacifista che professa una posizione di equidistanza, che vuol dire stare dalla stessa parte dell’aggressore».

Il terzo settore e il mondo della cultura saranno in piazza al fianco della politica, perché dopotutto dimostrare solidarietà alla comunità ucraina e allo Stato aggredito non è solo una decisione politica: è una scelta di tutti, come persone, come società, come cittadini europei.

«Partecipo a favore del popolo ucraino che si sta difendendo da un’aggressione vile, vigliacca e senza motivazione se non desiderio di imperialismo russo-zarista», dice a Linkiesta Costantino De Blasi, di LiberiOltre. «Invece a Roma si ripeterà una vecchia storia italiana, con casi di volontà di presunta equidistanza, che è un interesse ad avere la Russia come partner, è l’incapacità di capire la realtà».

È uno spirito antioccidentale che attraversa la nazione e che, secondo Andrea Cangini – ex senatore di Azione e Forza Italia, da pochi giorni segretario generale della Fondazione Einaudi – «impedisce di far chiarezza su una questione che richiede invece la massima trasparenza: Putin ha dichiarato guerra all’Occidente molto tempo fa, perché il discorso a Monaco è del 2007 e la politica europea avrebbe dovuto trattarlo diversamente già prima del 24 febbraio scorso».

Il puttino di mamma Italia. Era solo questione di tempo prima che ci mostrassimo come il paese canaglia che siamo. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 29 Ottobre 2022.

Abbiamo partorito chi difende la Russia, accusa l’Ucraina e criminalizza la Nato. Altrove non avrebbe visto la luce 

Mamma Italia ha partorito il puttino. È stata una gravidanza indisturbata, sviluppatasi e giunta senza interferenze all’esito inevitabile. Senza interferenze e soprattutto senza sorprese. Dopo nove mesi di gestazione, il frutto del ventre italico si è presentato paffuto e per la gioia di tutti alla vista del mondo, del peso e delle fattezze che andavano formandosi nel conforto di quella pancia nutriente. 

È fuoriuscito senza tradire il monitoraggio che ne seguiva lo sviluppo, gli abbozzi di personalità, le promesse, perché già quando non era più che grumo di futuro ripugnante dava pienamente segno di sé: i russi stavano puntando ai loro obiettivi, e nel frattempo cercavano di non spaventare la popolazione; gli ospedali bombardati erano covi di nazisti; i centri commerciali rasi al suolo dai missili erano depositi di armi dei servi della Nato; i bambini deportati erano vittime di un governo di omosessuali e drogati, ed erano portati a salvezza; Joe Biden era un maleducato che prendeva a male parole gli esecutori dell’operazione speciale; gli ucraini tutti, fantocci insubordinati al dovere morale della resa, guidati da un sanguinario che non accetta di abdicare in favore di gente perbene, erano padri e madri e figli incapaci di comprendere che in dittatura si può essere felici.

Ma questo complesso di ruminazioni pur prepotenti denunciava ancora un’acerbità prenatale: non la compiutezza del puttino, ora affidato alle cure del parentado di destra, di centro e di sinistra, figlio ed erede veramente di tutti, perché da tutti nutrito e atteso proprio così, figlio della Patria sovrana, figlio della Repubblica antifascista, figlio dei diritti acquisiti, figlio della pace, figlio della grandissima baldracca in cui maggioritariamente e trasversalmente ci si riconosce in questo Paese quando si tratta di scegliere da quale parte stare, se dalla parte della democrazia con i suoi errori o dalla parte delle autocrazie con le perfezioni di censura e violenza che esse garantiscono.

Altrove il puttino non avrebbe visto la luce. Altrove il puttino sarebbe rimasto in potenza nelle impotenze di genitori infertili. E se per un motivo qualunque, per un accidente concezionale, avesse tentato di impiantarsi nell’utero del Paese, allora questo se ne sarebbe liberato. Altrove il suo destino sarebbe stato l’aborto. E a nessuno, altrove, sarebbe venuto in mente di reclamarne la protezione in nome del diritto a una bolletta calmierata.

Gabriele Carrer per formiche.net il 27 Ottobre 2022.

L’unico modo efficace per raggiungere la pace è “fornire le armi e l’assistenza necessarie all’Ucraina e, infine, riconoscere la Russia come sponsor del terrorismo”. Lo scrive Yaroslav Melnyk, ambasciatore ucraino in Italia, in una lettera indirizzata a Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 Stelle, chiedendo di “tenere conto” anche delle posizioni ucraine in vista della manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma. 

“Ogni voce a sostegno della pace è importante, ma queste voci dovrebbero suonare responsabili ed equilibrate, evitare di confondere ‘l’aggressore’ con ‘l’aggredito’ ed evitare di scaricare la colpa dal criminale alla parte che lo combatte”.

Come raccontato anche su Formiche.net, il nuovo governo di Giorgia Meloni è pronto a mantenere le promesse fatte agli alleati e all’Ucraina dando il via libera al sesto pacchetto di aiuti militari a Kyiv. Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha detto che “non siamo favorevoli”. “L’Italia ha già dato, lo abbiamo fatto per 7 mesi”, ha speigato intervenendo al Salone della Giustizia. “Dobbiamo lavorare per la pace”, ha continuato. Non nuovo a equilibrismi e giravolte sull’assistenza militare all’Ucraina invasa dalla Russia di Vladimir Putin, Conte ha detto no a “scellerate corse al riarmo”. 

Nella lettera, l’ambasciatore Melnyk ringrazia l’ex presidente del Consiglio per le “parole di sostegno e solidarietà all’Ucraina sin dai primi giorni dell’invasione russa”. Riconosce poi che “le sfide di oggi sono complesse e le soluzioni sono difficili. E lo capiamo, non meno dei residenti dell’Ue. Ma gli europei si sentiranno più al caldo nelle loro case, sapendo che questo gas è stato pagato con il sangue ucraino?”, chiede a Conte.

La lettera a Conte si fa poi più dura: “È molto triste vedere come alcuni politici occidentali ‘regalano’ i territori ucraini e calpestano l’eroismo della resistenza ucraina per far piacere al tiranno nel Cremlino”, si legge. “Le manifestazioni esclusivamente all’insegna della ‘pace’ e con appelli impersonali a un cessate fuoco non riguardano la giustizia, ma sono una dimostrazione di viltà e ipocrisia. La riluttanza a chiamare la Russia un aggressore e a chiederle il ritiro delle sue truppe dal territorio dell’Ucraina non farà che stimolare l’appetito dello stato aggressore”. 

Tutto ciò “non significa che l’Ucraina non parlerà mai con la Russia” ma gli attacchi e i morti “non danno il diritto di rappresentare gli ucraini che non si arrendono come militaristi e radicali. Capiamo tutti che tutte le guerre finiscono con i negoziati, ma proprio per questo è necessario dare una risposta adeguata all’aggressore”.

Estratto dell'articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 21 ottobre 2022.

Un CamaleConte sul Colle. Come si fa ad andare in piazza il 5 novembre in mezzo a tanti pacifisti, pacifinti e filo-putiniani in nome della pace (non in nome della totale contrapposizione a chi ha scatenato la guerra, cioè il Cremlino) e intanto attaccare il centrodestra accusandolo di putinismo? 

Come si fa ad aver votato i decreti per l'invio delle armi agli ucraini e ora non volere più mandare quelle armi di difesa ma i nemici degli ucraini sarebbero Berlusconi e Forza Italia e non Conte e M5S? 

Per fare tutto questo, Conte all'uscita dalla consultazione con Mattarella ha dato fondo a tutta la sua tecnica avvocatesca, mischiando le carte e lanciandosi in acrobazie logiche o illogiche a rischio confusione. Ma forse con un obiettivo chiaro: ergersi a leader non solo di M5S ma di tutta la sinistra (e del resto i sondaggi danno i grillini ormai ad un'incollatura dal Pd). (...) 

Praticamente, Conte è andato da Mattarella solo, o quasi, per dire che a loro non piace Berlusconi, anche se Berlusconi nelle sue tirate su russi e ucraini - questo Giuseppe a Mattarella lo ha omesso - non è poi così distante dalle posizioni stellate e del pacifismo di sinistra, neutralista e cerchiobottista, che sono la base della manifestazione arcobaleno lanciata da Conte per l'inizio del mese prossimo. Chi ha sentito il discorso contiano, lì sul Colle, ha pronunciato questa battuta: «È uscito dallo studio Alla Vetrata per arrampicarsi sugli specchi».

STILE ARCOBALENO È stata un po' questa l'impressione che ha dato Conte. Il quale, pur in tenuta istituzionale in blu con pochette, ha approfittato dell'occasione per tenere due comizi (anche qui, molto in stile vecchio Berlusconi) da piazza post-elettorale. 

Uno, appunto, sul pacifismo. E a chi gli fa notare che anche M5S aveva detto che Putin voleva la pace, lui ribatte: «Non è vero, io non l'ho mai detto. Abbiamo sempre condannato l'invasione dell'esercito russo». E ancora, evviva la pace ma senza dare armi agli ucraini: «Il governo uscente non ha neppure accettato un confronto parlamentare sull'invio di armi a Kiev. (...) 

Propaganda e realtà. Il negazionismo dei pacifisti putiniani che incolpano Zelensky della guerra di Putin. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 22 Ottobre 2022

Quanto durerà questa campagna per ignorare i crimini verso donne e bambini dell’operazione speciale del Cremlino in nome di una pace che non tiene conto degli aggrediti?

Ormai siamo al negazionismo due punto zero, il negazionismo di secondo grado, il negazionismo doppio, il negazionismo al cubo, rinforzato, sinergico, a slavina, alla rinfusa, random, meta-gaglioffo e ultra-paraculo.

Siamo cioè al punto che non solo il pacifista negazionista trascura – vale a dire, appunto, nega – i fatti criminali dell’operazione speciale, ma nega l’esistenza della propaganda – che egli stesso fa, o che lascia fare ai colleghi – che dal 24 febbraio viene opposta alle ragioni e all’azione di chi resiste all’aggressione.

Se è complicato, sciogliamola così: quello, il pacifista negazionista, sta su tutti i giornali salvo un paio, in ogni postribolo televisivo salvo nessuno, a scrivere, a dire, a ripetere, nell’ordine: che Zelensky è notoriamente un dittatore sanguinario; che non c’è la pace perché gli ucraini, irresponsabilmente, vogliono la guerra; che non c’è la pace perché gli ucraini, lo vedono tutti, preferiscono stare nei sotterranei; che non c’è la pace perché i genitori ucraini, pazzesco, non capiscono che i bambini sono felici anche in dittatura; che non c’è la pace perché, pensa un po’, i genitori di duecentomila bambini ucraini deportati non capiscono che in Russia si sta bene; che non c’è la pace perché, vuoi sostenere il contrario?, è una guerra della Nato fatta per ordine di Joe Biden che vuole venderci il suo gas; che i cadaveri di Bucha probabilmente erano manichini, e non vorrai mica trascurare l’ipotesi; che gli ucraini sono perlopiù nazisti, che c’è anche la foto del battaglione Azov; che il mercato incenerito da due missili era verosimilmente un deposito di armi, che l’ha detto anche la radio; che negli ospedali rasi al suolo c’erano 007 occidentali, che l’ha spiegato anche il reporter di guerra, collegato da Frascati; che far saltare il ponte tra la Crimea e la Russia era un crimine contro l’umanità, che l’ha spiegato il geopolitologo delle otto e mezza.

E tu gli dici: sei pacifista, va benissimo, ma una parolina su questa roba la spendi? Non la spende, e ti spiega che lui non ne ha mai sentito parlare, che sui giornali e in televisione c’è solo il fronte bellicista, che il pacifismo è ostracizzato, e che se fosse per lui e quelli come lui la guerra non ci sarebbe e trionferebbe la pace, perché la guerra la vogliono Zelensky e la Nato e Joe Biden e i bambini ucraini che resistono al dovere morale di farsi deportare.

Pacifismo passivo. L’Italia è agli ultimi posti nella classifica degli aiuti militari all’Ucraina. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 19 Ottobre 2022.

Come dimostrano i dati del Kiel Institute for World Economy sull'invio di armi a Kyjiv, Roma sta dando un contributo limitato: solo 700 milioni, di cui solo 150 sono di assistenza per la difesa

Secondo i “pacifisti” italiani, quelli per cui Russia e Ucraina dovrebbero scendere a patti (leggi acconsentire all’annessione di pezzi della seconda alla prima), il nostro Paese sarebbe entrato di fatto in guerra a causa dell’invio di armi a Zelensky e al suo esercito. Fosse vero, sarebbe una delle guerre più povere e meschine mai intraprese. A guardare i dati del Kiel Institute for World Economy, che dall’inizio del conflitto raccoglie statistiche sull’assistenza internazionale all’Ucraina, siamo inequivocabilmente tra gli ultimi quanto ad aiuti militari a Kyjiv. 

L’entità dell’impegno italiano appare essere abbastanza grande da fare gridare allo scandalo gli antimilitaristi e gli aedi del disarmo globale (che, per loro, dovrebbe cominciare sempre dall’Occidente, però) e allo stesso tempo, così limitato da far diminuire ulteriormente il nostro peso nello scacchiere globale. 

Non siamo soli in questa situazione. La classifica dell’assistenza globale all’Ucraina è molto eloquente. Anche considerando gli aiuti umanitari e finanziari la preponderanza americana è totale. 

Gli Stati Uniti, dall’inizio della guerra ai primi di ottobre, hanno dato 52 miliardi e 311 milioni, di cui più della metà, 27 miliardi e 645 milioni, sotto forma di invio di armi o di denaro per acquistarne. L’Ue, come istituzione a sé stante, solo 16 miliardi e 243 milioni, che salgono a poco più di 29 calcolando anche gli aiuti bilaterali dei singoli stati dell’Unione. Eppure nel complesso quest’ultima ha un Pil che è solo di un quarto inferiore a quello americano. 

A latitare è il contributo dei Paesi centrali della UE, il suo core, potremmo dire: dall’Italia, appunto, alla Francia, dalla Germania, alla Spagna. 

Berlino non è finora andata oltre ai 3,3 miliardi di aiuti, ma a dispetto del pubblico ludibrio verso Scholz di questi mesi, sono stati francesi e italiani a sfigurare più di tutti. I primi hanno stanziato solo 1,1 miliardi e i secondi 700 milioni, di cui solo 150 sono di assistenza per la difesa. 

Il dato più importante, quindi, al di là delle singole cifre, è la divisione che sta interessando non solo l’Occidente, ma il Vecchio Continente stesso. Infatti, quell’insieme di Paesi che i neo-conservatori americani chiamavano “Nuova Europa”, ovvero l’Est, con l’esclusione dell’Ungheria, assieme ai Paesi scandinavi fornisce quasi la stessa assistenza all’Ucraina della “Vecchia Europa”, quella occidentale, che ha più del doppio della popolazione e del Pil. 

Dalla prima viene il 7,4% degli aiuti totali, dalla seconda il 7,8%. E se consideriamo l’invio di armi vi è invece il sorpasso dell’Europa orientale: 9,8% contro 5,1% di quella occidentale. Quell’ampio schieramento che va dalla Slovenia alla Bulgaria, dalla Polonia alla Finlandia, supera, in questo caso, anche la UE come istituzione, che è responsabile del 6,1% dell’aiuto militare.

Naturalmente, però, a livello internazionale la parte del leone la fanno gli anglosassoni, con gli Usa in testa ma anche Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda. Da essi viene il 78,9% degli armamenti per Kyjiv.

I numeri sono ancora più chiari se paragonati alle dimensioni delle rispettive economie. Lettonia, Estonia, Polonia, Lituania, Norvegia, Slovacchia, Repubblica Ceca hanno speso finora tra il 0,25% e l’1,01% del proprio Pil per aiutare gli ucraini a difendersi dall’aggressione di Putin, includendo, ove applicabile, anche il contributo all’assistenza UE, che per questi Paesi è minoritario rispetto all’impegno bilaterale. 

Hanno superato persino gli Usa e il Regno Unito, ma soprattutto spagnoli, tedeschi, francesi e italiani, che non sono andati oltre lo 0,15 – 0,17% del loro Pil. Mediamente la “Nuova Europa” ha sacrificato lo 0,37% del proprio reddito annuo contro lo 0,16% della “Vecchia”.

Questi dati rendono evidente un problema politico e culturale, che non è nuovo, ma sembra riacutizzarsi. Da un lato abbiamo popoli ed élite abituati a crogiolarsi nella sicurezza della propria comfort zone, fatta di livelli di benessere e di libertà date per scontate che non si sarebbe pronti a sacrificare né se si tratta di quella altrui, né, c’è da temere, se si trattasse un giorno della propria. 

Non è solo il classico egoismo del vecchio ricco che non vuole rinunciare a ciò che ha acquisito nel corso del tempo, si tratta anche di cecità. Parte di questa comfort zone, infatti, è pure l’armamentario ideologico che impedisce di vedere se stessi come la parte più avanzata del mondo, e l’Occidente come baluardo di quella libertà data per scontata.

Da decenni non solo la sinistra, ma anche la destra (ne sappiamo qualcosa in Italia) è abituata alla flagellazione del modello capitalista occidentale, a un anti-americanismo politico-economico che è diventato anti-occidentalismo. Al punto da non riuscire a percepire l’Occidente come parte di una famiglia comune, ovvero un faro di democrazia e libertà per tutti coloro che, lontano da Europa, Usa, Australia, ci guardano con occhi ben diversi da quelli con cui noi stessi ci guardiamo. Gli stessi occhi che a Kyjiv ci vedono come modello da raggiungere e come ancora di salvezza. 

Questa doppia cecità, dei governi e di gran parte della popolazione, è evidente anche dai dati della sola assistenza militare in proporzione alla spesa per la difesa. Da cui si nota come la tendenza europea a destinare una quota del proprio budget agli armamenti molto inferiore a quella degli Usa non contribuisce che in piccola parte allo squilibrio presente tra i Paesi riguardo l’assistenza militare all’Ucraina. 

Qui si nota in modo ulteriore come l’Italia risulti impegnarsi pochissimo, dando solo 5,5 euro ogni mille spesi per la difesa in un anno, non solo se il confronto è con la Lettonia, che ne dà 427,11, o con gli Usa, con 39,97, ma anche se è con la Germania, che a dispetto degli attacchi subiti sul tema dà più del quadruplo di noi, 25,38 ogni 1000 di budget. 

Quale sarà l’impatto di tutto ciò? Difficile non intravedere una perdita di importanza dell’Ue, in assenza di un maggior impegno nel teatro ucraino. 

L’Ucraina, nel caso uscisse vincitrice dal conflitto, vorrà entrare nell’Unione Europea, ma a quel punto, dopo la ritrosia di questi mesi a dare maggiori aiuti a Kyjiv, Bruxelles sarà ancora un un player globale paragonabile a Usa e Cina? Tutto ciò provocherà un aumento delle divisioni sul fronte interno? Il nazionalismo polacco avrà trovato una sponda oltre l’Atlantico in seguito a questa vicenda?

L’Ue è ancora in tempo per recuperare un proprio ruolo. Come la vicenda del price cap mostra, Bruxelles tende a essere un diesel più che un turbo. Ma i tempi della storia, soprattutto negli ultimi, mesi sembrano essere molto più veloci di quelli delle cancellerie della “Vecchia Europa”.

Punti di riferimento fortissimi. L’appello pacifista degli intellettuali rosso-bruni è la vera piattaforma dei Democratici per Conte. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

Avvenire pubblica il «piano di pace» di un gruppo di pensatori trasversale (da Cacciari a Cardini) che consiste in pratica nel dare a Putin tutto quello che vuole, dandogli pure ragione

Sulla questione della pace e della guerra in Ucraina è in corso da tempo il tentativo di imprimere una svolta alla linea seguita sin qui dal nostro paese, cercando nella chiesa e in papa Bergoglio un punto di riferimento più popolare di Henry Kissinger per giustificare il riposizionamento. Si tratta di una spinta che viene da più parti, con diverse motivazioni. A sinistra, la manovra si salda con il tentativo di ottenere un sostanziale ripudio delle scelte compiute con il governo Draghi, non solo sulla guerra, e un generale riallineamento al Movimento 5 stelle sotto l’egida di Giuseppe Conte.

Dopo l’appello firmato da Rosy Bindi, Tomaso Montanari e vari altri intellettuali e politici perlopiù di area catto-populista in favore di una riapertura del dialogo tra democratici e grillini, pubblicato sul Fatto quotidiano qualche settimana fa, ieri è stato Avvenire, organo della conferenza episcopale italiana, a pubblicare l’appello per un «negoziato credibile» firmato da un gruppo di intellettuali di destra e di sinistra, laici e cattolici, nella forma di una lettera al direttore. Significativamente, gli unici due quotidiani, a parte Avvenire, che ieri riportavano la notizia erano la Verità, con un ampio resoconto della genesi e del merito della proposta, e il Fatto, che ne pubblicava «ampi stralci» (corrispondenti più o meno al cento per cento del testo, escluse le parole «caro direttore»).

Non per niente, tra i firmatari più noti c’è Massimo Cacciari, che si è conquistato già da tempo i favori di entrambi i quotidiani con le imprese della «Commissione dubbio e precauzione» messa su assieme a Carlo Freccero e Ugo Mattei, dove i dubbi e le precauzioni erano ovviamente da intendersi come riferiti ai vaccini, al green pass e alle altre misure anti-Covid (quelle sì di precauzione), mica al virus. Una parabola simile, del resto, hanno seguito gran parte dei movimenti, gruppi e gruppetti no vax che hanno funestato in questi anni talk show e social network, trasformatisi tutti molto rapidamente in gruppi contro la guerra. Dove ovviamente la guerra da fermare, gratta gratta, si capisce che non è mai quella della Russia sul suolo ucraino, ma quella dell’Ucraina per respingere l’offensiva russa. Insomma, così come ieri non bisognava difendersi dal Covid, ma da vaccini e green pass, così oggi il pericolo è rappresentato dalla capacità di difendersi degli ucraini, che potrebbe spingere Vladimir Putin, si dice, a utilizzare la bomba atomica.

La lettera-appello pubblicata da Avvenire comincia infatti proprio così: «La minaccia di un’apocalisse nucleare non è una novità. L’atomica è già stata usata. Non è impossibile che si ripeta». Basta questo incipit – nel merito, nel tono e nelle allusioni ai precedenti storici – per capire subito da dove si parte e dove si vuole andare a parare. Secondo questa logica, qualunque tiranno in possesso dell’atomica decidesse di invadere un paese vicino – non importa quanti massacri, torture, deportazioni imponesse nel frattempo alle popolazioni civili – dovrebbe ottenere subito in premio un bel negoziato in cui discutere quanta parte del territorio da lui occupato resterebbe per sempre di sua legittima proprietà. Al di là della questione morale, strategica e politica, siamo proprio sicuri che un simile approccio renderebbe il mondo più sicuro, e il rischio di una «apocalisse nucleare» più basso?

Il piano in sei punti pubblicato ieri da Avvenire consiste fondamentalmente nel dare a Putin tutto quel che vuole, dandogli pure ragione (infatti ha già raccolto l’entusiastica adesione di Alessandro Di Battista). Merita una segnalazione in particolare il punto due, dove si parla di «concordato riconoscimento dello status de facto della Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente “donata” da Krusciov alla Repubblica Sovietica Ucraina». Passaggio degno di nota perché condanna l’«illegale» donazione della Crimea all’Ucraina da parte di Krusciov nel 1954 e non fa parola, anzi, così dicendo chiaramente giustifica, l’annessione della Crimea manu militari da parte di Putin nel 2014. Seguono poi «autonomia delle regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i Trattati di Minsk, con reali garanzie europee o in alternativa referendum popolari sotto la supervisione Onu» e la «definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle regioni si è dato ed eventualmente con la creazione di un ente paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel loro reciproco interesse».

E qui, arrivati al «melting pot», ai «territori contesi» e soprattutto al «loro reciproco interesse», diventa difficile separare il tragico dal grottesco, e anche continuare a leggere. Parliamo di zone dove ogni giorno la controffensiva ucraina, a mano a mano che libera città e villaggi, scopre nuove camere di tortura e nuove fosse comuni.

Due giorni fa, a Kherson, il direttore della Filarmonica Yuriy Kerpatenko è stato ucciso dai russi in casa sua perché si era rifiutato di dirigere un concerto in favore dell’invasore. Chi vuole la pace si augura che Kherson sia liberata al più presto da simili assassini o che i fratelli, i figli e i genitori delle vittime si siedano a discutere di quanta parte delle risorse naturali del paese dovrebbero cedere ai loro carnefici, in un bel comitato paritario formato per metà dagli scampati alle camere di tortura e per metà dai torturatori? La verità è che l’unico esercito che si vorrebbe concretamente fermare, oggi, è quello che sta liberando l’Ucraina da tali aguzzini.

Vedremo quanto i firmatari di destra dell’appello – tra i quali nomi come Pietrangelo Buttafuoco, Franco Cardini, Marcello Veneziani, certo non estranei alla tradizione da cui proviene Fratelli d’Italia – si dimostreranno isolati anticonformisti o magari invece avanguardia di un movimento più largo. Ma a sinistra è evidente che la partita per ridisegnare i confini e la natura dell’intero schieramento è già cominciata.

È sempre un bene che le posizioni politiche siano espresse chiaramente, affinché ciascuno possa valutarne in piena coscienza tutte le implicazioni strategiche e morali. Se questa idea di pace – e di collocazione internazionale dell’Italia – è il discrimine su cui si vuole costruire una nuova sinistra che vada dal Pd al M5s, è un’ottima cosa che sia esposta limpidamente nel dibattito pubblico, e che tutti i dirigenti impegnati in una simile prospettiva dicano esplicitamente come la pensano.

L’inaccettabile aggressione. Il vero pensiero del Papa sulla guerra (e i pacifisti che lo citano a sproposito). Francesco Lepore su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

Tanti politici hanno chiamato in causa le parole del Pontefice per legittimare la capitolazione di Kyjiv. Ma Francesco ha sempre detto che gli ucraini sono vittime di una «aggressione inaccettabile, ripugnante, insensata, barbara, sacrilega»

Pace. È la parola d’ordine di questi giorni. I preparativi della grande manifestazione nazionale, fissata a Roma il 5 novembre, ne sono scanditi mentre più fervono. E di essa si sostanziano le crescenti dichiarazioni sull’immediato «cessate il fuoco» in Ucraina, che, a mezza via tra alate aspirazioni all’universale fratellanza ed egoistici moti di tutela del benessere personale/comunitario, sono talora accompagnate dalle consuete geremiadi su Nato e Ue, guerrafondaie quasi ontologicamente e, dunque, cause prime delle reazioni del Cremlino. 

I ben intenzionati e desiderosi di una rapida fine della guerra, come di ogni conflitto bellico, sono indubbiamente i più. Ma con loro sono sorprendenti banditori di pace anche esponenti di partiti estremisti di destra e sinistra, di movimenti pro family, di gruppi omofobi e antiabortisti, che a Mosca sono politicamente/economicamente legati o vedono ammirati in Vladimir Putin l’antemurale dei valori naturali e cristiani portati a dissoluzione da un Occidente irrimediabilmente corrotto. 

Poco importa che la mano del presidente della Federazione Russa semini dal 24 febbraio distruzione, morte, miseria in Ucraina, che grondi senza sosta di lacrime e sangue di migliaia di innocenti. Poco importa che l’operazione speciale da lui voluta sia in realtà null’altro che la sopraffattoria invasione di uno Stato sovrano. Perché la situazione è in ultima analisi complessa e otto mesi di guerra sono pur sempre conseguenza di politiche atlantiste che hanno esasperato il difensore del russkij mir (mondo russo, ndr) e il pio vindice del “popolo uno e trino” della Santa Rus’, includente Bielorussia, Russia, Ucraina. Non meraviglia pertanto che ancora negli ultimi giorni siano apparsi appelli anche da parte di ben noti intellettuali, per i quali un “negoziato credibile” di pronta risoluzione del conflitto si tradurrebbe, stringi stringi, nella resa incondizionata dell’Ucraina a Mosca. 

Di ben altro tenore, e di fatto passata pressoché sotto silenzio, la chiara e puntuale dichiarazione della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece). Approvato all’unanimità dal presidente, il gesuita e cardinale arcivescovo di Lussemburgo Jean-Claude Hollerich, e dai restanti 19 presuli partecipanti all’Assemblea plenaria d’autunno – compreso il delegato della Conferenza episcopale ungherese, il vescovo ausiliare di Esztergom-Budapest Gábor Mohos – il testo è stato diramato venerdì in inglese, tedesco, spagnolo, francese, italiano nella forma di «accorato appello alla pace in Ucraina e nell’Europa intera. “Dirigere i nostri passi sulla via della pace” (Lc. 1,79)». 

Si parte senza giri di parole dalla «profonda tristezza per le orribili sofferenze umane inflitte ai nostri fratelli e sorelle in Ucraina dalla brutale aggressione militare dell’autorità politica russa», per passare a esprimere piena vicinanza «ai milioni di rifugiati, per lo più donne e bambini, che sono stati costretti a lasciare le loro case, così come a tutti coloro che soffrono in Ucraina e nei Paesi vicini a causa della “follia della guerra”. Siamo profondamente preoccupati per le recenti azioni che accrescono il rischio di un’ulteriore espansione del conflitto in corso, con tutte le sue incontrollabili e disastrose conseguenze per l’umanità». Non manca poi la considerazione secondo la prospettiva di «cittadini dell’Unione Europea», la quale è valutata dai vescovi quale «realtà preziosa, secondo la sua ispirazione originaria. Siamo grati per gli instancabili sforzi dei decisori politici europei nel mostrare solidarietà all’Ucraina e nel mitigare le conseguenze della guerra per i cittadini europei, e incoraggiamo fortemente i leader a mantenere la loro unità e determinazione per il progetto europeo».

Segue poi, prima dell’invocazione finale a Maria Regina della Pace, il passaggio più importante nel quale i componenti della Comece, ribadita «la piena comunione con i numerosi appelli lanciati da Papa Francesco e dalla Santa Sede», rivolgono anche loro «un forte appello ai responsabili dell’aggressione, affinché sospendano immediatamente le ostilità, e a tutte le parti affinché si aprano a ‘serie proposte’ per una pace giusta in vista di una soluzione sostenibile del conflitto». Pace che, per essere giusta e, dunque, vero quanto fruttuoso superamento della guerra in atto, è realizzabile solo «nel pieno rispetto del diritto internazionale e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». 

Ma cos’è questa pace di cui tanto si parla? Che tanto giustamente invoca Papa Francesco? Quel Papa Francesco, mai così citato dalle alte cariche dello Stato (si pensi ai recenti discorsi d’insediamento dei neopresidenti di Senato e Camera, Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana) e, tanto a sinistra quanto a destra, da zelanti predicatori di un «cessate il fuoco» sinonimo di resa dell’invaso all’invasore. 

Per sintesi e completezza la migliore risposta la si ritrova nel numero 2304 del Catechismo della Chiesa cattolica, in cui è condensata la bimillenaria riflessione teologica e magisteriale sul tema tra Agostino e la costituzione del Vaticano II Gaudium et spes: «La pace non è la semplice assenza della guerra e non può ridursi ad assicurare l’equilibrio delle forze contrastanti. La pace non si può ottenere sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l’assidua pratica della fratellanza. È la “tranquillità dell’ordine”. È “frutto della giustizia” (Is 32,17) ed effetto della carità».

In tale prospettiva si può meglio comprendere il personale e ricchissimo approfondimento condotto da Bergoglio sulla pace a partire da un testo miliare del suo magistero quale la Fratelli tutti, che è pienamente in linea con quello dei predecessori e pur ne è anche completamento: dalla «terza guerra mondiale a pezzi» all’attuale insostenibilità della “guerra giusta”. Punto, questo, che sembrerebbe costituire un superamento della dottrina tradizionale della Chiesa, così com’è espressa nel numero 2309 del Catechismo. 

In realtà Francesco, che nel suo nuovo libro Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza, in uscita domani, è tornato a ripetere parole già espresse altrove col dire: «Non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta. Non c’è mai posto per la barbarie bellica», ha mostrato al riguardo una costante ondivaghezza. A ben pensarci, forse sarebbe meglio dire che ha attuato di fatto una distinzione tra illegittimo (più precisamente, inesistente) diritto alla guerra e legittimo diritto alla difesa, quest’ultimo, in ogni caso, pur sempre parte essenziale della tradizionale dottrina del bellum iustum. 

Ne ha parlato proprio lui il 15 settembre, conversando coi giornalisti durante il volo di ritorno dal Kazakhstan. Si tratta di affermazioni chiave anche in riferimento alla guerra d’invasione russa e alla liceità dell’invio d’armi a Kyjiv, sul quale il Papa così esordiva un mese fa: «Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più. La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama. Qui si tocca un’altra cosa che io ho detto in uno dei miei discorsi, e cioè che si dovrebbe riflettere più ancora sul concetto di guerra giusta». Di comune interesse la parte finale della risposta: «La guerra in sé stessa è un errore, è un errore! E noi in questo momento stiamo respirando quest’aria: se non c’è guerra sembra che non c’è vita. Un po’ disordinato ma ho detto tutto quello che volevo dire sulla guerra giusta. Ma il diritto alla difesa sì, quello sì, ma usarlo quando è necessario».

È quanto aveva già spiegato in agosto il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, in un’intervista a Limes, nel corso della quale, ribadito che «il disarmo è l’unica risposta adeguata e risolutiva a tali problematiche, come sostiene il magistero della Chiesa» e invitato a rileggere la Pacem in terris di Giovanni XXIII, aveva aggiunto senza giri di parole: «Si tratta di un disarmo generale e sottoposto a controlli efficaci. In questo senso, non mi pare corretto chiedere all’aggredito di rinunciare alle armi e non chiederlo, prima ancora, a chi lo sta attaccando». 

In linea di continuità, dunque, con quanto affermato dallo stesso porporato il 13 maggio durante un convegno su Giovanni Paolo I alla Pontificia Università Gregoriana: «Sull’invio delle armi ripeto quello che ho detto dall’inizio: c’è un diritto alla difesa armata in caso di aggressione, questo lo afferma anche il Catechismo, a determinate condizioni. Soprattutto quella della proporzionalità, poi il fatto che la risposta non produca maggiori danni di quelli dell’aggressione. In questo contesto si parla di “guerra giusta”: il problema dell’invio di armi si colloca all’interno di questo quadro. Capisco che nel concreto sia più difficile determinarlo, però bisogna avere alcuni parametri chiari per affrontarlo nella maniera più giusta e moderata possibile».

Intrinsecamente veritiere, dunque, le parole dei vescovi della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea nel riaffermare «la piena comunione con i numerosi appelli lanciati da Papa Francesco e dalla Santa Sede» e la conformità al pensiero pontificio su ogni sforzo per conseguire una pace giusta nel rispetto del diritto internazionale e della salvaguardia dell’unità territoriale dell’Ucraina. Possono dire lo stesso chi si riempie la bocca del nome di Bergoglio per legittimare richieste di pace intesa come mera assenza di guerra e capitolazione di un popolo, vittima di un’«aggressione inaccettabile, ripugnante, insensata, barbara, sacrilega»? Queste sì, per chi lo ignorasse, parole autentiche del Papa.

Ucraina, fate pure i pacifisti ma guardate i fatti: le menzogne di parte. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 14 ottobre 2022

Prima i fatti. Prima che cosa è stata e continua a essere, sempre più selvaggiamente, l'operazione speciale scatenata dal regime russo. Poi, a fatti riconosciuti e non contraffatti, va bene tutto il resto. Poi è legittima qualsiasi opinione, qualsiasi ipotesi di soluzione, qualsiasi iniziativa di intervento, di astensione, di perdono, di condanna. Anche l'intimazione, da qui, dal salotto, a che gli ucraini si uniformino al cosiddetto dovere morale della resa, quello invocato a destra e a manca sul presupposto che serva a risparmiare vite; anche reclamare la fine degli aiuti in armi, perché gli ucraini devono capire che i loro figli potrebbero essere felici anche in una dittatura; persino l'equiparazione dell'aggressore e dell'aggredito a pari livello di violenza e crudeltà e responsabilità.

Ma tutto questo è rispettabile a quel patto, e cioè che il pacifismo che ne tesse la trama non si imbastisca della menzogna, della censura, della propaganda che invece sono l'alfabeto di quella propalazione. Zelensky uguale a Putin? Va bene: ma solo se non si fa fatica a ricordare che uno, non l'altro, voleva rimuovere il governo di drogati e omosessuali. I morti sono tutti uguali? Va bene: ma non se davanti alle immagini dei cadaveri di Bucha ti affretti a ipotizzare che potrebbe trattarsi di una messinscena. C'è propaganda da tutte le parti? Va bene: ma non se a sostegno del tuo pacifismo usi quella dell'aggressore.

È una guerra voluta da Joe Biden per venderci il suo gas più caro? Va bene: ma non se trascuri di ricordare che per opporsi all'imperialismo Usai russi deportano duecentomila bambini. La guerra è sempre terribile? Va bene: ma non se accetti che il tuo collega pacifista definisca "passante" il ciclista abbattuto dal cecchino. Purtroppo sono sempre i civili a farne le spese? Va bene: ma non se senti dire, senza dir nulla, che l'ospedale incenerito poteva essere un covo di nazisti. Per essere rispettabile, il pacifista deve ripulire questo mare di letame. O ripulirsene.

Le tre piazze “pacifiste” e il settario manicomio della sinistra. Ognuno per sé, in ordine sparso: da una parte Letta e il Pd, al sit-in di giovedì davanti all'ambasciata russa, dall'altra Conte e Landini che chiedono il disarmo. E la terza piazza a Calenda, a sostegno della resistenza di Kiev. Daniele Zaccaria l'11 Ottobre 2022 su Il Dubbio.

Un tempo circolava la battuta che con quattro trotzkisti puoi ottenere cinque correnti politiche. Gli amabili resti della sinistra italiana però sono addirittura riusciti a fare di meglio, moltiplicando l’offerta: tre manifestazioni “per la pace” in tre diverse piazze.

Da Conte a Calenda, le tre piazze pacifiste

C’è il raduno della strana coppia Giuseppe Conte e Maurizio Landini che chiedono negoziati subito, c’è il sit-in di Enrico Letta e il Pd davanti l’ambasciata russa, c’è l’iniziativa di Carlo Calenda e Azione a sostegno della resistenza di Kiev. Che la guerra in Ucraina avrebbe spappolato il movimento pacifista e per metonimia la sinistra tutta, si era capito fin dallo scorso febbraio, dalle tiepide reazioni di molti politici, giornalisti e intellettuali oscillanti tra l’equidistanza e lo schietto disprezzo per Volodymir Zelensky “criminale quanto e più di Putin”, sciocca pedina nelle mani della minacciosa Nato, presidente di una nazione che pullula di “nazisti”.

La piazza di Conte e Landini

Una presa di posizione che introietta la propaganda del Cremlino, che rende ambiguo qualsiasi petizione di principio e trasforma ogni nobile appello alla pace nell’indegna richiesta di resa agli ucraini. Perché il nocciolo della manifestazione Conte-Landini è proprio questo: basta con armi occidentali, basta resistere, sedetevi intorno a un tavolo e accontentate lo zar.

Di fronte a una piattaforma così indigesta Letta e Calenda avrebbero fatto buona cosa scendendo in piazza uno a fianco all’altro per ribadire la solidarietà agli aggrediti e la condanna degli aggressori. Niente affatto: ognuno per sé, in ordine sparso, come gruppetti trotzkisti, ognuno preoccupato di innaffiare il proprio striminzito giardino.

Ucraina, guerra tra leader della sinistra per le marce della pace. Elisa Calessi su Libero Quotidiano il 13 ottobre 2022

Si moltiplicano le manifestazioni che chiedono la pace in Ucraina. Molte di queste, però, paradossalmente diventano motivo di divisione. Almeno tra i partiti che scelgono o meno di aderirvi. E così se giovedì, davanti all'ambasciata russa, il Pd e Più Europa parteciperanno al sit-in promosso da Marco Bentivogli e da un gruppo di associazioni, dal titolo «Non c'è vera pace senza verità. Non c'è verità senza libertà», Giuseppe Conte e il M5S, invece, non ci saranno. Si preparano, però, ad aderire alla manifestazione che per metà novembre (il 12 o il 19) Arci, Acli e altre associazioni puntano a organizzare. Intanto c'è la mobilitazione che dal 21 al 23 ottobre Rete italiana pace e disarmo, Arci, Acli e altri hanno promosso in varie piazze italiane. E ancora non si è capito quale partito aderirà. Poi c'è la Comunità Sant' Egidio, che ha promosso un evento dal titolo «Incontro di dialogo e preghiera per la pace tra le religioni mondiali» che si svolgerà a Roma dal 23 al 25 ottobre: parteciperanno il presidente Sergio Mattarella, Emmanuel Macron, Mohamed Bazoum, presidente del Niger e, in chiusura, Papa Francesco. Non è finita. Il 28 ottobre, la Regione Campania ha lanciato una iniziativa per la pace, a cui aderirà la Cgil. Un'altra, poi, si terrà il 5 novembre «per il lavoro e la pace», lanciata da Maurizio Landini, segretario della Cgil, dal palco di piazza del Popolo sabato scorso.

PUNTI DI VISTA DIVERSI

Un fiorire di eventi che dà voce a un sentimento diffuso, ma, ma manifesta accenti diversi nel guardare a quanto accade in Ucraina. Chi sottolinea di più l'aggressione da parte della Russia, chi la richiesta di pace da entrambe le parti. E così le piazze finiscono per dividere. In particolare, dividono Pd e M5S, sempre più concorrenti nel rappresentare la sinistra. E nel mettere un cappello alla galassia pacifista. La prima iniziativa, in ordine cronologico, si svolge giovedì. Si chiede il «cessate il fuoco immediato», lo «stop all'escalation nucleare», una «commissione internazionale» per accertare la verità sui crimini accaduti in Ucraina, «riconoscere la libertà di parola ai dissidenti russi» e il «ritiro delle truppe russe». Ci sarà il Pd. Ma non il M5S. «Mi sembra», spiega Matteo Orfini, «che da parte di alcuni ci sia la volontà di utilizzare la pace per una divisione strumentale a fini interni». Conte? «È un trasformista, non c'è nulla di sincero nelle sue posizioni». E così la pensa Bentivogli, promotore del sit-in: «C'è una distinzione fra aggressore e aggredito, non c'è equidistanza», mentre «il pacifismo ideologico che si fonda sugli equivoci nasconde obiettivi lontani dalla pace». Quanto a Conte «oggi veste i panni del pacifista», ma «sulle spese militari, mi sembra che abbia già cambiato idea almeno una volta». Il capo del M5S, in ogni caso, ha già fatto sapere che non ci sarà giovedì. Guarda, piuttosto, alla piazza che Arci e Acli stanno organizzando per metà novembre, il 12 o il 19. «Parteciperemo», ha detto ieri, «alla grande manifestazione nazionale per la pace in corso di preparazione. Vi prenderemo parte senza bandiere. Non vogliamo mettere nessun cappello politico rispetto a un'occasione, per tutti i cittadini, di manifestare la propria preoccupazione per questa escalation militare e per invocare una svolta in direzione di un negoziato di pace». Intanto Carlo Calenda lancia una sua manifestazione a Milano, contro quella di Conte che sarebbe «per la resa dell'Ucraina».

LA NOTA

Anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, prende le distanze da Conte: «Le manifestazioni per la pace sono sempre un fatto positivo, ma che chi ha responsabilità di governo deve sempre distinguere tra chi aggredisce e l'aggredito. Nel dibattito pubblico ci sono state delle ambiguità». Nel caos delle piazze, una nota del Pd prova a mettere chiarezza e a evitare divisioni: «La linea del Pd sulla guerra è netta, limpida, fin dal principio. Noi partecipiamo e sosteniamo ogni iniziativa che abbia come obiettivo la pace e che allo stesso tempo, chiaramente, non presenti ambiguità sulle responsabilità dell'aggressore, vale a dire la Russia di Vladimir Putin». E lo stesso Enrico Letta ha precisato che c'è pacifismo e pacifismo: «Noi partecipiamo a tutte le iniziative che vogliono ribadire la necessità della pace e ovviamente a tutte quelle in cui viene dato il segnale del fatto che c'è una responsabilità chiara da parte della Russia». 

La “guerra” per accaparrarsi le piazze della pace. Cinque manifestazioni diverse già annunciate, con i partiti che provano a metterci la propria bandiera. Tra distinguo, equilibrismi ed accuse reciproche. Gabriele Bartoloni il 13 Ottobre 2022 su L'Espresso.

Le piazze per la pace rendono plastica la divisione all’interno dei partiti di opposizione: uniti nel chiedere il cessate il fuoco, ma divisi sul come arrivarci. Il Pd e soprattutto il Terzo polo si mostrano scettici (eufemismo) verso le iniziative pacifiste annunciate dal Movimento 5 stelle. Un sentimento ricambiato dai pentastellati, sui quali pende la stessa accusa rivolta anche al pacifismo “movimentista”, ovvero quella di tenere un atteggiamento ambiguo nei confronti della condanna alla Russia e nel sostegno all’Ucraina. Dall’altra parte l’accusa lanciata è quella di favorire l’escalation militare attraverso l’invio di armi.

Distinguo e accuse reciproche. Le posizioni per arrivare alla pace, tra partiti e le realtà associative, sono tante quante gli appuntamenti annunciati. Negli ultimi giorni le iniziative pacifiste hanno cominciato a riempire il calendario delle piazze per il prossimo mese. Da qui fino a metà novembre verranno organizzate almeno 5 mobilitazioni. Alcune di loro coinvolgeranno contemporaneamente più città, come la tre giorni del 21, 22 e 23 ottobre. Prima tappa a Roma, davanti all'ambasciata russa. Il sit-in è stato organizzato dal Movimento Europeo Azione Nonviolenta (Mean) e rispecchia la visione pacifista portata avanti anche dal Pd. I dem non hanno esitato un secondo prima di dichiarare la loro partecipazione. Una mossa decisa da Enrico Letta e presa con il fine di allontanare l’immagine di un partito ingolfato dalle dinamiche interne. Fino al giorno prima, però, il pericolo era che la manifestazione finisse per accentuare ancor di più l’isolamento del Pd, anziché rilanciarne l’azione. Alla fine, dopo un primo rifiuto, anche Carlo Calenda ha annunciato la sua partecipazione. Del resto i toni sono quelli che piacciono all’ex ministro: condanna dell’invasione, solidarietà con l’Ucraina e ritiro delle truppe russe. E non è un caso che nella convocazione non ci sia nessuna richiesta riguardo lo stop all’invio di armi. Un dettaglio non da poco. Anzi, è il principale motivo che divide le piazze per la pace e i rispettivi supporter. Il M5s non ha mai nascosto la contrarietà all’invio di nuovi armamenti, così come una parte del fronte pacifista che scenderà in piazza nella tre giorni di ottobre. I promotori sono le associazioni che aderiscono alla Rete italiana pace e disarmo. Lo slogan della manifestazione è chiaro: “Tacciano le armi, negoziato subito”. E ancora: «Le armi non portano la pace, ma solo nuove sofferenze per la popolazione», si legge nel manifesto della convocazione.

Per Calenda lo stop alle forniture militari significa - parole sue - «chiedere la rese delle Ucraini». Da escludere, dunque, la partecipazione del leader di Azione. Altra questione vale per il Pd. Le piazze pacifiste, per i dem, rischiano di trasformarsi nell’ennesima occasione per dividersi. Alcuni esponenti di peso, come Laura Boldrini e Graziano Delrio, hanno annunciato che prenderanno parte a tutte le manifestazioni organizzate dalla società civile. I due esponenti dem sono ascrivibili alla “corrente” che ultimamente ha posto l’accento su una soluzione diplomatica e meno bellicista. Letta si muove come un funambolo, facendo sapere che il Pd parteciperà a tutte le manifestazioni per la pace, «purché - ha specificato - non ci sia equidistanza tra aggressore e aggredito». Una formulazione che non chiude del tutto la porta alle altre manifestazioni.

Il M5s, invece, ha già fatto sapere che al sit-in davanti all'ambasciata russa non intende partecipare. Giuseppe Conte la considera come nient'altro che un tentativo da parte del Pd di appropriarsi del pacifismo. La verità, però, è che da entrambe le parti, negli ultimi giorni, è partita la gara ad accaparrarsi le piazze contro la guerra. Una rivalità che rientra nello schema più ampio della competizione a sinistra. Del resto anche Conte ha annunciato la partecipazione del Movimento a una manifestazione pacifista. E lo ha fatto prima che lo facesse il Pd. Una data ancora non c’è. Quel che è certo è che il M5s si presenterà senza bandiere e in compagnia di altre realtà civiche e progressiste. Potrebbe aggregarsi alle altre due manifestazioni programmate per novembre. La prima, a Roma, è fissata per il 5 novembre. Organizzata da 500 realtà tra associazioni, sindacati, single antimafia e movimenti ambientalisti, l'obiettivo è duplice: chiedere la pace e rilanciare un’agenda sociale, la stessa su cui intendono puntare i pentastellati per accaparrarsi la sinistra scippandola al Pd. L’altro appuntamento buono per i 5 stelle potrebbe essere quello di metà novembre (il 12 o il 19), sempre nella Capitale, organizzato da Acli e Arci. 

La manifestazione di cui ha parlato Conte, oltre ad acuire la rivalità con il Pd, ha avuto l’effetto di crearne un’altra, l’ennesima. Calenda, sentito dell’iniziativa dell’avvocato, non ha esitato a promettere che, anche lui, organizzerà «una grande manifestazione a Milano se Conte porterà in piazza le persone che sono a favore della resa dell'Ucraina, non della pace». Insomma, una contro-manifestazione che punta a tracciare un’ulteriore linea di demarcazione nel pacifismo italiano. Da non dimenticare, inoltre, la manifestazione a Napoli indetta dal presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, esponente dem. Il governatore che evocava i lanciafiamme ha abbandonato le vesti di sceriffo per indossare quelle di convinto pacifista. Per De Luca, ora, è necessario «cominciare a introdurre nel linguaggio della politica la parola "pace", che sembra ormai cancellata». Appuntamento fissato per il 29 ottobre.

Ucraina, Enrico Mentana impallina i finti pacifisti, post durissimo: con chi ce l'ha. Il Tempo il 11 ottobre 2022

Enrico Mentana torna a parlare sui social della guerra e dopo aver proposto una grande manifestazione senza colori o bandiere per l'Ucraina libera e il ritiro delle truppe russe ha scritto un post su Instagram contro i finti pacifisti.

"A coloro che hanno scambiato la speranza di pace con la pretesa di essere lasciati in pace, a coloro che ogni giorno vogliono spiegare a Zelensky e ai suoi soldati come si fa e come non si fa la resistenza contro un esercito invasore, a coloro che rivendicano via Rasella ma condannano il sabotaggio del ponte in Crimea, a coloro che mettono sullo stesso piano occupanti e vittime degli occupanti, a coloro che sostengono che Putin ha anche le sue ragioni; a tutti voi propongo di andare a spiegare le vostre ragioni alle donne, agli anziani e ai bambini costretti a scappare dall'Ucraina dopo l'attacco russo", premette il direttore del Tg La7 che dopo aver individuato gli interlocutori arriva al punto. 

