Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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CONTROVOCE -
NOTIZIE VERE DAL POPOLO -
NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
ANNO 2022
L’ACCOGLIENZA
DECIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
I Muri.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
Quei razzisti come i cechi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i serbi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i libici.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come gli ugandesi.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i sudafricani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i singalesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i filippini.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come gli australiani.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.
I LADRI DI NAZIONI.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
I SIMBOLI.
LE PROFEZIE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. PRIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SECONDO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TERZO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUARTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SESTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SETTIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. OTTAVO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. NONO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DECIMO MESE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE MOTIVAZIONI.
NAZISTA…A CHI?
IL DONBASS DELI ALTRI.
L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
TUTTE LE COLPE DI…
LE TRATTATIVE.
ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.
LA RUSSIFICAZIONE.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.
IL FREDDO ED IL PANTANO.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE VITTIME.
I PATRIOTI.
LE DONNE.
LE FEMMINISTE.
GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.
LE SPIE.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.
LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.
LA GUERRA ENERGETICA.
LA GUERRA DEL LUSSO.
LA GUERRA FINANZIARIA.
LA GUERRA CIBERNETICA.
LE ARMI.
INDICE NONA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA DETERRENZA NUCLEARE.
DICHIARAZIONI DI STATO.
LE REAZIONI.
MINACCE ALL’ITALIA.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
IL COSTO.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
PSICOSI E SPECULAZIONI.
I CORRIDOI UMANITARI.
I PROFUGHI.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I PACIFISTI.
I GUERRAFONDAI.
RESA O CARNEFICINA?
LO SPORT.
LA MODA.
L’ARTE.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
PATRIA BIELORUSSIA.
PATRIA GEORGIA.
PATRIA UCRAINA.
VOLODYMYR ZELENSKY.
INDICE TREDICESIMA PARTE
La Guerra Calda.
L’ODIO.
I FIGLI DI PUTIN.
INDICE QUATTORDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’INFORMAZIONE.
TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA.
INDICE QUINDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA PROPAGANDA.
LA CENSURA.
LE FAKE NEWS.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
LA RUSSOFOBIA.
LA PATRIA RUSSIA.
IL NAZIONALISMO.
GLI OLIGARCHI.
LE GUERRE RUSSE.
INDICE DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CHI E’ PUTIN.
INDICE DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…le Foibe.
Lo sterminio comunista degli Ucraini.
L’Olocausto.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Il Caso dei Marò.
Che succede in Africa?
Che succede in Libia?
Che succede in Tunisia?
Cosa succede in Siria?
L’ACCOGLIENZA
DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
IL COSTO.
"Un decennio per riprendersi": il dossier segreto che preoccupa Mosca. Federico Giuliani su Il Giornale il 5 settembre 2022.
L'economia della Russia potrebbe impiegare un decennio, o forse ancora più tempo, per tornare al livello prebellico. È questo uno dei possibili scenari ipotizzati da un documento top secret di Mosca preparato ad uso e consumo del governo russo. Il report, realizzato da funzionari ed esperti dopo mesi di lavoro, ha preso in esame vari fattori per valutare il peso effettivo delle sanzioni occidentali contro il Cremlino e dell'isolamento economico del Paese.
Gli effetti delle sanzioni su Mosca
Il pilastro principale del rapporto è emblematico: esiste la possibilità secondo cui la Russia rischia di affrontare una recessione più profonda e più lunga mano a mano che l'impatto delle sanzioni statunitense ed europee si diffonde nel Paese. Detto altrimenti, quando le sanzioni arriveranno a colpire i settori chiave dell'economia russa, allora il Cremlino potrebbe seriamente ritrovarsi in difficoltà. Il report in questione, che propone situazioni ben più gravi di quanto non siano soliti affermare gli alti funzionari russi, è stato visionato da Bloomberg.
Nel documento, redatto per una riunione a porte chiuse degli alti funzionari russi risalente allo scorso 30 agosto, vengono indicati tre scenari. Secondo lo “scenario inerziale”, l'economia russa toccherà il fondo il prossimo anno, arrivando a collezionare un –8,3% rispetto al 2021. Lo “scenario stress” indica come riferimento temporale il 2024, con un crollo annuale del -11,9%. In due dei tre scenari, tuttavia, si ritiene che l'economia nazionale tornerà ai livelli antecedenti la guerra in Ucraina alla fine del decennio o più tardi.
Cosa potrebbe accadere alla Russia
Tutti gli scenari prendono in considerazione l'intensificarsi della pressione sanzionatoria, e pure la probabilità che più Paesi possano unirsi alla causa. Come se non bastasse, il forte allontanamento dell'Europa dal gas e dal petrolio russi potrebbe incidere sulla capacità del Cremlino di rifornire il proprio mercato. Non è finita qui, perché, al netto delle restrizioni – che ormai coprono circa un quarto delle importazioni e delle esportazioni – il report racconta come la Russa debba affrontare un blocco che ha colpito praticamente ogni forma di trasporto. Tra le altre stime, 20mila specialisti IT potrebbero salutare la loro nazione entro il 2025.
Per evitare il definitivo tracollo, spiega il documento, la Russia dovrebbe attuare una serie di misure per sostenere l'economia e alleviare l'impatto delle sanzioni, al fine di riportare l'economia ai livelli prebellici nel 2024 e tornare a crescere costantemente in un secondo momento. Nel prossimo anno o due, il rapporto avverte della "riduzione dei volumi di produzione in una gamma di settori orientati all'esportazione", dal petrolio e dal gas ai metalli, ai prodotti chimici e ai prodotti del legno. Sebbene in seguito sia possibile un certo rimbalzo, "questi settori cesseranno di essere i motori dell'economia".
Tra gli altri calcoli, un eventuale taglio completo del gas in Europa potrebbe costare a Mosca fino a 400 miliardi di rubli (6,6 miliardi di dollari) all'anno in entrate fiscali perse. L'impatto delle sanzioni toccherà anche i seguenti settori: l'agricoltura (il 99% della produzione di pollame il 30% di quella di bovini da latte dipende dalle importazioni); l'aviazione (il 95% del volume dei passeggeri viene trasportato su aerei fabbricati all'estero, privi di pezzi di ricambio); la costruzione di macchine (solo il 30% di macchine utensili è made in Russia); prodotti farmaceutici (l'80% della produzione nazionale si basa su materie prime importate); trasporti (costi aumentati per spedizioni su strada) e comunicazioni (c'è il rischio, ad esempio, che Mosca resti a corto di SIM entro il 2025).
(ANSA il 6 settembre 2022) - Il pil della Russia si contrarrà del 2,9% quest'anno, con un ulteriore calo dello 0,9% previsto per il 2023. Lo annuncia il ministero per lo sviluppo economico citato dalla Tass. Si tratta di contrazioni molto inferiori a quelle previste all'inizio della cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina e che lasciano spazio a "un moderato ottimismo", ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. "Un lavoro enorme è in corso per stabilizzare l'economia nonostante le azioni ostili contro di noi", ha aggiunto Peskov.
Fabrizio Goria per “La Stampa” il 6 settembre 2022.
Quando si parla di effetti delle sanzioni contro la Russia, ci sono numeri che devono far riflettere. Settantadue miliardi di dollari, il costo vivo pagato dalle imprese occidentali dal 24 febbraio a oggi, secondo i dati della società d'intelligence economica Refinitiv, rilanciati anche dal Wall Street Journal.
Centoquaranta miliardi di euro, il surplus commerciale di Mosca da inizio anno a oggi. Ottantasette miliardi di euro, il valore delle importazioni pagato dall'inizio del conflitto a oggi per le importazioni di combustibili fossili dall'Ue. Ma anche, ed è la cifra maggiore, circa duecento miliardi di dollari, moltiplicato per due. Quindi 400 miliardi. Quest' ultima è la cifra, stimata dalla Banca mondiale, che testimonia il collasso dell'economia russa nel 2022 e nel 2023.
Il settimanale britannico The Economist, citato dal leader della Lega Matteo Salvini durante il forum di Cernobbio, si è chiesto quanto siano efficaci le sanzioni contro la Russia di Vladimir Putin. Domanda legittima, ma anche retorica per molti versi.
L'ultimo rapporto della Commissione europea sull'efficacia delle sanzioni impose contro la Russia è perentorio. Se è vero che l'export di idrocarburi da parte di Mosca è stato elevato, è altrettanto vero che 580 miliardi di euro di asset finanziari sono stati congelati fin dai primi giorni della guerra. A cui bisogna sommare le mancate transazioni dovute all'uscita delle banche internazionali dal Paese.
Secondo l'Institute of international finance (Iif), la lobby finanziaria globale, le ripercussioni finanziarie per Mosca devono ancora entrare a regime. «Le sanzioni introdotte dall'Europa sono diventate effettive, in molti casi, solo nel corso dell'estate. Era noto, e fra poche settimane si vedrà l'impatto», afferma l'Iif, che fra pochi giorni si troverà a Washington per il suo meeting annuale.
Gli effetti macroeconomici saranno netti. Secondo una relazione della Banca mondiale, il 2022 sarà un anno negativo per l'economia russa. Il Prodotto interno lordo (Pil) dovrebbe diminuire di oltre l'11%, il calo più consistente dal crollo dell'Unione sovietica. Stesso dicasi per il 2023. Non solo. Le stime della Banca mondiale indicano che nel 2022 il tasso di inflazione della Russia aumenterà «drasticamente», raggiungendo quota 22 per cento. Uno scenario confermato anche da Goldman Sachs, Morgan Stanley e Wells Fargo. E che potrà, secondo l'ultima casa d'affari, «solo peggiorare nel caso la guerra vada avanti fino a fine anno».
Quasi sette miliardi di euro. Le conseguenze economiche di un embargo totale da parte dell'Ue verso l'importazione degli idrocarburi russi possono essere notevoli per i conti del Cremlino. Secondo l'ultimo rapporto firmato da Mosca e diffuso da Bloomberg, un taglio completo del gas in Europa, il principale mercato di esportazione della Russia, potrebbe costare fino a 400 miliardi di rubli (6,6 miliardi di dollari) all'anno in entrate fiscali perse.
E non sarà possibile compensare completamente le mancate vendite con nuovi mercati di esportazione anche nel medio termine, viene rimarcato. Le conseguenze macroeconomiche, secondo la casa d'affari anglo-asiatica Hsbc, possono essere devastanti. «Per due decenni la Russia ha fatto affidamento alle esportazioni di gas e petrolio. Per ora ha retto, ma con la riduzione dei consumi nell'Ue, e l'isolamento da parte degli altri Paesi, la situazione rischia di essere esplosiva", spiega una nota agli investitori istituzionali. Stesse parole quelle di Citi, che spiega come il Cremlino non sia in grado di gestire i mancati flussi «nei prossimi sei mesi».
Acciaio, rame, zinco, ma anche uranio, plutonio e alluminio. L'industria pesante della Federazione russa, come sottolineato dal Fondo monetario internazionale (Fmi), è in estrema difficoltà.
«I produttori di metalli stanno perdendo 5,7 miliardi di dollari all'anno a causa delle restrizioni», afferma il rapporto del Cremlino. E la conferma arriva anche dalla Banca nazionale russa, guidata da Elvira Nabiullina.
La quale ha messo in guardia, già in giugno, su una girandola di fallimenti. «L'economia metallurgica russa non può resistere a questo choc», preconizzò l'agenzia di rating Fitch in marzo, a pochi giorni dall'aggressione russa verso l'Ucraina. Ma la situazione si può complicare.
Sul versante delle importazioni, afferma il rapporto del Cremlino, «il principale rischio a breve termine è la sospensione della produzione per mancanza di materie prime e componenti importati». A lungo termine, l'impossibilità di riparare le apparecchiature importate potrebbe limitare in modo permanente la crescita. Fino a circa 6,4 punti di Pil, secondo la banca olandese Rabobank.
Primo, il congelamento degli asset, circa 600 miliardi di dollari. Secondo, lo stop all'accesso dello Swift, il sistema di messaggistica interbancaria. Terzo, l'uscita delle banche estere dal mercato domestico. E poi il quarto giro di vite, quello sui finanziamenti diretti esteri. Per il sistema finanziario della Federazione russa le conseguenze della guerra continuano a essere intense.
«Sono destinate ad aumentare, visto che potrebbero esserci difficoltà nella gestione dei flussi di cassa per imprese e famiglie», faceva notare la banca tedesca Deutsche Bank in aprile. Detto, fatto.
In marzo l'Autorità bancaria europea ha affermato che le esposizioni verso Russia e Ucraina ammontano a circa 90 miliardi di euro, ovvero lo 0,3% dei libri contabili delle banche. Ma ha indicato un rischio più ampio: è probabile che il peggioramento delle prospettive economiche e l'aumento del tasso di inflazione colpiscano le banche danneggiando la capacità di alcuni mutuatari di rimborsare i loro prestiti. Secondo quanto detto dalla Banca centrale russa, nelle zone rurali della Federazione sta già avvenendo.
A essere in ginocchio è anche l'agricoltura russa. Come sottolineato dal rapporto di Mosca, il 99% della produzione di pollame e il 30% della produzione di bovini da latte razza Holstein dipende dalle importazioni.
Anche i semi per alimenti di base come barbabietole da zucchero e patate vengono per lo più importati dall'esterno del Paese, così come i mangimi per pesci e gli amminoacidi. Gli extra costi per la sicurezza alimentare, secondo la Banca mondiale, possono superare quota 120 miliardi di dollari per l'intera nazione per i prossimi due anni. Le previsioni della Commissione europea vedono un impatto di circa 12 miliardi di euro l'anno, solo con le sanzioni odierne e solo sul settore agricolo.
A peggiorare la situazione potrebbe essere la crisi dei fertilizzanti a base ammoniaca. Il crollo delle esportazioni, secondo Berenberg Economics, può valere fra i 18 e i 24 miliardi di dollari, dato che il Paese era uno dei maggiori produttori mondiali. E c'è di più. «Per la Russia non si può escludere - ha spiegato in aprile Oxford Economics - una gravissima carestia nella seconda parte del 2022».
Crisi del gas e bollette, Vittorio Feltri indica la soluzione che nessuno vuole vedere. Il Tempo il 29 agosto 2022
La soluzione al caro bollette e alla crisi del gas esiste ma nessuno ne parla. Anzi, la politica fa finta di non vederla. A indicarla è Vittorio Feltri che in un articolo su Libero parte dalla proposta di Carlo Calenda, che ha chiesto "di bloccare la campagna elettorale allo scopo di affrontare e risolvere la crisi del gas. Innanzitutto ci chiediamo perché sia indispensabile, a pochissime settimane dal voto, paralizzare la campagna elettorale per lavorare dentro le istituzioni. Forse che una cosa esclude l'altra? Sorvoliamo, se non altro per pietà. Anche perché il punto è un altro ed è alquanto serio", spiega il direttore editoriale del quotidiano.
La soluzione rapida alla crisi energetica per evitarci i razionamenti è una sola, spiega Feltri: "La conosciamo tutti eppure facciamo finta di non vederla". "Essa riguarda la cancellazione delle sanzioni a carico di Mosca, le quali, così come prevede il diritto internazionale oltre che la logica, comportano inevitabilmente l'adozione da parte della Russia di ritorsioni, le cui conseguenze, dipendendo l'Italia quasi completamente da Gazprom, non possiamo proprio permetterci se non vogliamo precipitare nel baratro della depressione economica irreversibile con tanto di paralisi di ogni attività", scrive il direttore che condanna "senza ombra di dubbio" la condotta di Vladimir Putin, ma denuncia che "avremmo dovuto applicare un atteggiamento molto più prudente nella gestione del nostro approccio alla guerra in Ucraina evitando di introdurci nel conflitto tanto direttamente da inviare aiuti militari e perseguitare persino i russi che qui in Italia vengono a scaricarci valanghe di quattrini".
Per Feltri l'unico modo per tirarci fuori da una situazione drammatica è "sospendere seduta stante le sanzioni che abbiamo inflitto alla Russia. L'altro rimedio richiede tempi più lunghi e consiste nella rinuncia ad un ostinato e ottuso comportamento di rifiuto verso qualsiasi proposta che possa condurci alla autonomia energetica".
Gli italiani, poi, "pretendono il gas in casa, a buon prezzo, ma non vogliono quello russo", e non vogliono "neppure il nucleare autoprodotto, rigettano altresì il rigassificatore a Piombino". Ma non si può avere tutto. Sul nucleare, Feltri ricorda che importiamo l'energia prodotta nelle centrali in Francia: "È una gigantesca contraddizione", perché "qualora esplodesse una centrale nucleare a pochi chilometri da noi, ossia in Francia, le conseguenze sarebbero identiche a quelle che si verificherebbero se esplodesse in Italia".
Energia, un imprenditore : "Bolletta da 39mila euro nonostante il fotovoltaico". Redazione Tgcom24 il 27 agosto 2022
Una bolletta da 39mila euro, nonostante i pannelli fotovoltaici. La denuncia arriva da Michele Barbetta, imprenditore avicolo di Carceri in provincia di Padova, che nonostante abbia da più di dieci anni un impianto fotovoltaico per i 280mila polli della sua azienda lamenta i rincari dovuti dall'impennata dei prezzi dell'energia.
Caro energia, bolletta da un milione per imprenditore campano: «Una morte annunciata, la politica non ha mosso un dito»
"Nel 2010 abbiamo pensato di dotarci di un impianto fotovoltaico che ha iniziato a darci un milione di kWh di energia elettrica all'anno - ha spiegato a "Morning News" - il problema è che l'impianto eroga energia solo di giorno e per la notte dobbiamo acquistare energia da un fornitore. Questa energia nel mese di luglio ci è costata 39 mila euro. L'energia in eccedenza che questa azienda produce non riceverà nulla perché il Decreto Sostegni prevede che questa energia in eccedenza sia remunerata ai prezzi di un anno fa, prima del clamoroso rincaro dei prezzi".
Da rainews.it il 26 agosto 2022.
Mentre i costi energetici dell'Europa salgono alle stelle, la Russia sta bruciando grandi quantità di gas naturale. Secondo quanto riportato dalla Bbc, un impianto situato al confine con la Finlandia starebbe bruciano gas per un valore stimato di 10 milioni di euro al giorno. Gli scienziati sono preoccupati per i grandi volumi di anidride carbonica e fuliggine che si stanno formando, che potrebbe accelerare lo scioglimento del ghiaccio artico.
Un'analisi della Rystad Energy indica che circa 4,34 milioni di metri cubi di gas vengono bruciati ogni giorno nell'impianto di gas naturale liquefatto di Portovaya, a nord-ovest di San Pietroburgo.
I primi segnali che qualcosa non andava sono arrivati dai cittadini finlandesi, che all'inizio di quest'estate hanno individuato una grande fiamma all'orizzonte. Portovaya si trova vicino a una stazione di compressione all'inizio del gasdotto Nordstream 1 che trasporta il gas sottomarino in Germania.
Fra le ipotesi che spiegherebbero il fatto di bruciare il gas, secondo i tecnici, ci sarebbe la riluttanza a chiudere l'impianto, la cui successiva riapertura sarebbe tecnicamente difficile e costosa oppure la difficoltà a gestire in sicurezza i grandi quantitativi di gas che venivano convogliati nel Nordstream 1.
Le forniture attraverso il gasdotto sono state ridotte da metà luglio, con i russi che hanno denunciato problemi tecnici per la restrizione dovute alla guerra in Ucraina. A partire da giugno, i ricercatori hanno notato un aumento significativo del calore emanato dalla struttura dovuto alla combustione di gas naturale. "Non ho mai visto un impianto di gas liquefatto infiammarsi così tanto", ha affermato la dottoressa Jessica McCarty, esperta di dati satellitari della Miami University in Ohio. A partire da giugno, abbiamo visto questo enorme picco che da allora è rimasto sempre elevato".
Federico Rampini per il "Corriere della Sera" il 27 agosto 2022.
Bruciare gas al confine con la Finlandia – quel che sta facendo la Gazprom di Putin – è l’equivalente di bruciare banconote. Lo abbiamo visto fare in qualche film, magari da un mafioso in vena di esibizioni arroganti. È un gesto spettacolare ma tutt’altro che benefico per le proprie finanze.
Putin lo fa non perché se lo può permettere, ma perché non può farne a meno: il suo ricatto energetico contro l’Europa comincia a mostrare la corda. Il gas invenduto va distrutto, con grave danno per le finanze di Mosca, al fine di evitare danni perfino superiori: ai giacimenti, agli impianti, alla rete distributiva. È questa la tesi interessante di due esperti americani del settore energetico, Paul Roderick Gregory della Hoover Institution (Stanford) e Ramanan Krishnamoorti dell’università di Houston, Texas. In un’analisi pubblicata ieri sul Wall Street Journal i due esperti avevano anticipato la “necessità” di bruciare gas per limitare i danni tecnici agli impianti e alla rete.
Al centro della questione c’èil gasdotto Nord Stream 1 che trasporta gas dalla Russia all’Unione europea. Il gas viene estratto nelle regioni artiche della Russia. Entra nel gasdotto Nord Stream 1 a Vyborg, vicino al confine con la Finlandia: proprio lì dove adesso Gazprom lo sta bruciando. Dalla frontiera finlandese Nord Stream 1 viaggia sotto il mare fino a Greifswald in Germania, dove si collega con la rete europea. Un gasdotto parallelo è Nord Stream 2, la cui costruzione era praticamente conclusa ma che è stato bloccato dalle sanzioni. Nord Stream 1 resta quindi l’arteria principale che dalla Russia porta gas all’Unione europea. Ha una capacità massima di 62 miliardi di metri cubi all’anno. Prima della guerra in Ucraina, Gazprom lo stava usando quasi ai limiti della capacità: dal 2019 al 2021 il Nord Stream ha trasportato 55 miliardi di metri cubi all’anno.
Dopo l’invasione dell’Ucraina, l’Occidente non ha mai incluso il gas nel perimetro di applicazione delle sanzioni, però Putin ne ha fatto un’arma di pressione. Ha imposto dei tagli alle forniture per infliggere danno economico all’Europa. A fine luglio Nord Stream stava ormai trasportando solo il 40% di gas rispetto alla sua capacità massima. Poi con la scusa di lavori di manutenzione è sceso al 20%. Se dovesse continuare così, a fine 2022 avrà trasportato solo 19 miliardi di metri cubi invece dei 55 miliardi abituali. Le conseguenze sull’Europa le conosciamo bene, e rischiano di aggravarsi in autunno. La capacità di ricatto di Putin si sta dispiegando in tutta la sua potenza, e fa dire ad alcuni che le sanzioni fanno male solo all’Europa.
Ma che può fare la Russia con il gas che non vende agli europei? Il petrolio che Mosca non esporta più verso Occidente trova facilmente acquirenti, a cominciare da India e Cina, sia pure a prezzi scontati. Il petrolio viaggia soprattutto su navi ed è facile dirottarlo da un mercato all’altro. Il gas no, la parte che viene trasportata su nave è ridotta e richiede comunque la costruzione di impianti particolari (ne sappiamo qualcosa: per i paesi riceventi sono i rigassificatori, a cui corrispondono impianti speculari e simmetrici che nei paesi produttori devono trasformare il gas in liquido, quindi caricarlo su apposite navi cisterna).
Russia e Cina hanno raggiunto un accordo per costruire un nuovo gasdotto che le colleghi, ma ci vorranno anni prima che sia pronto. Invece il gas che Gazprom non sta fornendo agli europei continua a sgorgare dai giacimenti, e bisogna farne qualcosa. Immagazzinarlo? Le capacità di stoccaggio di gas russe sono già quasi esaurite. Chiudere i “pozzi”, interrompere l’estrazione? Si può fare, però correndo dei rischi tecnici. I giacimenti che smettono di fornire gas possono subire danni strutturali che ne compromettono il ritorno alla produzione in tempi successivi.
Poi ci sono i problemi tecnici che riguardano i gasdotti. Tutte le valvole, gli accessori, le attrezzature tecniche sofisticate che regolano il funzionamento dei gasdotti, sono soggette a guasti e deterioramento se la pressione scende o si azzera. Sono problemi risolvibili se c’è una manutenzione di altissimo livello. Ma qui intervengono le sanzioni economiche occidentali, che allontanano dalla Russia grandi aziende specializzate in quel tipo di manutenzione sofisticata come Halliburton, Baker Hughes, Schlumberger. Per evitare problemi e ridurre i rischi di gravi danni al gasdotto, un espediente consiste proprio nel bruciare il gas.
A parte il danno ambientale, questo significa distruggere una risorsa primaria per l’economia russa. E proprio quando Putin ha bisogno di soldi per allargare gli organici del suo esercito. E’ autolesionismo, quindi, anche se inevitabile nelle circostanze in cui Putin si è messo da solo. Il danno del gas bruciato si aggiunge, aggravandola, a una perdita perfino più sostanziale nel lungo periodo: la credibilità. Dai tempi del leader comunista Brezhnev – anni Settanta – Mosca si era costruita una reputazione di partner affidabile per la fornitura di energia all’Europa.
Un paese come la Germania aveva imperniato il proprio modello economico sul gas russo a buon mercato e aveva impostato la propria politica estera sull’idea che il commercio con l’Oriente avrebbe reso le autocrazie sempre meno ostili. Oggi la Germania, come l’Europa intera, deve operare una torsione geoeconomica andando a cercare energia altrove. Il gas russo che brucia al confine con la Finlandia sta distruggendo molte cose.
(ANSA il 26 agosto 2022) - Scende sotto quota 2954 euro al MWh il gas naturale in avvio di seduta sulla piazza di Amsterdam, dopo essere salito nella vigilia fino a oltre 321 euro. I contratti futures sul mese di settembre segnano un calo del 9,15% a 292 euro al MWh
Luca Monticelli per “la Stampa” il 26 agosto 2022.
Continua la folle corsa del prezzo del gas oltre il muro dei 300 euro al megawattora. Ieri un nuovo record alla Borsa di Amsterdam: dopo il picco a 324 euro, i contratti si sono attestati a 321,4 euro, il massimo storico a fine seduta, registrando una crescita del 10%. Fiammate che interrogano l'Europa e la politica italiana in campagna elettorale.
La viceministra all'Economia Laura Castelli annuncia provvedimenti: «Ci sono i margini per un decreto che possa calmierare gli effetti del prezzo del gas ormai a livelli insostenibili», mentre il governo porta avanti in Europa la battaglia per fissare un price cap.
Secondo il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, «il governo Draghi può e deve intervenire. Se il tetto al prezzo del gas non viene fatto a livello europeo, deve essere fatto a livello nazionale. E poi bisogna sganciare il prezzo dell'energia elettrica da quello del gas, e sospendere i certificati verdi».
Intanto, il ministro dello Sviluppo economico Giorgetti ha firmato i decreti sul rafforzamento dei contratti di sviluppo per le imprese: 2 miliardi per 101 progetti, l'80% al Sud.
Il Mise annuncia che saranno agevolati gli investimenti che puntano alla riduzione di almeno il 40% delle emissioni di gas a effetto serra, o del 20% del consumo di energia.
Secondo Confcommercio il caro-bollette mette a rischio 120 mila imprese del terziario e 370 mila posti di lavoro, da qui ai primi sei mesi del 2023.
A soffrire di più sono la media e grande distribuzione alimentare che a luglio ha visto quintuplicare le fatture di luce e gas, la ristorazione e gli alberghi con aumenti tripli rispetto a luglio 2021, e i trasporti alle prese con i rincari dei carburanti. Risentono di questa situazione anche i liberi professionisti, le agenzie di viaggio, le attività artistiche e sportive, il comparto dell'abbigliamento.
Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio, stima che la spesa in energia per il terziario nel 2022 ammonterà a 33 miliardi, il triplo rispetto al 2021 e più del doppio del 2019: «È vitale tagliare drasticamente il costo dell'energia per tutte le imprese - sottolinea - anche quelle non energivore e gasivore. In caso contrario si rischia di vanificare la ripresa economica».
La Cna auspica «un tetto al prezzo del gas, una priorità del Paese su cui chiediamo l'impegno congiunto di tutte le forze politiche, al di là degli esiti del voto del prossimo 25 settembre». L'appello è anche al governo Draghi perché «la gravità della situazione impone interventi rapidi ed efficaci, come l'introduzione di un massimale al prezzo del gas su base nazionale».
Per il settore del vetro il mercato è ancora positivo, con ordini in crescita su tutti i segmenti, tuttavia il caro energia potrebbe incidere sulla competitività internazionale delle imprese. Assovetro sollecita perciò l'esecutivo a intervenire con «una garanzia statale sui contratti di fornitura del gas, gettando le basi per una nuova politica energetica fondata sulle rinnovabili e sul nucleare».
Le aziende termali, che assistono tre milioni di italiani in convenzione con il servizio sanitario nazionale, sono preoccupate dei tempi della politica: «Nel migliore dei casi il nuovo esecutivo non sarà operativo prima di novembre e questo lasso di tempo non è accettabile. I partiti - spiega Federterme - devono spingere il governo Draghi ad intervenire con provvedimenti immediati, quali il totale sganciamento del prezzo delle rinnovabili dal gas, l'attivazione dei gassificatori, e destinare un importo rilevante alle imprese con un immediato scostamento di bilancio».
Prospettive cupe anche per le discoteche. Il comparto dell'intrattenimento ha visto proprio quest' estate una vera ripartenza dopo due anni terribili dovuti alla pandemia. «I rincari però - sostiene Confesercenti - potrebbero far precipitare la situazione in autunno: le bollette di luce e gas sono più che raddoppiate».
Durissimo il commento di Paolo Agnelli - imprenditore leader dell'alluminio e presidente di Confimi, la confederazione dell'industria manifatturiera - che accusa l'immobilità della politica: «Le aziende chiudono o falliscono, e non stiamo facendo nulla per tutelarle dalla morsa dei costi dell'energia. Si pensi a salvare quel sistema Italia di cui ci si riempie la bocca solo in campagna elettorale - attacca Agnelli - senza però intervenire. Non possiamo buttar via anni di sacrifici per colpa di inefficienze di governi miopi e sordi al problema».
Tommaso Carboni per lastampa.it il 24 agosto 2022.
Le sanzioni alla Russia vanno riviste nel caso non diano gli effetti sperati. Il dubbio, a sei mesi dall’inizio della guerra, è che più che arrestare l’invasione dell’Ucraina stiano nuocendo alle economie occidentali, dove imprese e famiglie si ritrovano con rincari dell’energia senza precedenti. È quanto affermano alcuni politici europei, e in Italia Matteo Salvini. Nel frattempo le entrate russe restano di tutto rispetto per via dei prezzi alti di gas e petrolio.
Putin potrebbe calcolare che le opinioni pubbliche occidentali, meno avvezze a sacrifici economici, alla fine cedano alla prepotenza dell’aggressore. Diversi dati, del resto, mostrano che l’economia Russia ha resistito alle sanzioni meglio di quanto gli analisti si aspettassero. Secondo Reuters, il Cremlino oggi prevede una contrazione del Pil del 4,2%, quindi un colpo duro ma non catastrofico – gli stessi funzionari all’inizio della guerra temevano un tracollo del 12%, addirittura peggio che nella crisi finanziaria del 1998.
Anche gli istituti di ricerca occidentali abbassano le loro stime della caduta: il Fondo Monetario, ad esempio, si aspetta un - 6% invece dell’8,5% calcolato ad aprile. Mentre l’inflazione dovrebbe chiudere l’anno in crescita del 13,4%, riporta ancora Reuters, citando il ministero dell’Economia russo.
Insomma, sembrerebbe una crisi tutto sommato gestibile, almeno nel breve periodo, e soprattutto da un regime autoritario che usa con astuzia l’arma della propaganda. Il Cremlino ha riformulato la guerra in Ucraina come parte di un assalto alla civiltà russa mosso dall'Occidente. E così il consenso verso Putin è cresciuto di 10 punti dall’inizio dell’invasione, superando a luglio l’80% - almeno stando alle rilevazioni del Levada Centre, un istituto di sondaggi indipendente.
Sul fronte dell’energia Cina e India hanno aiutato a rimpiazzare le vendite nei mercati europei, pur comprando a prezzi notevolmente scontanti. Risultato: lo scorso mese la produzione di petrolio russo era inferiore soltanto del 3% rispetto al livello precedente alla guerra, riporta il Financial Times. Il problema però è che il settore degli idrocarburi per produrre nel lungo periodo ha bisogno di tecnologia e investimenti costanti, che la Russia impegnata in una lunga guerra rischia di non poter sostenere.
Alcuni analisti considerano questo l’impatto più grande delle sanzioni: la perdita di tecnologia e componenti occidentali, che Cina e altri paesi possono sostituire solo in parte, e senza i quali l’industria e l’apparato militare russo si deteriorano. In quest’ottica, una ricerca pubblicata il mese scorso da Yale afferma che la fuga di multinazionali e società estere sta danneggiando «in modo catastrofico» l’economia della Russia. Un esempio è Avtovaz, il principale gruppo automobilistico russo, che per mancanza di componenti ha tagliato la produzione. È pur vero, tuttavia, che diverse società occidentali in uscita hanno venduto ad acquirenti locali, e quindi i loro asset restano comunque operativi.
La perdita di capitale umano però è innegabile. Almeno 70mila lavoratori informatici sono scappati dal paese nei 30 giorni successivi all’inizio della guerra, calcola l'Associazione russa per le comunicazioni elettroniche. E molti altri probabilmente faranno lo stesso. Per arginare quest’esodo Putin ha firmato diverse misure economiche, tra cui un'esenzione fiscale di tre anni e prestiti agevolati per le aziende IT.
Altri stimoli servano ad assorbire il colpo dell’inflazione: Putin ha ordinato un aumento del 10% delle pensioni e del salario minimo, mentre grandi datori di lavoro come Sberbank e Gazprom - riporta Reuters - da luglio hanno aumentato gli stipendi. Ma per i ricercatori di Yale si tratta di misure fiscali e monetarie “palesemente insostenibili”: avrebbero già mandato in deficit il bilancio dello Stato “prosciugando le riserve estere nonostante i prezzi alti di petrolio e gas”.
L’altra cosa poco sostenibile rischia di essere la svolta verso l’Asia, teorizzata da anni da politologi russi come Sergei Karaganov. Alla fine, secondo Yale e diversi altri analisti, si rivelerà un errore strategico. Questa d’altronde è la grande scommessa di Putin: che la rottura politica ed economica con l’Europa possa essere compensata da un’alleanza in Asia. Cina e India, avverte Yale, «sono acquirenti notoriamente attenti ai prezzi che mantengono stretti legami con altri esportatori di materie prime. La Russia così rischia di vedere deteriorarsi la sua posizione strategica di grande esportatore».
Nel frattempo l’Europa, se resta unita, finirà per emanciparsi da gas e petrolio russi, pur con difficoltà e costi elevati. A Mosca toccherà il ruolo di gregario di India e Cina, paesi con più di un miliardo di abitanti ciascuno. Una scelta non molto lungimirante, secondo Andrea Graziosi, docente all’Università di Napoli Federico II, specializzato in storia dell’Unione Sovietica con saggi tradotti in tutto il mondo. «La Russia, in crisi demografica, con poca industria e tecnologia, che spazio può avere con quei due giganti asiatici?».
Fatti contro propaganda. La disinformazione del Cremlino sulle sanzioni smentita punto per punto. L'Inkiesta il 24 Agosto 2022.
Nonostante le fake news diffuse dal Cremlino per indebolire la morsa delle sanzioni, l’economia del Paese è in crisi, le industrie vanno a rilento in mancanza di materiali e di lavoratori specializzati. Anche la vita quotidiana è peggiorata in maniera sensibile
Non è vero che l’economia russa non risente delle sanzioni. Non è vero nemmeno che riesce a trovare nuovi partner commerciali. E non è vero che la popolazione, nella sua vita di tutti i giorni, non sia stata colpita. Da quando la comunità internazionale ha imposto nuove sanzioni alla Russia in risposta alla sua invasione dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio, il Cremlino ha diffuso false informazioni sulla loro efficacia e ne ha negato o minimizzato gli effetti.
Come spiega questo documento del Dipartimento di Stato americano, i fatti – comprovati da numerosi studi, come questo di Yale – dicono il contrario, smentendo una a una le bugie russe.
Secondo Mosca, l’economia russa è abbastanza forte da resistere all’effetto delle sanzioni. Anzi, a esserne più colpito è l’Occidente stesso.
In realtà le sanzioni funzionano benissimo e lo ammette perfino Elvira Nabiullina, a capo della Banca Centrale russa («L’attività economica è in declino. La cessazione di relazioni economiche di lungo periodo avrà un impatto negativo»). Del resto la Russia non riesce a produrre versioni domestiche dei prodotti che prima comprava da fuori, nemmeno autorizzando il furto di proprietà intellettuale dai cosiddetti “Paesi ostili”. Da tempo i cittadini più qualificati hanno lasciato o stanno lasciando il Paese per prospettive migliori. Mancano ricercatori, esperti tecnici, imprenditori, professori. Se anche riuscisse a ricostruire la propria economia senza affidarsi a materiali provenienti dai Paesi che la hanno sanzionata, non avrebbe una forza lavoro sufficientemente istruita per farla funzionare.
Dire che le sanzioni non incidono perché Mosca può cambiare partner commerciali, rivolgendosi a quelli che non l’hanno sanzionata, è un’altra falsità.
Come dimostrano i dati, la Russia non riesce a trovare acquirenti e venditori nuovi. Le sue importazioni sono crollate del 50% da febbraio. La carenza di prodotti di alta tecnologia si fa sentire (già) sul campo di battaglia, con l’esercito obbligato a togliere i microchip da frigoriferi e lavastoviglie per far funzionare l’equipaggiamento militare. Per quanto riguarda i rapporti privilegiati con la Cina, va notato che la relazione è sbilanciata in favore di Pechino. Nel 2021 la Repubblica Popolare cinese è risultata il primo Paese importatore, mentre la Russia era soltanto l’11 compratore. E da quando è cominciata la guerra, le esportazioni cinesi in Russia sono crollate del 50%. Ridicolo poi affermare, come hanno fatto alcuni funzionari russi, che non c’è problema a spostare le forniture di gas verso Oriente, dal momento che il 90% del gas e del petrolio russo è trasportato via terra lungo pipeline connesse – indovina un po’ – con i mercati e le raffinerie europee. Per cambiare assetto occorrerebbe costruire nuove linee o rafforzare i trasporti marittimi. Tutte cose che richiedono parecchio tempo.
Anche le performance del rublo, che dopo un crollo iniziale è tornato a crescere in poco, hanno dato luogo a narrazioni farlocche. Tuttavia non si tratta di un riflesso delle buone prestazioni dell’economia, ma soltanto del risultato delle misure messe in campo da Putin per tenerlo in piedi in modo artificiale, a discapito della popolazione e delle attività produttive. I cittadini, per legge, non possono più mandare soldi all’estero né le banche vendere dollari, mentre le aziende locali di import-export sono obbligate a cambiare in rubli l’80% dei loro guadagni, quelle straniere a pagare i debiti in rubli. Tutte mosse che hanno drogato il valore del rublo, portandolo a valori irreali.
Tutte queste cose, messe insieme, vanno a colpire la popolazione nella sua quotidianità. La qualità della vita è calata in modo drastico: più di mille società hanno lasciato il Paese, privando i cittadini dei loro beni e servizi (e posti di lavoro). Non solo: l’aumento dei prezzi ha colpito alcuni settori vitali, come la sanità, riducendone i servizi, o ha fatto aumentare il costo delle automobili, provocando un calo delle vendite dell’84% (in generale la produzione domestica risente della difficoltà di trovare airbag o sistemi di freno automatici).
Insomma, il peso delle sanzioni, anche se le autorità russe cerchino di far credere il contrario, è sempre più schiacciante: si fa sentire in tutti gli ambiti e colpisce tutta la popolazione. I danni che provoca sono profondi e avranno effetti di lunga durata. E soprattutto, nonostante la cappa della propaganda, se ne stanno accorgendo tutti
Il lungo crollo. Perché le sanzioni più efficaci contro la Russia sono quelle di cui si è parlato di meno. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 26 Agosto 2022
Come scrive anche l’Economist, più che il congelamento delle ricchezze all’estero degli oligarchi o l’estromissione del settore finanziario dalla rete Swift, le vere picconate arrivano dal settore industriale, sul lato import, che il Cremlino non aveva messo in sicurezza
«Le sanzioni occidentali alla fine danneggeranno l’economia russa. Ma le più efficaci sono quelle di cui si parla di meno». Così l’ultimo numero dell’Economist interviene nel dibattito, nel momento in cui anche in Italia i rincari annunciati del gas scuotono la campagna elettorale, e c’è gente che si chiede se al contraccolpo della guerra economica che accompagna la guerra sul campo cederà prima la Russia o le opinioni pubbliche occidentali.
I media, osserva l’Economist, si sono concentrati sui punti appunto più mediatici. Dalle ricchezze all’estero degli oligarchi che sono state congelate o sequestrate, e che è stato definito «vecchie tattiche su una nuova scala», a un settore finanziario che è stato spinto fuori dai settori internazionali attraverso «nuovi bazooka» tipo l’esclusione delle banche commerciali dalla rete di messaggistica Swift alla immobilizzazione di 300 miliardi di riserve di dollari della banca centrale.
Ma in realtà, osserva la testata, Putin si era preparato da tempo a una guerra finanziaria, e aveva lavorato per isolare il sistema finanziario russo. C’è stato indubbiamente un certo panico, ma anche appoggiandosi a partner come la Cina, la Turchia o l’Iran le banche hanno ammortizzato il colpo. La Russia è comunque un paese con un basso debito estero e molte riserve in valuta estera, e l’Economist osserva che «anche quando le sanzioni hanno più successo, come quando hanno costretto la Libia ad abbandonare le armi di distruzione di massa nel 2003, per regimi passati hanno impiegato anni per produrre effetti». Una ricerca della Bundesbank mostra che tra il 1 febbraio e 30 aprile c’è stato un crollo quasi totale dei trasferimenti di denaro tra le banche russe escluse e la filiale tedesca di Target 2, il sistema per la compensazione dei pagamenti tra banche della zona euro.
«Le alternative allo Swift, come il Telex, sono goffe e lente. Anche i divieti sulle banche di corrispondenza sono potenti. Non solo il dollaro viene utilizzato direttamente per regolare circa il 40% del commercio transfrontaliero, ma funge anche da tappa intermedia in molte transazioni che coinvolgono valute di secondo livello. Ora la Russia deve talvolta ricorrere al baratto, opzione ingombrante e rischiosa». Ma le banche per cui passano gli ancora forti acquisti di carburante russo da parte dell’Europa, in particolare Gazprombank, sono ancora autorizzate a utilizzare Swift. Gran parte del resto viene convogliato, legalmente, attraverso banche più piccole che rimangono collegate alla rete. Fare a meno dei dollari è più complicato. L’India, che sta consumando petrolio russo da febbraio, sta ancora cercando un modo praticabile per pagarlo in rupie. Ma i volumi di scambio yuan-rublo alla borsa di Mosca hanno raggiunto livelli record.
Anche il congelamento delle riserve detenute dalla Banca centrale russa in Occidente, pari a circa la metà della sua scorta totale, ha avuto risultati contrastanti. All’inizio il rublo è crollato del 30%, spingendo la Russia in recessione. A giugno la Russia è stata costretta alla sua prima grave inadempienza del debito estero dopo oltre un secolo, per 100 milioni di dollari. Ma dopo poche settimane il rublo si è ripreso, consentendo di ridurre i tassi. I controlli sui capitali imposti dal governo russo come risposta sono ancora in vigore, ma il gigantesco export di gas e petrolio permette di compensare con nuovi dollari e euro quelli rimasti congelati in Occidente.
Quanto agli oligarchi, a 1.455 di loro è stato vietato di viaggiare in alcuni o tutti i paesi occidentali, o di accedere ai loro beni lì, o entrambi. Tra le attività congelate ci sono depositi bancari e titoli di mercato, ma anche case di campagna, squadre di calcio, gioielli e yacht. E la Russia può fare poco come ritorsione, dal momento che i magnati occidentali in Russia possiedono poco, e molte aziende americane ed europee hanno già cancellato i loro investimenti russi.
Il Dipartimento alla Giustizia Usa vuole ora usare le leggi antimafia per liquidare i beni sequestrati e dare il ricavato all’Ucraina e l’Ue propone di rendere la violazione delle sanzioni un crimine. Ma si stima che solo 50 dei 400 miliardi di dollari di attività offshore bloccate sulla carta siano stati finora effettivamente congelati. Un gran parte del resto è stato nascosto attraverso una quantità di società di comodo costituite in una quantità di paradisi fiscali, dalle Cayman e Jersey. Altri sono passati a parenti e prestanome. e molte sanzioni sono demandate a privati che spesso non hanno né mezzi né voglia per andare a fondo.
Osserva inoltre l’Economist che non è chiaro se davvero il congelamento dei beni produrrà gravi danni all’economia russa. «La maggior parte degli oligarchi ha poca influenza politica. Un ex-boss dell’energia ucraino ritiene che Vladimir Putin, il presidente della Russia, sia abbastanza felice di vederli ridimensionati». Non lo dice l’Economist, ma viene ipotizzato da alcuni commentatori dentro a cose russe – in condizioni di anonimato – che appunto il malcontento di oligarchi e settori dei Servizi per una guerra che crea problemi potrebbe essere all’origine dell’attentato contro Darya Dugina. Insomma, un avvertimento allo zar, attraverso un personaggio che in realtà contava poco se non nulla, ma aveva una certa risonanza internazionale. Ma è evidentemente uno scenario ancora molto confuso.
Nuove dimensioni ha assunto anche il “terzo tipo” di sanzioni, con divieti di esportazione globali che in precedenza avevano preso di mira singole imprese. Non un intero paese. Ma l’Ue ha approvato il suo settimo pacchetto a luglio, e non solo la fortezza Russia regge, ma intanto crescono appunto i prezzi del gas e i costi politici. Usa e Ue stanno acquistano meno petrolio, compensato però dagli acquisti di India e Cina. Sul gas non c’è embargo, e anzi è Putin che lo taglia per fare pressione. C’è comunque una previsione che la Russia per fine 2022 dovrà tagliare la produzione di petrolio di 1,1 milioni di barili, equivalente a circa il 14% delle esportazioni dell’anno scorso. Ma potrebbe saltare, se l’inverno è rigido.
Insomma, per l’Economist a colpire non sono tanto le sanzioni sull’import dalla Russia, ma sull’export in Russia. In particolare sul sistema industriale, per cui Putin non aveva avuto tempo o forse voglia di fare un lavoro di diversificazione analogo. Su questo punto, l’Economist inizia dal trasporto aereo, di cui si è già occupata anche Linkiesta e che attira di più l’attenzione proprio perché riguarda il più diffuso approccio tra russi e occidentali. Come già avevamo ricordato, poiché i tre quarti della flotta commerciale del Paese proviene dall’America, dall’Europa o dal Canada e le parti sono necessarie per le riparazioni, per evitare il collasso che veniva pronosticato prima dell’estate le compagnie aeree russe sono state costrette a cannibalizzare gli aerei, togliendo ad alcuni le parti necessarie per far volare altre. Qui i danni sono già fatti, anche se secondo questa analisi «ci vorrà del tempo prima che si concretizzino».
Ma ancora più indicativo è per l’Economist il settore industriale, di cui pure Linkiesta si era occupata per via della comparsa di vari rapporti. Qui si parla di un calo del 7% dell’industria manifatturiera tra dicembre e giugno, proprio per mancanza di componenti. «A salve successive da febbraio, i governi occidentali hanno reso obbligatorio per una serie di industrie nazionali richiedere licenze prima di vendere in Russia, e raramente queste vengono concesse. Le restrizioni vanno ben oltre i prodotti “a doppio uso” – quelli con applicazioni sia militari che commerciali, come droni e laser – per coprire kit avanzati come chip, computer, software e apparecchiature energetiche. Mirano anche a beni a bassa tecnologia, come prodotti chimici e materie prime, che di solito sono soggetti a restrizioni solo se fissati per l’Iran o la Corea del Nord».
Le esportazioni globali di chip in Russia sono diminuite del 90% rispetto allo scorso anno. Come ricordato da Linkiesta, a un certo punto i russi hanno iniziato a mettere chip di frigoriferi e lavastoviglie nei carri armati. Anche altri settori, dall’estrazione mineraria ai trasporti, richiedono componenti e competenze straniere per eseguire la manutenzione. «Un fornitore tedesco della metropolitana di Mosca stima che, se interrompesse la manutenzione, la rete subirebbe interruzioni entro un mese e sarebbe paralizzata dopo tre». La Russia ha anche bisogno di software e hardware per sviluppare nuovi prodotti, dall’elettronica di consumo alle auto elettriche.
Come ricordato anche da Linkiesta, il crollo della produzione manifatturiera è stata trainata dalle automobili: -90%. Ma c’è anche un -25% della farmaceutica e un -15% per le apparecchiature elettriche. A maggio la Russia ha allentato gli standard di sicurezza per consentire la produzione di auto senza airbag e freni antibloccaggio. La mancanza di kit high-tech ha ostacolato il lancio del 5G in Russia. I campioni del cloud computing sono in crisi. La carenza di chip sta ostacolando l’emissione di nuove carte di plastica su Mir, il sistema di pagamento nazionale. La mancanza di navi specializzate potrebbe ostacolare i piani di perforazione artica della Russia; una carenza di tecnologia e know-how stranieri potrebbe persino rallentare il petrolio e il gas della vecchia scuola. Anche le industrie di base, come l’estrazione e la raffinazione dei metalli, sono crollate.
La Russia ha cercato di compensare ricorrendo al mercato nero in Africa e Asia, e a giugno è stato consentendo alle aziende russe di importare merci come server e telefoni senza il consenso del titolare del marchio. Ci sono perfino tour operator che organizzano tour ad acquistare carte Visa in Uzbekistan. Ma le aziende cinesi, che di solito forniscono un quarto delle importazioni russe, non collaborano, per timore di essere a loro volta private dell’accesso a componenti occidentali essenziali. Col tempo sarà dunque inevitabile un grave deterioramento dell’apparato produttivo.
Anche l’Economist cita i rapporti sulla fuga di imprese occidentali e cervelli, che accentueranno i problemi. E l’Fmi prevede per il 2025-26 un tassi di crescita dimezzato. Insomma, «finché l’America e i suoi alleati manterranno le loro sanzioni, la spina dorsale industriale, la forza intellettuale e i legami internazionali della Russia svaniranno e il suo futuro sarà caratterizzato da produttività in calo, poca innovazione e inflazione strutturale. Gli economisti hanno sbagliato a prevedere un crollo istantaneo. Quello che sta ottenendo la Russia, invece, è un biglietto di sola andata verso il nulla».
Roman Abramovich, ecco come sta umiliando l'Europa: soldi e sanzioni, la verità che non vi raccontano. Carlo Nicolato Libero Quotidiano il 05 giugno 2022.
Non solo Abramovich, il Tribunale dell'Unione Europa comunica che gli uomini d'affari che hanno fatto ricorso al blocco dei loro beni deciso da Bruxelles nei mesi scorsi sono più di venti e molti altri potrebbero seguire. Tra loro ci sono anche Mikhail Fridman, oligarca russo nato in Ucraina con un patrimonio stimato di oltre 12 miliardi di dollari, considerato molto vicino a Putin ma dichiaratamente contrario alla guerra, e il banchiere nonché politico russo Peter Aven il cui patrimonio è stimato in 4,4 miliardi di dollari. Le persone sanzionate direttamente dalla Ue sono oltre 1100 per un totale di 29,5 miliardi di euro, e il Tribunale Ue teme di dover far fronte a un'ondata di cause tali da bloccare o rallentare considerevolmente la normale amministrazione della corte stessa.
IL CASO MUBARAK
L'idea del ricorso peraltro non è campata per aria, altri prima degli oligarchi russi in questione hanno portato la Ue di fronte al giudice in situazioni simili e ne sono usciti vincitori. C'è il caso di Mubarak ad esempio, ma quello più vicino agli attuali per tematica e geografia riguarda l'ex presidente ucraino Viktor Yanukovich e altri sei politici e uomini d'affari ucraini filorussi ai quali la Ue, nel 2014, congelò i beni in quanto accusati di appropriazione di fondi pubblici e di violazione dei diritti umani. Dopo il ricorso al Tribunale suddetto i beni furono scongelati nel 2019 con una sentenza che ammetteva che la Ue «non ha dimostrato che i diritti» di Yanukovich e degli altri «sono stati rispettati nel procedimento penale».
Secondo uno studio del Parlamento europeo dal 2008 al 2015 l'Unione Europea ha perso circa due terzi delle impugnazioni legate alle sanzioni da essa comminate. Dal 2016 in poi le cose sono migliorate, nel senso che le cause vinte hanno superato quelle perse, ma resta comunque molto alto il numero di misure restrittive inflitte dalla Ue senza una base legale adeguata e, secondo lo stesso studio menzionato, nel 2017 i casi di sanzioni erano diventati il secondo argomento più comune del tribunale superando quelli relativi alla concorrenza. Il problema principale è che le sanzioni vengono decise dal Consiglio a livello politico facendo molto spesso affidamento sulle informazioni che arrivano dal Paese in questione o dai servizi segreti perlopiù statunitensi. Nel primo caso tali informazioni sono ovviamente interessate e spesso non supportate da prove inoppugnabili, nel secondo le prove non sono sempre utilizzabili a livello processuale per la natura stessa delle fonti. Gli Stati Uniti proteggono meglio da un punto di vista legale le loro sanzioni in quanto le fanno passare per misure giustificate dalla "sicurezza nazionale".
L'Europa non lo fa, anzi nel 2008 ha affidato ai suoi magistrati la giurisdizione sulle sanzioni spianando la strada agli eventuali ricorsi. La Ue dunque decide le misure restrittive a Bruxelles ma poi sono i tribunali del Lussemburgo che devono applicarle e nel caso difenderle, e non sempre la cosa funziona. Non basta dire «è vicino a Putin», bisogna anche che ci siano prove convincenti che su tale vicinanza, e soprattutto connivenza, la persona sanzionata abbia costruito la sua fortuna. E se poi davvero al blocco dei beni seguisse la confisca, utilizzando tali ricchezze «per la ricostruzione dell'Ucraina» come proposto dalla presidente della Commissione Von der Leyen, c'è il serio rischio che l'Unione Europea aggravi ulteriormente il suo record di cause perse.
GRANA CONFISCHE
L'eventuale confisca dei beni richiede infatti una base legale molto solida perché vada in porto senza sbandamenti e figuracce, e attualmente tale base non c'è. Anche Biden negli Stati Uniti ci sta pensando ma i legali della Casa Bianca gli hanno fatto capire che allo stato delle cose la confisca è praticamente impossibile. Da loro come da noi richiede indagini, un giudice che stabilisca con precisione che i beni sono stati ottenuti dai proventi di un crimine o attraverso il riciclaggio di denaro. Tutto questo può voler dire anni e non è detto che vada in porto. Negli Usa c'è il Patriot Act, adottato dopo dell'11 settembre, che ha creato un'eccezione limitata al divieto di confisca nei casi in cui gli Stati Uniti sono in guerra. Ma gli Stati Uniti non sono in guerra. E anche se il Congresso ha già approvato un disegno di legge in proposito, gli Usa volenti o nolenti dovranno rispettare il diritto internazionale. Anche l'Europa dovrà farlo e a tal proposito la Commissione sta provando un'altra strada per aggirarlo, introducendo la violazione delle misure restrittive all'elenco dei reati dell'Unione. In pratica il sanzionato che si impegna in "azioni o attività volte ad eludere, direttamente o indirettamente le misure restrittive, anche occultando beni" potrebbe essere in futuro sottoposto a confisca. All'oligarca che disattiva il sistema di identificazione automatica (AIS) di bordo potrà essere confiscato lo yacht? Ai giuristi l'ardua sentenza.
Francesco Bonazzi per “La Verità” l'1 giugno 2022.
Dopo la vendita del Chelsea, la pace nel mondo è più vicina, ma una serie di ricorsi degli oligarchi russi alla Corte di giustizia Ue contro le sanzioni rischia di ripiombare il pianeta nel caos.
Il miliardario Roman Abramovich ha intentato una causa in Lussemburgo contro l'Unione europea, impugnando le sanzioni Ue sul divieto di viaggi e sul congelamento dei beni.
E, vista l'astuzia e la liquidità del personaggio, ci sarà da divertirsi anche solo ad assistere ai processi. Perché anche altri miliardari ritenuti vicini a Vladimir Putin hanno scelto la strada delle impugnazioni.
Per l'Ue non sarà facile dimostrare i legami effettivi di ogni singolo oligarca con il presidente russo. Dall'altro lato, fa sorridere vedere Abramovich, cittadino europeo grazie a un passaporto portoghese di dubbia origine, andare a fare la vittima alla Corte di giustizia come se uscisse da un centro di detenzione polacco per profughi siriani.
Non si era ancora spenta l'eco per la vendita «forzosa» del Chelsea a una cordata di paperoni americani per la bellezza di 4,5 miliardi di euro, che ieri Abramovich, 55 anni e un patrimonio personale di oltre 10,8 miliardi (fonte: Forbes 2021), ha reso noto di aver presentato un ricorso contro le sanzioni adottate nei suoi confronti a seguito dell'invasione russa in Ucraina.
La notizia è stata data dall'agenzia russa Tass, secondo la quale il deposito della causa risale alla data del 25 maggio. Prima di lui, avevano deciso di battere la medesima strada anche altri due presunti oligarchi, Mikhail Fridman e Petr Aven. Ma è logico immaginare che non rimarranno in tre, se non altro per il gusto di esporre l'Ue al ridicolo.
Tre settimane fa, Abramovich aveva giurato che con il ricavato della vendita del club più snob di Londra, vendita che comunque riteneva «un esproprio» se non comunista, europeista, avrebbe aiutato i profughi ucraini.
E questo lo aveva promesso dopo che gli erano stati bloccati 5,5 miliardi di sterline (circa 7 miliardi di euro) nel paradiso fiscale di Jersey, nella Manica, giurisdizione britannica. Mentre invece almeno due yacht sarebbero scappati in tempo utile.
Nei prossimi mesi, si spera a conflitto già terminato, assisteremo alla sfilata dei migliori avvocati d'Europa che nell'interesse del «cittadino Abramovich» impugneranno i sequestri, spiegheranno che il loro assistito non c'entra nulla con Putin, eccetera eccetera.
Mentre i migliori legali di Bruxelles, a spese nostre, dovranno spiegare che non si è trattato di una semplice ritorsione nei confronti dell'uomo che, a un certo punto, era stato persino voluto al tavolo delle trattative tra Mosca e Kiev, con tanto di giallo su un presunto avvelenamento.
Già, ma come avrà fatto Abramovich, ebreo russo al quale il Regno unito ha sempre negato il passaporto, a diventare cittadino europeo? Al di là della quantità di passaporti che potrà avere in posti come Cipro, Dubai o Singapore, ufficialmente si sa che ne avrebbe tre: uno portoghese, uno lituano e uno israeliano.
Quello portoghese è stato preso nel 2021 dopo grandi polemiche e ora è in corso un'indagine della polizia portoghese perché chi gliel'ha concesso, il capo della comunità sefardita di Oporto, Daniel Litvak, è già stato arrestato con l'accusa di vendere passaporti.
Quello della Lituania, nazione che invece non fa sconti alla Russia e ai russi in generale, sarebbe stato ottenuto nel 2018 e anche qui si sospetta che si sia mossa la capa delle comunità sefardita di Vilnius, una signora che però alla stampa locale ha detto che i suoi incontri con il confratello Roman erano «strettamente di natura privata».
A oggi, non è detto che quel passaporto, se esiste, sia ancora valido e che sia utilizzabile per andare a far causa in Lussemburgo, dove però bisognerà dimostrare che Abramovich abbia avuto anche un minimo ruolo nella guerra.
La fuga dalla Russia diventa un incubo legale: cause per 100 miliardi sulle imprese occidentali. Alessandro Plateroti il 31/05/2022 su Notizie.it.
Chiudere gli uffici di Mosca e rimpatriare capitali e dipendenti è stata una mossa certamente coraggiosa, ma dopo gli entusiasmi iniziali la fuga dalla Russia si sta rivelando un pericoloso salto nel buio sotto il profilo legale e del diritto internazionale.
Le sanzioni commerciali dei governi occidentali erano nei calcoli di Putin: compreso un embargo sul gas e sul petrolio. Ma la fuga delle imprese straniere dalla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, un esodo “biblico” di quasi 1.200 aziende europee e americane in meno di tre mesi, è stato non solo un inedito colpo di scena nelle guerre commerciali, ma soprattutto il danno più pesante al sistema economico e industriale dell’ex impero sovietico.
Rompere joint venture e contratti unilateralmente, chiudere gli uffici di Mosca e rimpatriare capitali e dipendenti è stata una mossa certamente coraggiosa, apprezzata e sostenuta dai governi occidentali, dall’opinione pubblica e persino dai mercati finanziari. Ma dopo gli entusiasmi iniziali, il quadro è cambiato rapidamente: la fuga dalla Russia si sta rivelando un pericoloso salto nel buio sotto il profilo legale e del diritto internazionale. Nei tribunali arbitrali, una scelta “moralmente corretta” non giustifica infatti la violazione degli impegni contrattuali di un’impresa.
Così, oltre al danno delle sanzioni, una valanga di controversie legali rischia ora di travolgere chi ha lasciato la Russia: le cause, secondo gli esperti di diritto internazionale, potrebbero costare alle aziende occidentali quasi 100 miliardi di dollari di risarcimenti alle controparti russe. Una posta miliardaria, insomma, su cui si stanno già posizionando tutti gli studi legali specializzati nel commercio internazionale, da Londra a Mosca, da Parigi a New York.
Secondo un database gestito dalla Yale School of Management, infatti, sono quasi 1.000 le aziende che hanno volontariamente ridotto le operazioni in Russia in una certa misura oltre il minimo richiesto legalmente dalle sanzioni internazionali. Nella maggioranza dei casi, la scelta è stata giustificata ufficialmente come conseguenza delle stragi di civili e per la distruzione delle città ucraine. Ma come ha evidenziato in un articolo accademico Jeffrey Sonnenfeld, preside associato senior e professore di management presso la Yale School of Management, a incentivare lo “strappo” dalla Russia è stato anche il richiamo dei mercati finanziari: la Borsa ha spinto al rialzo le azioni delle società in fuga.
L’esempio più citato è quello di Société Générale: i titoli della banca francese sono balzati del 5% dopo l’annuncio della decisione di lasciare la Russia, nonostante la perdita di 3,2 miliardi di euro (3,4 miliardi di dollari) generata dalla rottura dei contratti. Per le aziende che lavorano con un soggetto russo sanzionato, la motivazione per recedere da un contratto ha una componente giuridica. Ma per quei rapporti commerciali non sanzionati, un’azienda può recedere da un contratto semplicemente perché non è più “moralmente auspicabile”?
Il consenso dell’opinione pubblica è importante, ma in un contenzioso commerciale conta poco: l’etica non rappresenta una giusta causa per violare un contratto. È possibile che i tribunali arbitrali provino una certa empatia per le aziende che si sono ritirate dalla Russia, vista la crisi umanitaria in corso in Ucraina. Ma gli esperti dicono che c’è motivo di essere scettici sul fatto che una tale empatia possa prevalere sulla certezza del diritto nel rispetto dei contratti: il rischio di risarcimenti miliardari è altissimo. E le opzioni a disposizione delle aziende che si troveranno a dover difendere le proprie azioni davanti a un tribunale, si collocano su un sentiero molto stretto. La prima cosa per evitare una condanna, sarà dimostrare che che non c’era modo di impedire il ritiro dalla Russia o che le relazioni commerciali sono state influenzate dalle sanzioni internazionali contro Mosca.
Tra le potenziali difese disponibili ci sono l’illegalità e l’impossibilità, laddove le sanzioni o anche il conflitto militare rendessero impossibili le transazioni o lo svolgimento di affari. Ciò potrebbe essere dovuto all’impossibilità di effettuare viaggi d’affari, o di garantire il funzionamento della rete di approvvigionamento industriale. Ma di certo, non basta appellarsi solo allo sdegno diffuso per rompere un contratto. A rendere la materia ancora più complessa e insidiosa è la scelta delle piazza e della legge applicabile al contratto. Alcune giurisdizioni aderiscono più strettamente di altre alle clausole di rescissione previste nei contratti. In base al diritto inglese, ad esempio, i tribunali commerciali devono attenersi il più possibile a quanto stabilito sui contratti, mentre in altre giurisdizioni sono le “circostanze impreviste” a giustificare un’inadempienza contrattuale.
Un’altra possibile via per le aziende coinvolte in controversie contrattuali potrebbe provenire dal contratto stesso, in particolare dalla clausola di forza maggiore. Tali clausole, che in genere contengono un linguaggio standard che esonera le aziende dai loro obblighi a causa di “atti di Dio” o altri eventi al di fuori del loro controllo, hanno guadagnato molta più attenzione negli ultimi anni a causa della pandemia di COVID-19. Tuttavia, se la clausola aiuterà le società che si sono ritirate dalla Russia, molto dipenderà dai fatti del caso e dalla formulazione della clausola. Ma se la clausola manca, allora sono guai: la forza maggiore, soprattutto nel diritto inglese, è generalmente esclusa dal diritto contrattuale.
Ma la vera missione impossibile per le aziende che hanno abbandonato la Russia, sarà uscire indenni dalle cause promosse nei tribunali di Mosca: per i giudici, le sanzioni nei confronti della Russia non sono una giusta causa per violare gli obblighi contrattuali delle imprese straniere. Per i tribunali con sede al di fuori della Russia, la situazione potrebbe essere ancora complicata dalle complesse implicazioni politiche del conflitto.
In questo quadro di incertezze, una cosa sembra certa: ovunque esploda una controversia legata all’invasione russa dell’Ucraina, non esiste un “manuale operativo” su come gli eventi degli ultimi mesi verranno interpretati dai giudici.
Danni di guerra, l’Ucraina vara la legge: le aziende italiane potranno essere risarcite. Le imprese dovranno però dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra le perdite patite e il conflitto in atto. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 24 Maggio 2022.
Non sarà solo l’Italia a ristorare le imprese che hanno subìto danni dal conflitto in Ucraina. Ora anche il governo di Kiev scende in campo. Le procedure per il risarcimento alle imprese dei danni della guerra riguardano non solo quelle domestiche, ma anche quelle estere.
Dall’inizio dell’aggressione militare russa contro l’Ucraina, la questione del risarcimento dei danni causati dalle azioni militari è diventata di attualità per le imprese come per le persone danneggiate.
Kiev ha messo a disposizione tre siti online per presentare le domande. La parte lesa, però, dovrà dimostrare il nesso causale tra i danni patiti e gli atti di guerra, nonché i mancati guadagni sulla base dei redditi precedentemente registrati. Ci si potrà avvalere di periti privati che quantificheranno i costi (danno emergente) e i mancati profitti (lucro cessante). Le stesse imprese, infine, potranno costituirsi parte civile per la contestuale condanna al risarcimento dei danni.
RISARCIMENTI ONLINE
Dall’inizio delle ostilità contro l’Ucraina, spiega in una nota lo Studio legale Bembo & Partners che collabora con la Legal Alliance Law Firm ucraina, la questione del risarcimento dei danni causati dalle azioni militari è diventata di attualità per le imprese come per le persone danneggiate.
L’Ucraina ha messo a disposizione tre siti online per poter ricevere un risarcimento. Il primo è il portale dei servizi pubblici Diia (diia.gov.ue). È l’applicazione lanciata dal governo di Kiev, che include la possibilità di fornire informazioni su danni o distruzioni residenziali a seguito dell’aggressione militare della Russia.
La seconda risorsa online è attivabile al sito warCrimes.gov.ua istituito dall’Ufficio del Procuratore generale con partner ucraini e internazionali. Lo scopo del sito è raccogliere le prove necessarie per quanto riguarda i crimini di guerra e contro l’umanità commessi dall’esercito russo in Ucraina.
La terza risorsa si trova nel sito “La Russia pagherà” (damaged.in.ua). In questo sito le persone possono segnalare i danni materiali inflitti loro riempiendo un modulo elettronico.
Il governo utilizzerà le informazioni raccolte per stimare le perdite da richiedere in ulteriore compensazione dei danni di guerra.
Oltre a questi rimedi, utili anche per la documentazione dei danni, è comunque importante anche una tutela giudiziaria mirata da poter apprestare: l’avvio o l’adesione all’avvio di procedimenti penali in Ucraina e l’appello alla Cpi (Corte penale internazionale).
Non sono poche le aziende che, potenzialmente, potrebbero essere interessate all’iniziativa promossa dal governo ucraino. Le aziende italiane presenti nel Paese sono oltre trecento e, tra di esse, ci sono imprese leader sui mercati internazionali come Eni, Ferrero, Intesa Sanpaolo (tramite Pravex Bank), Mapei, Saipem e Selex.
Fino allo scoppio delle ostilità, era notevole l’interscambio commerciale. Nel 2021 le esportazioni in Ucraina sono ammontate a 1,9 miliardi di euro: più dell’intero 2020 e 2019. Nello stesso periodo di tempo, le importazioni sono valse 2,9 miliardi: anche in questo caso si tratta di un valore superiore a quello registrato nel 2020 e nel 2019.
L’Italia (ottavo fornitore di Kiev con una quota di mercato del 3,7% nel 2021) esporta in Ucraina principalmente macchinari e apparecchiature (399 milioni di euro nel 2020, ultimi dati disponibili), tabacco (152), prodotti chimici (147), abbigliamento (129), prodotti alimentari (125). Importa dall’Ucraina (è il 32° fornitore del nostro Paese con una quota dello 0,7% nel 2021) soprattutto prodotti metallurgici (964 milioni) e -in misura nettamente inferiore – prodotti alimentari (292) e agricoli (250).
LE PROVE DEI DANNI
Per ottenere i ristori, naturalmente, la parte lesa dovrà dimostrare il nesso causale tra i danni e la distruzione subita e gli atti di guerra, oltre ai danni subiti, i mancati guadagni sulla base dei redditi precedentemente registrati anche con ricorso a periti privati, oltre a potersi costituire parte civile per la contestuale condanna al risarcimento dei danni. A livello legislativo si sta trattando la possibilità di eseguire le sentenze di condanna in danno dei beni sequestrati ai residenti russi presenti sul territorio dell’Ucraina o sotto sequestro all’estero.
a Verkhovna Rada (il Parlamento monocamerale) dell’Ucraina ha approvato la legge “Sui principi fondamentali del sequestro forzato di oggetti dei diritti di proprietà della Federazione Russa e dei suoi residenti in Ucraina”.
A questa legge si affianca il disegno di legge n° 7237 del 31 marzo 2022 “Sul risarcimento per i beni persi, danneggiati e distrutti a seguito dell’aggressione armata russa e dell’equa distribuzione delle riparazioni”.
Il disegno di legge prevede la procedura per la liquidazione di provvisionali quali risarcimento primario e completo per i beni persi, danneggiati o distrutti di persone fisiche e giuridiche a seguito di aggressione armata, prevedendo appositi fondi dai quali attingere. Se il disegno di legge sarà approvato, tutte le parti lese interessate saranno in grado di ricevere un risarcimento monetario o altri mezzi di sostegno.
La Corte penale internazionale è l’organismo internazionale di giustizia penale che persegue e condanna i responsabili dei crimini più gravi: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e atti di aggressione. I crimini di guerra comprendono la distruzione o il danneggiamento di infrastrutture civili. Va notato che l’unicità della Cpi come organismo internazionale risiede nella possibilità di coinvolgere nel processo le vittime dei reati commessi: persone fisiche e giuridiche.
I MODULI PER LE RICHIESTE
Durante l’indagine da parte del procuratore della Cpi, ogni vittima può contattarlo attraverso la risorsa web speciale e fornire le prove raccolte di crimini di guerra di cui si è stati vittima o testimoni. Per procedere (di persona o tramite rappresentanti) le vittime devono presentare domanda di partecipazione utilizzando il modulo standard rinvenibile sul sito della Corte secondo le istruzioni reperibili nel sito web Victims International criminale court.
Anche in questo procedimento è ammessa la costituzione di parte civile per ottenere la condanna al risarcimento dei danni.
La Corte prevede anche la possibilità di liquidazioni provvisionali attraverso il Fondo fiduciario per le vittime. A seguito dell’appello alla Cpi da parte di 39 Stati membri della Cpi, il procuratore della Cpi stessa, Karim Khan, ha avviato le indagini sui crimini commessi dalla leadership militare e politica russa in Ucraina.
Anna Zafesova per “La Stampa” il 24 Maggio 2022.
Nel "Servo del popolo", la brillante serie comica che ha portato al potere Volodymyr Zelensky, c'è una scena esilarante, con gli oligarchi avversari del presidente onesto che giocano a un Monopoli disegnato a forma dell'Ucraina, contendendosi porti, miniere e fabbriche. Ieri a Davos il leader ucraino ha proposto una nuova versione di questo gioco alla business community del mondo intero.
Ogni Paese, città o società estera potrà "adottare" una regione, o un settore industriale dell'Ucraina, per partrocinarne l'immensa opera di ricostruzione postbellica, una partita valutata per ora - a guerra ancora lontana dalla conclusione, e in maniera totalmente approssimativa - in 500-600 miliardi di dollari.
Un disastroso buco senza fondo, che però potrebbe diventare anche l'affare del secolo, con un nuovo piano Marshall, che l'Occidente e in particolare l'Europa probabilmente finanzieranno e garantiranno, almeno in parte.
Molti hanno ricordato in questi mesi il passato di attore di Zelensky, per spiegare la sua immensa abilità nella comunicazione, che gli ha fatto vincere con grande distacco la classifica dei personaggi più importanti dell'anno votata dai lettori della rivista Time.
Pochi si ricordano che il presidente ucraino è anche un imprenditore di successo: i film e le serie creati dalla sua casa di produzione sono tra i campioni di incassi, anche in Russia. Sa benissimo che parlare agli imprenditori di diritti, di libertà, dei morti di Bucha, significa parlare a loro come persone, ma non ai loro bilanci, ai dividendi che devono versare ai loro azionisti e agli stipendi che devono pagare ai loro dipendenti.
E così sceglie di parlare da uomo d'affari e dire loro che il mio Paese diventerà il più grande progetto infrastrutturale e tecnologico dell'Europa. Chi arriva prima si prende il meglio (è da qualche settimana che gira la voce che la ricostruzione di Kyiv e regione verrà patrocinata dal Regno Unito, un diritto di prelazione conquistato da Boris Johnson con il suo appoggio militare e politico).
Ma ci saranno ricche occasioni di investimento per tutti: bisognerà ricostruire ponti che ora vengono fatti saltare, magazzini centrati dai missili russi, fabbriche devastate dalle bombe e quartieri interi rasi al suolo. Bisognerà ricoltivare campi bruciati e rimettere in piedi scuole e ospedali inceneriti, riasfaltare strade sbriciolate dai cingolati dei carri e ricostruire da zero gli aeroporti, colpiti dai missili russi già nelle prime ore.
Un cantiere immenso, in un Paese che ha appena dimostrato di avere una capacità di mobilitazione e una popolazione preparata, con la guerra che potrebbe far esplodere, tra tante altre cose, anche le reti di complicità corrota degli oligarchi.
Zelensky promette particolari privilegi alle società che esitano ancora ad uscire dal mercato russo, e ai Paesi che temono di voltare le spalle a Mosca, forse anche a quella Cina la cui delegazione a Davos è l'unica a non applaudire in piedi il suo discorso. Si rivolge proprio a quei seguaci della "real politik" che - come lui sa benissimo - stanno premendo oggi sui governi per fermare gli scontri, concedere a Putin pezzi di Ucraina per "salvare la faccia" e togliere almeno una parte delle sanzioni contro la Russia per tornare a farci affari.
Il suo messaggio ai giocatori del Monopoli è straordinariamente pragmatico: mentre il rischio Paese della Russia è alle stelle, il piano Marshall ucraino potrebbe diventare un motore propulsivo di portata continentale di cui si sentiva il bisogno, e sul quale si sta già lavorando, a Kyiv come a Bruxelles e Washington. Chi deciderà di restarne fuori rischia non solo di puntare su un alleato imbarazzante, ma di fare anche un calcolo sbagliato.
Da La Repubblica il 12 Maggio 2022.
Costretto a chiudere l'azienda si toglie la vita nel suo ufficio bevendo acido muriatico. E' successo a San Clemente, nel Riminese. L'uomo si chiamava Claudio Fiori, aveva 60 anni, ed era il titolare della Sce elettronica, azienda specializzata nei quadri elettrici.
Secondo quanto emerso, l'uomo ha ingerito martedì nel tardo pomeriggio una massiccia dose di acido muriatico per poi chiamare lui stesso il 118. È stato proprio lui, forse perché colto da un ripensamento, a chiamare l’ambulanza, che si è precipitata sul posto. Ma Claudio Fiori non ce l'ha fatta: è morto nella notte all’ospedale Infermi, dove era stato ricoverato con il codice di massima gravità.
"Era un brav’uomo, una persona dedita al lavoro e alla famiglia – lo ricorda il vice sindaco di Montescudo – Monte Colombo, Simone Tordi ai giornali locali–. La morte di Claudio è una notizia terribile, arrivata come un fulmine a ciel sereno. Mi stringo al dolore della famiglia in un momento così tragico".
Da qualche giorno aveva dovuto licenziare tutti i suoi dipendenti a causa, pare, di forti difficoltà dovute al rincaro delle materie prime, al caro bollette e al difficile reperimento dei materiali. Ad aprile aveva utilizzato la cassa integrazione ma entro maggio aveva annunciato la chiusura definitiva della fabbrica.
Estratto dell’articolo di Brunella Giovara per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.
[…] Il porto più importante del mar Nero, anche per questo Putin vuole Odessa. Nulla parte, nulla arriva. La flotta russa è al largo, il mare è minato, l'export è bloccato. Il prezioso grano ucraino che sfama l'Europa è nei silos.