"Ditelo voi a quei sei milioni di profughi riparati in terra straniera che è più importante la vostra pretesa di stare in pace che il diritto a riavere la loro terra, la loro casa, la loro libertà, la loro nazione", scrive il giornalista che ha scatenato una grande quantità di commenti, non tutti positivi. C'è chi attacca i "rivoluzionari da divano" capaci di "giudicare i profughi e i soldati dalla comodità del proprio salotto", ma anche chi fa notare a Mentana  "che proprio la pace ridarrebbe la dimora a quelle 6 milioni di persone". 

Ieri Mentana aveva lanciato l'idea della manifestazione pro-Ucraina, che qualcuno aveva letto come una stoccata a quella promossa dal leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte, il giorno precedente aveva scritto un altro durissimo post su Facebook: "Come si temeva, più la guerra va avanti e più si tende a dimenticare chi ha attaccato e chi si è difeso. E molti scambiano la pace con il loro desiderio di essere lasciati in pace". 

I volenterosi carnefici di Putin. Il genocidio degli ucraini e le responsabilità dei russi (di tutti i russi). Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 Ottobre 2022.

Di fronte ai crimini di guerra in Ucraina, non si vede nessuna mobilitazione o protesta pacifista a Mosca, e nemmeno da parte dei russi che vivono all’estero e non rischiano niente. La storia ricorda che il Cremlino ha provato a cancellare Kyjiv con lo Zar, con l’Urss e ora con Putin

I russi invadono, stuprano e cancellano la cultura, la lingua e il popolo ucraino da più di un secolo, anche con la pianificazione della carestia dei contadini (1932-33), le Grandi Purghe (1936) e l’eliminazione fisica di un’intera generazione di intellettuali (1937-38).

Basta leggere un buon libro di storia per saperlo, consiglio quelli di Anne Applebaum e di Timothy Snyder. Basta anche parlare con un ucraino qualsiasi, il quale potrà testimoniare di bisnonni morti per la fame pianificata da Stalin, di nonni finiti sotto le purghe sovietiche, di parenti umiliati come nemici del popolo, di conoscenti incarcerati perché scrivevano in lingua ucraina e di amici esposti per settimane alle radiazioni di Chernobyl senza che Mosca gli dicesse che cosa era successo.

Non si contano i colpi di Stato russi in Ucraina, le dichiarazioni di indipendenza domate nel sangue, i presidenti fantoccio del Cremlino che hanno sparato sulla folla per obbedire agli ukase di Mosca e allontanare Kyjiv dall’Europa.

Questo genocidio ininterrotto del popolo ucraino è stato perpetrato dalla Russia guidata dallo Zar, dalla Russia guidata dai comunisti e dalla Russia guidata da Putin. Zar, Urss e Putin uniti nella lotta per cancellare l’Ucraina e gli ucraini.

Pensare che questa ultima fase del genocidio ucraino sia opera esclusiva dell’attuale capo del Cremlino vuol dire non conoscere la storia dell’imperialismo russo né la famigerata cultura coloniale dei russi in generale e in particolare rispetto agli ucraini.

Credere che in tutto questo non ci sia alcuna responsabilità del popolo russo, dei volenterosi carnefici di Putin come lo storico Daniel Goldhagen ha definito il popolo tedesco rispetto a Hitler, vuol dire non conoscere quanto sia radicato il suprematismo russo nei confronti degli ucraini e, di conseguenza, l’inossidabile volontà di resistenza degli ucraini.

Gli ucraini sanno chi sono i russi, sanno che cosa hanno sempre fatto, sanno che cosa faranno, sanno che se devono morire è meglio farlo difendendo la propria famiglia, la propria casa, la propria cultura. Purtroppo gli italiani non lo sanno, e non fanno nulla per nascondere la loro ignoranza sui social e sui giornali.

Meno di un mese dopo l’invasione del 24 febbraio, mentre le televisioni russe inondavano l’etere anche italiano di odio suprematista nei confronti degli ucraini, ho scritto che non si vedeva la rabbia dei russi per quello che stava succedendo. Where’s the outrage?, dov’era e dov’è la collera dei russi?

Non c’è stata nessuna mobilitazione, non ci sono state proteste significative, si sono viste solo adunate a favore del regime nella Piazza Rossa, si sono sentite solo le furie omicide dei conduttori televisivi di prima serata e le telefonate dei soldati russi incitati dai familiari a stuprare e a uccidere quanti più ucraini possibile. Ucraini colpevoli soltanto di essere ucraini.

Sette mesi dopo quell’articolo, otto mesi dopo l’invasione militare e le centinaia di stragi di civili, non si è ancora vista una mobilitazione, una manifestazione, niente di niente. Non si è vista nemmeno una protesta dei tanti russi che vivono all’estero e che non rischiano nulla.  Nessun presidio davanti alle ambasciate del loro paese. Zero, soltanto la fuga da casa per evitare di essere arruolati e mandati al fronte.

I russi che sono rimasti in patria stanno zitti, si voltano dall’altra parte, non criticano Putin se non di essere poco risoluto. Intanto schiacciano bottoni che lanciano missili sugli ospedali, sulle fermate degli autobus, sui parchi-giochi, sulle scuole, sui centri commerciali, assicurandosi di farlo durante l’ora di punta oppure di notte se l’obiettivo invece sono le abitazioni private.

Sono cittadini russi quelli che uccidono a sangue freddo nelle zone occupate, quelli che buttano i corpi nelle fosse comuni a Bucha e altrove, quelli che stuprano le ragazze e fanno razzia nelle case ucraine, mentre i loro connazionali a casa si lamentano di non poter più accedere a Netflix e per questo chiedono al boia del Cremlino di intensificare le stragi e di spaventare gli europei, riuscendoci.

I russi vogliono uccidere gli ucraini, cancellare la lingua ucraina, negare l’indipendenza ucraina.

Gli ucraini non vogliono uccidere i russi, non vogliono cancellare la lingua russa, non negano il diritto dei russi di avere un loro Stato.

Gli ucraini si sentono europei, occidentali e democratici. Non vogliono i russi in casa, perché sanno che cosa gli succede sotto occupazione. Gli ucraini vogliono essere indipendenti e resistono come possono, anche con il nostro aiuto, al secolare genocidio orchestrato dai russi.

Nessun russo si senta escluso da questa responsabilità.

La neolingua dei furbi che dà la colpa alla vittima. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 10 Ottobre 2022. 

Sia a destra sia a sinistra, uscito di scena Draghi riemergerà chi vuole ridurre le armi a Kiev e le sanzioni a Mosca. Antica scuola comunista, quel furbone del governatore campano Vincenzo De Luca ha preso tutti in contropiede. Appena ha sentito che Giuseppe Conte (reduce da un successo elettorale proprio nella sua regione) annunciava una manifestazione nel segno della colomba, ha preso per il braccio il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi e ha convocato una parata tutta sua. Il 28 ottobre, per giunta, nel centenario della marcia su Roma. Meno lesti di De Luca, tutti o quasi i dirigenti del Partito democratico, piccoli e grandi, si sono messi in sintonia con i tempi nuovi. Così, per gettarsi tra le braccia del Movimento Cinque Stelle, stanno cercando un modo non disdicevole di invertire la rotta e abbracciare la causa pacifista. I deputati Pd al Parlamento europeo, in otto, assieme a leghisti e pentastellati, hanno fatto proprio un emendamento di due deputati della sinistra irlandese anti Nato, Mick Wallace e Clare Daly. Altri europarlamentari Pd, compresa l’antifona, si sono trattenuti. Del loro capodelegazione, Brando Benifei, si è capito soltanto che nel caos ha votato prima sì e poi no (o viceversa). Chiaro che non si stavano dividendo tra chi era più o meno favorevole al negoziato. Bensì sul riavvicinamento al M5S.

Nelle settimane iniziali della guerra d’Ucraina, Enrico Letta era stato il più esplicito sostenitore delle ragioni degli aggrediti. Mentre altri leader politici italiani si perdevano in uno specioso dibattito sulle responsabilità remote del conflitto nonché sull’opportunità o meno di armare l’Ucraina e sanzionare la Russia, l’Italia ha avuto — anche grazie a Letta — una posizione coerentemente filoatlantica. Per merito soprattutto di Sergio Mattarella e di Mario Draghi. Così come dei terzopolisti. E persino, le va riconosciuto, di Giorgia Meloni, la quale, pur stando all’opposizione, in politica internazionale si è sempre schierata con il governo.

Uscito di scena Draghi, le cose saranno meno semplici. Giorgia Meloni avrà il suo daffare nel tenere a bada la voglia matta di Salvini e Berlusconi di riallacciare il dialogo con Putin. E a sinistra, pur restando Letta segretario pro forma per i prossimi sei mesi, già si annunciano festeggiamenti arcobaleno sulla scia di Conte e De Luca. In un labirinto di formule nelle quali sarà arduo individuare dov’è che si è imboccata la via che conduce ad un’unica meta: togliere (o ridurre) le armi a Kiev e togliere altresì (o ridurre) le sanzioni a Mosca.

Per quel che riguarda il tragitto sarà sufficiente dare un’aggiustatina alle parole. Basterà presentare come tappa dell’«escalation» ogni atto di guerra ucraino. Mai invece quelli russi siano anche missili su un campo giochi di Kiev. Quelle saranno sempre «reazioni». Il capo del governo di Kiev andrà poi definito «guitto», «fantoccio», un «irresponsabile», al quale lo stesso Blinken è costretto a inviare «pizzini perché si dia una calmata». La primavera scorsa le parti erano invertite. Biden e il segretario della Nato Stoltenberg avrebbero — secondo le stesse fonti — «bloccato tra marzo e aprile una bozza d’accordo Mosca-Kiev». Adesso invece il presidente statunitense, evidentemente, starebbe cercando un’intesa con Putin ed ecco che Zelensky, capo del «partito della guerra a tutti costi», prende iniziative inconsulte per far naufragare quelle trattative.

Il che legittimerebbe una lunga serie di stravaganti domande: fino a dove vuoi spingerti Zelensky? Vuoi destabilizzare Putin portandolo a compiere gesti inconsulti? Intendi forse trascinarci in una guerra mondiale? Dicci una buona volta a quali parti del tuo Paese sei disposto a rinunciare e lascia a noi il compito di trattare al posto tuo dal momento che tu non hai la serenità necessaria per dialoghi di questo genere. E fallo in fretta perché siamo stufi di pagare aumenti in bolletta per comprarti armi sempre più sofisticate. Nel frattempo, limitati a difendere le posizioni che hai già e non azzardarti a compiere azioni di guerra su terre che furono sì Ucraina ma che ora sono state incamerate dai tuoi aggressori.

Forse un giorno qualcuno di noi si stupirà di aver potuto far propri ragionamenti di questo genere. Capirà quel giorno l’implicito danno che — come ha scritto ieri su queste pagine Angelo Panebianco — si sta facendo all’idea stessa di Europa. C’è tuttavia un modo per salvare almeno in parte l’onore e la faccia. Facciamo sì che quelle «grandi manifestazioni per la pace senza bandiere di partito» partano ogni volta dai cancelli romani dell’ambasciata russa. E portiamo lì cartelli in cui sia ben identificabile il volto dell’uomo al quale è riconducibile l’attuale carneficina. Un luogo, villa Abamelek, tradizionalmente disertato dai cortei antimilitaristi dei decenni passati (eccezion fatta per quelli radicali di Marco Pannella). E anche dalle manifestazioni (non tutte, per fortuna) di questi giorni. Per i tristi motivi che ben si capivano allora. E che ben si capiscono anche oggi.

Non c’è vera pace senza verità. Non c’è verità senza libertà. Pace sì, ma a cominciare dal ritiro russo dall'Ucraina. È la piattaforma dell'appello lanciato da intellettuali come Luigi Manconi e Sandro Veronesi, e  politici come Marco Bentivogli. Il Dubbio il 10 ottobre 2022.

Pace sì, ma a cominciare dal ritiro russo dall’Ucraina. È la piattaforma dell’appello “Non c’è vera pace senza verità. Non c’è verità senza libertà”, lanciato da intellettuali come Luigi Manconi e Sandro Veronesi, e attivisti come Marco Bentivogli.

“Non c’è vera pace senza verità. Non c’è verità senza libertà”, recita l’appello.

«Come cittadini e associazioni chiediamo di mobilitarci su questa piattaforma:

Cessate il fuoco e ritiro immediato delle truppe russe dal territorio ucraino;

Fermiamo escalation nucleare e riprendiamo il percorso del disarmo dalle armi atomiche;

Riconoscere la piena indipendenza ed autonomia dello Stato Ucraino dalla Federazione Russa nei confini riconosciuti dalla comunità internazionale prima del 2014;

Riconoscere la libertà di parola e di obiezione di coscienza ai giovani russi;

Sostenere ed accogliere i cittadini russi che protestano contro l’aggressione e sfuggono alla coscrizione;

Agevolare l’insediamento di una Commissione internazionale di Verità e Riconciliazione sull’accertamento dei fatti avvenuti nel Donbass, in Crimea, in Ossezia del Sud, in Transnistria ed in Abkazia;

Cooperare al disarmo delle zone interessate dal conflitto odierno ed agevolare l’intervento dei Corpi Civili di Pace;

Cooperare per il funzionamento di negoziati che garantiscano una pace giusta e duratura.

Perché l’Europa, insieme ad altri, sia in prima linea nel costruire un nuovo quadro di pace e sicurezza per tutte e tutti, basato sul miglioramento delle democrazie, rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni paese. Non possiamo fermare la guerra con le nostre mani, ma insieme possiamo chiedere di far avanzare la pace! Siamo tutti Ucraini, Siamo tutti Europei».

Costruire mobilitazioni in ogni città a  partire da giovedì 13 ottobre a Roma, davanti all’ambasciata russa a Castro Pretorio.

Primi firmatari: Marco Bentivogli, Marianella Sclavi, Angelo Moretti, Riccardo Bonacina, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Costantino De Blasi, , Leonardo Becchetti, Luca Diotallevi, Angelo Rughetti, Angelo Moretti, Michele Boldrin, Mauro Magatti, Luca Jahier, Ernesto Preziosi, Flavio Felice, Roberto Rossini, Emanuela Girardi, Victor Magiar, Stefano Arduini, Giovanna Melandri, Mario Giro, Matteo Hallissey, Francesco Intraguglielmo, Piercamillo Falasca

Associazioni aderenti: Mean, Base Italia, LiberiOltre, Comitato Giovani per l’Ucraina, Rete dei Piccoli Comuni Welcome, Sale della terra, RLS, Casa del Giovane

La dottrina Marin. Appunti per i pacifisti: la guerra si ferma solo se la Russia lascia l’Ucraina. Christian Rocca su L'Inkiesta il 10 Ottobre 2022.

Il governo di Kyjiv sta vincendo ma editorialisti sedicenti democratici e putiniani di ogni ordine e grado gli chiedono di fermarsi, indignati per l’attacco al ponte di Crimea. Il loro cinismo è ripugnante, ma ora c’è il rischio che questo rossobrunismo faccia breccia anche nel Pd, che è stato fin qui un baluardo dei valori della democrazia liberale.

Nemmeno un editoriale, una manifestazione, una mobilitazione per provare a imporre o a suggerire la pace a Vladimir Putin, cioè a colui che se si fermasse finirebbe immediatamente la guerra in Ucraina.

Niente. Solo miserabili «Zelensky si fermi», rivolti a colui che se si fermasse finirebbe immediatamente l’Ucraina, non la guerra.

Solo «basta aiuti». Solo «basta armi», armi che nel caso dei sistemi antimissili che non abbiamo ancora fornito a sufficienza a Kyjiv salverebbero migliaia di vittime civili ucraine sotto il tiro dei criminali russi e che per il resto sono l’unica ragione per cui un intero popolo, un’intera nazione, un’intera cultura non è stata ancora cancellata dagli invasori.

Solo equidistanza tra aggressori e aggrediti, che equidistanza però non è. Semmai è una capitolazione all’imperialismo rossobruno, dettato dall’illusione che cedere all’aggressore magari ci risparmierà la sua ira, ci farà pagare meno le bollette e poi in fondo gli ucraini sono mezzi russi, scrivono in cirillico, che ce ne frega a noi.

Le manifestazioni pacifiste convocate dal Conte che da premier durante il lockdown ha umiliato l’Italia, l’Europa e la Nato facendo sfilare l’esercito russo per la prima volta in Occidente dalla seconda guerra mondiale, e poi le mobilitazioni sindacali “I Love Gazprom” e i suggerimenti via editoriale agli ucraini di non difendersi, di accettare lo status quo, di lasciar morire i propri connazionali sotto occupazione non sono una novità di metà ottobre.

Li abbiamo sentiti e letti e sopportati fin dal 24 febbraio, anzi da prima. Sono gli stessi mentecatti che prima negavano come fake news americane le notizie sulla mobilitazione russa ai confini dell’Ucraina, poi spiegavano che mai e poi mai Mosca avrebbe attaccato l’Ucraina, poi che Kyjiv sarebbe caduta in tre giorni, poi a mano a mano che l’invasore veniva allontanato dalla capitale che l’obiettivo russo non era mai stato Kyjiv, poi che la fornitura di armi occidentali avrebbe peggiorato la situazione degli ucraini e così via, di panzana in panzana. Erano bugie, analisi campate in aria e propaganda russa, in prima serata tv.

Ora che il favoloso popolo ucraino riconquista ogni giorno una città occupata illegalmente da Mosca, e che Mosca è costretta a mobilitare la popolazione civile per farne carne da macello in Ucraina, gli stessi sapientoni al servizio consapevole o no della propaganda del Cremlino chiedono senza pudore al governo di Kyjiv di fermarsi in nome della pace. Malimorté!

Sono gli “utili idioti” di Vladimir Putin. Sono tanti. Si trovano ai vertici dei giornali, dei partiti, dei sindacati. Sono gli stessi che nel 2018 avevano un programma elettorale ispirato alla peggiori panzane del Cremlino, gli stessi che sfoggiavano magliette di Putin e firmavano accordi politici col suo partito unico, gli stessi che invocano la resa ucraina dal primo giorno di guerra, gli stessi che tuonano ancora oggi contro la Nato e la globalizzazione con la posa caricaturale da reduci del comunismo.

Sono indifferentemente di destra e di sinistra, sono membri fondatori del bipopulismo perfetto italiano che avvelena il nostro dibattito pubblico.

Per fortuna, ci sono ancora i governi europei e occidentali e le istituzioni internazionali che, a differenza delle società (in)civili che animano il discorso pubblico sotto l’egemonia culturale dei troll russi, continuano invece a difendere l’Ucraina, la democrazia e tutti noi.

Quello che è successo nel weekend segna un punto di non ritorno nell’oscenità morale dei volenterosi complici di Putin. Gli ucraini hanno fatto saltare in aria un pezzo del ponte della Crimea, nello stretto di Kherc, costruito dai russi dopo l’invasione militare della penisola ucraina del 2014 e inaugurato con solennità da Vladimir Putin nel dicembre del 2019, quale simbolo monumentale dell’imperialismo aggressivo del Cremlino.

Un ponte costruito in territorio ucraino da Mosca per facilitare il flusso di mezzi militari russi in un’Ucraina occupata illegalmente secondo il diritto internazionale tranne che per i giuristi salviniani, per i Cinquestelle, per la feccia rossobruna e per gli opinionisti sedicenti democratici.

Un ponte costruito anche per traferire i russi in Crimea e deportare gli ucraini e i tatari dall’altra parte come ai tempi di Stalin, crimini sempre accompagnati dall’ipocrita retorica sovietica – cara anche al Comitato del Nobel che premia russi, bielorussi e ucraini – della fratellanza tra i due popoli che non sono fratelli manco per niente, visto che uno dei due stupra, violenta, affama e massacra impunemente l’altro da secoli.

I volenterosi complici italiani di Putin si sono dunque indignati per l’attacco al ponte che fino a qualche giorno abbiamo visto sui social che i russi hanno usato per trasferire in Ucraina una colonna di carri armati lunga qualche chilometro.

Eppure non hanno espresso alcuna riprovazione per i bombardamenti russi sugli ospedali e sulle scuole ucraine, per le stragi di civili alle fermate dell’autobus e nei centri commerciali, per il rapimento di migliaia di bambini, per le abitazioni private sventrate, per gli stupri, per le razzie. E nemmeno per le fosse comuni e per gli ultimi crimini di guerra commessi nel quartiere residenziale di Zaporizhzhia sabato notte e nel centro di Kyjv questa mattina.

E se gli attuali indignati del ponte hanno parlato o scritto dei crimini di guerra russi lo hanno fatto soltanto per sollevare dubbi sulla veridicità delle notizie, sospettate di essere sceneggiate hollywoodiane come suggeriva la propaganda del Cremlino.

Il fatto che proprio ora che l’Ucraina sta vincendo la guerra sul campo le venga chiesto di fermarsi è ripugnante, ancora più di quando le chiedevano di arrendersi perché tanto avrebbe perso lo stesso. Questi che sfilano in piazza e che postano sui social non sono pacifisti, parteggiano per la parte opposta, quella dei criminali russi.

Il virus della resa a Putin mentre Putin sta perdendo si sta diffondendo anche in ambienti che finora sembravano immuni, come nel Pd guidato da Enrico Letta che è stato il leader di partito piu seriamente solidale con gli ucraini. Ma adesso si è aperto un dibattito sulle ragioni della sconfitta elettorale del 25 settembre, e una di queste, secondo i leader del Pd, sarebbe proprio la scelta di schierarsi con l’Ucraina non apprezzata dagli elettori.

Ci sono già le prime avvisaglie di questa ulteriore capitolazione del Pd a furor di populismo: gli editoriali dei giornalisti d’area, i sette europarlamentari che hanno votato un emendamento dei rossobruni amici di Putin a Bruxelles (prima di rientrare nei ranghi e riprendere a votare insieme con gli altri), i soliti Orlando e Provenzano che inseguono il “leader fortissimo di tutti i partigiani per la pace”, per non parlare dell’alleato Fratoianni (preferito a Calenda) che marcia con Conte e vota contro gli aiuti militari all’Ucraina e contro l’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato.

Ovviamente il Pd non è ancora perso. Oggi su Linkiesta ospitiamo l’opinione della vicepresidente del Parlamento Europeo Pina Picierno, la quale spiega che gli elettori non si recuperano certo abbandonando gli ucraini e i principi fondativi del Pd. La stessa cosa scrive quotidianamente su Twitter Filippo Sensi.

Vedremo come si evolverà la partita per la successione a Letta ma – come dice Sanna Marin, la leader di un Paese alleato, la Finlandia, che per ragioni storiche e geografiche è molto più preoccupato dell’imperialismo russo rispetto a noi – «il solo modo per finire la guerra è che la Russia se ne vada dall’Ucraina».

La “dottrina Sanna Marin” è l’unica ricetta possibile per la pace.

Ipocrisie atomiche. Nelle fosse comuni dell’Ucraina è sepolta anche la presunta superiorità morale della sinistra. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'8 Ottobre 2022.

Nessuno pensa che si possa scherzare con il pericolo di una guerra nucleare. Ma chi lo agita per sostenere che dobbiamo scaricare Zelensky deve dirci cosa pensa che accadrà, durante e dopo l’ipotetico negoziato, nelle zone sotto occupazione russa

Qualunque cosa si pensi della cosiddetta egemonia della sinistra comunista e post-comunista – io penso sia stata assai sopravvalutata anche nei suoi anni d’oro, figuriamoci ora – è indiscutibile che si basava su due cardini: il fondamentale contributo dato dal Pci alla Resistenza e il collegamento, ovviamente carico di forzature propagandistiche, tra quell’esperienza e la tradizione risorgimentale. L’autorità del Pci di Palmiro Togliatti e dei suoi successori, anzitutto su un certo mondo della cultura, veniva da lì, da quell’operazione che aveva sin dall’inizio puntato a depotenziare il più possibile le spinte rivoluzionarie di una parte del movimento partigiano, che pure c’erano, per inserirlo piuttosto nel novero dei movimenti di liberazione e indipendenza nazionale, sotto l’effigie di Giuseppe Garibaldi.

L’operazione aveva una sua forza perché i comunisti a quella lotta di liberazione dal fascismo e dall’occupante tedesco avevano pagato il prezzo più alto di tutti. Le radici della cosiddetta superiorità morale della sinistra – comunque la si intenda e la si giudichi – affondano lì.

Ecco perché fa oggi particolare impressione sentire tanti presunti eredi di quella tradizione fare a gara con Giuseppe Conte nell’indebolire il sostegno italiano alla causa ucraina, formulando odiose circonlocuzioni per mettere in discussione gli aiuti, anche militari, alla resistenza del paese aggredito e alla sua lotta per la libertà, che è prima ancora, banalmente, lotta per la sopravvivenza della sua popolazione. Se ne è avuto più di un esempio anche dal dibattito nella direzione del Pd (dove comunque, grazie al cielo, simili posizioni appaiono ancora minoritarie, almeno ufficialmente).

Da quando è cominciata la controffensiva ucraina, praticamente ogni giorno, nelle zone via via liberate, emergono nuove fosse comuni e nuove camere di tortura, insieme con le infinite testimonianze sulle atrocità commesse dagli occupanti russi.

Nessuno pensa che si possa scherzare con il pericolo di un conflitto nucleare. Come si vede dalle ultime dichiarazioni di Biden, nemmeno gli Stati Uniti. Ma coloro che da tempo agitano questo spettro per sostenere che dobbiamo scaricare Zelensky, che dobbiamo pensare alla pelle nostra, che dobbiamo distinguerci dalla posizione di quei paesi che più si sono impegnati nell’appoggiare la controffensiva ucraina (definendoli addirittura «bellicisti», perché non avrebbero risposto alla richiesta d’aiuto degli aggrediti dicendo di mettere dei fiori nei loro cannoni), tutti costoro devono dirci cosa pensano che accadrà nei territori ancora occupati dai russi, durante e magari anche dopo l’ipotetico negoziato di pace da loro auspicato.

Tutti vogliamo la pace e speriamo che la guerra finisca al più presto. Io però mi sento di aggiungere che vorrei finissero anche i massacri, le torture, le deportazioni e tutte le atrocità di cui, da Bucha in avanti, abbiamo avuto una quantità di prove e testimonianze indipendenti che nessuna persona in buona fede può più mettere in dubbio.

Qualunque cosa accada, è inevitabile ormai che con l’andare del tempo quelle immagini e quelle testimonianze si accumulino e presentino il conto, oggi dalle pagine dei giornali e domani da quelle dei libri di storia. Da quelle stesse pagine i nostri figli e nipoti potranno sapere con precisione dove è sepolta la presunta superiorità morale della sinistra italiana. Là dove l’hanno portata i tanti politici, giornalisti e intellettuali che in questi mesi hanno ripetuto senza un fremito tutte le veline del Cremlino: nella più ignominiosa delle fosse comuni.

Pacifismo cieco. L’errore del Premio Nobel per la pace e la miopia degli intellettuali occidentali. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta l'8 Ottobre 2022.

Il Comitato che assegna il riconoscimento ha messo sullo stesso piano gli oppositori di due regimi che hanno invaso un paese libero e indipendente e chi subisce i loro crimini di guerra

All’ottavo mese di guerra della Russia all’Ucraina, il Comitato che assegna il premio Nobel per la pace non riesce ancora a distinguere l’Ucraina dalla Russia e la Bielorussia dalla Russia.

L’Ucraina, che vuole uscire da questo cerchio di rapporti tra impero e colonia, con questi gesti ogni volta viene spinta dentro, viene rimandata nella sua storia, dove l’impero le ha tolto la voce e il volto e lo continua di fare. Sia in Bielorussia sia in Russia ci sono figure che combattono per la libertà, ma né in Bielorussia né in Russia muoiono civili e bambini, non si vive sotto la minaccia nucleare, non si vive sotto la minaccia di bombardamenti e di perdere in un tratto tutto nella vita e la vita stessa per scelta di qualcuno. Scelta che non proviene solo da una persona, ma da una catena di persone, da un patto sociale, studiato da Hobbes e Locke, firmato tra il potere e il popolo.

Si può parlare di soldati russi che scappano dalla mobilitazione, si può parlare di attivisti bielorussi incarcerati, ma non si deve mai dimenticare l’inizio di tutto questo: che può essere l’annessione della Crimea e l’aggressione dell’esercito russo nel Donbas (anche se dopo il 24 febbraio ci sono persone che hanno versioni diverse pensando che in Donbas c’è stata una guerra civile, ma anche qui bisogna guardare alla radice e scorrere anni indietro per scoprire da dove arriva il mito russo del Donbas) e il silenzio come risposta dell’Occidente, o essere posto cent’anni fa tra il 1917 e 1922, o possono essere le purghe staliniane del 1937-1938, o il 1918, o la tragedia dei Kruty. L’inizio al quale l’Ucraina cerca di porre una fine e non prolungare le sofferenze radicate nella storia per le future generazioni, semplicemente difendendosi e finalmente con l’aiuto di quasi tutto il mondo.

Bisogna guardare alla radice e alla radice c’è l’Ucraina aggredita dalla Russia, che ha usato il suolo della Bielorussia sia per entrare nell’Ucraina del Nord verso Kyjiv sia come base per bombardare l’Ucraina. In estate, quando il popolo della Bielorussia è sceso in piazza, tutti si sono girati dall’altra parte, nessuno ha preso sul serio la situazione che si stava sviluppando sulle piazze di Minsk, lasciando dirottare da Lukashenka l’aereo a bordo con i civili europei e un dissidente della Bielorussia.

Non ci si può parare dietro il Nobel per la Pace che sembra cieco come tanti altri pacifismi, incluso quello di Giuseppe Conte con le sue manifestazioni di fatto pro Putin, senza entrare nella questione. Qui non si tratta dei meriti dei tre premiati, le due associazioni Center for Civil Liberties, ucraina, e Memorial, russa, e l’avvocato bielorusso Ales Bialitski. Si stratta dell’ennesimo sguardo miope degli intellettuali occidentali che in questi giorni come non mai dovrebbero sentire la questione da vicino. Invece di chiamare le cose per loro nome, stiamo ricadendo in un altro giro di giostra dove si preferisce guardare dall’altra parte.

Auguri Putin. Il premio Nobel per la Pace va agli attivisti per i diritti umani di Ucraina, Russia e Bielorussia. Linkiesta il 7 Ottobre 2022.

Il Comitato Nobel ha premiato Ales Bialiatski dalla Bielorussia perché «ha dedicato la sua vita a promuovere la democrazia e lo sviluppo pacifico nel suo paese d’origine», assieme all’organizzazione russa per i diritti umani Memorial e al Centro ucraino per le libertà civili

Ales Bialiatski è il vincitore del premio Nobel per la Pace del 2022, insieme alle Ong Memorial e il Centro per le libertà civili: la prima russa, la seconda ucraina. Bialiatski «ha dedicato la sua vita a promuovere la democrazia e lo sviluppo pacifico nel suo paese d’origine», ha affermato il comitato del Premio Nobel per la pace. L’attivista bielorusso è noto soprattutto per essere il presidente della Ong per i diritti umani Viasna, che fondò nel 1996 in risposta alla brutale repressione delle proteste di piazza da parte del dittatore bielorusso Alexander Lukashenko.

Memorial è una storica Ong per i diritti umani fondata in Russia nel 1987 da Andrei Sacharov, che ha a sua volta vinto il premio Nobel per la Pace nel 1975, e da altri attivisti per i diritti umani, in concomitanza con la caduta dell’Unione Sovietica. L’intento di Memorial era quello di documentare e testimoniare i delitti e gli abusi dell’era sovietica, in particolare del periodo stalinista.

Negli anni successivi, Memorial divenne la più grande Ong della Russia, aggiungendo alla sua attività di testimonianza e documentazione anche la difesa dei diritti umani e dei prigionieri politici. La sede russa di Memorial è stata chiusa nell’aprile di quest’anno, dopo che il regime di Vladimir Putin ha ristretto la libertà di espressione e l’attività delle ONG e dei media a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.

Il Centro per le libertà civili è un’associazione ucraina, con sede a Kyjiv, che prima della guerra lavorava per rafforzare lo stato di diritto in Ucraina. Sin dalla sua fondazione, il CGS ha monitorato le persecuzioni politiche nella Crimea occupata, documentato crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante la guerra nel Donbas e organizzato campagne internazionali per liberare i prigionieri politici del Cremlino.

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, il Center for Civil Liberties si è impegnato a identificare e documentare i crimini di guerra russi contro la popolazione civile ucraina.

Ales Bialiatski, Nobel per la Pace, detenuto al buio in Bielorussia. La magistratura russa sequestra gli uffici della ong Memorial a Mosca.  Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. La proponiamo online — senza firma a causa di una agitazione dei giornalisti del Corriere della Sera

Campioni perseguitati dei diritti umani: l’uomo arrestato 25 volte è dietro le sbarre nella semi-oscurità: con lui premiata l’organizzazione Memorial, dissolta dalle autorità russe, e il Centro ucraino per le libertà civili che documenta i crimini di guerra 

Difficile che questa volta arrivino le congratulazioni a denti stretti del Cremlino, come era successo l’anno scorso quando fu premiato il giornalista dissidente russo Dmitry Muratov. Anche quest’anno l’Accademia del Nobel punta i riflettori sul regime di Vladimir Putin, e su quello del dittatore satellite Alexandr Lukashenko. Ma il mondo è cambiato. Nessuna cortesia di facciata per i vincitori oppressi da parte degli oppressori. Visibili sullo sfondo, oltre la presidente del Comitato Berit Reiss-Andersen che annuncia i premi e oltre le porte di legno scuro dell’Istituto Norvegese del Nobel, ci sono la guerra in Ucraina e la repressione interna portata avanti meticolosamente dal governo di Mosca e da quello di Minsk.

Il sequestro degli uffici della ong

Tre premiati, un individuo e due gruppi. Un prigioniero, un’associazione fuorilegge, un’altra che cerca di documentare i crimini di una guerra in corso. Che cosa li accomuna? Secondo l’Accademia del Nobel, tutti promuovono «il diritto a criticare il potere». Denuncia dopo denuncia, caso su caso. Il costo è alto, e spesso vuole dire privazione della libertà. Il veterano della difesa dei diritti umani in Bielorussia, Ales Bialiatski, 60 anni, è attualmente in carcere; la storica organizzazione russa per i diritti umani Memorial, fondata nel 1987 nell’Urss, è stata sciolta dalle autorità di Mosca alla fine del 2021 con l’accusa di agire come «agente straniero»: per oltre 30 anni, Memorial ha raccolto e documentato le storie di milioni di persone fatte sparire dal sistema sovietico: un esercizio di memoria che non va a genio ai potenti di oggi, che fondano la loro retorica sul mito della fine dell’Urss come catastrofe. proprio in serata è arrivata la notizia che la magistratura russa ha ordinato il sequestro degli uffici a Mosca dell’ong Memorial. Memoria di ieri e di oggi: premiata con il Nobel anche l’organizzazione non governativa ucraina Center for Civil Liberties, fondata a Kiev nel 2007, che opera in un Paese vittima di una guerra di aggressione dove il rispetto della libertà e la ricerca della verità troppo spesso non sono stati una priorità.

L’uomo arrestato 25 volte

Ales Bialiatski è nato in Carelia, Russia, il 25 settembre 1962. Ha compiuto il suo sessantesimo compleanno in un carcere bielorusso. Non è la prima volta: Bialiatski ha fondato nel 1996 a Minsk il centro per i diritti umani Viasna, che significa primavera (spring96.org). Da allora è stato arrestato 25 volte. L’ultima nel 2020, quando in Bielorussia scoppiò la grande rivolta pacifica che sembrava sul punto di scalzare la dittatura di Lukashenko. Non è andata così, anche per via del sostegno fornito da Mosca al governo vassallo di Minsk. Oggi Bialiatski, laurea in storia e filologia, capelli incanutiti e barba sale e pele, è detenuto in una cella buia nel seminterrato di una prigione di massima sicurezza, secondo quanto denunciato da Viasna in un comunicato alla fine di settembre. Poca luce, quasi nessun accesso alla corrispondenza. Il suo non è un caso isolato. Soltanto nell’ultimo mese, fa sapere Viasna, 387 oppositori e manifestanti sono stati arrestati in Bielorussia. La notizia del Nobel, ammesso che lo abbia raggiunto nel seminterrato dietro le sbarre dove vive, sarà arrivata in differita. O con un supplemento di beffe e punizioni. La moglie, Natallia Pinchuk, ha ringraziato al suo posto: «Sono sommersa dall’emozione — ha detto all’agenzia France Press — Esprimo la mia profonda gratitudine al Comitato del Nobel e alla comunità internazionale per il riconoscimento al lavoro di Ales, dei suoi colleghi e della sua organizzazione». Una piccola grande luce, per un uomo arrestato 25 volte che vive prigioniero nell’oscurità.

Ales Bialiatski, chi è l'attivista bielorusso che ha sfidato il regime di Lukashenko. La Repubblica il 7 Ottobre 2022.

Fin dagli anni '80 è stato uno dei princiapli esponenti del movimento per i diritti e le libertà politiche contro il regime di Lukashenko, si è battuto per la liberazione dei prigionieri politici e l'abolizione della pena di morte. "Nonostante le enormi difficoltà personali e i ripetuti tentativi di metterlo a tacere, non ha ceduto di un centimetro nella sua lotta per la democrazia in Bielorussia", scrive il Comitato per il Nobel

Ales Bialiatski, premio Nobel per la Pace 2022, insieme ai russi di Memorial e agli ucraini del Centro per le libertà civili di Kiev, è uno storico attivista per i diritti umani in Bielorussia, in prigione dal 2020 quando ha preso parte, con migliaia di cittadini, alle manifestazioni contro le elezioni truccate dal governo autoritario di Lukashenko.

Bialitski, 60 anni, è il fondatore del Centro per i diritti umani Viasna ("Primavera"), che nacque nel 1996 in risposta alla brutale repressione delle proteste di piazza da parte di Lukashenko.

Premio Nobel 2022

Nobel per la medicina a Svante Paabo 

Nobel per la fisica ad Alain Aspect, John Clauser e Anton Zeilinger | Cosa è la meccanica quantistica

Nobel per la chimica 2022 a Carolyn Bertozzi, Morten Meldal e Barry Sharples

Nobel per la letteratura a Annie Ernaux

Nobel per la pace a Ales Bialiatski, ai russi di Memorial e agli ucraini del Centro per le libertà civili

"Ha dedicato la sua vita a promuovere la democrazia e lo sviluppo pacifico nel suo Paese. Nonostante le enormi difficoltà personali, Bialiatski non ha ceduto di un centimetro nella sua lotta per i diritti umani e la democrazia in Bielorussia", ha affermato il comitato del Premio Nobel.

Bialitski è stato arrestato e incarcerato per la prima volta nel 2011 con l'accusa di evasione fiscale, che ha sempre negato. È stato nuovamente arrestato nel 2020 a seguito di massicce proteste per quelle che secondo l'opposizione erano elezioni truccate in Bielorussia che hanno mantenuto Lukashenko al potere.

Detenuto senza processo

Dalla metà degli anni '80, Bialiatski è stato uno degli animatori del movimento per i diritti umani e politici in Bielorussia, ha condotto diverse campagne non violente e apartitiche per sostenere le libertà di una vivace società civile, da sempre impegnato contro la pena di morte e per la liberazione dei prigionieri politici.

In risposta, "le autorità governative hanno ripetutamente cercato di mettere a tacere", scrive il Comitato. "È stato incarcerato dal 2011 al 2014. A seguito di manifestazioni su larga scala contro il regime nel 2020, è stato nuovamente arrestato. È ancora detenuto senza processo". Il Comitato ha chiesto la sua immediata liberazione.

Nobel per la pace, la risposta di Mosca: sequestrata sede della Memorial ong. Un tribunale della Federazione Russa ha ordinato il sequestro degli uffici moscoviti della Memorial, l'organizzazione non governativa che - assieme all'attivista bielorusso Ales Bialiatski e all'ucraino Centro per le libertà civili - si è aggiudicata il Premio Nobel per la Pace. Orlando Sacchelli il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La risposta di Mosca al premio Nobel per la Pace conferito alla fondazione Memorial International assume il sapore della sfida. Il tribunale del distretto di Tverskoi ha decretato l'espropriazione a favore dello Stato della sede della Ong Memorial. Coincidenza? La decisione è arrivata a poche ore dalla decisione del Comitato norvegese, che ha conferito il premio per la Pace del 2022 all'attivista per i diritti umani bielorusso Ales Bialiatski, all'associazione per i diritti umani russa Memorial e all'organizzazione per i diritti umani ucraina il Centro per le libertà Civili.

Nobel per la pace all'attivista bielorusso e a due Ong (una russa e una ucraina)

Non è la prima volta, del resto, che la fondazione finisce nel mirino della Russia. Nel dicembre 2021 la Corte suprema russa aveva ordinato lo scioglimento della Memoria International, impegnata tra le altre attività nella conservazione e recupero delle storie delle vittime dei gulag sovietici.

La Russia con questa decisione rabbiosa cancella un pezzo importante della propria stessa storia. L'associazione Memorial è nata in Unione sovietica alla fine degli anni Ottanta per promuovere la ricerca storica e tutelare la memoria delle vittime dello stalinismo. In seguito ha aperto altre sedi, nel territorio russo e all'estero: in Ucraina, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Italia e Polonia.

Dopo la notizia del prestigioso riconoscimento ricevuto Oleg Orlo, leader storico dell'ong russa, aveva commentato in questo modo: "È un onore ricevere il premio Nobel insieme all'ucraino Center for Civil Liberties. Noi siamo sotto pressione, loro sotto il fuoco del nostro esercito. E anche in queste condizioni continuano a lavorare. È un immenso onore essere al loro fianco". Questo Nobel, ha aggiunto il presidente di Memorial international Ian Rashinski, dà "la forza morale a tutti i militanti russi dei diritti umani" in "tempi deprimenti".

La reazione stizzita alle scelte per il Nobel. Ucraina furiosa, Kiev voleva il Nobel per la Pace: “Premio a Russia e Bielorussia che ci attaccano”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Ottobre 2022. 

Una reazione stizzita da Kiev dopo l’annuncio del Comitato per il Nobel del Premio per la Pace andato, tra gli altri, al dissidente bielorusso Ales Bialiatski e all’associazione per i diritti umani russa Memorial. La scelta di Oslo di conferire il riconoscimento ad esponenti di due Paesi che, direttamente nel caso russo, o indirettamente nel caso di Minsk, hanno attaccato il Paese invaso dal febbraio scorso ha provocato reazioni scomposte da personaggi vicinissimi al presidente Volodymyr Zelensky.

L’attacco più duro e più sopra le righe arriva via Twitter da Mykhailo Podolyak, consigliere del capo dell’ufficio del presidente ucraino, che non usa mezzi termini: “Il Comitato per il Nobel ha una concezione interessante della parola ‘pace’ se rappresentanti di due Paesi che hanno attaccato un terzo ricevono il Premio Nobel insieme. Né organizzazioni russe né bielorusse sono state in grado di organizzare la resistenza alla guerra. Il Nobel di quest’anno è ‘fantastico‘”.

Parole che creano un caso politico e che si scontrano con una strana concezione della pace e della libertà a Kiev. Si guardi al caso di Ales Bialiatski, il dissidente bielorusso premiato col Nobel, che per le sue battaglie a favore dei diritti umani e contro la tirannia imposta al Paese dal presidente Alexander Lukashenko si trova in carcere dal 2020, ‘reo’ di aver partecipato a proteste di massa seguite alla vittoria alle elezioni di Lukashenko, il tutto senza aver subito ancora un processo.

Per il consigliere di Zelensky il 60enne Bialiatski, dal carcere, dovrebbe dunque “organizzare la resistenza alla guerra”. Ma lo stesso discorso vale anche per la Ong Memorial, fondata nel 1987 in Russia da Andrei Sacharov, già vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1975: un attacco senza senso da parte di Kiev a chi da decenni si oppone al regime di Vladimir Putin e che proprio per questo nel 2014 fu aggiunta alla lista degli “agenti stranieri”, una formula che per la legge russa indica persone o organizzazioni che secondo il governo ricevono fondi dall’estero per svolgere attività antigovernativa.

Una reazione scomposta che nasconde forse il malcontento per la mancata assegnazione del Premio proprio al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che alla vigilia del conferimento del Nobel era nella lista dei grandi favoriti, potendo già godere dell’inserimento nella lista Time 100 del 2022 e del ‘traino’ da parte della totalità o quasi della stampa e governi del pianeta, come “eroe” della resistenza di Kiev di fronte all’invasore russo.

Ma da Kiev anche le reazioni al conferimento del Premio da parte del Comitato di Oslo sono state contrastanti. Andriy Yermak, capo di gabinetto della presidenza ucraina, ha sottolineato, in un messaggio su Telegram, che “il popolo ucraino oggi è il principale artefice della pace, nell’ambito della quale dobbiamo esistere senza aggressioni“.

Un ulteriore segnale della bontà della scelta di Oslo arriva poi da Minsk. Al Paese guidato dal dittatore Alexander Lukashenko di assegnare il Nobel per la Pace al dissidente Ales Bialiatski non è affatto piaciuta. “Negli ultimi anni diverse decisioni del comitato per il Nobel sono state così politicizzato che, scusate, ma Alfred Nobel si sta rivoltando nella tomba“, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri bielorusso, Anatoly Glaz.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Nobel per la Pace 2022, l’ennesimo atto di un premio usato a fini geopolitici. L'Indipendente il 7 ottobre 2022. 

Il comitato norvegese ha assegnato il premio Nobel per la pace all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, all’organizzazione per i diritti umani russa Memorial e a quella ucraina Center for Civil Liberties. Sono quindi ben tre i destinatati del premio e hanno tutti un tratto in comune: l’opposizione al regime russo, dato che conferma come un’istituzione apparentemente super partes come quella del premio Nobel non sia in realtà scevra da connotazioni profondamente politiche e da caratteristiche che vanno lette in un contesto culturale preciso e delimitato, quello occidentale.

Ales Bialiatski è un attivista bielorusso noto per aver fondando nel 1996 l’organizzazione Viasna, per contrastare il crescente potere dittatoriale del presidente Lukashenko – oggi sostenitore di Putin – offrendosi di fornire sostegno ai manifestanti incarcerati e alle loro famiglie. Negli anni successivi, Viasna ha assunto le caratteristiche di un’importante organizzazione per i diritti umani che ha documentato su larga scala le violenze delle autorità contro i prigionieri politici. Le autorità governative hanno più volte cercato di frenare l’attività di Bialiatski, imprigionandolo tra il 2011 e il 2014 e poi nuovamente nel 2020: tutt’ora l’attivista è detenuto sera regolare processo.

Memorial è invece un’organizzazione per i diritti umani fondata nel 1987 da attivisti dell’ex Unione Sovietica i quali, riporta il sito del Premio Nobel, “volevano garantire che le vittime dell’oppressione del regime comunista non fossero mai dimenticate”. Tra i fondatori dell’organizzazione vi è anche il Nobel per la Pace 1975 Andrei Shakarov. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica l’organizzazione è cresciuta sino a diventare la più grande a tutela dei diritti umani in Russia, creando anche un centro di documentazione sulle vittime dell’era staliniana e raccogliendo informazioni “sull’oppressione politica e sulle violazioni dei diritti umani in Russia”. Nel 2021 le autorità russe hanno disposto la liquidazione forzata dell’organizzazione e la chiusura definitiva del centro di documentazione.

Il terzo vincitore del premio, il Centro per le Libertà Civili, è stato fondato nel 2007 a Kiev allo scopo di promuovere diritti umani e democrazia in Ucraina. Dall’invasione russa del Paese, il Centro “si è impegnato per identificare e documentare i crimini di guerra russi contro la popolazione civile ucraina” e, collaborando con altri partner internazionali, “sta svolgendo un ruolo pionieristico al fine di ritenere le parti colpevoli responsabili dei loro crimini.

Il centro norvegese conclude affermando che, con l’assegnazione di questi tre premi, intende “onorare tre straordinari campioni dei diritti umani, della democrazia e della coesistenza pacifica nei Paesi vicini, Bielorussia, Russia e Ucraina“. La partita si gioca quindi ancora una volta tutta lì, sulla linea di divisione tra polo russo e polo occidentale, arginando la storia del mondo entro i margini delle esigenze di pochi. Lungi dal voler mettere in dubbio l’encomiabile lavoro dei tre vincitori, non si può tuttavia non notare come, anno dopo anno, l’assegnazione del Nobel per la Pace riproponga le posizioni congeniali solo ad una parte, e come non possa considerarsi esente da caratterizzazioni politiche funzionali alle esigenze di Europa e Stati Uniti.

Erano infatti ben 343 i candidati al Premio – dei quali 251 nomi individuali e 92 organizzazioni internazionali -, tutti con caratteristiche alquanto eterogenee. Tra i nominati vi erano, per esempio, Maria Elena Bottazzi e Peter Hotez, i quali hanno sviluppato un vaccino contro il Covid non coperto da brevetto e quindi accessibile a tutti i Paesi poveri. Nella lista dei candidati favoriti stilata dal Time figuravano personalità come l’attivista indiano Harsh Mander, che si batte contro la repressione delle minoranze religiose nel Paese e che nel 2017 ha fondato il movimento Karwan e Mohabbat, il quale presta sostegno alle famiglie delle vittime dell’intolleranza e dei linciaggi. Vi era poi Ilham Tohti, attivista uiguro che ha combattuto strenuamente contro l’oppressione del governo cinese nei confronti della comunità uigura musulmana, e il Governo di unità nazionale della Birmania, composto da funzionari – molti dei quali si trovano in esilio – che si oppongono al governo della giunta militare, la quale sta perpetrando un genocidio nel Paese contro i musulmani Rohingya e contro i manifestanti che chiedono una riforma democratica. Contesti di guerra, di lotta e di rivendicazione dei diritti, troppo lontani dall’ambito di interesse dei governi occidentali. [di Valeria Casolaro]

Da iltempo.it il 6 ottobre 2022.

Il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte vuole scendere in piazza per la pace, come annunciato in una intervista in cui esprime preoccupazione per l’escalation militare in Ucraina. L'uscita dell'ex premier suscita la reazione tanto forte quanto sorprendente nei modi e nei contenuti di Nona Mikhelidze, analista dell'Istituto Affari Internazionali.

Nel corso della punta di Coffee Break di giovedì 6ottobre, su La7, l'analista fa affermazioni pesantissime su Conte: "Non so perché, ma forse è una sensazione personale...  - premette Mikhelidze che poi attacca - Ogni volta che parla di Ucraina mi torna in mente la lettera pubblicata dalla stampa italiana nello scorso aprile, in cui l'ex console russo a Milano Alexei Paramonov in cui minacciò personalmente Conte e altri politici che se non smettevano di sanzionare la Russia avrebbe svelato i contenuti dei rapporti tra Conte e  Putin", è l'allusione pesantissima dell'analista.

Della notizia a suo tempo non c'è stato un vero e proprio seguito "ma questo avvertimento mi torna sempre in mente", dice ancora Mikhelidze che si toglie un altro macigno dalla scarpa: "Immagino che questa marcia" per la pace del capo politico del Movimento 5 Stelle "finirà sotto l'ambasciata russa" è la stoccata finale,: "Perché l'unico attore che può fermare la guerra  la Russia".

Francesco Peloso per editorialedomani.it il 6 ottobre 2022.

Pace e guerra irrompono nel dibattito politico italiano in questa lunga fase post elettorale, mentre ancora il centrodestra sta cercando, non senza fatica, di trovare un accordo sulla composizione del nuovo governo. 

Nel frattempo, il conflitto in Ucraina è entrato, se possibile, in una fase ancor più critica rispetto ai mesi precedenti. L’avanzata dell’esercito di Kiev e la precipitosa ritirata russa hanno infatti aperto un nuovo scenario. Il Cremlino, più o meno esplicitamente, ha fatto sapere di essere pronto all’estrema ratio dell’uso di ordigni nucleari tattici per fermare le truppe ucraine. 

Da Washington informano che i timori per una mossa disperata di Putin in tal senso non sono così infondati e che, nel caso, gli Stati Uniti non resterebbero a guardare. In un contesto tanto complicato e carico di tensioni, di minacce vere o presunte, l’esigenza di aprire un negoziato per raggiungere almeno un cessate il fuoco è sempre più avvertita dall’opinione pubblica. 

In Italia, tradizionalmente, la voce più ascoltata in frangenti bellici internazionali, è quella della chiesa e del mondo cattolico in generale, tanto più se a sollevare l’urgenza di avviare negoziati per fermare le armi e i massacri è quella del papa. Del resto, la Santa sede è sempre stata un riferimento in epoca moderna nell’impegno per la pace, il disarmo, la distensione, e il momento attuale non fa eccezione: Francesco fin dal principio dell’invasione russa ha cercato una strada per ricomporre il quadro di difficile convivenza che era andato in frantumi a oriente.

Lungo questo crinale si muove il leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, che sta cercando di capitalizzare la tendenza ampiamente diffusa nel nostro paese, e registrata ormai da numerosi sondaggi, a restare piuttosto equidistanti rispetto al conflitto in corso (rilevamenti Ipsos), mentre il timore maggiore non riguarda tanto il rischio di un allargamento ad altri paesi della guerra quanto le sue conseguenze economiche. 

Dubbi consistenti sussistono pure sull’efficacia delle sanzioni. Così, l’intervista rilasciata ieri da  Conte ad Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale, non poteva passare inosservata. «Pace non può essere una parola associata alla debolezza. E le parole di papa Francesco non indeboliscono certo la comunità internazionale. Desta perplessità poi la decisione ultima di Zelensky di bandire la pace con decreto», ha detto l’ex presidente del Consiglio in merito all’ipotesi id una manifestazione per la pace indetta dalla società civile e alle sue implicazioni politiche.

«L’anelito di pace non può in nessun modo minare la statura del nostro paese. Al contrario, ritengo che questa iniziativa rafforzerebbe il ruolo dell’Italia. Una iniziativa con la società civile consentirebbe all’Italia di ritrovare un protagonismo diplomatico, ovviamente coinvolgendo gli altri partner Ue». 

«Finora – ha aggiunto Conte – l’Europa risulta non pervenuta: purtroppo appare totalmente appiattita su questa strategia angloamericana, e questo mi preoccupa per gli scenari geopolitici futuri. Stiamo parlando di una guerra su suolo europeo e allo stato anche un eventuale negoziato di pace si svolgerebbe sopra la testa dei nostri paesi. Si prospetta un tracollo di credibilità per l’intera Unione europea». Se questa mobilitazione si concretizzerà, «il Movimento ci sarà, anche senza bandiere».

Insomma, Conte ha deciso di giocare d’anticipo rispetto alle altre forze politiche e ha fatto sponda con la chiesa su un tema cruciale come quello della pace. 

L’intervista ad Avvenire conferma che la strategia messa in atto ha trovato interlocutori attenti nel mondo cattolico. Del resto, solo il giorno prima, in occasione della festa di San Francesco ad Assisi, il presidente dei vescovi italiani, l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, aveva toccato l’argomento in modo non equivocabile: «Il nostro Patrono, uomo universale, aiuti l’Europa a essere all’altezza della tradizione che l’ha creata e il mondo intero a non rassegnarsi di fronte alla guerra. Lui, amico di tutti, ci aiuti a sconfiggere ogni logica speculativa, piccola o grande, anonima e disumana, forma di sciacallaggio che aumenta le ingiustizie e crea tanta povertà». 

E ancora: «Con San Francesco crediamo che il lupo terribile della guerra sia addomesticato e facciamo nostro l’accorato appello di papa Francesco indirizzato certo ai due presidenti coinvolti direttamente (Putin e Zelensky, ndr) ma anche a quanti possono aiutare a trovare la via del dialogo e le garanzie di una pace giusta». 

Da sottolineare che sempre ad Assisi per le celebrazioni di San Francesco è intervenuto anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il capo dello stato nei mesi scorsi ha sostenuto una posizione dell’Italia fortemente in linea con quella ufficiale dell’Ue e della Nato, cioè di pieno sostegno alle ragioni dell’Ucraina anche attraverso la fornitura di armamenti.

Questa volta, però, ha usato accenti diversi rispetto alla crisi in corso, e non solo perché si trovava nella città di San Francesco: «Non ci arrendiamo alla logica di guerra che consuma la ragione e la vita delle persone e spinge a intollerabili crescendo di morti e devastazioni. Che sta rendendo il mondo più povero e rischia di avviarlo verso la distruzione. E allora la richiesta di abbandonare la prepotenza che ha scatenato la guerra. E allora il dialogo. Per interrompere questa spirale». 

Non è tanto un cambiamento rispetto alla scelta di campo compiuta, quanto piuttosto il segno di una sensibilità che sta mutando rispetto alla fase nella quale il conflitto è entrato. Né può essere ignorato che il Quirinale ascolta con attenzione i messaggi che arrivano da Oltretevere. Si sta coagulando allora, a partire da tante realtà associative di base, cattoliche e laiche, un inedito asse pacifista pronto a scendere in piazza col favore de Vaticano e con la sponda politica dei Cinque stelle?

Una sorta di replica, riveduta e corretta, di quanto avvenne con la guerra in Iraq del 2003 guidata dagli Stati Uniti? È presto per dirlo, ma lo scenario è tutt’altro che improbabile.

Restano tuttavia dei limiti e dei problemi anche all’interno di un ipotetico schieramento per la pace. Intanto in merito alle questioni attinenti al diritto internazionale; il papa, fra le altre cose, ha parlato del rispetto dell’integrità territoriale come di una delle basi per avviare negoziati di pace. 

Il che, tradotto, vuol dire non riconoscere le annessioni unilaterali di alcune regioni compiute da Mosca. Si tratta di un tema centrale, forse il cuore di ogni possibile negoziato, senza affrontare questo nodo qualsiasi proposta di trattativa rischia di restare nel limbo generico delle buone intenzioni.

Poi sorge la questione dei crimini di guerra commessi nei territori occupati da parte dei russi, si tratta di una questione estremamente delicata sulla quale, con ogni evidenza, Kiev non vorrà sorvolare. Il tema della gravità delle atrocità commesse contro la popolazione civile, è stato più volte sollevato dalla Santa sede. 

Lo stesso Francesco nell’angelus dedicato alla guerra di domenica scorsa ha affermato: «È angosciante che il mondo stia imparando la geografia dell’Ucraina attraverso nomi come Bucha, Irpin, Mariupol, Izium, Zaporizhzhia e altre località, che sono diventate luoghi di sofferenze e paure indescrivibili».

Infine, l’argomento più urgente, quello dell’escalation nucleare; il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, declinava nel seguente modo il tema nel corso della 77esima assemblea delle Nazioni unite: «La guerra in Ucraina non solo mina il regime di non proliferazione nucleare, ma ci pone anche di fronte al pericolo di devastazione nucleare, sia per escalation che per incidente». 

«Qualsiasi minaccia di uso di armi nucleari è ripugnante e merita una condanna inequivocabile», ha aggiunto Parolin. Problemi e approcci differenti che sono sul tavolo e che inevitabilmente interrogheranno tutti i protagonisti di una possibile mobilitazione per la pace. D’altro canto, anche la nuova maggioranza di governo dovrà misurarsi alla svelta con la crisi in atto e indicare la propria strategia rispetto ad alleanze, scenari internazionali e proposte di negoziati.

Giravolte populiste. Giuseppe Conte chiama a raccolta in piazza i pacifisti di destra e sinistra. L'Inkiesta il 7 Ottobre 2022.

L’Avvocato del Popolo sulle armi a Kiev dice che «l’Ucraina ormai ha gli armamenti per combattere, è ben equipaggiata. Dobbiamo puntare su un negoziato di pace. Piuttosto, mi chiedo se e quali cautele siano state prese rispetto a un attacco nucleare, anche in Italia. C’è un piano al riguardo?»

«Auspico una manifestazione senza sigle e senza bandiere, aperta a tutti i cittadini che nutrono forte preoccupazione per il crinale che il conflitto in Ucraina sta prendendo, esponendoci al rischio nucleare. Mentre il tema di un negoziato di pace sembra relegato sullo sfondo».

Il leader del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte consegna in un’intervista al Fatto Quotidiano la sua proposta da nuovo capopopolo dei pacifisti italiani. Dopo aver lanciato l’iniziativa su Avvenire, Conte dice che vorrebbe in piazza anche «gli elettori di centrodestra. La pace non ha colori. Dobbiamo concentrarci su ciò che unisce rispetto a quelle che possono essere le varie sensibilità. Serve una svolta condivisa, una forte spinta verso il negoziato, che rappresenta l’unica via di uscita da questa guerra».

L’Avvocato del Popolo sostiene che il negoziato «non può essere affidato solo alle parti belligeranti, ma deve essere un percorso per vincere le resistenze innanzitutto di Putin. L’importante è che sia abbracciato con piena convinzione: se non si è convinti che questa è la soluzione è difficile persuadere altri. La strategia che stiamo perseguendo ci sta portando a un’escalation militare, e non contempla sforzi convinti e costanti per una trattativa. Detto questo, ritengo necessaria una conferenza internazionale di pace, sotto l’egida dell’Onu, e con il pieno coinvolgimento della Santa Sede».

E sulle armi a Kiev dice che «l’Ucraina ormai ha gli armamenti per combattere, è ben equipaggiata. Dobbiamo puntare su un negoziato di pace. Piuttosto, mi chiedo se e quali cautele siano state prese rispetto a un attacco nucleare, anche in Italia. C’è un piano al riguardo?», si chiede.

Secondo Conte, «siamo arrivati all’escalation militare. Chi ha costruito la strategia che ci ha portato a questo ci dovrebbe dire quali garanzie offre sul fatto che non si farà ricorso ad armi non convenzionali».

La proposta di una manifestazione. In piazza per la pace nonostante Giuseppe Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Ottobre 2022 

Giuseppe Conte, dalle colonne del giornale dei Vescovi, Avvenire, ha lanciato l’idea di una manifestazione pacifista. Il Riformista, sui temi della guerra in Ucraina, ospita dall’inizio tutte le posizioni. Quelle di Paolo Guzzanti, quelle dei radicali e dei Dem, quelle del Vaticano e del papa. Opinioni diverse e spesso opposte. Naturalmente anche le mie, che – su questi temi – sono un seguace ateo del papa.

Personalmente sono convinto che nella vicenda della guerra ci sia un grande assente: il movimento pacifista. Non si è sentito, o è stato molto debole. Sono passati 20 anni dalla gigantesca manifestazione pacifista che riunì milioni di persone in piazza contro la guerra in Iraq e in Afghanistan (l’invasione americana). E sono passati 30 anni, quasi, dai cortei dei pacifisti contro l’invasione della Jugoslavia. Il movimento pacifista, dopo quei grandi successi, fu sconfitto. E forse non si è mai ripreso.

Ora la proposta di scendere in piazza viene dal capo dei 5 Stelle. Ho sempre considerato il Movimento 5 stelle una organizzazione qualunquista, giustizialista e e sostanzialmente reazionaria. La più lontana possibile dalla sinistra.

Ma il pacifismo non è una cosa di proprietà della sinistra. È di tutti. Più è largo più è forte. Se l’idea di Conte avrà un seguito, se la manifestazione ci sarà, spero che moltissime persone aderiranno.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

L'escalation del conflitto in Ucraina. Perché Putin manda le bombe atomiche al confine con l’Ucraina: la minaccia dello zar. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Ottobre 2022 

Gli altoparlanti fissati sui pali nella neve ripetevano all’infinito, scandendo le sillabe la stessa sequenza: “Ein, Zwei, Drei: Stalingrad, Massengrab”. E di nuovo: “Ein Zwei, Drei, Stalingrad-Massengrab”. I soldati tedeschi che avevano invaso la Russia e combattevano forsennatamente per entrare a Stalingrado sapevano il significato di quella sequenza di parole pronunciate da una voce metallica: ogni tre secondi un soldato invasore crepa nella fossa comune di Stalingrado, non uno di voi uscirà vivo dal vostro inferno.

Per decenni i documentari hanno riprodotto quel rap che dava il ritmo della caduta dei cadaveri tedeschi nella fossa comune. Il gruppo dei “Panzerfaust” ne fece uno spettacolo esaltante che si concludeva con queste parole “The god of war had gone to the other side”, il dio della guerra ha cambiato campo e sta per chi combatte per la sua terra invasa, prima di inseguire l’invasore sulla sua terra e uccidere il loro mandante. È sembrato ovvio per quasi ottant’anni che non ci fossero dubbi chi fossero i buoni e chi i cattivi, a Stalingrado, dove si gridava all’invasore: vattene, se non vuoi essere ucciso. Italo Calvino scriverà “Avvoltoio vola via, via dalla terra mia”.

Leggo con costernazione che il Direttore di questo giornale, Piero Sansonetti, non è più d’accordo perché sostiene, in analogia, che se Vladimir Putin avesse pronunciato una frase come questa: “Ucraini, ribellatevi a Zelensky oppure vi uccideremo ad uno ad uno” ci sarebbe stato uno scandalo di proporzioni mondiali e sarebbe stato chiesto subito un processo internazionale per crimini contro l’umanità per Putin, perché “non è forse un crimine contro l’umanità minacciare uno sterminio?”. Confesso di essermi confuso e di non riuscire più a dipanare la matassa: dunque se l’invaso, come l’Urss del 1941, minaccia di uccidere gli invasori ad uno ad uno è un criminale di guerra? Se mi impancassi in una polemica a colpi di specchi incrociati e rovesci della medaglia non ne usciremmo più e non è davvero tempo di perder tempo. In questo momento, mentre voi leggete, un gigantesco convoglio militare di dimensioni straordinarie ma ben noto a tutti gli Stati Maggiori del mondo, sta attraversando la Russia per portare i suoi apparati di detonatori atomici in direzione del fronte ucraino.

Come va interpretato? Un carro allegorico o una minaccia di sterminio? Sono d’accordo anch’io: minacciare uno sterminio, dovrebbe essere un crimine contro l’umanità. Ma non si deve drammatizzare, anzi: proviamo a sorridere come si fa al Cremlino dove Putin e Medveev in questi ultimi due giorni hanno ripetuto, l’uno con l’animo irato della digestione acida, e l’altro, quello vero, con l’abituale compostezza, che l’uso della bomba atomica è una questione militare e non morale, perché se la bomba serve, serve. Ma adesso è il popolo ucraino che si scrolla di dosso un’armata di ferraglia cingolata priva di uomini capaci di combattere per una causa. L’esercito russo è fatto di soldati bambini che scappano e abbandonano i tank per chiedere alle mamme ucraine di prestargli il cellulare con cui chiamare casa, come l’alieno Et.

Ma dilaga la moda di guardare dall’altra parte, quella del muro bianco nella nebbia, simulando che esista un enorme spazio per i diplomatici e per politici non meglio identificati, i quali come i Sette Nani dovrebbero fermare la strage, trovare la quadra e in definitiva imporre agli ucraini di perdere le loro terre rubate a mano armata e abitate da gente che anche se parla russo – come lo stesso Zelensky, vuole essere e restare Ucraina, non vuole tornare sotto Mosca e non avrete visto un solo fi ore, un solo abbraccio per i soldati russi invasori dai loro pretesi connazionali, impegnati a sparagli con tutte le armi che avevano in casa. Putin del resto ha confessato di non avere la più pallida idea di quali siano i confini delle terre appena conquistate e annesse, ma che stanno già tornando giorno dopo giorno nelle mani ucraine con grandi festeggiamenti e pianti e abbracci e ringraziamenti e gli spettri che tornano alla luce dalle cantine in cui hanno vissuto sussurrando in russo, per sfuggire ai russi.

Per la prima volta Putin e il suo corpo d’armata sono stati presi in giro dalla televisione russa perché considerati ridicoli e nemici dell’onore russo. Le ultime dal fronte dicono che esiste una corrente di pensiero militare russo che suggerisce di compiere su territorio russo, ma ai confini dell’Ucraina una “esercitazione atomica” per far capire dall’altra parte della frontiera l’effetto che fa. Altri favoleggiano di bombe tattiche piccolissime che non esistono perché una bomba tattica è come quella di Hiroshima E qui vorrei toccare, in tollerato dissenso col direttore Sansonetti, la questione dell’invio delle armi e del loro valore morale. Lo dico a chi ha più di cinquanta anni, perché la guerra del Vietnam finì nel 1974 ed è proprio di quella guerra che voglio parlare, per arrivare alla connessione con questa guerra furba, truccata, retorica, cui viene negato l’ethos, cui viene negato il valore umano, il valore delle donne che fuggono per salvare il futuro dell’Ucraina mentre padri, fratelli e mariti sono al fronte.

Ricordiamo ancora una volta la guerra del Vietnam, un piccolo Paese asiatico comunista e oggi alleato degli americani contro la Cina, che dopo la cacciata dei giapponesi si batté vittoriosamente contro due potenze occidentali, la Francia prima e poi gli Stati Uniti, vincendo entrambe le volte sul campo. E noi? Dove eravamo noi, in quegli anni? In strada. A urlare e sventolare bandiere vietnamite. Mia fi glia piccolissima, era il 1966, mi chiedeva: “Andiamo a gridare giù le mani dal Vietnam?” Ci spellavamo le mani per applaudire Ho Chi- Minh e il generale Giap e sono sicuro che nella folla c’eravamo tutti, sia io che Sansonetti e tutti quelli della nostra generazione inneggiando ai valorosi partigiani. Vietcong e al magnifico esercito nordvietnamita che travolse sul campo di battaglia prima i francesi a Diem Bien-fu nel 1954 e poi la superpotenza mondiale americana.

Vinsero, i vietnamiti, perché avevano il più forte esercito del mondo grazie ai milioni di tonnellate di armi, munizioni, vettovagliamenti, bombe, cannoni, che per dodici anni l’Unione Sovietica e la Cina popolare consegnavano ogni giorno al governo di Hanoi, il quale le smistava ai combattenti quell’esercito regolare e ai partigiani del Sud. Gli americani credevano di combattere contro dei guerriglieri con la cerbottana e invece avevano di fronte divisioni, reggimenti, plotoni, capitali, sergenti e colonnelli. Penso che sia a causa dell’età, ma ci credete? Non ricordo uno, uno solo di noi o del fronte opposto che dicesse: “Ma che cosa fanno Russia e Cina? Ma non vedono che fornendo le armi al Vietnam prolungano una guerra sanguinosissima (dodici anni e tre milioni di morti)? Ma quando mai”.

Gli americani ebbero la tentazione di colpire “i santuari” di cui russi e cinesi si servivano per rifornire i vietnamiti, come la Cambogia e il Laos, ma nessuno ebbe mai il fegato di sostenere che quella guerra si prolungava atrocemente soltanto perché due grandi potenze rovesciavano armi per miliardi di dollari con cui armare e resuscitare continuamente il piccolo esercito vietnamita. Ed è lì che la confusione mi voglie di nuovo. Non ho capito: è cosa buona che Urss e Cina sostenessero militarmente il loro alleato Vietnam aggredito da una potenza straniera come gli Stati Uniti, mentre invece oggi è male, malissimo, satanico, immorale che l’Ucraina sia sostenuta da chi ha paura della Russia comunque essa si chiami? Qualcuno mormora le due abusate parole: Guerra Fredda.

Abusate perché sottendono la finzione morale dello scontro ideologico fra capitalismo e comunismo, mentre ci fu, c’era e c’è uno e un unico scontro totalmente armato, militare, fra una Russia che cerca di papparsi l’Europa (come aveva programmato Stalin nel 1939 alleandosi con Hitler) e cacciare gli americani come risulta esplicitamente da tutti i verbali delle esercitazioni del Patto di Varsavia (la Nato dell’Est), che sono pubblici e pubblicati. Io non ricordo di aver visto nessuno protestare per l’invio delle armi al Vietnam. E neanche a Cuba, all’Eritrea, ovunque ci fossero focolai di guerre locali e no, Ero dunque cieco? Ero anche sordo? Piero Sansonetti a quell’epoca ci ammoniva o non ancora del male che con quelle armi si faceva all’umanità tutta? E i papi? Dove erano e che facevano i papi, oltre che morire e succedersi in lapidi con i numeri romani. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Putin minaccia l'atomica, Rampini umilia i pacifisti italiani: dove sono finiti? Il Tempo il 29 settembre 2022

I segnali sono ormai evidenti, la Russia e il suo presidente Vladimir Putin devono affrontare un dissenso crescente per la guerra in Ucraina, si per le conseguenze economiche, sia per la mobilitazione militare con centinaia di migliaia - se non milioni - di russi che saranno spediti al fronte. Anche tra i soldati il morale è sotto gli stivali. Il New York Times oggi ha pubblicato alcune conversazioni tra i militari in guerra e i loro familiari in cui i primi criticano la guerra e danno a Putin del pazzo. Nella puntata di giovedì 29 settembre di Stasera Italia, su Rete 4, l'editorialista del Corriere della sera Federico Rampini spiega che si accumulano "i segnali di difficoltà interna di Putin". 

Il giornalista si sofferma su un punto, un "argomento usato dai putiniani che non osano dirlo", ossia "l'invincibilità" di Putin, dovuta a un popolo "ultranazionalista e disposto a sofferenze illimitate". Ebbene, questo popolo ora "si accalca alle frontiere per scappare. Chi è in età di leva vuole fuggire dalla Russia. Aggiorniamo la nostra narrazione perché ci siamo costruiti dei miti su Putin e sulla Russia". 

Rampini, inoltre, vuole togliersi un sassolino dalla scarpa. Una "puntata di cattiveria verso i cosiddetti, sedicenti pacifisti Italiani", annuncia aa Barbara Palombelli, "quelli sempre pronti a scendere in piazza solo e soltanto contro Gli Usa o la Nato. Dove sono quando Putin minaccia l'uso dell'arma nucleare? Perché le piazze sono vuote?", è l'attacco di Rampini a i pacifisti che protestano solo se l'Europa invia armi all'Ucraina. 

Nascita e sviluppo del pacifismo internazionale. Il professor Renato Moro a «Passato e Presente» sulla Rai. La storia dei movimenti pacifisti viene ripercorsa dal professor Renato Moro e da Paolo Mieli a «Passato e Presente». Redazione spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Settembre 2022

Il tema della pace ha attraversato l’intera storia dell’umanità, ma soltanto negli ultimi secoli la sospensione definitiva dei conflitti è stata percepita come un obiettivo politico da raggiungere e non più soltanto come un’aspirazione irrealizzabile. L’ideale della pace raggiunge il suo sviluppo nel Novecento, quando, dopo gli orrori delle guerre mondiali, l’idea dell’abolizione della guerra si trasforma in un progetto concreto, promosso dalle associazioni pacifiste e condotto dalle nuove organizzazioni internazionali.

La storia dei movimenti pacifisti viene ripercorsa dal professor Renato Moro e da Paolo Mieli a «Passato e Presente», in onda oggi alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia.

Nell’opinione pubblica la cultura della pace si diffonde con la paura dell’atomica e della guerra definitiva. È del 1958 la prima marcia contro il nucleare, da Londra ad Aldermaston. Scienziati intellettuali, religiosi, pacifisti chiedono il disarmo. Manifestazioni si susseguono in tutto l’Occidente e il movimento pacifista cresce negli anni della corsa agli armamenti, fondendosi con i nuovi movimenti giovanili e non si ferma alla fine della guerra fredda, perché tanti sono ancora i conflitti che continuano a insanguinare il globo. Il 15 febbraio 2003, per protestare contro l’imminente attacco americano all’Iraq, a Roma sfilano in tre milioni. Nello stesso giorno, attraverso le nuove reti di coordinamento, centodieci milioni di persone manifestano in ottocento città del mondo.

L'Italia non è né carne né pesce. Zelensky vuole uccidere tutti i russi e c’è chi lo candida al Nobel per la Pace: l’appello del Papa non è a senso unico. Paolo Liguori su Il Riformista il 3 Ottobre 2022.

Siamo in uno stato di guerra, e non abbiamo la vocazione alla guerra, e non siamo nemmeno pronti ad essere in un’economia di guerra. Quindi rischia di abbattersi su di noi una serie enorme di conseguenze che solo in parte prevediamo. Ma a parte la questione economica o l’impegno bellico italiano questa situazione è un disastro perché le uniche parole serie, severe e razionali sono state dette dal Papa. E ancora una volta si tende a dimenticare che sono state dette e a farle passare sotto silenzio.

Le parole del Santo Padre sono state chiare: la guerra è un errore e un orrore e deve finire. Certo, i giornali di propaganda italiana titolano “Il Papa ha detto: Putin si deve fermare”, è ovvio lo Zar è l’aggressore e questa è stata la sua prima frase. Però ha pure detto che Zelensky deve ragionevolmente avviare un percorso di trattativa, perché non è possibile che il leader ucraino dica ai russi: “Vi uccideremo uomo per uomo”, e c’è pure chi lo candida al Premio Nobel per la Pace. Queste frasi non fanno parte dei nostri valori e della nostra cultura che è diversa da questi intenti bellici, militaristi e sanguinari di Zelensky.

Noi, l’Italia, non siamo né carne né pesce, anche se teniamo la difesa ucraina. Le parole del Papa tengono conto di queste differenze e dicono qualcosa all’umanità, non si può tollerare la prosecuzione della guerra. C’è chi guadagna sul conflitto come alcuni nostri alleati: gli Stati Uniti, la Norvegia, l’Olanda e altri stati hanno già deciso che sui costi dell’energia faranno per conto proprio a cominciare dalla Germania. Noi siamo presi in una trappola e dobbiamo capire che al di là degli interessi italiani, le parole del Papa vanno ben oltre, sono interessi del Mondo, dell’Umanità. L’ipotesi dell’uso di armi atomiche è terrificante per tutti.

Poi ci sarà una fine della guerra, certo, ma può essere la fine della guerra la distruzione dell’Ucraina? No. Può essere la distruzione della Russia? No. Possiamo pensare a un’Europa del futuro senza la Russia? No. È assurdo, perché in quei Paesi vivono migliaia di cristiani, e il Papa guarda a quello, e proprio guardando a quello capisce che non può esserci una cancellazione né dell’Ucraina né della Russia. Chi è insensibile? Chi guarda da oltreoceano, ma noi le parole del Papa le dovremmo valorizzare non tacere come si sta facendo nei giornali di propaganda italiani. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

La crisi e le responsabilità di chi tace. Zelensky è un sanguinario, il ruggito del coniglio degli imprenditori italiani: chiedono bonus e non la fine della guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Ad Assisi il presidente Mattarella ha parlato della necessità della pace e delle responsabilità di tutte le religioni nel difenderla. Un discorso importante ma anche ovvio. Il Papa aveva parlato qualche giorno fa con parole molto incisive ma la stampa è riuscita – diciamo – a silenziarlo. Dicono ce l’avesse con Putin, non è vero, ha fatto un appello anche a Zelenski.

Poi c’è un modo molto ‘annacquato’ di dire “siamo tutti per la pace”, e poi, come i laici, c’è chi dice che bisogna parlare d’altro. Vediamo che cos’è questo altro. E’ viltà. Oggi gli imprenditori italiani dicono “non ci possiamo permettere in questa situazione economica di parlare di pensioni, di tasse, non abbiamo le risorse economiche per parlarne”. Io dico che questo è il ruggito del coniglio perché non abbiamo mai sentito in questi mesi dire da loro “noi non possiamo permetterci di continuare una guerra come questa perché le aziende chiuderanno”. E’ inutile parlare delle conseguenze se non arriviamo alla causa. E la causa è la guerra.

Gli imprenditori americani, olandesi, norvegesi, ci guadagnano. Il resto dell’Europa ci sta rimettendo ed anche tanto. Gli imprenditori dovrebbero dire che l’unico modo per mettere un freno a tutto questo è fermare la guerra. Ma per fermare la guerra è necessario che non si vendano più le armi. E non è che noi siamo la stessa cosa di Zelenski. Lo vorrei ripetere perché qui si dice che la Russia è un Paese invasore e totalitario (e io sottoscrivo). Però dire che l’Ucraina ci rappresenta non è vero.

Quando un presidente dice ‘uccideremo tutti’ è un sanguinario e non mi rappresenta e soprattutto non rappresenta gli interessi del popolo europeo. Noi siamo stati zitti sul fatto che tutti i maschi sopra i 18 anni in Ucraina sono stati costretti a prendere le armi, coscritti obbligatoriamente. E c’è la legge marziale. Zelenski non ha gli stessi valori di un Occidente liberale. Non stiamo dalla sua parte perché abbiamo gli stessi valori, ma solo perché ce lo impongono gli Stati Uniti. Con gli Usa è diverso perché lori sì, hanno i nostri stessi valori. Però gli imprenditori tacciono, ma se tacciono gli imprenditori e poi chiudono le imprese, noi possiamo continuare a dire che ci vogliono i bonus, i ristori? Abbiamo il coraggio di dire che c’è bisogno che finisca la guerra. Tranne il Papa nessuno ha il coraggio di dirlo. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Luca Bottura per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.

Elon Musk, il miliardario sudafricano che ha fatto fortuna con le auto elettriche ma ha la sensibilità ecologica di un portapenne in alabastro, l'uomo che acquistò Twitter ma lo restituì perché è pieno di profili falsi, non prima di aver promesso che avrebbe fatto rientrare Donald Trump, che è falso anche visto di fronte, l'imprenditore che sta alla geopolitica come qualunque sindaco di Roma a un cassonetto immacolato, ha pubblicato ieri proprio su Twitter un sondaggio col quale proponeva un suo piano di pace a Putin e alle sue vittime:

1) Rifare i referendum in Donbass sotto la supervisione dell'Onu;

2) Cedere la Crimea ai russi "per sanare l'errore di Krusciov";

3) Neutralità dell'Ucraina in cambio delle forniture d'acqua. 

Nel concerto di pernacchie social che ne ha ricavato - molte delle quali incentrate sul fatto che un referendum vero c'è già stato, e lo vinse chi non voleva stare coi russi persino dalle parti di Sebastopoli - va rilevato l'ambasciatore ucraino in Germania, Andry Melnyk, che ha così postato: "La mia risposta molto diplomatica a Elon Musk: fottiti". Analizzata la vicenda, il turpiloquio gratuito, il fatto che la proposta di Musk abbia comunque ottenuto il 37 per cento dei consensi e cioè oltre 400.000 voti, spieghi il lettore con chi sta dei due contendenti e perché proprio Melnyk.

L'insolenza di Musk che ignora la storia. Roberto Fabbri il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale

Come tutti gli uomini di genio, il concretissimo Elon Musk certe volte stupisce per astrattezza. Il numero uno di Tesla, finora molto apprezzato a Kiev per averle messo a disposizione il suo sistema satellitare Starlink, si è messo in testa di fare il mediatore con Mosca. Ma la brillantezza con cui ha permesso all'Ucraina di aggirare i tentativi di hackeraggio dei russi non è la stessa che ha dispiegato nella sua bizzarra proposta, che ha indignato Zelensky ma è piaciuta subito al Cremlino, con tanto di complimenti al miliardario americano da parte del superfalco Dmitry Medvedev.

Secondo Musk che in passato ha ammesso di prendere decisioni sotto l'effetto di droghe e che per buona misura ha sottoposto i quattro punti del suo «geniale» piano ai suoi 107 milioni di follower su Twitter come un Beppe Grillo qualsiasi la pace si raggiungerebbe se Zelensky si decidesse una buona volta a riconoscere formalmente la sovranità russa sulla Crimea che Mosca ha strappato a Kiev nel 2014 e se venissero nuovamente tenuti sotto supervisione Onu dei referendum popolari nelle province ucraine occupate che Putin ha appena annesso alla Russia in base a consultazioni truccate. Kiev, inoltre, dovrebbe scordarsi Ue e Nato, impegnarsi alla neutralità e a garantire l'approvvigionamento idrico alla Crimea (russa).

Musk ricorda agli ucraini che fu «una erronea decisione presa nel 1955 dall'allora leader dell'Urss Nikita Krusciov» (che era un ucraino) a trasferire la Crimea dalla Russia all'Ucraina, all'epoca entrambe Repubbliche sovietiche. Il fatto che Putin se la sia ripresa usando la forza, esattamente come ha fatto nel Donbass e nelle altre due regioni ucraine appena annesse, non pare importante all'improvvisato mediatore.

Il quale forse ignora oltre ai principii del diritto internazionale - che se oggi l'Alaska è uno dei 50 Stati degli Usa lo si deve a una decisione presa nel 1867 dall'allora Zar Alessandro, che svendette agli americani quello che all'epoca sembrava un inutile e remoto possedimento coperto di ghiacci per una cifra ridicola pari a 140 milioni di dollari di oggi. Chissà cosa proporrebbe il signor Musk se Putin lo invadesse e se lo annettesse richiamando l'antica sovranità russa e una «decisione erronea» presa nel XIX secolo.

Federico Capurso per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.

Questa mattina il ministro della Difesa Lorenzo Guerini si recherà in audizione al Copasir per illustrare - secondo quanto filtra da fonti di governo - i dettagli dell'ultimo decreto per l'invio di nuovi aiuti militari in Ucraina. Decreto che, con ogni probabilità, verrà firmato entro la fine di questa settimana da palazzo Chigi. 

Caso vuole, però, che l'audizione di Guerini cada proprio nel giorno di san Francesco, scelto tredici anni fa da Beppe Grillo per festeggiare la fondazione del Movimento 5 Stelle. La coincidenza mette in fibrillazione Giuseppe Conte, che riunisce i suoi fedelissimi a Campo Marzio, sede del partito, per preparare la controffensiva nel giorno dell'anniversario pentastellato. 

Il leader è deciso a sollevare una nuova polemica contro il quinto decreto armi del governo Draghi (il primo ottenne il via libera nel marzo scorso). Vuole contrapporre «l'esempio pacifista» del santo di Assisi a quello di un governo che, a suo dire, non si sarebbe speso a sufficienza per riaprire la via del dialogo e della diplomazia, «l'unica in grado di condurre a una soluzione pacifica del conflitto», come ripete da settimane.

Conte oggi tornerà dunque ad alzare la sua voce contraria all'invio di armi a Kiev. Il leader M5S è convinto che il contributo italiano, a differenza di quello americano e inglese, non sia decisivo per i progressi fatti dall'esercito ucraino, che continua a riconquistare territori occupati illegittimamente dalle forze di invasione russe. Per questo, l'ex premier spinge perché sulla necessità di inviare ulteriori aiuti militari il governo torni a confrontarsi con il Parlamento e si sottoponga a un voto dell'Aula.

Il governo è però stato autorizzato proprio da Camera e Senato, nella scorsa primavera, a inviare armi in Ucraina senza dover necessariamente passare da un voto per ogni nuovo decreto, almeno fino alla fine di quest' anno. La posizione di contrarietà del Movimento 5 stelle, poi, era minoritaria prima delle elezioni e rischia di esserlo ancor di più nel nuovo Parlamento che si insedierà il prossimo 13 ottobre.

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 5 ottobre 2022.

Era un vecchio pallino di Giuseppe Conte, l'idea di una manifestazione «per la pace». Ne parlava quando il M5S ancora teneva un piede dentro e uno fuori dal governo. Prima della crisi, prima delle elezioni. Nel giorno del compleanno del M5S (13 candeline) l'ex premier cita San Francesco e rilancia l'idea. E fa breccia nell'ex campo largo: da Nicola Fratoianni a frange della sinistra Pd e dei cattolici dem. 

Tanti concordano, con diverse sfumature. Il leader stellato ripropone l'idea della piazza pacifista dalle colonne del quotidiano dei vescovi, Avvenire.

Il timing non è casuale: lo fa nel giorno in cui il ministro della Difesa uscente, Lorenzo Guerini, illustra al Copasir il quinto decreto sulle armi all'Ucraina. L'ex presidente del Consiglio pizzica le stesse corde della scorsa estate. «L'ossessione di una ipotetica vittoria militare sulla Russia - dice - non vale il rischio di un'escalation con ricorso all'utilizzo di armi nucleari e di affrontare una severa depressione economica da cui sarà difficile uscire». 

Dunque secondo il presidente del Movimento urge «una manifestazione, senza bandiere». Critica il decreto con cui Zelensky sospende i negoziati con la Russia. E si mette in scia alle richieste che giungono da più parti, dai territori, dal mondo cattolico. «La manifestazione - è convinto - rafforzerebbe il protagonismo dell'Italia sulla strada della diplomazia, coinvolgendo gli altri partner Ue e uscendo da questa situazione in cui l'Europa risulta non pervenuta».

Una data non c'è. Nemmeno una location, anche se probabilmente sarebbe Roma. Eppure la proposta trova consensi. Il primo endorsement, via tweet, arriva da Luigi de Magistris, capofila di Unione popolare. Si accoda Rifondazione comunista. Ma le aperture non arrivano solo dal fronte extraparlamentare, a sinistra del M5S. Al partito di Nicola Fratoianni l'idea piace. «Quando ci sono manifestazioni per la pace ci siamo sempre, purché non siano iniziative di parte», mette a verbale Elisabetta Piccolotti, della segreteria di Sinistra Italiana. «Per noi va sempre bene andare in piazza per la pace», commenta Arturo Scotto, coordinatore di Articolo 1, il partito di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza. 

Anche nel Pd si aprono spiragli.

Dice Laura Boldrini: «Ci sarò». Per l'ex presidente della Camera, «si sente la mancanza di una mobilitazione per la pace. Va rilanciata l'azione diplomatica ad alto livello, anche se Putin è un guerrafondaio. E il Pd deve esserci, non va lasciato un vuoto». Soprattutto se poi c'è il M5S a riempirlo. Per Gianni Cuperlo «qualsiasi manifestazione per la pace è auspicabile, anche se va confermato il nostro sostegno all'Ucraina. Ma il Papa non può essere lasciato da solo». 

L'ex ministro Graziano Delrio, esponente di punta dei cattolici dem, non ha dubbi: in piazza ci andrebbe di sicuro. «Sostegno alla pace e al negoziato sempre. Per questo abbiamo appoggiato gli sforzi di Draghi e Macron. E abbiamo sostenuto come gruppo Pd la manifestazione a Kiev del Movimento europeo azione nonviolenta». Altri, al Nazareno e dintorni, sono decisamente più freddi. Inquadrano la mossa come l'ennesima Opa a sinistra dei 5 Stelle. Non solo la corrente Base riformista di Guerini, che appoggia Stefano Bonaccini. «Ovviamente siamo tutti per la pace ragiona Matteo Orfini - E le manifestazioni per la pace sono sempre una cosa buona e giusta. Quanto a Conte, abbiamo avuto idee molto diverse su come la si costruisce. Consideravo le sue posizioni sul tema ambigue e discutibili. E non ho cambiato idea».

La marcia per la Pace al suo esordio umbro. Nel 1961 si svolse la prima manifestazione. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Settembre 2022.

«Una marcia della pace promossa da un comitato presieduto dal prof. Aldo Capitini si è svolta ieri con partenza da Perugia, arrivo ad Assisi e manifestazione conclusiva nel piazzale della Rocca maggiore». Si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 25 settembre 1961. Il filosofo e pedagogista Aldo Capitini, nato a Perugia nel 1899, fu un precursore del pacifismo e delle lotte per i diritti civili già a partire dalla metà degli anni Trenta. Sostenitore di ideali umanitari, durante il regime aderì al movimento clandestino liberalsocialista, declinando il suo antifascismo in una forma di opposizione non violenta.

L’idea di una manifestazione per la pace fu concepita nel corso degli anni ‘50, mentre il mondo era diviso in due blocchi contrapposti e la Guerra fredda in corso costringeva le nazioni ad una sfrenata corsa al riarmo. Incombeva, soprattutto, la minaccia di una guerra nucleare. Capitini immagina che il percorso debba avere come meta finale la città di Francesco, il santo italiano della non violenza. «Circa 1500 persone si sono mosse stamane da Perugia alle ore 8 ed hanno raggiunto a piedi Assisi camminando lungo il lato sinistro della strada e recando bandiere e grandi cartelli inneggianti alla pace, al disarmo e con scritte contro ogni forma di colonialismo e razzismo» racconta il cronista della «Gazzetta».

«Alla partenza da Perugia era stato reso noto il contenuto di una mozione nella quale si chiede che tutte le nazioni siano rappresentate all’Onu, che si addivenga al disarmo totale e si proceda alla distruzione di tutte le armi nucleari, utilizzando gli esperimenti atomici solo ed esclusivamente per motivi di pace. Ad Assisi, ai partecipanti alla marcia della pace si sono aggiunti numerosi torpedoni da varie regioni d’Italia. Fra i presenti l’ex presidente del Consiglio sen. Ferruccio Parri, delegazioni di vari comuni, tra cui una ufficiale di Marzabotto, personalità della cultura e alcuni giovani stranieri».

Intellettuali, professori, politici partecipano attivamente alla manifestazione: tra di loro il giurista Arturo Carlo Jemolo, lo scrittore e giornalista Guido Piovene, il pittore Renato Guttuso ed Ernesto Rossi, il padre del federalismo europeo. Con un coro unanime tutti gli aderenti all’iniziativa hanno espresso la speranza del disarmo mondiale.

Inizia così, sessantuno anni fa, una tradizione quasi mai interrotta: ancora oggi la marcia per la pace si svolge tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre e si snoda per un percorso di circa 24 chilometri.

Papa Francesco, "fine del mondo": Vaticano, indiscrezioni inquietanti. Renato Farina su Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022

Avviso ai naviganti, comandanti ed equipaggio dell'unica grande barca su cui l'umanità affronta la faticosa traversata della vita. È papa Francesco a diffondere un allarme che somiglia alle trombe del giudizio. Dice: se non si sarà un immediato «cessate il fuoco...», c'è il rischio di «un'escalation nucleare, fino a far temere conseguenze incontrollabili e catastrofiche a livello mondiale». Che cosa sa Francesco? Ispirazione dello Spirito Santo? Questo lo lasciamo ai credenti. Più prosaicamente il Vaticano è il terminale di una diplomazia che va ben oltre le rappresentanze ufficiali, ed ha sensori nei Palazzi dei potenti e nelle periferie dei miserabili.

Benedetto XV durante la Grande Guerra, Pio XII prima e durante la Seconda guerra mondiale. Fermatevi, o sarà «inutile strage», poiché «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Vado avanti: Giovanni XXIII (1962) quando pareva inevitabile lo scontro delle superpotenze a Cuba; Giovanni Paolo II e la segreteria di Stato evocando un infinito Vietnam in Iraq e Medio Oriente in caso di invasione americana (1991 e 2003). Poi Francesco prima per la Siria nel 2013, e poi... Poi, siamo a ieri, e forse oggi e domani con inedita drammaticità, sul fratricidio slavo scatenato dalla Russia ma con responsabilità - secondo Bergoglio - in capo alla Nato. Per questo ha «innanzitutto supplicato» Putin di smetterla, «almeno per amore del suo popolo», condannando le stragi e l'annessione illegale di quattro province ucraine, ma appellandosi «con fiducia» anche a Zelensky perché «si apra a proposte di pace serie». Inoltre rivolgendosi agli altri protagonisti (senza citarli: America, Nato, Ue, Italia, Cina, Turchia, tutti!) che si spartiscono il potere sulle nazioni sottraendoselo reciprocamente, ha chiesto di cercare il dialogo e una pace stabile, «utilizzando tutti gli strumenti diplomatici, anche quelli finora non utilizzati».

Pretesa impossibile! Chiedere in nome di Dio di rinunciare a schiacciare la testa della vipera e a una probabile vittoria richiede coraggio, umanità. Ma il Papa è anche molto pratico: lo impone il realismo, si rischia di morire tutti, vincitori e vinti, tutti sconfitti. Cronaca. Il Papa si è affacciato a mezzogiorno dalla finestra della terza loggia su piazza San Pietro e sul mondo intero per l'Angelus domenicale. Di regola commenta il Vangelo della messa, e solo dopo preghiera mariana che si conclude con la benedizione in latino pronuncia qualche parola sulla pace e sulla guerra. Così è stato anche per tutte le occasioni liturgiche dopo il 24 febbraio, data dell'aggressione russa all'Ucraina. Ieri ha cambiato il copione. Prima il giudizio sul rotolare spaventoso della vicenda umana, una «grande preoccupazione», dice, che lo fa passare senza soluzione di continuità (guardate le immagini su vatican.va) dal discorso al segno della croce e alle formule dell'incarnazione di Dio nel ventre di Maria.

Una svolta che non è una semplice variazione del cerimoniale drammatica al punto da imporre una domanda a chi lo ha ascoltato in diretta o ne ha letto l'intervento immediatamente rilanciato a libello globale. Niente Vangelo, ma quel che dal Vangelo deriva: pace, pace subito, o è la fine. Cosa sa Francesco più degli esperti di geopolitica e dei responsabili delle nazioni? Perché chi impugna lo scettro spirituale di massima autorità religiosa e morale del mondo mette a rischio questa reputazione? Pensiamoci prima di archiviare il monito come una predica esagerata. Qualcosa che egli sa di «grave, disastroso e minaccioso» glielo impone, gli fa rovesciare i banchi dei mercanti, scavalcare le buone maniere, calcare le sue scarpe ortopediche sul terreno della cruda analisi diplomatico-militare, e adopera l'arma di una retorica altissima.

«In nome di Dio e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate il fuoco. Tacciano le armi». Gioca forse a spaventarci per bucare la nostra proverbiale indifferenza su fatti che implicano la morte degli altri? O per riguadagnare, presso i media occidentali, la popolarità offuscata dalla mancata crociata contro la Russia, non avendo inviato neppure un'alabarda o un elmo michelangiolesco delle guardie svizzere a Kiev? Scusate il sarcasmo, ma questa era ed è ancora la pretesa di molti cattolici. Capitò così durante la seconda guerra mondiale, quando Pio XI si rifiutò di schierare «le sue divisioni» (copyright ironico di Stalin) dalla parte giusta della storia. Ieri in diretta mondiale ha implorato, senza aggiungere una parola al testo scritto, con un volto pietrificato, stringendo a pugno le dita e poi portandosele al cuore: pace! 

Armi all'Ucraina: le parole del Papa e la loro manipolazione. Piccole Note il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

mondo

“Papa Francesco afferma che armare l’Ucraina può essere ‘moralmente accettabile'”. Questo il titolo di un articolo del New York Times che riporta quanto dichiarato dal Papa in una conferenza stampa di ritorno dalla visita apostolica in Kazakistan.

Le parole di Papa Francesco

Abbiamo scelto un titolo a caso di un autorevole giornale dell’Impero in considerazione del fatto che i giornali mainstream locali quando si tratta di temi sensibili, come appunto la guerra ucraina, si limitano a riportare pedissequamente la narrazione d’Oltreoceano.

Anzi, normalmente, nello zelo di dimostrarsi soldatini obbedienti, vanno addirittura ultra petitutum, come nel caso in specie, dove quel “può essere” del Nyt è stato rafforzato in un placet incondizionato all’invio delle armi a Kiev. Così, ad esempio, la nostra (loro) Ansa titolava: “Papa Francesco: ‘Armi all’Ucraina? Difendersi è lecito'”.

In realtà, il Papa non ha fatto altro che ripetere quanto ha sempre sostenuto la Chiesa riguardo la legittima difesa di una nazione aggredita, ma sull’inviare armi all’Ucraina, questo il tema della domanda posta, ha fatto una specifica molto significativa, che i media mainstream hanno pensato bene di dilavare.

Così Francesco: “Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più. La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria” etc (Vatican.news).

Insomma, alla domanda ha risposto che occorre appunto vedere se dare le armi serve a difendersi o ha il solo scopo di allungare la guerra per lucrare sugli armamenti, che è appunto quel che tanti – i cosiddetti filo-putiniani, secondo la nouvelle vague maccartista – sostengono che sta avvenendo in questa guerra per procura contro la Russia che la Nato sta sostenendo fino all’ultimo ucraino. E probabilmente non è un caso che le perplessità di Francesco siano le stesso di quelle esposte dai critici di tale decisione.

Solo dopo, Francesco ha puntualizzato che la difesa della patria è, ovviamente, atto dovuto, anzi atto d’amore, secondo la sua valutazione. Così nelle parole del Papa non c’è alcun placet incondizionato a quanto sta facendo l’America e la Ue in questo conflitto.

Riflessione e dialogo?

Allo stesso tempo, non vogliamo arruolare il Papa tra i cosiddetti asseriti filo-putiniani, solo puntualizzare che, se pure le sue dichiarazioni non sono una  sconfessione recisa della “decisione politica” della Nato, suonano comunque come un invito alla riflessione.

Invito che fa il paio con quanto ha affermato di seguito, cioè che con la Russia occorre comunque cercare un dialogo per trovare vie di uscita dal conflitto, iniziativa che sembra fuori dall’orizzonte della Politica d’Occidente.

Peraltro, un cenno del tutto obliterato del suo discorso è quello riguardo al conflitto tra Azerbaigian e Armenia, che “si è fermato un po’ perché la Russia è uscita come garante”.

In questo tempo di fondamentalismi, nel quale la Russia deve essere dipinta come il male assoluto, questo cenno positivo suona in netta controtendenza (anche se poi Francesco ha dovuto pur aggiungere “garante di pace qui e fa la guerra lì”).

Informazione e manipolazione

Non abbiamo steso questa nota per tirare Francesco “per la manica”, nel caso specifico per la talare, e schiacciarlo su una posizione, cosa che peraltro non aggiungerebbe nulla alle possibilità di pace dal momento che il Papa non ha alcun potere in merito,  potendo solo pregare e suggerire ai fedeli di pregare il Signore perché ponga fine Lui a questa immane tragedia.

Si vuole solo evidenziare quanto sia manipolata, e in maniera anche volgare, la narrazione relativa alla guerra ucraina. Se non viene rispettata neanche una dichiarazione pubblica e facilmente verificabile del Papa – non un quisling qualsiasi – si può immaginare come sono trattati altri temi meno facilmente verificabili o non verificabili affatto su fonti sicure, essendo la verità ormai coincidente con la narrazione ufficiale.

Va da sé che tale manipolazione mediatica, alla quale sono consegnati o costretti i giornalisti mainstream, non è conseguenza della propaganda di guerra. La guerra infinita, di cui quella ucraina è solo l’ultima manifestazione, sono strutturate sulla menzogna organizzata, come ha dimostrato il suo momento epifanico, cioè la guerra in Iraq, con le immaginifiche armi di distruzione di massa di Saddam.

Sul punto riportiamo l’inizio di un articolo di Philip Giraldi pubblicato sul sito del Ron Pual Institute: “È stupefacente quanti osservatori della guerra ucraina, che avrebbero dovuto averne una maggiore comprensione, siano inclini a prendere alla lettera le affermazioni delle ‘fonti’ che provengono in maniera esplicita dai diversi governi coinvolti nel conflitto”.

“Quei leader ingaggiati nell’inesorabile marcia degli Stati Uniti e dei loro alleati per trasformare la crisi dell’Ucraina nella terza guerra mondiale hanno di certo imparato la lezione che gestire la narrazione di ciò che sta accadendo è l’arma più potente che i falchi della guerra abbiano nel loro arsenale.

“Si ricorda come dopo l’11 settembre e prima della guerra in Iraq, la Casa Bianca di George W. Bush e i neocon del Pentagono abbiano mentito su quasi tutto per convincere l’opinione pubblica che Saddam Hussein era un megalomane terrorista armato di armi di distruzione di massa, descrivendolo come una figura paragonabile ad Adolf Hitler”.