E sfama anche il mondo. Questa guerra distruggerà Paesi che dipendono totalmente da Ucraina e Russia: la Somalia, oltre il 90 per cento, il Congo (80), il Madagascar. L'ultimo rapporto di Onu, Unione europea e Fao dice che le persone che nel mondo soffrono la fame acuta sono quasi 200 milioni, 40 milioni in più rispetto allo scorso anno.
«A noi il grano lo rubano i russi», ha detto il viceministro dell'Agricoltura, Taras Vysotsky, ed è quello che nutre una nazione. Secondo il governo 400mila tonnellate sono già state portate via dai territori occupati, le regioni di Zaporizhzhia, Kherson, Donetsk, Lugansk. Treni carichi che se ne tornano in Russia, gli ucraini li vedono passare e contano la ricchezza che se ne va. La cifra corrisponde a un terzo di quello stoccato, e «se i furti continueranno, queste regioni saranno ridotte alla carestia».
Si chiama strategia della fame. Tutto questo è già successo, ed è stata una sciagura così grande che la si ricorda il 23 novembre con cerimonie meste, candele accese, messe funebri. La Grande Carestia, l'Holodomor. Significa "morire di fame", e così morirono milioni di ucraini tra il 1932 e il 1933.
Nelle stesse città che oggi vediamo massacrate dalle bombe, le strade erano piene di cadaveri di gente morta di consunzione. La foto simbolo, una bambina scheletrica in una strada di Kharkiv. Stalin aveva deciso di collettivizzare molte aree agricole dell'Unione Sovietica, a partire dal "granaio d'Europa".
Gli ucraini si opposero. I kulaki, che erano i piccoli proprietari terrieri, fecero resistenza. Meglio uccidere il bestiame che darlo ai kolchoz, pensarono. La repressione fu brutale. Ci furono le requisizioni, i sequestri di cibarie e interi magazzini di grano, tutto finì ai russi, e «noi ucraini siamo morti in 4 milioni, più o meno», racconta una signora seduta sulla panchina assieme alle amiche Alina e Valeryia. […]
Gas russo: il vero prezzo da pagare per la rinuncia. Milena Gabanelli e Rita Querzè su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.
È noto da tempo: per accelerare la fine del conflitto i Paesi Ue dovrebbero smettere di finanziarlo rinunciando a gas e petrolio russo. La ricaduta economia però sarebbe altissima, anche se nessuno ha mai spiegato concretamente «quanto alta», a fronte del prezzo che stiamo già pagando sotto forma di sanzioni, assistenza ai profughi e incognite di una escalation. Oltre a quello incalcolabile delle vite umane.
(...) per accelerare la fine del conflitto i Paesi Ue dovrebbero smettere di finanziarlo rinunciando al gas e al petrolio russo.
Cosa si rischia davvero
Tra gli scenari contenuti nell’ultimo Documento di economia e finanza del governo, ce n’è uno in cui si ipotizza per l’Italia lo stop degli approvvigionamenti di gas e petrolio dalla Russia. Si stima una carenza pari al 18% delle importazioni complessive nel 2022 e al 15% nel 2023. Il primo effetto è il razionamento e il conseguente aumento del prezzo. Dai circa 100 €/MWh di fine marzo si potrebbero superare i 220 €/MWh tra novembre 2022 e febbraio 2023. Quindi un ulteriore rialzo a catena dei prezzi che si riversa sulle attività economiche, sui consumi, sull’occupazione. L’inflazione vola a quota 7,6% e, a fine anno, la crescita del Pil si attesterebbe sullo 0,6%, e nel 2023 allo 0,4%. Le previsioni del governo si fermano qui.
Quanto cresce la disoccupazione
A dare un senso a questi numeri ci aiuta l’economista Paolo Onofri, presidente di Prometeia Associazione. Partiamo dal Pil: quest’anno abbiamo già accumulato 2,2 punti di crescita sulla media del 2021; chiudere il 2022 con un +0,6% di media vuol dire perdere nella seconda metà dell’anno tutto il vantaggio accumulato. Avremmo trimestri con segno negativo, con un crollo del Pil nella seconda metà di quest’anno del 2,5%. Uno shock che comporta la perdita di 1,3 punti percentuali di occupazione nel 2022 e di 1,2 punti nel 2023. In concreto: circa 293 mila perderebbero il posto di lavoro quest’anno, e altri 272 mila l’anno prossimo.
(...) circa 293 mila perderebbero il posto quest’anno, e altri 272 mila l’anno prossimo.
I più colpiti
Partiamo dalle famiglie che dovranno affrontare il caro riscaldamento e l’impennata dei prezzi alimentari: due spese incomprimibili. Già nel 2020 quelle con i redditi più bassi mobilitavano il 37,7% del loro bilancio per energia, carburanti, riscaldamento e alimentari, contro il 21,4% delle più ricche. Oggi, secondo stime dell’Direzione Studi e Ricerche Intesa SanPaolo, il quinto più povero delle famiglie spende il 48% del reddito per energia e alimentari contro il 27% delle più benestanti. Vuol dire che 5 milioni di nuclei non riusciranno quest’anno a coprire le spese primarie con i propri redditi. Dal 1 aprile è stato alzato a 12.000 euro il tetto Isee dei nuclei che vengono aiutati. Avranno diritto a uno sconto annuo su luce e riscaldamento. Ne potranno usufruire anche le famiglie con più di quattro componenti e un Isee fino a 20.000 euro. Sono in tutto 34 miliardi i soldi messi in campo per far fronte allo stato attuale delle cose. Ma in uno scenario che vede una riduzione delle forniture del gas russo cresce il numero delle famiglie in difficoltà, e il quadro peggiora ulteriormente per le imprese più energivore come fonderie, vetrerie, ceramiche e cartiere a rischio chiusura per i prezzi troppo alti di gas ed elettricità. A cui si aggiungono le aziende alimentari colpite dall’embargo russo su grano, mais e fertilizzanti.
Quanto serve per compensare lo shock
Il Def dice che di fronte a questo scenario si risponderà con una «robusta manovra di sostegno». In concreto, secondo il professor Onofri per compensare la caduta del Pil, servirebbe una spesa aggiuntiva di 40 miliardi nel 2022, e 40 nel 2023. Queste risorse potrebbero bastare, ma a condizione che vengano indirizzate verso chi ne ha realmente bisogno, cioè le famiglie meno abbienti e le imprese non in grado di fronteggiare prezzi, inflazione, calo dei consumi. E aiutare un’impresa a superare la crisi può costare meno che pagare la cassa integrazione a chi ha perso il lavoro. Il primo nodo è dunque quello di non disperdere denaro pubblico elargendo anche a chi può farcela da solo.
Gli errori da non ripetere
Per calmierare i costi delle bollette sono stati stanziati finora 24,1 miliardi. Di questi 2,8 destinati alle famiglie a basso reddito sotto forma di bonus sociale, 3,8 per sussidi a imprese energivore, 2,7 per ridurre le accise sui carburanti, 1,2 a favore dell’ autotrasporto e agricoltura, 1,8 per ridurre l’Iva sul gas, 11,8 miliardi per cancellare gli oneri di sistema dalle bollette. Ebbene, in realtà almeno una decina stanno andando indiscriminatamente a tutti. Prendiamo gli oneri di sistema: non li paga più la famiglia in difficoltà, ma nemmeno quella benestante e l’impresa che fa profitti. Non li paga chi ha un contratto di libero mercato a tariffa fissa e finora non è stato toccato dai rincari. Fare sconti a tutti non è solo una ingiustizia sociale, ma anche sbagliato sul piano economico perché non incentiva chi può a ridurre i consumi.
Lo scandalo Irap
Le imprese in sofferenza vanno sostenute. Abbiamo aiutato anche quelle che non lo erano. Due anni fa, quando è esplosa l’emergenza Covid, il governo Conte ha deciso che il saldo Irap per il 2019 e l’acconto 2020 andavano cancellati a tutti i soggetti con fatturato sotto i 250 milioni di euro. Dentro al mancato gettito di 3,9 miliardi c’era anche chi stava lavorando a pieno regime, come le aziende farmaceutiche, quelle della logistica, della grande distribuzione, dell’immobiliare. E nemmeno a posteriori hanno dovuto saldare il conto. In tutte le emergenze c’è chi rischia il fallimento e chi aumenta il business. Non possiamo più permetterci di non distinguere gli uni dagli altri, visto che i mezzi ci sono: basta incrociare le banche dati. Finora è mancata la volontà.
Le imprese in sofferenza vanno sostenute. Abbiamo aiutato anche quelle che non lo erano.
Dove trovare i 40 miliardi
Se i 40 miliardi l’anno fossero tutti presi a debito, il rapporto tra debito e Pil non passerebbe dal 151% dello scorso anno al 147% nel 2022 come previsto nel Def, per poi scendere gradualmente fino al 141% nel 2025, ma rimarrebbe al 149% quest’anno e al 145% nel 2025.
Significa caricare sulle nuove generazioni una pesantissima zavorra. Ha senso quindi considerare altre strade: 1) attingere al maggior gettito fiscale generato dall’inflazione; 2) tassare gli extraprofitti delle società che producono energia (il governo è già intervenuto con un prelievo del 10%, ora si parla del 25%, e in uno scenario dove il gas viaggia a 220 euro per MWh il margine d’azione sarebbe decisamente maggiore); 3) recuperare almeno un po’ di quei 31 miliardi di Iva che l’Italia evade ogni anno, la più alta d’ Europa; 4) sui conti correnti presso le banche estere oltre 3 milioni di italiani hanno depositato 200 miliardi, chi non è in regola con il fisco è ora che saldi il conto. La lista con i nomi è sul tavolo dell’Agenzia delle Entrate da 4 anni.
L’imposta di scopo
Alla fine, se tutto questo non bastasse, va spiegato a quel mezzo milione di contribuenti con redditi sopra i 100.000 euro che è necessaria una imposta di scopo limitata al 2022 e 2023. Il terreno è tabù. Ed è comprensibile: le tasse di scopo introdotte nel 1963 per il disastro del Vajont, nel 1966 per l’alluvione di Firenze, nel 1968 per il terremoto del Belice, nel 1976 per quello del Friuli, nell’80 per quello dell’Irpinia, per la missione in Libano nel 1983 e per quella in Bosnia nel 1996 sotto forma di accise sui carburanti non sono mai state tolte. Ma se vogliamo essere solidali nei fatti, la strada va considerata. In alternativa si può, come al solito, lasciare ai nostri figli il conto da pagare.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 21 aprile 2022.
E di nuovo torna la fatale domanda: sì, ma chi controlla? Con un emendamento al Decreto Bollette, chiamato Operazione Termostato (credo si noti il retroterra culturale di Ciccio e Franco), il Parlamento ha introdotto l'obbligo negli uffici pubblici di non abbassare i condizionatori sotto i 27 gradi d'estate e di non alzarli sopra i 19 d'inverno, con due gradi di tolleranza, ovvero 25 col caldo e 21 col freddo. Si conta di risparmiare fino a quattro miliardi di metri cubi di gas, tutti soldi in meno nelle tasche del famigerato Vladimir.
La legge potrà piacere o no, ma l'immediata reazione, densa di sarcasmo, è stata la solita, desolante domanda: e chi controlla? In questo paese abbiamo un'attitudine alla democrazia pari a quella degli australopitechi. Appena arriva una legge, ci sguinzagliamo come cani da fiuto alla ricerca della sanzione e del controllore, probabilmente per capire se sia facile o conveniente aggirarla.
In una democrazia - poiché la democrazia la fanno le istituzioni ma soprattutto i cittadini - si stabilisce una norma e si presuppone che sarà rispettata. Una norma non è un ordine, è una regola di convivenza civile a cui tutti si atterranno, si spera, anche chi non la apprezza, se non altro per senso di responsabilità. Come è già capitato di scrivere, per guidare serve la patente, sebbene nessuno controlli che ne siate provvisti: chi lo ha deciso, vi reputa adulti e coscienziosi, non dei dodicenni a cui tirare le orecchie. Sono altri i sistemi politici che considerano i cittadini delle pecorelle da menare al pascolo: se avete bisogno di sapere chi vi controllerà, avete bisogno di Putin.
Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 15 aprile 2022.
Ogni guerra ha i suoi «furbetti». E c'è un motivo se il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica si appresta a intervenire: vuole verificare le informazioni che alcuni suoi rappresentanti hanno ricevuto nei giorni scorsi da autorevoli esponenti di Confindustria, secondo i quali aziende italiane starebbero «aggirando il pacchetto di sanzioni» contro la Russia.
Il segretario del Copasir Ernesto Magorno fa sapere che porrà la questione al plenum del Comitato già la prossima settimana, «perché in una fase tanto delicata della crisi ucraina è fondamentale garantire l'applicazione delle misure decise dall'Occidente nei confronti di Putin».
Così l'organo parlamentare accenderà un faro sul sistema fraudolento che - secondo le notizie ricevute per via informale - ruoterebbe attorno al meccanismo delle «triangolazioni» con Paesi dell'ex Unione Sovietica.
Il trasferimento dei prodotti a Mosca verrebbe garantito da «finanziarie e società costruite ad hoc» che operano in Tagikistan, in Azerbaigian e soprattutto in Kazakistan: i beni - venduti formalmente ad aziende di Paesi che non sono sottoposti a sanzioni - verrebbero poi girati alla Russia, che sarebbe la vera destinataria del contratto. È un sistema già sperimentato ai tempi dell'embargo contro l'Iran, quando a «triangolare» era la Turchia. E che si è protratto durante le precedenti sanzioni contro Mosca.
«Atteggiamenti che in passato venivano tollerati, ora non lo sono più», avvisa Enrico Borghi: «Evidentemente - spiega il rappresentante del Copasir - c'è chi non ha compreso che dopo il 24 febbraio è cambiato il quadro geopolitico», è cambiato cioè radicalmente l'approccio con la Russia di Putin e «certe cose non sono più consentite. Anche perché sono motivo d'imbarazzo, siccome minano la credibilità del nostro Paese».
È un modo per spiegare che in questa fase c'è un'azione di forte coordinamento tra Paesi alleati e che simili informazioni vengono condivise: il sistema illegale delle «triangolazioni» è una delle attività maggiormente monitorate. Ora toccherà anche al Copasir, presieduto da Adolfo Urso. Il Comitato ha poteri di controllo incisivi: può avvalersi della collaborazione dei servizi, della magistratura, dell'amministrazione pubblica.
La ricerca dei «furbetti» dovrebbe iniziare dal Kazakistan, grande serbatoio di petrolio e gas, che definisce l'Italia «il primo partner» tra i Paesi dell'Unione Europea. Prima della gelata causata dalla pandemia, lo scambio commerciale era in costante ascesa: le esportazioni italiane superavano il miliardo di euro. In quel pezzo di Asia - insieme a piccole aziende che hanno trovato spazio di mercato - operano colossi dell'energia, grandi brand della moda, marchi famosi delle attrezzature sportive e dell'alimentare, imprese di costruzioni, della meccanica, della farmaceutica, delle infrastrutture e dei servizi. I comparti più redditizi - secondo l'Istituto per il commercio estero - sono quelli delle apparecchiature domestiche, dei macchinari e della metallurgia.
E negli anni passati (quasi) tutti i politici italiani facevano sempre scalo nel ricchissimo Kazakistan quando viaggiavano verso Oriente. La guerra ha cambiato repentinamente le regole del gioco, destabilizzando la globalizzazione e quel sistema che - in qualche modo - c'è chi vorrebbe far sopravvivere attraverso vecchi escamotage come il meccanismo delle «triangolazioni». A denunciarlo sono stati alcuni imprenditori. Gli esponenti di Confindustria che hanno poi deciso di rivolgersi al Copasir non intendono commentare le indiscrezioni. Ma di fatto confermano il contatto con i membri del Comitato parlamentare, servendosi di una citazione di Lenin: «I capitalisti ci venderanno la corda con cui li impiccheremo».
Domenico Quirico per “la Stampa” il 13 aprile 2022.
Mi faccio volontario per una constatazione sgradevole, sommamente impopolare: in Italia non abbiamo ancora preso coscienza della gravità di quanto sta accadendo in Ucraina e delle conseguenze «globali», si dice così, sul mondo che verrà. Siamo immersi, dopo quaranta giorni di guerra furibonda, ancora nel nostro confortevole e immobile mondo di ieri. Che è già defunto, sconvolto da ininterrotte scosse vulcaniche proprio in questa terra europea, murato nelle tenebre.
Eppure ogni giorno abbiamo davanti le immagini per comprendere, basta aggiungere le didascalie. Nel Donbass urti di uomini e di mezzi corazzati quali non si vedevano dalla battaglia di Kursk tra tedeschi e russi nella Seconda guerra mondiale (è luogo per combinazione non lontano dalla geografia di questo conflitto, stesse pianure infinite, stesse isbe povere, stesso selvaggio furore); sono già in campo le armi di tutti i contendenti compresi quelli che per ora sembravano stare alla finestra; le possibilità di tregua sono scomparse, sono funebri rimorsi.
Il mondo che verrà sarà feroce, coperto di ferro, diviso da muri di avversioni profonde, l'Asia russo cinese contro l'Occidente americano, con le rispettive dipendenze, e coloro che guideranno il nuovo «impero del male» non saranno tipi alla Breznev e come il manieroso Xi Jinping ma assomiglieranno a Kadyrov il ceceno e a Kim Jong-un, il coreano delle Bombe.
La globalizzazione è già materia da trasferire agli storici, nasceranno economie belliche ferocemente concorrenti con cui bisognerà fare i conti, ognuna con la sua moneta, fortilizi autarchici in cui non si potrà entrare con i vecchi grimaldelli del «made in». La cultura indosserà la maschera dell'odio, ci sono già i segni, e non sarebbe purtroppo la prima volta. I musei degli uni e degli altri saranno purificati dai «prodotti del nemico», «decadenti» o «immorali», le partiture musicali censurate, i libri divisi in patriottici e pericolosi, gli autori espunti dal passato comune. Dimenticatevi che si canteranno le stesse canzoni o si guarderanno gli stessi film.
Se già da qualche tempo aveste controllato la produzione media, di massa della cinematografia russa e cinese avreste avuto delle sorprese: «peplum» storici stile kolossal con le eroiche vittorie sugli invasori stranieri e i traditori autoctoni, o «action» con rambo versione locale. Un mese fa pensavamo fosse una guerricciola ancora abbastanza lontana dai confini, non si sentivano le cannonate in fondo, in poche settimane tutto sarebbe finito e si poteva riprendere la solita monotona Storia.
Un abbaglio allora comprensibile. Perché «da noi» è ancora così? Di chi la colpa?
Ascolto i giornali radio: c'è una frattura che toglie il fiato tra le notizie abbondanti, terribili della guerra, le minacce ormai aperte tra Russia e Occidente, e quello che segue che dà conto della politica italiana.
Siamo testimoni di inaudite metamorfosi mondiali ma il governo nei suoi massimi rappresentanti, il premier e i due ministri degli Esteri, quello vero e l'amministratore delegato di Eni, è impegnato in un affannato tour per sedurre e riempire di soldi alcuni discutibili Paesi africani alla ricerca di petrolio e gas. I contratti vengono salutati come vittorie campali sull'esercito di Putin. I partiti intanto, a casa, si dedicano con furore vichingo allo scontro sul problema quasi secolare della separazione delle carriere dei magistrati. Tutti sanno che poi tanto si «troverà la quadra» come si dice con italiano orribile.
Il dibattito sull'aumento delle spese militari che pure era una fondamentale occasione non solo di una riflessione politica sul riarmo ma anche sulla preparazione dell'esercito in caso di necessità, è affondato nell'astuto stratagemma italiano, in uso dalla proclamazione del regno nel 1861: rinviare il tutto alle calende greche, diluire, assumere ma in modo omeopatico. Tutti felici contenti del si vedrà. Tra poco soldati italiani saranno schierati alle frontiere della Russia nell'esercito della Nato. Non è la solita operazione di peacekeeping con il casco blu in qualche savana o deserto per distribuire sacchi di farina. È la cosa più pericolosamente vicina alla guerra dal 1945. Se ne parla politicamente come se fosse una delle tante esercitazioni.
Si può sperare che la Terza guerra mondiale non divampi in modo esplicito. Ma chi comanderà la economia, i rapporti politici, la diplomazia della nuova guerra fredda nel nostro campo? Americani e inglesi? E l'Unione europea? I tedeschi con il loro nuovo possente esercito, che segna la fine dei rimorsi del 1945? E ancora siamo pronti agli urti innumerevoli nel terzo mondo, spazio aperto per la guerra parallela, per il controllo dei poveri, delle materie prime, delle piccole tirannidi con cui fino ad ora abbiamo continuato a sfruttarlo? Ebbene lì partiamo svantaggiati, azzoppati dall'accusa spesso fondata di sfruttatori indifferenti, di amici disinvolti e bugiardi dei tiranni.
In Francia dopo il primo turno delle presidenziali ci si interroga su quel trenta per cento, forse più, di elettori che hanno votato per partiti che si sono schierati con la Russia.
La quinta colonna? Che faranno quando lo scontro sarà aperto, diretto? In Italia si fa la conta litigando di quanti sono gli arruffapopoli più o meno titolati che vanno in tv a recitare la parte dei dissidenti. I partiti con tentazioni putiniane in 24 ore si sono allineati, salvando la faccia e l'anima con dichiarazioni francescane di pacifismo e di ragionevolezza. Occupiamoci del gas…
È compito della politica dire la verità, con chiarezza, su cosa è in gioco, e sui sacrifici, giusti e indispensabili, per fermare l'aggressore, non trincerarsi dietro il minimalismo dei termosifoni. Le nostre generazioni, al contrario di quelle dei nostri padri, hanno avuto in occidente la possibilità di restare in disparte, di esimersi dalle guerre degli altri. Eravamo il posto in cui rifugiarsi, eravamo la pace conquistata.
Ebbene non sarà più così. Non saremo più il mondo della sicurezza. Prima parlavamo di pace e di guerra ma molti non sapevano di cosa stessero parlando. La pace con la globalizzazione e la cultura senza frontiere era una abitudine, era l'aria che ognuno respirava senza pensarci. La guerra era una parola, un concetto puramente teorico. Ora affrontiamo lo choc di questa rivelazione, apertamente.
Tagadà, Domenico Quirico furioso con Mario Draghi sul caso Regeni: inganna i genitori, vergogna.
Affari con l'Egitto di Al Sisi dopo l'omicidio di Regeni: rivolta contro le mosse di Draghi. Dalla Cina parte l'assalto all'Occidente: senza la Nato vivremmo in un mondo pacifico. Il Tempo il 14 aprile 2022.
L’Italia è a caccia di gas alternativo rispetto a quello della Russia e dopo aver bussato alla porta dell’Algeria adesso è il turno di un possibile accordo con l’Egitto. Nel corso della puntata del 14 aprile di Tagadà, talk show di La7 condotto da Alessio Orsingher in sostituzione di Tiziana Panella, è ospite il giornalista Domenico Quirico, che usa toni durissimi nei confronti del governo Draghi legando il tema dell’energia a quello dell’omicidio del giovane Giulio Regeni, assassinato in Egitto, un paese con cui ora l’Italia vuole fare affari dopo anni di depistaggi: “Trovo la vicenda Regeni assolutamente scandalosa. Due persone che hanno seguito il più tremendo degli urti che la vita e la morte gli può dare dal 2016 vengono ingannate sistematicamente, ma non dagli egiziani che lo fanno per principio loro, bensì da quelli che stanno in questo Paese, cioè i governo di questo Paese, che sono stati innumerevoli e tutti si sono occupati di questa vicenda. Ai genitori di Regeni gli si racconta che stiamo facendo tutto il possibile e anche un po’ di impossibile per ottenere la verità dall’Egitto, la condanna dei responsabili… Ma non è vero! Il problema doveva essere risolto all’inizio, andando a cercare il responsabile numero uno di questa storia, che è il presidente, dittatore, capo, boss di questo Paese e il ministro degli Interni. L’hanno preso, l’hanno torturato e ammazzato. È - martella il giornalista - inutile e ridicola questa cosa di farsi dare quattro indirizzi di manutengoli della violenza di Stato, pensando che quella sia la soluzione del problema. Non te li daranno mai, perché ovviamente li coprono. È stato lo Stato egiziano, non sono quattro tizi che hanno ammazzato uno per un altro”.
Lo Stato egiziano è - prosegue Quirico - colui che lo rappresenta e lo guida, denunciate Al-Sisi ad un tribunale internazionale, come bisogna denunciare Vladimir Putin per i crimini commessi dai suoi soldati in Ucraina. Lui non li ha impediti o puniti. È una cosa elementare, dire che state facendo il possibile per condannare gli assassini di Regeni è una bufala, una bugia. Gli assassini bisogna cercarli nella scala gerarchica di coloro che hanno ucciso materialmente questo povero ragazzo e coloro che hanno coperto e consentito questo diletto. Se non fate questo ai due poveri genitori di Regeni date soltanto delle chiacchiere ed è una cosa vergognosa”.
Domenico Quirico, Alessandro Sallusti: "Ciò che dovrebbe ricordare sul suo rapimento", realpolitik meglio dell'etica. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.
«Vogliamo la giustizia o i termosifoni?», ha scritto Domenico Quirico, firma di punta de La Stampa - indignato del fatto che il nostro governo si sia rivolto a quello egiziano per rimpiazzare almeno in parte il gas che vorremo non più comperare dalla Russia di Putin. Ma come, si chiede l'illustre collega, quel criminale di Abdel al-Sisi fa torturare e uccidere un nostro ragazzo, Giulio Regeni, ostacola le indagini della magistratura e noi, anziché punirlo, andiamo in Egitto con il cappello in mano e la valigetta piena di miliardi, implorandolo di aiutarci, dove è finito il senso di giustizia?
Detto che l'omicidio di Giulio Regeni e tutto quanto successo dopo ci fa orrore e ci indigna, il ragionamento di Quirico non fa una grinza in punta di etica, ma proprio lui dovrebbe sapere che ci sono casi in cui sull'etica assoluta si deve fare prevalere la ragione di Stato. Dovrebbe saperlo, perché lui fu al centro di un caso benedetto nella sostanza ma discutibile in quanto a etica. Nell'aprile del 2013 Quirico fu rapito in Siria da una delle bande di miliziani che si fronteggiavano sul campo. Fu liberato a settembre dietro il pagamento da parte del governo italiano di un riscatto di quattro milioni di euro (cosa ufficialmente negata ma accertata da inchieste indipendenti), soldi che i guerriglieri usarono in armi per compiere nuovi massacri. È evidente che in quella occasione abbiamo trattato col nemico (e pure pagato) ma non ho dubbi: tra la giustizia e la vita di Quirico il governo italiano ben fece a scegliere la seconda senza badare a questioni morali.
Oggi il compito del governo è salvare la vita economica di cittadini e aziende e liberare i nostri approvvigionamenti da chi - Putin - li tiene in ostaggio. Bisogna sporcarsi le mani e tapparsi il naso? Sì, anche perché - dove ti giri, ti giri - gas e petrolio sono in mano praticamente ovunque a banditi e tiranni. Ahimè non ci sono pozzi in Svizzera né in Liechtenstein. Del resto, già facciamo affari con Paesi, dalla Cina all'Algeria, che poco hanno a che fare con democrazia e rispetto dei diritti umani senza che Enrico Letta e compagnia si scandalizzino più di tanto. Lasciamo che Regeni riposi in pace; oggi in guerra - almeno in quella energetica - ci siamo noi e a salvarci non saranno retorica facile né moralismi buoni a riempire le bocche in tempi di pace e vacche grasse.
Carlo Bertini per “La Stampa” il 15 aprile 2022.
Dopo l'annuncio di un accordo per la fornitura di gas con l'Egitto, Enrico Letta la mette giù senza mezzi termini: «Mi lascia moltissimi dubbi. La vicenda Regeni è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Quindi è netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani».
E se Carlo Calenda gli chiede polemico «quali soluzioni» proponga e Antonio Tajani invece plaude al realismo, «perché sono un bene le forniture alternative alla Russia», il gelido silenzio di tutti i vertici istituzionali fa capire quanto il tema sia spinoso per il governo: a palazzo Chigi la critica del segretario dem viene vissuta con il disincanto di chi pensa che alla politica tocchi questo ruolo e all'esecutivo quello di mettere in sicurezza la dotazione energetica dell'Italia.
Ma nei vari dicasteri si registra notevole imbarazzo: c'è chi non apprezza il modo con cui la questione è stata gestita dalla Farnesina e chi addossa la croce a Palazzo Chigi, perché non si muove foglia che Draghi non voglia.
Dai piani alti del governo trapelano considerazioni di questo tenore: «Questo accordo - svela una fonte addentro al dossier - è stata gestita da Eni e ovviamente il premier ne è consapevole. Ma la differenza stringente tra questo caso e gli accordi con Algeria, Congo e Angola è che in questi tre Paesi si procede con intese istituzionali e politiche, mentre in Egitto no: c'è un contratto tra Eni e una società egiziana, come ce ne sono stati svariati in questi anni tra società italiane ed egiziane».
Ovvero, non c'è un ripristino di relazioni a livello istituzionale tra Egitto e Italia: questo il punto centrale. Anche se l'accordo riguarda uno dei maggiori giacimenti del mondo, quello di Zohr, la più grande scoperta di gas nel Mediterraneo, e 3 miliardi di metri cubi di gas liquefatto per il mercato Eni in Europa e Italia.
Dunque, lo stop di Letta si inserisce in un contesto complicato ed è lui il primo a dire «chi meglio di Draghi può gestire una partita così, è il primo a essere consapevole di tutte le implicazioni». Ma al tempo stesso nel momento in cui si tratta una grande vendita di gas, «il contenzioso serissimo con il regime di Al Sisi rischia di passare in sordina».
Se nel medio termine, bisogna investire sulle rinnovabili e costruire l'unione energetica europea, nel breve «non bisogna legarsi mani e piedi all'Egitto. Punto». Ma c'è poi un piano più strategico, così sintetizzabile: il problema energetico di questi mesi si può trasformare in opportunità. «È possibile una nuova centralità dell'Italia - dicono gli strateghi di Letta - perché se la Germania non può prendere gas russo, gli servirà gas africano, che passa da due Paesi: Spagna e Italia. Così il nostro Paese diventerebbe un hub e questo apre a uno scenario nuovo: il che significa un nuovo sistema di relazioni, che deve soppiantare la logica neocoloniale, se vogliamo stabilità».
Enrico Borghi, che del Pd è responsabile sicurezza, fa notare che «il tempismo sul caso Egitto è sbagliato e si incrocia con la vicenda Regeni. Insomma, non possiamo immaginare che il gas sia usato come arma di scambio sui diritti umani violati». In ogni caso l'affondo sull'Egitto non è una minaccia alla stabilità del governo, come quelle della Lega: l'annuncio di una trattativa separata della destra con Draghi e Franco sulla delega fiscale è vissuto come un'escalation pericolosa e il numero due del Pd Peppe Provenzano, sbotta: «Da parte nostra c'è grande irritazione, non esiste che riscrivano loro la norma. Hanno dato vita a una sceneggiata e bisogna evitare di dargli occasioni di fare propaganda». Anche qui, il premier è avvisato: pari dignità nella maggioranza e nessun cedimento.
Gas, ci mancava Giulio Regeni: il "no" all'Egitto di Enrico Letta, il democratico del Cairo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.
Doverosa premessa. Certo andrebbe -metaforicamente- spalmato di napalm quell'Egitto che nega alla magistratura italiana e alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni gl'indirizzi degli indagati dell'omicidio del nostro ricercatore. E un sudario di ipocrisia copre questa penosa faccenda. E abbracciamo tutti Claudio e Paola Regeni sopravvissuti alla morte contronatura di un figlio; e faremmo ingoiare gli sgherri di Al Sisi dalla fiamme di centomila inferni.
Detto ciò, come facciamo col gas egiziano? Tenendo conto che le parole d'ordine del governo sarebbero «renderci autonomi dai russi» e «differenziare gli approvvigionamenti» (ma in modo capillare, onde evitare di sostituire al Cremlino un altro fornitore dominante, ché saremmo daccapo), come dovremmo comportarci, noi, col Cairo col quale Draghi tratta per 2/3 miliardi metricubi di forniture di gas?
L'ottimo Enrico Letta ha «moltissimi dubbi». «La vicenda Regeni va oltre la singola vicenda personale drammatica, è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani», dice. E a lui si accodano i suoi. O i renziani come Massimo Ungaro della Commissione Regeni il quale, giustamente inviperito ci chiede di rivolgersi per l'approvvigionamento energetico «all'Azerbaigian e all'Algeria». Ma l'abbiamo già fatto, in realtà. E con l'Algeria qualcuno a sinistra ha storto il muso sul costo eccessivo del rifornimento.
Mentre sul petrolio dall'Azerbaigian -il nostro primo fornitore- molti hanno sollevato le eccezioni di un paese «poco democratico che stringe accordi con l'Iran» già, peraltro, ufficialmente considerato poco democratico di suo. Insomma l'Eni, chez Draghi, firma col Cairo un accordo quadro che «consente di massimizzare il gas e le esportazioni di Gnl»; e il Pd, nella figura del suo capo, è per la linea dura con la Russia. Ma lo è anche un po' con l'Arabia Saudita, con la Libia, e con tutti quegli Stati che si macchiano di etica incerta. E siamo d'accordo, caro Enrico, anche sul fatto di interrompere il prima possibile la perversa dipendenza energetica con Mosca.
Però, appunto, gli Stati nordafricani non vanno bene. Ci siamo girati un attimo e la Turchia e la Russia stessa ci hanno fregato il controllo del petrolio libico. Potevamo ottenere il gas attraverso il pipeline Eastmed che partiva da Israele e Cipro; e qualcuno ha preferito esser dissuaso da Biden, il quale pretendeva di attivare il russo North Stream 2 (col senno di poi, gli avessimo dato del tutto ascolto, saremmo morti).
E, tra i partiti di governo ce ne fosse uno che insistesse davvero sul tetto al costo del gas e sulla richiesta di trasparenza nell'offerta; magari, lì, ci accorgeremmo che la civile Norvegia ci vende gas a 100 euro al megawattora ma lo produce a 10 euro, e nessuno capisce bene perché.
Per non dire degli anatemi contro chi soltanto si azzarda a discutere di riattivare le trivelle nel Mar Adriatico e nel Mar di Sicilia, un bacino di 350 miliardi metricubi di gas, e ora ne estraiamo solo 4 miliardi (il resto se lo fregano la Croazia e l'Albania). Inoltre c'è la faccenduola del nucleare, a cui si oppongono sinistra e 5 Stelle in blocco solo ad evocarlo, e noi certo qui non ci ripeteremo, pure se comprare l'energia dalla centrali francesi e svizzere ha un che di dadaista. Insomma caro Enrico, detto col cuore in mano: se il nostro fabbisogno dalla Russia è di 29 miliardi di metricubi di gas e se non va bene nulla, dove e come cavolo andiamo a differenziare? Forse, allora, ha ragione Carlo Calenda di Azione quando afferma: «Enrico Letta, vuoi lo stop immediato e totale al gas russo ma non vuoi il gas egiziano perché l'Egitto viola i diritti umani.
Però non vuoi neanche il carbone per sostituire il gas russo, perché inquina. Hai una soluzione o facciamo solo retorica?». E forse non ha torto -anzi senza forse- Stefano Fassina di Leu: «Russia, Egitto, Arabia Saudita, finché non arriviamo all'autosufficienza energetica è davvero complicato rimanere esclusivamente sul terreno etico. Siccome Regeni è italiano l'Egitto no, ma l'Arabia Saudita si' perché Khashoggi è saudita? Quando acquistiamo gas dall'Egitto, non siamo noi che facciamo un favore ad Al Sisi. È lui che lo fa a noi. Se noi non lo compriamo, ha la fila fuori la porta. Ai fini sacrosanti di avere giustizia per Regeni è assolutamente inutile. Dobbiamo trovare canali efficaci».
Canali efficaci, appunto. Quello della cocciuta opposizione a sinistra intesa come un riflesso pavloviano, be', caro Enrico, forse non è la migliore delle risposte...
Filippo Facci per "Libero Quotidiano" il 16 aprile 2022.
Giusto. Il noto criminale egiziano Abdel al-Sisi - condannato in giudicato dal web - fa torturare e uccidere Giulio Regeni e quindi non possiamo, ora, riempirlo di miliardi solo per avere quel gas che rifiutiamo dall'altro noto criminale a capo della Russia. È una questione di decenza, non c'entra la realpolitik. Dev' esserci un limite, e questo limite sono i diritti umani. È di questo, di diritti umani, che Mario Draghi è andato a discutere l'11 aprile scorso in Algeria: non di gas.
Dalla nazione più grande del Nordafrica, pare, potrà passare una fornitura di miliardi di metri cubi l'anno di metano, e pazienza se il nostro premier non ha potuto discutere anche con Faleh Hannoudi, che è proprio il presidente della sezione locale della Lega per i diritti umani: gli algerini infatti l'hanno arrestato il 20 febbraio e condannato a tre annidi carcere per un reato gravissimo, cioè un'intervista che aveva rilasciato al canale televisivo Al Maghibiya. È un peccato che lui non sia divenuto un'icona come Giulio Regeni, o che semplicemente non sia italiano. Mario Draghi però non sa che cosa rischia, comportandosi così: è probabile che l'inverno prossimo, il gas algerino, gli italiani non lo vorranno.
Gli italiani, a loro volta, non sanno che la mancata qualificazione della nazionale al Mondiali di calcio, in realtà, è dovuta al mancato rispetto del Qatar per i diritti umani.
E' una nazione in cui i diritti dei lavoratori migranti, impegnati proprio nella costruzione delle infrastrutture e degli impianti sportivi, sono stati orribilmente vilipesi con violenze e sfruttamento.
È una nazione che da anni sostiene ufficiosamente anche i gruppi islamici radicali in tutto il mondo (anche se il loro governo non lo ammette) e insomma, lo sanno tutti che il Qatar sostiene gruppi islamisti anche in Siria, Iraq, Libia e Afghanistan, quindi mica potevamo andarci, anche perché peraltro ci saremmo trovati a giocare il campionato del Mondo con la nazionale dell'Iran, altro stato che di recente, per dire, ha tenuto le sue donne tifose fuori dallo stadio e ha usato lo spray urticante. Si era addirittura letto che la Fifa voleva prendere dei provvedimenti, e che la nazionale iraniana avrebbe potuto essere squalificata e la nostra nazionale di conseguenza ripescata, ma è una cosa che non va fraintesa: le residue speranze dei tifosi italiani erano votate solo al rispetto dei diritti umani in Iran, erano tutti indignati, cioè, per i 2.000 biglietti messi a disposizione delle donne iraniane alle quali è stato impedito di entrare allo stadio. Non c'entra lo sport, così come in generale, parlando di Egitto, non c'entra il gas per alimentare i termosifoni o banalità del genere.
L'ETICA PRIMA DI TUTTO Allo stesso modo non si può credere che il premier Mario Draghi sia passato e passerà dalla Repubblica del Congo e dall'Angola se non per mettere pressione sul rispetto dei citati diritti umani, che in quest' ultime nazioni, a loro volta, è vagamente inesistente. Non si può crederlo, perché sarebbe come pensare che l'indignazione per le violazioni dei diritti umani di Vladimir Putin riesca meglio rimanendo al caldo piuttosto che al freddo, e che allora si passi, banalmente, dall'appoggiare alcune violazioni al posto di altre.
Sarebbe puerile.
Ci sono dei limiti che non possono essere superati: l'Arabia, per esempio, di recente ha scoperto nuovi giacimenti di gas naturale al centro del Paese e nella parte orientale (l'ha riferito la Saudi Press citando il ministro dell'Energia) ma all'Occidente questo non interessa, così come - è noto anche questo - non è mai interessato a nessuno il petrolio arabo: in Occidente sono tutti troppo indignati per l'assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, quello che era entrato nel consolato dell'Arabia Saudita di Istanbul - ricorderete - e che da allora risulta scomparso.
È accaduto in un contesto dove il governo saudita (chiamiamolo governo) continua a reprimere il dissenso con arresti e processi iniqui che spesso terminano con lunghe condanne o con la pena di morte: per questo a nessuno ha mai acquistato il loro petrolio, e tantomeno, ora, potrebbe interessare il loro gas. Il pensiero fisso degli europei e degli italiani non è il gelo invernale: è Jamal Khashoggi. Esiste un'etica, a questo mondo. Non si tratta con l'Egitto del caso Regeni. Sarebbe come, per dirne un'altra, lasciare che il dittatore Recep Erdogan funga da mediatore dell'Occidente con Putin, e che si utilizzi un suo canale di dialogo con Mosca e con l'Ucraina: è impensabile. Non potrebbe mai accadere, e se vi hanno detto che sia avvenuto non dovete crederci.
Non è vero che la mediazione turca abbia portato i ministri degli Esteri di Russia e Ucraina a incontrarsi ad Antalya lo scorso 10 marzo: perché la Turchia non rispetta i diritti umani, e l'Occidente (e Amnesty International, il Pd, e tantissimi italiani) non sono disposti a passarci sopra, pensano a questo e non altro. Pensano al fatto che Erdogan ha incarcerato politici dell'opposizione, giornalisti e difensori dei diritti, pensano alle sue discriminazioni degli omosessuali, alle accuse di tortura e maltrattamenti. Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha notificato alla Turchia l'intenzione di avviare un procedimento per gravi infrazioni: come potrebbe, il presidente-sultano di uno Stato del genere, fungere da mediatore tra Ucraina e Russia?
Suvvia. Sarebbe come ospitare al centro di Roma una monarchia assoluta guidata da soli uomini, uno staterello in cui la nostra vita apparterrebbe a un dio o allo Stato, come nelle teocrazie islamiche o come nella vecchia Unione Sovietica. Non si scherza sui diritti umani. Per questo non commerciamo con la Cina o le lasciamo organizzare, chessò, le Olimpiadi. Sono i diritti umani a governare il mondo, la gente non pensa ad altro.
Alessandro Barbera per “La Stampa” il 16 aprile 2022.
«Il decreto firmato da Vladimir Putin sulle modalità di pagamento in rubli porterà a una violazione delle sanzioni adottate dall'Unione europea». Il gioco delle parti fra Bruxelles e Mosca sulle forniture di gas russo sta assumendo i contorni di una tragica farsa. Ieri i servizi giuridici della Commissione hanno formalizzato una decisione annunciata più volte. A meno di una retromarcia da parte dello Zar, la prossima riunione dei capi di Stato europei - a fine maggio - dovrebbe sancire lo stop all'importazione del metano russo. Non è però chiaro se la scadenza fissata ai primi del mese da parte del Cremlino verrà rispettata. Sempre ieri, nelle ore in cui la Commissione faceva filtrare il proprio orientamento, il portavoce di Putin Dimitri Peskov rilasciava una dichiarazione criptica.
«Per l'ampliamento dei pagamenti in rubli al momento non ci sono scadenze», senza chiarire se si riferisse a petrolio e carbone, o anche al gas. Una cosa è certa: a meno di uno stop improvviso alla guerra, con il passare dei giorni le probabilità che lo stop si realizzi davvero aumentano.
Il mandato di Mario Draghi al ministro Roberto Cingolani è di prepararsi entro l'autunno, ma in un settore come quello energetico significa domani. Per capirlo basta un dettaglio: dal primo aprile sono iniziate le aste dei nuovi stoccaggi, e due sono andate deserte. I prezzi sono troppo alti, dunque chi avrebbe interesse ad acquistare teme di farlo a prezzi molto più alti di quelli futuri. Per metterci una pezza, il governo ha dovuto introdurre incentivi, ma il livello delle nuove scorte è ancora al sette per cento.
Sostituire un terzo del fabbisogno di gas - circa trenta miliardi di metri cubi l'anno - non è semplice. L'accordo firmato da Draghi ad Algeri a inizio settimana vale un terzo di quel fabbisogno, ma nessun altro singolo fornitore sarà in grado di offrire altrettanto. Occorrono una somma di forniture minori, dall'Azerbaijan all'Africa. Alcuni di questi possono però essere forieri di problemi politici per la maggioranza. L'aumento delle importazioni dall'Egitto, ad esempio, oggetto delle proteste del Pd per via del caso Regeni.
O la necessità di derogare agli impegni del Green deal europeo. Durante l'ultima riunione a Palazzo Chigi, presenti Cingolani, il capo dei servizi segreti Franco Gabrielli e il numero uno di Enel Francesco Starace si è discusso della possibilità di far ripartire singole unità di centrali a carbone dismesse più o meno di recente. L'Enel ne ha a Brindisi, Venezia, nel Sulcis e a Civitavecchia. Secondo le stime di Nomisma Energia, entro il prossimo inverno la produzione di energia elettrica da carbone potrebbe essere raddoppiata, e così rinunciare a tre miliardi di metri cubi di gas, un decimo delle forniture russe.
Starace ha dato la sua disponibilità a procedere, Cingolani non ne vuole sapere. «Finché non sarà necessario, non sarò io a farmi carico di una decisione che ci metterebbe contro tutto il mondo ambientalista», ha detto il ministro durante la riunione. Stessa cosa dicasi per il vecchio investimento - mai decollato - di un rigassificatore a Porto Empedocle, in Sicilia, grazie al quale ritrasformare il prodotto liquefatto in arrivo via nave da Angola e Congo, dove Draghi andrà in visita dopo Pasqua proprio con l'obiettivo di aumentare l'importazione.
Pochi giorni fa - era il 5 aprile - Starace ha detto di essere pronto a investire un miliardo di euro. Il progetto è bloccato da sette anni per via di lungaggini amministrative e l'opposizione feroce dei comitati ambientalisti. Anche su quest' ultimo progetto Cingolani ha espresso dubbi. «I tempi sono lunghi e i rischi alti. Meglio puntare sui rigassificatori galleggianti». Cingolani ha dato mandato a Snam di acquistarne due, e quello per lui resta l'obiettivo prioritario.
Marcello Sorgi per "La Stampa" il 16 aprile 2022.
Il caso Egitto - o meglio l'incrocio dell'accordo per l'aumento delle forniture di gas con il Paese con cui siamo il conflitto per l'ostruzionismo al processo Regeni - ha rivelato solo in parte le difficoltà di mettere a punto un nuovo piano di approvvigionamento energetico alternativo a quello basato fin qui sulla Russia. Ci sono infatti difficoltà diplomatiche, legate al fatto che i regimi a cui si va a chiedere aiuto (Algeria, Azerbaigian, eccetera) non sono proprio democratici.
Ci sono difficoltà logistiche, legate ad esempio alla collocazione di nuovi rigassificatori che servono per la trasformazione del gas liquido, ma che naturalmente non verrebbero accettati a braccia aperte dagli abitanti dei luoghi destinati agli impianti. Per non dire della riapertura delle centrali elettriche a carbone, la cui chiusura era stata salutata come un passo avanti, oltre che per la riduzione dell'inquinamento atmosferico, sulla strada della civiltà. Esiste insomma il rischio di una moltiplicazione in serie di problemi come l'Ilva di Taranto.
C'è poi un problema di adattamento della gente al dilemma posto efficacemente da Draghi, «pace o condizionatori», nel senso che già dalla prossima estate l'uso contingentato dell'aria condizionata e dal prossimo inverno quello del riscaldamento potrebbero creare reazioni inaspettate, anche se i primi sondaggi dicono che emerge una certa disponibilità dei cittadini. E c'è una questione ambientale che va montando, con una vittima, politicamente parlando, designata: il ministro della Transizione ecologica Cingolani, che si trova a gestire un percorso opposto a quello per cui era stato nominato.
Politicamente, a giudicare dalle prime reazioni, l'ambiente rischia di trasformarsi per il Pd e la sinistra e i 5 Stelle ciò che il fisco è stato per il centrodestra. Non è solo il caso Regeni che preme al portone del Nazareno: per Letta (ma anche per Conte) è inaccettabile che un tema a cui gli elettori di centrosinistra e grillini sono ultrasensibili venga sacrificato sull'altare di uno stato di necessità.
Cara Boldrini, il gas di Putin non è più etico di quello di al-Sisi. Se non prendiamo gas dall'Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca. E non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. Davide Varì su Il Dubbio il 15 aprile 2022.
La nuova campagna della sinistra anti-atlantista, putinista, antioccidentale, pacifista, papista, (ognuno scelga la sua), ora muove contro la scelta italiana di prendere il gas dall’Egitto. «È come passare dalla padella alla brace», ha detto Boldrini, ricordando che Al Sisi è lo stesso che protegge gli agenti accusati dell’omicidio di Giulio Regeni.
In effetti non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. E sì perché una cosa deve essere chiara: se non prendiamo gas dall’Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca finanziando la sua guerra. Ma evidentemente, per Boldrini e gli altri, il gas russo deve avere qualcosa di decisamente più etico. La verità è che gran parte dei paesi che controllano le fonti di energie sono dittature – e non è certo un caso. Ma cara onorevole Boldrini, continuare a prendere il gas di Putin non ci assolve di certo…
Gas, un ginepraio tra dittatori e rinnovabili. Obiettivo: fare presto. Quello dell'energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà a uscire dalla crisi attuale. Paolo Delgado su Il Dubbio il 16 aprile 2022.
Si fa presto a dire che del gas russo potremo fare a meno in tempi se non proprio rapidissimi quanto meno non biblici. La corsa al gas è appena cominciata e già si avvertono chiari i segnali di quali e quanti problemi si creeranno senza il pur minimo dubbio. Va detto che l’Eni non poteva scegliere giorno peggiore per bussare alle porte egiziane di casa al- Sisi proprio mentre l’Egitto chiariva per l’ennesima volta di non voler chiarire in alcun modo le circostanze e le responsabilità nell’assassinio di Giulio Regeni. Ma anche senza quell’inconcepibile coincidenza le cosa sarebbero cambiate di poco. Per uscire dalla dipendenza energetica di un dittatore di cui si denunciano con strepiti indignati le nefandezze antidemocratiche bisogna rivolgersi a figuri della stessa risma, altrettanto alieni da ingombranti pastoie democratiche, non meno pronti del russo a far valere la propria vantaggiosa posizione per ricattare e tacitare eventuali proteste.
Con l’Algeria, Paese dal quale già riceviamo una quota decisiva del gas non russo che alimenta non solo i condizionatori ma anche le italiche aziende, il problema è diverso ma non meno spinoso. Proprio perché già eroga in copiosa dose, l’Algeria fatica a pompare dosi ancora maggiori di gas senza ledere gli interessi fraterni degli altri Paesi Ue che da quella fonte si abbeverano, la Spagna e il Portogallo. Una soluzione per la verità ci sarebbe ma non se ne vedono i vantaggi. L’Algeria può sempre rifornirsi dalla solita Russia e poi rivendere. Non sarebbe salva neppure la faccia, ma il portafogli starebbe messo peggio perché con un passaggio in più inevitabilmente pagheremmo lo stesso gas russo a prezzi maggiorati. Sulla Libia meglio glissare. Grazie alla guerra contro Gheddafi, ma anche contro l’Italia, alla quale l’Italia stessa ha partecipato seguendo una logica puramente autolesionista, quel Paese è in mano a signori della guerra al confronto dei quali i dittatori figurano come modelli di affidabilità.
Lo zio Sam ci dà una mano col suo gas liquido. Però non ce la dà gratis e il prezzo, anzi lievita. Però a quel prezzo bisogna aggiungere quelli, non tutti quantificabili in moneta, dei rigassificatori: costano molto, inquinano anche di più e tutto per una qualità di gas tra le peggiori. L’autarchia ha il suo fascino ma anche qui, oltre alle ovvie difficoltà, il conto è salato. È vero che negli ultimi anni l’Italia ha fatto sempre meno ricorso alle proprie peraltro esigue fonti ma lo ha fatto perché contro le trivellazioni si è mobilitato, non senza ottimi argomenti, un combattivo e nutrito fronte ecologista. Tanto che neppure nelle drammatiche circostanze attuali è parso opportuno ricominciare a trivellare acque salate a destra e a manca. Qualcosina si potrà fare rispolverando il carbone, sempre che gli impianti fermi da un bel pezzo non si rivelino catorci inutilizzabili. Però insistere, come è giusto e inevitabile fare, sulla riduzione drastica delle emissioni e allo stesso tempo annerirsi di nuovo le mani col carbone appare un bel po’ contraddittorio.
La parola magica, che in effetti Draghi non manca di adoperare in ogni dove, è “rinnovabili”: pulite, indipendenti, eticamente adamantine. Però riconvertire in tempi brevi non è difficile bensì impossibile e anche solo accelerare drasticamente non sarà affatto una corsa in discesa. Per centrare l’obiettivo sarebbe necessaria una vera rivoluzione nelle abitudini e negli stili di vita, e su quanto il popolo sia pronto e disponibile a rivedere tutta la propria way of life ogni dubbio è lecito. Peraltro si tratterà di un grosso affare e il bivio già si profila nitido: per evitare che a gestirlo e ingrassarcisi sia la criminalità ci vorrebbero controlli stringenti, che però rallenterebbero tutto proprio quando la parola d’ordine è invece fare presto.
Va da sé che come sempre nei dilemmi ognuna di queste contrastanti e tutte fondate esigenze diventa o può diventare bandiera di qualche forza politica, a maggior ragione con l’avvicinarsi delle elezioni. Quello dell’energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà. Come non aiuta le accuse che sono risuonate nell’ultimo mese contro i “colpevoli” di aver troppo puntato sul gas russo. Come se a motivare quella scelta fosse stata una sorta di miope pigrizia e non, invece, il semplice fatto che il gas russo era effettivamente di estrema utilità.
Un nuovo Piano Marshall. Quanto costerà la ricostruzione dell’Ucraina. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 14 Aprile 2022.
Per restituire al Paese edifici e infrastrutture che l’esercito di Putin ha distrutto bisognerà aspettare la fine della guerra. Gli investimenti necessari oscillano tra i 220 e i 540 miliardi, ma i progetti e le riforme politiche (come l’adesione all’Unione europea) possono e devono partire il prima possibile.
L’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin ha già ucciso migliaia di civili, causato milioni di sfollati, devastato case, scuole, infrastrutture e fabbriche. La distruzione vista in queste settimane a Kiev, Mariupol, Kharkiv al termine del conflitto dovrà essere cancellata: l’Ucraina dovrà essere ricostruita.
I ricercatori del Center for Economic Policy Research (Cepr) stimano il costo totale delle operazioni in una cifra che può oscillare tra i 200 e i 500 miliardi di euro, in base a come e quanto si vorrà ricostruire – una cifra in linea con i calcoli del governo ucraino.
La Kyiv School of Economics stimava, qualche giorno fa, che «almeno 4431 edifici residenziali, 92 fabbriche/magazzini, 378 istituti di istruzione secondaria e superiore, 138 istituti sanitari, 12 aeroporti, 7 centrali termiche/idroelettriche sono state danneggiate, distrutte o sequestrate in Ucraina» dalle forze russe. Ma bisognerebbe considerare che quando un missile russo demolisce un edificio residenziale molto vecchio, magari proprio di epoca sovietica, il costo della ricostruzione non è pari al valore dell’edificio, ma a un palazzo moderno e sostenibile che possa rappresentare una soluzione abitativa per lo stesso numero di persone. Allo stesso modo, se una vecchia centrale a carbone viene bombardata, ciò che conta non è il valore della vecchia centrale ma il costo per una struttura in grado di produrre una quantità equivalente di energia da fonti sostenibili.
Il modo in cui si deciderà di avviare la ricostruzione, con le riforme che l’accompagneranno, sarà importante almeno quanto la cifra investita: un progetto politico ed economico ben congegnato potrebbe trasformare l’economia Ucraina e il futuro dei suoi cittadini.
«Ci aspettano tre compiti principali per avviare la ricostruzione», scrive l’Economist. «Il primo è ripulire le aree piene di mine e altri ordigni e detriti esplosivi», e già prima di questa guerra il ministero della Difesa ucraino stimava il costo dello sminamento della sola regione del Donbass, invasa dalla Russia nel 2014, a 650 milioni di euro.
«Poi bisognerà provvedere a risolvere la criticità legata agli sfollati interni», si legge sull’Economist. Al momento gli sfollati ucraini superano i 7 milioni (altri 4,5 milioni sono fuggiti dal Paese): la Kyiv School of Economics stima il valore delle abitazioni distrutte in circa 29 miliardi di dollari. E allo stesso modo sarà necessaria la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate e delle strutture industriali – centrali elettriche, fabbriche, ponti, strade.
«La fase finale della ricostruzione dell’Ucraina – scrive ancora nell’articolo – consisterà nell’aiutare la sua economia a prosperare a lungo termine». Nel 2019 il Pil pro capite, in termini reali, era inferiore a quello del Paese ai tempi della caduta dell’Unione Sovietica, e molte delle 1.500 imprese statali presenti in Ucraina sono in perdita o poco redditizie.
Gli investimenti economici però dovranno essere affiancati e sostenuti dall’impegno politico. La storia del Novecento suggerisce che il successo di una ricostruzione passa anche da una più stretta integrazione con l’Europa. È successo ad esempio con la Germania occidentale decenni fa, in misura diversa con l’Italia stessa nel secondo dopoguerra, e la rapida crescita della Polonia è spesso attribuita anche all’integrazione nell’Unione europea: nei 15 anni successivi all’adesione di Varsavia, il Pil pro capite del Paese è aumentato di oltre l’80%.
L’Ucraina in qualche modo era già rivolta a ovest: la quota delle sue esportazioni verso l’Unione europea è passata dal 30% circa nel 2014 al 36% nel 2020, mentre la quota destinata alla Russia è scesa dal 18% al 5,5% – secondo i dati riportati dall’Economist.
Ma è chiaro che l’Unione europea dovrà guidare questa transizione politica. Per il Financial Times, Bruxelles dovrebbe replicare quanto fatto dagli Stati Uniti con il Piano Marshall dopo la Seconda guerra mondiale – quell’enorme afflusso di dollari arrivato da Washington che ha aiutato i Paesi europei non solo a uscire dalla crisi del conflitto, ma anche ad avviare un periodo di crescita e prosperità.
«Non dobbiamo aspettare che il Paese sia in pace: la ricostruzione va preparata ora», scrive il Financial Times. E per raggiungere questo obiettivo, si legge ancora sul quotidiano economico britannico, ci sono sei piccoli passi: preparare l’Ucraina all’adesione all’Unione europea; indirizzare i fondi per la ricostruzione nei settori strategici; lasciare un certo grado di autonomia decisionale – in materiale economica e politica – nelle mani dell’Ucraina; incoraggiare gli afflussi sia di capitali stranieri sia di tecnologia; utilizzare le sovvenzioni anziché i prestiti; e sesto, allineare la ricostruzione con un’economia sostenibile, a zero emissioni di carbonio.
Insomma, l’Ucraina ha bisogno sia enormi aiuti immediati per gestire i costi sociali e militari del conflitto, sia di una promessa di una ricostruzione rapida e completa in collaborazione con gli Stati occidentali. Come ha scritto David Frum sull’Atlantic, «lo stimolo economico si farebbe sentire in tutta Europa. Un’Ucraina forte e prospera del dopoguerra servirebbe come ulteriore prova del potere e del fascino della democrazia, dell’integrazione europea e dell’apertura commerciale».
È probabile che la ricostruzione dell’Ucraina diventi il più grande progetto di ricostruzione europea dai tempi della riunificazione tedesca e il reinserimento della Germania dell’Est nel mondo occidentale negli anni ’90. Sarà un processo sicuramente lungo e pieno di ostacoli. «Riformare istituzioni radicate – sono le parole dell’Economist in coda all’articolo – richiede volontà politica. Più a lungo continua la guerra, più danni vengono inflitti all’Ucraina e più difficile diventa il compito della ricostruzione. Nessuna spesa compenserà mai gli orrori della guerra, ma un’attenta pianificazione potrebbe, almeno, garantire un futuro più luminoso e più ricco al Paese».
Sanzioni alla Russia, ecco quanto Putin ci sta rimettendo. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.
Dal 24 febbraio le sanzioni verso la Russia sono emesse per tappe. Prima il blocco delle transazioni con le banche, poi l’import-export strategico, poi il petrolio e il carbone verso Usa e Uk e, da agosto, per il carbone verso la Ue. Infine il blocco del debito sovrano tramite le banche americane. Ma quanto pesano davvero su Mosca le misure fatte scattare da Usa, Canada, Ue, Regno Unito, Svizzera, Islanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Australia e Nuova Zelanda? Lo vediamo dopo aver consultato decine di database, statistiche internazionali, documenti dell’Ofac (l’Office of foreign assets control statunitense), della Commissione europea e con l’aiuto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e dell’Osservatorio conti pubblici italiani (Ocpi). I Paesi che hanno adottato sanzioni contro la Russia sono 37, ma rappresentano il 59% del Pil mondiale. Fra i 193 che non le applicano ci sono Cina, India, Emirati Arabi, Iran e Turchia.
Blocco delle transazioni
Sospesa l’operatività con dieci banche russe su titoli, prestiti, investimenti, pagamento dei debiti e incasso dei crediti. Si tratta di Sberbank, VTB, Gazprombank, Alfa Bank, Promsvyazbank, VEB, Otkritie, Rosselkhozbank, Sovcombank e Novikombank. Tutte insieme fanno all’incirca il 70% degli attivi del sistema bancario russo. Il Tesoro Usa stima che le banche russe effettuano transazioni in valuta estera per l’equivalente di circa 46 miliardi di dollari al giorno a livello globale, l’80% delle quali in dollari statunitensi, e che la stragrande maggioranza di quelle transazioni sia danneggiata dalle sanzioni. Poi c’è il blocco dello Swift, ossia la stringa alfanumerica da 8 a 11 caratteri dov’è specificata la banca e il Paese di provenienza, usato per velocizzare i pagamenti sui mercati internazionali. Questo blocco colpisce Rossiya, più altre sei banche già colpite dalla sospensione dell’operatività (VTB, Promsvyazbank, VEB, Otkritie, Sovcombank e Novikombank). Sono escluse Sberbank e Gazprombank, autorizzate a incassare i pagamenti delle esportazioni di gas, petrolio, carbone (che consente quindi di far arrivare comunque quasi 1 miliardo di dollari al giorno).
Le riserve della Banca Centrale
Le sanzioni hanno scatenato corse agli sportelli, fughe di capitali e fatto crollare il rublo. In risposta la Banca Centrale russa ha alzato il costo del denaro e messo mano alle riserve ufficiali che, in un mese, sono scese di 39 miliardi di dollari. Fino al 18 febbraio 2022 la Banca centrale aveva in pancia 643 miliardi di dollari, ora sono 604. Poca roba, perché anche qui le sanzioni hanno congelato il 60% delle riserve, e cioè la quota denominata in euro, dollari, sterline e yen, pari a circa 350 miliardi di dollari. Dal 24 marzo gli Usa hanno imposto lo stop anche sui 133 miliardi di riserve in oro. La Russia però può disporre della quota di riserve nelle valute dei Paesi non sanzionatori, tra cui la Cina con 83 miliardi in yuan. Per stringere la corda, dal 5 aprile, il Tesoro americano ha vietato alla Russia i pagamenti del debito sovrano con i suoi dollari presenti nelle banche Usa. Vuol dire che già il 27 maggio alla scadenza di una cedola da 101 milioni potrebbe aprirsi la procedura di fallimento dello Stato.
I danni dell’embargo
L’embargo pesa anche sui Paesi sanzionatori che non possono più esportare in Russia tecnologia come semiconduttori, computer, laser, sensori, apparecchiature per la navigazione e le telecomunicazioni, ovvero tutto quello può essere utilizzato per scopi militari, nel settore dell’aviazione e nella raffinazione del petrolio. Stop anche all’esportazione di logistica e beni di lusso, dall’alta moda ai profumi, gioielleria, dispositivi elettronici di valore superiore a 750 euro, auto sopra i 50.000 euro, orologi e loro parti, oggetti d’arte. Vietato dall’Ue invece l’import di ferro, acciaio, carbone, legno, materiale per l’edilizia, gomma. Usa e Uk hanno bloccato le loro importazioni di petrolio e carbone, che in tutto valgono complessivamente poco più di 12 miliardi. Mentre il carbone Ue ne vale 4,3.
Quanto pesa sulla Russia
Dai calcoli dell’Ispi le sanzioni bloccano il 12% dell’import russo, che nel pre-pandemia valeva complessivamente 247 miliardi di dollari, e il 7% del suo export, equivalente a 427 miliardi di dollari. Da parte sua la Russia ha bloccato le forniture di grano, mais, fertilizzanti. L’impatto maggiore, invece, dovuto al mancato export e import lo subiscono i Paesi della Ue, anche considerando che le stesse misure sono applicate alla Bielorussia, in quanto Paese fiancheggiatore, e al Donbass, poiché si ritiene che gli acquisti vadano a finanziare la guerra. I più colpiti dal mancato import di siderurgia e gomma da Bielorussia e Donbass sono soprattutto Italia e Spagna, molto meno Francia e Germania. Non mancano tentativi di raggirare l’embargo triangolando verso Paesi terzi: i dati doganali registrano ad esempio un improvviso aumento di export verso Armenia e Kazakistan proprio dei beni vietati. Si possono invece esportare in Russia tutti gli altri beni, da alimentari alla manifattura, ma l’economia di guerra ha ridotto la domanda con un impatto globale stimato in 30 miliardi (circa il 20%).
Chi se ne va e chi resta
Dal database di Yale risulta che a oggi, su 773 aziende operative in Russia, se ne sono ritirate 252 fra cui colossi internazionali come Apple H&M, Ikea McDonald’s, Microsoft e Netflix e le quattro italiane Assicurazioni Generali, Eni, Ferragamo, Yoox. Hanno sospeso le attività in 237 fra cui le compagnie internazionali di container MSC, Maersk e CMA, e le italiane Ferrari, Iveco, Leonardo, Moncler e Prada. Hanno ridotto l’attività in 62 tra cui Enel, Ferrero e Pirelli. In 91 prendono tempo, come Barilla e Maire Tecnimont. Restano in 131: Acer, Auchan-Retail, Lenovo, e le 11 italiane Buzzi Unichem, Calzedonia, Campari, Cremonini Group, De Cecco, Delonghi, Geox, Intesa Sanpaolo, Menarini Group, UniCredit, Zegna Group.
I beni degli oligarchi
Le liste di miliardari, politici e militari a cui congelare le proprietà sono disallineate. L’Ue ha stilato un elenco di 1.110 nomi, la Gran Bretagna di 989 nomi, gli Usa di 407. E quindi succede che fra i 20 oligarchi e funzionari più ricchi della Russia sanzionati da Ue e Regno Unito, ma non dagli Usa, ci sono l’industriale di fertilizzanti Andrey Igorevich Melnichenko, Roman Abramovich, il fondatore di Alfa-Bank Mikhail Fridman, il produttore di acciaio Viktor Rashnikov. Sanzionato invece da Usa e Uk, ma non dall’Ue, c’è il produttore di materie prime Victor Vekselberg. Mentre nessuno dei tre ha sanzionato il presidente e principale azionista della società russa del gas Novatek Leonid Mikhelson e il magnate dell’acciaio Vladimir Lisin. Nessuna sanzione per il presidente del gigante petrolifero Lukoil Vagit Alekperov, considerato meno vicino a Putin del presidente di Rosneft Igor Sechin, che mira a prendersi Lukoil per diventare il padrone assoluto del petrolio russo (sanzionato sia da Ue e Uk che dagli Usa). Fra gli intoccati c’è infine il magnate dei metalli Vladimir Potanin, considerato dagli Stati Uniti tra i 210 individui strettamente associati al presidente russo.
La scelta di sanzionare alcuni e non altri è frutto di valutazioni politiche ed economiche dei singoli Paesi poiché, secondo quanto riportato da Forbes, il «predominio della Russia nelle esportazioni di petrolio, gas e materie prime ha collegato il destino dei produttori e delle imprese occidentali con quello delle imprese russe e dei loro proprietari, ovvero gli oligarchi». Atlantic Council stima che oligarchi e funzionari nascondano nei paradisi fiscali circa 1 trilione di dollari (tanti quanti ne possiede l’intera popolazione russa), per cui scovare le loro proprietà non è facile. Nella Ue, ad oggi, sono stati congelati asset per 29 miliardi.
Espulso lo sport
Sanzioni anche per il mondo dello sport e della cultura. Fuori atleti e squadre dalle gare olimpiche, di tennis, dal mondiale di calcio, dalla coppa del mondo di sci e mondiali juniores di nuoto. Si terranno fuori dalla Russia la finale di Champions League e il circuito del gran premio di Formula 1.
La partita cruciale alla fine può giocarla solo l’Unione Europea, decidendo se a farci più paura è la barbarie e la fine dello stato di diritto o un periodo di forte austerità
Fuori dall’Eurovision 2022 e Warner Bros, Disney e Sony hanno sospeso l’uscita dei film nelle sale russe. Tirando le somme: le sanzioni nel loro complesso stanno isolando Mosca e provocando qualche danno alla sua economia, ma ampiamente compensato dall’export di idrocarburi di cui la Ue, e in particolare Italia e Germania, ha drammaticamente bisogno. La partita cruciale alla fine può giocarla solo l’Unione Europea, decidendo se a farci più paura è la barbarie e la fine dello stato di diritto o un periodo di forte austerità. Nella risposta la soluzione.
Da liberoquotidiano.it il 7 aprile 2022.
"Preferite la pace o i condizionatori accesi?". Questo il peculiare quesito posto in conferenza stampa da Mario Draghi agli italiani. Il premier con queste parole ha preso posizione a favore delle sanzioni contro la Russia imposte da Ue e Stati Uniti, sanzioni che come stiamo vedendo chiedono anche agli italiani di pagare un prezzo altissimo.
E le parole di Draghi sono al centro del dibattito della puntata di Otto e Mezzo in onda su La7 mercoledì 6 aprile. Ospite in studio ecco Lucio Caracciolo, al quale Lilli Gruber chiede appunto un commento su quanto detto da Draghi. "Mi pare un'alternativa discutibile - premette andando dritto al punto il direttore di Limes -. Innanzitutto spero che un quesito simile non venga sottoposto a referendum, temo che gli italiani sceglierebbero il condizionatore. Poi non credo che esista una alternativa pace-gas, o pace-sanzioni. Non ricordo un conflitto di qualche rilievo che sia stato interrotto dalle sanzioni", rimarca Caracciolo, smontando di fatto la domanda di Draghi e la linea dell'Europa.
"Immaginiamo che le sanzioni possano funzionare? Sottoscrivo a quattro mani: niente condizionatore e riscaldamento. Ma perché dovremmo credere che le sanzioni facciano cambiare idea ai russi? Questo proprio non riesco a capirlo", riprende Caracciolo. E ancora: "Non ci sono seri precedenti storici di qualcosa del genere. I russi hanno dimostrato ahimè di saper rinunciare a moltissimo pur di non perdere una guerra, e Putin questa guerra non la vuole perdere. Non credo che ci sia alcun legame diretto tra le sanzioni e la fine della guerra. Mi piacerebbe, ma purtroppo non lo vedo", conclude tratteggiando scenari tutt'altro che rassicuranti.
Paolo Baroni per “la Stampa” l'8 aprile 2022.
Senza il gas russo, se di qui alle prossime settimane il tempo non fa brutti scherzi, potremmo arrivare tranquillamente a ottobre senza troppi problemi. Se invece la primavera-estate tardasse a ingranare, non solo avremmo il problema di come fare a riempire gli stoccaggi in vista dell'inverno (dal 30% rimasto oggi sino al 90% previsto) ma già a luglio potrebbero presentarsi serie difficoltà. Ed allora sì che potremmo rischiare di dover decidere se far funzionare o meno i condizionatori, come ha ipotizzato mercoledì Draghi.
Perché se è vero che di qui alle prossime settimane i consumi di gas sono destinati a calare - dai 208 milioni di metri cubi di ieri si passerebbe a maggio ad una media giornaliera di 136, per scendere ancora in estate toccando a Ferragosto un minimo di 80-85 milioni contro i 400 e più dei giorni più freddi dell'inverno - è anche vero che quelli dell'elettricità di contro sono destinati ad impennarsi.
Variabile meteo Ieri il picco massimo di consumi elettrici ha toccato (alle 9) i 44,8 gigawatt. In media a primavera i consumi viaggiano attrno ai 50-55 ma in estate, complice anche l'uso dei condizionatori, si superano ampiamente i 60 gigawatt. Ed è proprio per questo che potrebbero esserci dei problemi. Parlare oggi di austerity è prematuro, ma lo scenario, a breve, potrebbe essere anche quello con pesanti ripercussioni innanzitutto sull'attività delle imprese, non solo a causa dei prezzi che in uno scenario del genere non potrebbero certo calare.
Il piano di emergenza Se il governo decidesse di rinunciare al gas russo si verificherebbe una delle condizioni in base alle quali scatterebbe il piano di emergenza gas da poco aggiornato e rafforzato dal governo. Per rimediare al venire meno dei 29 miliardi di metri cubi che ogni anno acquistiamo da Mosca (40% del nostro fabbisogno), su input del ministero delle Transizione ecologica, verrebbero attivate tutta una di misure straordinarie. Sul fronte della domanda si agirebbe innanzitutto sugli utenti industriali interrompibili, ma anche pro-quota sui restanti clienti industriali, e verrebbe modificato il dispacciamento per le centrali elettriche a gas.
Sul lato dell'offerta è invece previsto l'utilizzo dello stoccaggio strategico, l'aumento delle importazioni, un maggior utilizzo dei rigassificatori e delle centrali a carbone. Difficile però immaginare che per ottobre sia già operativa la prima delle due navi da rigassificazione su cui Snam sta trattando l'acquisto in esclusiva.
Comunque sia, secondo alcune stime 10-12 miliardi di metri cubi di gas in più potrebbero arrivare da Algeria, Libia e Azerbaigian, altri 5 si potrebbero risparmiare mandando al massimo le centrali a carbone ed altri 5 in più arriverebbero dai rigassificatori. Aumentando la produzione interna di gas potremmo recuperarne subito un altro miliardo di metri cubi, quindi riducendo un po' i consumi per l'illuminazione pubblica notturna si risparmierebbe un altro miliardo di metri cubi ed altrettanto si potrebbe fare in ragione d'anno grazie alla riduzione volontaria dei consumi delle imprese.
In caso d'emergenza è previsto che le imprese, soprattutto quelle che consumano di più, possano venire «scollegate» anche dalla rete elettrica.
Imprese interrompibili Se guardiamo alle forniture di energia elettrica, che per il 50-60% oggi dipende proprio dalle centrali alimentate a gas, sino a tutto giugno sono 46 i soggetti, tra gruppi industriali e grandi consorzi di imprese, classificati come «interrompibili» da Terna e valgono circa l'1% dei consumi elettrici, ovvero 500 megawatt di potenza installata. Nella lista sono presenti i grandi gruppi siderurgici come Acciaierie d'Italia-Ex Ilva, Arvedi, Riva Acciaio e Ferriere Nord, molte cartiere, cementifici (Italcementi, Buzzi Unicem, Cemetirossi e Holcim), aziende tessili (Olcese) e chimiche (Solvay).
Austerity in famiglia.
E le famiglie? Ovviamente non è pensabile sapere quale quota dei loro consumi elettrici venga assorbita dai condizionatori, però - suggeriscono gli esperti del settore - in caso di vera emergenza elettrica una misura «alla Draghi» potrebbe anche essere immaginata: si potrebbe infatti ridurre per un certo periodo a 3 Kw tutti i contratti che oggi arrivano sino a 6 Kw. Su un totale di 29,7 milioni di utenze domestiche le famiglie «energivore», che si presume consumino di più magari proprio per far funzionare uno o più splitter, sono qualche milione e valgono circa il 7% dei consumi elettrici.
Andrea Bassi per “il Messaggero” l'8 aprile 2022.
Dubbi ce ne sono pochi. Di fronte alla scelta «pace o condizionatori», con le immagini atroci che arrivano dal fronte ucraino, nessuno sceglierebbe probabilmente il benessere climatico nella propria abitazione. Ma la domanda da porsi è un'altra.
Dietro le parole pronunciate in modo quasi stizzito da Mario Draghi, c'è un piano del governo? Di sicuro c'è l'indicazione di una direzione di marcia. L'Italia, pur senza dichiarare formalmente lo stato di emergenza energetico, ha iniziato ad attuare tutte le misure previste dal livello di massima allerta.
Sono dieci in tutto, ordinatamente elencate in un allegato di un decreto ministeriale del 2019. La «definizione di nuove soglie di temperatura» è la numero quattro. Ieri in Parlamento, dove è in discussione il decreto energia del governo, è stato approvato un emendamento che di fatto attua questa disposizione almeno nella Pubblica amministrazione. Dal primo maggio di quest' anno fino al 31 marzo del prossimo anno, la temperatura dei riscaldamenti non potrà superare i 19 gradi centigradi, con una tolleranza di più o meno due gradi.
In pratica un grado in meno di oggi. Lo stesso vale per i condizionatori. La temperatura non potrà essere impostata su valori inferiori ai 27 gradi centigradi in estate, sempre con una tolleranza di due gradi. I dipendenti pubblici saranno i primi a dover affrontare un po' più di caldo nei loro uffici. E le famiglie? Il discorso è più complesso. Partiamo dall'estate, dai condizionatori. Si può stabilire, come per il pubblico, che la temperatura non debba superare i 27 gradi.
Ma poi chi controllerebbe? Sarebbe una regola scritta sull'acqua. Non solo. La riduzione di un solo grado di temperatura non farebbe poi risparmiare tanto. Se oltre ai condizionatori l'abbassamento riguardasse anche i frigoriferi e le celle di raffreddamento, con un grado in meno si potrebbe risparmiare 1 Gigawattora di elettricità sui 50-60 che si consumano in estate. Tradurre in metri cubi di gas questo risparmio è difficile, perché dipende anche da quante energia nucleare importeremo dalla Francia e quanta acqua ci sarà nei bacini per far funzionare le centrali idroelettriche.
Ci sarebbe un'altra soluzione che il governo potrebbe valutare, tecnicamente possibile grazie ai contatori elettronici: razionare il consumo di energia. Per esempio garantire a tutti 3 kilowattora di potenza, riducendo l'erogazione a chi ha contratti per potenze superiori. La difficoltà è sapere però, cosa ci si fa con quell'energia.
Magari ci può essere attaccata qualche macchina salva vita. La verità, come ha spiegato lo stesso Draghi, è che l'estate non è un problema. Anche senza gas russo fino a ottobre ci si arriva.
LA SFIDA Il problema è l'inverno. Più che a temere il caldo dobbiamo prepararci a soffrire il freddo. Dei 76 miliardi di metri cubi di gas che ogni anno utilizziamo, il 45% è per uso domestico. Termosifoni e acqua calda soprattutto, e per una piccola parte fornelli. E i consumi si concentrano soprattutto nella brutta stagione.
Per capire, in una giornata molto fredda d'inverno, il consumo domestico di gas è di 400 milioni di metri cubi. In una giornata calda d'estate non si arriva a 100 milioni. Ridurre le temperature dei termosifoni e razionare le docce d'inverno avrebbe sicuramente un effetto sull'import di gas. Ma in questo caso l'unica cosa da fare, tolti condomini e strutture pubbliche e private, sarebbe affidarsi all'autoregolazione dei cittadini. Contando che tra il caldo di casa e la pace, scelgano quest' ultima.
Rosaria Amato per “la Repubblica” l'8 aprile 2022.
«Un grado in meno per riscaldamenti e condizionatori di case e uffici vale un miliardo di metri cubi di gas, noi dalla Russia ne prendiamo 29». Però la misura appena adottata, rileva Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, per quanto insufficiente a far fronte all'emergenza, ha un pregio: «È un primo segnale che bisogna intervenire sulla domanda».
Quindi non ci sono alternative al razionamento?
«No. O lo facciamo noi o ci pensa la recessione».
Ma intervenire sulla domanda basterà?
«No. Noi abbiamo calcolato che se si spengono del tutto i condizionatori delle famiglie si risparmiano 10 miliardi di metri cubi. Se si spengono i riscaldamenti se ne risparmiano 20, ma è una tragedia, una sconfitta anche umana: la nostra economia si caratterizza anche per il primato di consentire alle persone di avere case riscaldate e bollette pagabili, non come quelle che ci sono arrivate ultimamente».
Su cos' altro bisognerà agire?
«Il grosso dell'energia viene consumato da industria, servizi e trasporti: è lì che bisognerà razionare davvero. Ne soffriremo, ma non quanto stanno soffrendo gli ucraini che stanno sotto le bombe».
Faremo in tempo a riattivare la nostra produzione di gas e accelerare con le rinnovabili?
«Ben vengano le rinnovabili, ma nel breve non potranno darci molto. Quanto alla nostra produzione di gas, e quella di Paesi che ne hanno grande disponibilità come l'Olanda, i tempi sono lunghi perché servono infrastrutture gigantesche. È stato un errore fermare la produzione. E l'Europarlamento, che chiede ora l'embargo totale contro la Russia, ha una maggioranza di partiti che hanno lottato contro le trivelle, fra cui quello del ministro degli Esteri Di Maio, e spinto perché si abbandonasse l'estrazione di gas nei Paesi Ue».
Andrea Malaguti per “la Stampa” l'8 aprile 2022.
Professor Cacciari, la pace o il condizionatore?
«Stiamo parlando del ragionamento ridicolo di Draghi?».
Stiamo parlando del ragionamento di Draghi.
«È ridicolo, le spiego perché».
Perché?
«Lei pensa che io, con il mio reddito, abbia problemi a lasciare acceso il condizionatore anche con la bolletta triplicata? Pensa che sia la stessa cosa l'inflazione al 7% per uno come me o per chi porta a casa 1500 euro al mese, vale a dire larga parte della popolazione? Come si possono dire certe enormità?».
Immagino che il punto fosse: la guerra in Europa è un dramma che costringe tutti noi a fare sacrifici per aiutare chi è aggredito.
«Ma smettiamola. Non crede che il governo dovrebbe evitare di dire puttanate o di fare discorsi all'ammasso e spiegare piuttosto come interverrà per impedire la perdita di potere d'acquisto per le famiglie e le aziende in crisi? Come aiuterà chi non arriva alla fine del mese a non morire di freddo? Servono risposte concrete, non battute assurde».
Al momento con cinque miliardi in più per intervenire sul caro bollette.
«Le pare che bastino? Mi spiega concretamente che cosa si sta facendo per garantire che quei soldi arrivino con continuità alle famiglie e alle imprese?».
Decreti che cercano di non scassare per sempre i bilanci pubblici e incontri internazionali per cercare soluzioni condivise?
«Benissimo, si facciano. Ma non mi pare che tutto questo sia servito a molto. C'è bisogno di una strategia fiscale e finanziaria che protegga esplicitamente chi è in difficoltà. Perché Draghi non interviene? Il suo è un bluff totale».
Che cosa dovrebbe fare?
«Aumentare il debito pubblico, con tutto il dolore per i figli e i nipoti. Il piano nazionale è da rifare completamente. E l'Europa deve capire che le sanzioni pesano in modo diversissimo a seconda dei Paesi che le applicano. Ad esempio in Francia e negli Usa pesano molto meno che in Germania e in Italia».
Morale?
«Morale se vale il principio di solidarietà chi soffre di meno deve aiutare gli altri».
Un recovery di guerra dopo quello per il Covid.
«La presa di coscienza che o se ne esce tutti assieme o non se ne esce».
Professore, le sanzioni sono sbagliate?
«Al contrario. Il fallimento di Onu e Ue è evidente, ma di fronte a un Paese che ne aggredisce un altro le sanzioni sono inevitabili e portano risultati. Non abbiamo sempre reagito così (basti pensare all'aggressione americana in Iraq) ma non importa. Il peccato di uno non lava il peccato di un altro».
Sembra che ci sia un "ma".
«Nessun ma, solo una riflessione ulteriore. Visto che gli Stati Uniti hanno larga disponibilità di materie prime, perché ce le vendono a prezzi doppi o tripli dei russi?».
Perché le materie prime appartengono a fondi come BlackRock o Blackstone?
«E allora? Basta che il governo intervenga. Quando sei in guerra fondi e privati contano poco».
L'Europa fa bene a inviare le armi in Ucraina?
«È una delle cose che vanno fatte, che logicamente vanno accettate».
Che cos' è inaccettabile?
«Che decisioni di questa portata vengano assunte senza un dibattito parlamentare serio ma semplicemente con un atto amministrativo».
Emergenza bellica. Anche Mattarella e Amato sposano la linea Draghi.
«Ormai la deriva è quella. In una nave in tempesta è inevitabile che sia così. Con l'emergenza permanente tutti i poteri finiscono nelle mani del comandante in capo. Incredibile».
Se la immagina la durata di un dibattito italiano su armi sì armi no?
«Infinita. Ma andava fatto lo stesso. E andava fatto in Europa. Qui ormai siamo alla logica del fatto compiuto. La verità è che se non ragioni sulle cause dei mali non li curi».
Von der Leyen sbaglia a volare a Kiev?
«No, fa bene. Ma è in ritardo. Ormai l'unico tavolo possibile è quello diretto tra Russia e Stati Uniti. Se non la risolvono Washington e Mosca questa storia andrà avanti all'infinito e noi continueremo a imporre sanzioni e a spedire armi».
Sta dicendo che gli Stati Uniti sperano che la guerra continui?
«Chi lo sa. È una domanda da un miliardo di dollari. Bisognerebbe capire meglio che cosa succede all'interno dell'establishment americano. Di sicuro la Russia con questa aggressione si è impantanata in modo tragico e gli ucraini da un punto di vista politico hanno perfettamente ragione a chiedere ancora più armi. Certo, più la guerra continua più aumentano i morti».
L'alternativa è: prego accomodatevi.
«Non so se l'alternativa è così secca, ma politicamente Zelensky fa bene a non arretrare di un millimetro».
Professore, Putin andrebbe processato?
«Certo, Putin può essere processato. Ma c'è un dettaglio che molti chiacchieroni di casa nostra trascurano. Per farlo prima bisognerebbe bombardare Mosca. Vincere la guerra e catturarlo. Come con Milosevic e Norimberga.
Dunque di che cosa stiamo parlando?».
Stiamo combattendo una guerra che non è nostra?
«Stiamo assistendo a una guerra civile europea. Per questo l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia è diversa da tutti i conflitti precedenti. Dall'Iraq, dall'Afghanistan o dal Vietnam. Lei lo sa come sono cominciate la prima e la seconda guerra mondiale? Da guerre civili europee. È chiaro il pericolo che stiamo correndo?».
Il terzo conflitto mondiale?
«Lo scenario è apocalittico».
Lei ha paura?
«Molta. Perché vedo che la politica non ha memoria storica e non conosce le medicine preventive e io temo che dai peccati di omissione e di ignoranza si possa arrivare alla catastrofe».
Putin può usare l'atomica?
«Neanche per sogno. È surreale solo pensarlo».
Che effetto le fanno le immagini che arrivano da Bucha?
«Sono stragi tremende. Come quelle di Aleppo o di Baghdad. Fatte da popoli europei in guerra. Come eravamo noi e i nazisti».
Secondo Garry Kasparov, ex campione del mondo di scacchi e dissidente politico russo, Putin guida la Russia come un boss mafioso.
«Sì, è così. La Russia ha molte delle caratteristiche di uno stato mafioso. Ma l'Occidente ha assistito trionfante e sereno come una pasqua alla spartizione dell'ex Unione Sovietica da parte di una banda di mascalzoni negli anni Novanta. Vae victoribus, guai ai vincitori. Oggi scontiamo tutto questo, la miopia totale, senza memoria e senza sguardo sul futuro».
Secondo i sondaggi l'83% dei russi sta con Putin.
«Ma lei crede ai sondaggi in tempo di guerra? Non valgono niente, si fidi».
Perché nonostante la guerra del tiranno Putin, Orban torna a vincere in Ungheria, Le Pen vola in Francia e Meloni continua a crescere in Italia?
«Guardi che i fascismi di oggi, e dico fascismi tra mille virgolette, non hanno niente a che vedere con quelli di ieri. Nessuno cerca un altro Mussolini, molti però sono disperatamente a caccia dello stato sociale scomparso. Se in Italia cresce l'inflazione e i ceti meno abbienti vengono lasciati al loro destino è ovvio che tra un anno la Meloni sarà il primo partito con il 25% dei voti, se non con il 30. Non è un fenomeno politico, è un fenomeno fisico. È l'inevitabile».
Pd e 5 Stelle?
«Chi lo sa. Il centrodestra sarà unito di sicuro. Il centrosinistra no. E saranno guai seri. Serve un accordo Letta-Conte che solo Dio sa se potrà avere successo. Ma sinceramente per me è l'ultimo dei problemi visto quello che sta succedendo nel mondo».
Stefano Zurlo per “il Giornale” l'8 aprile 2022.
Putin ha perso ogni appeal. E gli italiani sono saliti sul carro delle sanzioni, ma i sacrifici, le rinunce, sono un'altra cosa. Questa compattezza potrebbe sfarinarsi nelle prossime settimane. Lorenzo Pregliasco, direttore del web magazine YouTrend, professore di strategie elettorali all'Università di Torino e fresco autore del libro Benedetti sondaggi, appena pubblicato da Add Editore, è prudente: «Per ora non c'è uno scollamento fra le misure restrittive decise dal governo dopo l'invasione russa in Ucraina e la risposta dei nostri connazionali, ma sarei cauto su quel che accadrà nelle prossime settimane».
Putin è crollato nel gradimento?
«Certo. Nel 2021 il 42 per cento degli italiani, secondo un rilevamento di Demos, aveva simpatie per lui; qualche giorno fa eravamo all'8 per cento e se si dovesse tastare ancora il polso del Paese dopo la scoperta delle fosse comuni e degli indicibili massacri avvenuti, credo si scenderebbe ancora. Il fascino del Cremlino è svanito completamente, dissolto in questa guerra feroce».
Insomma, il Paese ha fatto una scelta di campo precisa?
«Non sarei così netto. Siamo diventati allergici al presidente russo e anche sulle sanzioni, i cui effetti si avvertiranno però nel tempo, siamo con il premier. Più del 50 per cento del campione esaminato da Ipsos appoggia le decisioni dell'esecutivo.
Non andrei oltre».
Non è poco. Per parafrasare Draghi, gli italiani vogliono la pace e non i condizionatori?
«Io frenerei. Siamo un popolo pragmatico e non è detto che siamo disposti ad accettare le conseguenze di quelle decisioni che tutti a parole dicono di condividere».
I partiti, come la Lega e i 5 Stelle che sono meno duri con la Russia, sembrano guadagnare qualche consenso. Intercettano i primi segnali di un possibile riorientamento dell'opinione pubblica dopo più di un mese di bollettini luttuosi e bollette sempre più care?
«No, questo no. E poi parliamo di spostamenti modesti. Forse è ancora presto per avvertire un cambio di umore. Piuttosto, vedi Conte, quei movimenti pescano nel grande bacino del pacifismo, dell'avversione del nostro popolo agli apparati militari, e comunque si ritagliano uno spazio politico distanziandosi dagli altri partner della maggioranza. Le offro un dato recentissimo, diffuso da Ipsos: solo il 5 per cento del Paese manderebbe soldati col tricolore in Ucraina. Tutti gli altri dicono di no».
E sull'aumento delle spese per gli arsenali fino al 2 per cento del Pil?
«Per carità. Ho qui le cifre, elaborate da Emg, sull'invio da parte italiana di armi alla resistenza Ucraina. Come dire, il minimo sindacale».
I risultati?
«Il 55 per cento non è d'accordo con questa mossa, decisiva per gli ucraini assediati. E un altro 8 per cento non risponde. Diciamo che il quadro presenta alcune incongruenze».
Valori contraddittori?
«Esatto. Ad esempio il 59 per cento darebbe l'ok alla chiusura dei rubinetti di gas russi. Ma non so se hanno messo in conto che potrebbero rimanere al freddo. Però il 60 per cento, dunque un'ampia maggioranza, è contrario all'incremento delle spese militari».
Riaffiora un certo pacifismo?
«Siamo un Paese fatto così. Se mettiamo in fila i numeri ci accorgiamo che qualcosa non quadra. E i paragoni con gli altri Paesi europei aiutano a capire».
A chi si riferisce?
«Ad esempio alla Germania. Dove certi rifiuti tutti italiani non trovano spazio. Il 78 per cento dei tedeschi condivide l'invio di armi a Kiev che da noi suscita tante perplessità e la stessa percentuale metterebbe mano al portafoglio per rinnovare gli arsenali».
Gabriele De Stefani per "La Stampa" il 9 aprile 2022.
I prezzi alimentari non erano mai stati così alti e in più di trent'anni di monitoraggio della Fao, iniziati nel 1990, non avevano mai subito un rincaro così rapido e verticale: +12,6% in un mese a marzo, secondo l'indice globale dell'organizzazione.
È la tempesta perfetta scatenata dal sommarsi delle difficoltà sulle materie prime e sull'energia nate ben prima della guerra e del conflitto che vede coinvolti i due granai del mondo: lo shock sul mercato dei cereali spinge le quotazioni in aumento del 20%, con un effetto traino per oli vegetali (+23%), zucchero (+6,7%), carne (+4,8%) e prodotti lattiero caseari (+2,6%). Le emergenze da affrontare sono due. Innanzi tutto il pericolo di drammatiche carestie nei Paesi poveri (e di tensioni sociali in quelli più ricchi). E poi il sostegno alle imprese minacciate dai rincari, in primis la zootecnia che ha nei cereali russi e ucraini la sua più importante commodity.
La minaccia della fame Tredici milioni di persone, secondo la Fao, rischiano di ritrovarsi in mezzo a una carestia causata dall'invasione russa dell'Ucraina. È, almeno in parte, la conseguenza delle difficoltà che le Nazioni Unite si trovano ad affrontare nella loro azione di contrasto alla povertà alimentare: le forniture di cereali del World Food Program dell'Onu, destinate ogni giorno a 125 milioni di persone in quaranta Paesi africani e meno sviluppati, arrivavano per il 50% dall'Ucraina. E, al di là dei programmi delle Nazioni Unite, i rincari sono inevitabilmente più difficili da sostenere.
Dinamiche simili anche in Occidente, dove la corsa dei prezzi sta spingendo milioni di persone verso la povertà. «Il potere d'acquisto dei consumatori vulnerabili sta ulteriormente diminuendo», commenta il direttore generale della Fao, Qu Dongyu. Guerra e pandemia una dopo l'altra, sempre nei calcoli Onu, possono generare 100 milioni di nuovi poveri. Vittime anche delle dinamiche speculative sui beni alimentari denunciate da Maurizio Martina, vicedirettore della Fao.
Le imprese agricole A differenza del fronte dell'energia, dove liberarsi dalla dipendenza dalla Russia è diventata un'urgenza, il tema della sicurezza alimentare non si impone a livello europeo: «L'autosufficienza è garantita» assicura Stefano Patuanelli, ministro delle Politiche agricole. Semmai gli interventi decisi a Bruxelles puntano a proteggere le imprese dell'agroalimentare dai rincari dell'energia e delle commodities: deroghe alle rotazioni obbligatorie dei terreni e dirottamento dei fondi dei Piani di sviluppo rurale da un lato servono a garantire un'offerta sufficiente per la zootecnia, dall'altro a sostenere i redditi delle aziende.
I cereali pesano due volte: sia come prodotto che le famiglie acquistano, sia perché Russia e soprattutto Ucraina sono il fornitore estero principale degli allevamenti europei. La loro carenza, dunque, spinge in alto i costi delle aziende agricole, che poi li scaricano sui prezzi della carne generando una spirale di aumenti. L'Italia ha già deciso di destinare un milione di ettari in più, sottraendoli ad altre coltivazioni. Secondo la Fao gli scambi mondiali di cereali nel 2022 scenderanno a 469 milioni di tonnellate.
Unione Europea e India spingeranno sul grano, mentre Argentina, Stati Uniti e ancora India esporteranno più mais, andando parzialmente a compensare la perdita di esportazioni dalla regione del Mar Nero.
Ma andare a caccia di nuovi fornitori apre altri temi: l'Argentina usa fitofarmaci in quantità nettamente superiori all'Europa, dagli Stati Uniti si importano Ogm. Come la crisi energetica, anche l'emergenza alimentare figlia della guerra rimette in discussione scelte e tabù della politica.
MAURIZIO BELPIETRO per la Verità il 9 aprile 2022.
Nei giorni scorsi, a proposito delle sanzioni che l'Italia e l'Unione europea hanno imposto alla Russia dopo l'invasione dell'Ucraina, ho scritto che fanno male a chi le riceve ma anche a chi le impone. Beh, con il senno di poi, devo ammettere che mi sono sbagliato. Le misure decise dall'Europa fanno più male a noi che alla Russia e di certo non servono a fermare la guerra.
La prova? L'ha fornita un giornale che non è certo sospetto di simpatie per Vladimir Putin, ossia il Financial Times. Che cosa ha scritto la Bibbia della comunità
finanziaria europea?
Che il peggior impatto sugli scambi commerciali lo hanno subìto i Paesi europei. Il giornale inglese parla di risultati «agghiaccianti», con una contrazione delle esportazioni pari al 5,6 per cento e delle importazioni per il 3,4 per cento. Paradossalmente la Russia, che ha visto bloccate le sue riserve all'estero e bloccati i suoi commerci, ha avuto effetti meno devastanti, perché, come dimostra un grafico dello stesso Financial Times, la contrazione si è fermata al 4,8 per cento.
Gli Stati Uniti hanno perso il 3,4 per cento delle esportazioni, mentre chi se l'è passata meglio è la Cina, che ha chiuso il mese con una flessione inferiore all'1 per cento. Se c'era un modo per dimostrare che i provvedimenti presi da Bruxelles non servono, ma anzi sono un boomerang per chi li ha emessi, beh il quotidiano britannico lo ha evidenziato con una semplice tabella, che è più esplicita di tante analisi.
In pratica, se Draghi e compagnia cantante pensano di fermare la Russia con queste sanzioni rischiano solo di farsi del male, perché non solo Putin non farà marcia indietro, ma a pagare il conto delle decisioni saremo proprio noi europei, che ci ritroveremo con un'economia che boccheggia senza avere alcun vantaggio.
Nei giorni scorsi, annunciando l'embargo al carbone russo (che però è stato rinviato ad agosto, quando come è noto la richiesta è inferiore), Ursula von der Leyen ha detto che con questa sanzione l'Europa avrebbe tagliato una fonte importante dei ricavi di Mosca. In realtà le cose non stanno proprio come le ha raccontate la presidente della commissione Ue. Infatti, dei 20 miliardi di dollari esportati dalla Russia solo il 40 per cento è acquistato dai Paesi europei, mentre il 60 è comprato da Stati che non applicano le sanzioni, come la Turchia, la Cina, l'India e così via.
Dunque, facendo due semplici conti, il «danno» per Putin scende a 8 miliardi e siccome l'export di carbone rappresenta l'1,2 per cento del Pil russo, la perdita in termini reali per Mosca scende a 0,48 per cento del Prodotto interno lordo. In compenso, l'Europa sarà costretta a comprare ciò che le serve per alimentare le sue centrali da qualcun altro, magari dall'Australia, ma importarlo costerà il 30 per cento in più. Così, mentre Putin sarà libero di vendere carbone a quella metà del mondo che continua a fare affari con lui, limitando o forse annullando gli effetti dell'embargo e dunque non registrando alcun concreto impatto sull'economia russa, noi probabilmente dovremo mettere a bilancio una spesa superiore a quella dello scorso anno.
Ma questo è solo un esempio di effetto collaterale delle sanzioni, che fanno più male a chi le mette che a chi le riceve. In molti, a cominciare dal segretario del Pd, Enrico Letta, insistono per l'embargo degli idrocarburi.
Stop all'importazione di gas e a quella di petrolio, nella convinzione che se non riuscisse più a vendere metano e greggio all'Europa l'economia russa crollerebbe. Questa certezza fa il paio con quella manifestata all'inizio della guerra, quando America e Ue erano convinte che per fermare i carrarmati russi sarebbe stato sufficiente escludere le banche e le aziende russe dal circuito delle transazioni internazionali. L'espulsione dal sistema conosciuto con l'acronimo Swift era stata descritta come una bomba atomica finanziaria, che avrebbe portato in poco tempo la Russia al default, perché privata della possibilità di regolare i conti.
A distanza di un mese e mezzo dall'inizio del conflitto, niente di tutto ciò è successo, perché Mosca ha trovato modo di aggirare il blocco, pagando in rubli e scambiando valuta con quella parte del mondo che non si è accodata alle sanzioni. Lo stesso potrebbe succedere se venisse bloccato l'export di petrolio e gas. Michele Geraci, forte di un'esperienza in alcune banche d'affari americane e di anni di docenza in Cina, ha spiegato che gli effetti potrebbero essere ridotti, di gran lunga inferiori ai contraccolpi che potrebbe avere la nostra economia.
Del resto, si tratta delle stesse considerazioni svolte da Garland Nixon, analista politico statunitense, che due giorni fa, citando fonti della Casa Bianca, ha parlato di un collasso economico della Ue in pochi mesi. E la Russia? Beh, secondo lui, Mosca «dovrebbe essere praticamente a posto». Un'ottima strategia, quindi.
LA GUERRA HA RIPORTATO I MURI IN EUROPA. LA SOLITA EUROPA E LA SOLITA ITALIA - LA GRANDE PAURA E LA RECESSIONE CHE E' DIETRO L'ANGOLO. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2022.
Se l’Europa non fa un passo avanti subito, almento con le compensazioni finanziarie per arginare i danni di tutti, dimostreremo al mondo intero che nessun singolo Paese potrà davvero superare la nuova grande crisi da economia di guerra. Anche la grande Germania scoprirà molto presto di essere troppo piccola per uscire indenne dai due nuovi cigni neri mondiali. Se poi guardiamo meglio le cose di casa nostra rischiamo di avere ancora più paura. Perchè scopriamo che la politica gioca con le elezioni amministrative e che abbiamo 30 e passa miliardi in più di interessi da pagare per collocare i nostri titoli pubblici. Si parla di escalation di sanzioni economiche alla Russia senza nemmeno capire che cosa significano per noi e la grande politica capace di tenere il filo del dialogo tra Est e Ovest, tra autarchia e mondo libero, perde giorno dopo giorno i suoi potenziali tessitori. Se non cambia radicalmente la musica l’Europa ne uscirà in frantumi, ma l’Italia conoscerà gli spasmi della terza recessione.
O cambia l’Europa o cambiamo noi, l’ideale sarebbe che cambiassero insieme Italia e Europa. Purtroppo, siamo tornati a rifare i conti con la solita Europa. Che vuol dire che la Francia ha il nucleare e si sente a posto e poi ora pensa solo alle elezioni. Che l’Olanda è ancora quella dei Tulipani, vive di polizze e di derivati su tutto a partire dalle commodity. Che la Germania è la Germania e non vuole fare carte come l’Olanda su un tetto ai prezzi del gas.
Le tessere del mosaico Europa si sono ricompattate contro la pandemia e si sono rifrazionate di fronte alla guerra di Putin in Russia nonostante il teatro di combattimento e il genocidio in atto siano nel cuore dell’Europa. Se l’Europa non fa un passo avanti subito almeno con le compensazioni finanziarie, dimostreremo al mondo intero che nessun singolo Paese potrà davvero superare la nuova grande crisi da economia di guerra. Anche la grande Germania scoprirà molto presto di essere troppo piccola per uscire indenne dai due nuovi cigni neri mondiali. Quando lo capirà, però, potrebbe essere troppo tardi. Le fibrillazioni interne di ogni Paese fanno il loro e stanno riportando ogni Paese nel suo pantano senza rendersi conto che solo un’Europa che marcia unita può assicurare quella dimensione minima indispensabile per cercare almeno di arginare i danni per tutti.
Se poi guardiamo meglio le cose di casa nostra rischiamo di avere ancora più paura. Perché scopriamo che l’Italia, anche in questo frangente della storia, non si vuole sporcare le mani con il carbone. Che non vogliamo nemmeno fare i conti con i venti anni di no a tutto che ci hanno portato sull’orlo del baratro. Che la politica gioca con le elezioni amministrative e che gli enti locali non si rendono conto che non spendere significa non crescere. Che abbiamo 30 e passa miliardi in più di interessi da pagare in tre anni per collocare i nostri titoli pubblici sempre se riusciamo almeno ad evitare lo scenario peggiore. Siamo l’Italia che fa ancora fatica a capire quanto è importante potenziare il collegamento con l’Africa e con il Mediterraneo dell’est, giocare bene la carta dell’Eni in Libia e in Algeria. Lo ha capito perfettamente il governo Draghi e lo sta facendo, ma la sensibilità pubblica e la partecipazione attiva delle forze sociali e della comunità al cambiamento necessario ancora latitano, i partiti addirittura inseguono le loro solite battaglie di propaganda e quindi vanno in direzione opposta a volte senza neppure rendersene conto.
Soprattutto scopriamo che l’Italia è persistentemente lenta nel cambiare le sue abitudini di spesa in conto capitale a livello centrale e territoriale ed è molto distratta nell’affrontare le questioni vere che bloccano da sempre la crescita competitiva del Paese. Ignorando pervicacemente che ogni ipotesi di aumento del prodotto interno lordo (Pil), al netto dell’inflazione, può essere oggi essenzialmente legata all’aumento della spesa pubblica, molto, e privata, poco.
Diciamo la verità. In Italia e in Europa siamo usciti dall’emergenza più grave del Covid con la testa che avevamo prima. Siamo ritornati quelli di prima per i quali i giovani arrivano per ultimi, ognuno pensa al proprio interesse, con il governo di unità nazionale guidato da Draghi che è rimasto solo a giocare per difendere l’interesse nazionale alle prese con la guerra, l’economia di guerra che ne discende, gli effetti di una pandemia che non è sparita del tutto, e un amaro gioco di società dove ognuno è tornato a porre l’interesse particolare contro l’interesse di tutti.
Purtroppo, questo in Europa non sta avvenendo solo in Italia. Purtroppo lo si fa proprio nel momento in cui bisognerebbe mettere davanti a tutto l’interesse collettivo Ognuno deve capire che il solo modo di raggiungere la tenuta dell’interesse collettivo è quello di rimanere uniti in Italia come in Europa. Altrimenti finiremo tutti male, nessuno escluso. Questa è la lezione di questi giorni della guerra lunga dopo la pandemia lunga in cui si parla di escalation di sanzioni economiche alla Russia senza nemmeno capire che cosa significano per noi e dove la grande politica capace di tenere il filo del dialogo tra Est e Ovest, tra autarchia e mondo libero, perde giorno dopo giorno i suoi potenziali tessitori. Dove si sta facendo di tutto per bruciare anche Putin. Se non cambia radicalmente la musica l’Europa ne uscirà in frantumi, ma l’Italia conoscerà gli spasmi della terza recessione. Quella irreversibile. Speriamo che almeno questa doppia grande paura faccia rinsavire tutti in casa e in Europa.
(In)dipendenza. Le materie prime delle autocrazie e il paradosso della globalizzazione. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 9 aprile 2022.
Inevitabile e benefica, la crescita economica degli ultimi anni ha portato l’Italia e l’Occidente a essere sempre più dipendenti dalle autocrazie che possiedono energia e materiali necessari per produrre prodotti e servizi.
Il 2022 avrebbe dovuto essere l’anno del recupero completo di quanto perso con la pandemia, e il trampolino verso una crescita finalmente non da ultimi della classe. Il Pil sarebbe dovuto tornare al di sopra dei livelli del 2019, e i fondi del Pnrr avrebbero dovuto iniziare a cambiare strutturalmente il Paese, per consentire un’espansione dell’economia più vicina a quella media Ue.
Dopo il nuovo cigno nero che si è affacciato sulla scena, la guerra in Ucraina, buona parte di queste previsioni sono destinate a rimanere sogni.
Le stime sulla riduzione degli incrementi del Pil per quest’anno sono ancora necessariamente provvisorie, e destinate a essere smentite. Tuttavia in base a quelle dell’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), passeremo da una crescita prevista del 3% a una dell’1,6%. E anche se la crescita fosse stata del 3%, sarebbe comunque meno di quel +4,7% sognato dal Governo nella Nota di Aggiornamento al Def di fine settembre 2021. Il peggioramento è forte, ma il dato più interessante riguarda il fatto che siamo tra i Paesi che soffriranno maggiormente delle ricadute economiche dell’invasione russa e delle misure messe in atto contro l’aggressione di Putin.
Volendo escludere la Russia stessa, che passerà da un’espansione del 2,3% a una recessione del 7,3%, a subire un impatto maggiore saranno i Paesi dell’Asia Centrale, del resto legati a doppio filo a Mosca, l’India, la Germania e il Messico. Per gran parte degli altri, come Francia, Cina, Stati Uniti, le conseguenze saranno più lievi. Pechino crescerà del 4,8% contro il 5,7% pronosticato, Washington del 2,4% contro il 3%. E Argentina, Australia, Arabia Saudita, Medio Oriente, essendo grandi produttori di energia e materie prime, vedranno addirittura un’accelerazione del Pil.
L’Italia fa parte di quel gruppo di Paesi con una crescita inferiore alla media già in partenza, e una riduzione della stessa superiore a quella mondiale. Se questo dato non stupisce nessuno, il secondo, relativo all’impatto della guerra, pone più interrogativi.
Il problema dell’Italia, come della Germania e di molti Paesi dell’Occidente, è che sono vittime della “maledizione” della globalizzazione. È quel fenomeno secondo cui per mantenere il livello di benessere raggiunto dalla società dei consumi e consentire un’abbondanza di beni e servizi a un costo abbordabile, si è sempre più ricorsi all’importazione di materie prime, semilavorati e prodotti finiti da ogni parte del mondo in cui fosse possibile produrli a costo inferiore.
È stato il trionfo dei commerci. E ha portato a una crescita dei redditi e al miglioramento delle condizioni di vita proprio nei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, come ogni cosa bella ha avuto un trade off, un effetto collaterale: l’Occidente ha dovuto affidarsi a fornitori politicamente poco presentabili, stringere accordi con dittatori, autocrati, presidenti “eterni”, clan di ogni tipo.
I dati più eloquenti sono quelli che riguardano l’interscambio dell’Ue con la Cina. Le importazioni sono aumentate, in valore, decisamente più delle esportazioni. Le prime hanno avuto nel 2021 un ulteriore balzo, giungendo alla cifra record di 472 miliardi e 348 milioni, mentre le seconde sono cresciute in modo più regolare, e l’anno scorso si sono fermate a quota 223 miliardi e 380 milioni.
In quasi 20 anni l’incremento degli acquisti dall’estero è stato maggiormente pronunciato proprio presso quei fornitori più distanti, geograficamente, politicamente, culturalmente, dall’Europa, come la Cina, l’India, la Russia.
Dipendiamo sempre più dai tiranni, invece che dagli Stati democratici. Tiranni che sono rimasti tali anche dopo l’intensificazione delle relazioni con l’Occidente. L’illusione era che i maggiori contatti con Europa e Stati Uniti avrebbero portato in questi Paesi anche la democrazia, o qualcosa che le somigliasse, assieme all’influenza culturale, il Mc Donald’s, i film di Hollywood, un po’ come era accaduto in Italia con il Dopoguerra. Era una visione semplicistica e un po’ ingenua. Molte autocrazie si sono addirittura rafforzate grazie alla crescita economica alimentata dagli euro e dai dollari.
Anche dal punto di vista politico-culturale non vi è un automatismo tra il sentire la musica inglese, guardare le serie americane, mangiare hamburger, patatine, o anche gli spaghetti, e il rifiutare l’autoritarismo. Anzi, le maggiori disponibilità finanziarie hanno reso possibile una propaganda più moderna e sofisticata.
Oggi la globalizzazione, al contrario di quanto dicono i vari Fusaro, invece dell’esportazione dei valori occidentali, comporta soprattutto l’accettazione delle autocrazie e la dipendenza da esse da parte di Ue e Stati Uniti.
Finché una non passa il segno in modo così violento e plateale come in Ucraina. Ma anche in questo caso qual è la reazione? Rivolgersi necessariamente ad altri regimi, ad altre democrazie “imperfette”, per sostituire le forniture russe. L’Algeria, il Qatar, l’Azerbaijan, dove Ilham Aliyev, erede del clan che governa il Paese dal 1991, ha “vinto” le ennesime elezioni presidenziali con l’86% nell’ultima tornata. Proprio lui ha incontrato Luigi Di Maio nei giorni scorsi, nel tentativo di trovare qualcuno che ci vendesse più gas.
E se in Algeria un domani prendesse il potere l’Isis o i suoi epigoni? Se gli azeri decidessero di portare il conflitto con gli armeni a maggiori livelli di crudezza? E se la Cina invadesse Taiwan o altri Paesi? Non si tratta, infatti, solo dell’energia. Siamo dipendenti anche e soprattutto dai prodotti, in particolare nel caso di Pechino. Con l’aumento dell’interscambio è diventata ancora più schiacciante la prevalenza di questi tra le importazioni dalla Cina. Sempre più importanza hanno assunto macchinari e mezzi di trasporto, infatti.
La globalizzazione è sbagliata, dunque? Avevano ragione i no global? No, soprattutto non dal punto di vista economico. Ma dopo 30 anni di apertura dei mercati si deve essere ben consapevoli di questo paradosso. Che «dove passano le merci non passano gli eserciti» rimane in gran parte vero. Non ci sono state guerre tra Cina e Occidente, e molto difficilmente ce ne saranno, ma ciò non toglie che le armi possano rimbombare localmente, magari finanziate proprio dai commerci.
Quanto saremmo disposti a una reazione dura, anche solo dal punto di vista economico, se a fare come la Russia fossero più Paesi, anche più potenti? Possiamo cercare di procurare il coraggio necessario almeno per ridurre il nostro grado di dipendenza? Ci vorranno investimenti costosi, ci saranno decisioni impopolari nei confronti dell’opinione pubblica da prendere. La speranza è che i leader occidentali siano orgogliosi, che rifiutando l’umiliazione di calare la testa di fronte ai tiranni trovino il coraggio di fare questi passi.
"Gli alimenti mai così cari". Rischio di bomba migranti. Francesco Giubilei il 9 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'allarme Fao: prezzi agricoli mondiali ai massimi. Esodi da Africa e Medioriente in caso di carestie.
Una delle conseguenze collaterali più drammatiche della guerra in Ucraina è la crisi migratoria che ha portato milioni di ucraini a cercare rifugio nei paesi dell'Europa orientale generando un'ondata di profughi senza precedenti per Polonia, Ungheria, Romania, Slovacchia e Moldavia. A ciò va aggiunta una crisi economica che non riguarda solo l'energia ma interessa numerosi settori a partire da quello alimentare. Le conseguenze si fanno così sentire non solo nel fronte di guerra ma anche nel resto del mondo provocando sconvolgimenti non solo di carattere economico ma anche sociale. È lecito perciò attendersi nei prossimi mesi un effetto domino che non colpirà l'Europa solo direttamente ma anche indirettamente a causa delle conseguenze della guerra per l'Africa a partire dalle forniture di grano. L'Ucraina e la Russia sono infatti due dei principali esportatori di grano nel mondo e il loro export si indirizza in prevalenza verso le nazioni africane e il rischio di un crollo della produzione e di carestie in Africa è tutt'altro che remoto.
Secondo Filiera Italia, che raccoglie alcuni dei nomi più rappresentativi dell'agroalimentare italiano, sono previste forti tensioni nel nord Africa e in Medioriente nei prossimi mesi: «Parliamo di Paesi come l'Eritrea che dipendono per il 100% dal grano prodotto nei 2 Paesi, o della Somalia il cui rapporto di dipendenza supera il 90%, o ancora come l'Egitto che dipende per l'80% dalla produzione di queste zone». Ben cinquanta Paesi in via di sviluppo sono dipendenti per oltre il 30% dalle importazioni di cereali da Ucraina e Russia e venticinque di questi lo sono per oltre il 50%.
La carenza di grano potrebbe portare a una vera e propria emergenza sociale con il rischio di un'emigrazione di massa verso i paesi dell'Europa meridionale. Se così fosse, il Mediterraneo sarebbe la meta privilegiata e ci potremmo ritrovare con decine di migliaia di migranti pronti ad entrare nel nostro paese con un aggravante rispetto al passato, ovvero la difficoltà di attivare meccanismi di ridistribuzione essendo già in atto un'altra emergenza migratoria nell'Europa orientale. Se a ciò aggiungiamo il fatto che le risorse comunitarie in materia di immigrazione verranno concentrate verso i paesi che in questi mesi hanno affrontato l'arrivo dei rifugiati ucraini e che il Mediterraneo rischia di diventare un'area secondaria per l'Ue, emerge tutta la gravità della situazione. Ma c'è di più: il rischio che la Russia utilizzi l'emergenza migratoria in Nord Africa come un'arma per destabilizzare l'area mediterranea è tutt'altro che remota e non dobbiamo dimenticare che in Libia i russi continuano a giocare un ruolo.
Non a caso proprio ieri la Fao ha lanciato un grido d'allarme sull'aumento dei prezzi alimentari definendoli «ai massimi storici» con incremento generale a marzo del +12,6% rispetto al mese precedente. Per Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao: «Bisogna ricordare la connessione profonda dei due Paesi oggi in conflitto, Russia e Ucraina, entrambi forti esportatori di beni agricoli essenziali, in particolare con alcuni contesti in via di sviluppo».
Una relazione diretta tra luoghi del conflitto e alcuni Paesi in via di sviluppo in particolare nel Nord Africa che rischia di riverberarsi a livello di sicurezza alimentare con un effetto a catena pericoloso di cui l'Italia potrebbe essere tra le nazioni europee a subire le maggiori conseguenze.
Le conseguenze del conflitto in Europa. Sanzioni e spese militari, i poveri sono quelli che stanno pagando la guerra in Ucraina. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Aprile 2022.
Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha chiesto se preferiamo la pace o l’aria condizionata. Se preferiamo la pace, dice, dobbiamo accettare di pagare il prezzo delle sanzioni più dure alla Russia. Perché le sanzioni a una grande potenza prevedono un costo alto anche per chi le decide. Però Draghi ha fatto un po’ come la regina Maria Antonietta nel 1789, quando, saputo che al popolo mancava il pane, propose di dargli brioches.
L’aria condizionata, almeno in Italia, è una specie di brioche. È uno strumento, ancora oggi, per i ricchi, o comunque per la gente che sta bene. La quale potrà, ragionevolmente, pagare cento o duecento euro in più al mese per stare al fresco ad agosto. Il problema sarà la bolletta del gas per i poveri, che il gas lo usano per il riscaldamento e per avere l’acqua calda.
Loro gli aumenti non potranno permetterseli. Naturalmente questo ragionamento non c’entra niente con la discussione, ideale, su sanzioni sì o sanzioni no. C’entra però con un fenomeno che non può essere ignorato dai governi e dalla politica. Le conseguenze della guerra, e delle sanzioni, e delle devastazioni, si estenderanno oltre l’Ucraina e colpiranno essenzialmente i poveri. Il divario tra poveri e ricchi, che è il più alto della storia dell’umanità, si allargherà ancora. Da noi i 4 milioni che vivono sotto il livello della povertà assoluta perderanno ancora ricchezza e possibilità di acquisto. E i dieci milioni che galleggiano sul confine tra povertà e non povertà, precipiteranno in basso e verranno raggiunti da almeno un altro milione di persone, cioè i nuovi disoccupati, e forse anche da molti lavoratori autonomi che vedranno i loro profitti diventare sottili sottili.
Sto parlando dell’Italia. Se poi ci affacciamo in Africa, sappiamo che ci sarà la carestia. Non sappiamo ancora quanto vasta e ignoriamo se produrrà centinaia di migliaia di morti, oppure milioni. E anche milioni di profughi. Ai quali noi diremo: via di qui, gente, siete profughi economici ed egoisti, noi accettiamo solo profughi di guerra. Sono tutti effetti collaterali. Più durerà la guerra, più saranno gravi questi effetti.
Ci lasciano indifferenti? Temo di sì. I governi faranno qualcosa per prevederli e attenuarli? Temo di no. E capiranno che bisogna affrettare gli sforzi per una mediazione, un compromesso e la pace. Temo di no. Fingeranno di nulla? Temo di sì.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La loro vita per i nostri spaghetti, quando la ragion di Stato sposa il gas. Valentina Roselli, Giornalista, su Il Riformista il 5 Aprile 2022.
Adesso le carte sono scoperte, i giochi quasi fatti con una partita dal finale ancora incerto e forse oscuro ma sicuramente è iniziata e molte strategie si dipanano inesorabili giorno dopo giorno. Abbiamo capito che l’omertà occidentale nei confronti dei crimini russi non ha pagato anzi ci ha reso debitori della democrazia e traballanti sui mercati internazionali.
Il prezzo del gas già ad ottobre è schizzato irragionevolmente alle stelle e noi abbiamo sopportato il difficile momento spiegandolo anche a ragione con la pandemia, col pensiero a tempi migliori, quando l’amico Putin avrebbe calmierato la situazione. A Zhanaozen invece, centro petrolchimico e del gas del Kazakistan, come andavano realmente le cose lo avevano capito da un pezzo. Già nel dicembre del 2011 gli operai avevano scioperato per ottenere condizioni di lavoro dignitose e un salario decente. Uno sciopero represso nel sangue dalle forze speciali russe. Nel gennaio 2022, la protesta è andata di nuovo in scena e la tragedia si è ripetuta, avvolta dal silenzio complice dell’Ovest. Il cinque gennaio di quest’anno migliaia di operai hanno sfilato contro i rincari del gas: 200 sono stati uccisi e 8000 arrestati.
I media occidentali hanno incolpato il presidente kazako Tokayev degli spari altezza uomo sui manifestanti e della scomparsa di ottomila persone destinate a diventare i nuovi desaparecidos di questa piccola ex repubblica sovietica che va dal Mar Caspio ai monti Altai, al confine tra Russia e Cina. Si è solo accennato timidamente ai legami tra Russia e Kazakistan, all’amicizia tra il presidente Putin e il presidente Tokayev. Ma in sintesi quando ancora una volta, le forze speciali russe hanno riportato l’ordine, a tirare un respiro di sollievo non sono stati solo i clan del potere russo, ormai divisi dalla spartizione della titanica rendita da idrocarburi e dai sobbalzi del regime putiniano ormai al tramonto. A sentirsi sollevate anche le maggiori multinazionali come la Chevron , Shell, Bp, la nostra Eni e la cinese CNPC.
Il Kazakistan è infatti collegato da oleodotti e gasdotti non solo alla Russia ma anche all’occidente e alla Cina. Più che Kazakistan è un vero “Perù” per le sue risorse di ogni tipo, che nessuno ha disdegnato. La mano forte di Putin a Zhanaozen, non ha scandalizzato, né suscitato indignazione e nessuno ha messo in discussione il ruolo di gendarme della Russia nell’intera zona. Un po’ come agli inizi del XX secolo, quando Mussolini e Hitler furono visti gli unici capaci di tenere a bada istanze sociali pericolose, e fu loro conferita dalle democrazie europee e dal capitalismo internazionale la licenza di sporcarsi le mani per preservare interessi economici comuni. Insomma non c’è da stupirsi se tutta questa condiscendenza avrà fatto pensare al presidente russo di poter disporre della confinante Ucraina senza inibizioni. Il triste epilogo dimostra come la Storia sia scritta da corsi e ricorsi e non insegni mai niente.
Quando gas e ragione di Stato si sposano
Ma il felice matrimonio tra la materia prima gassosa e la ragione di Stato non si è celebrato solo in Asia Centrale. A pochi chilometri da noi, in Libia, la paura di compromettere i rifornimenti di gas con dissidi evitabili, ha ammantato di silenzio le peggiori atrocità commesse all’interno delle carceri governative libiche. L’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) fa sapere che in un anno sono stati 65mila i migranti che hanno raggiunto le coste italiane, con 1600 morti affogati. Di questi 31mila sono stati fermati, consegnati alla guardia costiera libica e costretti a rimpatriare.
Per quanto riguarda le risorse del paese nordafricano a spartirsi petrolio e gas oltre alla nostra Eni, abbiamo: la francese Total, la spagnola Repsol e la britannica Shell. Insomma una mangiatoia vasta o più prosaicamente un trogolo spazioso, dove chi favorisce è molto poco sensibile al problema dei disperati nei campi di concentramento, talmente poco interessato, che nonostante i poveretti siano riusciti ad assaggiare una parvenza di liberà, li fa riacciuffare e riportare aldilà del filo spinato. Vittime sacrificali, diciamolo pure senza retorica e senza anacronismo, dell’Imperialismo Europeo.
Non si propongono soluzioni, si vuole ricordare però che le addizionali che leggiamo in bolletta oltre agli effetti della pandemia, sono da imputare al massacro degli operai kazaki e ai profughi dall’orrore libici, rimandanti senza tanti complimenti al macello. Ma si sa, anche se a noi italiani la pasta piace al dente, nessuno può mangiare gli spaghetti crudi e l’odore di gas è altresì l’effluvio della barbarie che serpeggia sibilante nelle nostre cucine.
Guerra giorno 44, nuove stragi e il peso delle opinioni pubbliche sui governi. Andrea Lavazza su Avvenire l'8 aprile 2022.
Nel 44° giorno di guerra in Ucraina un'altra spaventosa strage segna l'escalation della violenza e della brutalità contro i civili inermi. Non c'è dubbio sui "bersagli" dell'eccidio di Kramatorsk, dove la stazione ferroviaria è stata colpita da due missili provocando almeno 50 vittime e più di cento feriti. Scambio di accuse invece sulla paternità degli ordini lanciati sulla zona. Le migliaia di persone ammassate nello scalo e nei dintorni sono residenti della parte della provincia di Donetsk, nel Donbass, ancora sotto il controllo ucraino. Nel timore di un'imminente offensiva di Mosca e dei separatisti filorussi, decisi a prendere il controllo totale della regione, al di là dei territori controllati da 8 anni, molti abitanti cercano rifugio verso ovest e alcuni anche verso est. E il treno è rimasto il principale e più sicuro mezzo di trasporto. Almeno fino a quando è stato preso di mira. Donne e bambini (cinque sono morti in un bilancio ancora provvisorio) erano in attesa dei convogli. Nessun miliziano, nessun deposito di armi, nessuna infrastruttura strategica. Soltanto profughi. E profughi che stanno abbandonando la loro terra, lasciando campo libero alle forse di occupazione.
Se, dunque, le vittime hanno un'identità chiara e incontestabile, alle accuse ucraine contro l'Armata russa ha risposto a stretto giro il ministero della Difesa di Mosca, incolpando le forze armate ucraine di avere condotto l'attacco. La motivazione, certamente incredibile, è che l'obiettivo fosse quello di impedire ai civili di andarsene per poterli usare come scudi umani. Il ministero ha anche affermato - senza al momento fornire prove - che i razzi sono stati sparati dalla vicina città di Dobropillia, controllata dall'Ucraina. A livello di logica è insensato, da ogni punto di vista, che Kiev colpisca volontariamente in pieno giorno i propri cittadini con un missile i cui resti vengono ispezionati in tempo reale dalla stampa internazionale. D'altra parte, anche per i comandi russi, nei giorni in cui il mondo inorridisce per i massacri di Bucha, quella di centrare i profughi inermi sembra una scelta demenziale e suicida, a meno che a dare l'ordine sia stato un criminale di guerra deciso a seminare il terrore indiscriminato, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Diventa quindi più probabile in queste ore, nell'assenza di ulteriori elementi su cui basarsi, l'ipotesi di un errore, ipotesi che comunque non assolve i responsabili, chiunque essi siano. Il tipo di missile utilizzato, secondo una ricostruzione di fonte russa, è il Tochka-U, vecchia arma di fabbricazione sovietica, secondo Mosca in uso ormai soltanto all'Ucraina. Ma analisti citati dalla Bbc hanno mostrato immagini e video che sembrano mostrare come l'esercito russo sia ancora in possesso di Tochka-U, estremamente imprecisi, con alte probabilità di mancare i loro obiettivi anche di mezzo chilometro. Il missile russo - forse invece un Iskander - potrebbe dunque avere mancato il vero bersaglio, la ferrovia o un'altra infrastruttura nelle vicinanze. Anche se molto meno probabile, lo stesso scenario di morte potrebbe essersi realizzato a causa di un errore di lancio da parte delle truppe di Kiev.
Finora l'esercito e le autorità ucraine hanno scelto la linea della trasparenza. Davanti a un video in cui si vede una brigata affiliata georgiana uccidere alcuni prigionieri russi, l'atroce episodio non è stato negato da Kiev ed è stata aperta un'inchiesta. D'altra parte, la tv statale russa all news Rossiya 24 ha trasmesso un filmato in cui due uomini preparano un manichino insanguinato spiegando che era una delle messe in scena degli ucraini nelle città occupate. Alcuni analisti sono però risaliti alla fonte originale del video: una fiction girata a San Pietroburgo. E la direzione di Rossiya 24 ha ammesso "l'errore".
I morti nelle strade diventano purtroppo propaganda, per cercare di mobilitare le opinioni pubbliche a favore dell'Ucraina o per fare sì che esse abbandoni la causa di Kiev. La partita si gioca soprattutto in Occidente, dato che il pubblico russo non riceve altra versione che quella ufficiale. Ed è una partita cruciale, non solo per i destini della guerra. La presidente della Commissione Ursula Von der Leyen è andata coraggiosamente a Kiev per portare la solidarietà della Ue a Zelensky e al suo popolo e a offrire l'ingresso dell'Ucraina nell'Unione. Ha parlato di una procedura accelerata, che forse oggi può contare sulla maggioranza dei consensi in Europa.
Ma alcuni segnali e alcuni passaggi chiave metteranno presto ulteriormente in chiaro se l'appoggio incondizionato, o quasi, alla resistenza ucraina potrà durare a lungo. Le sanzioni che mettono in difficoltà anche le economie occidentali cominceranno a pesare - pace o condizionatori, ha detto Draghi - nei sondaggi e negli orientamenti degli elettori. Ma già in questo mese le presidenziali francesi diranno una parola importante. Se Marine Le Pen dovesse arrivare all'Eliseo, significherebbe che la guerra è vissuta più con fastidio e timore che con partecipazione e difficilmente la procedura per l'ammissione di Kiev viaggerebbe veloce. Qualche cinico sostiene che ci si stancherà presto della solidarietà. Un rischio che non si deve correre e che va scongiurato.
Dagotraduzione dall’Ap l'8 aprile 2022.
I prezzi dei prodotti alimentari come cereali e oli vegetali hanno raggiunto i livelli più alti di sempre il mese scorso, in gran parte a causa della guerra russa in Ucraina e delle «massicce interruzioni dell'approvvigionamento» che sta causando, minacciando milioni di persone in Africa, Medio Oriente e altrove con fame e malnutrizione, hanno detto venerdì le Nazioni Unite.
L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura ha affermato che il suo indice dei prezzi alimentari, che tiene traccia delle variazioni mensili dei prezzi internazionali per un paniere di materie prime, ha registrato una media di 159,3 punti il mese scorso, in aumento del 12,6% rispetto a febbraio. Così com'è, l'indice di febbraio è stato il livello più alto dal suo inizio nel 1990.
La FAO ha affermato che la guerra in Ucraina è stata in gran parte responsabile dell'aumento del 17,1% del prezzo dei cereali, compreso il grano e altri prodotti come l'avena, l'orzo e il mais. Insieme, Russia e Ucraina rappresentano rispettivamente circa il 30% e il 20% delle esportazioni globali di grano e mais.
Anche se prevedibile, dato il forte aumento di febbraio, «questo è davvero notevole», ha affermato Josef Schmidhuber, vicedirettore della divisione mercati e commercio della FAO. «Chiaramente, questi prezzi molto alti per il cibo richiedono un'azione urgente».
I maggiori aumenti di prezzo sono stati per gli oli vegetali: quell'indice dei prezzi è salito del 23,2%, spinto dalle quotazioni più alte dell'olio di semi di girasole utilizzato per cucinare. L'Ucraina è il principale esportatore mondiale di olio di girasole e la Russia è il numero 2.
«C'è, ovviamente, una massiccia interruzione dell'approvvigionamento e quella massiccia interruzione dell'approvvigionamento dalla regione del Mar Nero ha alimentato i prezzi dell'olio vegetale», ha detto Schmidhuber ai giornalisti a Ginevra.
Ha detto che non poteva calcolare quanto la guerra fosse da incolpare per i prezzi record dei generi alimentari, osservando che anche le cattive condizioni meteorologiche negli Stati Uniti e in Cina erano accusate di problemi di raccolto. Ma ha detto che i "fattori logistici" stavano giocando un ruolo importante.
«In sostanza, non ci sono esportazioni attraverso il Mar Nero e anche le esportazioni attraverso i paesi baltici stanno praticamente finendo», ha affermato.
L'impennata dei prezzi alimentari e l'interruzione delle forniture provenienti da Russia e Ucraina minacciano la carenza di cibo nei paesi del Medio Oriente, dell'Africa e di parti dell'Asia dove molte persone già non riuscivano a mangiare a sufficienza.
Quelle nazioni fanno affidamento su forniture a prezzi accessibili di grano e altri cereali dalla regione del Mar Nero per sfamare milioni di persone che sopravvivono con pane sovvenzionato e pasta economica, e ora devono affrontare la possibilità di un'ulteriore instabilità politica.
Altri grandi produttori di grano come gli Stati Uniti, il Canada, la Francia, l'Australia e l'Argentina sono tenuti sotto stretta osservazione per vedere se possono aumentare rapidamente la produzione per colmare le lacune, ma gli agricoltori devono affrontare problemi come l'aumento dei costi di carburante e fertilizzanti esacerbati dalla guerra, siccità e interruzioni della catena di approvvigionamento.
Nella regione del Sahel dell'Africa centrale e occidentale, le interruzioni della guerra si sono aggiunte a una situazione alimentare già precaria causata da COVID-19, conflitti, maltempo e altri problemi strutturali, ha affermato Sib Ollo, ricercatore senior del Programma alimentare mondiale per Africa occidentale e centrale a Dakar, in Senegal.
«C'è un forte deterioramento della sicurezza alimentare e nutrizionale nella regione», ha detto ai giornalisti, spiegando che 6 milioni di bambini sono malnutriti e quasi 16 milioni di persone nelle aree urbane sono a rischio di instabilità alimentare.
Gli agricoltori, ha detto, sono particolarmente preoccupati di non poter accedere ai fertilizzanti prodotti nella regione del Mar Nero. La Russia è uno dei principali esportatori mondiali.
«Il costo dei fertilizzanti è aumentato di quasi il 30% in molti luoghi di questa regione a causa dell'interruzione dell'approvvigionamento che vediamo provocata da una crisi in Ucraina», ha affermato.
Il Programma alimentare mondiale ha chiesto 777 milioni di dollari per soddisfare i bisogni di 22 milioni di persone nella regione del Sahel e in Nigeria in sei mesi, ha affermato.
Per soddisfare le esigenze dei paesi importatori di prodotti alimentari, la FAO sta sviluppando una proposta per un meccanismo per alleviare i costi di importazione per i paesi più poveri, ha affermato Schmidhuber. La proposta invita i paesi ammissibili a impegnarsi in investimenti aggiuntivi nella propria produttività agricola per ottenere crediti all'importazione per contribuire ad attenuare il colpo.
La carestia degli Anni 30 e la fame che ora arriverà in Kenya. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.
La fotografia che ho scelto è davvero leggermente fuori fuoco. Non i campi ucraini di oggi, incolti o devastati da colpi di artiglieria, non la tragedia attuale, ma una che appartiene al passato. Negli Anni Trenta del 900 al Cremlino erano davvero convinti che gli ucraini nascondessero grano e le autorità sovietiche sequestravano tutto, affamando la popolazione, deportando, uccidendo...
Ogni settimana sul magazine «7» Roberto Saviano presenta una foto da condividere con i lettori della rivista e del Corriere. «Una foto — spiega — che possa raccontare una storia. La fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla». Pubblichiamo online la rubrica uscita su 7 del 25 febbraio, per i lettori di Corriere.it
Wishful thinking: un pio desiderio, quello di assistere al cessate il fuoco in Ucraina. Quello di vedere le truppe russe arretrare e liberare terre e corpi. Perché adesso i corpi e le terre sono sotto assedio, stretti tra macerie e colpi d’artiglieria. Sappiamo che a Mariupol quasi 200mila persone sono senza cibo, che stanno bevendo acqua da “fonti” che farebbero inorridire chiunque, che sono senza elettricità. Stanno patendo la fame, una parola che in Europa non eravamo più abituati a utilizzare, perché - diciamoci la verità - a causa della vergognosa retorica anti immigrato, i più si sono convinti che in Italia sia stata «abolita la povertà» (cit.). Naturalmente non è così, ma quello che sta accadendo in Ucraina, ha definitivamente cambiato il nostro approccio alla piaga atavica della fame.
«I PAESI AFRICANI STANNO GIÀ PAGANDO IL CONFLITTO IN UCRAINA PER MANCANZA DI SCORTE E PER I PREZZI ALTI»
Stiamo ascoltando testimonianze di persone che, con la loro voce, ci dicono che non hanno da mangiare, che non possono lasciare le zone di guerra perché i bombardamenti sono continui e perché non hanno a disposizione veicoli e carburante. La fame è la diretta conseguenza della guerra, di ogni guerra. Ma la fame che patiscono i cittadini ucraini non tarda a diventare fame per mancanza di prodotti agricoli nei Paesi in via di sviluppo, Paesi che dipendono quasi del tutto dai cereali e dal grano ucraini e russi. Si stima che nel 2020 Ucraina e Russia abbiano fornito il 30% del grano prodotto a livello mondiale e che i Paesi maggiormente dipendenti da queste esportazioni siano quelli che a causa di mancanza di infrastrutture, siccità, conflitti in corso o durati troppo a lungo, governi instabili o corrotti, persecuzioni e guerre civili, non riescono a produrre grano e cereali ma sono costretti a importarli.
«PUTIN PARLA PER L’UCRAINA DI DENAZIFICAZIONE, STALIN PARLAVA DI DEKULAKIZZAZIONE. LA STORIA SI RIPETE»
Kenya, Tanzania, Sudan, Nigeria sono solo alcuni dei Paesi che stanno già pagando gli effetti della guerra in Ucraina per mancanza di scorte e per l’aumento di tutti i prezzi collegati alla filiera del grano. Da un lato i campi ucraini non coltivati, dall’altro l’aumento del costo di fertilizzanti e spedizioni che fa di un bene di prima necessità come il grano, un bene di lusso. Se osserviamo i fatti da questa prospettiva, e cioè la possibilità - o meglio l’impossibilità - che molti Paesi, tra i più poveri al mondo, hanno di reperire grano e cereali, ci rendiamo conto che tutti gli sforzi per arginare il conflitto alla sola Ucraina sono vani perché questa guerra, se osservata dalla prospettiva di non patire la fame, è già una guerra mondiale. L’aumento del prezzo del pane e la scarsità di cibo porterà a nuove rivolte, come accaduto in un passato recente e come sta già accadendo in questo preciso momento.
«CI SONO STORICI CONVINTI CHE STALIN NON AVESSE INTENZIONE DI STERMINARE PARTE DELLA POPOLAZIONE UCRAINA, MA “SOLO” DI MODIFICARE RADICALMENTE L’ASSETTO ECONOMICO E SOCIALE DELLO STATO SOVIETICO, CHE NEL FRATTEMPO SI COMPISSE UN GENOCIDIO FU UN ‘EFFETTO COLLATERALE’»
La fotografia che ho scelto questa settimana è davvero leggermente fuori fuoco. Non i campi ucraini d’oggi, incolti o devastati dai colpi d’artiglieria, non la tragedia attuale, ma una che appartiene al passato. Negli Anni Trenta del secolo scorso, durante l’Holodomor, al Cremlino erano davvero convinti che i contadini ucraini nascondessero grano, e quindi le autorità sovietiche sequestravano tutto ciò che riuscivano a trovare, affamando la popolazione, deportandola, uccidendola. Viene chiamata Holodomor la carestia che negli anni 1932-1933 ha portato alla morte, in Ucraina, milioni di persone. Molte per fame; altre, deportate nelle regioni artiche, sono morte di stenti, fatica e freddo. E infine i kulaki che possedevano e lavoravano la terra, fatti passare per privilegiati anche se avevano giusto le bestie e gli aratri che servivano per arare, furono assassinati.
Ora Putin parla per l’Ucraina di denazificazione, in quegli anni Stalin parlava di dekulakizzazione: parole d’ordine che servono a fornire uno scopo, una motivazione a chi materialmente imbraccia un’arma, punta un missile o sgancia una bomba. Anche con riguardo all’Holodomor ci sono storici convinti che Stalin non avesse intenzione di sterminare parte della popolazione ucraina, ma “solo” di modificare radicalmente l’assetto economico e sociale dello Stato sovietico, che nel frattempo si compisse un genocidio fu quello che immagino venga definito effetto collaterale non previsto. Beh, magari non sarà stato previsto, ma ci si è poi impegnati, con una tale pervicacia, da rendere irrintracciabile qualsiasi possibile scriminante. E la storia si ripete, davanti ai nostri occhi.
Daniele Dell'Orco per “Libero Quotidiano” il 30 marzo 2022.
Un conto da 60 miliardi di euro ancora da perfezionare. È questo il risultato di 5 settimane di devastazione in Ucraina.
Un dato assolutamente parziale stilato dal KSE Institute team dell'Università di Kiev che viene costantemente ritoccato verso l'alto man mano che la guerra continua e che nuovi bersagli vengono centrati dai russi.
Dal 24 febbraio 2022, è la stima, sono stati colpiti dai bombardamenti almeno 4.500 edifici residenziali, 92 industrie, 380 scuole, 140 presidi sanitari, 12 aeroporti e 7 centrali.
Da metà marzo poi, da quando cioè l'Occidente ha iniziato a inviare massicciamente armi e rifornimenti all'esercito di Kiev, i russi hanno aumentato la loro pioggia di missili (oltre 1400 già usati) verso basi, magazzini di stoccaggio e depositi di carburante.
Inoltre, bisogna ricordare che come strategia di difesa, gli ucraini hanno fin da subito fatto saltare in aria loro stessi ponti, strade e infrastrutture varie per rallentare l'avanzata russa e barricarsi nelle città.
Per avere un'idea della parzialità di un dato che sarà ben più catastrofico anche se la guerra dovesse finire oggi, basti pensare che non comprende una stima di attrezzature, merci, mezzi di trasporto civili etc. ridotti in cenere.
Ai danni evidenti che vengono ritoccati in media di mezzo miliardo di euro al giorno, ci sono poi da aggiungere i "mancati incassi" per l'economia locale e globale. Già settimane prima della guerra infatti, lo spazio aereo chiuso, le ambasciate spostate da Kiev, i mercati finanziari in picchiata e la chiusura preventiva di industrie con evacuazione del personale aveva comportato crolli del Pil da decine di miliardi di euro. Ora il conto è arrivato a superare i 600 miliardi.
Niente, comunque, se paragonato alle perdite di vite umane civili e militari. Un conteggio indipendente dei soldati caduti è ancora impossibile. Ci sono stime, quelle del Pentagono, e ci sono i dati ufficiali delle due parti, ovviamente entrambi viziati dalle rispettive propagande. L'Ucraina sostiene che siano morti 17mila russi. La Russia ne attribuisce 14mila alla controparte ma ne ha confermati meno di 2mila propri.
Una lista che comunque non tiene conto delle perdite delle Milizie popolari del Donbass, né della Rosgvardia cecena e né dei volontari arrivati da Armenia, Ossezia del Sud, Siria. I civili rimasti uccisi dai colpi di artiglieria di entrambe le fazioni sono invece circa 1000.
Chi è riuscito a fuggire, in qualsiasi direzione, la vita l'ha dovrà ricostruirsela praticamente da capo. I rifugiati usciti dai confini ucraini sono 3,8 milioni, ma almeno altri 7 milioni sono sfollati in Patria.
L'accoglienza da parte dei Paesi confinanti (ma in generale europei) rappresenterà una voce di costo abnorme, e l'Italia, tra le altre iniziative già messe in atto per i profughi ucraini che hanno fatto richiesta di protezione temporanea (e che hanno trovato un'autonoma sistemazione) ha stanziato un contributo di sostentamento una tantum pari a 300 euro mensili per massimo tre mesi. È quanto prevede un'ordinanza del capo del Dipartimento della Protezione Civile, Fabrizio Curcio.
In caso ci siano dei minori è riconosciuto un contributo addizionale mensile di 150 euro per ciascun figlio. In Ucraina, comunque, circa un quarto della popolazione totale non vive più nella propria abitazione
Se le vite umane sono impossibili da recuperare, chi pagherà il costo economico di questa guerra? Chi contribuirà alla ricostruzione di un Paese in macerie? L'Occidente, su spinta del Regno Unito, si interroga sulla possibilità di usare le risorse congelate agli oligarchi russi vittime di sanzioni, vale a dire gli almeno 57 magnati considerati vicini al Cremlino e quindi corresponsabili.
I loro beni ammontano a 170 miliardi, capaci di coprire una parte del costo della ricostruzione. Ma, ammesso che ci siano percorsi legali per provvedere in questo senso, servirà uno sforzo complessivo, planetario.
Paolo Baroni per “la Stampa” il 28 marzo 2022.
Sostiene il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco che l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia in corso da oltre un mese sta «concretamente mettendo a repentaglio l'assetto economico e finanziario internazionale». Oltre a questo si aggiunge il peso del Covid, che «produrrà effetti anche sul piano della povertà. Le stime che ci sono - ha sottolineato il banchiere centrale - dicono che entro fine 2022, dopo che in 30 anni siamo scesi a meno di 700 milioni, ci saranno oltre 100 milioni di persone che torneranno in stato di povertà estrema».
Un problema questo sentito anche in Italia, dove negli ultimi anni la stagnazione ha aumentato l'incidenza della povertà, «con molte più famiglie con livelli di reddito e di consumo al di sotto delle soglie convenzionali». Scenari alquanto foschi che vedono sommarsi più fattori: gli effetti della guerra e delle sanzioni, l'impennata - e in molti ambiti (a partire dall'agricoltura) anche la scarsità - delle materie prime e quindi dell'inflazione, ed il persistere della pandemia.
Stando alla direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva il colpo economico globale derivante dalla guerra della Russia in Ucraina potrebbe alimentare rivolte in Medioriente e altrove.
«L'invasione della Russia e le conseguenti sanzioni su Mosca hanno costretto i più poveri al mondo a sostenere la peggiore delle crisi, dovendo fare i conti con costi più alti del cibo e meno posti di lavoro», ha sottolineato Georgieva intervenendo al Forum di Doha. Evidente il rimando alla fase che nel 2011 precedette le rivolte della Primavera araba a causa dell'aumento dei prezzi del pane.
«Quando i prezzi salgono e le persone povere non possono dar da mangiare alle loro famiglie scendono per le strade», ha ricordato Georgieva. Secondo Visco, che ieri a Roma è intervenuto agli «Incontri su Economia e Società» promossi dalla rivista «il Mulino», in questa fase «l'integrazione dei mercati e la stessa cooperazione multilaterale che ne costituivano due fondamentali pilastri sono chiaramente più incerti. Persino la pace nel nostro continente rischia di essere compromessa». A suo parere siamo arrivati ad un vero e proprio «punto di svolta, le cui conseguenze sono difficili da prevedere sia sul piano economico, politico e sociale».
«A me sembra che tra pandemia, diffusione di nuove tecnologie, accorciamento delle catene globali di valore che era quello che stavamo vedendo negli anni della pandemia, i progressi dell'ultimo decennio non potranno che rallentare. Perché non avvenga -ha poi spiegato - è necessario che ci sia un intervento istituzionale e un coordinamento rilevante anche a livello di cooperazione internazionale».
A rischio, in particolare, ci sarebbe il percorso della transizione ecologica, questo perché «l'attenzione si sta spostando inevitabilmente su temi quali la sicurezza energetica, la capacità di far fronte alla interruzione di fornitura - ad esempio - di gas, la necessità di diversificare, come farlo e in quali tempi, con un rischio di un brusco rallentamento o un vero e proprio arretramento. Il rischio è di accentuate regionalizzazioni con minor movimento di persone, merci, capitali e investimenti produttivi più bassi, incertezza per la domanda futura e un più lento progresso tecnologico.
Sono nuove sfide che si vanno ad aggiungere a quelle poste dalla transizione verde che possono renderla addirittura più ardua». Diverso il parere del ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili Enrico Giovannini, che dopo aver assicurato che il 99% delle risorse del Pnrr (61,4 miliardi di euro) assegnate al Mims sono già state attribuite agli enti attuatori e molte delle gare sono in fase di preparazione, ha spiegato che «la crisi drammatica indotta da questa guerra violenta e piena di atrocità è uno stimolo a cambiare anche velocemente» e «spingerà molti operatori anche privati a ridurre la loro vulnerabilità» legata al prezzo dell'energia «mentre si accelera la transizione verso le energie rinnovabili che sono anche un investimento per una maggiore autonomia e una minore dipendenza».
Rublo, crolla il valore degli investimenti: quanto perdono i risparmiatori italiani con la guerra in Ucraina. Milena Gabanelli e Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.
Il default russo è stato scongiurato: i 117 milioni di dollari di cedole in scadenza mercoledì 16 marzo sono arrivati ai creditori del debito estero. Peraltro i pagamenti sono stati una deroga all’embargo da parte del Tesoro Usa visto che le riserve di Mosca in dollari ed euro erano nelle banche centrali occidentali. Ma mercoledì 31 marzo Mosca dovrà pagare altri interessi per 359 milioni di dollari su un bond con scadenza 2030, mentre lunedì 4 aprile dovrà rimborsare un’obbligazione da 2 miliardi di dollari. Ce n’è abbastanza per porsi una domanda: quanto sono esposti i risparmiatori italiani? Quanti soldi rischiano di perdere le famiglie italiane che hanno prestato denaro alla Russia acquistando il corrispettivo dei Buoni del Tesoro di Mosca?
La torta totale del debito
Molti esperti hanno minimizzato la questione. Analizziamo prima di tutto il totale del debito domiciliato nella Federazione Russa. Parliamo di 155 miliardi di dollari: la fetta più grossa, pari a 90 miliardi, è legata ad obbligazioni emesse dal governo russo come debito sovrano, la maggior parte delle quali sono state vendute, come accade in tutti i Paesi, agli stessi russi. Altri 35 miliardi riguardano le aziende (sono i cosiddetti bond corporate). Gli ultimi 30 sono legati alle agenzie governative e sovranazionali.
(…) il totale del debito domiciliato nella Federazione Russa (...) 155 miliardi di dollari: la fetta più grossa, pari a 90 miliardi, è legata ad obbligazioni emesse dal governo russo (...) vendute (…) agli stessi russi.
Ora chiedersi quanti sono i titoli di Stato russi e le obbligazioni di aziende o delle agenzie finite nei conti degli italiani è sostanzialmente come mettersi di fronte a una sfera di cristallo e fare delle domande. Però sappiamo che prima del 24 febbraio (inizio della guerra con l’Ucraina) risultavano in circolazione, cioè fuori dai confini russi, circa 20 miliardi di dollari dei 90 totali del debito sovrano. Tanti, ma non tantissimi se si considera che, potenzialmente, dovrebbero essere distribuiti tra tutti i Paesi occidentali. Per avere un confronto basterebbe ricordare che solo con il crac dell’Argentina del 2001 gli italiani (e solo gli italiani) persero 14 miliardi di euro in Tango Bond. Una finanziaria dello Stato italiano andata in fumo in un week end. Ma siamo sicuri che gli italiani abbiano acquistato solo in dollari o in euro? La struttura dei debiti tra Stati è come una cantina: più cerchi e più trovi.
Investimenti italiani in rubli
Prendiamo la terza famiglia di obbligazioni, quelle legate alle agenzie sovranazionali. In Italia, sui circuiti Tlx ed Euromot di Borsa Italiana, sono state piazzate emissioni sovranazionali (cioè attraverso istituzioni come la Bei, la Banca Europea degli Investimenti) direttamente in rubli.
Vuol dire che c’è chi ha comprato direttamente titoli nella valuta russa: la Bei ha due emissioni, con scadenza 17/7/2024 e 16/2/2026, rispettivamente da 5,5 miliardi di rubli e 3 miliardi di rubli: 77 milioni di euro se si considera la rivalutazione di venerdì dopo che il presidente russo, Vladimir Putin, ha sparigliato le carte chiedendo un improbabile pagamento del gas e del petrolio in rubli. Con il cambio di martedì valevano 60 milioni di euro. Poi ci sono i bond emessi, sempre in Italia e sempre in rubli, tramite la Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Ibrd): tutti insieme valgono circa 50 miliardi di rubli. Al cambio attuale meno di mezzo miliardo di euro.
Quindi ecco i bond della International Finance Corporation (un ramo della Banca Mondiale), sempre in rubli, sempre venduti qui. Il conto sale già sopra i 100 miliardi di rubli, dunque poco sotto il miliardo di euro.
Infine ci sono le emissioni della Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Ebrd) che hanno investito il mercato italiano a partire dal 2016 per circa 80 miliardi di rubli.
La trappola del cambio
I titoli erano allettanti, con cedole anche dell’8%. E poi c’erano le buone relazioni Italia-Russia sbandierate dai diversi governi negli ultimi anni: hanno rassicurato il risparmiatore che, dal giorno successivo all’emissione, può comprare questi titoli sul mercato secondario. E che rischio c’è a comprare in rubli? Lo stiamo vedendo. Visto che questi bond sono quotati su Borsa Italiana è molto improbabile che siano passati di mano a investitori francesi, tedeschi o inglesi. Calcolare la perdita su questi titoli — senza considerare il default — è un disastro già oggi: il cambio negli ultimi anni, quando la maggior parte di queste obbligazioni sono state piazzate, è sempre stato di un euro per 70 rubli circa. Con la guerra il cambio è schizzato anche a 125.
Vuole dire che se avevo 125 rubli in bond, al momento dell’acquisto questi valevano 1,8 euro. Nei giorni peggiori come martedì scorso valevano un euro. Nei giorni migliori 1,2. Parliamo di perdite del valore di bond e interessi del 30-40%. Va ricordato che l’appetibilità di queste obbligazioni è legata anche al fatto che vengono tassate come se fossero statali (cioè al 12,5 per cento). Hanno dunque un vantaggio fiscale, ma a patto che si riesca a guadagnare. E adesso invece si perde, e parecchio, anche se il calcolo è tutto teorico perché nel frattempo la Borsa Italiana ha congelato le compravendite di questi titoli per rispettare le sanzioni. Vuol dire che i rubli non si possono cedere, ma solo lasciare nel cassetto, pregare e sperare. Le emissioni in valuta russa ad un certo punto erano diventate così diffuse che pure Intesa Sanpaolo le ha immesse sul mercato italiano: 139 milioni di rubli con scadenza marzo 2023, il cui prezzo era iniziato a scendere già prima del congelamento in Borsa.
E adesso invece si perde, e parecchio, anche se il calcolo è tutto teorico perché nel frattempo la Borsa Italiana ha congelato le compravendite di questi titoli per rispettare le sanzioni
I bond delle aziende
Con un tale appetito e fiducia nei confronti del rublo da parte del risparmiatore italiano si può ipotizzare che anche parte dei bond corporate siano finiti qui. Sul mercato europeo ci sono in circolazione circa 11 miliardi di euro di debito Gazprom. Quale percentuale è finita sul mercato italiano non è dato sapere: bisognerebbe andare a guardare nei conti titoli di tutti. Poi ci sono bond Rosneft, Lukoil e Sberbank, anche se in dollari.