“L’Iraq in un certo senso è stata un’esperienza formativa per quanti al governo e nei media hanno fatto il lavoro pesante, propalando l’inganno a un’opinione pubblica per lo più ignara dei fatti. Ciò che stiamo vedendo ora in relazione all’Ucraina e alla Russia, tuttavia, fa sembrare l’esperienza dell’Iraq un gioco da ragazzi come audacia riguardo le presunte informazioni che fanno o non fanno notizia”.

“Noto, in particolare, che il recente attentato terroristico con un’autobomba alla giornalista attivista russa Darya Dugina da parte di un assassino ucraino ha fatto notizia per circa quarantotto ore prima di scomparire, ma non prima che la menzogna secondo cui il presidente Vladimir Putin ne fosse responsabile fosse fermamente radicata in un certo numero di articoli dei media mainstream”.

Papa don’t preach. La logica bislacca dei pacifisti che incolpano gli ucraini di non essersi arresi. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 21 Settembre 2022

Si può discutere degli errori e degli (eventuali) orrori di cui possono essersi resi responsabili alcuni ucraini, ma non si può sposare la retorica del Cremlino col risultato di formulare un’accusa ribaltata, finendo per accusare chi resiste a un’invasione

Ammettiamo pure che chi lo fa sia in buona fede, ma adoperare le parole del Papa opponendole alle pratiche peccaminose di un “partito della guerra” stanziato indifferentemente a Est e a Ovest di Kyjiv, significa svilire al rango di un dettaglio un dato di fatto che invece è eminente: e cioè che a durare ormai da molti mesi non è la guerra “in Ucraina”, come spesso la si chiama, ma la guerra “all’Ucraina”, come spesso si evita di chiamarla.

Il riconoscimento che la guerra sia stata cominciata da uno contro l’altro è il pegno che l’equidistanza pacifista si costringe, e nemmeno sempre, a concedere («Premesso che sono stati i russi ad aggredire…»), salvo trasformare quel riconoscimento in una specie di modo di dire, al quale non si annette nessun significato e nessuna necessità conseguente e anzi col risultato di pervertirlo in un’accusa ribaltata: premesso che han cominciato quelli là, la colpa è di questi qua e di chi li aiuta. Di questi qua: perché non si arrendono, perché resistono. E di chi li aiuta: perché li istigano alla guerra anziché alla pace.

E ammettiamo che sia in buona fede chi indugia sugli errori, ed eventualmente gli orrori, di cui possono essersi resi responsabili alcuni tra gli aggrediti, gli ucraini.

Discuterne si può (anzi si deve), ma a un patto, mi pare: vale a dire a condizione che discuterne non diventi il criterio in base al quale giudicare la guerra “all’Ucraina”, appunto trasfigurandola nella guerra “in Ucraina”.

Da quando è cominciata, c’è stata la corsa a investigare il tenore democratico e persino la dotazione morale degli aggrediti, una specie di scrutinio della presentabilità ucraina che, se non aveva l’intenzione, sicuramente aveva l’effetto di lasciare intendere che quella gente magari non se l’era cercata ma insomma non è che i russi bombardassero un popolo angelico. E questo è un fraintendimento, credo, capitale, che giudica la violenza di chi la fa in base al profilo di chi la subisce.

Coloro i quali, pur in buona fede, si appellano all’impostazione papale e si specializzano nell’investigazione delle colpe degli aggrediti, non possono non sapere che soltanto nel ripristino della verità è possibile distribuire le colpe.

Non possono non sapere da dove è venuta la metodica opera di contraffazione negazionista che sulla notizia dello stupro invitava alla cautela, perché c’è tanta propaganda, sulla notizia dell’ospedale bombardato raccomandava indagini, perché forse era un covo nazista, sulla notizia del centro commerciale incenerito reclamava accertamenti, perché tra le barbabietole e i cetrioli magari erano nascoste le armi dei servi della Nato.

Non possono non sapere che sulla notizia degli eccidi e delle torture che via via si vanno scoprendo nelle città e nei villaggi abbandonati dagli aggressori in ritirata, viene oggi il fiato mefitico di una teoria anche peggiore del silenzio: e cioè che anche questi sono i costi della guerra, una cosa da addebitare non alla responsabilità di quelli che l’hanno cominciata ma a quella di coloro che la subiscono, perché non si sono arresi. E a quella di coloro che li hanno aiutati a difendersi, i quali avrebbero dovuto lasciare che i massacri avvenissero nel trionfo della pace pacifista.

Senza riconoscere tutto questo, è difficile occuparsi con la doverosa attenzione delle parole del Papa e delle eventuali responsabilità singolari degli aggrediti.

Francesco contro i populismi. Il Papa dice che è moralmente accettabile inviare armi agli ucraini per aiutarli a difendersi. L'inkiesta il 16 Settembre 2022

«È una decisione politica, che può essere moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere armi. La motivazione qualifica la moralità. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria», spiega ai giornalisti sul volo di rientro dal Kazakistan. Poi parla delle prossime elezioni: «Dobbiamo aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica»

Di ritorno dal Kazakistan, il Papa ha risposto alle domande dei giornalisti sull’aereo che lo ha riportato a Roma. Le guerre e la ricerca della pace sono stati al centro del congresso interreligioso a cui ha preso parte. E ovviamente si è parlato della guerra russa in Ucraina. E sugli armamenti inviati agli ucraini, il Pontefice – come riporta il Corriere – dice: «È una decisione politica, che può essere moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere armi. La motivazione qualifica la moralità. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria. La guerra è un errore, da settant’anni l’Onu parla di pace, ma ora quante guerre ci sono? Siamo in guerra mondiale… Mia madre pianse di gioia nel 1945. Non so se oggi abbiamo il cuore educato a piangere per la pace».

Francesco però aggiunge anche non bisogna abbandonare la via del dialogo. «È difficile, ma non dobbiamo scartarlo ma dare l’opportunità a tutti, tutti. Perché c’è sempre la possibilità che si possano cambiare le cose. Io non escludo il dialogo con qualsiasi potenza che sia l’aggressore. Delle volte il dialogo si deve fare così. Puzza, ma si deve fare. Perché al contrario chiudiamo l’unica porta ragionevole per la pace. A volte non accettano, peccato, ma il dialogo va fatto sempre, almeno offerto».

Poi il discorso sul volo da Nur Sultan si sposta sulle imminenti elezioni politiche in Italia. «Ho conosciuto due presidenti italiani, di altissimo livello: Napolitano e Mattarella. Grandi», dice il Papa. «Poi gli altri politici non li conosco. In questo secolo l’Italia ha avuto venti governi. Non condanno né critico, ma non so spiegarlo. La politica italiana non la capisco, è un po’ strano, ma ognuno ha il proprio modo di ballare il tango. Oggi essere un grande politico, che si mette in gioco per i valori della patria e non per interessi, la poltrona, è difficile. Dobbiamo lottare per aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica, non la politica di basso livello che non aiuta e anzi tira giù lo Stato, impoverisce… Oggi la politica in Europa dovrebbe affrontare ad esempio l’inverno demografico, lo sviluppo industriale e naturale, i migranti».

È nel Mediterraneo, secondo il Papa, che si consuma l’ingiustizia sociale. «È Occidente e oggi è il cimitero più grande, non dell’Europa: dell’umanità», dice. «Cosa ha perso l’Occidente per dimenticarsi di accogliere, quando ha bisogno di gente? E poi c’è il pericolo dei populismi. In una situazione sociopolitica del genere nascono i messia dei populismi, quando c’è un’età come dopo Weimar nel ‘33 e uno promette il messia».

Su questo tema, Repubblica sottolinea alcune prese di posizione del Pontefice. Tra cui: «Paolo VI diceva che la politica è una delle forme più alte della carità. Dobbiamo aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica, non la politica di basso livello che non aiuta niente, e anzi tira giù lo Stato, impoverisce».

L'Europa unica sconfitta del conflitto. I territori abbandonati dai russi e la propaganda di Zelensky: l’agenda Draghi ci ha subordinati a questa guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Si è aperto un nuovo capitolo della guerra in Ucraina. In questo nuovo atto, il tema centrale è arrivare ad un negoziato, passaggio necessario, che decreta la fine di ogni conflitto.  I russi hanno fatto presto, hanno invaso un bel po’ di Ucraina e adesso arretrano su quei confini che, fin dall’inizio volevano occupare, che coincidono perfettamente con le popolazioni che il 4 novembre andranno a votare per scegliere di stare con la Russia o con l‘Ucraina e voteranno – come hanno fatto in Crimea – per rimanere con la Russia. Si tratta di persone di origine russa, si sentono una minoranza in Ucraina, per otto anni sono stati attaccati, massacrati, si parla 14.000 morti, vittime di una guerra che noi non abbiamo mai voluto citare. Poi c’è stata l’invasione dell’armata di Putin. Putin aveva una forte opposizione interna, abbiamo conosciuto quel Dugin che da otto anni gli diceva, “Tu devi difendere il nostro popolo al di là dei confini”. E Putin prendeva tempo e alla fine i russi hanno invaso quel tratto di Donbass, ma hanno pure presidiato la Crimea e hanno invaso una parte del Sud.

Quelli sono i confini che loro vorranno sicuramente mettere nel trattato come i nuovi limiti tra i due Paesi. Tutto il resto del territorio lo stanno abbandonando. Perché così, dall’altra parte, Zelensky può dire – complice la formidabile propaganda occidentale -di aver sconfitto i russi. Scenario che permetterebbe a Zelensky di poter trattare da parziale vincitore. Poi si arriverà a una trattativa. Tutto questo, però, poteva essere fatto molto tempo fa, evitando il prezzo, altissimo, delle vite umane. Ma non è solo questo problema, quello dei morti, che ci cambierà la vita. Perché il vero sconfitto di questa guerra sarà l’Europa. Alla fine, quando faranno il trattato, scopriremo che sul terreno di scambio è rimasta l’economia europea. In particolare, tra mesi – io spero tanti e non pochi, ma purtroppo sarà già tra due mesi – capiremo in quale avventura incredibile, disumana, siamo entrati dicendo “solidarietà all’Ucraina”. Ma non era quello il tema, il tema era stringere e rafforzare i rapporti con la NATO, stringere e rafforzare i rapporti con alcuni Paesi che hanno guadagnato cifre enormi in questa guerra, vendendo le armi agli ucraini e per i quali hanno stanziato soldi. Ma le armi sono ‘in prestito’. Quel debito andrà ripagato, costringendo noi a tagliare i ponti con alcune fonti di energia e a rivolgerci altrove per trovare l’energia che oggi non c’è e per qualche anno non saremo autosufficienti. Quindi dovremmo dipendere da chi ci vende il gas e il petrolio, che in questo caso sano o direttamente, gli Stati Uniti o alcuni Paesi a loro alleati.

Nel frattempo l’Europa studia il risparmio energetico. Perché? Perché le belle parole sulle energie pulite, sulle energie a basso intensità di inquinamento, sono belle parole, ma ci vogliono 10-15 anni, partendo da adesso, per arrivare a sostituire l’energia del gas del petrolio; seppure ci si riuscirà, per adesso, dovremmo fare un po’ col carbone, con altra energia che compriamo all’estero. E poi l’Europa sta studiando una cosa micidiale per cui, superati i due kilowatt e mezzo, il contatore delle nostre case potrebbe bloccarsi. Non è ancora una legge, però una direttiva era già emersa su alcuni giornali. Pensate, il frigorifero dovrà stare per forza acceso nelle case perché altrimenti si butta la roba che viene conservata dentro. Dopo il frigorifero potremmo usare solo un altro elettrodomestico. Cosa significa? Che bisogna lavare il bucato a mano, che bisogna lavare i piatti a mano? Si può fare, ma per che cosa? Se a un certo punto, come io spero, ci sarà un trattato di pace per la guerra in Ucraina, per che cosa? Per comprare energia all’estero, nei paesi in cui ci indicano gli alleati della NATO? Che poi pure questa è una barzelletta, quella di dire sei con la NATO o sei anti atlantista. Deve finire questa storia perché Erdogan è della NATO ma si sta facendo beatamente i fatti suoi, gli interessi del suo paese e quindi questa storia deve finire come propaganda che entra nel cervello delle persone. Tu dici, ma io non sono d’accordo, ma tu sei contro l’atlantismo, ma tu sei contro gli Stati Uniti? No, lei a favore di un bacino del Mediterraneo e di un bacino europeo che si autodetermina, che si autogestisce. Questo non può essere considerato materia di scomunica. Scomunica dovrebbe essere la guerra bestiale, brutale, che è stata alimentata con le armi e qualche responsabilità la attribuiremo in futuro a chi ci ha portato in maniera così forte a testa bassa in questa alleanza. Io non vorrei che qualcuno riscrivesse l’agenda Draghi, perché l’agenda Draghi ha avuto un bel capitolo importante nell’essere totalmente subordinati alla logica di questa guerra. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

La ritirata strategica di quelli che dicevano: «Niente armi a Kiev, Putin ha già vinto…». Le vittorie di

Kiev gettano nel panico i sostenitori italici della “pax russa”. Putiniani, “pacifisti”, equidistanti ora si trincerano in un grande silenzio. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 12 settembre 2022.

È una ritirata improvvisa, disordinata, in ordine sparso. Non quella delle truppe russe che per loro stessa ammissione arrancano in Donbass davanti l’offensiva dell’esercito di Kiev.

Stiamo parlando delle loro quinte colonne italiche, degli opinionisti, dei professori, degli intellettuali, dei putiniani convinti e di quelli scettici, dei “pacifisti”, degli strateghi da talk show e dei pedanti furbastri di destra e di sinistra. Accomunati dall’odio verso gli yankee e dal compiaciuto disprezzo degli ucraini, liquidati come meri proxy di Washington e della Nato. Una specie di braccio armato dell’imperialismo atlantico che si serve del loro nazionalismo nazistoide, dei battaglioni Azov, del revanchismo “banderiano”, della marionetta Zelensky perringhiare ai i poveri pucciosi russi a pochi chilometri dalle loro frontiere.

Fino a qualche giorno fa ci spiegavano che l’Ucraina era una causa perduta, che le truppe di Mosca stavano stravincendo la guerra, anzi, che avevano già vinto, che l’economia russa non teme le sanzioni e al contrario viaggia a gonfie vele, che la capitolazione di Kiev è inevitabile e che tutti noi avremmo dovuto prima o poi accettare la pax dello zar Vladimir Putin. Meglio prima che poi, per «evitare altre vittime inutili» come fin dall’inizio dell’invasione ci spiega l’ufficio propaganda del Cremlino, con il farisaico coro dei loro ammiratori europei a fare da contrappunto. Il discorso peraltro ha funzionato alla grande, facendo leva sulla pancia del Paese, sulle pulsioni egoiste ma comprensibili delle persone, con la minaccia dei rincari energetici, con lo spettro del razionamento del gas, dell’impennata delle bollette. Vi pare che possiamo ridurre di due gradi il riscaldamento delle nostre case e fare docce più brevi per quegli straccioni degli ucraini?

La riconquista dell’oblast di Kharkiv e la ricacciata delle forze russe verso il loro confine, grazie soprattutto al massiccio utilizzo delle armi spedite dagli alleati occidentali, deve essere stata una notizia ferale per costoro. Anche perché in pochi giorni i generali del Cremlino hanno visto vanificati mesi di offensive militari nel Donetsk dove ora i rapporti di forza sono radicalmente mutati. Così l’ipocrita retorica del “non diamo le armi a Kiev perché è del tutto inutile” viene polverizzata dai fatti.

Di certo c’è che da diverse ore gli “equidistanti” sono spariti dai radar dei media e dei social, immersi in un profondo silenzio come il mitico professor Alessandro Orsini che domenica ha chiuso il suo seguitissimo account Twitter, così, di botto, senza senso. Viene il sospetto che lo abbia fatto per non commentare le vittorie militari di Kiev. Ma forse sono grette maldicenze e da buon analista la sua è solo una ritirata strategica. O la filosofa Donatella Di Cesare, che dallo scorso fine settimana non interviene più sulla guerra concentrandosi su ciò che le riesce meglio: lo studio della filosofia, nella fattispecie del pensiero di Hannah Arendt. Oppure ancora Il Fatto Quotidiano che dal qualche giorno fa scivolare verso basso nella sua edizione online le notizie sul conflitto in Ucraina, coperte con neutri “pastoni” di agenzia e senza neanche un illuminato commento da parte delle sue polemiche firme. E ancora: dove sono finiti i vari Santoro, Moni Ovadia, Toni Capuozzo, Tommaso Montanari?

Però finora nessun parla di “media distorti”, di “pensiero unico”, di fake news, nessuno ha provato a mettere in discussione la disfatta dei battaglioni russi in Donbass. Lo avevano fatto invece per i morti di Bucha, per le fosse comuni, per le esecuzioni e le torture, mettendo in dubbio le testimonianze dei sopravvissuti raccolte dalle decine di giornalisti andati sul campo a verificare le notizie, in alcuni casi spingendosi fino a negare le stragi dei civili ucraini, parlando di «attori e figuranti» in un disgustoso crescendo di negazionismo. È probabile che, superato lo choc iniziale e riordinate le idee, i tristi figuri ritornino a farsi vivi un poco alla volta per ricordarci quanto sciagurato sia l’Occidente che si è schierato contro gli invasori russi e dalla parte degli aggrediti. Per farlo potrebbero ad esempio aggrapparsi alle parole dell’86enne Papa Bergoglio per il quale siamo già entrati nella Terza guerra mondiale: «Non dimentico la martoriata Ucraina, ma bisogna fermare il conflitto».

Peccato che il pontefice non abbia raccolto l’invito del presidente Zelensky che lo avrebbe voluto a Kiev in segno di vicinanza con un popolo che vive sotto le bombe da oltre sei mesi e che non certo scelto di imbracciare le armi dal giorno all’indomani. Avrebbe spazzato via le insinuazioni di chi pensa che il Vaticano sotto sotto si auguri una rapida vittoria della Russia. Insomma anche in questo caso l’orizzonte è la pax putiniana.

L’imbarazzo embedded. Il malcelato disappunto del pacifista collaborazionista italiano di fronte alla riconquista ucraina. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 12 Settembre 2022.

Se gli orrori dell’attacco russo venivano minimizzati, negati, contestati, ridimensionati, ora le notizie dei territori ripresi dalle forze di Kyjiv mettono in difficoltà i neutralisti de noantri, che vedono svanire il loro ideale di pax putiniana

Il pacifista comunista leghista sindacalista collaborazionista commenta le notizie sugli ospedali bombardati, sulle scuole distrutte, sui mercati inceneriti, sulle donne stuprate, sui bambini deportati: le commenta per contestarne la verosimiglianza, per ridimensionarle o, quando non ci riesce, per attribuire la responsabilità di quei crimini a tutti e a tutto – allo yankee guerrafondaio, agli Stati Uniti, alla Nato, all’Europa che ne è serva, alle vanità degli ucraini, al cinismo di chi li capeggia – tranne che a chi li ha programmati e perpetrati e ne rivendica la legittimità, quando a sua volta non riesce a seppellirli con la propaganda di cui qui da noi si fa ripetitore il pacifista comunista leghista sindacalista collaborazionista.

Le notizie sulla resistenza ucraina, e sulle riconquiste che essa riesce a completare, sono più difficili da maneggiare. Imbarazzano. Turbano l’equilibrio della sloganistica corrente, “Né con le stuprate né con la Nato”, “Né coi bambini deportati né con l’Europa delle armi”, “Né con i covi nazisti camuffati da ospedali né con gli omosessuali di Kiev”.

E se dunque una città è restituita al controllo ucraino, allora il pacifista comunista leghista sindacalista collaborazionista non riesce, non ancora, a dire “purtroppo”; se le linee degli aggressori arretrano, il “malauguratamente” che rimugina non riesce, almeno per adesso, a venir fuori come vorrebbe. Ma quel cambio di scenario attenta alla pace pacifista, quella che non è revocata dai cecchini che impiombano i ciclisti e dai cadaveri di Bucha, verosimili manichini, ma dalle armi inviate dall’Occidente libero a chi reclama di farne parte e combatte per farne parte.

Arretra con gli aggressori, la pace pacifista: la pace embedded in operazione speciale.

Ucraina: la guerra per procura, ovvero della macelleria. Piccole Note il 9 Settembre 2022 su Il Giornale.

“Non si può escludere del tutto la possibilità di un coinvolgimento diretto delle maggiori potenze mondiali in un conflitto nucleare ‘limitato’, avvicinando la prospettiva della terza guerra mondiale”. Così il generale Valeriy Zaluzhnyi, comandante in capo delle forze armate dell’Ucraina in un articolo pubblicato su Ukrinform.

Rifornimenti  fino alla vittoria (dell’Ucraina)

Un articolo che va letto tutto per capire quel che pensano gli iper-atlantisti, dal momento che ovviamente l’ha scritto con la supervisione dei press agent Nato. In sostanza, la nota descrive una situazione militare drammatica per l’Ucraina, dal momento che non c’è modo di confrontarsi con lo strapotere dell’esercito russo.

E ciò mentre si stanno snodando due controffensive ucraine, che quindi, è il sottinteso, sono votate alla sconfitta nonostante possibili guadagni territoriali non importanti ai fini del conflitto.

Tale situazione, vi si legge, durerà tempo, non c’è modo di ribaltare la situazione. L’unico modo, scrive il generale, è quello di dotare l’Ucraina di armi più sofisticate e potenti e che, soprattutto, siano in grado di colpire in profondità al modo delle armi russe.

Ciò perché occorre colpire la Crimea al fine di riconquistarla, dal momento che è solo prendendo la penisola che si potrà impedire all’esercito russo di conseguire la vittoria, giacché essa è l’hub nevralgico della macchina bellica russa.

La guerra, aggiunge, continuerà per tutto l’anno prossimo, nessuno si faccia illusioni in proposito, e sarà vinta dall’Ucraina solo se arriveranno tali armi e l’esercito ucraino sarà in grado di rafforzare le sue fila così da poter lanciare “diversi contrattacchi consecutivi e idealmente simultanei per tutto il 2023”.

In sostanza, il generale chiede ai partner, come li definisce, di continuare a far arrivare a Kiev armi sempre più potenti, nonostante i costi che graveranno sulle economie occidentali, già progressivamente impoverite dalle sanzioni anti-russe.

Fantaccini ucraini sacrificati per procura

Ma, nonostante questo, sarà anche necessario mandare l’esercito ucraino a un assalto continuo, senza soluzioni di continuità. Nessuna dottrina militare ha mai proposto una tattica così votata alla macelleria, dal momento che tali attacchi reiterati  vedranno i militari ucraini cadere come mosche, come si intuisce da quelli attuali, che, come ha documentato il Washington Post di ieri, stanno costando “enormi perdite” agli ucraini.

Così riportiamo quanto ha scritto a maggio Hal Brands dell’American Enterprise Institute: “Le guerre per procura sono strumenti usati da tempo nell’ambito dei contrasti tra grandi potenze, perché consentono a una parte di far sanguinare l’altra senza uno scontro diretto. La chiave della strategia è trovare un partner locale impegnato – un procuratore disposto a uccidere e morire – e poi caricarlo di armi, denaro e intelligence necessari per infliggere colpi devastanti a un rivale vulnerabile”.

L’osservazione delirante di Brands è riportata in una nota di Connor Echols su Responsible Statecraft che spiega quanto e come gli Stati Uniti siano impegnati in questa guerra per procura, evitando solo di dispiegare soldati e di far sventolare la bandiera americana per evitare l’ingaggio diretto con Mosca (che, però, prima o poi, potrebbe reagire, aggiunte Brands, dato il livello di impegno Usa).

Trovato il Paese da usare in questa guerra per procura, e l’Ucraina, confinando con la Russia, è il Paese ideale, lo si sta usando allo scopo, mandando al macello il suo popolo.

Nessuno si perita di chiedere agli ucraini se siano d’accordo con tale prospettiva (a parte qualche sondaggio di parte) che li vede condannati alla decimazione, com’è accaduto in tante guerre per procura americane.

Dalle guerre parallele all’opzione atomica

Come ad esempio quella segreta che si svolse in Laos, in parallelo a quella del Vietnam, dal 1964 al 1973. Guerra non dichiarata che però vide gli Stati Uniti sganciare sul Paese più di 2 milioni di tonnellate di bombe, “più di tutte le bombe sganciate durante la seconda guerra mondiale messe insieme”.

“Nel 1975, un decimo della popolazione del Laos, ovvero 200.000 tra civili e militari, era morto” mentre i feriti erano settecentocinquantamila (History.com). Se ricordiamo questa ormai vecchia, quanto oscura, guerra americana è solo per far intravedere il destino che incombe sull’Ucraina, destino non messo a tema dalla Politica e dai media che contano.

Per quanto riguarda poi la possibilità di una guerra nucleare, che il generale, bontà sua, non esclude, non sarà certo innescata dall’uso di bombe siffatte da parte dei russi, come spiega, perché certo eviteranno di sganciarle su se stessi (l’Ucraina è a ridosso della Russia…). Ma il particolare sembra insignificante al generale e ai suoi sponsor.

Serve, però, brandire la possibilità di una guerra atomica (come ha fatto per esempio la nuova premier britannica) ancorché “limitata”; un sogno, quest’ultimo, coltivato da tempo dai neocon, che potrebbero così esultare per aver conservato il loro potere sul mondo avendo incenerito i loro antagonisti e rimanendo al sicuro nella fortezza atlantica.

Il loro sogno delirante, però, non è destinato a realizzarsi, dal momento che più volte Putin ha fatto notare che, nel caso, di limitato ci sarà ben poco, tentando di far capire ai moderni Stranamore che un’eventuale guerra nucleare non potrà che essere globale.

A giocare col fuoco ci si brucia. Il problema è che questi incendiari rischiano di bruciare il mondo intero.

La bomba in testa. L’argomento dell’atomica come ultima spiaggia dei pacifisti filorussi alla Conte. Fausto Raciti su L'Inkiesta il 9 Settembre 2022.

Sostenere che la Russia non possa essere contrastata in quanto potenza nucleare implica una deformazione della realtà che confonde (come sempre del resto) aggressore e aggredito e dimentica che a rischio ci sono i valori democratici europei, per i quali Kyjiv sta combattendo

I tentennamenti del mondo cattolico, i prezzi del gas infiammati dalla speculazione e la stanchezza di un’opinione pubblica già spossata dalle restrizioni legate al Covid, hanno raffreddato l’iniziale sostegno assicurato dagli italiani alla causa dell’indipendenza dell’Ucraina e del suo ingresso nell’Ue. L’interpretazione dell’aggressione russa come episodio di una guerra per procura e la resa morale di fronte all’arroganza della minaccia nucleare rischiano di fare il resto, mettendo fine al sogno dell’espansione pacifica dell’Europa in un mondo regolato dal diritto internazionale.

La campagna italiana contro l’Ucraina si è infatti arricchita di un nuovo e apparentemente sofisticato argomento elettorale, secondo cui la Russia non si potrebbe sconfiggere perché è una potenza nucleare. Naturale corollario è che si debba cercare la pace alle condizioni della Russia. Ultimo, solo ultimo, portavoce di questa teoria è stato uno sconcertante Giuseppe Conte, già pronto a garantire che Putin sia pronto a cercare la pace.

Come nella teoria della guerra per procura, si tratta di un argomento che deforma la realtà nel momento stesso in cui viene formulato, avvelenando la discussione e ogni possibilità di un’analisi razionale della situazione: è la Russia che sta cercando – senza peraltro avere alcuna possibilità di riuscirci – di sconfiggere l’Ucraina. Gli ucraini stanno semmai provando a respingere la Russia fuori dai propri confini, cioè si stanno difendendo, ma non mi pare stiano marciando su Mosca o elaborando piani di spartizione della Federazione Russa.

Si tratta di un argomento particolarmente abietto perché non solo deforma la sostanza della questione, ma anche perché porta a ritenere che è inutile contrapporsi ai desideri di qualsivoglia potenza nucleare nel nome di un approccio che si vorrebbe realista ma che è solo suicida, in particolare per la nostra Europa.

Se l’Italia sedesse nel ristretto club dei paesi dotati dell’atomica si potrebbe almeno comprendere il vantaggio opportunistico di tale argomento. Ma, considerato che non siamo nemmeno in grado di garantire l’approdo ad una nave-rigassificatore, l’ingresso nel club nucleare non può dirsi vicino.

Siamo pronti a sostenere che le pretese del Pakistan o della Corea del Nord, entrambi paesi dotati della bomba atomica, vanno accolte e discusse perché non è possibile sconfiggerli? E, soprattutto, dopo la resistenza eroica degli ucraini, siamo pronti a sacrificare la realtà ad un sofisma tanto approssimativo?

È la prima volta che l’Europa è chiamata ad una prova di forza contro un gigante che la sta sfidando apertamente e che punta a decretarne il tramonto, per lasciare spazio alle pretese del suo impero. È una sfida militare e politica tra un impero oscurantista e l’Europa liberale: l’Ucraina viene punita perché ha scelto noi. Sostenere che la Russia non si possa sconfiggere significa coltivare la nostra indifferenza e preparare la nostra sconfitta.

L’intendimento marziale. Tutti i guerrafondai cattivi che intralciano Putin e i suoi sogni di pace. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 9 Settembre 2022.

Il mondo surreale di chi pensa che la guerra sia colpa di Joe Biden, delle modelle con pance finte che inscenano bombardamenti degli ospedali e di fantomatici attori reclutati dalla Cia per mantenere vivo il conflitto e impedire al povero presidente russo di vivere tranquillo

L’altro giorno, intervistato da non so più quale tra i molti telegiornali a contrassegno Z, un mio amico comunista è stato presentato così: «Caro… (seguiva il nome, che qui non importa)… lei che è contro la guerra, ci dica un po’: che cosa pensa di…» (seguiva domanda non so più se sulle sanzioni, sulle masse popolari esposte al diradamento delle docce, sullo Stato imperialista delle multinazionali o su che altro).

Ora, visto il tenore della domanda, e fermo restando che il mio amico comunista è indiscutibilmente contro la guerra, si tratta di capire chi sarebbe invece a favore. Azzardo un’ipotesi di elenco. A parte Joe Biden, Volodymyr Zelens’kyj e Mario Draghi, che van dati tutti per scontati, a favore della guerra ci sono verosimilmente i nazisti travestiti da ospedalieri e le modelle col pancione posticcio e la faccia pitturata di rosso sul set delle finte pediatrie; poi gli eserciti di attori assoldati dalla CIA per la messinscena di Bucha, evidentissima visto che mancavano i bossoli e i finti morti non riuscivano nemmeno a stare fermi; poi i titolari dei banconi di frutta e verdura nei supermercati adibiti a depositi di armi, che richiamavano – mancava pure che no! – l’inevitabile pioggia dei missili denazificatori; poi duecentocinquantamila nani, anche loro nazisti che però si spacciavano per bambini, provvidenzialmente deportati perché avrebbero ingrossato i ranghi dei renitenti al dovere morale della resa; poi i drogati e gli omosessuali su velocipede fortunatamente resi innocui dai cecchini che ristabilivano l’ordine dei valori tradizionali; poi le “passanti” inesorabilmente beccate in flagrante mentre pretendevano di farsi passare per madri di figli sbudellati; poi quelle di malaffare, in realtà guerrafondaie anche loro, che sporcavano l’immagine dell’operazione speciale inventandosi la storia degli stupri, che però qui da noi abbiamo saputo trattare come si deve perché c’è tanta propaganda e poi siamo garantisti, c’è la presunzione di innocenza.

Tutti, appunto, a favore della guerra. Tutti uniformati nell’intendimento marziale che intralcia il processo di pace avviato il 24 febbraio scorso.

Pacifisti suonati. La storia del più grande artista d’Ucraina che non può esibirsi a Milano. L'Inkiesta l'1 Settembre 2022.

Il concerto degli “Zhadan and the dogs”, guidati dal principale scrittore ucraino Serhiy Zhadan, è saltato. Il locale di Paderno Dugnano ha cancellato la data perché, dicono, verrebbero raccolti fondi per l’esercito di Kyjiv e la guerra. «Alcuni europei continuano a giocare al pacifismo e ai doppi standard», è stato il commento

Il concerto era previsto per il 2 settembre allo Slaughter Club di Paderno Dugnano, a nord di Milano. Ma l’esibizione della band punk rock ucraina “Zhadan and the dogs”, con base a Kharkiv, è saltata. Il motivo della cancellazione, secondo le comunicazioni del locale del 21 agosto, è che con quella serata si sarebbero raccolti fondi per l’esercito ucraino. Quindi niente live. Tutto in nome della pace.

A riferirlo è il frontman della band, Serhiy Zhadan, il principale scrittore ucraino contemporaneo, poeta, musicista, vincitore di vari premi internazionali, tradotto anche in Italia e candidato al Nobel. Zhadan ha, appunto, anche una band di punk rock molto famosa in Ucraina con cui gira l’Europa per raccogliere fondi per l’esercito di Kyjiv. «Mi spiace ma nel nostro Paese è illegale fare un concerto per raccogliere soldi per una guerra», hanno risposto dall’account Instagram del locale milanese. E quando Zhadan gli ha fatto notare che si trattava di un tour di beneficenza e che con i soldi raccolti non avrebbero comprato armi ma solo auto, dal locale di Paderno non hanno fatto passi indietro. «Non avete scritto questo su Facebook. Non possiamo rischiare. Lo Slaughter Club è una struttura apolitica che promuove la musica e la cultura e non si schiera né a favore né contro nessuno», è stata la replica. «È estraneo al vostro conflitto e intende restarne tale».

Il 31 agosto Zhadan ha pubblicato un post su Facebook per spiegare ai fan che il concerto era stato annullato. «Alcuni europei», ha scritto, «continuano a giocare al pacifismo e ai doppi standard e credono sinceramente che, mentre proteggono le loro vite e il loro paese, gli ucraini stiano violando alcune delle loro idee di pace e armonia. E che quelli che cercano di sostenere i loro connazionali nella lotta contro stupratori e saccheggiatori siano fascisti ed estremisti. Sinceramente vergognoso e disgustato. Mentre gli ucraini mantengono il quadro di un’Europa libera, gli europei si mostrano pigri, cercando di non entrare in politica. Sembra che il Novecento non abbia insegnato a tutti la responsabilità».

Afghanistan, Iraq, Medio Oriente, adesso l'Ucraina. Attentato in Russia, quando la guerra è in stallo nasce il terrorismo: la colpa è dell’Occidente fornitore di armi. Paolo Liguori su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

È notizia di cronaca, una notizia terribile: è stata trovata l’attentatrice della figlia di Dugin in Russia, Natalia Vovk. Ora noi abbiamo saputo da fonti russe, grazie ai servizi segreti russi, che questa attentatrice era entrata dal 23 luglio a Mosca, e si era mossa dentro Mosca con una Mini Cooper insieme ad un’altra donna più giovane, che era presentata come sua figlia.

Avevano preso una casa vicino a quella di Dugin e poi hanno realizzato questo attentato con esplosivo che ha agito a distanza, sbagliando anche perché sulla macchina non c’era Dugin, ma la figlia. Sappiamo anche dai documenti che sono stati diffusi sempre dai servizi segreti russi che hanno svolto le indagini, che si trattava di un militare, di un ufficiale del battaglione Azov, quindi un ufficiale dei servizi ucraini. Molti di questi ufficiali si dice che siano stati addestrati dai servizi segreti inglesi, dall’ex SAS. Di tutto questo noi sappiamo poco, vi diamo le notizie che ci sono. Sappiamo una cosa, però, in tutto il mondo sempre il terrorismo è nato in questo stesso modo.

Quando c’è una guerra, quando si riempie una delle due parti di armi, quando il potente Occidente fornitore di armi, parteggia e riempie di armi qualcuno – e questo soggetto non riesce a vincere la sua guerra – si crea una situazione di stallo e nasce il terrorismo. È successo in Afghanistan, è successo in Iraq. L’Isis nasce da una costola degli iracheni che tifavano per Saddam e si sono visti invasi non solo dagli occidentali, ma anche dagli sciiti legati all’Iran. Succede così in tutto il Medio Oriente da anni. È successo così in Cecenia, quando i partigiani ceceni si sono sentiti schiacciati, sono passati al terrorismo e l’hanno portato a Mosca.

In tutto il mondo le frustrazioni violente delle rivoluzioni fallite finiscono nel terrorismo. È successo così anche in Italia. Un movimento che chiedeva alla classe operaia di rovesciare il sistema e non lo poteva e non lo voleva fare. La classe operaia presto è passata alla lotta armata e sono nate le Brigate Rosse. Dunque il pericolo di parteggiare, fornendo armi ad una parte, è la certezza assoluta di innescare il terrorismo. Il terrorismo ceceno dopo anni esiste ancora, quello ucraino, ingrassato dalle armi dell’Occidente, quanto durerà se l’Ucraina non troverà nessuna soluzione, nessuna trattativa? Questa domanda ha una risposta agghiacciante. E però è mio dovere un po’ riferire di una mia esperienza. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Stiamo ricostruendo la Cortina di ferro. La morte di Gorbaciov, la guerra in Ucraina e il nuovo muro che vuole alzare l’Occidente. Paolo Liguori su Il Riformista l'1 Settembre 2022

Nel 1989, quasi dieci anni prima della fine del secolo, tre grandi uomini portarono a compimento una politica che cambiò la faccia del mondo, la faccia geopolitica del mondo. O perlomeno speravamo che la cambiasse per sempre. Sono morti tutti e tre, Ronald Reagan, Papa Wojtyla e adesso Gorbaciov. Cosa successe in quel momento? Beh, ci fu il cambio. Il cambio del secolo, il secolo della guerra mondiale, il secolo delle guerre, il secolo del Fascismo e del Comunismo che ha sono continuati anche dopo, ma in altra forma, il secolo della morte era il secolo alle spalle, crollò il muro di Berlino, il muro di Berlino era un pezzo di pietra, di mattoni, ma era un simbolo, era il muro che segnava la Cortina di ferro, la divisione del mondo. Noi di qua. Voi di là.

Molti avevano provato prima a mettere in discussione questo, questo sentimento della divisione del mondo, ma questi tre uomini ci riuscirono, riuscirono a segnare un’epoca e tutti noi che eravamo lì, dicemmo, non sarà più tutto come era prima. Cambierà tutto. Lo disse il Papa, lo disse Reagan e lo disse Gorbaciov. Oggi Gorbaciov sta morendo quasi nel dimenticatoio. Putin non andrà al funerale di Gorbaciov, l’ha annunciato, e anche in Occidente se ne parla in questo momento come di un uomo tra i tanti che hanno fatto cose importanti, di Reagan se ne parla ancora meno. Allora la questione è semplice. Questo succede perché noi stiamo capovolgendo quella storia e stiamo ricostruendo la Cortina di ferro, la guerra in Ucraina non è una semplice guerra locale, regionale, per quanto importante o per quanto europea.

L’avrete sentito in questi giorni, dire spesso “noi siamo da una parte, loro sono dall’altra, noi siamo democratici, loro sono autoritari e non democratici”. E spesso è una balla, perché nel nostro schieramento c’è anche Erdogan, e non è che lo definiremo un sincero democratico; però è nella NATO, fa parte di un sistema di alleanze, fa parte di un sistema di armamenti e dall’altra parte non ci sono solo quelli che sono entrati con i carri armati in Ucraina, d’altra parte erano entrati anche con i carri armati in Cecoslovacchia, anche in Ungheria, e questo non ha impedito a quegli stessi uomini che vi ho nominato di andare a scongelare quella Cortina di ferro, di andare a rompere quel muro di Berlino. Ci voleva la volontà di farlo. Ebbene, oggi la volontà, per esempio dello schieramento occidentale, soprattutto dei capi dello schieramento occidentale che sono a Washington – schieramento di cui io e voi facciamo parte – è di ricostruirla questa barriera: da questa parte si sta in un modo, dall’altra parte di questa Cortina si starà in un altro, si torna indietro, si torna indietro al secolo scorso e tutto questo sta avvenendo in maniera assolutamente anonima.

Il Papa ha parlato, ha tuonato contro la guerra, ma viene censurato. Quando Wojtyla parlava, nell’89, e veniva esaltato, o quando Reagan mise un sistema di scudo per costringere i russi a cambiare politica, veniva sostenuto, e quando Gorbaciov, correndo molti rischi personali, lanciò la Perestroika e disse basta con questa divisione del mondo, divenne per pochi anni anche un eroe dell’Occidente. Oggi, però, c’è perfino chi ha brindato alla morte di Gorbaciov, proprio qui, perché, ha detto, ma no, questo è quello che ha distrutto il Comunismo, perché c’è nostalgia dei tempi precedenti. C’è nostalgia del secolo delle guerre, c’è nostalgia di quella divisione? Io non ho nessuna nostalgia di quei tempi. Quando cadde il muro pensai, ora siamo tutti più liberi. Adesso che si sta ricostruendo il muro in Ucraina c’è un clima di oppressione, soprattutto quando provi a dire che questa guerra è ingiusta, deve finire. E anche Zelensky deve rendersi conto che ha diritto a costruire il suo futuro, il futuro del suo Paese, ma non gli abbiamo mai dato il diritto di costruire il futuro del nostro mondo, dell’Occidente e dell’Europa, non gliel’abbiamo mai concesso.

Ma quando dici queste cose, ti guardano e dicono, va bene, allora tu sei amico di Putin. Mai stato né amico di Putin, né della Russia pre Gorbaciov. Ma amico di quei tre uomini che fecero crollare il muro e scongelano la Cortina di ferro, lo ero, lo sono stato, e ho quasi nostalgia adesso. Come peraltro anche Henry Kissinger, che fece parte di quel mondo lì, ha detto più volte anche lui le stesse cose sulla guerra, come papà Francesco, che è inascoltato e quasi trattato come un povero vecchio. Qual è la sua di Kissinger? Che ha 99 anni? Meglio 99 anni spesi bene, con un’intelligenza ancora viva, che cinquant’anni spesi male, oppure pochi meno di Kissinger ma spesi male come li sta spendendo il Presidente degli Stati Uniti. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Reporter de guera. Il pacifista militante è in ferie, ma tornerà presto a giustificare la carneficina di Putin. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Agosto 2022.

Si è temporaneamente fermato il tentativo di giustificare le nefandezze del Cremlino. Ma davanti alle nuove turpitudini che l’esercito russo perpetrerà, vista la piega terrorista della resistenza, il solito filoputiniano allargherà le braccia spiegando che questo è quel che succede quando ci si sottrae al dovere morale della resa

Evidentemente il pacifista comunista sindacalista collaborazionista è in ferie. Era quello che indagava sulla verosimile messinscena di Bucha, perché al reporter de guera non gliela racconti, perché ne ha viste tante e fino a prova contraria quei cadaveri potevano anche essere manichini, o ucraini desiderosi di essere denazificati e perciò uccisi dai nazisti ucraini, e poi perché mancavano i bossoli, perché le foto satellitari vai a sapere che non fossero confezionate in Photoshop, perché è vero che i russi avrebbero potuto fare quel massacro, ma è vero anche che gli ucraini sarebbero stati capaci di inventarselo.

Quindi pari e patta. Vero sì, vero no, amen, c’è la pubblicità e poi si passa alle stuprate, che però chissà, andiamoci cauti che c’è tanta propaganda, e pure sui deportati c’è da discutere perché a ben guardare, e se la si smette una buona volta di dar credito alle veline di Kiev, potrebbero benissimo risultare gente stufa marcia di essere governata da drogati e omosessuali. 

Per non parlare dei covi nazisti camuffati da ospedali, delle donne incinte e dei bambini usati come scudi umani dagli sgherri del presidente con villa in Versilia, dell’acciaieria dove tramavano gli 007 di Boris Johnson e poi tutta quella tv del dolore che intervista la madre del bambino fatto a pezzi o indugia sul ciclista abbattuto dal cecchino, che come insegnava il grecista apulo-staliniano erano tutt’al più dei “passanti”, vittime semmai della guerra di Biden e dei suoi sudditi di Bruxelles.

Ebbene, deve essere appunto l’interludio vacanziero a inibire analoga solerzia investigativa se una bomba fa esplodere un’attivista russa e in quattro e quattr’otto è pronto il profilo ucraino dell’attentatrice. Ma tornerà in servizio, il pacifista comunista sindacalista collaborazionista: e davanti alle nuove turpitudini che l’operazione speciale perpetrerà dopotutto comprensibilmente, vista la piega terrorista della resistenza, allargherà le braccia spiegando che questo è quel che succede quando ci si sottrae al dovere morale della resa.

I negazionisti. Gli ucraini devono sapere che ci sono quelli che vogliono aiutarli, e poi i pacifisti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

Finché i militanti della pace, della pace del Cremlino, non commenteranno i massacri russo (anziché sorvolare) la loro opinione va disprezzata come merita.

Quando il pacifista discuterà delle responsabilità occidentali commentando anziché sorvolando la notizia dell’ennesimo massacro, allora la sua opinione potrà essere ascoltata anziché disprezzata come merita.

Quando avrà il coraggio di spiegare agli ucraini in che cosa sarebbe consistito il loro dovere morale della resa, e cioè nell’accettare la propria denazificazione tramite gli eccidi, le stragi di civili, il bombardamento delle scuole, degli asili, delle università, degli ospedali, dei mercati, dei depositi di cibo, allora il pacifista potrà reclamare rispetto.

Quando la pace pacifista sarà opposta agli stupri e alle deportazioni, non alle cospirazioni atlantiche e alle vanità di Zelensky, allora la soluzione pacifica di cui vagheggia il pacifista potrà essere giudicata come qualcosa di diverso rispetto a ciò che continua a essere, una ignobile e confortevole bugia contro una verità tanto spiacevole da non poter essere nominata.

Quando il pacifista avrà messo in rassegna, e ripudiato una per una, senza infingimenti, smettendola una buona volta di ciurlare nel manico, le veline affastellate nella propria vergognosa enciclopedia negazionista, allora potrà rivendicare ciò che dopotutto va riconosciuto a chiunque, il diritto all’oblio.

Ma sino ad allora la militanza pacifista deve rimanere esposta al proprio discredito. Sino ad allora le vittime della pace pacifista devono essere difese, almeno nel loro diritto di non essere dimenticate.

Sino ad allora dovrà essere chiaro che la pace pacifista è la continuazione della guerra senza resistenza, la continuazione della guerra senza armi per chi la subisce, la continuazione della guerra senza umiliazioni per chi la fa, la continuazione della guerra senza notizie sulla guerra.

Sino ad allora gli ucraini devono sapere che c’erano quelli che volevano aiutarli, e poi c’erano i pacifisti.

I bieloitaliani. I finti pacifisti fanno scomparire i crimini russi per non turbarsi l’animo. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.

Per auto assolversi di fronte alla cruda realtà dei morti in Ucraina, i putiniani d’Italia parlano del conflitto come qualcosa di lontano, come fosse una categoria politico-letteraria, tralasciando i missili che distruggono le università o le bombe che colpiscono i centri commerciali.

Il curriculum morale del pacifista si arricchisce, di conserva con la lista di stragi che va perfezionandosi nel procedere della campagna di denazificazione. Si trattava perlopiù, dall’inizio dell’operazione speciale, dell’inesausta attività di negazionismo contraffattorio con cui la scia di cadaveri col colpo alla nuca era trasfigurata nell’adunata di manichini; la gravida sventrata, nell’influencer al soldo della Nato; la corsia d’ospedale incenerita, in probabilissimo bunker nazista; l’acciaieria che dava rifugio ai resistenti, nella cripta dove tramavano gli agenti segreti dell’Occidente guerrafondaio; il centro commerciale raso al suolo, in verosimilissimo deposito di armi; e via così.

Ma non bastava. Non poteva bastare.

Per reggere, per durare, per assolversi in faccia a una realtà che altrimenti l’avrebbe inchiodato alla propria ignominia, e per assicurare effettività alla propria militanza collaborazionista, quel pacifismo non poteva limitarsi alla disinvoltura manipolatoria per cui la verità dell’asilo bombardato era equiparabile, se non recessiva, rispetto a quella del comprensibile effetto collaterale, o al doveroso rigore giornalistico che impone di  presidiare la notizia degli stupri con l’avvertenza che c’è molta propaganda, e quindi vai a sapere.

Ma per gestire i fatti più riluttanti al magheggio magliaro quell’armamento era insufficiente, e serviva altro alla bisogna. 

E così quel che succede laggiù rimane una categoria mentale, una figura politico-letteraria, “la guerra”: ma scompare o quasi il fatto concreto dei missili che un sottomarino fa piovere sui civili di una città lontanissima dai fronti di battaglia. 

Rimane “la guerra”, la brutta cosa prodotta dall’Occidente e dalla finanza apolide e alimentata dalle armi inviate agli ucraini per difendere le loro province ammuffite: ma scompare o quasi il fatto spiacevole degli altri missili che distruggono le università. E non scompaiono, questi fatti, per l’assuefazione allo scempio dopo quattro mesi di atrocità. 

Scompaiono perché sono capi d’accusa contro l’equanimità pacifista. Scompaiono perché sono la verità che condanna la menzogna pacifista. Scompaiono perché, non scomparendo, lorderebbero l’immagine del pacifista, il cui curriculum morale è ora maculato di parti bianche, fragrante di pagine vuote, accanto a quelle dell’arzigogolo mistificatorio.

Il reportage dell'Ucraina. Pacifisti italiani in viaggio a Kiev: tra bunker, missili e pace? “C’è speranza tra le bombe”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

La pace in Ucraina. E dove, sennò? “Ma è complicato, impossibile”, avevano fatto presente ai sessanta manifestanti per la pace e il disarmo partiti da Roma, da Milano, da Trento per andare a mettere i loro corpi in piazza, a Kiev. «Inutile, rischioso, scivoloso, ci dicevano. Non abbiamo sentito ragioni», dicono gli attivisti del Mean.

Tra loro anime diverse che nella maggior parte dei casi non si conoscevano fino a pochi giorni fa: il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta ha costruito da Kiev, compiendo un piccolo gesto rivoluzionario, l’inizio del suo percorso.

«Una strada lungo la quale daremo vita a iniziative nonviolente, a manifestazioni, a marce e a ogni tipo di impegno per affermare la necessità di dire no alle armi e sì a una Europa unita sotto il segno della solidarietà e della pace», ha detto ieri dalla sala del consiglio comunale di Kiev il fondatore e portavoce del Mean, Angelo Moretti. I riferimenti sono chiari: Gandhi e il suo satyagraha, Aldo Capitini, Altiero Spinelli. L’Europa è la patria di questi utopisti del terzo millennio, la rete e la piazza le due sedi in cui trovarli. Credenti e non credenti singolarmente uniti da un obiettivo alto e coraggioso: sfidare la guerra sotto le bombe, convincere i belligeranti a smetterla, suggerire agli Ucraini in armi che qualche alternativa in fondo c’è, oltre a uccidere e a morire. Eccoli coordinarsi su Zoom, conoscersi sulla chat di Whatsapp. Decidersi a partire costituendo una squadra unica, da percorsi diversi. C’è Base Italia, con la presidente Emanuela Girardi e il segretario, già leader Fim Cisl, Marco Bentivogli. E intorno a loro i sostenitori della necessità dell’Ucraina di difendersi, anche con l’esercito armato dall’Europa, ma con l’obiettivo ben chiaro di un tavolo di pace. Posizioni su cui è anche l’eurodeputato Pd Pierfrancesco Majorino che dal Parlamento europeo segue l’iter di adesione di Kiev.