Il rischio per il sistema Paese
Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, le banche europee hanno crediti per oltre 84 miliardi di dollari, con Francia, Italia e Austria tra le più esposte, mentre le banche Usa hanno debiti per 14,7 miliardi. In Italia sono a rischio complessivamente 19 miliardi tra bond di tutte le tipologie, prestiti bancari e investimenti, secondo l’ultima analisi di Bankitalia (2020). In questa stima, visto che risale al 2020, non c’è il conto che i risparmiatori italiani stanno pagando sul rischio cambio con perdite che per ora vanno dal 30 al 40 per cento.
Cosa succede ora?
Se il 31 marzo o il 4 aprile la Russia non dovesse pagare una delle prossime scadenze partirebbe un cronometro molto speciale: quello che in trenta giorni porta al default, cioè al fallimento di uno Stato. E potrebbe farlo perché nulla impedisce agli Stati di non onorare il debito. Guarda caso, sia la Russia sia l’Argentina (che proprio in queste settimane sta discutendo con il Fmi) non sono nuove a queste manovre. Buenos Aires ha addirittura il record di crac, 12 volte nella propria storia. Mosca non ha pagato nel ’98 (è per questo motivo che oggi ha un debito relativamente basso con un Pil di circa 1.400 miliardi). In teoria il mercato dovrebbe poi ricordarsene a vita e non prestare più soldi. Luigi Einaudi ammoniva che il risparmiatore italiano ha «la memoria d’elefante, il cuore di coniglio e le gambe di lepre», ma negli ultimi anni questo strano animale si è fatto sempre più allettare dalle cedole ricche dei Paesi in crescita. Certo, in caso di crac la Banca Mondiale o la Bei pagherebbero lo stesso. Ma la storia insegna che i debiti funzionano come il domino: se non paga lo Stato, poi non pagano le società, a partire da quelle a partecipazione statale. A quel punto, con il rublo che si svaluta ancora di più, anche se il risparmiatore ha comprato un’emissione della banca Mondiale, in mano gli resta poco più che carta straccia.
Vendetta di Putin su debiti e petrolio. Rodolfo Parietti il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.
Default vicino, rimborsi in rubli e Yuan riserva valutaria. E l'India comprerà il greggio.
Da Mosca arrivano minacce economiche su più fronti, uno spettro variegato di misure di ritorsione in risposta alla sanzioni occidentali che vanno dall'intenzione di rimborsare in rubli gli interessi sul debito al blocco dell'export di grano, fino alla punizione del fallimento inflitta alle aziende estere fuggite dal suolo russo dopo l'invasione dell'Ucraina.
Il rischio più immediato riguarda il pagamento, previsto per domani, di una cedola da 117 milioni di dollari. Con metà delle riserve valutarie bloccate, è probabile che il Cremlino non riesca a far fronte agli impegni finanziari verso gli investitori internazionali. Non a caso, sia le principali agenzie di rating sia il Fondo monetario internazionale parlano apertamente di default imminente. E a non a caso, il ministro delle finanze russo Anton Siluanov ha ieri subito messo le carte in tavola: «Se vediamo difficoltà con l'esecuzione di questo coupon, domani (oggi per chi legge) prepareremo un corrispondente ordine di pagamento in rubli equivalenti». Una mossa che condannerebbe però la Russia alla bancarotta tecnica e innescherebbe una crisi finanziaria globale e fallimenti a catena fra istituzioni, aziende, investitori esposti. Il titolo in questione (e altri di prossima scadenza) è stato infatti emesso prima del 2014, quando la restituzione degli interessi era consentita solo nella valuta di emissione. Lo stesso accadrebbe se in prima battuta venisse deciso di pagare la cedola in yuan, che nelle intenzioni di Siluanov è destinata a diventare moneta di riserva, soppiantando il dollaro e inclinando l'asse verso Pechino. «Lo yuan è una valuta di riserva affidabile - ha detto il ministro - e una parte delle riserve auree e valutarie è in questa moneta. Nelle relazioni commerciali con la Cina, utilizzeremo una quota delle riserve auree e valutarie denominate in yuan».
In linea teorica, Mosca ha tempo fino a metà aprile per saldare il dovuto nel caso decidesse di sfruttare i 30 giorni di grazia previsti dai contratti. Un mese di stallo durante il quale un accordo di pace con Ucraina potrebbe essersi già stato trovato.
L'impressione, tuttavia, è che gli uomini di Putin vogliano forzare la mano. Anche a costo di incorrere in ulteriori sanzioni, o di ripetere l'esperienza del crac vissuta nel 1998. Con la differenza, rispetto ad allora, che verrebbe a mancare la solidarietà internazionale sotto forma di aiuti dell'Fmi e delle principali banche centrali. Ma la logica delle azioni di rappresaglia economica non induce alla riflessione. Così, la Russia ipotizza anche di vietare fino al prossimo 30 giugno le esportazioni di grano, segale, orzo e mais. Mosca esporta oltre 40 milioni di tonnellate all'anno di grano (l'Italia stacca un assegno da 23,7 miliardi per l'approvvigionamento), e un blocco delle vendite manderebbe ancor più alle stelle quotazioni che dall'inizio del conflitto hanno già sfiorato aumenti del 40% concorrendo al surriscaldamento dell'inflazione.
Per le imprese straniere che hanno chiuso i battenti con lo scoppio del conflitto si profila infine una procedura di fallimento entro 3-6 mesi. Siluanov è stato categorico: «Prevediamo l'amministrazione temporanea accelerata e la vendita delle società».
Operazione in perdita. Quanto costa davvero fare una guerra. Marco Gambaro su L'Inkiesta il 14 Marzo 2022.
Le spese possono arrivare a cifre con nove zeri e molto spesso i benefici non riescono a ripagarle. In più, oggi ci sono anche moltissime perdite indirette, come quelle che riguardano la reputazione sulla scena internazionale. È per questo che, nella maggior parte dei casi, chi si impegna in grandi invasioni militari spesso ne esce ridimensionato.
In questi giorni si discute molto delle conseguenze economiche della guerra in Ucraina. In fondo, anche la scelta di invadere un altro Paese è una scelta con una forte componente economica: l’invasore deve bilanciare costi e benefici.
I costi di una guerra sono le spese correnti della distruzione di attrezzature, le vittime, le pensioni per i veterani, gli interessi sul debito – visto che c’è un picco di spesa nel breve periodo – e infine costi più intangibili come la perdita di reputazione.
Dall’altro lato ci sono benefici materiali: la conquista di risorse (lo dimostra l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, che puntava ad appropriarsi dei pozzi petroliferi) oppure la conquista di mercati, come nel caso della guerra dell’oppio a metà Ottocento dove la Gran Bretagna attaccò la Cina per assicurarsi il mercato per l’oppio che produceva in India. Tra i benefici c’è anche il salvataggio di vite umane se queste sono direttamente minacciate.
È possibile tradurre costi e benefici non monetari in grandezze economiche. Per le vite umane ci sono diversi metodi: si possono calcolare ad esempio i redditi attesi per gli anni della speranza di vita, creando un dato usato correntemente dalle assicurazioni per i risarcimenti anche in tempo di pace; oppure si può misurare la perdita di prodotto interno lordo collegata alla singola perdita per gli anni a venire.
La guerra è più attrattiva se gli asset di cui ci si può appropriare producono profitti, in particolare se il mercato internazionale è poco competitivo e i costi sono ridotti: in buona sostanza, se i tempi dell’invasione vittoriosa sono brevi. Il petrolio del Kuwait citato in precedenza è più profittevole del grano ucraino, che ha un livello di profitti futuri limitato dalla concorrenza internazionale.
I costi sono collegati alle truppe e alle attrezzature impiegate, e al tempo necessario per la vittoria: più lunghe sono le operazioni e più salgono i costi.
Da metà Novecento i costi dei conflitti sono cresciuti in modo significativo. Uno studio della Marina americana stima i costi di tutti i conflitti in cui sono stati coinvolti gli Stati Uniti. Mentre nell’Ottocento i costi annui si contavano in decine di milioni di dollari (parametrati al dollaro del 2008), dalla guerra di Corea in poi i costi si contano in miliardi di dollari: si è passati dai 450 milioni l’anno della guerra messicana (1846-49) ai 3 miliardi annui della guerra ispanoamericana fino ai 100 miliardi l’anno per la guerra di Corea e i 50 miliardi l’anno della prima guerra del Golfo. Secondo alcune stime la prima settimana di invasione dell’Ucraina sarebbe costata 20 miliardi di euro.
Una ricerca della Duke University fa un’analisi costi benefici di cinque guerre dove erano coinvolti gli Stati Uniti (Korea, Vietnam, Grenada, Panama, Golfo) e in nessun i benefici intangibili sono stati superiori ai costi sopportati (nemmeno aggiungendo all’equazione i benefici intangibili).
I costi salgono perché le attrezzature impiegate sono sofisticate e il materiale è più costoso: le armi bianche non si consumano, un proiettile da mortaio costa 300 euro, un razzo stinger 40mila. Le attrezzature richiedono una manutenzione costosa, una logistica complessa e impiegano carburante. Nella seconda settimana di invasione i russi hanno schierato veicoli degli anni ’80 sia perché le perdite sono meno costose ma anche perché le riparazioni sul campo sono più semplici ed economiche.
I costi indiretti e reputazionali sono aumentati nel tempo di pari passo con gli scambi internazionali. Oggi ogni nazione è immersa in un reticolo di scambi di beni e servizi per i quali occorre una dose di fiducia. Anche senza sanzioni formali un Paese invasore si trova ad affrontare maggiori costi di transazione. Inoltre, nei beni di consumo l’immagine e i sentimenti presso i consumatori degli altri Paesi può forzare le imprese a rinunciare agli scambi per timore di perdere brand loyalty domestica. L’abbandono da parte di molti marchi del mercato russo, con chiusura di negozi e filiali è dovuta a questo fattore oltre che alle sanzioni.
Infine i benefici sono più incerti. Mentre è possibile trasferire facilmente la proprietà di una terra invasa, come nel corso dei secoli è stato fatto innumerevoli volte, trasferire imprese è più complesso. Per farle funzionare servono competenze manageriali e imprenditoriali che richiedono fiducia e certezza dei diritti di proprietà, altrimenti si sgonfiano.
Insomma, l’equilibrio costi-benefici a priori è più incerto, nel senso che errori di valutazione o imprevisti possono cambiarlo in modo significativo. Per ipotizzare costi non proibitivi occorre sperare in una guerra lampo e in una grande sproporzione di forze in campo. E come si è visto per gli Stati Uniti, ma vale anche per altri, gli equilibri finali in termini economici sono generalmente non favorevoli.
Perché allora si continua a fare le guerre e perché non si fermano subito? È naturalmente difficile rispondere a questa domanda, che non ha solo dimensioni economiche, ma si possono indicare diverse ragioni, anche collegate all’attualità.
Innanzitutto gli errori iniziali di valutazione sono più facili di quanto sembri e la vittoria veloce è una succulenta attrattiva. Anche questa volta Putin ha sottovalutato la capacità di resistenza dell’Ucraina, la sua compattezza e sopravvalutato le performance, soprattutto logistiche, del proprio esercito.
Questi errori di valutazione sono più facili in quei contesti assolutistici dove dare le cattive notizie al capo è spesso pericoloso. È stato riportato che l’Fsb aveva commissionato un sondaggio in Ucraina nei mesi precedenti e aveva tradotto la ridotta popolarità di Volodymyr Zelesnky (27%) in una divisione del Paese.
L’incitamento di Putin a un cambio di regime nei primi giorni di guerra aveva esattamente lo scopo di abbassare i costi da sopportare per il conflitto e i costi successivi di mantenimento dell’occupazione.
In secondo luogo, i costi della guerra sono affondati, cioè non recuperabili: nelle decisioni si tiene conto solo dei costi incrementali che vengono comparati ai benefici attesi. Questo meccanismo spinge a continuare operazioni il cui bilanciamento complessivo risulta già in perdita.
Infine, le valutazioni di una leadership possono essere biased se i costi di un’operazione ricadono su tutta la popolazione, ma i benefici sono appropriati prevalentemente dalla leadership stessa.
Il reticolo di scambi commerciali e culturali rende più costosa sia la perdita di fiducia che la sospensione di questi rapporti per isolamento o per sanzioni formali. La facilità di produrre e diffondere informazioni rende difficile nascondere le azioni di aggressione e allarga i costi reputazionali delle azioni di aggressione.
Quanto costerebbe all’Ue integrare l’Ucraina? Andrea Muratore, Federico Giuliani su Inside Over il 9 marzo 2022.
L’Unione Europea ha ricevuto nei giorni scorsi la richiesta di adesione dell’Ucraina assediata dalla Russia di Vladimir Putin. Il Parlamento Europeo ha calorosamente applaudito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in collegamento da Kiev attaccata dalle bombe e dai missili ucraini, ma ad ora la Commissione Europea di Ursula von der Leyen non ha acluna intenzione di muovere passi decisi verso l’integrazione del “granaio d’Europa” nell’Unione.
Certo, Kiev sarà la prima nazione a ricevere armi dall’Ue, la prima nazione in guerra assistita militarmente da Bruxelles, un partner sempre più forte per l’Europa. Oltre ai 500 milioni in aiuti militari, l’Ucraina riceverà 1,2 miliardi di euro in assistenza finanziaria, fondi deliberati a inizio febbraio prima dell’aggressione russa. Inoltre, nel quadro di Next Generation Eu Bruxelles si è dichiarata disposta a mobilitare i fondi europei di React EU in relazione all’arrivo di rifugiati in fuga dall’Ucraina. A proporre la mossa è stata la commissaria europea per la Coesione e le riforme, Elisa Ferreira, in occasione di una riunione informale dei ministri competenti in Francia, dopo che essa era stata sollecitata dal presidente di Eurocities, il network dei medi e grandi centri urbani europei, il sindaco di Firenze Dario Nardella. “Abbiamo chiesto alla commissaria Ferreira – ha affermato il sindaco dopo il Summit europeo delle regioni e delle città tenutosi a Marsiglia il 3 marzo scorso – che i fondi strutturali di coesione vengano utilizzati, a partire da quelli già stanziati, per rispondere a questa emergenza in maniera flessibile, e abbiamo proposto per il loro uso un canale diretto di collegamento tra Commissione Europea e autorità locali. L’Unione europea e le città devono essere più unite che mai in questo momento”.
Si tratta solo dell’ultima, e più drammatica, fase di rafforzamento di una partnership che dura da un trentennio. Dal 1991 l’Europa unita e l’Ucraina cooperano, ma anche dopo il 2014 il tanto agognato accesso dell’Ucraina all’Ue non si è mai concretizzato. La guerra avvicina l’Ucraina all’Europa ma per ora la allontana dall’Ue. Questo perché i differenziali economico-politici sono notevoli e difficili da superare.
L’Ucraina si trova ad oggi molto lontana dagli standard europei medi in termini di crescita, sviluppo e stabilità. Tra il 2010 e il 2012, il primo processo di colloqui tra Ue e Ucraina sul possibile atto di approvazione della Deep and Comprehensive Free Trade Area (Dcfta), accordo bilaterale di libero scambio poi entrato in vigore nel 2016, è stato frenato dalle preoccupazioni per la gestione del diritto interno nazionale e dai problemi sull’uso politico della magistratura. Questioni che oggigiorno non appaiono meno urgenti. Così come appare preoccupante la guerra degli oligarchi che più volte ha visto, nel fuoco incrociato anche l’attuale presidente.
Sul fronte dei fondamentali economici, l’Ucraina ha ad oggi un rapporto debito-Pil sotto la soglia del 60% richiesto dai parametri di Maastricht (pari al 53%) ma che è destinato ad esplodere dopo la guerra specie considerato il fatto che la ricostruzione imporrà un durissimo sforzo economico. Tutto questo, poi in un’economia in decrescita netta: da 190 miliardi di dollari nel 2013, il Pil ucraino è sceso a 155 nel 2020 (-22,06%), e la perdita del Donbass ha sottratto al Paese quasi un quinto della sua economia.
In altre parole, Kiev si trova in una situazione molto complessa. Da un lato, il governo ucraino ha l’esigenza di entrare a far parte dell’Ue in modo tale da sentirsi più protetta di fronte alle minacce esterne; dall’altro lato deve tuttavia fare i conti con la realtà, ossia un’economia fragile e, già prima dello scoppio del conflitto, in seria difficoltà. A meno che Bruxelles non decida di fare un’eccezione o di cambiare qualche carta in tavola, la sensazione è che la situazione sia destinata a restare in fase di stallo.
Come se non bastasse, ci sono due riserve che devono essere sciolte. Innanzitutto bisognerà capire come finirà la cosiddetta operazione militare russa sul suolo ucraino. Già, perché nel caso in cui il Paese dovesse finire sotto il dominio di Mosca, direttamente o indirettamente, l’Ue resterebbe soltanto un sogno lontano. Ci sono poi altre due possibilità: che l’Ucraina si trasformi in una nuova Siria oppure che il Paese venga smembrato in due o più entità tra loro distinte. La seconda riserva riguarda invece il rapporto tra Unione europea e Nato. Negli ultimi anni, l’ingresso nella Ue lasciava presagire a un conseguente ingresso di un certo Paese anche nel club Nato. Ecco, tutto questo per l’Ucraina non può assolutamente valere, almeno a giudicare le richieste del governo russo.
Complessivamente, come ricordato su Kritica Economica, “dal 2014 ad oggi, l’Ue ha fornito circa 17 miliardi di euro all’Ucraina, sia a sostegno della sua economia claudicante che della modernizzazione del Paese, oltre agli aiuti promossi per combattere il Covid-19. L’impegno in caso di ingresso di Kiev nella comunità sarebbe ancora più profondo”. La sola ricostruzione di un Donbass reincorporato alla nazione (ipotesi sempre più improbabile) costerebbe a Kiev 20 miliardi di euro.
Per fare un esempio di quanto potrebbe essere importante l’assistenza finanziaria richiesta per integrare l’Ucraina in Europa, poniamo il caso di una nazione simile sotto il profilo demografico che accede a cospicui aiuti Ue, la Polonia. Tra il 2015 e il 2019, Varsavia, nel quadro finanziario europeo pre-pandemico, ha ricevuto dai fondi comunitari 49,5 miliardi di euro netti circa per una media annuale di circa 10 miliardi di euro che hanno coperto il 5% della spesa pubblica nazionale del governo polacco. La Polonia ha, per fare un paragone, stando ai dati 2020 un reddito pro capite di 15.656 dollari, quasi cinque volte quello dell’Ucraina (3726,93 dollari) destinato a comprimersi ulteriormente dopo la guerra. I finanziamenti di coesione europei dovrebbero dunque:
Sostenere la ricostruzione dell’Ucraina.
Garantire la stabilità del cambio monetario e dei titoli di Stato
Sostenere una necessità di incremento della spesa pubblica in una condizione di crescita incerta e indebitamento in esplosione.
Finanziare un sistema di welfare, la re-industrializzazione, l’integrazione definitiva al mercato interno
Rafforzare i principali fronti di vulnerabilità dell’Ucraina (difesa ed energia).
Obiettivi che impatterebbero sui programmi europei già esistenti, su quelli in via di decisione, sull’attività dei governi e dunque sul conto economico dei Paesi aderenti all’Unione. I Paesi dell’Ue sono pronti a sostenere un costo del genere? La risposta non gridata, sinora, è stato un “no” corale.
Roberta Amoruso per “il Messaggero” l'8 marzo 2022.
Dopo il venerdì nero, alle Borse tocca un lunedì in balia delle onde, tra nuovi folli record di gas e petrolio e l'ennesima impennata delle materie prime. Sullo sfondo i timori per il possibile embargo sulle importazioni di metano e greggio dalla Russia invocato dal presidente americano Biden. Poi gelato dalla Germania di Olaf Scholz che considera «essenziali» le importazioni da Mosca. Ma sotto i riflettori ci sono anche le speranze minime per il terzo round di negoziati tra Russia e Ucraina.
Infine, l'apertura di Bruxelles a fissare un prezzo del gas, pur di uscire dalla morsa della speculazione. Un mix di fattori che hanno mandato i listini letteralmente sulle montagne russe per tutta la giornata. Poi in serata la sentenza arrivata da Mosca dopo che Biden insisteva sul divieto a comprare il greggio russo, almeno negli Usa. Anche senza l'Europa.
L'esclusione del petrolio russo dai mercati internazionali porterebbe a «conseguenze catastrofiche», causando un balzo dei prezzi fino a 300 dollari al barile, ha fatto sapere minaccioso il vicepremier russo Aleksandr Novak, riposta l'agenzia Ria Novosti, definendo l'ipotesi «una provocazione». Un tema caldissimo, che ha suggerito a stretto giro di posta la precisazione dalla Casa Bianca: Biden «non ha ancora preso alcuna decisione in questo momento».
Per Wall Street è il colpo finale, con il Dow Jones in calo di oltre il 2% e il Nasdaq a -3%. Ma ce nè'è anche per l'Europa che, secondo lo stesso Novak, sta spingendo la Russia verso un embargo delle consegne di gas attraverso il gasdotto Nord Stream 1. L'ennesima minaccia proprio mentre l'Ue prova a capire come rendersi completamente indipendente.
La giornata è iniziata in profondo rosso per tutti i listini Ue, dopo il tonfo degli indici asiatici arrivati ai minimi da 18 mesi. Milano che si è spinta fino a un calo di oltre il 6% sull'onda del petrolio, arrivato a toccare i 130 dollari per il Brent, ai massimi dal 2008, e del gas che sfiorava quota a 350 euro per megawattora ad Amsterdam. Per l'Italia vuol dire un prezzo dell'elettricità vicino a 590 euro a megawattora.
E la benzina oltre 2 euro al litro. Un'impennata accompagnata dall'oro, volato oltre 2.000 dollari l'oncia, dal nickel cresciuto del 40% e dai nuovi record di alluminio, grano e mais. Poi è una arrivata un po' di luce sui negoziati. Così la mediazione turca tra Ucraina e Russia e il via al terzo round di incontri mentre i russi annunciavano il cessate il fuoco su sei corridoi umanitari, è riuscita riportare le Borse intorno alla parità. Ma è durata poco.
L'apertura debole di Wall Street ha segnato una nuova inversione di rotta. Piazza Affari ha finito per perdere l'1,3%, Parigi l'1,1% e Francoforte l'1,9%. A fare le spese un po' in tutta Europa sono state soprattutto le banche. Segno che le Borse guardano all'esposizione al mercato russo, ma anche alla prevista stretta della politica monetaria da parte della Bce chiamata giovedì a valutare le pressioni sui prezzi.
Dietro tanta volatilità non c'è però solo il rincorrersi di notizie e timori dai vari fronti aperti dalla crisi Ucraina. I mercati scontato la nebbia all'orizzonte sulla crescita. Secondo Goldman Sachs, l'Europa può perdere anche 2,2 punti percentuali di Pil rinunciando al gas russo.
Figuriamoci se dovesse fare a meno anche del petrolio. Più pessimista Credit Suisse, che vede il rischio di una «recessione tecnica» dell'Ue assumendo prezzi del petrolio in media a 160 dollari e livelli del gas in media a 250 euro a marzo-giugno. Rinunciare a tutta la fornitura di gas russo sottrarrebbe circa il 3% del Pil annuale.
Daniela Fedi per “il Giornale” l'8 marzo 2022.
Il caso più eclatante riguarda il Gruppo LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) che l'altro giorno ha chiuso 124 negozi in Russia per protestare contro l'invasione dell'Ucraina. Il colosso del lusso francese che da solo controlla 70 marchi del calibro di Dior, Louis Vuitton, Celine e Givenchy, ha dichiarato che i 3500 dipendenti continueranno a ricevere lo stipendio, ma le vendite sono sospese fino a data da destinarsi.
Stessa decisione da parte del Gruppo Kering che ha in portafoglio marchi come Gucci, Saint Laurent, Alexander McQueen, Balenciaga, Boucheron, Brioni e Pomellato, ma continua a retribuire i team locali pur avendo temporaneamente sospeso ogni attività commerciale dei suoi brand in Russia.
Chiusura totale anche da parte di Richemont che oltre agli orologi più lussuosi del modo (Panerai, Piaget, Vacheron&Constantin e Baume&Mercier) controlla l'alta gioielleria (Cartier, Buccellati e Van Cleef&Arpels) e la moda con marchi di nicchia come Chloe e Azzedine Alaïa. Paradossale la situazione di Hermés che a Mosca ha «solo» tre negozi ma in ogni punto vendita del mondo girano le leggendarie liste d'attesa piene di nomi di oligarchi che aspettano da mesi l'ennesima Kelly per non parlare delle Birkin in lucertola azzurra che da sole costano quanto un appartamento neanche troppo piccolo.
È difficile che le ordinazioni possano essere onorate. L'effetto domino delle serrande abbassate riguarda anche Chanel che ha 17 negozi nell'ex Unione sovietica, ma fa impressione pensare che il Gruppo Inditex (Zara, Bershka, Massimo Dutti, Oysho, Pull&Bear) in meno di 24 ore ha fatto tirar giù la cler a 502 punti vendita oltre al proprio ricchissimo e commerce. Intanto Asos e Nike hanno sospeso l'export verso la Russia come del resto hanno fatto Volkswagen e Toyota mentre gli account di Netflix e Disney non sono più raggiungibili.
Anche nel resto del mondo i russi non possono comprare la merce griffata di cui sono bulimici perché hanno le carte di credito bloccate e da sabato scorso Paypal e Revoult impediscono la creazione di nuovi account alla clientela russa. Intanto però Prada ha bloccato l'e-commerce per tutti i marchi del Gruppo (oltre a Prada Miu Miu, Car Shoes e Church' s) e l'Italia della moda sta reagendo con la stessa fermezza e generosità che dimostrano i cugini d'Oltralpe.
«Nel 2021 il nostro export verso la Russia ammontava a 1,4 miliardi di euro l'anno di cui circa la metà nel comparto abbigliamento a cui bisogna aggiungere 250/300 milioni di acquisti nei nostri negozi» spiega Carlo Capasa, presidente di Camera Nazionale della moda che ha lanciato un appello perché i marchi italiani affianchino con le loro donazioni l'UNHCR. Capasa dichiara che hanno aderito tutti: «Stiamo raccogliendo milioni».
I francesi non sono da meno: il Gruppo LVMH ha già donato un milione di euro. Kering solo con Gucci ha dato 500 mila dollari attraverso la campagna Chime for Change. «Le donne in guerra sono colpite in modo sproporzionato» sostiene Marco Bizzarri, presidente e Ceo del marchio delle due G. Erano proprio le donne degli oligarchi le migliori clienti del lusso sulle rive della Moldava. Almeno togliergli le borsette mentre i loro uomini tolgono la vita ai bambini in Ucraina.
E dopo il colosso degli hamburger, anche Starbucks decide di chiudere in Russia. McDonald’s chiude 850 punti vendita in Russia: “Continueremo a pagare i nostri 62mila dipendenti”. Mariangela Celiberti su Il Riformista l'8 Marzo 2022.
Dopo le pressioni e le minacce di boicottaggio, a quasi due settimane dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, Mc Donald’s annuncia la chiusura temporanea di tutti i suoi 850 punti vendita in Russia. “Continueremo a monitorare la situazione e valutare se ulteriori misure sono necessarie. In questo momento è impossibile prevedere quando potremo riaprire“, ha spiegato l’amministratore delegato Chris Kempczincki, che ha tenuto comunque a precisare che l’azienda continuerà a pagare i suoi 62mila dipendenti nel Paese.
La scelta di chiudere dopo le critiche
La decisione di chiudere i propri ristoranti è arrivata dopo le aspre critiche ricevute dai social e dovrebbe accontentare il grande pubblico, che ormai da giorni chiede alle aziende di essere moralmente responsabili e agire per protestare contro l’invasione dell’Ucraina. Questo stop dell’attività rappresenta però una vittoria anche per gli investitori, preoccupati da eventuali danni alla reputazione, nonché dai crescenti rischi legali e di rispetto delle sanzioni e dei diritti umani.
“I nostri valori ci spingono a non ignorare la sofferenza umana inutile” che si sta verificando in Ucraina, ha poi sottolineato Kempczincki.
Il colosso del fast food va ad aggiungersi alla lista delle multinazionali in fuga dalla Russia. Lo avevano già fatto, nei giorni scorsi, le aziende petrolifere, Apple, Nike e Ikea, solo per citarne alcune.
Ma le critiche rivolte a McDonald’s stanno interessando anche altre società come Coca-Cola, Starbucks, KFC e Pizza Hut. E alla fine anche Starbucks ha deciso oggi 8 marzo di chiudere i suoi 130 caffè nel Paese. “Condanniamo gli orribili attacchi della Russia in Ucraina e siamo solidali con tutte le persone colpite” ha affermato il Ceo di Kevin Johnson. Che ha aggiunto: “Continuiamo a monitorare i tragici eventi e oggi abbiamo deciso di sospendere tutte le attività in Russia, inclusa la spedizione di tutti i prodotti Starbucks”.
L’arrivo in Russia nel 1990
In Russia e in Ucraina McDonald’s ha appena il 2% del totale dei suoi ristoranti, da cui arriva il 9% dei ricavi globali (circa 2 miliardi di dollari). Una quota ridotta, anche se non trascurabile, che è in realtà il risultato di anni di investimenti e lavoro.
Quando il brand aprì nel 1990 a Mosca, che era allora ancora parte dell’Unione Sovietica, fu un evento straordinario: divenne il simbolo dell’ascesa del capitalismo a scapito del comunismo. Nel suo primo giorno di attività circa 30.000 russi si misero in fila per assaggiare i suoi celebri hamburger. Mariangela Celiberti
Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 7 marzo 2022.
Da oltre due anni viviamo nell'insicurezza. Fino a ieri eravamo turbati dal Covid. Il nemico invisibile che si muove fra noi. In molti hanno parlato di "guerra", per definire e rappresentare la pandemia. Che ha provocato effetti pesanti e continua a fare vittime. Ma non è una "guerra". Perché il nemico non ha un volto né interessi in nome dei quali combattere. Mentre ciò che avviene in Ucraina è una guerra vera. Sanguinosa. Che sta mietendo vittime nella popolazione del Paese "occupato". E, al tempo stesso, fra i militari del Paese "occupante". La Russia.
Una guerra che si combatte sugli schermi e sui social, oltre che sul territorio e nelle città. Non per caso le autorità russe contrastano, in modo aperto, i canali di comunicazione mediatica e im-mediata. Il digitale e i social. Che "trasmettono" le vicende e le scene di guerra oltre confine. In diretta. Nelle nostre case.
In tempo reale. Anche per questa ragione la preoccupazione dei cittadini appare acuta e diffusa. Pressoché unanime. A differenza di 8 anni fa, nel 2014, quando l'intervento russo in Ucraina determinò l'annessione della Crimea. È quanto emerge dal sondaggio condotto da Demos nei giorni scorsi. Che sottolinea, inoltre, come l'occupazione russa sia condannata da più di tre quarti degli italiani.
Peraltro, la reazione dell'Occidente, attraverso sanzioni economiche, ma senza scendere direttamente in campo, suscita un'ampia adesione, come osservano Bordignon e Turato, nel loro approfondimento. Mentre quanti ritengono che sarebbe stato meglio e più efficace intervenire direttamente, con azioni e interventi militari, costituiscono una componente limitata. Poco superiore al 10%. Circa la metà di quanti avrebbero preferito rimanere fuori dal conflitto. Rinunciando a ogni tipo di sanzione. Per non danneggiare il (nostro) Paese.
I nostri mercati. Tuttavia, queste vicende drammatiche, per quanto abbiano generato emozione, non sembrano aver modificato gli atteggiamenti politici "interni" al Paese. Nonostante le "relazioni" significative con Vladimir Putin, sviluppate, in passato, da alcuni importanti attori politici italiani. In particolare, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. I quali - soprattutto Salvini - oggi cercano di prendere le distanze da quel passato. E da quel "capo".
Tuttavia, le conseguenze di queste drammatiche vicende "esterne", sul piano politico "interno", appaiono poco visibili. La fiducia verso il governo, infatti, si mantiene elevata e raggiunge il 63%. Superiore, di poco, rispetto a un mese fa. Un consenso solido, praticamente identico a quello espresso nei confronti del Presidente del Consiglio, Mario Draghi. A conferma che si tratta di un governo "personalizzato".
Anche gli orientamenti di voto cambiano poco. Anzi, pochissimo. Davanti a tutti si confermano il Pd e i Fratelli d'Italia, entrambi intorno al 21%. Il Pd appena sopra. Entrambi in crescita di mezzo punto percentuale. Mentre, poco più indietro, la Lega è stimata al 17,6% e il M5S scivola sotto il 15%. Come non avveniva da molti anni. Rispetto alle elezioni politiche del 2018, il "non-partito" guidato, attualmente, da Giuseppe Conte appare più che dimezzato.
A conferma dei cambiamenti profondi, che, negli ultimi anni, hanno accentuato l'instabilità del consenso elettorale. Oggi molto più che "liquido", per evocare Zygmunt Bauman. Tutte le altre "forze" politiche si confermano assai meno "forti". E non raggiungono, anzi, perlopiù neppure avvicinano il 10%.
Ad eccezione di Forza Italia, stimata al 7,8%. In lieve crescita. Il partito di Berlusconi, quindi, non risente dell'impopolarità di Putin, in questa fase. Come la Lega di Salvini. Nonostante entrambi, Salvini e Berlusconi, abbiano manifestato, negli anni scorsi, un aperto "legame", con Putin. Matteo Salvini, sul piano dei consensi, appare perfino in crescita, per quanto di poco. Ma resta, comunque, molto lontano da Draghi. E dagli altri principali leader. Conte, Meloni, Gentiloni.
E lo stesso Enrico Letta segretario del Pd Al di là delle specifiche scelte di partito, peraltro, il dissenso verso l'intervento della Russia in Ucraina, rilevato dal sondaggio di Demos, appare largo e generalizzato, fra i cittadini. E, quindi, trasversale. Un atteggiamento di rifiuto appena più limitato, di fronte all'invasione russa, si osserva fra gli elettori dei Fd'I. I quali, comunque, condannano l'aggressione in larghissima maggioranza. Tuttavia, il partito guidato da Giorgia Meloni conferma, anche in questo caso, la propria "differenza".
La propria specifica "posizione" di (unico) partito di "opposizione". La scena politica "interna", dunque, non sembra particolarmente colpita da quanto avviene "all'esterno". In Ucraina. E non subisce mutamenti rilevanti. A differenza del "sentimento" sociale, sempre più pervaso dall'insicurezza. Anche perché la guerra ha investito un Paese europeo non molto lontano, dal quale provengono molte persone - e in particolare molte donne - che vivono e lavorano da noi. È, quindi, probabile che i prossimi eventi alimentino ulteriormente il nostro sentimento. E le nostre paure.
Sarina Biraghi per “La Verità” il 7 marzo 2022.
«Cornuti e mazziati» direbbero in modo colorito a Napoli, ma in effetti la russofobia ha colpito il nostro Paese, dai libri al teatro, dalle mostre di gatti a quelle di fotografia. E ora i sigilli sui beni patrimoniali dei Paperoni moscoviti rischiano di farci cadere nel paradosso. L'Italia, che si sta muovendo nel solco delle sanzioni durissime decise dall'Unione europea, comincia infatti a vedere in soldoni i primi risultati.
Che non sono le macro conseguenze del conflitto Ucraina-Russia legate al rincaro di gas, grano o petrolio, ma quelle più immediate che costringono il governo a sborsare subito danaro contante, dopo aver intrapreso la campagna sequestri dei beni degli oligarchi russi. Sabato il nostro ministero dell'Economia, come accaduto in Francia e Germania, ha annunciato il via ai provvedimenti di sequestro di yacht e ville di proprietà di uomini super ricchi molto vicini allo zar come Alexei Mordashov, Gennady Timchenko e Alisher Usmanov, oltre al presentatore della televisione russa Vladimir Soloviev.
Lucchetti alle ville in costa Smeralda o sulle colline di Capannori, sigilli ai maxi-yacht nel porto di Sanremo o di Imperia in un'operazione da 140 milioni di euro. Obbligo di uno Stato che sequestra un bene è non farlo deprezzare, sia nel caso che venga restituito sia nel caso venga venduto.
Epperò bloccare in porto una mega imbarcazione di lusso, come ha raccontato ieri Il Messaggero, ha dei costi non indifferenti che alla fine della fiera paga lo Stato, ovvero paghiamo noi. Infatti mentre una norma del 2007, già applicata dal Comitato di sicurezza finanziaria, presieduto dal direttore generale del Tesoro come misura di contrasto del terrorismo, che viene eseguita dalla Guardia di Finanza, il decreto legislativo 109 disciplina tutto l'iter ma anche la gestione, la custodia e l'amministrazione del bene congelato. Ovvero, spese vive.
Nel caso degli yacht, il primo costo è l'ormeggio nel porto, che per imbarcazioni che vanno dai 50 ai 90 metri, (dai 50 ai 70 milioni di valore) ha un prezzo tra i 400 e i 500 euro al giorno senza considerare le utenze. Inoltre, non essendo delle «pilotine», c'è un problema di sicurezza che va gestito, secondo le norme nautiche, dal personale di bordo.
In particolare deve sempre essere presente un capitano, che in caso di natanti superiori alle 500 tonnellate deve avere una specializzazione e percepisce uno stipendio medio tra i 12.000 e i 15.000 euro al mese; poi un direttore di macchina, anche lui abilitato per motori superiori ai 500 Kw, con uno stipendio di circa 8.000 euro al mese; infine quattro uomini di equipaggio, che hanno uno stipendio medio mensile di circa 4.000 euro.
Gestione e custodia del bene sono compito dell'Agenzia del demanio che può provvedere direttamente o nominare un amministratore, affrontando le spese in due modi: se il bene sequestrato è redditizio si usano quei fondi, se invece dal fermo non si ricava denaro allora il Demanio o l'amministratore attingeranno ad un apposito fondo nel bilancio dello Stato «con diritto di recupero nei confronti del titolare del bene in caso di cessazione della misura di congelamento». Nella speranza che la guerra finisca al più presto, quei circa 60.000 euro al mese di spese dei super yacht russi ormeggiati le paga l'Italia.
Pagare panfili rischia di essere una specialità italiana visto cosa accaduto con lo yacht di Flavio Briatore, 63 metri, tre piani, 200.000 euro di affitto a settimana, sequestrato a maggio del 2010 dalla guardia di finanza perché l'imprenditore era accusato di frode fiscale. Senza aspettare la sentenza, arrivata dopo 12 anni per la verità, che ha assolto Briatore, il «Force Blue» è stato svenduto un anno fa per 7,5 milioni di euro contro un valore di mercato di circa 20 milioni.
Ad aggiudicarselo una vecchia conoscenza di Briatore: Bernie Ecclestone, ex patron della Formula 1. Ora Briatore avrà diritto ai 7,5 milioni di euro di ristoro ma non è detto che riesca a recuperare la differenza rispetto al valore di mercato. Tornando ai russi ricconi, paghiamo subito il «salvataggio» di un oligarca (uno dei 26 nel mirino delle sanzioni) in fuga nel Mediterraneo a bordo del suo Quantum Blue.
Il russo Sergei Galitsky, fondatore di Magnit, una delle più grandi catene di supermercati in Russia, per sfuggire alle sanzioni europee ed americane era scappato qualche giorno fa dal porto di Monaco. Da sabato sera, però, Alarm Phone, la piattaforma che aiuta i migranti nel Mediterraneo, ha lanciato un Sos per una imbarcazione «alla deriva da 10 ore» nel Mediterraneo con 26 migranti a bordo affiancata alla «Quantum Blue». La Ong ha chiesto alle autorità di coordinare il salvataggio perché «l'imbarcazione è ancora a rischio di ribaltarsi al largo della Libia» a causa di «grandi onde». Chissà se il porto di Lampedusa può accogliere il Quantum Blue.
Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 5 marzo 2022.
La fuga delle grandi imprese occidentali dalla Russia assomiglia sempre di più a un fiume in piena che travolge gli argini. Dopo i big dell'energia e dell'hi-tech a bloccare gli affari con la Repubblica federativa russa sono ora anche i marchi del lusso. Soltanto ieri Panasonic, Microsoft, Swatch ed Hermes hanno annunciato lo stop alle esportazioni verso il Paese che ha scatenato la guerra d'invasione in Ucraina.
La casa di produzione dei noti orologi svizzeri ha congelato le spedizioni verso mosca fino a data da destinarsi. Il blocco coinvolge sia i prodotti a marchio Swatch, sia gli orologi Omega e Longines. Microsoft ha deciso di bloccare con effetto immediato le vendite di software e servizi in tutta la Repubblica russa.
«Siamo inorriditi, irritati e rattristati dalle immagini e dalle notizie provenienti dalla guerra in Ucraina e condanniamo questa invasione ingiustificata, non provocata e illegale da parte della Russia», scrive senza giri di parole sul sito web del colosso fondato da Bill Gates, l'attuale presidente Brad Smith.
Pure il gigante dell'elettronica giapponese Panasonic ha deciso lo stop. «Abbiamo deciso di sospendere le transazioni con la Russia», fa sapere sempre attraverso il proprio sito il gruppo di Osaka, «dicendo di essere «molto preoccupato per l'attuale situazione in Ucraina». Il marchio del lusso Hermes annuncia su Linkedin che chiuderà «temporaneamente» i punti vendita già operativi in Russia sospendendo le attività commerciali a partire da ieri sera.
«È con rammarico che abbiamo deciso di chiudere temporaneamente i nostri negozi in Russia e di sospendere tutte le nostre attività commerciali dalla sera del 4 marzo», scrive il gruppo francese. Il gruppo ha tre negozi in Russia, uno dei quali nel famoso centro commerciale Goum che si affaccia sulla Piazza Rossa. Saracinesche abbassate da giovedì per i 17 negozi Ikea sparsi nel Paese, mentre la danese Lego, ha deciso di bloccare le consegne dei famosi mattoncini.
Decisione che provocherà la chiusura degli 81 negozi col proprio marchio aperti nell'ultimo decennio nelle principali città russe. I cinema russi restano senza pellicole occidentali, dopo che Sony, Walt Disney e Warner Bros hanno rescisso unilateralmente tutti i contratti siglati con i distributori russi. Fra i primi colossi a interrompere gli affari con Mosca ci sono stati Apple, Nike e Netflix, seguite dai big dell'energia: la nostra Eni, Bp, Shell, assieme alla norvegese Equinor. Imitati da alcuni gruppi automobilistici: Volvo e Volkswagen. Ma la lista è destinata ad allungarsi presto.
Jacopo Orsini per “il Messaggero” il 5 marzo 2022.
La guerra in Ucraina e l'incubo nucleare spaventano le Borse. Nel giorno dell'attacco russo alla centrale atomica di Zaporizhzhia i listini europei affondano. E mentre Stati Uniti ed Europa studiano nuove azioni per costringere Mosca a fermare le armi, Vladimir Putin avverte: «Altre sanzioni peggioreranno le cose». A Washington e Londra cresce infatti la pressione per colpire direttamente il gas e il petrolio russo per mettere alle corde il regime ed evitare che le entrate derivanti dall'esportazione delle materie prime bilancino i danni delle sanzioni.
Una mossa delicata però per tutti i Paese europei, come l'Italia, che dipendono fortemente dalle forniture energetiche dell'ex Unione sovietica. In questo clima di altissima tensione ieri il listino tricolore ha chiuso con un tonfo del 6,2%, confermandosi il peggiore in Europa e scendendo ai minimi dal febbraio dell'anno scorso. Dall'inizio del conflitto Piazza Affari ha ceduto il 13% e dai massimi di inizio gennaio il 20%.
In una giornata i mercati europei hanno bruciato circa 394 miliardi di capitalizzazione, 36 miliardi solo Milano. Piazza Affari da quando è iniziata l'invasione russa ha visto volatilizzarsi quasi 100 miliardi di capitalizzazione. Ieri sono crollate comunque anche Parigi (-5%), Francoforte (-4,4%) e Londra (-3,6%), mentre a New York il Dow Jones ha limitato le perdite allo 0,5%.
Ancora chiusa invece la Borsa di Mosca, ferma per il quinto giorno consecutivo per evitare il collasso, mentre le agenzie di rating continuano a declassare il Paese. «La guerra in Ucraina e le sanzioni imposte possono avere implicazioni per il settore finanziario che si estendono ben oltre l'area del conflitto», ha sottolineato l'americana S&P Global Ratings.
Nel frattempo la guerra continua a far volare i prezzi delle materie prime. Sempre ieri il petrolio a Londra ha guadagnato il 7% a 117 dollari al barile, picco dal 2008. Il gas è salito invece del 27% a 204 euro per Mwh (+156% l'impennata in un mese) nonostante le rassicurazioni di Gazprom che ha garantito il regolare invio di metano in Europa attraverso l'Ucraina.
Salito anche il prezzo del carbone (+12% a 415 dollari a tonnellata), quasi triplicato rispetto ai primi di gennaio, con l'aumentare dei timori di tutti i Paesi europei per gli approvvigionamenti energetici. Uno scenario che spinge a riconsiderare il carbone per produrre elettricità. In Italia si ipotizza anche di riaprire le centrali già chiuse alimentate con questo combustibile fossile in caso di emergenza.
Tornando alle azioni, sul listino milanese pioggia di vendite sulle banche e in particolare ancora una volta nel mirino soprattutto Unicredit, per la sua esposizione in Russia, che ha chiuso con un calo del 14% a 9 euro (-36% dall'inizio del conflitto). Ancora peggiore la scivolata di Tim, che ha lasciato sul terreno quasi il 16% ma per i conti in pesante rosso e il nuovo piano che non ha convinto gli investitori.
Passando alle valute l'euro è scivolato sotto la soglia di 1,1 dollari per la prima volta da maggio 2020, mentre si è attestato a 160 punti il differenziale tra Btp e Bund tedeschi (in salita dai 155 del giorno prima) ed è sceso all'1,53% il rendimento del Btp decennale italiano.
Intanto la tempesta che si è scatenata sui listini potrebbe congelare le nuove quotazioni a Piazza Affari, dopo i 48 debutti registrati sul mercato l'anno scorso. La paura della guerra rischia infatti di far slittare a tempi migliori gli sbarchi sul mercato già programmati per questo periodo.
Giusy Franzese per “il Messaggero” il 4 marzo 2022.
Lo stop all'interscambio commerciale con la Russia e con l'Ucraina, in alcuni settori fortemente dipendenti dalle forniture dei due paesi, inizia a dispiegare l'impatto negativo anche sulle fabbriche europee con la sospensione di intere linee di produzione. Lo ha deciso Volkswagen, e poi Bmw, il gruppo Michelin. Nessuno stop invece per Pirelli che ha smentito indiscrezioni in tal senso.
In Italia i primi contraccolpi per carenza di materie prime si sentono soprattutto nella siderurgia e così, per la seconda volta nell'arco di pochi giorni, si ferma la produzione nelle tre acciaierie di Ferriere Nord del gruppo Pittini, Osoppo (Udine), Verona e Potenza. «Le navi con i materiali sono ferme in Mar Nero e noi siamo in attesa che la situazione si normalizzi» spiegano in azienda. Altre decisioni di questo tipo sono nell'aria.
«Alcune aziende sono già rimaste senza ghisa, e il timore è che i blocchi produttivi ucraini e le sanzioni contro la Russia possano provocare nuovi shock sul lato dell'offerta di materie prime e di semilavorati, determinando impatti devastanti sui prezzi e sulle potenzialità di fornitura di commodity necessarie alle nostre filiere produttive» dice Fabio Zanardi, presidente di Assofond. Ucraina e Russia insieme riforniscono l'Europa di un terzo (33,1%)del suo acciaio.
La dipendenza dell'Italia sale al 40,8% (20,7% dalla Russia, 20,1% dall'Ucraina). «È soprattutto nel settore della ghisa che i due paesi sono grandi protagonisti, insieme coprono il 53% della quota di export mondiale» spiega Stefano Ferrari, direttore centro studi Siderweb. Molti impianti ucraini sono nel Dombass, la regione che Putin ha annesso unilateralmente alla Russia. Ma anche gli altri nelle zone centrali sono in difficoltà per il conflitto.
Proprio ieri ArcelorMittal ha annunciato che ha iniziato lo spegnimento degli altiforni a Kryvyi Rih, in Ucraina appunto. Altri grandi produttori stanno pensando di fare la stessa cosa.«Ci si deve aspettare l'aumento dei prezzi di ghisa, Dri, rottame, bramme e prodotti piani al carbonio, oltre a ulteriori incrementi dei costi produzione per i rincari di energia e nickel» prevede Ferrari.
Venendo meno Ucraina e Russia, i paesi importatori hanno iniziato la caccia a fornitori alternativi, dall'Asia o dall'India, quote Ue permettendo. Ma la pressione della domanda influirà ancora di più sui prezzi. E, a cascata, si riverserà sui prodotti finiti che hanno componenti di acciaio e alluminio. Si salva per ora chi ha riempito i magazzini di scorte.
«La pandemia ci ha allenati a governare l'emergenza e l'incertezza. Nei nostri stabilimenti ormai lavoriamo con stock elevati. E comunque il gruppo Marcegaglia anche prima del conflitto importava poco da questi due paesi» dice l'ad Antonio Marcegaglia. Il quale comunque non nasconde di essere preoccupato.
«Stiamo vivendo una fase molto instabile e terribilmente complicata. Ogni giorno lo scenario può mutare», dice Federico Visentin, presidente di Federmeccanica, che ieri ha presentato l'indagine congiunturale sul settore con i buoni risultati del 2021, ad eccezione dell'automotive . E proprio il settore auto, come detto, è tra i primi a doversi piegare alla carenza di approvvigionamenti. Mancano i microprocessori e anche i cablaggi prodotti in Ucraina.
Bmw ha chiuso per una settimana le linee del più grande stabilimento europeo, quello di Dingolfing in Germania. E a breve - secondo il Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) - toccherà nellaltro sito di Monaco, con ricadute nello stabilimento Mini di Oxford e in quello di Steyr in Austria dove si costruiscono motori.
Già nei giorni scorsi il Gruppo Volkswagen aveva annunciato programmi di riduzione o sospensione della produzione in diverse fabbriche proprio per la carenza della componentistica proveniente dall'Ucraina. E ieri anche il gruppo Michelin (pneumatici) ha comunicato il fermo della produzione di alcuni suo stabilimenti in Europa. Contestualmente è fuga dalla Russia: ogni giorno aumentano le aziende dei vari settori che abbandonano il Paese sia chiudendo gli stabilimenti in loco che interrompendo gli scambi commerciali.
Il mondo cambiato in 6 punti. Paolo Guzzanti il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.
L'invasione iniziata una settimana fa stravolge le nostre certezze: i leader razionali, la Nato e l'Ue, la politica energetica, la Cina, un futuro di nuovi muri e i valori che abbiamo riscoperto.
È stata la settimana che ha sconvolto il mondo. Ci credevamo invulnerabili alle guerre più barbare con armi nucleari e invece no. Contrordine, gente comune e politici pigri: dobbiamo rivedere le nostre certezze. Perché il mondo è cambiato. In almeno sei modi.
1. Quello che nell'iconografia di guerra veniva chiamato l'Orso russo e che credevamo relegato nei libri delle favole, ha scardinato la rilegatura ed è tornato a spaventarci, non si sa se per aver perso la logica, la nostra logica occidentale figlia della filosofia greca e ci prende a scrolloni e ci destabilizza. E quindi di colpo scopriamo che non ci aspettano anni di folgorante ripresa e di Pil alle stelle, ma anni di instabilità. Il nostro grande vicino che occupa uno spazio sul pianeta lungo dalla Germania al Giappone passando per la Cina, dopo una prima brezza ed ebbrezza democratica è tornato prigioniero di una genetica imperiale, da stivali chiodati, e nessun rispetto per il mondo circostante. Esige come un diritto all'intrusione dentro e fuori i suoi confini e ragiona con decrepite categorie mentali imperiali come le «sfere di influenza», «stati cuscinetto» e sovranità limitata, minacciando e praticando l'uso discrezionale di bombe e cannoni, anche con testate nucleari.
2. Però, sorpresa. Due entità, la Nato e l'Ue, che sembravano sepolte nelle loro sigle prive di significato e con l'elettroencefalogramma piatto (lo disse un anno fa il presidente francese Manuel Macron) si sono dimostrate ben vive e con gli strumenti e la voglia di costituire un'unica guida. A farli rinascere è stato proprio Putin. Avranno tutti i difetti del mondo, ma finalmente ne abbiamo avuto la prova: Unione Europea ed alleanza Atlantica esistono, reagiscono e senza di loro rischieremmo di consegnarci alla mercé di un autocrate. Infine, il risultato più inatteso: l'Europa ora è anche armata, il che vuol dire pronta a spendere denaro in sicurezza, pronta a fare sacrifici per avere e proteggere una sua politica estera ispirata ai suoi principi.
3. La guerra ci ha messo davanti a una scelta: sopravvivere significa cambiare la politica della sostenibilità perché dovremo sia stringere la cinghia, sia procedere verso una riconversione usando un mix di fonti diverse whatever it takes - e smettere e non essere più dipendenti da un fornitore incontrollabile, e anche alla svelta perché dobbiamo scaldarci per il prossimo inverno
4. Forti dell'esperienza che stiamo affrontando, possiamo forse guardare in modo nuovo alla Cina che costituisce una minaccia sia demografica che tecnologia, con una evidente propensione egemone ma anche un realismo più solido perché la Cina ha i suoi problemi e non sarà la Russia a risolverli visto che può offrire soltanto gas e petrolio, certamente utili benché la Cina abbia già fatto ricorso ad altre fonti e riaprendo le miniere di carbone ovunque si trovino. Se la Russia metterà in discussione il mondo globalizzato su cui la Cina ha costruito le sue fortune saranno guai anche per Mosca. Un nuovo terreno d'intesa è possibile, ma facendo patti chiari sui temi dell'indipendenza e della libertà di navigazione.
5. Questa guerra ci mette davanti alla prospettiva di un mondo diviso, fra muri reali o simbolici mentre siamo da tempo abituati a un mondo in cui tutto circola, perché adesso tutti i Paesi, Svizzera e Monaco compresi, hanno deciso di mettere al sicuro il denaro, mentre è in arrivo la cleptocrazia russa. Anche i canali tv, i siti e i social della disinformazione sono nel mirino e probabilmente ci si deve aspettare un mondo con qualche frontiera in più per la difesa collettiva dei Paesi avanza
6. Ciò che sta emergendo è una novità assoluta: tutti dicono di essere disposti a sacrificare qualcosa se si tratta di difendere la libertà e il futuro delle prossime generazioni. Non era affatto scontato, tutt'altro. Ma la solidarietà verso l'Ucraina i cui cittadini uomini e donne sono uniti nella volontà di difendere la propria sovranità e libertà spinge verso la consapevolezza e anzi la voglia di fare sacrifici. Così come dovrebbe cambiare la prospettiva culturale: l'occidente si sta mettendo nell'ordine di idee di accettare i sacrifici per scoraggiare l'avanzata dell'autocrate russo che non esita ad attaccare i valori europei. Ha detto ieri fra gli applausi Ursula von der Leyen: «Sono consapevole che le sanzioni avranno un costo per l'economia europea, ma questo è un costo che siamo disposti a pagare perché la libertà non ha prezzo».
Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” l'1 marzo 2022.
Ci sono due tipi di guerra, secondo Richard N. Haass: guerra per scelta e guerra di necessità. È una distinzione alla quale il diplomatico americano, presidente del Council on Foreign Relations (il più noto think tank in materia di relazioni internazionali) e già alto funzionario nel Dipartimento di Stato sotto George H. W. Bush, ha dedicato un libro nel 2003. I conflitti combattuti per necessità, come la Seconda guerra mondiale o la prima guerra del Golfo, servono a «difendere interessi nazionali vitali e prevedono l'uso della forza come ultima risorsa», a differenza delle guerre per scelta (gli Usa in Vietnam, in Iraq nel 2003, in Afghanistan dopo la fase iniziale).
La storia, nota Haass, insegna che molte guerre per scelta finiscono male: i costi si rivelano superiori alla capacità di trasformare i risultati sul terreno in successi duraturi. Ai sovietici accadde con l'invasione dell'Afghanistan iniziata nel 1979, che si trascinò per dieci anni danneggiando l'autorità dello Stato. Perciò, per fermare Putin nella guerra per scelta in Ucraina, bisognerebbe fargli pagare un alto prezzo.
Quella in Ucraina è ancora una guerra per scelta? C'è chi dice che Putin ha investito così tanto che ormai è una guerra di necessità e si preoccupano che, pur di vincere, faccia scelte estreme.
«Era - e credo che resti - una guerra per scelta. Putin aveva altre opzioni, non credo che i suoi interessi vitali fossero minacciati. È chiaro che il conflitto non sta andando come si aspettava: si sta dimostrando molto più difficile e costoso. Si è trovato davanti una fiera resistenza ucraina aiutata da Stati Uniti ed Europa, sanzioni economiche e il rafforzamento della Nato. Ma è una domanda interessante perché è vero che Putin ha investito molto, incluso il suo prestigio, e ci chiediamo che cosa farà ora.
Ha una serie di opzioni di escalation: potrebbe intensificare attacchi e raid in Ucraina, ampliare la guerra e colpire un Paese della Nato, lanciare attacchi cibernetici contro istituzioni finanziarie europee e americane, usare armi di distruzione di massa biologiche o nucleari. Il nostro compito è far funzionare la deterrenza: continuare a rafforzare l'Ucraina, la Nato e le sanzioni per non permettere che Putin vinca, e allo stesso tempo accertarci che abbia una via d'uscita negoziata direttamente con l'Ucraina e indirettamente con Usa e Europa, perché non concluda che la sua unica scelta è l'escalation.
La sola altra opzione che riesco a immaginare è che le persone della sua cerchia concludano che le azioni di Putin sono una tale minaccia per il futuro della Russia (e per loro in quanto crimini di guerra) che arrivino a contrastarlo: una sfida interna alla sua autorità».
La catena di comando nel sistema nucleare russo si basa su una concatenazione a tre chiavi: nelle mani di Putin, del ministro della Difesa e del capo maggiore interforze. Possono fermarlo?
«Non vorrei dover mettere alla prova questa eventualità. La cosa più inquietante dell'allerta del deterrente nucleare russo non è che Putin userà le testate ma che potrebbe farlo. Non sono certo che ci sia qualcuno in Russia che può fermarlo: ha talmente aumentato il suo potere e ridotto quello altrui che, se scegliesse l'escalation, non avrebbe grandi ostacoli».
Per anni gli esperti di relazioni internazionali hanno parlato della «teoria del pazzo». Ma questa è la «realtà del pazzo».
«La "madman theory" descrive leader razionali che fingono di essere un po' folli perché sperano che l'altra parte li trovi così pericolosi e imprevedibili da fare un passo indietro. Ma con Putin un numero crescente di segnali indica che i suoi non siano bluff o minacce, ma azioni. L'ex segretario della Difesa Robert Gates (e ogni funzionario americano abbia conosciuto Putin di persona) dice che non è il Putin che ricordano: che c'è qualcosa di strano, fisicamente o psicologicamente. Perciò dobbiamo contemplare la possibilità che non stia bluffando».
Un sondaggio mostra che il 26% degli americani è favorevole a un «ruolo importante» degli Usa in questa guerra, il 52% ad un «ruolo minore», il 20% nessun ruolo. Che discorso sullo stato dell'Unione farà Biden oggi?
«Questa non è l'agenda che il presidente voleva: pensava di occuparsi di questioni interne, di Covid, cambiamenti climatici, Cina. I presidenti però possono scegliere tante cose: il loro programma, il loro vice, il governo, ma non gli eventi che accadono. Biden dedicherà all'Ucraina una parte sostanziale del discorso, ma dirà anche che il Paese ha bisogno di restare focalizzato sulle sfide interne alla democrazia, salute, economia».
Esiste una dottrina Biden in politica estera? La guerra in Ucraina l'ha cambiata?
«Non sono sicuro che ci sia ancora una dottrina Biden. Se c'è, è cambiata. L'approccio di Biden alla politica estera consiste nel lavorare strettamente con gli alleati in Europa come in Asia. La crisi in Ucraina ha illustrato l'importanza della partnership transatlantica e ha portato alla realizzazione collettiva che l'Europa è riemersa come area geopolitica.
Molti in America pensavano che non avremmo più dovuto preoccuparci dell'Europa e che potevamo lasciarci alle spalle il Medio Oriente e concentrarci sull'Indo-Pacifico. La crisi ucraina prova che è un lusso che non abbiamo. Accanto all'Asia, dobbiamo continuare a prestare attenzione all'Europa e al Medio Oriente e dunque, si tratta di un contesto internazionale straordinariamente esigente per gli Stati Uniti e l'Occidente».
La marea umana in piazza per la pace. Patricia Tagliaferri su Il Giornale il 28 Febbraio 2022.
Dovevano essere 20mila, ne sono arrivati oltre 500mila secondo gli organizzatori. Una stima credibile a vedere le immagini della marea umana che ha attraversato il cuore di Berlino invocando la pace, nelle stesse ore in cui in presidente Putin ordinava l'allerta del sistema nucleare di deterrenza. Immagini senza precedenti del viale che collega la porta di Brandeburgo alla colonna della Vittoria invaso da centinaia di migliaia di tedeschi, arrivati da ogni regione della Germania, e da persone di diverse nazionalità che sfilavano fra bandiere ucraine e delle pace scandendo lo stesso slogan: «Stop war!».
Uomini, donne, giovani, anziani e bambini, molti con abiti blu e gialli, i colori della bandiera ucraina. Insieme per una mega-manifestazione di solidarietà e di sostegno ai valori della democrazia che si è estesa a macchia d'olio, tanto da costringere gli organizzatori ad allungare il percorso fino alla stazione di Tiergarten, coinvolgendo l'intero quartiere di Mitte. «Vogliamo che queste immagini arrivino all'Ucraina e che sappiano che siamo al loro fianco», dice un ragazzo. «Oggi noi, domani voi», «La storia si ripete!», «Ucraina fronte della lotta globale per la democrazia», alcune delle scritte sui manifesti sollevati in aria. Dopo che in mattinata, in un discorso al Bundestag accolto con un'ovazione, il cancelliere Olaf Scholz aveva espresso il suo sostegno a Kiev: «Al fianco degli ucraini siamo dalla parte giusta della storia».
Anche in Russia c'è una minoranza pacifista che, nonostante la repressione del dissenso voluta dal Cremlino, continua a scendere in piazza per dimostrare la propria solidarietà all'Ucraina. Solo ieri ci sono state proteste in 44 città e sono state fermate 900 persone. Ma dal 24 febbraio, secondo il sito indipendente Ovd-Infogruppo che si occupa della tutela dei diritti umani in Russia, sono stati 4.552 gli attivisti arrestati nel corso delle manifestazioni contro l'invasione dell'Ucraina. Manifestazioni pure a Minsk, contro la guerra e il coinvolgimento nel conflitto della Bielorussia e del regime di Lukashenko. Su Twitter la leader dell'opposizione, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha postato alcuni video della piazza: «La gente non vuole essere complice dell'invasione russa dell'Ucraina».
Una mobilitazione globale che non accenna a fermarsi. Migliaia di persone hanno riempito piazza Dam, ad Amsterdam, colorando di giallo e blu la zona centrale della città olandese e chiedendo di intervenire subito per fermare il conflitto. Stesse immagini a Praga. Anche qui erano in migliaia riuniti in piazza San Venceslao per sostenere il popolo ucraino. C'erano anche il premier, Petr Fiala, e l'ambasciatore ucraino nella Repubblica ceca, Yevhen Perebiinis. Particolarmente numeroso il corteo organizzato in Spagna, nel centro di Madrid, promosso dalla comunità ucraina. Proteste anche a Bilbao, Barcellona e Valencia. Tra i pacifisti in piazza a Londra, che continua ad illuminare gli edifici simbolo della città con i colori dell'Ucraina, c'era l'ex calciatore Andriy Schevchenko, fotografato avvolto nella bandiera nazionale del suo Paese a Trafalgar square. È cominciata intonando l'inno nazionale la manifestazione che a Roma ha riunito la comunità ucraina in piazza della Repubblica. I manifestanti chiedono aiuto alla Nato e invocano lo stop dell'invasione da parte del presidente russo. Anche a Napoli, Firenze, Torino e Milano le piazze sono tornate a riempirsi per protestare contro Putin.
Il virus russo. La lezione del Covid è che gli incendi non si spengono un po’ alla volta, e vale anche per Putin. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.
Non stupisce che a invocare gradualismo sulle sanzioni sia proprio Matteo Salvini, che nel 2020 invitava a tenere tutto aperto e polemizzava persino sulle mascherine.
Il dibattito intorno all’opportunità di ricorrere a sanzioni più o meno «proporzionate», «graduali» e «mirate» per fermare l’avanzata russa in Ucraina ricorda molto da vicino il dibattito sulle restrizioni necessarie a fermare l’avanzata del Covid. O almeno ce lo ricorderebbe, se da quell’esperienza avessimo imparato qualcosa.
Per giorni ci siamo sentiti dire che occorreva tenere da parte le sanzioni più dure come deterrente in caso di escalation, persino dopo che la Russia aveva dato il via a un’invasione su larga scala. Posizione difficilmente comprensibile in sé e per sé (quale sarebbe l’ulteriore escalation che dovremmo attendere, il lancio di missili nucleari contro le capitali europee?), ma anche il segno che dall’esperienza della pandemia abbiamo imparato poco. Fortunatamente le decisioni annunciate ieri dalla Commissione europea sembrano andare in direzione opposta.
Proprio la pandemia dovrebbe infatti averci insegnato che, dinanzi a una minaccia dagli effetti potenzialmente catastrofici, un approccio eccessivamente «gradualista» è il meno razionale, per la semplice ragione che la «gradualità» delle nostre contromisure ha una progressione per dir così lineare, mentre gli effetti che quelle contromisure dovrebbero contenere hanno una crescita esponenziale. Se le tende della cucina prendono fuoco, nessun individuo sano di mente pensa di conservare l’acqua nel caso in cui l’incendio si allargasse: tutti capiscono che bisogna buttare sul fuoco quanta più acqua possibile e che bisogna farlo subito, proprio per evitare che l’incendio si allarghi. Le sanzioni al momento sono tutta o quasi tutta l’acqua di cui disponiamo: buttarle sul fuoco una goccia alla volta forse non è il modo più razionale di usarle. E nemmeno il più economico.
Non stupisce che a trascinare i piedi e a invocare gradualismo sia Matteo Salvini, che ieri non ha esitato a rompere il fronte della fermezza anche sull’invio di armi agli ucraini. Non per niente si tratta dello stesso Salvini che nel 2020 invitava a tenere tutto aperto e polemizzava persino sulle mascherine. Anche i suoi argomenti sono gli stessi di allora, a cominciare da un’infondata contrapposizione tra le ragioni dell’economia e quelle della politica.
A ben vedere, infatti, non c’è alcuna contrapposizione. Ce lo dice l’esperienza. Quegli stessi industriali lombardi che all’inizio del 2020 chiedevano di tenere tutto aperto, se potessero tornare indietro nel tempo, sarebbero certo i primi a gridare di fare l’esatto contrario, e non solo per evitare le tremende tragedie che sono venute dopo; ma anche perché consapevoli, con il senno del poi, di quanto un intervento più drastico e tempestivo sarebbe stato pure il più vantaggioso dal punto di vista economico.
Solo che stavolta l’alternativa a un intervento deciso e certamente costoso come quello contro la Russia di cui si sta discutendo non sarebbe un lockdown, ma il rischio più che concreto di una nuova guerra mondiale.
L'Occidente è inadatto alla guerra. Andrea Cangini su Il Giornale il 28 Febbraio 2022.
È ormai piuttosto diffusa la consapevolezza che se l'Europa, la Nato, l'attuale presidenza americana e più in generale l'Occidente avessero avuto una reale credibilità dal punto di vista militare, Vladimir Putin non avrebbe osato trasformare il processo di annessione di due province russofone dell'Ucraina nella guerra aperta ad uno Stato sovrano notoriamente filo occidentale. Putin ci vede deboli, divisi, privi di leadership e incapaci di determinazioni politiche.
Lui ha il senso della tragedia, crede nel destino, si ritiene portatore di una missione salvifica iscritta nella storia imperiale di Santa Madre Russia. Noi ci dibattiamo in una crisi di identità e di potere, non sappiamo più chi siamo, cosa vogliamo, in cosa credere ed, eventualmente, per cosa morire. Quando guarda a noi occidentali, è così che Putin ci vede. Imbelli. Naturalmente a disagio nell'uso della forza, soprattutto se militare, e fisiologicamente atterriti dal timore di opinioni pubbliche diseducate alla realtà da decenni di vacua retorica, di moralismi, di benessere e di buoni sentimenti. Perciò inadatti alla guerra. Che non è, come usa dire oggi, «una follia», ma, come disse il barone von Clausewitz, «la continuazione della politica con altri mezzi». Non è un caso che la politica estera, che della Politica è la massima espressione, si fondi sulla deterrenza militare. Senza deterrenza militare la politica estera si fa debole e la Politica inconcludente.
Manifestazione plastica di tale fisiologica debolezza l'abbiamo avuta lo scorso venerdì durante il dibattito parlamentare successivo all'informativa del presidente del Consiglio sulla guerra in Ucraina. Il leader più citato è stato il Papa, la parola più usata è stata «pace». Tempo ventiquattr'ore, le firme di buona parte dei rappresentanti del popolo di quasi tutti i partiti sono state apposte in calce ad un documento che recepisce e rilancia le parole di papa Francesco contro «la follia della guerra». Il Papa, naturalmente, non ha colpe. Fa il suo mestiere, e lo fa bene. Chi sembra aver rinunciato a fare il proprio sono molti politici. Politici sempre più a disagio nel padroneggiare le categorie della Politica. Sempre meno capaci, dunque, di difendere e onorare quei principi liberaldemocratici cui Vladimir Putin ha dichiarato guerra attaccando l'Ucraina. Non è una condanna a vita, la nostra. È la conseguenza di un'inerzia organizzativa e di una scarsa motivazione politica da cui potremmo, se lo volessimo, di colpo affrancarci.
Addio ai voli russi e media oscurati (“basta bugie”), l’Ue isola Putin: “Finanzieremo acquisto armi”. Redazione su Il Riformista il 27 Febbraio 2022.
Spazio aereo chiuso per le compagnie di proprietà russa (registrati dalla Russia o controllati da Mosca), compresi i jet privati, e blocco ai media di informazione russa che raccontano “bugie“. E’ quanto annuncia la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyn, nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles in cui ha ufficializzato il nuovo pacchetto di sanzioni europee contro Mosca.
Gli aerei russi “non potranno atterrare, decollare o sorvolare il territorio dell’Ue, compresi i jet privati degli oligarchi”. Inoltre “vieteremo la macchina mediatica del Cremlino nell’Ue”, ha proseguito. Macchina mediatica che negli ultimi giorni avrebbe diffuso diverse fake news, a partire dall’inesistente fuga dall’Ucraina di Zelensky. “Russia Today e Sputnik, di proprietà statale, e le loro filiali, non saranno più in grado di diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin”, ha sottolineato von der Leyen. “Stiamo sviluppando strumenti per vietare la loro disinformazione tossica e dannosa in Europa”.
Sanzioni in arrivo anche per la Bielorussia, alleata di Putin: “Prenderemo di mira l’altro aggressore in questa guerra, il regime di Lukashenko, con un nuovo pacchetto di sanzioni, che colpirà i loro settori più importanti”.
UE: FINANZIEREMO ARMI, E’ LA PRIMA VOLTA – “Per la prima volta in assoluto, l’Unione europea finanzierà l’acquisto e la consegna di armi e altre attrezzature a un paese sotto attacco. Questo è un momento di svolta” ha annunciato la presidente von der Leyen nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles, insieme all’Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune dell’Ue Josep Borrell. Quest’ultimo ha aggiunto che si aspetta che i ministri degli esteri, durante la loro videoconferenza di stasera, approvino le due misure d’emergenza che ha proposto “per finanziare la fornitura di materiale letale all’esercito ucraino” oltre al materiale non letale come carburante, dispositivi di protezione personale e forniture mediche urgenti, attraverso il fondo del “Dispositivo europeo per la pace”. “Un altro tabù è caduto. Il tabù secondo cui l’Unione europea non forniva armi in una guerra”, ha aggiunto Borrell.
Von der Leyen ha poi commentato: “La leadership del presidente Zelensky, il suo coraggio e la resilienza del popolo ucraino sono eccezionali e impressionanti. Sono un’ispirazione per tutti noi”.
“ACCOGLIEREMO PROFUGHI A BRACCIA APERTE” – “Diamo il benvenuto a braccia aperte agli ucraini che devono fuggire dalle bombe di Putin e sono orgogliosa del caloroso benvenuto che gli europei hanno riservato loro. Stiamo mobilitando ogni sforzo e ogni euro per sostenere i nostri Stati membri orientali, per ospitare e prendersi cura di questi rifugiati. Lo faremo in piena solidarietà”, hanno spiegato in conferenza stampa Borrell e von der Leyen.
L'Ucraina lasciata sola e tradita da Usa, Nato ed Europa. La nostra vergogna: sacrificano Kiev per calcolo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 26 febbraio 2022.
Quante cose si imparano alle elementari. Dalla memoria del sussidiario sono rispuntati come una freccia che buca il cuore questi versi contro la viltà di Giuseppe Giusti (1809-1850), amatissimi da Alessandro Manzoni. «Fingi che quattro mi bastonin qui / E lì ci sien dugento a dire: ohibò!/ Senza scrollarsi o muoversi di lì; / E poi sappimi dir come starò / Con quattro indiavolati afar di sì / Con dugento citrulli a dir di no». Ehi, qualcuno mi spiega che differenza c'è tra questa scena di pestaggio e vigliaccheria e quanto sta accadendo all'Ucraina? Tutti a far crocchio indignato ma assai prudente intorno alla guerra, tenendosene fuori dopo averla attizzata. Dice il segretario generale della Nato, l'ex primo ministro norvegese Jens Stoltenberg: «Solidarietà all'Ucraina. La Russia non attaccherà l'Europa. Non abbiamo né piani né intenzioni di dispiegare le truppe in Ucraina».
PESO SULLA COSCIENZA
Pura saggezza, e chi oserebbe dire il contrario? Ma allora perché i leader occidentali dovrebbero avere un leggero peso sulla coscienza? Dai che lo sappiamo. Accidenti! L'Occidente ha lasciato sola l'Ucraina. A chiacchiere restiamo suoi formidabili sostenitori. Piangiamo davanti alle immagini, come da copione, le lacrime del coccodrillo. L'Orso russo la sta sbranando, ma non è stata la volontà di potenza dello Zar Putin a far spargere il sangue degli innocenti e gettare nella disperazione milioni di persone, bensì un calcolo preciso, meticoloso, funzionale a qualunque cosa abbiano in mente per il futuro gli strateghi che ruotano intorno alla Casa Bianca e al Pentagono per riposizionare gli Usa come dominatori del mondo. Di certo questa strategia prevedeva il sacrificio dell'Ucraina. Succede. La storia è piena, sin dalla guerra del Peloponneso, di potenti che giocano coi deboli. Non ci importerebbe nulla, sarebbe un esercizio da risiko in salotto, se dietro questo nome ci fosse uno Stato e basta. Nascono e muoiono, dall'Urss e dalla Yugoslavia ne sono saltati fuori una trentina, come fosse il parto in una conigliera. Ci interessa di quei piccolini con le strisce di lacrime sulle guance, accanto alle mamme in ginocchio, e la speranza di non essere schiacciati.
Altro che geopolitica. Al diavolo proprio, perché se essa va come sta andando, l'Ucraina non è la sola pedina sacrificabile. C'è l'Italia e c'è la Germania in testa alla lista dei paesi cui tagliare le unghie, rendendo impossibile dopo l'orrenda prova che ha dato di sé Putin, qualsiasi accordo che salti a piè pari i rapporti privilegiati di Berlino e Roma con Washington e riconosca in Mosca, e nella ricchezza delle sue materie prime e la facilità di trasporto di esse, la chiave di un futuro prospero. Sogni. Quanto accaduto in questi giorni e sta accadendo in queste ore illumina un presente schifoso, ma lascia intuire la fosca strategia di medio e lungo periodo americana. Affrontare la Cina avendo l'Europa come satellite quieto e ricattabile dal punto di vista militare ed energetico. Se ci fosse solidarietà atlantica gli Usa avrebbero dovuto istantaneamente firmare contratti a prezzo calmierato per dare a Italia e Germania (la Francia è tranquilla: ha il nucleare) petrolio e gas liquefatto di cui l'America stra-abbonda. Niente di tutto questo: ci dice Biden che dobbiamo accontentarci di avere una Nato forte e compatta, visto che per la paura persino Svezia e Finlandia si sono prenotate per parteciparvi. Sarebbe così semplice e necessario studiare insieme tra potenze per fissare i criteri di una reciproca sicurezza. Invece, dinanzi alle richieste di chiarire lo status dell'Ucraina chiedendone la neutralità - si è risposto picche, ma in una maniera tale da far giocare l'asso all'avversario. La teoria dei giochi non è una faccenda da perdigiorno che vogliono sbancare i casino. È materia scientifica, sono stati consegnati Nobel nel 2005 a studiosi del ramo (Robert J. Aumann e Thomas C. Schelling).
Da cultori dilettanti, possiamo tranquillamente affermare che Biden e la Nato - con l'Unione europea al seguito - hanno giocato a perdere. Anzi a far perdere l'Ucraina. Davanti a un competitor che è disposto a puntare tutto come Putin, dichiarando che questa partita è vitale, dall'altra parte si è detto di no (posizione dura), nel contempo si è negata qualsiasi possibilità di intervento sul campo per tutelare l'integrità del Paese dichiarato amico e intoccabile (posizione di resa). Se assicuri l'avversario che ti limiterai a passare panini imbottiti e qualche fucile al Paese oggetto di contesa, significa che hai deciso di regalarlo. Pare che gli strateghi americani stiano accarezzando l'ipotesi di trasformare l'Ucraina in un Vietnam per i russi, armando clandestinamente la resistenza. Un altro Vietnam senza però morti americani né europei. I russi non hanno avuto bisogno di capirlo, glielo abbiamo detto ufficialmente: nessun occidentale è disponibile a sacrificare una goccia di sangue dei suoi figli per Kiev o per Odessa e neppure per Lviv. I russi sì, gli ucraini sì. Vuol dire lasciare agli ucraini la scelta gloriosa del massacro. Per favore no. Niente guerra, né su campo aperto né per interposta resistenza. Gli americani ci provarono in Nicaragua con i contras: finì malissimo. Basta così. Ora Putin si dice disposto a trattare. Non chiudiamo le porte. Posso confessare uno stato d'animo? Da insignificante suddito periferico dell'impero americano con tutti i suoi alleati, mi vergogno, vorrei che si alzasse un leader italiano a ribaltare il tavolo da gioco dove Usa, Nato e un'impotente Ue hanno condannato l'Ucraina a farsi sbranare dall'Orso russo dopo averlo aizzato. E ancora adesso, dinanzi all'evidenza della sciagura, invece di chiedere una capitolazione ordinata e andare a trattare ai massimi livelli, ci si ostina a illudere la popolazione, a chiederle di resistere.
ERRORE BLU
Siamo davanti al tradimento dell'Occidente, e bisogna farci i conti. Non è un'opinione, è un errore blu sul quaderno della storia che peserà sulla nostra coscienza, ma anche sulle nostre chance di una vita serena per noi e i nostri figli e nipoti. Senza accordi che salvaguardino l'essenziale (sicurezza, energia, libertà) la guerra non è più un'ipotesi del terzo tipo. Con le bombe o con la privazione del carburante per accendere i fornelli e gli altoforni. Occorre la fantasia dei senza potere per cambiare le cose. Sarà un caso, ma le aperture di Putin avvengono dopo che papa Francesco ha provato a spezzare il destino tragico che abbiamo assegnato agli ucraini. Rovesciando le consuetudini diplomatiche non ha fatto convocare per una reprimenda l'ambasciatore russo presso la segreteria di Stato. Come un pellegrino-mendicante, come uno di quei santi pazzi che ricorrono nei romanzi di Dostoevskij, ha bussato alla porta dell'ambasciata russa presso la Santa Sede, in via Conciliazione. È entrato. Ufficialmente «ha manifestato preoccupazione». Una fonte ci dice che si è inginocchiato.
La Storia non si ripete, anche se, come sottolineava Mark Twain, qualche volta…Alessandro Plateroti il 25/02/2022 su Notizie.it.
La Storia non si ripete, anche se, come sottolineava Mark Twain, qualche volta fa rima con se stessa. Ma cosa significano queste parole nel caso della guerra in Ucraina?
La Storia non si ripete, anche se, come sottolineava Mark Twain, qualche volta fa rima con se stessa. Ma cosa significano queste parole nel caso della guerra in Ucraina? Potrebbero essere semplicemente sintomo del miope «presentismo» di una cultura occidentale che non riesce a vedere nel passato null’altro che gli infiniti riflessi dei propri timori, una cultura ossessionata dagli anniversari e dalle commemorazioni.
Tuttavia, non dovremmo escludere la possibilità che tali momenti di déjà vu storico rivelino le autentiche affinità tra un periodo e un altro: oggi come un secolo fa, l’invasione russa dell’Ucraina ha risvegliato tutti (o quasi) i fantasmi della guerra fredda, spingendo gli Stati Uniti e tutte le “vecchie potenze” del mondo occidentale a coalizzarsi in una “sacra alleanza” non solo per arginare il neo-imperialismo di Vladimir Putin, ma soprattutto per impedire alla “nuova Russia” post-comunista di utilizzare le sue immense risorse energetiche – dal petrolio ai giacimenti di gas naturale – come arma di ricatto politico nei confronti dei governi europei e della stessa Alleanza Atlantica.
Anche se la minaccia dei missili nucleari resta sempre sullo sfondo di ogni scontro tra superpotenze, la posta sul tavolo dell’Ucraina va ben oltre la tradizionale supremazia militare tra Mosca e Washington: in gioco, oggi, c’è soprattutto la sicurezza energetica dell’Europa continentale in una fase delicatissima della ripresa economica internazionale post-pandemia. Basti pensare che fra gennaio e dicembre 2021, i prezzi medi mensili dei mercati all’ingrosso hanno registrato un aumento di quasi il 500% per quanto riguarda il gas naturale e del 400% circa per l’energia elettrica, un rincaro che si è riversato sui prezzi di vendita nel nostro Paese in modo ancora più drammatico.
Fermare questa spirale inflazionistica, insomma, è necessario e urgente per tutti: il problema è come. Perché dietro le quinte di questa guerra del gas che sta mettendo in ginocchio i paesi europei, ci sono soprattutto gli errori finanziari e strategici di cui l’Europa è la prima responsabile: il problema del mercato del gas non è solo l’arroganza di Putin, ma l’architettura di una liberalizzazione europea fatta male e gestita anche peggio. In altre parole, più che di una guerra delle forniture di gas, la vera sfida è il controllo sulla stabilità dei prezzi.
E su questo terreno, accusare la Russia di tagliare le forniture di gas all’Europa non risolve davvero nulla.
Perché anche se il flusso di gas russo continuerà, negli anni a venire l’Europa sarà sempre più esposta alla volatilità del prezzo del gas importato, a meno che i suoi leader non adottino misure per ridurre il rischio di picchi di prezzo dell’energia e si preparino a oscillazioni inevitabili e imprevedibili nell’approvvigionamento e nell’uso dell’energia. L’Europa dipende dalla Russia per più di un terzo del suo consumo di gas naturale. Anche se quest’inverno la Russia ha inviato meno gas in Europa, Gazprom sta rispettando i suoi impegni contrattuali a lungo termine. La differenza, ora, è che il colosso energetico russo ha tagliato le forniture “aggiuntive” quelle che si vendono sul mercato “spot” con i contratti futures.
Se la Russia dovesse davvero tagliare o ridurre anche le consegne fissate nei contratti a lungo termine – evento mai verificatosi in mezzo secolo di relazioni energetiche – per l’Europa sarebbe estremamente difficile e costoso sostituire i flussi persi di gas russo: per trovare forniture alternative di GPL, i governi europei dovrebbero infatti comprare in Borsa il gas che gli USA e i paesi arabi esportano via mare sui mercati asiatici, mandando così fuori controllo il prezzo spot e provocando un avvitamento globale della crisi energetica. A guadagnarci, ovviamente, sarebbero solo gli speculatori e le grandi banche americane che contrattano i futures sul gas e sul petrolio.
Ma anche nel migliore degli scenari, cioè che i flussi di gas russo continueranno ininterrotti, i problemi dell’Europa non sembrano destinati a sparire. Anzi.
Già alla fine dell’estate 2021, secondo gli esperti, era infatti evidente che l’Europa si stava avviando verso una crisi energetica: mai i livelli di stoccaggio del gas sono stati tanto bassi. Con l’inizio dell’inverno e i venti di guerra in Ucraina, i prezzi sono subito saliti a livelli record. Il gas naturale europeo ha superato i 60 dollari per milione di Btu, l’equivalente di un prezzo del petrolio di 350 dollari al barile: il greggio Brent viene venduto a circa 90 dollari al barile e il prezzo comparabile del gas negli Stati Uniti è di circa 4 dollari. In questo vortice speculativo, sono state già risucchiate anche le forniture a medio termine: i contratti sul gas naturale per il 2023, 2024 e 2025 sono scambiati tra il 50% e il 100% in più rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Abbastanza per tagliare le gambe alla ripresa, spingere alle stelle l’inflazione e lasciare “al buio” imprese e famiglie.
Possibile che sia tutta colpa delle manovre di Putin sull’Ucraina e di quelle di Gazprom sui gasdotti? I governi europei e la Casa Bianca, dovrebbero essere i primi a fare autocritica.
Perso tra le recriminazioni, in realtà, c’è il riconoscimento che questi alti prezzi dell’energia sono il risultato esattamente del tipo di sistema voluto dai leader europei. I picchi di prezzo sono una caratteristica, non un bug, del programma decennale di riforma del mercato del gas in Europa.
Il gas naturale storicamente veniva venduto in Europa sulla base di contratti a lungo termine, solitamente legati al prezzo del petrolio, con poca flessibilità per deviare le forniture da una destinazione all’altra. Negli ultimi due decenni, le autorità di regolamentazione europee hanno varato un piano di riforma del mercato del gas volto a consegnare il business nelle mani del le forze di mercato. Hanno deregolamentato il settore del gas e incoraggiato maggiori investimenti in gasdotti e impianti di importazione di GAs naturale liquido. Dopo la crisi del 2009, quando uno stallo russo-ucraino sui gasdotti ha portato a un’interruzione improvvisa delle consegne di gas ad alcuni paesi europei, l’Unione Europea ha migliorato la capacità di spostare il gas in modo più flessibile attraverso i confini.
Il risultato è stata una maggiore concorrenza e la creazione di hub per il prezzo del gas. Dopo una rapida ripresa del prezzo del petrolio dopo il crollo del 2009, i contratti a lungo termine indicizzati al petrolio sono diventati più costosi dei prezzi spot del gas su base sostenuta. Ciò ha spinto gli acquirenti europei a cercare una rinegoziazione di questi contratti a lungo termine rigidi e costosi e a passare a prezzi spot che all’epoca erano più convenienti. Ciò ha contribuito a ridurre i prezzi del gas in Europa rispetto ai prezzi del gas indicizzati al petrolio.
Così, Invece di essere fissati dall’aumento dei prezzi del petrolio, i prezzi del gas naturale avrebbero dovuto essere fissati dalla domanda e dall’offerta di gas stessa, favorendo, un calo dei prezzi per gli acquirenti in Europa. Poiché i paesi hanno investito in infrastrutture per importare gas da fonti più diverse, gli acquirenti hanno avuto una mano più forte per contrattare prezzi migliori, come dimostrato da paesi dell’Europa orientale come la Lituania che hanno negoziato ampi sconti sui loro contratti con Gazprom dopo aver costruito terminali di importazione di gas.
Alla fine dell’estate del 2021, di fatto, era già evidente che l’Europa stava affrontando una crisi energetica incombente con livelli di stoccaggio del gas straordinariamente bassi. Con l’inizio dell’inverno, i prezzi sono poi saliti a livelli record, raggiungendo livelli tali alla fine dell’anno scorso che molte aziende industriali hanno interrotto la produzione. In Gran Bretagna, quasi 30 aziende elettriche sono fallite. Il gas naturale europeo ha superato i 60 dollari per milione di Btu, l’equivalente di un prezzo del petrolio di 350 dollari al barile. (Il greggio Brent viene venduto a circa $ 90 al barile e il prezzo comparabile del gas negli Stati Uniti è di circa $ 4). Risultato: le bollette energetiche delle famiglie europee aumenteranno di un altro 50 percento quest’anno, secondo Bank of America.
Il problema vero, inoltre, è che le forze di mercato sono un’arma a doppio taglio. Gli acquirenti pagano prezzi più bassi quando l’offerta è “flush” (abbondante) rispetto a quanto farebbero con contratti a lungo termine, ma quando le forniture sono limitate, i prezzi devono aumentare abbastanza da attirare ulteriori carichi di gas, stimolare una maggiore produzione, indurre il passaggio ad altri combustibili come petrolio o carbone o frenare la domanda. In breve, possono significare prezzi più bassi per gli acquirenti se mediati a lungo termine, come ha scoperto l’Agenzia internazionale per l’energia, ma il prezzo per quei risparmi sono prezzi più volatili con picchi imprevedibili. Dopo un periodo di abbondanza di energia, il mondo è ora a rischio di mercati ristretti e picchi di prezzo a causa di investimenti insufficienti nell’approvvigionamento energetico. Di fronte all’incertezza sulle prospettive per l’uso di petrolio e gas a causa delle politiche climatiche, delle scarse prestazioni finanziarie passate e delle pressioni per disinvestire dai combustibili fossili, gli investimenti delle aziende energetiche nel mantenimento del flusso di petrolio e gas sono oggi ai minimi storici. Il loro livello di investimento sarebbe sufficiente se il mondo fosse sulla buona strada per azzerare le emissioni nette entro il 2050, ma il mondo non è affatto vicino a questo traguardo.
L’Europa ha beneficiato per un decennio della creazione di hub del mercato del gas e della dipendenza dai prezzi spot, ma l’odierna crisi energetica dimostra i rischi di questo approccio. Gli eccessivi picchi di prezzo sono dannosi dal punto di vista economico e inaccettabili dal punto di vista politico. Allo stesso tempo, la maggiore flessibilità fornita dalla liberalizzazione del mercato del gas sarà essenziale per l’Unione europea poiché la sua dipendenza da fonti di energia rinnovabili variabili cresce nel tempo. La risposta, quindi, non è quella di annullare le riforme basate sul mercato, ma piuttosto integrarle con misure aggiuntive per attenuare la volatilità e far fronte all’incertezza intrinseca del mercato del gas.
In primo luogo, i governi europei dovrebbero garantire che si possa fare affidamento sullo stoccaggio del gas per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento e la flessibilità del sistema, anche rafforzando i requisiti di stoccaggio. Ciò può assumere la forma di obblighi di stoccaggio minimo per aziende private o riserve di gas strategiche, se è il caso, proprio come gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno fatto per il petrolio dopo l’embargo petrolifero arabo del 1973. La necessità per le autorità di regolamentazione di imporre obblighi alle imprese private di riempire le proprie scorte a livelli minimi è stata rafforzata quest’inverno, poiché Gazprom, che possiede una quota considerevole della capacità di stoccaggio del gas in Europa, ha scelto di non rifornire le sue strutture prima della stagione fredda.
In secondo luogo, sebbene ci voglia tempo per ottenere benefici, i governi europei dovrebbero raddoppiare gli sforzi per frenare la domanda attraverso l’efficienza dei sistemi di riscaldamento domestico e attraverso regolamenti e meccanismi come prezzi variabili o tecnologie per spostare la domanda dalle ore di punta a quelle non di punta. Terzo, i paesi europei dovrebbero evitare di ritirare altre fonti di produzione di energia fino a quando le nuove fonti non saranno in grado di recuperare il margine di manovra. L’Europa dovrebbe inoltre garantire investimenti adeguati nella generazione di elettricità a zero emissioni di carbonio in grado di produrre energia in qualsiasi momento, come l’energia nucleare, l’energia idroelettrica e il biogas. La decisione della Germania di ritirare diversi reattori nucleari aggiuntivi nel mezzo della crisi energetica questo inverno ha solo esacerbato la situazione.
Infine, In quarto luogo, l’Europa dovrebbe garantire investimenti adeguati nelle infrastrutture di trasporto e importazione, non solo per il GNL ma anche per i gas a basse emissioni di carbonio come il biometano e l’idrogeno per supportare sia l’affidabilità del sistema che gli obiettivi di decarbonizzazione.
In caso contrario, la crisi del gas diventerà una guerra dei prezzi permanente.
Putin ha già vinto una battaglia: rivelare le debolezze e le contraddizioni dell’Occidente. Giulio Cavalli il 22/02/2022 su Notizie.it.
I signori della guerra festeggiano della tensione internazionale. La situazione è complessa, ma ci vuole un bel coraggio a non vedere la distribuzione delle responsabilità.
Una battaglia Putin l’ha già vinta: il riconoscimento delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk è bastato per innescare il cortocircuito di contraddizioni nel cuore dell’Europa e nei rapporti dei membri Nato. Il fragile accordo di Minsk, mai rispettato del tutto, diventa carta straccia per non perdere l’occasione di destabilizzare il blocco occidentale.
Portare il conflitto ai massimi livelli, del resto, è la sola politica di cui è capace il leader russo, e i territori del Donbass sono ora ufficialmente presidiati dalle truppe russe nonostante non siano mai stati lasciati sguarniti (di militari e di soldi) nemmeno dopo l’intesa del 2014. Poiché la guerra da sempre sanguina parole ipocrite dal significato invertito, Putin ha anche l’occasione di chiamare “contingente di pace” i suoi uomini in divisa che per ora servono più per le foto e i video da fare circolare nel mondo che per le armi.
Per ora basta fare annusare al mondo l’odore del possibile conflitto. Una guerra vera in questo momento non converrebbe a nessuno. Non conviene alla Russia che non ha la forza di sostenerne il costo troppo a lungo, ancora di più alla luce delle pesanti sanzioni che ne conseguirebbero. Non conviene all’Europa che teme le sanzioni, nonostante finga di sventolarle: gli scambi commerciali con la Russia sono troppo importanti per Germania, Francia, Spagna e Italia.
Per questo a propendere per la linea dura sono soprattutto gli USA, la Gran Bretagna e i Paesi del Nord. Solo per fare un esempio oggi Automotive News scrive di come Volkswagen, Renault e Stellantis risentirebbero pesantemente delle sanzioni: Renault è la più esposta per le sue quote in AvtoVAZ, leader del mercato russo; Volkswagen e Stellantis hanno impianti a Kaluga, in Russia, come anche Mercedes, BMW e Ford. E questo riguarda tutti i settori.
Per questo il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, può seraficamente affermare di non essere spaventato da nessuna sanzione: «I nostri colleghi europei, americani, britannici non si fermeranno e non si calmeranno finché non avranno esaurito tutte le loro possibilità per la cosiddetta punizione della Russia. Ci stanno già minacciando con ogni sorta di sanzioni o, come si dice ora, la madre di tutte le sanzioni. Bene, ci siamo abituati. Sappiamo che le sanzioni verranno comunque imposte, in ogni caso. Con o senza motivo». La narrazione del complotto mondiale contro la propria potenza è una favola che da quelle parti torna sempre utile per infiammare un patriottismo utile a Putin.
Intanto si può definitivamente considerare compromesso qualsiasi avvicinamento dell’Ucraina alla NATO. Senza nemmeno bisogno di sparare un colpo Kiev si ritrova irrimediabilmente destabilizzata. E c’è da scommettere che Putin ci penserà bene prima di passare a una vera e propria “invasione”: la sua posizione in bilico mette in crisi gli USA che provano a capire come definire la mossa russa. Non è una vera e propria invasione, non si può fare altro che limitare, per ora, le sanzioni alla regione del Donbass. «Se fossi stato consigliere di Putin – ha commentato l’analista Ian Bremmer al Washington Post – gli avrei detto di fare questo perché ora abbiamo un problema”. Uno degli obiettivi è non rendere troppo facile la risposta dell’Occidente.
In un momento così terribilmente complesso ora dovremo sorbirci la petulanza dei tifosi superficiali. Tra le dichiarazioni dei politici fioccano già le accuse ai pacifisti che scendono in piazza per le guerre USA e che ora tacciono per non irritare Putin, c’è chi invoca l’accellerazione sul nucleare per mettere all’angolo Putin, c’è perfino chi ha il coraggio di prendersela con i pacifisti senza provare nemmeno un po’ di vergogna. Fare una guerra è già un’azione bestiale, usarla per la propria propaganda da cortile è ripugnante e immorale.
Anche perché forse sarebbe il caso di ricordare che qualche giorno fa alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza il segretario della Nato Jens Stoltenberg aveva tuonato felice che «l’allargamento della Nato negli ultimi decenni è stato un grande successo e ha anche aperto la strada a un ulteriore allargamento della Ue». Solo che l’allargamento della Nato parte da quel 1999 in cui la Nato demolì la Jugoslavia, passa dall’inglobamento dei primi tre Paesi dell’ex Patto di Varsavia (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), poi Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss), poi Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia), Slovenia (già parte della Federazione Jugoslava), fino all’Albania nel 2009 (un tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della Federazione Jugoslava) e nel 2017 il Montenegro (già parte della Jugoslavia) e nel 2020 la Macedonia del Nord (già parte della Jugoslavia).
In vent’anni si è passati da 16 a 30 Paesi arrivando fino all’interno del territorio dell’ex URSS, con la NATO che altro non è che il vestito buono (e molto lungo) delle leve militari USA. Ce ne sono parecchie di mire espansionistiche, per intendersi. Stoltenberg, portavoce Usa prima che della Nato, ha annunciato trionfante che «questo è il settimo anno consecutivo di aumento della spesa della Difesa degli Alleati europei, accresciuta di 270 miliardi di dollari dal 2014». Tutti soldi sottratti alle spese sociali e agli investimenti produttivi. I signori della guerra festeggiano della tensione internazionale. Il premier Draghi ha già annunciato che «ci dobbiamo dotare di una difesa più significativa: è chiarissimo che bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora» e il suo silenzioso ministro alla Guerra Lorenzo Guerini sta facendo schizzare le spese.
La situazione insomma è complessa. Ma ci vuole un bel coraggio a non vedere la distribuzione delle responsabilità.
L'impatto sull'economia. Conflitto in Ucraina, quanto costerà agli italiani la guerra. Angelo De Mattia su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022.
Su tutte le difficoltà di contesto ora domina l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che Putin vorrebbe far passare come un’operazione militare. In un’ora grave, non solo per uno Stato indipendente che in violazione del diritto internazionale viene invaso, ma per i riflessi che l’aggressione ha, innanzitutto, per l’Europa vengono meno indugi e indeterminatezze. Certo, occorre valutare anche le reazioni russe, i contraccolpi dell’inasprimento delle sanzioni e di tutte le altre iniziative che verranno assunte dai Paesi dell’Occidente. Ma, come dimostra il Consiglio europeo tenuto ieri, una coesa, vigorosa strategia europea ora si impone; un raccordo con gli Usa è fondamentale, ma per agire, certo per raggiungere il blocco dell’azione dello Zar di Mosca e tentare di aprire la strada al dialogo tra le parti, ma agire – non più solo parlare o progettare una molto diluita gradualità nella comminazione delle sanzioni.
Siamo oltre gli stessi livelli di necessità e urgenza che spinsero l’Unione a battere un colpo – e poi a fare qualcosa di molto di più per i profili economici e finanziari – in occasione della deflagrazione della pandemia. Se ci sei – è d’obbligo dire all’Unione – è ora di dimostrarlo “per facta concludentia”. In ogni caso, il difficile contesto costituito dall’invasione del territorio ucraino, dai rincari dei prodotti dell’energia, dall’inflazione, non attenuano, anzi rafforzano la necessità di un tempestiva realizzazione delle riforme strutturali connesse con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. È pur vero che queste, proposte dal Governo in Parlamento, sono, quasi tutte, “mezze riforme”, trattandosi prevalentemente di leggi di delega, redatte, per di più, in maniera incompleta e, dunque, con vuoti già in partenza. In alcuni casi, si è a suo tempo optato per il rinvio dei problemi più divisivi, come nel caso delle concessioni balneari, sulle quali recentissimamente si sarebbe trovata una soluzione, subito dopo, però, messa in discussione da alcuni partiti, anche della maggioranza, o la revisione del catasto a proposito della quale dalla destra di Governo e no sono venuti “ caveat” e “ altolà”.
Nei diversi discorsi, si ripete l’elencazione delle più urgenti rivisitazioni: fisco, concorrenza e appalti da varare prima dell’estate; in secondo piano, nell’elencazione, viene collocata quella della giustizia che si incrocia con i referendum e apre un altro terreno di discussione sul come affrontare le due iniziative, tempi e contenuti. La delega fiscale, per la non similare organicità e onnicomprensività, non ha nulla a che vedere con quella prevista agli inizi degli anni Settanta del Novecento che fu alla base della riforma “Visentini” attuata con numerosi decreti delegati e neppure con le linee esposte dal Premier Draghi all’atto dell’insediamento nella carica, in occasione del discorso programmatico alle Camere.
Piuttosto che di una ristrutturazione, si tratta di una “manutenzione straordinaria” della complessa, stratificata e superfettata normativa fiscale, unitamente a un’operazione di una certa semplificazione. Quanto al catasto, per il modo in cui viene prospettata la sua revisione – di cui peraltro si parla e si progetta da decenni, mai passando però, finora, alle realizzazioni – é abbastanza scontato che sorgano timori, magari eccessivi, di un pur negato intervento sulla casa. Ristrutturare il catasto per la pura ristrutturazione, quindi senza altre finalità, potrebbe avere senso per un periodo molto breve, ma difficilmente si giustificherebbe una revisione dei valori senza che poi se ne traggano, sia pure a una qualche distanza di tempo, le conseguenze sul versante dell’imposizione tributaria.
Una rivisitazione degli aspetti fiscali può piacere ad alcuni e dispiacere ad altri. Toccandosi quel bene che per gli italiani ha un valore fondamentale, la casa, allora occorre equilibrio. Prima ancora , è necessaria chiarezza, non reggendo l’ipotesi di una platonica revisione che, invece, stimola, immediatamente, dubbi. Nelle maglie della delega, poi, vi è spazio per dare alla disciplina che ne discende una maggiore organicità o il rischio è di cadere nell’eccesso di delega? Ciò che bisognava fare prima non può essere fatto ora, quanto meno con lo stesso fondamento e la stessa correttezza di un agire in sede di delega. Insomma, se si era partiti sostenendo che, trascorsi quasi cinquanta anni dalla “Visentini” – con il contributo del grande docente Cesare Cosciani – che a sua volta arrivava dopo venti anni circa dalla “Vanoni”, avrebbe dovuto essere adottata una nuova fondamentale rivisitazione, data la mole dei problemi accumulatisi, una tale aspettativa è andata senz’altro delusa, pur essendo in carica un Governo dei presunti Migliori.
Ragionamenti analoghi vanno svolti per la concorrenza; Anche in questo caso, nella delega, l’onnicomprensività della revisione è lontana, mentre il tema delle concessioni del demanio marittimo solleva problemi fondati che si intrecciano con altri infondati. Come sempre accade, la transizione al nuovo regime, dopo lunghi rinvii, opera di passati Governi, e dopo le questioni suscitate dall’applicazione della Direttiva comunitaria Bolkestein, non è facile. Gli aspetti sociali sono comunque prioritari da considerare laddove essi si pongano effettivamente. Ancor più complessa è la normativa sugli appalti per la quale l’obiettivo dello sfoltimento, degli snellimenti e della semplificazione deve coesistere con la necessità di controlli non meramente formali, bensì sostanziali e posizionati nei punti nodali del procedimento dai quali si possano valutare gli adempimenti complessivi. In questo campo, permane in qualche partito la proposta di fare diretto ed esclusivo riferimento alle Direttive europee che, però, avrebbe dovuto essere affrontato in precedenza.
Questo tema comunque richiama l’altro, quello della riforma dell’amministrazione pubblica e delle possibili innovazioni anche nel campo della giustizia amministrativa. Se a ciò si aggiunge la controversa ratifica delle modifiche del Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità, Mes, che mette insieme aspetti positivi e aspetti dubbi, il quadro degli impegni più spinosi è delineato. Insomma, non è facile, nel contesto indicato, il lavoro da compiere che, però, come si è detto, potrebbe paradossalmente spingere per un’operazione di complessiva di riforma celere, ma anche apprezzabile. Non sarà comunque una navigazione facile. Angelo De Mattia
(ITALPRESS il 26 febbraio 2022) - Sollecitato dalla stampa che gli chiede se si sia pentito della frase pronunciata nel 2015 "Cedo due Mattarella per mezzo Putin", il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha risposto: "Parliamo di guerra, siamo nel 2022, e stiamo lavorando per bloccarla. I pentimenti si fanno in chiesa".
Salvini, dopo un incontro al consolato ucraino, a Milano, ha quindi aggiunto: "Romano Prodi dice che bisogna dialogare con la Russia, ha ragione, la guerra si ferma col dialogo. Se poi qualcuno vuole buttarla in polemica politica è libero di farlo.
Io sto portando il mio piccolo contributo per cercare di fermare un conflitto folle, che nessuno si aspettava e che nessuno vuole.
Stiamo uscendo da una pandemia, e siamo finiti una guerra vera, e quindi ciascuno faccia il suo. Io non vado a chiedere conto agli altri di quello che hanno detto 5 anni fa, oggi siamo nel 2022".
Estratto dell'articolo di Federico Fubini per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
Da presidente del Consiglio e della Commissione europea, Romano Prodi è fra i leader al mondo che più volte hanno avuto direttamente a che fare con Vladimir Putin. […]
[…] Questa guerra peserà sulla ripresa mondiale. […] le sanzioni sul settore dell'energia colpirebbero particolarmente […] l'Italia e la Germania perché sono le economie che esportano più beni strumentali alla Russia».
[…] per noi la perdita non sarebbe solo temporanea, per la durata delle sanzioni, perché i nostri clienti russi ci sostituirebbero con prodotti cinesi che poi sarebbe molto difficile scalzare. Se si guardano i dati, l'intensificazione dei rapporti di scambio fra Russia e Cina già oggi è impressionante».
Dunque lei è contrario alle sanzioni alla Russia?
«Non lo sono necessariamente. Nulla è più prezioso dei valori democratici, ma dico solo, da vecchio professore di economia industriale, cosa succederebbe. Perderemmo qualcosa anche nei beni alimentari, anche se in questo caso non rischiamo una sostituzione di lungo periodo».
E per quanto riguarda gli approvvigionamenti di energia?
«Qui il problema è ancora più serio, anche se da un paio di giorni la Russia sembra aver aumentato le forniture di gas che prima aveva lasciato scarseggiare. Questa scarsità ha già creato problemi notevolissimi. Poi è arrivata la strana decisione tedesca di bloccare la certificazione di Nord Stream 2».
Lei era a favore di quel gasdotto che collega direttamente la Russia alla Germania dal Baltico, tagliando fuori Bielorussia, Ucraina e Polonia?
«Niente affatto: sono sempre stato contrario a Nord Stream 2 perché non ho mai voluto che si togliessero risorse all'Ucraina. Il passaggio del gas dall'Ucraina era un messaggio politico della nostra solidarietà verso quel Paese. L'idea era che se dovevamo dipendere dal gas russo, per lo meno che i diritti di passaggio spettassero a un Paese che ne aveva bisogno come l'Ucraina. È un modo per finanziarla. Meglio pagare la tariffa all'Ucraina, che ne ha bisogno, piuttosto che alla Germania».
Dunque lei approva lo stop di Berlino al Nord Stream 2?
«Purtroppo no, perché proprio adesso, con la tensione che c'è sui mercati europei dell'energia, sarebbe stato il momento di tenere aperto quel canale».
Ma non ha mai funzionato.
«No, però era pronto per farlo! Adesso è il momento di tenerlo aperto, perché la Germania sta chiudendo tre centrali nucleari».
Presidente, permetta di insistere, lei sembra molto riluttante a sanzionare la Russia per ciò che fa in Ucraina...
«[…] l'impatto delle sanzioni sarà del tutto asimmetrico. Costerebbero molto all'Europa e in particolare all'Italia e alla Germania. Costerebbero invece molto meno agli Stati Uniti che le stanno chiedendo con forza, ma non hanno con la Russia gli stessi nostri rapporti di scambio».
Dunque lei che soluzione propone?
«Sono assolutamente atlantista e per la Nato, ma l'alleanza non può essere solo militare. Trovo che gli Stati Uniti dovrebbero dimostrare solidarietà ai Paesi europei che compiono lo sforzo delle sanzioni».
Già ma come, inviando più navi di gas liquefatto americano a prezzi abbordabili o assorbendo prodotti del nostro export?
«I modi di venire in aiuto sono tanti e certamente il gas liquefatto americano non aiuterebbe, se continuasse ad arrivare a cinque volte il prezzo di nove mesi fa».
Presidente, ma anche se arrivasse a prezzi più bassi non avremmo in Italia rigassificatori sufficienti per rimpiazzare il gas russo, né potremmo affidarci a quelli spagnoli perché la Francia non ha mai voluto i tubi di interconnessione, per proteggere il proprio mercato.
«Questo è il problema. In un'Unione economica e ormai anche politica, quale è oggi l'Europa, non possiamo permetterci di avere tanta diversità di approcci». […]
Estratto dell'articolo di Giovanni Pons e Luca Pagni per “la Repubblica” il 22 marzo 2022.
L'accordo tra Bruxelles e Washington, grazie al quale si potrebbe sostituire buona parte del gas russo in Europa con quello americano, è una condizione necessaria perché i paesi Ue raggiungano l'autonomia dalle forniture russe.
Ma non sufficiente, in particolare per l'Italia. È il tema principale di cui stanno discutendo cancellerie ed aziende energetiche di tutto il vecchio Continente, a pochi giorni dall'appuntamento del Consiglio europeo.
Incontro nel quale si potrebbero mettere le basi per un accordo di lungo periodo per la fornitura di Gnl, il gas naturale liquefatto, da parte degli Usa da una decina d'anni diventato il primo produttore di metano a livello mondiale, proprio davanti alla Russia.
Il motivo è presto detto. Anche se si arrivasse a sottoscrivere un nuovo "patto atlantico" in chiave energetica, andrebbe risolto un problema tecnico di non poco conto.
Il Gnl viene liquefatto al punto di partenza: il processo chimico-fisico prevede che la materia prima venga "compressa" fino a 138 volte per stivarne il più possibile nelle navi gasiere che poi viaggiano verso la destinazione finale.
Qui, il metano viene lavorato nei rigassificatori per tornare al volume originale e immesso nella rete locale. La domanda fondamentale è la seguente: l'Europa - e l'Italia per quanto ci riguarda più da vicino - dispongono dei rigassificatori necessari per lavorare il gas che dovrebbe sostituire le forniture russe che nel 2021 hanno coperto il 42% del fabbisogno europeo e il 37% di quello italiano?
A livello europeo, il numero di rigassificatori potrebbe anche essere sufficiente, sono una ventina (di cui due in Turchia allacciati alle reti del resto d'Europa). Il problema è che sei di questi si trovano nella penisola iberica (5 in Spagna e 1 in Portogallo) e sono mal collegati con il resto del continente: tra Spagna e Francia c'è solo un tubo che ha una portata molto limitata.
Da tempo, i principali operatori europei (tra cui l'italiana Snam) hanno rilanciato l'idea di un nuovo gasdotto che potrebbe essere finanziato con i fondi Ue. Tempo occorrente per la sua realizzazione: circa tre anni.
Da parte sua, l'Italia dispone di tre rigassificatori (che si trovano a La Spezia, Livorno e Rovigo). Sono sufficienti per accogliere fino a 28 miliardi di metri cubi di gas, che corrispondono a quanto è giunto in Italia dalla Russia, al punto di ingresso del Tarvisio dove finisce il percorso dei tubi che partono dalla Siberia?
Il focus. Centrali a carbone in Italia, dove sono gli impianti che Draghi potrebbe riaprire per affrontare la crisi energetica. Carmine Di Niro su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022.
Che fare contro il probabile nuovo aumento dei prezzi del gas in Italia, conseguenza della guerra in atto in Ucraina tra il governo di Kiev e quello di Vladimir Putin, che da dalla notte di giovedì 24 febbraio ha iniziato l’invasione oltrepassando il Donbass?
È la ‘domanda delle domande’ per Mario Draghi, il presidente del Consiglio che di fronte a rincari che rischiano di compromettere la ripresa economica ha chiarito oggi, parlando alla Camera nella sua informativa sulla crisi in Ucraina, che di fronte alla crisi energetica il Paese deve lavorare per “aumentare le forniture alternative” da quella russa, col gas di Mosca che equivale al 43% di quello importato.
Ma la crisi in atto secondo Draghi “dimostra l’imprudenza di non aver diversificato maggiormente le nostre fonti di energia e i nostri fornitori negli ultimi decenni”. Per questo il premier nel suo discorso ha aperto ad un possibile ritorno al carbone: “Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato”, ha spiegato in Aula Draghi.
Lo stato del carbone in Italia
Attualmente nel Paese vi sono ancora sette centrali a carbone in funzione: si stratta della centrale “Eugenio Montale” di Vallegrande (La Spezia), la centrale “Andrea Palladio” di Fusina (Venezia), la centrale di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, la centrale “Federico II” di Brindisi e la centrale “Grazia Deledda” di Portoscuso (Sud Sardegna), la centrale di di Monfalcone (Gorizia) e quella di Fiume Santo (Sassari). Le prime cinque appartengono all’Enel, quella di Monfalcone alla A2A e l’ultima, quella di Fiume Santo, al gruppo energetico ceco EPH.
Ad oggi i sette impianti producono poco più del sei per cento dell’elettricità usata in Italia e secondo il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima firmato nel 2019, andavano dismesse entro il 2025 o riconvertirle in centrali a gas naturale.
La riattivazione
In realtà già lo scorso dicembre, di fronte all’impennata dei prezzi del gas, in misura straordinaria l’Enel aveva riacceso le unità a carbone della centrale Eugenio Montale” di Vallegrande, in provincia di La Spezia. Stessa sorte era toccata a quella della A2A a Monfalcone, anch’essa accesa per pochi giorni prima di venire nuovamente ‘spenta’ dai tecnici.
Le polemiche
La decisione prospettata da Draghi rischia di scatenare forti polemiche politiche. L’Italia alla conferenza sul clima di Glasgow dell’anno scorso si era impegna ad accantonare una tecnologia fortemente inquinante.
Ma una eventuale mossa del governo di ritornare, anche se per un periodo limitato, allo sfruttamento del carbone nei sette impianti presenti sul territorio rischia di provocare le proteste delle comunità. Cittadini che sono già inferociti contro la prospettata trasformazione delle centrali dal carbone al gas: amministrazioni locali e ambientalisti vorrebbero infatti che gli impianti venissero ‘semplicemente’ dismessi perché anche il gas continuerebbe a causare emissioni di gas serra, anche se in misura minore.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Boom delle radiazioni a Chernobyl: cosa può succedere ora? Andrea Muratore su Inside Over il 25 febbraio 2022.
Le radiazioni a Chernobyl sono improvvisamente aumentate dopo l’occupazione del sito nucleare dismesso da parte delle forze armate russe nella giornata di ieri. Lo hanno denunciato nella mattinata di venerdì 25 febbraio gli esponenti dell’Ispettorato Regolatorio di Stato per il Nucleare (Snri) d’Ucraina, sottolineando che i livelli di controllo delle radiazioni gamma nella Zona d’Esclusione sono stati sorpassati dopo i combattimenti di ieri.
Le forze armate russe hanno ammesso di aver preso il controllo del sito e inizialmente hanno dichiarato un livello di radiazioni sotto controllo e ordinario, ma in seguito l’agenzia russa Interfax ha sottolineato un aumento dello stesso. In un’area, ricorda TgCom24, “dove ancora si stima ci siano ancora oltre 200 tonnellate di scorie radioattive (tra corium, uranio e plutonio), sepolte dentro il sarcofago” della centrale esplosa nel 1986 questo significa per Russia e Ucraina un ulteriore fattore di rischio nella guerra che le vede contrapposte.
Gli esperti in loco sottolineano che l’aumento delle radiazioni è direttamente correlato alle operazioni militari avvenute nelle scorse ore. In sostanza, sarebbe stato l’ampio movimento di mezzi militari, truppe e macchinari dotati di impulsi radio e l’aumento dell’inquinamento e delle particelle in atmosfera in grado di catturare le radiazioni stesse a favorire questo meccanismo.
In una prima ora si era temuto che l’aumento delle radiazioni potesse essere legato a un danneggiamento della struttura del reattore o del sarcofago di cemento che ricopre l’area più critica di Chernobyl, ma a cavallo tra giovedì 24 e venerdì 25 febbraio questa ipotesi è stata fugata. Almeno per ora.
Non a caso, uno degli scenari più rilevanti che si possono costruire sul piano militare riguardo l’individuazione di Chernobyl e del suo reattore come obiettivi primari riguarda proprio il fatto che Mosca volesse mettere al sicuro la bomba atomica potenziale del sito teatro dell’omonimo disastro per evitare che potesse trasformarsi in un campo di battaglia e, soprattutto, che potesse essere utilizzato come perno di una strategia asimmetrica per fermare l’invasione. Meglio uno sforzo-lampo per occupare un sito non così prioritario sotto altri piani strategici, questo sarebbe il ragionamento, che ritrovarsi di fronte a brutte sorprese in un secondo momento.
Questo però, chiaramente, ha avuto come contropartita l’aumento delle radiazioni. Come ha scritto il portale di informazione “L’Avvocato dell’Atomo”, è bene sottolineare che “i livelli di radioattività segnalati al momento non risultano pericolosi per la salute in caso di esposizione temporanea. Si potrebbero avere rischi in caso di esposizione di durata superiore ad un mese, ma, allo stato attuale delle cose, riteniamo estremamente improbabile che la radioattività resti a questi livelli così a lungo”.
Non è la prima volta che negli ultimi anni Chernobyl torna pericolosamente al centro delle cronache. A maggio dell’anno scorso i team di ricerca che monitoravano il Reattore 4 dell’impianto ucraino, teatro negli Anni Ottanta del più scioccante disastro nucleare della storia insieme a quello di Fukushima, hanno rilevato anomalie sospette nelle emissioni e nelle attività del sito. La questione ha destato preoccupazione soprattutto per il monitoraggio dell’attività del corium, il materiale prodotto dalla fusione del nocciolo, ma l’allarme è rientrato. Nell’aprile 2020, mentre l’Europa faceva i conti con l’esplosione della bomba Covid, una serie di incendi dolosi minacciò a pochi chilometri di distanza l’area della centrale, come Pierpaolo Mittica ha avuto modo di raccontare.
Oggi Chernobyl appare già alle spalle della linea del fronte, ma in caso di proseguimento della guerra russo-ucraina non è da escludere il rischio di una minaccia sistemica al reattore. Un attacco missilistico o la trasformazione futura dell’area di Chernobyl in un poligono di combattimento, ad esempio, metterebbero nei guai la sicurezza della centrale.
E secondo l’economista Mario Seminerio, che cita Bloomberg, sarebbero addirittura quindici i reattori in zona di combattimento tra Russia e Ucraina. Vere e proprie “bombe atomiche” potenziali da disinnescare per evitare che tra le ricadute della guerra ci sia anche il rischio di un fallout.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
Guerra in Ucraina e crisi energetica, le sanzioni dell'Occidente contro la Russia funzionano? Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.
L’economia di Mosca si contrae, i cittadini sono più poveri. Ma gas e petrolio tengono in piedi il sistema. Con l’esportazione delle risorse indispensabili, Putin guadagna più di prima e può continuare la sua guerra per un altro anno
Pagano tutti, anche per quelli che non ce la fanno. Con un colpo di bacchetta magica, anzi con un provvedimento urgente approvato dalla Duma alla sua riapertura, spariscono le famiglie russe che non riescono più a pagare le bollette di gas, luce ed elettricità.
La nuova misura non prevede incentivi ma si limita piuttosto a un’opera di cosmesi introducendo il principio della «corresponsabilità» all’interno dei condomini con più di quattro appartamenti, che stabilisce la presa in carico dei debiti degli inquilini morosi da parte dei vicini. Alla fine, è sempre una questione di prospettive, e del modo di raccontarle. Il Cremlino parla di giustizia sociale. Gli economisti che studiano la vita russa, ormai a distanza, sostengono che si tratti invece di uno stratagemma, perché in questo modo i nuovi poveri spariscono all’interno di una nuova contabilità.
Le sanzioni e la loro presunta inefficacia sono la palestra dell’ardimento della propaganda e di questi giochi di prestigio. «Abbiamo bruciato quasi cento miliardi di dollari per tenere in piedi la nostra economia». Questa frase non è stata pronunciata pochi giorni fa da un bieco occidentalista. A farlo, è stata Olga Skorobatova, vicegovernatrice della Banca centrale russa, a cui è sfuggito un dato chiaro sul costo che la Russia sta pagando con la continua immissione sul mercato interno di denaro pubblico, utile a calmierare i prezzi di beni primari comunque in costante crescita. Come dimostrano pane, carne e verdure, saliti di un altro 5% rispetto allo scorso luglio.
L’impoverimento collettivo creato dalle sanzioni è impossibile da negare, anche solo affidandosi all’aneddotica spicciola. Aeroflot è obbligata a smontare i propri aerei che coprivano tratte extra nazionali per trovare pezzi di ricambio. A causa della mancanza di auto occidentali, Yandex, il più diffuso servizio di taxi, che opera quasi in regime di monopolio, è stato costretto a fare ricorso alle auto Lada di produzione russa, meno comode e sicure, chiedendo un aumento delle forniture. Ma la produzione ormai è ferma. Persino il governo ha dovuto stimare un crollo del 90% nel comparto automotive, che resta pur sempre un indicatore affidabile sullo stato di salute di una economia. Per Yandex sono in arrivo auto della bielorussa Unison, che assembla parti delle macchine cinesi Zotye, come accadeva ai tempi dell’autarchia sovietica.
L’Istat russa si chiama Rosstat. E fa il suo lavoro, nel silenzio dei media di Stato. Nell’estate del 2022 l’industria nazionale è crollata. Su ventiquattro settori presi in esame, 18 hanno subito un calo che dal 6% del settore alimentare arriva allo sprofondo di quello automobilistico. L’iniezione di miliardi di denaro pubblico tiene a bada i prezzi, ma nulla può contro la chiusura delle fabbriche dovuta all’abbandono delle aziende occidentali e soprattutto agli embarghi sulla tecnologia che di fatto paralizzano ogni processo produttivo. Gli unici settori che prosperano sono legati alla guerra, soprattutto siderurgia e farmaceutic a, per altro beneficiati da uno stanziamento di novanta miliardi di dollari.
Ma il Cremlino continua a diffondere una realtà parallela che spesso attecchisce anche dalle nostre parti, basandosi su dati che hanno comunque qualche fondamento di verità. La televisione economica filogovernativa Rbk ha appena affermato che l’impatto negativo delle sanzioni è stato «ampiamente» sopravvalutato e nel 2022 la contrazione del Pil potrebbe fermarsi al 3%, invece del 6 previsto anche dalla Banca mondiale. Anche i redditi della popolazione, che dovevano crollare, sono scesi solo dello 0,8%. «La crisi dell’economia russa non è una caduta rapida ma una contrazione lenta e graduale che durerà per alcuni anni». Ruben Yenikolopov, il rettore della Scuola russa di economia, riassume così la situazione: «Se vi è capita di incontrare un boa che stritola lentamente al posto di una vipera dal morso letale, non è sempre una buona notizia». E spiega come alcuni dati che portano acqua al mulino dei contrari alle sanzioni siano specchietti per le allodole. Perché il Pil non dovrebbe limitarsi a scendere di poco, ma dovrebbe crescere in maniera esponenziale, per compensare la più grande spesa pubblica possibile: la guerra.
L’ambiguità maggiore quando di parla di sanzioni riguarda la loro efficacia nel far finire al più presto la guerra. Perché la verticale del potere putiniano si basa sugli apparati, ovvero Servizi segreti ed esercito, i cosiddetti Siloviki, gli «uomini della forza». E sulle risorse energetiche che via Gazprom irrorano in modo esclusivo un sistema che non è stato toccato in alcun modo. Ancora Yenikolopov: «La luce russa non si è spenta subito perché l’Europa non ha ridotto e non sta riducendo così rapidamente l’acquisto delle nostre risorse energetiche». Le ragioni di questa riluttanza sono note e se ne discute ormai da sei mesi. Vladimir Milov, ex deputato ed ex presidente dell’Istituto di politica energetica, è convinto che il blocco delle tecnologie finirà per colpire anche l’industria bellica. Ma con il gas e con il petrolio, Putin guadagna più di prima e può continuare la sua guerra almeno per un altro anno. Le sanzioni che non funzionano sono quelle che non ci sono ancora.
"L'inverno di Praga" gela l'Occidente. Settantamila persone hanno sfilato a Praga per dire «no alla Nato», no al caro bollette e stop alle sanzioni alla Russia. Le proteste ceche rischiano di contagiare Roma e Parigi. Vittorio Macioce il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.
Piazza San Venceslao è un inganno e una speranza. A vederla, nel cuore di Praga, appare come un lungo viale di circa settecentocinquanta metri. Qui di solito passa la storia. È su queste pietre che in un pomeriggio di gennaio del 1969 Jan Palach sfidò l'imperialismo sovietico. Si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale e posò il cappotto e la borsa, poi aprì con un coltellino una bottiglia di etere e ne annusò il contenuto, sollevò la tanica di benzina e se la buttò addosso e con un cerino prese fuoco. Quel rogo umano segnò la fine della «primavera di Praga».
È in questa piazza che Václav Havel prese le redini, nel novembre del 1989, della «rivoluzione di velluto» che nel nome dei Velvet Underground chiuse i conti con la dittatura comunista. Adesso, e in un altro secolo, la piazza torna a riempirsi e lo fa senza inseguire in alcuna primavera. Non si sa quanti sono esattamente, forse settantamila, forse di più. Non hanno molto in comune se non la rabbia contro il governo conservatore di Petr Fiala e ciò che hai loro occhi rappresenta. Sono qui per sacramentare contro l'Europa, contro la Nato, contro l'appoggio all'Ucraina, contro le sanzioni a Putin. L'America è il loro nemico giurato e il loro orizzonte è l'inverno.
È la loro paura, che scorre sulle bollette del gas, sui prezzi che crescono al supermercato, sul salario che non arriva a fine mese. Non hanno più alcuna voglia di ragionare e ascoltano solo le parole di chi sa cavalcare la loro rabbia. I loro leader sono pezzi del vecchio partito comunista, che in questa rivolta trova sponde con euroscettici e ultranazionalisti e con i populisti di Tomio Okamura, che sbandierano i vessilli di «Libertà e democrazia diretta», uno slogan che a pelle piacerebbe ai Cinque Stelle italiani, se sotto quelle parole non ci fosse troppa destra. Quello che li accomuna, sotto le ideologie, è la simpatia per le ragioni di Putin, perché tutta questa storia è esattamente quello che il Cremlino stava aspettando.
È l'Europa che va in frantumi, slabbrata, dilaniata, con le piazze che finiscono per tifare per Putin, l'uomo che ha in mano i rubinetti del gas e che porta avanti una guerra più grande di quella che si vede in Ucraina. L'obiettivo di Mosca è mostrare al mondo come ormai le democrazie occidentali non siano più in grado di rispondere alle sollecitazioni di questo tempo senza pace. Basta guardare a quello che accade negli Stati Uniti, dove Biden e Trump non si riconoscono più nella stessa America. La fine del modello occidentale è la scommessa che lega, contro il passato, Mosca e Pechino. La mossa profonda è destabilizzare e il gioco è iniziato. Praga è la prova del fuoco.
Ora l'obiettivo è arrivare a Parigi, Berlino, Madrid e Roma. Non importa che le piazze siano per ora solo una minoranza numerosa. La loro funzione è innescare la discordia, puntando sull'inverno che ci aspetta e delegittimando quell'Europa che non riesce a dare una risposta compatta alla paura delle masse. Ti chiedi se i governi dell'Unione sanno quello che stanno facendo. Se c'è la forza e la voglia di rispondere a Putin con azioni mirate, come quella del tetto sull'acquisto del gas, e si mettano da parte egoismi nazionali e rigidità formali. C'è da ripensate le politiche economiche e liberare i salari dalle tasse. Non basta chiedere sacrifici. L'inverno di Praga è una promessa di instabilità.
Cari "risparmiologi" risparmiate la predica. Siamo usciti da due anni dove erano diventati tutti virologi, poi tutti esperti di geopolitica, adesso tutti esperti di igiene, per risparmiare energia. Massimiliano Parente il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.
Siamo usciti da due anni dove erano diventati tutti virologi, poi tutti esperti di geopolitica, adesso tutti esperti di igiene, per risparmiare energia. Ritirando fuori tutte quei consigli e prescrizioni ambientaliste da uomini delle caverne, anche perché gli ambientalisti e naturalisti e amanti della decrescita felice (era il motto dei grillini, poi è decresciuto solo il M5S), ora è il loro momento, hanno una motivazione in più per ritirare fuori la testa: il rincaro bollette. Quanto ti lavi? Quante docce ti fai? Non saranno troppe?
Basta farsi un giro su social e tv e saltano fuori di nuovo coloro che ti dicono quante docce ti devi fare al giorno, per risparmiare acqua, fino agli influencer che predicano l'unwashed, una doccia a settimana massimo (se è per questo c'era già Mauro Corona che li batte tutti, se ne fa una ogni tre mesi «e non puzzo», e grazie, le tue narici si abituano, dipende da chi ti sta vicino). Quest'estate in Germania c'è stato un vero e proprio dibattito, con polemica tra ministri verdi tedeschi e olandesi, tra chi si faceva la doccia più velocemente.
Esperti anche nel risparmiare sulla cucina, gli spaghetti farli a fuoco spento dopo che l'acqua bolle (è vero, ma non è una scoperta recente, e comunque arriveranno a proporti di mangiarli crudi), asciugarsi i capelli con l'asciugamano, senza usare il phon (ma se già non ti fai la doccia, cosa cavolo asciughi), non usare rasoi elettrici ma lamette riutilizzabili (allora meglio non farsi proprio la barba, look Neanderthal). Intendiamoci, risparmiare energia è buon senso di chiunque, rompere le scatole al mondo per avere il proprio momento di celebrità ecocompatibile no (e comunque allora non lo facciano su internet, i loro consigli consumano energia).
Tuttavia, se i virologi andavano ascoltati (o meglio: ascoltare quelli che riferivano i dati della comunità scientifica e non chi li contraddiceva per andare al solito talk e differenziarsi dagli altri creando grande confusione tra tutti e anche diffidenza verso la
scienza e soffiando sul fuoco no-vax), gli esperti sul come vi dovete lavare e mangiare possiamo tranquillamente mandarli a quel paese. Anche perché sono sempre ambientalisti travestiti da esperti che con la scusa del risparmio energetico vogliono farci tornare al paleolitico, non pensano a come produrre più energia ma a come farne a meno, infatti di centrali nucleari non vogliono sentirne parlare, brutti puzzoni che non sono altro.
(Adnkronos il 13 luglio 2022) - "Sono 13 le aziende italiane che lavorano in Russia come se nulla fosse", secondo il database aggiornato dalla School of Management dell'Università di YALE. Fanno parte di un gruppo di 243 società di tutto il mondo in modalità "business as usual", come prima del 24 febbraio.
Si tratta del Gruppo Ariston, che continua a operare e ad assumere, di Benetton, che continua ad operare, come Boggi, che opera in Russia anche con vendite online. Le fabbriche di Buzzi Unicem sono in funzione in Russia e Calzedonia vende i suoi prodotti come prima dell'inizio della guerra, così come Cremonini.
De Cecco prosegue le operazioni e le vendite, Diesel opera in Russia normalmente, idem il Gruppo Fenzi, Fondital, opera e investe, Giorgio Armani prosegue le sue operazioni, così come Perfetti Van Melle e Unicredit. Altre otto aziende italiane stanno "prendendo tempo" (sono 160 in totale a farlo).
Sono imprese che "pur avendo sospeso investimenti, sviluppo e attività di marketing mantengono un business sostanziale". In questa categoria ricadono Barilla che non pubblicizza più i suoi prodotti ma continua a produrre anche se solo pasta e pane.
Campari produce ma non investe. Delonghi ha sospeso nuove forniture e investimenti ma è presente in Russia e lo stesso vale per Geox. Intesa Sanpaolo ha sospeso i nuovi investimenti e ha ridotto i nuovi finanziamenti. Maire Tecnimonet ha sospeso le attività commerciali. Il Gruppo Menarini ha sospeso la pubblicità e i nuovi investimenti ma la sua fabbrica in Russia continua a funzionare. Saipem ha bloccato nuovi investimenti.
Altre sette aziende italiane hanno "ridotto le loro operazioni" come 168 aziende nel mondo. Ci sono Eni, che ha sospeso la stipula di nuovi contratti e disinveste da investimenti per rubli, Ferrero che ha sospeso le attività non essenziali, Indesit, che ha bloccato la produzione a causa di "magazzini pieni", Iveco ha sospeso le consegne ma le joint venture sono ancora operative.
Luxottica ha limitato le operazioni in Russia ai servizi medici. Pirelli ha sospeso nuovi investimenti in Russia e ridotto la produzione. Valentino ha sospeso la vendita di prodotti online ma "non ci sono informazioni sulle vendite" in presenza. Altre aziende hanno sospeso le attività, pur mantenendo aperta l'opzione di un rientro sul mercato russo. In totale, nel mondo sono 486.
Le italiane sono sette: Diadora, che ha sospeso i contratti con i partner russi, Ferragamo che ha sospeso le consegne ai consumatori russi, Ferrari, che ha sospeso le vendite, Leonardo ha messo in pausa le joint venture in Russia. Moncler ha sospeso le operazioni, come Prada. Yook ha sospeso le attività commerciali e il Gruppo Zegna tutte le consegne e la produzione per i partner russi. Le aziende italiane che hanno interrotto completamente la loro presenza in Russia con una "recisione chirurgica" delle relazioni sono solo Assicurazioni generali e Enel. In tutto nel mondo, sono 306 ad averlo fatto.
La protesta di Kiev. L’azienda italiana che secondo gli ucraini collabora con l’industria bellica russa. L'Inkiesta il 22 Giugno 2022.
La multinazionale friulana Danieli è tra i maggiori produttori a livello mondiale di macchine e impianti per il settore metallurgico. Ma i suoi prodotti finiscono per aiutare indirettamente le imprese che producono armi per Putin.
A inizio settimana il ministero della Difesa ucraino ha criticato duramente un’azienda italiana che continua a fare a affari in Russia. «Dopo quattro mesi di guerra su larga scala, Danieli, che ha sede in Italia, collabora ancora con stabilimenti russi, fornendo attrezzature per la produzione di sottomarini nucleari e corazzature per carri armati. Sostenere il complesso militare russo va contro considerazioni legali e morali», scrive il dicastero di Kiev.
«Danieli» è la Danieli & C.Officine Meccaniche SpA, una multinazionale italiana con sede a Buttrio, in provincia di Udine, tra i maggiori produttori a livello mondiale di macchine e impianti per l’industria metallurgica.
Parliamo di un’azienda con un giro d’affari dal valore di 2,786 miliardi di euro, che ha chiuso l’ultima semestrale con ricavi da 1,57 miliardi (+23%) e un portafoglio ordini sopra i 4 miliardi. Nel 2019 vantava ricavi per 3 miliardi di euro, con un utile netto di 67 milioni, Ebitda a 239,2 milioni. E al 30 giugno 2020 il fatturato registrato era di 2,8 miliardi di euro, con utile netto di 62,4 milioni, Ebitda a 187,7 milioni, Ebit a 91,6.
Il Gruppo ha sedi in tutto il mondo, e ha 3 stabilimenti in Russia, di cui due centri servizi e un’unità produttiva: Danieli Volga LLC, Danieli Volga Branch, Danieli Russia Engineering LLC. Per la multinazionale la Russia rappresenta circa il 10% dei ricavi.
Le critiche che arrivano dall’Ucraina creano anche un confronto con la maggior parte delle aziende private occidentali, che ha deciso di lasciare la Russia dopo l’invasione del 24 febbraio. Ma Danieli no. Secondo l’agenzia ucraina Truman, il Gruppo fornirebbe quindi i suoi servizi a numerose aziende russe. Tra queste anche Viksun Metallurgical Plant – stabilimento che produceva tubi per il Nord Stream II –, Kamensk-Uralsky Metallurgical Works, che produce parti di aerei russi e appartiene al magnate russo Viktor Vekselberg, già oggetto di sanzioni internazionali, e con la Severstald i Alexei Mordashov, anche lui soggetto a sanzioni.
Lo scorso 13 aprile la Volgogradskiy Metallurgicheskiy Zavod Krasny Oktyabr, una delle acciaierie più grandi del Paese – che cento anni fa era conosciuta come la fabbrica dell’Ottobre Rosso – in un comunicato stampa ufficiale ringraziava Danieli per la collaborazione: l’azienda produce componenti per sottomarini e armature per i carri armati russi.
Linkiesta ha provato a contattare Danieli senza ricevere risposta. L’unica dichiarazione ufficiale diffusa dal Gruppo è un comunicato in cui si dichiara che «le attività del Gruppo non contemplano in alcuno modo la produzione diretta di materiale bellico e i contratti stipulati non prevedono mai il coinvolgimento nelle scelte di produzione dei clienti». Apparentemente nessuna collaborazione con l’industria militare russa, dunque.
Ma se è vero che Danieli non contribuisce direttamente alla produzione di sistemi bellici di alcun tipo, rientra nella filiera metallurgica che in un secondo momento confluisce nel settore militare.
Il Gruppo italiano è impegnato in Russia da molti anni. Precisamente dal febbraio 2014. «Danieli, uno dei gruppi protagonisti a livello mondiale nella costruzioni di impianti per la siderurgia, sviluppa in ogni direzione la sua politica industriale internazionale. La fabbrica russa si dedicherà all’impiantistica siderurgica, guardando ai 5-6 grandi produttori russi in grado di connettere l’intera filiera, dal minerale alle finiture», scriveva il Piccolo di Trieste nell’articolo dedicato all’evento.
All’inizio del 2022 Danieli aveva ottenuto due importanti commesse per la realizzazione di impianti siderurgici. La prima da parte del colosso russo Balakovo, che le aveva ordinato un nuovo impianto ecosostenibile per la produzione di rotaie, travi e altre componenti, per un progetto dal valore di circa 250 milioni di euro. La seconda commessa invece è legata al gruppo Magnitogorsk Iron&Steel Works (Mmk): un ordine da circa 120 milioni di euro per la fornitura di tecnologie per l’installazione di quattro nuovi forni di riscaldo (entrambe le fonti sono prese direttamente dal sito ufficiale di Danieli Group).
Questo non significa che Danieli abbia scelto di fare affari in Russia per finanziare la guerra criminale di Vladimir Putin. Nel suo comunicato, la società ha specificato di «essere impegnata sul fronte dell’emergenza umanitaria e sta fornendo un aiuto concreto alla popolazione coinvolta nella guerra in Ucraina. I dipendenti impiegati nell’ufficio tecnico del Gruppo Danieli a Dnipro, chiuso attualmente, sono stati portati al sicuro, assieme alle rispettive famiglie, e la società ha organizzato trasporto e accoglienza per circa cento persone presso il Campus Danieli in Friuli Venezia Giulia».
È una notizia che Siderweb, il quotidiano dedicato all’informazione economico-siderurgica, aveva ripreso il 16 marzo scorso: «Sono 64, soprattutto donne, bambini e ragazzi sotto i 18 anni, i cittadini ucraini che il gruppo Danieli ha messo in salvo dalla guerra che sta dilaniando il loro Paese. Quello di Danieli è un gesto, concreto, di solidarietà nei confronti dei propri dipendenti (una sessantina, circa, in totale) che operavano nella sede tecnica di Dnipro, città che si trova nella parte orientale del Paese».
L’Italia in cerca di gas si affida ai Paesi amici di Vladimir Putin. Eugenio Occorsio su L'Espresso il 28 Giugno 2022.
Algeria, Libia, Egitto, Qatar, Angola, Congo, Mozambico: sono gli Stati con cui abbiamo iniziato o rinforzato gli accordi per l’acquisto di risorse. Con non pochi problemi e ambiguità.
Algeria, Libia, Egitto, Qatar, Angola, Congo, Mozambico… La lista di alcuni fra i Paesi più problematici del pianeta coincide con l’elenco dei potenziali fornitori di gas che dovrebbero garantirci nel prossimo inverno l’affrancamento dalle forniture russe. Una serie di accordi firmati negli ultimi drammatici mesi dal premier Draghi, dai ministri Di Maio e Cingolani e dal capo dell’Eni Claudio Descalzi, dovrebbero garantire all’Italia la continuità delle forniture.
Ma c’è da stare tranquilli? Fino a un certo punto, per usare un eufemismo. L’Algeria, primo Paese visitato da Draghi l’11 aprile, è legata all’Italia dai tempi di Enrico Mattei che finanziò la guerra di liberazione e aveva in calendario il suo bagno di folla ad Algeri il 29 ottobre 1962. Due giorni prima precipitò con il suo Cessna vicino Linate in circostanze mai chiarite (ma chiarissime secondo gli esegeti del suo rapporto con Big Oil). Ora Algeri ha assicurato che porterà la sua quota di fornitura - con il gasdotto che si chiama ovviamente Enrico Mattei per la parte algerina, poi diventa Transtunisia e infine Transmed - da 21 a 30 miliardi di metri cubi. Senonché il presidente Abdelmadjid Tebboune, indebolito dalle vibrate contestazioni che continuano dalla sua elezione nel 2019, è il più forte alleato di Mosca nel Maghreb. Il direttore del servizio federale russo di cooperazione tecnico-militare, Dimitri Shugaev, e il capo di Stato maggiore dell’esercito algerino, Said Shengriha, sono in contatto, l’Algeria è stata fra i 35 astenuti nel voto Onu sulla condanna dell’“operazione speciale” a differenza dei suoi vicini regionali, lo stesso Putin dopo una visita ad Algeri ha condonato 4,7 miliardi di debito algerino in cambio dell’accesso privilegiato ad alcune esportazioni. E Gazprom e Sonatrach, la società energetica statale, sono legate da un recente memorandum d’intesa.
In Libia invece nessun ministro ha messo piede nella campagna-acquisti. Il gasdotto Greenstream (dal “libretto verde” di Gheddafi) ci porta 3 miliardi di metri cubi l’anno ma ha un potenziale di 10. Non ci sono però le condizioni di sicurezza perché l’Eni, oltretutto proprietaria delle riserve, potenzi l’estrazione. «Il Paese è in tregua armata, diviso fra le fazioni di Tripoli e Tobruk, e non si riescono a tenere le pluriannunciate elezioni che dovrebbero segnare la rappacificazione», spiega Federica Saini Fasanotti, ricercatrice di Ispi e Brookings. La presenza dei russi è pesante: la famigerata brigata Wagner non è vero che ha lasciato il Paese per combattere in Ucraina, ma resta a dominare la zona est. «In queste condizioni, trovare un interlocutore affidabile è impossibile».
La missione italiana si è spinta poi al Congo ex francese, capitale Brazzaville (che fu capitale della Francia Libera del generale De Gaulle durante la resistenza al nazismo). Non va confuso con la Repubblica Democratica del Congo, ex belga ed ex Zaire, dove infuria la battaglia fra milizie che è costata la vita il 22 febbraio 2021 all’ambasciatore Luca Attanasio, ma anch’esso non si è fatto mancare nulla: dopo l’indipendenza nel 1960 si sono susseguiti colpi di Stato, attentati, brutali repressioni, violente proteste, vere e proprie guerre civili con città distrutte. Nell’ultima tregua nel 2016 è stato rieletto Denis Sassou Nguesso, 78 anni, in virtù di un cambiamento della costituzione vibratamente contestato. Con lui i ministri italiani hanno siglato il 20 aprile l’accordo per la valorizzazione del gas dell’impianto offshore Marine XII su un giacimento da 280 miliardi di metri cubi. Da fine 2023 l’Eni esporterà fino a 5 miliardi di metri cubi con un’infrastruttura di liquefazione mobile.
Successive tappe, Angola e Mozambico, accomunati dalla drammatica lotta di liberazione contro l’“estado novo” com’era chiamata la dittatura portoghese di Alberto Salazar, abbattuta dall’incruenta rivoluzione dei garofani nel 1974. Un anno dopo i due Paesi africani ottennero l’indipendenza. Ma i loro guai non erano finiti perché si scatenarono faide, lotte civili, terrorismo. Servirono anni per ripristinare condizioni di vivibilità.
In Mozambico le fazioni ribelli Renamo e Frelimo firmarono una fragile pace con la mediazione della Comunità di Sant’Egidio nel 1990. In Angola l’Mpla, sostenuta da Urss e Cuba, combatté una guerra spietata contro l’Unita appoggiata da Usa e Sudafrica. La caduta dell’apartheid e il cambio di regime a Pretoria favorirono la pace siglata all’Onu nel 1988. Entrambe le ex-colonie hanno forti potenziali: in Angola l’Eni ha avviato lo sviluppo del gas fin dal 1980 e nel marzo 2022 ha firmato una joint-venture con la Bp per il Gnl, ed è operatore per lo sviluppo dei campi Quiluma e Maboqueiro con riserve per 42 miliardi di mc. Ancora più interessanti le attività in Mozambico, dove l’Eni lavora dal 2006 e definisce “straordinarie” le scoperte di gas: 2400 miliardi di metri cubi di potenziale. È iniziata a metà giugno la produzione di gas liquido nell’impianto offshore Coral South che vale 120 miliardi di metri cubi: a fine anno potrebbero partire le prime navi per l’Italia.
La memoria di Giulio Regeni rende invece ardua qualsiasi mossa in Egitto, il primo Paese dove sbarcò Mattei nel 1954. Il giacimento offshore Zohr, scoperto dall’Eni nel 2015, vale 850 miliardi di metri cubi, il maggiore del Mediterraneo. Si partirà con discrezione con non più di un miliardo di mc liquefatti destinato al rigassificatore della Spezia, che si presta a piccoli quantitativi perché non può accogliere navi grandi.
Collegato con la pipeline Tap che sbuca in Puglia è invece l’Azerbaigian: è una repubblica ex-sovietica, necessariamente (vista la posizione) pro Putin, tutt’altro che un campione di democrazia con un potere dinastico, in possesso di riserve non infinite. Il Tap porta 7 miliardi di metri cubi, potranno arrivare a 10 ma non di più. Più promettente il Kazakhstan che per ora produce 2 miliardi di mc ma dove l’Eni ha solide basi, giacimenti e infrastrutture. «È una fortuna la presenza così capillare dell’ente petrolifero», riflette l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci. «Possiamo offrire cooperazione industriale e tecnologica che è ciò di cui questi Paesi hanno bisogno».
Stessa operazione in Qatar, che rifornisce con 8 miliardi di metri cubi il rigassificatore di Rovigo: potrà portarli a 9 ma la capacità di esportazione è satura e le metaniere sono vincolate a obblighi contrattuali con i Paesi asiatici. Per questo l’Eni ha appena firmato una joint-venture per lo sviluppo di nuovi pozzi. Senonché i rapporti con Mosca possono essere imbarazzanti se si guarda con la lente convessa dell’Arabia Saudita: dopo l’omicidio nel 2018 di Jamal Khashoggi, columnist del Washington Post, le relazioni di Riad con l’America si congelarono e migliorarono quelle con Mosca, cementate nell’Opec+. Ora però Biden ha riaperto la porta ai sauditi, la Russia con simmetria pitagorica si sta allontanando e riprendendo franche relazioni con il Qatar, l’anti-Riad per eccellenza nel Golfo. Il meccanismo è sempre quello: l’America abbandona una posizione, la Russia arriva. Se Washington torna, Mosca ricambia alleato. Qualche Paese in cerca di appoggi economici e militari si trova sempre, se è ricco di materie prime meglio ancora.
Enel ha tentato di aggirare le sanzioni contro gli oligarchi di Putin. L’amministratore delegato Starace ha trattato con Suek di Melnicenko la vendita di Enel Russia prima e dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Dopo che il russo è finito nella lista nera dell’Ue, a marzo l’ad ha proposto al Cda di proseguire perché gli era subentrata la moglie serbo-croata. Enel: “Situazione complessa, ci siamo fermati”. Ma solo perché i consiglieri si sono opposti. Ora nuovo accordo. Carlo Tecce su L'Espresso il 16 Giugno 2022.
La società italiana Enel, multinazionale del settore energetico di cui il ministero del Tesoro, cioè lo Stato, è il principale azionista, ha tentato di aggirare le sanzioni europee contro gli oligarchi russi comminate per punire il regime di Vladimir Putin dopo l’aggressione militare in Ucraina. È accaduto nelle prime settimane di marzo proprio mentre le istituzioni occidentali erano impegnate in una dura e ferma risposta a Mosca.
Preciso cheprecisoche su L'Espresso il 19 Giugno 2022.
La replica di Enel e la nostra risposta
In relazione all’articolo apparso ieri online sulla rivista l’Espresso, Enel precisa che non corrisponde al vero che, nelle trattative sulla cessione di Enel Russia, si sia cercato in alcun modo di aggirare il sistema di sanzioni vigenti. La possibilità di cessione di Enel Russia a Suek – originariamente riconducibile a Melnichenko – è stata valutata dal management di Enel da novembre 2021 sino a prima del conflitto russo-ucraino. Ogni trattativa è stata interrotta successivamente all’inserimento di Melnichenko nella lista dei soggetti sanzionati, e di ciò è stato dato conto nel Consiglio di Amministrazione del 17 marzo. Contrariamente a quanto rappresentato dall’autore dell’articolo, non è mai stata discussa alcuna proposta di continuare trattative con l’oligarca né tantomeno con sua moglie, ma si è più semplicemente valutata l’opportunità di formulare al Ministero degli Affari Esteri un quesito circa la possibilità di considerare Suek tra i soggetti sanzionati estendendo così il regime sanzionatorio al trust beneficiario finale delle relative azioni, partecipato anche dalla moglie di Melnichenko. Tale adempimento si rendeva necessario, tra l’altro, per potere onorare i pagamenti dei contratti afferenti al carbone consegnato da Suek alle centrali italiane prima dello scoppio della guerra.
Successivamente, Enel ha peraltro limitato la richiesta di chiarimenti al solo regime dei pagamenti del carbone già consegnato, avendo avviato con altri soggetti interessati trattative per la cessione della partecipazione in Enel Russia. Deroghe per operazioni con Suek sono, nel frattempo, state concesse da Germania, Belgio, Svizzera e Regno Unito. Il Governo italiano non si è ancora pronunciato e la questione – vista l’incertezza - verrà probabilmente affrontata in modo unitario dalla Commissione. Di tutti questi fatti il giornalista è stato informato ma ha preferito omettere le informazioni ricevute.
Enel ritiene che il giornalista abbia preferito accreditare le informazioni errate fornitegli dalle sue fonti ignorando scientemente i fatti che gli erano stati precisati in maniera ufficiale dall’Azienda. Verità peraltro cristallizzata negli atti ufficiali del Consiglio di Amministrazione di Enel e nelle registrazioni delle relative riunioni.
In aggiunta all’errata rappresentazione di quanto accaduto durante il Consiglio di Amministrazione del 17 marzo, l’articolo riporta considerazioni e allusioni personali del giornalista completamente false e prive di fondamento, come l’asserita elusione di norme e una presunta freddezza nei rapporti tra l’AD di Enel ed il Governo, lesive della reputazione dell’Azienda e del suo management.
Attesa la gravità delle mistificazioni contenute nell’articolo in questione e considerato che esse risultano riferite a dinamiche interne al Consiglio di Amministrazione di una società quotata di rilievo internazionale quale Enel, la Società provvederà a segnalare quanto accaduto agli organi di giustizia in sede penale e civile per le valutazioni che loro competono, nonché alla Consob.
Ufficio stampa Enel
La nostra risposta
Enel conferma la trattativa con l’azienda Suek di Melnichenko che, come ampiamente spiegato nell’articolo, non era possibile proseguire dopo le sanzioni del 9 marzo. Nel consiglio di amministrazione del 17 marzo, infatti, si è discusso di come valutare la posizione di Suek alla luce del passaggio di proprietà alla signora Aleksandra Nikolic, moglie di Melnichenko con passaporto croato, cioè europeo. Situazione peraltro sconosciuta ai più e segnalata da un’inchiesta dell’agenzia internazionale Reuters alla fine di maggio, due mesi dopo, e oggetto di ulteriore sanzione europea il 3 giugno quando nella lista è stata inserita anche la signora Nikolic e dunque è stato sancito che quel trasferimento fosse soltanto un modo per sfuggire ai vincoli europei/occidentali. Nessuno ha affermato che il vertice di Enel abbia aggirato le sanzioni, ma che abbia discusso sulla possibilità di sfruttare l’avvento della signora Nikolic coinvolgendo il ministero degli Esteri e perciò di avallare un modo cercato dai Melnichenko di aggirare le sanzioni, possibilità scartata dalla maggioranza dei consiglieri nel Cda in questione. L’Espresso ha riportato testualmente la risposta di Enel sul Cda del 17 marzo. Nell’articolo è stato ricordato, perché degno di attenzione della pubblica opinione, che il dottor Francesco Starace, benché il governo avesse invitato tutti i manager delle aziende di Stato a non parteciparvi, a gennaio prese ugualmente parte alla videoconferenza con il presidente Vladimir Putin. Nessuna allusione personale. Questi sono fatti documentati e ricostruzioni giornalistiche che rientrano ampiamente nel diritto di cronaca e di critica fortunatamente ben tutelato in Italia.
JACOPO IACOBONI per la Stampa il 19 giugno 2022.
Le sanzioni, ma anche l'uscita dalla Russia di una mole impressionante di aziende occidentali, oltre 1200, stanno colpendo profondamente l'economia di Mosca. Ma ci sono anche aziende occidentali che restano, o sono a metà del guado, un fenomeno che va almeno quantificato per essere compreso.
Secondo il database della School of management della Yale University, una delle più prestigiose università al mondo, curato dal professore Jeffrey Sonnenfeld, ci sono 30 aziende americane, 26 francesi, 23 tedesche, 15 italiane, 6 spagnole e solo una del Regno Unito, che a giudizio di Yale continuano a fare, testualmente, "business as usual" in Russia, cioè a continuare il grosso delle operazioni. Le trenta americane, se pensiamo alle dimensioni dell'economia Usa, sono ovviamente molto meno in proporzione delle 15 italiane, o delle 26 francesi e delle 23 tedesche.
Il che aiuta anche a capire un altro dei motivi del "pacifismo" e dell'inclinazione "trattativista" più diffusa in Europa, e spesso interpretata dai leader francese e tedesco, Emmanuel Macron e Olaf Scholz. Si tratta spesso di colossi (come i francesi Auchan, Babolat, Lacoste, Leroy Merlin), che avrebbero potuto certamente affrontare il peso di alcuni disinvestimenti, o come alcune delle tedesche (nell'archivio di Yale figurano giganti come Siemens Healthineers - Siemens ha cessato altre attività- Braun, Kion, Globus. Mentre altre aziende tedesche stanno facendo una riduzione di investimenti, da Allianz a Boheringer, da Bosch a Zeiss).