Cosa è successo, nei fatti? I convogli dei pacifisti si sono incontrati a Roma, Milano e Trento e ciascuno ha raggiunto Cracovia, in Polonia, con propri mezzi. Sessanta persone di tutte le età, le sigle, le esperienze si sono date un coordinamento, hanno fatto cassa comune e firmato un accordo di reciprocità. Da lì è stato superato a piedi – tra sabato e domenica – il confine con l’Ucraina, a Medyka. Quando gli agenti della frontiera ucraina hanno interrogato la comitiva, la risposta è stata unanime: “Andiamo a fare un training camp sull’evacuazione in caso di bombardamento”. L’ong che ha reso possibile il viaggio e l’accoglienza in territorio ucraino, Act4Ukraine, in effetti si occupa di quello. Il primo a passare la frontiera è stato un frate francescano del Sacro Convento di Assisi. Poi una professoressa che insegna progettazione all’università di Milano. Un taglialegna della provincia di Trento. La giornalista antimafia Marilù Mastrogiovanni. Un insegnante di Grosseto. L’attivista per la cooperazione Elizabeth Rijo, e tanti altri.

Il calderone unico. Lo zelo del pacifista e la falsa equivalenza della violenza (che serve a giustificare quella russa). Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 12 Luglio 2022.

Perché l’impegno usato per investigare i crimini di Bucha non si ritrova, invece, nel commento dei delitti commessi da parte ucraina? È sempre lo stesso atteggiamento anti-occidentale che equipara il diritto alla difesa all’aggressione armata e l’invio di armi alla minaccia atomica

Il pacifista comunista sindacalista collaborazionista si è esercitato parecchio e con solerzia nell’investigazione della credibilità mortuaria dei fantocci di Bucha, nel reportage sulle agenzie di modelle assoldate per inscenare lo strazio farlocco a margine dei bombardamenti dei covi nazisti camuffati da ospedali, nell’inchiesta sui satelliti yankee schermati per nascondere la realtà delle stazioni ferroviarie incenerite dagli ucraini stessi per lordare l’immagine dell’operazione speciale.

Altrettanto attivismo non si registra nella copertura delle notizie sui morti che si addebitano alla reazione ucraina: notizie che il pacifista comunista sindacalista collaborazionista riporta, sino a mandare in tendenza la dicitura ZalenskyWarCriminal, con fedeltà incondizionata e nell’assenza di qualsiasi dubbio su ipotesi manipolatorie e contraffattive. E si spiega, ovviamente. Perché qui si tratta di rimettere finalmente in sesto il panorama sfigurato dalla narrativa atlantico-capitalista: e cioè far trionfare, sulla menzogna disseminata dagli insubordinati al dovere morale della resa, la verità degli eccidi di cui essi pure si rendono responsabili. E così la bimba dilaniata dal fuoco ucraino, e la disperazione della mamma che ne lambisce le membra inerti, sono opposte alle vittime dell’operazione speciale per finire, le une e le altre, nel calderone unico di una innominata violenza.

Se è possibile, questo sviluppo della rappresentazione aggrava ulteriormente l’immoralità di fondo della propaganda che si duole della proscrizione. Perché prende l’eventuale eccesso, e magari anche il documentato delitto, di cui si rende colpevole una parte, e lo eleva a simbolo di un identico sistema criminale. Che è esattamente lo stesso procedimento con cui l’adesione di un Paese libero a un sistema di difesa è equiparato all’invasione in armi di uno Stato sovrano. Che è esattamente lo stesso procedimento con cui si commenta il bombardamento di una città osservando che è una conseguenza dell’invio delle armi, visto che gli altri avevano “avvisato”: tipo il delinquente che ti “avvisa” di non chiamare la polizia, e se tu invece la chiami e quello ti scanna te la sei andata a cercare, no?

Che è, infine, il procedimento per cui non puoi lamentarti se poi arriva la bomba atomica, quando quello ti aveva avvisato che se intralciavi il corso della denazificazione erano cavoli tuoi. E visto che anche gli ucraini uccidono i bambini, c’è pure caso che avesse le sue buone ragioni.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 7 Luglio 2022.

Anche l'estate del 1914 sarebbe rimasta indimenticabile se non fosse risuonato il deprecabile sparo di Sarajevo. Come quest' anno non se n'era mai vista una più smagliante e rigogliosa di voglia di divertirsi e dimenticare i guai. 

Ecco: a voler scovare una differenza i giornali dell'epoca descrivevano insieme al cielo serico e azzurro per giorni e giorni l'aria come morbida ma non afosa. I luoghi di villeggiatura dell'epoca oggi stupirebbero, si chiamavano Deauville nel Calvados, Baden, Le Coq, una stazione balneare vicino a Ostenda.

Regnava ovunque in quell'inizio di luglio la spensieratezza, i bagnanti stavano in spiaggia sotto tende variopinte, i bimbi inseguivano in aria gli aquiloni, davanti ai caffè suonavano le orchestrine e i ragazzi ballavano. Mescolata allegramente c'era tutta la buona borghesia europea, la classe al potere. 

Solo i giornali esibivano titoli allarmanti e minacciosi: «La Germania prepara la mobilitazione generale»; «L'Austria vuole consegnare l'ultimatum alla Serbia». Ma la gente leggeva gli articoli e poi li metteva via con un'alata di spalle: in fondo già molte volte negli anni precedenti si erano susseguite crisi diplomatiche definite «gravissime». Ogni volta risuonava la parola guerra, le coalizioni minacciavano pronte a tutto e poi tutto si dissolveva. Quello che veniva definito «il concerto europeo», il salotto buono della diplomazia, trovava un compromesso. Anche stavolta sarebbe accaduto e si tornava a nuotare, alzare gli aquiloni e discutere dell'ultima moda parigina.

Anche i Grandi, qualche decina di persone tra re e ministri da cui dipendevano le sorti dell'Europa, erano in vacanza. Il kaiser, il disinvolto guerrafondaio, solcava con il suo yacht le acque del mare del nord. Il primo agosto quando con la mobilitazione tedesca avviò il conto alla rovescia che nessuno riuscì più ad arrestare, a Londra era un weekend di festa e la maggior parte delle famiglie era al mare. 

Le classi popolari si accontentavano di affollare il museo di Madame Tussaud dove per i turisti era in mostra la nuova collezione di statue in cera con i protagonisti della crisi europea, «Diorami militari e navali. Musica squisita. Spuntini e bibite a prezzi popolari».

In questo luglio afosissimo del 2022 la guerra c'è già, si combatte con furore attorno e dentro le rovine del Donbass. La Nato mobilita. Convogli di armi micidiali solcano le autostrade d'Europa verso le retrovie del fronte nel centro Europa. 

Nelle pagine di cronaca si legge: autostrade paralizzate, spiagge prese d'assalto, l'industria del turismo in sollucchero dopo le quaresime pandemiche, effimeri scambi di popolazione nonostante il subbuglio dei voli. Non c'è dubbio, è vacanza. Si attende, inevitabile, l'incombente, innaturale silenzio urbano e la purtroppo fugace stagione dei parcheggi gratuiti. Sì, nonostante tutto è vacanza. 

Errato e soprattutto ingiusto abbandonarsi al commentino colpevolizzante: ma come! Nel centro d'Europa migliaia di persone muoiono, scuole e centri commerciali vengono sbriciolati dalla criminale artiglieria putiniana e nel solito Occidente svagato e immorale ci si abbronza!

Più utile capire perché non esiste una percezione collettiva drammatica dei pericoli di questa guerra locale che ha scalato rapidamente, per volontà dei protagonisti, lo scenario iniziale coinvolgendo ormai larghi spazi di mondo. 

La spiegazione è nel modo in cui i governi occidentali, gli alleati della Nato visto che ormai la Alleanza militare è diventata il punto di riferimento ideologico, hanno imbastito il discorso pubblico sulla guerra, le conseguenze e i pericoli di coinvolgimento per noi. 

Il meccanismo della angoscia collettiva avrebbe funzionato se non fosse stato contrastato da una operazione politico pedagogica di evidente successo, al di là della finalità operativa immediata che era impedire che l'Ucraina venisse spazzata via dall'attacco russo.

A coinvolgerci psicologicamente ha provato giustamente l'Ucraina con una sacralizzazione della sua guerra di resistenza, in cui alla gloria di difensori di tutto l'Occidente si aggiungeva il martirio delle vittime civili della ferocia russa. Una ipertrofica produzione iconografica e verbale sulla ferocia della guerra è stata messa al servizio di una giusta causa con la legittima superiorità psichica della vittima. 

Kiev ha aggiunto il pantheon presidiato da Zelensky a riassumere in lui il coraggio e la determinazione di un popolo intero. Operazione non priva di successo di immagine. La maglietta militare del presidente ucraino svolgerà, prima o poi, la stessa funzione di marketing più o meno sacrale del basco di Che Guevara. Lo scopo era di costruire un ponte verso l'azione, la nostra, spinti così a prender parte direttamente alla causa della difesa d'Europa, a presidiare le Termopili ucraine. Condizione necessaria per la vittoria.

Biden e i governanti europei hanno accettato il meccanismo del progressivo coinvolgimento operativo, con armi e denaro, in attesa di passare ad altro, ovvero scambiare qualche colpo di cannone con la Russia. Politici, parolai della guerra e camarilla del business militar affaristico cercano per benino di trasformare questo conflitto in una istituzione europea. 

In fondo l'imperialismo sciovinistico di Putin serve perfettamente ai loro scopi di controllo di sistemi di alleanza e di ordine geopolitico. Ma sanno che altrettanto necessario è impedire che dei rischi collettivi che si corrono si accorgano le opinioni pubbliche, che vibri forte la volontà di vivere perché si tratta della esistenza, della sopravvivenza.

Di qui una narrazione della guerra, quella che c'è già si combatte ogni giorno da più di quattro mesi, in cui si ribadisce il comandamento rassicurante che l'unico ruolo che noi come Occidente accettiamo di svolgere è quello di impedire che vengano superati dall'aggressore certi limiti. 

Bisogna far vedere la guerra, mostrarne l'orrore ma contemporaneamente cancellarne le tracce. Di qui la goffa, strumentale sottovalutazione irridente della forza distruttiva dell'esercito russo, e la fiducia fideistica al di la della evidenza delle possibilità fulminanti delle sanzioni economiche.

L'opinione pubblica deve accontentarsi della constatazione che «siamo dalla parte giusta», non avere timori sugli «sviluppi». Insomma come nel 1914: restate pure in vacanza, alla guerra ci pensiamo noi. 

Domenico Quirico per “La Stampa” l'1 luglio 2022. 

Proviamo a immaginare un punto di vista diverso per decifrare la scarsa attenzione che l'opinione pubblica occidentale e italiana, in particolare i giovani, presta al quotidiano aggravarsi e allargarsi del fronte della guerra ucraina. 

Ormai sotto vesti Nato ascesa a scenari globali. Dopo cinque mesi continua a esser percepita come un conflitto barbaro ma circoscritto ai due protagonisti, che prima o poi basterà una spintarella per far abbiosciare il colpevole, Putin, e reintegrare l'Ucraina nei suoi sacrosanti diritti di paese invaso e parzialmente smembrato. Anche se non basta avere ragione in guerra e in politica, bisogna avere vittoria. 

È sorprendente: la guerra in sé non spaventa, eppure è una mischia feroce, selvaggia. Semmai turbano un po' le sue conseguenze indirette, aumento dei costi economici, penurie, nuove migrazioni. Non parlo del giudizio sulla giustizia della causa ucraina e il torto russo, invasore che fa di tutto per rendersi odioso, condiviso da una larga maggioranza perché evidente.

Parlo della paura: fisica, personale, elementare, che ti impregna la giornata, la paura di essere anche tu sotto le bombe e nelle trincee come i soldati del Donbass. Riusciamo a vivere nella guerra lontano dalla guerra come se intorno a noi si fosse avvolto una specie di bozzolo. La malattia del secolo, la preoccupazione, qui non si avverte. Invece pacifisti e cassandre scomparse, Papa zittito, si aspettano fiduciosi le vacanze. Sono dunque efficaci le rassicurazioni dei governanti che più agiscono per prolungare la guerra ed alzarne il livello più usano i diminutivi, garantiscono che noi non la stiamo combattendo. Direttamente: ecco l'avverbio chiave, direttamente.

A dar loro una mano nel controllare umori e tremori dell'opinione pubblica contribuisce il fatto che questa è la prima guerra non geograficamente periferica che le giovani generazioni italiane vedono in televisione e sui media vecchi e nuovi senza che per loro contenga la possibilità, o meglio l'incubo, di essere coinvolte in prima persona a causa della leva obbligatoria.

Immaginiamo che la leva non sia stata sospesa dal 1990 e poi abolita dal 2005 e sostituita da un esercito di professionisti, ponendo fine (ma davvero in modo definitivo?) a un dibattito avviato con la leva in massa dei rivoluzionari del 1789. Immaginiamo che ogni sera migliaia di famiglie guardino al telegiornale le scene del tritacarne russo con la sua brutalità meccanica e ascoltino le contromisure che la Nato riunita a Madrid e i governi occidentali adottano per sconfiggere quello che è stato ormai definito come "il nemico'' (e non è questa una esplicita dichiarazione di guerra''?).

Cosa accadrebbe, intendo politicamente, se dovessero riflettere sulla possibilità che arrivi la "cartolina'' che accompagnerebbe obbligatoriamente i figli mariti e i nipoti verso caserme e reggimenti, appena abbandonate dopo i dieci mesi con salutare esultanza? Se la scelta non fosse dunque per noi molto accademica, tra pace e condizionatore. Ma non ci fosse come un tempo nessuna scelta: ovvero la guerra e basta. La garbata attenzione all'Ucraina cambierebbe senso, come può cambiare la direzione del vento.

Ma l'attenzione, il rifiuto della guerra dovrebbe essere istintivo, indipendente dal coinvolgimento diretto. Nessuna nostalgia, per carità, per la "naja''. Per sintetizzare in una parola breve ed efficace il servizio militare nel secondo dopoguerra basta una sola paroletta: uffa! quella sopravvivenza militaresca, quella specie di morta gora dopo tutto quello che la seconda guerra mondiale aveva distrutto apparteneva al massimo alla meditazione sulla stupefacente forza di sopravvivenza delle istituzioni umane.

Ma quei mesi inutili passati in caserma da cui la maggioranza non vedeva l'ora di evadere per riprendere la via più spedita verso la vita normale, collegavano migliaia di giovani alla idea della guerra, alla possibilità un giorno che quei fucili, quei cannoni dovessero impugnarli e puntarli verso altri uomini, sconosciuti, il Nemico. 

Che stava a oriente come ai tempi di Cecco Beppe. La guerra insomma per loro esisteva. Dopo la fine della leva è scomparsa. Divenuta impossibile. Remota. Riguardava coloro che l'avevano scelta come mestiere e accettavano l'ipotesi di morire. Se esistesse ancora questa paura privata, la massa dei dubbiosi dei contrari sarebbe molto alta. Ci sarebbero i cortei e i sit-in contro la guerra. Non a favore della Russia, che i putiniani se li sono inventati i trinceristi dell'atlantismo: perché senza reprobi come si fa a dire di avere ragione? Un tempo si dubitò se valesse la pena morire per Danzica.

Credo, purtroppo, che sorgerebbero dubbi anche se valga la pena morire per il Donbass. L'assenza del rischio personale incide sulla percezione della guerra. Nel senso che essere come è giusto a fianco degli ucraini appare come faccenda teorica, senza conseguenze. La istituzione della leva che fu il primo atto del nuovo Stato unitario, ha cambiato l'Italia, mescolando genti che appartenevano a Stati diversi, ha insegnato una lingua comune a masse di analfabeti che la scuola non poteva ancora raggiungere.

Ha davvero fatto gli italiani. Dopo la guerra era un non senso, la sicurezza ormai la garantivano le atomiche americane. Eppure è stata proprio la guerra fredda che ha ridato ossigeno alla coscrizione in età repubblicana per quasi mezzo secolo.

Negli anni cinquanta c'erano in vigile servizio 1600 generali per 185 mila uomini, avevamo vinto la prima guerra mondiale con 500 per comandare due milioni di soldati. E già allora c'era chi li trovava troppi. Tra il 1951 e il 1957 sparivano in distretti, caserme e magazzini tra l'undici e il diciassette per cento della spesa pubblica di un Paese dove migliaia di ragazzi salivano sui treni per le miniere di Belgio Francia e Germania e la navi dei migranti per le Americhe erano zeppe come ai tempi di Crispi e di Giolitti.

L'esercito di leva è stato il massiccio centrale dell'apparato amministrativo, una immensa macchina che viveva per autoriprodursi, una versione casareccia dell'apparato militar industriale americano. La coscrizione era oggetto di una antipatia manifesta che non è mai diventata però ammutinamento, la Sinistra vedeva in ogni ipotesi di professionismo militare allarmi sudamericani.

L'abolizione di tutto questo ha altrettanto drasticamente fatto progredire il paese. Ha reso chiaro che prepararsi alla guerra non era più una parte quotidiana della vita, ha insegnato che si poteva vivere pensando solo alla pace. A causa della leva gli Stati Uniti hanno perso in Vietnam, una guerra decapitata politicamente dalle marce degli studenti che non volevano morire per fermare in qualche risaia il perfido dominio comunista. I politici americani hanno capito la lezione.

Da allora nessun esercito di coscritti, ma volontari che certo non mancavano tra le classi più povere, che avevano bisogno di denaro per finire gli studi o pagare il mutuo di casa. E con questi uomini hanno condotto le guerre in Iraq e in Afghanistan. Anche Putin lo sa. La leva è pericolosa per il consenso, fa spuntare i comitati delle madri, ingigantisce i renitenti.

Per questo sfida la evidenza continuando a parlare di «operazione militare speciale» invece che di guerra. Ma lo fa perché così può usare mercenari e volontari e non deve ricorrere ai ragazzi di leva. Scatenerebbe nel paese davvero una opposizione di massa alla dissennata avventura ucraina.

Vi spiego perché il pacifismo di sinistra è un errore fatale. La sfida del filosofo sloveno Slavoj Žižek, che mette sotto accusa il "neutralismo" della sinistra. Il Dubbio il 24 giugno 2022.

Per me Imagine di John Lennon è sempre stata una canzone popolare per le ragioni sbagliate. Immaginare che “il mondo sarà un’unica cosa” è il modo migliore per finire all’inferno. Chi si aggrappa al pacifismo di fronte all’attacco russo all’Ucraina rimane intrappolato in questo modo di “immaginare”.

Immaginate un mondo in cui le tensioni non si risolvono più attraverso i conflitti armati… L’Europa ha persistito a “immaginarla” così, ignorando la brutale realtà al di fuori dei suoi confini. Ora è il momento di svegliarsi. Non c’è più bisogno di leggere tra le righe quando Putin si paragona a Pietro il Grande: «A prima vista era in guerra con la Svezia per portarle via qualcosa… Non portava via niente, tornava… Stava tornando per rafforzarsi, questo è quello che stava facendo… Chiaramente, è toccato a noi tornare e rafforzare anche noi».

Più che concentrarsi su questioni particolari ( la Russia sta davvero solo “tornando” e verso qualcosa?) dovremmo leggere attentamente il modo in cui Putin giustifica la sua affermazione: «Per rivendicare una sorta di leadership globale qualsiasi gruppo etnico dovrebbe garantire la propria sovranità. Perché non esiste uno stato intermedio, né intermedio: o un paese è sovrano, o è una colonia, e non importa come vengono chiamate le colonie».

L’implicazione di queste righe, come ha affermato un commentatore, è chiara: ci sono due categorie di stat nella visione imperiale di Putin: “Il sovrano e lo sconfitto”. L’Ucraina deve rientrare in quest’ultima categoria. Ed è chiaro che anche Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Finlandia, Stati baltici… e in definitiva la stessa Europa dovono appartenere a questa categoria. Noi sappiamo benissimo cosa vuol dire permettere a Putin di “salvare la faccia”, non si tratta di piccole concessioni territoriali in Donbass ma di accettare le sue ambizioni imperialiste.

Il motivo per cui queste ambizioni dovrebbero essere respinte è che nel mondo globale di oggi in cui siamo tutti perseguitati dalle stesse catastrofi siamo tutti “nel mezzo”, in uno stadio intermedio, né sovrani né conquistati: insistere sulla piena sovranità di fronte al riscaldamento globale è pura follia poiché la nostra stessa sopravvivenza dipende da una stretta cooperazione globale. Ma la Russia non ignora semplicemente il riscaldamento globale: perché era così arrabbiata con i paesi scandinavi quando hanno espresso la loro intenzione di aderire alla Nato? Con il riscaldamento globale, la posta in gioco è il controllo del passaggio artico. (Ecco perché Trump voleva acquistare la Groenlandia dalla Danimarca.)

A causa dello sviluppo esplosivo di Cina, Giappone e Corea del Sud, la principale via di trasporto correrà a nord della Russia e della Scandinavia. Il piano strategico della Russia è trarre profitto dal riscaldamento globale: controllare la principale via di trasporto mondiale, oltre a sviluppare la Siberia e controllare l’Ucraina. In questo modo, la Russia dominerà la produzione alimentare da poter ricattare il mondo intero. Questa è la realtà economica sottostante al sogno imperiale di Putin.

Chi sostiene di far pressione sull’Ucraina per costringerla a negoziare e ad accettare dolorose rinunce territoriali, ama ripetere che Kiev semplicemente non può vincere la guerra contro la Russia. Vero, ma vedo proprio in questo la grandezza della resistenza ucraina: hanno rischiato l’impossibile, sfidando calcoli pragmatici, e il minimo che gli dobbiamo è il pieno sostegno, e per fare questo abbiamo bisogno di una Nato più forte, ma non come un prolungamento della politica statunitense.

La strategia di Washington per contrastare l’Europa è tutt’altro che scontata: non solo l’Ucraina, l’Ue stessa sta diventando il terreno della guerra per procura tra Stati Uniti e Russia, che potrebbe sfociare in un compromesso tra i due a spese dell’Europa. Ci sono solo due modi per l’Europa di uscire da questo terreno: giocare al gioco della neutralità – una scorciatoia per la catastrofe – o diventare un agente autonomo. ( Pensa a come potrebbe cambiare la situazione se Trump rivincesse le elezioni americane.)

Mentre alcuni esponenti di sinistra affermano che la guerra in corso è nell’interesse del complesso industriale- militare della Nato, che sfrutta la necessità di nuove armi per evitare crisi e ottenere nuovi profitti, il loro vero messaggio all’Ucraina è: «OK, siete vittime di una brutale aggressione, ma non affidatevi alle nostre armi perché così si aiuta l complesso industriale- militare… Lo smarrimento causato dalla guerra sta producendo strani compagni di letto come Henry Kissinger e Noam Chomsky che vengono da estremi opposti dello spettro politico – Kissinger in segretario di stato sotto i presidenti repubblicani e Chomsky uno dei principali intellettuali di sinistra negli Usa – che si sono scontrati spesso. Ma di fronte all’ invasione russa sostengono che Kiev debba abbandonare le pretese sui suoi territori «per raggiungere la pace».

L’idea più folle che circola in questi giorni è che, per contrastare la nuova polarità tra Stati Uniti e Cina ( che rappresentano gli eccessi del liberalismo occidentale e dell’autoritarismo orientale), Europa e Russia dovrebbero riunire le forze e formare un terzo blocco ‘eurasiatico’ basato su l’eredità cristiana purificata dal suo eccesso liberale. L’idea stessa di una terza via ‘ eurasiatica’ è un’odierna forma di fascismo.

Ciò che è assolutamente inaccettabile per una vera sinistra oggi non è solo sostenere la Russia, ma anche esibire una più modesta neutralità che sia divisa tra “pacifisti” e sostenitori dell’Ucraina, e che si debba trattare questa divisione come un fatto minore. Se la sinistra fallisce qui, il gioco è finito. Questo significa che dovrebbe schierarsi dalla parte dell’occidente, inclusi i fondamentalisti di destra che sostengono l’Ucraina?

L’Ucraina afferma di combattere per l’Europa e la Russia afferma di combattere per il resto del mondo contro l’egemonia unipolare occidentale. Entrambe le affermazioni dovrebbero essere respinte, e qui entra in scena la differenza tra destra e sinistra.

Dal punto di vista di destra, l’Ucraina combatte per i valori europei contro gli autoritari non europei; dal punto di vista di sinistra, l’Ucraina combatte per la libertà globale, inclusa la libertà degli stessi russi. Ecco perché il cuore di ogni vero patriota russo dovrebbe battere per l’Ucraina.

Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” il 17 giugno 2022.

L'opinione pubblica italiana si è stancata della guerra in Ucraina, è un fatto ormai acclarato. Ma forse anche sulla scia di questa disaffezione che produce un fenomeno cosiddetto di "shadow-war"" (che spinge i dibattiti mediatici sul tema ad essere sempre meno seguiti), sta prendendo piede anche un altro sentimento: l'insofferenza. I cittadini italiani, ed europei in generale, hanno paura delle conseguenze che il conflitto sta provocando e vorrebbero una fine immediata delle ostilità. A qualsiasi costo. Anche se ciò dovesse significare concessioni territoriali alla Russia da parte di Kiev. In questo senso il nostro Paese è quello che ha empatizzato meno con le posizioni ucraine. 

SCHIERATI È quanto emerge dai risultati di un ampio sondaggio realizzato da Datapraxis e YouGov tra il 28 aprile e l'11 maggio in 10 Paesi europei e diffuso dal think-tank "European council on foreign relations", un'organizzazione privata impegnata in studi e ricerche di politica internazionale. L'indagine è stata condotta su un campione totale di circa 8mila persone sparse tra Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia. 

I risultati del report mostrano che gli europei concordano in modo schiacciante (in media) sulla responsabilità del conflitto in Ucraina: il 73% ritiene infatti che la responsabilità sia della Russia. Ma se in Finlandia questa percentuale è del 90%, in Gran Bretagna dell'83 e in Germania scende al 66, in Italia è pari al 56%, il dato più basso tra i Paesi presi in esame. Di contro da noi è ben più alta la percentuale di chi pensa che la crisi sia responsabilità dell'Ucraina, dell'Unione Europea o degli Stati Uniti (27%). 

Altro dato significativo: in Italia solo il 39% degli intervistati pensa che la Russia sia l'ostacolo principale al raggiungimento di eventuali accordi di pace, di poco inferiore al 35% che ritiene Ucraina, Ue o Stati Uniti come i primi responsabili. Tra i Paesi presi in considerazione, insomma, l'Italia sarebbe il più "filorusso" o, se vogliamo, "antiamericano".

Anche se considerando il retaggio storico, culturale e politico delle varie realtà della rosa le conclusioni sorprendono fino ad un certo punto (Svezia, Finlandia, Polonia e Regno Unito, ad esempio, sono notoriamente tra i Paesi più ostili al Cremlino in tutto il mondo). Ci sono poi differenze importanti tra le sensibilità dei singoli cittadini che motivano le risposte. Gli intervistati in Germania, Italia e Francia, per dire, sono principalmente preoccupati per l'impatto della guerra sul costo della vita e sull'aumento dei prezzi dell'energia, mentre svedesi, britannici, polacchi e rumeni temono invece di più il rischio di una guerra nucleare.

PACE A TUTTI I COSTI Potrebbe essere anche questa una spiegazione della straordinaria voglia di pace a tutti i costi invocata dagli italiani. Il timore, cioè, che in un Paese già di per sé non proprio in salute, e che ha subito più di altri l'impatto della pandemia, l'istinto di autoconservazione possa essere basato sulla sensazione che altre pesanti conseguenze economiche potrebbero essere davvero fatali ai nostri conti. Ed è proprio su questo aspetto che, secondo i due autori del report, Mark Leonard e Ivan Krastev, si baseranno gli equilibri politici. La "resilienza delle democrazie europee dipenderà in gran parte dalla capacità dei governi di assecondare il sostegno dei cittadini a politiche potenzialmente dannose». Ecco, il messaggio che viene dall'Italia è chiaro: questo sostegno, da noi, non ci sarà.

L’Ucraina ci fa capire tante cose del nostro Pci. Che cosa significa essere ex-comunista. Claudia Mancina su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

Che cosa significa essere ex-comunista? In questi tempi di guerra è difficile sottrarsi all’interrogativo. Manconi, per esempio, ha lavorato parecchio sul tema della sinistra, delle sue involuzioni o, come si è efficacemente espresso, della sua “catastrofe culturale”. Ma io sento una specifica responsabilità dell’essere ex-comunista, di essere stata per quasi vent’anni iscritta al Pci e poi di avere partecipato e attivamente contribuito alla fine di quel partito e di quella tradizione. Gli ex-comunisti, certamente, sono solo una parte del Pd. Quando il partito fu fondato, mettendo insieme i Ds (ultima incarnazione dell’eredità comunista) e la Margherita (ultima incarnazione dell’eredità della sinistra democristiana) sembrò evidente la prevalenza degli ex-Pci. Prevalenza numerica, ma non solo: di tradizione politica e di elaborazione intellettuale.

Fu un errore di valutazione. Con gli anni, superate certe diffidenze, gli esponenti di provenienza cattolico-democratica o cattolico-liberale hanno guadagnato una incontestata egemonia culturale e politica. Basta spuntare l’elenco delle maggiori cariche di partito e non solo: il segretario Letta, il presidente Mattarella, il commissario europeo Gentiloni, i ministri Guerini e Franceschini. Anche Draghi, sebbene non dal partito, viene comunque dalla filiera cattolica. Mi fermo qui. Quale può essere la ragione di questa egemonia? In prima battuta, si potrebbe dire che i cattolici democratici si sono trovati, con la caduta dei regimi comunisti, dalla parte giusta della storia. Non avevano abiure da fare. Sarebbe però una spiegazione, anche se non sbagliata, insufficiente. Nei giorni scorsi Recalcati ha parlato di mancata elaborazione del lutto da parte dei già comunisti. Questa è la chiave giusta, tradotta in termini politici. Noi comunisti ci siamo trovati, indubbiamente, dalla parte sbagliata. Eppure da quella parte c’eravamo stati in modo un po’ speciale, con tutta l’originalità del comunismo italiano: dall’adesione di Togliatti alla democrazia, al progressivo distacco di Berlinguer dall’Unione sovietica. In quel campo, tuttavia, sia pure con un piede solo, noi ci stavamo.

Eravamo comunisti. Non credevamo più che l’Unione sovietica fosse la patria del socialismo, ma avevamo ancora il mito della rivoluzione russa. Qualcuno distingueva tra Lenin e Stalin per salvare il primo. Pensavamo che la democrazia fosse la strada giusta, ma per arrivare a una sorta di nuovo e inedito socialismo. Il mercato ci sembrava comunque una bestia diabolica da domare con l’espansione più ampia possibile dello stato. Eravamo per l’Europa, sì, ma per un’Europa diversa, non troppo americana, non troppo capitalista. Soprattutto, ci sentivamo diversi dai socialdemocratici che erano bravi (quelli degli altri paesi), ma in fondo accettavano il capitalismo limitandosi ad addomesticarlo un po’. Su questa nostra tiepida coscienza scaldata dal senso di superiorità si è abbattuto l’89 e poi Tangentopoli. Allora il partito ebbe la forza di tirarsi su per il colletto, tipo barone di Münchausen, e di cercare una nuova identità. Non siamo stati però capaci di elaborare, per l’appunto.

Quella sinistra che definisce filo-Putin tutti i pacifisti

L’eccezionalità del partito italiano avrebbe dovuto essere il punto di partenza per fare veramente i conti con il comunismo, con la sua storia grande e tragica. Avrebbe dovuto portarci a capire che la deviazione non iniziò con Stalin, che il destino fu scritto tra il febbraio e l’ottobre del 1917, quando fu affossata la rivoluzione democratica, sciolta l’Assemblea costituente, messe le fondamenta dello stato totalitario. Fu invece usata come schermo per non farli, i necessari ma scomodi conti. I luoghi comuni, le pigrizie intellettuali, le vecchie amicizie e inimicizie non furono sottoposte a severo scrutinio, ma conservate, se mai un po’ impolverate, e pronte a essere tirate fuori all’occasione. E l’occasione, cari ex-compagni, è arrivata con l’invasione dell’Ucraina. Credevamo di essere oramai definitivamente entrati nella Nato, dopo la presa di posizione di Berlinguer che risale, pensate, al 1976. E invece siamo ancora lì, al mito dell’Unione sovietica in absentia. Cioè, l’Unione sovietica non c’è più, ma il riflesso di solidarietà, di vicinanza, direi quasi di affinità è ancora vivo.

Travestito da pacifismo, o da realismo, o dal nichilismo del né-né, è un riflesso che fa sentire comunque più vicina la Russia, anche se criticata, degli Stati Uniti. La patria del capitalismo suscita più diffidenza di quella che fu la patria del socialismo. Certo, nessuno lo dice proprio così esplicitamente. Si dice piuttosto che la colpa è della Nato, che si è allargata a Est: ma se ci chiedessimo perché i paesi già appartenenti alla sfera di influenza sovietica hanno voluto entrare nella Nato? Forse avevano paura della Russia, forse volevano avvicinarsi, anche culturalmente, all’Europa occidentale? Oppure si dice che non c’è differenza tra l’imperialismo russo e quello americano: le bombe sull’Ucraina sono considerate equivalenti a quelle sull’Iraq o sulla Serbia. Ma, anche se per assurdo una simile equivalenza si potesse sostenere, come potremmo concluderne che non ci sia differenza tra una democrazia, con tutti i suoi difetti, e una autocrazia sanguinaria, dove non esiste libertà di opinione, non esiste informazione indipendente, e i dissidenti vengono ammazzati o messi in prigione?

Per un ex-comunista, questa tragica involuzione della Russia post-sovietica, che dopo una breve speranza di democrazia sembra essersi ricollegata, con un bel salto temporale, all’autocrazia zarista, per di più condita con la ferocia stalinista, è una sentenza terribile. Se settant’anni di comunismo hanno prodotto questo, che altro c’è da dire sul comunismo? Molto ci sarebbe stato da dire, se avessimo riflettuto su noi stessi, sulle scelte del Pci, mai portate sino in fondo, certamente, e tuttavia capaci di farne un partito costitutivo, a modo suo, della democrazia italiana e quindi, anche se non vi piace, occidentale. Ormai è tardi per farlo. Di quella grande e spesso eroica vicenda storica, che dovremmo considerare chiusa per sempre, restano questi incongrui riflessi: contro gli americani, contro la Nato, contro le spese militari, contro il dovere, morale prima ancora che politico, di aiutare un popolo invaso che, anziché arrendersi, combatte strenuamente contro l’aggressore. Claudia Mancina

E allora, la Cecenia? Anna Politkovskaja e i luoghi comuni del pacifismo antiamericano. Riccardo Chiaberge su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.  

Già nei primi anni 2000 la giornalista russa uccisa dal Cremlino denunciava l’esistenza di un doppio standard sul piano dei diritti umani: «Di fatto l’Europa si è rassegnata all’esistenza di un territorio in cui si può fare ciò che si vuole impunemente». Ora sappiamo che quelle erano le prove generali del massacro di stampo nazista che oggi Putin tenta di ripetere in Ucraina.

Cosa ci faceva Anna Politkovskaja, il 16 agosto del 2001, in un fiordo norvegese, anzi per la precisione nel cimitero di un fiordo? La risposta è incisa sulla lapide davanti alla quale si ferma in raccoglimento, insieme a una vecchia del luogo: «Dod Tsjetsjenia. 17.12.1996». «Morta in Cecenia». «Ingeborg Foss, infermiera norvegese di quarantadue anni residente a Molde e che da Molde – placida cittadina sull’Atlantico – era partita il 4 dicembre del 1996, è morta a Starye Atagi, Cecenia, il 17 dello stesso mese, nell’ospedale che aveva messo in piedi con altri cinque fra dottori e infermiere. Dopo dieci giorni di missione con la Croce Rossa».

Ingeborg, racconta la madre Sigrid, ottantaduenne, era già stata in Nicaragua e in Pakistan. Quando le hanno chiesto di andare in Bosnia ha rifiutato, «Non posso. Mia madre è anziana». Per la Cecenia invece ha detto sì, perché quelli della Croce Rossa le assicuravano che non c’era pericolo. Il corpo di sua figlia, Sigrid se lo è visto restituire su una barella, portata da un collega medico. Nel 1997 l’allora presidente ceceno Maschadov le ha conferito la massima onorificenza del paese caucasico. Ma nessuna inchiesta, in Russia o altrove, ha mai fatto chiarezza sulle circostanze della sua morte. 

Nell’accomiatarsi da Sigrid, Anna riflette: «Continuate a credere che il mondo è grande? E che se da qualche parte si combatte, da un’altra non se ne sentano le conseguenze?… La disgrazia dei nostri giorni è che questa verità banalissima e vecchia come il mondo va ancora dimostrata come se fosse cosa di ieri. L’Europa non ha fatto una piega né per la modesta tomba di Molde, né per le migliaia di tombe in territorio ceceno. L’Europa continua a dormire, come se non fosse in terra d’Europa che si combatte da ventitré mesi, ormai… Eppure la Cecenia è parte integrante – e a pieno diritto – del Vecchio Continente». 

Se questo è vero nell’agosto del 2001, lo sarà ancor di più un mese dopo, quando tutta l’angoscia del pianeta si coagulerà intorno alle Twin Towers di New York, incenerite dalla furia del terrorismo islamista. E anche se gli attentatori non vengono del Caucaso settentrionale, diventerà sempre più difficile distinguere tra musulmani buoni e cattivi. Tanto che Vladimir Putin, da due anni insediato al Cremlino, avrà buon gioco a presentare la sua macelleria di massa come una benemerita operazione di bonifica in nome e per conto del mondo civilizzato.

Soprattutto dopo la strage nella scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord, il 1 settembre del 2004, non ci saranno più patrioti ceceni da combattere, soltanto terroristi da annientare. La guerra si concluderà cinque anni dopo, con la fulgida vittoria dell’armata rossa. Bilancio finale tra i cento e i centocinquantamila civili morti, per un paese che oggi conta un milione e mezzo di abitanti, trentamila bambini mutilati, un numero imprecisato di profughi. E di Grozny, la capitale, non resta in piedi neanche un mattone. 

Quanto all’Europa, rimane voltata dall’altra parte. Politkovskaja denuncia l’esistenza di un doppio standard sul piano dei diritti umani. Per cosa è morta Ingeborg Foss? Per i valori in cui era stata educata nella libera Norvegia, e che dovrebbero rappresentare i fondamenti della Ue. Purtroppo, scrive Anna, «di fatto l’Europa si è rassegnata all’esistenza di un territorio in cui si può fare ciò che si vuole impunemente…Niente proteste, niente boicottaggi nei confronti dei leader russi e – inconcepibile riguardo al resto d’Europa – tolleranza per omicidi, linciaggi, persecuzioni e, soprattutto, per la sanzione della responsabilità collettiva di un gruppo etnico rispetto a quanto compiuto da alcuni suoi membri». E se non è nazismo questo, l’essenza stessa del nazismo (criminalizzazione di un altro popolo, e divinizzazione del proprio), cos’altro è il nazismo? Qualche svastica tatuata sul collo o sventolata allo stadio? Il saluto a braccio teso di qualche bullo ignorante? In Cecenia, il giovane Putin (era stato nominato primo ministro della Federazione russa nel 1999, a soli 47 anni), ha fatto lucidamente, scientificamente, le prove generali della “denazificazione” di stampo nazista che oggi tenta di ripetere in Ucraina. 

E Politkovskaja, in qualche modo, lo aveva previsto (le pagine dell’eroica giornalista, assassinata nel 2006, sono tratte dal libro postumo Per questo, edito in Italia da Adelphi, che raccoglie i suoi articoli apparsi sulla Novaja Gazeta insieme a testi ancora inediti, appunti personali e testimonianze). Si poteva fermare il dittatore prima che lo diventasse, e prima che la sua ingordigia espansionistica minacciasse altri stati sovrani? Colpisce l’insistenza di Anna sullo strabismo degli europei, perché ribalta i luoghi comuni della retorica pacifista e neutralista antiamericana: dove eravate, nel gennaio del 1991, quando Bush Senior bombardava Baghdad? E nel 1999, nei giorni dei raid della Nato su Belgrado? Perché non avete mosso un dito, nel 2003, davanti all’invasione e alla distruzione dell’Iraq da parte di Bush Jr? 

Beh, a essere onesti qualche ditino si è mosso. Tanto per fare un esempio, il 15 febbraio 2003 furono centodieci milioni, in seicento città del mondo, a scendere in piazza contro la guerra “imperialista” americana. Tre milioni solo a Roma, con Piazza San Giovanni che esplodeva, la più grande manifestazione pacifista della storia secondo il Guinness dei primati (al secondo posto Madrid con un milione e mezzo di persone). Notare che nel 2003 Facebook e Twitter dovevano ancora nascere, la mobilitazione avveniva in modo artigianale, con il tam tam delle radio popolari, dei sindacati, dei giornali di sinistra come il Manifesto, o attraverso i cellulari dei militanti. Nella sfilata ai Fori Imperiali, in mezzo a una marea di striscioni arcobaleno, si distingueva un compagno di Rifondazione con il faccione di Lenin stampato sulla T-shirt e il colbacco in testa. 

Non ricordo mobilitazioni simili per la guerra in Cecenia: forse i miei neuroni con l’età si stanno un po’ ossidando, ma ho paura di non sbagliare. Ha ragione Anna Politkovskaja: l’Europa si è dimenticata di un frammento d’Europa, sbriciolato dalle bombe termobariche di un ex agente del Kgb con ambizioni imperialistiche. Ha deciso che per il quieto vivere fosse meglio abbandonarlo al suo destino. Tanto, come diceva allora un corrispondente della tv di stato norvegese «la Russia fa storia a sé», lì «i criminali di guerra non sono tanto criminali» e noi non ci possiamo fare niente. Mica pretenderete di cambiare l’anima russa…

Nel libro c’è un articolo che Anna stava scrivendo prima di venire uccisa, il 7 ottobre 2006. Riguarda le torture in Cecenia: l’Abu Ghraib, la Guantanamo dei russi. Leggere queste righe mette i brividi: «Ho davanti ogni giorno decine di cartelle. Sono le copie dei materiali giudiziari di coloro che sono finiti in prigione con accuse di “terrorismo” o sono ancora sotto inchiesta. Perché metto la parola terrorismo tra virgolette? Perché per la stragrande maggioranza si tratta di “terroristi per nomina”. Una pratica che fino a tutto il 2006 ha soppiantato la lotta al terrorismo vero e ha sfornato terroristi potenziali su cui vendicarsi. Quando procura e tribunali non servono la legge e non mirano a punire i colpevoli, ma lavorano su mandato politico e per una contabilità antiterroristica che aggrada al Cremlino, i processi spuntano come funghi».

Questi processi, conclude Politkovskaja, «sono l’arena in cui si scontrano due approcci ideologici a ciò che accade nella zona di “operazioni antiterrorismo del Caucaso del Nord”: è la legge contro l’illegalità o piuttosto la “nostra” illegalità contro la “loro”?». Questi erano i metodi del signor Putin quindici, vent’anni fa, ai primi gradini della sua carriera di uomo di stato e di grande liberale. Ma mi raccomando, voi guerrafondai dell’Occidente, non umiliatelo troppo. 

La destra, la guerra e la Nato: un dibattito che dura dagli anni ’50 e che ha riportato in pista persino Fini. Adele Sirocchi mercoledì 25 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.

La guerra in Ucraina, con il rinnovato protagonismo degli Stati Uniti e il conseguente rafforzamento della Nato (con l’ingresso di Finlandia e Svezia) ha fatto precipitare la destra in un dibattito che sembrava rimasto in sospeso da decenni ma che già lacerava il Msi negli anni Cinquanta: essere atlantisti o no. Essere pro-Nato o anti-Nato. E ancora: criticare l’America oppure riconoscerle il ruolo di baluardo dell’Occidente minacciato.

La questione, come detto, teneva banco nei primi congressi del Msi – in particolare quello dell’Aquila del 1954 e quello di Milano del 1956 – e vide sempre la corrente di sinistra, capeggiata da Ernesto Massi e Concetto Pettinato, opporsi alla linea atlantista che poi il partito avrebbe intrapreso.

Oggi, come detto, certi sentimenti – mai del tutto sopiti e trasformatisi decenni dopo nelle mozioni critiche verso l’americanismo di Beppe Niccolai e di Pino Rauti – riaffiorano e si intrecciano al dibattito su Putin, Biden, il destino dell’Europa, l’Occidente.

Cinque giorni fa al Senato Ignazio La Russa sottolineava che non ci sono dubbi sulla posizione di FdI: “Noi siamo sempre stati ancorati ai valori occidentali. Ed è dal 1949 che la destra politica italiana, il Msi, poi An e poi il Pdl fino oggi a FdI, si è sempre coerentemente schierata da questa parte del mondo anche a sostegno dello strumento difensivo occidentale che è la Nato. Perché abbiamo sempre ritenuto che il pericolo alla nostra libertà venisse da Est”. E ha poi detto. “Se vogliamo essere alla pari degli Usa e non delegare agli Stati Uniti la nostra difesa non possiamo poi dire no alla politica per rafforzare il nostro esercito”. Una posizione netta, che peraltro Giorgia Meloni aveva chiarito già alla conferenza di Milano di FdI.

Eppure si discute. E’ accaduto alla presentazione del libro di Enzo Raisi a Roma, “La casta siete voi“, dove erano presenti Gianni Alemanno e Claudio Barbaro, entrambi di FdI. E dove ha preso la parola Gianfranco Fini per il suo primo intervento pubblico dopo molti anni. Lo scambio di vedute ha riguardato la guerra, la destra e l’Occidente.

“Non riesco a capire come in alcuni casi da destra si continua a dire che l’Italia e l’Europa sono una colonia americana in ragione di quello che è accaduto nel ’45 – ha detto Gianfranco Fini – oggi la questione riguarda il confronto in atto tra un Occidente in fase regressiva e altre realtà economico-finanziarie culturali che sono in fase espansiva. Le realtà in espansione, le cosiddette autocrazie o le cosiddette dittature, quali Cina e Russia, sono i due modelli alternativi ai modelli occidentali che vanno rivisti certo, riformati, non è tutto oro quello che luccica, a cominciare dalla cancel culture che vuole abbattere le statue di Colombo…”.

A sua volta Gianni Alemanno, reduce da una missione umanitaria della Fondazione An che ha portato aiuti alle popolazioni ucraine colpite dalla guerra,  non fa mistero della sua posizione critica verso la narrazione unica sul conflitto. “Anche gli Usa – ha detto di recente in un’intervista a Repubblica– hanno fatto le loro guerre illegali e sul Donbass non è stata mai avanzata una proposta per risolvere il problema dal 2014…”. E tra due giorni lo stesso Alemanno sarà presente al dibattito “Fermare la guerra” a Roma, a Palazzo Wedekind. Ci saranno Franco Cardini, Toni Capuozzo e Francesco Borgonovo, tutti noti per le loro posizioni anti-Nato e comprensive verso le ragioni della Russia. E a moderare ci sarà Massimo Magliaro, già capo ufficio stampa dell’atlantista Almirante. E il dibattito continua…

Kiev: "La Nato non fa niente". Sos Slovacchia: "Noi i prossimi". Redazione il 26 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, intervenendo al Forum economico di Davos in Svizzera, ha accusato la Nato di "non fare letteralmente nulla" per far fronte all'aggressione russa.

Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, intervenendo al Forum economico di Davos in Svizzera, ha accusato la Nato di «non fare letteralmente nulla» per far fronte all'aggressione russa. Se l'Ucraina dovesse perdere la guerra contro la Russia, il prossimo obiettivo ad essere attaccato da Mosca sarebbe Bratislava. A dirsene certo è stato il premier slovacco, Eduard Heger, sottolineando la necessità che l'Ucraina esca vincitrice dal conflitto. «L'Occidente deve assicurare tutto l'aiuto possibile», ha affermato ancora intervenendo al foro di Davos. «L'Ucraina deve vincere, quindi forniremo tutta l'assistenza militare e umanitaria necessaria. Gli ucraini stanno proteggendo e perdendo la vita per i nostri valori», ha affermato. Ha anche ricordato che la Slovacchia ha ricevuto aiuti in passato da altri paesi, facendo notare come, per questo motivo, «ora è importante aiutare l'Ucraina e altri Stati ad entrare nell'Unione Europea». «L'Ucraina vuole raggiungere questo obiettivo, ma ha bisogno del nostro sostegno. Vogliamo aiutarli, quindi non trasciniamoci per decenni», ha esortato, prima di ricordare che la Repubblica Ceca, la Polonia e l'Ungheria si sono unite al blocco con «il grande aiuto del Commissione europea. D'altra parte, ha criticato gli Stati membri dell'Ue per essere troppo dipendenti dall'energia russa» e ha invitato i leader europei a «smetterla di arrivare a compromettere i propri principi». «In effetti, abbiamo scambiato le nostre politiche per gas e petrolio a buon mercato per troppo tempo. I compromessi con Putin hanno provocato la guerra in Ucraina, una guerra aggressiva che sta causando morti», ha detto.

Durante l'incontro coi giornalisti a margine del Forum economico mondiale a Davos, il filantropo campione della democrazia liberale e della «società aperta» George Soros ha sostenuto che, con l'inizio dell'invasione russa in Ucraina, «il corso della storia è cambiato radicalmente» e che l'azione militare di Mosca «ha scosso l'Europa in profondità». Per Soros, la cosiddetta «operazione speciale potrebbe aver segnato l'inizio della terza Guerra Mondiale e la nostra civiltà potrebbe non sopravvivere».

Spunta l'accordo della Nato: "Non diamo queste armi a Kiev". Federico Giuliani il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

I paesi membri della Nato si sarebbero accordati informalmente per non fornire alcuni tipi di armamento all'Ucraina in modo da evitare il rischio di uno scontro fra la Russia e l'Alleanza Atlantica.

Un accordo informale tra i Paesi membri della Nato per non fornire alcuni tipi di armamenti all'Ucraina, in modo tale da scongiurare il rischio di uno scontro tra la Russia e la stessa Alleanza Atlantica. È questa l'indiscrezione lanciata dall'agenzia stampa tedesca Dpa e confermata da fonti diplomatiche Nato.

L'intesa della Nato

A detta di queste fonti anonime, l'intesa formale sarebbe stata rispettata anche per il timore che, in caso di rappresaglia russa, non vi sarebbe stato il pieno sostegno da parte dei membri dell'Alleanza. È per questo motivo, ad esempio, che lo scorso marzo la Polonia non ha fornito a Kiev i Mig 29 che sembravano davvero ad un passo dal varcare i confini di Varsavia, diretti come erano verso l'Ucraina.

Non è un caso, dunque, che i membri della Nato non abbiano fin qui fornito al governo guidato da Volodymyr Zelensky né aerei caccia né tank di tipo occidentale. A ben vedere, ha sottolineato Dpa, i Paesi membri situati in est Europa hanno spedito a Kiev armi ed equipaggiamento risalente all'era sovietica. Niente, insomma, che potesse scatenare una pericolosissima reazione di Mosca.

La posizione dell'Alleanza Atlantica

Un portavoce della Nato, interrogato dall'agenzia stampa tedesca, ha preferito non commentare l'indiscrezione, spiegando però che ogni decisione sulla fornitura di armi viene presa dai singoli Stati membri. In ogni caso, le notizie del presunto accordo informale sono arrivate in un momento particolare, ossia mentre il governo tedesco del socialdemocratico Olaf Scholz è finito nell'occhio del ciclone e criticato per lo scarso invio di armi all'Ucraina.