Tra le italiane, il database di Yale menziona, come business ancora attivi, Ariston Group, Benetton (che in una dichiarazione ha condannato la guerra della Russia ma ha affermato che avrebbe continuato le sue attività commerciali in Russia, comprese partnership commerciali e logistiche di lunga data e una rete di negozi che sostiene 600 famiglie), Boggi, Buzzi Unicem, Calzedonia, Cremonini Group, De Cecco, Diadora, Diesel, Fenzi, Fondital, Armani (che in una dichiarazione ufficiale ha spiegato: «Il Gruppo Armani non opera direttamente in Russia e i negozi che operano nel territorio per conto dei marchi del gruppo - Giorgio Armani, Emporio Armani, Armani Exchange - sono gestiti da franchising indipendenti»), Menarini, Perfetti van Melle, Unicredit (che ha ridotto l'esposizione con la Russia per due miliardi. La liquidità netta della controllata russa dovrebbe essere almeno parzialmente ceduta a un futuro acquirente, ha detto a Reuters una fonte informata sul dossier).
La School of management di Yale spiega che le fonti usate per tenere aggiornato il database (che ovviamente è in movimento) sono non solo un team di esperti con esperienza in analisi finanziaria, economia, contabilità, strategia, governance, geopolitica e affari eurasiatici, ma che sappiano complessivamente dieci lingue tra cui russo, ucraino, tedesco, francese, italiano, spagnolo, cinese, hindi, polacco e inglese, e che hanno utilizzato un mix di fonti pubbliche (documenti governativi, documenti fiscali, dichiarazioni aziendali, rapporti di analisti finanziari, Bloomberg, FactSet, MSCI, S&P Capital IQ, Thomson Reuters e media aziendali di 166 paesi) e fonti non pubbliche, inclusa una rete globale in stile wiki di oltre 250 addetti ai lavori, informatori e contatti esecutivi del mondo aziendale.
È anche interessante la categoria delle aziende che stanno «prendendo tempo», secondo l'Università americana: ossia stanno sospendendo investimenti e gestendo la situazione. Di Barilla si dice per esempio che «tutti gli investimenti e le pubblicità sono in pausa. La produzione di pasta e pane in Russia è limitata». Di Banca Intesa che «limita nuovi finanziamenti, e sospende investimenti». Tra le aziende tedesche che temporeggiano (18, contro le 13 francesi e le 7 italiane) vengono citate tra le altre Bayer, Ruitter, Knauf.
Colpisce che tra le aziende americane ancora pienamente attive in Russia ci sia Koch, il più grande, storico finanziatore dei repubblicani, specie negli stati ultraconservatori del sud, come racconta Jane Meyer in un celebre libro. O come Cloudfare e Synopsys, aziende molto rilevanti nel cloud e nell'information technology. Di alcune importantissime aziende italiane, il database americano dice cose interessanti. Di Eni, che sta «ridimensionando» la presenza in Russia: «Sospensione della stipula di nuovi contratti petroliferi; disinvestimento da investimenti per rubli».
Di Enel, che lavora per «sospendere gli investimenti in corso, e per dismettere le attività correnti». Leonardo viene citata nel gruppo di aziende che hanno ridotto la maggior parte o quasi tutte le attività. Quanto questo quadro frastagliato aiuterà a fermare l'aggressione della Russia all'Ucraina? Sicuramente, sono molte più le aziende andate che quelle rimaste. L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo ha ridotto per quest' anno le previsioni di crescita della zona euro dal 4,3% stimato a dicembre al 2,6%, mentre stima che la Russia crollerà almeno del 10% quest' anno. Putin sostiene che l'inflazione russa è sotto controllo, ma è al 17,6%. L'inflazione media della zona euro è attualmente meno della metà, 8,1%.
Francesco Bechis per formiche.net il 17 giugno 2022.
Più che ospiti, consiglieri. Mentre il presidente del Consiglio Mario Draghi è a Kiev insieme a Emmanuel Macron e Olaf Scholz per dare manforte alla resistenza ucraina, Confindustria sussurra a Vladimir Putin come uscire dalla crisi. Scena: Alfredo Gozzi, presidente di Confindustria Russia, prende la parola del Forum di San Pietroburgo.
Come anticipato dal Foglio, la presenza del numero uno di Viale dell’Astronomia a Mosca alla “Davos russa” non è mai stata messa in discussione, anzi. Poco importa che la “Davos russa” sia stata disertata da buona parte della comunità internazionale e che la presenza italiana sia un vero caso in Europa. Se un tempo farsi vedere all’ombra di Putin a San Pietroburgo era un primato per cui gareggiare, oggi, mentre le truppe russe radono al suolo l’Ucraina, vale l’esatto opposto.
Non per Gozzi, che viene invitato da Pavel Shinsky, direttore della Camera di Commercio russo-francese, a svelare al pubblico “il segreto italiano per preservare la vostra posizione e al tempo stesso il mercato russo”. Risposta: “Hai detto bene, puoi dirlo forte. Il nostro segreto sono le piccole e medie imprese. E la maggior parte delle pmi italiane finora non ha lasciato la Russia. Vogliono continuare a lavorare con le aziende russe, restare nel mercato”.
Inizia così, con un sospiro di sollievo, l’exploit dell’industriale italiano. Che prende poi a sciorinare una lunga ricetta per spiegare perché, per fortuna, le aziende italiane sanno adattarsi alla tempesta e non vogliono lasciare Mosca. Certo, non è facile. “Non solo hanno il problema delle sanzioni occidentali, ma anche delle misure prese dal governo russo – sospira Gozzi.
“Non dico se sono giuste o sbagliate, è un fatto oggettivo. Non possono portare in Italia ricavi e profitti, avere transazioni libere”. Ma le pmi italiane, garantisce, “hanno sempre mostrato un alto livello di adattabilità e di flessibilità, l’unica cosa che permetterà ad alcune di loro di sopravvivere”.
Modello vincente, dunque. Tanto che la Russia, spiega il confindustriale, dovrebbe prendere esempio. “La Russia dovrebbe sviluppare il modello delle Pmi locali per permettere alle pmi di Paesi esteri di adattarsi a un nuovo mercato, dove le grandi aziende russe prenderanno il posto delle multinazionali che lo hanno abbandonato. Nella nostra visione questo è un passo fondamentale”.
L’applausometro premia Gozzi. Premia ancora di più il connazionale che gli fa eco subito dopo: Vincenzo Trani. Presidente della Camera di Commercio italo-russa, è il capo di Delimobil, la società di car sharing russa che contava (fino allo scorso febbraio) Matteo Renzi nel suo cda. Un vero must nella Russian connection italiana, tra gli alfieri, peraltro, dell’operazione che ha provato a portare in Italia il vaccino russo anti Covid-19, Sputnik V.
A San Pietroburgo Trani è di casa e affonda subito il colpo. “La politica non può entrare nel business. Quando i businessmen diventano politici e viceversa, non può funzionare”. Tradotto: l’Italia, quella raccontata da Trani al forum di Putin, vuole continuare come nulla fosse, business as usual. “Non siamo politici – riprende – questo è un messaggio chiave. La maggior parte delle nostre aziende continua ad operare. Non perché approvino la situazione attuale, ma perché hanno un approccio diverso”. E poco importa, ammette, se “le autorità italiane e i media” gli chiedano conto di quel che dice e fa in questi mesi. “Io spiego loro che siamo la Camera di Commercio delle aziende italiane ma anche russe. Siamo il ponte tra Italia e Russia. E soffriamo quando vediamo che questo ponte è rovinato”.
Lara Tomasetta per TPI il 26 maggio 2022.
A tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina e malgrado cinque pacchetti di sanzioni europee contro il Cremlino, molte aziende italiane hanno scelto di non abbandonare la Russia. Dopo Cina e Francia, l’Italia è il terzo Paese al mondo per percentuale di imprese che non hanno interrotto le loro relazioni economiche con Mosca: il 70% delle nostre società ha optato per questa soluzione, a fronte di una media mondiale del 42%.
A dirlo è un report della Yale School Management, business school dell’Università di Yale, che monitora con aggiornamenti quotidiani oltre mille aziende (selezionate dalla scuola) che lavorano – o lavoravano – in Russia. Fin qui sono 750 quelle che avrebbero comunicato all’ateneo americano di aver fermato le proprie operazioni. Il giro d’affari complessivo dei rapporti commerciali tra Italia e Mosca nel 2021 ha raggiunto un valore di circa 20 miliardi di euro: somma che tiene conto sia dei soggetti operativi in territorio russo sia di quelli che puntano sulle esportazioni.
Conti alla mano, l’Istituto per il commercio estero (Ice) parla di 7 miliardi di euro di merce italiana venduta ogni anno in Russia. Il rapporto della Yale School classifica le mille imprese in cinque categorie a seconda del comportamento tenuto in seguito all’invasione dell’Ucraina: da quelle che non hanno modificato in nulla le proprie relazioni economiche a quelle che invece hanno fatto scelte più drastiche.
Dal settore energetico a quello dell’alta moda, dall’alimentare al tecnologico, l’Italia dell’industria preferisce non chiudere (del tutto) i ponti con “Madre Russia”, tentando di mediare tra sanzioni, opinione pubblica e ricadute economiche. Chi lascia e chi resta Nel Paese governato da Putin operano 480 aziende italiane: 30 con impianti produttivi, 150 con cooperazioni produttive o joint venture, 300 imprese con uffici di rappresentanza. Stando ai dati del report americano, c’è chi «continua a gestire gli impianti in Russia», come il gruppo Buzzi Unicem che produce cemento e chi, per esempio Calzedonia, «continua le vendite» all’ombra del Cremlino.
Altri, come Assicurazioni Generali, hanno invece preferito «uscire completamente» dal mercato russo. Sempre stando all’indagine di Yale, sono 28 i grandi marchi che risultano almeno in parte ancora attivi in Russia.
Quali? Nell’elenco figurano nomi della farmaceutica come Menarini, dell’abbigliamento come Benetton, Armani, Calzedonia, Diesel, Diadora. Nel settore alimentare sono diverse le realtà ad avere stabilimenti in Russia, come Barilla e De Cecco: queste aziende hanno optato per uno stop agli investimenti, ma non alle produzioni. Anche il gruppo Cremonini (carni lavorate e ristorazio ne) è ancora operativo in Russia.
Così come la dolciaria Ferrero, che ha una fabbrica a 160 chilometri da Mosca dove lavorano circa 800 persone. Gli investimenti programmati dal gruppo di Alba sono saltati ma non le attività essenziali: «Dopo la chiusura temporanea dei nostri uffici in Ucraina, abbiamo deciso di sospendere temporaneamente anche in Russia tutte le attività non essenziali e i piani di sviluppo», spiegano dall’azienda produttrice della Nutella. «Ciò include anche le attività promozionali e la pubblicità».
TPI ha contattato le aziende per ottenere informazioni dettagliate. Dal gruppo Benetton fanno sapere: «In questo quadro, Benetton ha sospeso tutti i propri programmi di sviluppo in Russia, mercato dove è presente da oltre 30 anni, destinando gli investimenti previsti in nuove aperture ad attività di assistenza umanitaria del popolo ucraino da parte della Croce Rossa Italiana.
L’azienda ha inoltre provveduto alla donazione di capi in favore dei profughi ucraini e si è impegnata per fornire protezione e supporto ai rifugiati ucraini in Italia. Allo stesso tempo, Benetton Group, ha deciso di proseguire le attività commerciali già in essere in Russia, costituite da rapporti di lunga data con partner commerciali e logistici e da una rete di negozi che danno impiego ad oltre 600 famiglie».
E conclude: «L’azienda monitora quotidianamente l’evolversi della situazione, con la speranza che gli sforzi diplomatici possano condurre quanto prima ad una soluzione». Il gruppo Calzedonia ha invece deciso di non rilasciare dichiarazioni. Mentre Diesel, che secondo il report risulta attivo in Russia, riferisce invece a TPI che l’azienda «non ha negozi di proprietà in Russia, abbiamo chiuso da subito l’online, continuiamo a rispettare le normative vigenti rispetto alle re strizioni decise dal Governo e dall’Ue».
Armani rende noto che «il gruppo non opera direttamente in Russia e i negozi operanti nel territorio con i marchi del Gruppo (Giorgio Armani, Emporio Armani, Armani Exchange) sono gestiti da franchisee indipendenti. Armani si attiene al rigoroso rispetto del regime sanzionatorio emanato dall’Unione europea».
Banche e partecipate Nel settore energetico, Enel ha tre centrali elettriche a gas e due impianti eolici che sta cercando di cedere: dal report di Yale si evince infatti che la partecipata dal Ministero dell’Economia italiano ha sospeso gli investimenti in corso e sta lavorando per dismettere le attività correnti.
Per Eni la situazione è più delicata: «Le joint venture in essere con Rosneft, legate a licenze esplorative nell’area artica, sono congelate da anni, anche per le sanzioni internazionali imposte a partire dal 2014». Inoltre «a livello commerciale Eni, sin dall’inizio del conflitto, ha sospeso la stipula di nuovi contratti relativi all’approvvigionamento di greggio o prodotti petroliferi».
Restano operativi invece, come è noto, i contratti relativi alle forniture di gas. Su questi ultimi Eni rende noto di aver aperto il doppio conto presso GazpromBank, uno in euro e l’altro in rubli, per pagare le forniture di gas alla Russia. «L’apertura dei conti avviene su base temporanea e senza pregiudizio alcuno dei diritti contrattuali della società, che prevedono il soddisfacimento dell’obbligo di pagare a fronte del versamento in euro.
Tale espressa riserva accompagnerà anche l’esecuzione dei relativi pagamenti», sottolineano dall’azienda. «La decisione, condivisa con le istituzioni italiane, è stata presa nel rispetto dell’attuale quadro sanzionatorio internazionale e nel contesto di un confronto in corso con Gazprom Export». Anche Saipem e Maire Tecnimont hanno sospeso gli investimenti e si sono concentrati sulle attività correnti.
Nel settore del credito, secondo le indiscrezioni, a lasciare presto la Russia sarà Unicredit, che avrebbe intavolato negoziati preliminari per vendere la sua controllata Unicredit Bank, che detiene poco più dell’1% del mercato russo. In base a quanto scrive Bloomberg, l’istituto guidato da Andrea Orcel sarebbe stato contattato da potenziali acquirenti interessati all’operazione. Si parla di istituzioni finanziarie e società interessate a ottenere una licenza bancaria all’interno della Russia. Intesa SanPaolo ha invece sospeso nuovi investimenti e ridotto i nuovi finanziamenti.
Dagotraduzione dal Guardian il 16 maggio 2022.
McDonald's ha avviato un processo per vendere la sua attività in Russia dopo 30 anni di gestione dei suoi ristoranti nel paese. A marzo, McDonald's ha chiuso tutti i suoi ristoranti in Russia, compreso il suo sito in piazza Pushkin nella capitale, che è stato il primo nel paese.
«La crisi umanitaria causata dalla guerra in Ucraina e il precipitare dell'imprevedibile ambiente operativo hanno portato McDonald's a concludere che la continua proprietà dell'attività in Russia non è più sostenibile», ha affermato McDonald's.
Le attività di Renault in Russia sono passate interamente allo stato. Il Domani il 16 maggio 2022
«Una scelta responsabile nei confronti dei nostri 45mila dipendenti in Russia» ha detto l’ad della casa automobilistica francese, nella prospettiva «di tornare nel paese in futuro, in un contesto diverso»
Le attività della casa automobilistica francese Renault, in Russia, sono diventate proprietà dello stato. Lo hanno reso noto il ministero dell'Industria e del commercio di Mosca in un comunicato e il Gruppo Renault. Una decisione che arriva dopo l’interruzione della produzione, nel paese, in seguito all’invasione dell’Ucraina.
«Sono stati firmati accordi per il trasferimento di asset russi dal gruppo Renault alla Federazione Russa e al governo di Mosca», si legge nella nota del ministero, riportata dall’agenzia stampa Tass. Le azioni di Renault Russia sono state trasferite interamente al governo della città di Mosca e l'Istituto statale di ricerca nel settore automobilistico (Nami) è diventato proprietario della partecipazione del 67,69 per cento della Renault nella casa automobilistica russa Avtovaz.
L’accordo per la vendita è stato approvato dal Consiglio di amministrazione del Gruppo Renault all’unanimità. «Oggi – ha detto Luca De Meo, amministratore delegato del Gruppo – abbiamo preso una decisione difficile ma necessaria e stiamo facendo una scelta responsabile nei confronti dei nostri 45mila dipendenti in Russia, preservando le prestazioni del Gruppo e la nostra capacità di tornare nel Paese in futuro, in un contesto diverso. Sono fiducioso nella capacità del Gruppo Renault di accelerare ulteriormente la sua trasformazione e superare i suoi obiettivi a medio termine».
Dopo gli accordi raggiunti con il gruppo automobilistico francese, il sindaco di Mosca, Sergei Sobyanin, ha dichiarato che la produzione di auto riprenderà sotto lo storico marchio Moskvich, secondo quanto riferito dall’agenzia Ria Novosti.
L'annuncio delle due società. McDonald’s e Renault lasciano la Russia: “Impossibile ignorare la crisi umanitaria causata dalla guerra in Ucraina”. Roberta Davi su Il Riformista il 16 Maggio 2022.
McDonald’s dice addio alla Russia. La catena di fast food statunitense ha già avviato il processo di vendita dell’intero portafoglio di ristoranti. A comunicare la decisione è stata la stessa azienda, tramite un comunicato. “La crisi umanitaria causata dalla guerra in Ucraina e il precipitare delle condizioni operative hanno portato McDonald’s a concludere che la proprietà dell’attività in Russia non è più sostenibile né coerente con i valori di McDonald’s” si legge nella nota.
Una decisione che segue quella di Renault: il gruppo automobilistico ha infatti deciso di cedere il 100% delle sue azioni al governo russo.
L’addio di McDonald’s
Dopo aver annunciato la chiusura dei suoi 850 punti vendita in Russia a causa del conflitto in Ucraina lo scorso marzo, così come altre catene del calibro di Starbucks, Kfc e Pizza Hut, ora l’azienda ha deciso di abbandonare definitivamente il Paese. Secondo alcune indiscrezioni, la famosa catena di ristoranti fast food venderà la propria attività a un acquirente locale, cercando di includere i suoi 62.000 lavoratori nei termini dell’accordo. L’azienda ha inoltre sottolineato che continuerà a pagare i dipendenti fino alla chiusura di qualsiasi transazione.
La società prevede un addebito da 1,2 a 1,4 miliardi di dollari per coprire i costi di trasloco. Il nuovo acquirente manterrà quindi l’attività di ristorazione, ma non potrà utilizzarne nome, logo o menu. Il nuovo marchio potrebbe essere ‘Zio Vanja’, che risulta depositato il 12 marzo scorso: una B gialla (che nell’alfabeto cirillico corrisponde alla V di Vanja) su uno sfondo rosso, che appare molto simile al logo di McDonald’s.
“Si tratta di una faccenda complicata che non ha precedenti e che avrà profonde conseguenze” è il messaggio dell’amministratore delegato Chris Kempczinski, riportato dal New York Times. “Qualcuno potrà obiettare che la cosa giusta da fare è continuare a garantire accesso ai nostri prodotti e a dare lavoro a decine di migliaia di cittadini ordinari. Ma è impossibile ignorare la crisi umanitaria causata dalla guerra in Ucraina, ed è impossibile immaginare che il nostro marchio rappresenti la stessa speranza e le stesse promesse che ci portarono a entrare nel mercato russo 32 anni fa.“
L’apertura del primo punto vendita a Mosca, nell’allora Unione Sovietica, risale infatti al 31 gennaio 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino. Furono circa 30mila i clienti quel giorno: un vero e proprio record per un evento che fece scalpore, soprattutto per il suo significato simbolico.
In Ucraina intanto i ristoranti McDonald’s rimangono chiusi, anche se i dipendenti vengono pagati e l’azienda sta sostenendo i rifugiati in tutta Europa attraverso donazioni di cibo, alloggio e lavoro.
Renault: le azioni cedute al governo russo
Le attività della casa automobilistica francese Renault in Russia sono da oggi 16 maggio di proprietà dello Stato: lo ha reso noto il ministero dell’Industria e del commercio di Mosca in un comunicato, riferisce l’Ansa. L’annuncio segue il ritiro della Renault dalla Russia sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina.
“Sono stati firmati accordi per il trasferimento di asset russi dal gruppo Renault alla Federazione Russa e al governo di Mosca”, ha fatto sapere il ministero. Il cda della casa automobilistica ha quindi approvato all’unanimità la firma degli accordi per la vendita del 100% delle azioni di Renault Russia alla Città di Mosca e del 67,69% in Avtovaz all’Istituto di ricerca automobilistica Nami. L’intesa prevede un’opzione di riacquisto da parte del Gruppo Renault della sua partecipazione in Avtovaz, esercitabile in determinati periodi nei prossimi sei anni.
“Oggi abbiamo preso una decisione difficile ma necessaria e stiamo facendo una scelta responsabile nei confronti dei nostri 45.000 dipendenti in Russia, preservando le prestazioni del Gruppo e la nostra capacità di tornare nel Paese in futuro, in un contesto diverso. Sono fiducioso nella capacità del Gruppo Renault di accelerare ulteriormente la sua trasformazione e superare i suoi obiettivi a medio termine“, ha affermato Luca de Meo, CEO del Gruppo Renault.
Come annunciato lo scorso 23 marzo, nei risultati del primo semestre 2022 dovrebbe essere registrato un onere di rettifica non monetario pari al valore contabile delle attività immateriali, degli immobili, degli impianti e dei macchinari consolidati e dell’avviamento del Gruppo in Russia. Al 31 dicembre 2021, questo valore ammontava a 2.195 milioni di euro. Di conseguenza, le attività russe saranno deconsolidate nel bilancio del Gruppo Renault per il semestre chiuso al 30 giugno 2022 e verranno quindi contabilizzate come cessate. Il Gruppo Renault presenterà, in occasione di un Capital Market Day che si terrà nell’autunno del 2022, le sue prospettive finanziarie e la sua strategia aggiornata, posizionando il Gruppo come un “attore di riferimento competitivo, tecnologico e sostenibile”. Roberta Davi
La Russia ha retto la stretta delle sanzioni, il mondo no. Piccole Note il 3 maggio 2022 su Il Giornale.it.
Le sanzioni d’inferno che si sono abbattute sulla Russia e che avrebbero dovuto piegarla in breve tempo, non solo non hanno sortito gli effetti desiderati, ma si sono rivelate nefaste per i Paesi che le hanno comminate.
Ne scrive Brahma Chellaney su The Hill, secondo la quale i Paesi che hanno emanato sanzioni contro la Russia “sono cadute in una trappola: con le sanzioni e l’aggravarsi del conflitto, che contribuiscono ad aumentare i prezzi globali delle materie prime e dell’energia, si registrano maggiori entrate per Mosca nonostante una significativa diminuzione delle sue esportazioni. Mentre i prezzi internazionali più alti, alimentando l’inflazione, si traducono in problemi politici interni per coloro che hanno emanato le sanzioni”.
E mentre il rublo, nonostante il flagello, si è “ripreso grazie all’intervento statale”, altre valute sono in forte calo: per fare un esempio, lo yen giapponese, “(la terza valuta più scambiata al mondo), è sceso al minimo da 20 anni rispetto al dollaro USA”
“Nel frattempo, l’inflazione galoppante e le interruzioni delle catene di approvvigionamento stanno minacciando i profitti delle imprese occidentali, mentre l’aumento dei tassi di interesse, deciso per frenare l’inflazione, peggiora la già brutta situazione dei consumatori”.
Anche l’America è alle prese con simili problematiche, dal momento che “aprile è stato il mese peggiore per Wall Street dal crollo del marzo 2020 innescato dalla pandemia”, mentre l’indice S&P 500, che misura l’andamento delle più importanti imprese americane, nello stesso mese “è sceso dell’8,8%”.
“Nei primi due mesi di guerra ucraina – prosegue la Chellaney – chi ha imposto le sanzioni ha ironicamente aiutato la Russia a raddoppiare quasi le sue entrate relative alla vendita di combustibili fossili, circa 62 miliardi di euro, secondo il Centre for Research on Energy and Clean Air”.
“I 18 acquirenti più importanti, con la sola eccezione della Cina, sono stati i Paesi che hanno imposto le sanzioni, con l’Unione Europea che da sola ha rappresentato il 71% degli acquisti di combustibili russi”.
Non solo l’energia: “La Russia è il paese più ricco al mondo per risorse naturali, essendo tra i maggiori esportatori mondiali di gas naturale, uranio, nichel, petrolio, carbone, alluminio, rame, grano, fertilizzanti e metalli preziosi come il palladio, più prezioso dell’oro e utilizzato nei convertitori catalitici”.
Così “i veri perdenti del conflitto Russia-NATO, purtroppo, sono i paesi più poveri, che stanno sopportando il peso maggiore delle ricadute economiche. Dal Perù allo Sri Lanka , l’aumento dei prezzi di carburante, cibo e fertilizzanti ha innescato violente proteste di piazza, che in alcuni Stati sono sfociate in disordini politici”. Inoltre, tali Paesi hanno visto incrementato di molto il loro debito pubblico.
Le sanzioni avrebbero dovuto devastare la Russia, ma non è andata così, continua la ricercatrice, perché, come tutti i conflitti, anche quelli economici hanno risvolti imprevedibili.
Il combinato disposto sanzioni – rifornimento di armi all’Ucraina avrebbe dovuto portare la Russia a impantanarsi, logorandola e finendo per farla collassare. “E se, invece di una Russia indebolita – si chiede la ricercatrice – un contraccolpo nazionalistico generasse una Russia neo-imperiale più militarmente assertiva?”
Infatti, è da considerare che se certo la guerra non va come sperava la Russia, non va neanche come sperava la Nato, dal momento che Mosca ora controlla gran parte del Donbass, cioè il territorio sul quale insiste “il 90 per cento delle risorse energetiche dell’Ucraina, compreso tutto il suo petrolio offshore e gran parte delle sue infrastrutture portuali critiche. I porti ucraini sul Mar d’Azov e quattro quinti della costa ucraina del Mar Nero sono ora della Russia, che in precedenza aveva preso il controllo dello stretto di Kerch che collega questi due mari”.
Se la Russia si trincera in quest’area, secondo la Chellaney, potrebbe “evitare di impantanarsi” nonostante il diluvio di armi inviate in Ucraina. Un diluvio, peraltro, che segnala come neanche l’America creda più nell’efficacia delle sanzioni, che peraltro storicamente non hanno mai conseguito gli scopi per le quali sono state emanate, non avendo mai ottenuto il cambiamento di linea politica degli Stati interessati.
Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione, conclude la ricercatrice: “le sanzioni, segnalando l’avvento di una nuova era di unilateralismo a guida statunitense, rischiano di indebolire e, alla fine, persino di far collassare l’architettura finanziaria globale controllata dall’Occidente che si vorrebbe difendere”.
Infatti, “le sanzioni estreme, alimentando preoccupazioni diffuse sull’armamento della finanza, con tutte le implicazioni che ciò comporta per i Paesi che oseranno oltrepassare le linee rosse stabilite degli Stati Uniti, hanno dato nuovi stimoli agli Stati non occidentali per esplorare nuovi accordi paralleli. La Cina non solo guiderà tale processo, ma è anche destinata a emergere come la vera vincitrice del conflitto NATO-Russia”.
La chiosa finale della ricercatrice è discutibile, ma di certo a Washington tale ipotesi è presa in seria considerazione. E però continuare a esercitare la massima pressione sulla Russia e, in parallelo, ripristinare l’assertività pregressa, o aumentarla, nei confronti della Cina, non è praticabile. Neanche l’America può reggere due fronti tanto impegnativi.
Così, mentre il confronto con la Russia resta aspro, con tutti i rischi del caso, il confronto globale Oriente – Occidente rimane fluido e imprevedibile. Vedremo.
La guerra in Ucraina fa impennare i prezzi: in due mesi rincari record per olio di girasole, pasta e pane. Redazione su Il Riformista il 30 Aprile 2022.
Le conseguenze di due mesi di conflitto in Ucraina si fanno sentire in maniera evidente sui prezzi al dettagli in Italia, colpendo in particolare alcuni beni come pasta, pane e olio di semi.
A sottolinearlo è un report di Assoutenti che, basandosi sugli ultimi dati forniti dal Mise, ha stilato una classifica delle città dove i listini al dettaglio di questi tre prodotti hanno subito incrementi più pesanti.
Maglia nera dei rincari spetta senza dubbio all’olio di semi di girasole, che in soli due mesi, tra gennaio e marzo 2022, fa registrare aumenti di prezzo superiori al 40% a Verona e Lodi, tra il 20% e il 25% a Mantova, Cremona, Sassari, Novara e Vercelli e tra il +10% e il 20% in ben 19 province italiane.
Un boom che riguarda anche il costo della pasta: a Messina in soli due mesi è aumentata del +13%, a Venezia del +11%, e in generale ben 12 città registrano per tale prodotto incrementi superiori addirittura al tasso annuo di inflazione.
Quanto al pane, a Cremona tra gennaio e marzo il prezzo al chilo aumenta del +12,2%, a Cosenza del +8,7%, e incrementi superiori al 6% si registrano a Terni, Belluno, Lecco, Lodi.
Assoutenti ricorda che tale ondata di aumenti è direttamente collegata alla guerra iniziata oltre 60 giorni fa in Ucraina con l’invasione da parte delle truppe russe: proprio i due Paesi protagonisti del conflitto rappresentano l’80% delle esportazioni mondiali di olio di semi di girasole, e il blocco delle importazioni si sta riflettendo sui prezzi ai consumatori attraverso rincari record in tutta Italia.
Per questo in soli due mesi sono stati registrati aumenti a due cifre per pasta +13% e pane +12%, “aumenti spropositati” per presidente di Assoutenti Furio Truzzi.
“A inizio conflitto avevamo denunciato il rischio di rincari proprio per quei prodotti realizzati con materie prime di cui Russia e Ucraina sono principali esportatori – spiega Truzzi – I numeri ufficiali ci danno oggi ragione: al di là dei record registrati da alcune province, gli aumenti dei prezzi di pane, pasta e olio di semi sono generalizzati e interessano tutte le città, e a fine anno avranno un impatto pesante sui bilanci delle famiglie, essendo beni primari di cui i cittadini non possono fare a meno. In tale contesto, il rischio di speculazioni sulla pelle dei consumatori è elevatissimo: per tale motivo invieremo il nostro report a Mr Prezzi, affinché indaghi sugli aumenti spropositati dei listini che in soli due mesi si sono abbattuti sulle famiglie”.
Articolo di “Le Monde” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” l'11 aprile 2022.
Il ricercatore americano Robert Bell sostiene in un articolo pubblicato su "Le Monde" che l'uso di energie rinnovabili sarebbe più rapido ed economico che trovare nuove fonti di gas per fare a meno del gas russo.
Come un film che racconta la doppia morale in tempo di guerra, la Russia continua a pagare all'Ucraina che sta straziando un "affitto" (apparentemente 2 miliardi di dollari nel 2020, o circa 1,84 miliardi di euro) per utilizzare i suoi gasdotti verso l'Unione europea (UE).
E i paesi dell'UE, che sanzionano economicamente la Russia e in alcuni casi forniscono armi all'Ucraina, continuano a pagare gli invasori russi per il loro gas - 155 miliardi di metri cubi (BCM) nel 2021, che è quasi la metà delle loro importazioni di gas.
Il dilemma morale che l'UE deve affrontare può essere risolto in diversi modi: Putin potrebbe tagliare i rifornimenti; un petroliere mediorientale o texano potrebbe assumere mercenari per far saltare gli oleodotti ucraini... e il prezzo del petrolio e del gas nel contempo; il governo ucraino potrebbe persino, in una mossa disperata, far saltare gli oleodotti stessi.
Gas liquefatto molto costoso
Ma nessuno dei piani annunciati finora sembra essere in grado di risolvere questo dilemma. Il 25 marzo, la Commissione europea e Washington hanno annunciato che potrebbero sostituire 20 MMC di gas russo (su 155) quest'anno con nuovi progetti eolici e solari. E che in otto anni (!) l'UE avrebbe messo fine alle importazioni di gas russo triplicando la sua capacità eolica e solare a 170 MMC. Rimarrà qualcosa dell'Ucraina per allora?
Il 24 marzo, Joe Biden ha promesso di consegnare circa 15 MMC di gas naturale liquefatto (LNG) all'UE quest'anno. L'UE sta anche cercando fonti alternative di LNG e appaltando gli impianti di rigassificazione galleggianti esistenti.
Ma la sostituzione del gas relativamente economico consegnato da un gasdotto con un gas liquefatto molto costoso consegnato da una nave metaniera richiede la costruzione di nuovi impianti di rigassificazione. L'impianto di Dunkerque ha richiesto sei anni di costruzione ed è costato un miliardo di euro. In altre parole, costruire di più non aiuterebbe a risolvere l'attuale crisi a breve termine.
Il piano dell'UE per l'indipendenza energetica annunciato l'8 marzo non menziona tuttavia una nuova centrale nucleare per affrontare questa crisi. E con una buona ragione: anche se il primo reattore europeo EPR in Finlandia ha appena prodotto i suoi primi 100 MW di elettricità nel marzo 2022, il progetto è stato lanciato tredici anni fa, nel 2005, ed è costato circa 11 miliardi di euro, invece dei 3,4 miliardi inizialmente previsti...
Da 26 a 50 dollari per MWh
La vera soluzione è quindi palesemente ovvia. I sistemi energetici più veloci ed economici da costruire in un'emergenza di guerra sono l'eolico e il solare terrestre. Questo è dimostrato con chiarezza cristallina dalle cifre pubblicate dalla banca d'investimento Lazard ("Levelized Cost of Energy, Levelized Cost of Storage, and Levelized Cost of Hydrogen", 28 ottobre 2021).
Non solo le turbine eoliche terrestri sono le più economiche, da 26 a 50 dollari per megawattora (MWh), ma, come il solare, sono molto veloci da costruire. Secondo Windeurope.org, la principale associazione commerciale europea che raggruppa i principali attori dell'energia eolica (Vestas, Orsted, Ziemens-Gamesa, Acciona, Equinor, EDF, Engie...), "un parco eolico di 10 MW può essere facilmente costruito in due mesi. Un parco eolico più grande da 50 MW può essere costruito in sei mesi.
Il solare richiede ancora meno tempo. Inoltre, l'UE ha molte delle più grandi e importanti aziende produttrici di turbine eoliche, parchi eolici e cavi elettrici.
L'energia solare su larga scala più comune ha un costo simile a quello dell'eolico onshore, secondo Lazard: una gamma da 30 a 41 dollari per MWh. In tempo di guerra, le migliori fonti di energia sono locali, senza bisogno di energia esterna. Come il sole e il vento.
Per ragioni di sicurezza nazionale
Tuttavia, come abbiamo visto, la Commissione europea è ancora alla ricerca di soluzioni di emergenza importate. Eppure Lazard ha dato una fascia bassa per il prezzo dell'elettricità alimentata a gas naturale nel 2021 da 45 a 74 dollari per MWh. Anche se generalmente più costoso del vento o del solare, il gas può compensare i tempi in cui non c'è vento o sole.
Ma Lazard ha basato la sua analisi su un prezzo del gas naturale di 3,45 dollari/milione di BTU (British Thermal Unit; 1 MMBtu = 0,293071 MWh), più o meno il prezzo negli Stati Uniti nel 2021. Ma il prezzo pagato dall'UE all'arrivo al porto in Germania nel novembre 2021, prima della guerra, era di 27,20 dollari/MMBtu, quasi otto volte più alto che negli Stati Uniti! Questa non può essere una strategia di emergenza in tempo di guerra...
La vera soluzione di emergenza per sostituire il gas naturale russo su scala europea è, per ragioni di sicurezza nazionale, costruire massicci impianti eolici e fotovoltaici onshore. E, finché non avremo coperto le lacune appropriate, dovremo utilizzare l'energia nucleare esistente, altri gas che possiamo trovare e, come ultima risorsa, il carbone.
I leader politici devono iniziare a comportarsi da leader e spiegarlo con fermezza: siamo in guerra, anche se non è dichiarata, e dobbiamo smettere di commerciare con il nemico. (Tradotto dall'inglese da Isabelle Plat)
Angela Merkel, il prof Bolaffi: "Quanti errori con i russi". Il giorno in cui si è piegata a Putin, le origini della guerra. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.
Quanto l'Europa di oggi, incapace di avere un ruolo al tavolo delle trattative con Putin e pressoché interamente dipendente dal gas russo, è figlia della Merkel? Lo chiediamo ad Angelo Bolaffi, illustre germanista e autore di pregiati saggi sul modello tedesco e la crisi europea.
Prof. Bolaffi, questa crisi dimostra che la Merkel ha lasciato un'Europa debole, nano politico più di prima?
«Non direi più debole, perché almeno ora l'Europa è unita contro Putin. Se pensiamo alle divisioni manifestate in altre crisi, dai migranti all'indebitamento di alcuni Paesi, l'Europa si era mostrata più fragile altre volte. Resta però il fatto che l'Ue non ha una politica estera e una difesa comuni. La Merkel aveva intravisto il problema, dicendo che gli europei debbono prendere coscienza del loro destino e non possono fare affidamento su altri. Ma non l'ha risolto. E ormai lei fa parte di un'epoca geopolitica finita, quella fondata sulla convinzione che l'Europa fosse destinata a vivere in pace».
Guardando indietro, quali sono i principali errori compiuti dalla Merkel nel rapporto con Putin?
«Per cominciare, la Merkel era convinta che, coltivando un legame basato sul commercio, si potesse tenere buono Putin e lasciare aperto un canale di comunicazione con lui. E lì ha sbagliato di grosso. L'idea che dove passano le merci non ci sono guerre è un'illusione. In secondo luogo, la Merkel era stata lungimirante nel definire Putin un bugiardo inaffidabile, ma non è stata in grado di passare ai fatti dopo l'invasione della Crimea nel 2014. Se l'Occidente e l'Europa merkeliana avessero reagito diversamente, forse Putin avrebbe capito che c'era una linea rossa da non superare. In quel caso invece c'è stata una reazione troppo blanda. Ci volevano sanzioni molto più pesanti, come quelle di adesso. Ma del senno di poi sono piene le fosse».
Quali aspetti hanno pesato allora in quella reazione morbida?
«Tre fattori. Il primo è l'aver assecondato la scelta di Obama di disinteressarsi dell'Europa e di volgere lo sguardo al Pacifico. Obama ha lasciato fare a Putin in Crimea, convinto che la Russia fosse ormai una potenza regionale. Dimenticava che è una potenza con le bombe atomiche. Inoltre c'è stata una sottovalutazione delle vere intenzioni di Putin. L'Occidente ha imposto un po' di sanzioni ma ha pensato ingenuamente: che vuoi che faccia Putin, dopo tutto la Crimea è russa... Il terzo aspetto è il senso di colpa tedesco. Per la Germania era un incubo ritrovarsi in guerra contro la Russia, a cui nella seconda guerra mondiale aveva provocato 20 milioni di morti. Più in generale la guerra non faceva più parte del lessico politico europeo: l'Europa è cresciuta con l'idea "mai più conflitti", e quindi la guerra era esclusa già a livello di principio».
Che colpe ha invece la Merkel nell'aver messo l'Europa alla mercé del gas russo?
«Dopo l'invasione della Crimea bisognava iniziare a porsi la domanda: come facciamo a meno del gas russo? Nel 2014 non era ancora progettato il Nord Stream 2, quindi la Germania ne poteva fare ancora a meno. La Merkel ha perciò grosse responsabilità nell'aver accresciuto la dipendenza dell'Europa dal gas russo. Lei ha pensato agli interessi del suo Paese. L'idea di non avere più il gas fornito da Putin significava, ai suoi occhi, limitare le possibilità dell'industria tedesca e comprimere il benessere della popolazione tedesca. Ma ci sono responsabilità diffuse in tutta Europa: mentre ci mettevamo alle dipendenze del gas russo, in Italia protestavamo contro il Tap, il gasdotto che ci procura gas dall'Azerbaijan, perché portarlo in Puglia avrebbe comportato la rimozione di qualche ulivo...».
La presenza di Merkel almeno riusciva un po' a tenere a bada Putin?
«La Merkel è stata brava a gestire le crisi interne all'Europa, meno quelle internazionali. Putin ha invaso la Crimea quando al potere in Europa c'era la Merkel, insomma gliel'ha fatta sotto il naso, come del resto a tutti gli altri leader occidentali».
Però, non a caso, Putin ha invaso l'Ucraina, quando l'Europa non aveva più alla guida la Cancelliera.
«Be', sicuramente l'uscita di scena della Merkel ha pesato su di lui in senso psicologico. Putin aveva un rapporto preferenziale con la Merkel. Loro due si sono parlati 27 volte, non c'è precedente nella diplomazia internazionale. Il venir meno della Merkel per Putin ha significato: l'Europa mi volge le spalle, non ho più nessuna figura di statura con cui parlare. Anzi, al potere in Germania sono arrivati i Verdi che non vogliono il gas ma la transizione ecologica. Putin ha avuto la sensazione che anche l'ultimo canale con l'Europa, quello del commercio, stesse per saltare».
Lei aveva definito Scholz un "Angelo Merkel", la continuazione in un altro partito della Cancelliera. Oggi non è più così?
«Scholz si era presentato come il prosecutore del merkelismo. Ma si è trovato di fronte all'inatteso, la guerra: E ha fatto una svolta che lo ha portato fuori dal modello merkeliano. Si pensi alla volontà di dare una risposta dura a Putin sul piano militare e di puntare sul riarmo della Germania. La storia fa gli uomini molto più di quanto gli uomini facciano la storia. Scholz si è trovato da un giorno all'altro leader per caso, come è successo a Zelensky».
Scholz tiene aperto il canale del dialogo con Putin, laddove Biden preferisce il muro contro muro. Chi ha ragione?
«Giocano al poliziotto buono e al poliziotto cattivo. La logica è: armiamo gli ucraini. Ma allo stesso tempo, per fare la pace, trattiamo col nemico».
La von der Leyen è stata esclusa da molti tavoli importanti tra i leader. Alla debolezza del ruolo somma una debolezza politica personale?
«Va riconosciuto che lei è stata la prima a parlare di Commissione geopolitica, capendo che in Europa non bastava più parlare di economia. Ciò detto, a livello militare l'Ue non può avere un ruolo perché non ha un ministro della Difesa, ma potrebbe fare di più a livello politico. Bisognerebbe perciò che la von der Leyen faccia un viaggio a Kiev, insieme al presidente del Consiglio europeo, e prometta l'entrata dell'Ucraina nell'Ue».
È pensabile un ruolo della Merkel come mediatrice nelle trattative tra Russia e Ucraina?
«È un gioco che facciamo solo in Italia, nessun giornale tedesco ne parla. Viceversa Schroeder è molto legato a Putin e parla con gli oligarchi, quelli che portano consenso allo Zar. Le sue azioni hanno un peso: se sono rose, fioriranno».
Zelensky, intervenendo al Bundestag, ha accusato la Germania di aver costruito un muro che separa l'Ucraina dall'Europa e di pensare solo all'economia. Ha ragione?
«Zelensky ha toccato il tasto giusto per far sentire in colpa i tedeschi. Ha ragione perché è stato un errore enorme consentire la costruzione del Nord Stream 2. E la standing ovation che il Parlamento tedesco gli ha riservato dimostra la consapevolezza degli errori fatti: quanto più c'è cattiva coscienza, tanto più si applaude. Il suo discorso contribuirà a indurre la Germania a ripensare il ruolo dell'Europa nel mondo che verrà. Un mondo che prevede l'uso della forza e della guerra».
Da questa crisi verrà fuori una Germania ridimensionata?
«No, verrà fuori la terza Germania del secondo Dopoguerra. C'è stata la prima Germania, quella di Adenauer, renana-atlantista. Poi la seconda, della Repubblica di Berlino, riunificata alla fine della guerra fredda. La terza Germania dovrà prendere coscienza di un'Europa che arriva ai confini con la Russia e affrontare di nuovo il tema della guerra e dell'equilibrio geopolitico. Ma non illudiamoci: la Germania non cambia da un giorno all'altro, è come un transatlantico, possente ma lenta negli spostamenti: prima di invertire la rotta ci mette molto, non è una barchetta».
Retroscena. Stagflazione, il ritorno agli anni Settanta: gli errori da non ripetere. Ferruccio de Bortoli su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2022.
Si è detto: nulla sarà come prima. Ma forse ci apprestiamo a rivivere un decennio, quello degli anni Settanta, nel quale ben due crisi petrolifere sconvolsero le economie occidentali e ne mutarono le fondamenta. L’inflazione che ne scaturì venne combattuta con politiche monetarie poco coordinate ma sempre più restrittive. Il ritmo di crescita dell’economia, che nel Dopoguerra sembrava inarrestabile, si affievolì in un contesto di disoccupazione crescente. Nel frattempo, il sistema monetario di Bretton Woods era andato in pezzi con la fine della convertibilità del dollaro in oro (agosto 1971). Comparve allora il termine «stagflazione», cioè l’insieme di stagnazione e inflazione.
L’Italia fu, come oggi, tra i Paesi più colpiti dai rincari delle materie prime energetiche. La spirale, tra crescita dei prezzi e aumento dei salari, provocò una perdita di competitività dei nostri prodotti. Le svalutazioni della lira ne attenuarono le conseguenze sulla bilancia commerciale ma con vantaggi via via decrescenti. Il debito pubblico intanto (come ora) cresceva indisturbato. In quegli anni non vi era alcuna sensibilità sul tema della decarbonizzazione. Solo la necessità di avere energia a costi sostenibili. Non importava come. Sono state criticate, anche sul Corriere, le celebri domeniche a piedi dell’austerità. Inutili perché i risparmi erano irrisori ma decisive nel far crescere una maggiore sensibilità per l’efficienza energetica. E quest’ultima, grazie a forti investimenti nelle tecnologie, crebbe a ritmi esponenziali. Le virtù del risparmio, anche individuale, non vanno disprezzate a maggior ragione oggi. Sono briciole, certo. Ma ogni grande cammino comincia con un piccolo passo.
Se vi è una derivata non negativa della guerra in Ucraina — e ci scusiamo per il cinismo dell’analisi — questa è nella maggiore consapevolezza che minori consumi e più attenzione alle rinnovabili siano scelte non rinviabili né disgiunte. Una cultura parsimoniosa della transizione può essere, facendo leva sull’esperienza degli anni Settanta, la chiave di volta del nuovo paradigma dell’economia. Ma una cosa deve essere chiara fin da ora. Come opportunamente sostiene Filippo Andreatta, non si può avere nello stesso tempo l’indipendenza energetica, prezzi bassi dei combustibili e transizione alle rinnovabili. Bisogna scegliere. Tutto qui.
Quale sarà l’effetto di tutto quello che sta accadendo sulla crescita? «Può essere paradossale dirlo mentre è in corso un conflitto — è l’opinione di Lorenzo Forni, segretario generale di Associazione Prometeia e docente all’università di Padova — ma dipende soprattutto da noi, dalla nostra capacità di reagire a choc improvvisi e dalla nostra lungimiranza. Senza tante illusioni. I costi della transizione energetica sono stati largamente sottovalutati. Meglio accorgersene per tempo. Nell’ipotesi che le ostilità cessino in tempi relativamente brevi, le tensioni prospettate per marzo e aprile potrebbero essere assorbite gradualmente nei mesi centrali dell’anno. In ogni caso l’indice Prometeia-Appia, che calcola il costo delle materie prime per le imprese manifatturiere italiane, è in rialzo nel 2022 del 27 per cento. E questo si somma all’incremento del 70 per cento già maturato nel 2021. Un raddoppio secco. Nelle nostre stime, appena riviste, l’inflazione quest’anno supererà il 5 per cento, riducendo il reddito disponibile e la crescita a poco sopra il 2 per cento, una forma leggera di stagflazione, per ora».
Sfera di cristallo
Non smentendo (purtroppo) la sua fama, il ritorno della stagflazione era stato previsto da Nouriel Roubini ( Stagflation is coming? 30 giugno 2021). Si fa sempre in tempo a contraddirlo, specie se il conflitto in Ucraina avesse una fine prossima con un’intesa però solida e non vaga come in passato. Noi tifiamo per dare un dispiacere al milanese (di formazione) Roubini. «Quello che possiamo dire — spiega Brunello Rosa, chief executive officer di Rosa & Roubini Associates, oltre che docente alla London School of Economics e alla Bocconi — è che ci siamo trovati nel giro di pochi anni di fronte a due crisi, la pandemia e la guerra, che sono choc (dal lato dell’offerta) difficili da prevedere. Ormai i cigni neri stanno diventando la norma. La politica monetaria, meno libera che in passato — e obbligata di fatto a monetizzare il debito degli Stati più in difficoltà — è oggi stretta da un conflitto d’interesse. Da una parte la necessità di frenare l’inflazione; dall’altra quella di non svalutare gli asset che ha in bilancio, i tanti titoli acquistati sul mercato. Una sorta di trappola del debito che spunta le loro armi. Noi stimiamo che l’impatto che tutto ciò avrà sulla crescita europea sia superiore al punto e mezzo percentuale. Guarderei con attenzione l’andamento dei tassi a lungo termine che rimangono bassi, cioè nella previsione che la fiammata sui prezzi rientri presto, ma non per l’Italia che ha ormai il Btp decennale al 2 per cento, in quanto gli operatori già scontano la fine degli acquisti netti di titoli da parte della Bce».
L’economista Fedele de Novellis, che guida il centro ricerche Ref, trova il parallelo con gli anni Settanta eccessivo e crede ancora in un veloce sgonfiarsi della pressione inflazionistica. «La Banca centrale europea stima un aumento medio dei prezzi nell’Eurozona quest’anno del 5 per cento per poi scendere, nel 2023, al 2 per cento. Ma se guardiamo al dato dell’inflazione core, cioè depurata dalla componente energetica, quest’anno siamo al 2,6 e l’anno prossimo sotto il 2. Un rialzo dei tassi è proprio necessario? Forse è comprensibile per gli Stati Uniti, vicini alla piena occupazione, dunque con maggiori rischi sui prezzi, ma non per l’Europa che ha comunque una disoccupazione elevata. Lo choc di questi giorni è simile a quello degli anni Settanta ma di proporzioni minori. Per ora siamo alla metà circa e abbiamo buoni motivi per sperare che receda in fretta. Le alternative nelle forniture russe di petrolio e gas non mancano, penso solo al Venezuela e all’Iran. Mezzo secolo fa il monopolio dell’Opec era molto più forte».
Anche Pierluigi Ciocca, ex vicedirettore generale di Banca d’Italia e autore per Einaudi di Ricchi e Poveri, storia della disuguaglianza, rigetta il parallelo storico. Ciocca ha una certa nostalgia per la saggezza delle banche centrali dell’epoca e un discreto disagio nel notare la scelleratezza dell’enorme spesa americana, non contrastata da una Fed troppo dipendente dal potere politico. A suo giudizio è in atto un’alterazione dei corsi dei mercati. Troppe bolle gonfiate dalla speculazione e incoraggiate dalla guerra.
La debolezza anche strategica degli Stati Uniti si nota dal livello del proprio debito e soprattutto da chi lo possiede (la Cina in particolare). Non di sole armi è fatto il potere geopolitico. Se da una parte avremo comunque una politica monetaria più rigida, dall’altra la politica fiscale ovvero di bilancio — esattamente come negli anni Settanta e in particolare allora in Italia — sarà costretta a tenere conto delle emergenze sociali già ampliate dalla pandemia. Rimarrà espansiva. Ma come? E, nel caso italiano, con quanto margine consentito dagli accordi europei?
L’Istat calcolerà nei prossimi giorni, dividendolo per categorie di reddito, quale sarà l’effetto degli stratosferici, anche se speriamo temporanei, aumenti di gas e luce. L’inflazione core sarà anche bassa e, in prospettiva, sopportabile dal sistema economico, ma non per le famiglie più povere per le quali il costo dell’energia pesa percentualmente di più. Le disuguaglianze saranno più gravi. E nello stesso tempo l’esplosione dei prezzi dell’energia mette in luce alcune rendite di posizione inaccettabili. Ref ha calcolato che nel quarto trimestre dello scorso anno — siamo ancora nell’anteguerra — la filiera dell’energia ha aumentato i margini di 2 miliardi mentre la manifattura e i servizi registravano un arretramento di 2 miliardi ciascuno. Riportati su base annua sono cifre colossali che tradiscono un incremento del mark up, ovvero una rendita da posizioni monopolistiche o scarsamente concorrenziali, che oltre ad essere dannosa è moralmente inaccettabile.
Si avrà il coraggio di affrontare tali storture? E soprattutto si eviterà di cedere al moltiplicarsi — esattamente come avvenne negli anni Settanta con la scala mobile — di formule di indicizzazioni con il rischio di mandare fuori mercato aziende già appesantite dalla crescita dei costi di produzione? I salari reali vanno difesi in altro modo, facendo crescere produttività e valore aggiunto. La rigidità di quel periodo ci costò cara nell’illusione di difendere lo status quo, distruggendo nel contempo competitività e dunque occupazione e redditi futuri.
Da Fanfani all’«austerity». Il marzo del ‘74 all’insegna delle biciclette. Le dichiarazioni ottimistiche, rilasciate dal sen. della Democrazia Cristiana Amintore Fanfani stridono duramente con la realtà concreta che emerge dalle pagine del giornale. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Marzo 2022.
Su La Gazzetta del Mezzogiorno del 20 marzo 1974: in prima pagina le dichiarazioni ottimistiche, rilasciate dal sen. della Democrazia Cristiana Amintore Fanfani, a proposito di un possibile terzo boom economico dopo un periodo di profonde difficoltà economiche, stridono duramente con la realtà concreta che emerge dalle pagine interne.
Austerity, infatti, è una parola che gli italiani hanno imparato a pronunciare già da alcuni mesi: il 2 dicembre 1973 è stata la prima domenica di applicazione dei provvedimenti presi dal Governo per far fronte ad una eccezionale emergenza energetica. Il 6 ottobre 1973, giorno della festività ebraica del Kippur, Egitto e Siria hanno sferrato un attacco coordinato contro Israele, dando inizio alla quarta guerra arabo-israeliana. L’offensiva ha determinato l’embargo delle forniture di petrolio da parte dei paesi arabi verso gli stati filo-israeliani. In Italia e in altri paesi occidentali si avverte presto l’onda d'urto di questa complessa situazione geopolitica: vengono imposte pesanti misure e restrizioni, che incidono sulla vita quotidiana, per contenere i consumi energetici. Seppure per un periodo limitato, aumento dei costi del carburante, divieto di circolazione di mezzi nei giorni festivi, modifiche dei limiti di velocità, riduzione dell’illuminazione pubblica e chiusure anticipate delle attività commerciali sono novità con cui gli italiani sono costretti a confrontarsi.
«Scoprire l’Italia per un turismo meno spendaccione»
Il titolo della Gazzetta non lascia dubbi: come l’inverno appena trascorso, all’insegna dell’austerità dovranno essere anche le vacanze estive, per le quali è più opportuno prevedere di restare nel Paese: viaggi in treno e spostamenti su mezzi pubblici eviteranno «esportazione di denaro e importazione di benzina». D’altra parte, si legge sul quotidiano in quegli anni diretto da Oronzo Valentini, l’incremento della produzione di biciclette dall’anno precedente è stato del 30-40%.
«L’ultimo giorno austero per tutti»
Il 19 marzo 1974 è stata, in effetti, l’ultima giornata festiva di divieti assoluti: entreranno poi in vigore le «targhe alterne», che consentiranno una lenta ripresa della normalità. La città di Foggia ha vissuto, nel giorno di San Giuseppe, un anticipo di primavera e l’austerità è stata allietata dal bel tempo: «Plotoni di ciclisti, schiere di pattinatori, cavalieri al passo, calessini al trotto tirati da pony, tricicli, automobiline a pedali e tanti, tanti, pedoni». E quello che non si è speso in benzina, conclude il cronista, si è speso in zeppole...
Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.
C’è una nave che fotografa la crisi agroalimentare che da fine febbraio sta vivendo mezza Europa, Italia compresa. Una nave che il 27 febbraio scorso avrebbe dovuto caricare nel porto d’Azov 30 mila quintali di grano tenero e che non è mai partita. A bordo c’era il carico acquistato dal pastificio Divella. Altre 90, di cui almeno una quindicina con destinazione finale Italia, sono ferme allo stretto di Kerch, che collega il Mar Nero al Mar d’Azov, la distesa di acqua che ora separa (in tempo di guerra) separa la Russia dall’Ucraina. Senza quelle navi il mercato internazionale dei prodotti alimentari ha già cambiato volto.
Il grano tenero
Se l’Ucraina è il granaio d’Europa, la Russia lo è del mondo. Per l’Italia le principali importazioni legate al mondo agroalimentare provenienti dai due Paesi sono grano tenero, mais, semi oleosi e fertilizzanti. Partiamo dal grano tenero (quello che serve per il pane e la pasticceria): da gennaio del 2021 fino al 23 febbraio 2022, ovvero il giorno precedente all’invasione dell’Ucraina, l’Italia ne ha importato 142 mila tonnellate dall’Ucraina e 116 mila dalla Russia. Secondo l’ufficio studi di Confagricoltura rappresentano circa il 5% del totale delle importazioni italiane di grano tenero. Le quantità che mancano fanno salire i prezzi.
Il riferimento in Italia per le contrattazioni dei prodotti agricoli è la Borsa Merci di Bologna: alla rilevazione dello scorso 18 marzo le quotazioni del grano tenero sono cresciute del 33% in un mese, sfondando per la prima volta nella storia in Italia quota 40 euro a quintale. L’esempio pratico di come il mercato specula su una merce che scarseggia lo fornisce proprio Vincenzo Divella, amministratore dell’omonimo gruppo alimentare che attende la nave non ancora partita: «Abbiamo rimpiazzato quel carico acquistando lo stesso quantitativo a Napoli e Manfredonia: si tratta di grano arrivato da Canada, Russia e Kazakistan prima della crisi. Ma comunque lo abbiamo pagato il 35% in più di quello che aspettavamo dal Mar d’Azov, e di conseguenza abbiamo dovuto aumentare il prezzo della farina per pasticceria di circa il 15%, ma fra 20 giorni dovremo aumentare ancora. Noi abbiamo sempre preferito rifornirci da Russia e Ucraina per via delle annose questioni sul glifosate canadese».
Il mais
Il secondo pilastro che sta venendo meno con il blocco dei mercati russo e ucraino è quello del mais, che rischia di non essere nemmeno seminato nel mese di aprile, e quindi la sua mancanza potrebbe prolungarsi a tutto il 2023. L’Ucraina è per l’Italia il secondo fornitore di mais (dopo l’Ungheria): nell’ultimo anno l’Italia ha importato 1,1 milioni di tonnellate dall’Ucraina (105 mila dalla Russia). Sul totale delle importazioni pesa per il 15%, e il rialzo dei prezzi è già stato del 41% in un mese. Il mais è fondamentale per la produzione di mangimi per gli animali. La conseguenza è l’incremento del costo della carne: secondo la Cia-Agricoltori Italiani, un chilogrammo di manzo al banco è passato dai 12 a quasi 15 euro, la lombata si aggira sui 25 euro, mentre una bistecca potrebbe arrivare costare a breve il 20% in più.
I fertilizzanti
Il terzo mercato andato in tilt è quello dei fertilizzanti. Forse quello su cui fa più affidamento Putin visto che lo ha citato come leva principale dell’inflazione alimentare globale. La Russia – stando ai dati di Confagricoltura - produce il 15% dell’intera produzione mondiale di fertilizzanti. E le vendite all’estero di nitrato di ammonio sono già state bloccate fino ad aprile, proprio nella fase fondamentale delle coltivazioni. Sempre nell’ultimo anno l’Italia ne ha importato dall’Ucraina per 47 milioni di euro (il 6% sul totale) con un aumento del 600% rispetto al 2020, e dalla Russia per 61 milioni di euro(7% sul totale) con una diminuzione dell’11%.
I nuovi mercati e i nuovi rischi
Il premier Mario Draghi al recente vertice europeo di Versailles, ha dichiarato che bisognerà rivolgersi ad altri mercati: dagli Stati Uniti all’Argentina fino al Canada. Problema n.1): gli alti costi della logistica e tempi lunghi del trasporto navale atlantico per prodotti che ci servono a breve. Problema n.2): il grano trattato con glifosato, un potente erbicida classificato dallo IARC come «probabile cancerogeno», dalla Ue autorizzato con molte prescrizioni fino alla fine del 2022, e in Italia consentito solo in fase di pre-semina, in Canada lo usano anche in pre raccolta del grano come disseccante. Dall’ultimo rapporto Efsa: i prodotti agroalimentari extracomunitari venduti in Europa presentano residui chimici irregolari pari al 5,6% rispetto alla media Ue dell’1,3% e quella italiana di appena lo 0,9%. Per quel che riguarda il mais, gran parte della produzione Usa è Ogm. In Italia il mais ogm non è vietato per la mangimistica, ma molti consorzi ne proibiscono comunque l’uso. Ostacoli che il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli vorrebbe rimuovere.
Vuol dire rinunciare a formaggi e carni Dop, perché hanno nel disciplinare l’obbligo di rifornirsi da animali allevati con mangimi non Ogm
Quanto ai fertilizzanti, una soluzione, almeno parziale, la Coldiretti l’avrebbe trovata negli scarti della produzione di biometano, il «digestato». In pratica si tratta di letame e liquami trattati con batteri anaerobici, e che contengono azoto, fosforo e potassio, quindi ideali per concimare i terreni. Però la direttiva sui nitrati ne prevede un uso limitato perché c’è il rischio atrofizzazione delle acque, e per incrementarne l’utilizzo serve l’autorizzazione del Mite. Un problema secondo Coldiretti risolvibile frazionando la concimazione durante la fase di coltivazione, come si fa con i prodotti chimici.
Il cambio di produzioni
Tutte le organizzazioni agroalimentari hanno chiesto al governo di aumentare la produzione di grano tenero, mais e semi oleosi rimuovendo i limiti alla coltivazione dei terreni italiani – derivanti dalla Pac (Politica agricola comune) – vale a dire circa un milione di ettari destinati a produzioni non essenziali o alla non produzione. Ma l’ultima parola spetta a Bruxelles. Il rischio – in queste settimane cruciali per la programmazione della coltura del pomodoro da industria – è che molti produttori decidano di puntare su mais, girasole o soia. Visti i prezzi, saranno più convenienti dei pomodori, dove il costo di produzione è aumentato di oltre 1.200 euro all’ettaro a causa dell’impennata dei prezzi dei concimi, dell’energia, della logistica e dei materiali da imballo, oltre alla siccità in corso su tutto il centro-nord. Chi ne trae vantaggio è la Cina, ormai diventata il primo fornitore italiano di concentrato di pomodoro: 60 mila tonnellate solo nei primi 6 mesi del 2021. Ma ne risentiranno anche altre grandi colture che sono patrimonio dell’agroalimentare italiano come piselli, fagioli e ceci, perché è più conveniente coltivare mais.
La pasta
Almeno sulla pasta i rischi stanno a zero. Si fa con il grano duro e dall’Ucraina non ne importiamo, dalla Russia solo il 2,5%. La percentuale prodotta in Italia di grano duro è del 60%, e questo fa del nostro Paese un esportatore di pasta, per cui anche in caso di necessità basterà esportarne di meno. Costerà un po’ di più per via dei rincari dell’energia elettrica, e del gas. Secondo Divella è atteso entro marzo un aumento di 12 centesimi al chilo. Considerando che il consumo attuale di pasta pro capite in Italia è di 23 chilogrammi all’anno, ovvero circa 2 kg al mese, tradotti in euro per una famiglia di 4 persone fanno poco più di 1 euro al mese.
Il cambio dei consumi
Ma non si vive di sola pasta. Con l’aumento dei costi di energia e carburanti sta aumentando tutto: il recente blocco dei pescherecci per il caro carburante ha fatto incrementare il prezzo del 30% all’ingrosso e del 50% nelle pescherie. Analizzando le rilevazioni della Borsa Merci di Bologna sulle contrattazioni fisiche dei prodotti agricoli, si scopre che a fronte di un rialzo del grano tenero del 33%, e del mais del 41,1% , il grano duro è rimasto pressoché invariato (2,2%), ma si è mosso poco anche il riso Arborio: è cresciuto solo del 4,7%. L’Italia, tra l’altro, per il riso bianco è un Paese totalmente autosufficiente.
Dai dati dell’Ente Risi ne produciamo ogni anno circa un milione di tonnellate, e ne esportiamo più della metà, fra il 55-60%. Importiamo solo da India e Pakistan alcune qualità particolari come il basmati. Come dire…se alla fine scarseggiano i crackers o grissini, possiamo sempre mangiare gallette di riso.
"Non siamo autosufficienti per il grano. Colpa di scelte politiche sbagliate". Alessio Mannino il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il presidente di Confagricoltura: "Polarizzare gli approvvigionamenti solo in alcune zone è un errore. Importare dagli Usa è complicato".
«La guerra sta facendo venire al pettine tutti i nodi irrisolti. Ma mi auguro che induca l'Europa e l'Italia a compiere le scelte necessarie, anche quelle scomode». Massimiliano Giansanti, presidente nazionale di Confagricoltura, non usa mezzi termini per fotografare la situazione attuale e per esprimere la preoccupazione per le drammatiche conseguenze che il conflitto fra Russia e Ucraina ha generato sul mercato agricolo. «Oggi verrà presentato il piano d'azione della Commissione Europea, che include il recupero di terreni che non avrebbero dovuto essere seminati. Il rincaro dei prezzi di materie prime ed energia verrà fronteggiato da un pacchetto di misure anticipato dal Commissario europeo all'Agricoltura Janusz Wojciechowski, fra cui l'impiego della riserva da 500 milioni della Pac (Politica Agricola Comune, ndr) e un finanziamento extra d'emergenza da 1 miliardo. Ma ci sono altre misure che servono urgentemente», puntualizza Giansanti.
Cosa si deve fare?
«In Europa si è capito che sono stati fatti errori nella Pac che hanno causato quei problemi all'autosufficienza alimentare che subiamo oggi».
A cosa si riferisce in particolare?
«A scelte sbagliate sul piano politico, che hanno polarizzato l'approvvigionamento in zone del mondo mentre ora ci troviamo a dover rifornirci da altre».
Entrando più nel dettaglio?
«Per esempio, dagli Stati Uniti. Per importare dagli Usa adesso serve un accordo commerciale dell'Ue, per cui i consumatori ora potrebbero dover aspettare i tempi della burocrazia».
Il costo del pane è schizzato alle stelle, le imprese di pasta lamentano di non trovare il grano di cui hanno bisogno. Sono questi alcuni degli effetti diretti della guerra?
«No, sul grano duro (di cui Ucraina e Russia non sono grandi produttori), che è quello che serve per la pasta, si risente di due anni di siccità perdurante, e la riduzione degli stock internazionali era già in atto da tempo. È sul grano tenero per il pane e biscotti, nonché per il mais e i semi oleosi, che invece siamo molto esposti con l'Ucraina. Con il paradosso che, dopo aver sostituito l'olio di palma con l'olio di semi di girasole, dovremmo tornare a usarlo».
La speculazione finanziaria ha avuto e ha tuttora un suo peso nelle carenze di queste settimane?
«Sì, gli speculatori, per esempio in Borse come quella di Chicago, influenzano il costo delle materie prime. Si tratta sia di grandi fondi di investimento che di raider più piccoli, c'è un po' di tutto».
Quali sono le richieste che rivolgete all'Unione Europea e al nostro governo?
«Noi chiediamo che si dia quanto prima il via libera all'utilizzo delle nuove biotecnologie».
Parla degli Ogm? C'è una contrarietà politica trasversale sul tema.
«No, non sono la stessa cosa. Gli Ogm sono superati. Le biotecnologie utilizzabili sono del tutto nuove, e in Italia su questo fronte saremmo avvantaggiati perché siamo leader nella ricerca».
Il governo Draghi dovrebbe spingere di più?
«Certo che dobbiamo spingere, primo perché siamo già detentori dei brevetti, e secondo, perché si tratta di tecnologie che garantiscono la sostenibilità, in base ai risultati della scienza».
In Europa ha trovato compattezza o ci sono resistenze sulle biotecnologie?
«Ci sono Ong europee che ancora non capiscono che il mondo cresce, e se cresce la popolazione deve crescere anche la produzione. Ma siamo ancora in tempo: il Pac non è ancora stato votato da tutti gli Stati».
Orti di guerra. Report Rai PUNTATA DEL 06/06/2022 di Rosamaria Aquino Collaborazione Marzia Amico
Siamo il Paese della pasta, della pizza, dei formaggi e della carne DOP.
Il nostro made in Italy vanta imitazioni in tutto il mondo, ma la guerra in Ucraina, tra i più importanti produttori di cereali al mondo, ha messo in evidenza quanto dipendiamo dall’estero per le materie prime: non ne abbiamo abbastanza per produrre le nostre eccellenze. Quali politiche, negli anni, ci hanno resi così fragili? Perché è diventato più conveniente tenere i campi incolti? E chi sta speculando sui prezzi schizzati alle stelle? Report compie un viaggio nella filiera agroalimentare tra chi coltiva, commercia e vende il grano sulle piazze internazionali per capire quanto la politica sia in grado di disciplinare il mercato e quanto l’equilibrio tra grandi multinazionali, allevatori e produttori, incida poi sul reddito di chi produce materie prime e di chi fa la spesa.
Orti di guerra Di Rosamaria Aquino Collaborazione Marzia Amico Immagini Giovanni De Faveri – Carlos Dias – Paolo Palermo Grafica Giorgio Vallati Montaggio Riccardo Zoffoli
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La pizza, un simbolo del made in Italy che ci rende famosi in tutto il mondo. Qui, a Campo de’ fiori, si fa alla romana, ma la materia prima, il grano per produrre la farina, può venire anche da molto, molto lontano.
FABRIZIO ROSCIOLI - FORNO CAMPO DE’ FIORI Praticamente il conflitto russo ha fatto sì che ci sia stata un’escalation di costi tali che la farina è arrivata a circa 75 euro a quintale nel termine di venti giorni, un mese. Arriva ‘na mail al mattino con la quale ti dicono che da domani il prezzo è quello, ma non si discute.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Da quando è in atto il conflitto, i prezzi della farina sono quasi raddoppiati. Ma non è solo colpa della guerra.
FABRIZIO ROSCIOLI - FORNO CAMPO DE’ FIORI Il raccolto del grano è già stato fatto, pertanto questo è il grano dello scorso anno: questo grano già c’era. ROSAMARIA AQUINO E se già c’era come è possibile che aumenti il prezzo?
FABRIZIO ROSCIOLI - FORNO CAMPO DE’ FIORI È perché qualcuno sta speculando. Ora dobbiamo capire chi lo sta stipando, se i mulini italiani o le grandi multinazionali che magari, che ne so, sta arrivando la nave col grano, il grano sta salendo, facciamo rallentare la nave così, nel frattempo, il grano sale.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La sa lunga il signor Roscioli. Insomma, è vero, i prezzi, l’aumento dei prezzi dei cereali non è dovuto solo al conflitto Russia e Ucraina. Ora, l’Ucraina è sicuramente il granaio d’Europa, e con Russia e Kazakistan detengono il 30% degli scambi commerciali mondiali per quello che riguarda i cereali. Secondo il presidente Zelensky, 22 milioni di tonnellate, cioè la metà del grano esportabile, giace nei silos, nelle navi ferme al porto di Odessa: rischia di marcire se non verrà liberato entro una ventina di giorni. La Russia invece ha stoppato le navi nel Mar Nero e nel Mare d'Azov. Ora se questa situazione dovesse continuare che cosa potrebbe accadere? Che nei paesi in via di sviluppo potrebbero scoppiare la fame, le guerre, aumentare il fenomeno dell’emigrazione. Però è vero che i prezzi dei cereali, delle materie prime erano aumentati già nel 2020, l’87% in più. Noi abbiamo un po’ sbagliato la visione, potremmo anche renderci in maniera più autonoma per quello che riguarda la produzione di cereali ma abbiamo seguito l’Europa, abbiamo seguito la logica dei finanziamenti a pioggia e abbiamo fatto passare l’idea che, quasi quasi, rende di più un campo se non lo coltivi. Insomma, abbiamo perso di vista un fatto importante: che l’80% di quello che mangiamo deriva dalla lavorazione dei cereali, mais, soia e grano. Non solo le farine per pane, pasta e pizza, ma anche quelle farine destinate ai mangimi per gli animali che ci danno carne, uova, latte e poi anche per l’alimentazione del pesce. Abbiamo perso di vista, cioè, il fatto che se non hai il controllo della filiera dei cereali, rischi la fame veramente. La nostra Rosamaria Aquino.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La Omsky 107 è una nave russa che trasposta grano kazako. Siamo a marzo ed è una delle ultime navi partita da Rostov sul Don prima del blocco, ha attraversato il Mar Nero e, dopo un viaggio di 11 giorni, ha raggiunto la costa pugliese. Ma arrivata a destinazione, è rimasta ferma in rada per oltre trenta ore, bloccata a causa di un problema nei pagamenti in rubli.
MARZIA AMICO Quante tonnellate di grano duro trasportava questa nave?
MARCO CUTAIA – DIRETTORE AGENZIA DOGANE E MONOPOLI – PUGLIA MOLISE BASILICATA Circa 3000 tonnellate. L’Ucraina aveva un ruolo molto importante. In questo momento i flussi dall’Ucraina si sono fermati e progressivamente si sta provvedendo a cercare altri canali. Il Kazakistan assorbe tra il 50 e il 100 per cento delle importazioni a seconda della tipologia di merce.
MARZIA AMICO Questo rallentamento in qualche modo può essere legato anche alle sanzioni che sono state imposte alla Russia?
MARCO CUTAIA – DIRETTORE AGENZIA DOGANE E MONOPOLI – PUGLIA MOLISE BASILICATA Il rallentamento durante il tragitto può dipendere da tante condizioni.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Sdoganato e caricato, il grano kazako lascia il porto per raggiungere i mulini per la trasformazione in semola, si dirigerà poi verso forni e pastifici. Una buona parte del carico sbarcato a Barletta si dirige verso i mulini di Altamura.
MARZIA AMICO Abbiamo seguito un camion che poi è entrato qui con un carico, insomma, di grano arrivato dal Kazakistan… Quindi volevamo, insomma, approfondire la vicenda
SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA E non le posso dare informazioni.
MARZIA AMICO Mi faccia capire: qui voi producete la semola che poi viene distribuita altrove
SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA Non posso dare informazioni, mi hanno chiesto di non dare informazioni.
MARZIA AMICO Ah, quindi qualcuno con cui parlare c’è.
SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA No, è un mio collega di sopra, non la proprietà
MARZIA AMICO Perché mi sembra di capire che qui fate il grano che poi fa il pane d’Altamura ma è arrivato un carico grano kazako…
SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA Non posso dire niente, anche perché non sono la persona indicata e le darei informazioni non corrette.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questo mulino lavora e vende farine di grano tenero e duro, vanno ai forni che poi fanno il famoso pane di Altamura, ma anche ai più grandi pastai d’Italia. Ma quanta di questa è prodotta con grani provenienti dall’estero? Scorrendo le etichette delle paste italiane, ci rendiamo conto che molte di queste sono miscelate con farine Ue ed extra Ue, alcune provenienti persino dall’Australia. Le navi cariche di grano sono ferme da mesi nel mar d’Azov e nel mar Nero. Le rotte sono cariche di mine e si pensa a corridoi umanitari per scortarle fuori dall’area di influenza russa. 25 milioni di tonnellate sono ferme nei granai, secondo la Fao. Se questo grano non sarà esportato, c’è il rischio di sicurezza alimentare, ossia fame per milioni di persone, guerra e immigrazione.
MAURIZIO MARTINA - VICEDIRETTORE GENERALE AGGIUNTO FAO Noi abbiamo 50 paesi in via di sviluppo che storicamente ricevevano più del 30% del loro grano da questi due grandi paesi agricoli, che non a caso stanno creando dei problemi significativi di sicurezza alimentare.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura dal 2014 al 2018, è oggi ai vertici della Fao. Per i paesi in via di sviluppo il rischio è quello della fame cronica per 13 milioni di persone in più. Per gli altri, invece, si pone il problema dei prezzi, aumentati del 33% rispetto all’anno scorso e schizzati del 13% in un solo mese, quello del conflitto. ROSAMARIA AQUINO Dovremmo trovare dei fornitori alternativi come abbiamo fatto col gas? MAURIZIO MARTINA - VICEDIRETTORE GENERALE AGGIUNTO FAO Dipendere solo da pochi paesi non è mai una cosa buona. Più noi riusciamo a produrre alcuni beni agricoli di primaria importanza per le nostre filiere, meglio è.
GIACINTO BENINATI - PRODUTTORE GRANO DURO Questo è un grano qualitativamente molto buono: pesa più di 80, di peso specifico fa 82, e ha 14 e mezzo di proteine. A differenza di tanti che dicono che il grano italiano, il grano non è qualitativamente buono come il canadese è una cosa che…
ROSAMARIA AQUINO Non è vero.
GIACINTO BENINATI – PRODUTTORE GRANO DURO Non…
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Giacinto Beninati è un produttore di grano: ha 500 ettari di terreno, una distesa che si estende a perdita d’occhio nelle Crete senesi. Prima faceva monocoltura di grano duro, come tanti siciliani che qui si sono trasferiti per produrlo. Oggi, però, ha ridotto a 150 ettari.
GIACINTO BENINATI - PRODUTTORE GRANO DURO Qui ci sono migliaia d’ettari che non sono più a grano ma questo era il granaio della provincia di Siena.
ROSAMARIA AQUINO Ma non è che noi non riusciamo a produrne quanto invece l’industria richiede?
GIACINTO BENINATI - PRODUTTORE GRANO DURO Questo è vero, ma non ci riusciamo perché non veniamo remunerati nel giusto modo.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Migliaia di ettari che non sono più a grano. Ne importiamo quattro milioni e mezzo di tonnellate di tenero e oltre due milioni di duro.
ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Siamo davanti al castello di Gallico. Quell’appezzamento lì che vedete, che pascolano le nostre pecore, era coltivato a grano fino a due, tre anni fa. E poi evidentemente il proprietario ha ritenuto più redditizio tenerlo incolto.
ROSAMARIA AQUINO È più redditizio tenere un terreno incolto, come è possibile?
ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Perché, comunque, i contributi europei della Pac un agricoltore li percepisce lo stesso.
ROSAMARIA AQUINO Quanto si percepisce dall’Europa per un campo incolto?
ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Anche se uno prende 200, 500, 600: cioè so’ puliti, non ci hai fatto niente!
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La famiglia di Alessia è una delle tante di pastori sardi che in Toscana hanno portato le loro pecore. Negli anni le politiche agricole europee e italiane hanno consigliato di produrre prodotti diversi, abbandonando le monocolture di cereali. E i contributi sono andati in questa direzione. Fino a qualche anno fa, tra queste campagne, era facile incontrare sterminati campi di girasole. Ma poi lentamente le coltivazioni sono sparite.
ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA È successo in altri periodi che venissero per esempio ben finanziati i girasoli, e quindi la Toscana era coperta da girasoli che poi dopo, un po’ perché c’erano meno finanziamenti, un po’ perché c’erano troppi cinghiali, è una coltura che è andata molto a scendere. Siamo diventati Gardaland, no? Un posto dove s’arriva, ci si fa il selfie: una cartolina siamo.
ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Questa è una foto dell’agricoltura della Romania, ma è molto simile a quella dell’Ucraina. Io penso che nessun turista verrebbe a passare una vacanza su questo territorio.
ROSAMARIA AQUINO Cioè lei ci sta dicendo che l’agricoltura, diciamo, risente anche della questione turistica, del paesaggio?
ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Certo. Del paesaggio.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ismea è l’istituto italiano di servizi al mercato agricolo alimentare controllato dal ministero delle Politiche agricole. Secondo i suoi dati, importiamo il 64% del nostro fabbisogno di grano tenero, il 32% di grano duro e ben il 50% di mais. Ma perché per questi cereali nella Politica Agricola Europea, influenzata anche dal nostro governo, non ci sono fondi per chi li coltiva?
ROSAMARIA AQUINO Da Pac 2023-2027 sono previsti 7 miliardi: perché gli aiuti vanno alla zootecnia, alla produzione di foraggio, agli ulivi, alle patate e per i cereali niente?
ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Noi dobbiamo incentivare soprattutto quelle produzioni che in Italia creano fatturato e occupazione. Per questo è stata fatta una scelta di sostenere la zootecnia.
ROSAMARIA AQUINO Ma se non produciamo mais, per esempio, che mangeranno questi animali delle stalle?
ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Noi non possiamo produrre a prezzi bassi, perché noi produciamo un mais che va alla nostra zootecnia da latte per produrre formaggi Dop e Igp che sono famosi in tutto il mondo: è lì che noi abbiamo la possibilità di competere.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E però nei supermercati ci siamo ritrovati con i razionamenti di olio di semi di girasole e di mais: fino a pochi mesi fa se ne potevano prendere solo pochi litri. E gli scaffali, spesso, erano lasciati vuoti.
ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Questa è la zona pianeggiante di Asciano, è la valle dell’Ombrone, qui sembra che abbiano seminato, probabilmente è una delle poche zone dove in genere vengono coltivati i girasoli. Il cambiamento climatico non le permette più questo tipo di colture. Non nevica, non piove…
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La siccità è un altro nemico degli agricoltori italiani. Per fortuna che ci sono le pecore. Con il loro latte Alessia produce il pecorino toscano, altra eccellenza italiana. Le sue pecore sono al pascolo e mangiano l’erba dei prati, ma oggi, per produrlo, i caseifici ti spingono agli allevamenti intensivi di pecore francesi, le Lacaune, come quelle su cui ha investito questo allevatore, e mangiano solo mangime. Ma da dove viene quel mangime? Proprio da Russia e Ucraina.
FAUSTO LIGAS - ALLEVATORE Si nutrono di miscela che è fatta con cereali e poi orzo, granturco e fieno. Questa è l’alimentazione base… In sei mesi si è stravolto il mondo. Siamo passati da 21 euro del granturco ora credo, franco Bologna, sia sui 44. E l’orzo era intorno ai 40 euro, quindi fate, costava 17 euro l’orzo, la soia costa 68 euro. Se in altri tre mesi mi manca anche da mangiare per le bestie, non vorrei che gli animalisti e gli ambientalisti poi dicessero che Ligas è un delinquente che non dà da mangiare alle pecore, ecco.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ucraina e Ungheria coprono insieme il 45% del mais che importiamo. E se i porti chiudono e le materie prime non arrivano, il vero impatto della guerra sarà proprio sull’industria del latte, dei formaggi e della carne. Coldiretti ha stimato, per esempio, che di questo passo nel Lazio una stalla su quattro chiuderà.
FAUSTO LIGAS - ALLEVATORE Ma lo sapete cosa vuol dire passare da 30mila euro a 75mila euro di spese? Chi vive? Come puoi campare? Ci hanno sempre detto: “Noi siamo pieni, le scorte le abbiamo per cinque anni, il mondo non ha problemi”. Il mondo agricolo da chi è tutelato?
ROSAMARIA AQUINO Come mai sono stati dati nel Piano Strategico Italiano soldi a chi fa patate, colture a perdere e nel paese della pasta e della pizza non ci sono fondi per chi deve fare i cereali…
STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI La produzione di grano è una filiera che si sostiene e che ha bisogno ovviamente di…
ROSAMARIA AQUINO Si sostiene da sola?
STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Che si sostiene da sola e…
ROSAMARIA AQUINO Perché i coltivatori dicono che non conviene più produrre grano, c’è voluta una guerra.
STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Con i prezzi del grano di oggi è la cosa…
ROSAMARIA AQUINO Perché c’è voluta una guerra, però…
STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI È la cosa più conveniente che c’è. Posto che la politica agricola comune mette a disposizione ingenti risorse, ma non infinite, bisogna fare delle scelte. La scelta è quella di sostenere le eccellenze agroalimentari italiane. Grazie.
ROSAMARIA AQUINO Cosa mangiano però poi questi animali se il mais non ce lo coltiviamo da soli, dobbiamo aspettare che le grandi produzioni arrivino dall’estero?
STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Se guardiamo questo percorso e lo portiamo all’estremo e parliamo di autarchia alimentare di ogni singolo paese, credo che sia un percorso difficile da raggiungere perché allora mi chiedo come facciamo poi a difendere le nostre esportazioni e le nostre eccellenze nel mondo se guardiamo al nostro mercato interno e mettiamo in discussione il mercato unico?
ROSAMARIA AQUINO E come facciamo, come facciamo a difendere il made in Italy se non abbiamo la materia prima per farlo il made in Italy?
STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Ma… eh, le due cose… eh… non sono… cioè quello che sto cercando di far capire è che se… il mio ragionamento è che noi dobbiamo produrre tutto quello che consumiamo, produrre soltanto per il mercato interno, consumiamo anche nel mercato interno e non esiste più l’esportazione?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È una questione sicuramente di equilibri e la pandemia prima e poi la guerra ci hanno sbattuto sul muso il fatto che la globalizzazione, che in parte abbiamo subito e in parte, sulla quale in parte ci siamo appoggiati, costruendo delle certezze effimere, hanno, ha mostrato la globalizzazione tutte le sue criticità. Ora, l’invito ad autoprodurre non è certo l’invito all’autarchia, piuttosto a una semplice difesa. Del resto, il nostro Paese non ha una vocazione nella coltivazione dei cereali perché mancano le grandi distese, quelle che troviamo in Canada, in Sud America, o in Ucraina o in Russia. Ci siamo resi anche conto che noi ci siamo specializzati sulle eccellenze, sul Dop, ma ci siamo resi conto quanto sia importante controllare la filiera dei cereali perché quella che poi produce i mangimi per fabbricare, per curare le nostre Dop. Si è resa conto anche l’Europa che ha svincolato quattro milioni di ettari, destinandoli alla coltivazione dei cereali, 200 mila solo per l’Italia. Ora, dovremmo anche noi cambiare un pochettino magari lo sguardo e ipotizzare di coltivare un minimo indispensabile per tutelare gli agricoltori dalle speculazioni e anche dal punto di vista etico per dare un contributo a combattere la fame nel mondo, e coltivare dei cereali. Del resto negli anni 2000, in accordo con l’Europa, proprio l’Agea, la nostra Agenzia che eroga contributi per l’agricoltura, provvedeva a comprare, stipare e rivendere cereali per evitare le speculazioni e tutelare il reddito dei coltivatori. Oggi invece con la Pac, le Politiche Agricole Comunitarie, si è deciso di finanziare soprattutto gli allevatori e ai coltivatori di cereali vanno sostanzialmente gli spiccioli. E pensare che invece il ministro Patuanelli dice: fate attenzione agli speculatori. Ecco, ma chi è che dovrebbe fare attenzione se non la politica?
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Tra Prato, Campi Bisenzio, Osmannoro, si notano dall’alto decine e decine di queste serre. Sono caratteristiche delle coltivazioni della comunità cinese che coltiva a ortaggi quelli che una volta erano campi di grano.
ANDREA LANDINI - VICEPRESIDENTE COLDIRETTI PRATO I cinesi si sono proposti e hanno preso in affitto terreni, magari pagandoli anche molto di più di quanto poteva pagarli un italiano, e hanno cominciato a produrre per la loro filiera. È una filiera parallela, spesso a nero, perché non c’è, non c’è tracciabilità.
ROSAMARIA AQUINO Ma da dove vengono i semi di questi… Dove li vendete, poi, questi cavoli? Nei supermercati? Ci chiami il capo, eh? Siamo dei giornalisti della Rai.
VOCE FEMMINILE Ma non ci interessa di fare nulla, potete andare via
ROSAMARIA AQUINO Volevamo chiedervi dove trovavate i semi, per, da chi vi vendeva i semi per questi bei cavoli e dove vendevate questi cavoli!
VOCE FEMMINILE Potete andare via? Perché non voglio fare nulla.
ANDREA LANDINI - VICEPRESIDENTE COLDIRETTI PRATO Non sappiamo da dove si prendono i semi, se sono Ogm, se non lo sono, non sappiamo i prodotti fitosanitari che usano se hanno, se sono conformi oppure no. Il modello del tessile loro lo riproducono pari pari nel, in agricoltura.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Tessile e agricoltura vanno così di pari passo che una cassetta di frutta puoi trovarla negli stessi magazzini dove i cinesi fanno le borse. A Osmannoro, davanti a un centro di ortofrutta tutto cinese, sosta un camion che viene riempito di pacchi da macchine di grossa cilindrata. Si fermano e scaricano. Decidiamo di seguirne una per vedere da dove arriva e ci porta dritti dritti nel distretto del tessile. Qui notiamo che da un negozio di borse stanno caricando frutta su un camioncino.
ROSAMARIA AQUINO Tu hai messo verdura nel camion, no?
RAGAZZA CINESE No. ROSAMARIA AQUINO No? Ho visto io! Producete voi quella frutta?
RAGAZZA CINESE No.
ROSAMARIA AQUINO Come mai avete quella frutta, voi fate tessile! Strano. Non lo sai?
RAGAZZA CINESE No.
ROSAMARIA AQUINO Ma ce l’hai messa tu lì dentro. Le cassette, no? Eh, e dove vanno tutte queste belle mele, guarda che belle, bellissime. Dove vanno? Ma escono da qua?
RAGAZZA CINESE No, no, no. ROSAMARIA AQUINO Voi non fate le borse?
RAGAZZA CINESE Sì. ROSAMARIA AQUINO Eh, e questi da dove li hai tirati fuori?
RAGAZZA CINESE Uhm…
ROSAMARIA AQUINO Non lo sai. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Quella frutta forse finirà al mercato di Firenze. La regione traccia solo agricoltori cinesi nati in Cina e perciò nel 2021 in tutta la Toscana risultano proprietari di sole sette aziende su 36mila. Non esistono dati sugli affitti. È ovvio che, se non esisti per il fisco, riesci a essere più competitivo di chi invece si barcamena a commerciare con le carte in regola e che è più strangolato dalle speculazioni.
ROSAMARIA AQUINO Lei ha parlato di speculatori per il grano, per i prezzi del grano. Di chi parlava in particolare?
STEFANO PATUANELLI - MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Eh, credo che ci sia… Non c’è un riferimento puntuale. È evidente che l’aumento del costo di alcune materie prime agricole è legato in parte all’aumento del costo dell’energia e in parte a chi è in possesso di quantità di materie prime che gestisce nell’immissione sul mercato in modo da farne aumentare il prezzo.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Non è quindi tra questi silos che bisogna cercare i potenziali speculatori secondo quanto ci dice il ministro, ma tra chi accumula grosse quantità. Per cui ci spostiamo dove gli affari si fanno più grossi, in provincia di Perugia, in un’azienda commercializzatrice di mangimi. Qui siamo in uno dei suoi otto centri di stoccaggio che conservano un milione di quintali. Luciano Grigi è a capo di un’azienda leader nei mangimi in centro Italia. Vende mais, soia, grano, tutto quello che serve ad alimentare gli animali della filiera della carne e del latte che in questo momento è in estrema difficoltà.
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Noi non vendiamo mangime, noi siamo una banca oggi: banca, adesso fuori ci voglio scrivere banca. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ha l’80% di prodotto nazionale, ma un buon 20% arriva proprio dai territori oggi colpiti dalla guerra.
ROSAMARIA AQUINO Questa quota che lei compra all’estero di che cos’è?
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE È mais. La maggior parte è mais e farina di girasole.
ROSAMARIA AQUINO E da dove li prende?
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE La farina di girasole la maggior parte viene dall’Ucraina, e il mais la stessa cosa.
ROSAMARIA AQUINO Qualcuno che compra da voi ci dice che non sempre le consegne sono…
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE No, no, no. Magari abbiamo detto: te ne do meno perché dobbiamo servire tutti.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Appena inizia la guerra, i clienti cominciano a ordinare per lo stoccaggio: nel giro di tre giorni arrivano 540 ordini da 80mila quintali e 120mila quintali è la cifra che in genere viene ordinata al mese. Gli allevatori erano spaventati e hanno iniziato a comprare.
ROSAMARIA AQUINO Quanto sono aumentati i prezzi di queste materie prime da quando c’è la crisi?
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Dal 2020 ad oggi sono aumentate del 130%
ROSAMARIA AQUINO Quindi lei sta avendo un guadagno considerevole!
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE No… è questo non è che... Non è che c’abbiamo un guadagno. Perché… Allora, anno scorso se noi non ritiravamo le materie prime che ci avevamo i contratti, portavamo a casa senza ritirarle sei milioni di euro.
ROSAMARIA AQUINO Praticamente lei ordina, l’azienda da cui ordina le dice: non la ritirare e ti pago?
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE E ti pago, ti do una differenza. A loro gli conveniva di stornarla e la vendevano a un prezzo maggiore.
ROSAMARIA AQUINO Più avanti.
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Più avanti, e a me, invece, io siccome faccio il mangimista, che gli davo agli agricoltori?
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dunque, diversi fornitori che servono questo stabilimento pagano il proprio cliente per non fargli ritirare i cereali. Questo per consentire di accumularli, perché sanno che il prezzo del mais o del grano salirà. Tra questi c’è una multinazionale cinese che fa anche una seconda richiesta al suo cliente: o rivedi i prezzi dei contratti al rialzo o non ti consegno la merce.
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Una multinazionale 100% cinese, non ci metteva a disposizione il mais della seconda quindicina di marzo finché non mettevamo a posto dei contratti che c’ho per giugno, luglio, agosto, settembre fino a gennaio 2023 perché ce li abbiamo a prezzi bassi. Allora, tramite un mediatore, abbiamo mediato, gli abbiamo dato una cifra, per poterci consegnare. Ma come è successo a me, e sono successi agli altri, eh. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’imprenditore tira fuori il nome della multinazionale solo una volta finita l’intervista, parlando con un suo consulente.
LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Andrea, sono qui con Rosamaria di Report. Voleva sapere qualcosa sull’andamento dei prezzi e su chi sta speculando io mi so’ permesso di dire quello che ci ha fatto Cofco, spiegaglielo te che almeno…
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La Cofco è una multinazionale cinese in cui ha una grossa partecipazione anche lo stesso governo. A consigliare a Grigi di evitare lungaggini legali è un mediatore, suo consulente finanziario, un’autorità nel settore dei cereali.
ROSAMARIA AQUINO Può essere speculazione, per esempio, che una multinazionale dica a un compratore italiano: tu hai già firmato con me dei contratti ma se non li rimoduli al prezzo nuovo, più alto che io ti sto imponendo, io questi contratti, io non ti do più la merce
ANDREA CAGNOLATI - GRAIN SERVICES Capisco che dobbiate cercare un colpevole ma non… Questo importatore qui dice: io sono in difficoltà, avevo un impianto a Mariupol e me l’hanno distrutto, avevo i contratti sull’Ucraina e non me li eseguono, speravo di eseguire dalla Serbia e dalla Serbia mi hanno bloccato le esportazioni, avrei bisogno che mi veniate un po’ incontro.
ROSAMARIA AQUINO Ma il suo cliente è la multinazionale o è Grigi?
ANDREA CAGNOLATI - GRAIN SERVICES Guardi, io intermedio e sono in mezzo. Io devo cercare di portare a casa la roba perché da qui a un anno, dove saremo, non lo so.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Qui siamo a Ravenna, uno dei più grandi e trafficati porti commerciali del nostro paese, dove arrivano ogni giorno carichi di cereali che poi vengono stipati in silos come questi. E Ravenna è sede della Cofco International Italy, la controllata italiana della multinazionale cinese, a capo della quale c’è Carlo Licciardi, che è anche presidente della Anacer, l’associazione che rappresenta gli interessi di chi commercia cereali.
ROSAMARIA AQUINO Stavamo cercando il dottor Licciardi: non può metterci in contatto con lui?
DIPENDENTE COFCO INTERNATIONAL ITALY Posso lasciare detto che siete passati, però, più di così se mi vuole lasciare lei un recapito eventualmente.
ROSAMARIA AQUINO Certo. Se glielo vuole anticipare, noi abbiamo avuto una segnalazione da un cliente molto grosso del centro Italia che ci ha detto che lui aveva già dei contratti con Cofco per una fornitura di mais, ok? Dopodiché Cofco dice: se non mi paghi di più questa quota di merce, io non ti consegno il mais. Vogliamo capire se il governo cinese sa che vengono applicate queste politiche sulle aziende italiane ed europee, visto che il mercato europeo…
DIPENDENTE COFCO INTERNATIONAL ITALY Va bene.
ROSAMARIA AQUINO Ok? SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci mancava il manager che era a capo, che è a capo dell’associazione dei commercianti di cereali e che tutela gli interessi della multinazionale che invece a questi commercianti chiede di alzare il prezzo di chi tutela gli interessi. È esemplare il caso dell’imprenditore Grigi, ai quali la multinazionale cinese ha chiesto di rialzare i prezzi quando a sua volta rivende i cereali. Insomma, la multinazionale cinese ad altri fornitori gli avevano chiesto di non ritirare, come da contratto, la merce piuttosto avrebbero pagato loro. Una cosa simile è successa anche, non solo quando è scoppiata la guerra, ma anche l’anno prima, quando la disponibilità del grano ancora c’era: hanno pagato sei milioni di euro l’imprenditore Grigi per non ritirare i cereali. Ora: fanno beneficenza? No, sanno che potranno lucrare successivamente. È la legge del mercato e poco importa se poi ci sono intere filiere che vanno in crisi, come quelle delle eccellenze perché poi si forma la filiera dei mangimi o se addirittura c’è gente che potrebbe morire di fame. E la Fao ha stimato che proprio grazie a questi fenomeni potrebbero soffrire la fame 220 milioni di persone. Ora, c’è anche il caso delle grandi nazionali, multinazionali, quelle che hanno il monopolio delle materie prime alimentari, e si tratta delle cosiddette ABCD, cioè, praticamente, di Adm, Bunge, Cargill e Dreyfus, che comprano merci all’ingrosso dai grandi coltivatori nel mondo, dal Canada, Stati Uniti, Brasile, Africa, nonché anche in Russia e Ucraina, hanno silos in tutto il mondo, detengono l’80% del mercato di riso, colza, mais, grano, soia. Insomma, ecco: la Fao dovrebbe fare moral suasion sui governi per far sfilare dal concetto della borsa, della speculazione, le materie prime destinate all’alimentazione, alla sopravvivenza. Poi l’anello debole, lo sappiamo, sono quei piccoli coltivatori o chi va a mungere le mucche per darci il latte, strozzato da quelle multinazionali il cui potere è tale che riescono a incassare anche quando un tribunale impone loro di cedere le quote. E qui entriamo in una storia che sarebbe incredibile se non fosse che è vera. Pubblicità
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, bentornati. C’è una storia che sarebbe incredibile se non fosse che è vera. C’è un comune che ha le casse in rosso, potrebbe incassare ottanta milioni di euro ma non lo fa, lascia che incassi una multinazionale francese. Il comune è quello di Roma, la multinazionale francese è la Parmalat, Lactalis. È una storia che attraversa i sindaci degli ultimi 25 anni della Capitale, che aveva la sua Centrale del Latte, era rifornita dagli allevatori della zona. Nel ’96 la giunta Rutelli vuole privatizzarla e allora indice una gara. Il bando prevede dei vincoli: intanto che l’80% del latte della Centrale doveva essere rifornito dagli allevatori della zona, poi che i dipendenti dovevano essere assorbiti e infine che la Centrale, una volta comprata, non poteva essere rivenduta dopo, entro i cinque anni. Insomma, nella fase finale si presentano al tavolo la Cirio di Cragnotti, la Parmalat di Tanzi, Fattorie Latte Sano, poi una cordata di imprenditori e di banche. La gara se l’aggiudica Cragnotti, presentando un’offerta monstre, 80 miliardi di lire. Solo che poi Cragnotti viola uno dei requisiti del bando di gara, rivende la centrale a Parmalat, che diventerà poi Lactalis. Dopo 25 anni di storia, questo fatto, questo particolare, questa violazione renderà di fatto la gara nulla. Dopo 25 anni, 30 sentenze, poi c’è stato il Consiglio di Stato, poi la Corte d’Appello del tribunale civile, insomma, ora i francesi dovrebbero restituire quote e anche utili. Ma il Comune, le quote, le vuole?
MARIAROSA VITA - ALLEVATRICE COOPERATIVA LATTEPIU’ Se continuiamo in queste condizioni, in un paio di mesi avranno chiuso parecchie stalle, parecchie, chi prima, o chi dopo.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Mariarosa è una dei circa 200 allevatori della Finlatte, azionista al 16% della Centrale del Latte di Roma. Ogni giorno producono latte che Parmalat, socio di maggioranza col 75%, paga molto poco al litro, ben al di sotto di quanto a loro costi produrlo.
ROSAMARIA AQUINO Quanti allevatori hanno dovuto chiudere l’azienda da quando si ricorda che la Centrale del Latte è in funzione?
MARIAROSA VITA - ALLEVATRICE COOPERATIVA LATTEPIU’ Un 30%.
ROSAMARIA AQUINO Ed è legato alla politica dei prezzi del latte applicati da Parmalat?
MARIAROSA VITA - ALLEVATRICE COOPERATIVA LATTEPIU’ Assolutamente. Assolutamente, la motivazione è quella. ROSAMARIA AQUINO Oggi questo latte locale, a km zero, quanto viene pagato?
DAVIDE GRANIERI - RESPONSABILE COLDIRETTI LAZIO 41 centesimi.
ROSAMARIA AQUINO È un prezzo congruo?
DAVIDE GRANIERI - RESPONSABILE COLDIRETTI LAZIO Assolutamente no. Non si riesce a gestire una stalla con soli 41 centesimi. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il latte è pagato poco, ma almeno a fine anno Finlatte partecipa alla spartizione degli utili, che non sono pochi: circa quattro milioni nell’ultimo bilancio. La notizia, però, è che la gran parte di quegli utili, cioè quelli che incassa Parmalat, apparterrebbe a tutti i romani. Tutto parte 25 anni fa, nel 1996, all’epoca della giunta Rutelli, che decise di privatizzare la municipalizzata.
MARCO LORENZONI - ARIETE FATTORIA LATTE SANO C’era la Parmalat di Callisto Tanzi, c’era la Cirio di Cragnotti, c’era la Fattoria Latte Sano e c’era la Granarolo, che si era associata in questa operazione alla banca Comit.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Marco Lorenzoni con la sua Fattoria Latte Sano partecipò alla gara del Comune di Roma che voleva privatizzare la centrale. Un 75% sarebbe andato a gruppi privati, un 20% sarebbe andato agli allevatori romani e il resto erano quote pubbliche divise tra Regione e Comune. L’intenzione era quella di costituire il terzo polo del latte in Italia dopo Parmalat e Granarolo.
MARCO LORENZONI - ARIETE FATTORIA LATTE SANO Si aprono le buste e l’offerta della Cirio di Cragnotti è decisamente superiore alla media delle altre offerte: 80 miliardi di lire per il 75 per cento della società, della neo-costituita Spa Centrale del Latte di Roma. Poco tempo dopo Cragnotti, però, sottoscrisse un accordo di cessione con Parmalat, di conseguenza la Centrale del Latte di Roma finisce in proprietà di Parmalat.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questa cessione avrebbe reso la gara vinta da Cragnotti nulla perché non sarebbero state rispettate le clausole del bando tra cui quella di non cedere entro cinque anni dall’acquisizione.
MARCO LORENZONI - ARIETE FATTORIA LATTE SANO Il Consiglio di Stato ha annullato la gara per cui il Comune di Roma è ritornato il legittimo proprietario della Centrale del Latte di Roma.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Nel frattempo, Parmalat innesta una causa civile, minacciando richieste di risarcimento milionarie. E così, negli anni, nessun sindaco ha riscattato le quote. La giunta Alemanno era stata l’unica a richiederle indietro, poi, però, proprio quando poteva riprendersele per legge, non insistette.
ROSAMARIA AQUINO Nel 2012 il Consiglio di Stato dice una cosa precisa, cioè: le quote devono essere restituite con effetto immediato e la sentenza è esecutiva. Perché il comune non ne rientra in possesso?
GIANNI ALEMANNO - SINDACO DI ROMA 2008-2013 Non c’è stata un’inerzia da parte della amministrazione, c’è stata purtroppo la… Le contorsioni della giustizia italiana, sia quella amministrativa che quella civile, che hanno permesso a Parmalat di arrivare fino a oggi.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Quindi secondo più sentenze il Comune di Roma è proprietario al 75% della Centrale, ma gli utili li incassa da oltre vent’anni la Parmalat. Il Comune di Roma ha rinunciato a incassare 80 milioni di euro. Parmalat, da parte sua, sa bene che quelle quote non sono sue e lascia ai soci dell’associazione di allevatori della Finlatte di stabilire la ripartizione degli utili.
SOCIO FINLATTE SPA La destinazione degli utili per una questione di opportunità la fanno votare a Finlatte. Diciamo gli fanno levare un po’ le castagne dal fuoco.
ROSAMARIA AQUINO Ah. SOCIO FINLATTE SPA Capito? Quest'anno ci sono circa cinque milioni di utili e probabilmente rifaranno la stessa cosa perché Parmalat esce dalla stanza.
ROSAMARIA AQUINO Ma gliel’ha chiesto Parmalat o è una loro proposta?
SOCIO FINLATTE SPA No, è una cosa che gli è stata chiesta di fare.
ROSAMARIA AQUINO E loro perché lo fanno?
SOCIO FINLATTE Perché sennò moriamo. Se nun te prendono il latte che fai, dove lo vai a buttà?
ROSAMARIA AQUINO FUORICAMPO Ma il Comune di Roma le quote della Centrale del Latte, dopo che la magistratura le ha dato ragione, le vorrebbe? Monica Montella, consigliera Cinquestelle durante la sindacatura Raggi, scopre che il Comune di Roma aveva fatto valutare le sue quote della Centrale a un prezzo molto più basso di quello al quale le aveva vendute la Regione. Tuttavia, Parmalat minacciava un risarcimento stratosferico.
MONICA MONTELLA - CONSIGLIERA COMUNE DI ROMA 2016-2021 Era emerso che Parmalat avrebbe chiesto 120 milioni di danni a Roma Capitale. Tra le righe l’ho visto quasi come un ricatto. Perché se fino a quel momento dicevano che Parmalat valeva dai 35 ai 45, però poi dopo se si doveva fare indennizzare voleva 120 milioni, quindi, insomma, veramente i numeri al lotto.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma non era solo Parmalat a spingere per tenersi la Centrale nonostante il primo pronunciamento dei magistrati. Anche al Comune di Roma c’era chi sembrava remasse in suo favore. Lo dimostra un audio inedito di una riunione che si è tenuta prima dell’ultima sentenza, proprio tra la consigliera Montella con Salvatore Romeo, allora capo della segreteria politica di Virginia Raggi.
MONICA MONTELLA - CONSIGLIERA COMUNE DI ROMA 2016-2021 Io voglio portare al tavolo più soldi di quello che loro vogliono dare.
COLLABORATORE Come mai non si possono aspettare i termini poi di giudizio… Come diceva Monica…
SALVATORE ROMEO - EX CAPO DI GABINETTO SINDACA RAGGI Perché non vogliamo vincere. Provo a spiegare.
MONICA MONTELLA - CONSIGLIERA COMUNE DI ROMA 2016-2021 Se vinci c’hai una carta in più, scusa. Qual è il problema?
SALVATORE ROMEO - EX CAPO DI GABINETTO SINDACA RAGGI Se vinci devi andare a mungere le mucche. Secondo me è meglio transare perché se per caso vinciamo, siamo rovinati!
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Chi non vuole andare a mungere le mucche è Salvatore Romeo, ex braccio destro della Raggi. Ma perché sarebbero rovinati?
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 È chiaro che nel momento in cui noi fossimo ridiventati i proprietari delle quote e non eravamo minimamente in grado neanche di mungere una mucca, come facevamo a garantire un servizio che era diramato su tutto il territorio e che negli anni aveva subito anche un incremento in termini di quote di fatturato e di mercato.
ROSAMARIA AQUINO Ci sono un sacco di esempi, eh, di centrali del latte pubbliche, eh.
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Assolutamente ma sono cose degli anni Trenta e che nel tempo si sono sviluppate, non hanno mai raggiunto dei livelli di incancrenimento come la Centrale del Latte di Roma.
ROSAMARIA AQUINO Eh, ma a noi è dal 2006 che ci stanno dicendo che ce le possiamo riprendere ‘ste quote…
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Ce le possiamo riprendere, questo non lo decido io.
ROSAMARIA AQUINO Però con questo atteggiamento praticamente Parmalat io leggo questo: ha fatto i suoi utili, se li tiene, con quote che non sono sue, fa votare i bilanci a questi signori di Finlatte
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Noi possiamo ancora chiedere la sospensione del giudizio, possiamo fare un’offerta, possiamo richiedere le azioni indietro, possiamo…
ROSAMARIA AQUINO Eh, ma quando l’abbiamo potuto fare, che voi decidevate in quel momento, perché non l’abbiamo fatto?
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Però, naturalmente, questo non lo decidevo io, perché io non sono il politico del caso
ROSAMARIA AQUINO Vabbè, però lei era quello che suggeriva
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Quello che?
ROSAMARIA AQUINO Suggeriva
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Io sono il tecnico che spiegava le cose…
ROSAMARIA AQUINO Un poco di più del tecnico.
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Vabbè, però, insomma, sa perché conosco questo lavoro? Perché io quando sono entrato, nel ’99, al comune di Roma, la prima cosa di cui mi sono occupata è stata questo. Una cosa che le posso escludere categoricamente è che Parmalat si sia comprata tutti perché sono cambiati talmente tanti attori… E i nuovi…
ROSAMARIA AQUINO Però uno è rimasto sempre lo stesso.
SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 E chi?
ROSAMARIA AQUINO Lei.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dunque, è preferibile che il Comune non torni in possesso delle quote perché per l’ex consulente della Raggi il problema sarebbe mungere le mucche. Ma il Comune di Roma le mucche già le munge! In queste due stalle, la Tenuta del Cavaliere e questa di Castel di Guido, ha circa 466 capi: 170 di questi li ha messi, però, all’asta perché troppo anziani e improduttivi. ROSAMARIA AQUINO Sindaco, buongiorno, Report. Ci dice cosa farà la sua amministrazione con la Centrale del Latte ora che la Corte d’Appello assegna il 75%, ribadendo che la proprietà è di tutti i romani?
ROBERTO GUALTIERI - SINDACO DI ROMA Siamo molto soddisfatti perché abbiamo vinto, e quindi è una cosa molto positiva
ROSAMARIA AQUINO Quindi cosa farete, una gara o vi metterete d’accordo con Parmalat?
ROBERTO GUALTIERI - SINDACO DI ROMA Ah, lavoreremo per valorizzare al meglio questo, questo risultato
ROSAMARIA AQUINO In che modo, con una gara pubblica?
ROBERTO GUALTIERI - SINDACO DI ROMA Questo, questo mi deve consentire di dirlo quando potremo, lo comunicheremo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ce lo farà sapere il sindaco Gualtieri, mentre Lactalis con noi ha preferito non parlare in attesa della sentenza della Cassazione che dovrà decidere in merito alla sentenza del tribunale d’appello civile di Roma che imporrebbe a Lactalis di restituire al Comune di Roma i 40 milioni di euro di arretrati fino al 2012. Insomma, il Comune di Roma, è singolare, è scritto a bilancio, il 75% delle quote della Centrale, ma non incassa gli utili. Insomma, eppure farebbero comodo soprattutto per aggiustare le strade, per sistemare anche la macchina dei rifiuti, farla funzionare meglio la raccolta. Mentre i sindaci che si sono alternati fino a oggi, negli ultimi anni, insomma, potevano anche incassare, non hanno incassato e si sono schermati dietro il timore della richiesta di risarcimento danni presentata da Lactalis. Mentre invece rimane un mistero del perché il responsabile politico della segreteria di Virginia Raggi, della sindaca, insomma, faceva il tifo per perdere le quote di un bene comune perché diceva che non sapeva bene come organizzarsi per mungere le mucche.
E abbiamo scoperto che non siamo più il granaio d’Italia. Arturo Guastella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Marzo 2022
Il grano in Magna Grecia
La guerra in Ucraina ha destato la terra della Magna Grecia sulla provenienza del frumento
Così noi, qui in Magna Grecia (allargata, per la circostanza e per la koinè, la lingua comune, anche alla Sicilia), che da secoli venivamo considerati come il granaio d’Italia, ci siamo improvvisamente accorti che già da qualche anno, la coltivazione del frumento e dei cereali si era spostata a nord, in quella terra popolata da Cimmeri e Sciti, guardati con sospetto da Omero e da Erodoto, per i loro costumi barbari. Insomma, in quella pianura sarmatica, dove, ora, l’ambizioso voivoda russo, ha portato i suoi cingolati, calpestando diritti e cittadini inermi. E, allora, abbiamo dovuto prendere atto che la farina e i prodotti dei nostri pastifici, parlavano il cirillico, malgrado le diciture italiote e le assicurazioni che trattavasi di spighe coltivate nello Stivale. Certo, avremmo dovuto accorgerci che la coltivazione del grano duro era praticamente scomparsa da almeno un decennio dal nostro Settentrione e che dei tre milioni e passa di ettari coltivati a grano nel Sud, ne resistono appena un milione e 486 ettari.
Eppure è noto che questo cereale, a differenza del grano tenero, fornisce la materia prima più ricercata per quasi tutte le paste alimentari e che la sua coltivazione è possibile anche in territori con pochissime risorse idriche. Abbiamo sentito con le nostre orecchie, rinomati pastai della Magna Grecia, lamentarsi che per la guerra le loro navi onerarie, erano rimaste bloccate nei porti del Mar Nero, ad Odessa, soprattutto, mentre le scritte sul loro àrtos, il pane bianco, riportavano diciture nel nostro alfabeto. E le cose non vanno bene neppure per la coltivazione del grano tenero. La superficie nazionale per la coltura di questo cereale, è significativamente calata negli ultimi anni passando da 1,6 a 0,6 milioni di ettari di coltivazione. Dicono che di questa drastica riduzione, si siano avvantaggiati soprattutto gli Iperborei, gli Illiri, insomma, e, soprattutto quelli che vivono nella Gallia Transalpina, nella Cimbria, in Teutonia e nella Britannia. Di questo passo, qui da noi, ma anche nell’Iberia di Quinto Sertorio (altro granaio per i Quiriti), rimarrà presto disoccupato anche il fiero hidalgo don Quijote de la Mancha, per la totale scomparsa dei mulini a vento. Va bene, avremo poco pane, ma potremo sempre ricorrere al nostro antico alimento base, la màza, cioè, formata dalla farina d’orzo impastata in gallette. Brutte notizie, però, anche per la coltura di orzo. Infatti la superficie nazionale destinata alla sua coltivazione è andata contraendosi nel corso degli anni '90 (da 450 mila ettari a 300 mila ettari) e la produzione è inferiore al fabbisogno nazionale, con gli allevamenti degli animali che, da soli, ne assorbono l’85%.
«E il farro?», mi chiede il generale Sertorio, che, così disinvoltamente avevo chiamato in causa, distogliendolo dalle sue guerre in Lusitania. Il farro? Per fortuna mi viene in soccorso forse il più famoso alimentarista dell’antichità magnogreca, Archestrato di Gela, il quale mi ha spiegato che si tratta di una sorta di grano, dal nome latino di Tritum monococcum, usato come cibo già in tempi remotissimi, addirittura dall’eneolitico. La preoccupante carenza di panem nostrum e i suoi prevedibili aumenti dei costi, potrebbero rivoluzionare non solo i nostri deschi, ma perfino i nostri ritmi di vita. Se è vero che esso, il pane, e, in senso più lato il cibo, assume la «valenza di parametro per la scansione del tempo e delle fasi della giornata (colazione, pranzo, cena), differenziando i momenti quotidiani da quelli solenni delle festività, come anche le fasi importanti di passaggio nella nostra vita, come i banchetti di nascita, di compleanno, di matrimoni e, perfino di morte» ecco che la guerra di Putin non è poi così lontana. Inoltre, l’inciso virgolettato, è una puntualizzazione del filosofo Diogene Laerzio, il quale ricordava come anche in Grecia (e più tardi nella stessa Roma) determinate feste fossero strettamente legate al cibo. Con le Antesterie, per esempio, ad Atene, dove, per la circostanza, si sturavano le botti con il vino nuovo e si preparava una zuppa di verdure per i defunti. O, ancora, sempre in Grecia (e, perciò, probabilmente anche qui da noi), con le Pianepsie, a novembre, in onore di Apollo, con le offerte di focacce.
Tornando, comunque, all’Ucraina e all’aggressione proditoria che la sta martoriando, la sua nobiltà di origini è, per certi versi, più vicina a noi, che agli abitatori della steppa, in quanto quell’Odessa, dove sono alla fonda le triremi dei nostri pastai, sembra abbia origine greca, in quanto, era il luogo di due empori greci, Tyras e Olbia Pontica, mentre l’etimo del suo nome, potrebbe derivare da un’altra colonia greca, Odessus, anche se i geografi antichi, su questo non sono d’accordo. In quanto all’espugnazione di Kiev, da parte dello «zaretto» russo, ci permettiamo di citare, a questo proposito, una gnome di Orazio. Non cuivis homini contingit adire Corinthum, con la quale il poeta di Venosa, voleva significare che è quasi impossibile per certi uomini riuscire a varcare le mura di Corinto.
Le sanzioni di Washington contro Mosca distruggeranno l’Europa, non la Russia. Redazione su La Voce delle Voci il 15 Marzo 2022.
Di PEPE ESCOBAR
La “strategia di sostituzione” di Washington per le importazioni sanzionate di petrolio e gas dalla Russia sembra essere quella di avvicinarsi ai suoi acerrimi nemici produttori di petrolio Iran e Venezuela.
La lista nera ufficiale russa delle nazioni sanzionatrici ostili include Stati Uniti, UE, Canada e, in Asia, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Singapore (l’unico del sud-est asiatico). Nota come quella “comunità internazionale” continua a ridursi.
Il Sud del mondo dovrebbe essere consapevole del fatto che nessuna nazione dell’Asia occidentale, dell’America Latina o dell’Africa si è unita al carrozzone delle sanzioni di Washington.
Mosca non ha nemmeno annunciato il proprio pacchetto di contro-sanzioni. Eppure un decreto ufficiale “Sull’ordine temporaneo degli obblighi nei confronti di determinati creditori stranieri”, che consente alle società russe di saldare i propri debiti in rubli, fornisce un indizio di ciò che accadrà.
Le contromisure russe ruotano tutte attorno a questo nuovo decreto presidenziale, firmato sabato scorso, che l’economista Yevgeny Yushchuk definisce una “mina nucleare di rappresaglia”.
Funziona così: per pagare i prestiti ottenuti da un Paese sanzionatorio che superano i 10 milioni di rubli al mese, le società russe non devono effettuare bonifici. Chiedono a una banca russa di aprire un conto corrispondente in rubli a nome del creditore. Quindi la società trasferisce rubli su questo conto al tasso di cambio corrente ed è tutto perfettamente legale.
I pagamenti in valuta estera passano attraverso la Banca Centrale solo caso per caso. Devono ricevere un permesso speciale dalla Commissione governativa per il controllo degli investimenti esteri.
Ciò significa in pratica che la maggior parte dei 478 miliardi di dollari circa del debito estero russo potrebbe “scomparire” dai bilanci delle banche occidentali. L’equivalente in rubli sarà depositato da qualche parte, nelle banche russe; ma le banche occidentali, per come stanno le cose, non possono accedervi.
È discutibile se questa semplice strategia fosse il prodotto di quei cervelli “non sovranisti” riuniti presso la Banca centrale russa. Più probabilmente, c’è stato il contributo dell’influente economista Sergei Glazyev, anche uno dei massimi ex consiglieri del presidente russo Vladimir Putin sull’integrazione regionale. Ecco un’edizione rivista, in inglese, del suo rivoluzionario saggio Sanctions and Sovereignty, che ho riassunto in precedenza.
Nel frattempo, Sberbank ha confermato che emetterà le carte di debito/credito russe Mir co-badge con la cinese UnionPay. Alfa-Bank, la più grande banca privata in Russia, emetterà anche carte di credito e di debito UnionPay. Sebbene sia stata introdotta solo cinque anni fa, il 40% dei russi possiede già una carta Mir per uso domestico. Ora potranno usarlo anche a livello internazionale, tramite l’enorme rete di UnionPay. E senza Visa e Mastercard, le commissioni su tutte le transazioni rimarranno nella sfera Russia-Cina. De-dollarizzazione, in effetti.
I negoziati sulle sanzioni iraniane a Vienna potrebbero raggiungere l’ultima fase, come riconosciuto anche dal diplomatico cinese Wang Qun. Ma è stato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a introdurre una nuova variabile cruciale nelle discussioni finali di Vienna.
Lavrov ha reso abbastanza esplicita la sua richiesta dell’undicesima ora: “Abbiamo chiesto una garanzia scritta… che l’attuale processo [delle sanzioni russe] innescato dagli Stati Uniti non danneggi in alcun modo il nostro diritto alla libera e piena cooperazione commerciale, economica e di investimento e cooperazione tecnico-militare con la Repubblica Islamica”.
Secondo l’accordo del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015, la Russia riceve uranio arricchito dall’Iran e lo scambia con yellowcake e, parallelamente, sta riconvertendo la centrale nucleare iraniana di Fordow in un centro di ricerca. Senza le esportazioni iraniane di uranio arricchito semplicemente non c’è alcun accordo JCPOA. Sconvolge la mente che il Segretario di Stato americano Blinken non sembri capirlo.
Tutti a Vienna, compresi i margini, sanno che affinché tutti gli attori firmino il revival del PACG, nessuna nazione deve essere presa di mira individualmente in termini di scambi commerciali con l’Iran. Lo sa anche Teheran.
Quindi quello che sta succedendo ora è un elaborato gioco di specchi persiani, coordinato tra la diplomazia russa e quella iraniana. L’ambasciatore di Mosca a Teheran, Levan Dzhagaryan, ha attribuito la feroce reazione a Lavrov in alcuni quartieri iraniani a un “malinteso”. Tutto questo si svolgerà all’ombra.
Un elemento in più è che secondo una fonte di informazioni del Golfo Persico con accesso privilegiato all’Iran, Teheran potrebbe già vendere fino a tre milioni di barili di petrolio al giorno, “quindi se firmano un accordo, non influirà affatto sull’offerta; solo loro saranno pagati di più.
Il governo degli Stati Uniti ha passato anni, se non decenni, a bruciare tutti i ponti con il Venezuela e l’Iran. Gli Stati Uniti hanno distrutto l’Iraq e la Libia e hanno isolato il Venezuela e l’Iran nel tentativo di impossessarsi dei mercati petroliferi globali, solo per finire miseramente nel tentativo di riacquistare entrambi e sfuggire all’essere schiacciati dalle forze economiche che avevano scatenato. Ciò dimostra, ancora una volta, che i “politici” imperiali sono completamente all’oscuro.
Caracas chiederà l’eliminazione di tutte le sanzioni contro il Venezuela e la restituzione di tutto l’oro sequestrato. E sembra che nulla di tutto ciò sia stato chiarito con il “presidente” Juan Guaido, che dal 2019 è l’unico leader venezuelano “riconosciuto” da Washington.
La coesione sociale dilaniata
I mercati del petrolio e del gas, nel frattempo, sono nel panico più totale. Nessun commerciante occidentale vuole comprare gas russo; e questo non ha nulla a che fare con il colosso energetico statale russo Gazprom, che continua a rifornire debitamente i clienti che hanno firmato contratti con tariffe fisse, da $ 100 a $ 300; (altri stanno pagando oltre $ 3.000 nel mercato spot).
Le banche europee sono sempre meno disposte a concedere prestiti per il commercio di energia con la Russia a causa dell’isteria delle sanzioni. Un forte indizio che il gasdotto dalla Russia alla Germania Nord Stream 2 potrebbe essere letteralmente sei piedi sotto è che l’importatore Wintershall-Dea ha cancellato la sua quota di finanziamento, supponendo di fatto che il gasdotto non verrà lanciato.
Tutti coloro che hanno un cervello in Germania sanno che due terminali extra di gas naturale liquefatto (GNL) – ancora da costruire – non saranno sufficienti per le esigenze di Berlino. Semplicemente non c’è abbastanza GNL per fornirli. L’Europa dovrà lottare con l’Asia su chi può pagare di più. Vince l’Asia.
L’Europa importa circa 400 miliardi di metri cubi di gas all’anno, di cui 200 miliardi alla Russia. Non c’è modo in cui l’Europa possa trovare 200 miliardi di dollari altrove per sostituire la Russia, che si tratti di Algeria, Qatar o Turkmenistan. Per non parlare della mancanza dei necessari terminali GNL.
Quindi, ovviamente, il principale beneficiario di tutto il pasticcio saranno gli Stati Uniti, che potranno imporre non solo i loro terminali e sistemi di controllo, ma anche trarre profitto dai prestiti all’UE, dalla vendita di attrezzature e dal pieno accesso all’intera UE infrastrutture energetiche. Tutti gli impianti GNL, le condutture e i magazzini saranno collegati a un’unica rete con un’unica sala di controllo: un sogno imprenditoriale americano.
L’Europa resterà con una produzione di gas ridotta per la sua industria in declino; perdite di lavoro; diminuzione degli standard di qualità della vita; maggiore pressione sul sistema di sicurezza sociale; e, ultimo ma non meno importante, la necessità di richiedere prestiti extra americani. Alcune nazioni torneranno al carbone per il riscaldamento. La Green Parade sarà livida.
E la Russia? Come ipotesi, anche se tutte le sue esportazioni di energia fossero state ridotte – e non lo saranno; i loro principali clienti sono in Asia: la Russia non dovrebbe utilizzare le sue riserve estere.
L’attacco russofobo alle esportazioni russe prende di mira anche i metalli palladio, vitali per l’elettronica, dai laptop ai sistemi aeronautici. I prezzi sono alle stelle. La Russia controlla il 50 per cento del mercato globale. Poi ci sono i gas nobili – neon, elio, argon, xenon – essenziali per la produzione di microchip. Il titanio è aumentato di un quarto e sia Boeing (di un terzo) che Airbus (di due terzi) si affidano al titanio dalla Russia.
Petrolio, cibo, fertilizzanti, metalli strategici, gas neon per semiconduttori: tutto sul rogo, ai piedi di Witch Russia.
Alcuni occidentali che ancora apprezzano la realpolitik bismarckiana hanno iniziato a chiedersi se proteggere l’energia (nel caso dell’Europa) e selezionati flussi di merci dalle sanzioni possa avere a che fare con la protezione di un immenso racket: il sistema dei derivati delle merci.
Dopotutto, se questo implode, a causa della scarsità di materie prime, l’intero sistema finanziario occidentale esplode. Questo è un vero errore di sistema.
La questione chiave da digerire per il Sud del mondo è che l'”Occidente” non si sta suicidando. Quello che abbiamo qui, essenzialmente, sono gli Stati Uniti che distruggono volontariamente l’industria tedesca e l’economia europea – stranamente, con la loro connivenza.
Distruggere l’economia europea significa non concedere ulteriori spazi di mercato alla Cina e bloccare gli inevitabili scambi extra che saranno una diretta conseguenza di scambi più stretti tra l’UE e il partenariato economico globale regionale (RCEP), il più grande accordo commerciale del mondo.
Il risultato finale sarà che gli Stati Uniti mangeranno i risparmi europei a pranzo mentre la Cina espanderà la sua classe media a oltre 500 milioni di persone. La Russia se la caverà benissimo, come sottolinea Glazyev: sovrana e autosufficiente.
L’economista americano Michael Hudson ha brevemente abbozzato i lineamenti dell’autoimplosione imperiale. Eppure molto più drammatico, come disastro strategico, è come la parata di sordi, muti e ciechi verso la profonda recessione e la quasi iperinflazione farà a pezzi ciò che resta della coesione sociale dell’Occidente. Missione compiuta.
L’occasione perduta dell’austerity di 50 anni fa (quando era già tutto chiaro). Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.
Cinquant’anni fa Daniele Orfei prese un cappuccino a Messina arrivando con un elefante, mentre a Roma ci si spostava in canoa sul Tevere. Ma quell’inverno del 1973 dovrebbe essere ricordato come una grande occasione persa per cambiare davvero le abitudini.
C’è chi ricorda Daniele Orfei, della mitica famiglia circense, che di passaggio a Messina andò a farsi un cappuccino parcheggiando un elefante davanti a un caffè del centro. Chi «la bella jugoslava Olga Bisera» che in minigonna chiese «un passaggio a una canoa sul Tevere a Castel Sant’Angelo». Chi Silvia Koscina beccata mentre violava il divieto assoluto di uscire in macchina.
Quell’inverno di austerity del 1973 però, al di là degli aneddoti, meriterebbe di essere ricordato come la grande occasione persa dall’Italia per mettersi in testa che quello delle risorse energetiche è un problema serio col quale fare i conti. E fa rabbia vedere oggi Mario Draghi costretto a ricordare a Versailles, nel mezzo dei bombardamenti scatenati da Vladimir Putin in Ucraina, che «non siamo assolutamente in un’economia di guerra, ma dobbiamo comunque prepararci a ri-orientare le nostre fonti di approvvigionamento e ciò significa costruire delle nuove relazioni commerciali». Per tappare i buchi del passato.
Fa rabbia perché, come dimostrano numerose analisi pubblicate già quarantanove anni fa, molti nuvoloni sul nostro futuro erano vistosissimi già allora. E contrastano in modo accecante con una certa leggerezza iniziale mostrata in quei mesi da larga parte degli italiani. Basti ricordare una pagina di Luca Goldoni sul Corriere a fine aprile del ‘74: «Ma c’è stata davvero l’austerità? Ora che l’inverno della crisi è finito, la gente si chiede se, al di là del folklore, tutto non stia continuando come prima. Cinema e ristoranti sono pieni, le targhe alternate non impediscono le autocolonne domenicali, nei supermercati si compra più di prima per accaparrarsi i generi prima che aumentino i prezzi. Secondo i sociologi, il ritorno alla natura delle prime settimane congiunturali è ora risommerso dalla plastica e dal consumismo».
Del resto già il 3 dicembre 1973, il giorno dopo (il giorno dopo!) la prima delle domeniche a piedi decise la settimana prima da Mariano Rumor per far fronte al precipitare della crisi energetica seguita alla guerra dello Yom Kippur, decisione accettata come obbligata dai partiti di governo e dai giornali moderati ma non dalle sinistre («Decisi nuovi gravi rincari dei carburanti e provvedimenti di restrizione dei consumi», aveva titolato l’Unità) i mal di pancia erano già emersi. Mal di pancia inconsapevoli dei guai in arrivo nei decenni successivi.
Basti rileggere un editoriale profetico, ancora sul Corriere, di Alfredo Todisco, da sempre attento ai temi ambientali e autore di un libro stupendo (Animali addio) amatissimo da Indro Montanelli e Antonio Cederna: «Le restrizioni escogitate dal governo per fronteggiare la crisi energetica stanno suscitando una opposizione molto più accesa di quella che finora si manifesta negli altri paesi europei colpiti dall’austerità. (...) Come è potuto accadere che una costruzione colossale, come quella della “società opulenta” sia stata eretta su fondamenta tanto fragili e senza ricambio? Come è stato possibile mettere in movimento una macchina che impegna tutti i nostri sforzi e le nostre speranze, senza prima avere attentamente accertato la continuità dei rifornimenti indispensabili a farla funzionare?» Ed ecco l’affondo: «La ristrettezza delle materie prime si farà sentire sempre di più. (...) La crisi di questi giorni è solo un avvertimento, una piccola “prova generale”, di ciò che domani potrebbe succedere in proporzioni irreparabili».
Parole che potrebbero essere state scritte ieri mattina. E che col senno di poi, davanti ai rincari abnormi denunciati dal ministro Roberto Cingolani come «una colossale truffa» e alla prospettiva di drastici tagli non solo ai prodotti petroliferi ma anche nelle forniture di grano e altri beni assumono un valore perfino più profondo di quanto ebbero allora: se fossero state lette.
Perché questo è il dubbio che viene, a ricostruire la storia di quello shock del 1973: quanta consapevolezza c’era, davvero, su quello che accadeva? Si vide di tutto. Dal capo dello Stato Giovanni Leone che volendo mostrarsi ligio alla legge fece tirar fuori dalle scuderie del Quirinale, per scendere in piazza di Spagna e partecipare all’omaggio all’Immacolata Concezione, una carrozza a cavalli alle foto di vecchi carretti contadini recuperati per fare un picnic sui colli, dalle file di ciclisti che sfidavano in bicicletta autostrade abbandonate a se stesse da dodici milioni e mezzo di automobili a un tripudio di pattini a rotelle, monopattini «a propulsione umana» come si ironizzava allora in attesa di quelli elettrici che falciano i pedoni di oggi, e poi bighe alla Ben Hur e risciò... Il tutto accompagnato, come è stato notato, dalla canzone «Austerity» di Tony Santagata, semifinalista a Canzonissima: «Abbassa la corrente di voltaggio / bisogna risparmiare fino a maggio…»
Per non dire di tutto il contorno sugli accaparramenti di spaghetti e mezze maniche a Milano («ma se la situazione migliorerà per la pasta, c’è chi fa pessimistiche previsioni per lo zucchero e per gli oli vegetali»), sui furti di quattro taxi a Roma forse rubati per una gita fuori porta, sullo spirito imprenditoriale di un bolognese che aveva accantonato in una stanza dell’appartamento un quintale di sale grosso. E via così…
Un impasto irripetibile di iniziale buonumore per la novità e di collera crescente per la scoperta di come l’automobile fosse diventata ormai una schiavitù alla quale era difficile sottrarsi. E a un certo punto, scriverà il grande Edmondo Berselli, «in qualsiasi discorso saltava sempre fuori: eh, c’è la congiuntura. Aldo Moro estrasse dal vocabolario internazionale l’austerity, come se a dirlo in inglese l’effetto fosse meno fastidioso, ma con la conseguenza che sembrava una misura dettata da arcigne potenze straniere, da entità invisibili e cattive. È in quel momento che muoiono le prime illusioni: ci si rende conto che l’economia è effettivamente la “triste scienza”. Ma potevano informarci con più delicatezza, santo cielo, non c’era bisogno di farci sentire tutti colpevoli».
E sullo sfondo, una grande malinconia. Quella descritta ad esempio da Leonardo Vergani sulla prima notte austera di Milano: «Ad una ad una si spengono le luci della città. Già molto prima delle ventuno, quasi tutti i negozi del centro hanno le vetrine buie. Lungo le strade il traffico è rado e frettoloso. Nessuno vuol farsi cogliere lontano da casa dall’ora dell’austerità. (...) Le grandi insegne di piazza del Duomo si smorzano, l’omino del lucido Brill, che chissà da quanti anni si specchia nella scarpa sinistra, svanisce nel nulla, smette di funzionare anche l’orologio elettronico che dà i decimi di secondo. (...) Poco dopo le dieci la Galleria Vittorio Emanuele è vuota. Al centro, una cabina telefonica e una buca delle lettere dovrebbero far pensare a un assurdo angolo di Londra (...) Come hanno fatto questa notte i nottambuli e gli insonni? A giudicare dall’affollamento delle farmacie, si sono smerciate vagonate di pillole tranquillanti...» Il giorno dopo, lunedì, il traffico era un caos...
Gas e benzina, tutti gli errori del “governo dei migliori”. Antonio Mastrapasqua il 15 Marzo 2022 su Nicolaporro.it su Il Giornale.
“In vista dell’inverno sono molto ottimista”. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al rientro dalla missione in Congo e Angola, in compagnia dell’ad di Eni, Claudio Descalzi, dopo aver visitato Algeria e Qatar. Speriamo che l’ottimismo di Di Maio non finisca come con la povertà. Aveva detto che era stata abolita, più di tre anni fa. Credo che si sia sbagliato. Forse memore delle parole del suo presidente del consiglio, Mario Draghi – “sull’energia siamo stati imprudenti” – il nostro ministro degli Esteri ha aggiunto: “Dovevamo diversificare molto prima”. È a quattro anni che M5S e Di Maio sono ininterrottamente al Governo del Paese, con alleati diversi, ma non pare che sia stato fatto nulla se non sostenere l’antagonismo dei No-Triv e dei No-Tap.
Il cambio di passo di Di Maio?
Solo i cretini non cambiano opinione: il nuovo orientamento di Di Maio sulle questioni energetiche speriamo sia un vero cambio di pensiero. Qualche dubbio è lecito averlo ancora, visto che non risulta nessuna azione concreta per sbloccare l’estrazione di gas dai giacimenti del mare Adriatico e del Canale di Sicilia, dove fino al 2000 si estraevano 17 miliardi di metri cubi di gas all’anno, e oggi siamo a meno di un miliardo. I pozzi sono ancora attivi e ricchi di materia prima (si stimano riserve per almeno 130-140 miliardi di metri cubi), ma non vengono utilizzati in ossequio a un ecologismo masochista.
Energia, governo immobile
C’è da dire che in tema di energia, nonostante le parole di Draghi – applaudite dagli stessi protagonisti dell’imprudenza contro cui il premier ha puntato il dito – il Governo non riesce a essere conseguente al pensiero dichiarato. Eppure, l’Esecutivo si chiama così perché deve eseguire le politiche, non solo evocarle. Lo sblocco di sei parchi eolici – pochi giorni fa – è una goccia nel mare anche sul fronte delle energie rinnovabili: varranno meno di mezzo GW. Nel 2021 dalle rinnovabili è stata prodotta energia per meno di un GW, quando l’impegno governativo era quello di almeno 7 GW all’anno. A fronte di una capacità produttiva che le imprese assicurano fino a 20 GW all’anno, se avessero mani libere e autorizzazioni celeri.
Gli errori di Cingolani
C’è molto da fare. Il Governo dovrebbe dimostrare di essere composto dai migliori. Qualche dubbio lo ha suscitato anche il ministro Roberto Cingolani. Si è accorto del rincaro dei carburanti passando davanti a una pompa di benzina. Pensavamo (e speravamo) che il ministro della Transizione ecologica disponesse di informazioni privilegiate. Ma quel che è peggio è che di fronte ai prezzi-boom dice: “Non so il perché?”. Salvo poi aggiungere con l’aria di chi non si fa mettere l’anello al naso: “I rialzi di queste ore sono totalmente ingiustificati. La crescita dei prezzi non è correlata alla realtà dei fatti. Si tratta di una spirale speculativa, sulla quale guadagnano in pochi”. Il ministro ha poi proseguito, rincarando la dose: “Quella che vediamo è una colossale truffa a spese delle imprese e dei cittadini”.
E quindi? Se un ministro della Repubblica “vede” una truffa che si consuma davanti agli occhi – e nelle tasche – dei cittadini dovrebbe avere strumenti per contrastarla oltre che perseguirla. Se non fosse passato davanti a quella pompa di benzina la truffa sarebbe ancora senza nome e senza conseguenze, se non nel portafoglio di chi viaggia e trasporta beni e merci.
C’è una stampa disponibile a tutto, anche a considerare le parole di Cingolani una “durissima presa di posizione”. Ma il Governo non deve prendere posizione, deve governare, adoperandosi soprattutto che non ci siano frodi e truffe, denunciandole per tempo alla magistratura e assumendo atti amministrativi – necessità e urgenza in questo caso ci sono eccome, ma i decreti-legge tanto numerosi per altri momenti non sono ancora arrivati sul tema energetico – capaci di invertire la devianza truffaldina.
La guerra in Ucraina e le emergenze connesse hanno contribuito a svelare – se ce ne fosse stato bisogno – che dopo più di un anno di lavoro il Governo dei migliori ha ancora molto da fare. Anche sul fronte energetico. Il garrulo ottimismo di Di Maio o il corrucciato dispetto di Cingolani non aiutano a dormire sonni tranquilli.
Antonio Mastrapasqua, 15 marzo 2022
Materie prime. La guerra porta a galla problemi strutturali. Anna Prandoni su L'Inkiesta il 14 Marzo 2022.
Sono sempre più speculativi gli andamenti dei prezzi delle materie prime, che stanno mettendo in crisi le aziende e i produttori, ma stanno soprattutto mostrando quanto alcune scelte del passato siano state poco lungimiranti.
Il prezzo delle materie prime e dell’energia continua a fluttuare, e le speculazioni coinvolgono sempre di più il settore del cibo.
Una speculazione sulla fame che nei Paesi più ricchi provoca inflazione e povertà ma anche gravi carestie e rivolte nei Paesi meno sviluppati, con le quotazioni sul mercato future di Chicago che per il grano restano comunque ai massimi per un valore di 11,54 dollari per bushel (27,2 chili) ma su livelli alti si collocano anche le quotazioni di mais (7,54 dollari per bushel) e soia, secondo un’analisi della Coldiretti. A sconvolgere il mercato dei prodotti agricoli è lo stop all’export deciso da importanti Paesi produttori come Ucraina e Ungheria mentre permangono le difficoltà di spedizioni dalla Russia, principale esportatore mondiale. Una situazione che – spiega la Coldiretti – aggrava l’emergenza in Italia, Paese deficitario su molti fronti per quando riguarda il cibo: produciamo appena il 36% del grano tenero che ci serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovigionamento.
Ma il problema non è da imputare all’oggi, e dipende da scelte che nel tempo si sono rivelate problematiche. L’Italia è costretta ad importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti dalle industrie agli agricoltori, costretti dal calo dei compensi negli ultimi anni a ridurre la produzione di mais e di grano.
Con lo scoppio della guerra e la crisi energetica sono aumentati mediamente di almeno 1/3 i costi produzione dell’agricoltura. La presenza nel nostro paese di 5 milioni di italiani in una situazione di indigenza economica, secondo il documento sulla crisi consegnato dal presidente della Coldiretti Ettore Pradini al Ministro per le Politiche Agricole Stefano Patuanelli, ha messo ulteriormente in crisi la filiera.
«La pandemia prima e la guerra poi hanno dimostrato che la globalizzazione spinta ha fallito e servono rimedi immediati e un rilancio degli strumenti europei e nazionali che assicurino la sovranità alimentare come cardine strategico per la sicurezza» afferma Prandini nel chiedere «interventi urgenti e scelte strutturali per rendere l’Europa e l’Italia autosufficienti dal punto di vista degli approvvigionamenti di cibo».
E poi c’è l’aspetto della sostenibilità ambientale, che ha portato a scelte che oggi non sono più così “sostenibili” sul fronte della produzione: per ogni terreno coltivato in biologico facciamo dobbiamo essere disposti a fare i conti con un calo della produzione, spesso non supportato da un equivalente calo del peso ecologico. Almeno in termini relativi: perché se è vero che inquiniamo meno, lo facciamo per produrre meno. Sulla bilancia i conti non tornano comunque. Inoltre, la stessa politica agricola comune (Pac) e il Pnrr prevedono un obiettivo del 10% di terreni incolti per garantire la strategia di biodiversità. Idealmente un’ottima idea, ma di complessa realizzazione quando la prima finalità che abbiamo è il nutrimento.
Alcune possibili soluzioni le spiega lo stesso Prandini, invitando ad investire per aumentare produzione e le rese dei terreni con bacini di accumulo delle acque piovane per combattere la siccità, contrastare seriamente l’invasione della fauna selvatica che sta costringendo in molte zone interne all’abbandono nei terreni e sostenere la ricerca pubblica con l’innovazione tecnologica e le NBT a supporto delle produzioni, della tutela della biodiversità e come strumento in risposta ai cambiamenti climatici.
Da open.online il 12 marzo 2022.
Quello che sta accadendo nelle ultime settimane nel nostro Paese inizia a diventare allarmante. Da una parte i prezzi alle stelle di luce e gas, dall’altra quelli folli dei carburanti.
Aumenti che rischiano di far schizzare in alto anche i prezzi dei beni di prima necessità (senza considerare la protesta ad oltranza dei camionisti che potrebbe scattare lunedì 14 marzo; il condizionale è d’obbligo visto che la commissione di garanzia per lo sciopero ha bocciato la mobilitazione, ndr).
L’allarme, ora, arriva dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani che, a SkyTg24, parla di «un aumento del prezzo dei carburanti ingiustificato, non esiste motivazione tecnica di questi rialzi. La crescita non è correlata alla realtà dei fatti, è una spirale speculativa su cui guadagnano in pochi, una colossale truffa a spese dei cittadini e delle imprese», dice.
Il problema non si ferma, però, solo ai carburanti ma riguarda anche gas e luce: milioni di italiani hanno già ricevuto maxi bollette che non sanno davvero come pagare. «È necessario stabilire il prezzo massimo oltre il quale gli operatori europei non possono andare. È fondamentale. Serve un tetto massimo per il prezzo del gas, un costo appetibile da non affossare il mercato. E, se fisso il prezzo del gas, fisso anche il prezzo per l’energia elettrica», sostiene. Un provvedimento che, però, per essere incisivo, deve partire dall’Ue e non dai singoli Stati.
Sabrina Cottone per il Giornale il 12 marzo 2022.
Pane e carta, cibo e parole. Il rincaro della produzione di due beni così presenti nella nostra vita quotidiana è una delle penitenze che impone la guerra in Ucraina alle case italiane. Nulla in confronto a ciò che patisce la popolazione invasa, alle stragi di bambini, ai civili che continuano a morire, alle lunghe file di profughi costretti a lasciare tutto. Un'ulteriore prova che tutto è collegato e che anche noi siamo chiamati a fare la nostra parte, con un contributo involontario che ci avvicina ai Paesi che soffrono sulla carne il conflitto.
La pace non è solo un desiderio ma anche un'esigenza concreta. Russia e Ucraina sono rispettivamente il primo e il terzo produttore di grano del mondo. Così le quotazioni di grano tenero e mais, che segnano rispettivamente +17% e +23% rispetto alla scorsa settimana, sfondano per la prima volta nella storia in Italia quota 400 euro a tonnellata, secondo i dati del CAI, i Consorzi agrari d'Italia, in base alla rilevazione settimanale della Borsa Merci di Bologna, punto di riferimento per le contrattazioni dei prodotti agricoli.
La maggior parte del pane si fa col grano tenero, che è quindi l'alimento più a rischio rincaro insieme ai biscotti e ad altri prodotti da forno. Il mais è fondamentale soprattutto per il mangime degli animali. Nessun pericolo per la pasta, spiegano dal Cai, perché i prezzi del grano duro sono stabili. «A meno che non ci sia un blocco dell'export da parte dell'Ungheria, non ci sono rischi di approvvigionamento all'interno dell'Unione europea» sintetizzano dai Consorzi agrari.
Ma gli aumenti quelli sì, sembrano in arrivo dove non sono ancora arrivati, non solo per la crescita dei costi delle materie prime (per il prezzo del pane il costo del grano incide al 10%) ma anche per i costi di trasformazione e trasporto, che colpiscono in modo importante anche la carta, dove l'allarme è su tutti i fronti. Da qui le proteste degli editori. «Produrre informazione di qualità e diffonderla sta diventando sempre più difficile e fortemente a rischio» dichiara il presidente della Federazione italiana degli editori, Andrea Riffeser Monti.
Da metà 2021 a oggi il prezzo della carta su cui si stampano i giornali è cresciuto di oltre il 100% e ulteriori aumenti sono in corso. Incidono il costo della materia prima, il grano, sul prezzo finale del pane, poi anche «i costi crescenti dell'energia e le difficoltà che incontrano gli editori nel reperire la carta e le lastre in alluminio per la stampa. «Occorre fare, e presto, due cose: trasferire immediatamente alle imprese le risorse per il sostegno al settore già stanziate e prevedere nuovi e significativi interventi sul mercato della carta e dell'energia».
I Panificatori affrontano la crisi promettendo di fare da calmieri, mentre i sindacati di categoria lanciano appelli a moderare i rincari. Tutto ciò nonostante rispetto alle rilevazioni del 17 febbraio, ultima settimana prima dell'inizio della guerra, il grano tenero abbia subito una impennata del 31,4%, il mais del 41%. L'Italia importa il 64% del grano tenero per il pane e i biscotti, il 44% di grano duro necessario per la pasta, il 47% di mais. Non solo dipendenza energetica, ma anche da cereali.
Dal mais al carbone, così i veti della Ue rendono irrealizzabile l'economia di guerra. Domenico Di Sanzo il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.
Le direttive complicano il cambio di politica sugli approvvigionamenti.
Come si concilierà la nuova «economia di guerra» che l'Europa e l'Italia dovranno adottare in seguito alle sanzioni contro la Russia con la normativa e le indicazioni pervenute dall'Unione Europea in questi anni? È chiaro che per attutire l'impatto delle ritorsioni economiche contro Mosca c'è bisogno di cambiare politiche e i proclami che arrivano in questi giorni dai leader europei vanno a scombinare il quadro, facendo emergere una serie di contraddizioni. Innanzitutto c'è la questione del mais, che l'Italia importa dalla Russia ma anche dall'Ucraina, considerata «il granaio d'Europa», da cui arriva la metà delle importazioni totali verso il nostro Paese. Il premier Mario Draghi dal Consiglio Europeo di Versailles ha indicato la strada: «La risposta è approvvigionarsi altrove: quindi dobbiamo riorientarci verso altri posti, come Canada, Usa, Argentina e altri paesi».
I Capi di Stato e di Governo della Ue in Francia hanno dichiarato che «occorre aumentare la sicurezza alimentare, riducendo la dipendenza dalle importazioni» e che «in particolare, deve salire la produzione di proteine vegetali». Ma su questo punto, per quanto riguarda le importazioni dall'America del Nord e dall'America Latina, spunta una contraddizione con la politica ondivaga dell'Europa sugli Ogm, dato che la stragrande maggioranza del grano che arriva da Stati Uniti Canada e America del Sud è geneticamente modificato e ad oggi in Italia viene utilizzato solo per produrre la gran parte dei mangimi utilizzati negli allevamenti. Sul punto la legislazione europea, ad oggi, rimanda ai paesi membri la facoltà di vietare o di limitare l'uso di determinati Ogm, anche se a cavallo tra gli anni '90 e 2000 in quasi tutta Europa c'è stata una moratoria di fatto sugli organismi geneticamente modificati, provocata dalla chiusura di molti Stati rispetto all'argomento. La selva delle direttive europee emanate negli anni si basa sul cosiddetto «principio di precauzione», ovvero che per la coltivazione e la commercializzazione degli Ogm importati è necessaria un'autorizzazione preventiva e una valutazione del rischio. È ovvio che adesso andranno allargate le maglie della burocrazia. Sempre il premier Mario Draghi nella sua informativa alla Camera del 25 febbraio scorso ha avanzato l'ipotesi di «riaprire le centrali a carbone per compensare il gas russo».
In Italia le centrali a carbone sono sette, a La Spezia in Liguria, Fiume Santo e Portoscuso in Sardegna, Brindisi in Puglia, Torrevaldaliga nel Lazio, Fusina in Veneto e Montefalcone in Friuli Venezia Giulia. Due sono state già riattivate a fine 2021 con l'aumentare della tensione tra Russia e Ucraina e appunto Palazzo Chigi non esclude di rimettere in funzione le altre. Tutto in contrasto con il New European Green Deal presentato a Strasburgo all'Europarlamento a inizio del 2020. Il piano prevede la «neutralità climatica» entro il 2050 e la graduale abolizione del carbone. Tutto da rifare, evidentemente, perché una delle priorità di questa fase è «l'indipendenza energetica» e il carbone potrebbe essere utile a raggiungere questo scopo. Infine un altro cambio di paradigma, non energetico. La decisione di Facebook e Instagram di derogare alle regole sul politicamente corretto e sull'hate speech per quanto riguarda i «discorsi d'odio» contro le azioni della Russia in Ucraina rappresenta una svolta rispetto all'ossessione del gigante social americano sugli insulti sul web. Twitter addirittura ha bannato a vita l'ex presidente Usa Donald Trump per i suoi tweet ruvidi e politicamente scorretti. E ancora l'Europa vieta l'hate speech all'articolo 14 della Cedu, la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Le contraddizioni dell'Europa. Marzio G. Mian il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.
La Norvegia è pronta a fornire il gas necessario alla Ue. Ma tutto è fermo: Bruxelles si è impegnata a rinunciare al consumo di materie prime estratte nell'Artico.
Solo qualche anno fa il sindaco di Kirkenes Rune Rafaelsen pronosticava un futuro di grandi speranze per questa cittadina portuale di 10mila abitanti sul Mare di Barents. «Diventeremo la nuova Rotterdam», diceva. E raccontava che a Pechino ritenevano Kirkenes «la loro porta per l'Occidente».
Si riferiva allo sviluppo della Northern Sea Route, la rotta marittima settentrionale che corre lungo le coste artiche russe, «scorciatoia della globalizzazione», per la Cina un'attrattiva alternativa alla via tradizionale via Suez: tempi di percorrenza e costi quasi dimezzati. E Kirkenes era il terminal naturale occidentale, hub europeo per super-tanker e portacontainer provenienti dall'Asia. S'investiva nel porto, negli impianti di stoccaggio, arrivavano compagnie di logistica, giovani manager da Oslo. La condizione del boom erano le buone relazioni col vicino: la Russia comincia a soli dieci chilometri da Kirkenes. Nato di qua, Putin di là.
Sono bastati pochi giorni di guerra in Ucraina e gli effetti della contraerea delle sanzioni hanno lasciato immediatamente sul terreno 350 posti di lavoro: ha chiuso la Kimek, grande cantiere per la riparazione dei vascelli (al 75% russi), sta chiudendo la Barel, che produce illuminazioni per gli Airbus in uno stabilimento della russa Murmansk, sta smantellando la HSS che offre servizi proprio per la Northern Sea Route. «La scommessa non era tanto sulle merci. Il futuro del traffico marittimo dipende dall'esportazione di Lng (gas liquido naturale) dall'Artico russo in Europa.
Ma ora l'unica esportazione sarà verso Oriente, non basta a coprire i costi», dice Kjell Stoknik, direttore della High North Logistic a Kirkenes. «La Cina, che ha già investito oltre 40 miliardi di dollari negli impianti Lng russi, ora se li comprerà proprio». Questo estremo angolo settentrionale d'Europa, che già era il confine più caldo della Guerra Fredda, si sta trasformando in un vero e proprio fronte, strettamente legato alla guerra d'Ucraina, anche se si trova a quasi 4mila chilometri di distanza. Nel Mare di Barents orientale, nella penisola di Kola e nella regione di Murmansk, la Russia ha concentrato quasi tremila testate nucleari e missili atomici a lungo raggio puntati contro Occidente.
La Nato in questi giorni ha avviato qui le più grandi manovre di tutti i tempi, 30mila uomini e 27 paesi coinvolti. Ma c'è anche il fronte energetico, perché qui è dove l'Europa potrebbe vincere o perdere la battaglia del gas. «Il gas del Mare di Barents per l'Europa è l'unica alternativa a quello russo», dice Kjell Giaever, direttore della società Petro Arctic ad Hammerfest. «Qui abbiamo il 60% delle risorse ancora non sfruttate. Nel 2021 abbiamo esportato nell'Unione europea 115 miliardi di metri cubi di gas con le pipeline, secondo noi se si avviassero nuovi sfruttamenti nell'Artico norvegese, e abbiamo almeno 60 nuovi bacini già esplorati, potremmo in poco tempo triplicare l'export e sostituire interamente quel 40% comprato dalla Russia.