Non solo: da giorni il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, sta ripetendo che il suo Paese intende acquisire veicoli da combattimento della fanteria tedesca Marder e idealmente anche i principali carri armati Leopard. "Ma non ci siamo nemmeno vicini, non ci siamo", ha detto in una conferenza stampa a margine del World Economic Forum di Davos. "Capiamo che è più difficile per la Germania che per gli altri, quindi abbiamo deciso di seguire questo sviluppo con pazienza strategica", ha quindi chiarito Kuleba, aggiungendo di non riuscire a capire perché per Berlino sia così complicato vendere quel tipo di armi. "Se non avremo tutte le armi pesanti di cui necessitiamo saremo uccisi dai russi", ha quindi concluso il ministro ucraino.

Nel frattempo vale la pena ricordare che, la scorsa domenica, il sottosegretario tedesco alla Difesa, Siemtje Moeller, aveva detto all'emittente Zdf che in seno alla Nato era stato convenuto di non inviare a Kiev veicoli di fanteria o tank occidentali. Il capogruppo Spd al Bundestag, Wolfgang Hellmich, ha invece commentato la notizia della Dpa dicendo che la commissione Difesa ne era stata informata a metà maggio. A riguardo, ha spiegato, la Nato non ha preso decisioni formali perché sono gli Stati membri, non l'Alleanza a fornire armi. Tutti hanno rispettato l'accordo e "chi dice diversamente o non ha ascoltato bene o consapevolmente non dice la verità". Già ai primi di maggio, Hellmich aveva riferito che la Nato aveva deciso "di non fornire tank pesanti da battaglia, nessun Leclerc o Leopard".

Non c’è vero pacifismo senza lotta agli aggressori, risponde Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.

Caro direttore,

vorrei esprimere qualche considerazione sui numerosi pacifisti nostrani. Il pacifismo è un’apprezzabile dottrina, da me condivisa, finalizzata ad evitare le guerre prima che deflagrino; ma se una guerra è già in atto, il pacifista dovrebbe coerentemente sostenere l’aggredito e criticare inequivocabilmente l’aggressore che l’ha provocata. Non dovrebbe auspicare la resa dell’aggredito, peraltro mai presa in considerazione da quest’ultimo, per ottenere la fine della guerra; tale atteggiamento rappresenta un implicito sostegno a favore del bellicismo, cioè un incitamento a risolvere eventuali controversie internazionali con la forza militare, soprattutto se la controparte appare più debole. Alberto Tettamanzi

Caro signor Tettamanzi,

Tutte le generazioni di europei che hanno vissuto la lunghissima stagione di pace dopo la Seconda guerra mondiale forse hanno considerato questa situazione come scontata. Quasi fosse un elemento naturale come l’aria che respiriamo. Purtroppo non è così, l’abbiamo visto dai tanti terribili conflitti esplosi in altre parti del nostro mondo. La pace va perseguita e costruita ogni giorno, deve essere l’obiettivo costante di individui, Stati e governi. Ogni pacifista vero (e non quelli che si dichiarano così per interessi politici o personali inconfessabili) sa che respingere un’invasione, combattere una devastante aggressione armata, come quella di Putin in Ucraina, è la condizione necessaria perché questo non accada un’altra volta. Perché non si lasci il mondo alla mercé del dittatore armato di turno. È politicamente, strategicamente e moralmente giusto costringere Putin a fermarsi e mettersi al tavolo della trattativa. Tutta la comunità internazionale deve lavorare per questo obiettivo, con la diplomazia e con l’aiuto militare agli ucraini fino a quando sarà necessario. È quello che In Italia purtroppo non capiscono quei politici molto comprensivi verso Putin e pronti soltanto a consigliare a Zelensky di arrendersi.

Bucha, Alessandro Sallusti: "Da Putin una foto ricordo per voi". Lo scatto che spazza via pacifisti e traditori dell'Occidente. Libero Quotidiano il 04 aprile 2022.

Mosca smentisce, del resto nega pure di stare combattendo una guerra. Eppure le fotografie che arrivano dalle città ucraine distrutte, saccheggiate e poi abbandonate dai soldati russi parlano chiaro. Di fronte a corpi di civili inermi giustiziati per strada o nei ripari di fortuna - per esempio un tombino - qualcuno può ancora sostenere che Putin ha le sue buone ragioni per fare quello che ha fatto e che sta facendo? Ci sono fotografie che hanno cambiato il corso di una guerra, a volte la storia stessa.

Nel giugno del 1972 in un paesino vietnamita vicino al confine con la Cambogia aerei dell'aviazione sudvietnamita armata dagli Usa sganciarono bombe incendiarie al napalm. Kim Phúc, una bambina di 9 anni che si riparava da tre giorni in un tempio, rimase colpita: il suo braccio sinistro prese immediatamente fuoco, il suo vestito si distrusse in pochi secondi. Scappò dal tempio e cominciò a correre - gridando «Scotta! scotta!» - e un fotografo dell'Associated Press scattò una foto di lei nuda che fuggiva verso una improbabile salvezza (che in effetti miracolosamente trovò). In molti hanno sostenuto che quella foto contribuì ad accelerare la fine della guerra del Vietnam tanto fu l'emozione e lo sdegno nell'opinione pubblica americana e mondiale di fronte a tanto orrore. 

Tra la foto della piccola Kim e quelle che stanno arrivando in queste ore dall'Ucraina la differenza più importante è che la prima è stata sbattuta in faccia dalla stampa libera anche ai cittadini del paese considerato allora aggressore, gli Stati Uniti, mentre il popolo russo prigioniero della censura e della propaganda putiniana mai vedrà i massacri gratuiti commessi dai suoi soldati, mai potrà vergognarsi del proprio leader e quindi mai sentirà il bisogno di ribellarsi. Noi però quelle foto le possiamo vedere, l'Occidente certo non è un paradiso terrestre e avrà anche le sue colpe ma ha un'arma micidiale sconosciuta al nemico: la libertà dei suoi cittadini. E nessun uomo libero, di destra o di sinistra che sia, di fronte a queste immagini può girarsi dall'altra parte, fare finta di niente o collocarsi nella zona neutra del né con Putin né con gli ucraini. Fermare la ferocia russa è l'unica via per arrivare alla pace, quei corpi di civili a terra inutilmente crivellati ci dicono che gli ucraini mai potranno arrendersi, e noi con loro.

Da repubblica.it il 20 maggio 2022.

Emergono nuove prove delle atrocità commesse dai soldati russi a Bucha, cittadina a nord-ovest di Kiev. Le fornisce un'inchiesta del New York Times che ha diffuso dei video che mostrano come i russi abbiano giustiziato almeno 8 uomini ucraini nel sobborgo della capitale. 

I video ottenuti dal New York Times risalgono al 4 marzo. Nelle immagini si vedono le forze paracadutiste russe che catturano un gruppo di uomini ucraini che vengono condotti in fila verso un cortile dove poco dopo verranno giustiziati: gli uomini, se ne contano 9, camminano ricurvi, con un braccio sulla testa e l'altro a tenere la cintura del compagno davanti.

I video, spiega il quotidiano, sono stati girati da una telecamera di sicurezza e da un testimone in una casa vicina. 

Il video in cui si vedono gli uomini catturati termina, ma quello che è accaduto successivamente viene raccontato da alcuni testimoni, spiega il Nyt: i soldati hanno portato gli uomini dietro un vicino edificio che era stato occupato dai russi e lì ci sono stati degli spari: gli uomini catturati non sono tornati indietro.

Un video filmato da un drone il 5 marzo "fornisce la prima prova visiva che conferma il racconto dei testimoni: mostra i corpi morti a terra sul lato dello stesso edificio - spiega il quotidiano - mentre due soldati russi sono lì vicino di guardia". 

E nell’impegno della comunità internazionale per fare luce sui crimini di guerra commessi dai russi, arriva l’importante presa di posizione dei responsabili della giustizia di cinque paesi occidentali, che formano la cosiddetta alleanza "Five Eyes", e hanno annunciato di appoggiare l'azione legale dell'Ucraina. 

I ministri della Giustizia o procuratori generali di Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada e Nuova Zelanda hanno affermato in una dichiarazione di "sostenere" l'azione del procuratore generale dell'Ucraina Iryna Venediktova volta a ritenere responsabili i responsabili di "crimini di guerra commessi durante l'invasione russa".

L'Ucraina ha aperto migliaia di casi di crimini di guerra presumibilmente commessi da soldati russi dal 24 febbraio - e questa settimana è stato aperto un primo processo. "Sosteniamo la ricerca di giustizia dell'Ucraina e attraverso altre indagini internazionali, inclusa la Corte penale internazionale" e altri organi, hanno affermato nella loro dichiarazione congiunta.

“Condanniamo insieme le azioni del governo russo e lo invitiamo a cessare tutte le violazioni del diritto internazionale, a fermare la sua invasione illegale e a cooperare”. Il loro discorso arriva all'indomani del primo giorno del processo a un soldato russo, il primo ad essere processato in Ucraina per un crimine di guerra dall'inizio del conflitto. Vadim Shishimarin è accusato di aver ucciso lo scorso 28 febbraio nel nord-est del Paese Oleksandr Shelipov, un uomo di 62 anni. Ha ammesso i fatti e giovedì l'accusa ha chiesto l'ergastolo.

Se questa è Bucha. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 20 maggio 2022.  

Sono sicuro che nelle prossime ore, ma forse già nei prossimi minuti, coloro che hanno messo in dubbio le responsabilità russe nei massacri di Bucha ammetteranno di essersi sbagliati. Non si pretende una retromarcia dal governo di Putin, che, essendo in guerra, è costretto a negare ogni verità che danneggi la sua propaganda. Ce la si aspetta da quanti in guerra non sono, se non sui giornali e nei talk, e hanno messo in dubbio la veridicità delle stragi, in qualche caso spingendosi a parlare di messinscena, ma più spesso sospendendo prudentemente (o pilatescamente?) il giudizio in attesa di prove inconfutabili. assomiglia molto a quel genere di prove. Documenta una delle esecuzioni compiute a Bucha dai russi in ritirata e mostra una fila di nove ucraini in abiti civili che camminano ricurvi verso la morte, tenendo un braccio sopra la testa e l’altro appoggiato alla cintura del compagno di sventura che li precede. Una testimonianza che dovrebbe azzerare i dubbi e le ricostruzioni spericolate, consentendo all’estenuante dibattito pubblico di fissare finalmente un punto condiviso. Si sono create fazioni contrapposte che tendono a esaltare le prove a favore della propria tesi e a minimizzare quelle che la mettono in cattiva luce. Riconoscere il marchio russo sugli orrori di Bucha sarebbe un gesto di onestà intellettuale e un segno di pace. Le ore e i minuti passano, ma attendiamo fiduciosi. 

Se questi sono uomini. di Paolo Di Paolo su La Repubblica il 20 maggio 2022.  

Le forze paracadutiste russe catturano un gruppo di uomini ucraini che vengono condotti in fila verso un cortile dove poco dopo verranno giustiziati: gli uomini - dice la didascalia - camminano ricurvi, con un braccio sulla testa e l'altro a tenere la cintura del compagno davanti.

Nessuna violenza somiglia a un’altra, nessun orrore è parente di un altro; la Storia si ripete ma non identica a sé stessa, e piuttosto occorre dire che, nel bene e nel male, si ripete l’umano. I paragoni e i paralleli non hanno senso. E chiedersi, davanti a immagini così, se questi siano uomini, presuppone - prima che la domanda tormentosa di Levi - la risposta implicita è inevitabile: sì, lo sono. Sono uomini.

C’è semmai - per stare alla riflessione che Levi porta all’estremo in quel libro ultimo e straordinario che è "I sommersi e i salvati" - da evocare la parola vergogna.

E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. È stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che nessun uomo è un’isola, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato.

(ANSA il 20 maggio 2022. ) - I russi hanno completato la rimozione delle macerie del teatro di Mariupol bombardato a marzo, portando via i corpi di centinaia di civili. Lo ha affermato il consigliere del sindaco di Mariupol, Petro Andryushchenko, citato da Unian.

"Ora non sapremo mai quanti civili di Mariupol siano stati effettivamente uccisi dal bombardamento russo al Teatro d'arte drammatico. I morti sono stati sepolti in una fossa comune a Mangush", ha detto Andryushchenko, affermando che "è difficile immaginare un crimine di guerra e contro l'umanità più grande".

"Le 50 Bucha nascoste". Nino Materi il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr: "Eccidi in decine di villaggi. Un orrore che stiamo scoprendo man mano che i centri che erano in mano russa vengono liberati".

L'orrore di Bucha d'inizio aprile - com'era evidente senza paraocchi ideologici e complottistici - non era il semplice punto di arrivo di una guerra in cerca di pace, ma il ben più complesso punto di partenza di un conflitto proiettato su sempre nuove escalations di violenza. Nulla di casuale, tutto cinicamente calcolato a tavolino da chi (in testa Russia, Cina e Stati Uniti, con l'Europa in un ruolo ancillare) ha interesse che le bombe non vengano disinnescate dalla diplomazia. L'ennesima conferma - se mai ce ne fosse bisogno - viene dalla dichiarazioni di ieri rilasciate all'Ansa dal direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr, padre Vitalyi Uminskyi: «Ci sono una cinquantina di villaggi in Polyssia, regione nell'Ucraina del Nord ai confini con la Bielorussia, che hanno vissuto orrori come a Bucha». Parole che - a rischio di apparire cinici - potremmo dire che non sorprendono più di tanto: la realtà degli enormi interessi economici in campo e lo scenario geopolitico è infatti evidente e non appare tale solo a chi, strumentalmente, ha scelto di prestarsi al gioco incrociato delle propagande.

Poi ci sono le vittime vere (i soldati e, ancor peggio, i civili) maciullati dai razzi mentre i potenti si sfidano a Risiko. Una partita in cui sta cercando di inserirsi anche la Chiesa, con il Papa però molto incerto sul da farsi e i cui problemi di deambulazione sembrano essere la migliore metafora dell'incertezza su quale strada intraprendere. E allora ecco che la testimonianza di padre Vitalyi Uminskyi assume quasi il valore di un monito. Nell'ambito dell'incontro con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, il direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr ha denunciato «torture, uccisione di civili, distruzioni e saccheggi in almeno altri 50 villaggi in Polyssia. La stessa devastazione di Bucha, moltiplicata per cinquanta.

«Nel villaggio di Maryanivka - ha raccontato il religioso ucraino - sono morti cinque bambini che erano usciti dal rifugio della scuola che in quel momento è stata attaccata. I villaggi sono stati occupati dai russi per 47 giorni, ora liberati, ma solo in questi giorni sono stati raggiunti da Caritas, con grande difficoltà, perché quasi tutte le strade intorno sono minate». In questi giorni i volontari della Caritas stanno raggiungendo piccoli centri come Zirka, Lugovyky e Ragivka, portando per la prima volta aiuti resi possibili dalla protezione del militari di Zelensky che hanno liberato la zona. Fino a pochi giorni fa, l'intera area risultava infatti, irraggiungibile per strade interrotte e campi minati. Padre Uminskyi cita testimonianze dirette che parlano di «giovani soldati russi, spesso ubriachi, che hanno distrutto con l'ausilio di carri armati le case di civili saccheggiandole. Su alcune abitazioni i russi hanno scritto fascisti. Secondo gli abitanti della zona i russi sapevano chi cercare, soprattutto reduci della guerra del 2014 in Donbass che qui si sono trasferiti dopo il conflitto. I soldati avevano liste con i nomi di persone da colpire». «Tre di questi reduci - aggiunge il religioso a capo della Caritas locale - sono stati torturati con bruciature e uccisi». Una strage che si sarebbe consumata nel villaggio di Marianyvka: «Qui cinque bambini sono stati uccisi da un bombardamento russo nella scuola locale. I piccoli, al termine di un primo attacco, sono usciti dal loro rifugio rimanendo uccisi da un altro missile lanciato che ha colpito anche la struttura scolastica. I corpi dei bimbi sono stati sepolti nel cortile della scuola perché i russi non hanno dato il permesso di rimuovere i cadaveri». Altri testimoni citati da padre Uminsky aggiungono morte a morte: «Due giovani catturati, torturati e uccisi dai russi. I loro corpi sono stati ritrovati in questi giorni in una fossa scavata nei boschi». Immagini che fanno tornare alla memoria lo scempio di Bucha, che qualcuno ha perfino avuto il coraggio di definire «una messinscena». Invece quelle decine di corpi abbandonati lungo le strade o gettati nelle fosse comuni erano paurosamente «veri». Ma oggi come allora Mosca respinge le accuse di aver ucciso civili a Bucha, come ribadisce il ministero degli Esteri russo, Sergej Lavrov, bollando le foto ed i video sui morti di Bucha come «fake prodotti da Kiev e dai media occidentali». Qualcuno, forse, un giorno glielo rinfaccerà. Magari nel corso di un'intervista. Vera, possibilmente.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 6 maggio 2022.

Torture, mutilazioni, stupri, esecuzioni di civili inermi. Migliaia di crimini di guerra, ma anche l'ipotesi di genocidio. Ancora ieri mattina, mentre i 45 colleghi dei Paesi membri del Consiglio d'Europa si riunivano a Palermo, non era chiaro se e come Iryna Venediktova, procuratrice generale dell'Ucraina, sarebbe riuscita a collegarsi.

Ma quando la sua voce per dodici minuti è risuonata da Kiev nella sala d'Ercole di Palazzo dei Normanni, non si è trattato solo di un «very special intervention», ma di un atto d'accusa contro la Russia in un consesso internazionale.

La massima autorità giudiziaria ucraina ha ricostruito la tattica delle forze armate russe come emerge dalle prime indagini: prima le cose, poi le persone. «Fin dai primi giorni hanno preso di mira 5.137 edifici civili con bombardamenti indiscriminati» che hanno già distrutto 1.584 istituzioni educative e 340 strutture mediche.

«Ma quando è diventato evidente che non potevano prendere il controllo della capitale e decapitare il governo, hanno iniziato a colpire massicciamente i civili come forma di punizione, seminando paura e terrore con atrocità di portata crescente». 

Oltre a Kiev, Bucha, Irpin, Borodianka, Hostomel, «abbiamo situazioni simili in altre aree, e solide prove che i civili siano intenzionalmente presi di mira in modo diffuso e sistematico», anche se i russi si stanno attivando «per coprire le tracce e depistare le indagini».

Il catalogo delle brutalità comprende «corpi che giacciono allineati nelle strade, con mani legate e chiari segni di torture e mutilazioni; alcuni ancora con le biciclette o i cani, altri colpiti mentre cucinavano su fuochi di fortuna. Corpi di donne e bambini violentati e parzialmente bruciati sull'asfalto. Una camera di tortura a Bucha, per civili disarmati prima seviziati e poi fucilati. E violenze sessuali documentate con prove crescenti nelle regioni di Donetsk, Zaporizhia, Kiev, Lugansk, Kharkiv e Kherson».

Tra le 25 vittime di stupri, una è un minore. Altre otto indagini riguardano la deportazione in Russia e Bielorussia di 2.420 bambini. Nelle zone prese d'assedio «le forze russe stanno deliberatamente bloccando i corridoi umanitari per la consegna di cibo e medicine, nonché l'evacuazione di donne, bambini e anziani».

Caso limite è Mariupol, «una volta bella» e ora distrutta per il 90%, «con centinaia di civili e 500 soldati feriti ancora intrappolati nell'acciaieria Azovstal». La magistratura ucraina indaga su quasi 10 mila segnalazioni di crimini di guerra «e il numero cresce ogni giorno».

Quindici russi sono formalmente incriminati. Una separata inchiesta ipotizza il reato più grave del diritto umanitario: il genocidio. Ma da soli non ce la facciamo, avverte la procuratrice.

Difficile individuare colpevoli e testimoni (molti fuggiti all'estero), nonché trovare attrezzature di medicina legale e tecnologie informatiche per gestire la massa di denunce.

La cooperazione internazionale è necessaria «per farla finita con l'impunità dei colpevoli a tre livelli: soldati, capi militari, leader politici». Corte penale internazionale ed Eurojust collaborano; Polonia e Lituania hanno avviato indagini congiunte. Altri 16 Stati hanno aperto inchieste autonome. 

«Mi appello a voi, non perdete l'attimo, contiamo sul vostro aiuto», conclude Venediktova. «Vi aiuteremo in questo compito difficile», chiosa il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Parole e applausi tutt'altro che di circostanza. 

Per i nuovi pacifisti che stanno ribaltando la storia la colpa della guerra è di chi reagisce all’aggressore. Da Hitler al Vietnam, le “quinte colonne” di Putin in Italia stanno ispirando un grande processo di revisionismo storico. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 20 maggio 2022.

Non ce ne siamo accorti, ma le “quinte colonne” di Putin in Italia stanno ispirando un grande processo di revisionismo storico, a fronte del quale l’opera di Renzo De Felice impallidisce e scompare.

Applicando i loro canoni agli eventi e alle cause che hanno determinato i conflitti del XX secolo si ottiene una radicale smentita di quanto ci hanno fatto credere o che abbiamo direttamente vissuto senza renderci conto della realtà.

LA STORIA RIBALTATA

Quali sono i criteri di valutazione di Alessandro Orsini, Donatella Di Cesare, Michele Santoro e tanti altri, nati o rinati a nuova vita in occasione della guerra in Ucraina?

1) Se l’aggressore è più forte dell’aggredito, quest’ultimo deve arrendersi il più presto possibile per non costringere il primo a compiere una “inutile strage’’.

2) Come conseguenza, se l’aggressore vanta delle rivendicazioni territoriali in base al suo libero arbitrio, l’aggredito deve essere pronto a concedergliele.

3) In queste circostanze l’esercizio di un elementare diritto di difesa trasforma l’aggredito in aggressore e in nemico della pace; pertanto la comunità internazionale non deve prestargli in alcun modo assistenza.

4) In ogni caso, l’aggressore NON deve mai essere umiliato, per non obbligarlo a compiere azioni sconsiderate, ma giustificate, per non perdere la faccia.

In base a questi nuovi criteri di giudizio si potrebbe riscrivere tutta la storia del secolo breve. Tutto iniziò dalla fine della Grande Guerra e dalle condizioni imposte dagli Alleati dell’Intesa (vincitori del conflitto grazie all’intervento Usa alle potenze sconfitte, tra cui la Germania. Si inserisce a questo punto il tema dell’umiliazione che giustificò (secondo le nuove dottrine) la reazione del nazionalismo tedesco il quale, in fondo, si accontentava di rivendicare quanto gli era stato sottratto a Versailles e a difendere i milioni di tedeschi sottratti all’autorità del Reich dalla nuova carta geografica europea.

HITLER “INNOCENTE”

Del resto che Hitler non volesse scatenare la Seconda guerra mondiale lo ha riconosciuto anche Alessandro Orsini. I veri responsabili furono i governi che rifiutarono non solo di arrendersi, ma anche di trattare con Hitler nonostante le evidenti condizioni di inferiorità che rendevano disperato ogni tentativo di resistenza nei confronti delle armate tedesche.

Il primo responsabile fu Winston Churchill che deluse il Fuhrer il quale aveva in mente di chiudere con una resa sostanziale la partita con l’Impero britannico per dedicarsi all’aggressione dell’Unione sovietica.

Lo stesso fece Stalin quando nel giugno 1941 l’Urss fu invasa dai nazisti su di un fronte di 3.000 km e con una penetrazione di 1.000 km nel territorio.

Il terzo responsabile fu il presidente americano Franklin Delano Roosevelt che – con la legge “affitti e prestiti’’ (la stessa ripescata da Joe Biden) – fornì una cospicua assistenza militare ai Paesi aggrediti, Urss inclusa, prima di portare in guerra l’esercito Usa anche in Europa.

Finito il secondo conflitto mondiale, la stessa guerra di Corea portava le stimmate dell’imperialismo americano, tanto che furono costretti a intervenire anche i cinesi in difesa degli ascendenti dell’attuale regime. Ma quel guerrafondaio di Harry Truman arrivò persino a destituire dal comando un eroe popolare come Douglas Mac Arthur, per divergenze sulla conduzione della guerra, che secondo il presidente Usa avrebbero potuto portare a un conflitto mondiale.

Poi dobbiamo mettere in conto la lunga guerra di liberazione del Vietnam, iniziata con la sconfitta dei colonialisti francesi a Dien Ben Phu da parte delle truppe Vietminh comandate dal leggendario generale Giap. L’Indocina francese venne divisa in due e gli Usa si fecero garanti del Vietnam del Sud di indirizzo nazionalista, in funzione della strategia di contenimento dell’espansione del comunismo.

DAL VIETNAM A KABUL

Gli Usa impiegarono negli anni la loro potenza militare, ma dovettero subire l’umiliazione della sconfitta sul campo e della fuga precipitosa con scene come quelle che si sono ripetute durante l’evacuazione disonorevole di Kabul. È vero che i Vietcong e l’esercito del Nord erano armati fino ai denti dall’Urss (che gli Usa non definirono mai cobelligeranti) ma la sproporzione di forze era evidente e, secondo i nostri revisionisti, i vietnamiti avrebbero dovuto arrendersi per evitare la distruzione del loro Paese.

Poi come si erano permessi quei piccoli uomini e donne gialli di sfidare un Paese dotato di un armamento nucleare? Si credevano forse di essere ucraini? O sono gli ucraini a sentirsi vietnamiti? La tragedia del Vietnam fu una discriminate etica per un’intera generazione, dagli Usa all’Europa.

Quella guerra condizionò la politica americana per decenni entrando di peso nelle campagne elettorali di una nazione divisa. Basti pensare che il giovane Bill Clinton, futuro presidente degli Usa per due mandati, andò a vivere in Canada per sottrarsi alla chiamata alle armi, mentre John Mc Caine, senatore repubblicano candidato alla presidenza contro Barack Obama (in seguito deciso avversario di Trump) si coprì di onore e di medaglie in quella guerra, anche per le torture subite durante la prigionia.

La sinistra europea si spacca sulla guerra in Ucraina. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 21 Maggio 2022.  

Interventismo contro pacifismo: dal 24 febbraio, giornata che è già passata alla storia come l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, la sinistra europea si è spaccata in mille rivoli e posizioni contrapposte, forse in maniera ancora più marcata di quanto si è registrato a destra, dove la figura di Vladimir Putin suscitava una certa simpatia, soprattutto nelle fila delle formazioni cosiddette “sovraniste” e più nazionaliste. Il dubbio è lo stesso per tutte le formazioni di sinistra: assistere gli ucraini con le armi contro un’invasione ingiustificabile oppure rimanere fedeli ai propri principi di pacifismo e anti-interventismo e cercare altresì una via diplomatica alla risoluzione del conflitto? Il risultato è, da un lato, una sinistra liberale che ha da tempo sposato l’atlantismo: dall’altra una sinistra radicale che presenta al suo interno una connotazione anti-americana o comunque scettica verso la leadership di Washington e che, in alcuni casi, vorrebbe un’Europa più dialogante con Mosca.

In Italia, il Partito democratico si è dichiarato favorevole all’invio di armi all’esercito ucraino: il segretario Enrico Letta ha tuttavia specificato che non deve però essere concepito come uno “strumento di offesa e di aggressione in territorio russo”. Posizione rimarcata anche dal deputato del Pd Graziano Delrio, il quale ha sottolineato che il governo italiano sta dando “agli ucraini strumenti per difendersi e non per offendere. E questa resistenza ha impedito che la prepotenza e la forza trionfassero sul diritto”.

Diversa la posizione di Sinistra Italiana. Nel suo intervento alla Camera dei deputati, il Segretario nazionale Nicola Fratoianni ha rimarcato la sua contrarietà all’invio di armi a Kiev: “Quasi tre mesi fa, nel mio intervento alla Camera, dicevo che l’invio delle armi nel conflitto in Ucraina avrebbe portato più dolore e sofferenza, allungando il conflitto e allontanando una prospettiva di risoluzione diplomatica.  Oggi si parla apertamente di guerra di attrito e la diplomazia è più lontana che mai. Per questo ho votato, di nuovo, contro l’invio delle armi. Non è questa la strada per costruire una Pace futura, stabile e duratura”.

Sempre a sinistra, il leader del Movimento cinque stelle Giuseppe Conte ha espresso più a riprese i suoi dubbi sulla strategia del governo italiano e sull’assistenza militare. Ma le divisioni non riguardano solo le forze politiche. Il dibattito sulle armi a Kiev ha infatti diviso anche la sinistra radicale e le associazioni – vedi l’Anpi e il relativo dibattito interno – oltre a intellettuali e noti giornalisti, come Michele Santoro e Federico Rampini, ad esempio, schierati su posizioni contrapposte. Quella italiana, tuttavia, è tutto fuorché un’anomalia, almeno in Europa. Nulla a che vedere, infatti, con gli Stati Uniti, dove i democratici – sia alla Camera, sia al Senato – hanno votato compatti a favore del pacchetto da 40 miliardi di dollari all’Ucraina proposto dall’amministrazione Biden (inizialmente di 33 miliardi di dollari e arrivato a 40 miliardi su spinta del Congresso).

In Germania, la Linke ha assunto una posizione marcatamente anti-intervista, protestando contro la decisione del cancelliere Scholz di costituire un fondo speciale per modernizzare e rafforzare l’esercito tedesco: “Rifiutiamo la guerra come mezzo della politica. Da molto tempo ormai, la popolazione locale è stata trasformata in giocattoli nelle sfere di influenza della Nato e della Russia” afferma la formazione della sinistra tedesca. E ancora: “Più armi non fanno pace. Nell’era delle armi nucleari – sottolinea il partito – le armi convenzionali giocano un ruolo scarso nella deterrenza. E un equilibrio di terrore crea solo terrore”.

In Francia, il leader della sinistra, Jean-Luc Mélenchon – che è riuscito a riunire quattro partiti di sinistra in vista delle imminenti elezioni legislative – pur condannando l’invasione della Russia come una dimostrazione di “pura violenza”, ha invitato il presidente Emmanuel Macron a mantenere Parigi in una posizione di “non allineamento” nella “guerra per procura fra Nato e Russia”, sostenendo i tentativi di dialogo con Mosca del presidente francese, rieletto alla fine di aprile. Senza contare che alcuni elementi della sua coalizione vorrebbero che la Francia uscisse dall’Alleanza Atlantica: proposta rispetto alla quale Mélenchon ha preso tempo, ribadendo che – nell’eventualità – sarà il Parlamento francese a decidere. In Spagna, la sinistra di governo è divisa: all’inizio di marzo, infatti, la decisione del premier spagnolo Sanchez di inviare armi all’Ucraina ha creato non pochi mal di pancia nella coalizione di governo, composta da socialisti, Unidas Podemos (Podemos + Izquierda Unida) e indipendentisti di sinistra.

Roma, Atac sciopera e si rischia la paralisi. Motivi? “Cessate il fuoco in Ucraina e contro le spese militari”. Il Tempo il 19 maggio 2022

Atac ha annunciato che per la giornata del 20 maggio, Cub Trasporti, Cobas e Usb Lavoro privato hanno proclamato uno sciopero di 24 ore nell'ambito dello sciopero nazionale indetto da Cub e Sgb Durante lo sciopero, quindi, il servizio sarà garantito esclusivamente durante le fasce di legge (da inizio del servizio diurno alle ore 8.30 e dalle ore 17.00 alle ore 20.00). Nel territorio di Roma Capitale, lo sciopero riguarda l'intera rete Atac e l'intera rete RomaTpl. Sulla rete Atac lo sciopero riguarda anche i collegamenti eseguiti da altri operatori in regime di subaffidamento.

Nella nota dell’azienda di mobilità capitolina si leggono anche le motivazioni dell’agitazione:

-cessate il fuoco, congelamento prezzi, beni e servizi del settore primario:

-sblocco contratti e aumenti salariali; nuovo piano di edilizia residenziale;

-contro le politiche di privatizzazione in atto;

-contro le spese militari;

-per la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. 

Tra le motivazioni c’è anche la guerra in Ucraina dopo l’invasione della Russia e la decisione del governo Draghi sulle spese militari e sull’aumento di quest’ultime come richiesto dalla Nato.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2022.

Ci sono amicizie infrangibili, più infrangibili delle ideologie. Prendete l'amicizia -intrecciata a un romantico senso del dovere - tra Alberto Menichelli, Lauro Righi, Dante Franceschini, Pietro Alessandrelli, Torquato «Otto» Grassi, Alberto Marani e Roberto Bertuzzi: ossia il drappello di uomini che, all'ombra dell'allora teatro maestoso di Botteghe oscure, simboleggiarono la parabola di una parte d'Italia, dopo essere stati assegnati alla protezione dello storico segretario del Pci. Sono, costoro, i protagonisti de La scorta di Enrico - Berlinguer e i suoi uomini: una storia di popolo (Solferino, pp.418, euro 22) il libro-omaggio che Luca Telese dà alle stampe alla vigilia dei cent' anni della nascita del segretario comunista. 

Il nucleo del libro è Berlinguer, figura da sempre nel cuore Telese che ne sposò una figlia. E Telese, qui, affresca con passo di racconto per nulla agiografico, la vicenda stessa del Paese in cui si riflettono atti opere e omissioni della politica, del politico e della sua scorta, appunto.

«Era un gruppo fatto di uomini e di caratteri diversi», i migliori scelti dal partito, scrive Telese. «Franceschini il gigante buono, loquace. Lauro il taciturno con il cuore d'oro. Bertuzzi il ribelle orfano, che diventa il figlio adottivo del partito. Alessandrelli un militante umanissimo, capace di intuizioni sorprendenti. 

Marani e Grassi, i due giovani operai che arrivano dal far west comunista modenese. In questo gruppo Alberto Menichelli, il romano di Roma, il figlio burbero dell'apparato che governa tutti con la sua ironia sottile, crea il gruppo e lo guida: è un primus inter pares, ma anche un osservatore attento e curioso di ogni dettaglio».

E di ognuno dei guardiaspalle viene svelata, dalla fine della guerra agli anni '80, la vita madida di sangue, sacrifici, sudore e polvere da sparo. Al capitolo su Lauro Righi detto "Fila" il racconto si snoda in terza persona: «Nell'estate del 1944, in un paesaggio che ormai è diventato un fronte di battaglia e di guerriglia contro l'esercito tedesco e i loro alleati della Rsi, Lauro compie - ad appena sedici anni - la sua «scelta di campo». Comincia con qualche missione come staffetta. 

Poi va a piedi, camminando per oltre settanta chilometri, dalla sua casa fino alla mitica Repubblica partigiana di Montefiorino. Quando parte non sa esattamente dove andrà, e non sa nemmeno cosa troverà: ma sa a cosa si oppone, il fascismo. È la grande decisione della sua vita». Nella scheda compilata sudi lui dal partito si legge «Compagno retto e parsimonioso, che non si è mai trovato in difficoltà finanziarie pur inviando mensilmente una notevole parte del suo stipendio ai genitori, che versano in condizioni disagiate» (unico problema è la lingua: Righi parla soltanto il dialetto).

Alla voce "Dante Franceschini" l'uomo che riuscì a toccare la gobba di Andreotti durante i pedinamenti, spicca un aneddoto raccontato in prima persona durante la naja: «Un giorno, a me e a un altro ragazzo del mio corso arrivarono due pacchi dal distretto militare. Il mio amico aprì quello con il suo nome e tirò fuori un cappotto di panno grigio. Io estrassi dal mio una giacca color cachi. L'istinto del senzavestiti cronico che ero fu quello di avvicinarla subito al corpo, per farmi un'idea della misura. Perfetta. Una volta tanto era la mia. Non feci in tempo a concedermi un sorriso che dalla sua branda un romano, uno dei veterani, mi gridò: "A Franceschì, manna un telegramma a casa, finché puoi, che mo so cazzi tua!". E io: "Perché?". E lui: "Si t' hanno mandato la sahariana vor di' che domattina te ne parti pe' l'Africa"». 

Su Piero Alessandrelli, si ricostruisce il valore dell'antifascismo: «Il padre di mia moglie era un operaio specializzato anche lui, lavorava in una segheria di marmo. Si chiamava Abele, ma tutti lo conoscevano come Pioppo, perché era molto alto. Era anche lui un antifascista, e quando andavamo a trovarlo ad Alviano mi faceva trovare dentro casa una copia dell'Unità.

Per dare un'idea di quanto l'antifascismo fosse un sentimento radicato, dato che il padre della moglie di uno dei suoi figli era stato in una squadraccia (e aveva un'amante), lui gli aveva detto davanti a tutta la famiglia: "Io non ho mai dato l'olio di ricino ai paesani e non ho mai tradito mia moglie e tu, in casa mia, non ci potrai entrare mai"». 

Nello scorrere delle pagine, le vite della scorta si sovrappongono ai mille abbagli e alle mille scelte della storia d'Italia. Alcune indelebili. La volontà di Enrico di mettersi sotto il cappello della Nato (decisione che oggi appare oracolare) e di non schierarsi a favore dell'invasione d'Ungheria; il fallito Golpe Borghese e piazza Fontana; il terrorismo e il rapimento Moro; e prima l'attentato a Togliatti. Eppoi, il clima rovente del '68. 

E quello del '77, in pieno brigatismo. Eppoi, la marcia dei quarantamila della Fiat. A proposito della marcia. Interessante è la rilettura, attraverso la testimonianza di "Otto" Grassi, del "Discorso dei cancelli" di Mirafiori fatto da Berlinguer nell'80, dopo 35 giorni di sciopero che portarono all'autunno caldo finito con la Cig per 24mila dipendenti, e con la marcia dei 40mila quadri Fiat. Quella, allora, venne considerata una sconfitta del Pci.

Scrive, invece, con onestà, Telese: «Ecco perché anche il discorso ai cancelli non va giudicato con il metro degli anni Ottanta. Ma con quello degli anni Duemila. Con gli occhi di oggi, non con quelli di ieri: va pesato nel tempo in cui gli operai hanno abbandonato la sinistra, avvertendola come un corpo estraneo, e votano a maggioranza per la Lega, per il M5S, e adesso persino per il partito di Giorgia Meloni. Chiedo a Otto cosa avrebbe voluto dire a Enrico, quando in auto era rimasto in silenzio: "Che mi ero emozionato a vedere, lì ad ascoltarlo, gli operai dell'Emilia-Romagna, i miei compagni di Modena. Che aveva fatto una cosa giusta". In fondo la lezione dei cancelli, quarant' anni dopo, è semplice: un leader deve stare con il suo popolo. E ci sono momenti in cui ci deve restare anche quando non c'è la certezza di vincere».

Nella sottovalutazione - direi giusta - di Togliatti, Telese, per rendere fiammeggiante Berlinguer, evoca il Gramsci «tentato dall'interventismo nel 1914, insofferente all'immobilismo dei socialisti riformisti negli anni Venti, appassionato nel suo più celebre e romantico grido di battaglia, quello consegnato a un immortale editoriale della Città futura del febbraio 1917: "Odio gli indifferenti"». Ecco, a Luca l'operazione fiammeggiante è riuscita. Perché, comunque la si possa pensare, se c'è uno a cui questo paese - e questa sinistra- non potrà mai rimanere indifferente, be', quello è proprio Enrico Berlinguer. 

Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 16 maggio 2022.  

Lui che è sempre stato sulla posizione verso la quale - «con colpevole ritardo» - oggi alcuni leader europei si stanno convertendo, è così avvezzo al dibattito italico che è difficile domandargli qualcosa che lo irriti. 

Anche se nei giorni scorsi lo hanno fatto arrabbiare in tv, quando hanno accostato Putin a Hitler «senza alcun fondamento scientifico e storico». In questa intervista il professor Massimo Cacciari ci spiegherà, anche, il perché. Difficile farlo parlare di politica interna - «lasciamo perdere che è meglio» -. E guai a dargli del pacifista.

C'è aria di riposizionamento?

«Al di là della ovvia, doverosa denuncia della violazione del diritto internazionale perpetrata dalla Russia nei confronti di uno Stato sovrano, c'erano fin dal principio i margini di trattativa. 

Una strada che hanno tentato in prima battuta i tedeschi, che sono però stati subito silenziati. Ora riprende, faticosamente, con Emmanuel Macron». 

Difficile intravedere una via d'uscita se Mosca evoca la guerra nucleare, un confronto aperto con la Nato e pure il «ricatto» alla Finlandia appena si dice pronta per entrare nell'alleanza.

«E invece è proprio indagando le cause della crisi, che la si può intravedere». 

In sintesi quali sono?

«Uno: la Russia di Putin non se l'è ancora messa via sul fatto che il suo ruolo nella geopolitica internazionale non può essere quello dell'Urss. Tuttavia, derubricarla a paesello qualsiasi è altrettanto irrealistico».

Due?

«Era certo utopistico pensare che la Nato sarebbe finita dopo la guerra fredda, come chiedevano tanti ex comunisti, ora atlantisti a oltranza. Ma nessuno, alla caduta del Muro, neppure nel governo americano di allora, aveva dichiarato che dovesse addirittura rafforzarsi». 

E «abbaiare alle porte della Russia», facilitandone l'ira, come ha detto il Papa?

«Sì, beh, la Chiesa oggi fa il suo mestiere: la messa fuori legge della guerra, per usare lo slogan di Gino Strada. Io però penso che sia proprio sbagliato aggiungere un "ismo" alla parola pace.

Finché ci saranno uomini, ci saranno anche nemici. È inevitabile che nei rapporti tra potenze si possa giungere a un punto in cui i margini di trattativa si esauriscono. L'extrema ratio della politica è la guerra. E servono le armi per farla». 

E qui veniamo al punto numero tre?

«Alle nazionalità russofone presenti in Ucraina. E una di queste è stata assalita dall'esercito ucraino qualche anno fa con l'Europa che ha fatto finta di non accorgersene».

Quindi che si può dire a Putin?

«Quel che gli sta provando a dire la Francia. Non c'è più l'Urss, la guerra fredda è finita da un pezzo e le ragioni di Yalta non sussistono oggi, quindi i Paesi dell'ex Patto di Varsavia fanno quello che vogliono e tu, caro Putin, non puoi deciderne la politica estera». 

Sembra facile a dirsi ma…

«Non lo è. Tuttavia è l'unica strada possibile, con un referendum controllato rigorosamente dalle Nazioni unite nei territori del Donbass, il cui risultato va rispettato. Il principio di autodeterminazione è sancito in questi casi dal diritto internazionale come la condanna dell'aggressione. Punto. E l'Ucraina, come qualsiasi Stato sovrano, deciderà poi come e con chi allearsi». 

Missili puntati verso Mosca compresi?

«Nato, Usa e Ucraina vorranno giocare a questo gioco con la Russia. Padroni. E il resto del mondo giudicherà. La Russia purtroppo o per fortuna non può farci nulla. E poi, scusi, farebbero diversamente gli Usa?».

Mi prende in giro?

(La voce si fa sarcastica, ndr) «Scherza? Mettiamo ci fosse in Messico una rivoluzione castrista e i messicani volessero posizionare missili atomici a due passi da Houston, cosa farebbero gli Usa? Naturalmente ne rispetterebbero le decisioni, non le pare? Come a Cuba negli anni Cinquanta, o come in Vietnam, o come in Iraq... Una potenza democratica che esporta democrazia nel mondo non potrebbe comportarsi diversamente». 

Veniamo a noi. Salvini dice basta alle armi in Ucraina. Conte chiede il voto perché lo scenario è cambiato, Letta si riposiziona.

«Non stiamo neanche a parlare di politica interna, guardi. La sinistra poi è proprio meglio che la lasciamo perdere: la débâcle culturale procede inarrestabile da un trentennio». 

Sulla politica internazionale ha però un'occasione?

«Ma quale? Quell'indigeribile composto che i giornali insistono a chiamare "centro-sinistra" non ha un piano sulle politiche fiscali, sociali, economiche, finanziarie. E ha anche perduto memoria storica. 

Non parlo di ex comunisti, che ormai sono quasi tutti morti, ma ex socialisti che dimenticano Craxi e Sigonella, ex Dc che dimenticano i rapporti dei Moro e anche degli Andreotti con i palestinesi».

E gli altri partiti come si comportano?

«Tutti costretti a obbedire. Alcuni convinti, altri obtorto collo. Ma tutti obbedienti. C'è poco da fare: la guerra ha mostrato in tutta evidenza una dissimmetria radicale nei rapporti di forza tra gli Stati dell'Occidente. Finché si esprimeva sul piano economico, potevi pure nasconderne la radicalità. Quando si spara, però, allora emerge nuda e cruda. In guerra, come nelle navi in tempesta, deve esserci un comandante unico».

Si è letto però che Draghi da Biden ha detto che occorre uno sforzo per parlare con la Russia.

«Ma pensa te quale saggezza. Si è scoperto che se devo trattare una persona non comincio dicendogli che è un macellaio? Pensi lei se l'avessi insultata a inizio intervista, forse mi avrebbe messo giù il telefono, non crede? Spero che Draghi glielo abbia spiegato, questo, a Mr. Biden». 

Pare gli abbia anche detto che le posizioni di Usa e Ue non divergono, ma stanno cambiando.

«Meglio sarebbe stato accorgersene prima. Sono 14 anni che si susseguono colpi di Stato e guerre civili da quelle parti e l'Europa assiste silenziosa, così come accadde con l'ex Jugoslavia. Questa è anche una guerra per interposta persona: i poveri ucraini. Ma è stato dal principio evidentissimo che è nella sostanza un conflitto Usa-Russia».

Dirlo le settimane scorse voleva dire essere tacciati di putinismo.

«Mai sono tanto imperversati gli idioti come in questa tragica occasione». 

Il premier nel suo viaggio a Washington ha anche fatto notare che ora la Russia non è più Golia.

«Perché, è mai stata forse invincibile? E di grazia, il Davide chi era? Questo è frutto della disinformazione totale». 

Pare che gli americani siano stati «freddi» di fronte a questo discorso di Draghi.

«Tutta la strategia degli americani a partire dalla guerra del Golfo si basa su questo calcolo, sia chiaro: del tutto legittimo per una potenza imperiale: allarghiamo la Nato e rafforziamola, la Russia dovrà abbozzare perché sa di non poter sostenere una dura competizione con noi su nessun piano, neppure su quello militare. 

La guerra atomica che pone fine al pianeta, alla natura, alla galassia non è che una leggenda da anime belle. Anche con l'atomica ci sarebbe un vincitore e un vinto. E quest' ultimo sarebbe la Russia». 

Può davvero scatenarsi una guerra nucleare?

«Se continuano a non ragionare, certamente sì. La prima guerra mondiale non la voleva nessuno, eh... La seconda invece è stata progettata e programmata, per un disegno di dominio costruito su una base ideologica».

Da un uomo che però lei si rifiuta di paragonare a Putin.

«Sono battute propagandistiche senza il minimo fondamento storico. Gli Usa, ribadisco, sanno che la Russia vive con un'angoscia che la porta, come per l'Ucraina, a scelte sciagurate, problemi di sicurezza, ben cosciente della propria debolezza nei confronti sia degli Stati Uniti sia della Cina». 

Che farà Putin?

«Vediamo. Deve dimostrare un realismo finora non dimostrato. Ma nessun Paese si può suicidare. Se però la Nato afferma, ad esempio, che "non si tratta sulla Crimea", non c'è altra soluzione che la continuazione della guerra. Esattamente come se la Russia dicesse che vuole fare dell'Ucraina una propria colonia». 

Due anni di pandemia e poi questo conflitto. E lei, Cacciari, sempre molto critico sul ruolo della politica.

«Una nuova Costituente andava aperta in Italia già trent' anni fa. Ma non abbiamo fatto altro che peggiorare la nostra Costituzione e abortire ogni disegno serio. L'indebolimento delle assemblee rappresentative è drammatico e forse ormai irrimediabile».

Così grave?

«Se guardiamo alla classe politica, direi proprio di sì: gente che dice di stare bene quando è invece un malato grave. Stavano così bene che sono stati costretti a rieleggere Sergio Mattarella e poi dicono pure: "Guarda come siamo bravi, ha vinto la politica". Cecità o malafede?». 

Chi comanda davvero?

«I poteri finanziari, i colossi della comunicazione sono diventati i veri parlamenti. Tranquilli, non ci sarà più un fascismo in Occidente, non c'è più bisogno di un Mussolini che chiude le "aule sorde e grigie". Si stanno arrangiando per conto loro».

Perché c'è la democrazia?

«Si sta definitivamente estinguendo quel che chiamavamo partecipazione. I corpi intermedi, sindacati e organizzazioni di categoria, languono come "clienti" del potere. I partiti vanno e vengono come le mode. I sistemi di controllo sociale sono diventati raffinati e indolori. 

È chiaro che il mondo economico e finanziario globalizzato - e non lo puoi più rinchiudere né nei vecchi istituti e a stento nei vecchi Stati - determina i nostri destini insieme con il potere tecnico-scientifico. È tempo di ripensare la democrazia, sulla base di una diagnosi amara, ma realistica». 

Svejateve. Quei dottor Stranamore che scambiano Putin per Che Guevara e la democrazia liberale per il Pli di Malagodi. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 16 maggio 2022.

Molti cadono nell’equivoco sul concetto di “denazificazione”, scambiando il grido di battaglia del nazionalismo russo per l’appello di un nuovo fronte antifascista, e il generoso finanziatore di fascisti e sovranisti di mezzo mondo per la reincarnazione di Lenin.

Il dibattito sulla guerra in Ucraina è viziato da alcuni equivoci di fondo. Un esempio, recentemente illustrato da Giorgio Comai in un articolo per l’Osservatorio Balcani-Caucaso, riguarda il concetto di “denazificazione”. Cioè, alla radice, cosa intendiamo, noi e i russi, quando parlano di nazismo.

Per noi, infatti, il nazismo è anzitutto la forma più tremenda di antisemitismo; per la propaganda di Mosca nazismo è fondamentalmente un sinonimo di anti-russo. Quella che per noi è la Seconda guerra mondiale, non per niente, per loro è la Grande guerra patriottica. Per noi la svastica significa Auschwitz, per loro è prima di ogni altra cosa la bandiera di un esercito invasore. Ecco perché nell’opera di “denazificazione” può essere serenamente impiegato quel gruppo Wagner che pure, quanto a richiami all’ideologia nazista, nulla ha da invidiare al famigerato battaglione Azov.

Incapaci di distinguere il dito dalla luna, molti dottor Stranamore del post-comunismo italiano – e non solo – cadono purtroppo nell’equivoco, scambiando il grido di battaglia del nazionalismo russo per l’appello di un nuovo fronte antifascista, e Vladimir Putin, politico ultra-conservatore, punto di riferimento e generoso finanziatore di fascisti e sovranisti di mezzo mondo, per la reincarnazione di Lenin.

Ancora più significativo è l’equivoco attorno all’aggettivo “liberale”, con fior di intellettuali che sembrano scambiare la dichiarazione di guerra alla democrazia liberale da parte del regime di Putin per una battaglia di sinistra contro l’egemonia del pensiero neoliberista, e conseguentemente gli appelli a un fronte comune dei liberaldemocratici per dichiarazioni di voto a favore del Pli di Giovanni Malagodi.

È una forma estrema di dissonanza cognitiva, in cui gli Stati Uniti sono sempre quelli del Vietnam e del colpo di Stato in Cile, e in cui la Nato e l’Occidente in generale sono invariabilmente sinonimi di imperialismo e colonialismo, contro i quali la sinistra ha dunque il dovere di schierarsi, in difesa della libertà, della democrazia e del diritto all’autodeterminazione dei popoli oppressi.