Ma a Bruxelles sono ipocriti e miopi, seguono Greta e non le necessità dei cittadini». Kjell si riferisce al recente documento presentato dall'Ue con cui s' impegna a rinunciare per sempre al consumo di petrolio e gas estratto nell'Artico. «Preferiscono rivolgersi a paesi con scarsi standard di democrazia, come il Qatar o l'Algeria, dove tra l'altro il tributo d'emissioni è enormemente più alto del nostro perché per produrre gas in ambienti caldi richiede l'impiego di molta energia. Oppure addirittura importare dagli Stati Uniti o dall'Australia. Un suicidio».
PSICOSI E SPECULAZIONI.
Luigi Grassia per “La Stampa” il 3 settembre 2022.
1 Che cosa sono i "price cap" sul gas e sul petrolio?
L'espressione inglese "price cap" si traduce come limite o tetto di prezzo, nel caso specifico riferito ai due idrocarburi. La Russia è fra i maggiori produttori di entrambi e sta lucrando sul boom dei prezzi delle due materie prime. L'idea in Occidente è di concordare fra i consumatori un prezzo massimo da pagare ai russi.
2 Perché gli idrocarburi sono molto rincarati nell'ultimo anno?
Si sono sommati due fenomeni. Uno di sfondo: non appena il Covid ha un po' mollato la presa, l'economia globale è ripartita, facendo schizzare all'insù la domanda di gas e petrolio, e questo ha provocato una prima pressione al rialzo sui prezzi. Su questo sfondo è scoppiata la guerra russa in Ucraina.
3 Che effetto ha la guerra in Ucraina sulle forniture e sul prezzo del gas?
I flussi da Mosca non si sono interrotti come conseguenza dei combattimenti, visto che il metano russo continua a raggiungere l'Europa occidentale attraverso l'Ucraina in guerra. Ma la spirale di sanzioni e contro-sanzioni ha avuto, fra altri effetti, quello di spingere Mosca a ridurre le forniture di gas all'Occidente, e così il prezzo si è impennato.
4 Che conseguenze avrebbe il price cap sul gas?
Due ipotesi: Mosca potrebbe subire questa decisione, oppure rifiutarsi di vendere il metano a un prezzo imposto da altri. Di recente ha già mostrato determinazione nel bruciare il gas piuttosto che farlo arrivare in Europa.
5 Come è nata l'idea del price cap sul petrolio?
America e Europa hanno deciso di non importare più dalla Russia, per ridurre l'incasso con cui Mosca finanzia la guerra; nell'impossibilità di spingere il resto del mondo a fare altrettanto, il G7 vorrebbe almeno convincere tutti gli altri (ad esempio l'India) della necessità di limitare il prezzo del greggio russo.
6 Come reagirebbe il resto del mondo a un tetto al prezzo del petrolio?
Secondo Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, «gli esportatori dell'Opec la prenderebbero male»: imporre un prezzo politico avrebbe conseguenze non solo bilaterali, fra Occidente e Russia, ma estese a tutto il mercato mondiale del greggio, deprezzando anche il petrolio dell'Opec, che potrebbe reagire tagliando la produzione per sostenere il prezzo. Un'altra spirale.
Il ruolo fondamentale del Title Transfer Facility olandese. Che cos’è il TTF, il mercato del gas di Amsterdam: come funzionano prezzo, quotazioni, futures. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Settembre 2022.
È schizzato, com’era prevedibile dopo l’annuncio dello stop al Nord Stream, deciso da Gazprom che ha parlato di “problemi tecnici”, il prezzo del gas sul TTF, il mercato di Amsterdam. È salito del 26%, a 272 euro al megawattora. Alla chiusura di venerdì era sui 215 euro al megawattora. E anche in questo caso a risultare decisivo, giocando un ruolo fondamentale, è il Title Transfer Facility olandese, un mercato cui tutti guardano per le contrattazioni del combustibile.
Il TTF di Amsterdam è considerato il punto di riferimento in Europa per monitorare e comprendere il mercato del gas. Il mercato virtuale e indice della Borsa olandese sta per compiere vent’anni, è stato istituito infatti nel 2003 come alternativa al National Balancing Point, il mercato del gas con sede nel Regno Unito, e progressivamente ha sostituito la piattaforma britannica come centro del mercato. Ad Amsterdam trasportatori e acquirenti commerciano forniture di gas dal lunedì al venerdì, dalle 8:00 alle 18:00. I borsini accreditati sono Intercontinental Exchange (Ice) ed European Energy Exchange (Eex).
A contrattare sono produttori nazionali e internazionali, società di stoccaggio, distributori e operatori di rete dell’industria del settore. I nomi italiani sono Eni, Enel, Edison, Hera, Sorgenia, Repower, Estra, Dolomiti Energia e piccoli trader. Le banche poi, come Goldman Sachs, Morgan Stanley, i grandi trader Gunvor, Trafigura, Glencore, Vitol, major come Shell o Danske. Anche se gestisce solo una parte del mercato del gas in Europa, il TTF detta il prezzo in tutto il continente.
Ha acquisito sempre più importanza con la liberalizzazione del settore energetico. Domanda e offerta regolano i prezzi nel mercato olandese in euro per megawattora. L’indice è spesso chiamato “Dutch TTF gas price”. I trader possono concludere accordi per la consegna e il consumo immediati o firmare i cosiddetti “futures”, un accordo legale tra le due parti per la negoziazione – consegna e pagamento – in una data futura, prevedono quindi una consegna più lontana nel tempo.
I prezzi dei “futures”, con la guerra in Ucraina, sono aumentati a dismisura per la paura di un’imminente interruzione dei flussi di gas dalla Russia. Lo scorso 26 agosto questa opzione ha raggiunto il costo record di 339 euro per megawattora. L’anno scorso il prezzo era di 27 euro. Gli annunci di Gazprom e le richieste dei Paesi Europei, che stanno cercando di riempire le proprie riserve prima della stagione invernale, facendo alzare la domanda, stanno contribuendo a gonfiare il prezzo.
Per la minaccia degli stop di Mosca, l’Unione Europea ha tra l’altro adottato un regolamento per cui almeno l’80% delle capacità di stoccaggio sotterraneo nel territorio di ogni Stato deve essere riempito prima dell’inizio dell’inverno 2022/2023, il 90% prima dell’inizio degli inverni degli anni prossimi. L’Olanda pone il veto alla proposta di porre un tetto al prezzo del gas (price cap) che dovrebbe essere valutata entro un paio di settimane. La diminuzione dell’offerta non giustifica infatti un aumento in un anno dei prezzi di circa il 1500%, perciò si parla di speculazioni. L’Euro, in caduta dall’inizio dell’anno, intanto ha toccato stamattina il minimo storico nel cambio con il dollaro USA. È sceso sotto al livello di 0,99.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da iltempo.it il 6 settembre 2022.
Peter Gomez, direttore de ilfattoquotidiano.it, è tra gli ospiti della puntata del 6 settembre de L’Aria che Tira, il talk show mattutino di La7 condotto da Myrta Merlino, nella quale gli viene chiesto conto dei rapporti tra la Lega di Matteo Salvini e la Russia di Vladimir Putin: “L’analisi che fa Salvini su quello che stanno pagando l’Italia e l’Europa per via delle sanzioni è corretta. Ha un torto quando dice che la Russia non ha conseguenze, ne ha meno di quanto fosse previsto.
Previsto da Enrico Letta, da Mario Draghi e da buona parte degli osservatori che sostenevano che con le sanzioni la Russia sarebbe andata a carte quarantotto in poco tempo”.
“A questo punto - va avanti Gomez - le sanzioni l'Europa non le può più togliere, è inutile starne a discutere, perché altrimenti sarebbe una vittoria di Putin e l’Europa tutta insieme non lo farebbe mai.
L'Europa ora può fare quello che era stato chiesto più di sei mesi fa, deve fare acquisti comuni, solo uno va a comprare il gas in tutto il mondo, come coi vaccini. Ciò lo diceva chi diceva che le sanzioni erano eticamente giuste, ma mai nella storia erano servite a piegare un paese, io ero tra questi.
Si è intervenuto sull’onda dell’emotività e non della strategia, Joe Biden compreso. Noi stiamo strapagando il gas di mezzo mondo. Inoltre l’Europa dovrebbe dire ai signori olandesi che ci hanno rotto le pa**e, il vostro cavolo di mercatino, dove agiscono pochissimi operatori, che speculano in quella maniera, per favore ve lo mettete da parte, ora si mettono delle regole. La Germania pure è in ginocchio”.
“Questa storia che il governo non abbia il potere di fare nulla - scandisce Gomez prima di concludere - non è vera. Se viene giù un ponte il governo fa un decreto. Il governo forse non si sente di fare uno sforamento di bilancio, ma ha lì 15 miliardi e deve tirarli fuori subito. Poi il prossimo governo penserà se fare lo sforamento o meno. I numeri sono quelli dati da Salvini”.
Faro Ue sulla Borsa olandese. La recessione spegne il gas. Rodolfo Parietti su Il Giornale il 7 settembre 2022.
Fermare la deriva dei prezzi. A qualsiasi costo. Se è il caso, anche distruggendo i principi fondanti del libero mercato. La Commissione europea mette nel mirino il Title Transfer Facility (Ttf), il mercato virtuale di Amsterdam dove vengono fissate le quotazioni di riferimento del gas naturale. Sono ancora pochi i dettagli trapelati sul documento che sarà venerdì sul tavolo dei ministri dell'Energia, ma l'obiettivo di Bruxelles è chiaro: «Sottoporre il Ttf a supervisione finanziaria» da parte dell'Esma, la Consob europea, allo scopo di «evitare possibile mosse speculative». L'idea di base riguarda lo sviluppo di «ulteriori indici di riferimento» per l'oro blu «complementari» a quello olandese, in modo da «garantire un migliore funzionamento del mercato» e rispettare meglio le differenze tra i Paesi.
Il perimetro d'intervento dovrebbe riguardare soprattutto i contratti future, il versante più esposto alle ondate speculative da quando è scoppiato il conflitto in Ucraina. I timori di una diminuzione o, peggio, di uno stop totale delle forniture sono stati la causa scatenante della lievitazione dei prezzi insieme con la corsa da parte dei singoli Paesi ad accaparrarsi quanto più metano possibile per riempire gli stoccaggi in vista della stagione invernale. Con il diktat con cui Mosca ha di fatto legato la ripresa dei flussi di gas dai tubi del Nord Stream alla rimozione delle sanzioni, ora si va profilando lo scenario peggiore. Così l'Ue punta a calmierare i prezzi agendo sul Ttf, rispondendo implicitamente alla lettera inviata alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e al ministro della Repubblica Ceca, Jozef Síkela, presidente di turno del Consiglio energia, dai settori più energivori - dall'acciaio al metallo, dal vetro alla ceramica, dalla carta al cemento - con cui hanno chiesto misure comunitarie «urgenti» per «limitare il prezzo del gas naturale» e «scollegare i prezzi dell'elettricità dai prezzi del gas».
Risposte comunque tardive rispetto ai cordoni di salvataggio che i singoli governi europei stanno in tutta fretta predisponendo per attenuare l'impatto dello choc energetico e per mettere al sicuro le società elettriche. Dopo la ri-nazionalizzazione del colosso francese Edf e il bail-out della tedesca Uniper con 15 miliardi di euro scuciti da Berlino, in Svezia la premier Magdalena Andersson ha annunciato uno stanziamento di centinaia di miliardi di corone a sostegno dei produttori di elettricità, mentre l'utility finlandese Fortum ha firmato un accordo di finanziamento-ponte con la società di investimento governativa Solidium del valore di 2,35 miliardi. Si muove anche la Svizzera, dove Axpo ha ricevuto da Berna una linea di credito fino a quattro miliardi per soddisfare le proprie esigenze di cassa. Soldi, una montagna di quattrini ovunque, ma soprattutto in Germania. Il governo Scholz pare aver rottamato i propositi di zero deficit dopo essersi impegnato, con un maxi-piano di aiuti da 65 miliardi, a garantire la sopravvivenza del settore energetico. Questo fiume di denaro dovrebbe anche servire a evitare in Europa una recessione severa, uno spettro sempre più palpabile sui mercati. Non a caso, i prezzi del gas hanno ieri chiuso in calo del 2,5%, a quota 239,8 euro al megawattora, con una flessione del 2,5%; e quelli dell'energia hanno perso il 10% in sette giorni. Al tempo stesso, la liquidità che si sta canalizzando verso famiglie e imprese rischia di vanificare la lotta all'inflazione che la Bce sta conducendo a colpi di rialzi dei tassi. Domani la banca guidata da Christine Lagarde dovrebbe dare un'altra stretta dello 0,75% al costo del denaro. Il rischio è di dover presto fronteggiare una depressione economica a braccetto con un'inflazione ancora rampante.
Costi alle stelle? Colpa dell'Olanda. La Borsa è truccata e gioca a favore delle speculazioni. Per Starace, ad dell’Enel, l’indice Ttf non riflette più il reale valore. Quotazioni "drogate" da fattori geopolitici e non dai dati reali. Felice Manti su Il Giornale il 4 Settembre 2022
Nella giornata in cui l'Europa e il G7 suonano lo stesso spartito sul price cap per petrolio e gas, la cosa più sensata la dice l'amministratore delegato di Enel Francesco Starace: «Bisogna mettere un tetto alla volatilità dell'indice Ttf», (il principale mercato virtuale del gas in Europa) che ormai «non riflette più da un bel po'» la tensione tra domanda e offerta ma è diventato «una valvola di sfogo sulla percentuale di rischi geopolitici».
Il prezzo al di sopra del quale gli operatori europei non possono comprare dovrebbe essere fissato intorno ai 90, 100 euro a megawattora. «Ma il prezzo del gas si forma sul mercato - è il ragionamento di un trader che lavora per diversi clienti - prezza un rischio che quel bene possa avere quel valore o che non ce ne sia più». Il problema è che l'indice Ttf era stato scelto perché si pensava che il prezzo dei contratti lunghi con i russi fosse troppo alto e il mercato europeo sarebbe stato più liquido e trasparente. Il prezzo oscilla paurosamente - si è passati dai 20 euro al megawattora di maggio 2021 ai 340 euro di giovedì, ieri era 240 euro. E se la Russia chiuderà davvero i rubinetti il rischio sarebbe molto concreto. «Oggi sul mercato tanti vogliono comprare, come Cina e India, e pochi vogliono vendere, perché il rischio di non avere gas è altissimo. Con tanta domanda e poca offerta il prezzo sale», spiega il trader. L'allarme sui prezzi il Giornale l'aveva lanciato lo scorso ottobre, prima della guerra in Ucraina, quando l'esperto di energia Edoardo Beltrame aveva ipotizzato un possibile lockdown energetico, visto che con un prezzo di 30 euro a settembre c'erano contratti futures a scadenza marzo 2022 oltre i 100 euro.
Poi c'è il tema degli stoccaggi. Il consumo medio di gas quando fa freddo - gennaio, febbraio - è di oltre 400 milioni di metri cubi al giorno. Gli stoccaggi italiani, sempre nei periodi più freddi, potrebbero darne ottimisticamente 150. Senza il gas russo ne mancano 250 milioni. Il prezzo sconta questa incertezza. E in emergenza chi gestisce gli stoccaggi? A quanto ammontano gli stoccaggi «strategici»? Chi decide chi ha gas e chi no?
E le speculazioni? Ci sono: non sul prezzo di mercato ma sui derivati che servono a coprire il rischio. Il ministro della Transizione ecologica Stefano Cingolani, dopo aver pronunciato la parola «truffa» aveva annunciato una task force in Europa per negoziare il tetto anti-speculazione, ma finora non si è visto nulla. «Quando faremo i rigassificatori il prezzo del gas sarà più legato al mercato Usa e a quello cinese, ma il tema è sempre lo stesso. Le navi cariche di gas liquido vanno da chi paga di più». A che prezzo? Secondo Goldman Sachs tra 215-230 euro a 290 euro a megawattora, altro che 100. Colpa della «mancata riapertura di North Stream 1», ufficialmente chiuso per manutenzione, che «riaccenderà l'incertezza del mercato».
Sugli extraprofitti resta lo scontro: il governo di Mario Draghi ha deciso di tassarli del 25% ma dei 20 miliardi che ci si aspettava ne arriveranno due o tre. «Perché alcune società hanno reinvestito i miliardi guadagnati facendo contratti a prezzi stracciati per raccattare clienti in perdita - rivela una fonte vicina a una multi utility del Nord Italia - Così presto o tardi salteranno grossisti, fornitori e reseller. E perché chi vende energia green a 50-60 cent, dieci volte il prezzo dell'anno scorso, è stata esclusa dagli extraprofitti? Perché nessuno se ne occupa?».
La Borsa nera dell'Unione. Durante l'ultima guerra i nostri nonni si procuravano il cibo e i beni di stretta necessità alla borsa nera. Augusto Minzolini su Il Giornale il 3 Settembre 2022
Durante l'ultima guerra i nostri nonni si procuravano il cibo e i beni di stretta necessità alla borsa nera. A prezzi altissimi perché c'era chi speculava sul conflitto e i bisogni delle persone. Sono passati ottanta anni e di fronte ai processi messi in moto dal conflitto russo-ucraino siamo in presenza di una reiterazione di quei comportamenti. Ovviamente i modi sono più raffinati, ad un livello più alto: qui ci sono di mezzo Stati e pezzi di Finanza; non si parla di cibo, ma di gas, di energia. Alla prova dei fatti, però, la sostanza è sempre la stessa: c'è anche in Europa chi specula sulla guerra, cioè utilizza la strategia di Putin di aprire e chiudere i rubinetti del gas per trarne profitto.
Ieri, per esempio, il prezzo del gas sulla borsa di Amsterdam ha avuto un forte ribasso senza alcun motivo apparente. Come pure gli aumenti che nelle ultime settimane hanno messo a dura prova il tessuto produttivo e industriale del nostro Paese, sono stati talmente alti da non avere una base logica. Insomma, c'è chi specula e moltiplica gli effetti della strategia del Cremlino. E duole dire che due Paesi europei hanno guadagnato oltre modo per queste storture del sistema: l'Olanda che è al centro del mercato del gas e la Norvegia che lo estrae nei suoi giacimenti. Due Paesi che sono stati convinti sostenitori dell'appoggio all'Ucraina e delle sanzioni alla Russia. Nel contempo, però, ora stanno osteggiando ogni ipotesi di «tetto» al prezzo del gas.
C'è una contraddizione palese tra questi due atteggiamenti: da una parte Olanda e Norvegia si schierano contro l'aggressione russa insieme alla Nato e all'Alleanza Atlantica; dall'altra - nella guerra dell'energia, cioè sul teatro decisivo dello scontro con il Cremlino - non offrono garanzie sulle forniture del gas agli alleati ma soprattutto non fanno nulla per evitare i rincari in una fase in cui l'esito del conflitto si gioca tutto sulla scommessa di Putin che l'Europa non reggerà alla chiusura dei rubinetti.
A questo proposito una cosa va detta. In questi mesi Orbán è stato più volte criticato - giustamente - per essersi opposto ad una parte delle sanzioni, ma almeno il premier magiaro lo ha fatto a suo dire per garantire il fabbisogno energetico del suo Paese. Olanda e Norvegia, invece, hanno scelto una politica che finisce per speculare e lucrare sulla guerra e che blocca l'Unione sull'unico strumento efficace per contrastare il ricatto russo, cioè il tetto al costo del gas rilanciato proprio ieri dalla von der Leyen. Privilegiano, quindi, le valutazioni economiche a scapito di quelle politiche.
Lo fanno accampando mille scuse, tirando in ballo il libero mercato. Ma di fronte ad una guerra questi discorsi cadono, perché quando il mercato diventa «nero» - e la speculazione non ha inibizioni politiche - non c'entra nulla con la cultura liberale. E, comunque, non si può chiedere a dei Paesi, primo il nostro, di mettere a repentaglio il proprio sistema produttivo sull'altare dei valori dell'Occidente, mentre altri si approcciano a questi temi concentrando l'attenzione sul profitto. Sono contraddizioni che minano l'unità europea e il suo spirito. Il problema non è l'Unione, semmai il contrario: l'Unione deve fare l'Unione, richiamando ai loro doveri non solo Orbán, ma anche Paesi che il politicamente corretto descrive come più «atlantisti», ma che nella cruda realtà si dimostrano solo più cinici.
L’energia e le ombre di troppo (con illustri precedenti). Federico Rampini su Il Corriere della Sera l'1 Settembre 2022.
La vicenda Enron vent’anni fa fu il segnale precursore di una malattia, la finanziarizzazione dell’economia, il prevalere della speculazione sull’economia reale
Ventidue anni fa la California visse un’estate da incubo, angustiata dai blackout elettrici. Quella crisi energetica mise in ginocchio lo Stato più ricco e tecnologicamente avanzato d’America. C’erano all’origine delle cause ambientali e strutturali: siccità e calo della produzione idroelettrica a fronte di un boom di consumi; più una deregulation mal concepita. Poi si scoprì qualcos’altro: «la madre di tutte le speculazioni», alla Borsa dei futures energetici, con a capo la società finanziaria Enron che finì poco dopo nella più grande bancarotta della storia americana (fino a quei tempi). La vicenda Enron fu il segnale precursore di una malattia, la finanziarizzazione dell’economia, il prevalere della speculazione sull’economia reale; premonizione dello schianto sistemico che nel 2008 sarebbe nato dalla crisi dei mutui subprime.
Ma quante neo-Enron stanno succhiando sangue all’economia reale durante l’odierna crisi del gas in Europa? Si moltiplicano gli indizi che il mercato del gas di Amsterdam sia soggetto a manipolazioni che non riflettono l’equilibrio tra domanda e offerta nell’economia reale. Esperti autorevoli descrivono la Borsa Ttf come un casinò. Un esempio è Salvatore Carollo, che sulla rivista Energia.it espone un paradosso. Alla Borsa di Londra del petrolio Brent si muove quotidianamente un volume di transazioni pari a duemila miliardi di dollari e quindi i suoi prezzi riflettono rapporti reali fra produzione e consumo di greggio.
Alla Borsa Ttf di Amsterdam invece le transazioni in media sono di uno o due miliardi al giorno, sottilissime, avulse dalla dinamica della domanda e dell’offerta, suscettibili di essere manipolate dalla speculazione. Quante neo-Enron stanno giocando lì dentro? Tant’è che quelle quotazioni ad Amsterdam reagiscono ad effetti-annuncio (per esempio gli alti e bassi della proposta Draghi sul tetto al prezzo del gas nelle trattative Ue) più ancora che ai cambiamenti quantitativi come lo stop di Gazprom alle forniture «per lavori di manutenzione». Le anticipazioni degli speculatori sugli scenari politici pesano più dei quantitativi che scorrono o smettono di scorrere nei gasdotti.
L’ombra della speculazione aggrava le difficoltà di un’Europa dove la coesione contro Putin mostra crepe preoccupanti. L’Ungheria firma con Mosca nuovi accordi per forniture di gas. Olanda e Norvegia lucrano a loro volta «extra-profitti» sul loro gas naturale. La prima è uno Stato membro dell’Unione europea ma finora manca di solidarietà: ha giacimenti di gas importanti eppure non intende aumentarne la produzione. Da qualche parte c’è sempre un argomento «ambientalista», contro le energie fossili che serve a coprire interessi economici. La Norvegia è uno Stato membro della Nato ma la sua solidarietà atlantica non include il gas. Di recente ne ha rallentato l’export adducendo le stesse ragioni di «manutenzione» che usa Gazprom quando vuole stringere il cappio al collo dell’Europa. In una celebre serie televisiva norvegese di qualche anno fa, Occupy, gli ambientalisti prendono il potere a Oslo e decretano lo stop a tutte le forniture di energie fossili; in quella trama di fanta-politica è un’occupazione militare russa a ripristinare i flussi del gas. Il mondo reale è più cinico e banale. I norvegesi come gli olandesi condannano Putin nei vertici internazionali ma usano la sua guerra per arricchirsi.
Per quante neo-Enron ci siano oggi alla Borsa di Amsterdam, però, prendersela con la speculazione non basta. Proprio come accadde in California nell’estate del 2000, gli squali della finanza sfruttano gli errori dei politici. La California aveva voluto accontentare tutte le constituency: in omaggio all’ideologia neoliberista e ai mercati finanziari aveva liberalizzato il mercato dell’elettricità; ma era una riforma a metà che proteggeva le utenze finali dalle fluttuazioni tariffarie; le utility elettriche erano strette in una morsa fra prezzi all’ingrosso che salivano e tariffe al dettaglio semi-bloccate. In mancanza di rincari gli utenti non erano incentivati al risparmio.
Anche oggi in Europa guardare solo al «casinò olandese» del Ttf non basta. Le riforme dei sistemi tariffari che hanno vincolato le bollette al costo marginale del gas non hanno tenuto conto di novità strutturali. Molto prima della guerra in Ucraina i prezzi dell’energia stavano salendo per effetto della domanda asiatica, trainata dal boom economico cinese. Siamo dentro un ciclo ventennale di inflazione delle materie prime, interrotto da alcuni traumi come la recessione del 2008 e la pandemia del 2020; nonché dalla rivoluzione tecnologica del fracking che per qualche tempo ha consentito all’estrazione di gas e petrolio americano di soddisfare in parte la domanda cinese. I vincoli strutturali sono stati ignorati da un ambientalismo dottrinario e superficiale, che ha voluto illuderci sulla possibilità di una transizione totale e veloce alle rinnovabili. La finanza di Wall Street si è convertita a questo dogmatismo per trasformarlo in un’altra fonte di profitti. Un risultato è stato lo sciopero di investimenti nell’estrazione di gas, anche dove abbonda (dal nostro Adriatico al sottosuolo tedesco); per non parlare degli infiniti progetti di energie rinnovabili bloccati da ostruzioni «paesaggistiche»; o della scomunica al nucleare nonostante che la mortalità provocata dalle centrali (incluse le vittime di Cernobyl e Fukushima) sia la stessa del solare.
Infine prendersela con la speculazione, per esempio tassando gli extra-profitti, è giusto e morale, ma rivela la nostra impotenza. Oggi i grandi attori della rapina energetica non sono più le multinazionali occidentali, bensì aziende di Stato dei Paesi emergenti: dalla Russia all’Arabia, dagli Emirati al Nordafrica, dal Venezuela al Messico.
Le nuove Enron agiscono nel contesto di un gigantesco trasferimento di risorse che va dall’Occidente (ma anche dalla Cina) verso i Paesi emergenti produttori di energie fossili, che non hanno smesso di crederci. Questi ultimi ora dettano le regole: chi vuole il gas a prezzi scontati, deve firmare contratti di fornitura di lungo periodo, decennali e anche più. Cioè deve ripudiare le promesse un po’ frettolose di un mondo senza energie fossili entro poco tempo.
Intanto, ventidue anni dopo, la California è di nuovo alle prese con un’estate difficile: per ora il suo governatore spera di cavarsela con «razionamenti volontari».
Fabio Pavesi per “Verità & Affari” il 2 settembre 2022.
Gli analisti si aspettavano risultati record, ma non certo dell’entità di quelli comunicati ieri da Gazprom. Il gigante russo dell’energia, controllato dal Cremlino ha realizzato profitti netti nei primi 6 mesi del 2022 per la bellezza di 41,75 miliardi di dollari.
Gli osservatori anche quelli più ottimisti si aspettavano utili per almeno 30 miliardi di dollari, ma ancora una volta da quando è iniziata la crisi del gas il colosso russo ha ampiamente superato ogni aspettativa. Gli utili del primo semestre sono i più alti mai realizzati nella sua storia e superano di ben 12 miliardi l’intero monte utili realizzato in tutto il 2021 che si era chiuso con profitti netti per 29 miliardi di dollari.
Verità&Affari aveva già pubblicato nei giorni scorsi le stime degli analisti che proiettavano i profitti per l’intero 2022 oltre i 50 miliardi di dollari. Ma a questo punto ogni stima andrà rivista verso l’alto, dato che già in soli sei mesi il bottino è vicino alla cifra preventivata per l’intero anno.
Certo che la stagione di un vero e proprio tripudio della redditività per il colosso del gas fosse prevedibile, era quasi una certezza, data l’impennata violentissima dei prezzi del gas che soprattutto sembra ormai avviata a una fase non episodica ma strutturale. E l’autunno e l’inverno rischiano di essere ancora più drammatici con i prezzi che secondo Gazprom potrebbero aumentare di un altro 40% rispetto ai già elevatissimi prezzi attuali.
Tanto fieno in cascina per il Cremlino dato che Gazprom intende alzare il dividendo al 50% degli utili con quindi una prospettiva di staccare un assegno per il 2022 di oltre 20 miliardi di dollari solo in cedole, di cui la metà, 10 miliardi di dollari, finiranno direttamente nelle tasche del Cremlino per la quota parte che possiede del capitale della società del gas.
E così quella che doveva essere la fine di Gazprom piegata dalle sanzioni occidentali si è trasformata in un colossale boomerang. L’Europa è in ginocchio per i continui tagli delle forniture, a partire da Nord Stream, con effetti nefasti sulle bollette e sui futuri inevitabili razionamenti. Il gigante russo, vero forziere finanziario di Putin non è mai stato così in salute, grondante di utili come mai visti.
Basti pensare che mediamente i profitti di Gazprom pre-crisi e pre-conflitto ucraino si aggiravano nell’intorno dei 10-20 miliardi di dollari negli anni migliori. Con cadute fino a soli 2 miliardi nel 2020 l’anno della pandemia. Ora in solo un anno e mezzo Gazprom ha già portato a casa tra il 2021 e il primo semestre del 2022 la bellezza di oltre 70 miliardi di profitti, destinati a sfondare quota 100 miliardi a fine del biennio 2021-2022.
E chi pensava che limitando l’export di gas verso l’Europa, la Russia avrebbe fatto crac, dovrebbe ricredersi profondamente. Un vero e proprio cortocircuito ha di fatto favorito la Russia e indebolito pesantemente l’Europa intera. Vero che i flussi in volume sono fortemente diminuiti con Gazprom che ha visto calare il suo Export verso il Vecchio Continente del 32%.
Ma il folle incremento del prezzo unitario del gas ha più che compensato i minori volumi di esportazione. Non solo ma la Russia ha spostato il suo asse di forniture di gas verso Cina e India recuperando parte dei volumi persi con l’Occidente. E ora Miller il Ceo di Gazprom può rimpinguare le casse del Cremlino con la ricca cedola che solo per il semestre appena passato vorrà dire 10 miliardi di dollari di incasso per le finanze di Putin. Se non è un vero e proprio boomerang questo.
Il caso dei 17 terawattora di energia di Stato (da fonti rinnovabili) inutilizzati per colpa della burocrazia. Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.
Diciassette terawattora di energia da fonti rinnovabili fermi, inutilizzati. Un cuscinetto di emergenza comprato dallo Stato in questi mesi proprio perché qualcuno, al governo, immaginava si sarebbe arrivati sin qui. Con le aziende affamate di energia ma travolte dai prezzi impazziti del gas: con gli impianti a scartamento ridotto perché produrre non conviene più essendo completamente saltati i margini di guadagno. Diciassette terawattora, un quarto del fabbisogno industriale dell’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, acquistati sul mercato domestico dal Gse, il gestore dei servizi energetici controllato dal ministero del Tesoro, al prezzo di 124 euro a megawattora, un valore molto più contenuto se consideriamo i livelli attuali dell’energia ad oltre 500 euro.
Un «tesoretto» che già a fine aprile il governo immaginava di voler attingere per rivenderlo al prezzo di costo alle utenze energivore per evitarne i fermi di produzione, tanto da averlo scritto all’articolo 16bis del decreto Aiuti. Eccolo: «Al fine di garantire la piena remunerazione degli investimenti in fonti rinnovabili nel mercato elettrico, nonché di trasferire ai consumatori partecipanti al mercato elettrico i benefici conseguenti, il GSE offre un servizio di ritiro e di acquisto di energia elettrica da fonti rinnovabili prodotta da impianti stabiliti nel territorio nazionale, mediante la stipulazione di contratti di lungo termine di durata pari ad almeno tre anni».
Un assist lungimirante alla grande industria sprecato dalla burocrazia o, peggio, dalla dimenticanza.
Resta pendente un decreto attuativo per stabilire le priorità di accesso a questa energia di Stato e immaginiamo che non siano infrequenti le divergenze di vedute a chi assegnare la patente di azienda non interrompibile.
Confindustria proprio in questi giorni sta realizzando un sondaggio interno tra gli associati per definire quali sono i settori (e gli impianti) strategici a cui destinare una corsia preferenziale e a quali ridurre volontariamente la domanda di gas perché maggiormente sacrificabili.
Ma è chiaro che rallentare i cicli produttivi, anche a chi accetta di farlo, comporta perdita di competitività e di quote di mercato, e l’accesso agli ammortizzatori sociali per i dipendenti.
L’incubo dei razionamenti, con il blocco totale delle forniture di gas da Mosca, sta comportando una serie di analisi sui codici Ateco sulla falsariga di quello che avvenne nel periodo più duro della pandemia, mentre la Germania sta già attingendo alla fiscalità generale con un meccanismo di aste incentivanti per chi accetta di fermarsi. In alternativa lo Stato potrebbe percorrere anche una via alternativa ove ritenesse prioritario tutelare la domanda delle utenze residenziali. Potrebbe dare mandato al Gse di vendere questa energia in eccedenza al prezzo attuale per finanziare acquisti di gas compensando così gli oltre 4 miliardi già spesi erogati dal Tesoro. In ogni caso sarebbe un’operazione di finanza pubblica a saldi invariati. Respiro per le casse dello Stato sotto stress per il caro bollette tra gli oneri di sistema azzerati e i crediti d’imposta alle imprese sempre più pesanti per l’erario.
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Gas, Alessandro Sallusti: Putin non è la causa di questa crisi, ci siamo fregati da soli. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 30 agosto 2022
Il problema è assai più complesso ma ieri un amico imprenditore mi ha raccontato demoralizzato che la sua grossa azienda produce, grazie agli investimenti fatti in passato sui pannelli solari, un discreto surplus di energia rispetto alle sue necessità, surplus che per contratto finisce al gestore il quale lo vende sul mercato agli astronomici prezzi di oggi quando lui lo darebbe volentieri, se solo gli fosse concesso, ai suoi colleghi in difficoltà, anche gratis. Ecco, non è che il mio amico imprenditore può risolvere lui il problema ma resta un mistero perché non possa dare il suo contributo, piccolo o grande che sia, perché qualcuno debba speculare sulla sua lungimiranza e generosità.
Burocrazia, cinismo, avidità, semplice stupidità? Questo dell'energia che manca è un mistero che neppure la guerra in Ucraina e le pazzie di Putin bastano a spiegare. Che qualche cosa non torna se n'è accorto anche Elon Musk, magnate visionario inventore dell'auto elettrica su grande scala. «Il mondo deve continuare a estrarre petrolio e gas per sostenere la civiltà, sviluppando al contempo le fonti di energia sostenibili», ha detto ieri spiazzando i fanatici del green contrari a qualsiasi fonte energetica tradizionale, di fatto tutta la sinistra mondiale. «Realisticamente - ha aggiunto Musk - penso che dobbiamo usare petrolio e gas a breve termine, perché altrimenti la civiltà crollerà». Ecco, realisticamente penso che a crisi eccezionali si debba rispondere con provvedimenti altrettanto straordinari, altro che manfrine su dove ancorare le navi con i rigassificatori.
Certo, le sanzioni a Putin creano problemi, ma vogliamo parlare dei problemi che ancora ci creano la guerra di Abissinia e poi quella di Etiopia, anni Trenta del secolo scorso, per le quali oggi paghiamo tasse sulla benzina? Già le tasse, la Spagna ha detassato ai minimi termini le bollette e gli spagnoli respirano, Francia e Germania hanno riavviato centrali a carbone e qualche cosa fanno, la Croazia perfora l'Adriatico come un gruviera e il gas se lo prende da sola. Insomma, Draghi o non Draghi, qualcuno ci spiega perché noi non stiamo facendo nulla di serio? E perché il mio amico non può fare ciò che vuole dell'energia che produce alla faccia di Putin? Putin non è la causa, è l'effetto della nostra crisi e delle nostre debolezze.
Gas, tetto al prezzo: come funziona e quali sono i rischi della misura. Libero Quotidiano il 30 agosto 2022
La crisi energetica tiene banco e spaventa l'Italia come l'Europa intera. E nel momento in cui il prezzo del gas al megawatt per ora è schizzato ben oltre i 300 euro, ecco che anche la Germania ha aperto al tetto al prezzo della materia prima, da introdurre in tutti i paesi membri dell'Unione europea. Come immediata conseguenza, il prezzo del gas è calato sotto i 260 euro/Mwh al Ttf di Amsterdam. Insomma, è bastato parlarne per frenare il rally. Una circostanza, che fatte le debite proporzioni, ricorda un poco quelle del celeberrimo "whataver it takes" di draghiana memoria.
Ma che cosa si intende e come funzionerà il tetto del gas? L'idea di Bruxelles è quella di introdurre un limite di prezzo oltre il quale i paesi membri non saranno più disposti ad acquistare gas naturale. E se la Ue riuscisse a muoversi in modo compatto sul punto, i fornitori dovrebbero fronteggiare un "acquirente unico" per quasi 600 miliardi di metri cubi all'anno.
Nel dettaglio, per quel che concerne l'esatto funzionamento della misura, nel giugno scorso si era ipotizzato un tetto solo nei confronti della Russia, esentando gli altri principali fornitori (Algeria, Usa, Norvegia, Azerbaijan), ma così si sarebbe trattato più che altro di una forma di embargo mascherato.
Affinché la misura funzioni sul lungo periodo, ricorda Repubblica, il tetto deve infatti essere rivolto a tutti i paesi fornitori, trovando meccanismi di compensazione e specificando in modo chiaro il fatto che si tratta di un provvedimento la cui natura è straordinaria.
Giuseppe Liturri per “La Verità” il 31 agosto 2022.
Milioni di famiglie e imprese del nostro Paese sentono parlare da almeno sei mesi di tetto al prezzo del gas e di iniziative in sede europea per mitigare gli effetti dei repentini aumenti degli ultimi mesi.
Le fatture continuano ad arrivare con importi moltiplicati da 5 a 10 volte rispetto al 2021, ma da Bruxelles nessuna buona nuova. L'ultimo segno di vita risale al Consiglio europeo del 23-24 giugno scorso, nelle cui conclusioni si leggeva che «di fronte all'uso del gas come arma da parte della Russia, il Consiglio europeo invita la Commissione a proseguire con urgenza gli sforzi volti ad assicurare l'approvvigionamento energetico a prezzi accessibili».
Se c'era urgenza allora - quando il gas quotava al mercato olandese Ttf intorno a 140 euro/MWh - figuriamoci in questi giorni, con la quotazione più che raddoppiata. L'unico evento degno di nota è la convocazione di un Consiglio «Energia» straordinario per il prossimo 9 settembre, che ha richiesto non poche trattative preliminari e che discuterà di un tetto al prezzo del gas tutto da definirsi nei suoi dettagli tecnici. Ma la Ue è paralizzata per motivi molto chiari.
Basta guardare i dati della bilancia commerciale per comprendere come l'Olanda stia realizzando incassi di entità straordinaria grazie a un mercato fuori controllo e stia facendo di tutto affinché la tavola resti imbandita il più a lungo possibile. È olandese uno dei giacimenti di gas più grandi d'Europa e, soprattutto, anche grazie al fatto che il mercato Ttf - di cui viene contestata la scarsa liquidità e i pochi contratti che concorrono a determinare le quotazioni - è gestito proprio dagli olandesi, dall'Olanda transitano significativi volumi di import/export.
Allora si comprende appieno la strenua opposizione di Amsterdam a ogni intervento calmieratore del mercato. All'interno della Ue, le vendite di uno Stato sono gli acquisti di un altro Stato e, in questi mesi, decine di miliardi in più stanno fluendo copiosi verso l'Olanda.
La bilancia commerciale dell'Olanda verso gli altri Stati membri nel primo semestre 2022 mostra un aumento dell'avanzo da 104 a 151 miliardi, rispetto al primo semestre 2021. I combustibili fossili (petrolio, gas, carbone) spiegano esattamente la metà di quella crescita di 47 miliardi.
La Russia, nello stesso periodo, quasi quadruplica l'avanzo commerciale (66 miliardi in più, da 24,6 a 90,6 miliardi) e 42 di quei 66 miliardi sono tutti attribuibili a gas e affini.
Come si vede, numeri che corrono in parallelo, seppure su una scala dimensionale diversa. Aver mostrato a Putin il fianco scoperto dell'assenza nel breve termine di alternative stabili di approvvigionamento di gas, gli ha consentito di manovrare i volumi venduti e innescare così i massicci rialzi degli ultimi mesi.
È doveroso puntualizzare che qui non stiamo accusando nessuno di manovre speculative e di altri scenari da fantafinanza. Stiamo semplicemente cercando di spiegare che l'azione riformatrice di un mercato che si ritiene stia generando prezzi fuori controllo è bloccata per i legittimi interessi di un suo partecipante, che qui illustriamo nei dettagli. Mutuando la famosa frase di Bill Clinton: «È il mercato, stupido!».
«Olanda e Norvegia devono metterci i soldi», auspicava ieri il direttore Maurizio Belpietro. Si tratta di molti soldi di fronte ai quali, ancora una volta, la Ue si rivela mera proiezione dei rapporti di forza intergovernativi, anziché luogo di composizione dei rispettivi interessi in nome di una mitologica solidarietà intraeuropea. Vince chi tiene il banco e, in questo gioco, il banco è ad Amsterdam, con l'aggravante che, oltre a dare le carte, è pure un giocatore.
È ipotizzabile che la posizione olandese sia stata finora spalleggiata dalla Germania, spaventata dal fatto che un eventuale intervento sul mercato (tetto e simili) provochi la definitiva interruzione dei flussi dalla Russia, oltre a tensioni con gli altri fornitori. Ci si preoccupa tanto della reazione della Russia a un eventuale tetto del gas, ma noi abbiamo una piccola Russia in casa come testimonia l'impressionante andamento speculare degli avanzi commerciali verso la Ue di entrambi gli Stati. La conseguenza è che tutto è fermo da sei mesi e i prezzi corrono.
Il miglioramento del saldo della bilancia commerciale olandese dei prodotti energetici verso il resto della Ue è quasi tutto attribuibile all'aumento dell'export di quei prodotti che - nei primi cinque mesi del 2022, rispetto al corrispondente periodo del 2021 - è stato pari al 128%, da 20 a 45 miliardi. Nei mesi in cui tutti gli altri 26 Paesi vedevano peggiorare la loro bilancia commerciale intra Ue, l'Olanda faceva il botto verso i partner dell'Unione. Una performance che assume ancora maggiore rilevanza se si considera che, nel primo semestre 2022, i volumi complessivi esportati sono diminuiti del 20%. Poco male, di fronte a prezzi all'incirca decuplicati.
Ora è anche possibile leggere sotto una luce diversa l'incredibile ritardo del governo dell'Aja nella presentazione del Recovery plan nazionale, avvenuta solo l'8 luglio scorso e ora in valutazione da parte della Commissione.
Pur nel comprensibile ritardo dovuto alla prolungata assenza di un governo nei pieni poteri, cosa sono 4,7 miliardi di sussidi di fronte a decine di miliardi di maggiori vendite con i connessi introiti fiscali? «Segui il denaro» (follow the money) era il metodo di Giovanni Falcone. In questo caso le tracce appaiono evidenti e conducono al legittimo interesse degli olandesi di difendere il loro mercato che, da sei mesi, nessuno riesce a riformare.
Luigi Grassia per “La Stampa” il 30 Agosto 2022.
Un babau, se non proprio uno spettro, si aggira per l'Europa, ed è la Borsa del gas di Amsterdam, dove si crea il prezzo folle del metano che scatena l'inflazione, minaccia la recessione e ci fa rischiare un inverno al freddo. Il mercato olandese Ttf viene accusato di ingigantire il problema lasciando libera la speculazione, e il governo dei Paesi Bassi è biasimato nel resto d'Europa perché cavalca l'onda e boicotta l'idea di un tetto al prezzo del gas.
C'è qualcosa che effettivamente non funziona alla Borsa Ttf di Amsterdam, o si tratta solo di libero mercato? Giovanni Battista Zorzoli, presidente dell'Associazione italiana degli economisti dell'energia, è molto critico: «Ad Amsterdam è stata attribuita la funzione di mercato di riferimento del metano in tutta Europa, ma in realtà ne tratta solo una minima parte.
Il Ttf non è neanche una vera Borsa di gas, è solo una Borsa di "futures", cioè di titoli finanziari sul gas, e per di più con volumi sottili, da uno a tre miliardi di euro al giorno, pochissimi per il mercato dell'energia. Quindi il Ttf subisce oscillazioni violente in su e in giù.
È manipolato da un pugno di operatori, e io ho il sospetto (solo il sospetto, ma c'è una logica dietro) che qualcuno di questi operatori agisca per conto di Putin. Sarebbe un ottimo modo per fare la guerra economica all'Europa. E il governo olandese non fa nulla per impedirlo, perché più il prezzo del metano sale, più la bilancia dei pagamenti dei Paesi Bassi ne beneficia, essendo grandi produttori di gas».
Carlo Stagnaro, direttore delle ricerche dell'Istituto Bruno Leoni, sottolinea che se il Ttf è un mostro non si è creato da sé: «La gran parte del metano viene comprata e venduta tramite contratti a lungo termine, da 10 a 30 anni, in cui il prezzo era parametrato a quello del petrolio.
Quando il petrolio costava tanto e il gas poco, l'Unione europea ha sollecitato gli operatori a sostituire il legame col petrolio con quello del prezzo del metano a Amsterdam, che fra le Borse europee del gas, pur essendo piccola, era la maggiore. Ed è per questo motivo che adesso il boom del prezzo al Ttf pesa così tanto in tutta Europa: non dipende dai volumi scambiati a Amsterdam, che sono modestissimi, ma dal riverbero che si ha sui prezzi dei contratti a lungo termine».
Fra le critiche avanzate in questi giorni al Ttf c'è anche la mancanza di meccanismi di sospensione delle contrattazioni per eccesso di rialzo o di ribasso. Ma su questo Stagnaro dissente: «Nel mercato azionario si può sospendere la negoziazione di un titolo, ma per una materia prima indispensabile come il gas questo non si può fare, servono contrattazioni ininterrotte».
Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, dice che «quando manca all'improvviso il 40% del metano necessario non c'è soluzione. Con senno di poi, affidare al mercato di Amsterdam un ruolo così importante è stato un errore, ma a suo tempo sembrava sensato. Però mi auguro che gli altri Paesi europei se la leghino al dito, e che in futuro la facciano pagare ai Paesi Bassi e alla Norvegia, per la maniera vergognosa in cui hanno approfittato di questa crisi per moltiplicare per dieci i loro incassi, senza badare a nient' altro».
(ANSA il 29 agosto 2022) - Il ministro dell'Economia tedesco, Robert Habeck, propone di affrontare il problema dei prezzi 'impazziti' dell'energia elettrica sganciando il costo dell'elettricità da quello del gas, così da impedire che l'energia generata dai produttori che sostengono costi più bassi - come quelli solari o idroelettrici - venga pagata allo stesso prezzo di quella generata con il gas.
"Il fatto che il prezzo più alto fissi sempre il prezzo per tutte le altre forme di energia potrebbe essere cambiato", ha detto Habeck intervistato da Bloomberg. "Stiamo lavorando duramente per trovare un nuovo modello di mercato. Abbiamo bisogno di mercati che funzionino e, allo stesso tempo, abbiamo bisogno di fissare regole affinché le posizioni nel mercato non siano abusate".
Il governo tedesco sta inoltre preparando un terzo pacchetto di misure di sostegno a imprese e famiglie, che si aggiungono ai 30 miliardi già stanziati, "perché ne abbiamo urgente bisogno", ha detto Habeck, come pure una tassa sugli extraprofitti delle aziende energetiche: "Penso che gli extraprofitti, profitti che le aziende non si sarebbero mai sognate di fare, possano essere tassati un po' di più ed essere restituiti alle persone".
Marco Bresolin per “La Stampa” il 29 agosto 2022.
Mentre a Bruxelles riprende il lavoro dei tecnici per studiare le soluzioni in grado di raffreddare i prezzi dell'energia, si intensificano i contatti tra le capitali al massimo livello politico, segno che nelle prossime settimane potrebbero vedersi risultati concreti.
Il cancelliere austriaco Karl Nehammer, dopo aver parlato con l'omologo tedesco Olaf Scholz e con il premier ceco Petr Fiala, ieri sera ha riunito gli esperti e ha mandato un messaggio chiaro ai partner Ue: «Dobbiamo fermare questa follia e ciò può avvenire soltanto attraverso una soluzione europea». La strada indicata da Nehammer è quella che sta raccogliendo sempre più consensi: «Bisogna slegare il prezzo dell'elettricità da quello del gas».
La posizione austriaca è indice del fatto che anche i governi sin qui meno interventisti ora si sono convinti della necessità di mettere mano al mercato energetico. Pure la Germania, del resto, ora sembra aperta al cosiddetto "decoupling", a suo tempo sostenuto da Italia, Grecia, Francia e Belgio.
«Sono stato tra i primi a dire che non è possibile continuare a lottare contro l'aumento dei prezzi con la riduzione delle imposte, serve un blocco», ha ribadito il premier belga Alexander De Croo, alleato di Draghi nella battaglia per fissare un tetto al prezzo del gas.
Già oggi la situazione è drammatica, ma il timore è che senza un intervento i prezzi possano andare fuori controllo. E dalla Russia c'è chi soffia sul fuoco. Dmitry Medvedev ha lanciato un nuovo messaggio ai leader Ue via Telegram: «In relazione all'aumento dei prezzi del gas a 3.500 euro per mille metri cubi (somma sfiorata nei giorni scorsi, ndr), sono costretto a rivedere al rialzo le previsioni sui prezzi a 5.000 euro entro la fine del 2022. Caldi saluti».
Ma c'è un altro fronte su cui si stanno muovendo i leader europei e che riguarda da vicino l'Italia: domani lo spagnolo Pedro Sanchez incontrerà Olaf Scholz per discutere del progetto del gasdotto MidCat, che dovrebbe portare il gas nell'Europa Centrale. La Francia continua a opporsi e Sanchez ha detto che in caso di un nuovo stop porterà avanti il «piano B», che prevede la costruzione di un gasdotto lungo 700 chilometri che collegherà Barcellona a Livorno. Servirebbe per far arrivare in Italia il gas liquido che sbarca sulle coste atlantiche e poi viene rigassificato in Spagna.
Gas, il tetto al prezzo si decide tra 14 giorni: strada in salita (anche per lo "strano caso" Olanda).
TGCOM24 il 28 agosto 2022.
Mentre la crisi energetica sta mettendo in ginocchio diversi Paesi, tra cui l'Italia, la speculazione in atto ha raddoppiato il surplus commerciale per i Paesi Bassi
L'Europa è ancora lontana dal trovare una quadra sull'introduzione o meno di un tetto sul prezzo del gas.
Nei prossimi giorni è prevista una riunione tecnica, ma una decisione potrà essere presa solo nel prossimo vertice dei ministri dell'Energia. L'esito del summit dipenderà dalla capacità dei rappresentanti europei di trovare un compromesso politico tra quei Paesi - tra cui l'Italia - che vorrebbero imporre un tetto al prezzo del gas e quelli che invece preferirebbero non interferire con il mercato. Non sarà facile, soprattutto a causa dei veti imposti da alcuni Paesi, come l'Olanda, che sta traendo benefici dalla crisi in atto.
Gas via mare, le strade per fare a meno della Russia
C'è gas che arriva da tutto il mondo, tranne che dalla Russia, sulle navi metaniere che attraccano ogni settimana al terminale gasiero di Adriatic Lng, 15 km al largo della costa veneta, a Porto Viro (Rovigo). E'il rigassificatore più grande dei tre esistenti in Italia - gli altri sono a Panigaglia (La Spezia) e a Livorno - il primo al mondo realizzato off-shore. Diventerà il nostro caposaldo quando il Governo, d'intesa con i partner dell'Ue, deciderà di chiudere definitivamente il rubinetto al gas di Mosca. Col rigassificatore in Adriatico, una struttura in cemento armato lunga 180 metri, larga 88 e alta 47 metri, (oltre che dagli altri due impianti nazionali) si garantirà il riscaldamento agli italiani il prossimo inverno. Quello di Porto Viro, entrato in funzione nel 2009, è l'unico impianto italiano a poter accettare le metaniere cosiddette 'super large scale vessels' con capacità sino a 217mila metri cubi liquidi. Mas come funziona il rigassificatore? Il combustibile fossile arriva infatti sulle navi allo stato liquido, compresso a -160 gradi. Viene riportato allo stato gassoso - e a quel punto avviato verso la rete di distribuzione - sfruttando la differenza di temperatura data dall'acqua di mare. Intanto davanti alla costa veneta le navi vanno e vengono senza sosta. Dall'inizio del 2022 sono già 18 le metaniere giunte al terminale, per un totale di oltre 1,5 mld di metri cubi di gas. Nel 2020 erano state 76, 81 nel 2021. Il metano liquefetto arriva qui da 9 Paesi: prevalentemente dal Qatar, ma anche da Egitto, Trinidad e Tobago, Guinea Equatoriale, Norvegia, Nigeria, USA, Angola.
Proprio in Olanda, ad Amsterdam, si trova infatti il centro della speculazione che ha portato in sei mesi - ovvero dall'inizio del conflitto in Ucraina - a far lievitare i prezzi del gas, cresciuti rispetto all'anno scorso di oltre il 1000%. Nella capitale olandese si trova infatti la borsa energetica, un hub virtuale che, pur trattando una quantità tutto sommato ridotta di scambi, è punto di riferimento a livello europeo per fissare i prezzi dei nuovi contratti.
Secondo la quasi totalità degli osservatori, l'ultima quotazione - intorno ai 340 euro al megawattora - non ha riscontri sul mercato reale: l'offerta non è così scarsa da giustificare l'impennata e si moltiplicano le voci di chi chiede di porre un freno alla speculazione, messa in pratica da fondi internazionali con contratti futures e derivati.
Così mentre Italia, Germania e Spagna subiscono gli effetti del caro-metano sule loro bilancia commerciale, a causa dei rincari nei costi d'importazione, per l'Olanda il surplus commerciale è letteralmente raddoppiato. Si è venuta a creare quindi una situazione di netto vantaggio a cui il Paese non vuole rinunciare e il veto in sede europea ne è la diretta conseguenza.
I profitti sul gas lievitano ma la tassa sugli extra è elusa. Verdi e sinistra vanno in procura. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 24 agosto 2022
La crisi energetica impoverisce tanti ma gonfia i profitti delle aziende energetiche. La tassa sui profitti record c’è, ma resta ancora da pagare. Verdi e SI ne fanno una battaglia politica e presentano oggi un esposto alla procura di Roma. Il resto d’Europa ci osserva. Intanto le esportazioni sono da record come i profitti
«Quello che non è tollerabile è che in questa situazione, con la gran parte delle famiglie e del sistema produttivo in difficoltà, ci sia un settore che elude un provvedimento del governo». Il primo grande j’accuse era arrivato dallo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi, durante la conferenza stampa del 4 agosto. La tassa sugli extraprofitti coniata dal suo governo avrebbe dovuto portare già entro fine giugno dieci miliardi di euro dalle aziende energetiche alle casse dello stato, eppure stando alle cifre esposte dal governo stesso soltanto uno di quei miliardi è effettivamente arrivato.
Oggi Verdi e Sinistra italiana presentano in procura un esposto, che porta in calce la richiesta «di aprire un’indagine e verificare se siano stati commessi reati di evasione e frode fiscale». Intanto l’eurodeputata verde Eleonora Evi, che firma l’esposto assieme al compagno di partito Angelo Bonelli e a Nicola Fratoianni di SI, solleva anche il caso delle esportazioni da record che le aziende italiane hanno portato avanti proprio nei mesi nei quali l’Ue ci raccomandava di riempire le riserve. In piena crisi del gas, con i prezzi lievitati e la Russia che ha tagliato le forniture, mentre tante famiglie si preparano a dover tagliare i consumi, una delle operazioni più difficili da mettere a segno pare essere intaccare i profitti di pochi.
I SOLDI CHE NON ARRIVANO
Secondo i calcoli del governo, tra ottobre del 2021 e marzo del 2022 le società energetiche hanno realizzato 40 miliardi di extraprofitti. L’esposto di Verdi e SI fa riferimento anche ai bilanci delle società, e riporta che nell’ultimo trimestre del 2021 gli utili di Eni si sono impennati del 3870 per cento (cioè due miliardi di euro) rispetto al periodo precedente; «sempre Eni nel primo trimestre del 2022 ha conseguito un utile del + 670 per cento, per 7 miliardi di euro».
A marzo è stata approvata una tassa del 25 per cento sugli utili extra. «Una cifra che già in partenza era ridicola», commenta l’eurodeputata Evi: «Fosse per Verdi e sinistra, gli extraprofitti andrebbero restituiti per intero». Inoltre la tassa del 25 per cento non ha avuto vita facile: sono piovute accuse di incostituzionalità e contenziosi, come hanno rivelato quest’estate i tecnici del ministero dell’Economia. Intanto il 30 giugno, che era la prima data-soglia per i versamenti allo Stato da parte delle aziende, è arrivato solo uno dei dieci miliardi attesi per quella data. Fine giugno era la data per corrispondere la prima tranche: un acconto che corrisponde al 40 per cento della cifra totale da versare, che va saldata entro fine novembre 2022.
«È mia intenzione che paghino tutto, e non escludo che se dovessimo restare senza risposta dalle grandi società elettriche il governo possa prendere altri provvedimenti», aveva detto Draghi il 4 agosto, quando si era trovato con nove miliardi in meno in cassa e sotto il tiro dei contenziosi delle aziende. Sempre a inizio agosto, il governo ha inserito una norma ad hoc per accelerare la raccolta della imposta sugli extra profitti. «Cosa aspettano ancora le aziende? Forse le elezioni», commenta Evi. L’esposto in procura serve a «riportare il dibattito elettorale su temi come questi, perché di extraprofitti quasi nessuno parla».
PROFITTI ED ESPORTAZIONI
Mentre in Italia la tassa sugli extraprofitti viene di fatto boicottata, nel resto d’Europa nella società civile c’è chi la agogna. In Germania, con i protocolli di allerta attualmente in vigore nel paese, le aziende possono ora introdurre un supplemento ai prezzi che ricade in bolletta sui consumatori; il che scatena reazioni a sinistra e tra le associazioni di consumatori. Sui quotidiani tedeschi c’è chi invoca una tassa sugli extraprofitti, e il primo a opporsi è il ministro delle Finanze liberale (e liberista) Christian Lindner, che chiama in causa «dubbi sulla costituzionalità». Chi invece spinge per la tassa evoca che «così ha già fatto l’Italia», peccato che pure da noi quel prelievo resti per ora in gran parte irrealizzato.
C’è poi un altro dato che colpisce, ed è quello del boom di esportazioni. I dati del ministero dello Sviluppo economico ci raccontano che nei primi cinque mesi del 2022 – in piena crisi energetica, e con l’Ue che ci chiedeva di riempire le nostre riserve in vista dell’inverno – c’è stato un boom di esportazioni di gas dall’Italia, contestualmente ai prezzi alti e al taglio delle forniture russe. Stando ai dati del ministero, rielaborati da Altreconomia, tra gennaio e maggio sono stati venduti all’estero 1.467 milioni di metri cubi equivalenti (Smc), il che non solo è superiore alla stessa produzione interna (1.368 milioni) ma equivale al 578 per cento in più rispetto ai 254 milioni di Smc del 2021. Insomma, un volume inedito, anche se si comparano questi dati agli ultimi quindici anni.
Secondo l’analisi del think tank Ecco, le esportazioni vanno verso est Europa, Austria, Germania.
Se si fa una ricerca incrociata dal lato tedesco, però, si vede che anche dalle parti di Berlino, nel paese che è epicentro della crisi del gas in questa fase e che subisce i tagli alle forniture da parte della Russia, c’è stato un boom di esportazioni. «Già nel secondo trimestre, le esportazioni di energia elettrica dalla Germania alla Francia sono aumentate di quasi sei volte rispetto all'anno precedente», come riporta Tagesspiegel.
Anche su questo punto i Verdi danno battaglia, e sempre Evi parla di «una becera operazione di mercato per cogliere le opportunità di guadagno dei prezzi alti: l’aumento delle esportazioni è avvenuto in un semestre di bollette impazzite, dietro queste operazioni non c’è solidarietà ma speculazione».
FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.
Grano duro, prezzo sotto i 50 euro al quintale, ai minimi dal 2021: cosa succede? Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 15 luglio 2022.
Meno di 500 euro a tonnellata. Il prezzo del grano duro scende a un livello che non si raggiungeva da ottobre 2021. Lo comunica Consorzi Agrari d’Italia – Cai in base alla rilevazione della Borsa Merci di Bologna, punto di riferimento per la contrattazione fisica dei prodotti agricoli per il Nord Italia, dopo che nei giorni scorsi il prezzo non era stato rilevato a Foggia — centro di riferimento per il Sud — per la protesta delle associazioni. Il grano duro di alto valore proteico oscilla infatti tra 497 e 502 euro/tonnellata, in ribasso di 30 euro rispetto alla settimana scorsa. Grano tenero e altri cereali, invece, restano sostanzialmente invariati.
Le cause
Secondo Cai le cause dell’abbassamento del prezzo sono da ricercarsi nelle speculazioni sui mercati finanziari, Chicago in testa, oltre che nella scelta del cartello degli acquirenti, che da un paio di settimane non comprano più prodotto facendo scendere i prezzi. Un calo legato anche alle recenti notizie sul raccolto abbondante in Canada, il maggior produttore di grano duro al mondo. Informazioni diffuse secondo gli agricoltori solo per indurre i cerealicoltori italiani a vendere subito innescando una spirale di calo dei prezzi.
La situazione secondo l’associazione rischia di diventare insostenibile per tante aziende agricole «che hanno investito in questi mesi nonostante l’aumento dei costi di gasolio e concimi dovuto al caro energia e alla guerra in Ucraina». Significativa anche la mancata quotazione della Borsa Merci di Foggia dove lo scorso 13 luglio, in segno di protesta, Cia, Confagricoltura e Coldiretti non si sono presentate per la rilevazione dei prezzi del grano duro temendo che il prezzo potesse appunto scendere sotto i 50 euro al quintale, come avvenuto a Bologna, a causa della speculazione: «Il grano scende e la pasta aumenta».
In questo momento complicato, Cai si dice «impegnata nella creazione di contratti di filiera in grado di garantire un prezzo equo agli agricoltori e prodotti di qualità ai trasformatori. Tuttavia, è necessario un richiamo alla responsabilità di tutti i protagonisti della filiera affinché si possa essere veramente uniti in questo momento difficile». Intanto il prossimo incontro tra le delegazioni di Turchia, Russia, Ucraina e Nazione Unite sulla questione del grano si terrà il 20-21 luglio.
DAGONEWS il 20 maggio 2022.
Effetti collaterali delle sanzioni: l’Italia ha aumentato le importazioni di petrolio russo, proprio quando l’Europa sta provando a introdurre un embargo al greggio di Mosca. È quanto rivela un articolo del “Financial Times”, firmato da Silvia Sciorilli Borrelli e Harry Dempsey.
A maggio, scrive il quotidiano della City, la Russia ha esportato circa 450.000 barili al giorno di greggio in Italia, più di quattro volte rispetto a febbraio. Si tratta del massimo dal 2013, secondo gli analisti di Kpler. “Di conseguenza, l'Italia è destinata a superare i Paesi Bassi come principale hub di importazione dell'UE per il greggio russo trasportato via mare. Due terzi di queste esportazioni sono destinate ad Augusta, un porto in Sicilia vicino alla raffineria ISAB controllata dalla società russa Lukoil”.
Lukoil non è sottoposta a sanzioni, ma le banche hanno smesso di fornire finanziamenti dopo le sanzioni europee. Così Lukoil, scrive il “Financial Times”, “è costretta a fare affidamento esclusivamente sulle forniture della società madre, secondo quanto riferito da funzionari governativi, banchieri e leader sindacali a conoscenza delle spedizioni”.
"È paradossale, l'UE voleva penalizzare le importazioni di energia russa, ma in questo caso è stata incentivata dalle sanzioni", ha dichiarato al quotidiano finanziario Alessandro Tripoli, segretario generale del sindacato FEMCA CISL delle province di Siracusa e Ragusa, in Sicilia.
"Prima delle sanzioni solo il 30% del greggio dell'ISAB era russo, ora è il 100% perché le banche italiane hanno bloccato le linee di credito della raffineria e la Lukoil è diventata il suo unico fornitore".
E cosa succederebbe se entrasse in vigore l’embargo dell’UE al greggio russo? A quel punto, ISAB non avrebbe più petrolio da raffinare, e l’impianto sarebbe costretta a chiudere. Il governo italiano sta cercando di trovare una soluzione, anche se dal ministero dello sviluppo economico hanno dichiarato che la nazionalizzazione non è in discussione. Per il momento.
Roberta Amoruso e Andrea Bassi per “Il Messaggero” il 27 maggio 2022.
Fino ad oggi la domanda è rimasta senza risposta. Quanto costa davvero all'ingrosso il gas che arriva in Italia? Quanto cioè, le compagnie che lo importano e lo vendono in Italia lo pagano effettivamente. E dunque, quanti profitti ricavano?
Del prezzo di vendita ai consumatori ormai si sa tutto. Anche i meno esperti hanno imparato a familiarizzare con il Ttf, la borsa olandese sulla quale ogni giorno vengono contrattati i futures, i prezzi a una determinata data, del gas.
I consumatori italiani pagano il gas al prezzo che si forma nella borsa olandese. E lo stesso prezzo incide anche sulle bollette elettriche per il meccanismo (europeo) per cui la materia prima che costa di più fa il prezzo per tutte le altre.
Così se anche in Italia c'è una buona fetta di energia prodotta con le rinnovabili, nelle bollette tutta l'energia consumata viene pagata dai consumatori come se fosse prodotta da una costosissima centrale a gas.
Ieri il prezzo sul Ttf si è fermato a 86 euro al Megawattora, ma all'indomani dello scoppio della guerra ha toccato vette altissime, fino a 350 euro al Megawattora. Cifre insostenibili per le famiglie e che hanno indotto il governo italiano a intervenire per ben tre volte stanziando 30 miliardi di euro per abbassare il conto energetico delle famiglie e delle imprese. Da tempo Mario Draghi spinge per rompere questo meccanismo. Innanzitutto chiedendo un tetto europeo al prezzo del gas. Fino ad oggi invano.
L'altra strada è quella di legare le tariffe energetiche italiane sempre meno al Ttf e sempre più ai costi reali del gas come stabilito dall'ultimo decreto anti-rincari grazie a un emendamento voluto da Davide Crippa del M5S.
Già, ma quali sono questi costi reali? Il governo ha dato mandato all'Arera, l'Authority dell'Energia, di acquisire tutti i contratti firmati dalle compagnie energetiche e di analizzarli. Fino ad oggi quei contratti, come detto, erano uno dei segreti meglio custoditi.
Nei prossimi giorni l'Arera dovrà relazionare al ministero della Transizione su quanto scoperto dall'analisi dei contratti. E nel prossimo aggiornamento delle tariffe, quello di luglio, dovrà tenere conto dei prezzi reali del gas e non solo di quelli finanziari che si formano sulla borsa olandese. Cosa c'è scritto in quei contratti non è ancora noto.
Ma qualche idea di quale sia il prezzo reale della materia prima si può ricavare altrove. Per esempio da un documento della Direzione Energia della Commissione europea di cui si è discusso in un convegno alla Camera nei giorni scorsi organizzato proprio dal deputato M5S Davide Crippa.
Nel documento predisposto dagli uffici della Commissione europea vengono indicati i prezzi doganali del gas. In pratica il costo che chi importa il metano dai vari Paesi produttori dichiara alla dogana. Un dato che probabilmente non racconta proprio tutto del costo del gas, ma di sicuro dice molto.
Il tema era stato affrontato qualche tempo in un'intervista rilasciata al Messaggero, da Marcello Minenna, direttore dell'Agenzia delle Dogane italiana. Il prezzo massimo registrato in entrata del metano nel nostro Paese non ha mai superato i 60 euro. Il documento della Commissione è più preciso.
Al suo interno, infatti, viene dettagliato il prezzo del gas all'ingresso in Italia per ognuno dei tubi che lo trasportano. Prendiamo il metano che arriva da Passo Gries, attraverso il gasdotto Transitgas che trasporta il gas dai giacimenti norvegesi.
Il prezzo registrato alla dogana è decisamente basso: 17,70 euro al Megawattora. Per il gas russo, quello che arriva attraverso il Tarvisio, il prezzo alla dogana risulta essere di 18,96 euro. Il metano algerino trasportato da Transmed e che approda in Sicilia, ha un prezzo doganale di 19,95 euro.
Il gas via tubo più costoso, sempre in base alle bolle doganali, è quello che arriva dai giacimenti di Shah Deniz in Arzebaijan attraverso il Tap, il gasdotto che entra in Italia a Melendugno in Salento.
Il costo di questo gas alla dogana è di 63,3 euro. Il metano leggermente più costoso risulta quello liquefatto, il Gnl (o Lng secondo l'acronimo inglese). In Italia il gas che arriva via nave per alimentare i tre rigassificatori nazionali, è importato secondo i valori doganali, a 41,54 euro.
I dati sono sicuramente un indicatore. Ma vanno presi con le molle e non è detto che ci sarà un riscontro preciso con quelli contenuti nei contratti trasmessi all'Arera. Di certo però, il valore del Ttf risulterà ben più elevato dei costi reali. Come ha spiegato Minenna nel suo intervento durante il convegno alla Camera, sulla Borsa olandese ha inciso anche la speculazione finanziaria.
E soprattutto una scommessa sbagliata fatta dagli operatori: che il prezzo del gas sarebbe sceso. Invece è salito spiazzando gli investitori, che sono stati costretti a coprire le loro scommesse al ribasso facendo alzare ulteriormente i prezzi di Borsa. E le bollette di imprese e famiglie.
Gas, dipendenza dalla Russia: i veri errori dell’Italia. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2022.
Dal 24 febbraio 2022 con l’invasione della Russia in Ucraina, rimbalza l’accusa: «L’Italia è troppo dipendente dal gas di Putin, negli ultimi 50 anni le forniture non sono state abbastanza diversificate». Vediamo.
I sette contratti con Mosca
Siamo alla fine degli anni ’60. Il mercato chiede gas e in Russia ce n’è tanto e a buon mercato. L’accordo, il primo del genere al mondo, è del 10 dicembre 1969 firmato a Roma dal presidente dell’Eni Eugenio Cefis e dal viceministro del commercio estero dell’Urss Nikolay Osipov (qui il documento). Durata 20 anni, fornitura di gas naturale per 6 miliardi di metri cubi l’anno. I vantaggi sono due: è a buon mercato e in più l’Eni fornisce mezzi e tecnologia. Il primo gasdotto è operativo da maggio 1974: un’infrastruttura lunga 4.450 km che parte dalla Siberia, passa per l’Ucraina, la Slovacchia, l’Austria e approda all’impianto di Tarvisio. Da allora in poi i contratti sono altri sei con un aumento costante di volumi; l’ultimo è stato firmato nel 2006 con durata fino al 2035. La clausola prevede una quantità minima e una massima che l’Italia si impegna ogni anno a ritirare. La fornitura nel 2021 è stata di oltre 28 miliardi di metri cubi.
Il gasdotto dal Mare del Nord
Negli stessi anni si tratta con l’Olanda, e successivamente con la Norvegia, per importare gas dai giacimenti del Mare del Nord. Il primo gasdotto che attraversa la Germania e la Svizzera arriva a Passo Gries, dove si trova il punto di interconnessione con la rete nazionale (qui e qui i documenti), entra in esercizio nel 1974. Per far fronte alla crescente domanda italiana il gasdotto viene ampliato nel ’94 e raddoppiato nel 1997. Nell’ultimo decennio però dal grande giacimento di Groningen, per ragioni sismiche, si pompa sempre meno, e oggi in Italia da quei tubi arriva solo il gas norvegese.
Da Algeria e Libia
Ad agosto del 1983 inizia l’importazione dall’Algeria attraverso il Transmed che approda in Sicilia, a Mazara del Vallo (qui il documento). Una seconda linea viene aperta nel 1997, raddoppiando la capacità di trasporto: 24 miliardi di metri cubi l’anno (qui il documento). A ottobre 2004 Silvio Berlusconi e Mu’ammar Gheddafi inaugurano il GreenStream, la linea sottomarina che collega la Libia all’Italia con sbocco a Gela (qui il documento).
Tredici anni per il Tap
A dicembre 2007 Italia e Azerbaijan firmano un memorandum di intesa per possibili forniture future di gas (qui il documento). Il 28 giugno 2013 il consorzio azero Shah Deniz annuncia che il Tap è il progetto prescelto per trasportare il suo gas in Ue attraverso la Puglia. Il metanodotto (sul quale partiti e comitati si sono scannati per anni) vede la luce il 31 dicembre 2020, quando il primo gas dal Mar Caspio arriva a Melendugno.
Tirando le fila: in 50 anni ci siamo portati in casa 5 fornitori diversi. Certo dalla Russia abbiamo importato via via sempre di più perché di gas ce n’è di più, e perché rispetto ai Paesi africani era più stabile e affidabile. Dove invece non siamo stati lungimiranti?
Niente gas liquefatto
L’Eni estrae gas in Nigeria, dove dal 2000 viene liquefatto e portato con le navi metaniere negli Stati Uniti, in Asia e in Spagna. Il colosso italiano ha giacimenti e impianti di liquefazione anche in Egitto, ma dal 2005 il gas lo porta in Spagna. In Italia non arriva nulla perché non si sa dove metterlo. Fino al 2009 c’è un solo rigassificatore (Panigaglia in provincia di La Spezia), quando a Porto Viro, al largo del delta del Po, apre il secondo. Il terzo, sul mare di Livorno, entra in funzione a ottobre 2013. L’utilizzo della loro capacità è sempre stato sotto il 60%. Nel 2021 sonò stati importati 9,7 miliardi di m3 principalmente da Qatar, Algeria e Usa. A partire dal 2005 sono stati presentati da società italiane ed estere una dozzina di progetti: tutti bloccati. Quelli di Porto Empedocle (qui il documento) e Gioia Tauro (qui il documento) sono in ballo rispettivamente da 18 anni e 17 anni.
Produzione nazionale bloccata
Dalla metà degli anni ’90 abbiamo iniziato a bloccare l’attività di estrazione e ricerca in Adriatico, e la produzione nazionale è passata dai 20,6 miliardi di metri cubi nel 1994 ai 4,4 del 2020 (mentre i consumi sono saliti di quasi il 30%).
Del resto fino a pochi mesi fa il ragionamento diffuso era questo: perché impattare sull’ambiente quando il gas lo importiamo da Nord e da Sud? Tra l’altro in quegli anni si iniziava ad investire sulle rinnovabili per produrre elettricità, e l’Italia era partita bene. E qui si pone il terzo problema.
Le rinnovabili non decollano
Circa il 30% del gas importato viene utilizzato per produrre elettricità (25,9 miliardi di metri cubi nel 2021, dato Arera). L’idroelettrico in Italia è molto sviluppato, ma lo sfruttamento di corsi d’acqua con turbine e alternatori negli ultimi decenni viene trascurato, e si passa dai 50 mila GWh del 2000 ai 49 mila del 2020. Il fotovoltaico, dopo un impulso iniziale, da 10 anni non cresce più in modo significativo. L’eolico è praticamente fermo da 5 anni. Troppa burocrazia e ostacoli da parte degli enti locali. Cresce poco anche il geotermico, in grado di sfruttare l’energia che viene dal sottosuolo, e l’utilizzo del biogas.
Import: da un regime all’altro
Quindi adesso le forniture russe verranno sostituite aumentando l’import dagli altri fornitori storici. Ma sarà possibile a partire dal 2023 perché ogni Paese deve rispettare i contratti in essere con altri Stati. L’Algeria è pronta ad assicurare fino a 9 miliardi di metri cubi annui in più (visita di Draghi 11 aprile). Va ricordato che è un Paese autoritario e sempre sull’orlo di tensioni sociali con elevato tasso di disoccupazione, repressione delle proteste, restrizioni legali alla libertà dei media e corruzione dilagante (qui il documento): il Democracy Index 2021 lo mette al 113° posto (la Russia è al 124°). È tra i 35 Paesi che si sono astenuti al voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite contro l’invasione della Russia in Ucraina. Dall’Azerbaijan entro fine anno arriveranno 2,5 miliardi di metri cubi addizionali via Tap. Uno Stato comandato dalla famiglia Aliyev da 30 anni, con il potere che si tramanda di padre in figlio fra contestazioni e moti di protesta (qui il documento).
Gli accordi africani
Per quel che riguarda i rifornimenti di gas liquefatto via navi metaniere abbiamo trattato con il Congo e l’Angola (visitati il 20-21 aprile) che possono aumentare i rifornimenti di 6 miliardi di metri cubi. In Congo, da 25 anni al potere c’è il militare Denis Sassou Nguesso: il suo governo usa regolarmente le forze armate e di polizia per intimidire i cittadini (qui il documento), mentre la sua famiglia fa shopping di lusso con i proventi del petrolio. In Angola, dove si è trascinata fino al 2002 un’incessante guerra civile tra il movimento filosovietico al potere e quello filooccidentale, ancora si lotta per l’indipendenza nella Regione del Cabinda (qui il documento). Dal Qatar, che non ha mai chiarito i rapporti con il terrorismo islamico, prenderemo 5 miliardi di gnl in più (5-6 marzo). Dall’Egitto già dal 2022 arriveranno verso Ue e Italia 3 miliardi di metri cubi. L’Egitto è il Paese dove è stato torturato e ucciso il ricercatore Giulio Regeni, ma le autorità non hanno mai collaborato per trovare i colpevoli. Rimane irrisolto il problema dei rigassificatori: li riempiremo invece di sfruttarli a metà, ma per costruirne di nuovi ci vuole tempo.