Il fatto che a tentare di rovesciare la democrazia ucraina, a invaderne il territorio, a commettere ogni sorta di atrocità sui civili non siano soldati americani, ma russi, ha prodotto in molte persone, come reazione istintiva, prima la negazione della realtà e poi la fuga in una realtà alternativa.

Il nemico numero uno della democrazia liberale in Europa, nonché principale alleato di Putin, oggi è Viktor Orbán, che in Ungheria sta costruendo un sistema sempre più autoritario, tra l’altro, attraverso la criminalizzazione degli immigrati e delle ong. È questo il futuro che sognano per l’Italia i comprensivi difensori delle ragioni di Putin?

Occorre grande pazienza e grande attenzione, anche nel linguaggio, per tentare di disinnescare certi automatismi, su cui fanno leva politici spregiudicati. Occorre spiegare a tante brave persone – ce ne sono, in mezzo a tante altre persone meno brave e meno disinteressate – che il fascismo è dall’altra parte; che difendere la democrazia liberale non significa combattere contro la progressività fiscale o l’aumento dei salari, ma in difesa della libertà e dei diritti fondamentali di ogni cittadino; che Alexander Dugin, ideologo di Putin e di quel fronte rossobruno capace di attirare populisti europei e americani di ogni estrazione, non è Senghor e tanto meno Che Guevara, e non pensa affatto che quella in corso sia una guerra di liberazione, ma semmai «una guerra spirituale contro i gay».

Fate presto. Putin ha dichiarato guerra alla democrazia liberale, e i nostri liberaldemocratici mangiano il gelato. Christian Rocca su L'Inkiesta il 15 Maggio 2022.

I partiti costituzionali e repubblicani non si rendono conto della posta in gioco e continuano a preoccuparsi di strappare uno zerovirgola al vicino di banco, mentre i volenterosi complici del Cremlino fanno politica. A difendere la società aperta c’è l’eroica resistenza ucraina e, adesso, anche Svezia e Finlandia che si sentono più protetti sotto l’ombrello della Nato (come disse Enrico Berlinguer nel 1976, in un’intervista che oggi farebbe piangere l’opinionista di Bianca Berlinguer). 

Le forze politiche costituzionali e repubblicane dell’Italia 2022 probabilmente non hanno ben capito la portata delle cose che stanno succedendo e si comportano come se la guerra al confine europeo, la resistenza commovente del popolo ucraino, la richiesta di ingresso nella Nato di due paesi tradizionalmente neutrali come la Finlandia e la Svezia consapevoli però di cosa voglia dire vivere sotto la minaccia d’invasione di un regime autoritario, fossero eventi ordinari e non, invece, la fase finale della grande battaglia civile e purtroppo anche militare in difesa della democrazia liberale, della società aperta e della libera circolazione delle idee, delle persone e delle merci. 

Le forze politiche costituzionali e repubblicane dell’Italia 2022, quelle che vanno dal Partito democratico a Forza Italia, passando per il mondo radicale, liberal democratico e liberal socialista che va Calenda a Bonino a Renzi, si comportano come se il nemico fosse il vicino di banco che alle elezioni del 2023 potrebbe rosicchiare qualche punto percentuale e non capiscono che in gioco non ci sono zerovirgola in più o in meno ma la fine della democrazia italiana ed europea. 

Non capiscono e quindi non fanno nulla di rilevante per organizzare la difesa della società aperta, non prendono nessuna iniziativa politica, non organizzano nessuna mobilitazione nazionale. Niente di niente. 

Enrico Letta si barcamena tra un solido e limpido atlantismo personale e la resa politica di una parte della sua classe dirigente cui ogni tanto deve dare un contentino via Twitter.

Carlo Calenda come sempre è il più attivo, ma l’invasione russa gli ha rovinato il progetto di consolidamento di Azione: presenta ottimi dossier da centro studi su vari temi, a cominciare da quello energetico, ha appena scritto un libro sui limiti del liberalismo che è condivisibile in linea teorica ma un po’ meno se consideriamo che gli avversari al momento non sono pericolosi libertini ma i sodali, se non gli agenti, dei nemici della società aperta. Ma, in generale, sulla guerra di Putin al mondo liberal democratico, Calenda si è tenuto lontano dall’assumere in Italia la leadership churchilliana a lui molto cara.

Anche Matteo Renzi ha un libro in uscita con cui denuncia il processo di mostrificazione che ha subìto dai bipopulisti politici, togati e giornalistici, ma non si vedono iniziative politiche di Italia viva come quelle con cui in questa legislatura ha salvato il paese per ben due volte, la prima da Salvini e la seconda da Conte. Anzi si nota un’inusuale timidezza ad affrontare la questione più importante della nostra epoca.

Forza Italia è ostaggio dei sovranisti di destra che promettono di garantire una manciata di seggi al circolo ristretto berlusconiano e quindi va nella direzione sbagliata, basta guardare al grottesco palinsesto informativo Mediaset. E non fa squadra con Mara Carfagna e le buone iniziative di governo del Ministro come quella sul mezzogiorno organizzata in questi giorni. 

Al contrario, invece, i bipopulisti italiani hanno bene in mente quale sia la posta in gioco e di conseguenza fanno politica sapendo che questa è la loro grande occasione. Trump è temporaneamente fuorigioco, Putin è diventato impresentabile ovunque tranne che nei talk show nostrani, Marine Le Pen ha perso. La partita va giocata senza sponde, al momento. Così Giorgia Meloni sta provando a costruirsi un profilo nazionale e atlantico, anche per differenziarsi da Salvini, ma resta la leader dei neo, ex post fascisti italiani, alleata dell’alleato del Cremlino Viktor Orbán e il suo atlantismo è quello dei paragolpisti del giro Trump e della Conservative Political Action Conference, un’iniziativa di picchiatelli, reazionari ed eversivi.

Matteo Salvini è notoriamente il politico più incapace del panorama italiano, forse anche europeo, è costretto a rincorrere Meloni e quindi prova ad annettersi Forza Italia per aspirare al primo posto alle elezioni e rilascia grottesche interviste da statista al Corriere della Sera in apertura della sua conferenza programmatica di Roma, salvo poi dire no all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, rimettendosi di fatto la maglietta di Putin. A Roma ha invitato come ospite d’onore il più screditato dei tentatogolpisti trumpiani, Rudy Giuliani, cui hanno sospeso la licenza ad esercitare la professione d’avvocato. Resta un mistero come possa essere venuto in mente a Salvini di invitare una macchietta come Giuliani, vent’anni fa l’eroe post 11 settembre e ora un personaggio caricaturale peraltro protagonista delle fetide manovre trumpiane anti Biden proprio in Ucraina. 

A proposito di aiutini ai trumpiani sulla bufala ucraina orchestrata dal Cremlino per screditare Biden, non si può non parlare di Giuseppe Conte, il cui governo mise a disposizione del ministro della Giustizia di Trump gli apparati di intelligence italiani per trovare le prove inesistenti del complotto. Con perentori penultimatum, che regolarmente rientrano, Conte sabota quotidianamente le attività del governo che, defenestrandolo da Palazzo Chigi, ha salvato l’Italia dalla catastrofe del Covid. E sull’aggressione imperialista di Putin è il primo ostacolo italiano agli aiuti militari all’Ucraina, grazie ai quali Kiev si difende, Mosca si ritira e la pace si avvicina.

Mentre le forze nemiche della società aperta si attrezzano a vincere le elezioni, si disperano fino a un certo punto per la sconfitta di Le Pen in Francia e aspettano la vittoria militare di Putin e il ritorno di Trump, i partiti costituzionali si fanno dispettucci da adolescenti senza nemmeno provare a costruire non dico una resistenza d’acciaio come quella ucraina, ma nemmeno un comitato di liberazione nazionale dal bipopulismo. La difesa della società aperta italiana non può che passare dall’adozione della legge elettorale proporzionale per risparmiarci la macabra roulette russa del maggioritario al tempo del populismo – “o vince la libertà oppure ci arrendiamo a Putin, che bello la sera stessa del voto lo sapremo!” – e quindi scongiurare la pallottola fatale alla tempia che i francesi hanno schivato per miracolo un paio di domeniche fa.

Non è che bisognasse aspettare il 24 febbraio, giorno dell’invasione militare dell’Ucraina, per avere conferma delle mire imperialiste di Vladimir Putin, intanto perché la Russia aveva già invaso l’Ucraina, annettendo la Crimea e parti del Donbas, dopo peraltro aver invaso anche la Georgia e la Transnistria. 

Ma soprattutto perché da parecchio tempo ormai Putin ha dichiarato guerra all’Occidente che ha sconfitto il totalitarismo sovietico, nell’indifferenza dei volenterosi complici del Cremlino che prima prendevano in giro chi denunciava le manipolazioni dei processi democratici europei e americani, le fabbriche dei troll per eliminare i nemici, l’ingegnerizzazione delle fake news per corrompere il discorso pubblico e gli accordi politici (e non solo) con i partiti eversivi dell’ordine costituito occidentale. Una strategia grazia alla quale Putin ha conquistato la Casa Bianca con Trump, Palazzo Chigi con i bipopulisti ed è andato due volte vicino a conquistare l’Eliseo. 

La riscossa democratica avviata da Joe Biden e da Mario Draghi, in Italia grazie alla lungimiranza di Renzi e alla saggezza di Sergio Mattarella, ha convinto Putin ad accelerare il processo di scardinamento dell’ordine internazionale cominciato con la strategia della diffusione del caos in Occidente (Brexit, referendum italiano, fake news, Trump), nella fallace convinzione che il declino americano e la debolezza dell’Occidente non potessero competere con la gloriosa avanzata dell’armata rossa in territorio ucraino. 

Putin si era dimenticato degli ucraini, però. Credeva, come gli esperti Alessandro Orsini e Lucio Caracciolo, che fossero solo pedine ininfluenti manovrate per procura da qualcun altro. Inoltre non aveva previsto la solida reazione americana né la compattezza dell’Europa e della Nato.

Per il momento ci stanno pensando gli ucraini a fermare, anche per noi, l’avanzata delle tenebre nel cuore dell’Europa e a dare slancio all’alleanza atlantica che Trump aveva sfiancato e di cui Macron aveva annunciato la «morte cerebrale». 

Slava Ukraini!, dunque, e Gloria anche alla Finlandia e alla Svezia che di fronte all’aggressione russa si sentono più protetti sotto l’ombrello della Nato, come già Enrico Berlinguer nel 1976, quando prese una posizione che oggi farebbe piangere il piccolo opinionista di Bianca Berlinguer. 

Il biputinismo italiano fa il suo mestiere di apologeta del Cremlino a reti unificate, in attesa di raccogliere i frutti della propaganda illiberale, antioccidentale e antiamericana alle elezioni del prossimo anno. E noi qui con la società aperta che sta morendo, e i partiti costituzionali che mangiano il gelato.   

Hanno tutti ragione. Nulla è vero, tutto è complotto. La realtà parallela dei rossobruni d'Italia. Stefano Cappellini su La Repubblica il 13 Maggio 2022.

La guerra russa in Ucraina ha prodotto una specifica ondata di rossobrunismo, inteso come la convergenza di opposti estremismi su temi e azioni comuni. Convergenza anche stavolta non simmetrica: storicamente è quasi sempre il bruno che annette il rosso. Perché sia il bruno a mangiare il rosso è evidente. Un antimperialismo rancido e strabico, il "rosso", è totalmente messo al servizio della narrazione bruna: le democrazie liberali sono in fondo peggio delle dittature, la propaganda Nato più pervasiva di quella russa, in quanto occulta. E ancora: i dittatori, pur dittatori, combattono anche in nome della libertà dal Grande Capitale e dal Grande Reset e, in realtà, comprimendo i diritti civili del loro popolo lo accudiscono e lo preservano dalla schiavitù occidentale. Una visione squisitamente fascista. 

Ha destato scalpore che la serata santoriana Pace proibita sia finita anche su Byoblu, network specializzato in complottismo e negazionismo diretto dall'ex 5S Claudio Messora, famigerato ai tempi per aver rassicurato Boldrini sulla sua non stuprabilità. Michele Santoro si è giustificato spiegando che il segnale era libero (vero), ma nessuno dei "pacifisti" si è interrogato sul punto, e cioè perché una realtà come Byoblu si sentisse così in sintonia con la serata da prenderne la diretta. 

Come i 5S, Byoblu è un laboratorio rossobruno. Sulle sue pagine ha trovato spazio l'umbro Moreno Pasquinelli, già leader dell'ambiguo e screditato Campo antimperialista ai tempi dell'invasione americana dell'Iraq. Anche Pasquinelli è passato attraverso la fase No Vax. Ha fondato il Fronte del dissenso (Fronte è parola connotata a destra). Sulle pagine di propaganda No Vax, si trovano i suoi dialoghi in video con l'ineffabile "filosofo" pseudomarxista Diego Fusaro, uno degli influencer rossobruni più presenti e seguiti, sempre impegnato a rivestire di nastrini bolscevichi contenuti chiaramente reazionari. Pasquinelli, ovviamente, in sé rappresenta poca cosa. Ma le teorie che vogliono il popolo ingannato da poteri occulti e sovranazionali, e che fondono anticapitalismo di matrice comunista e antimondialismo di stampo sovranista, non sono più confinate in nicchie estremiste. Anzi la principale caratteristica del rossobrunismo contemporaneo è proprio l'uscita dai vecchi ghetti ideologici e sperimentali e la produzione di un "senso comune" che, se si volesse scimmiottare il lessico indigeno, si potrebbe definire "mainstream". 

Il rossobrunismo di matrice complottista ha origini in Italia nei tardi 70, quando una frangia del neofascismo teorizzò l'unione di rossi e neri contro il Sistema, maiuscolo ovviamente, entità indefinita che riassume il potere economico, finanziario e mediatico. Ne nacque anche un gruppo terroristico, Costruiamo l'azione, peraltro largamente infiltrato dai Servizi. Secondo Costruiamo l'azione il Sistema era felice che i giovani di opposta fazione si sparassero tra di loro, mentre la soluzione era cominciare tutti a sparare sul Sistema, annullando tutte le differenze in nome del comune nemico (uno dei leader di Cla, Sergio Calore, praticò il rossobrunismo anche in chiave matrimoniale: sposò infatti un ex brigatista rossa prima di essere misteriosamente assassinato a Tivoli nel 2010 con un colpo di piccone, circostanze mai chiarite). L'annullamento delle differenze di campo giustificato dal disvelamento del complotto che tutti ci opprime è un passaggio chiave del rossobrunismo attuale, la cui influenza sull'opinione pubblica contemporanea è facilmente misurabile. 

La destra vincente a livello mondiale non è più quella legge e ordine, di tipo reaganiano. È quella che nega ogni vincolo sociale, anarco-individualista, che relativizza ogni fenomeno, che pratica l'antiscientismo e rimuove i problemi reali ascrivendoli a complotti, intrighi, mistificazioni eterodirette dell'alto. Si è è visto chiaramente con la pandemia e la guerra. Il risultato finale effettivo è che non esiste ragione reale di essere Sì o No Vax, pro Putin o pro Ucraina, sono considerate tutte contrapposizioni artificiose provocate dall'alto, distinzioni fasulle. Dunque: tutto quello che pensi è falso e siamo vittime, come direbbe Orsini, di "quello che non ci dicono". Chiaro che, su queste basi, non ha più senso nemmeno la divisione destra-sinistra, teoria che infatti è il cavallo di battaglia dell'esperimento rossobruno di maggior successo, quello del Movimento 5 Stelle.

Stop alle frottole. L’inganno retorico del “no alla guerra” con cui i finti pacifisti confondono le acque. Antonio Preiti su L'Inkiesta il 13 Maggio 2022.

Il racconto di quello che accade dipende dai frame (le cornici di senso) entro cui viene inquadrato. L’opinionismo pseudo-complesso è riuscito, a forza di slogan e accostamenti fuorvianti, a ribaltare i fatti evidenti dell’invasione e creare un mondo alla rovescia.

Ricordiamo le ore del 24 febbraio, incollati a Skytg24, a internet e a tutto il resto, per vedere le immagini degli inviati a Kyiv, per capire la situazione: quella è proprio la piazza principale della capitale e nessuno è per strada; l’altra è Odessa, ancora intatta, e già imparavamo a conoscere Mariupol, la città di Maria, che già nel nome evocava, a suo modo, qualcosa del martirio successivo. Cosa sta succedendo? Davvero è un’invasione? Davvero Putin sta bombardando città, civili e incenerendo tutto quello che trova per la sua strada?

Non avevamo bisogno di opinioni, ma di fatti, di sapere le cose. E sui sentimenti non c’era molto da dire: orrore, pietà per morti innocenti, simpatia totale per un popolo che, in fondo, vuole essere come noi, far parte del nostro mondo, vivere come viviamo noi. Le parole usate al tempo erano le parole della verità: bombe, invasione, morti civili, orrori, massacri. Non erano ancora arrivate la “geopolitica” e il dominio ambiguo dell’opinionismo.

In quei giorni già lontani, ma non tanto da non potersi ricordare con precisione, il bailamme opinionistico non era ancora avviato perché in quelle ore sarebbe stato inaccettabile. C’era solo da dire dell’orrore, del resto nulla.

La parola comune in quei giorni era “invasione”, in consonanza con tutto il mondo occidentale che diceva: “Stop invasion”, “Stop war”. Non si sa come, il linguaggio da noi è però presto scivolato nell’ambiguità: lo “Stop war” è diventato “No alla guerra”. Una volta passati dallo “Stop alla guerra”, con l’implicita intuizione che c’è qualcuno che deve fermarsi, al “No alla guerra”, dove le due parti sono equivalenti, si stabilisce lo scarto del significato e la cristallina separazione tra aggressore e aggredito. Mentre nello “Stop all’invasione” vi è l’identificazione, l’immedesimazione e il comune sentire con qualcuno che una mattina si sveglia e si trova invaso; nel “No alla guerra” c’è una distanza emotiva, un guardare le cose da lontano e dove prima c’era orrore, e ci si sentiva coinvolti, adesso c’è sempre l’orrore, ma da guardare da remoto, senza compassione. E questo è il primo passo.

Il secondo è l’ingresso sulla scena mediatica della “geopolitica”. Questa disciplina (che non è una scienza, e neppure una quasi-scienza, basata com’è su una speciale considerazione di alcuni elementi delle vicende degli stati, elementi ritagliati e assurti a valore assoluto) per definizione non è “morale”, non ha aspetti valoriali; insomma è (vorrebbe essere) come una legge della fisica, per cui esisterebbero dei fattori oggettivi che spingono gli Stati a comportarsi come si comportano. È una sorta di determinismo, neutro e lontano. Allora diventa “naturale” che se uno stato si sente “minacciato”, allora ricorra all’aggressione, anzi alla guerra, visto che il termine aggressione è presto scomparso.

Nella geopolitica non c’è posto per le decisioni soggettive, e per la responsabilità di chi le prende, e meno che mai per un giudizio morale: aggressore e aggredito sono sullo stesso piano nella logica geopolitica: uno vuole conquistare e l’altro non vuole farsi conquistare. Così messa la questione, diventano pari. Noi che c’entriamo? Il fatto che un popolo che vive in democrazia e non vuole perderla; che si sente europeo e per questo è disposto a combattere; che vuole difendere i propri confini e la propria indipendenza, non valgono più nulla.

Una volta che dal giudizio di merito, in cui c’è uno stato che, in spregio al diritto internazionale, ne invade un altro, il frame della vicenda, cioè la sua cornice semantica, non è più l’invasione ma diventa “la guerra”. Stabilire il frame dominante nella contesa politica è cruciale: se il focus è sull’immigrazione, allora vincerà il partito che su quel frame conquista la posizione dominante; se il frame non è l’invasione (atto unilaterale violento), ma “la guerra” (stato delle cose senza espressione di responsabilità), allora vinceranno gli annessi e connessi della “guerra”, come, ad esempio: “Non è l’unica guerra, ma ci sono altre guerre che non consideriamo”, “Anche la Nato ha fatto guerre”, “Le guerre sono tutte negative e non importa chi comincia”, “Bisogna muoversi per la pace” e così via, sommergendo l’“hic et nunc” (il qui e ora specifico: un Paese illegittimamente invaso da un altro) sotto una pletora di opinioni sempre più astratte, sempre più “liberate” dai fatti, sempre più ambigue.

Per altro, un’invasione può finire in generale in due modi: o l’aggressore ritorna sulle sue posizioni di partenza (visto che l’Ucraina non ha mire di occupare la Russia) o gli aggrediti si arrendono e finiscono di essere nazione. C’è anche un terzo modo, naturalmente: che i contendenti (visto com’è scomparso l’aggressore?) s’accordino su una qualunque soluzione. Curiosamente tutto il parterre dei “pacifisti” oscilla tra il secondo e il terzo modo di far finire la guerra, ma non sul primo che sarebbe il più ovvio. Il frame del “No alla guerra” ha spostato completamente la semantica del discorso. Adesso si discute delle ragioni dell’uno e dell’altro e, soprattutto, sentendo la propria impotenza rispetto alla soluzione-principe per far finire la guerra (il ritiro di Putin), chiedono la resa degli ucraini (a loro dispetto, perché hanno dimostrato in tutti i modi possibili e immaginabili che non vogliono farsi conquistare dai Russi) e per ottenere la resa degli ucraini chiedono che l’Occidente non invii loro armi. Risultato? Per avere la pace sono pronti, sempre sulla testa degli Ucraini, a dare la vittoria a Putin.

Ultimo passaggio, ma non di minore importanza, dello spostamento semantico di queste settimane è l’auto-attribuzione della bandiera morale dei “pacifisti” contro chi è favorevole agli aiuti militari agli Ucraini.

Loro sono per la pace, ne consegue, ovviamente, che tutti gli altri sono per la guerra (per la continuazione della guerra, per essere esatti). Così il capolavoro semantico è compiuto: chi vuole la pace si erge a paladino del bene e lascia agli altri ciò che rimane dopo aver tolto il bene. Così, quanti dicono che sia giusto aiutare l’Ucraina a difendersi si devono giustificare, spiegare perché lo dicono, e così diventano loro sotto attacco.

Ma la regola della conquista del frame in politica è ferrea: chi si deve difendere ha già perso. Ovviamente finché accetta la postura da accusato. Ed è così che la situazione si ribalta: chi ha solidarizzato immediatamente con l’aggredito, e della cui evidenza di aggredito prima nessuno aveva dubbi, si trova oggi nella posizione dell’aggressore, perché aiuta… gli aggrediti. Basta spostare il frame, occupare il campo semantico del dibattito, e abbiamo così un mondo sottosopra.

Le bombe, le vittime, i crimini scompaiono dalla mente e rimane una Babilonia di parole che cancella ogni sentimento umano. Quei sentimenti che il 24 febbraio erano nitidi, coinvolgenti e veri. L’ambiguità del linguaggio crea l’ambiguità dei sentimenti e l’ambiguità della politica.

Di fronte alla guerra in Ucraina e all’escalation, rivendico il diritto di tutti ad avere paura. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 03 maggio 2022.

Per la prima volta nella mia vita, da cittadina e giornalista, trovo difficile e mortificante inserirmi in un dibattito- quello sulla guerra- poiché ho la sensazione di trovarmi su un brutto crinale, sia come cittadina che come giornalista.

Non esiste il diritto alla paura. Che, attenzione, in quanto spogliata del diritto di esistere è completamente rimossa dal dibattito.

Col Covid abbiamo passato due anni a discutere di paura -  paura del contagio, della morte, del fallimento economico, dei disturbi psichiatrici negli adolescenti, delle conseguenze sui mercati - e ora, con la prospettiva più che plausibile di una Terza guerra mondiale, l’essere contrari all’invio di armi viene immediatamente derubricato a vigliaccheria.

Per la prima volta nella mia vita, da cittadina e giornalista, trovo difficile e mortificante inserirmi in un dibattito - quello sulla guerra - poiché ho la sensazione di trovarmi su un brutto crinale, sia come cittadina che come giornalista.

In entrambi i casi mi sento in pericolo. Il brutto crinale è l’assenza di un elemento dal dibattito, un elemento a lungo discusso durante il Covid, ai tempi (cioè fino a ieri) protagonista delle nostre vite e polemiche: la paura.

In questa spaventosa fase della storia si parla solo di coraggio, quello eroico degli ucraini che diventa persino un brand sui palazzi e viene celebrato giornalmente con una inesorabile e pericolosa spettacolarizzazione della guerra, quello della grande madre Russia, quello che dovremmo avere noi tutti nel decidere di essere pronti alla terza guerra mondiale perché non possiamo lasciare sola l’Ucraina. Che gente saremmo.

IL CORAGGIO È UN DOVERE

A Piazza Pulita, tempo fa, un giornalista sbraitava che il dibattito sull’inviare o no le armi in Ucraina è «stucchevole» (giuro, ha usato questo aggettivo), perché inviarle è una decisione giusta e basta ma, ha aggiunto, purtroppo c’è quella fetta di italiani cinici che non vogliono.

Il coraggio, insomma, è una sorta di dovere che non meriterebbe neppure un parere e chi non lo possiede è cinico o vigliacco perché vuole lasciare l’Ucraina al suo destino.

Non esiste il diritto alla paura. Che, attenzione, in quanto spogliata del diritto di esistere è completamente rimossa dal dibattito. Ed è paradossale perché col Covid abbiamo passato due anni a discutere di paura -  paura del contagio, della morte, del fallimento economico, dei disturbi psichiatrici negli adolescenti, delle conseguenze sui mercati - e ora, con la prospettiva più che plausibile di una Terza guerra mondiale, l’essere contrari all’invio di armi viene immediatamente derubricato a vigliaccheria. A egoismo. O, peggio, a una simpatia per Vladimir  Putin. Perfino per chi aveva paura dei vaccini c’era più comprensione. Perfino per il terrapiattista che chi si rifiutava di credere alla scienza.

IL TERRENO DEL CONFRONTO

«Bisogna rispettare la paura del corpo violato, dell’irrazionalità, bisogna prendere per mano queste persone, non essere aggressivi», si diceva.

Allora mi torna alla mente l’ammonimento lugubre, perentorio di Mario Draghi di fronte alla paura di vaccinarsi: «L’appello a non vaccinarsi è l’appello a morire!», disse. E poi quello lanciato di fronte allo scetticismo degli italiani sulle conseguenze di questa guerra: «Preferite la pace o il condizionatore acceso?».

Insomma, se non ti vaccini muori, se vai in guerra al massimo un po’ di sudarella a Ferragosto. Ecco. Una comunicazione funzionale alla rimozione della paura. In particolare, non si parla mai di conseguenze.

Eppure tra il condizionatore spento e le simulazioni di lanci di testate nucleari sulle tv russe, dovrebbe esistere un terreno onesto su cui confrontarsi. Un terreno che preveda ascolto e comprensione per quella larga percentuale di italiani che dalla politica e dalla stampa viene dipinta come Busacca e Jacovacci, i due soldati codardi della Grande guerra (senza il riscatto finale).

E allora parliamone di questa presunta vigliaccheria, perché la sensazione è che mentre nelle redazioni infuria lo slancio bellico (soprattutto tra quelli che ai tempi hanno evitato la leva obbligatoria per una virulentissima dermatite seborroica al mignolo), fuori, tra la gente, esista ancora quel senso di realtà che impone una domanda: cosa rischiamo?

E sia chiaro: il coraggio senza valutazione del rischio (che poi si può decidere di correre comunque) è da fessi, non da eroi.

Ebbene, scusate se lo ricordo così come evidentemente se lo ricordano parecchi italiani, ma stiamo parlando di conseguenze che possono essere un’agonia di anni, la povertà nostra e di paesi per cui povertà è già oggi fame e carestia, l’assenza di risorse energetiche, l’addio alla mia casa, alla mia città, al mio paese, la perdita del lavoro, la fine di ogni progettualità, l’assenza di futuro per i figli, la mia morte, la morte di chi amo, la distruzione di una nazione, di un continente, del mondo, l’olocausto nucleare, l’estinzione della specie.

Ecco, perché tutto questo deve essere chiaro ed esplicitato, altrimenti ci si convince di perdere al massimo qualche carro armato al Risiko.

O due gradi di aria condizionata. Invece la grande propaganda bellica, nel nostro paese, consiste proprio in questo: nella rimozione del rischio e quindi della paura. Nella minimizzazione. E, passaggio ancora più grave, nel ridicolizzare chi quel rischio se lo sente appiccicato addosso perché sa che escalation non vuol dire “mi ha attaccato, domani gli rispondo sul mio giornale”.

LA PAURA OLTRE LA GEOPOLITICA

Poi certo, ci sono le cronache dal fronte con i morti sull’asfalto e c’è questo immenso esercizio di analisi geopolitica, ma i morti dopo due mesi si somigliano tutti e la geopolitica resta un terreno elitario. Alla fine, per tanti, resta solo la paura. Che è uno stigma.

Ci si sente perfino disertori della solidarietà, nell’averne. Nonostante quello che è in gioco, e cioè tutto.

Si finisce perfino accostati ai no-vax, perché la strada della ridicolizzazione degli italiani che hanno paura della guerra passa anche attraverso la semplificazione bambinesca: pacifista=pro Putin=no vax. 

Non dovrebbe passare giorno in cui non ci si ponga il problema del futuro dell’Ucraina e senza che ci si dica a chiare lettere cosa siamo disposti a perdere, per il futuro dell’Ucraina. Senza bluffare, però.

Visto che mi occupo molto, e anche con occhio critico, della comunicazione di Zelensky, molti ritengono che io simpatizzi per Putin o chissà, che abbia un conto in rubli aperto presso la banca di Sondrio per non dare nell’occhio.

La verità è che me ne occupo perché quella comunicazione contribuisce alla pericolosa, sinistra rimozione del concetto di paura. E trovo che lo faccia in maniera ben più ambigua di quanto non lo faccia la propaganda russa per due ragioni: la propaganda russa funziona molto internamente, meno fuori dai confini. Ed è spesso ai nostri occhi grottesca. In seconda battuta la loro eroicizzazione del sacrificio per la patria è ampollosa, rituale, militaresca.

E’ parate, medaglie, soldati in file perfette, giornalisti inespressivi, tavolini troppo lunghi. La loro narrazione della guerra è respingente, distante. Non genera paura ma repulsione. Quella di Zelensky, invece, arruola emotivamente.

Trasforma la guerra in un videogioco, il coraggio in un comando del joystick. I filmati in stile Netflix, i discorsi enfatici, le foto della guerra col filtro “struttura”, l’esaltazione del coraggio fino alla morte, gli spot, i manifesti, i soldati con i gattini, il presidente con la divisa del soldato.

LA RIMOZIONE

Il numero dei soldati ucraini morti che non esiste. Esiste solo quello dei civili, perché la guerra che si vive al fronte è solo onore, vittorie e medaglie. Non esistono i disertori, che pure esistono e si nascondono nei bagagliai delle auto o sotto strati di trucco per sembrare donne (ebbene sì).

Esistono, perfino, le mogli dei neo nazisti del battaglione Azov, pur di portare il coraggio ucraino in tour. Il coraggio della guerra. Che non è brutta e sporca, è l’eterno, eroico sacrificio. La negazione della paura, appunto.

Quella negazione che tanto piace alla stampa italiana, altrettanto alla politica, meno ai cittadini. I cittadini che oggi cercano qualcuno che li rappresenti nel loro desiderio di solidarietà all’Ucraina e nel rispetto della loro paura.

Che non li mortifichi, che non faccia i sorrisini irridenti alla Alan Friedman quando si ipotizza un olocausto nucleare, che non dimentichi cosa significhi un orizzonte di morte, che abbia bene in mente che anche solo in caso di crisi economica, chi ha poco non avrà niente. Dai nostri vicini di casa, ai paesi del terzo mondo. 

Mio padre, che la guerra l’ha vissuta, per cui la guerra non è un concetto astratto ma sirene e bombe sulla testa, ha paura. E non è che non pensi all’Ucraina o si aggrappi egoisticamente al suo futuro. Ha quasi 88 anni.

Semplicemente, conosce la guerra per quello che è. Lui che scappando da Genova si è ritrovato sulla linea Gustav con la famiglia, conserva intatto il suo diritto alla paura.

Sa quanto ingannevoli e strumentali siano i parallelismi con altri momenti storici e altri eroi. Sa che non c’è niente di sporco e mortificante nell’avere paura. Sa che chi invoca la necessità della guerra a tutti i costi e non ha pietà per chi non la vuole, guarda rapito il dito sul grilletto e non la luna.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Pierluigi Panza per milano.corriere.it il 6 maggio 2022.

A cinquant’anni dalla celebre foto simbolo della Guerra del Vietnam, quella scattata da Nick Ut che ritrae una bambina nuda, di nome Kim Phuc, che scappa dalle bombe al napalm piangendo, la «Napalm girl» e il fotografo sono a Milano per inaugurare venerdì sera la mostra «From Hell to Hollywood». L’esposizione fotografica, a cura di La Thi Than Thao e Sergio Mandelli a Palazzo Lombardia sino al 31 maggio, ripercorre l’intera carriera del fotoreporter di Nick Ut a cinquant’anni dallo scatto che gli valse il Premio Pulitzer nel 1973. La foto fu scattata il mattino dell’8 giugno del 1972. 

Si aveva avuto notizia che ci sarebbe stato un bombardamento sul villaggio di Trang Bang, nel Vietnam del Sud, occupato dai Nord vietnamiti. Quel mattino c’erano sul luogo diversi foto operatori e si fecero molti scatti.

A sganciare le bombe furono alcuni Douglas Skyraider in uso alla forza aerea del Vietnam del sud. In alcune foto si vede anche la nonna di Kim Phuc con in braccio un nipotino ormai morto. Kim Phuc ha subito 17 operazioni e ha vissuto prima a Cuba poi in Vietnam e in Canada. Ut vive a Los Angeles, ha lavorato per Hollywood e continua nella professione. Dalla foto, nel 2004 lo street artist Banksy ha realizzato un celebre ironico murales.

Kim Phuc: «Io testimone anti-guerra»

«Era il 8 giugno del 1972 ed ero una bambina di nove anni. Stavo giocando e sono venuti i soldati del Vietnam del Sud a dirci di andare via perché bombardavano». Inizia così il ricordo di Kim Phuc. «Siamo scappati in strada correndo e subito dopo sono scoppiate le bombe: io sono solo una dei milioni di bambini che hanno sofferto per la guerra». 

Chi sono gli altri bambini della foto?

«Sono parenti: i due ragazzi alla sinistra sono i miei fratelli e gli altri due bambini sono i miei cugini. Mio fratello è morto nel 2004; gli altri sono tutti vivi». 

E poi che è successo?

«Nick Ut mi portò in ospedale. Ho passato 14 mesi in ospedale e subito 17 operazioni, l’ultima nel 1984 in Germania. Ho visto per la prima volta la foto dopo i 14 mesi in ospedale e me la ha mostrata mio padre ritagliata da un giornale. Non la volevo vedere. Fino al 1975 c’è stata la guerra e siamo rimasti senza niente. Noi del Sud pensavo che dopo la guerra saremmo stati felici. Ma poi sono arrivati i Khmer e la vita fu terribile». 

Che cosa ha fatto dopo?

«L’anno dopo lascia il Vietnam per Cuba. Durante il tempo passato in ospedale, i dottori mi hanno ispirato moltissimo e ho pensato di voler essere come loro. Nel 1982 sono stata ammessa al corso di medicina, ma proprio allora il governo vietnamita si accorse di me. Decisero che io dovessi diventare il simbolo della guerra del Vietnam proprio per via di questa foto così famosa. E così mi hanno tolta dalla scuola. Mi sentii vittima una seconda volta: divenni testimonial». 

Andiamo avanti.

«Poi ho incontrato la fede nel cristianesimo e mi aiuta. Penso che sia stato grazie a Dio se siamo ancora vivi. Il dolore fisico e i segni li porto ancora sulla pelle ma il dolore emotivo e spirituale è stato ancora più difficile da affrontare». 

Ha avuto figli?

«Sono miei figli i bambini di tutto il mondo», risponde. «Comunque, ho vissuto prima a Cuba, poi mi sono sposata, trasferita in Canada e ho avuto due figli. Ora sono cittadina canadese e rappresentante Unesco». 

Cosa pensa della guerra in Ucraina?

«È terribile, si stanno ripetendo le stesse cose. La guerra spegne i sogni dei bambini. Vorrei condividere la mia storia per servire come lezione». 

Un desiderio?

«Consegnare una copia di questa mia foto a Papa Francesco, spero avvenga al più presto». 

Nick Ut: «Ho mollato le macchine fotografiche per aiutarla»

«Ero un reporter vietnamita della Associated press che seguivo la guerra, con altri. Avevamo avuto una soffiata che ci sarebbe stata un bombardamento su Trang Bang, nel Vietnam del Sud, un paesino occupato dai Nord vietnamiti. Quel mattino c’erano una dozzina di foto operatori e si fecero molti scatti. Avevo iniziato a lavorare nella fotografia a sedici anni sostituendo mio fratello, che era stato ucciso». 

Veniamo alla foto.

«Sono stato lì circa tre ore a documentare. A un certo punto ho visto che un soldato vietnamita sganciava una granata e poi ho visto gli elicotteri sopra la pagoda che hanno sganciato due bombe e, un tre minuti dopo, le bombe al napalm. Poi ho visto che dal fumo nero uscivano persone correndo. Una di queste persone era la nonna di Kim che portava il corpo di suo cugino di tre anni. Ho scattato una foto del bambino che tre minuti dopo era morto. Poi ho visto Kim che è apparsa e correva e mi sono avvicinato per fare la foto. Quando ho scattato pensavo che sarebbero tutti morti». 

Invece?

«Quando mi è passata oltre ho visto braccio e schiena ferita. Non gliene ho scattate altre perché credevo sarebbe morta. Avevo quattro macchine fotografiche, le ho lasciate lì e sono corso con una bottiglia d’acqua per spandergliela sul suo corpo; lei urlava: brucia, bricia. Ma lei voleva bere. Sono rimasto con uno della BBC ad aiutarla. Avevo un piccolo furgoncino, l’ho aperto e ho fatto salire i bambini. Ho preso in braccio Kim e messa sul furgoncino. Stavano urlando e tutti dicevano che stavano morendo e lei chiedeva del fratello».

Poi?

«Arrivammo a un piccolo ospedale in 30 minuti. Chiesi ai medici di aiutarla, ma non avevano abbastanza medicine. Loro mi hanno aiutato a portarla a Saigon». 

La foto?

«Lì sono andato alla Associated Press di Saigon e dieci minuti dopo era sviluppata. La mattina dopo siamo tornati al villaggio e ho visto una donna e il marito che cercavano la figlia. Gli ho fatto vedere la foto e ho detto loro che la avevo portata in ospedale». 

L’anno successivo le valse il Pulitzer, e poi?

«Tornai al villaggio il giorno in cui Kim uscì dall’ospedale e le regalai un libro». 

Lei, poi, si è trasferito a Los Angeles, ha lavorato anche per Hollywood ma ha sempre sostenuto le battaglie per i diritti umani. Cosa potrebbe fare una foto per la guerra in Ucraina?

«Anche una foto potrebbe servire. Ho parlato a lungo con i rifugiati ucraini a Los Angeles, che mi hanno chiesto di andare. Vorrebbero che io vedessi anche questa guerra e scattassi ancora».

(LaPresse il 5 maggio 2022) -  In un programma in onda sulla televisione di Stato Russia 1 Shakhnazarov, regista e produttore vicino al presidente russo Vladimir Putin, ha dichiarato che "gli oppositori della lettera Z devono capire che non saranno risparmiati. Qui è tutto serio, gravissimo: campi di concentramento, rieducazione, sterilizzazione”.

(Adnkronos il 6 maggio 2022) - "L'Unione europea deve farsi sentire, non può identificarsi nell'Alleanza euro-atlantica. Questo non significa mettere in discussione l'Alleanza, ma l'Europa non può non esprimere, soprattutto in un contesto come quello attuale, una sua propria vocazione per una soluzione di questo conflitto". Lo ha detto il leader M5S Giuseppe Conte, intervenendo alla prima lezione della scuola di formazione 5 Stelle, presso il Tempio di Adriano.

L'invasione dell’Ucraina. Ci sono due tipi di pacifisti.

Quelli comunisti ed eternamente antiamericani, astiosi del fatto di essergli sempre riconoscenti per la libertà conquistata dal nazifascismo e perchè ha impedito la vittoria e l’egemonia del comunismo con l’espansione dell’Unione Sovietica ad Ovest.

Quelli che…”che me ne fotte a me!” Interessati esclusivamente al loro benessere e tornaconto personale. Fa niente se il loro stato è dovuto al martirio di tanti soldati stranieri che hanno combattuto in Italia. Quelli che quando vedono una vittima di violenza o sopraffazione, non degnano attenzione e proseguono oltre.

The Putin Show. Il finto pacifista si sveglia ogni mattina rassicurato dai media della Bieloitalia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

Ora che sono passati tre mesi dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, il militante anti Usa non ha bisogno di urlare quanto Zelensky sia nazista, perché i talk show ci tengono a mostrare sempre le ragioni del Cremlino. Anche quando bombarda un centro commerciale pieno di civili

Riprendiamo il diario pacifista a quasi tre mesi da quella sera in cui il nostro eroe chiudeva la propria giornata di impegno militante spiegando alla figlia che i bambini ucraini sono dei fondamentalisti, perché non capiscono che in dittatura si può vivere felici. Il protocollo orario della lotta non è cambiato, ma l’esperienza acquisita durante lo sviluppo delle operazioni speciali ha apportato alla resistenza pacifista armamenti di maggiorata efficacia. Vediamolo.

Ore 7,00: il Pacifista si sveglia ben riposato. Non ha dovuto, come invece gli toccava agli esordi della campagna di denazificazione, star su fino a tardi per sorvegliare il regime dell’informazione che concedeva al pacifista comunista sindacalista collaborazionista solo il settanta per cento dei talk show, solo l’ottanta per centro delle interviste senza contraddittorio e solo il novantacinque per cento degli approfondimenti scientifici per decidere se i presunti cadaveri di Bucha erano manichini o invece comparse dell’Actors Studio, se nell’acciaieria c’era il nipote di James Bond e/o la figlia naturale dell’estetista di Joe Biden e se i ciclisti abbattuti dai cecchini erano solo omosessuali drogati o anche evasori fiscali. È tutta roba acquisita, finalmente, perché adesso il Pacifista può assistere orgoglioso a come ha ben fruttato il proprio cimento e a come Raiuno, Raidue, Raitre, Retequattro, Canale5, Italia1 e LaZ aka Telecinquestelle vadano in autonomia e non abbiano più bisogno del suo aiuto per spiegare che i russi fanno anche qualcosa di buono.

Ore 7,30: il Pacifista si lava i denti. L’animo suo, rasserenato al risveglio da quel tranquillizzante panorama dell’informazione come si deve, si rabbuia ora nella meditazione sulle sofferenze delle masse proletarie impoverite dagli egoismi ucraini. Rumina il tweet: «Prima gli italiani!». Senonché, mortacci sua, non ti arriva la moglie a rovinar tutto de prima matina? L’innocente, porella, anzi innocentessa, perché non si è pacifisti comunisti sindacalisti collaborazionisti senza essere in primo luogo arcobaleno, dice che sì, però… e ti snocciola l’esito del suo scrutinio, fastidioso come un resistente ucraino: «Amò, ma non l’aveva già detto quell’altro, come se chiama?, quello co’ la felpa, cor rosario… quello che je manna la ruspa a le zingaracce, dai!, quello che se voleva pijà li pieni poteri… Sarvini! Ecco, Sarvini! L’aveva detto puro lui che prima vengono l’itajani». E che palle. Ripiega dunque su «Ucraina Stato canaglia», che favorevolmente («Bravo amò!») passa il filtro censorio della puntigliosa consorte.

Ore 8,00: il Pacifista non legge più i giornali. Ha capito da mo’ che anche lì il lavoro è stato fatto. D’accordo, la stampa nazista, dal Corriere della Sera a Linkiesta, non è stata debellata completamente, ma ‘sti cazzi, tanto il Pacifista lo sa che la verità è venuta a galla e al compagno Massimo Giannini nessun complotto, nessuna cospirazione, nessun colpo di mano impedirà mai di far scrivere che Zelensky ricatta l’Europa.

Ore 8,30: il Pacifista esce per andare a faticà.

Ore 8,31: il Pacifista rientra (la militanza può cambiare sui dettagli, ma non sui principi).

Ore 12: al Pacifista je tocca da cucinà, perché la moglie è al sit in contro la guerra del Vietnam e per il boicottaggio dei prodotti israeliani. Il monitoraggio del soffritto non lo distrae dalla radio, che propina il frutto quotidiano della disinformazione di matrice Nato: missili su un supermercato (puah!), tredici morti (pfui!), decine di feriti (se vabbè…). Mangiare veloce perché la causa chiama.

Ore 14: Il Pacifista va al pc. Incazzato come un puma perché la notizia è coperta male, malissimo, porca puttana. Non uno che obietti l’ovvio, e cioè che innanzitutto il centro commerciale incenerito non aveva la licenza. E poi non uno che spieghi quel che capirebbe perfino Bianca Berlinguer, e cioè che prima di trarre conclusioni ci vuole un’indagine indipendente per accertare se c’erano gli idranti. Poi arriva la dichiarazione del plenipotenziario russo, che dice che era un deposito di armi, e il Pacifista si placa.

Ore 18: il Pacifista deve riempire il tempo da lì a quando arrivano i programmi seri, quelli delle inchieste che spiegano che «Putin sta puntando sui suoi obiettivi, e intanto cerca di non spaventare la popolazione». Che fare, nel frattempo? Un bel like sul post contro le multinazionali (irrecuperabile, mannaggia, perché non c’è la moglie ad avvisarlo che era della Meloni).

Ore 20: il Pacifista cena soletto, perché la moglie è passata dal sit in alla veglia di solidarietà alla stampa russa censurata, e la bimba è purtroppo dai nonni, che non si sa se saranno altrettanto impegnati a spiegarle che il bene e il male non stanno da una sola parte e che negli scantinati di Kyjiv ci sono tutti i comfort.

Ore 21: il Pacifista crolla. C’era un reportage cecoslovacco con sottotitoli in tedesco che diceva che i profughi ucraini in realtà sono passanti e che le deportazioni rendono liberi gli uomini: ma quando uno è stanco, è stanco. E poi l’aveva già sentito, in buon italiano, dalla viva voce dell’opinionismo che ogni giorno sfida la propaganda bellicista.

E domani? Domani magari il sollievo alla notizia di un’altra città ucraina caduta.

Balordaggini. L’ipocrisia italiana di pretendere che l’Ucraina sia anche campione di moralità. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 23 Giugno 2022.

Una parte del giornalismo di casa nostra è convinta che Kiev deve dimostrare di meritare il nostro aiuto. L’invasione di Putin non basta come motivazione, serve il tagliando concesso dai talk show populisti.

Abbiamo già discusso, proprio qui, del pregiudizio balordo secondo cui gli aiuti dovrebbero essere misurati sul merito del popolo che, aggredito, li richiede e li riceve.

È dal primo giorno dell’operazione speciale, dalla prima strage di civili, dal primo stupro, dal primo rastrellamento, dalla prima deportazione, e cioè da subito, perché l’iniziativa di denazificazione si è sviluppata immediatamente lungo quel corso di delizie, per quanto qui da noi qualche buontempone si esercitasse a spiegare che «Putin sta puntando sui propri obiettivi, e nel frattempo cerca di non spaventare la popolazione».

È insomma dall’inizio che quella balordaggine pretende di accreditarsi, e suona pressappoco così: ma vogliono mettersi in testa sì o no, questi ucraini, che noi, siccome gli diamo le armi, abbiamo il diritto di fargli l’audit morale a La7 e Raitre?

Dice: ok, vi mandiamo i fucili, visto che purtroppo non c’è Giuseppe Conte a impedire lo scempio e disgraziatamente l’Italia è in mano al vile affarista, ma voi dimostrate di aver capito che le carte tutte in regola mica ce le avete, a cominciare dalla villa del vostro presidente e dall’intollerabile negazionismo con cui tentate di coprire le verità sotto gli occhi di tutti, vale a dire che a Mariupol c’erano tante case abusive e a Bucha il traffico era insopportabile.

E poi, siccome queste sanzioni ci pregiudicano, e qui c’è finalmente concordia tra il pacifista comunista sindacalista collaborazionista, da una parte, e Capitan Nutella, dall’altra, sul fatto che prima vengono gli italiani, voi ucraini ce lo volete dire quando avete intenzione di far finire questa guerra?

Perché facciamo a capirci: a noi questa guera ce sta a rovinà, e a questo punto ci vuole un segno da parte vostra, dovete venirci in aiuto, voi a noi, belli nostri, perché altrimenti vuol dire che voi e i russi pari siete e anzi almeno quelli ci davano il gas economico invece che quello usuraio che vogliono rifilarci i vostri amici americani.

Insomma, come dice la meglio rappresentanza del nostro giornalismo democratico, «abbiamo il diritto di sapere che cosa gli ucraini pensano di questo conflitto», e in primo luogo se pensano che la guerra è colpa della Nato, che la guerra è colpa di Joe Biden, che la guerra è colpa di Boris Johnson, che la guerra è colpa di Mario Draghi, che il loro presidente è ebreo come Hitler e che nelle televisioni ucraine non si dà voce all’Anpi e all’Associazione nazionale magistrati. Vogliono il nostro aiuto? Devono esserne degni.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 9 maggio 2022.

Qualche sera fa, durante la puntata di Dritto e rovescio, mi è capitato di confrontarmi con Edward Luttwak, un americano a Roma che da anni si spaccia da esperto non so bene di che cosa. I giornalisti lo interpellano come un oracolo per sentire le sue analisi di geopolitica, e su Rete 4 era stato chiamato a commentare la guerra in Ucraina. 

Ho ascoltato le sue tesi poi, arrivato il mio turno, ho detto ciò che pensavo, precisando che la pace sarebbe arrivata solo quando fossero stati costretti a sedersi al tavolo delle trattative sia Russia che Stati Uniti, perché questo è un conflitto tra Putin e Biden, che ha per coprotagonisti e, purtroppo, vittime gli ucraini. Non lo avessi mai detto: Luttawak ha cominciato ad agitarsi quasi avessi pronunciato una bestialità.

Ora si dà il caso che in quelle stesse ore il New York Times, non la gazzetta di Mosca, avesse appena rivelato come l'intelligence americana avesse guidato la mano delle truppe ucraine che hanno fatto fuori 12 generali russi, a dimostrazione che gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti nel conflitto. Infatti le rivelazioni hanno fatto sussultare la Casa Bianca, che ha definito irresponsabili gli autori dello scoop giornalistico. In effetti, rivelare che è il Pentagono a guidare i razzi significa sollevare il sottile velo di ipocrisia che copre le parti impegnate nel conflitto, dimostrando che gli Usa sono direttamente coinvolti nella guerra, anche se mandano a morire gli ucraini. 

Mentre Luttwak si agitava, da Washington arrivava un'ulteriore conferma. Il missile che ha affondato l'incrociatore Moska, ossia l'ammiraglia russa, è stato indirizzato dagli americani, i quali hanno fornito le coordinate per colpirlo. Sempre gli Stati Uniti hanno aiutato gli ucraini a individuare mezzi corazzati e obiettivi strategici, e anche questo è stato rivelato dalla stampa internazionale.

Del resto in quella stessa puntata di Dritto e rovescio, Angelo Macchiavello, inviato a Kiev del programma, confermava che nel suo albergo c'erano americani e inglesi e non parlava certo di colleghi della stampa o della tv. E Jeffrey Sachs, economista della Columbia University che conosce i Paesi dell'Est per avervi lavorato ai tempi della sua collaborazione con il World Economic Forum, la scorsa settimana, in un'intervista, aveva rivelato che prima dell'invasione russa il ministero della Difesa ucraino «pullulava» di americani e non si trattava ovviamente di turisti in vacanza, ma di militari assegnati a operazioni di addestramento.

Insomma, i segnali di un diretto coinvolgimento degli Stati Uniti in questa guerra non sono una mia opinione, ma un dato di fatto e si moltiplicano ogni giorno. Papa Francesco, nella sua intervista al Corriere, pur criticando la brutalità di Putin ha detto che forse «l'abbaiare della Nato alla porta della Russia» ha indotto il capo del Cremlino a reagire male. «Un'ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì».

E se ci fosse bisogno di conferma, l'altro ieri, mentre Volodymyr Zelensky si diceva disponibile al dialogo e anche a rinunciare alla restituzione della Crimea occupata dai russi nel 2014, Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, cioè un politico di terza fila che gli americani hanno messo a guida dell'Alleanza atlantica per comandarlo a bacchetta, spegneva gli entusiasmi, precisando che «i membri della Nato non accetteranno mai l'annessione illegale della Crimea». Tradotto: gli ucraini devono continuare a combattere - e a morire - per conto nostro, per questo gli forniamo le armi.

Per Enrico Letta parlare di guerra per procura è ignominioso. Ma la vera ignominia è quella di un partito che dopo averci bombardato per anni con la pace, oggi di fronte alle stragi di civili si scopre guerrafondaio ma con la pelle degli altri. Siamo circondati da una classe politica e giornalistica di artiglieri da salotto, di eroi ma per interposta persona, pronti ad assecondare una guerra per compiacere i propri referenti internazionali. Mi dispiace per Luttwak e per i comitati per cui lavora, ma questo è un confronto armato a distanza fra Russia e Stati Uniti e tutti gli altri, Europa e ucraini compresi, sono vittime e coprotagonisti. Ovvero pagano il conto, in termini di vite umane e bilanci.

Dunque, se si vuole fermare la guerra non resta che una soluzione: rinunciare all'invio dei cannoni per costringere le due superpotenze a trattare. Domani Mario Draghi sarà a Washington e questo dovrebbe dire. Purtroppo temo che non dirà nulla di tutto ciò, adeguandosi alle direttive di Sergio Mattarella, colui che 23 anni fa impose il silenzio sugli aerei italiani inviati a bombardare Belgrado e che anche ora, invece di invitare il Parlamento a discutere della Costituzione violata, approva il bavaglio.

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 10 maggio 2022.

«Il 9 maggio Putin dichiarerà la guerra totale. La mossa consentirebbe a Mosca di attivare la legge marziale, coinvolgere gli alleati e proclamare la mobilitazione di massa» (Avvenire.it, sabato 30 aprile); 

«Putin pronto alla guerra totale. Il 9 maggio lo zar potrebbe dichiarare chiusa l'operazione speciale e allargare il conflitto in Ucraina» (La Stampa, prima pagina del 1° maggio);

«La guerra totale di Putin. Il piano di Mosca:  avere il supporto degli alleati». (Il Messaggero, prima pagina del 1° maggio); «Londra: Putin pronto a dichiarare la guerra totale. Un quotidiano inglese riferisce, citando non meglio precisate fonti di intelligence, dell'ipotetica possibilità di un passaggio dalla fase dell'Operazione militare speciale a uno stato di guerra da dichiararsi il prossimo 9 maggio in occasione della Festa della vittoria». (Marco Imarisio, Corriere della Sera del 1° maggio); 

«L'offensiva russa rallenta ma il Cremlino prepara l'opzione guerra totale. Il quotidiano britannico Independent arriva a ipotizzare che il 9 maggio sulla piazza Rossa, davanti alle truppe schierate per la vittoria sul Terzo Reich, venga dichiarata la guerra totale in Ucraina, mettendo fine all'ordine ipocrita che impone di parlare di operazione militare speciale». (Gianluca Di Feo, Repubblica del 1° maggio);

«Il 9 maggio, hanno ipotizzato varie fonti, Vladimir Putin potrebbe annunciare la mobilitazione generale, accompagnata dalla dichiarazione di guerra formale. Questa ipotesi è stata esclusa ieri dallo stesso Cremlino e da diversi esperti, secondo i quali il presidente russo non ha bisogno di una grande mobilitazione per dichiarare la vittoria (). 

La smentita del Cremlino vale però fino a un certo punto. Mosca aveva ripetutamente escluso persino di voler invadere l'Ucraina. Chi non si fida guarda con timore all'esercitazione su larga scala cominciata ieri mattina in Bielorussia» (Andrea Marinelli e Guido Olimpio, Corriere della Sera del 5 maggio);

«Conclusa l'ultima prova generale della parata militare che il 9 maggio commemorerà la vittoria sul nazismo tra bandiere rosse e simboli sovietici, dilaga l'inquietudine per quello che Putin potrebbe dire domani in piazza Rossa» (Rosalba Castelletti, Repubblica dell'8 maggio). 

Ieri, dopo la parata che ricordava il 77° anniversario della vittoria sui nazisti, i siti online degli stessi giornali quasi si lamentavano di essere stati contraddetti dai fatti, perché Vladimir Putin non ha dichiarato nessuna guerra totale, né ha parlato di armi nucleari o di un'escalation della guerra. Nelle cronache degli inviati si nota lo stupore per il tono dimesso dello zar.

«La sorpresa è stata nei contenuti mancanti e nel tono», scrive Imarisio, lo stesso giornalista che sul Corriere riferiva che secondo fonti inglesi Putin stava per alzare i toni. «Non c'è stata alcuna dichiarazione di guerra, nessuna mobilitazione generale. Solo un riepilogo delle ragioni russe, e la sottolineatura delle cose che il Cremlino sostiene di aver chiesto più volte alla Nato e agli Usa, senza mai ottenerle».

Dopo tanta attesa, il discorso ha lasciato il collega con l'amaro in bocca, come un film di cui si è tanto parlato, ma che alla prima visione si rivela al di sotto delle aspettative: «Non sono volati neppure gli aerei in formazione Z, bloccati dalle avverse condizioni atmosferiche», si lamenta, e «anche il suo presidente, tutto sommato, ha volato basso. Forse la vera novità è questa: quello di Putin è un discorso in tono minore, quasi sulla difensiva».

Insomma, lo spettacolo che aveva attirato l'attenzione di giornali e telegiornali per giorni e giorni ha deluso, perché non c'è stato nulla di speciale, neppure la minaccia di una piccola atomica da sganciarsi in qualche angolo sperduto dell'Ucraina. 

Manco una minaccia diretta all'Europa, solo un po' di fuffa contro gli Stati Uniti, roba che si è già sentita e risentita. Alla fine, ai grandi scornati speciali non è rimasto che riciclare qualche articolo sulle condizioni precarie di salute di Putin e, udite udite, sulla cravatta a pois annodata intorno al collo, una Marinella, forse regalo di Silvio Berlusconi in tempo di pace.

«Si tratta di un modello classico, elegante, che di solito si mette nelle occasioni speciali», ha commentato alla radio il titolare del negozio napoletano di cravatte sartoriali. Eh, già, messe da parte le cronache belliche, per cercare di raccontare l'evento non restano che quelle di moda. È la stampa bellezza, che sa dimostrarsi ridicola anche davanti a una tragedia. 

Stasera Italia, Vittorio Feltri e il suicidio delle sanzioni: "Siamo imbecilli e ridicoli", Italia verso il baratro. Federica Pascale su Il Tempo il 09 maggio 2022.

“Chiaro che fintanto che Putin non smette di sparare diventa molto difficile fare una trattativa, però bisognerebbe che smettesse di sparare anche Zelensky”, il presidente dell’Ucraina. Così Vittorio Feltri durante la puntata di lunedì 9 maggio di Stasera Italia, il talk show politico condotto da Barbara Palombelli su Rete4, nel commentare il conflitto scoppiato a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe di Vladimir Putin.

“Non si capisce come mai Biden abbia tutto questo interesse per le vicende dell'Ucraina e della Russia – sottolinea il direttore editoriale di Libero -. Gli Stati Uniti sono a 7000 km da qui, e non riesco a capire perché se ne preoccupino tanto”. Secondo Feltri, gli americani, e nello specifico il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, non dovrebbero avere ruolo nelle trattative in corso per mettere fine alla guerra in Ucraina. Il conflitto è in corso a casa nostra, in Europa, e gli interessi in campo sono in primis quelli europei e quelli russi. “Trovo che gli Stati Uniti si stiano comportando malissimo – afferma il direttore -. È una mia opinione, intendiamoci. E d’altra parte l'Europa e la Nato, non è che siano stati molto chiari in questa vicenda.” “Non si riesce a capire come si possa smettere questa guerra se non si trova un’unità di intenti che possono sfociare in una soluzione”. 

Senza contare che le sanzioni che abbiamo inflitto alla Russia "si ritorcono contro di noi, ci danneggiano. Siamo un po' imbecilli e ridicoli" visto che ci mettiamo in difficoltà da soli, argomenta Feltri. Ne vedremo delle belle, "sia d'estate che d'inverno, per l'energia che non avremo" conclude il direttore. 

Presunto atlantismo. Quando l’odio per l’America è più forte dell’amore per la libertà degli ucraini. Iuri Maria Prado su l'Inkiesta l'11 maggio 2022.

Una buona parte della nostra opinione pubblica cova un risentimento a prescindere verso gli Stati Uniti. Questi rossobruni preferiscono fare le pulci a chi muore sotto le bombe piuttosto che biasimare chi ha invaso uno Stato democratico.  

Magari è venuto il tempo di dirla tutta sui movimenti di opinione, o piuttosto di pancia, davanti alla scena delle operazioni speciali in Ucraina. Sarebbe salutare riconoscere che un larghissimo consorzio sociale, ottimamente rappresentato a destra e a manca, è a dir poco recalcitrante all’idea di tenere appeso in camera il ritratto dell’imperialista di Washington e se dovesse dar sfogo senza obbligate prudenze ai propri impulsi metterebbe in bella mostra il bel viso rassicurante del patriota denazificatore.

Il profluvio di sondaggi sul gradimento italiano a proposito delle iniziative di sostegno della resistenza ucraina è la spia lucente di quella verità: odiamo più l’America rispetto a quanto amiamo il diritto degli ucraini di difendersi. E il nostro presunto atlantismo, nella poca misura in cui esiste e trova riscontro, è una specie di finzione, l’effetto di un’operazione di innesto: ma non è sentimentale, non è genetizzato tra le cose che formano la genuina fibra civile del Paese.

Il sodalizio editoriale tra il vecchio stalinista e il virgulto del giornalismo Dio-Patria-Famiglia, l’uno e l’altro mobilitati a ricognizione della colpa anglosassone e della servile subordinazione continentale, e a riaffermazione dell’interesse popolare cui quelle attenterebbero, non è il bizzarro coniugio degli opposti che si ritrovano su un campo episodicamente comune: è il riassunto esemplare di tradizioni convergenti ed è, soltanto messa in bella copia, la chiacchiera nazionale maggioritaria.

Quella della “guerra per procura” che il segretario del Partito democratico, meritoriamente, giudica ignominiosa ma non capendo, o facendo le mostre di non capire, che l’ignominia, purtroppo, non sta nella chiacchiera ma nel fatto che essa è assai ben accreditata presso una fascia tutt’altro che minoritaria non solo dei ranghi politici ma della cosiddetta opinione pubblica.

Riconoscere che, pur senza arrivare a dar credito alle oscenità sugli attori e sulle modelle assoldati per recitare la parte dei bombardati, una buona quota di connazionali è proclive a far le pulci a chi sta sotto alle bombe, e a far spallucce davanti al dettaglio che non sarebbe stato necessario mandargli armi se gli altri non avessero cominciato la loro campagna di massacro, di stupri di massa, di deportazioni, ecco, riconoscere questo serve a non nascondersi il pericolo: e cioè che l’Italia si dimostri come vuole essere anziché come dovrebbe.

La pochade grillina. I Cinquestelle divisi tra il battaglione Conte e il reggimento Di Maio. Mario Lavia su L'Inkiesta il 10 Maggio 2022.

Ormai è chiaro che le anime del movimento populista siano due, una di opposizione e l’altra legata alle scelte di governo. Se l’avvocato sa di non poter rompere davvero con Draghi è anche merito del ministro, che dalla sua vanta una metamorfosi unica.

I due Movimenti 5 stelle – quello di Giuseppe Conte e quello di Luigi Di Maio – si stanno scontrando al Senato per la poltrona di presidente della commissione Esteri, quella che il putiniano Vito Petrocelli non si sa come e non si sa quando prima o poi sarà costretto a lasciare: da una parte c’è il contiano Gianluca Ferrara e dall’altra la dimaiana Simona Nocerino. È la rappresentazione plastica, come dicevamo, che i M5s sono ormai due. Contiani e dimaiani separati in casa.

Luigi Di Maio non attacca l’avvocato per una sola ragione, per il timore che una rottura esplicita e plateale possa comportare pericolose conseguenze sulla vita del governo Draghi di cui egli, com’è noto, è fervido sostenitore essendo ministro degli Esteri. Ma non solo per questo. Il fatto politico importante è che Di Maio, ancorché tra i parlamentari sia meno forte dell’ex premier, pure tiene quest’ultimo in pugno: in altre parole, al ministro degli Esteri basta fare due conti (che pertanto sono perfettamente a conoscenza di Mario Draghi) per concludere che, se volesse rompere, Giuseppi non avrebbe grandi truppe al seguito.

La “divisione Di Maio” può contare su un’ottantina di parlamentari irrobustita però alla bisogna da un’area piuttosto varia di “non allineati” che hanno solo un obiettivo in testa, arrivare fino alla fine della legislatura, e che dunque non seguirebbero a cuor leggero un Conte-kamikaze che volesse far saltare governo e Parlamento.

Per questo la linea dura dell’avvocato sta facendo storcere il naso non solo a molti peones grillini, che non capiscono perché debbano rinunciare agli ultimi stipendi dato che non rientreranno mai più in Parlamento, ma anche a personaggi di peso, da Roberto Fico a Paola Taverna ai vari membri del governo.

Per ciò che concerne Di Maio non si deve credere che egli sia disattento alle questioni politiche nazionali e persino territoriali (la sua Napoli): sabato scorso è andato a Portici per appoggiare il candidato sindaco del Pd contro i grillini locali. Episodio minore ma che qualcosa dice. Già, il radicale cambiamento del rapporto tra il ministro degli Esteri e il Pd è una delle circostanze più impreviste di una legislatura che pure ne ha viste tante. Di fatto il Pd lo considera «uno dei nostri» e ormai ha dimenticato i giorni nei quali “Giggino il bibitaro”, come veniva sardonicamente chiamato, si scatenava contro “il partito di Bibbiano”, una delle strumentalizzazioni più volgari della storia politica recente, giorni che sono sepolti sotto le macerie del vecchio grillismo di cui il ragazzo di Pomigliano fu uno dei cantori più rabbiosi.

E d’altra parte è vero che oggi Letta e Di Maio fanno la stessa analisi sulla guerra di Putin, sposano la causa atlantista con la medesima convinzione, detestano lo zar del Cremlino allo stesso modo: e se quest’ultima cosa non è sorprendente per il leader del Pd lo è invece – e molto – per il ministro, al quale sfuggì in tv che Putin è «peggio di un animale», e che non in un’altra era ma solo pochi anni fa (era il 2016) mandava il fido Manlio Di Stefano al congresso di Russia Unita, il partito del dittatore di Mosca.

L’enigma di un giovane uomo che all’inizio del 2019 va a incontrare i leader più estremisti del gilet gialli e tre anni dopo collabora fattivamente con il ministro degli Esteri di Emmanuel Macron, Jean-Yves Le Drian, è effettivamente intrigante e forse non basta solo la politica per spiegarlo: una metamorfosi degna di Ovidio. Tanto era imprevedibile questa traiettoria che adesso è lecito chiedersi cosa farà Di Maio alle prossime elezioni politiche nel caso in cui nel frattempo non sia riuscito a cacciare Conte (cosa che medita di fare dopo il prevedibilmente disastroso risultato alle amministrative di giugno): tutto è possibile, anche una scissione, o meglio una presa d’atto formale che i Movimenti Cinque stelle sono diventati due.

(A proposito dell’articolo a mia firma comparso ieri – “Finalmente anche la Rai ha capito che Conte non è rilevante” – mi corre l’obbligo di rettificare che l’ospitata di Luca Sommi non è avvenuta ad Agorà condotta da Luisella Costamagna ma in Agorà weekend).

Quelle giravolte degli ex comunisti diventati atlantisti. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 09 maggio 2022.

Le Metamorfosi di Ovidio? Nulla rispetto alle metamorfosi dei comunisti italici, comprese le più recenti con le quali sono diventati "pasdaran" dell'ortodossia atlantica, severi censori del pacifismo e predicatori umanitari. E questo senza mai riconoscere l'errore di essere stati comunisti al tempo dell'Urss di Breznev e Andropov. Anzi ritengono di avere tutti i titoli per dare lezioni oggi di atlantismo e umanitarismo. Prendiamo l'editoriale (sul Corriere della sera di venerdi) di Walter Veltro ni, il quale è una persona gentile, intelligente e piacevole, ma in quel pezzo ha cucinato un confuso minestrone in cui riesce a cantare le lodi del Nord Vietnam comunista che combatteva contro «l'invasione straniera» degli Usa e - al tempo stesso - le lodi dei soldati Usa che sbarcarono in Italia e in Normandia per combattere contro il nazifascismo (non furono due "invasioni" per la libertà?). Un inno combattente in cui Veltroni rinfaccia (senza nominarli) a Santoro e compagni il passato, ma dimenticando il suo. E il suo non è il passato di uno qualsiasi: Veltroni - iscrittosi alla Fgci nel 1970 è stato poi uno dei dirigenti nazionali del Partito Comunista Italiano quando ancora c'era l'Urss e il blocco comunista (la vicenda degli euromissili e di Comiso è degli anni '80 e Veltroni c'era). Il Pci era un "partito fratello" di quel Pcus da cui vengono Putin e la classe dirigente russa di oggi. Quel Pcus a cui obbediva il Pci togliattiano, a lungo finanziato da Mosca (per capire quando finirono i finanziamenti bisogna leggere "Oro da Mosca" di Valerio Riva e non solo "L'oro di Mosca" di Gianni Cervetti). Da chi è stato parte della storia comunista ci si aspetta una riflessione vera sulla classe dirigente post-comunista che oggi governa a Mosca e sulle macerie lasciate dal comunismo. Prima di tuonare per tutto un editoriale contro la presunta «indifferenza» che Veltroni imputa a chi non condivide le sue attuali idee «atlantiste» sull'Ucraina, dovrebbe spiegarci quanto fu «indifferente» il suo Pci nei confronti degli orrori dell'Urss e regimi compagni.

«LA SOLUZIONE MIGLIORE»

Negli anni Settanta, quando lui era un militante comunista, già sapevamo tutto, già era uscito "Arcipelago Gulag" e sull'Unità e poi su Rinascita, nel febbraio '74, Giorgio Napolitano, a nome del Pci, scriveva che l'espulsione del dissidente Solzenicyn era «la soluzione migliore» perché lo scrittore aveva «finito per assumere un atteggiamento di "sfida" allo Stato sovietico e alle sue leggi» e «non c'è dubbio che questo atteggiamento - al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici di Solzenicyn - avesse suscitato larghissima riprovazione nell'Urss». Napolitano, che allora si scagliava contro «l'antisovietismo», è il simbolo autorevole del passaggio dal Pci filosovietico (lui fu dirigente del Pci al tempo di Togliatti) all'atlantismo più zelante. Ma senza mai fare autocritiche. Nella sua "autobiografia politica" del 2005 intitolata "Dal Pci al socialismo europeo" neanche cita mai Solzenicyn. Carlo Ripa di Meana, nel 2008, alla morte dello scrittore russo, su "Critica sociale", in un articolo intitolato "Solzenicyn e il silenzio del Quirinale", scriveva: «Avevo sommessamente suggerito, qualche mese fa, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel 1974, allora responsabile della cultura del Pci, su l'Unità, aveva rumorosamente applaudito all'esilio comminato a Solzenicyn che, va ricordato, aveva già passato otto anni nel Gulag nell'immediato dopoguerra, che in una prossima occasione, o in forma privata o nel corso di una visita di Stato, chiedesse un incontro a Solzenicyn, ormai molto in là con gli anni e malato, per chiudere una pagina nera. Così non è stato. In questi ultimi giorni, mentre in tutto il mondo si sono ascoltate voci di statisti, di rimpianto e di riconoscenza per la grandezza di quest' uomo e della sua vita, da Roma-Quirinale è venuto un silenzio arido, privo di umanità». Veltroni nel 2008 era il segretario del Pd: si espresse mai sulla vicenda? È sicuro che la storia dei post-comunisti - di cui è parte - oggi legittimi i suoi moniti umanitari sulla presunta «indifferenza» altrui? Oltretutto è un'accusa inaccettabile perché chi si oppone all'invio di armi, come i cattolici, lo fa perché vuole la pace per gli ucraini e lo fa dando loro ogni possibile aiuto umanitario (del resto bisogna anche non essere indifferenti ai costi pesantissimi che i bellicisti vorrebbero imporre agli italiani).

Quando si ha un tale passato comunista certamente si può evolvere e cambiare, ma bisognerebbe almeno evitare di andare a fare prediche agli altri sull'indifferenza, l'Occidente e la libertà.

GLI EX DELL'UNITÀ

Il Corriere della Sera, che oggi è guidato da giornalisti che vengono dall'Unità, a cominciare dal direttore, si distingue per fanatismo occidentalista. Talleyrand - che di cambi di casacca era esperto - consigliava: «Surtout pas trop de zèle». Anche perché si rischia il cortocircuito. Un intellettuale progressista francese, Robert Redeker, di recente ha osservato: «La simpatia degli europei è legittimamente attratta dall'Ucraina e dalla sua resistenza all'invasione, mentre questa resistenza esprime tutto ciò che gli europei hanno rifiutato negli ultimi decenni, quella cultura alla moda ridicolizzata e che l'istruzione scolastica ha cercato di distruggere: il sentimento della nazione, l'amore per la patria, della terra, il senso del sacrificio militare, la difesa dei confini, la sovranità e la libertà». È questa anche la contraddizione dei post-comunisti italici. Sono passati dall'apologia del cosmopolitismo apolide all'esaltazione del nazionalismo ucraino. Ma il nazionalismo non è lo spirito nazionale, come la polmonite non è il polmone. Il nazionalista impone la sua patria sulle altre. Il patriota ama tutte le patrie. È legittimo e nobile che gli ucraini si difendano dall'invasore. Ma non si può esaltare quel nazionalismo ucraino che dal 2014 ha combattuto le regioni russofone. Somiglia al nazionalismo russo che oggi nega l'Ucraina. Patrie, non nazionalismi. Da antoniosocci.com

Da agi.it il 7 maggio 2022.

Qual è la linea di demarcazione che separa la coscienza critica dal complottismo? Non esistendo uno strumento per determinarlo, è una di quelle decisioni che resteranno in eterno nell’arbitrio ora dei media mainstream, ora delle nicchie di controinformazione, ognuna delle quali si attribuirà la prevalenza e se la vedrà attribuita dai propri sostenitori. 

Partendo quindi dalla vetusta idea che nessuno è profeta in patria, tutto quello che si può fare è rileggere col senno di poi libri che quando furono dati alle stampe qualcuno aveva etichettato, per l’appunto, come ‘complottisti’. 

Uno di questi è ‘Putinfobia’, di Giulietto Chiesa, pubblicato nel 2016 all’indomani dell’annessione della Crimea alla Russia e dopo lo scoppio ostilità nel Donbass. Piemme lo riporta in libreria (192 pagine, 10,90 euro), sei anni dopo la prima edizione, con una prefazione di Fiammetta Cucurnia, corrispondente da Mosca per Repubblica e per 40 anni compagna di Chiesa, che denuncia il clima di ostilità in cui venivano accolti i suoi scritti e le accuse, di volta in volta, di essere “complottista”, “agente del Kgb” o “putiniano”. 

Nella sua introduzione Cucurnia parla di “esattezza” e “precisione” delle tesi di Chiesa, “fino a prevedere anche l’espulsione della Russia dal sistema SWIFT”.  Per chi ci crede, anticipazioni di un visionario, per gli scettici solo la casuale prevedibilità degli eventi. Ma che Giulietto Chiesa fosse allarmato dalla crescente tensione tra Occidente e Russia lo dimostra anche il riferimento alla “sensazione che si stiano preparando avvenimenti radicali, cruciali, di quelli che possono lasciare il segno per generazioni e generazioni. Forse addirittura per sempre”.

Salvo poi cadere in una ingenuità, dicendo che la Russia è per “i vertici dell’Occidente l’unico Paese – l’unico Stato, l’unico popolo – che può (…) fargli paura, visto che dispone di un apparato militare equivalente, in grado di distruggerlo”, dimenticando che – come si è visto negli ultimi anni – strumenti come le supply chain possono essere armi altrettanto letali e che la Cina ha dimostrato di saperli usare. 

A proposito dell’Ucraina, Chiesa la definisce un “oggetto” utile per tutti coloro che hanno visto la Russia come un ostacolo alle loro mire espansive. Bersaglio perfetto, perché ha sempre costituito una “linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa” che “attraversa il cuore della Russia”. Le frizioni tra cattolicesimo e ortodossia e il confronto a distanza tra il Vaticano e il Patriarcato di Mosca sembrerebbero dargli ragione.

Carlo De Benedetti: «L’Europa non ha interesse a fare la guerra a Putin. Non deve seguire Biden». Aldo Cazzullo su Corriere della Sera il 7 maggio 2022.  

«No: vedo solo ciò che sta accadendo. Una guerra che si sovrappone a una recessione molto severa, come quella cui stiamo andando incontro, è assurda, senza senso. Le conseguenze sarebbero catastrofiche».

Vale a dire? «Carestia e fame in Nord Africa e in larga parte dell’Africa australe. Costretti a scegliere tra morire di fame e rischiare di morire in mare, gli africani rischieranno di morire in mare. Altro che 500 al giorno; arriveranno a decine, a centinaia di migliaia. La nostra priorità assoluta dev’essere fermare la guerra».

La guerra . «Io parto da due pietre miliari. La prima: non giustifico Putin; lo detesto. Putin è un criminale e un ladro, che con altri trenta ladri ha rubato la Russia ai russi. La seconda: sono e sarò eternamente grato agli angloamericani per averci liberati dal nazifascismo. Ma oggi noi europei non abbiamo alcun interesse a fare la guerra a Putin».

Ripeto: è stato Putin a cominciare la guerra. «Certo, la colpa è sua. Ma gli interessi degli Stati Uniti d’America e del Regno Unito da una parte, e dell’Europa e in particolare dell’Italia dall’altra, divergono assolutamente. Se Biden vuol fare la guerra alla Russia tramite l’Ucraina, è affar suo. Noi non possiamo e non dobbiamo seguirlo».

È contrario all’invio delle ? «Sì. Biden ha fatto approvare al Congresso un pacchetto di aiuti da 33 miliardi di dollari, di cui 20 in armi: una cifra enorme, per un Paese come l’Ucraina. Questo significa che gli Stati Uniti si preparano a una guerra lunga, anche di un anno. Per noi sarebbe un disastro».

I russi stanno commettendo contro la popolazione civile. «E lei crede che le armi servano a fermare queste atrocità? No: l’unico modo per fermare le atrocità è trovare una soluzione negoziale».

Ce l’ha anche lei con la ? «La Nato è sorta in un contesto completamente diverso: non esisteva l’Unione Europea; non era sulla scena la Cina. Dobbiamo essere grati alla Nato per il ruolo svolto durante la Guerra fredda; ma ora non ha più senso. La Corea del Sud chiede di entrare nella Nato: ma cosa c’entra con l’Alleanza atlantica?».

Quale soluzione propone allora? «Serve un esercito europeo. E siccome per avere una forza di difesa occorrono dieci anni, bisogna prendere quella che già c’è. A questo punto, tanto vale che gli Stati Uniti escano dalla Nato, e che gli europei assumano la responsabilità della propria sicurezza».

Lei sa bene che la Nato senza l’America non esisterebbe. Si scrive Nato, si legge Usa.«È proprio questo che dobbiamo superare. Oggi l’Europa va in ordine sparso: la Francia investe 80 miliardi di euro sui superbombardieri Rafale, la Germania annuncia il riarmo da cento miliardi. Ma l’Europa ha un interesse comune: fermare la guerra, anziché alimentarla. Se gli Usa vogliono usare l’Ucraina per far cadere Putin, che lo facciano. Se i russi vogliono Putin, che se lo tengano. Cosa c’entriamo noi?».

Ma i russi non sono liberi di scegliere. «Nella sua millenaria storia, la Russia non è mai stata una democrazia. Non siamo più al tempo delle crociate. Noi non siamo qui per combattere il Male, ammesso che si tratti del Male e il nostro sia il Bene. L’interesse dell’Europa è trovare la propria collocazione nel mondo come il continente della più grande ricchezza, dei più grandi consumi, delle più grandi tradizioni di pensiero, di arte, di cultura: perché la cultura occidentale è tutto quello di cui il mondo si nutre».

Della nostra cultura fanno parte anche la democrazia e la difesa dei diritti umani. E l’Ucraina è un Paese democratico aggredito da una dittatura. «Ma davvero pensiamo ancora di poter esportare la democrazia con le armi? Gli americani ci hanno già provato. Si sono inventati le armi di distruzione di massa per giustificare la guerra in Iraq. Ebbene: non funziona. La democrazia si esporta con il successo sociale ed economico delle società organizzate democraticamente. Non con le armi».

Come finirà la guerra, secondo lei? «Questa guerra non la può vincere nessuno. Non la può vincere Zelensky. Ma non la può vincere neppure Putin, perché gli Usa vogliono a tutti i costi che perda. L’unica soluzione è un compromesso».

Quale? «L’Ucraina perderebbe i territori russofoni e russofili, e avrebbe in cambio la garanzia americana e britannica di pace e prosperità».

Ma si creerebbe un precedente. Putin sarebbe incoraggiato a nuove conquiste. «E cosa può fare Putin? Lei crede veramente che possa ricostituire l’impero sovietico? La Russia ha 140 milioni di abitanti e un Pil — tolte le risorse energetiche — inferiore a quello della Spagna. Pensavamo avesse almeno l’esercito; che ha dato prova di un’inefficienza spaventosa. Un amico che lavora al Pentagono mi ha raccontato che Putin, dopo aver perso 600 carri armati in due giorni, ha cominciato a dare ordini direttamente ai comandanti sul terreno: è saltata la catena di comando. Disorganizzazione assoluta. La Russia è ridotta a sparare missili; ma le guerre non si vincono con i missili, si vincono con la fanteria. Tutti sappiamo bene che non è la Russia il vero pericolo».

Qual è allora? «Per gli americani, la Cina. È come quando Atene capì che, con l’ascesa di Sparta, la guerra era inevitabile. Allo stesso modo, il confronto tra gli Stati Uniti e la Cina è inevitabile».

La Cina attaccherà Taiwan? «Dipende anche da come finirà in Ucraina».

Vede allora che anche opporsi a Putin è inevitabile. «Se l’America vuol fare la guerra a Putin, la faccia; ma non è l’interesse dell’Europa. Non è una mia opinione personale; è quello che pensano in Germania».

Non la impressiona l’eroismo della resistenza ucraina? «È un nazionalismo ammirevole dal punto di vista patriottico; ma alla fine è un danno per il mondo. Non ci guadagna nessuno tranne gli Usa, che fanno soldi a palate vendendo le armi e il gas, senza subire conseguenze. Vede, la politica non ha nulla a che vedere con la morale. Noi, ad esempio, non abbiamo gli stessi interessi dei Paesi baltici: loro temono i russi; noi la fame e l’immigrazione».

La politica serve interessi, e nulla più? «La politica serve a fermare la guerra. E io sono una delle ormai poche persone che la Seconda guerra mondiale l’ha vista. Mi ricordo i bombardamenti di Torino del novembre 1942, quando sfollammo a Revello, in provincia di Cuneo, dalle suore. Mi ricordo la rocambolesca fuga in Svizzera, e due anni di vita da rifugiato. Mi ricordo le prime immagini dei lager nazisti, che mio padre mi costrinse a ritagliare e incollare su un quaderno, e quando gli chiesi perché mi rispose: perché un giorno qualcuno dirà che tutto questo non è successo. Ebbene, tutto questo io non lo voglio più. Basta guerra».

Antonio Socci per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2022.

Ieri Carlo De Benedetti - che si definì «la tessera numero 1 del Pd» - con un'intervista al "Corriere della sera" ha annichilito il Pd: la "linea Letta" sulla guerra in Ucraina è stata demolita, polverizzata. 

La voce di De Benedetti non è importante solo per ciò che rappresenta come imprenditore. Anni fa Walter Veltroni (allora segretario del Pd) spiegava la battuta sulla "tessera n. 1" con il fatto che «i giornali di De Benedetti hanno avuto un ruolo molto importante nell'evoluzione della sinistra italiana. Ricordo quando, ai tempi del crollo del Muro e della trasformazione del Pci, coltivavamo con Scalfari il sogno di un partito che un giorno potesse unire i riformismi italiani. Quella spinta verso l'innovazione è stata la bussola della storia di De Benedetti editore».

Dunque per la sua storia la voce dell'Ingegnere pesa molto e oggi abbatte la narrazione dominante del Pd. Già a fine marzo, a "Otto e mezzo", aveva rifiutato la retorica bellicista esprimendosi contro l'aumento delle spese militari (deciso pressoché all'unanimità da governo e parlamento) e affermando che «questa guerra avrà conseguenze inenarrabili: anzitutto un enorme problema di fame nel mondo, uno shock energetico simile allo shock petrolifero del 1973 (che generò una recessione di anni), quindi recessione e crollo delle Borse».

Un quadro apocalittico che già confutava gli "esportatori di democrazia" atlantisti pronti ad abbracciare l'idea di Biden di una guerra infinita che serve a logorare e abbattere Putin. Nell'intervista di ieri De Benedetti fa un'autentica lezione di politica al "partito della guerra".

Anzitutto annuncia l'arrivo di masse enormi di affamati ora che la prospettiva della carestia planetaria, per il collasso del granaio del mondo e il blocco delle navi cariche di grano, si sta realizzando nei fatti. Quindi afferma: «La nostra priorità assoluta dev' essere fermare la guerra».

Pur dando un giudizio durissimo su Putin, ribadisce che quella è la priorità: «Se Biden vuol fare la guerra alla Russia tramite l'Ucraina è affar suo. Noi non possiamo e non dobbiamo seguirlo». In questa guerra, spiega, «non ci guadagna nessuno tranne gli Usa, che fanno soldi a palate vendendo le armi e il gas senza subire conseguenze». 

Non le armi, ma solo «una soluzione negoziale» può fermare le atrocità russe: «L'Europa ha un interesse comune: fermare la guerra anziché alimentarla». Ripete: «Se gli Usa vogliono usare l'Ucraina per far cadere Putin, che lo facciano. Se i russi vogliono Putin, che se lo tengano. Cosa c'entriamo noi?».

Poi De Benedetti affonda la narrazione pseudo-idealista dei bellicisti: «Noi non siamo qui per combattere il Male, ammesso che si tratti del Male e il nostro sia il Bene... Ma davvero pensiamo ancora di poter esportare la democrazia con le armi?... Ebbene: non funziona. La democrazia si esporta con il successo sociale ed economico delle società organizzate democraticamente. Non con le armi». Dunque in Ucraina «l'unica soluzione è un compromesso».

L'Ingegnere afferma pure che la Nato «ora non ha più senso», invita a puntare sull'Europa (anche dal punto di vista militare) e ribadisce di nuovo: «Se l'America vuol fare la guerra a Putin la faccia, ma non è l'interesse dell'Europa. Non è una mia opinione personale: è quello che pensano in Germania».

Parole che sono un campanello di allarme per Mario Draghi a poche ore dalla sua partenza per Washington. De Benedetti, sostenendo di esprimere «quello che pensano in Germania», dà un chiaro altolà (pur non citandolo) al premier italiano che ambisce a presentarsi a Washington come il governante europeo più allineato ai desideri di Biden. 

In effetti finora tutti i giornali filogovernativi hanno sostenuto che Draghi viene ricevuto da Biden per la sua "fedeltà" acritica. Ma - come dice De Benedetti- in Germania (e nel resto d'Europa) si sta appunto consolidando la convinzione che sull'Ucraina l'interesse dell'Europa è opposto all'interesse Usa, quindi «non si deve seguire Biden». 

Del resto che credibilità può avere un Capo di governo che prende impegni a nome dell'Italia senza avere avuto alcun mandato parlamentare specifico sulle gravi materie che va a trattare (quantomeno essendosi rifiutato di andare alle Camere prima della visita a Washington)? 

Che legittimità politica ha un premier tecnico la cui posizione sull'invio di armi in Ucraina è bocciata dalla maggioranza degli italiani e che - nei suoi possibili sviluppi relativi agli armamenti pesanti - è sconfessata dai maggiori partiti che sostengono l'esecutivo? L'intervista di De Benedetti mostra che perfino nell'opinione pubblica di area Pd la linea bellicista di Letta e Draghi sta franando. Il vento è cambiato.

Biputinismo perfetto. La catastrofe civile e morale del dibattito pubblico italiano sull’Ucraina. Christian Rocca su L'Inkiesta il 9 Maggio 2022.

In attesa che oggi i talk show organizzino una maratona in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca per commentare la sfilata militare del Cremlino, ecco un piccolo campionario di enormità ispirate dalla macchina di propaganda russa e realizzate dai suoi volenterosi complici nostrani.

Ogni tanto su Twitter si leggono piccole grandi verità: Antonio Polito ha scritto che gli amici di Putin a Cinquestelle (sintesi mia) sono contrari all’inceneritore a Roma ma favorevoli a incenerire Mariupol, mentre l’analista svedese residente a Kiev, Anders Östlund, ha segnalato che i combattenti di Azov, spesso accusati (dalla propaganda putiniana) di essere estremisti di destra, a Mariupol sacrificano la propria vita per difendere la democrazia mentre i sedicenti intellettuali pacifisti scrivono e intervengono senza sosta e sempre a tutto vantaggio del fascismo russo. 

Ma le cose più esemplari della tragedia culturale che stiamo vivendo, e della fuga dalla realtà degli intellettuali contemporanei, si continuano a leggere sui mezzi di comunicazione tradizionali. Lasciamo stare, per decenza, i talk show lasettisti e retequattristi dei quali mi stupirebbe se oggi non organizzassero maratone in diretta da Mosca per commentare col solito birignao da retroscena romano la gloriosa parata militare di Putin per celebrare la vittoria nella grande guerra patriottica, antipasto dell’annessione di tutta l’Ucraina. 

Restiamo sulla carta stampata, quindi, cominciando dal libro sulla guerra in Europa scritto dall’intellettuale comunista Luciano Canfora insieme con il rappresentante dell’alt right italiana Francesco Borgonovo della Verità, pubblicato da una casa editrice neo, ex, post fascista che rilancia testi militari di Mao e negazionismi nazi in piena armonia rossobruna, nel paese che più di altri ha letto Limonov di Emmanuel Carrere scambiandolo per un’agiografia dello stravagante personaggio e non per la biografica tragedia del totalitarismo europeo mai sopito in Russia. 

Poi c’è Carlo De Benedetti, ex patron della Repubblica finalmente liberata da Maurizio Molinari dall’antioccidentalismo salottiero degli anni debenedettiani, che testuale dice al Corriere – oltre a una serie di banalità antiamericane che avrebbe potuto pubblicare Limes di Lucio Caracciolo – che la resistenza ucraina di fronte all’aggressione fascista di Putin «alla fine è un danno per il mondo».

Insomma i russi uccidono gli ucraini e prendono per fame le città assediate allo scopo di attuare un altro Holodomor nel XXI secolo, ma gli ucraini si mostrano incomprensibilmente irrispettosi degli interessi superiori del mondo e di De Benedetti, al punto da avere la sfacciataggine di difendersi e addirittura di chiedere aiuto all’America e ai paesi europei della Nato, a questo punto corresponsabili della guerra più di chi l’ha cominciata peraltro mentre gli utili idioti di Putin spiegavano che mai e poi mai la Russia avrebbe aggredito l’Ucraina e che si trattava solo di propaganda bellicosa dell’America di Joe Biden.

Così come l’incredibile storia, di cui scrive più ampiamente Carmelo Palma, delle dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelenski e del segretario della Nato Jens Stoltenberg sulla Crimea manipolate solo dai media italiani per poter ribadire, al netto della cronica sciatteria, la barzelletta della guerra americana per procura, al solito liquidando il popolo ucraino sotto le bombe da due mesi e mezzo come se fosse una pedina irrilevante, un very fungibile token, sacrificabile e privo di una sua propria dignità o diritto di sopravvivenza. 

A dare un minimo di speranza per la ricostruzione di un dibattito pubblico degno di questo nome c’è invece l’intervista di Repubblica all’ex vice presidente di Gazprombank Igor Volobuev, il quale ha svelato come funziona da anni la grande macchina di propaganda russa sull’Ucraina, avendo contribuito a crearla (la sintesi è: tutte le notizie ufficiali russe sono bugie). Chissà se qualcuno capirà. Intanto Volobuev è fuggito da Mosca e ora sta a Kiev, ma la fabbrica di fake news del Cremlino è sempre attiva e adesso può contare sui volenterosi complici che animano il biputinismo perfetto italiano.

Brothers in arms. Lo strano pacifismo di chi vuole continuare ad armare solo l’aggressore. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 Maggio 2022.

In tante discussioni sulle armi si dimentica che l’esercito di Putin noi lo finanziamo ogni giorno, da anni, attraverso l’acquisto di gas e petrolio. La domanda giusta non è dunque se vogliamo continuare ad armare l’Ucraina. Ma se vogliamo continuare ad aiutare solo la Russia.  

Dopo Giuseppe Conte e Matteo Salvini, ieri anche Pier Luigi Bersani ha dichiarato alle agenzie che Mario Draghi dovrebbe riferire in Parlamento sull’invio di armi all’Ucraina, vale a dire sulla questione già discussa e votata quasi all’unanimità all’inizio della guerra. Cosa c’è dunque di nuovo? Secondo Bersani «è ora di chiarire che aiutiamo l’Ucraina perché possa negoziare da Paese indipendente, e non per vedere sul campo vincitori e vinti».

A quanto pare, la lunga campagna di un pezzo della stampa e di gran parte dei talk show comincia a produrre i suoi effetti. Evidentemente, poco cambia il fatto che in questi stessi giorni si moltiplichino le testimonianze su cosa accade nei territori occupati dall’esercito russo – cioè dove l’esercito ucraino e le armi occidentali non sono riusciti a fermarne l’avanzata – da ultimo da parte del direttore della Caritas di Kiev, che ha parlato di cinquanta villaggi in Polyssia, ai confini con la Bielorussia, dove i civili «hanno vissuto orrori come a Bucha».

Mario Draghi dunque dovrebbe chiarire in Parlamento che manda le armi, ma non per vincere. Come quelle partite di calcetto tra amici in cui si dice: «Non ci facciamo male». Cari ucraini, vi mandiamo le armi, ma evitate i contrasti troppo duri, e niente interventi in scivolata. Se non fosse una tragedia, ci sarebbe da ridere.

In altre parole, dovremmo dire a mariti, padri, sorelle, madri, figli delle persone torturate e trucidate nelle città occupate che non devono esagerare; che possono usare le nostre armi, ma con misura. E soprattutto, intendiamoci, che a nessuno di loro saltasse in testa di vincere. Almeno un pezzo del loro paese – quanto vogliamo fare? – diciamo quattro o cinque città, una più una meno, ai russi devono lasciarle, non venisse loro in mente di andarle a liberare. È la linea efficacemente sintetizzata da Conte nello slogan: «Legittimità nel difendersi, non nel contrattaccare».

Dai cinquestelle alla Lega, è evidente il tentativo di strizzare l’occhio a quella parte di opinione pubblica contraria all’invio di armi, pur non avendo il coraggio di mettersi esplicitamente di traverso, almeno per ora. Di qui i giochi di parole sulla resistenza che non deve resistere troppo e le armi che non devono essere troppo letali (non è una battuta, «siamo contrari all’invio di armi sempre più letali» è affermazione pronunciata testualmente da Conte, più volte).

In tante discussioni sulle armi si dimentica però che l’esercito di Putin noi lo finanziamo ogni giorno, da anni, persino dopo l’annessione manu militari della Crimea, attraverso l’acquisto di gas e petrolio (e vedremo se e quando, con le sanzioni, smetteremo di farlo sul serio).

La domanda giusta non dovrebbe essere dunque se vogliamo o no continuare ad armare l’Ucraina, cioè l’aggredito. La domanda giusta è se vogliamo continuare ad armare esclusivamente l’aggressore.

Quei pacifisti ciechi e il problema della guerra giusta. Giovanni Sartori su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2022.

«Dopo gli spaventosi bagni di sangue delle ultime guerre mondiali, in Europa il conflitto non lo vuole più nessuno. Ma non sempre è evitabile» 

Il testo di questa pagina è stato preparato dal professor Marco Valbruzzi (Università Federico II di Napoli) che da tempo si occupa dell’archivio di Giovanni Sartori (1924-2017) e ha elaborato gli estratti di due articoli del politologo usciti sul Corriere della Sera («Il mondo irreale dei “ciecopacisti”», 18 ottobre 2002, e «Il presidente guerriero», 29 gennaio 2010).

Chi vuole la guerra è un demente che vuole una cosa orribile. E dopo gli spaventosi bagni di sangue delle ultime guerre mondiali, in Europa la guerra non la vuole più nessuno. L’Occidente (salvo eccezioni balcaniche) lo ha capito e ne è profondamente convinto. Ma non è sempre evitabile.

Per questa ragione, chi oggi distingue tra pacifisti e guerrafondai disegna una distinzione fuorviante. La distinzione che ci divide è tra pacifisti incoscienti — che dirò «ciecopacisti» — e pacifisti pensanti. Il ciecopacista non sente ragioni, è tutto cuore e niente cervello. Gino Strada, che è stato il guru dei pacifisti laici, scriveva così: «Può darsi che il movimento per la pace non sia in grado di far cadere un dittatore, ma una cosa è assolutamente certa, che... non ne ha mai creati né aiutati a imporsi». Purtroppo no. Purtroppo Strada era assolutamente certo di cose assolutamente false. I pacifisti degli anni ’30 hanno aiutato Hitler a imporsi, così come i pacifisti della guerra fredda — gridando better red than dead, meglio rossi che morti — invitavano l’Unione Sovietica a invadere una Europa che non si sarebbe difesa. Il Paternostro recita: «Non indurci in tentazione». Lo recitano ancora, il Paternostro, i nostri pacifisti chiesastici? E se lo recitano, perché non si chiedono se il loro pacifismo assoluto — che è in sostanza un pacifismo di resa — non induca in tentazione i malintenzionati non ancora convertiti in agnelli? Quanto ai nostri ciecopacisti laici, a loro ricordo il detto che è l’occasione che fa l’uomo ladro. Non ci credono? Provino a lasciare spalancate le porte delle loro case. Saranno svaligiate anche e proprio da ladri creati dall’occasione.

Ciò premesso, qual è il senso, oggi, della classica distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta? Mi dispiace per i ciecopacisti — accecati dalla loro ossessione — ma un Paese che si difende dall’attacco di un altro Paese combatte una guerra giusta. Però la nozione di guerra giusta non include soltanto la guerra difensiva. Per esempio una guerra che si propone di abbattere un tiranno e di instaurare la democrazia è una guerra giusta? Questa è sempre stata l’ideologia missionaria degli Stati Uniti invocata da ultimo dal presidente Bush jr per giustificare, in mancanza di meglio, l’assalto all’Iraq. Ma è una dottrina che non ci possiamo più permettere; senza contare che in moltissimi casi è destinata a fallire. Nel caso dell’Iraq il successo è stato di abbattere un tiranno sanguinario e pericoloso per tutti; ma il «successo democratico» di quella guerra è molto dubbio.

E in Afghanistan? Anche lì guerra giusta per imporre democrazia? Per carità, scordiamocene. Lì si trattava di pura e semplice guerra necessaria resa obbligatoria ai fini della salvezza di tutto l’Occidente. Per decenni abbiamo temuto l’annientamento nucleare. Ma il pericolo delle armi atomiche è fronteggiabile. E comunque il pericolo maggiore è diventato quello delle armi chimiche e batteriologiche «tascabili». Qui la cattiva notizia è che mezzo chilo di tossina botulinica potrebbe uccidere un miliardo di persone. E l’Afghanistan conquistato (riconquistato) dai talebani, e al servizio di Al Qaeda, pone questo problema. Pertanto scappare non è stata una buona soluzione. Ma è anche vero che la guerra com’è stata combattuta in Afghanistan, la guerra di occupazione e controllo del territorio contro un nemico invisibile, non può essere vinta.

Fortuna vuole che ai pacifisti incoscienti si contrappongano i pacifisti pensanti che rifiutano la guerra offensiva ma approvano la guerra difensiva, che distinguono tra guerra ingiusta e guerra giusta e che fanno sapere che si difenderanno se attaccati. Il mondo libero deve la sua libertà a questo pacifista con la testa sul collo. Ma anche lui si trova a disagio al cospetto della nuova idea della guerra preventiva.

Mi si dirà che la guerra preventiva è sempre esistita. Sì; ma no. No nel senso che oggi la dottrina della guerra preventiva si fonda su una nuova ragion d’essere che si inserisce in un nuovo contesto: il contesto di quella guerra che Umberto Eco ha battezzato «guerra diffusa». Nelle guerre del passato esistevano due (o più) nemici ben riconoscibili i cui eserciti si fronteggiavano lungo una frontiera che era il limite da superare. Queste guerre erano dunque caratterizzate da una frontalità territoriale. Nella nuova guerra l’attaccante è un terrorismo globale ispirato da un fanatismo religioso – e quindi senza precisa patria – che non si lascia localizzare, che è dappertutto, e che opera nascondendosi. In questa guerra diffusa, latente, ma per ciò stesso sempre pronta a colpire, l’attaccato non sa più chi contrattaccare. O meglio: può solo attaccare le infrastrutture dove vengono prodotte le armi dei terroristi e gli Stati che li «supportano».

L’altro aspetto del problema è che la guerra terroristica dispone di nuove armi chimiche e batteriologiche. Qui la novità è tecnologica. E il fatto è che oggi disponiamo di una tecnologia facilmente nascondibile il cui potenziale distruttivo è terrificante. Prima c’era il cannone e c’era la corazza. Oggi la corazza non c’è quasi più, e il cannone è diventato gigantesco. Una sola persona può avvelenare l’acqua potabile di un milione di persone. Il ciecopacista non lo vede, ma il problema è questo.

Qui interessa capire quale sia la ragion d’essere di una guerra preventiva. Se questo nuovo diritto di guerra si applichi o no (e con quali procedure) ai vari casi concreti, è una questione a parte. Una cosa per volta. E questa volta il punto è che, a fronte della altissima vulnerabilità e facile «uccidibilità» delle società industriali avanzate, il pacifista di oggi è ancor più cieco e malconsigliante di quello del passato.

Da Pardi a Cecilia Strada, la sinistra che sta con Kiev: “Si difende da un despota”.